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1 PAOLO SPINICCI LEZIONI SULLE PROPRIETÀ ESPRESSIVE Università degli Studi di Milano, Corso di filosofia teoretica I, Laurea Magistrale, anno accademico 2013-2014 AVVERTENZA. Questa è la prima versione di queste lezioni. Contiene certamente refusi ed è in più punti lacunosa e inesatta. La rendo disponibile in rete da oggi per coloro che debbono sostenere l’esame nel primo appello di giugno. Una seconda versione corretta e, spero, migliorata sarà disponibile a partire dal 15 giugno.

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PAOLO SPINICCI

LEZIONI SULLE PROPRIETÀ ESPRESSIVE

Università degli Studi di Milano, Corso di filosofia teoretica I, Laurea Magistrale, anno accademico 2013-2014 AVVERTENZA. Questa è la prima versione di queste lezioni. Contiene certamente refusi ed è in più punti lacunosa e inesatta. La rendo disponibile in rete da oggi per coloro che debbono sostenere l’esame nel primo appello di giugno. Una seconda versione corretta e, spero, migliorata sarà disponibile a partire dal 15 giugno.

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Sommario Lezione prima ................................................................................................................... 5 

Considerazioni introduttive ........................................................................................... 5 

Seconda lezione ................................................................................................................. 6 

1. Uno sguardo all’indietro ........................................................................................... 6 

2. Un giudizio senza concetti ...................................................................................... 13 

Lezione terza ................................................................................................................... 16 

1. Un compiacimento disinteressato ed un giudizio universale .................................. 16 

2. La conformità a scopi senza scopi e la necessità del giudizio di gusto ................... 20 

Lezione quarta ................................................................................................................. 26 

1. Considerazioni critiche ........................................................................................... 26 

2. Quello che ci aspetta ............................................................................................... 30 

Lezione quinta ................................................................................................................. 33 

1. Le teorie causalistiche ............................................................................................. 33 

2. Considerazioni critiche ........................................................................................... 38 

Lezione sesta ................................................................................................................... 41 

1. Le teorie proiettive: un nesso associativo? .............................................................. 41 

2. Meditazioni sulla colonna: Theodor Lipps e la teoria dell’empatia ........................ 48 

Lezione settima ............................................................................................................... 61 

1. Una teoria della corrispondenza .............................................................................. 61 

2. Considerazioni critiche ........................................................................................... 66 

Lezione ottava ................................................................................................................. 72 

1. Uno sguardo all’indietro ......................................................................................... 72 

2. Peter Kivy e la teoria del contorno .......................................................................... 76 

Lezione nona ................................................................................................................... 82 

1. La teoria del profilo: considerazioni critiche .......................................................... 82 

Lezione decima ............................................................................................................... 89 

1. La scatola nera ........................................................................................................ 89 

2. Un ricordo kantiano: cose di cui non si può disputare, ma si può discutere ........... 91 

Lezione undicesima ......................................................................................................... 99 

1. Il carattere fenomenico delle proprietà espressive .................................................. 99 

2. Le proprietà espressive senza espressione sono proprietà intuitive ...................... 102 

Lezione dodicesima ....................................................................................................... 109 

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1. Esperienze contestuali e a-contestuali ................................................................... 109 

2. Un accenno ad un insieme di problemi assai vasto ............................................... 112 

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LEZIONE PRIMA

Considerazioni introduttive

1. Il tema delle proprietà espressive. 2. Le proprietà espressive e la loro connessione con il mondo della soggettività. 3. Le proprietà espressive come determinazioni del compor-tamento che – a sua volta – ci riconduce alla dimensione della soggettività. 4. Accadi-menti, azioni, comportamenti. 5. Una voce fuori dal coro: parliamo di colori lugubri e vivaci, di melodie allegre e tristi, della malinconia del crepuscolo e della dolcezza di una serata estiva. 6. L’elefante e il topolino: un mare di teorie per un problema marginale. 7. Esistono problemi marginali in filosofia? 8. Il nostro primo compito: cercare di riacquisire il respiro ampio dei problemi. 9. Uno sguardo indietro: la Critica della facoltà del giudizio di Kant.

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SECONDA LEZIONE

1. Uno sguardo all’indietro

Nelle nostre considerazioni introduttive abbiamo cercato di chiarire quale fosse la natura del nostro problema e ora dobbiamo cercare invece di raccogliere qualche considerazione per capire quale sia il luogo che lo ospita. Anche i problemi hanno un luogo che rende più o meno urgente la loro natura, perché definisce le circostanze nelle quali ci imbattiamo in essi. Ora, il problema delle proprietà espressive che non esprimono un vissuto effettivo ha un suo luogo particolare: vi penetriamo quando ci ricordiamo che la nostra vita è per-vasa dalla presenza percettiva di un’espressività diffusa che si radica nelle cose e che ce le fa apparire come un teatro singolarmente adatto al nostro vivere. Una giornata ci sem-bra uggiosa, le sere d’estate accoglienti e serene, la luce del crepuscolo malinconica, ed anche se nel dir così non pretendiamo di asserire che vi sia nel mondo che ci circonda una trama emotiva ed affettiva, non per questo saremmo disposti a mutare il nostro vocabola-rio. Non è solo una questione di parole; non abbiamo a che fare soltanto con metafore che impieghiamo per abbellire i nostri discorsi, ma con una dimensione della nostra esperienza cui non sappiamo rinunciare: non ci sembra possibile fare a meno della scenografia con-sueta che fa da sfondo alla nostra vita e che fa sì che il mondo che la ospita ci appaia come il nostro mondo. Sappiamo bene che la natura è soltanto natura, che suoni e colori sono soltanto suoni e colori, ed in un certo senso questo sapere fa parte della dimensione feno-menologica della nostra esperienza e non poggia su atteggiamenti culturali o filosofici presupposti. Su questo punto dovremo in seguito soffermarci, e tuttavia non possiamo fare a meno di cogliere che di questo sapere e del suo effettivo radicarsi nella dimensione fenomenologica della nostra esperienza non possiamo avvalerci per cancellare la sensa-zione che tutto questo gioco di espressività appartenga indissolubilmente allo scenario della nostra vita, quasi si trattasse di un’illusione di cui non sappiamo e forse non pos-siamo liberarci.

Un’illusione cui non credere, ma di cui è impossibile liberarsi – sono queste, per Kant, le parole che ci aiutano a comprendere la natura della metafisica e questa piccola coinci-denza ci chiama ad una digressione inattesa da cui forse possiamo imparare qualcosa. La metafisica, per Kant, è un’illusione o, come si legge in una sua piccola opera tante volte citata, un sogno ad occhi aperti ed un errore da cui emendarsi e tuttavia di quest’illusione non possiamo semplicemente sbarazzarci, così come ci si libera da un abbaglio quando ci si rende conto di esservi caduti perché alla sua origine vi è, per Kant, una verità certa, inscritta nelle profondità del nostro animo: non possiamo tracciare il disegno di un mondo razionale che risponda alle nostre esigenze intellettuali e spirituali, ma dobbiamo egual-mente riconoscere che vi è una dimensione del sovrasensibile, e che questa dimensione – che si fa avanti nella sfera dei concetti puri della ragione e dell’intelletto – è implicata tanto della possibilità della nostra conoscenza della natura, quanto dalla rete di concetti su cui poggia la dimensione morale cui la nostra esistenza è comunque vincolata.

Su questo punto, per Kant, non è lecito dubitare e la prospettiva del razionalismo filo-sofico che ci ripete che vi sono forme a priori dell’intelletto e della ragione non può essere dimenticata. Tutt’altro: occorre riconoscere che ragione e intelletto sono il titolo generale cui ricondurre un insieme di nozioni pure e a priori su cui poggia la possibilità della co-noscenza e della morale. I concetti a priori dell’intelletto circoscrivono l’idea puramente formale di natura e ci consentono di pensare nella massima astrattezza e purezza il disegno di un sistema coerente di oggetti, le cui relazioni sono interamente determinate da rapporti necessari di natura causale. Pensare, tuttavia, non significa conoscere, e l’idea vuota della

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natura come universo della causalità non ha in sé un valore conoscitivo se non diventa la forma astratta entro cui organizzare il materiale fenomenico. La metafisica razionalistica che pretende che i concetti puri dell’intelletto ci consentano di andare al di là della scorza dei fenomeni per conoscere un universo puramente razionale non può, in questo caso, insegnarci nulla poiché non comprende che nel loro uso conoscitivo i concetti non sono nomi che denotino oggetti di un mondo in sé sussistente e sito al di sotto della superficie dei fenomeni, ma forme che organizzano i dati fenomenici della nostra esperienza, fun-zioni che proiettano un insieme di regole sulle nostre sensazioni, attribuendo così un si-gnificato obiettivo a ciò che esperiamo.

Ai concetti puri dell’intelletto fanno eco le massime della ragione – ed anche in questo caso il filosofo razionalista da un lato ha ragione perché individua nel sistema a priori della razionalità il fondamento della morale, dall’altra ha torto perché ritiene possibile che questi stessi concetti disegnino l’immagine di un mondo conoscibile e insieme conforme ad una regola della ragione, ad una interna compiuta e razionale sensatezza. Di qui la necessità di distinguere anche in questo caso, il fondamento sensato della metafisica dalle sue pretese infondate: la ragione ci conduce sul terreno del sovrasensibile e ci costringe a rapportare le nostre azioni ad un fondamento che va al di là dei fenomeni – questo per Kant è certo perché il dovere morale non può essere ricavato empiricamente dagli eventi che accadono e che non possono prescriverci nulla, ma ciò non toglie che il suo disporci sul terreno di un ordine puramente razionale – l’ordine noumenico della libertà e della moralità – debba essere in qualche modo pagato, rinunciando ad attribuire un qualsiasi significato conoscitivo alla legislazione razionale. La ragione ha leggi e concetti a priori, ma le sue regole non possono in linea di principio trovare un qualsiasi riempimento nell’intuizione e ciò è quanto dire che non possono parlarci di oggetti.

Di questa distinzione profonda che separa la legislazione dell’intelletto da quella della ragione si deve, per Kant, sottolineare innanzitutto la rilevanza dal punto di vista teorico: solo perché ragione e intelletto dispongono le loro regole su piani differenti è possibile poi che di uno stesso accadimento – il mio agire in un certo modo – si possa discorrere ora rilevandone la rispondenza ad un ordine naturale di cause e di effetti, ora la pertinenza etica – il suo essere un’azione che dipende dalla nostra libera volontà e che può essere proprio per questo valutata in ragione di un codice etico. Intelletto e ragione esercitano dunque la loro legislazione su uno stesso ambito – i fenomeni – ma in forme profonda-mente differenti:

La legislazione mediante concetti della natura avviene mediante l’intelletto, ed è teo-retica. La legislazione mediante il concetto della libertà avviene mediante la ragione, ed è soltanto pratica […]. Intelletto e ragione hanno quindi due legislazioni diverse in un unico e medesimo territorio dell’esperienza, senza che l’una pregiudichi l’altra. Ché il concetto della natura ha tanto poca influenza sulla legislazione dovuta al con-cetto della libertà, quanto poco quest’ultimo disturba la legislazione della natura. La Critica della ragione pura ha dimostrato la possibilità di pensare almeno senza con-traddizione la coesistenza di entrambe le legislazioni e delle facoltà ad esse pertinenti nel medesimo soggetto, avendo demolito le obiezioni avverse con il rivelare in esse la parvenza dialettica. (I. Kant, Critica della facoltà del giudizio, a cura di E. Garroni e H. Hohenegger, Einaudi, Torino, 2011, pp. 10-11)

Riconoscere che da questa distinzione dipende la comprensibilità della relazione tra na-tura e libertà non significa, tuttavia, rinunciare alla prospettiva dell’unità. Ancora una volta, sono le esigenze della metafisica a farsi avanti: per la metafisica del razionalismo il cosmo non può essere pensato soltanto alla luce del concetto di natura, e cioè come una connessione sistematica di cause e di effetti, ma deve essere anche compreso come l’eco

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di un progetto razionale e ricco di senso. Il mondo deve essere un mondo per noi – deve essere comprensibile e sensato e deve lasciar intravedere un disegno razionale, che ci con-senta di intenderlo alla luce delle nostre esigenze morali e intellettuali. In una parola: ciò che la metafisica del razionalismo pretende è l’idea di un mondo in cui natura e libertà si fondano in un’unica trama, restituendo così alla nostra vita un terreno in cui dispiegarsi.

Nel linguaggio kantiano, questa pretesa si esprime nella tesi dell’unità del sovrasensibile – ma si tratta di un’unità che necessariamente ci sfugge e che non può essere conosciuta; il territorio del sovrasensibile ci appare così come una realtà pratica che non possiamo tuttavia penetrare teoreticamente. C’è nell’agire morale, ma non si lascia intuire e c’è nel conoscere, ma solo come funzione di ordinamento dei fenomeni. Natura e libertà sono dunque domini toto coelo distinti:

Ma che questi due diversi domini, che continuamente si limitano non, certo, nelle loro legislazioni, ma nei loro effetti nel mondo sensibile, non ne costituiscano uno solo, dipende dal fatto che il concetto della natura può, sì, rendere rappresentabili i suoi oggetti nell’intuizione, non però come cose in se stesse, ma come semplici fe-nomeni, mentre al contrario il concetto della libertà può, sì, rendere rappresentabile nel suo oggetto una cosa in sé, ma non nell’intuizione, e di conseguenza nessuno dei due può fornire una conoscenza teoretica del proprio oggetto (e perfino del soggetto pensante) come cosa in sé, ciò che sarebbe il soprasensibile, la cui idea si deve, sì, porre alla base della possibilità di tutti quegli oggetti dell’esperienza, ma senza che essa possa mai essere elevata ed estesa fino a farne una conoscenza (ivi, p. 11).

La filosofia deve prendere atto di questo abisso, e deve riconoscere che non si può sensa-tamente sperare di afferrare teoreticamente la dimensione del soprasensibile. L’abisso c’è, e non può essere tolto – su questo punto Kant non ha dubbi, e tuttavia riconoscere che non è possibile una comprensione metafisica dell’unità del sovrasensibile non significa ancora rinunciare all’esigenza che, sia pure in una forma distorta, si esprime nelle pretese meta-fisiche. Quest’esigenza è legittima ed è alla radice della possibilità della morale, poiché ogni agire pratico è pur sempre calato nella realtà fenomenica. Agire moralmente significa orientare le proprie azioni verso la realizzazione di scopi: ne segue che deve essere possi-bile un modo di pensare al (anche se non di conoscere il) mondo della nostra esperienza come ad un terreno che possa essere conforme ai nostri fini e che possa ospitarli. Un modo di pensare – questo è il punto:

Ora, sebbene ci sia, ben fermo, un immenso abisso tra il dominio del concetto della natura, il sensibile, e il dominio del concetto della libertà, il soprasensibile, tale che non è possibile al passaggio dall’uno all’altro (vale a dire, mediante l’uso teoretico della ragione), proprio come se fossero mondi tanto diversi, di cui il primo non può avere alcuna influenza sul secondo, questo tuttavia deve avere un’influenza su quello, cioè il concetto della libertà deve realizzare nel mondo sensibile lo scopo assegnato dalle sue leggi, e di conseguenza la natura deve poter essere pensata anche in modo che la conformità a leggi della sua forma si accordi almeno con la possibilità degli scopi da realizzare in essa secondo leggi della libertà. Ma allora deve esserci un fondamento dell’unità del soprasensibile che sta a fondamento della natura con quello che il concetto della libertà contiene praticamente, e il cui concetto, se pure non giunge né teoreticamente né praticamente a una sua conoscenza, e perciò non ha alcun dominio proprio, rende tuttavia possibile il passaggio dal modo di pensare secondo principi della natura al modo di pensare secondo principi della libertà (ivi, pp. 11-12).

È di qui che la Critica della facoltà del giudizio prende le mosse. Kant non cerca un prin-cipio che ci consenta di unire natura e libertà sul piano obiettivo perché un simile principio

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non può darsi, ma ritiene che sia possibile pensare la loro relazione in una forma che sia consona alla nostra vita e che insieme ci consenta di supporre (anche se non di affermare) che la natura sia attraversata da una legalità che non si esaurisce nell’orizzonte delle cause. Ciò che sul terreno obiettivo non può realizzarsi, deve valere insomma soggettivamente come un’ipotesi inverificabile, come una prospettiva teorica che allude ad un compito che non può essere realizzato, ma che ci è comunque utile per poter vivere e agire come sog-getti morali.

Ora, per venire a capo di questo modo di pensare Kant segue un cammino che non deve stupirci. Se deve sussistere una relazione tra natura e libertà, allora è necessario supporre che vi sia un termine medio tra intelletto e ragione. Questo termine medio per Kant c’è, ed è la facoltà del giudizio poiché ad essa spetta in generale il compito di trovare una relazione tra il particolare e l’universale.

Ora, in questo suo istituire una relazione tra termini, il giudizio può assumere due di-verse forme, a seconda che ad essere dato sia l’universale o l’individuale, il predicato o il soggetto. Nel primo caso, il giudizio può dirsi determinante: la sua funzione consiste in-fatti nel muovere dall’universale per farne la regola che deve consentirci di determinare l’individuale e di pensarlo alla luce del concetto come se fosse una sua possibile esempli-ficazione. Non vi è dubbio che in questo suo procedere dal concetto all’esperienza, il giu-dizio ci riproponga la via che scandisce la Critica della Ragion pura, e che così stiano le cose lo si legge con chiarezza quando Kant osserva che la facoltà del giudizio stabilisce a priori le condizioni secondo le quali soltanto l’individuale può essere sussunto sotto quell’universale.

Quali siano le condizioni cui Kant allude è presto detto: si tratta del problema che Kant discute sotto il titolo generale dello schematismo, poiché il compito dello schematismo trascendentale consiste propriamente nell’indicare quali siano le condizioni di applicabi-lità di ogni singola categoria all’esperienza e quindi anche i requisiti che ogni singola datità fenomenica deve soddisfare per poter essere pensata secondo un determinato schema categoriale. Le categorie devono potersi applicare all’esperienza e lo schematismo è il luogo in cui debbono poter essere indicate le condizioni che il pensiero detta all’intui-zione per rendere possibile l’applicazione del concetto stesso.

È possibile tuttavia che la facoltà del giudicare debba procedere nel verso opposto: può darsi infatti che alla via dall’alto verso il basso che caratterizza la procedura dello sche-matismo si sostituisca la via che dal basso risale verso l’alto, in una sorta di schematismo rovesciato. In questo caso non si prendono le mosse dal concetto per determinare il parti-colare, ma al contrario si muove dall’individuale per cercare di trovare il concetto che lo determina. Parleremo, in questo secondo caso, di giudizio riflettente. Un punto deve es-sere subito sottolineato: per Kant, sostenere che il giudizio riflettente muove dall’indivi-duale per cercare di cogliere l’universale che lo spiega non significa affatto rinunciare alla tesi secondo la quale la facoltà del giudizio ha una sua dimensione trascendentale e a priori. Anche in questo suo procedere dall’individuale all’universale il giudizio non pro-cede infatti alla cieca, ma si lascia guidare da un’ipotesi che non chiede di essere verificata poiché è la condizione di possibilità – sia pure soltanto soggettiva –della prassi del giudi-zio: l’ipotesi che nella loro molteplicità i dati debbano tuttavia convergere verso un’unità che li spiega. Che cosa Kant intenda dire è presto detto: quando riflettiamo su ciò che è individuale per giungere all’universale dobbiamo fare affidamento sul fatto che sia lecito pensare ciò che è individualmente dato come se fosse ordinabile secondo un concetto – come se, in altri termini, si potesse pensare all’individuale come se fosse il frutto di un disegno razionale, come se si trattasse di qualcosa che ha in sé il principio della sua com-prensibilità. Si tratta ben inteso solo di un’ipotesi: in questo il giudizio riflettente non fa

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che avanzare una regola che deve guidare la sua prassi, ma che non può pretendere di determinare di per sé i fenomeni. In questo senso il giudizio riflettente è appunto sogget-tivo: avanza una regola a priori del suo operare, ma la rivolge a se stessa e non all’oggetto su cui verte.

Per venire a capo di queste considerazioni Kant si avvale di un concetto che merita di essere qui introdotto: il concetto di scopo. Kant ritiene che si possa parlare di scopo quando il concetto che definisce un determinato oggetto racchiude in sé le ragioni della realtà dell’oggetto stesso. Se qualcosa è uno scopo, il concetto che lo definisce coincide insomma con il progetto che ci consente di realizzarlo. Ne segue che se qualcosa è con-forme ad uno scopo determinato, allora ha una forma che sembra possibile comprendere solo mettendola in relazione ad un artefice che l’abbia appunto realizzata in vista del fine cui quell’oggetto rimanda. Un coltello può essere compreso nella sua forma soltanto in relazione allo scopo rispetto al quale la sua forma lo rende conforme: un coltello serve per tagliare e questo sua funzione rende da un lato comprensibile la sua forma, dall’altro ci invita a pensarlo come un oggetto il cui scopo racchiude in sé il progetto cui si deve la sua realizzazione.

Si tratta di una constatazione relativamente ovvia che tuttavia racchiude uno sviluppo importante in cui ci imbattiamo non appena pensiamo che la natura è sì determinata nella sua mera forma dalle categorie, ma ci si dà nell’esperienza come un insieme di leggi che chiedono di essere ulteriormente strutturate e comprese. Farlo significa lasciarsi guidare da un molteplicità di criteri di carattere generale che debbono poter guidare la nostra prassi conoscitiva e orientarla alla luce di un’ipotesi: dobbiamo pensare la natura come se fosse conforme allo scopo della sua conoscibilità, come se – per dirla con Kant – «un intelletto contenesse il fondamento dell’unità del molteplice delle sue leggi empiriche» (ivi, p. 16).

Su questo punto è forse opportuno indugiare un poco e per farlo Kant ci invita nell’in-troduzione alla Critica della facoltà del giudizio a percorrere alcune rapidissime conside-razioni di ordine epistemologico. Kant muove innanzitutto da una constatazione che ci riconduce all’orizzonte teorico della prima Critica: l’intelletto racchiude in sé un insieme di funzioni trascendentali, di concetti a priori che da un lato debbono trovare nell’intui-zione sensibile un contenuto, dall’altro circoscrivono l’idea astratta e formale di natura – l’idea di un sistema di sostanze, di accadimenti e di eventi causalmente determinati. Pos-siamo anche pensare questa astratta forma concettuale nel suo rapporto di determinazione delle forme dell’intuizione e avremo in questo caso una natura pensata temporalmente e spazialmente, un sistema causale di fenomeni, per loro natura matematizzabili, ma non avremo ancora questa nostra natura che è determinata da questi fenomeni e delle loro effettive relazioni. Il sistema delle categorie dell’intelletto e delle forme dell’intuizione traccia, per così dire, la grammatica di una scienza della natura, ma non dice ancora (né può concretamente anticipare) come si configuri una scienza empiricamente data cui spetta il compito non di descrivere l’idea stratta e formale di natura, ma questa nostra natura fattuale. Il nesso categoriale ci vincola ad una comprensione di natura causale, ma non può concretamente anticipare come la relazione causale debba configurarsi e come possano connettersi in un tutto strutturato le leggi naturali cui perveniamo concretamente. Ogni ulteriore determinazione deve apparirci quindi come contingente, così come contin-gente sembra essere anche la possibilità effettiva di una loro armonica connessione nel tutto della natura – in fondo che cosa ci garantisce che le leggi empiriche, che sono in sé contingenti, debbano connettersi in un sistema di conoscenze organiche? L’idea formale di natura è necessaria, ma la molteplicità delle leggi empiriche è contingente, ma appunto questo è il problema: ciò che è per noi contingente non lo è necessariamente e questo ci

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invita in generale a prendere in considerazione la possibilità che possa esserci una neces-sità dietro la contingenza delle leggi empiriche e che la loro unità non sia soltanto un caso, ma che l’una e l’altra debbano essere parte dell’ipotesi che ci guida nelle nostre analisi. Quale sia il contenuto di quest’ipotesi dovrebbe esserci ormai chiaro: il pensiero che deve orientare le nostre analisi è il principio trascendentale del giudizio riflettente, il suo invi-tarci a pensare sia pure solo soggettivamente che la natura sia conforme a scopi e che, proprio per questo, possa essere pensata come se fosse conforme ad un ordine che la rende dispiegabile conoscitivamente e che ci sostiene nella nostra capacità di conoscere. Scrive Kant:

poiché le leggi universali della natura hanno il loro fondamento nel nostro intelletto, che le prescrive alla natura (sebbene solo secondo il concetto universale di essa in quanto natura), le particolari leggi empiriche, rispetto a ciò che vi è lasciato indeter-minato da quelle, debbono essere considerate secondo un’unità tale, come se, anche qui, l’avesse data a vantaggio della nostra facoltà conoscitiva un intelletto (sebbene non il nostro), per rendere possibile un sistema dell’esperienza secondo leggi parti-colari della natura. Non: come se in questo modo un tale intelletto dovesse essere ammesso effettivamente (poiché è solo alla facoltà riflettente di giudizio che questa idea serve come principio, per il riflettere, non per il determinare); con ciò piuttosto questa facoltà dà solo a se stessa una legge e non alla natura (ivi, p. 16).

Di qui la possibilità di restituire un significato alle massime della metafisica che ci assi-curano che la natura non fa salti, che prende il cammino più breve, che gli enti non deb-bono essere moltiplicati o che la specie si incardina sempre in un genere superiore. Di queste regole non possiamo avvalerci come se si trattasse di principi di natura psicologica che ci parlano della nostra natura fattuale; ma non possiamo nemmeno credere che si tratti di proposizioni che davvero descrivono la forma della natura: nulla parla in loro favore e nulla ci garantisce che le cose debbano stare così. La contingenza obiettiva di questi prin-cipi, tuttavia, non esclude la loro necessità trascendentale: non abbiamo a che fare con proposizioni che descrivono la natura o che le impongono una norma che la determini nella sua forma obiettiva, ma con massime trascendentali del giudizio, con ipotesi che sorreggono la ricerca e la indirizzano verso ciò che è richiesto comunque da una nostra esigenza di razionalità.

Ciò che è conforme a scopi risponde in generale a un’esigenza, e che vi sia un’esigenza di razionalità lo si comprende – per Kant – non appena riflettiamo sulla differenza che contraddistingue l’applicarsi delle categorie all’esperienza dalla funzione che compete alle regole del giudizio riflettente. L’applicazione delle categorie al materiale sensibile è semplicemente necessario. Non possiamo pensare la natura se non in virtù delle forme categoriali che l’intelletto le prescrive perché senza tali forme l’esperienza non avrebbe un significato obiettivo e non parlerebbe di un mondo. Ma ciò è quanto dire che nell’ap-plicazione delle categorie all’esperienza l’intelletto non soddisfa un suo bisogno, poiché di un’esigenza si può parlare solo se è possibile che le cose stiano altrimenti, ed un’espe-rienza che non obbedisca alle regole categoriali non è nemmeno pensabile. Diversamente stanno le cose quando ci disponiamo sul piano del giudizio riflettente. Il giudizio riflet-tente su muove sul piano della contingenza poiché ci spinge a cercare un ordine inatteso nella natura e ci costringe a sperare che sia possibile (anche non necessario) che vi sia un’unica legalità che attraversi e ordini la molteplicità varia delle regolarità empiriche. Qui ha senso parlare di un bisogno razionale proprio perché vi è la consapevolezza che non è necessario che così stiano le cose e che l’ordine cui aspiriamo potrebbe non essere di fatto raggiungibile:

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Tale accordo della natura, nella molteplicità delle sue leggi particolari, rispetto al nostro bisogno di trovare per essa universalità dei principi, deve essere giudicato, secondo ogni nostro modo di intendere, come contingente, e tuttavia come indispen-sabile per il bisogno del nostro intelletto, e quindi come conformità a scopi, per cui la natura si accorda con il nostro intento, ma solo in quanto indirizzato alla cono-scenza. Le leggi universali dell’intelletto, che sono insieme leggi della natura, sono appunto tanto necessarie ad essa (sebbene siano originate da spontaneità), quanto le leggi del movimento della materia, e la loro produzione non presuppone alcun in-tento per ciò che riguarda le nostre facoltà conoscitive, poiché innanzi tutto noi ot-teniamo solo per mezzo di esse un concetto di ciò che è conoscenza delle cose (della natura), ed esse spettano necessariamente alla natura, quale oggetto della nostra co-noscenza in genere. Ma che l’ordine della natura secondo le sue leggi particolari, in tutta la loro molteplicità ed eterogeneità, almeno possibili, tali da superare ogni no-stra capacità di afferrarlo, sia però a questa effettivamente adeguato è, per quanto possiamo intendere, contingente; il loro rinvenimento è un ufficio dell’intelletto che viene compiuto in riferimento a un suo scopo necessario, vale a dire: introdurre in esse un’unità dei principi; il quale scopo poi la facoltà di giudizio deve attribuire alla natura, ché l’intelletto non può prescriverle alcuna legge al proposito(ivi, p. 22).

Ora, il soddisfacimento di un’esigenza porta con sé l’esperienza del piacere ed anche in questo caso è possibile sottolineare una radicale asimmetria tra l’applicazione delle cate-gorie e la dimensione del giudizio riflettente. Non possiamo provare piacere per la deter-minazione categoriale dell’esperienza perché in questo caso non ha luogo la realizzazione di un intento, ma di una necessità inderogabile. Quando invece giungiamo a constatare un ordine razionale inatteso nella natura e siamo insieme consapevoli della sua contingenza e della sua capacità di venire incontro alle nostre esigenze, allora avvertiamo un senti-mento profondo di piacere:

In effetti, seppure non riscontriamo in noi, e neppure possiamo riscontrare, il minimo effetto sul sentimento del piacere a partire dalla concordanza delle percezioni con le leggi secondo concetti universali della natura (le categorie), poiché con ciò l’intel-letto necessariamente procede in modo inintenzionale, secondo la propria natura, d’altra parte la scoperta dell’unificabilità di due o più leggi empiriche eterogenee della natura sotto un principio che le comprende entrambe è motivo di un piacere assai notevole, spesso perfino di un’ammirazione, addirittura un’ammirazione tale che non viene meno anche se si è già abbastanza familiari con il suo oggetto. Certo, non proviamo più un piacere avvertibile nell’afferrabilità della natura e nella sua unità dell’articolazione in generi e specie, per cui, soltanto, sono possibili concetti empirici, con i quali la conosciamo secondo le sue leggi particolari; ma un piacere c’è stato certamente a suo tempo e, solo perché la più comune esperienza non sarebbe possibile senza di esso, si è mischiato via via con la semplice conoscenza e non è stato più particolarmente notato. Si richiede quindi qualcosa, nel giudicare la natura, che renda attenti alla sua conformità a scopi rispetto al nostro intelletto, cioè lo stu-diarsi di riportare leggi eterogenee della natura, quando è possibile, sotto leggi su-periori, pur sempre empiriche, così da provare piacere, se ciò riesce, in questo suo accordarsi, che vediamo come semplicemente contingente, rispetto alla nostra fa-coltà conoscitiva. Invece ci dispiacerebbe affatto una rappresentazione della natura con la quale ci si predicesse che, nella minima ricerca al di là della più comune espe-rienza, urteremmo con una eterogeneità delle sue leggi che renderebbe impossibile per il nostro intelletto l’unione delle sue leggi particolari sotto leggi empiriche uni-versali, perché ciò confligge con il principio, soggettivamente conforme a scopi, della specificazione della natura nei suoi generi e con la nostra facoltà riflettente di giudizio riguardo a questi ultimi (ivi, p. 23).

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Di qui il percorso che Kant ci invita a seguire. La via del giudizio riflettente si è configurata come un tentativo volto a problematizzare il nesso che lega l’uno all’altro l’individuale e l’universale. Questo nesso ci è apparso innanzitutto nella forma di un’ipotesi che sorregge la nostra prassi conoscitiva e il cui contenuto in ultima analisi consiste in una supposizione che ci invita a fare come se la dimensione fenomenica fosse attraversata da una sua interna legalità e fosse per questo conforme alle esi-genze del conoscere in generale. È possibile tuttavia una diversa forma del giudizio riflettente – una forma che ci consente di osservare l’attività del giudizio non già nel suo risultato o nelle massime che la guidano, ma nel suo stesso sviluppo. Vogliamo in altri termini rivolgere lo sguardo al giudizio riflettente statu nascendi e coglierlo nel suo farsi avanti sul terreno percettivo.

Che cosa Kant intende è presto detto. Ogni esperienza si orienta necessariamente verso la sua comprensione intellettuale, ma il processo in cui l’immaginazione dispone il mate-riale percepito sotto la luce delle categorie intellettuali può essere caratterizzato da una maggiore o minore armonia, da una maggiore o minore concordanza del materiale sensi-bile con le esigenze che l’intelletto come sistema delle regole avanza. Ne segue che prima ancora di aver ricondotto ciò che percepiamo al concetto che lo comprende, la sua forma può rivelarsi consona ad una comprensione intellettuale: abbiamo allora ciò che Kant chiama un giudizio di gusto – un giudizio particolare in cui una rappresentazione data viene colta nel suo essere adeguata alle nostre facoltà conoscitive, suscitando in noi quel senso peculiare di piacere che accompagna il nostro trovare bello qualcosa. Kant scrive così:

Se alla semplice apprensione (apprehensio) della forma di un oggetto dell’intui-zione, senza riferimento di essa a un concetto per una conoscenza determinata, è legato un piacere, allora la rappresentazione viene riferita con ciò non all’oggetto, ma esclusivamente al soggetto; e il piacere non può esprimere nient’altro che l’ade-guatezza dell’oggetto rispetto alle facoltà conoscitive che sono in gioco nella facoltà riflettente di giudizio, e in quanto sono in gioco, quindi semplicemente una formale conformità a scopi soggettiva dell’oggetto. Infatti quell’apprensione delle forme nell’immaginazione non può mai avvenire senza che la facoltà riflettente del giudi-zio almeno la compari, pur inintenzionalmente, con la sua facoltà di riferire intui-zioni a concetti. Ora, se in questa comparazione l’immaginazione (in quanto facoltà delle intuizioni a priori) viene messa in accordo inintenzionalmente, mediante una rappresentazione data, con l’intelletto (in quanto facoltà dei concetti), e ne è suscitato con ciò un sentimento di piacere, allora l’oggetto deve essere riguardato come con-forme a scopi per la facoltà riflettente di giudizio. Un tale giudizio è un giudizio estetico sulla conformità a scopi dell’oggetto, che non si fonda su un concetto già disponibile dell’oggetto e non ne fornisce alcuno. La forma di tale oggetto […] viene giudicata, nella semplice riflessione su di essa (senza riguardo a un concetto che se ne debba ottenere), come il fondamento di un piacere per la rappresentazione di un tale oggetto: e questo piacere viene giudicato anche come legato necessariamente con la sua rappresentazione[…]. L’oggetto allora si chiama bello, e gusto la facoltà di giudicare (quindi anche in modo universalmente valido) mediante un tale piacere (ivi, pp. 25-26).

Vi è dunque un giudizio di gusto, sulla cui natura dobbiamo ora soffermarci.

2. Un giudizio senza concetti

Vi è dunque un giudizio di gusto, e tuttavia le prime parole con cui Kant apre la sua ana-litica della facoltà estetica del giudizio non possono per certi versi non lasciarci perplessi. Vi è un giudizio di gusto, ma dobbiamo in primo luogo sottolineare che si tratta di un

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giudizio che non ha natura concettuale e che non intende subordinare il concetto del sog-getto al concetto del predicato, ma che mira soltanto a legare una rappresentazione intui-tiva al sentimento del piacere:

per distinguere se qualcosa è bello o no, noi riferiamo la rappresentazione non all’og-getto mediante l’intelletto, per la conoscenza, ma al soggetto e al suo sentimento del piacere o del dispiacere mediante l’immaginazione (ivi, p. 39).

