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1 Materia: LATINO AUTORI Classe:4 Anno scolastico: 2012/2013 Riassunti, testi e traduzioni (letterali) di Sallustio, Cicerone, Lucrezio e Virgilio Codice progetto: pd46e4xc

Latino autori (classe quarta)

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Autori: Lucchetta Davide, Baldi Umberto, Bosco Eleonora

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Materia: LATINO AUTORI

Classe:4

Anno scolastico: 2012/2013

Riassunti, testi e traduzioni (letterali) di Sallustio, Cicerone, Lucrezio e Virgilio

Codice progetto: pd46e4xc

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GAIO SALLUSTIO CRISPO Della vita di Sallustio si hanno poche notizie, molte delle quali ci vengono date dai suoi dati autobiografici che egli stesso ha inserito nelle sue opere. Nacque nell’86 a.C. ad Armiterno, municipium sabino, da una facoltosa famiglia plebea di proprietari terrieri. Avendo la cittadinanza romana, gli era concesso partecipare alla vita politica e culturale della capitale. Ricevette una buona educazione e poté così trasferirsi a Roma intrattenendo rapporti di tipo politico e sociale. Iniziò così la sua politica attiva fin dall’età giovane. Divenne questore, nel 52 a.C. tribuno della plebe, ma nel 50 a.C. venne espulso dal senato per indegnità, si dice che la ragione si stata l’adulterio con Fausta, figlia di Silla. Nonostante tutto, rimase sempre legato a Cesare, dal quale ricevette incarichi militari: nel 49 a.C. combatté contro i pompeiani nell’Illirico; nel 47 a.C. cercò di domare la ribellione della X e della XII legione, rischiando così di morire. Dopo la formazione dell’esercito cesariano in Africa, Cesare lo nominò governatore dell’Africa Nova con il titolo di Proconsul Cum Imperio, ovvero con la concessione dei pieni poteri. Rischiò una seconda espulsione dal senato a causa di numerose ruberie e andò incontro a una processo per repetudinis, per concussione. Costretto ad abbandonare la via politica si ritirò nel suo palazzo per dedicarsi esclusivamente all’attività letteraria: fra il 43 a.C. e il 40 a.C. scrisse il De coniuratione Catilinae e il Bellum Iugurtinum. Nel 39 a.C. scrisse la sua opera di maggior ampiezza Historiae, che dovrebbe trattare di vicende dello Stato romano dalla morte di Silla (78 a.C.) fino all’anno (63 a.C.) del consolato di Cicerone, ma la prematura morte, 35 a.C. ne ha impedito il completamento, interrotto al V libro.

LE OPERE

Sallustio per la stesura delle sue opere monografiche (De coniuratione Catilinae e Bellum Iugurtinum) fece ricorso alla storiografia e motivò la sua scelta come l’unica possibilità di servire lo Stato dal momento in cui, in quel periodo di crisi, la politica non poteva più occuparsene. Le motivazioni della scelta storiografica sono di tipo etico. Sallustio sceglie degli eventi particolari, emblematici della storia di Roma per individuare le cause della crisi che lo Stato sta attraversando: ricerca le cause prime delle vicende, sviluppa una problematica morale, si interessa dei problemi sociali, politici e militari e nella stesura adotta uno stile proprio ricco di arcaismi. La storiografia sallustiana si rifà molto a quella del grande Tucidide. I temi sono scelti accuratamente dallo storiografo per evidenziare la crisi contemporanea: la congiura di Catilina come esempio della corruzione e dell’ambizione; la guerra contro Giugurta, episodio meno recente ma considerato strettamente connesso alla congiura. Un altro tema comune alle due opere è la disapprovazione della divisione della società romana in fazioni, ritenuta la causa delle guerre civili tra Mario e Silla. Anche l’ultima opera di Sallustio, Historiae, risponde ai criteri della storiografia pur avendo una struttura annalistica: gli eventi narrati comprendo un periodo (dal 78 a.C. al 63 a.C.) e sono assolutamente legati alla congiura. Vengono attribuite a lui anche due epistole: Epistulae ad Caesarem senem de re publica, brevi memoriali politici, e una Invectiva in Ciceronem, un libello.

De Coniuratione Catilinae

Il De coniuratione Catilinae è l’opera d’esordio in cui lo storico, per la prima volta, esplicita l’approccio monografico. L’exemplum qui raccontato è un fatto relativamente presente: la congiura è ritenuta una conseguenza della dittatura di Silla. Sallustio propone nella sua opera un’analisi politica e socio-economica della società romana della sua epoca: egli riscontra una generale corruzione dei costumi, lo sfacelo morale, il prevalere della brama di ricchezza e di potere. I maggiori responsabili, secondo lo storico, sono i membri della nobiltas, chiusi nel potere oligarchico. Essi sfruttano le cariche pubbliche per arricchirsi. Colpe minori vengono attribuite al partito opposto dei populares. La struttura narrativa è costruita per drammatizzare la progressione degli eventi e le descrizioni dei personaggi. Individui nel bene e nel male, rispondono a una visione della storia sallustiana.

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Bellum Iugurthinum

I temi fondamentali del secondo scritto monografico di Sallustio, sono la narrazione delle vicende della guerra contro Giugurta e l’analisi del decadimento della classe politica romana. La guerra di Numidia, svoltasi tra il 111 e il 105 a.C., consiste nella struttura portante di tutta l’opera: tramite il susseguirsi di avvenimenti bellicosi in Africa e a Roma e numerose digressioni di natura storica, geografica e morale, Sallustio ci presenta la crisi morale della classe dirigente nobiliare. Sallustio non solo ha saputo cogliere i motivi per cui la guerra era stata combattuta (la difesa del prestigio romano) e i suoi fini (mettere definitivamente fuori gioco Giugurta, l'uomo che questo prestigio aveva oltraggiato), ma ne ha efficacemente narrato le difficoltà e gli episodi in cui è chiaramente visibile l’inganno e il tradimento.

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CATILINA

(De Coniuratione Catilinae 5)

L. Catilina, nobili genere natus, fuit magna vi et animi et corporis, sed ingenio malo pravoque. Huic ab adulescentia bella intestina, caedes, rapinae, discordia civilis grata fuere ibique iuventutem suam exercuit. Corpus patiens inediae, algoris, vigiliae supra quam cuiquam credibile est. Animus audax, subdolus, varius, cuius rei lubet simulator ac dissimulator, alieni adpetens, sui profusus, ardens in cupiditatibus; satis eloquentiae, sapientiae parum. Vastus animus inmoderata, incredibilia, nimis alta semper cupiebat. Hunc post dominationem L. Sullae lubido maxuma invaserat rei publicae capiundae; neque id quibus modis adsequeretur, dum sibi regnum pararet, quicquam pensi habebat. Agitabatur magis magisque in dies animus ferox inopia rei familiaris et conscientia scelerum, quae utraque iis artibus auxerat, quas supra memoravi. Incitabant praeterea corrupti civitatis mores, quos pessuma ac divorsa inter se mala, luxuria atque avaritia, vexabant. Res ipsa hortari videtur, quoniam de moribus civitatis tempus admonuit, supra repetere ac paucis instituta maiorum domi militiaeque, quo modo rem publicam habuerint quantamque reliquerint, ut paulatim inmutata ex pulcherruma atque optuma pessuma ac flagitiosissuma facta sit, disserere.

http://la.wikisource.org/wiki/De_Catilinae_coniuratione

Lucio Catilina, nato da nobile famiglia, fu di grande forza sia nell’animo che nel corpo, e di indole malvagia e depravata. A questo, fin dall’adolescenza, furono gradite le guerre civili, le stragi le rapine, la discordia fra cittadini. Ebbe un corpo tollerante della fame, del freddo della veglia, più di quanto sia credibile ad ognuno. Il suo animo era temerario, subdolo, mutevole, simulatore e dissimulatore di qualsiasi cosa, desideroso dell’altrui, prodigo del proprio, ardente nelle passioni, abbastanza eloquente, poco saggio. Il suo animo insaziabili desiderava sempre cose senza misura, incredibili, troppo alte. Dopo la dittatura di Silla l’aveva preso un desiderio sfrenato di impadronirsi dello stato; e non si faceva alcuno scrupolo dei modi con cui ottenere ciò, pur di procurarsi il potere. Il suo animo fiero era sempre più di giorno in giorno dalla scarsezza del patrimoni famigliare e dalla consapevolezza dei delitti , cose che entrambe aveva accresciuto con quei mezzi che ho ricordato prima. Lo incitavano inoltre i costumi corrotti della città che mali pessimi e opposti tra loro, l’amore per il lusso e l’avidità tormentavano. L’argomento stesso, poiché la circostanza ha richiamato alla memoria i costumi della città, sembra esortare a risalire indietro nel tempo, e a trattare in breve le istituzioni degli antenati, in pace e in guerra, in che modo abbiano governato lo stato e quanto grande l’abbiano lasciato , come a poco a poco cambiato, sia diventato da bellissimo e ottimo, pessimo e pieno di vizi.

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ORIGINI DELLA DECADENZA DELLA REPUBBLICA

(De Coniuratione Catilinae 10)

Sed ubi labore atque iustitia res publica crevit, reges magni bello domiti, nationes ferae et populi ingentes vi subacti, Carthago, aemula imperi Romani, ab stirpe interiit, cuncta maria terraeque patebant, saevire fortuna ac miscere omnia coepit. Qui labores, pericula, dubias atque asperas res facile toleraverant, iis otium divitiaeque optanda alias, oneri miseriaeque fuere. Igitur primo imperi, deinde pecuniae cupido crevit: ea quasi materies omnium malorum fuere. Namque avaritia fidem, probitatem ceterasque artis bonas subvortit; pro his superbiam, crudelitatem, deos neglegere, omnia venalia habere edocuit. Ambitio multos mortalis falsos fieri subegit, aliud clausum in pectore, aliud in lingua promptum habere, amicitias inimicitiasque non ex re, sed ex commodo aestumare magisque voltum quam ingenium bonum habere. Haec primo paulatim crescere, interdum vindicari; post, ubi contagio quasi pestilentia invasit, civitas inmutata, imperium ex iustissumo atque optumo crudele intolerandumque factum.

http://la.wikisource.org/wiki/De_Catilinae_coniuratione

Ma quando lo stato crebbe grazie all’operosità e la giustizia, re grandi furono domati in guerra, nazioni feroci e popoli ingenti sottomessi con la forza, Cartagine, rivale del dominio di Roma, perì sin dalle fondamenta, tutti i mari e le terre erano aperte (al dominio di Roma), la sorte cominciò a infierire e a sovvertire ogni cosa. Coloro che avevano sopportato facilmente fatiche, pericoli, situazioni incerte, per costoro il benessere e le ricchezza, cose in altre circostanze desiderabili, furono di peso e di rovina. Infatti da prima crebbe il desiderio di denaro poi di potere; queste cose furono per così dire l’esca di tutti i mali. E infatti l’avidità sovvertì la fedeltà, l’onestà e tutte le altre arti oneste; al posto di queste insegnò la superbia, la crudeltà, il disprezzo degli dei, la convinzione che tutto si può comprare. L’ambizione costrinse molti uomini a diventare falsi, ad avere un pensiero chiuso nel cuore, un altro pronto sulla lingua, a valutare le amicizie e le inimicizie non sulla base dei fatti ma dal proprio tornaconto, a mostrare più onesto il volto che il pensiero. Questi mali dapprima crescevano poco a poco, talvolta venivano repressi, poi quando il contagio si diffuse come una pestilenza, la città cambiò, il potere da giustissimo e ottimo divenne crudele e intollerabile.

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SEMPRONIA

(De Coniuratione Catilinae 25)

Sed in iis erat Sempronia, quae multa saepe virilis audaciae facinora conmiserat. Haec mulier genere atque forma, praeterea viro atque liberis satis fortunata fuit; litteris Graecis et Latinis docta, psallere et saltare elegantius, quam necesse est probae, multa alia, quae instrmenta luxuriae sunt. Sed ei cariora semper omnia quam decus atque pudicitia fuit; pecuniae an famae minus parceret, haud facile discerneres; lubido sic accensa, ut saepius peteret viros quam peteretur. Sed ea saepe antehac fidem prodiderat, creditum abiuraverat, caedis conscia fuerat; luxuria atque inopia praeceps abierat. Verum ingenium eius haud absurdum: posse versus facere, iocum movere, sermone uti vel modesto vel molli vel procaci; prorsus multae facetiae multusque lepos inerat.

http://la.wikisource.org/wiki/De_Catilinae_coniuratione

Dunque tra di essi c’era Sempronia che spesso aveva compiuto azioni degne del coraggio di un uomo. Questa donna fu abbastanza fortunata per nascita,bellezza, e inoltre per il marito e i figli; era dotta nelle lettere greche e latine, nel suonare uno strumento, nel ballare, con un’eleganza maggiore di quanto sarebbe conveniente per una donna onesta, e in molte altre cose che sono strumento di piacere. Ma a lei tutte le cose sempre risultarono più gradite che il decoro e il pudore; non si sarebbe potuto distinguere facilmente se avesse minor riguardo per il denaro o per la sua reputazione; la sua passione era così sfrenata che cercava gli uomini più spesso di quanto venisse richiesta. Essa spesso, prima d’ora, aveva tradito la parola, aveva negato un credito, era stata complice di omicidio, per il lusso e il bisogno era caduta molto in basso. Tuttavia la sua indole non era per nulla volgare, sapeva comporre versi, suscitare lo scherzo, servirsi di un discorso moderato era sfrenato; insomma in lei c’era molto spirito e molto fascino.

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CESARE E CATONE

(De Coniuratione Catilinae 54)

Igitur iis genus, aetas, eloquentia prope aequalia fuere, magnitudo animi par, item gloria, sed alia alii. Caesar beneficiis ac munificentia magnus habebatur, integritate vitae Cato. Ille mansuetudine et misericordia clarus factus, huis servitas dignitatem addiderat. Caesar dando, sublevando, ignoscundo, Cato nihil largiundo gloriam adeptus est. In altero miseris perfugium erat, in altero malis pernicies. Illius facilitas, huius constantia laudabatur. Postremo Caesar in animum induxerat laborare, vigilare; negotiis amicorum intentus sua neglegere, nihil denegare, quod dono dignum esset; sibi magnum imperium, exercitum, bellum novum exoptabat, ubi virtus enitescere posset. At Catoni studium modestiae, decoris, sed maxume severitatis erat; non divitiis cum divite neque factione cum factioso, sed cum strenuo virtute, cum modesto pudore, cum innocente abstinentia certabat; esse quam videri bonus malebat: ita, quo minus petebat gloriam, eo magis illum adsequebatur.

http://la.wikisource.org/wiki/De_Catilinae_coniuratione

Dunque la nascita, l’età, l’eloquenza in essi furono quasi uguali, pari la grandezza d’animo, allo stesso modo la gloria, ma diversa per ciascuno dei due. Cesare era considerato grande grazie ai benefici e alla liberalità, Catone per l’integrità di vita. Quello era diventato famoso grazie alla mitezza e al senso di umanità, a questo la severità aveva aggiunto prestigio. Cesare aveva ottenuto la gloria con il dare, il soccorrere e il perdonare, Catone non elargendo nulla. In uno c’era rifugio per gli infelici, nell’altro rovina per i malvagi. Di quello si lodava l’indulgenza, di questo il rigore. Infine Cesare si era proposto nell’animo di faticare, di stare all’erta; intento negli affari degli amici trascurava i propri, non negava nulla che fosse degno di un dono; desiderava per se un grande potere, un esercito, una guerra nuova, dove il suo valore potesse risplendere. In catone invece c’era amore per la moderazione, il decoro, ma soprattutto per il rigore. Non gareggiava in ricchezze con il ricco, ne in faziosità con il fazioso, ma (gareggiava) con il valoroso in valore, con il moderato in equilibrio, con l’innocente in disinteresse, preferiva essere che sembrare onesto: perciò quantomeno aspirava alla gloria, tanto più quella lo seguiva.