Non è facile capire di primo acchito perché si possa parlare a questo proposito di giudizio e non soltanto perché il giudicare sembra essere per sua natura una prassi che si muove sul terreno logico e concettuale, mentre in questo caso siamo invitati esplicitamente a parlare di giudizio per intendere un’attività che non si prefigge lo scopo di conoscere e che si situa in linea di principio al di qua della sfera dei concetti. La perplessità sembra tuttavia mutarsi necessariamente in fastidio quando leggiamo che Kant ci invita a consi-derare un giudizio l’atto in cui ad una rappresentazione si lega non già un concetto, ma un sentimento di piacere. Certo, quando si è stanchi dopo una lunga camminata, la vista della porta di casa può destare piacere, ed è certo possibile trovare esempi in cui il ripetersi di questa connessione crea un’abitudine percettiva che lega ad una rappresentazione data in modo durevole un sentimento di piacere, ma in nessuno di questi casi sembrerebbe lecito scomodare il concetto di giudizio. Non ci sembrerebbe giusto farlo – ma perché? Io credo che per rispondere a questa domanda sia innanzitutto necessario riflettere su ciò che il giudizio fa: si giudica quando si dice qualcosa di qualcosa d’altro. E anche se non è affatto chiaro come si possa predicare qualcosa senza avvalersi di concetti, almeno questo è chiaro: un nesso associativo non dice nulla di ciò che lega ed è quindi un nesso troppo estrinseco perché si possa parlare di un giudizio. Di qui sembra possibile trarre una prima conclusione: perché di un giudizio si possa parlare è necessario che il legame che si viene stringendo tra la percezione e il piacere che proviamo ci consenta di dire qualcosa di ciò che abbiamo percepito, poiché giudicare significa appunto questo – asserire qualcosa di qualcos’altro. Ne segue che se vi è un giudizio di gusto, il piacere che avvertiamo deve rivelarci qualcosa che non concerne soltanto il nostro stato individuale, ma anche l’og-getto che percepiamo. Proprio questa via deve apparirci tuttavia fin da principio sbarrata, perché il giudizio di gusto non è un giudizio conoscitivo e il piacere è un principio di determinazione che si limita a rendere manifesto il modo “nel quale il soggetto sente stesso secondo il modo in cui è affetto dalla rappresentazione” (ivi, p. 39).

Per venire a capo di questa difficoltà è necessario riflettere un poco e distinguere fin da principio due differenti prospettive che si possono assumere rispetto al concetto di piacere. Il piacere mi parla di uno stato soggettivo: questo è indubbio. È tuttavia possibile che il sentimento del piacere non sia colto nella sua dimensione soltanto soggettiva – come una voce che ci parla del nostro stato che è occasionato da una qualche esperienza sensibile – ma venga colto come indice di una conformità dell’oggetto ad un nostro bisogno. Ora, questo bisogno può essere occasionale e può dirci dell’oggetto solo che ha una forma che è conforme ad un bisogno momentaneo – ed è questo il caso della porta di casa quando torniamo da una lunga passeggiata o di un bicchiere d’. In questo caso, il piacere non ci parla dell’oggetto, ma solo di una circostanza che gli si lega occasionalmente e acciden-talmente. Le cose mutano se la sensazione di piacere si lega non ad un bisogno occasionale che illumina in modo estrinseco una proprietà del fenomeno percepito, ma ci costringe a focalizzare una relazione che lega la sua forma a un momento che deve necessariamente caratterizzare il soggetto percipiente. E tuttavia proprio questa richiesta sembra difficile da soddisfare. Il piacere è uno stato soggettivo che parla del soddisfacimento di un bisogno

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soggettivo: come può allora dire qualcosa dell’oggetto che è, per sua stessa natura, indi-pendente dalle inclinazioni che provoca in una soggettività determinata? Kant dà una ri-sposta acuta a questa domanda: il sentimento di piacere può dirci qualcosa dell’oggetto rappresentato (e può a pieno titolo dirsi un giudizio) se il bisogno che la sua forma soddi-sfa appartiene per essenza alla sua percezione e non è quindi indice di una relazione occasionale con uno stato della soggettività. In questo caso il piacere non ci parlerebbe esclusivamente del nostro stato, ma anche della relazione che lo lega alla forma del feno-meno in quanto è un fenomeno per noi. Il piacere diviene così la forma in cui la soggetti-vità diviene consapevole di qualcosa che appartiene al fenomeno in quanto è un nostro fenomeno: nel sentimento di piacere il fenomeno si rivela nel suo essere bello e bello è un fenomeno quando le condizioni del suo manifestarsi mettono in scena il libero e armonico gioco delle nostre facoltà.

Di qui la risposta che Kant propone per venire a capo della contraddittoria natura del giudizio di gusto. Il giudizio di gusto è un giudizio soggettivo e ha il suo principio di determinazione in uno stato soggettivo: nel piacere che proviamo nella percezione dell’oggetto. Il piacere non ha natura concettuale, e tuttavia in questo caso non parla solo di uno stato soggettivo dell’io, ma di quello stato che gli appartiene in quanto il fenomeno percepito si rivela adeguato alle condizioni del suo manifestarsi come fenomeno per una soggettività razionale. La percezione del bello ci si rivela così come una bella percezione e il giudizio di gusto come un giudizio in cui si attribuisce ad un fenomeno null’altro se non questo: il suo essere tale da manifestarsi felicemente ad una soggettività. È questa, certo, una proprietà soltanto soggettiva, ma è qualcosa che spetta insieme al soggetto e al fenomeno perché è una proprietà del suo manifestarsi. In questo senso il giudizio di gusto ci dice qualcosa di ciò che percepiamo: ci dice che è bello, anche se dire di un fenomeno che è bello non significa conoscere qualcosa che appartenga al suo contenuto, ma solo mettere in luce una condizione generale del suo manifestarsi.

Una volta compreso in che senso il giudizio di gusto sia un giudizio sia pure sui generis, Kant ci invita a seguirlo lungo un cammino che ricalca le strutture formali della Critica della ragion pura. Comprendere la natura della facoltà estetica del giudizio significa in-fatti, a suo avviso, tracciare le linee essenziali di un’analitica del giudizio di gusto e ciò significa che è necessario ricondurre la problematica generale della bellezza sotto le quat-tro forme in cui si articola la tavola del giudizio. Dovremo chiederci allora come l’attri-buzione della bellezza ad un fenomeno determinato si articoli rispetto alle forme della qualità, della quantità, della relazione e della modalità. Si tratta, a ben guardare, di un’esi-genza sistematica che non è strettamente connessa con la natura dei problemi che Kant intende discutere, ma qualche volta la grandezza dei filosofi si misura anche nella capacità di rinchiudere un’infinità di osservazioni interessanti in una cornice che sembra fatta ap-posta per soffocarle. Dobbiamo quindi piegare il capo e accettare di seguire Kant lungo un percorso in cui tutto sembra obbedire ad un gioco di rimandi e di interne simmetrie, che si rivelano talvolta fuorvianti e che rischiano di farci smarrire la trama interna del discorso che tuttavia c’è e che si dipana al di là dello schema in cui le pagine kantiane sembrano soffocarla.

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LEZIONE TERZA

1. Un compiacimento disinteressato ed un giudizio universale

La prima mossa che Kant ci invita a compiere nella sua analitica della facoltà del giudizio estetico chiama in causa il tema della qualità del giudizio e quindi il suo legare ad una rappresentazione data un compiacimento o, come potremmo anche dire, un dispiacimento. Il compiacimento, tuttavia, ha diverse forme perché solitamente il compiacimento si lega all’esistenza dell’oggetto di cui ci rallegriamo. Kant parla a questo proposito di interesse ed osserva che, in questo caso, il compiacimento si lega direttamente alla facoltà del de-siderare: se abbiamo interesse all’esistenza di qualcosa in quanto è per noi fonte di un compiacimento, allora desideriamo che esista e ci sforziamo di eventualmente di procu-rarcela.

Diversamente stanno le cose nel caso del giudizio di gusto. In questo caso il compiaci-mento non nasce dal fatto che l’oggetto possa agire su di noi o dal suo essere qualcosa la cui esistenza rivesta per noi un ruolo importante, ma è esclusivamente determinato dalla contemplazione dell’oggetto, dalla sua specificità fenomenica. Sappiamo già la ragione. Dire di qualcosa che è bella significa soltanto questo: asserire che le condizioni del suo manifestarsi nell’esperienza sono in linea di principio tali da armonizzarsi con le condi-zioni che determinano in generale la sua riconducibilità alle norme dell’intelletto e della ragione. Ora, una simile armonia non implica nulla di più di un rapporto tra le forme del conoscere e la forma di una determinata configurazione fenomenica – ed un simile rap-porto non implica altra connessione con il mio vivere se non quella che occorre tra la forma del fenomeno e la forma richiesta dal sistema delle mie facoltà.

Su questo punto è opportuno insistere. Si tratta infatti, di primo acchito, di una consta-tazione che sembra essere senz’altro condivisibile e che può essere accettata senza troppe preoccupazioni:

Se qualcuno mi domanda se trovo bello il palazzo che vedo dinanzi a me, mi è certo lecito rispondere che non amo simili cose, fa solo per lasciare a bocca aperta, oppure al modo di quel sacher irochese: che a Parigi niente gli piaceva di più delle trattorie; di più posso ancora deprecare in buono stile rousseauiano la boria dei grandi, che impiegano il sudore del popolo in cose tanto superflue; infine posso addirittura con-vincermi assai facilmente che se mi trovassi su un’isola disabitata, senza speranza di ritorni mai tra gli uomini, e potessi far apparire d’incanto, esprimendo semplice de-siderio, un tale sontuoso edificio, non mi darei ne pure questa briga, se già avessi una capanna per me abbastanza moda. Si può concedermi e approvare tutto ciò; solo che ora non si tratta di questo. Si vuole sapere soltanto se la semplice rappresenta-zione dell’oggetto sia accompagnata in me da compiacimento, non importa quanto indifferente io possa essere nei riguardi dell’esistenza dell’oggetto di questa rappre-sentazione. Per dire che un oggetto è bello e dimostrare che ho gusto, si vede subito che importa ciò che io faccio in me stesso di questa rappresentazione, e non ciò per cui io dipendo dall’esistenza dell’oggetto. Chiunque deve ammettere che quel giu-dizio sulla bellezza in cui si mischi il minimo interesse è assai parziale e non è un giudizio di gusto puro. Si deve essere non minimamente presi dall’esistenza della cosa, ma del tutto indifferenti al proposito, per fare da giudici in questioni di gusto (ivi, pp. 40-41).

La relativa ovvietà di queste considerazioni non deve tuttavia farci dimenticare che il ri-mando al tema della contemplazione disinteressata si comprende in tutta la ricchezza del suo senso solo se, messe da canto le considerazioni più ovvie, chiamiamo ancora una volta

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in causa la specificità del compiacimento del bello. Per dire che un oggetto è bello, scrive Kant, importa “ciò che io faccio in me stesso di questa rappresentazione e non ciò per cui io dipendo dall’esistenza dell’oggetto” (ivi, p. 41) ed il senso di quest’asserzione è relati-vamente chiaro. Dipendo dall’esistenza di un oggetto se il compiacimento di cui parlo si caratterizza nel suo essere qualcosa che determina il mio stato presente: se, in altri termini, si tratta di un piacere che qualcosa provoca in me in virtù del suo esistere e non soltanto del suo essere percepita così e così da me. Per Kant questo significa mettere da canto i piaceri sensibili perché in generale per Kant le sensazioni sono soltanto affezioni del no-stro corpo e sono di per sé prive di ogni ulteriore determinazione conoscitivo, ma la di-stinzione cui si allude è in realtà solo in parte coincidente con la svalutazione kantiana della dimensione della sensibilità. A questo ordine di considerazione se ne intreccia infatti un secondo su cui è opportuno riflettere: la tesi secondo la quale chiamiamo bello solo ciò che si dispone sul terreno di un apprezzamento del fenomeno in quanto tale. Se il vino delle Canarie mi piacesse solo per il suo sapore, il piacere che ne provo coinciderebbe con il fatto che così percepisco – sarebbe insomma un piacere fondato esclusivamente sull’ap-prezzamento del fenomeno, ma normalmente un cibo o un vino piacciono anche perché ho ragione di credere che agiranno su di me, sostentandomi o rendendomi più allegro. Diversamente stanno le cose per la contemplazione disinteressata di una bella forma: le linee armoniche di una bella architettura piacciono solo perché il modo del loro manife-starsi fenomenico nel mio apprenderle è tale da ridestare un compiacimento che per sua stessa natura coincide con il percipi e non va al di là di esso. Così, quando Kant ci invita a trarre una prima definizione del bello a partire dal momento della qualità del giudizio

Gusto è la facoltà del giudicare un oggetto o un modo rappresentativo mediante un compiacimento o un dispiacimento senza alcun interesse. L’oggetto di un tale com-piacimento si chiama bello (ivi, p. 46).

sta insieme invitandoci a definire una forma particolare di compiacimento – una forma di piacere che non va al di là della manifestazione di qualcosa e non implica un qualche interesse per la sua esistenza.

Alle considerazioni volte a far luce sul momento della qualità seguono quelle che chia-mano in causa il momento della quantità. Kant ci avvisa subito che la tesi che si vuol sostenere – che il bello è ciò che viene rappresentato senza concetti come oggetto di un compiacimento universale – è strettamente coerente con quanto abbiamo appena detto. Che così effettivamente stiano le cose non è difficile comprenderlo. Il compiacimento che è proprio del giudizio di gusto poggia interamente sulla relazione che lega il contenuto del fenomeno alle condizioni della sua esperienza e non chiama in alcun modo in causa la dimensione individuale dell’esistenza. Bello è un oggetto non perché instaura una qualche relazione individuale ed effettiva con un soggetto reale, ma perché la forma della sua manifestazione è tale da accordarsi immediatamente con le condizioni, esse pure formali, della possibilità di una sua comprensione. L’abbiamo già osservato: il sentimento di pia-cere può dirci qualcosa dell’oggetto rappresentato (e può a pieno titolo dirsi un giudizio) se il bisogno che la sua forma soddisfa appartiene per essenza alla sua percezione e non è quindi indice di una relazione occasionale con uno stato della soggettività. Ma ciò è quanto dire che il suo compiacimento non è in alcun modo vincolato a condizioni indivi-dualizzanti, ma poggia esclusivamente su una relazione interna tra la forma del fenomeno e le condizioni formali della sua esperienza: ne segue che il compiacimento che egli prova e che lo pervade deve poter essere pensato come un compiacimento che chiunque do-vrebbe di necessità provare di fronte al manifestarsi di quello stesso contenuto. Dire di un oggetto che è bello significa dunque avanzare un giudizio che si ritiene che chiunque

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debba in linea di principio condividere. Non facciamo che approfondire queste considerazioni se seguiamo Kant nel suo con-

sueto raffronto con le forme del compiacimento sensibile e morale. Vediamo innanzitutto che cosa accade quando ci disponiamo sul terreno della mera piacevolezza. Beviamo un bicchiere di vino delle Canarie e lo troviamo piacevole. Ma ciò significa, almeno per Kant, affermare soltanto che il vino delle Canarie agisce piacevolmente sulla mia persona: di-cendo che il vino delle Canarie mi piace dico dunque qualcosa che concerne il mio stato reale e quindi affermo soltanto qualcosa che mi riguarda. Certo, se il vino delle Canarie agisce così su di me, ho buone ragioni per pensare che così agisca anche sugli altri, perché vi è di fatto una certa uniformità della natura umana. Sarebbe tuttavia assurdo pretendere che a tutti piaccia il vino delle Canarie e questo proprio perché non vi è qui alcuno spazio per avanzare una pretesa: non posso chiederti di trovare piacevole un vino, se la piacevo-lezza è soltanto l’effetto che quella causa provoca in te e non qualcosa di cui tu possa convincerti.

Non posso chiederti di trovare piacevole ciò che non agisce così su di te e non crea in te uno stato di quella natura, ma posso invece pretendere che tu trovi bello quello che considero bello, perché in questo caso, così facendo, non faccio altro che richiamare la tua attenzione su una conformità che devi poter cogliere e che chiama in causa da un lato il contenuto formale dell’oggetto, dall’altro la dimensione invariante e non accidentale del conoscere, e cioè l’insieme di quelle facoltà che ne determinano la grammatica. In questo caso ha senso dunque pretendere un’universalità del gusto:

Per ciò che riguarda il piacevole a ciascuno basta che il suo giudizio, che egli fonda su un sentimento privato e con il quale dice di un oggetto che gli piace, si limiti anche semplicemente alla sua persona. Perciò, se egli dice: il vino delle Canarie è piacevole, accetta volentieri che un altro corregga la sua espressione e gli faccia no-tare che dovrebbe dire: è piacevole per me; e così non solo per il gusto della lingua, del palato e della gola, ma anche per ciò che può essere piacevole agli occhi e agli orecchi di ciascuno. Per uno il colore violetto è gentile e amabile, per un altro è smorto e senza vita. Uno ama il suono degli strumenti a fiato, un altro quello degli strumenti a corda. Da questo punto di vista sarebbe follia discutere su tali questioni, al fine di riprovare come non giusto il giudizio dell’altro, che è diverso dal nostro, come se esso gli fosse logicamente contrapposto, ché in riferimento al piacevole vale il principio: ciascuno ha il suo proprio gusto (dei sensi). Con il bello le cose stanno in modo del tutto diverso. Sarebbe (proprio al contrario) risibile se uno, che presu-messe di essere qualcuno in fatto di gusto, pensasse di legittimarsi in questo modo: Questo oggetto (l’edificio che stiamo vedendo, l’abito che quello indossa, il concerto che stiamo ascoltando, la poesia che deve essere giudicata) è bello per me. Ché, se semplicemente gli piace, non deve chiamarlo bello. Molte cose possono avere per lui attrattiva e piacevolezza, e di ciò non importa a nessuno; ma, se egli dà per bello qualcosa, allora attribuisce agli altri il medesimo compiacimento: giudica non sem-plicemente per sé, ma per ciascuno, e parla quindi della bellezza come se essa fosse una proprietà delle cose. Dice perciò: questa cosa è bella; né per questo conta, nel suo giudizio di compiacimento, sul consenso degli altri, per il fatto che più volte li ha trovati consenzienti con esso, ma piuttosto lo esige da loro. Li biasima se giudi-cano altrimenti e nega loro il gusto, pur pretendendo che essi debbano averlo, e in questo sen so non si può dire: ciascuno ha il suo gusto particolare. Il che equivar-rebbe a dire che non c’è affatto un gusto, cioè che non c’è alcun giudizio estetico che possa avanzare una legittima esigenza di, accordo da parte di ciascuno (ivi, pp. 47-48).

Il giudizio di gusto deve essere dunque universale, anche se l’universalità di cui qui si

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discorre non tocca affatto la quantità del giudizio – ogni giudizio di gusto è in questo senso singolare perché verte su una singola percezione: sul mio sentimento di piacere – ma la sua validità: ciò che Kant intende affermare è che quando diciamo di un oggetto che è bello, diciamo qualcosa che vale per noi e che, proprio per questo, pretendiamo valga per ciascuno. Che una simile considerazione non abbia molto a che fare con il tema della quantità del giudizio è relativamente ovvio: ogni giudizio, singolare o generale che sia, pretende di valere per chiunque. Ma vi è egualmente una ragione che rende interessante la scelta kantiana di discorrere dell’universalità del giudizio, disponendola in questo qua-dro così sistematico e rigido, ed è che siamo invitati a chiederci che cosa fondi l’accordo universale cui il giudizio di gusto pretende.

Ora, che a fondare questa pretesa universalità non sia una regola di carattere concettuale è un fatto su cui, per Kant, è opportuno riflettere e chi si manifesta con chiarezza nel fatto che ciascuno di noi pretende che anche gli altri trovino bello ciò che così giudica, ma non può tuttavia dare ragioni cogenti per convincere della sua tesi chi avesse un parere op-posto. Si può discutere del bello, ma non si può disputarne – scrive Kant, e la ragione è ben chiara: non abbiamo un insieme di regole che ci consentano di decidere che un oggetto fatto così e così debba piacere e non le abbiamo perché la bellezza non è una determina-zione concettuale che riposi sulla possibilità di constatare la subordinazione di un indivi-duale ad un universale. Si può appunto discutere del bello, ma non si può pretendere di dimostrare che qualcosa sia bella, perché la bellezza non è una determinazione di natura concettuale.

Nel rifiuto di delineare una qualche regola generale del bello, si esprime il rifiuto kan-tiano per le estetiche precettistiche, ma si fa avanti, ancora una volta, una determinazione che ci invita riflettere sul luogo che al bello in generale compete. Dire che il bello non è riconducibile ad una regola intellettuale significa, per Kant, sottolineare volta che il giu-dizio di gusto è un giudizio estetico: non ha a che fare con concetti, ma solo con la forma generale della conoscenza. Nel giudizio di gusto una rappresentazione intuitiva viene colta nel suo armonizzarsi con le forme del conoscere, ma non viene subordinata ad un concetto determinato. Se così accadesse, nota Kant, verrebbe meno il libero gioco dell’im-maginazione e non si avrebbe l’esperienza estetica della bellezza, ma solo il vincolo con-cettuale della comprensione. Di qui appunto il luogo che spetta alla bellezza in generale: in essa non si fa avanti un tratto che garantisca la subordinazione di una rappresentazione sensibile ad un concetto, ma si manifesta sensibilmente la possibilità generale di ricon-durre l’esperienza all’intelletto come sistema delle regole nella loro indeterminata univer-salità. Il bello è una cifra dell’adeguatezza dell’esperienza sensibile all’ordine intellet-tuale, è un’esibizione della sua astratta comprensibilità: ciò che piace nell’esperienza del bello è il libero gioco dell’immaginazione in cui si manifesta che ciò che sensibilmente afferriamo ha una sua logica apparente ed è, proprio per questo, animato da una sua ap-parente teleologia.

Negare il carattere concettuale del giudizio di gusto, tuttavia, non significa solo ribadire il suo carattere intuitivo e nemmeno sottolineare soltanto il libero gioco delle facoltà che si accompagna al piacere estetico: vuol dire anche disporsi nella giusta prospettiva per comprendere quale sia la natura dell’universalità dei giudizi di gusto. I giudizi di gusto sono giudizi che riguardano la soggettività di chi li enuncia e non vi è un concetto che li fondi e che sia a fondamento della loro universalità. Ne segue che se pretendo che chiun-que trovi bello ciò che a me piace, ciò accade perché insieme presuppongo una natura comune, un comune sentire che ci accomuna e che deve accomunarci, poiché tutti siamo non già uomini che hanno accidentalmente una stessa natura, ma soggetti che non possono essere diversi da quello che sono.

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2. La conformità a scopi senza scopi e la necessità del giudizio di gusto

Il terzo momento su cui l’analitica del giudizio di gusto ci invita a riflettere chiama in causa il concetto di relazione e ciò significa, per Kant, discutere del nesso che lega la rappresentazione al piacere che la soggettività prova. Tale nesso riveste evidentemente un’importanza centrale, perché la rappresentazione può piacerci solo se è tale da apparirci come se fosse conforme ad un disegno che ne garantisse l’astratta conoscibilità. Ora, que-ste considerazioni ci riconducono – come sappiamo – al concetto di scopo, perché lo scopo è l’oggetto di un concetto in quanto questo stesso concetto viene considerato come il fon-damento reale della sua possibilità (ivi, p. 55). Si tratta di una definizione su cui ci siamo già soffermati e che di fatto vincola ciò che chiamiamo scopo ad un progetto che deve aver orientato la volontà di qualcuno: vi sono scopi perché li abbiamo voluti e pensati in conformità ad un concetto. Proprio per questo, tuttavia, il giudizio di gusto non può im-plicare il rimando alla nozione di scopo perché ogni scopo implica una dimensione con-cettuale: il progetto rispetto al quale qualcosa è pensato. Ma se le cose stanno così, se il giudizio di gusto non può implicare il rimando a concetti e quindi a scopi, non dobbiamo sostenere che per un simile giudizio non vi è spazio?

Rispondere a questa domanda significa, per Kant, sottolineare ancora una volta la di-mensione particolare del giudizio di gusto, il suo essere prima di ogni determinazione concettuale. Nel giudizio di gusto non può essere implicata la rappresentazione di uno scopo, ma è possibile tuttavia la constatazione di un’armonia tra ciò che esperiamo e ciò che dobbiamo conoscere – un’armonia che ci spinge a sentire un determinato vissuto come se appartenesse all’orizzonte di una volontà possibile. Nel giudizio di gusto constatiamo che ciò che percepiamo sembra essere attraversato da una progettualità indefinita: ri-sponde ad un ordine che non si specifica in un concetto, ma nella conformità generale a concetti. Non abbiamo bisogno di pensare per percepire una conformità a scopi, perché ciò che è richiesto non è ancora la subordinazione dell’individuale alla dimensione del concetto, ma solo (e non è poco) la riconduzione dell’esperienza sensibile nello spazio logico della comprensibilità. Kant parla a questo proposito di una conformità a scopi senza scopo e il senso di questa nozione che suona così apertamente ossimorica è in fondo chiaro: se lo rapportiamo con l’orizzonte di una volontà che si lascia determinare da con-cetti, ciò che percepiamo ci appare sensibilmente come se fosse attraversato da un pro-getto possibile, ma non afferrabile intuitivamente. E ciò è quanto dire: bello è ciò che ci appare come se fosse voluto, anche se sul terreno dell’apparenza non è possibile specifi-care un contenuto concettuale che dia alla dimensione della progettualità che abbiamo ravvisato sensibilmente una sua forma determinata ed effettiva.

La tesi secondo la quale la bellezza è la struttura formale della “conformità a scopi di un oggetto in quanto essa vi è percepita senza rappresentazione di uno scopo” (ivi, p. 72) ha tuttavia un prezzo che Kant ritiene senz’altro possibile pagare: la riconduzione dell’am-bito del bello alla dimensione puramente formale. Bello è ciò che in una rappresentazione intuitiva può apparirci in un accordo apparente con la dimensione del sovrasensibile, ma ciò che può consentirci di intravedere la dimensione del sovrasensibile nel sensibile è soltanto la sua forma. Di qui la riconduzione del bello al disegno e la riconduzione del colore e dei suoni e, in generale, della materia delle rappresentazioni sotto la cifra generale delle attrattive sensibili:

Nella pittura, nella scultura, anzi in tutte le arti figurative, nell’architettura, nell’arte dei giardini, in quanto sono belle arti, l’essenziale è il disegno, nel quale non ciò che diletta nella sensazione, ma soltanto ciò che piace mediante la sua forma costituisce

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il fondamento di ogni attitudine al gusto. I colori che danno luce all’abbozzo appar-tengono all’attrattiva; possono, sì, rendere vivace l’oggetto stesso per la sensazione, ma non degno d’intuizione e bello: piuttosto sono limitati fortemente nella maggior parte dei casi da ciò che richiede la bella forma e, perfino dove è ammessa l’attrat-tiva, questa è nobilitata solo da quella. Ogni forma degli oggetti dei sensi (dei sensi esterni, così come mediatamente anche dei sensi interni) è o figura o gioco: nell’ul-timo caso o gioco di figure (nello spazio: la mimica e la danza) o semplice gioco di sensazioni (nel tempo). L’attrattiva dei colori o dei suoni piacevoli di uno strumento può aggiungervisi, ma il disegno nel primo caso e la composizione nel secondo co-stituiscono l’oggetto vero e proprio del giudizio puro di gusto; e che la purezza, sia dei colori, sia dei suoni, o anche la loro molteplicità e il loro risaltare, sembri contri-buire alla bellezza, vuol dire non tanto che essi rappresentano, per così dire, un’ag-giunta omogenea al compiacimento della forma perché sono di per sé piacevoli, ma piuttosto perché rendono la forma intuibile in modo più preciso, più determinato e più completo, e inoltre ravvivano la rappresentazione con la loro attrattiva, destando e mantenendo l’attenzione sull’oggetto stesso. Anche ciò che chiamiamo ornamenti (parerga), vale a dire ciò che appartiene non intimamente, al modo di parte costitu-tiva, all’intera rappresentazione dell’oggetto, ma solo estrinsecamente, al modo di aggiunta, e aumenta il compiacimento del gusto, lo fa però solo in virtù della sua forma, come le incorniciature dei quadri, o i drappeggi nelle statue, o i colonnati intorno ai palazzi. Ma, se l’ornamento non consiste esso stesso nella bella forma e, come le cornici dorate, è aggiunto semplicemente per raccomandare con la sua at-trattiva il quadro all’approvazione, allora si chiama decorazione, e pregiudica la schietta bellezza.. (ivi, pp. 60-61).

La dinamica generale del giudizio di gusto si lega così ad una poetica di stampo tenden-zialmente formalistico e il tentativo di rendere meno rigide le tesi sostenute, cercando nelle riflessioni di Eulero sulla natura ondulatoria del colore e del suono un mezzo per strapparli alla mera materialità della sensazione e per renderli apprezzabili come forme non mutano il quadro che resta comunque troppo angusto per venire a capo dello spettro dell’espressione artistica.

Sarebbe tuttavia un errore non osservare come, anche in questo caso, alle considerazioni particolari si leghi un discorso più generale. Il rifiuto della materia della sensazione non è infatti soltanto determinato da considerazioni di poetica e nemmeno soltanto dalla consta-tazione della necessaria formalità dell’accordo che l’intuizione può stringere con le forme pure del sovrasensibile: è determinato anche dal fatto che la sensazione ci riconduce, per Kant, ad una modificazione del nostro stato ed è, come tale, un accadimento fattuale. Sot-tolineare la natura formale del giudizio di gusto vuol dire anche comprendere il fonda-mento della sua universalità e della sua necessità, cui dobbiamo ora tornare per far luce sull’ultima delle voci in cui si articola l’analitica del giudizio di gusto.

Affermare che il giudizio di gusto è, per ciò che concerne la relazione con le modalità, necessario significa, ancora una volta, confrontarsi con il significato che lo stesso Kant attribuisce ai termini logici. Necessario è un giudizio quando il nesso tra soggetto e pre-dicato è di natura analitica – e abbiamo in questo caso la necessità formale – o è conforme alle regole che l’intelletto impone ai fenomeni, ma che né l’una né l’altra forma di neces-sità possa darsi sul terreno del giudizio di gusto è fin da principio evidente, poiché il giu-dizio di gusto ha natura estetica e a legare soggetto e predicato non vi è una regola intel-lettuale, né tanto meno una relazione analitica tra concetti. Ci troviamo così, ancora una volta, costretti ad una mossa che, di primo acchito ci lascia perplessi: Kant ci invita infatti a parlare di una necessità estetica che non può dirsi apodittica, proprio perché non ha un fondamento concettuale, ma poggia su una consapevolezza immediata che ci spinge a

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considerare ogni nostro giudizio di gusto come se fosse un giudizio esemplare, che chiun-que dovrebbe condividere. Un giudizio esemplare, ma ancora una volta la constatazione dell’esemplarità si lega ad una tesi che sembra negarla alla radice poiché di esemplarità e di esempi si può parlare solo in relazione ad una regola. In questo caso, tuttavia, di regole non si può certo parlare e l’esempio di cui discorriamo deve apertamente porsi come esempio di una regola che tuttavia non si può addurre:

del bello si pensa che abbia un riferimento necessario al compiacimento. Ora, questa necessità è di un tipo speciale: non una necessità teoretica oggettiva, in cui possa essere riconosciuto a priori che ciascuno sentirà questo compiacimento per l’oggetto da me detto bello; e neppure una necessità pratica, in cui, mediante concetti di una volontà razionale pura, che serve da regola per un essere che agisce liberamente, questo compiacimento sia la conseguenza necessaria di una legge oggettiva e non significhi altro se non che si deve assolutamente agire in un certo modo (senz’altro intento). Ma può essere chiamata, in quanto necessità che è pensata in un giudizio estetico, soltanto esemplare, vale a dire: una necessità dell’accordo di tutti in un giu-dizio che viene considerato come esempio di una regola universale che non si può addurre. Poiché questa necessità, non essendo un giudizio estetico un giudizio og-gettivo e conoscitivo, non può essere derivata da concetti determinati, e quindi non è apodittica. Ancora meno può essere inferita dalla generalità dell’esperienza (di una completa concordanza dei giudizi sulla bellezza di un certo oggetto). Infatti non solo l’esperienza difficilmente produrrebbe attestazioni in quantità sufficiente in questo senso, ma nessun concetto della necessità di tali giudizi può essere fondato su giudizi empirici. (ivi, pp. 72-73).

Non vi è dubbio che il discorrere di una necessità estetica e di qualcosa che è esempio di una regola che non si può addurre non possa non lasciarci perplessi, e tuttavia il senso delle considerazioni kantiane è, ad un primo livello, facile da comprendere e ricalca il cammino che abbiamo seguito per venire a capo della tesi dell’universalità del giudizio di gusto. Allora avevamo osservato che ogni giudizio di gusto ha natura soggettiva, ma che il suo fondamento – il suo consistere in un accordo tra la dimensione formale del feno-meno percepito e la struttura formale delle facoltà – fa sì che io possa pretendere che chiunque condivida il mio giudizio poiché non è possibile che si differisca nella struttura che ci caratterizza come soggettività trascendentali. Di qui l’universalità peculiare del giudizio di gusto e di qui anche la sua necessità che passa attraverso la certezza che la nostra voce sia, nella sua singolarità, universale e che vi sia una dimensione del mio ego che necessariamente condivido con gli altri.

Sin qui appunto le considerazioni che avevamo già esposto e che Kant ci ripresenta nei §§ 19 e 20. Nel § 21, tuttavia, Kant sente di dover tornare sul problema, per approfondire meglio il suo discorrere di un senso comune che si porrebbe come condizione della ne-cessità che attribuiamo al senso comune. Il senso delle considerazioni che Kant raccoglie in questo paragrafo muove da una prima constatazione importante: se lo scetticismo ha torto e se, in generale è possibile una conoscenza, allora conoscenze e giudizi devono essere comunicabili. Ora, al momento del giudizio corrisponde un momento sensibile: è ciò che Kant chiama l’auto-affezione dell’io. Nel giudizio la soggettività è presente nella forma dell’io penso che fa da sfondo alle rappresentazioni, pensandole nell’unità catego-riale del giudizio. È questo stesso io che diviene, sia pure solo empiricamente, consape-vole di sé come un’unità che attraversa il tempo e che rimanda a quella funzione trascen-dentale senza la quale in generale il giudizio non sarebbe pensabile.

Anche questo momento deve essere comunicabile – o almeno: questo è quanto Kant ci

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invita a sostenere. E per una ragione che è forse possibile intuire: se devo poter comuni-care le mie conoscenze e i miei giudizi, debbo poter supporre che sia identica in tutti la prassi del giudizio e quindi anche lo stato soggettivo che l’accompagna Ma se così stanno le cose, allora deve poter essere comunicabile, e quindi anche essere necessariamente con-divisibile, lo stato d’animo che accompagna la semplice possibilità del conoscere e quindi la disposizione delle singole facoltà all’accordo con il contenuto intuitivo di una rappre-sentazione data. È dunque legittimo supporre un senso comune che, in questo caso, è con-dizione necessaria della comunicabilità dello stato d’animo che accompagna l’accordo tra le facoltà che è a fondamento del conoscere stesso:

Conoscenze e giudizi, insieme alla convinzione che li accompagna, si debbono poter comunicare universalmente, ché altrimenti non spetterebbe loro alcun accordo con l’oggetto: sarebbero tutti insieme un gioco semplicemente soggettivo delle facoltà rappresentative, proprio come pretende lo scetticismo. Ma se le conoscenze si deb-bono poter comunicare, allora si deve poter comunicare universalmente anche lo stato dell’animo, vale a dire la disposizione all’accordo delle facoltà conoscitive per una conoscenza in genere, e precisamente quella proporzione che si addice a una rappresentazione (mediante cui ci è dato un oggetto), per farne una conoscenza, per-ché senza questa proporzione, come condizione soggettiva del conoscere, la cono-scenza, quale effetto, non potrebbe nascere. E ciò accade effettivamente ogni volta che un oggetto dato muove, per mezzo dei sensi, l’immaginazione alla composizione del molteplice, e questa a sua volta l’intelletto all’unità della composizione" in con-cetti. (ivi, p. 74).