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LA MORTE DI CATILINA

(De Coniuratione Catilinae 60-61)

Sed ubi omnibus rebus exploratis Petreius tuba signum dat, cohortis paulatim incedere iubet; idem facit hostium exercitus. Postquam eo ventum est, unde a ferentariis proelium conmitti posset, maxumo clamore cum infestis signis concurrunt: pila omittunt, gladiis res geritur. Veterani pristinae virtutis memores comminus acriter instare, illi haud timidi resistunt: maxuma vi certatur. Interea Catilina cum expeditis in prima acie vorsari, laborantibus succurrere, integros pro sauciis arcessere, omnia providere, multum ipse pugnare, saepe hostem ferire: strenui militis et boni imperatoris officia simul exsequebatur. Petreius ubi videt Catilinam, contra ac ratus erat, magna vi tendere, cohortem praetoriam in medios hostis inducit eosque perturbatos atque alios alibi resistentis interficit. Deinde utrimque ex lateribus ceteros aggreditur. Manlius et Faesulanus in primis pugnantes cadunt. Catilina postquam fusas copias seque cum paucis relictum videt, memor generis atque pristinae suae dignitatis in confertissumos hostis incurrit ibique pugnans confoditur. Sed confecto proelio tum vero cerneres, quanta audacia quantaque animi vis fuisset in exercitu Catilinae. Nam fere quem quisque vivus pugnando locum ceperat, eum amissa anima corpore tegebat. Pauci autem, quos medios cohors praetoria disiecerat, paulo divorsius, sed omnes tamen advorsis volneribus conciderant. Catilina vero longe a suis inter hostium cadavera repertus est paululum etiam spirans ferociamque animi, quam habuerat vivus, in voltu retinens. Postremo ex omni copia neque in proelio neque in fuga quisquam civis ingenuus captus est: ita cuncti suae hostiumque vitae iuxta pepercerant. Neque tamen exercitus populi Romani laetam aut incruentam victoriam adeptus erat; nam strenuissumus quisque aut occiderat in proelio aut graviter volneratus discesserat. Multi autem, qui e castris visundi aut spoliandi gratia processerant, volventes hostilia cadavera amicum alii, pars hospitem aut cognatum reperiebant; fuere item, qui inimicos suos cognoscerent. Ita varie per omnem exercitum laetitia, maeror, luctus atque gaudia agitabantur.

http://la.wikisource.org/wiki/De_Catilinae_coniuratione

Quando dopo aver esplorato ogni cosa, Petreio da il segnale con la tromba, comanda alle coorti di avanzare a poco a poco, la stessa cosa fa l’esercito dei nemici. Dopo che si giungela dove si poteva attaccare battaglia da parte dei ferentari, con grandissimo clamore avanzano con le insegne rivolte verso il nemico; gettano i giavellotti, si combatte con le spade. I veterani, memori dell’antico valore, incalzano con forza da vicino quelli per nulla intimoriti, resistono; si combatte con grandissimo accanimento. Intanto Catilina si aggira in prima fila con i soldati armati alla leggera, presta soccorso a chi è in difficoltà, fa venire i soldati freschi al posto di quelli feriti, provvede a tutto, combatte molto egli stesso, spesso ferisce il nemico, assolve nello stesso tempo ai compiti di un coraggioso soldato e un buon combattente. Petreio quando vede che Carilina, contrariamente a quello che aveva pensato, combatte con grande energia, spinge la coorte pretoria in mezzo ai nemici, li massacra dopo averli scompigliati e mentre tentavano di resistere, chi da una parte chi dall’altra. Quindi assale i rimanenti dai fianchi da entrambe le parti. Manlio e il Fiesolano cadono combattendo tra i primi. Catilina dopo che vede le truppe sbaragliate e se stesso rimasto con pochi, memore della sua stirpe e del suo antico prestigio, si lancia dove i nemici sono più fitti e li combattendo viene trafitto. Terminata la battaglia allora si sarebbe potuto vedere quanto coraggio e forza d’animo ci fosse stata nell’esercito di Catilina. Infatti ognuno copriva con il corpo, persa la vita, quel luogo che da vivo aveva occupato combattendo. Pochi poi, che la corte pretoria aveva scompigliato, nel mezzo erano caduti un po’ più in la ma tuttavia tutti con ferite sul petto. Catilina in verità, fu trovato lontano dai suoi, tra i cadaveri dei nemici, mentre respirava ancora un po’ e manteneva sul volto la fierezza la fierezza d’animo che aveva avuto da vivo. Infine di tutto l’esercito ne’ in battaglia ne’ in fuga nessuno che fosse cittadini libero fu fatto prigioniero: così tutti avevano avuto riguardo allo stesso modo della loro vita e di quella dei nemici. Ne tuttavia l’esercito Romano aveva ottenuto una vittoria incruenta e facile. Infatti tutti i più valorosi erano caduti in battaglia o ne erano usciti gravemente feriti. Molti poi, che erano usciti dall’accampamento per vedere (il terreno) o per fare bottino, voltando i cadaveri dei nemici trovavano chi un amico, chi un’ospite o parente, ve ne furono alcuni che trovavano nemici personali. Così variamente in tutto l’esercito si mescolavano letizia, dolore, lutto e gioia.

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MARCO TULLIO CICERONE

Marco Tullio Cicerone nacque ad Arpino, nell'attuale provincia di Frosinone il 3 gennaio 106 a.C. da un'agiata famiglia equestre, imparentata lontanamente con Gaio Marco. Il padre volle per lui e per il fratello Quinto un'educazione di alto livello e troviamo infatti il giovane Cicerone a Roma presso i maggiori oratori del tempo, tra cui Marco Antonio e Lucio Licino Crasso e presso i più famosi giuristi, quali Scevola l'Augure e Scevola il Pontefice. Egli fu anche ascoltatore dello storico Diodoto, con il quale maturò una profonda intimità. A questo periodo della sua giovinezza risale anche il rapporto con Tito Pomponio Attico, che diventerà il migliore amico di Cicerone. Iniziò presto ad occuparsi di giurisprudenza e le sue prime esperienze come avvocato furono segnate da precoci successi in casi come la Pro Quinctio (81 a.C.) e la Pro Sexto Roscio Amerino (80 a.C.) in cui fece assolvere un suo conterraneo accusato di parricidio. Dal 79 al 77 a.C. fu in Grecia e in Asia Minore, dove l'Accademia platonica di Atene ebbe un grande influsso sulla sua formazione filosofica. Tornato a Roma, sposò Terenzia, imparentata con la nobile Gens Fabia, dalla quale abbe due figli: Tullia nel 76 a.C. e Marco ne 75 a.C. Iniziò quindi la sua carriera politica, primo della sua famiglia e a tutti gli effetti Homo Novus. La sua attività politica fu influenzata dalla presenza a Roma del clima di contrasto politico-sociale che sfociò poi nella guerra civile tra Cesare e Pompeo. L'impegno politico di Cicerone può essere diviso in quattro fasi: dal 75 a.C. al 63 a.C. dal 63 a.C. al 58 a.C. dal 57 a.C. al 46 a.C. dal 46 a.C. al 43 a.C.

Dal 75 al 63 a.C.: dalla questura al consolato

Il periodo dal 75 al 63 a.C. fu quello in cui Cicerone completò il cursus honorum senatorio. Fu infatti questore in Sicilia nel 75 a.C., ottenne l'edilità nel 69 a.C., nel 66 a.C. la pretura e nel 63 a.C. Il consolato. Cicerone giunse a diventare console, carico del prestigio personale che gli aveva fornito il ruolo di accusatore dell'ex governatore di Sicilia Gaio Verre, politico avido e corrotto, del quale denunciò con grande successo il malgoverno e gli abusi per mezzo delle sue famose Verrinae nel 70 a.C. Nel 66 a.C., con la Pro lege Manilia, si dichiarò apertamente fautore della politica conservatrice degli optimates e di Gneo Pompeo. L'ascesa al consolato gli fu possibile grazie ad un atteggiamento decisamente equilibrato, poiché si dimostrò sempre elemento di coesione di forze politiche e sociali diverse. Infatti, già nel 66 a.C., nella sua orazione Pro Cluentio, aveva illuso alla concordia ordinum come necessario progetto politico consistente nella convergenza tra gli esponenti dell'aristocrazia senatoria e la parte migliore del ceto equestre, progetto che l'Arpinate mantenne e completò quando giunse a concepire il consensus omnium bonorum, cioè un'alleanza trasversale tra i viri boni (uomini perbene) di ogni livello sociale.

Dal 63 al 58 a.C.: dal consolato all'esilio

Il consolato, in coppia con Gaio Antonio, diede modo a Cicerone di mettere in pratica la sua incondizionata difesa della res publica. Lucio Sergio Catilina, esponente di spicco dei populares, tentò infatti di impadronirsi del potere con l'aiuto di alcuni congiurati. Il tentativo fallì, come ci racconta anche lo storico Sallustio nel De Coniuratione Catilinae. Della veemenza oratoria con la quale l'Arpinate si oppose a tale congiura, è rimata testimonianza nelle Catilinarie (63 a.C.). Il rigore del console Cicerone, però, fu anche la causa delle sue future disgrazie politiche. Infatti, dopo un dibattito in senato, ma senza un regolare processo, aveva fatto condannare cinque capi della congiura. Nel 60 a.C. Cesare, Pompeo e Crasso strinsero un patto privato (primo triumvirato) con il quale si spartirono il controllo dello Stato. Inoltre, proprio per le condanne senza processo, nel 58 a.C. Cicerone fu condannato a sedici mesi di esilio in Grecia, a seguito di una legge proposta dal tribuno Publio Clodio.

Dal 57 al 46 a.C.: il ritorno a Roma e gli anni difficili della guerra civile

Cicerone tornò dall'esilio nel 57 a.C. per intercessione di Pompeo e, emarginato dalla vita pubblica, si diede soprattutto all'attività forense e a quella letteraria. Sono infatti del 56 a.C. le orazioni Pro Sestio e Pro Caelio, con profondi richiami politici, poiché in esse difese con successo due amici dalle accuse del nemico Clodio nella prima e nella seconda dalle accuse della sorella di questo, Clodia. È del 52 a.C. l'insuccesso della

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difesa di Milone dall' accusa di aver ucciso Clodio (Pro Milone). In questi anni scrisse anche il celebre De Oratore (55/54 a.C.) e il famosissimo De Republica (55/51 a.C.). dal punto di vista politico aveva cercato un avvicinamento a Cesare nel 56 a.C. Nel 51 a.C. fu nominato proconsole in Cilicia. La successiva guerra civile tra Cesare e Pompeo lo vide simpatizzare per quest'ultimo.

Dal 46 al 43 a.C.: dalla dittatura cesariana alla morte

Gli anni della dittatura di Cesare segnarono la fine della carriera politica dell'Arpinate. Nel 46 a.C. divorziò da Terenzia e un successivo matrimonio con Publilia fallì subito; nel 45 a.C. perse la figlia Tullia, morta di parto. Le delusioni pubbliche e private lo spinsero alla riflessione filosofica e a quell'otium letterario che si concretizzò nella produzione delle maggiori opere retoriche (Brutus e Orator). Nel 44 a.C, Cesare cadde vittima di una congiura capeggiata dal figlio Bruto e da Cassio, che avevano in Cicerone un ideale di figura politica. Penando di poter riavere il potere come figura politica, attaccò duramente Marco Antonio in 14 orazioni, le Philippicae nel 44/43 a.C. e si avvicinò al giovanissimo Ottaviano. Ottaviano però, crescendo, non venne influenzato dalle idee ciceroniane e nel 43 a.C. formò con il rivale Antonio e con Marco Emilio Lepido il secondo triumvirato. Il nome di Cicerone fu il primo della lista di proscrizione e i sicari lo uccisero il 7 dicembre del 43 a.C. nella vicinanze della sua villa di Formia. La sua testa e le mani mozzate vennero esposte per volere di Antonio nel Foro romano.

CICERONE ORATORE

Cicerone è divenuto, nell'immaginario collettivo, il modello supremo di oratore. In effetti egli praticò la professione di avvocato, ma le sue fortune politiche furono legate ai discorsi che pronunciò in senato o davanti al popolo riunito nei comizi. I discorsi che oggi noi leggiamo sono il frutto di un'accurata revisione dell'autore che, dopo averli pronunciati, li volle pubblicare per guadagnarsi presso i contemporanei e i posteri prestigio. Generalmente le orazioni consistono di quattro parti: Exordium: la funzione dell'exordium è quella di presentare al pubblico l'argomento dell'orazione, è un'esposizione del soggetto fatta in modo tale che gli ascoltatori sappiano in anticipo di cosa parlerà il discorso. Serve anche ad accattivarsi la benevolenza e la disponibilità di chi ascolta. Narratio: è la narrazione, il vero e proprio racconto dei fatti; deve essere chiara, essenziale, non eccessivamente lunga. Argumentatio: è la presentazione degli argomenti e delle prove, in cui si possono trovare la confirmatio (esposizione degli argomenti a favore della propria tesi) e la confutazio (confutazione delle tesi dalla parte avversa). Peroratio: è la parte conclusiva dell'orazione, che di solito è formata sia dalla ripresa dei temi trattati, sia da un appello agli ascoltatori. Oltre a queste quattro parti può essere presente anche la digressio: si stratta in genere di un pezzo di bravura dell'oratore, a volte non strettamente collegato all'argomento di cui si tratta nell'opera.

Orazioni anteriori al consolato

Dopo le orazioni giovanili, Cicerone venne in contatto a Rodi con il retore Apollonio Molone, fautore di un moderno equilibrio tra asianesimo e atticismo. I sette discorsi In Verrem del 70 a.C. segnano una grande maturazione di Cicerone. Verre negli anni dal 73 al 71 a.C aveva sottoposto la provincia ad ogni sorta di soprusi e ruberie; bastò solamente la actio prima in Verrem perché Verre, che era difeso dal grandissimo Ortensio Ortalo, si sentisse obbligato a prendere la strada dell'esilio volontario. I cinque discorsi che costituiscono la actio secunda non furono mai pronunciati, ma ci restano come preziosa testimonianza. Nel 66 a.C. egli sostenne, con l'orazione Pro lege Manilia de imperio Cnei Pompei, la proposta del tribuno Manilio, che attribuiva a Pompeo poteri straordinari nella guerra contro Mitridate re del Ponto.

Orazioni dal consolato all'esilio

Le orazioni di questo periodo sono conosciute come orazioni consolari e in queste sono frequenti le allusioni alla concordia ordinum. Senza dubbio, fondamentali per comprendere l'azione e il progetto politico di Cicerone sono le quattro In Catilinam, pronunciate probabilmente nei giorni 8 e 9 Novembre e 3 e 5 Dicembre. La congiura capeggiata da Lucio Sergio Catilina, corrotto e senza scrupoli, verteva su alcuni aspetti di malcontento sociale e vantava qualche simpatia nei populares. Il console non solo la smascherò, ma si associò ai fautori della condanna a morte dei catilinari arrestati.

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Importante fra le orazioni di questo periodo è la Pro Archia poeta, composta nel 62 a.C. per difendere Archia, poeta greco, dall'accusa di aver usurpato i diritti di cittadinanza romana. Il brillante discorso portò all'assoluzione del poeta.

Orazioni dopo il ritorno dall'esilio

Con la Pro Sestio nel 56 a.C. Cicerone difese l'amico Publio Sestio dalle accuse dei partigiani di Clodio; in quest'opera si assiste al superamento della concordia ordinum in favore del consensum omnium bonorum. Nella Pro Caelio (sempre del 56 a.C.) invece, vi è la difesa del giovane Marco Celio Rufo dalle accuse di avvelenamento intentategli da Clodia, sorella di Clodio. La difesa diventa un vero e proprio attacco alla donna. Importante è poi l'orazione in difesa di Tito Annio Milone composta nel 52 a.C., la Pro Milone, accusato di aver ucciso proprio l'odiato Clodio. Cicerone si fondò sul concetto di legittima difesa e sul fatto che Clodio avesse fatto la fine che si meritava. La condanna verso Milone fu anche dovuta al fatto che Cicerone, a causa del tumulto sociale presente in quel periodo, pronunciò un'orazione assai meno convincente ed incisiva di quella che possiamo leggere oggi.

Orazioni dalla dittatura cesariana fino alla morte

Tra il 46 e il 45 a.C. Cicerone compose le cosiddette orazioni cesariane, nelle quali difese le cause dei pompeiani pentiti e pronti ad obbedire al nuovo dictator. Di particolare interesse è la Pro Marcello, orazione deliberativa in quanto contiene suggerimenti per Cesare perché usi il suo potere nel rispetto delle istituzioni repubblicane. Tra il 44 e il 43 a.C. scrisse le Philippicae contro Marco Antonio; questo infatti mirava, dopo la morte di Cesare, ad assumerne l'eredità politica, mentre Cicerone lo avversava duramente. Una parte di quest'orazione venne pronunciata fra il 4 Settembre del 44 a.C. e il 21 Aprile del 43 a.C. La più dura di queste orazioni però non venne mai pronunciata ma fatta circolare solamente come pamphlet diffamatorio.

CICERONE RETORICO

Cicerone si occupò di retorica in molte opere; senza dubbio quelle che hanno ottenuto migliore successo sono il De Oratore, il Brutus e l'Orator. Per le prime due egli usò il genere letterario del dialogo platonico, mentre per la terza usò la forma del trattato. Cicerone non concepì le sue opere retoriche come parti di un sistema organico: più che trovare un modello del perfetto oratore, proponeva soluzioni teoriche ad alcune delle domande che egli stesso si poneva nella pratica quotidiana.

De Oratore

Quest'opera è composta in tre libri (55/54 a.C.). È un dialogo che si immagina essere avvenuto nel 91 a.C. tra i più eminenti oratori di quel tempo, cioè Lucio Licino Crasso (qui portavoce di Cicerone), Marco Antonio e altri cinque personaggi minori. Nel libro I emergono due diversi modelli di oratore: Antonio insiste sul primato del talento naturale, Crasso sostiene la necessità di una cultura enciclopedica che comprenda tutti i saperi scientifici, la filosofia, diritto, storia e politica. Non mancano allusioni al periodo storico in cui Cicerone vive: l'anno 91 a.C. infatti segna l'imminenza delle lotte tra Mario e Silla, presagio delle discordie civili che avrebbero interessato poi Cesare e Pompeo.

Brutus

Il Brutus è un dialogo ambientato nel 47 a.C. a Roma e vede interloquire Cicerone stesso con Attico e Bruto; è una sorta di storia dell'eloquenza che parte dal mondo greco per giungere fino a Roma; vengono passati in rassegna circa duecento oratori, per concludere con Cicerone come il culmine di una secolare tradizione e esperienza oratoria.

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Orator

In quest'opera vengono ripresi i problemi dell'elocutio; Cicerone formula la teoria dei tre stili che il perfetto oratore deve saper di volta in volta dosare e usare a seconda dell'argomento trattato: esile o tenue, medio o temperato, elevato o sublime. Chi parla in pubblico inoltre deve essere in grado di probare, ovvero persuadere i suoi ascoltatori, docere, ossia insegnare quello che vuole trasmettere e farlo capire, delectare, cioè divertirli e infine flectere, toccare le corde emotive dell'animo.

CICERONE POLITICO-FILOSOFICO

Tra il 54 e il 51 a.C. Cicerone scrisse le sue più importanti opere di natura politico-filosofica: il De Republica e il De Legibus.

De Republica

Oggi possiamo leggere solo un quarto di questa grandissima opera; è modellata sulla struttura del dialogo platonico avente lo stesso nome. Il dialogo è ambientato durante le Feriae Latinae del 129 a.C. e ha come protagonisti Scipione l'Emiliano, padrone di casa, e altri amici. Nel libro I si discute sui tre possibili regimi politici (monarchia, aristocrazia e democrazia) e delle loro degenerazioni (tirannide, oligarchia e oclocrazia). Nel II si ha una storia della costituzione romana, nel III si tratta delle virtù politiche e nel IV, quasi del tutto andato perduto, si discute dell'educazione del buon cittadino. Nel V si allude alla necessità che lo stato abbia una figura di governante perfetto mentre del VI si considera solo il finale, il Somnium Scipionis, nel quale l'Emiliano immagina di incontrarsi in sogno con l'avo Scipione Africano che gli mostra le ricompense per chi serve in modo degno lo Stato.

De Legibus

È un'opera a completamento del De Republica ambientata nella villa di Cicerone ad Arpino e vede interloquire l'autore stesso con il fratello Quinto e l'amico Attico. Nel libro, Cicerone afferma l'esistenza di un diritto naturale. Il secondo libro tratta dell'interesse per un diritto sacro in quanto le leggi sono una delle espressioni della provvidenza che regola l'universo. Nel III si entra nel merito delle funzioni e delle competenze delle magistrature romane.

CICERONE ETICO-FILOSOFICO

De Finibus Bonorum Et Malorum

Composto nel 45 a.C., tratta dei termini estremi del bene e del male attraverso tre diversi dialoghi: il primo è ambientato a Cuma nel 50 a.C. nella villa di Cicerone, in cui si esprime l'identità del bene nella virtù; il secondo dialogo è ambientato a Tusculo, nella biblioteca di Lucullo: qui si accetta l'identificazione del bene nella virtù, ma si critica l'omologazione di tutti i vizi; il terzo dialogo è ambientato ad Atene presso l'accademia platonica e in esso Cicerone accoglie le idee accademiche secondo le quali il bene è pratica della virtù, ma anche attenzione ai bisogni del corpo e dello spirito.

Tusculanae Disputationes

Sono un immaginario contraddittorio ambientato nella villa di Tuscolo. Si tratta del disprezzo della morte (I), della sopportazione del dolore (II), del sollievo della tristezza (III), del controllo delle passioni (IV), della ricerca delle virtù (V). Nell'ultimo libro si giunge a conclusione che il saggio deve mantenere un'indifferenza verso il mondo esterno e guardare verso una virtù di tipo elitario.

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Cato Maior De Senectute

Brevissimo dialogo dedicato ad Attico, nel quale Catone il Censore elogia la vecchiaia, età fra le più adatte allo svolgimento della vita politica.

Laelius De Amicitia

Dedicato ad Attico, è un dialogo tra Gaio Lelio e i suoi generi. L'amicizia è un legame che si basa sulla virtù e sul rispetto della fides; accomuna sia il piano personale sia quello politico ed è possibile solamente tra i boni.

De Officis

È un trattato in tre libri dedicato al figlio Marco con finalità pedagogiche. I primi due libri trattano del concetto di honestum (bene morale) e di utile; concetti che, come spiega nel terzo libro, non sono contraddittori se correttamente interpretati.

CICERONE TEOLOGO

Cicerone affrontò questioni di carattere teologico in tre opere: De Natura Deorum, De Divinatione, De Fato.

De Natura Deorum

Dedicato a Bruto, è un dialogo in tre libri: nel primo Velleio espone le teorie epicuree sugli dèi, visti come lontani e indifferenti; nel secondo Lucilio Balbo incarna idee vicine al provvidenzialismo stoico; nel terzo, verso la fine, compare Cicerone stesso che si dimostra più vicino alle idee stoiche di Balbo.

De Divinatione

In due libri, vede Cicerone e il fratello Quinto discutere nella villa di Tuscolo. Quinto è fermamente convinto delle dottrine stoiche. Nel libro II Cicerone smonta “illuministicamente” le parole del fratello, evidenziando i rischi di confusione tra divinazione e superstizione.

EPISTOLARIO CICERONIANO

Di Cicerone abbiamo un ricco epistolario che è sia un prezioso documento storico sia un'opera di grande importanza per conoscere la biografia e la personalità dell'Arpinate. Si tratta di circa 900 lettere che sono divise in quattro raccolte: -16 libri di Epistulae ad familiares, scritte a parenti e amici tra cui Pompeo e Cesare -16 libri di Epistulae ad Atticum, scritte all'amico Attico -3 libri di Epistulae ad Quintum fratrem scritte al fratello Quinto -2 libri di Epistulae ad Marcum Brutum Le lettere furono pubblicate postume dall'amico Attico e da Tirone (il fedele liberto che fungeva da anni da segretario). Cicerone aveva espresso in due lettere l'intenzione di selezionare e pubblicare alcune di queste lettere e l'incarico venne affidato a Tirone ma la morte colse Cicerone prima che il lavoro fosse compiuto. Questo epistolario è particolare in quanto le lettere erano reali e non fittizie, ma l'importanza di questa raccolta consiste nell'essere fonte preziosa per la conoscenza della Roma di quegli anni e testimonianza di un Cicerone diverso da come siamo abituati a conoscerlo; infatti spesso ci rivela i suoi dubbi e le sue insicurezze.

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VIOLENTO ATTACCO A VERRE, GOVERNATORE DISONESTO

(In Verrem 2,4,1-2)

Venio nunc ad istius, quem ad modum ipse appellat, studium, ut amici eius, morbum et insaniam, ut Siculi, latrocinium; ego quo nomine appellem nescio; rem vobis proponam, vos eam suo non nominis pondere penditote. Genus ipsum prius cognoscite, iudices; deinde fortasse non magno opere quaeretis quo id nomine appellandum putetis. Nego in Sicilia tota, tam locupleti, tam vetere provincia, tot oppidis, tot familiis tam copiosis, ullum argenteum vas, ullum Corinthium aut Deliacum fuisse, ullam gemmam aut margaritam, quicquam ex auro aut ebore factum, signum ullum aeneum, marmoreum, eburneum, nego ullam picturam neque in tabula neque in textili quin conquisierit, inspexerit, quod placitum sit abstulerit. Magnum videor dicere: attendite etiam quem ad modum dicam. Non enim verbi neque criminis augendi causa complector omnia: cum dico nihil istum eius modi rerum in tota provincia reliquisse, Latine me scitote, non accusatorie loqui. Etiam planius: nihil in aedibus cuiusquam, ne inquidem, nihil in locis communibus, ne in fanis quidem, nihil apud Siculum, nihil apud civem Romanum, denique nihil istum, quod ad oculos animumque acciderit, neque privati neque publici neque profani neque sacri tota in Sicilia reliquisse.

http://www.skuolasprint.it/versione-cicerone/verre-ha-saccheggiato-tutta-la-sicilia.html

Vengo ora alla passione di costui come egli stimo la chiama, morbosa mania come la chiamavano i suoi amici,furto come la chiamavano gli abitanti della Sicilia. Io non so in quale modo chiamarlo. Vi esporrò i fatti: voi valutateli in base alla stessa gravità non in base al peso del nome. Prima stare a sentire di che cosa si tratta (lett.: il tipo stesso di questione). O giudici; poi forse non vi darete molto da fare a cercare con quale nome pensiate che ciò debba essere chiamato. Dico che in tutta la Sicilia, provincia tanto ricca, tanto antica, con tante città, tante famiglie così ricche non c’è stato nessun vaso d’argento , nessun vaso di Corinto o di Delo, nessuna gemma o pietra preziosa, nessun oggetto fatto d’oro o d’avorio, nessuna statua di bronzo , di marmo,di avorio, dico che non c’è stato nessun dipinto, né in un quadro né su tela che (egli) non abbia ricercato, esaminato, portato via, nel caso non gli sia piaciuta. Sembra che io dica un’enormità: prestate attenzione anche in qual modo io lo dica. Infatti non abbraccio tutto per aumentare il discorso o il capo di imputazione. Quando dico che costui non ha lasciato nulla delle cose di questo genere in tutta la provincia: sappiate che io parlo in modo normale non in modo accusatorio. Ancora più chiaramente: (sappiate) che costui, nulla nella casa di qualcuno neppure in quella di un ospite, nulla neppure nei luoghi pubblici, nei templi, nulla presso un siciliano, nulla presso un cittadino romano, nulla infine che sia caduto sotto i suoi occhi o sotto la sua attenzione, né di privato, né di pubblico, né di profano, né di sacro lasciò in tutta la Sicilia.