Ora, questo rapporto si manifesta sensibilmente in diverso modo e ciò è quanto dire che vi è una diversa disposizione in cui si rende manifesto al soggetto il proprio stato rappre-sentativo, il proprio essere un io penso che cerca di subordinare alla norma dell’intelletto un materiale sensibile recalcitrante:

Tuttavia ce ne deve essere una, in cui questo interno rapporto per il ravvivamento (dell’una facoltà con l’altra) sia il più favorevole possibile per entrambe le facoltà dell’animo rispetto a una conoscenza (di oggetti dati) in genere; e questa disposi-zione all’accordo non può essere determinata altrimenti che mediante il sentimento (non secondo concetti). (ivi, p. 74).

Nel giudizio di gusto si fa dunque avanti la coscienza di un io felice, di una soggettività che si scopre nella sua immediata consonanza con il contenuto intuitivo che esperisce.

Di qui la necessità del giudizio di gusto – almeno per Kant. Che si tratti davvero di una deduzione valida è lecito dubitarne. Kant ragiona così: se devo poter comunicare le mie conoscenze e i miei giudizi, allora debbo poter supporre che sia identico il nodo delle facoltà su cui il giudizio poggia e di qui si può muovere per sostenere che identica deve essere anche la sensazione che fa da controcanto sensibile del giudizio. Ma appunto questa mossa sembra essere infondata perché la comunicabilità dei giudizi non implica necessa-riamente l’identità dei vissuti che li accompagnano. Potremmo avere sensazioni differenti, eppure usare tutti le stesse parole: potremmo dire di qualcosa che è rosso e trovarci d’ac-cordo sull’uso di quel termine, ma allo stesso tempo avere sensazioni non coincidenti. E ciò è quanto dire che la pretesa di un senso comune non è fondata.

Kant, tuttavia, ritiene che essa sia una delle caratteristiche importanti del giudizio di gusto e in questo, credo, abbia ragione: vogliamo che anche gli altri ritengano bello ciò che a noi piace e questo accomunamento cui miriamo non è un accomunamento dettato dall’obiettività del concetto e nemmeno dalla mera fattualità di un accordo, ma dall’uni-versalità su cui sembra poggiare il giudizio di gusto, dal suo essere qualcosa in cui ci

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impegniamo come soggetti in generale e non come questo soggetto concreto che siamo. Ancora una volta: il bello non è un fatto, ma non è nemmeno un concetto, ma è il correlato di una sensazione che rimanda ad un accordo tra ciò che è intuito e le condizioni della sua pensabilità.

Potremmo fermarci qui nelle nostre considerazioni che non mirano certo a far luce sulla complessità dell’intera Critica della facoltà del giudizio, ma solo a gettare uno sguardo su un insieme di problemi che Kant affronta e che sono in qualche misura connessi con il tema di cui discorriamo. E tuttavia, prima di disporci sul terreno di alcune rapide consi-derazioni critiche cui spetterà il compito di gettare un poco di luce sulle ragioni di questa digressione, è forse opportuno soffermarsi almeno su un punto: sull’importanza che nelle pagine di questa terza Critica svolge il tema dell’indeterminatezza. Si tratta di un tema che attraversa in profondità le pagine kantiane e che si concretizza nel rifiuto dell’estetica precettistica. Per Kant, il bello non può sottostare a regole e questo non soltanto perché il giudizio di gusto non ha natura concettuale, ma perché è per sua essenza indeterminato. Bella non è la subordinazione dell’intuizione ad un concetto determinato, ma il gioco dell’immaginazione che saggia la conoscibilità del materiale sensibile – un gioco che deve essere libero e che può esserlo solo se non vi è un concetto che detti la sua regola all’im-maginazione, piegandola ad un compito determinato.

Il tema dell’indeterminatezza del resto ci riconduce anche alla tematica del genio e alla riflessioni, così caratteristiche dell’impianto kantiano di questa terza Critica, volte a far luce sul nesso che lega genio e natura. Certo, si deve essere consapevoli che un’opera d’arte è frutto di un’intenzione e non è natura, e tuttavia la sua apparente conformità a scopi deve essere così libera da costrizioni e da regole imposte da sembrarci naturale. L’arte deve celare con arte il suo essere frutto dell’arte:

Quindi la conformità a scopi nei prodotti dell’arte bella, pur se intenzionale, deve parere tuttavia non intenzionale; vale a dire: si deve guardare all’arte bella come se fosse natura, sebbene si sia consapevoli di essa in quanto arte. Ma un prodotto dell’arte appare come natura per il fatto che viene, sì, trovato in tutta la sua puntualità l’accordo con le regole secondo le quali soltanto il prodotto può diventare ciò che deve essere; ma senza pignoleria, senza che traspaia la forma scolastica, vale a dire: senza mostrare traccia che la regola è stata davanti agli occhi dell’artista e ha messo ceppi alle sue facoltà dell’animo. (ivi, p. 142).

Di qui appunto ciò che dobbiamo intendere con genio. Il genio – scrive Kant – è un dono naturale (un talento,) mediante il quale la natura dà la regola all’arte, ed ancora una volta ci imbattiamo in una definizione ossimorica. Il genio è natura, poiché di fatto non pos-siamo pensare al talento come se fosse riconducibile ad una qualche regola intellettuale. E tuttavia è una forma dell’ingegno poiché deve comunque dare una regola. Ci troviamo così di fronte ad un nodo che rammenta da vicino quello che stringe la nozione di sche-matismo – una nozione essa pure radicata in profondità nella natura dell’animo umano. E non è un caso che questa connessione si faccia nuovamente strada: in fondo il genio è la capacità di piegare l’immaginazione verso le forme dell’intelletto, in un processo che non è dissimile a quello che vincola le categorie pure all’immaginazione. Vi è qui un nodo che è insito nella nostra natura e questo rende l’esperienza del bello ancora più caratteristica del nostro essere soggetti che hanno un’esperienza sensibile.

Non è difficile scorgere proprio in queste considerazioni che abbiamo appena svolto una nuova e più profonda radice del tema dell’indeterminatezza. In fondo, il carattere ossimo-rico che caratterizza così in profondità l’apparato teorico della terza Critica ha qui la sua radice: nel suo tentativo di mostrarci la coscienza sensibile e soggettiva dell’istituirsi di

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quell’accordo su cui si fonda la possibilità del conoscere. L’esperienza del bello è l’espe-rienza di una possibilità che non può essere tradotta in una determinazione positiva: la possibilità di un accordo tra la dimensione intuitiva e la dimensione sovrasensibile, av-vertita prima ancora della subordinazione del dato alla legge del concetto. La felicità di questo accordo potenziale è avvertita sensibilmente nel giudizio di gusto, ma proprio per-ché deve essere coscienza di questa possibilità generale e non di una subordinazione con-cettuale effettiva, il giudizio di gusto deve sottrarsi a regole e non può diventare manife-stazione di un ordine concettuale compiuto. La noia, che fa da contraltare al godimento estetico, ci appare così come la cifra sensibile che accompagna il piegarsi dell’intuizione ad una norma che le viene imposta: il concetto chiude il movimento dell’immaginazione e fissa il suo libero gioco.

Di qui l’ultimo nesso che lega l’esperienza estetica all’indeterminatezza. Proprio perché il bello è esperienza di un indeterminato, diviene possibile poi farne il terreno su cui si esercita il libero gioco della comprensione. Nelle forme incompiute dell’immaginazione e nell’accordo indeterminato che si viene istituendo con il sovrasensibile si crea lo spazio per un processo di riflessione intellettuale, per un tentativo di comprensione che non riesce a fissarsi in un concetto dato e proprio per questo è costretto a muovere da concetto a concetto, da nozione a nozione, senza solidificarsi in una effettiva sussunzione. L’arte non è riconducibile al concetto, ma è un gioco che si dipana tra concetti: l’arte ci dà da pen-sare. È questo il tema, così ricco, delle idee estetiche, cui Kant dedica alcune pagine molto belle che gli consentono di aprire lo spazio dell’arte a temi e a problemi che vanno al di là della dimensione meramente formale in cui le considerazioni sul giudizio di gusto sem-brano rinchiudere lo spazio dell’arte. Kant si esprime così:

Spirito, nel suo significato estetico, si dice il principio vivificante dell’animo. Ma ciò per cui questo principio vivifica l’anima, la materia che a quel fine esso adopera, è ciò che dà impulso, conformemente a scopi, alle facoltà dell’animo, cioè le pone in un gioco che si mantiene da se stesso e anzi rafforza, a quel fine, le facoltà. Ora, sostengo che questo principio non è nient’altro che la facoltà dell’esibizione di idee estetiche; ma per idea estetica intendo quella rappresentazione dell’immaginazione che dà occasione di pensare molto, senza che però un qualche pensiero determinato, cioè un concetto, possa esserle adeguato, e che di conseguenza nessun linguaggio possa completamente raggiungere e rendere intelligibile. — Si vede facilmente che essa è il correlato (pendant) di un’idea della ragione, che è viceversa un concetto cui non può essere adeguata alcuna intuizione (rappresentazione dell’immaginazione). (ivi, p. 149).

Come ho dianzi osservato, si tratta di un tema estremamente ricco e interessante, ma noi dobbiamo semplicemente accennare alla sua presenza e avviarci a qualche considerazioni conclusiva che ci consenta di tornare sui nostri passi che abbiamo abbandonato anche per troppo tempo.

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LEZIONE QUARTA

1. Considerazioni critiche

Nelle precedenti lezioni ci siamo soffermati su alcuni dei temi più rilevanti della prima parte della Critica della facoltà del giudizio. Questo tuttavia non significa che il nostro tema o che la linea delle nostre considerazioni si muova in prossimità della prospettiva kantiana. Tutt’altro. Nonostante la ricchezza e la sottigliezza di questo testo così bello, molte sono le cose che ci dividono dalle pagine kantiane.

Da Kant, in primo luogo, ci divide la posizione stessa del problema. Il nostro problema verte sulla natura delle proprietà espressive e di questo tema, che pure si intreccia con le ragioni che ci consentono di dire che una linea ornamentale è bella, Kant parla solo occa-sionalmente. Certo, nel tentativo di rendere più persuasivo il nesso analogico che tuttavia lega il giudizio di gusto all’ambito della morale, Kant osserva:

noi spesso chiamiamo gli oggetti belli della natura o dell’arte con nomi che sembrano porre a fondamento un giudizio morale. Diciamo maestosi e sontuosi edifici o alberi, oppure ridenti e lieti i campi; perfino i colori vengono detti innocenti, modesti, deli-cati, dal momento che suscitano sensazioni che contengono qualcosa di analogo alla coscienza di uno stato dell’animo provocato da giudizi morali (ivi, p. 188).

Si tratta tuttavia di un’osservazione marginale, e per Kant non vi è dubbio che il tema dell’espressività sia sovrastato dal tema della bellezza e che sia quest’ultimo il tema che, nelle sue pagine, occupa il luogo centrale della riflessione sull’arte. Che al bello debba spettare una posizione centrale è una tesi che Kant non discute e che gli appare in un certo senso ovvia, nonostante le molte aperture della Critica della facoltà del giudizio ad argo-menti che esorbitano da questo tema – tra queste un posto particolare spetta alla riflessione sul sublime e alle idee estetiche, su cui ci siamo così brevemente soffermati nella scorsa lezione. Una tesi ovvia – almeno per la filosofia settecentesca, ma che ci appare oggi tutt’altro che scontata e, in fondo, piuttosto limitata.

Sappiamo quale sia la ragione di questa scelta kantiana: la tematica del bello è, per Kant, così rilevante soprattutto perché gli consente di affrontare in una prospettiva nuova un insieme di problemi che si aprono nel cuore della riflessione critico-trascendentale. Per Kant si deve parlare del bello e della sua riconducibilità al problema della buona forma perché nel gioco dell’immaginazione che scaturisce dalla percezione di simili forme si deve cogliere il realizzarsi di un accordo insperato con le richieste della ragione e dell’in-telletto. In fondo la bellezza è rilevante perché assolve ad un compito filosofico cui Kant sente di dover dare una risposta: il compito di dimostrare che la pretesa metafisica che vi sia un mondo in cui scorgere immediatamente realizzate le esigenze dell’intelletto e della ragione non è del tutto priva di una sua sensatezza. Certo, Kant sa bene che la metafisica è un sogno, ma la contemplazione della natura e dell’arte sembra consentirci di sognarlo felicemente: la bellezza si pone infatti come la forma intuitiva in cui si recita la dimen-sione sovrasensibile della soggettività, che ci appare questa volta libera tanto dalla serietà delle pretese conoscitive, quanto dalla coercizione che si lega agli imperativi morali e tuttavia capace di manifestarsi e di permeare di sé il libero gioco dell’immaginazione in virtù del quale le è possibile ritrovarsi senza sforzo nel mondo sensibile. Nella forma tenue ed effimera del bello il mondo torna ad essere intuitivamente la dimora di una sog-gettività razionale, lo specchio in cui le è possibile riconoscersi.

Si tratta di un disegno teorico che esercita un suo fascino rilevante da cui è difficile sottrarsi per intero, ma questo non toglie che non sia facile non avvertirne le forzature che

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sono almeno in parte connesse con il quadro generale entro il quale Kant pretende di rac-chiudere il problema: il quadro determinato dalla convinzione che il bello debba avere un posto nello spazio del trascendentale e che non possa non trovarsi lungo il cammino che dal sensibile conduce al sovrasensibile e più propriamente nel luogo fissato dall’avverti-mento intuitivo di una indeterminata ed inattesa conformità dei contenuti intuitivi dell’im-maginazione all’intelletto come facoltà universale del pensare secondo regole. Il bello si pone così come la soglia che conduce alla concezione kantiana dell’esperienza come sin-tesi tra intelletto e sensibilità.

Si tratta di una tesi impegnativa, ma discutibile: Kant vincola la teoria del bello all’ac-cettazione del linguaggio teorico della Critica della ragion pura, cosa questa che avanza un’ipoteca rilevante sulla natura dell’esperienza del bello perché proietta su questo terreno le stesse difficoltà che caratterizzano in generale la concezione dell’esperienza che in quell’opera si fa avanti. Quale sia questa concezione dell’esperienza è presto detto, al-meno nelle sue linee generali. Nella Critica della ragion pura l’esperienza ha un ordine solo perché il concetto detta la alle sensazioni sua regola; può farlo, tuttavia, perché solo l’immaginazione produttiva predispone gli schemi in virtù dei quali le forme pure dell’in-telletto determinano sul terreno intuitivo le condizioni della loro applicazione: si tratta appunto dello schematismo cui è affidato il compito di indicare come un insieme di con-cetti puri e a priori possano applicarsi all’esperienza, subordinandola alla loro legge. Così appunto nella prospettiva della Critica della ragion pura; sul terreno della Critica della facoltà del giudizio le cose mutano perché il cammino che deve essere seguito procede in questo caso nella direzione inversa: ora muoviamo dalla rappresentazione sensibile e af-fidiamo all’immaginazione produttiva il compito di risalire verso il concetto, mostrando in questo modo non come il concetto determini la dimensione intuitiva, ma come quest’ul-tima sia in linea di principio determinabile dall’intelletto. Sul terreno della Critica della ragion pura questo cammino non poteva non lasciarci perplessi: se la sensibilità è in se stessa priva di forma, come possono le forme pure dell’intelletto applicarsi alla struttura dell’esperienza sensibile? Le categorie intellettuali devono insegnarci un modo per pen-sare secondo concetti la successione temporale che tuttavia è in se stessa indeterminata; se le cose stanno così, tuttavia, che cosa può autorizzarci a pensare la successione tempo-rale ora nella forma di una successione causale (il susseguente in virtù dell’antecedente), ora in un nesso additivo (il susseguente nel suo sommarsi all’antecedente) ora in uno qual-siasi dei diversi modi che le categorie rendono di fatto possibile? Se le successioni tem-porali debbono attendere il concetto per ricevere una forma, che cosa può giustificare la nostra attribuzione di un concetto categoriale determinato ad una qualsiasi successione temporale? Se davvero le categorie sono ciò che dà forma all’esperienza, allora la loro applicazione al materiale sensibile non può che apparirci priva di un fondamento e di una giustificazione effettiva.

Le cose non mutano se ci disponiamo nella prospettiva del giudizio riflettente. Se la forma sensibile non ha in sé alcuna forma, che cosa può rendere possibile il suo armoniz-zarsi con le regole dell’intelletto? Se l’esperienza ha una forma, allora non ha bisogno del concetto; se è informe, allora non si vede come possa accordarsi con le strutture formali dell’intelletto. Se poi l’immaginazione dispone l’esperienza in una forma leggendola alla luce di un qualche ordinamento intellettuale, allora in che senso si può parlare di un’ar-monia antecedente la determinazione del concetto? Per venire a capo di questo nodo teo-rico dovremmo poter supporre che qualcosa ha già una forma adatta al concetto prima di essere pensato dal concetto stesso, ma riconoscere che così stanno le cose significherebbe negare alla radice il carattere che Kant attribuisce al concetto: il suo essere una forma che

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attribuisce un ordine ad un materiale amorfo. Kant sembra tentare di eludere questo pro-blema invitandoci a disporre l’esperienza del giudizio di gusto sul crinale di un rapporto tra facoltà, colto nel momento del loro reciproco prendere le misure l’una sull’altra, ma non è chiaro in che senso questa sia una risposta al nostro problema: non basta porsi in una prospettiva genetica perché la difficoltà cui alludiamo venga meno.

Il quadro non muta anche se disponiamo il giudizio di gusto sul terreno di un’esperienza già formata categorialmente e cerchiamo di situare l’accordo tra immaginazione e con-cetto sul terreno dei concetti empiricamente determinati. Se ci si pone su questo piano è possibile comprendere in che cosa potrebbe consistere l’accordo – qualcosa potrebbe ap-parirci come se fosse facilmente comprensibile come un oggetto di un certo tipo, anche se non possiamo pensarlo propriamente come un oggetto di quel tipo. Tuttavia, se anche questa fosse la via che Kant ci suggerisce di seguire (cosa che non sembra in fondo pos-sibile sostenere), ci troveremmo egualmente in difficoltà. Una linea può dirsi bella perché ci appare animata, quasi fosse viva, anche se vediamo che non è viva – questo è vero. Non è chiaro invece perché in questo caso sarebbe lecito parlare di un accordo tra facoltà e non di un’oscillazione nella determinazione concettuale. Qualcosa ci appare ora animata, ora inanimata – perché la pensiamo ora in un modo, ora in un altro, ma in un simile oscillare non vi è spazio per supporre una qualche armonia tra le facoltà. Perché la discussione kantiana acquisti davvero un senso è necessario pensare diversamente le cose: dobbiamo supporre che qualcosa ci sembri già sul piano intuitivo in un qualche modo determinato (per esempio che ci appaia animato) senza che lo si sia pensato così, ma non è difficile comprendere che anche in questo caso il problema si riproporrebbe, perché se qualcosa può apparirci adatto ad esser compreso in un certo modo, allora ha già in sé la forma e non chiede di riceverla dal concetto. Se invece la riceve dal concetto, allora non vi è ra-gione per parlare di un giudizio di gusto.

A questa problema di carattere generale si affiancano due ulteriori difficoltà che ren-dono la lettura del testo kantiano ora ardua, ora insoddisfacente. E non è un caso che sia così, perché è difficile liberarsi dall’impressione che il testo kantiano ci costringa a dare all’esperienza estetica una forma ora indeterminata, ora troppo angusta.

Le attribuisce una forma che resta vaga e indeterminata: per quanti sforzi Kant faccia per muoversi nel gioco delle molte espressioni ossimoriche che si affastellano nella Cri-tica della facoltà del giudizio resta comunque difficile comprendere che cosa voglia esat-tamente dire che qualcosa è conforme al concetto senza essere subordinato ad un concetto. La linea che tracciamo su un foglio ha una forma determinata ed è sempre, come tale, riconducibile ad una regola concettuale: al concetto che le si applica. Certo, non è neces-sario pensare una forma alla luce della funzione che la determina ed in questo senso si può parlare di un ordine che non implica ancora una comprensione, ma questo equivale semplicemente a riconoscere che vi sono forme che esibiscono un ordine che non ha an-cora nulla di concettuale. Una bella forma (questo termine assunto nell’accezione kan-tiana) non è una forma in cui si avverta intuitivamente che l’immaginazione si è già aperta al concetto, senza per questo asservirsi ad esso, ma è solo una forma che esibisce un ordine intuitivamente afferrabile. Kant oscilla tra due poli – da un lato l’idea di una sensibilità senza forma e dall’altro l’idea di una forma senza intuizione – e per questo è costretto a pensare che ogni struttura che esibisca un ordine che si manifesta al di qua della dimen-sione concettuale debba comunque parlarci di un qualche accordo con la facoltà del giu-dizio, di un qualche nascosto – benché ancora indeterminato – operare dell’intelletto. Si tratta tuttavia di una tesi che resta oscura, e necessariamente perché non è affatto chiaro che cosa voglia dire parlare di un accordo tra intuizione e intelletto che non assuma la forma di una subordinazione concettuale.

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Il quadro kantiano è tuttavia anche, e per molte ragioni, troppo angusto e lo si com-prende non appena si tenta di venire a capo della sfera espressiva dell’arte. Per rendersene conto è sufficiente gettare uno sguardo alla riconduzione kantiana del bello alla bella forma. Si tratta di una mossa che nel testo kantiano ha molte ragioni su cui ci siamo già soffermati nel corso delle nostre lezioni e tuttavia Kant ritiene che l’unica via per garantire un simile risultato consista nel tracciare un discrimine tra la natura empirica delle sensa-zioni e la natura a priori delle relazioni formali che legano l’immaginazione della forma alla sua riconducibilità astratta e generale all’intelletto come sistema formale delle regole. E non è un caso che così stiano le cose: per Kant, la giusta preoccupazione volta a ribadire il carattere disinteressato del giudizio di gusto si lega alla tesi secondo la quale una rela-zione dell’immaginazione con il sistema delle facoltà sovrasensibili è possibile solo sul piano delle pure forme. Non è difficile, tuttavia, rendersi conto che le cose non stanno così e che non è possibile espungere il colore o la forma dall’ambito delle considerazioni este-tiche. Vi sono, è vero, musiche e dipinti in cui la forma è più importante del colore o della determinatezza qualitativa e timbrica dei suoni, ma le cose non stanno necessariamente così: un conto è ascoltare un concerto di Telemann, un altro un Notturno di Debussy e simili considerazioni valgono anche sul terreno pittorico. Posso forse pensare che i colori non siano così rilevanti in un dipinto di Dürer, ma non in un quadro di Gauguin, ed è anche troppo evidente che – con buona pace di Kant – non si possa venire a capo di questa difficoltà sostenendo che colori e suoni sono importanti ma solo perché ci consentono di evidenziare le forme che si rivelano attraverso la loro disposizione. Un suono può essere bello in sé e un colore può piacerci senza per questo distoglierci dalla dimensione del giudizio di gusto: Kant non se ne avvede perché è costretto da ragioni di principio, prima ancora che di gusto, a rinchiudere la sfera del bello nell’ambito di ciò che è meramente formale.

Del resto, anche la tesi – così ricca di aspetti interessanti – secondo la quale il bello non può essere vincolato da precetti non sembra facilmente riconciliabile con la tesi della ne-cessaria armonia tra le facoltà. Certo, Kant intende sottolineare il carattere estetico del giudizio di gusto e vuole prendere le distanze dalla tesi secondo la quale vi sono regole per decidere se qualcosa è bello, ma non è chiaro perché la conformità a scopi di cui Kant ci parla non abbia regole che la definiscano: dire che il bello non è concettuale non è la stessa cosa che negare che vi siano regole che fissano l’accordo armonico tra intelletto e immaginazione. Kant parla di conformità a scopi senza scopo e non si vede perché non sia possibile definire meglio questo concetto, indicando quali sono le sue condizioni di applicazione. Insomma: la posizione kantiana nella Critica della facoltà del giudizio sem-bra sospesa tra un’indeterminatezza che la rende difficilmente afferrabile e una serie di tensioni interne che Kant sembra saper comporre in unità, ma che tuttavia sfuggono al tentativo di una comprensione più approfondita.

Dobbiamo dunque prendere commiato dalla prospettiva della Critica della facoltà del giudizio, e tuttavia se ci siamo soffermati su queste considerazioni kantiane non è certo perché volessimo tentare di confutare le sue tesi in poche battute; al contrario: ciò che ci interessa in Kant, messa da parte ogni ipotesi di carattere interpretativo, è cogliere con tutta libertà alcune suggestioni che le sue pagine ci offrono e che credo debbano essere rammentate perché ci consentono inaspettatamente di trarre alcune .

Credo che vi siano almeno cinque tesi che meritano di essere rammentate e che ci con-sentono in qualche modo di orientare le nostre analisi. Vorrei formularle così:

1. Il giudizio di gusto non ha natura concettuale, ma non per questo è riconducibile alla dimensione causale delle modificazioni sensibili. Anche se di fatto Kant ritiene di

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poter ricondurre sotto l’egida della distinzione tra piacevole e bello la tesi secondo la quale suoni e colori non possono essere oggetto di un giudizio di gusto, le sue riflessioni mirano a sottolineare come si possa trovare bello qualcosa solo se il pia-cere che proviamo in sua presenza non è un effetto causalmente determinato, ma passa attraverso un’attenta valutazione percettiva e cognitiva delle qualità della rap-presentazione. Certo, la bellezza non può essere argomentata: non è oggetto di una disputa, ma se ne può discutere perché è comunque frutto di un’esperienza che ha una sua rilevanza cognitiva.

2. La bellezza è una proprietà strettamente fenomenica e non implica in nessun modo un giudizio sull’esistenza dell’oggetto rappresentato, né una qualche considerazione che vada al di là di esso. Bello è ciò che è conforme ad uno scopo, anche se di uno scopo che stia a fondamento di quella conformità non è in alcun modo necessario parlare.

3. Il piacere estetico si avverte, ma non si prova: non è una sensazione che attribuiamo a noi stessi e che ci parla di una qualche modificazione del nostro stato, ma è l’av-vertimento di una forma.

4. La bellezza non ha carattere concettuale: è una proprietà esperita e non può essere in alcun modo ricondotta ad una comprensione confusa di un qualche concetto. La bel-lezza non è la cifra di un ordine concettuale che comprendiamo a fatica.

5. Per Kant discorrere dell’esperienza del bello significa in fondo rivolgere l’attenzione a ciò che fa sì che questo mondo ci appaia come il nostro mondo, come uno spetta-colo in cui si manifesta un’immediata adeguatezza a quell’ordine sovrasensibile che ci caratterizza e che ci piacerebbe ritrovare come una presenza immediata nel vivere. Si tratta, come sappiamo, di una tesi che rimanda, per Kant, ad un’esigenza che è strettamente connessa con quei sogni della metafisica da cui ci si può svegliare, ma non liberarsi. E tuttavia, se abbandoniamo la dimensione metafisica e ci disponiamo sul terreno del giudizio estetico, le richieste della metafisica sembrano trovare una loro parziale soddisfazione.

Di queste tesi di carattere generale in cui ci siamo passo dopo passo imbattuti nelle pagine che abbiamo dedicato alle riflessioni kantiane, io credo che si possa avvalere per far luce almeno in parte sul nostro problema. Dimentichiamoci allora del problema della bellezza e chiediamoci se questi cinque punti (che abbiamo formulato con una certa libertà) non possano aiutarci a comprendere la natura di quelle proprietà fenomeniche che non ci par-lano di un vissuto o di uno stato d’animo, ma che tuttavia inscenano una dimensione espressiva. Che a questa domanda si possa dare una risposta affermativa è una supposi-zione della cui plausibilità dovremo cercare di convincerci nel corso di queste lezioni.

2. Quello che ci aspetta

Le riflessioni che abbiamo raccolto nella nostra lunga digressione kantiana ci consentono di tornare al nostro problema con un’accresciuta consapevolezza. In modo particolare, le analisi kantiane ci consentono di mettere da canto ogni tentativo di vincolare in modo troppo stretto le proprietà espressive di cui dobbiamo discorrere ed il loro occorrere nei contesti intenzionali dell’arte. Certo, quando ascoltiamo un brano musicale dobbiamo es-sere consapevoli che quelle note sono state scelte in ragione di un progetto espressivo determinato, ma che così stiano le cose – che all’espressività dei suoni corrisponda un

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intento espressivo della soggettività che li ha scelti per un qualche motivo – non può of-frirci una spiegazione complessiva del fenomeno delle proprietà espressive perché, come Kant ci ha mostrato, il fenomeno dell’espressività attraversa l’arte come la natura e non può essere discusso separatamente. Possiamo insomma pensare che in un brano musicale l’espressività derivi da un’intenzionalità che la precede e la attraversa, ma nel caso della serenità che pervade una sera d’estate non possiamo non riconoscere che l’espressività è un dato originario che può forse essere il fondamento di una finzione di intenzionalità, ma che non può essere spiegata su quella base.

Le proprietà espressive sono un dato originario: è di qui che, credo, dobbiamo muovere per venire a capo del nostro problema. Un tuono ci appare minaccioso prima di ogni altra considerazione: è qualcosa che ci si dà in questa peculiare modalità. Il tuono lo incon-triamo così – con questa particolare e caratteristica minacciosità che non ha nulla a che fare con il fatto che ad esso segua la grandine o il temporale. Il tuono ci appare minaccioso perché non possiamo non sentirlo se non in questo modo, anche se naturalmente questo non significa che si debba per questo credere che il tuono ci stia minacciando e che il suo squassare l’aria con un boato valga come per noi come un gesto di intimidazione. Nel mondo della nostra esperienza quotidiana le cose si danno insieme alle loro proprietà espressive: le incontriamo appunto così. Ma questo non significa che valga per noi un animismo ingenuo; il tuono suona minaccioso, ma non minaccia nessuno, anche se ci fa sobbalzare: lo percepiamo proprio così, come un suono minaccioso che non racchiude una minaccia, proprio come una sera d’estate la incontriamo nella sua serenità che può perva-derci e rasserenarci, ma non convincerci a mettere da canto le nostre eventuali preoccu-pazioni. Il punto è qui: incontriamo le cose insieme ad una miriade di proprietà espressive che non possiamo tuttavia intendere come se fossero manifestazione di uno stato d’animo o come se fossero parte di una gestualità intenzionalità. Una giornata di primavera è ri-dente, ma non sorride proprio a nessuno anche se può rasserenare chi la vive ed è per questo che è necessaria una finzione poetica per chiedersi a quale suo dolce amore la primavera sorrida.

Di qui il problema che dobbiamo affrontare e che avevamo già indicato nelle prime battute del nostro corso: vi sono proprietà espressive che incontriamo nel mondo e che esperiamo e viviamo, ma che evidentemente non ci consentono di attribuire uno stato d’animo agli eventi o alle cose cui si legano: una successione di suoni è malinconica senza esserlo affatto, e se le cose stanno così – se la malinconia di un adagio c’è perché l’avver-tiamo e non c’è perché non l’avvertono i suoni e non possiamo attribuirla al loro risuonare – allora è evidente che siamo in debito di una chiarificazione che ci consenta di chiarire meglio questa contraddizione apparente.

Credo che ci siano almeno quattro differenti vie che possono essere seguite per cercare di venire a capo di questo nodo – quattro vie che ci occuperanno nelle prossime lezioni poiché dovremo cercare di spiegarle, di renderle in qualche modo persuasive, per poi ten-tare di decidere quale sia la via che dobbiamo seguire. Vediamole:

1. La teoria causalistica. Vi sono determinati contenuti che in soggetti normali e in circostanze normali ridestano determinati vissuti affettivamente determinati. Come la mano del pianista, schiacciando i tasti, produce una successione di note, così le note toccano le corde sensibili della soggettività e determinano causalmente un succedersi di stati affettivi. Altro da spiegare non vi è, se non la tendenza ad imputare alla causa ciò che compete all’effetto – diciamo impropriamente malinconica la musica che ascol-tiamo, mentre malinconica è solo la reazione che causalmente ne deriva;

2. La teoria della proiezione. Le proprietà espressive sono frutto di una proiezione

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soggettiva di cui occorre cercare di rendere conto, perché solo se si riesce a far luce sulle motivazioni di varia natura che determinano la proiezione di ciò che la soggettività prova sul contenuto rappresentativo cui si rapporta diviene possibile poi comprendere pienamente la natura delle proprietà espressive;

3. La teoria dell’assimilazione. Le proprietà espressive sono frutto di un falso rico-noscimento: un tratto fenomenicamente rilevante le accomuna a situazioni in cui è pos-sibile un’attribuzione effettiva dello stato d’animo che traspare nella scena esperita e questo determina da un lato un falso riconoscimento, dall’altro l’attribuzione – sia pure erronea – di un vissuto affettivo a ciò che propriamente non può averne esperienza. Avvertiamo la malinconia dell’adagio che ascoltiamo perché qualcosa nell’adagio ram-menta nella sua struttura fenomenologica l’espressione umana della malinconia, quell’espressione che solo può dirsi appropriata;

4. La prospettiva fenomenologica. Le proprietà espressive, anche quando non si le-gano ad un contesto umano o animale e non ci consentono di attribuire uno stato d’animo corrispondente, sono proprietà che incontriamo e che vanno descritte nella specificità della loro natura. Di qui si dovrà muovere per indicare le ragioni che impe-discono all’esperienza di determinate proprietà espressive di caratterizzarsi come pro-prietà che legittimano l’attribuzione di un determinato stato d’animo.

Dobbiamo muovere di qui, per cercare di comprendere quale di queste vie sia davvero percorribile.

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LEZIONE QUINTA

1. Le teorie causalistiche

Vogliamo innanzitutto prendere le mosse di qui, da un’analisi di quelle teorie che ci invi-tano a sostenere che quando affermiamo che qualcosa – un colore, una successione di suoni, un evento – ha una certa proprietà espressiva anche se non è un soggetto animato ciò che vogliamo propriamente sostenere è soltanto che esso, in circostanze normali, su-scita in un soggetto percipiente normale un determinato stato affettivo che è nella norma connesso con la proprietà espressiva che si crede di ravvisare. Così, dire di un paesaggio collineare che è sereno non significa altro che affermare che quel paesaggio solitamente suscita in uno spettatore normale una certa sensazione affettiva che di fatto si accompagna alla serenità. Certo, per ragionare così dobbiamo innanzitutto chiudere gli occhi sul fatto che una simile teoria ci invita a trasporre quello che di fatto proviamo in una qualche caratteristica dell’oggetto poiché almeno di primo acchito ci sembra che ad essere sereno sia davvero il paesaggio e non chi si lascia rasserenare dallo spettacolo del suo manife-starsi, ma in fondo queste considerazioni sembrano essere meno cogenti di quanto sem-brino. Non si potrebbe rammentare che anche i colori li collochiamo nelle cose, anche se abbiamo buone ragioni per sostenere che le cose colorate non sono, ma suscitano in noi le sensazioni che ce le fanno apparire tali? Insomma: se ci disponiamo sul terreno causale non sembra essere difficile trovare una spiegazione per venire a capo della localizzazione delle proprietà espressive poiché non è difficile trovare situazioni di natura percettiva in cui si proiettano gli effetti sulle cause, lo stato psicologico indotto sulla realtà che l’ha suscitato. Diciamo sereno un paesaggio perché ci rasserena, proprio come diciamo giallo un limone perché determina in noi proprio questa sensazione cromatica – ecco tutto. Cer-care invece la causa del giallo che percepisco nel limone nell’essere giallo del limone o del mio rasserenarmi di fronte ad un paesaggio nel suo essere sereno vorrebbe dire per-dersi in considerazioni oziose. Se vedo giallo il limone non è a causa del suo essere giallo, ma perché la sua scorza riflette certe onde luminose cui il mio sistema percettivo reagisce proprio così – facendomi avere proprio questa percezione determinata. Ed uno stesso di-scorso vale per la serenità del paesaggio che mi rasserena non in virtù del suo essere se-reno, ma perché ha un insieme di proprietà fisiche che evidentemente così agiscono sul mio sistema nervoso.