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CICERONE SMASCHERA CATILINA

(I Catilinaria 1-3) Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra? quam diu etiam furor iste tuus nos eludet? quem ad finem sese effrenata iactabit audacia? Nihilne te nocturnum praesidium Palati, nihil urbis vigiliae, nihil timor populi, nihil concursus bonorum omnium, nihil hic munitissimus habendi senatus locus, nihil horum ora voltusque moverunt? Patere tua consilia non sentis, constrictam iam horum omnium scientia teneri coniurationem tuam non vides? Quid proxima, quid superiore nocte egeris, ubi fueris, quos convocaveris, quid consilii ceperis, quem nostrum ignorare arbitraris? O tempora, o mores! Senatus haec intellegit. Consul videt; hic tamen vivit. Vivit? immo vero etiam in senatum venit, fit publici consilii particeps, notat et designat oculis ad caedem unum quemque nostrum. Nos autem fortes viri satis facere rei publicae videmur, si istius furorem ac tela vitemus. Ad mortem te, Catilina, duci iussu consulis iam pridem oportebat, in te conferri pestem, quam tu in nos omnes iam diu machinaris. An vero vir amplissumus, P. Scipio, pontifex maximus, Ti. Gracchum mediocriter labefactantem statum rei publicae privatus interfecit; Catilinam orbem terrae caede atque incendiis vastare cupientem nos consules perferemus? Nam illa nimis antiqua praetereo, quod C. Servilius Ahala Sp. Maelium novis rebus studentem manu sua occidit. Fuit, fuit ista quondam in hac re publica virtus, ut viri fortes acrioribus suppliciis civem perniciosum quam acerbissimum hostem coercerent. Habemus senatus consultum in te, Catilina, vehemens et grave, non deest rei publicae consilium neque auctoritas huius ordinis; nos, nos, dico aperte, consules desumus.

http://digilander.libero.it/maipiustudiare/vers/cicerone-catilina.htm

Fino a quando, dunque, Catilina abuserai della nostra pazienza? Per quanto tempo ancora codesta tua follia si prenderà gioco di noi? A quale tuo estremo si spingerà la tua audacia senza freni? Non ti hanno intimorito per nulla il presidio notturno sul Palatino, per nulla i turni di guardia in città, per nulla il timore del popolo, per nulla l’accorrere di tutti i cittadini onesti, per nulla questo luogo assai fortificato per le riunioni del Senato, per nulla le espressioni sul volto di costoro? Non ti accorgi che i tuoi piani sono manifesti? Non vedi che la tua congiura, ormai, è tenuta in pugno dalla consapevolezza di tutti costoro? Chi di noi, credi, ignori che cosa hai fatto questa notte, che cosa la notte precedente, dove sei stato, chi hai convocato, quale decisione hai preso? O tempi, o costumi! Il Senato capisce queste cose, il console le vede e questo tuttavia vive. Vive? Anzi addirittura viene in Senato, viene fatto partecipare alle decisioni pubbliche, osserva e designa con lo sguardo alla morte ognuno di noi. E noi, uomini forti, sembra che facciamo abbastanza per lo stato, se evitiamo la follia e i dardi di costui. A morte, o Catilina, sarebbe stato opportuno che già da tempo tu venissi condotto, per ordine del console, su di te sarebbe stato opportuno che si riversasse la rovina che tu già da tempo trami contro tutti noi. Non è forse vero che Pubblio Scipione, uomo prestigiosissimo, pontefice massimo, fece uccidere da cittadino privato Tiberio Gracco che turbava solo in parte la stabilità dello Stato; e noi consoli dovremmo tollerare Catilina che desidera devastare con la strage e gli incendi il mondo intero? Infatti tralascio quegli esempi troppo antichi, il fatto che Caio Servilio Ahala uccise di sua mano Spurio Melio che aspirava alla rivoluzione. Ci fu, ci fu un tempo codesto coraggio nello stato, tanto che uomini forti punivano con pene più severe un cittadino pericoloso che e un nemico acerrimo. Abbiano una deliberazione del Senato contro di te, o Catilina, forte e pesante, non manca la saggezza dello Stato, ne l’autorevolezza di quest’ordine; noi Consoli, lo dico apertamene, manchiamo (al nostro dovere).

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IMPROBI E BONI

(I Catilinaria 31-33) Etenim iam diu, patres conscripti, in his periculis coniurationis insidiisque versamur, sed nescio quo pacto omnium scelerum ac veteris furoris et audaciae maturitas in nostri consulatus tempus erupit. Quodsi ex tanto latrocinio iste unus tolletur, videbimur fortasse ad breve quoddam tempus cura et metu esse relevati, periculum autem residebit et erit inclusum penitus in venis atque in visceribus rei publicae. Ut saepe homines aegri morbo gravi cum aestu febrique iactantur, si aquam gelidam biberunt, primo relevari videntur, deinde multo gravius vehementiusque adflictantur, sic hic morbus, qui est in re publica, relevatus istius poena vehementius reliquis vivis ingravescet. Quare secedant inprobi, secernant se a bonis, unum in locum congregentur, muro denique, [id] quod saepe iam dixi, secernantur a nobis; desinant insidiari domi suae consuli, circumstare tribunal praetoris urbani, obsidere cum gladiis curiam, malleolos et faces ad inflammandam urbem comparare; sit denique inscriptum in fronte unius cuiusque, quid de re publica sentiat. Polliceor hoc vobis, patres conscripti, tantam in nobis consulibus fore diligentiam, tantam in vobis auctoritatem, tantam in equitibus Romanis virtutem, tantam in omnibus bonis consensionem, ut Catilinae profectione omnia patefacta, inlustrata, oppressa, vindicata esse videatis. Hisce ominibus, Catilina, cum summa rei publicae salute, cum tua peste ac pernicie cumque eorum exitio, qui se tecum omni scelere parricidioque iunxerunt, proficiscere ad impium bellum ac nefarium. Tu, Iuppiter, qui isdem quibus haec urbs auspiciis a Romulo es constitutus, quem Statorem huius urbis atque imperii vere nominamus, hunc et huius socios a tuis [aris] ceterisque templis, a tectis urbis ac moenibus, a vita fortunisque civium [omnium] arcebis et homines bonorum inimicos, hostis patriae, latrones Italiae scelerum foedere inter se ac nefaria societate coniunctos aeternis suppliciis vivos mortuosque mactabis.

http://digilander.libero.it/maipiustudiare/vers/cicerone-catilina.htm

E infatti già da tempo, o Senatori, ci troviamo in questi pericoli e nelle insidie della congiura, ma non so per che motivo il culmine di ogni scelleratezza e dell’antica follia e della temerarietà si è manifestato nel periodo del mio consolato. Che se da una così grande banda di malfattori sarà eliminato codesto solo, forse ci sembrerà per un breve lasso di tempo di essere stati sollevati dalla preoccupazione e dalla paura; tuttavia il pericolo rimarrà e starà chiuso profondamente nelle vene e nelle viscere dello stato. Come spesso gli uomini affetti da una grave malattia, quando sono tormentati da un’arsura e dalla febbre, se hanno bevuto dell’acqua gelida, dapprima sembrano risollevarsi, ma in seguito soffrono in modo più pesante e doloroso, così questa malattia che è nello stato, risollevato dalla condanna di costui si aggraverà di più se gli altri rimangono vivi. Perciò se ne vadano i malvagi; si separino dai cittadini onesti, si radunino in un unico luogo, siano separati da noi con un muro, cosa che ho già detto spesso, smettano di tendere insidie al console in casa sua, di accalcarsi intorno alla tribuna del pretore urbano, di assediare con le spade la Curia (il Tribunale), di preparare proiettili incendiari e fiaccole per mettere a fuoco la Città; risulti infine scritto sulla fronte di ognuno che cosa pensi dello Sato. Prometto questo a voi, Senatori, che ci sarà in noi consoli tanta diligenza, in voi tanta autorevolezza, nei cavalieri romani tanto coraggio, in tutti i cittadini onesti tanta unità di intenti che vedrete con la partenza di Catilina, ogni cosa scoperta, messa in luce, repressa, punita. Con questi auspici, o Catilina, con la somma salvezza dello Stato, con la rovina tua e disgrazia e con la morte di quelli che si sono uniti a te in ogni delitto e assassinio, parti per la tua guerra empia e scellerata. Tu Giove, che sei stato costituito da Romolo con gli stessi auspici con cui è stata fondata questa città e dal potere (di Roma), terrai lontani questo e i compagni di questo dai tuoi templi e da quelli degli altri dei, dalla case e dalle mura della città dalla vita e dai beni di tutti i cittadini e punirai uomini nemici dei cittadini onesti, della patria, predoni dell’italia, uniti tra loro da un patto di scelleratezze e da un’alleanza nefanda, con eterni supplizi da vivi e da morti.

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LA VITA NELL' ALDILÀ

(Somnium Scipionis 13-16) ‘Sed quo sis, Africane, alacrior ad tutandam rem publicam, sic habeto: omnibus, qui patriam conservaverint, adiuverint, auxerint, certum esse in caelo definitum locum, ubi beati aevo sempiterno fruantur; nihil est enim illi principi deo, qui omnem mundum regit, quod quidem in terris fiat, acceptius quam concilia coetusque hominum iure sociati, quae civitates appellantur; harum rectores et conservatores hinc profecti huc revertuntur.’ Hic ego, etsi eram perterritus non tam mortis metu quam insidiarum a meis, quaesivi tamen viveretne ipse et Paulus pater et alii, quos nos exstinctos arbitraremur.‘Immo vero’inquit‘hi vivunt, qui e corporum vinculis tamquam e carcere evolaverunt, vestra vero quae dicitur vita mors est. Quin tu aspicis ad te venientem Paulum patrem?’Quem ut vidi, equidem vim lacrimarum profudi, ille autem me complexus atque osculans flere prohibebat. Atque ego ut primum fletu represso loqui posse coepi, ‘Quaeso’ inquam, ‘pater sanctissime atque optime, quoniam haec est vita, ut Africanum audio dicere, quid moror in terris? quin huc ad vos venire propero?’ ‘Non est ita’ inquit ille.‘Nisi enim deus is, cuius hoc templum est omne, quod conspicis, istis te corporis custodiis liberaverit, huc tibi aditus patere non potest. Homines enim sunt hac lege generati, qui tuerentur illum globum, quem in hoc templo medium vides, quae terra dicitur, iisque animus datus est ex illis sempiternis ignibus, quae sidera et stellas vocatis, quae globosae et rotundae, divinis animatae mentibus, circulos suos orbesque conficiunt celeritate mirabili. Quare et tibi, Publi, et piis omnibus retinendus animus est in custodia corporis nec iniussu eius, a quo ille est vobis datus, ex hominum vita migrandum est, ne munus humanum adsignatum a deo defugisse videamini. Sed sic, Scipio, ut avus hic tuus, ut ego, qui te genui, iustitiam cole et pietatem, quae cum magna in parentibus et propinquis, tum in patria maxima est. Ea vita via est in caelum et in hunc coetum eorum, qui iam vixerunt et corpore laxati illum incolunt locum, quem vides’ (erat autem is splendidissimo candore inter flammas circus elucens), ‘quem vos, ut a Graiis accepistis, orbem lacteum nuncupatis.’ Ex quo omnia mihi contemplanti praeclara cetera et mirabilia videbantur. Erant autem eae stellae, quas numquam ex hoc loco vidimus, et eae magnitudines omnium, quas esse numquam suspicati sumus, ex quibus erat ea minima, quae, ultima a caelo, citima a terris, luce lucebat aliena. Stellarum autem globi terrae magnitudinem facile vincebant. Iam ipsa terra ita mihi parva visa est, ut me imperii nostri, quo quasi punctum eius attingimus, paeniteret.

Ma affinché, o Africano, tu sia più zelante nel difendere lo Stato, sappi questo: per tutti quelli che hanno conservato, aiutato , cresciuto la patria, è riservato e stabilito in cielo un luogo nel quale possono godere felici di una vita eterna; infatti non c'è nulla di più gradito a quel Dio supremo che governa tutto il mondo , almeno relativamente a ciò che accade sulla terra, che le riunioni e le comunità di uomini tenute insieme dalle leggi che si chiamano stati; quelli che li governano e li custodiscono partiti da qui, qui ritornano. A questo punto io anche se ero spaventato non tanto dal timore della morte quanto (dal timore) delle insidie da parte dei miei familiari, chiesi tuttavia se egli stesso fosse vivo e mio padre Paolo e coloro che noi riteniamo estinti. "Anzi, in verità -rispose- vivono costoro che sono volati via dalle catene dei corpi come da un carcere e la vostra , che in verità chiamate vita è morte. Perché tu non guardi tuo padre Paolo che viene verso di tè?". Non appena lo vidi in verità versai un fiume di lacrime, ma quello dopo avermi abbracciato e baciandomi cercava di impedirmi di piangere. E io non appena, represse le lacrime, cominciai a poter parlare , chiesi: " Di grazia, o padre degno di venerazione e ottimo, poiché questa è la vita come sento dire dell'Africano, per quale motivo indugio sulla terra?". Parchè non mi affretto a venire qui da voi?". "Non è così - rispose quello- infatti se non quando questo Dio (il logos) a cui appartiene tutto questo spazio che vedi ti avrà liberato da codeste catene del corpo, non può essere aperto per te l'accesso a questo luogo. Infatti gli uomini sono stati generati secondo questa legge, affinché custodissero quelle sfera che tu vedi in mezzo a questo cielo e che si chiama terra e a questi è stata data un'anima presa da quei fuochi eterni che chiamate astri e pianeti e che di forma sferica animati da menti divine, compiono con mirabile velocità le loro orbite circolari. Perciò, o Publio, tu e coloro che amano il bene dovete mantenere l'anima nella prigione del corpo, ne senza il permesso di colui dal quale quella (anima) vi è stata data, né dovete emigrare dalla vita affinché non sembri che siate venuti meno al compito umano assegnato da Dio. Ma così o Scipione, come questo tuo avo(nonno), come me che ti ho generato, coltiva la giustizia e il senso del dovere che se è grande nei confronti dei genitori e dei parenti, è grandissima nei confronti della patria ; questa vita è la via verso il cielo e questa schiera di coloro che già sono vissuti e liberati dal corpo, abitano quel luogo che vedi (era infatti questo un circolo luminoso di un candore splendente tra le fiamme) che voi come avete appreso dai Greci chiamate Via Lattea"; e a me che da quel luogo contemplavo (l'universo) tutto il resto appariva

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http://www.classicitaliani.it/dante1/somnium.htm

bellissimo e mirabile . Cerano infatti stelle tali che non abbiamo mai visto dalla terra e le dimensioni di tutte erano tali che non abbiamo mai immaginato che potessero esistere e tra queste la più piccola era quella che , ultima dalla parte del cielo, più vicina dalla parte della terra, risplendeva di luce non sua (luna). Inoltre i volumi delle stelle superavano di gran lunga la grandezza della terra. E già la terra stessa non sembrava così piccola che mi vergogno del nostro dominio con il quale tocchiamo per così dire un punto di essa.

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IMMORTALITÀ E DIVINITÀ DELL'ANIMA

(Somnium Scipionis 26) Quae cum dixisset, ‘Ego vero’ inquam, ‘Africane, siquidem bene meritis de patria quasi limes ad caeli aditum patet, quamquam a pueritia vestigiis ingressus patris et tuis decori vestro non defui, nunc tamen tanto praemio exposito enitar multo vigilantius.’ Et ille ‘Tu vero enitere et sic habeto, non esse te mortalem, sed corpus hoc; nec enim tu is es, quem forma ista declarat, sed mens cuiusque is est quisque, non ea figura, quae digito demonstrari potest. Deum te igitur scito esse, siquidem est deus, qui viget, qui sentit, qui meminit, qui providet, qui tam regit et moderatur et movet id corpus, cui praepositus est, quam hunc mundum ille princeps deus; et ut mundum ex quadam parte mortalem ipse deus aeternus, sic fragile corpus animus sempiternus movet.

http://www.classicitaliani.it/dante1/somnium.htm

E avendo egli detto queste cose io risposi:"In verità o Africano, se è vero per coloro che hanno acquisito dei meriti nei confronti della Patria si apre per così dire una via per l'accesso al cielo, benché fin dalla fanciullezza seguendo le orme di mio padre e le tue, non sia venuto meno al vostro decoro , ora tuttavia , dopo che mi è stata mostrata una così grande ricompensa, mi impegnerò con zelo ancora maggiore". E quello:"Tu in verità impegnati e tieni presente questo, che tu non sei mortale ma lo è questo tuo corpo; né infatti tu sei colui che rivela codesto aspetto esteriore ma ognuno è ciò che è la sua anima , non quell'aspetto che si può indicare con un dito. Sappi dunque che tu sei un Dio(elemento divino) se è vero che è divina la forza che ha vigore in noi, che sente, che ricorda, che provvede (prevede), che regge e governa e fa muovere questo corpo a cui è preposta allo stesso modo in cui quel Dio Supremo (regge e governa) questo mondo; e come lo stesso Dio Eterno fa muovere il mondo mortale per una certa parte , così l'anima immortale fa muovere il corpo fragile".