Come dobbiamo reagire a queste considerazioni? Riconoscendo, io credo, che vi è un senso in cui esse sono banalmente vere. Certo, un paesaggio sereno è, tra le altre cose, un paesaggio che in certe circostanze sa rasserenarci, e se ciò accade deve anche accadere qualcosa di rilevante sul terreno dei nessi causali. Forse si potrà obiettare che il nesso è più complesso di come l’abbiamo indicato, che il mio rasserenarmi ha per causa la perce-zione di quel paesaggio e non direttamente il paesaggio stesso, ma in un qualche senso del termine di queste considerazioni possiamo disinteressarci e osservare che è ovvio che le cose stiano così: se qualcosa accade, deve esserci una causa e se ciò che accade è che la percezione di x determina lo stato affettivo y, allora y è in qualche modo causalmente connesso a x e alle proprietà reali che lo determinano.

È ovvio, appunto: gli eventi hanno una causa e tra questi eventi debbono esserci anche gli accadimenti psichici che animano la soggettività. Che poi sul terreno delle cause ci si imbatta in una nozione di realtà che in linea di principio è sorda alle determinazioni dei nostri vissuti soggettivi è un fatto relativamente ovvio, di cui non è poi il caso di lamen-tarsi o di stupirsi. Le cose stanno appunto così, e tuttavia sarebbe un errore credere che questo sia sufficiente per riconoscere la validità della teoria causalistica. Ciò che essa

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afferma non è il fatto, in sé ovvio, che se qualcosa ci appare in un certo modo, allora vi sono cause del suo apparirci così, ma che non abbiamo altro modo di parlarne se non alludendo a quelle cause e che non è possibile addurre una qualche diversa ragione per giustificare il nesso che sussiste tra ciò che avvertiamo e ciò che si manifesta.

Vorrei chiarire questo punto con un esempio che ha una sua origine illustre. C’è un passo nel Fedone in cui Socrate, per rispondere a Cebete, sente il bisogno di avanzare una critica alle teorie naturalistiche di Anassagora e lo fa tracciando una distinzione impor-tante: la distinzione tra l’ordine delle ragioni e l’ordine delle cause. Anassagora parla di una ragione che tutto guida, ma sembra poi essere cieco a questa distinzione:

mi pareva che egli facesse precisamente come uno che, mentre dice, per esempio, che Socrate, tutto quel che fa, lo fa con la mente, quando poi si tratta di spiegare le cause di ogni mio gesto, se ne esce col dire che io sto seduto perché il mio corpo è fatto di ossa e di muscoli e che le ossa son rigide e hanno le articolazioni che le separano le une dalle altre, mentre i muscoli son fatti in modo che si possono tendere e allentare, che essi circondano le ossa insieme alla carne e alla pelle che tutto rac-chiude e che, quindi, grazie alle ossa che fanno leva sulle loro giunture e ai muscoli che si tendono e si allentano, io ho la possibilità di piegare le membra e che, quindi, per questo motivo, ora sto qui seduto con le gambe piegate. E del fatto che io ora sto parlando con voi, potrebbe tirare in ballo un sacco di cause simili, la voce, per esem-pio, l’aria, l’udito e altre del genere, ma non quelle che sono le vere ragioni, cioè che, siccome gli ateniesi han pensato bene di condannarmi, io, a mia volta, ho rite-nuto che fosse più opportuno restarmene seduto qui e più giusto subire la pena che essi hanno decretato. Ah, vi assicuro, perdinci, che queste ossa e questi muscoli sa-rebbero, a quest’ora, già a Megara o in Beozia, sicure che lì sarebbero state certo assai meglio, se io non avessi, invece, ritenuto più giusto e più bello, anziché tagliare la corda e fuggire, pagare alla patria qualunque pena essa mi avesse inflitto. Chia-mare cause tutte queste cose, mi sembra proprio un’assurdità: al massimo uno può dire che, senza ossa, senza muscoli e tutto il resto, io non potrei fare ciò che voglio, ed avrebbe ragione, ma affermare che di tutto ciò che faccio – che è pure il frutto di un mio pensiero – la causa sono i muscoli e le ossa e non la conseguenza di una scelta del meglio, è proprio un voler deformare il senso delle parole. Perché questo, infatti, significa non capire che una cosa è la causa vera e propria e un’altra è la condizione senza la quale la causa non potrà mai essere tale (Platone, Fedone, ).

Platone distingue tra cause e condizioni, ma forse farebbe meglio a distinguere tra ragioni e cause – se non lo fa è perché il ragionamento in cui si imbatte gli appare in una luce particolare che è determinata dall’incontrastata priorità della dimensione ideale delle ra-gioni su quella reale delle cause. Si tratta tuttavia di una distinzione importante: vi sono cause per le quali accade che Socrate sia seduto (muscoli e tendini e ossa disposte in un certo modo) e vi sono ragioni della sua scelta (il suo accettare le leggi della patria), così come ci sono cause del mio dire che 4 è il risultato della somma di due a due (una certa successione di stati cerebrali) e ragioni per giustificare una simile asserzione. Ora ricono-scere che ci sono cause non significa negare che vi siano ragioni: le une e le altre appar-tengono ad ordini profondamente distinti e non vi è nulla di contraddittorio nel riconoscere che vi sono ragioni che giustificano le nostre decisioni e cause di cui esse sono gli effetti. D’altro canto, affermare che possono esservi ragioni di un accadimento non significa che debbano esservi necessariamente: il calore fa espandere il mercurio che si innalza nella cannula del termometro – e questo è un accadimento per cui vi è appunto una causa, ma non avrebbe senso cercare anche una ragione. Gli accadimenti fisici hanno solo cause: cercare ragioni sarebbe in questo caso del tutto fuori luogo.

È di qui che dobbiamo muovere per comprendere il nerbo della teoria causalistica. Chi

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sostiene che una melodia musicale sia malinconica perché è capace di ridestare in chi l’ascolta uno stato affettivo corrispondente non si limita a sostenere che vi è un piano causale – questa è appunto un’ovvietà – ma ritiene che si possa anche affermare che non ha senso cercare altra spiegazione se non questa. Posso dire perché mi rallegro se tu sei felice, ma non posso dire perché provo malinconia quando sento un adagio: qui non c’è spazio per ragioni, ma solo per cause, laddove nel primo caso alla dimensione causalistica sembra legittimo affiancare una considerazione tutta interna allo spazio logico delle ra-gioni.

Per rendere plausibile questa tesi è forse opportuno mostrare, in primo luogo, che non è affatto vero che la sfera delle nostre emozioni si rapporti agli oggetti della nostra espe-rienza attraverso la mediazione di un’istanza cognitiva e razionale che, attestata la pre-senza e l’esistenza di un determinato oggetto, lo pone come motivo di un atto emotivo determinato. Certo, posso aver paura di un cane feroce e questo timore è evidentemente legato al mio credere che quel cane esista, ma sarebbe sbagliato credere che le cose stiano sempre così. Le emozioni sono spesso sganciate da qualsiasi valutazione razionale e pos-siamo provare paura anche quando sappiamo che non ci sono ragioni per temere alcunché: posso avere paura anche se cammino vicino a un precipizio ben recintato, anche se so che non c’è nessun pericolo e le fobie ci mostrano che vi sono paure irrazionali che non pos-sono essere analizzate come risposte razionali a ciò che ci è cognitivamente dato. E gioie irrazionali: qualche volta siamo felici senza averne alcun motivo.

Del resto, che non si possa venire a capo della dimensione emozionale semplicemente rammentando la relazione razionale che lega le emozioni ai contenuti cognitivi che le sorreggono è un fatto in cui ci imbattiamo quando riflettiamo sul fatto che in una poesia o in un film non sono certo solo le proposizioni espresse a veicolare emozioni: anche il ritmo o la musica o la scelta delle luci e delle ombre ridesta sensazioni che determinano la nostra vita emozionale. Di qui la conclusione verso cui convergono queste considera-zioni su cui Derek Matravers si è soffermato in un bel libro, intitolato Art and Emotion. Le rappresentazioni, per Matravers, ridestano emozioni in chi ne fruisce, ma le suscitano non soltanto in virtù del loro contenuto, ma anche in ragione dei loro aspetti non rappre-sentazionali: un testo può emozionarci per la sua forma, per il suono delle parole, per il ritmo del loro incedere o per la loro musicalità, e per molte altre determinazioni che non appartengono al contenuto proposizionale dell’opera. Si tratta di un’ovvietà, che deve tut-tavia essere sottolineata perché ci consente di constatare come le emozioni debbano essere caratterizzate nel loro aspetto complessivo non solo da credenze, ma anche da una dimen-sione affettiva: ogni emozione è dunque caratterizzata anche da stati affettivi (feelings) che ne determinano la natura e ne definiscono l’identità:

as an emotion is partly constituted by a feeling, and as a feeling can be affected directly by properties other than a representation’s representational properties, these properties will affect the identity of the resultant emotion. The lighting and music of a Dracula film might cause a feeling of disgust. This feeling, together with various propositions the observer is caused to imagine by the film, might cause revulsion. The propositions, however, might not have been sufficient to cause revulsion; they might equally have caused fear. Hence, the non-cognitive reaction, disgust, has par-tially determined the identity of the felt emotions (D. Matravers, Art and Emotion, At the Clarendon Press, Oxford 1998, p. 92).

Il senso di queste considerazioni è relativamente chiaro. Il carattere di un’emozione di-pende in linea di principio dal carattere peculiare degli stati affettivi che la determinano.

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Vi sono tuttavia stati affettivi che non traggono la loro origine da contenuti rappresenta-tivi, ma da componenti come la sonorità o il ritmo o il colore: ne segue, per Matravers, che le emozioni che un’opera d’arte ridesta non possono essere interamente comprese disponendosi sul terreno cognitivo. Un racconto può sembrarci triste e dimesso non solo per il suo contenuto, ma anche per la sua forma; la forma tuttavia non ci sembra triste perché ha un contenuto triste, ma solo perché – sostiene Matravers – sa ridestare in noi il carattere della tristezza. Un ritmo lento non ha una connessione razionale con la tristezza, ma la ridesta in noi; di qui, per Matravers, la necessità di abbandonare una concezione cognitivista e di abbracciare accanto ad essa una teoria del ridestamento, – una arousal theory.

Va da sé che la musica sembra essere il terreno più indicato per mostrare che così stanno le cose perché la musica non ha, in generale, un contenuto semantico determinato, non ci parla di persone e accadimenti e non descrive paesaggi o città lontane. Certo, qualche volta accade così e qualche volta i musicisti si avvalgono di titoli allusivi – Debussy inti-tola una sua opera famosa Il mare e vi sono Notturni e Pastorali – ma spesso si tratta soltanto di suggestioni e nella norma la musica non è né descrittiva, né tanto meno narra-tiva. Ma se la musica non può avere un carattere espressivo in virtù di quello che dice, sembra necessario riconoscere che per il filosofo cognitivista resta aperta solo una via per eludere un’impostazione causalistica: deve sostenere che il carattere espressivo di un brano musicale poggia su un falso riconoscimento. Deve in altri termini riconoscere una qualche somiglianza tra strutture del linguaggio musicale e ciò che più propriamente ci consente di applicare il linguaggio delle emozioni e cioè il comportamento umano: una musica triste dovrà essere allora simile ad un lamento, un ritmo malinconico ad una ge-stualità esangue, e così di seguito. Ma si tratta di una tesi che sembra essere non soltanto vaga, ma decisamente poco plausibile perché sembra vincolare l’afferramento della di-mensione espressiva della musica ad una somiglianza che non abbiamo affatto l’impres-sione di cogliere. Di qui la proposta di Matravers, una proposta che ci invita a dimenticare la dimensione cognitiva e a sostenere che se percepiamo come triste un brano musicale o una poesia e come serena una notte d’estate è solo perché l’una e l’altra ridestano in noi determinati vissuti che, a loro volta, determinano causalmente l’insorgere di quelle cre-denze che ci consentono di attribuire ad una musica o ad un paesaggio un insieme di emozioni – di rappresentarcele appunto come tristi o come serene:

the alternative account […] is that our application of an emotion term to a poem is grounded in the fact that the poem arouses feeling similar to those which we would feel were we confronted with a person expressing that emotion. Art is expressive because it arouses feelings characteristic of our reactions to people who are express-ing emotion. The arousal of these feelings causes the belief that the work expresses that emotion to which these feelings form part of the characteristic response (ivi, p. 98).

Di qui Matravers trae alcune considerazioni di carattere generale. La prima concerne la natura delle emozioni che la musica può in generale esprimere. Per Matravers non vi sono dubbi: queste emozioni devono essere caratterizzate da una certa astratta generalità poiché di fatto sorgono non da una comprensione di un evento, ma dal riconoscimento di una sensazione – la sensazione che le accompagna. Insomma: se una musica ci sembra malin-conica è solo perché ridesta causalmente un certo vissuto che solitamente si accompagna alla malinconia. Ad una malinconia prototipica e inarticolata:

If the arousal theory were correct, then, we would expect expressive judgments

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to describe works in fairly general terms. This is, in fact, what we do find. As Mal-colm Budd says, «music’s ability to express emotion should not be exaggerated: the scope of the musical expression of emotion is not the complete field of the emotions, and unless a literal conception of states that involve emotion is adopted the list of kinds of emotion that music—the music we are familiar with—can express is em-barrassingly short. (Budd 1989: 129)» The main point here is that the list of kinds of emotion that music can express is ‘embarrassingly short’. A brief and unsystem-atic review of music criticism (on the program note level, these being descriptions intended to capture the experience of music) supports this view. Certain emotion terms occur with much greater frequency than others. Among the most popular we find terms such as: melancholy, gay, gloomy, joyful, and calm. Thus the problem for the arousal theory is not as might have been supposed. If there are only a small number of kinds of expressive judgment, there need be only a small number of distinct kinds of feeling aroused by music. This, it seems to me, is very probably true. In brief, the central case provides us with characteristic links between emotions expressed and emotions aroused at a level of generality characteristic of expressive judgments (ivi, p. 153).

Una seconda caratteristica su cui è opportuno richiamare l’attenzione è, per Matravers, il carattere pragmatico della prassi artistica. In fondo, il musicista che opera con le note non fa altro che aggiungere ingredienti al suo prodotto, sino a quando il risultato gli sembra apprezzabile. Certo, il musicista ha imparato per esperienza quale effetto solitamente si lega ad un suono piuttosto che a un altro, ma questo non toglie che la sua prassi resta in un certo senso cieca: non può dire perché le note agiscono così, ma può constatare la loro specifica azione. I suoni sono sostanze che agiscono in un certo modo e così come ab-biamo imparato per prove ed errori che una certa erba aveva un potere rilassante ed un’al-tra un potere digestivo, così l’artista deve scoprire che effetto fanno suoni e colori, oppor-tunamente mescolati:

The artist presents a prima facie problem for the arousal theory which we are now in a position to solve. The problem is that if the basic properties which make a work of art express an emotion can only be defined by the fact that they cause certain emo-tional experiences, how can anybody know what those properties are in advance of their causing those experiences? In other words, how would it be possible for an artist to know in advance what properties to put into a picture in order to make it express a certain emotion, if knowing that it did so depended on its being experi-enced ?The analogy with secondary qualities shows why this is not a problem in principle for the arousal theory, merely a problem in practice for the artist. For we saw, when considering colour, how it is possible for someone to know that a primary property causes (or primary properties cause) a particular secondary quality, and then to use that knowledge to produce something with that quality. That is, a colour chemist is someone who knows how to produce an object which will cause a partic-ular colour experience by reflecting, emitting, or transmitting light of the right fre-quency; and there is nothing mysterious about the inductive processes by which paint manufacturers and others come by such knowledge. A colour chemist is, in this re-spect, analogous to someone who is able to create an emotionally expressive work of art. Part of being a skilled artist is knowing how to manipulate the medium in which you are working so as to cause the right kind of emotional experiences in a qualified observer in perceptually normal conditions. This is not, of course, to deny that this process will differ significantly from the much simpler process of producing red paint. In particular, artists may not need to be self-consciously aware of what they are doing in creating a certain work: it is no part of my claim that the artist’s knowledge must be propositional –’knowledge that’ as opposed to ‘knowledge how’

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(ivi, pp. 216-217).

Non c’è insomma un progetto espressivo che si legga nei suoni e nei colori, ma c’è un agire così, di cui si deve semplicemente prendere atto. I suoni agiscono così: un adagio di Bach ci rende malinconici, ma avrebbe potuto andare diversamente ed è per questo che il pittore, il poeta e il musicista debbono assaggiare spesso la loro opera, per controllare che cosa è accaduto.

Vi è poi una terza conseguenza che è opportuno trarre e che Matravers non trae, anche se tutto fa pensare che la consideri ovvia. Un’opera d’arte agisce su di noi e il suo senso si esaurisce proprio in questo: nel suo essere un dispositivo che determina certi stati emo-tivi. In questo senso il paragone con l’erborista è davvero calzante. Un quadro fa un certo effetto, proprio come possono farlo certe erbe o certi funghi che ci fanno provare per un certo tempo certe sensazioni. Il poeta prepara la sua pozione e il lettore la legge e si lascia travolgere dalle emozioni, finché rime e metro fanno il loro effetto. Di più non si può chiedere, ed in effetti è in linea di principio possibile pensare di sostituire una sinfonia con una droga: se il compito è quello di ridestare in noi determinati stati sensibili e, me-diatamente, determinate emozioni elementari, allora ciò che conta è soltanto il risultato. Un brano musicale è un kit per emozioni – che potremmo procurarci anche altrimenti, se solo ne fossimo capaci o se solo avessimo le sostanze giuste a portata di mano.

Colori, suoni e forme – scriveva Kandinsky in Lo spirituale nell’arte – sono mezzi che ci consentono di esercitare un influsso diretto sull’anima che possiamo proprio rappresen-tarci come un pianoforte dalle molte corde che vengono sollecitate dai tasti e dai martel-letti della nostra sensibilità. E ciò che un suono esprime può essere espresso da un colore o da una forma o da un’immagine poetica o da un passo di danza – una specificità delle arti e della loro valenza espressiva non vi è: ciò che conta – per Kandinsky – è il suono interiore, la corda toccata e fatta risuonare, non la mano che ha toccato il tasto. Ma se per Kandinsky questa concezione causalistica dell’agire dell’arte si legava al progetto di un’arte totale in cui suoni, colori, forme, corpo e parola poetica si fondessero in unico disegno, in Matravers l’idea causalistica si traduce in una sostanziale negazione della sen-satezza dell’arte cui non si chiede di farci comprendere nulla, ma solo di farci provare degli stati affettivi – non importa come.

2. Considerazioni critiche

Nella prima parte di questa lezione abbiamo cercato di rendere conto della tesi causali-stica, ma il nostro sforzo di natura espositiva si è passo dopo passo caricato di accenti critici. In modo particolare, nelle ultime osservazioni sul testo di Matravers mi è sembrato necessario indicare un punto di dissenso su cui vi invito a riflettere. Io non credo che un quadro o un brano musicale o un balletto possano essere intesi soltanto così – come stru-menti che ridestano una qualche emozione. In un certo senso, non è questa l’esperienza dell’arte che mi sono fatto. Certo, un quadro sollecita delle emozioni e ci fa sentire qual-cosa, ma questo non significa che non si possa dire null’altro se non questo: che agisce su di me, come una sostanza chimica che fa sorgere in noi determinati stati affettivi. I colori e le forme non sono il martelletto che fa risuonare la corda, con buona pace di Kandinsky, ma sono innanzitutto parte della nostra esperienza del mondo che risuona e traluce in essi. Non so perché il paracetamolo sia un antipiretico, ma non c’è bisogno di saperlo perché possa usarlo quando ho la febbre, ma mi sembra di sapere bene perché un adagio di Bach è malinconico e mi sembra, ascoltandolo, di capire molte cose sulla malinconia e sui pen-sieri che possono motivarla. Kant aveva ragione: la dimensione espressiva dell’arte non può essere assimilata alla dimensione causale. Il vino delle Canarie è piacevole perché

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suscita in me uno stato piacevole, ma proprio perché il piacere è suscitato in questo caso (almeno per Kant) secondo il nesso di causalità, non è possibile scorgere nello stato che proviamo una regola che ci insegni un nuovo atteggiamento rispetto al nostro mondo e alla nostra vita. Per Matravers accade così: un minuetto causa un certo stato d’animo di serenità, ma non c’è nulla di più di questo. Non c’è nulla da capire e non c’è nulla da pensare. E sarebbe evidentemente sciocco cercare di convincere qualcuno del fatto che un adagio di Bach esprime una malinconia diversa (e direi più profonda) di uno di Liszt – sarebbe sciocco, perché non ha alcun senso chiamare in questo caso in causa il linguaggio della persuasione. Ancora una volta è forse opportuno rammentare la distinzione kantiana tra discutere e disputare. Non si può disputare dell’arte perché non abbiamo argomenti cogenti per dimostrare che le cose stanno così come riteniamo che stiano, ma possiamo egualmente discuterne perché ascoltare un brano musicale significa lasciarsi pervadere da molti pensieri e per quanto questi pensieri siano sfuggenti e concrescano sui suoni, questo non toglie che sia possibile parlare di un’opera musicale, indicare un modo per ascoltarla e per intenderla. Discutere di un’opera d’arte significa questo: invitare ad ascoltare o a guardare meglio un passaggio o un gioco di forme, vuol dire fare attenzione a certi mo-menti, ed eventualmente anche provare a coglierli alla luce di un qualche contesto di pen-sieri e di idee. Del resto, ciò che è vero per l’ascoltatore, vale anche per chi esegue un brano musicale o per chi lo legge ad alta voce: l’esecutore ci insegna un modo per inter-pretare ciò che abbiamo di fronte e un’esecuzione o una lettura ci sembra più appropriata o più scadente non in ragione delle emozioni che sorgono in noi ascoltandola, ma alla luce del senso che attribuiamo a ciò che ascoltiamo.

Non solo. Per Matravers un’opera d’arte x ha un valore espressivo peculiare p se e solo se in condizioni normali ridesta in uno spettatore competente una sensazione o una serie di sensazioni determinate. Diciamo in altri termini che una musica è triste se e solo se un ascoltatore esperto prova le stesse sensazioni che, in circostanze normali, proverebbe quando, si trovasse di fronte ad una persona triste. Si tratta di una definizione relativa-mente ovvia e necessaria se vogliamo poter parlare del valore espressivo per esempio di questa sonata e non solo dell’effetto che provoca in me, ma si tratta egualmente di una considerazione che non può non lasciare perplessi perché in un certo senso non è affatto chiaro che cosa voglia dire “ascoltatore competente” in questo contesto – poiché compe-tente sembra essere una caratteristica che si attaglia ad un nesso cognitivo, non ad una mera relazione causale. Una medicina non ha un effetto curativo solo su pazienti compe-tenti: il detto evangelico “medice cura te ipsum” non significa davvero questo!

E ancora. Se qualcuno ritenesse che abbiamo mal compreso un quadro, ci inviterebbe a guardare con più attenzione quel gioco di colori, quel movimento di linee e di corpi - ci inviterebbe, insomma, a guardare meglio, ma non è affatto chiaro che cosa possa voler dire nel contesto delle considerazioni di Matravers un simile discorso. Se il nesso è mera-mente causale può certo capitare che, nel tempo, muti anche la percezione che di qualcosa abbiamo: ascoltando sempre di nuovo la stessa melodia, può accadere che il suo effetto cambi, un po’ come cambia l’effetto della caffeina, quando ci siamo abituati ad essa. Se ci si pone in questa prospettiva, tuttavia, non avrebbe alcun senso dire che, dopo averla sentita e risentita, abbiamo compreso meglio una qualche sonata: dal punto di vista cau-sale, ogni nuovo ascolto è un nuovo evento e proprio per questo non può porsi come una critica o come una correzione o anche solo una conferma di un altro precedente accadi-mento. Ora un brano fa su di me quest’effetto, ora ne fa un altro, ma le piccole differenze che si susseguono non possono insegnarci nulla: sono soltanto eventi diversi. Le gocce che cadono da un rubinetto che perde fanno ciascuna un rumore un poco diverso, ma sarebbe privo di senso chiedersi se nel ripetersi, recitano e interpretano sempre meglio

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uno stesso copione. Disporsi in una prospettiva causalistica e intendere le opere d’arte come se fossero sol-

tanto dei dispositivi per ridestare un’emozione determinata vuol dire anche rendere diffi-cilmente comprensibile la ragione per la quale dovremmo sottoporci ad opere d’arte che suscitano in noi sensazioni sgradevoli. Perché mai dovremmo guardare un quadro come L’urlo di Munch o come la gara di flauto tra Marsia e Pan di Tiziano? Nessuno si mette volontariamente un sassolino nella scarpa per avvertire il fastidio che provoca e non esi-stono medicine per farsi venire il mal di testa. Si cerca di procurarsi uno stato piacevole, ma tutti invece vogliamo procedere nella lettura dell’Edipo anche se sappiamo che ci rat-tristerà – lo sappiamo, ma siamo insieme sicuri che impareremo qualcosa dei sentimenti, della vita, del nostro mondo. Ed uno stesso ordine di considerazioni vale per la musica o per la pittura.

Vi è infine una difficoltà su cui è opportuno soffermarsi. Kandinsky e la poetica del colore. Una versione monolitica. Il dogmatismo implicito nella prospettiva causalistica. Le variazioni sul bianco. Nella prospettiva causalistica è difficile capire come possa ac-cadere. Guardare alla stessa cosa con diverse prospettive. Ora come lo dici… anche questa via sembra preclusa alla arousal theory.

Credo che il senso di queste considerazioni sia ben chiaro. Tutte convergono verso un’unica meta: se ci poniamo nella prospettiva delle teorie causalistiche dobbiamo rinun-ciare senz’altro al linguaggio cognitivo di cui normalmente ci avvaliamo quando ci rap-portiamo ad un’opera d’arte. Non possiamo chiedere di guardare meglio o di ascoltare più attentamente, così come non possiamo ricrederci su un’opera o convincerci sempre di più della sua bellezza. Non possiamo insomma comprendere un brano musicale o un quadro, ma possiamo solo sperare che ci piaccia – proprio come quel vino delle Canarie di cui Kant ci parlava.

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LEZIONE SESTA

1. Le teorie proiettive: un nesso associativo?

Le considerazioni che abbiamo appena svolto ci hanno mostrato quali siano le ragioni che rendono poco persuasiva la tesi secondo la quale le proprietà espressive sarebbero deter-minate causalmente e non vi sarebbe null’altro da dire se non prendere atto che le cose stanno così – che le note di un concerto ci rendono tristi o che i colori e le forme di un dipinto sollecitano in noi un umore allegro. Da queste tesi abbiamo ritenuto fosse neces-sario prendere commiato per diverse ragioni, ma soprattutto perché rendono inapplicabile un linguaggio che ci sembra invece accompagnare necessariamente la nostra esperienza di spettatori attenti di un quadro o di un concerto: il linguaggio cognitivamente atteggiato che ci consente di dire che abbiamo ascoltato meglio un certo brano o che abbiamo com-preso più approfonditamente un dipinto – il linguaggio insomma che non risolve la di-mensione espressiva in un effetto da constatare, ma ne fa piuttosto un obiettivo da rag-giungere.

Di qui la mossa che sembra necessario compiere: se vogliamo restituire la sfera delle proprietà espressive ad un linguaggio cognitivamente atteggiato sembra necessario porre la loro genesi su un terreno che non sia meramente causale, ma appartenga al terreno delle dinamiche dell’esperienza. Le proprietà espressive devono essere spiegate su un terreno che da un lato non ci costringa a sostenere che una musica sia davvero triste e un paesaggio davvero sereno, ma che dall’altro ci consenta di giustificarle come momenti della nostra vita d’esperienza. È di qui che le teorie proiezionistiche sembrano trarre la loro giustifi-cazione: se percepiamo una dimensione affettiva anche là dove non crediamo che vi sia propriamente spazio per emozioni e per affetti, allora questo è segno del fatto che la sog-gettività proietta sulle cose le emozioni e gli affetti che prova e ciò è quanto dire che alla domanda sul perché un brano musicale o un paesaggio ci appare ricco di una sua valenza espressiva si può rispondere indicando quale sia la ragione che spinge l’io a proiettare sulle cose le proprietà espressive di cui facciamo esperienza.

Ora il modo più semplice per giustificare una attribuzione proiettiva ci riconduce alla tematica dei nessi associativi: se un paesaggio ci sembra sereno, ma non è possibile pen-sare che lo sia realmente e se non ci si vuole limitare ad asserire che il vissuto affettivo della serenità è ridestato causalmente in noi dall’esperienza percettiva di cui siamo testi-moni, allora perché non sostenere che la serenità che avvertiamo è soltanto il frutto di un nesso associativo, di un rimando che nel tempo si è venuto consolidando e che ora lega nelle maglie strette dell’abitudine ciò che vediamo a ciò che abbiamo tante volte provato in circostanze simili. In fondo, che così stiano le cose ci sembra essere qualche volta del tutto evidente: ci sono luoghi che ci sembrano lieti e sereni perché vi abbiamo serenamente trascorso momenti felici e ora non possiamo rivederli senza che si faccia avanti non già il ricordo effettivo di ciò che un tempo è accaduto, ma solo l’aura emotiva che ha accompa-gnato le nostre vicende passate. Certi luoghi ci predispongono ad essere sereni, e questo fatto che abbiamo sperimentato tutti più volte sembra essere un segno evidente della pos-sibilità di interpretare in una chiave proiettivo-associativa le proprietà espressive di cui discorriamo. Del resto, a tutti è capitato che una serie di eventi sgradevoli abbiano can-cellato il carattere lieto di un luogo o di un posto: quella casa ci era cara, ma adesso ci parla di ricordi tristi; quella strada che abbiamo percorso mille volte ci era indifferente e ora invece ci sembra sgradevole e deprimente. Accade così, ma se così può accadere è solo perché di per sé una casa o una via non hanno un loro carattere espressivo, ma lo ricevono perché si legano associativamente ad una serie di vissuti che hanno altrove la

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loro origine. Ora, il legame associativo si fonda sull’abitudine; l’abitudine, tuttavia, è per sua natura un meccanismo umbratile che chiede di operare solo quando la soglia della consapevolezza si ottunde. Le abitudini ripetono da sole la loro cantilena e non vi è biso-gno di partecipare attivamente alle loro operazioni. Di qui la loro capacità di ingannarci: ciò che suggeriscono alla nostra mente ci sembra di trovarlo direttamente negli oggetti perché non siamo consapevoli di ciò che ci accade: vediamo un paesaggio e ci sentiamo pervasi da uno stato d’animo peculiare. L’associazione che l’abitudine stringe in un nodo inconsapevole diviene così una proiezione inavvertita: crediamo di trovare nelle cose di cui abbiamo esperienza ciò che vi abbiamo inconsapevolmente messo.

Non è difficile scorgere dietro queste forme argomentative un’eco humeana. Un nesso obiettivo apparente deve rivelarsi infine un nesso soggettivo di cui l’abitudine nasconde l’origine psicologica: è così che Hume spiega i nessi causali. Sul piano obiettivo è inutile cercare cause ed effetti perché un simile nesso non vi è o comunque non è dato esperirlo: di qui la necessità di cercare una genesi della causalità sul terreno immanente della co-scienza. Se ci poniamo in questa prospettiva non è difficile dire che cosa per Hume carat-terizzi il nesso causale. Per farlo è del resto sufficiente descrivere accuratamente un pos-sibile esempio:

Here is a billiard ball lying on the table, and another ball moving towards it with rapidity. They strike; and the ball which was formerly at rest now acquires a motion. This is as perfect an instance of the relation of cause and effect as any which we know, either by sensation or reflection. Let us therefore examine it. It is evident that the two balls touched one another before the motion was communicated, and that there was no interval betwixt the shock and the motion. Contiguity in time and place is therefore a requisite circumstance to the operation of all causes. It is evident, likewise, that the motion which was the cause is prior to the motion which was the effect. Priority in time is therefore another requisite circumstance in every cause. (D. Hume, An Abstract of a “Treatise of human nature”) .

Sul tavolo ci sono due biglie e la seconda si muove quando la prima la urta: gli eventi debbono dunque essere contigui, altrimenti dovremmo accettare che vi sia un nesso cau-sale anche quando il movimento dell’una si origina prima che l’altra l’abbia raggiunta.

La contiguità spaziale, tuttavia, non basta: perché si possa parlare di una relazione di causalità è necessario che gli eventi esibiscano una peculiare forma di ordinamento tem-porale ed in modo particolare ciò che chiamiamo causa deve accadere prima di ciò che chiamiamo effetto. Dunque contiguità e priorità temporale: questo è ciò che possiamo cogliere nell’esempio che abbiamo proposto. Da un punto di vista fenomenologico di più non vi è:

Avendo così scoperto, o supposto, che le due relazioni di contiguità e di successione sono essenziali a quella di causalità, mi accorgo che sono costretto a fermarmi e che, quale che sia il caso particolare di causalità, non posso aggiungere altro. Il movi-mento di un corpo è considerato come la causa, in seguito a un urto, del movimento d’un altro corpo. Considerati questi oggetti con la massima attenzione, trovo che l’uno si avvicina all’altro, e che il suo movimento precede quello dell’altro, sebbene senza un sensibile intervallo. È inutile torturarsi con ulteriori pensieri e riflessioni: qui è tutto quello che si può osservare in questo caso. (D. Hume, Trattato sulla na-tura umana, op. cit., p. 89; - libro I, parte III, § 2).

A queste due condizioni di carattere generale se ne deve affiancare una terza che tuttavia non si radica nella dimensione fenomenologica di un evento causale, ma emerge quando ci chiediamo quale altra condizione debba essere rispettata perché si possa parlare di cau-salità e non di una qualsiasi successione di eventi. Per Hume la risposta è a portata di mano:

But this is not all. Let us try any other balls of the same kind in a like situation, and we shall always

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find that the impulse of the one produces motion in the other. Here, therefore, is a third circumstance, viz. that of a constant conjunction betwixt the cause and effect. Every object like the cause produces always some object like the effect. Beyond these three circumstances of contiguity, priority, and con-stant conjunction, I can discover nothing in this cause. The first ball is in motion; touches the second; immediately the second is in motion: and when I try the experiment with the same or like balls, in the same or like circumstances, I find that upon the motion and touch of the one ball, motion always follows in the other. In whatever shape I turn this matter, and however I examine it, I can find nothing farther (D. Hume, An Abstract..).

Si tratta di una constatazione plausibile. In effetti, se fosse accaduto soltanto una volta che un corpo in movimento ne urtasse uno fermo e determinasse poi il movimento di quest’ul-timo, noi non parleremmo di una relazione causale. Perché si possa dire di due eventi che sono causalmente connessi non basta la contiguità spaziale e la priorità temporale dell’uno rispetto all’altro: è necessario anche che il loro essere in questo modo congiunti esibisca una manifesta ripetibilità. La congiunzione deve essere costante perché il concetto di causa non tollera eccezioni: in circostanze simili debbono accadere eventi simili.

Debbono appunto: la relazione causale sembra racchiudere in sé l’idea di un vincolo che la natura pone all’accadere, di una regola che sottrae al divenire temporale la sua apertura, per ancorarlo ad un corso stabile e prevedibile degli eventi. Il vincolo causale è un vincolo necessario – questo è il punto, e il rimando alla necessità come caratteristica implicita nella struttura di ogni relazione causale è evidentemente il fondamento del carattere infe-renziale della causalità. Hume sembra dunque ragionare così: il nesso causale implica la ripetibilità senza eccezioni; la ripetibilità senza eccezione è indice della necessità; la ne-cessità a sua volta sostiene la possibilità dell’inferenza ed è per questo che la causalità ci consente di inferire dall’accadere di un evento l’esserci stato della sua causa o il futuro esserci di un suo effetto.

Questo modo di argomentare è, credo, del tutto plausibile, ma ci pone egualmente un problema perché non è affatto chiaro quale possa essere il fondamento su cui tale necessità poggia. Non si tratta di una necessità che possa ricondurci, come sappiamo, ad una qual-che ipotesi metafisica concernente la struttura profonda della realtà: la necessità di cui discorriamo deve giustificare la nostra inferenza e ciò è quanto dire che deve in linea di principio appartenere allo spazio logico delle ragioni. Una necessità inattingibile non vale come giustificazione di un’inferenza. Ma se le ragioni della metafisica non possono gui-darci, non è lecito nemmeno tentare di venire a capo del problema di cui discorriamo assimilando le inferenze causali alle inferenze logiche. Inferire causalmente non significa dedurre logicamente e per rendersene conto è sufficiente riflettere sul fatto che il legame causale non è razionalmente perspicuo. Del resto, che non si tratti di un’inferenza logica lo si coglie non appena richiamiamo l’attenzione sul fatto che non vi è nulla che ci impe-disca di pensare che un evento accada senza una causa. Possiamo immaginare che le cose stiano proprio così – che ciò che ora accade sia semplicemente accaduto e che sia sorto senza dover nulla a nessuno. Posso, in altri termini, separare l’idea di un accadimento da ogni domanda sulla sua origine e da ogni idea di una causa che l’abbia posto in essere e ciò è quanto dire che il legame causale può essere infranto senza che per questo si dissolva un’immagine possibile del mondo.

A queste considerazioni di natura argomentativa, Hume sente il bisogno di affiancare una sorta di esperimento mentale in cui non è difficile scorgere il fascino settecentesco per l’argomento delle origini. Immaginiamoci allora Adamo e, accanto a lui, un tavolo da biliardo, anche se è lecito dubitare che davvero ve ne fosse uno nell’Eden – almeno prima che il peccato originale fosse stato compiuto. Poi alle fantasie del primo uomo affian-chiamo il racconto fantastico della prima partita a biliardo e chiediamoci se Adamo poteva davvero attendersi che cosa sarebbe accaduto ad una delle sue biglie subito dopo l’urto.

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A questa domanda si deve rispondere negativamente:

Were a man, such as Adam, created in the full vigour of understanding, without experience, he would never be able to infer motion in the second ball from the motion and impulse of the first. It is not anything that reason sees in the cause which makes us infer the effect. Such an inference, were it possible, would amount to a demonstration, as being founded merely on the comparison of ideas. But no inference from cause to effect amounts to a demonstration (D. Hume, An Abstract...)

È una constatazione importante che ci costringe a leggere più attentamente ciò che è rac-chiuso nella terza condizione cui è vincolata l’attribuzione di un nesso causale ad una determinata successione di eventi: se Hume parla di esperienza ripetuta non è soltanto perché intende sottolineare che la causalità è un legame che non tollera eccezioni, ma anche perché vuole farci riflettere sul fatto che abbiamo bisogno di fare appello all’espe-rienza passata per poter scorgere il carattere coercitivo delle relazioni causali. Adamo deve invecchiare per poter cogliere negli accadimenti del mondo il loro essere conformi al corso del mondo:

It would have been necessary, therefore, for Adam (if he was not inspired) to have had experience of the effect which followed upon the impulse of these two balls. He must have seen, in several instances, that when the one ball struck upon the other, the second always acquired motion. If he had seen a sufficient number of instances of this kind, whenever he saw the one ball moving towards the other, he would al-ways conclude without hesitation that the second would acquire motion. His under-standing would anticipate his sight and form a conclusion suitable to his past expe-rience (ivi).

Siamo giunti così, dopo aver compiuto pochi ragionevoli passi, ad una conclusione che sembra gettarci nelle reti di un paradosso. Per cogliere una relazione causale abbiamo bisogno di averla esperita più volte perché solo la ripetizione ci insegna ciò che non può essere colto al suo primo manifestarsi: Adamo non può vedere che la biglia A urta e muove la biglia B, ferma sul tavolo, perché solo il ripetersi dell’esperienza può insegnargli a dare un significato a quei termini che contengono il riconoscimento implicito di un nesso cau-sale.

Basta tuttavia riflettere un poco per rendersi conto che la ripetizione di un evento non può in linea di principio aggiungere nulla al suo senso. Un evento ripetuto resta appunto lo stesso evento e la ripetizione in quanto tale non può modificarne la natura: per quanto invecchi, Adamo vedrà ripetersi sempre le stesse cose e se non vi era necessità nel primo urto che ha visto non potrà nemmeno scorgerla nell’ultimo cui gli sarà dato di assistere:

Dalla semplice ripetizione, anche all’infinito, di impressioni passate, non sorgerà mai un’idea nuova, originale, come quella della connessione necessaria, e in questo caso il numero delle impressioni non conta più di una sola. E tuttavia, per quanto questo ragionamento possa sembrare giusto e chiaro, sarebbe follia disperare così presto. Meglio è continuare il filo del nostro discorso; e avendo veduto come dal costante congiungimento di due oggetti noi inferiamo l’uno dall’altro, esaminiamo ora la natura di questa inferenza e del passaggio dall’impressione all’idea. Forse ap-parirà in ultimo che la connessione necessaria si fonda proprio su tale inferenza, e non questa su quella (D. Hume, Trattato sulla natura umana, op. cit., pp. 101-102 – libro I, parte III, § 6).

La ripetizione è ininfluente eppure solo dalla ripetizione sembra sorgere la necessità – ecco il paradosso cui alludevo.

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La soluzione, tuttavia, è a portata di mano, anche se non è meno paradossale del para-dosso da cui trae origine. Il rimando all’esperienza passata e alla ripetizione degli eventi non può certo creare nulla di nuovo sul versante obiettivo poiché il ripetersi di una suc-cessione di eventi non può in linea di principio aggiungere nulla al loro contenuto: un nesso che è in sé contingente non può che rimanere tale a dispetto del suo ripetersi.

Le cose mutano se dalla dimensione obiettiva dei contenuti muoviamo alla dimensione soggettiva della mente; qui la ripetizione può dire la sua perché può tradursi in un’abitu-dine che ci costringe a ripetere un cammino molte volte intrapreso, – a ripeterlo non ap-pena vediamo compierne i primi passi. La ripetizione non aggiunge nulla alla successione in se stessa, ma modifica il nostro modo di esperirla perché può rendere inevitabile l’in-ferenza che dall’apparire di un evento conclude all’accadere di un altro, secondo un cam-mino molte volte percorso nella nostra passata esperienza. La ripetizione crea un’abitu-dine percettiva e l’abitudine predispone la strada che la mente segue nelle sue inferenze, costringendoci ad immaginare un’idea determinata non appena si manifesta sensibilmente un’impressione che rammenta un decorso percettivo che si è più volte realizzato.

Uno stesso ordine di considerazioni deve valere anche per le proprietà espressive cui dobbiamo ora senz’altro tornare. Anche in questo caso dobbiamo negare che vi sia un nesso obiettivo tra la cosa e la proprietà espressiva che le attribuiamo: il tramonto non è triste, il minuetto non è allegro, ma questo non toglie che a queste scene percettive possano legarsi nel tempo determinati scenari emotivi che l’immaginazione ha imparato a richia-mare in virtù di un nesso sancito dall’abitudine. Un nesso obiettivo di causa e di effetto non vi è, ma l’immaginazione sembra capace di proiettare sulle cose stesse il suo operare nascosto. Perché stupirsi allora che le emozioni che abbiamo provato più volte ascoltando una musica o guardando un paesaggio finiscano col sembrarci aderenti agli oggetti che esperiamo? Anche in questo caso ha luogo una sintesi che l’abitudine cela ai nostri occhi ed anche in questo caso ci sembra di ritrovare negli oggetti ciò che si è invece costituito passo dopo passo nella nostra soggettività.

Non credo che considerazioni di questa natura possano davvero consentirci di venire a capo del nostro problema. A renderle poco plausibili sono innanzitutto gli argomenti che minano alla radice la credibilità delle stesse tesi humeane da cui così chiaramente deri-vano. Si potrebbe in primo luogo obiettare che il rimando associativo che dovrebbe con-sentirci di risalire dal simile al simile e che dovrebbe potersi ripetere è tutt’altro che ovvio, perché di fatto la ripetizione degli eventi non è mai esatta e vi sono sempre piccole varia-zioni che possiamo ritenere irrilevanti solo perché sappiamo già che cosa è rilevante dal punto di vista del nesso causale. Del resto questa stessa considerazione deve essere fatta valere anche quando cerchiamo di spiegarci come sia possibile che due idee si leghino l’una all’altra nella memoria. Quando la palla da biliardo urta e mette in movimento una seconda biglia l’idea dell’una si lega all’altra come l’antecedente al conseguente, ma quante altre cose potrebbero pretendere lo stesso ruolo se ci accontentassimo delle argo-mentazioni humeane? Per ogni evento vi sono tante cose che sono contigue nello spazio e nel tempo, ma noi le escludiamo ed è proprio e solo per questo che possiamo trovare nell’esperienza che verrà una ripetizione – perché abbiamo in qualche misura già raccolto in unità il nucleo di quel fenomeno che diciamo ripetersi. E lo abbiamo fatto, in questo caso, perché ci sembra di sapere che quei due eventi – il muoversi dell’una e dell’altra biglia – sono connessi in un’unica vicenda causale. Proprio questo sapere, tuttavia, do-vrebbe esserci precluso perché è di fatto negato dall’argomento di Hume: la relazione di causa ed effetto implica il rimando all’esperienza passata e non si dischiude allo sguardo innocente di un qualche Adamo. E ancora: vi sono infiniti eventi che si succedono costan-temente anche se non attribuiamo nessuna inferenza causale. Quando metto la sveglia per

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un viaggio, non so perché ma mi ridesto sempre poco prima che la sveglia suoni; accade sempre, ma non per questo mi accade di pensare che vi sia tra questi due eventi un rapporto di causa e di effetto – la sveglia non suona perché mi sono appena svegliato. Simili consi-derazioni valgono anche per il nostro problema. Quando ho visto quel paesaggio mi sono sentito sereno – questo è certo; ma è certo anche che ero vestito in un certo modo o che era sera o che avevo da poco cenato e così via. Tutte queste cose sono certe, ma a quale di queste infinite circostanze dovrebbe legarsi il mio stato d’animo? Non si tratta di una domanda oziosa: se non percepiamo la serenità del paesaggio, ma solo la serenità e il paesaggio per quale motivo dovrebbe poi accadere che queste due esperienze si leghino l’una all’altra nella memoria, visto che vi sono infinite altre circostanze che potrebbero pretendere un eguale riconoscimento? E ancora: se vi fosse qualcuno che inforcasse gli occhiali sempre e solo quando vuol godere di un paesaggio che lo rasserena, non per questo credo attribuirebbe agli occhiali una qualche proprietà espressiva. Direbbe sereno il paesaggio, non le lenti – ma perché? La risposta sembra del tutto ovvia. Direbbe che è sereno il paesaggio perché non ha dubbi sul contenuto della sua esperienza: perché vede la serenità proprio nel paesag-gio, e non altrove. Il nodo tra quello che vede e quello che prova non deve stringersi nel tempo grazie all’abitudine, poiché è fin da principio stretto dal legame dell’evidenza.

Del resto, se fosse l’abitudine che associa casualmente le proprietà espressive alle cose non dovrebbe forse accadere che, con il tempo, ogni nesso si ottunda e venga meno? È davvero pensabile che sia sempre dello stesso umore quando vedo una stessa cosa se non vi è nella cosa stessa il fondamento del mio stato d’animo? Dalle finestre di casa mia si vede un malinconico paesaggio di binari e di treni che a me tuttavia piace e che trovo, strana-mente, consolante; posso dire tuttavia di averlo sempre osservato quando ero preda della malinconia? O di averlo anche solo prevalentemente osservato quando ero di quell’umore? E posso dire di aver sempre provato, stranamente, una qualche consolazione? Non credo che le cose stiano così e sembrerebbe piuttosto evidente che la maggior parte delle volte in cui ho osservato quella scena mi sono limitato a guardarla, senza avvertire una qualche emozione. Ma al venir meno dell’abitudine non sembra corrispondere il venir meno della mia constatazione: i binari che si affiancano gli uni agli altri, in un gioco di arrivi e partenze mi sembrano malinconici, anche se non provo più di norma nessuna malinconia quando li vedo. E che dire quando una stessa scena – un paesaggio, il susseguirsi dei movimenti di una sonata, … – ci appare in certe parti sereno e in altre inquietante? Come potrebbe, in questo caso, fissarsi una proiezione associativa che presupporrebbe la ripetizione di un al-ternarsi casuale di emozioni secondo un ordine definito? Cercare di spiegare un’esperienza così banale richiamandosi ad una molteplicità di nessi istituiti dall’esperienza passata sem-bra privo di senso.

Basta del resto riflettere un poco per rendersi conto che la spiegazione che abbiamo ap-pena proposto soffre di un’ulteriore difetto: proprio perché vincola le proprietà espressive alla storia individuale di chi le osserva, le racchiude nella sua vicenda individuale e le rende meramente soggettive. In generale, tuttavia, le cose non sembrano affatto stare così: nella norma attribuiamo alle stesse scene le stesse valenze espressive. Davanti al sole che tra-monta proviamo tutti la stessa malinconia, ma ciascuno ha la sua vita e la sua storia ed è davvero poco plausibile pensare che per tutti si sia formato nel tempo uno stesso nodo di esperienze. Non solo: se non fosse possibile trovare nelle cose un appiglio che sostenga la nostra reazione affettiva ed emotiva, non sarebbe più comprensibile la stessa prassi artistica: perché riflettere sulla necessità di aggiungere quella pennellata al dipinto o quell’accordo alla sonata se poi il nesso tra le datità espressive e le datità percettive è del tutto vincolato alla storia accidentale ed individuale dello spettatore? Così, sembra davvero privo di senso voler negare che qualcosa nella scena che osserviamo, determini il tratto emotivo che ci

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sembra di scorgervi. Le difficoltà che abbiamo messo in luce sono, io credo, tanto evidenti da rendere in realtà

poco credibile una formulazione rigorosa della teoria associazionistica. Di fatto, quando il filosofo associazionista nega che vi sia una relazione obiettiva tra l’esperienza di A e il carattere espressivo B che ci sembra di dovergli attribuire, di fatto intende soltanto sostenere che quel nesso non è in linea di principio afferrabile e che se attribuiamo a una cosa certe proprietà è solo perché l’abitudine cementa la nostra reazione che è tanto costante, quanto priva di una ragione fenomenologicamente evidente. Un nesso obiettivo deve dunque sus-sistere altrimenti sarebbe inspiegabile il fatto della ripetizione costante, ma la sua natura è imperscrutabile almeno sino a che ci disponiamo sul terreno descrittivo dell’esperienza: ciò che su questo piano si dà è solo il fatto che certe emozioni e certe esperienze si accompa-gnano le une alle altre, senza che si possa dire nulla di più – e non è difficile scorgere dietro questa formulazione della teoria associazionistica una somiglianza tutt’altro che casuale con le tesi fondamentali della teoria causalistica di cui abbiamo dianzi discusso. Anche in questa formulazione più debole la teoria associazionistica resta tuttavia poco plausibile perché ci impedisce in linea di principio di distinguere tra esperienze molto diverse: l’esperienza in cui un’emozione si associa ad un luogo o a un evento da quella in cui sorge da esso. Si tratta di una distinzione ovvia che sappiamo tracciare con estrema facilità. Quando era bambino, la fine dei cartoni animati alla televisione era definitivamente segnata da una musica molto bella – il Largo del Serse di Händel – che faceva da sigla ad una trasmissione di carattere religioso. Una musica bellissima, che però non posso non ascoltare con una punta di fastidio che tuttavia non posso certo imputare alla musica, ma solo a quello che si lega in me al suo ascolto. Non abbiamo, insomma, a che fare con una proprietà della musica, ma con una connotazione che si lega al suo ascolto. E può ben accadere che ciò che esperiamo come proprietà della musica e ciò che alla musica si lega non vadano affatto d’accordo. La scena finale di Full metal jacket di Kubrick ci mostra una città vietnamita in fiamme e, accanto ad essa, la lunga fila dell’esercito americano che marcia, mentre sullo sfondo, accanto alla voce fuori campo del personaggio principale che parla della Storia e della Vita, risuonano le note di Mickey mouse, che restano infantili e allegre, anche se, dopo averle colte in quel conte-sto, il loro ascolto sembra portare con sé un tratto espressivo di tutt’altro segno.

E tuttavia vogliamo davvero negare che talvolta accada proprio così – che ci siano musi-che e odori e sapori che sembrano dirci qualcosa solo perché li abbiamo legati associativa-mente ad altre esperienze? Naturalmente no, non vogliamo negarlo: si tratta di un’esperienza molto comune e di fatto innegabile. Un sapore ci ricorda un piatto che un tempo si cucinava in casa, un odore i vicoli della cittadina dove andavi d’estate, e immemore delle riflessioni sul kitsch l’innamorato può dire di una musica che risuona nell’aria che “è la nostra can-zone!”: sono appunto esperienze comuni. È dubbio, tuttavia, che la teoria associazionistica sappia davvero far luce fino in fondo anche soltanto di queste esperienze che dovrebbero costituire il suo fondamento più proprio: anche quando ad una esperienza percettiva si le-gano emozioni e vissuti affettivi che traggono la loro origine da altro, sarebbe sbagliato, io credo, parlare soltanto di un’associazione e non vedere gli intrecci che legano le une alle altre le esperienze che sono qui in gioco. Certo, può accadere che talvolta un’emozione si proietti sulle cose e le colori di sé. Possiamo trovare sereno un paesaggio solo perché era-vamo sereni quando l’abbiamo visto e non ci stupiremmo se in un diverso contesto non ci apparisse più in questa luce, ma questa constatazione ovvia che richiama la nostra attenzione su un fatto così risaputo non può farci dimenticare che in un caso e nell’altro qualcosa deve aver consentito alle nostre emozioni di far presa sul paesaggio: quando ero sereno, in quel paesaggio ho ritrovato la mia serenità, ma l’ho ritrovata in quelle colline e in quel loro dolce succedersi, non in un posto qualunque e non nel ciglio della strada su cui si ammassavano

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le auto parcheggiate. Quando siamo di buon umore, le cose ci appaiono sotto una diversa luce, ma questo non vuol dire che tutto ci appaia indiscriminatamente felice: vuol dire solo che la nostra attenzione è volta a scorgere ciò che trova in sintonia con il nostro umore e proprio per questo trascura ciò che altrimenti ci apparirebbe malinconico o doloroso. L’in-namorato può guardare negli occhi l’amata e, prendendole le mani, esclamare: “è la nostra canzone!” quando si sente risuonare lontana una musica romantica che parla d’amore, ma sarebbe strano e anche un poco inquietante se si esprimesse così, ascoltando il Lacrimosa della Messa da Requiem di Mozart. Le emozioni non si associano, ma cercano un appiglio – questo è il punto. Ma se le cose stanno così, allora non ha senso cercare di venire a capo delle proprietà espressive semplicemente chiamando in causa il costituirsi di un nesso asso-ciativo tra esperienze del tutto distinte e autonome.

Queste considerazioni sembrano tutte convergere verso una stessa meta che possiamo for-mulare così: se anche fosse lecito intendere le proprietà espressive come frutto di una proie-zione, ciò nonostante non sarebbe davvero possibile anche solo tentare di sganciarle intera-mente dalla natura dell’oggetto in cui ci sembra di ritrovarle. Il nesso associativo è un nesso troppo povero e non può in linea di principio mantenere quel che gli si chiede di promettere. Dobbiamo dunque cercare di legare alla nozione di proiezione un qualche fondamento nella cosa stessa – ed è questo che accade nelle teorie di Lipps e di Wollhem.

2. Meditazioni sulla colonna: Theodor Lipps e la teoria dell’empatia

«La colonna si raccoglie in se stessa nella dimensione della larghezza e proprio per questo si slancia verticalmente. È in questo che consiste la sua ‘attività specifica’» – così scrive Theodor Lipps in un saggio intitolato Estetica dello spazio e illusioni ottico-geometriche pubblicato a Lipsia nel 1897. Si tratta di un’osservazione che da un lato ci costringe a riflettere e che, dall’altro, non può non stupirci per due differenti ragioni. La prima risulta con chiarezza dalla scelta dei termini di cui Lipps si avvale per descrivere quale sia l’im-pressione che in noi si lega alla percezione di una colonna: la colonna, leggiamo, si rac-coglie in se stessa, come se dovesse fin da principio reagire ad una forza – il peso – che la minaccia e che sembra spingerla a cedere nella direzione della larghezza. A questa minaccia, tuttavia, la colonna reagisce, stringendosi in sé e questo movimento (cui per Lipps siamo chiamati ad assistere) deve insieme apparirci come un agire che ha una meta: proprio perché si raccoglie e reagisce alla tendenza ad allargarsi, la colonna ci appare nel suo tendere verso l’alto. Si tratta, non è difficile rendersene conto, di un linguaggio dina-mico, che sembra attribuire ad una cosa – alla colonna gravata dal peso dell’architrave – una vita propria, una prassi ricca di senso, a dispetto della nostra consapevolezza che le colonne sono cose, realtà inanimate che non possono patire e reagire. Potremmo forse esprimerci così: Lipps descrive una colonna come se fosse un corpo vivo che agisce e reagisce all’urgenza del peso, anche se non intende affatto negare che la colonna sia sol-tanto una cosa, priva di vita.

A questa prima ragione di stupore deve subito affiancarsene, come abbiamo osservato, un’altra: Lipps ci invita a parlare di colonne, ma lo fa in un testo che ha come suo tema più autentico l’analisi delle illusioni ottico-geometriche – di quelle illusioni che si danno quando determinate configurazioni visive ci appaiono diverse per dimensione, o per forma o per orientamento da ciò che realmente le caratterizza. Questo fatto non può di primo acchito non lasciarci perplessi, anche perché Lipps non sembra affatto indugiare sul tema delle correzioni ottico-geometriche dei colonnati, su cui si erano affaticati molti autori nell’Ottocento e tra questi un matematico come Guido Hauck e non discute della curvatura convessa dello stilobate o della trabeazione. Tutt’altro: Lipps ci parla della colonna nella sua singolarità, e ce ne parla senza preoccuparsi di fissare il punto di vista di uno spettatore

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ideale che guardi il tempio da una certa distanza e secondo un certo taglio prospettico. Restiamo di primo acchito stupiti, eppure basta riflettere un poco per rendersi conto che i due temi di cui abbiamo fatto cenno e che avevano suscitato la nostra perplessità ci ricon-ducono ad un unico disegno teorico: Lipps ritiene infatti che la dimensione espressiva della spazialità – l’estetica dello spazio, appunto – si sveli nel suo fondamento solo quando si ancora la dimensione delle proiezioni soggettive che ci costringono a parlare degli og-getti dello spazio in un linguaggio carico di espressività al gioco delle dinamiche rappre-sentative che è responsabile delle illusioni percettive.

Il punto su cui Lipps ci invita a riflettere è questo: se le forme ci appaiono animate da una loro interna espressività è perché, rappresentandocele, riviviamo come se fosse un agire corporeo quel gioco di tendenze e controtendenze che anima la rappresentazione della forma e che si manifesta in modo esemplare sul terreno delle illusioni ottico-geome-triche quando la dinamica rappresentazionale diviene la ragione occulta dello scarto che separa la realtà effettiva della scena dal risultato fenomenico cui perveniamo.

Su questo punto è opportuno indugiare un poco e questo significa, innanzitutto, rivol-gere la nostra attenzione alle illusioni ottico-geometriche, su cui Lipps ci chiede innanzi-tutto di riflettere. Guardiamone alcune. La prima è ben nota – è l’illusione di Müller-Lyer. Non è facile dire a che cosa si debba quest’illusione. Nel 1889 Müller-Lyer aveva avan-

zato un’ipotesi di carattere generale e aveva sostenuto che, in analogia a quanto accade nel campo della perce-zione dei colori e dei suoni, così anche nel campo delle figure geometriche potessero valere i principi generali del coinflusso [Konfluxion] e del contra-sto [Kontrast]. Nel caso dell’illusione si tratterebbe di un caso di coinflusso: la superficie dell’angolo delimitato dai due segmenti obliqui viene in qualche modo fusa (o confusa), nella perce-zione, alla dimensione effettiva del segmento orizzontale, determinandone una sopravvalutazione nel caso dei segmenti divergenti, una sottovaluta-zione nel caso delle linee convergenti.

Si tratta di una spiegazione di cui oggi nessuno più parla, ma che ci inte-

ressa perché sembra in qualche modo alludere ad un tema che è per Lipps centrale: se vi è illusione è perché – per Müller-Lyer – la scena percettiva è animata da una dinamica interna che determina in qualche modo il risultato della percezione.

Per rendersi conto di ciò che Lipps intende è forse opportuno rivolgere lo sguardo a qualche altro esempio. Guardiamo per esempio l’illusione scoperta da Ewald Hering nel 1861: due linee parallele sono attraversate da una molteplicità di segmenti rettilinei che si dipartono ora (a) da un punto che si trova a metà strada tra le due rette, ora (b) da due punti situati l’uno a sinistra l’altro a destra di entrambe (la variante b dell’illusione di Hering è stata messa in luce da Wilhelm Wundt).

Il risultato percettivo è particolarmente evidente: nel caso (a) le due rette parallele ci appaiono lievemente arcuate verso l’esterno, mentre nel caso (b) le due rette sembrano di fatto incurvarsi verso l’interno. Nell’uno e nell’altro caso è difficile sottrarsi ad un’ipotesi

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di natura dinamica: guardiamo questo duplice disegno e ci sembra quasi di vedere in un caso (a) le due parallele cedere sotto la spinta dei segmenti che da un centro comune si

irradiano verso l’esterno, mentre nel secondo caso (b) ci sembra di assistere alla scena opposta: in questo caso i segmenti che si irradiano da due centri diversi sembrano costringere le due rette a incurvarsi, agendo con forza tanto maggiore, quanto più il loro impatto con la retta che intersecano avviene in prossimità del centro vivo da cui si irraggiano.

Uno stesso discorso sembra valere per una nuova illusione ottico-geometrica: l’illusione – scoperta nel 1860 – dall’astrofisico Johann Karl Friedrich Zöllner, cui probabilmente si deve anche la

scoperta dell’ilusione nota con il nome di un suo allievo – l’illusione di Poggendorf. Basta uno sguardo per rendersi conto che le 10 linee obiettivamente parallele che il disegno ci propone non ci appaiono orientate tutte nella stessa direzione, ma sembrano invece disporsi secondo due direzioni differenti: le linee dispari sono parallele alle dispari, le pari con le pari. La ragione sembra svelarsi subito alla percezione e sembra parlarci ancora una volta nel linguaggio di una dinamica delle rappresentazioni: a piegare in una direzione o nell’altra le linee sono i piccoli segmenti che le intersecano e che ora le “piegano” in una direzione, ora nell’altra. E del resto: se guardiamo l’illusione di Müller-Lyer da cui abbiamo preso le mosse, non potremmo sostenere che in un caso le alette convergenti sembrano comprimere il segmento tra cui occorrono, mentre nellì’altro caso le alette divergenti sembrano esercitare una vera e propria trazione? Insomma: se mettiamo da canto le interpetazioni che ci invitano a leggere le illsuioni ottico-geometriche come frutto di una lettura tridimensionale di rappresentazioni bidimensionali e che sono storiamente più recenti, sembra possibile sostenere che ciò che le illusioni ci insegnano è che il risultato delle nostre esperienze è il frutto di una molteplicità di forze che agiscono sui materiali sensibili, determinandone la configurazione complessiva.

È di qui, da queste considerazioni di carattere generale, che è possibile comprendere quale sia la ragione per le quali Lipps ritiene opportuno stringere in un unico nodo la

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dimensione estetico-espressiva dello spazio e la riflessione sulle illusioni ottico-geomteriche. Per Lipps la percezione è, in se stessa, univocamente determinata dalla dimensione dello stimolo ed è quindi, in linea di principio, incapace di mettere capo ad illusioni sitematiche. Le illusioni ottico-geometriche sono tuttavia illusioni sistematiche e ci mostrano quindi che vi è qualcosa nella nostra esperienza percettiva che non è possibile ricondurre esclusivamente ad una mera ricezione di stimoli. Se possiamo ingannarci, l’esperienza percettiva non può consistere solo nella ricezione passiva dei dati di senso, ma deve rimandare anche ad un processo di natura rappresentativa che la metta in movimento e che interpreti i dati sensibili, determinandoli in una direzione di senso determinata. Le rette dell’illusione di Hering sono parallele e proiettano sulla retina immagini parallele: se ci sembra che siano costrette ad arcuarsi dal gioco dei segmenti che le intersecano, ciò deve parlare in favore di un procedimento rappresentativo che si sovrappone alla mera ricezione dei dati sensibili, interpretandoli.

Ora, come questo processo rappresentativo possa animare la percezione e condurla al di là del mero dato sensibile ce lo mostrano con chiarezza proprio le illusioni ottiche: nell’evidenza di un inganno di cui diveniamo consapevoli, le illusioni ottico-geometriche mostrano l’operare della dinamica delle rappresentazioni e ci rivelano che ogni nostra esperienza percettiva deve essere pensata come il risultato di tendenze e controtendenze che si danno sul terreno rappresentativo e che orientano il dato sensibile in una direzione determinata. Gli esempi che abbiamo discusso lo mostrano con chiarezza: se le parallele di Hering ci appaiono incurvarsi è perché non possiamo non rappresentarcele alla luce delle forze che in una direzione o nell’altra promanano dai fasci di segmenti che le intersecano. Lipps parla a questo proposito di un’interpretazione meccanica e dinamica dei dati sensibili e ritiene che questa sia la base su cui possa fondarsi l’interpretazione estetico-espressiva dei fenomeni percettivi. le illusioni ottico-geometriche possono insegnarci il fondamento su cui poggia l’estetica dello spazio perché il parlare di una dinamica rappresentativa insita nelle nostre esperienze percettive significa allo stesso tempo indicare quale sia il fondamento che deve poter consentire al soggetto di ritrovarsi nei fenomeni e di proiettare su di essi la regola del proprio agire. L’interpretazione meccanica e dinamica del materiale sensibil deve diventare così il termine medio che ci consente di immedesimarci nei fenomeni e di leggere nella loro struttura le forme sensate del nostro agire.

Di qui, da queste considerazioni di carattere generale, possiamo muovere per cercare di dare una forma più determinata alle considerazioni che Lipps ci propone sulla natura della colonna e su cui ci siamo soffermati nelle battute introduttive di questa lezione. Come abbiamo osservato, Lipps muove da una constatazione di carattere generale: se si vuole descrivere l’impressione che su di noi fanno le colonne di un tempio dorico non ci si può limitare ad un linguaggio che resti aderente alla natura materiale e priva di vita del suo oggetto, ma è necessario avvalersi di termini che sembrano presupporre una realtà dinamica e viva. Le colonne non sono soltanto disposte verticalmente, ma si ergono verso l’alto e non sono soltanto il necessario sostegno dell’architrave, ma sorreggono attiva-mente una forza contrapposta, resistendole e vincendola. Per Lipps non ci sono dubbi: il fascino estetico della colonna prende forma non appena sappiamo renderci conto della sua interna vitalità e assistiamo al suo vincere felicemente l’ostacolo della pesantezza.

Non vi è dubbio: Lipps sceglie bene il proprio esempio perché la tesi secondo la quale le colonne debbono essere pensate alla luce di questo gioco di tendenze e di dinamismi che ci spinge ad assimilarle alla vita ha un suo posto rilevante nella storia dell’architettura. La colonna è innanzitutto un tronco di legno – è il grande albero che sorregge la costru-

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zione della capanna primordiale, e nelle pratiche costruttive della Grecia arcaica era rac-chiusa l’usanza di piantare a testa in giù i grandi tronchi sfrondati dei rami, per evitare che la colonna mettesse radici, restituendo alla natura la violenza architettonica della costru-zione.

La colonna è dunque un tronco vivo, che doveva mantenere la sua forma e la sua rico-noscibilità e che non doveva essere eccessivamente snaturata nella sua forma – almeno per il purismo un po’ rozzo della cultura architettonica spartana. Plutarco narra che Age-silao, re di Sparta, ospite in Anatolia in un palazzo signorile, con finto stupore doman-dasse, guardando i pilastri squadrati che sorreggevano il tetto, se mai in quelle terre cre-scessero alberi di quella forma e alla risposta che no, non ne nascevano di tal fatta, avesse risposto: “e se mai nascessero quadrati, li rendereste per questo rotondi?”

La metafora della colonna come un grande albero non può tuttavia nascondere un di-verso riferimento implicito nella sua forma: la colonna è infatti – e fin da principio – un corpo umano, e il colonnato non è soltanto un bosco, ma è anche una schiera di uomini volti tutti ad uno stesso scopo. La colonna poggia su un basamento e si erge verso l’alto, come il corpo degli uomini, poiché è innanzitutto questo ciò che distingue gli uomini dagli animali: la loro stazione eretta. Di quest’umanizzazione della colonna si possono trovare una molteplicità di indizi che vanno dal nostro discorrere di capitelli per indicare la parte

terminale della colonna, alle fantasie sul loro genere – la colonna dorica maschile, quella ionica femminile – alla tendenza a far valere anche per le colonne stesse la teoria delle proporzioni elaborata per il corpo umano.

Del resto, quest’analogia tra il corpo umano e le co-lonne si manifesta visibilmente nel bisogno di avvol-gere il corpo di queste in una veste che ha le stesse pie-ghe e le stesse fattezze delle tuniche della statuaria femminile. E ancora: l’immagine del figlio maschio o del padre che sorregge il peso della casa come una co-lonna sorregge il tempio è un luogo letterario estrema-mente diffuso nella Grecia antica: è così che Clitem-nestra Agamennone di ritorno da Troia, dicendo che è come la stabile colonna che sorregge l’alto tetto o come la gomena che tiene ancorata la nave. Ma il nesso più ovvio che sembra rendere immediatamente visibile questa possibile identificazione tra la colonna e la no-stra corporeità di uomini è ovviamente racchiusa nella scelta di sostituire con statue maschili e femminili le colonne dei templi, in un artificio architettonica che

racconta ad alta voce un’immaginazione tacita. Vi erano, innanzitutto, i Telamoni, le gigantesche figure maschili che dovevano fungere

da colonne nel tempio dorico di Zeus ad Agrigento: se ne vedono ancora oggi i resti, adagiati sul terreno. Ma vi erano anche le cariatidi che ornano ancora la loggia dell’Eretteo nel tempio ionico dedicato ad Atena Poliade nell’Acropoli di Atene. Su questa creatura architettonica così particolare – le cariatidi – è forse opportuno soffermarsi un poco, per cercare di comprendere il progetto immaginativo che le ha create. Perché porre sul capo di una schiera di statue femminili il peso del tetto di un tempio?

Nelle pagine di Vitruvio questa domanda si fa strada nelle pieghe di un racconto che si lascia guidare dalla convinzione antica che l’origine dei nomi possa spiegarci molte cose

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sulla natura degli oggetti. Così, per capire quale sia la natura delle cariatidi e quale il progetto immaginativo cui si deve la loro creazione, dobbiamo – secondo Vitruvio – in-terrogarci sulla ragione per la quale così si chiamano le statue dell’Eretteo: le cariatidi prendono il loro nome dalle donne di Caria, una città del Peloponneso i cui abitanti si erano schierati con il nemico durante le guerre persiane. Sconfitti i Persiani, i Greci fanno i conti con gli avversari interni e non sono certo molto teneri: la città di Caria fu rasa al suolo, gli uomini uccisi e le donne fatte schiave. Le cariatidi sarebbero dunque un monito e insieme un segno per ricordare una colpa inestinguibile. Costrette ad un peso da cui non posso liberarsi, sarebbero proprio per questo un simbolo della schiavitù. Scrive Vitruvio:

Quemadmodum si quis statuas marmoreas muliebres stolatas, quae cariatides dicuntur, pro columnis in opere statuerit et insuper mutulos et coronas conlocaverit, percontantibus ita reddet rationem Caria, civitas Peloponnensis, cum Persis hostibus contra Graeciam consensit. Postea Graeci per victoriam gloriose bello liberati communi consilio Cariatibus bellum indixerunt. ltaque oppido capto, viris interfectis, civitate declarata matronas eorum in servitutem abduxerunt, nec sunt passi stolas neque ornatus matronales deponere, uti non una triumpho ducerentur, sed aeterno, servitutis exemplo gravi contumelia pressae poenas pendere viderentur pro civitate. Ideo qui tunc architecti fuerunt aedificiis publicis designaverunt earum imagines oneri ferundo conlocatas, ut etiam posteris nota poena peccati Cariatium memoriae traderetur (Vitruvio, De Architettura, I, I, 4).