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L'AMICIZIA TRA I VIRI BONI

(Laelius 17-20)

Ego vero non gravarer, si mihi ipse confiderem; nam et praeclara res est et sumus, ut dixit Fannius, otiosi. Sed quis ego sum aut quae est in me facultas? Doctorum est ista consuetudo, eaque Graecorum, ut iis ponatur, de quo disputent quamvis subito; magnum opus est egetque exercitatione non parva. Quam ob rem, quae disputari de amicitia possunt, ab eis censeo petatis, qui ista profitentur; ego vos hortari tantum possum, ut amicitiam omnibus rebus humanis anteponatis; nihil est enim tam naturae aptum, tam conveniens ad res vel secundas vel adversas. Sed hoc primum sentio, nisi in bonis amicitiam esse non posse; neque id ad vivum reseco, ut illi, qui haec subtilius disserunt, fortasse vere, sed ad communem utilitatem parum; negant enim quemquam esse virum bonum nisi sapientem. Sit ita sane; sed eam sapientiam interpretantur, quam adhuc mortalis nemo est consecutus, nos autem ea, quae sunt in usu vitaque communi, non ea, quae finguntur aut optantur, spectare debemus. Numquam ego dicam C. Fabricium, M'. Curium, Ti. Coruncanium, quos sapientes nostri maiores iudicabant, ad istorum normam fuisse sapientes. Quare sibi habeant sapientiae nomen et invidiosum et obscurum, concedant, ut viri boni fuerint. Ne id quidem facient, negabunt id nisi sapienti posse concedi. Agamus igitur pingui, ut aiunt, Minerva. Qui ita se gerunt, ita vivunt, ut eorum probetur fides, integritas, aequitas, liberalitas, nec sit in eis ulla cupiditas, libido, audacia, sintque magna constantia, ut ii fuerunt, modo quos nominavi, hos viros bonos, ut habiti sunt, sic etiam appellandos putemus, quia sequantur, quantum homines possunt, naturam optimam bene vivendi ducem. Sic enim mihi perspicere videor, ita natos esse nos, ut inter omnes esset societas quaedam, maior autem, ut quisque proxume accederet. Itaque cives potiores quam peregrini, propinqui quam alieni; cum his enim amicitiam natura ipsa peperit; sed ea non satis habet firmitatis. Namque hoc praestat amicitia propinquitati, quod ex propinquitate benevolentia tolli potest, ex amicitia non potest; sublata enim benevolentia amicitiae nomen tollitur, propinquitatis manet. Quanta autem vis amicitiae sit, ex hoc intellegi maxime potest, quod ex infinita societate generis humani, quam conciliavit ipsa natura, ita contracta res est et adducta in angustum, ut omnis caritas aut inter duos aut inter paucos iungeretur. Est enim amicitia nihil aliud nisi omnium divinarum humanarumque rerum cum benevolentia et caritate consensio; qua quidem haud scio an excepta sapientia nihil melius homini sit a dis inmortalibus datum. Divitias alii praeponunt, bonam alii valetudinem, alii potentiam, alii honores, multi etiam voluptates.

In verità io non avrei difficoltà se avessi fiducia in me stesso: infatti la questione è assai nobile e noi, come ha detto Fannio, siamo liberi da impegni. Ma chi sono io e quale abilità c'è in me? Codesta è una pratica da professionisti e specialmente dei Greci, cioè che si sottoponga a loro un argomento di cui debbano disputare all'improvviso finché lo si voglia: è un impegno grande e necessita di non poco esercizio. Perciò ritengo opportuno che voi chiediate a coloro che trattano codeste cose ciò che può essere detto a proposito dell'amicizia. Io vi posso soltanto esortare affinché anteponiate l'amicizia a tutte le esperienze umane; infatti niente è tanto conforme alla natura, tanto adatto alle situazioni tanto favorevoli quanto sfavorevoli. Ma questo prima di tutto avverto dentro di me, l'amicizia non può esistere se non tra persone oneste. E io non taglio fino alla carne viva, come quelli che non trattano queste cose con eccessiva sottigliezza forse con ragione ma con poca utilità per il bene comune. Dicono infatti che non esiste un uomo onesto se non il saggio. Ammettiamo pure che sia così. Ma quelli intendono quella sapienza che fino ad ora nessun mortale ha conseguito, noi invece dobbiamo prendere in considerazione quelle cose che sono nella pratica e nella vita comune non quelle che vengono rappresentate o desiderate. Né io potrei dire che Caio, Fabrizio, Manio, Curio, Tiberio, Coruncagno, che i nostri antenati ritenevano sapienti, siano stati sapienti secondo il parametro di costoro. Perciò si tengano per sè il nome di sapienza odioso, oscuro, ma ammettano che questi siano stati uomini onesti. Non faranno neppure questo, diranno che ciò non può essere concesso se non al sapiente. Procediamo, dunque come si dice, con un po' di buon senso. Coloro che si comportano, vivono, in modo tale che venga approvata la loro fedeltà, integrità, senso della giustizia, generosità, né vi sia in essi nessuna cupidigia, desiderio sfrenato, temerarietà, e siano di grande determinazione come sono stati coloro che ho nominato prima, codesti consideriamo che siano da chiamarsi uomini onesti, così come sono stati ritenuti (tali), poiché seguono, per quanto gli uomini possono, la natura come ottima guida del vivere bene. Così infatti mi sembra di capire con chiarezza che noi siamo nati in modo tale che vi fosse fra tutti, per così dire un vincolo, tanto più intenso quanto più ciascuna persona ci è vicina. Perciò i cittadini ci sono più cari degli stranieri, i parenti degli estranei. Con questi infatti la natura stessa ha prodotto l'amicizia; ma questa non ha abbastanza solidità. E infatti per questo l'amicizia è superiore ai vincoli di parentela, per il fatto che dalla parentela si può togliere l'affetto, dall'amicizia non si può: infatti tolto l'affetto si toglie il nome di amicizia, rimane quello di

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Beluarum hoc quidem extremum, illa autem superiora caduca et incerta, posita non tam in consiliis nostris quam in fortunae temeritate. Qui autem in virtute summum bonum ponunt, praeclare illi quidem, sed haec ipsa virtus amicitiam et gignit et continet, nec sine virtute amicitia esse ullo pacto potest.

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parentela. Quanta dunque sia la forza dell'amicizia, si può capire con estrema chiarezza da ciò, dal fatto che dall'infinita società del genere umano che la stessa natura ha procurato, questa relazione si è così contratta e ridotta in una cerchia così stretta che ogni affetto si stringe o tra due o tra pochi. L'amicizia non è nient'altro infatti se non l'intesa su tutte le cose divine e umane unita alla benevolenza e all'affetto e in verità non so se, fatta eccezione per la sapienza niente di meglio di questa, sia stato dato all'uomo dagli Dei immortali. Alcuni antepongono le ricchezze, altri la buona salute, altri il potere, altri gli onori, molti anche i piaceri. Quest'ultimo aspetto è proprio delle bestie. I beni precedenti sono effimeri ed incerti, posti non tanto nei nostri progetti quanto nell'avventatezza della sorte. Coloro che invece pongono il sommo bene nella virtù, questi in verità ragionano in modo esemplare, ma questa stessa virtù genera e mantiene l'amicizia, né senza la virtù l'amicizia può esistere in alcun modo.

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ALLA FAMIGLIA, ANDANDO VERSO L'ESILIO

(Ad Familiares 14,4) Tullius s.d. Terentiae et Tulliae et Ciceroni suis. Ego minus saepe do ad vos litteras, quam possum, propterea quod cum omnia mihi tempora sunt misera, tum vero, cum aut scribo ad vos aut vestras lego, conficior lacrimis sic, ut ferre non possim. Quod utinam minus vitae cupidi fuissemus! certe nihil aut non multum in vita mali vidissemus. Quod si nos ad aliquam alicuius commodi aliquando recuperandi spem fortuna reservavit, minus est erratum a nobis; si haec mala fixa sunt, ego vero te quam primum, mea vita, cupio videre et in tuo complexu emori, quoniam neque di, quos tu castissime coluisti, neque homines, quibus ego semper servivi, nobis gratiam rettulerunt. Nos Brundisii apud M. Laenium Flaccum dies XIII fuimus, virum optimum, qui periculum fortunarum et capitis sui prae mea salute neglexit neque legis improbissimae poena deductus est, quo minus hospitii et amicitiae ius officiumque praestaret: huic utinam aliquando gratiam referre possimus! habebimus quidem semper. Brundisio profecti sumus a. d. II K. Mai.: per Macedoniam Cyzicum petebamus. O me perditum! O afflictum! Quid enim? Rogem te, ut venias? Mulierem aegram, et corpore et animo confectam. Non rogem? Sine te igitur sim? Opinor, sic agam: si est spes nostri reditus, eam confirmes et rem adiuves; sin, ut ego metuo, transactum est, quoquo modo potes ad me fac venias. Unum hoc scito: si te habebo, non mihi videbor plane perisse. Sed quid Tulliola mea fiet? iam id vos videte: mihi deest consilium. Sed certe, quoquo modo se res habebit, illius misellae et matrimonio et famae serviendum est. Quid? Cicero meus quid aget? iste vero sit in sinu semper et complexu meo. Non queo plura iam scribere: impedit maeror. Tu quid egeris, nescio: utrum aliquid teneas an, quod metuo, plane sis spoliata. Pisonem, ut scribis, spero fore semper nostrum. De familia liberanda nihil est quod te moveat: primum tuis ita promissum est, te facturam esse, ut quisque esset meritus; est autem in officio adhuc Orpheus, praeterea magno opere nemo; ceterorum servorum ea causa est, ut, si res a nobis abisset, liberti nostri essent, si obtinere potuissent, sin ad nos pertineret, servirent praeterquam oppido pauci. Sed haec minora sunt. Tu quod me hortaris, ut animo sim magno et spem habeam recuperandae salutis, id velim sit eiusmodi, ut recte sperare possimus. Nunc miser quando tuas iam litteras accipiam? quis ad me perferet? quas ego exspectassem Brundisii, si esset licitum per nautas, qui tempestatem praetermittere noluerunt. Quod reliquum est, sustenta te, mea Terentia, ut potes. Honestissime viximus, floruimus: non vitium

Tullio saluta Terenzia e Tullia e il figlio Marco Io vi mando lettere meno spesso di quanto potrei per il fatto che non solo tutti i miei momenti sono infelici, ma anche quando, o scrivo a voi, o leggo le vostre lettere, sono distrutto dalle lacrime così da non poter sopportare. Oh se fossi stato meno desideroso di vivere! Di sicuro non avrei visto niente o non molto di male, in vita. Che se poi la sorte ci ha riservato per qualche speranza di recuperare un giorno qualche bene minore è stato il mio errore; se questi mali sono irreparabili io in verità desidero vederti il più presto possibile, vita mia, e morire tra le tue braccia, poiché ne gli Dei che tu hai piissimamente onorato, ne gli uomini, dei quali ho sempre avuto aura, ci hanno reso grazie. Andai a Brindisi a casa di Marco Lenio Flacco il tredicesimo giorno, uomo buonissimo che per la mia incolumità ha trascurato il pericolo di perdere i suoi beni e la sua vita e non fu distolto, a causa della pena della legge ingiustissima, dall'osservare gli obblighi e i doveri dell'ospitalità e dell'amicizia. Oh se potessi dimostrargli un giorno la mia gratitudine. Avrò sempre gratitudine. Parto da Brindisi oggi. Sono diretto a Cirzico attraverso la Macedonia. Oh me disperato! Oh me misero! Purché dovrei chiederti ora di venire, moglie infelice, sfinita sia nel corpo sia nell'animo? Non dovrei chiedere? Dovrei perciò stare senza di te? Penso di fare così: se c'è qualche speranza del mio ritorno, rafforzala ed aiutala; se come io temo, invece è tutto finito, fai in modo di venire da me in qualunque modo. Questa sola cosa sappi: se ti avrò non mi parrà di essere del tutto finito ma che cosa accadrà alla mia piccola Tullia? Vedete voi ciò; la decisione mi manca. Ma certamente, in qualunque modo andranno le cose bisogna pensare agli obblighi nei confronti del matrimonio e della reputazione di quella povera infelice. Perché? Cosa farà il mio piccolo Cicerone? Vorrei che fosse sempre tra le mie braccia. Non posso scrivere già di più; la tristezza mi impedisce. Non so cosa tu abbia fatto, se possiedi qualcosa o, cosa che temo, sia stata derubata del tutto. Spero che Pisone, come tu scrivi, resti sempre dei nostri, dalla nostra parte. Per quanto riguarda l'affrancamento degli schiavi, non c'è motivo che tu ti preoccupi. Innanzitutto è già promesso ai tuoi servi che sarà stato fatto da te secondo i meriti di ciascuno. Presta servizio ancora il solo Orfeo; tranne lui proprio nessuno (presta servizio). Degli atri servi la situazione è tale che se tutti i beni ci fossero confiscati sarebbero nostri liberti, purché abbiano ottenuto l'affrancamento; se invece dovessero rimanere al nostro servizio, dovrebbero essere nostri schiavi a parte ben pochi. Ma queste sono cose di minore importanza. Quanto al fatto che tu mi esorti

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nostrum, sed virtus nostra nos afflixit; peccatum est nullum, nisi quod non una animam cum ornamentis amisimus; sed, si hoc fuit liberis nostris gratius, nos vivere, cetera, quamquam ferenda non sunt, feramus. Atqui ego, qui te confirmo, ipse me non possum. Clodium Philetaerum, quod valetudine oculorum impediebatur, hominem fidelem, remisi. Sallustius officio vincit omnes. Pescennius est perbenevolus nobis, quem semper spero tui fore observantem. Sicca dixerat se mecum fore, sed Brundisio discessit. Cura, quoad potes, ut valeas et sic existimes, me vehementius tua miseria quam mea commoveri. Mea Terentia, fidissima atque optima uxor, et mea carissima filiola et spes reliqua nostra, Cicero, valete. Pridie Kalendas Maias Brundisio.