È dubbio che le cose stiano così e in un suo libro – La colonna danzante – Rikwert sug-gerisce implicitamente una diversa etimologia che sembra confermata dai volti sereni delle cariatidi che sembrano camminare calzando sandali con passo leggero, quasi dan-zassero:

il paesino di nome Caria era in realtà famoso in tutta la Grecia per qualcosa di ben diverso dalla disgraziata partecipazione alla guerra persiana. Era la sede del culto di Artemide Carneia o Cariatide, il cui rito principale consisteva in una danza solenne di devote intorno a un sacro noce. Lo stesso verbo karuatisein, che significa ‘danzare solennemente, ‘danzare in circolo’ era usato correntemente (J. Rjkwert, La colonna danzante, Scheiwiller, Milano 2010, p. 101).

Quando ci si dispone sul terreno del mito o delle leggende, accade spesso che le spiega-zioni abbondino. Eccone un’altra. Caria era il nome di una giovane donna, figlia di Dione di Laconia. Se ne invaghisce Dioniso ed è un guaio, perché gli dei mal sopportano il ri-fiuto: Caria non si concede al desiderio del dio che, per questo, la trasforma in un albero di noce che viene consacrato ad Artemide, la dea della verginità – e così un racconto si intreccia all’altro e la colonna danzante si trasforma nuovamente in un tronco in cui pulsa una vita umana e il tronco a sua volta ritorna a prendere forma di colonna.

Che siano un simbolo di schiavitù o colonne danzanti o che siano il ricordo di una ra-gazza trasformata in noce, le cariatidi rappresentano in una forma esemplare il nesso che stringe la colonna alla forma viva del corpo. Questo nesso, del resto, doveva essere ulte-riormente sottolineato dalla struttura portante della colonna, dal suo effettivo sorreggere che è esso pure così evidente nell’immaginazione plastica delle cariatidi.

Che si potesse pensare il sorreggere della colonna alla luce del concetto metafisico di volontà era stato Schopenhauer a dirlo nelle pagine de Il mondo come volontà e come rappresentazione. Qui Schopenhauer ci invita a pensare all’arte come al luogo in cui la volontà si manifesta esemplarmente, anche se ogni arte deve apparirci disposta secondo un criterio di crescente ricchezza e articolazione. All’architettura spetta il gradino più basso: le spetta il compito elementare di mostrare la dialettica tra peso e sostegno. È qui

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che per Schopenhauer è necessario discutere della colonna, poiché nella sua forma si rende manifesto lo scontro tra peso e sostegno, tra la volontà che si esprime nel cieco tendere delle cose verso terra e la volontà che ci parla nella resistenza della materia che fa da sostegno:

perfino in questo basso grado dell’oggettità della volontà noi vediamo già rivelarsi la sua essenza in maniera conflittuale, poiché propriamente la lotta fra il peso e la staticità è il solo contenuto estetico della bella architettura; è compito di questa ren-derlo manifesto in vario modo con perfetta chiarezza. Essa assolve tale compito, impedendo a quelle forze indistruttibili la via più breve al loro soddisfacimento e ritardandole per vie traverse, per cui la lotta viene prolungata e diviene visibile in vario modo l’inesauribile tensione di entrambe le forze. L’intera massa dell’edificio, abbandonata alla sua tendenza originaria, rappresenterebbe un semplice ammasso, legato al suolo il più saldamente possibile, verso il quale il peso (come tale appare qui la volontà) preme incessantemente, mentre la staticità, anch’essa oggettità della volontà, oppone resistenza. Proprio questa tendenza, però, questa tensione, viene impedita dall’architettura a trovare un appagamento diretto, ma è consentito loro di trovarne uno indiretto, per vie traverse. La travatura, ad esempio, può gravare sulla terra soltanto tramite la colonna; la volta deve sostenere se stessa, e soltanto per mezzo di pilastri può acquietare la sua tensione verso la massa terrestre e così via; ma proprio per queste estorte vie traverse, proprio mediante questi ostacoli si dispie-gano nel modo più evidente e più vario quelle forze insite nella bruta massa di pietra: oltre non può andare il fine puramente estetico dell’architettura (A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e come rappresentazione, a cura di A.Vigliani, Mondadori, Milano ).

È sullo sfondo di queste considerazioni di carattere generale che le analisi di Lipps si sviluppano. Sappiamo già quale debba essere la sua prima mossa. Se per descrivere l’im-pressione estetica di una colonna non possiamo fare a meno del linguaggio che si attaglia alla vita e alle sue azioni, allora dobbiamo in primo luogo chiederci quale sia l’interpreta-zione dinamico-meccanica che alla colonna si addice e che ci consente di ritrovare, proiet-tandolo, il nostro io corporeo in essa.

Per venire a capo di questa domanda dobbiamo disporci su un terreno di considerazioni che sembrano voler proiettare fin da principio la riflessione sulla forma in un ambito este-tico-espressivo. Questo significa, innanzitutto, che dobbiamo pensare alle forme non come a un dato, ma come ad un risultato e allo spazio non come una struttura di ordina-mento, ma come ad una dimensione acquorea in cui ogni parte tende a rifluire nel tutto. È in questo spazio come fluido che deve essere disposto il pensiero della forma che deve apparirci così come un tentativo di circoscrivere e di separare un luogo o un oggetto dal tutto della spazialità che lo attornia. E se ci poniamo in questa prospettiva, la forma dovrà apparirci in primo luogo come contorno, come un attivo dar forma e confine ad un luogo che tenderebbe di per sé a rifluire nella totalità indistinta dello spazio.

Dire così significa tuttavia sottolineare che alla base della forma vi è un contrasto che ne determina intimamente la natura. La forma si comprende se ne cogliamo la tendenza primaria, il suo darsi come un attivo trattenere una porzione chiusa di spazio – trattenerla dal suo volersi perdere nella totalità. Questa forza di contenimento agisce anche sulla co-lonna la cui forma, per Lipps, dobbiamo innanzitutto vedere alla luce di questo gioco di forze. La colonna ha una forma particolare: è disposta prevalentemente sull’asse verticale, verso il quale si orientano perpendicolarmente la maggior parte de vettori dinamici che determinano la forma rappresentativa della colonna. Ora, verso quest’asse convergono

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perpendicolarmente i vettori delle forze che contengono orizzontalmente il suo espan-dersi: la colonna è dunque innanzitutto caratterizzata dal suo raccogliersi verso il suo asse centrale, dal suo contrapporsi al diffondersi in larghezza dello spazio che essa racchiude. Proprio per questo, tuttavia, sotto il gioco delle spinte che le impediscono di cedere nella dimensione della larghezza, la colonna sembra espandersi lungo l’asse verticale, come si espanderebbe un fluido che si trovasse in un cilindro compresso ai lati. Non è un caso allora se, osserva Lipps, tendiamo a sopravvalutare l’altezza delle colonne e a sottovalu-tare la loro larghezza: le vediamo alla luce di un dinamismo di forze che ci costringe all’errore.

La colonna, tuttavia, non ha soltanto una forma determinata dalla sua configurazione spaziale: è anche una struttura di sostegno, su cui grava un peso. Ora, il peso ci appare esso pure come una forza che vorrebbe schiacciare la colonna, costringendola ad espan-dersi in larghezza – l’entasi rende visibile questa tensione. La rende visibile, tuttavia, solo per superarla: l’entasi ci appare così solo come un piccolo riconoscimento della grandezza delle forze nemiche – un riconoscimento utile perché ci consente di celebrare meglio la grandezza della vittoria (T. Lipps, Raumästhetik und geometrisch-optische Täuschungen, op. cit., p. 8). Così, anche se vediamo la colonna nella sua realtà effettiva, non possiamo non rappresentarla sotto l’urgere di quella tensione che, come racconta Hegel nella sua Estetica, ha fatto sì che le colonne nella storia dell’architettura divenissero sempre più alte e slanciate, rispondendo così ad una legge che è insita nella natura del concetto che le determina. Scrive Lipps:

La colonna si raccoglie in se stessa nella dimensione della larghezza e proprio per questo si slancia verticalmente. È in questo che consiste la sua ‘attività specifica’. La colonna non è una cosa che, a causa della pesantezza, sprofondi in se stessa e che si diffonda in larghezza. Al contrario: è un costrutto che, a dispetto del peso e nel superamento di esso, si raccoglie e si slancia in altezza (ivi, p. 5).

Vediamo la colonna come una cosa, ma non possiamo non rappresentarcela come un co-strutto, animato da un’interna dinamicità. La percezione è un fatto passivo, ma sa ridestare un’interpretazione dinamica che non sorge per capriccio o per arbitrio, poiché accompa-gna necessariamente i materiali sensibili, prima di qualsiasi riflessione:

la forma della colonna, che di fatto è presente come un che di dato, si fa strada nella nostra rappresentazione sul fondamento di alcune condizioni meccaniche. La forma non è soltanto, ma diviene, e non una volta soltanto, ma in ogni istante da capo. In una parola: noi facciamo della colonna l’oggetto di un’interpretazione meccanica. Che questo accada non è frutto del nostro arbitrio e non vi è bisogno di alcuna rifles-sione: insieme alla percezione della colonna è data anche l’interpretazione mecca-nica (ivi, p. 5).

E tuttavia, disporsi sul terreno di un’interpretazione meccanica delle colonne e cogliere l’intenso dinamismo che agita la sua forma e ne fa un risultato che sempre di nuovo si consolida e si manifesta, non significa ancora aver giustificato sino in fondo il vocabolario di cui Lipps ci invita ad avvalerci. Quel vocabolario ha un tratto su cui dobbiamo riflettere, ed è il suo ricondurre le tensioni della forma ad una soggettività, il suo interpretarle come se avessimo a che fare con un agire: non parliamo solo di forze e di resistenza, di tendenze e di controtendenze, ma anche di uno sforzarsi e di un resistere, di un agire e di un patire. Alla forma come espressione di un equilibrio meccanico tra le forze fa così da controcanto la forma come espressione di un agire soggettivo: non ci rappresentiamo più la tensione della colonna verso l’alto in contrapposizione al peso, ma siamo spinti a immaginare il suo tendersi verso l’alto, il suo resistere al peso, contrastandone la forza.

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Quale sia il fondamento su cui poggia questa diversa lettura dei fenomeni percettivi è presto detto. È sufficiente dare ai fenomeni un’interpretazione meccanica perché si faccia avanti in modo immediato e diretto un’analogia che ci invita a leggere quegli accadimenti che ci rappresentiamo e che determinano la forma come costrutto rappresentativo alla luce del nostro umano agire e patire. Il processo in cui la forma si mette in scena per noi assume così un senso nuovo e ci appare alla luce di un’immedesimazione radicale: il suo tendersi per contrastare il peso ci appare alla luce della nostra diretta esperienza di corpi vivi che vincono la fatica della stanchezza e si alzano, resistendo al peso e allo sfinimento. In-somma: l’interpretazione meccanica e dinamica deve rivelarsi così come un aspetto di un più ampio processo di vivificazione immaginativa della realtà – un processo che presup-pone una proiezione soggettiva ed un’immedesimazione della nostra corporeità viva nella dinamica dei fenomeni:

ogni vivificazione della realtà circostante giunge a compimento, e può giungere a compimento, solo perché noi proiettiamo nelle cose fuori di noi o negli eventi che le concernono o le riguardano ciò che noi viviamo in noi stessi, il nostro sentimento dello sforzo, il sentimento del tendere e del volere, dell’attività o della passività (ivi, p. 6).

Non ci siamo imbattuti sin qui in un termine che forse ci aspettavamo di leggere – il ter-mine empatia [Einfühlung] – ma il concetto l’abbiamo formulato egualmente: se vi è una capacità di attribuire una dimensione espressiva ai fenomeni, se possiamo cogliere nelle cose una molteplicità di caratteristiche espressive è solo perché possiamo proiettare su ciò che è esterno a noi la trama articolata dei vissuti che ci animano. Non li proiettiamo, tut-tavia, a caso, ma lasciandoci guidare da uno spartito che è dettato dalle cose stesse: ogni accadimento meccanico – scrive Lipps – ha un suo contorno determinato che può fluire senza intoppi o procedere di ostacolo in ostacolo, può procedere lentamente o giungere in un attimo solo a compimento. Può chiedere uno sforzo continuo o può dipanarsi autono-mamente, può arenarsi o liberarsi da ciò che gli impediva di tendere alla meta, e ciascuna di queste infinite modalità di decorso ci parla di noi in virtù di un’analogia strutturale con le forme molteplici del nostro comportamento e proprio per questo ridesta in noi le emo-zioni e i vissuti che normalmente ci pervadono quando il nostro agire si libera di ciò che lo ostacola o rimane impaniato nelle difficoltà o ci chiede altri sforzi per condurlo a ter-mine. La forma dei processi meccanici si pone così come il termine medio che ci consente di ritrovarci nei fenomeni e, ritrovandoci, di proiettare in essi quella trama di vissuti che solo noi proviamo e che caratterizza esclusivamente la nostra vita psichica.

Di ritrovarci, è opportuno aggiungerlo, senza esserci volontariamente cercati. Anche in questo caso, infatti, non vi è bisogno di alcuna riflessione perché sul fondamento della interpretazione meccanica si faccia avanti l’interpretazione empatica di cui abbiamo ap-pena discusso. Accade così, perché siamo fatti così – perché non possiamo sottrarci a questo nostro proiettare nelle cose la nostra vita. Così, la stessa piega immaginativa che ci spinge a mettere in scena il dramma della forma e a sopravvalutare l’altezza delle co-lonne e a sottovalutarne la larghezza diviene il fondamento di una proiezione empatica che ci costringe a immedesimarci nella colonna e a rallegrarci per la sua capacità di sfi-dare, e vincere, il peso.

“Ogni godimento che abbia per oggetto forme spaziali e, più in generale, ogni godi-mento estetico è un sentimento gioioso di simpatia” – scrive Lipps, invitandoci così a cogliere la bellezza delle forme in quelle strutture sensibili che sollecitano un’immedesi-mazione positiva e che promettono il benessere della soggettività che le rivive. Nel dire così, Lipps era in buona compagnia sul finire del XIX secolo. Considerazioni del tutto

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simili le troviamo in un testo che è davvero molto vicino alle tesi di Lipps – i Prolegomeni ad una psicologia dell’architettura (1886) di Wölfflin – poiché anche Wölfflin ci invita a pensare che la bellezza debba essere ricondotta ad un’immedesimazione felice, ad un be-nessere che le cose ci promettono e mettono in scena. Ma gli esempi che si possono fare sono molteplici, e in autori diversi troveremmo uno stesso fondersi di considerazioni ge-nerali sull’empatia, sulla psicologia e sull’arte.

Su questo e su altri temi vi sarebbero molte altre cose da dire ed in particolar modo sarebbe opportuno mettere un poco sullo sfondo il nome di Lipps e rivolgere l’attenzione ad un dibattito – il dibattito sull’empatia – che ha molte altre voci che meriterebbero di essere ascoltate. Andrea Pinotti ha scritto su questi temi un bel libro che si legge, tra l’al-tro, volentieri e che si intitola Empatia. Storia di un’idea da Platone al postumano (2011): chi fosse interessato a questi temi può leggerlo con profitto. Noi invece possiamo fermarci qui perché ciò che ci interessa non è tanto seguire nel dettaglio l’estetica dello spazio di Lipps o approfondire la storia di un concetto: ci basta avere chiarito un modello di inter-pretazione proiettiva delle proprietà espressive – un modello che non rinuncia a collocare stabilmente la dimensione dell’espressività nel cuore della soggettività umana, ma che cerca tuttavia di ancorare la dimensione empatica della proiezione ad un fondamento og-gettivo, a qualcosa che non la renda arbitraria e che ci consenta di considerarla come un tratto cui tutti siamo in qualche misura vincolati. Abbiamo dunque a che fare con una teoria della proiezione che non cade sotto le critiche che abbiamo formulato nelle nostre precedenti considerazioni, anche se questo ancora non significa che si tratti di una teoria davvero soddisfacente.

E in effetti che non si tratti di una teoria soddisfacente lo si comprende proprio se ram-mentiamo il camino che abbiamo percorso sin qui. L’obiettivo delle riflessioni di Lipps ci è parso chiaro fin da principio: Lipps intende mostrare che vi è un nesso tra la proiezione soggettiva di determinate proprietà espressive e la presenza, sul terreno oggettivo, di un fondamento che le sorregge. In questo, senso le indagini raccolte in Raumästhetik sono esemplari: l’idea, che ci era sembrata di primo acchito così strana, di stringere in un unico nodo la teoria delle illusioni ottico-geometriche e un’estetica dello spazio, ha evidente-mente di mira il tentativo di ancorare la dimensione espressiva ed emotiva della spazialità alla percezione, senza tuttavia dover pagare lo scotto di affermare che simili proprietà sono già date sul terreno obiettivo. Non vi sono tensioni nella colonna e non vi è un gioco espressivo di azioni e di reazioni, e tuttavia non possiamo che immaginare così le colonne ed è per questo che talvolta la dimensione rappresentativa si sovrappone alla dimensione puramente percettiva, costringendoci all’errore, all’illusione percettiva.

Su questi temi ci siamo già soffermati. Ora, tuttavia, dobbiamo chiederci sino a che punto le indagini di Lipps siano davvero in grado di sciogliere i nodi che il nostro pro-blema pone. Io non credo che le cose stiano davvero così e per quattro differenti ordini di ragioni su cui dobbiamo riflettere un poco. Il primo problema ci riconduce alla dimensione della proiezione che dobbiamo evidentemente pensare come un fatto inconscio, sia perché non siamo di fatto consapevoli di leggere i fenomeni alla luce della trama di analogie di cui Lipps ci parla, sia perché un’interpretazione meccanica che non fosse inconscia po-trebbe difficilmente tradursi in una falsificazione illusionistica. Solo se la dinamica delle rappresentazioni opera a mia insaputa, posso spiegarmi perché posso poi confondere il risultato del loro operare con il dato che credo di percepire. Ora, non vi è ragione di cre-dere che ogni processo psicologico debba necessariamente muoversi sul terreno della con-sapevolezza: questo è chiaro. E tuttavia se la proiezione si dispone sul terreno dei mecca-nismi occulti, è difficile poi sostenere che abbia una giustificazione indipendente dalle

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considerazioni di natura ontologica che dovrebbero convincerci che può esservi una di-mensione affettiva solo là dove vi è una soggettività animale. In altri termini: se fosse possibile sostenere che l’interpretazione empatica dei dati sensibili è del tutto inconsape-vole, non potremmo poi porla tra quei tratti che caratterizzano la nostra esperienza di una musica malinconica o di un paesaggio cupo, anche se potremmo sostenere che qualcosa del genere deve esserci stato perché, per ragioni di ordine ontologico, dovremmo soste-nere che un paesaggio cupo e una musica malinconica non possono esistere realmente – a dispetto delle apparenze.

A questa prima difficoltà, se ne affianca una seconda che potremmo formulare così: le teorie empatiche sembrano costringerci a pensare che io possa ritrovare negli oggetti solo proprietà espressive che io stesso provo attualmente, ma se questo fosse vero dovremmo in ultima istanza sostenere che ogni volta che sentiamo una musica malinconica proviamo effettivamente malinconia. Le cose dovrebbero stare così perché di fatto, per le teorie proiezionistiche, ciò che avvertiamo nell’oggetto non è che una eco di ciò che noi stessi avvertiamo. È dubbio, tuttavia, che le cose stiano davvero così e la distinzione che ab-biamo a suo tempo tracciato tra avvertire e provare un’emozione dovrebbe mostrarci con relativa chiarezza che una simile tesi è insostenibile. Una musica è malinconica (e l’av-verto come malinconica) anche quando sono di ottimo umore e il mio trovare sereno un paesaggio non è certo sufficiente per cancellare ogni mia preoccupazione. Del resto, che la distinzione tra avvertire e provare sia legittima lo si deduce dal fatto che può capitare che si provino emozioni diverse da quelle che si avvertono. Che così stiano le cose nel caso delle relazioni umane è fin troppo evidente: posso provare pietà perché avverto il tuo dolore o invidia perché colgo bene la gioia da cui sei pervaso, e in generale la nostra capacità di simpatizzare con le emozioni degli altri non si traduce in un’effettiva condivi-sione della stessa emozione. Ci accordiamo alle emozioni degli altri, senza ripeterle – questo è il punto. Ma ciò che vale per le relazioni con le persone, si dà anche quando ci rapportiamo a quelle situazioni in cui si dà (come ci siamo espressi più volte) una proprietà espressiva senza espressione. In un passo famoso, Eliot scrive che aprile è il più crudele dei mesi, ma sarebbe del tutto privo di senso voler cogliere quest’emozione che Eliot prova senza volerla legare a ciò che non può non avvertire: la gioiosità di un mese che restituisce spazio alla vita. Aprile è il più crudele dei mesi perché “genera lillà da terra morta, confondendo memoria e desiderio, risvegliando le radici sopite con la pioggia della primavera” – e ciò è quanto dire: aprile ci fa provare dolore perché ci fa avvertire la sua gioia. E ancora: quando Dante dice “Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno /toglieva li animai che sono in terra / da le fatiche loro; e io sol uno / m’apparecchiava a sostener la guerra / sì del cammino e sì de la pietate” sta ancora una volta mostrandoci come si possa reagire ad una situazione espressiva che si avverte quietamente rasserenante, provando un senso di accresciuta tensione che si fa tanto più aspra quanto più si lega alla dimensione della solitudine. Si tratta di considerazioni ovvie, e tuttavia non è chiaro come si possa venirne a capo se ci si pone nella prospettiva delle teorie dell’empatia. Ciò che avvertiamo non è ciò che proviamo, ma dovrebbe esserlo se dipendesse proiettivamente dalle nostre emozioni.

Non facciamo che approfondire queste considerazioni se osserviamo che la prospettiva di Lipps dovrebbe costringerci a sostenere che non è in fondo possibile imparare nulla dalle esperienze di natura espressiva, poiché in linea di principio non possiamo che incon-trare noi stessi. La teoria dell’empatia è sotto il segno di Narciso: ci costringe a credere che si possa soltanto ritrovare sempre da capo noi stessi in ciò che amiamo e temiamo, nelle scene che troviamo serene e in quelle che ci sembrano malinconiche, nella dolcezza

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e nella sofferenza. Nell’altro possiamo sempre e solo specchiarci e trovare la nostra im-magine, deformata quel tanto che ci consente di non riconoscerla. Eppure a me non sem-bra che le cose stiano così. Mi sembra di imparare di continuo, e non soltanto dalle vicende umane, ma anche dall’espressività che si dà nella natura e per cui non è sempre facile trovare le parole più adatte a descriverla. Può darsi che possa leggere l’espressività che si nasconde nelle lente onde del mare, nel loro avanzare e retrocedere sempre con infinita pazienza solo perché, come tutti, anche io partecipo della vita, ma mi sembrerebbe sem-plicemente riduttivo volerle leggere alla luce della mia esperienza del movimento, come se io davvero avessi già avuto esperienza di un simile lento incedere e ritrarsi, il cui valore espressivo è tutto nel suo essere così difficilmente assimilabile all’ambito di ciò che è vivo o di ciò che è morto. E in ogni caso: quando anche fosse vero che io riesco a leggere i fenomeni espressivi in virtù della mia partecipazione alla vita, questo ancora non signifi-cherebbe che io possa metterli in ogni forma e in ogni misura. Dire che posso leggere solo ciò che conosco non significa ancora dire che debbo aver scritto quello che riesco a leg-gere.

Queste ultime considerazioni ci riconducono in prossimità di un tema ulteriore che me-rita di essere discusso. Come abbiamo osservato, lo sforzo più rilevante di Lipps consiste nel cercare di ancorare la proiezione empatica ad una qualche caratteristica dell’oggetto stesso. Le indagini sul significato espressivo delle colonne da questo punto di vista par-lano chiaro: Lipps ci propone un insieme di tesi che sembrano poggiare direttamente sulle proprietà della colonna, sulla sua forma sensibile. Non vi è dubbio che ciò sia in parte vero, e tuttavia è dubbio che il modo in cui Lipps imposta il problema sia davvero suffi-ciente. Lipps ragiona così: attribuisce alla percezione il compito di acquisire i dati, nella loro semplice realtà, ma ad essa affianca la capacità rappresentativa – l’immaginazione, insomma – cui spetta il compito di arricchire la scena, ora proiettando su di essa una di-namica, ora un’affettività che non le compete. Il punto è tutto qui: che cosa giustifica l’immaginazione nel suo operare? Lipps è piuttosto vago su questo punto: ci dice che possiamo proiettare sulla forma, colta immaginativamente nella sua dimensione dinamica, il nostro vissuto corporeo, fondandoci su un’analogia, ma non ci dice in primo luogo che cosa ci consente di interpretare dinamicamente ciò che è statico. Ci dice che siamo co-stretti ad immaginare il contorno delle cose come se fosse un confine che dobbiamo dina-micamente contrattare con lo spazio vuoto, ma questa necessità non sembra spiegabile. Che cosa mi costringe a immaginare così? A questa domanda sembra possibile rispondere solo se possiamo individuare sul terreno percettivo quella stessa dinamica che Lipps sem-bra invece voler espungere esplicitamente da ciò che è propriamente dato ed esperito. Ma se nulla in ciò che è esperito può contenere effettivamente percepito può contenere una dimensione dinamica, allora non si vede in che senso questa dimensione possa essere ag-giunta necessariamente dall’immaginazione. Se nella percezione del contorno di un og-getto non vi è nulla che ci costringa ad intenderlo come un equilibrio dinamico tra forze perché mai dovremmo necessariamente immaginarlo così e non diversamente? E perché in generale saremmo costretti a immaginare qualcosa? Un discorso analogo vale per ciò che Lipps chiama l’interpretazione empatica. Se nella scena cui assisto e che vedo non vi è nulla che io colga come vivo e se non vi è nulla che mi si dia percettivamente come se fosse animato da una sua interna vitalità perché mai dovrei attribuirgli immaginativamente una vita? Che cosa mi dovrebbe spingere a quell’immedesimazione radicale in virtù della quale colgo nella colonna il suo ergersi e il suo sforzarsi di vincere la schiavitù del peso? Se ciò che vedo è per sua natura altro e se non vi è nulla che mi si dia come se fosse un gesto, perché dovrei immedesimarmi in esso? E perché dovrei immedesimarmi proprio così? In sostanza: Lipps ci invita a pensare alla dimensione dell’empatia come ad una

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prassi immediata, necessaria e irriflessa che dona senso e che attribuisce a ciò che perce-piamo una forma che di per sé non ha. Ma se così stanno le cose, se non vi è nulla in un decorso fenomenico che mi costringa a coglierlo come parte di un comportamento espres-sivo perché mai dovrei essere costretto a immaginare che così stanno le cose? Certo, posso immaginare che la Luna che compare e scompare nel cielo nell’arco di un mese sia una divinità che inscena la vicenda ciclica del nascere e del morire, ma non sono costretto a immaginare così perché non vedo così: il succedersi delle fasi lunari è troppo lento nel tempo perché si possa assistere allo spettacolo del suo dipanarsi. Al contrario è davvero difficile (se mai è possibile) tacitare il carattere di minaccia che si fa avanti con tanta protervia nei tuoni, ma dobbiamo davvero sostenere che è difficile farlo perché siamo costretti a immaginare così? E da che cosa siamo costretti se non dal fatto che la minac-ciosità del tuono la sentiamo – e con estrema chiarezza?

Su queste ultime considerazioni dovremo in seguito ritornare, quando dovremo discu-tere in generale della plausibilità delle teorie proiezionistiche. Ora dobbiamo invece chie-derci se non sia possibile per una teoria proiezionistica venire a capo almeno di alcune delle critiche che abbiamo proposto per contrastare la posizione di Lipps. Io non lo credo, ma Richard Wollheim ha pubblicato in Mind and its Depth (1994) un saggio interessante, intitolato Correspondence, projective properties and expression su cui vale la pena indu-giare un poco poiché di fatto l’idea da cui queste pagine sono mosse è che sia in fondo possibile dimostrare che possiamo unire senza contraddizione le linee generali di una teo-ria proiettiva con il mantenimento della distinzione tra avvertire e provare un’emozione che abbiamo dapprima ravvisato nelle pagine kantiane e cui abbiamo dato un peso così rilevante in queste nostre considerazioni.

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LEZIONE SETTIMA

1. Una teoria della corrispondenza

Dobbiamo partire di qui: da un saggio di Richard Wollheim che ci invita innanzitutto a riflettere sul fatto che, talvolta, attribuiamo predicati psicologici a stati di cose che non li possono pienamente sorreggere, come accade quando di un paesaggio urbano diciamo che è malinconico o di un prato primaverile che è gioioso. Si tratta di affermazioni che hanno una loro natura particolare, e tuttavia Wollheim ci invita innanzitutto a chiederci se non sia lecito sostenere che quando ci esprimiamo in questo modo vi è comunque qualcosa nell’oggetto che corrisponde a ciò che asseriamo, proprio come accade nelle forme con-suete della sintesi predicativa. Quando dico che questo foglio di carta è bianco dico di questo foglio di carta che è bianco: sostengo cioè che vi sia una qualche proprietà nel foglio che giustifica il mio dire così del foglio. Al predicato nel giudizio deve dunque corrispondere una proprietà nell’oggetto. Ora, come stanno le cose quando ci muoviamo sul terreno delle attribuzioni di proprietà espressive a stati cose come un paesaggio o una successione di suoni? Possiamo davvero dire, seguendo Baudelaire, che vi è nella natura un’infinità di corrispondenze, di proprietà che sorreggono le nostre attribuzioni di pro-prietà espressive?

Per Wollheim a questa domanda si deve dare una risposta affermativa, ma questo signi-fica in primo luogo mettere da parte un possibile errore – l’errore di chi crede di dover negare la teoria della corrispondenza sul fondamento della constatazione ovvia secondo la quale solo una soggettività può avere effettivamente uno stato d’animo. Si tratta di un errore che ha alla sua radice un’incomprensione linguistica: chi nega che sia lecito parlare di una corrispondenza obiettiva sembra non avere compreso che parole come “malinco-nia” o “serenità” significano cose diverse quando sono volte ora a denotare un vissuto, ora una proprietà nelle cose. Ne segue che quando asseriamo che un paesaggio è malin-conico non intendiamo affatto asserire che possa provare proprio quel vissuto che talvolta sa ridestare in chi lo osserva; tutt’altro: significa solo riconoscere che alla malinconia come stato d’animo corrisponde qualcosa – anche se certo non un vissuto:

What is given as a reason for this, and what is undoubtedly true, is surely irrelevant. This is that there is no psychological property of the object to which we thereby refer: we do not, in this kind of predication, refer to a property that could be pos-sessed only by the possessor of a psychology. That is true, but it is irrelevant, because it is perfectly possible that the psychological predicates that we apply to correspond-ing nature refer to properties, but not to the properties that they refer to in their stand-ard use. In other words, we could hold the view that there is what philosophers call ‘a fact of the matter’ to correspondence without believing in animism or committing the Pathetic Fallacy. In fact I believe that such a view is right, even though it does require invoking a notion that I believe we should in general try to avoid: ambiguity. Psychological predicates that double up are ambiguous (R. Wollheim, Correspond-ence, Projective Properties, and Expression, in The Mind and its Depth, Harvard, 1995, pp. 146-147).

Ma se così stanno le cose, se possiamo proporre una teoria della corrispondenza solo a patto di riconoscere che vi è un’ambiguità di fondo nei nostri usi linguistici, allora diviene necessario innanzitutto chiedersi quale possa essere la natura di quelle proprietà obiettive che corrispondono alle determinazioni psicologiche che attribuiamo alle cose. Un fatto chiaro: per Wollheim deve trattarsi di proprietà molto peculiari poiché non possiamo certo pensare che siano né vissuti, né mere proprietà obiettive. Non possono essere

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vissuti: un paesaggio non può essere malinconico. Ma non possono essere nemmeno proprietà materiali, come il peso o la forma o anche una qualsiasi configurazione fe-nomenica dell’oggetto stesso. Di qui la soluzione che Wollheim ci propone e che ri-calca una via che conosciamo bene – le proprietà di cui discorriamo debbono essere proprietà proiettive:

When psychological predicates are applied to nature for reasons of correspondence, what they refer to I call projective properties. […].

Wollheim ritiene che per venire a capo della natura di queste proprietà sia innanzitutto necessario riflettere sul modo in cui ne abbiamo esperienza. Ora, le proprietà proiettive sono innanzitutto causa dei nostri vissuti: la malinconia del tramonto può appunto de-terminare il mostro stato d’animo, proprio come una musica allegra può allietarci. Lo stato d’animo che proviamo, tuttavia, non è soltanto l’effetto soggettivo di quelle pro-prietà obiettive, ma ne è anche l’esperienza che ci consente di identificarle, un po’ come il rosso che noi avvertiamo è da un lato l’effetto di un potere insito nelle cose, dall’altro il modo in cui veniamo a consapevolezza di quel tratto obiettivo dell’oggetto. In questo dunque le proprietà proiettive rammentano le proprietà secondarie, ma se ne differen-ziano innanzitutto per la loro specifica complessità. Wollheim ritiene che vi siano due differenti aspetti di questa complessità su cui è necessario riflettere un poco:

There are two aspects to this experience that account for its complexity. For, on the one hand, though the experience is a perceptual experience, it is not a wholly per-ceptual experience. It is a partly affective experience, but the affect that attaches to the experience is not affect directed towards the property itself, or, at any rate, not exclusively directed towards it. It is affect directed partly towards older or more dominant objects. When a fearful object strikes fear into an observer, as it does, it is not solely fear of that object. On the other hand, the experience reveals or intimates a history. It is not so much that each individual experience intimates narrowly its own history: that is true only of the formative experiences in the life-history of the person. What later experiences do is to intimate how the sort of experience they exemplify comes about. Such experiences occur originally in the aftermath of pro-jection, and the fact that later experiences intimate this origin, and do so even when they do not themselves originate in this way, is the reason why I call them experi-ences of ‘projective’ properties. (ivi, p. 149).

Cerchiamo di chiarire che cosa Wollheim intende quando si riferisce a questi due mo-menti.

1. Un’esperienza a due livelli. Per Wollheim l’esperienza delle proprietà proiettive è un’esperienza complessa perché abbiamo a che fare con un’esperienza percettiva che, tut-tavia, è insieme anche un’esperienza colorata affettivamente. Percepiamo qualcosa, ma insieme lo percepiamo nel suo corrispondere ad un qualche stato d’animo determinato. E ciò significa: non abbiamo semplicemente esperienza di un oggetto caratterizzato da una proprietà naturale N, ma cogliamo quest’ultima nel suo corrispondere ad una determinata emozione E.

Ora cogliere la proprietà di un oggetto nel suo corrispondere ad un’emozione vuol dire coglierla così come ci apparirebbe se la esperissimo alla luce di quella stessa emozione: la possibilità di cogliere una proprietà che nell’oggetto corrisponda ad uno stato affettivo fa dunque tutt’uno con il carattere proiettivo della proprietà che garantisce la corrispon-denza. Che cosa Wollheim intende dire è presto detto: ciò che trasforma una proprietà meramente obiettiva N in una proprietà proiettiva P è il fatto che N ci appare alla luce di una determinata emozione E che la trasforma in P – in una proprietà che corrisponde

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all’emozione E, ma che si dà nell’oggetto esperito. Ma ciò è appunto quanto dire che ciò che trasforma N in P è il suo essere colta alla luce di una proiezione determinata.

Certo, perché sia possibile che vi sia corrispondenza, è necessario che l’oggetto abbia già una sua determinata configurazione materiale che non è in un rapporto meramente estrinseco con la proprietà proiettiva che è chiamata a sorreggere. Una proprietà proiettiva è appunto una proprietà complessa e non è pensabile che qualcosa nella natura ci appaia corrispondere ad un nostro stato d’animo, se essa non è già di per sé caratterizzata da una qualche interna analogia con ciò la dimensione affettiva che la determina proiettivamente. Un tramonto potrà racchiudere una proprietà proiettiva come la malinconia (come ciò che corrisponde alla nostra malinconia) solo perché ha un certo andamento fenomenico – per-ché i colori si vanno lentamente spegnendo, perché il Sole scompare dietro l’orizzonte, e così di seguito – e sarebbe in linea di principio sbagliato credere che sia possibile proiet-tare qualsiasi cosa su qualsiasi sostrato.

Su questo punto, che ricorda così da vicino tesi che abbiamo a suo tempo discusso, le analisi di Wollheim sono per certi versi più ricche, per altri più povere di ciò che Lipps aveva a suo tempo sostenuto. Sono, in un certo senso, più ricche: Wollheim muove da un contesto teorico fortemente permeato dal freudismo e proprio per questo ritiene che il fenomeno della proiezione abbia una sua ragion d’essere nelle dinamiche conflittuali e pulsionali che agitano la soggettività e che determinano la natura della sua vita psichica.

Di qui la distinzione tra proiezione semplice e proiezione complessa. La proiezione sem-plice è caratteristica della vita psichica del bambino e si configura come una strategia per esternalizzare una pulsione sgradita: il bambino si sente malinconico, ma proietta la sua malinconia su persone o su accadimenti, liberandosi della responsabilità del proprio stato e attribuendolo ad una soggettività esterna o a un evento che viene momentaneamente animato. Nel caso della proiezione semplice, tuttavia, non si può ancora parlare di pro-prietà proiettive, e per due differenti ordini di ragioni. In primo luogo, la tonalità affettiva attraverso la quale le cose ci appaiono deve essere in atto e non è capace di trovare una nicchia nelle cose stesse e di ancorarsi stabilmente in esse. In secondo luogo, poi, qualcosa ci appare connotato affettivamente solo perché abbiamo proiettato nella cosa il nostro stato d’animo, vivificandola anche solo se per un attimo. La proiezione infantile è appunto una proiezione semplice che non crea proprietà nuove perché vive momentaneamente in un’illusoria animazione del mondo che le consente di ritrovare in ciò che esperisce ciò che vive:

The infant projects feelings, welcome and unwelcome, on to random parts of the environment, without any concern for, or interest in, what the environment is like. But, as a corollary, projection at this stage of development has only a transient effect. It may momentarily relieve anxiety, but it has no enduring influence upon the way in which the infant continues to perceive the environment. However, as the psychol-ogy matures, projection becomes more orderly, and those parts of the environment upon which feelings are projected are now selected because of their affinity to their feelings. And in consequence they can continue to be experienced as of a piece with those feelings. What I called the formative experiences or instances of projection can occur only after this developmental stage has been reached (ivi, p. 152).

Sarebbe tuttavia un errore credere che sia sufficiente una qualche analogia tra la natura e lo stato psicologico perché la proprietà proiettiva prenda forma. Ovviamente le cose non stanno così: è necessario infatti che una proiezione abbia luogo. Si tratta, per Wollheim, di un punto essenziale che sembra assumere un carattere quasi definitorio. Di per sé, la congruità della natura non basta perché altrimenti non ci sarebbe bisogno di parlare di proprietà proiettive: deve dunque esserci qualcosa che va al di là della natura stessa e che

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rende le corrispondenze proprietà di un genere particolarissimo. Non solo: la stessa pos-sibilità di tratteggiare con maggiore precisione la natura di queste connessioni analogiche deve essere, per Wollheim, senz’altro messa da canto – e su questo punto le analisi che ci vengono davvero più povere delle riflessioni di Lipps che abbiamo dianzi discusso. Certo, anche per Wollheim debbono esserci analogie tra le proprietà naturali e le proprietà proiet-tive che ne derivano, ma di queste analogie non si può dire nulla al di là del loro necessario sussistere perché ogni tentativo di essere più esatti si scontrerebbe con la sostanziale ne-gazione della necessità del momento proiettivo:

It might seem a lacuna in this account that I have said nothing informative about the affinity between psychological conditions and parts of nature on to which we are inclined to project them. But what more is wanted? If what is wanted is information about how exactly nature has to look in particular cases if it is to be apt for the pro-jection of this rather than that feeling, then this demand must surely go unsatisfied. For how could we convincingly describe what it is about some aspect of nature that makes it suitable for the projection of some particular feeling without upgrading the mere affinity into the projective properties of which it is – at any rate, on my view – the mere substrate? (ivi, p. 152).

Di qui appunto la specificità della proiezione complessa: da un lato presuppone negli og-getti una qualche analogia che li renda assimilabili alla nostra vita affettiva, dall’altra non assume la forma di un’animazione ingenua del mondo. La proiezione complessa non trova nel mondo un’eco immediata e non si perde in un’ingenua consonanza affettiva, ma co-struisce una proprietà nuova che è solo simile, ma non identica al nostro vissuto. La proie-zione complessa crea le proprietà proiettive che sono dunque proprietà di secondo livello: sono nelle cose solo in quanto ci appaiono alla luce di una proiezione che deve esservi stata – in un qualche tempo:

With complex projection, the property that some natural part of the environment is experienced as having is not the same as the property that the person originally had. How could it be, given that nature has no psychology? A blanket-phrase, a made-up locution, for saying how the two properties are related would be this: that nature, in its relevant parts, is felt to be, not actually melancholy, but of a piece with the per-son’s melancholy. A deceptive feature, which could misguidedly be seized on as an instructive feature, is that, although, in the case of complex projection, the two prop-erties involved are different, in certain circumstances someone might use the same predicate to pick out both: as indeed I did, a few moments ago in introducing com-plex projection. This is a practice of which the doubling-up in correspondence is a special case (ivi, pp. 151-152).

2. Siamo giunti così in prossimità della seconda caratteristica peculiare delle proiezioni complesse: il loro rimandare ad un passato che li qualifica appunto per quello che sono – proiezioni. Le proiezioni complesse ci propongono una proprietà obiettiva: qualcosa, nel mondo, ci appare caratterizzato da un’effettiva corrispondenza con una qualche nostra emozione. Le corrispondenze, tuttavia, ci si danno fenomenologicamente come proprietà proiettive e questo significa che per noi esperirle significa anche coglierle nel loro riman-dare ad un passato in cui la proiezione è o deve essere avvenuta. Le corrispondenze sono proprietà che ci parlano della loro storia e questo significa, in alcuni casi prototipici, che la loro apprensione ci riconduce al ricordo dell’esperienza proiettiva da cui hanno tratto origine. Non posso non vedere la malinconia di quel paesaggio, ma coglierla significa anche per me ritornare nel ricordo all’esperienza della proiezione, un po’ come accade quando – guardando la parete sbrecciata – non possiamo fare a meno di rammentare quel chiodo che non voleva entrare:

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The first part of the claim was that a number of such experiences intimate their own actual history: they intimate, in other words, that they derive from an instance of projection. Consider then the case of someone who has just projected his feelings on to the environment: say, melancholy. Now if this person perceives the relevant part of nature as of a piece with his melancholy, what will lead him to do this is, in addi-tion to the affinity of one to the other, a memory of the projection. This memory will organize or structure the perception in a way that should be familiar to us from anal-ogous cases. So, for instance, a person’s pain in his thumb might well be stabilized by the memory that he has just grazed his thumb in the course of paring a carrot (ivi, p. 153).

Ma le cose non stanno sempre così: non sempre accade che ad una qualche proprietà proiettiva si leghi il ricordo determinato della proiezione da cui pure deve avere avuto origine. Talvolta semplicemente troviamo nelle cose una corrispondenza, senza rammen-tare un’esperienza passata cui ricondurre ciò che va al di là della mera determinatezza naturale dell’oggetto. Ora, che una proiezione debba aver luogo sembra essere, in primo luogo, una tesi che ha un suo fondamento ontologico: in un paesaggio non può esserci nulla che possa propriamente corrispondere alla malinconia che, guardandolo, potremmo provare e ciò deve valere come un segno del fatto che una qualche proiezione deve aver avuto luogo. Wollheim, tuttavia, non si accontenta di questa giustificazione ontologica, ma ritiene che sia possibile sostenere anche da un punto di vista descrittivo che una proie-zione deve aver avuto luogo. Quando vedo la malinconia del tramonto non rammento, certo, la prima volta in cui ho provato malinconia guardandolo: la malinconia del tramonto c’è al di là del mio avvertire ora malinconia e, anche, del mio rammentare di avere un tempo provato proprio quello stato d’animo. E tuttavia, cogliere la malinconia del tra-monto significa anche, per Wollheim, cogliere una proprietà che non posiamo non rico-noscere come frutto di un atteggiamento proiettivo. Cogliere la malinconia del tramonto significa riconoscere in una proprietà la sua origine – significa vedere che ciò che fa del calare del Sole una scena che ci commuove deve infine ricondurci ad un modo in cui quella scena è stata interpretata dai vissuti affettivi della soggettività:

A natural suggestion is that this intimation takes the form of a recognitional capacity we have. In other words, we recognize parts of nature as those on which we might have, or could have, projected this or that kind of feeling. Indeed we might think that such a recognitional capacity is part and parcel of the ability to project. If, then, we do have such a capacity, this capacity seems fully competent to extend the explana-tion of our perception of projective properties beyond the narrow base provided by what I have called the aftermath of projection (ivi, p. 153).

Il senso di queste considerazioni è relativamente ovvio. Wollheim parla di una capacità di riconoscimento e ci invita a sostenere che non possiamo cogliere la malinconia del tramonto senza afferrare insieme il rimando ad una qualche proiezione di sorta. Insomma: le proprietà proiettive avrebbero nella loro stessa natura un rimando alla loro origine. Che cosa questo significhi lo si può comprendere forse con un esempio. Un bambino prende un ramo e lo usa come una spada, per sfidare altri bambini a duello. Il ramo può essere in parte adattato allo scopo: qualche foglia secca può essere rimossa, l’impugnatura può es-sere migliorata, e così via. Non si tratta di una prassi inessenziale, ma di un momento che ha una sua valenza costitutiva: un pezzo di natura diviene un manufatto e acquista così un carattere culturale. Ora quel ramo avrà una forma che rammenta insistentemente una spada e questa forma aiuterà il bambino a non aver più bisogno di pensare quale sia il gioco migliore per quel pezzo di legno: la forma dice ad alta voce che cosa si deve fare di quel ramoscello e questa funzione ludica si lega nel tempo a quel pezzo di legno che

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diviene un giocattolo – ed un giocattolo resta anche se, dopo qualche mese, ci si dimentica del fatto che tale è diventato solo in virtù di una prassi ludica che ha proiettato sulla de-terminatezza naturale del ramo una proprietà innaturale. Il punto è qui: qualcosa diventa un giocattolo perché lo usiamo come un giocattolo. Una volta che la prassi si sedimenta in una proprietà, tuttavia, accade qualcosa di nuovo: abbiamo davanti a noi un oggetto che è un giocattolo, che ha la proprietà proiettiva che deriva dalla prassi ludica. Far luce su questa proprietà significa tuttavia coglierne un tratto importante: per imparare a coglierla dobbiamo imparare a riconoscerla come il correlato di una prassi. Lo stesso accade per le proprietà proiettive: ci sembra di trovarle negli oggetti, ma possiamo “trovarle” solo se le riconosciamo come correlato di uno stato d’animo che dobbiamo avere un tempo vissuto e alla luce del quale debbono esserci apparse in una forma carica di affettività le proprietà che nell’oggetto sussistono naturalmente, prima di ogni determinazione psicologica.

Possiamo fermarci qui nell’esposizione delle tesi di Wollheim. Al di là della loro bre-vità e della relativa oscurità di alcuni passaggi, l’obiettivo cui Wollheim è ben chiaro: Wollheim intende mostrare che è possibile per una teoria proiezionistica rendere conto del fatto che vi è una differenza irriducibile tra l’avvertire la malinconia del crepuscolo e provarla. Il crepuscolo ha una proprietà che avvertiamo e che non coincide con il nostro sentirci più o meno toccati dal fenomeno di cui siamo testimoni. Di qui la tesi di Wol-lheim, che ci invita a porre nel catalogo delle “realtà” nelle quali ci imbattiamo nella no-stra esperienza del mondo un nuovo e particolare tipo di proprietà: le proprietà proiettive. Le proprietà proiettive le troviamo nel mondo, ma riconoscerle significa cogliere ciò che propriamente o impropriamente ci rammentano: il loro essere frutto di una proiezione che deve pure un tempo esserci stata. Ci sono apparse così quelle proprietà – perché le ab-biamo viste alla luce di un’emozione che ne ha modificato l’aspetto. E non importa se non ci ricordiamo affatto di questa proiezione: deve esserci comunque stata, che la ricordiamo o no, così come deve esserci stata un tempo la percezione di quella scena passata che ora ricordiamo, senza tuttavia rammentare di averla un tempo esperita.

2. Considerazioni critiche

Come dobbiamo reagire a queste considerazioni che cercano di stringere in un unico nodo la teoria proiezionistica delle proprietà espressive e la tesi obiettivistica secondo la quale le proprietà espressive si avvertono, anche senza provarle? Così, io credo: chiedendoci da un lato se la teoria proiezionistica è davvero in grado di mantenere ciò che ci promette e se, dall’altro, ciò che ci promette è davvero sufficiente per venire a capo del nostro pro-blema.

Affrontiamo innanzitutto la prima domanda. Wollheim ragiona così: se deve essere pos-sibile imbattersi in proprietà espressive – se può capitarci di trovare malinconico il tra-monto quando siamo tutt’altro che cupi d’umore – ciò deve accadere perché le proiezioni si stabilizzano nelle cose lasciando in esse quella coloritura particolare che trasforma le proprietà naturali in corrispondenze – in proprietà espressive, dunque. Queste proprietà di fatto le troviamo nelle cose, ma per coglierle in tutta la ricchezza del loro senso dobbiamo essere in grado di ascoltare ciò che in qualche modo ci dicono: le proprietà espressive ci dicono la loro origine e per coglierle siamo costretti a vedere nella loro dimensione affet-tiva il segno di una proiezione che deve esserci stata, anche se forse ora non la rammen-tiamo. Wollheim dice così, e ci invita a pensare che le proprietà espressive alludano nel loro stesso senso ad un istante passato – al momento in cui un’emozione che provavamo ha rotto gli argini della soggettività e si è diffusa sulle cose, rendendole cariche di un significato espressivo inatteso.

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È difficile cogliere con esattezza ciò che Wollheim ci dice, ma forse se vogliamo inten-dere le sue riflessioni che sono ora troppo rapide, ora non sempre lineari possiamo la-sciarci guidare da un modello che può meglio far luce sul nostro problema: il modello degli oggetti culturali. Le ragioni di questa analogia sono ovvie. Gli oggetti culturali sono oggetti che in qualche modo dipendono da noi e che ci sono solo perché ci sono uomini che hanno una vita in comune e che agiscono nelle forme di una cultura: ci sono libri solo perché ci sono uomini che sanno leggere, che hanno bisogno di fissare sulla carta quello che la memoria da sola non può salvare, e così via. Ma gli oggetti culturali non sono soltanto cose che dipendono nel loro esserci dal nostro stile di vita: sono anche cose che possiamo “trovare” nel mondo che ci circonda, anche se per riconoscerli è necessario co-glierli alla luce di una prassi che determina il loro senso. Un giocattolo è un oggetto tra gli altri: è un pezzo di materia del mondo. Cogliere quel pezzo di mondo come un giocat-tolo, tuttavia, significa avere esperienza di un oggetto che appartiene alla nostra vita: non esperiamo un oggetto qualsiasi, ma una cosa che appartiene alla nostra cultura e che ha proprietà che si attagliano ad una prassi che ci appartiene essenzialmente – la prassi ludica. Ora, dire che un giocattolo è qualcosa che ha proprietà che lo rendono esperibile come un oggetto della nostra cultura vuol dire anche sostenere che qualcosa si è stabilmente ag-giunto al legno o alla plastica di quel pezzo di mondo e ne ha fatto ai nostri occhi un oggetto che appartiene al nostro mondo e che non è riducibile alla realtà fattuale delle cose della natura.

Per i giocattoli le cose stanno così, ma è un modello che può essere davvero fatto valere? Io non credo. Una prima differenza balza agli occhi: qualcosa è un giocattolo (o un libro o un tavolo o un cacciavite …) se da un lato è possibile utilizzarlo in un certo modo e se dall’altro è stato fatto per utilizzarlo in quel modo – ed è proprio a questa duplice condi-zione cui alludeva la nostra storiella del bambino che strappa le foglie dal ramo per poterlo usare come una spada. Ma appunto: perché qualcosa sia un giocattolo deve essere un oggetto costruito allo scopo poiché questa è la specificità dei giocattoli – il loro essere non soltanto oggetti atti ad essere usati in un certo modo, ma anche cose che sono state costruite per quel fine. Ne segue che se per un caso un oggetto avesse tutte le proprietà di un giocattolo, ma non fosse stato fatto come uno strumento per un possibile gioco, non sarebbe un giocatolo. Non lo sarebbe per definizione – questo è il punto: un giocattolo non è un giocattolo se non è stato fatto per giocare ed è dunque parte della sua natura l’essere stato costruito secondo uno scopo. Ora ci chiediamo: le cose stanno così anche nel caso delle proprietà espressive? La risposta mi sembra essere, in questo caso, negativa: non c’è nulla nella natura della malinconia del tramonto che mi costringa a pensare che sia stata un tempo capace di provocare in chi l’ha esperito un certo stato d’animo. Un oggetto è un oggetto culturale perché è stato fatto proprio per quello scopo; un tramonto, invece appare malinconico a noi uomini, ma non è malinconico perché l’abbiamo visto un tempo alla luce della nostra malinconia. Certo, Wollheim avrebbe ragione di osservare che il nostro avvertire la malinconia del tramonto è connessa con la nostra capacità di sentire emozioni, ma questo ancora non significa che da un lato ogni proprietà espressiva sia stata un tempo non soltanto avvertita, ma anche provata e che dall’altro si possa soste-nere che ogni emozione provata sia stata l’origine di una proiezione soggettiva. In altri termini: non sembra esserci una ragione che ci costringa a sostenere che il cielo possa sembrarmi minaccioso solo perché un tempo mi sono sentito spaventato e ho trovato nel cielo scuro di nuvole un sostegno per proiettare le mie ansie nel mondo. Perché non dire il contrario? Perché non sostenere che ho innanzitutto avvertito il carattere minaccioso del cielo e che l’ho avvertito con tanta forza e con tanta determinatezza da provare io stesso paura. Sarebbe contraddittorio dire così? A me non pare. Mi sembra invece che non vi sia

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un ordine necessario che ci costringa a sostenere che non c’è emozione avvertita nelle cose che non sia stata un tempo provata nella soggettività e questo rende il paragone che abbiamo proposto zoppicante perché un oggetto è un oggetto culturale solo se è stato co-struito per un certo scopo. In altri termini: il paragone con gli oggetti culturali non regge perché non c’è nulla nella natura delle proprietà espressive che ci costringa a pensarle come frutto di una proiezione – nulla se non la tesi filosofica secondo la quale un tramonto può dirsi triste solo se l’abbiamo a suo tempo inteso alla luce di questa nostra emozione.

Possiamo tuttavia spingerci un passo in avanti ed osservare che per vedere qualcosa come un giocatolo è sufficiente imparare a volgere la nostra attenzione per cogliere certi tratti determinati dell’oggetto – quelli che da un lato garantiscono un possibile impiego ludico e, dall’altro, ci permettono di cogliere il suo carattere di manufatto costruito per un certo scopo. Che qualcosa sia o non sia adatto per giocarci è qualcosa che non è difficile vedere e non è certo un’aura particolare quella che in questo caso siamo chiamati a scor-gere per cogliere in ciò che vediamo un giocattolo, ma è un insieme di tratti caratteristici

che potrebbe essere elencati con una certa facilità: i giocattoli sono fatti così – imitano gli oggetti della vita reale e consentono di ripetere la vita adulta, senza doverne condividere la serietà e la pesantezza. Così, un martello giocattolo deve poter essere impugnato e lo si deve poter brandire per poter inscenare lavori im-maginari, ma non deve essere troppo pesante e, so-prattutto, non deve avere una testa di ferro: un mar-tello giocattolo lo vediamo, se abbiamo imparato a guardare nella direzione giusta – in quella direzione che ci è insegnata dal fatto che abbiamo visto usare un martello reale e che abbiamo imparato che cosa dob-biamo e possiamo farcene di una cosa fatta così. Di

una cosa fatta così, appunto: abbiamo imparato anche a vedere che un oggetto è stato costruito per uno scopo. Questo è un cavallino per giocare, che risale a quasi duemila anni fa. È grande quel tanto che basta perché un bambino di pochi anni lo possa maneggiare tranquillamente e siccome un cavallo è innanzitutto qualcosa che corre e galoppa al nostro comando ha in sella un cavaliere bambino e quattro piccole ruote e un foro poco sopra la bocca, per farvi correre un filo, così che lo si possa trainare e portare a spasso, a piacere. Lo vediamo e sapremmo subito come giocarci, se solo ne avessimo ancora voglia. Ma vediamo anche che si tratta di un manufatto: lo vediamo nella pertinenza delle forme allo scopo, ma anche nella loro corrispondenza ad una tecnica di costruzione determinata: ri-conosciamo nella forma i segni della prassi costruttiva – i segni dello scalpello che ha cavato la forma dalla pietra – e le soluzioni tecniche che sono state adottate e che sono tutte coerenti con un disegno e con un insieme di abilità presupposte. Queste cose le ve-diamo, perché abbiamo imparato a guardarle, mentre giocavamo o mentre costruivamo o riparavamo giocattoli – ma le vediamo perché ci sono e sono disponibili al nostro sguardo. Per vederle non dobbiamo proiettare alcunché: dobbiamo invece guardarle nel modo giu-sto e alla luce di una competenza che, sola, le illumina. Che cosa questo significhi è presto detto. In quel piccolo cavallo con cavaliere può vedere un giocattolo solo chi sa giocare e ha un corpo simile al nostro e prova piacere nell’avere qualcosa che lo segua. Ma ciò è quanto dire: per vedere qualcosa come un giocattolo è necessario una competenza che ci consente di applicare qualcosa di molto simile ad un concetto. Significa imparare a vedere i tratti che ci consentono di applicare alla scena percettiva la regola che permette un rico-noscimento. Ciò che in un giocattolo vi è di più della mera materia di cui è fatto è il suo

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essere riconoscibile come un oggetto di un certo tipo: come un oggetto con cui si può giocare e che è stato costruito per questo scopo.

Nel quadro che Wollheim traccia le cose stanno invece assai diversamente. Per Wol-lheim, le proprietà espressive sono proprietà percepibili e non è possibile in nessun modo renderne conto nei termini di ciò che si aggiunge ad un’esperienza determinata quando la riconosciamo alla luce di una possibile forma della nostra prassi e della sua dipendenza da un qualche modo del nostro operare: le proprietà espressive sono infatti proprietà sen-sibili che si aggiungo alla determinatezza puramente percettiva della cosa, alterandola. È proprio per questo che Wollheim sostiene che si tratti di proprietà proiettive: la peculiare coloritura affettiva che le caratterizza deve derivare dal loro essere state colte da una sog-gettività che, vivendo determinate emozioni, le proietta sul mondo. Per Wollheim, di per sé il Sole al tramonto non è malinconico: lo è solo perché vi proiettiamo la nostra malin-conia. Ne segue che per la teoria di Wollheim non si tratta di imparare a riconoscere nel tramonto del Sole ciò che dovrebbe consentirci di vederne la malinconia perché – se stiamo a ciò che Wollheim ci dice – nel Sole la malinconia non è possibile riconoscerla, visto che non c’è nulla di simile. Certo, per cogliere la malinconia del tramonto è neces-saria una competenza affettiva: devo avere imparato che cosa è la malinconia e quali sono le forme in cui si manifesta, e posso averlo fatto solo perché sono cresciuto in una comu-nità di persone, di uomini che conoscono anche troppo a fondo questa possibilità emotiva. Sostenere tuttavia che una proprietà può essere colta solo da un soggetto che abbia una competenza emotiva, acquisita nel contesto umano di una comunità di persone, non signi-fica sostenere che le proprietà espressive siano proprietà proiettive, proprio come ricono-scere che qualcosa è un giocattolo solo per chi sa come si gioca e per chi in qualche misura ci assomiglia, non significa asserire che le determinazioni che fanno di un pezzo di pietra scolpita un cavalluccio siano proprietà proiettive che, giocando, debbano essere aggiunte a quel pezzo di mondo. Se ci mettiamo invece nella prospettiva di Wollheim dobbiamo sostenere che ogni volta che percepiamo una proprietà proiettiva qualcosa deve aggiun-gersi alla percezione del sostrato naturale di quella proprietà – e questo qualcosa è appunto la determinazione espressiva: quella coloritura affettiva che alla cosa deriva dal suo essere colta da un soggetto mosso da un’emozione particolare. Ora, se ci interroghiamo sull’ori-gine di questa coloritura affettiva in ogni singola esperienza di proprietà espressive siamo evidentemente ricondotti ad un qualche stato reale della soggettività esperiente: se il Sole al tramonto mi appare così è perché vi proietto la mia malinconia. Ma ciò è quanto dire che la condizione per poter cogliere una proprietà proiettiva fa tutt’uno con il trovarsi, consciamente o inconsciamente, in uno stato emotivo che possa proiettare sulle proprietà naturali dell’oggetto la luce che dovrebbe renderle proprietà espressive. Delle due l’una: o si sostiene che le proprietà espressive non sono una coloritura peculiare che alle cose deriva dal nostro essere di un umore determinato o si sostiene che quell’umore determi-nato deve esserci se il mondo ci appare in un certo modo. Non posso imputare alle mie lenti colorate il colore del mondo se non ho dimenticato di inforcare gli occhiali. Di qui la conseguenza che dobbiamo trarre: a dispetto di ciò che lo stesso Wollheim vorrebbe sostenere, siamo ricondotti dalle sue pagine a dover ricondurre ogni proprietà espressiva ad una proiezione attuale, sia essa consapevole o inconsapevole, qualunque cosa quest’ul-tima ipotesi significhi.

Le riflessioni di Wollheim tuttavia non sono soltanto incapaci di mantenere ciò che pro-mettono: anche se sapessero giungere alla meta cui tendono, sarebbero comunque insuf-ficienti per rispondere effettivamente al problema cui tentano di dare risposta, e per tre differenti ragioni.

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La prima ci riconduce ad un fatto su cui ci siamo già soffermati: per Wollheim, possiamo avvertire una proprietà espressiva solo perché abbiamo già provato l’emozione che le cor-risponde e abbiamo proprio per questo proiettato sulle cose la luce soggettiva che di qui trae origine. Questo ordine di priorità non sembra tuttavia affatto necessario: è davvero necessario che una musica mi abbia effettivamente commosso perché io possa trovarla triste? Non potrei avvertirne la tristezza e solo in seguito essere commosso da quello che ascolto? A questa domanda sembra necessario rispondere affermativamente. Ma se così stanno le cose, le analisi di Wollheim falsano il quadro descrittivo e ci costringono a pen-sare che le proprietà espressive siano, per lor natura, l’eco di ciò che avvertiamo. Ma questo sembra essere falso proprio a partire da una considerazione che lo stesso Wollheim mette in luce, seppure per un differente motivo. Wollheim osserva così:

For instance, nature can be found to correspond to depression and to terror as well as to melancholy and to happiness: but, though we can call nature ‘melancholy’ and ‘happy’, we cannot call it ‘depressed’ or ‘terrified’ – or, more precisely, we cannot call it ‘depressed’ or ‘terrified’ for the reason that it corresponds to depression or terror: and there is no apparent explanation why this should be so (ivi, p. 146).

Una ragione, tuttavia, sembra esserci e ci riconduce al fatto che la nostra reazione alle proprietà espressive non deve affatto essere necessariamente una mera ripetizione di ciò che esperiamo, ma è nella norma uno stato d’animo che si rapporta al proprio oggetto, lasciandosi motivare da esso. Una natura deprimente non è natura depressa: è una natura senza attrattive; un paesaggio che ci riempie di terrore non è a sua volta terrorizzato, ma è cupo, angosciante, orrido, e così via. Ma se le cose stanno così, allora non si può affatto sostenere che la relazione che lega il soggetto all’oggetto espressivo è una relazione espressiva di proiezione: non cerchiamo nella natura ciò che esprime il nostro stato d’animo e non facciamo dell’uno l’eco dell’altra, ma troviamo invece in ciò che esperiamo il motivo che determina il nostro umore.

La seconda ragione cui alludevo ci consente di approfondire ulteriormente questo tema. Wollheim ci invita a ricondurre le proprietà espressive che avvertiamo nell’oggetto alle emozioni e agli stati d’animo che proviamo soggettivamente, ma può senz’altro accadere che si diano situazioni in cui ciò che si prova non si accorda affatto con ciò che avverto. Capita così a Orlando, quando la favola dell’amore di Angelica e Medoro che un vecchio pastore gli racconta per consolare la sua visibile tristezza e «ch’a molti dilettevole fu a udire», lo precipita di contro in un dolore insopportabile. Nelle parole del vecchio pastore Orlando avverte – e non può non avvertire –la gioia di Medoro e di Angelica per il loro amore e non può non vedere la bellezza del luogo dei loro incontri, ma proprio questo lo fa soffrire ancora di più e il letto dei loro amori in cui ora egli stesso giace, gli sembra più duro di un sasso e più pungente dell’ortica: quello che avverte è diverso da quello che prova, ma prova esattamente quello che prova, proprio perché avverte che quel luogo è stato per altri felice. E anche senza scomodare il paladino Orlando e Ariosto, tutti sap-piamo che qualche volta si può essere di cattivo umore alle feste, proprio perché tutto si accorda ad un’allegria di cui non ci si sente parte. Si avverte la gioia, ma non la si prova – una situazione che accade mille volte, ma che non sembra possibile spiegare se si ritiene che le proprietà espressive siano la coloritura specifica che le cose assumono in virtù della proiezione soggettiva dei nostri umori. Vi è, per il vero, una possibile risposta che il filo-sofo proiezionista potrebbe tentare di far valere: potrebbe argomentare infatti che tutte le volte in cui il provare si distingue dall’avvertire debba aver luogo una proiezione incon-scia. Proviamo tristezza perché ci sentiamo esclusi dall’allegria che è condivisa dagli altri, ma questo nostro stato d’animo non ci trattiene dal proiettare sulla scena che esperiamo e

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sull’atmosfera del luogo una gioia che tuttavia non ci sembra di avere vissuto. Proiettiamo sulla natura che ad aprile rinasce la nostra gioia, eppure viviamo questa rinascita come un’illusione insopportabile che ci fa capire che aprile è il più crudele dei mesi – o almeno questo è quanto Eliot ritiene di comprendere e di capire.

La terza ragione ci riconduce apparentemente ad un problema più circoscritto. Torniamo al saggio di Wollheim. Nelle sue considerazioni conclusive, Wollheim osserva che, per quanto possa sembrare paradossale, l’atto creativo dell’artista non è poi propriamente di-verso dal gesto dello spettatore. Creare, in fondo, significa prestare ascolto a quello che si fa e scegliere in base ad un disegno espressivo: il musicista si mette al pianoforte e prova le note e, insieme alle note, saggia le emozioni che i suoni ridestano in lui, scegliendo passo dopo passo un percorso espressivo. L’opera nasce proprio così, in un processo in cui l’artista è il primo spettatore di se stesso:

That expression in art, though it derives from a creative act, is nevertheless borne by strictly perceptible properties receives confirmation from an impeccable source: that is, the nature of the creative act itself, regarded as a piece of behavior. For across the visual arts the creative act always finds physical realization in a posture that allows, that encourages, the artist to attend to his work even as he makes it. It ensures that the artist is the original spectator of his work. But, if this is what he is, it is important to see why. He is so, not just in order to discover what he has made, but, crucially, in order to make it. The painter paints (partly) with his eyes: the sculptor carves or models (partly) with his eyes: the draughtsman draws (partly) with his eyes. In other words, if, as I have contended, correspondence in art derives from the artistic pro-cess, the process itself anticipates this dependence through its physical or behavioral realization. For, by compelling the artist to take stock of the works it comes into being, the posture that he assumes permits him to see whether the work corresponds to the inner condition that be all the while has had in mind. He can, while making the work, note the experience that it causes in him, and he can then regulate, by what he does to the work, the experience it may be expected to cause in others (ivi, p. 156).

Non mi sembra una conclusione paradossale: è probabile che le cose stiano proprio così e che l’artista veda o senta in ciò che produce l’adeguatezza complessiva ad un disegno espressivo che non è se non nel suo farsi. Mi sembra paradossale invece una seconda e diversa tesi che si fa strada nelle pagine di Wollheim – ed è la tesi secondo la quale ogni volta che avvertiamo la malinconia del tramonto o la serenità di una notte d’estate ci tro-veremmo in una situazione molto simile a quella dell’artista che cerca un materiale adatto per esprimere al meglio una nostra emozione preesistente. In fondo non troveremmo af-fatto malinconico il tramonto, ma dovremmo in fondo sostenere che è il nostro umore che trova ciò che cerca per esprimersi. «Malinconico come sono, mi ci vorrebbe proprio un bel tramonto» – è così che dovremmo esprimerci, se Wollheim avesse ragione. Ma direi che ha torto perché non è vero che ad ogni situazione espressiva si possa far precedere un desiderio di espressione. Non cerchiamo un tramonto per la nostra malinconia, ma sem-plicemente ci accade di imbatterci in scene malinconiche – ed anche allegre, per fortuna.

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LEZIONE OTTAVA

1. Uno sguardo all’indietro

Nelle lezioni precedenti abbiamo cercato di far luce sulla natura delle teorie proiettive ed abbiamo mostrato quali fossero le ragioni che sembrano motivare una simile posizione teorica, per poi cercare di mostrare quali fossero le ragioni che – a mio parere – rendono poco persuasive le teorie di Lipps e di Wollheim – le uniche su cui ci siamo soffermati effettivamente. Ora, anche se questo comporta una qualche ripetizione, credo che sia op-portuno volgere nuovamente lo sguardo all’indietro per cercare di mostrare quali siano le difficoltà contro le quali si scontra ogni teoria di carattere proiettivo. È opportuno farlo perché vedere chiaro su questo punto dovrebbe consentirci di fissare alcune condizioni di carattere generale cui una teoria delle proprietà espressive in generale deve poter far fronte.

Una prima difficoltà ci riconduce al problema della localizzazione delle proprietà espressive. Si tratta di un problema complesso cui nessuna delle posizioni che abbiamo analizzato sin qui sembra capace di dare una risposta soddisfacente. Nel caso dei teorici di stampo causalistico non è difficile capire quale sia la soluzione che a questa difficoltà deve essere data: le proprietà espressive sono nella soggettività che le prova poiché di fatto non sono null’altro che l’effetto psichico di una causa reale. Certo, vi è una tendenza a porre nella causa ciò che si dà nell’effetto, ma si tratta in fondo soltanto di un errore, di una sorta di metonimia cui non sappiamo facilmente sottrarci, anche se sarebbe opportuno farlo. Sono triste quando guardo il tramonto sarebbe insomma la descrizione corretta di ciò che intendiamo quando, meno appropriatamente, parliamo della malinconia del cre-puscolo.