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affinché o sia d'animo forte e abbia la speranza di recuperare la salute, vorrei che ciò fosse tale da poter sperare a ragion veduta. Ora disperato, quando riceverò le tue lettere? Chi me le porterà? L'avrei aspettata a Brindisi se fosse stato permesso dai marinai che non vollero trascurare il tempo favorevole per la navigazione. Quanto al resto, fatti coraggio mia Terenzia, nel modo più decoroso possibile. Ho vissuto, ho avuto successo; non il mio vizio ma la mia virtù mi fa soffrire. Non c'è nessuna colpa, se non il fatto che non ho perso l'esistenza insieme con gli onori. Ma se questo ai miei figli fu più gradito, il mio vivere, sopporterò le altre cose sebbene non siano sopportabili. Eppure io, che cerco di consolarti, non posso(fare) lo stesso per me. Rimandai Claudio, uomo fedele, a Fileta , poiché era impedito da una malattia agli occhi. Sallustio vinse tutti in fedeltà. Pescennio ci è molto benevolo; e spero che egli sia sempre pieno di riguardi nei tuoi confronti. Sicca aveva detto che sarebbe stato con me, ma da Brindisi si allontanò. Stammi bene per quanto ti è possibile ; e se così credo, sono più dolorosamente colpito dalla tua disgrazia che dalla mia. Oh mia Terenzia , fedelissima e ottima moglie e mia carissima figliola e mia unica speranza, Cicerone, siate forti. 28 Aprile Brindisi

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TITO LUCREZIO CARO

Della vita di Lucrezio abbiamo poche informazioni, per lo più tarde e poco affidabili. In un passo di Gerolamo possiamo leggere: “Titus Lucretius poeta nascitur; qui postea amatorio poculo in furorem versus cum per intervalla insaniae aliquot libros conscripsisset, quos postea Cicero emendavit, propria se manu interfecit anno aetatis XLIV” (“Tito Lucrezio, il poeta, nacque; poi, impazzito per un filtro d’amore, dopo aver composto nella pause di lucidità lasciategli dalla follia alcuni libri, dei quali in seguito Cicerone fu revisore, si suicidò a 43 anni di età”). Perciò dai testi di Gerolamo oggi stabiliamo che l’anno della sua nascita è il 98 a.C., e supponendo che abbia vissuto 43 anni, morì nel 55 a.C. Sappiamo che aderì alla filosofia epicurea, assai diffusa in Campania, possiamo quindi presupporre che fosse originario di quella regione. Si pensa inoltre che fosse di condizione modesta per il fatto che abbia dedicato la sua opera ‘De rerum natura’ a Gaio Memmio. Cicerone invece ce lo presenta come un uomo di talento e grande letterato tant’è che permetterà la pubblicazione della sua opera. La presunta follia del poeta potrebbe essere anzi un’invenzione dello stesso Gerolamo che lo volle pazzo per un filtro d’amore. Forse venne definito in tale modo in quanto professava un credo filosofico materialistico che il cristianesimo duramente criticava e considerava pazzia.

De Rerum Natura

Il De rerum natura, cioè ‘La naura delle cose’, è l’unica opera lucreziana che ci sia pervenuta: un poema didascalico d’argomento filosofico in sei libri di 7415 esametri dattilici con i quali egli si proponeva di divulgare ai Romani la filosofia epicurea. Il testo presenta due novità: creare a Roma un poema didascalico e conciliare contemporaneamente l’epicureismo con la poesia. I sei libri dell’opera sono a loro volta raggruppati in tre diadi: i primi due trattano di fisica, i secondi l’antropologia e gli ultimi la cosmologia. Lucrezio inserisce anche elogi al poeta Epicuro ed un inno a Venere. Per quanto riguarda i tempi della composizione si può dire bene poco: con l’espressione patrai tempore iniquo allude ad una difficile fase nella storia della res publica; mentre con la stessa dedica al nobile romano Gaio Memmio, uomo politico, precettore di Cinna e Catullo ma anche cultore di letteratura, allude ad un’epoca nella quale la figura politica di Memmio si era già appannata. Il testo presenta tracce di incompiutezza: si pensa dunque che Lucrezio sia morto lasciandolo parzialmente incompiuto e che a terminarlo sia stato Cicerone, definito il revisore del testo lucreziano il quale avutolo tra le mani lo completò e ne promosse la diffusione.

IL GENERE LETTERARIO

Il poema didascalico prende il nome dal termine greco didásko (io insegno) e sta a significare che vuole trasmettere, insegnare qualcosa. Infatti, il poema didascalico nell’età arcaica aveva la funzione di trasmettere alla comunità i saperi e i valori fondamentali della società in cui vivevano, mentre nell’età ellenistica era meno radicata alla società in cui vivevano ma sempre più alla ricerca di un componimento più difficile ed elaborato. Lucrezio nello scrivere il suo poema didascalico d’argomento filosofico ha la possibilità di comparare diversi modelli di poemi greci. Il suo De rerum natura è composto da 37 libri in prosa contenenti il pensiero di Epicuro sulla fisica. Il tema principale dell’opera di Lucrezio è proprio quello della tradizione filosofica greca, l’epicureismo, considerata come unica dottrina salvifica.

LUCREZIO POETA E FILOSOFO

Malgrado che il mentore di Lucrezio, Epicuro, si sia sempre espresso negativamente nei confronti della poesia, perché troppo incline ad emozioni e turbamenti, Lucrezio utilizza la poesia come uno strumento di divulgazione filosofica in quando è più attraente e rievoca immagini più vive, luminose rispetto all’esposizione in prosa considerata più arida. Con l’utilizzo della poesia Lucrezio vuole avvicinare la classe dirigente romana alla filosofia epicurea e il poema didascalico è considerato il mezzo per giungere allo scopo.

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La filosofia epicurea è considerata da Lucrezio come una soluzione ai problemi della società romana di quel periodo. La religione e la politica non rassicuravano più la popolazione perciò una filosofia che proponeva un cammino individuale verso la felicità e la sapienza era la soluzione per i problemi di quel periodo.

LUCREZIO EPICUREO, TRA FEDELTÀ E INNOVAZIONE

Per molti Lucrezio, in quanto seguace di Epicuro, viene visto come un poeta ricco di contraddizioni: L’uso della poesia condannata dal suo maestro La dedica a Gaio Memmio che era un uomo politico (l’epicureismo predicava l’astensione dalla vita politica) Il pessimismo in alcune parti del poema in netto contrasto con l’ottimismo epicureo Il poeta però deve adattare l’epicureismo alla società in cui vive. Quindi l’unico modo per far conoscere questa filosofia è quella di utilizzare la poesia e ancor più di rivolgersi ad esponenti della classe dirigenti perché coinvolti nella vita pubblica; lo scopo era quello di liberare dalle ambizioni illusorie e false credenze e di dare ai membri una solidità etica che gli avrebbe permesso di superare un’epoca di angoscia. Questa filosofia avrebbe consentito di vivere con un certo distacco tutte le angosce che la vita porta per giungere in vista della saggezza. L’analisi alla terza critica è più difficile perché si è scoperto con studi più approfonditi che la teoria dell’ottimismo epicureo non era così certa. Infatti per Epicuro l’uomo è solo con se stesso senza l’aiuto divino e quindi è plausibile che nell’uomo ci possano essere momenti di sconforto e di pessimismo. Nell’opera De rerum natura vi è una polemica contro la religione tradizionale e la superstizione che da essa ne consegue. Epicuro con il suo pensiero vuole far capire agli uomini che gli dèi sono completamente estranei alle vicende degli uomini. La convinzione che gli dèi abbiano influenza sulla vita dei mortali opprime la vita e porta a compiere atti atroci. Quindi Lucrezio diffonde nella sua opera “ mai nulla nasce dal nulla per cenno divino” e ciò che nasce “non perisce del tutto/ poiché una cosa dall’altra la natura ricrea/ e non lascia che alcuna ne nasca se non dalla morte di un’altra”.

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INVOCAZIONE A VENERE

(De Rerum Natura 1,1-43) Aeneadum genetrix, hominum divomque voluptas, alma Venus, caeli subter labentia signa quae mare navigerum, quae terras frugiferentis concelebras, per te quoniam genus omne animantum concipitur visitque exortum lumina solis: te, dea, te fugiunt venti, te nubila caeli adventumque tuum, tibi suavis daedala tellus summittit flores, tibi rident aequora ponti placatumque nitet diffuso lumine caelum. Nam simul ac species patefactast verna diei et reserata viget genitabilis aura favoni, aëriae primum volucris te, diva, tuumque significant initum perculsae corda tua vi. Inde ferae pecudes persultant pabula laeta et rapidos tranant amnis: ita capta lepore te sequitur cupide quo quamque inducere pergis. Denique per maria ac montis fluviosque rapacis frondiferasque domos avium camposque virentis omnibus incutiens blandum per pectora amorem efficis ut cupide generatim saecla propagent. Quae quoniam rerum naturam sola gubernas nec sine te quicquam dias in luminis oras exoritur neque fit laetum neque amabile quicquam, te sociam studeo scribendis versibus esse, quos ego de rerum natura pangere conor Memmiadae nostro, quem tu, dea, tempore in omni omnibus ornatum voluisti excellere rebus. quo magis aeternum da dictis, diva, leporem. Effice ut interea fera moenera militiai per maria ac terras omnis sopita quiescant; nam tu sola potes tranquilla pace iuvare mortalis, quoniam belli fera moenera Mavors armipotens regit, in gremium qui saepe tuum se reiicit aeterno devictus vulnere amoris, atque ita suspiciens tereti cervice reposta pascit amore avidos inhians in te, dea, visus eque tuo pendet resupini spiritus ore. Hunc tu, diva, tuo recubantem corpore sancto circum fusa super, suavis ex ore loquellas funde petens placidam Romanis, incluta, pacem; nam neque nos agere hoc patriai tempore iniquo possumus aequo animo nec Memmi clara propago talibus in rebus communi desse saluti.

http://www.parodos.it/lucrezio.htm

Progenitrice degli Eneadi, piacere degli uomini e degli Dei, Venere datrice di vita, tu che sotto gli astri che scivolano in cielo popoli il mare, portatore di navi, le terre feconde di messi, poiché grazie a te ogni genere di esseri inanimati viene concepito e vede una volta nato la luce del sole: te o Dea, te fuggono i venti, le nubi del cielo, te e il tuo arrivo, per te la terra ingegnosa fa sbocciare i fiori soavi, a te sorridono le distese del mare e il cielo rasserenato brilla di luce diffusa. Infatti non appena si è dischiuso l'aspetto primaverile del giorno e liberato prende vigore il soffio vivificante di Zefiro, dapprima gli uccelli annunciano te, o Dea, e il tuo arrivo, colpiti nel cuore della tua forza. Quindi le fiere e gli armenti saltano nei pascoli lieti e attraversano (a nuoto) i fiumi vorticosi: così catturato dal tuo fascino ogni essere vivente ti segue avidamente ovunque tu voglia condurlo. Quindi per mari e monti e fiumi vorticosi e per le dimore frondose degli uccelli e nei campi verdeggianti incutendo in tutti nel petto un amore carezzevole, fai si che con desiderio propaghino le generazioni secondo le specie. E poiché tu da sola governi la natura ne senza di te alcunché sorge sulle spiagge divine della luce e nulla diventa lieto o amabile, desidero che tu mi sia compagno nello scrivere versi che io compongo sula natura per il nostro Memmio che tu, o Dea, hai voluto che eccellesse in ogni tempo ornato di ogni qualità. Perciò tanto più, o Dea, conferisci eterno fascino alle mie parole. Intanto fa si che le opere crudeli della guerra per i mari e tutte le terre sopite riposino. Infatti tu sola puoi giovare ai mortali con una pace tranquilla poiché alle feroci imprese della guerra presiede morte, potente nelle armi, che spesso si abbandona nel tuo grembo vinto dall'eterna ferita d'amore e così guardando verso l'alto con il bel collo reclinato, nutre d'amore gli avidi sguardi anelando verso di te, o Dea, e dal tuo volto pende il respiro del Dio sdraiato. O Dea tu piegandoti con il tuo corpo santo su di lui sdraiato, effondi dalle labbra dolci parole, chiedendo, o gloriosa, una pace tranquilla per i Romani. Infatti nè mai possiamo compiere questo lavoro in un periodo triste della patria con animo sereno, nè l'illustre discendenza di Memmio (può) in tali circostanze venir meno alla salvezza comune.

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EPICURO, UN EROE

(De Rerum Natura 1,62-79) Humana ante oculos foede cum vita iaceret in terris oppressa gravi sub religione quae caput a caeli regionibus ostendebat horribili super aspectu mortalibus instans, primum Graius homo mortalis tollere contra est oculos ausus primusque obsistere contra, quem neque fama deum nec fulmina nec minitanti murmure compressit caelum, sed eo magis acrem irritat animi virtutem effringere ut arta naturae primus portarum claustra cupiret. ergo vivida vis animi pervicit, et extra processit longe flammantia moenia mundi atque omne immensum peragravit mente animoque, unde refert nobis victor quid possit oriri, quid nequeat, finita potestas denique cuique quanam sit ratione atque alte terminus haerens. quare religio pedibus subiecta vicissim obteritur, nos exaequat victoria caelo.

http://www.parodos.it/lucrezio.htm

Mentre la vita umana giaceva davanti agli occhi vergognosamente sulla terra oppressa dal grave peso della religione che mostrava il capo dalle regioni del cielo incombendo sui mortali con il suo orribile aspetto, per primo un uomo greco osò sollevare gli occhi mortali contro di lei e per primo osò opporsi a lei; non lo trattennero né la fama degli Dei, né i fulmini, né il cielo con il suo mormorio minaccioso, ma tanto più stimolarono la fiera virtù dell'animo cosicché per primo desiderò spezzare gli stretti serrami delle porte della natura. Dunque la vivida forza dell'animo vinse e avanzò lontano, al di là delle fiammeggianti mura del mondo e percorse tutta l'immensità del mondo con la mente e con l'animo e di là riporta a noi il vincitore che possa nascere, che cosa non possa e infine per quale ragione ogni cosa abbia un potere definito e un termine profondamente connaturato. Perciò la religione abbattuta sotto i piedi a sua volta è calpestata e la vittoria ci eguaglia al cielo.

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IL SACRIFICIO DI IFIGENIA

(De Rerum Natura 1,80-101) Illud in his rebus vereor, ne forte rearis impia te rationis inire elementa viamque indugredi sceleris. Quod contra saepius illa religio peperit scelerosa atque impia facta. Aulide quo pacto Triviai virginis aram Iphianassai turparunt sanguine foede ductores Danaum delecti, prima virorum. Cui simul infula virgineos circumdata comptus ex ultraque pari malarum parte profusast, et maestum simul ante aras adstare parentem sensit et hunc propter ferrum celare ministros aspectuque suo lacrimas effundere civis, muta metu terram genibus summissa petebat. Nec miserae prodesse in tali tempore quibat quod patrio princeps donarat nomine regem. Nam sublata virum manibus tremibundaque ad aras deductast, non ut sollemni more sacrorum perfecto posset claro comitari Hymenaeo, sed casta inceste nubendi tempore in ipso hostia concideret mactatu maesta parentis, exitus ut classi felix faustusque daretur. Tantum religio potuit suadere malorum.

http://www.parodos.it/lucrezio.htm

Questo in queste cose io temo, che tu per caso pensi di entrare nei principi di un'empia dottrina e di percorrere la via del delitto. Anzi al contrario, assai spesso, proprio quella religione ha prodotto azioni empie e scellerate. E in tal modo in Aulide i capi scelti dei Danai, i fior fiore degli eroi macchiarono vergognosamente con il sangue di Ifianassa l'altare della vergine Trivia. E non appena la benda avvolta intorno alle chiome di ragazza cadde dall'una e dall'altra guancia in parti uguali e non appena vide (Ifigenia) triste, ritto in piedi davanti all'altare il padre e ( si accorse9 che per questo i sacerdoti nascondevano il ferro e alla sua vista i cittadini versavano lacrime, muta per la paura cadeva a terra piegandosi sulle ginocchia. Nè poteva giovare all'infelice in tale circostanza il fatto che per prima aveva chiamato il re con il nome di padre. Infatti sollevata da mani di uomini e tremante, fu condotta agli altari, non perchè portato a termine il rito solenne potesse esserwe accompagnata dal luminoso Imeneo, ma perchè impuramente pura nella stessa circostanza delle nozze cadesse come vittima triste per il sacrificio del padre affinchè alla flotta fosse permessa una partenza fortunata e felice. A tanti mali potè indurre la religione.

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LA NATURA MATRIGNA

(De Rerum Natura 5,195-234) Quod [si] iam rerum ignorem primordia quae sint, hoc tamen ex ipsis caeli rationibus ausim confirmare aliisque ex rebus reddere multis, nequaquam nobis divinitus esse paratam naturam rerum: tanta stat praedita culpa. principio quantum caeli tegit impetus ingens, inde avidam partem montes silvaeque ferarum possedere, tenent rupes vastaeque paludes et mare, quod late terrarum distinet oras. inde duas porro prope partis fervidus ardor adsiduusque geli casus mortalibus aufert. quod super est arvi, tamen id natura sua vi sentibus obducat, ni vis humana resistat vitai causa valido consueta bidenti ingemere et terram pressis proscindere aratris. si non fecundas vertentes vomere glebas terraique solum subigentes cimus ad ortus. sponte sua nequeant liquidas existere in auras. et tamen inter dum magno quaesita labore cum iam per terras frondent atque omnia florent, aut nimiis torret fervoribus aetherius sol aut subiti peremunt imbris gelidaeque pruinae flabraque ventorum violento turbine vexant. praeterea genus horriferum natura ferarum humanae genti infestum terraque marique cur alit atque auget? cur anni tempora morbos adportant? quare mors inmatura vagatur? tum porro puer, ut saevis proiectus ab undis navita, nudus humi iacet infans indigus omni vitali auxilio, cum primum in luminis oras nixibus ex alvo matris natura profudit, vagituque locum lugubri complet, ut aequumst cui tantum in vita restet transire malorum. at variae crescunt pecudes armenta feraeque nec crepitacillis opus est nec cuiquam adhibendast almae nutricis blanda atque infracta loquella nec varias quaerunt vestes pro tempore caeli, denique non armis opus est, non moenibus altis, qui sua tutentur, quando omnibus omnia large tellus ipsa parit naturaque daedala rerum.

http://www.progettovidio.it/forum2/read.asp?id=1527&topic=1524

Chè se pure io ignorassi quali siano i principi primi delle cose, tuttavia questo oserei affermare sulle base degli stessi ordinamenti del cielo e dimostrare in base a molti altri elementi, che per nulla la natura è stata creata per noi e per opera degli Dei: di tanta negligenza si erge contrassegnata. Prima di tutto, quanto l'ampia estensione del cielo copre, di questa, avidamente una parte l'hanno trattenuta i monti e le selve popolate di fiere, (una parte) la tengono le rupi e le vaste paludi e il mare che ampiamente separa le spiagge e le terre. Inoltre quasi due parti della terra, il caldo torrido e la caduta continua della neve strappa ai mortali. Ciò che rimane di area coltivabile, tuttavia questo la natura con la sua forza coprirebbe di sterpi se la forza dell'uomo non opponesse resistenza, abituata per sopravvivere a gemere sul robusto bidente e a fendere la terra con la pressione dell'aratro. Se non portiamo allo sviluppo (i frutti della terra) volgendo con l'aratro le fertili zolle e domando la superficie della terra, spontaneamente non potrebbero sorgere nell'aria limpida; e tuttavia talvolta (i prodotti) ottenuti con grande fatica quando già nei campi frondeggiano e sono tutti in fiore o il sole del cielo li brucia con l'eccessivo calore, o li distruggono le piogge improvvise e le gelide brine e li flagellano i soffi dei venti con violento turbine. Inoltre perché la natura alimenta e fa crescere in terra e in mare la stirpe terribile delle fiere ostili al genere umano? Perché le stagioni dell'anno portano malattie? Perché si aggira la morte prematura? Allora infine il fanciullo come un navigante, sbattuto dalle onde crudeli giace nudo (a terra), incapace di parlare, privo di ogni aiuto vitale, non appena la natura lo ha fatto venire al mondo con sforzi dal grembo della madre sulle spiagge della luce e riempie il luogo con il suo lugubre vagito com'è giusto per colui al quale nella vita tocca attraversare tanti mali. Al contrario di varie specie crescono gli animali e gli armenti e le fiere e non c'è bisogno di sonaglini né per alcuno bisogna ricorrere alla carezzevole e balbettante voce della nutrice benevola, né cercano vestiti di vario genere a seconda della stagione e infine non c'è bisogno di armi né di alte mura per proteggere le loro cose dal momento che per tutti la terra stessa e la natura artefice delle cose procura generosamente ogni cosa.

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LIMPIDI VERSI PER UNA MATERIA OSCURA

(De Rerum Natura 1,921-950) Nunc age, quod super est, cognosce et clarius audi. nec me animi fallit quam sint obscura; sed acri percussit thyrso laudis spes magna meum cor et simul incussit suavem mi in pectus amorem Musarum, quo nunc instinctus mente vigenti avia Pieridum peragro loca nullius ante trita solo. iuvat integros accedere fontis atque haurire iuvatque novos decerpere flores insignemque meo capiti petere inde coronam, unde prius nulli velarint tempora Musae; primum quod magnis doceo de rebus et artis religionum animum nodis exsolvere pergo, deinde quod obscura de re tam lucida pango carmina musaeo contingens cuncta lepore. id quoque enim non ab nulla ratione videtur; sed vel uti pueris absinthia taetra medentes cum dare conantur, prius oras pocula circum contingunt mellis dulci flavoque liquore, ut puerorum aetas inprovida ludificetur labrorum tenus, interea perpotet amarum absinthi laticem deceptaque non capiatur, sed potius tali facto recreata valescat, sic ego nunc, quoniam haec ratio plerumque videtur tristior esse quibus non est tractata, retroque volgus abhorret ab hac, volui tibi suaviloquenti carmine Pierio rationem exponere nostram et quasi musaeo dulci contingere melle, si tibi forte animum tali ratione tenere versibus in nostris possem, dum perspicis omnem naturam rerum, qua constet compta figura.

http://www.antiqvitas.it/doc/doc.lucr.4.htm

Ora dunque conosci ciò che resta e ascolta un canto più puro. Ne sfugge al mio animo quanto queste cose siano oscure; ma una grande speranza di gloria ha percosso il mio animo con il tirso (pianta sacra) pungente e nello stesso tempo ha infuso a me nel petto il dolce amore delle muse, dal quale ora, infiammato con mente vigile, percorro i luoghi inaccessibili delle Pieridi non calpestati dai piedi di nessuno prima. Piace accedere a fonti intatte e bere, piace raccogliere i fiori sconosciuti e di li ricavare una corona splendida per il mio capo della quale mai prima le muse abbiano velato le tempie; prima di tutto perché insegno cose grandi e mi sforzo di liberare l'animo dagli stretti nodi delle religioni, poi perché su un argomento così oscuro compongo versi tanto luminosi cospargendo tutto con il fascino della poesia. Anche questo infatti non sembra senza ragione; ma come quando i medici cercano di dare ai bambini l'amaro assenzio, cospargono prima i bordi del bicchiere con il dolce e biondo liquore del miele, affinché l'età incauta dei fanciulli sia ingannata fino alle labbra e intanto beva l'amaro succo dell'assenzio e pure ingannata non riceva inganno, ma piuttosto in questo modo ristorata guarisca; così ora io, poiché questa dottrina per lo più sembra essere troppo ostica a coloro dai quali non è praticata e il volgo rifugge lontano da essa, ho voluto per te (Memmio), nel dolce, nel dolce verso delle muse, esporre la nostra dottrina e, per così dire cospargerla con il dolce miele della poesia, se per caso potessi in questo modo trattenere il tuo animo nei miei versi, mentre tu conosci fino in fondo tutta la natura di quale struttura risulti composta.

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PUBLIO VIRGILIO MARONE

Virgilio non parlò molto di sé perché i generi letterari che praticò non erano adatti a farlo. Ciò che sappiamo di lui deriva per lo più da biografie d'epoca tarda: tra esse spicca una “Vita di Virgilio” del grammatico Elio Donato, a sua volta dipendente da una biografia di Svetonio andata perduta. Virgilio nacque nel 70 a.C. ad Andes, un villaggio vicino a Mantova; una tradizione vuole che il padre fosse un modesto vasaio poi divenuto ricco; nato in una famiglia agiata di proprietari terrieri che consentì a Virgilio di studiare prima a Cremona e poi di trasferirsi a Roma. Trascorse poi gran parte del suo tempo a Napoli, città di lingua e di cultura greca, da lui sempre amatissima, dove seguì le lezioni di filosofi epicurei. Sappiamo poco della sua biografia di questo periodo, che si concluse però con l'amaro episodio della confisca dei terreni di proprietà della sua famiglia. Grazie ad amici illustri e la protezione dello stesso Ottaviano, in un primo tempo Virgilio riuscì a salvare le terre di famiglia, che però perse definitivamente nell'inverno del 41 a.C. Le Bucoliche ebbero un certo successo e contribuirono a far conoscere Virgilio alla pubblica opinione. Immediata conseguenza fu il reclutamento da parte di Mecenate, che lo avvicinò ad Ottaviano e ne fece uno dei punti di forza del suo circolo. La vicinanza di Mecenate e il condizionamento di Ottaviano contribuirono nella composizione delle Georgiche, scritte tra il 38 e il 29 a.C., anni che Virgilio trascorse per lo più a Napoli. Trascorse gli anni successivi nella stesura dell'Eneide, poema epico fortemente voluto da Ottaviano; l'aspettativa del principe era altissima, ma anche la pubblica opinione romana attendeva con grande ansia il lavoro virgiliano, nella coscienza che potesse essere qualcosa di più grande dell'Iliade. Nel 19 a.C. Virgilio intraprese un viaggio in Grecia per conoscere direttamente i luoghi del poema. Questo viaggio fu però l'ultimo per il poeta; infatti dopo aver incontrato ad Atene l'imperatore Augusto, decise di tornare in patria con lui, ma durante una visita alla città di Megara fu colto da un malore; morì poco dopo il suo sbarco a Brindisi, il 21 settembre 19 a.C. L'auto-epitaffio che la tradizione gli attribuisce è: “Mantova mi ha generato, la Calabria mi ha rapito, ora mi tiene Napoli; ho cantato pascoli, campi coltivati, eroi”. L'Eneide pressoché finita ma non ancora rivista, venne pubblicata per volere di Augusto a cura dei poeti amici di Virgilio Vario Rufo e Plozio Tucca.

Bucoliche

Le Bucoliche segnano l'esordio poetico di Virgilio; si tratta di dieci componimenti in esametri di argomento pastorale scritti tra il 42 e il 39 a.C. Il termine bucolica deriva dal greco boukòlos (bovaro) e indica il tentativo di trasferire in ambito romano il genere della poesia bucolica ellenistica, in particolare l'esperienza poetica di Teocrito. Sono anche chiamate Eclogae in quanto significano poesia scelta. Con le Bucoliche l'aemulatio di Teocrito e la ripresa del suo genere letterario sono evidenti non solo nell'ispirazione generale, ma anche delle situazioni che rimandano a singoli idilli e nei nomi greci dei pastori. Il primo elemento di diversità di Virgilio nei confronti del suo modello è la resa del mondo campestre che è sfondo alle vicende dei suoi personaggi: la campagna di Virgilio è una campagna dai colori tenui, sfumati, ricca di nebbie e di ombre, paesaggio che ricorda molto la sua campagna italica mantovana. Non mancano riferimenti geografici all'Arcadia, che sarà poi considerata dalla letteratura d'ogni tempo come sede naturale della poesia pastorale. Dunque lo sfondo delle vicende non è più né siciliano, né mantovano, né arcade, ma una sintesi armoniosa di tutto ciò: è un luogo ideale, un paesaggio spirituale dove pastori e contadini venerano le divinità agresti ma anche Venere e Diana. Ad uno sfondo idealizzato non corrisponde un distacco dalle vicende dei suoi pastori e l'inserzione di elementi autobiografici contribuisce ad accentuare nel lettore questa sensazione. Virgilio non solo allude a esperienze soggettive quali la sottrazione delle terre, che si basano sul dramma delle guerre civili, ma fa comparire la menzione di importanti personaggi del tempo, come Ottaviano, l'amico poeta Cornelio Gallo e non manca un'allusione allegorica alla morte di Giulio Cesare. A temi come l'amore, il canto, la poesia, si affiancano tematiche non strettamente pertinenti alla tradizione, come la profezia di una nuova età dell'oro. Nonostante questa pluralità di temi, Virgilio tenta di dare all'insieme una struttura che rivela una complessa architettura d'insieme. Pochi testi hanno avuto successo come la IV ecloga: composta nel 40 a.C. durante il consolato di Asinio Pollione, in essa si profetizza la nascita di un puer che cambierà il corso della storia riportando l'età dell'oro; impossibile dire se il bambino sia il figlio di Pollione, di Ottaviano o di Antonio. Traspare da questi versi un speranza di pace e prosperità in Virgilio. Non è mancata nel medioevo un'interpretazione allegorica dell'ecloga, nella quale l'attesa venuta del puer veniva intesa come la profezia della nascita di Gesù Cristo, diffondendo l'immagine cristiana del poeta. Di grande complessità è l'ecloga X, nella quale si narra dell'amore infelice del poeta Cornelio Gallo per Licoride; all'amico addolorato Virgilio offre come rimedio dei mali la poesia bucolica.

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Georgiche

La seconda opera virgiliana, le Georgiche, è stata composta tra i 38 e il 29 a.C. Si tratta di un poema didascalico in esametri di 4 libri, dedicati all'agricoltura e all'allevamento. Nome derivato dal termine greco gheorgòs (contadino). Il poema è dedicato a Mecenate, amico e protettore di Virgilio; viene ricordato in tutti e quattro i libri, non solo come dedicatario ma anche come vero ispiratore dell'opera. Virgilio dovette ricevere da lui stimoli e sollecitazioni perché componesse qualcosa che convergesse con la politica di Ottaviano. Il lavoro nei campi, tanto più se accompagnato da una profonda religiosità pareva l'argomento giusto, in quanto agricoltura e allevamento evocavano quella pace e tranquillità che Ottaviano aveva promesso al mondo romano. Quest'opera non aveva come reale destinatario gli agricoltori e gli allevatori, ma si indirizzava a quel pubblico colto e raffinato verso cui si rivolgevano i poeti di Mecenate. La lunga gestazione del poema fa trasparire al suo interno quelle che non sono contraddizioni ma segni del dinamico adeguamento ad una realtà in continua e rapida evoluzione. Virgilio lesse per la prima volta ad Ottaviano l'opera nell'estate del 29 a.C.; vi è però una notizia secondo cui l'opera sarebbe stata terminata con un elogio all'amico Cornelio Gallo; questi, dopo essere divenuto prefetto dell'Egitto, si alienò le simpatie del princeps che lo spinse al suicidio. Questo fatto indusse Virgilio a sostituire l'elogio con un avvenimento di Aristeo e Orfeo. Virgilio allude nell'opera alla città di Ascra, dove nacque Esiodo inventore del genere didascalico. Autore della Teogonia (poema sull'origine del mondo e degli dèi) aveva assegnato al genere didascalico finalità di ordine etico; aveva inoltre inteso il suo ruolo di poeta come guida di una comunità a cui dovevano essere fornite nozioni di natura teologica. La poesia didascalica aveva avuto grande successo nell'età ellenistica. Virgilio si trovava nella condizione di effettuare una sintesi simile a quella lucreziana: serietà, tecnicismo, raffinatezza dovevano coesistere anche nella sua opera. Lucrezio viene così fatto oggetto di omaggi e di allusioni, ma è anche oggetto di richiami polemici che ribadiscono il diverso punto di vista dei due poeti. La prospettiva di Virgilio, meno cosmica e più quotidiana gli dà la possibilità di tenere insieme e armonizzare una materia tanto composita. Al centro del poema è il tema del lavoro, visto come mezzo necessario che gli uomini devono impiegare per vivere; qui il mondo agreste non è un rifugio spirituale ma è la sede concreta di realizzazione dell'uomo. Al centro della riflessione virgiliana c'è il pius colonus e la pietas di questo si concretizza nell'osservanza dei riti e dei sacrifici. Esempio di questa attenzione verso gli dèi è l'episodio dell'apicoltore Aristeo. I miti presenti in quest'opera devono essere letti in chiave allegorica: vera finalità è dunque ricordare come valori solidi quali il labor e la pietas superino l'amor.

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L'ESPROPRIO DEI CAMPI

(Bucoliche 1) Meliboeus Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi silvestrem tenui Musam meditaris avena; nos patriae finis et dulcia linquimus arva. nos patriam fugimus; tu, Tityre, lentus in umbra formosam resonare doces Amaryllida silvas. Tityrus O Meliboee, deus nobis haec otia fecit. namque erit ille mihi semper deus, illius aram saepe tener nostris ab ovilibus imbuet agnus. ille meas errare boves, ut cernis, et ipsum ludere quae vellem calamo permisit agresti. Meliboeus Non equidem invideo, miror magis; undique totis usque adeo turbatur agris. en ipse capellas protenus aeger ago; hanc etiam vix, Tityre, duco. hic inter densas corylos modo namque gemellos, spem gregis, a, silice in nuda conixa reliquit saepe malum hoc nobis, si mens non laeva fuisset, de caelo tactas memini praedicere quercus. sed tamen iste deus qui sit da, Tityre,nobis. Tityrus Urbem quam dicunt Romam, Meliboee, putavi stultus ego huic nostrae similem, cui saepe solemus pastores ovium teneros depellere fetus. sic canibus catulos similes, sic matribus haedos noram, sic parvis componere magna solebam. verum haec tantum alias inter caput extulit urbes quantum lenta solent inter viburna cupressi. Meliboeus Et quae tanta fuit Romam tibi causa videndi? Tityrus Libertas, quae sera tamen respexit inertem, candidior postquam tondenti barba cadebat, respexit tamen et longo post tempore venit, postquam nos Amaryllis habet, Galatea reliquit. namque - fatebor enim - dum me Galatea tenebat, nec spes libertatis erat nec cura peculi. quamvis multa meis exiret victima saeptis pinguis et ingratae premeretur caseus urbi, non umquam gravis aere domum mihi dextra redibat. Meliboeus Mirabar quid maesta deos, Amarylli, vocares, cui pendere sua patereris in arbore poma. Tityrus hinc aberat. ipsae te, Tityre, pinus, ipsi te fontes, ipsa haec arbusta vocabant. Tityrus Quid facerem? neque servitio me exire licebat nec tam praesentis alibi cognoscere divos. hic illum vidi iuvenem, Meliboee, quot annis bis senos cui nostra dies altaria fumant, hic mihi responsum primus dedit ille petenti: 'pascite ut ante boves, pueri, submittite tauros.'

Melibeo Titiro, tu sdraiato all'ombra di un faggio frondoso componi un canto silvestre con l'esile canna, noi lasciamo i territori della patria e i dolci campi, noi fuggiamo dalla patria, tu Titiro tranquillo all'ombra insegni alle selve a far risuonare il nome della bella Amorillide. Titiro O Melibeo, un dio ci ha procurato questa pace e infatti quello per me sarà sempre un dio; spesso un tenero agnello preso dai nostri ovili bagnerà di sangue il suo altare. Quello permise ai miei buoi di pascolare, come vedi e a me stesso di suonare ciò che volevo con l'agreste zampogna. Melibeo Non ti invidio in verità, piuttosto mi meraviglio, da ogni parte fino a questo punto c'è turbamento in tutte le campagne. Ecco io stesso spingo avanti a fatica le mie caprette; anche questa faticosamente conduco, o Titiro: qui tra i fitti noccioli poco fa infatti ha lasciato due gemelli, speranza del gregge, aimè, dopo averli partoriti sulla nuda roccia. Ricordo che spesso le querce colpite dal fulmine mi predicevano questa sciagura, se la mente non fosse stata stolta. Ma tuttavia o Titiro dimmi codesto dio chi sia. Titiro La città che chiamano Roma, o Melibeo, io stolto ritenni simile a questa nostra, dove spesso noi pastori siamo soliti spingere i piccoli delle pecore. Così io consideravo i cuccioli simili ai cani, così i capretti simili alle madri, così ero solito confrontare le cose grandi con le piccole. Ma questa ha innalzato tanto il suo capo sulle altre città quanto i cipressi sono soliti innalzarsi sui flessibili viburni. Melibeo E quale fu per te la ragione così grande di vedere Roma? Titiro La libertà che,seppur tardiva, tuttavia si volse a guardare me che me ne stavo inerte, dopo che la barba cadeva già bianca a me che mi radevo. Si volse a guardarmi tuttavia e venne dopo lungo tempo, dopo che mi ha Amorillide, Galatea mi ha lasciato. E infatti, lo devo ammettere, finche ero legato a Galatea, non c'era speranza di libertà ne cura per il bestiame. Benché molte vittime uscissero dai miei recinti e il grasso formaggio venisse premuto per l'ingrata città, la mia mano non tornava mai a casa pesante di denaro. Melibeo Mi domandavo con meraviglia perché, o Amarillide, invocassi triste gli dei, per chi lasciassi che i frutti pendessero sul loro albero. Titiro era lontano di qua. Gli stessi pini, o Titiro, le stesse fonti, questi stessi arbusti ti invocavano.

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Meliboeus Fortunate senex, ergo tua rura manebunt et tibi magna satis, quamvis lapis omnia nudus limosoque palus obducat pascua iunco. non insueta gravis temptabunt pabula fetas nec mala vicini pecoris contagia laedent. fortunate senex, hic inter flumina nota et fontis sacros frigus captabis opacum; hinc tibi, quae semper, vicino ab limite saepes Hyblaeis apibus florem depasta salicti saepe levi somnum suadebit inire susurro; hinc alta sub rupe canet frondator ad auras, nec tamen interea raucae, tua cura, palumbes nec gemere aeria cessabit turtur ab ulmo. Tityrus Ante leves ergo pascentur in aethere cervi et freta destituent nudos in litore pisces, ante pererratis amborum finibus exsul aut Ararim Parthus bibet aut Germania Tigrim, quam nostro illius labatur pectore vultus. Meliboeus At nos hinc alii sitientis ibimus Afros, pars Scythiam et rapidum cretae veniemus Oaxen et penitus toto divisos orbe Britannos. en umquam patrios longo post tempore finis pauperis et tuguri congestum caespite culmen, post aliquot, mea regna, videns mirabor aristas? impius haec tam culta novalia miles habebit, barbarus has segetes. en quo discordia civis produxit miseros; his nos consevimus agros! insere nunc, Meliboee, piros, pone ordine vites. ite meae, felix quondam pecus, ite capellae. non ego vos posthac viridi proiectus in antro dumosa pendere procul de rupe videbo; carmina nulla canam; non me pascente, capellae, florentem cytisum et salices carpetis amaras. Tityrus Hic tamen hanc mecum poteras requiescere noctem fronde super viridi. sunt nobis mitia poma, castaneae molles et pressi copia lactis, et iam summa procul villarum culmina fumant maioresque cadunt altis de montibus umbrae.

http://digilander.libero.it/uraniaceleste/Virgilio%20I.htm

Titiro Che cosa avrei dovuto fare? Non mi era lecito uscire dalla condizione di schiavitù né altrove avrei potuto conoscere dèi tanto benevoli. Qui io vidi quel giovane, o Melibeo per il quale dodici giorni all'anno i nostri altari fumano. Qui quello per primo diede responso a me che lo chiedevo: "Pascolate come prima i buoi, garzoni, soggiogate i tori". Melibeo O fortunato vecchio, dunque questi campi rimarranno tuoi e per te grandi abbastanza, benché la nuda pietra e la palude con il suo giunco limaccioso ricoprano tutti i pascoli. Pascoli inconsueti non metteranno alla prova la pecore gravide né le epidemie del bestiame vicino le contageranno. O fortunato vecchio, qui tra fiumi noti e fonti sacre prenderai il fresco all'ombra, da qui dal vicino confine la siepe di sempre succhiata nel suo fiore di salice dalle api iblee spesso ti inviterà a prendere sonno con il suo leggero sussurro; di qui sotto l'alta rupe il potatore canterà al vento, né tuttavia intanto le rauche colombe, tua cura, cesseranno di gemere né la tortora cesserà di tubare sull'alto olmo. Titiro Pascoleranno leggeri nell'aria i cervi e le onde abbandoneranno sul litorale nudi i pesci, l'esule Parto berrà l'acqua dal fiume Arar o l'esile Germanico berrà l'acqua del fiume Tigri dopo aver percorso errando l'uno i territori dell'altro prima che il suo volto si cancelli dal mio cuore. Melibeo Noi invece di qui andremo alcuni presso gli Afri assetati, altri in Scizia e presso il fiume Oasse che trascuina Creta nei suoi vortici e presso i Britanni profondamente lontani da tutto il mondo. Ecco potrò mai dopo lungo tempo contemplare stupito i terreni paterni e il tetto del povero tugurio coperto di zolle, che sono i miei regni, vedendoli dietro ad alcune spighe? Un empio soldato avrà questi campi così ben coltivati? Un barbaro queste messi? Ecco dove la discordia ha portato i poveri cittadini; per questi noi abbiamo seminato i campi. Innesta ora, Melibeo, i peri, disponi le viti in filari, andate mie caprette un tempo felice gregge, non vi vedrò più d'ora in poi, sdraiato in una verde spelonca pendere da lontano da una rupe cespugliosa; non canterò più nessun carme. O caprette, sotto la mia guida come pastore non brucherete più il citiso in fiore e i salici amari. Titiro Tuttavia avresti potuto con me riposare qui, questa notte, sopra un giaciglio di foglie: abbiamo frutti maturi, molli castagne e abbondanza di formaggio e già da lontano i tetti dei casolari fumano e più lunghe scendono dai monti alti le ombre.

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ORFEO ED EURIDICE

(Georgiche 4,453-506) Iamque pedem referens casus evaserat omnis, redditaque Eurydice superas veniebat ad auras pone sequens (namque hanc dederat Proserpina legem), cum subita incautum dementia cepit amantem, ignoscenda quidem, scirent si ignoscere Manes: restitit, Eurydicenque suam iam luce sub ipsa immemor heu! Victusque animi respexit. Ibi omnis effusus labor atque immitis rupta tyranni foedera, terque fragor stagnis auditus Avernis. Illa “quis et me” inquit “miseram et te perdidit, Orpheu, quis tantus furor? En iterum crudelia retro fata vocant, conditque natantia lumina somnus. Iamque vale: feror ingenti circumdata nocte inualidasque tibi tendens, heu non tua, palmas.” Dixit et ex oculis subito, ceu fumus in auras commixtus tenuis, fugit diversa, neque illum prensantem nequiquam umbras et multa volentem dicere praeterea vidit; nec portitor Orci amplius obiectam passus transire paludem. Quid faceret? quo se rapta bis coniuge ferret? Quo fletu Manis, quae numina voce moveret? Illa quidem Stygia nabat iam frigida cumba.

http://www2.classics.unibo.it/Didattica/LatBC/VergGeorg4.pdf

E ormai riportando indietro il passo aveva superato tutti i pericoli ed Euridice restituita saliva verso la luce seguendolo alle spalle (e infatti Proserpina aveva imposto questa legge) quando un'improvvisa follia prese l'incauto amante, da perdonarsi in verità, se i Mani sapessero perdonare: si fermò immemore aimè e vinto nell'animo si voltò a guardare la sua Euridice ormai sotto la luce. A questo punto ogni fatica andò perduta e furono rotti i patti del crudele tiranno e tre volte si sentì un fragore nelle acque infernali. Quella disse: "Quale, quale grande follia ha condotto in rovina sia me infelice sia te Orfeo? Ecco di nuovo i crudeli fati mi chiamano indietro e il sonno avvolge gli occhi smarriti. E ormai addio, vengo trascinata via circondata dalla notte eterna mentre tendo verso di te le mani prive di forza, aimè non più tua". Disse e subito si allontanò dallo sguardo come fumo che si dissolve nell'aria leggera allontanandosi in direzione opposta e non vide più quello che cercava di afferrare invano l'ombra e che voleva dire ancora molte cose. Che cosa avrebbe dovuto fare? Dove si sarebbe dovuto recare dopo aver perso per due volte la sposa? Con quale pianto avrebbe scosso i Mani, quali dèi (avrebbe pregato) con la voce? Quella in verità si allontanava orami fredda sulla barca dello Stige.

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Le traduzioni e i riassunti dei vari autori sono il frutto degli appunti presi in classe durante le lezioni, mentre i testi in latino sono stati presi da internet. Sperando possano essere di aiuto.