Si tratta di una risposta semplice che, tuttavia, non sembra particolarmente vicina al dato descrittivo. Vediamo la malinconia del tramonto proprio nel tramonto e sentiamo la dol-cezza di una canzone proprio nel succedersi delle note e se diciamo del tramonto che è malinconico o della canzone che è dolce non intendiamo affatto parlare di quel che ci accade, guardandoli o ascoltandoli, ma vogliamo dire qualcosa della loro natura. Vo-gliamo, in altri termini, descrivere qualcosa che li caratterizza. Se dico che una canzone è dolce, voglio dire qualcosa di quella canzone e non di ciò che mi accade quando la sento, ed è per questo che ha senso che tu faccia valere la tua opinione se non sei d’accordo con me: se dici che a te sembra malinconica, non intendi affermare che sei diverso da me e che su di te quella canzone fa un diverso effetto, ma mi inviti ad ascoltare meglio qualcosa che, a tuo parere, ho ascoltato distrattamente. Se tu dici malinconica la canzone che a me sembra dolce non siamo diversi: siamo in disaccordo, proprio come lo siamo quando tu dici che una stoffa ti sembra porpora e io dico che mi sembra cremisi. Del resto, che le proprietà espressive si localizzino descrittivamente sul terreno obiettivo è un fatto difficile da negare. Apro la porta di una casa e avverto il grigiore che ne pervade le stanze, vedo che ogni cosa è al suo posto e questo eccesso di ordine mostra che nessuno sa più cosa farsene delle cose riposte sugli scaffali e sulle mensole; vedo tutto questo e mi rendo conto che richiudere la porta e tornare sui miei passi è l’unico modo per non lasciarmi contagiare dalla tristezza: chiudo la porta e la tristezza la lascio alle spalle, chiusa in quelle camere. Certo, per il partigiano delle teorie causalistiche la risposta sembra essere a portata di mano: chiudendoci la porta alle spalle, rimuoviamo la causa della tristezza che, se mai c’è, è in noi. Sarebbe tuttavia sbagliato, io credo, ragionare così e per due differenti ra-gioni. In primo luogo non è affatto detto che io provi lo stato affettivo che avverto e l’esempio che abbiamo appena proposto lo dice con chiarezza: posso reagire in molti e

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diversi modi allo spettacolo di quelle stanze troppo ordinate – posso reagire con un pizzico di fastidio, con un atteggiamento in cui l’ironia si fa malinconica o con una tristezza che si lega al timore che quelle stanze al passato possano assomigliare alla mia casa in futuro – ma la varietà delle reazioni non cambia affatto la natura di quello che avverto. In se-condo luogo, poi, la malinconia delle stanze di cui abbiamo appena discorso non mi si dà affatto come la causa di ciò che provo, ma come il suo motivo. Il grigiore delle stanze non è la causa di un evento psichico, ma è il motivo del mio rispondere alle proprietà espres-sive che esperisco assumendo un determinato atteggiamento. Una causa è legata al suo effetto da un nesso reale che sussiste necessariamente, ma che non può essere ulterior-mente interrogato; un motivo invece è un nesso di carattere intenzionale che non ha ne-cessariamente una consistenza reale, ma che per sua natura ci consente di rendere conto della sensatezza di un comportamento: se reagisco con una punta di timore allo spettacolo di una casa in cui ogni cosa sembra essere stata dimenticata esattamente al suo posto è perché vedo in quella disposizione delle cose l’ingrigirsi della vita nella vecchiaia e penso che gli anni passano più in fretta di quanto vorresti. Ma se ciò che proviamo non è causato da ciò che esperiamo, ma vi si rapporta in un nesso di motivazione, allora sembra neces-sario sostenere insieme che ciò è all’origine della nostra reazione emotiva non è una causa cieca, ma una proprietà espressiva in grado di determinare e sorreggere il nostro compor-tamento.

Di qui la posizione delle teorie proiezionistiche. Le teorie proiezionistiche muovono da una constatazione importante: dalla tesi secondo la quale la percezione delle proprietà espressive ha, spesso, una duplice localizzazione: se ascolto un adagio, posso lasciarmi commuovere dalla malinconia della musica, ma la mia commozione risponde ad una ma-linconia che avverto nei suoni stessi. Ora, per il teorico proiezionistico le proprietà espres-sive che hanno una localizzazione obiettiva debbono essere interpretate alla luce della loro presunta dipendenza dai vissuti soggettivi che loro corrispondono: sento proprio lì, in quella successione di note, la malinconia di quell’adagio, ma se ciò accade è solo perché ho proiettato ciò che io propriamente provo su una successione di materiali di per sé privi di espressione. Si tratta di una tesi che, ancora una volta, non sembra vicina alla dimen-sione descrittiva dei fenomeni, per un insieme di ragioni che abbiamo già osservato: non siamo in primo luogo consapevoli di proiettare i nostri stati d’animo sulle scene che ci sembrano espressive, ma non siamo nemmeno – in secondo luogo – mossi sempre dagli stessi vissuti che ci sembra di trovare nelle cose che motivano la nostra reazione emotiva che, del resto, può essere anche del tutto assente. Guardo la malinconia del crepuscolo, ma non per questo mi lascio commuovere dalla scena che osservo e resto indifferente di fronte ad una scena di cui pure avverto la dimensione espressiva.

Vi è, tuttavia, una ragione che ci spinge a prendere le distanze dalle teorie proiezionisti-che e che verte direttamente sul problema della localizzazione. Certo, il teorico dell’em-patia o delle “corrispondenze” sostiene che vi siano proprietà espressive nelle cose, anche se crede che dipendano esclusivamente da una proiezione soggettiva che si aggiunge alle cose, facendocele apparire sotto una diversa luce. Ma ciò è quanto dire che il modo in cui le proprietà espressive ineriscono alle cose e si localizzano in esse dovrebbe essere carat-terizzato da una relativa estrinsecità: se si trattasse di una proiezione, il carattere espres-sivo dovrebbe essere relativamente indipendente dalle variazioni dell’oggetto che non può essere altro che un’occasione per proiettare un vissuto determinato piuttosto che un altro. Al contrario, la proprietà proiettiva dovrebbe avere un nesso con lo stato d’animo della soggettività da cui propriamente dipende: la relazione proiettiva è una relazione che si fonda nella soggettività e che ha nell’oggetto trova solo lo spunto per la sua applicazione. Ne segue che la variazione dell’oggetto dovrebbe solo indirettamente e accidentalmente

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determinare una variazione nella realizzazione di una proprietà proiettiva, mentre le va-riazioni dell’umore soggettivo dovrebbero in qualche modo riverberarsi sul modo in cui gli oggetti ci appaiono. Le cose tuttavia non stanno così. Ascolto un adagio e ne avverto la malinconia, ma insieme avverto anche il suo dipendere essenzialmente dalla natura dei suoni che si susseguono: non decido nulla, ma semplicemente ascolto e a ogni nuovo movimento si fa avanti accordo dopo accordo un diverso carattere espressivo che si im-pone e che guida il mio ascolto, senza chiedermi nulla. Del resto, per modificare la pro-prietà espressiva che ora si impone al mio ascolto basta ben poco: è sufficiente alterare qualche accordo, rendere più celere il ritmo o variare la dimensione timbrica e il carattere malinconico dei suoni viene meno e al suo posto s fa strada una diversa espressività.

Come abbiamo osservato, basta variare di poco la struttura dei suoni perché mutino le proprietà espressive che in quei suoni manifestano. Una simile variazione, invece, può essere del tutto insufficiente per variare l’umore che provo: la musica che ho sentito mi ha scosso, ma non basta che ora risuonino altre note perché il mio umore repentinamente cambi. Viceversa, al variare del mio umore non varia affatto la percezione del carattere espressivo dell’oggetto. Se entro da solo in un bosco di piante scheletrite la sera tardi potrei sentirmi pervadere da un vivo senso di disagio e forse anche di timore che potrei tuttavia tacitare ripetendomi a voce sommessa quello che so bene e cioè che non vi è ragione di avere paura, che conosco la strada e non corro il rischio di perdermi e che qualche ramo e qualche tronco dalle forme bizzarre non rappresentano certo un pericolo. Posso tranquillizzarmi ripetendomi da solo questa strana cantilena di ovvietà, ma il mio sentirmi tranquillo non cancella la dimensione espressiva che appartiene a quel bosco e che continuo ad avvertire, anche se ora la paura è passata e non mi lascio più smuovere da quel che vedo. Certo, se sono impaurito mi sarà più facile cogliere l’aspetto inquietante del bosco, ma questo ancora una volta non significa che abbia luogo una proiezione: vuol dire solo . Se cerco per casa la mia matita, il mio sguardo cadrà su astucci e su penne e su tutto ciò che di primo acchito sembra avere a che fare con la mia ricerca, ma il fatto che io possa stupirmi di quante matite ci sono per casa non significa certo che le abbia proiet-tivamente create: vuol dire solo che se la percezione è animata da un interesse determi-nato, si lascerà guidare da esso e darà peso a tutti gli indizi che sembrano prometterle di poter giungere alla meta. Lo stesso accade quando mi addentro nel bosco: se sono in-quieto, è facile che il mio sguardo cerchi – e in qualche misura trovi – nei tronchi e nei rami, nelle rocce e nelle voci che si alzano nell’oscurità una conferma del mio stato d’animo, ma questo ancora non vuol dire che abbia luogo necessariamente una proiezione: vedo quello che cerco, ma non basta cercare per riuscire a vedere.

Non è solo il problema della localizzazione che sembra tuttavia costringerci ad abban-donare la prospettiva del proiezionismo: è anche l’impossibilità di venire a capo del nesso che lega le nostre reazioni emotive alle cose che esperiamo. Questo nesso è duplice: ci si può infatti interrogare sulle ragioni per le quali possiamo avvertire malinconico il crepu-scolo o allegro un movimento di una sonata, ma ci si può interrogare anche sulle ragioni per le quali reagiamo all’una e all’altra in modi differenti. È dubbio che si possa sempre rispondere in modo univoco alla prima domanda: possiamo davvero dire per quale motivo, per dirla con Paolo Bozzi, sentiamo ragricciante il suono di una settima diminuita? E c’è una ragione che ci consenta di dire davvero perché un mattino sereno ci sembra allegro? Su questo punto dovremo tornare, ma credo che sia lecita qualche perplessità che si ma-nifesta del resto non appena cerchiamo di venire a capo con esattezza di queste ragioni e abbandoniamo il terreno vago di analogie che ci sembrano suggerire qualcosa, ma non sembrano in grado di spiegare alcunché. Diversa è la situazione quando ci interroghiamo sulle ragioni per le quali un cielo sereno ci mette allegria. A questa domanda una risposta

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c’è ed è la più banale: ci mette allegria, perché ci sembra allegro. E così accade quando sentiamo un adagio malinconico: se ci sentiamo pervadere da un indicibile struggimento sappiamo bene il perché. Il motivo del nostro stato d’animo l’abbiamo chiaro davanti a noi: reagiamo a ciò che esperiamo.

È appena il caso di dire che, nella prospettiva del proiezionismo, questo duplice nesso deve essere ricondotto ad un’unica relazione che a sua volta deve necessariamente appa-rirci insondabile: ciò che osservo non può di per sé giustificare la mia reazione emotiva perché di per sé è privo di qualsiasi determinazione espressiva. Certo, tanto Lipps quanto Wollheim ci invitano a rammentare che il nesso proiettivo avanza delle richieste ai mate-riali percettivi e sarebbe sbagliato sostenere che, a loro avviso, una proprietà espressiva qualunque può diffondersi su un qualunque contenuto sensibile. Il borbottio sordo di un tuono non si lascia interpretare in molti modi e sarebbe difficile proiettarvi un’espressività diversa da quella che gli attribuiamo. Riconoscere questo nesso non significa tuttavia so-stenere che si dia anche un nesso di motivazione: il materiale empirico sorregge la proie-zione emotiva, ma non può motivare ciò che io provo. Il tramonto può essere adatto a sorreggere la proiezione che ce lo fa trovare malinconico, ma di per sé non è affatto ma-linconico e non può quindi giustificare il fatto che qualcuno provi malinconia, guardan-dolo. Un nesso che ci consenta di giustificare quello che proviamo non c’è perché non può sussistere una relazione di motivazione tra ciò che proviamo e ciò che esperiamo; ne segue che ogni proiezione deve apparirci nella sua essenza ultima ingiustificata. Eppure, come abbiamo osservato, non è questa la relazione che ci sembra sussistere tra l’emozione che ci cattura e il carattere espressivo della scena cui assistiamo.

Di queste considerazioni io credo si debba tenere conto e ciò significa che una teoria delle proprietà espressive deve prendere atto di alcune tesi di carattere generale.

1. Deve riconoscere, in primo luogo, che le proprietà espressive le esperiamo nella loro inerenza agli oggetti: ci sembra di trovarle nel mondo e non di proiettarle su di esso;

2. In secondo luogo, deve riconoscere che le proprietà espressive dipendono stretta-mente dalla variazione del decorso fenomenico. Variazioni anche minime del contesto fenomenico alterano radicalmente la valenza espressiva di un determinato evento;

3. Deve, in terzo luogo, essere possibile distinguere tra l’esperienza del carattere espressivo di un determinato evento e la condivisione del tratto emotivo di cui è espres-sione o, come ci siamo espressi più volte, deve essere possibile rendere conto della di-stinzione tra avvertire e provare;

4. Deve, in quarto luogo, consentirci di cogliere il nesso di motivazione che lega la nostra reazione alle proprietà espressive.

Una teoria delle proprietà espressive deve, io credo, saper soddisfare queste quattro con-dizioni, senza per questo ricadere nelle difficoltà di cui abbiamo precedentemente di-scusso.

È in questa luce che diviene opportuno cercare di far luce sulle riflessioni che Peter Kivy ha dedicato al tema dell’espressività nella musica, in una serie di saggi che vanno da The Corded Shell (1980) alla Introduction to Philosophy of Music (2002) di cui dobbiamo ora brevemente parlare.

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2. Peter Kivy e la teoria del contorno

Il tema su cui Peter Kivy ci invita a riflettere ci riconduce sul terreno dell’analisi musicale. Kivy muove infatti da alcune possibili analisi del fatto musicale che, per varie ragioni, ritiene essere insoddisfacenti. Un tratto le accomuna: che ci si sforzi di leggere nelle sin-fonie di Beethoven le vicende della sua vita, che si cerchi nella Sinfonia n. 83 di Haydn una lode alla tolleranza e quindi una tesi filosofica di carattere generale o che ci si limiti a sostenere che per comprendere una sonata si debbono chiamare in causa le immagini e i pensieri che animano le rêverie dell’ascoltatore, in tutti questi casi ciò che passa in se-condo piano è la musica nella sua specificità. Cercare in una sinfonia un messaggio na-scosto di natura autobiografica, cercare di leggere nei suoni tesi filosofiche o credere che note e accordi siano parole di un linguaggio che ridesta in ciascuno di noi un diverso universo di immagini significa andare al di là del fatto musicale e dimenticarsi del fatto che la musica deve bastare a se stessa. Si tratta di un punto che è, per Kivy, della massima importanza e che è in qualche modo dimostrato dalla possibilità stessa della musica asso-luta: una sonata ha un senso non perché rappresenti qualcosa o perché ci dica qualcosa che potrebbe essere detto a parole, ma perché è fatta proprio di quei suoni, disposti proprio in quell’ordine. Se c’è un significato della musica, si deve cercare nella musica stessa e non altrove, ed è per questo che Kivy ci invita a riconoscere le ragioni profonde del for-malismo musicale:

La migliore definizione di formalismo, inizialmente, è negativa: cioè spiega ciò che la musica non è. Secondo il credo formalista, la musica assoluta non possiede con-tenuto semantico o rappresentazionale. Non si riferisce a nulla; non rappresenta og-getti, non racconta storie, non fornisce argomentazioni, non espone alcuna filosofia. Secondo il formalista, la musica è «pura» struttura sonora; e per questa ragione tale dottrina è a volte chiamata «purismo» musicale (P. Kivy, Filosofia della musica. Un’introduzione, Torino, Einaudi, 2004, p. 82).

La musica basta a se stessa: non rappresenta nulla e non ha un contenuto semantico. I suoni non sono parole e la musica non è un linguaggio: comprenderla, non significa capire che cosa vogliano dire i suoni e per che cosa stiano le loro sintassi. Su questo punto Kivy insiste molto, e tuttavia, tra le interpretazioni dei fatti musicali da cui Kivy ci invita a prendere le distanze, vi sono anche letture che sono improntate al più rigido formalismo. Dire che la musica basta a se stessa non significa che se ne possa parlare soltanto nei termini dotti di un’indagine che si muova esclusivamente all’interno delle regole del lin-guaggio musicale e non significa, per Kivy, espungere dal vocabolario dell’analisi e della riflessione sulla musica il vocabolario delle emozioni e delle passioni. Così, anche se il musicologo ha ragione ad impiegare un linguaggio tecnico e anche se sbaglia chi crede di poter sostituire al fatto musicale una narrazione di eventi biografici o di teorizzazioni fi-losofiche, resta comunque vero che l’ascolto musicale non può prescindere da una com-prensione del fatto musicale che possa esprimersi nel linguaggio consueto delle emozioni e delle passioni. Ora, una prima ragione di questo fatto ci riconduce, per Kivy, ad una constatazione importante. Dire che la musica non ha un contenuto semantico non significa infatti rescindere interamente ogni nesso con la dimensione dialogica e narrativa. La mu-sica non racconta nulla, ma ha egualmente la forma di una narrazione – anche se si tratta di una narrazione che non racconta una storia e che non ci parla di eventi che stiano al di là del succedersi stesso dei suoni. Che cosa questo significhi è presto detto: ogni narra-zione ha una struttura formale e consiste, al di là del suo contenuto effettivo, in una strut-tura sintattica, in un alternarsi di arsi e di tesi, di domande e di risposte che scandiscono

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il ritmo narrativo, determinandone il senso. In fondo, il narrare nella sua forma più sem-plice significa propriamente questo: dare una forma umana al tempo, trasformare la sua successione di istanti in un gioco di domande e di risposte, di inquietudini e di risoluzioni. Potremmo forse esprimerci così: la musica ha una sua trama, proprio come ogni narra-zione, anche se si tratta di una trama senza contenuto. Di una trama fatta soltanto di suoni e della struttura ordinata della loro successione:

Il punto a cui voglio arrivare è il seguente. Così come durante la lettura di un ro-manzo noi pensiamo a ciò che stiamo leggendo, formuliamo ipotesi su ciò che accadrà in seguito, abbiamo aspettative – alcune delle quali verranno frustrate, mentre altre invece si avvereranno, – e così via, allo stesso modo ci compor-tiamo anche nell’ascoltare seriamente, con concentrazione, la musica assoluta. Le opere musicali hanno «trame»: ovviamente non trame con personaggi in azione; ma piuttosto trame puramente musicali; eventi sonori che accadono, come aveva sostenuto Hanslick, con una «logica» o un «senso» musicale che producono una connessione. Quando seguiamo queste trame, facciamo quasi la stessa cosa di quando seguiamo la narrativa di finzione. Giochiamo con esse al gioco della do-manda e risposta. (ivi, p. ).

Sostenere che la musica è una narrazione senza contenuto vuol dire insieme riconoscere che fa parte del nostro ascolto dei fatti musicali il seguire il loro dipanarsi con trepidazione o con timore, con speranza o con gioia – proprio come accade quando leggiamo un rac-conto, anche se nel caso della musica abbiamo a che fare solo con un racconto di suoni. Ma se così stanno le cose, aderire alla dimensione del formalismo non potrà significare mettere da canto il linguaggio delle emozioni e degli affetti, ma riconoscere che la musica ha una dimensione espressiva proprio in quanto è musica – proprio in quanto è fatta di suoni disposti secondo un insieme complesso di regole. Ciò che i teorici del formalismo nella loro polemica contro la dimensione emozionale ed espressiva della musica dimo-stravano di non avere compreso è proprio questo: che le proprietà espressive non debbono essere intese come se stessero al di là dei suoni, come se fossero ciò che la musica rappre-senta e per cui i suoni stanno, ma come qualcosa che inerisce ai suoni stessi e che carat-terizza la forma del loro succedersi. Per dirla in breve: se con formalismo si intende un atteggiamento teorico che bandisce, tra le altre cose, ogni rimando al linguaggio delle emozioni musicali, allora – per Kivy – è necessario parlare di un formalismo arricchito che sappia rendere conto del fatto che l’espressività non è al di là della musica e dei suoni, ma è parte della sua descrizione. Scrive Kivy:

il credo del primo formalismo di Hanslick e Gurney era inoltre rinforzato nel suo rifiuto delle emozioni in musica da una scelta davvero limitata di opzioni relati-vamente alle modalità in cui la musica può essere descritta in termini emotivi. Le possibilità a disposizione erano che la musica fosse triste, per esempio, o in un senso disposizionale, per il fatto di avere la proprietà di rendere tristi gli ascoltatori; o che la musica fosse triste in maniera rappresentazionale, per il fatto di rappre-sentare la tristezza nel modo in cui un dipinto rappresenta i fiori o i frutti. A non essere contemplata era la possibilità che la musica sia triste in virtù del fatto di possedere la tristezza come una proprietà acustica, allo stesso modo in cui una palla da bigliardo possiede la rotondità e l’essere-rossa come una proprietà visiva. Ma, una volta concepita la possibilità delle proprietà emotive come proprietà acustiche della musica, diviene allora immediatamente evidente che le descrizioni emotive della musica sono compatibili con il «formalismo», inteso ampiamente come la dot-trina, delineata nel capitolo precedente, secondo cui la musica è una struttura di eventi sonori senza contenuto semantico o rappresentazionale. Infatti, se le proprietà emotive come la tristezza sono proprietà acustiche della musica, sono semplicemente

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proprietà della struttura musicale; pertanto dire che un passaggio musicale è triste o allegro non significa descriverlo in termini semantici o rappresentazionali più che descriverlo come turbolento o tranquillo. Un passaggio musicale tranquillo non rappresenta la tranquillità né significa «tranquillo». Esso è semplicemente tran-quillo. E lo stesso vale per un passaggio musicale malinconico. Non significa là «malinconia» né rappresenta la malinconia. È semplicemente melanconico, e que-sto è tutto (ivi, pp. 108-109).

Si tratta di un punto importante su cui è opportuno soffermarsi un poco. Conciliare un atteggiamento formalistico – e cioè un atteggiamento di analisi dei fatti musicali capace di non travalicarne la specificità– con la tesi secondo la quale l’ascolto musicale non può liberarsi del vocabolario delle passioni significa sostenere, per Kivy, che le emozioni deb-bono far parte della musica – che debbono essere parte della descrizione effettiva del ma-teriale sonoro e delle sue sintassi. Per dirla altrimenti: riconoscere le ragioni del formali-smo arricchito vuol dire insieme prendere commiato da quelle teorie che ci invitano a pensare che le proprietà espressive non appartengano al fatto musicale, ma abbiano la loro origine nella soggettività.

È sufficiente sottolineare questo punto perché si facciano avanti un’obiezione cui è ne-cessario rispondere e che potremmo formulare così: sostenere che nella musica si danno proprietà espressive non significa insieme necessariamente alludere ad un insieme di vis-suti psicologici che debbono considerarsi espressi dalla musica stessa? E se le cose stanno così, se il parlare di proprietà espressive significa insieme alludere ad una molteplicità di vissuti, non dovremmo riconoscere che l’espressività della musica fa tutt’uno con il suo rappresentare determinati vissuti? E questo non equivale a sostenere che il formalismo arricchito non è in linea di principio conciliabile con una concezione che metta in luce la centralità della dimensione affettiva ed espressiva dei fatti musicali?

Venire a capo di questa difficoltà significa, per Kivy, tracciare una distinzione impor-tante: la distinzione tra un impiego transitivo ed un impiego intransitivo del verbo “espri-mere”. Che cosa Kivy intende è presto detto. Del concetto di espressione è possibile un’ac-cezione transitiva: in questo caso, parlare di espressione significa anche necessariamente alludere a qualcosa che viene espresso e che sta all’espressione come ciò che è denotato sta al nome che lo significa. Gli esempi sono a portata di mano: il sorriso esprime la gioia, il grido sta per il terrore, il pugno agitato per la collera, e ciascuna di queste forme espres-sive può dirsi tale se e solo se sussiste lo stato psichico che grazie ad esse giunge ad espressione. Ma le cose non stanno sempre così; talvolta ci avvaliamo del verbo “espri-mere” in un’accezione intransitiva. In questo caso abbiamo a che fare con un contenuto fenomenico di cui non si può dire che è espressione di un qualche vissuto particolare, ma di cui è lecito invece affermare che è espressivo-di un certo carattere. Il ruggito del leone è espressione della sua ferocia; il rombo del tuono invece non è espressione di qualcosa, poiché non c’è alcun vissuto per cui il tuono stia. Eppure, ascoltandolo, avvertiamo chiara una minaccia che tuttavia non sta al tuono come il denotato sta al segno che lo denota, ma come un avverbio all’agire di cui è forma. Il tuono non esprime una minaccia, ma la mi-nacciosità è la forma del suo fragoroso espandersi come un’onda rovinosa nel cielo; il tuono non esprime nulla, ma è, ciò nonostante, espressivo-di-qualcosa: della collera o della minaccia che avvertiamo con tanta chiarezza nel tuono. L’esempio su cui Kivy ci invita a riflettere ha le forme malinconiche del muso di un San Bernardo:

But contrast this with another case. The Saint Bernard has a sad face. We do not mean to say by this that the Saint Bernard’s face expresses sadness. For certainly the Saint Bernard is not always sad. And for her face to always be appropriately de-scribed as expressing sadness, that is just what would have to be the case: the poor

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creature would have to be in a continual state of sadness. When, therefore, we de-scribe the Saint Bernard’s face as a sad face, we are not saying that it expresses sadness, but, rather, that it is expressive of sadness. Let this stand as the paradigm of being expressive of φ, where “φ” is the name of an emotion or mood (like “anger” or “melancholy”) (P. Kivy, Sound Sentiment. An Essay on the Musical Emotions, Temple University Press, Philadelphia, 1989, p. 12).

Ora, non è difficile rendersi conto che l’accezione intransitiva dipende nel suo senso dalla dimensione transitiva. Il muso del San Bernardo può sembrarci triste ed essere quindi espressivo-della-tristezza solo perché è possibile riconoscere nel suo aspetto le stesse forme che accompagnano la tristezza effettiva di una persona: il suo muso è espressivo di tristezza solo perché ricorda il volto di una persona che esprime tristezza. In un certo senso si tratta di un’ovvietà. Kivy ci invita a sostenere che le forme che sono espressive-di-qualcosa sono forme soltanto derivative: di per sé non stanno per un significato – il volto del San Bernardo non esprime, in senso proprio, nulla – ma possono avere una loro sen-satezza apparente perché è possibile coglierle in analogia con le forme originarie e tran-sitive dell’espressione. Il riconoscimento di quest’ovvietà si deve tuttavia legare ad una distinzione sottile. Si potrebbe infatti sostenere che le forme espressive-di- φ sono, in fondo, frutto di una falso riconoscimento che tuttavia non sfocia in una falsa credenza e, proprio per questo, assume una forma dichiaratamente intransitiva: nel volto del San Ber-nardo riconosciamo l’espressione della tristezza, ma poiché non crediamo che quel povero cane sia costantemente affranto ed anzi ne cogliamo in infiniti casi l’allegria, impariamo a leggere intransitivamente l’espressione del suo muso e a dare alla tristezza che vediamo un significato nuovo: non la cogliamo più come un vissuto che deve albergare dietro ai fenomeni, ma come una determinazione che caratterizza un certo peculiare tipo di decorsi fenomenici che sono tristi non già perché soffrano, ma solo perché manifestano una certa struttura. Ma non è questa la tesi che Kivy ci invita a sostenere, almeno nelle pagine di The Corded Shell. A suo avviso, un falso riconoscimento non ha affatto luogo: ha luogo invece un riconoscere che ha per oggetto solo ed unicamente la forma fenomenica di de-corso. Non riconosciamo falsamente una tristezza cui non crediamo, ma riconosciamo in modo veridico un’icona della tristezza. E la riconosciamo sulla base di un comportamento che ci è noto e che potrebbe essere diverso, anche se di fatto nel nostro mondo è così. Scrive Kivy:

Let us determine, then, to begin with, just what we are recognizing when we recog-nize sadness in the Saint Bernard’s face. We are not, it must be remembered, recog-nizing that the Saint Bernard is sad; for the Saint Bernard’s face being expressive of sadness is invariant with the emotional state of the Saint Bernard: it does not express the Saint Bernard’s sadness. Nevertheless, it does have something to do with the way we normally express sadness. That we normally frown, let our mouths droop, and assume a "hang dog" expression when we are sad of course makes the face of the Saint Bernard seem peculiarly appropriate to the expression of sadness. And were there a place, or a planet where creatures with faces like ours “frowned” and let their mouths droop to express their joy, their Saint Bernards’ faces (if they had Saint Ber-nards with faces) would be described by them as expressive of joy. Perhaps, too, their willows wouldn’t weep even though they drooped. Thus, what we see as, and say is, expressive of φ is parasitic on what we see as, and say is, expressing φ; and to see X as expressive of φ, or to say X is expressive of φ, is to see X as appropriate to expressing φ, or to say that it is appropriate to such expression. (ivi, p. 50).

Una volta che si sia chiarita la natura delle forme intransitive di espressione, la teoria del profilo [contour theory] che Kivy ci propone risulta necessariamente come un correlato

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della tesi del formalismo arricchito. Per Kivy la musica esprime passioni e stati d’animo. Una concezione formalistica e, quindi, rispettosa della specificità della musica e del suo carattere eminentemente non semantico e non rappresentativo non può tuttavia sostenere che i suoni stiano per emozioni o che rappresentino una trama che ha un suo contenuto emotivo. Ne segue che la musica può essere espressiva solo nell’accezione intransitiva del termine. L’accezione intransitiva è tuttavia dipendente nella sua possibilità dall’acce-zione transitiva poiché la prima poggia sul riconoscimento di un’analogia tra le forme che esprimono determinati vissuti e quelle che sono espressive-di-quei-vissuti. Di qui la con-clusione di tutte queste premesse: se la musica deve essere espressiva-di, allora deve es-sere possibile ritrovare nelle strutture di decorso dei suoni un’analogia con le forme che sono, in senso proprio e transitivo, espressione di emozioni e di stato d’animo.

È appunto questo ciò che la teoria del contorno sostiene. All’interno di un discorso di cui è innanzitutto opportuno sottolineare il respiro storico e culturale, Kivy ci invita a seguire due differenti vie per raggiungere la meta che si prefigge. La prima ci riconduce mediatamente alla connessione tra canto e musica e al nesso che necessariamente sussiste tra la struttura musicale e la dimensione ritmica e sonora delle voci umane delle passioni e delle emozioni. Un brano può avere un carattere lamentoso o un tono sussurrato, può innalzarsi come un grido o fermarsi in una pausa d’attesa – questo lo sappiamo, ed è suf-ficiente rifletterci per sostenere che se sappiamo leggere immediatamente il carattere la-mentoso di un movimento musicale è perché abbiamo imparato a leggere il dolore espresso dalle lamentazioni umane.

Alla via che sollecita il nesso che lega la musica alla voce umana Kivy affianca quella che mette in luce la relazione analogica che lega l’andamento sonoro alla struttura formale del comportamento. Ci siamo già soffermati, almeno in parte, su questo punto quando abbiamo osservato che la musica può avere la forma vuota di una narrazione: possiamo, in altri termini, riconoscere nella struttura dei fatti musicali le forme che caratterizzano la struttura dialogica della domanda e della risposta, dell’intreccio e della sua soluzione. Il punto che Kivy vuol fare, tuttavia, è più generale:

Tuttavia oltre al fenomeno della musica che « suona come» le espressioni vocali delle persone malinconiche o allegre, molti ascoltatori percepiscono anche un’ana-logia tra le proprietà udite della musica e il comportamento umano visibile. La mu-sica è comunemente descritta in termini molto simili a quelli che usiamo per descri-vere il movimento del corpo umano sotto l’influsso di emozioni come la melanconia e l’allegria. Pertanto una frase musicale può saltare gioiosamente o abbassarsi o va-cillare, come una persona in movimento. Per dirla in modo più generale, la musica è comunemente descritta in termini di movimento; e così le stesse descrizioni che uti-lizziamo per caratterizzarla sono frequentemente quelle che utilizziamo per descri-vere i movimenti visibili del corpo umano quando esprime le emozioni comuni. In The Corded Shell, chiamai questa teoria dell’espressività musicale la «teoria del pro-filo» (contour theory) (P. Kivy, Filosofia della musica, op. cit., p. ).

Si tratta di una tesi relativamente semplice che Kivy sa rendere tuttavia persuasiva, ac-compagnandola con una serie ricca di esempi e mostrando la sua genesi nella storia della riflessione sulla musica, dalla cultura cartesiana a Schopenhauer. L’eroe in questo per-corso è Mattheson, l’autore di Der vollkommene Kappelmeister (1739) – un’opera in cui l’autore riconduce espressamente la dimensione espressiva della musica ad un fatto co-gnitivo: alla nostra capacità di riconoscere nella struttura musicale il profilo dei compor-tamenti umani, la loro astratta forma di decorso.

Molte altre cose andrebbero dette per rendere conto nel dettaglio della ricchezza delle analisi di Kivy, ma qui per noi è sufficiente delineare il contorno esteriore della sua teoria,

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per chiederci se le sue analisi sappiano far fronte alle condizioni su cui c’eravamo poco fa soffermati.

Credo che a questa domanda si debba dare una risposta positiva. Per Kivy, in primo luogo, le proprietà espressive appartengono a ciò che esperiamo ed ineriscono alla strut-tura del fatto musicale. Su questo punto Kivy è ben chiaro: l’unica possibilità per una teoria formalistica della musica di riconoscere un ruolo alla dimensione affettiva ed emo-tiva passa per il riconoscimento che tristezza e gioia, malinconia e inquietudine sono pro-prietà della struttura musicale e non vissuti che la musica saprebbe in qualche modo rap-presentare o suscitare. Sottolineare il carattere intransitivo dell’espressività musicale si-gnifica dunque proprio questo: mettere fin da principio da canto i presupposti su cui pog-giano le teorie causalistiche e proiezionistiche delle proprietà espressive. Quanto poi, in secondo luogo, alla tesi secondo la quale variazioni anche minime del contesto fenome-nico alterano radicalmente la valenza espressiva di un determinato evento, questa è una tesi che sembra coerente con la teoria del profilo: un passaggio musicale esprime gioia perché è possibile riconoscere in esso gli accenti e i comportamenti umani in virtù dei quali la gioia si manifesta; alterare la struttura musicale vorrà dire allora cancellare quel nesso e alterare la valenza espressiva di quei suoni. Quanto alla terza condizione che ave-vamo sottolineato, è evidente che la posizione di Kivy non ci costringe affatto a sostenere che per cogliere la malinconia di un adagio è necessario provare effettivamente quell’emozione e sentirsi malinconici. Tutt’altro: all’origine della comprensione del ca-rattere espressivo della musica vi, per Kivy, un fatto eminentemente cognitivo che non chiama necessariamente in causa la dimensione della partecipazione emotiva. Un adagio non è malinconico perché vi proietto la mia malinconia, né perché è capace di suscitare in me un simile stato d’animo: è malinconico perché ha una certa forma che riconosco bene e che ora richiama la struttura delle voci e degli accenti umani della malinconia, ora il comportamento umano di chi è di quell’umore. Infine, nella sua esplicita polemica alle posizioni causalistiche, la teoria di Kivy sembra evidentemente aprire lo spazio per una considerazione motivazionale: chi ascolta una sonata, comprende le proprietà espressive che la caratterizzano e il suo accordare il proprio umore a ciò che trova nei suoni che ascolta può essere compreso ed inteso alla luce della dinamica dei nessi motivazionali.

Si può forse aggiungere un punto: la teoria del profilo che Kivy ci invita a condividere in The Corded Shell sembra inoltre capace di spiegare come possa accadere che la capacità della musica di esprimere emozioni e stati d’animo si leghi alla dimensione culturale e storica dell’ascolto. La musica non è una raccolta di stimoli che agiscano causalmente, ma è un succedersi di suoni che hanno una loro complessità che si dipana con maggiore o minore perspicuità all’orecchio di chi l’ascolta a seconda delle abitudini percettive che gli sono proprie. E quanto diverse sono le abitudini di ascolto, tanto differente sarà la capacità di scorgere quel gioco di forme all’interno delle quali soltanto può prendere corpo l’ana-logia che lega una successione di suoni alle forme del comportamento umano e agli ac-centi che accompagnano i suoi gesti linguistici.

Infine, sembra evidente che anche se Kivy ci parla esclusivamente di musica, la sua teoria sembra essere facilmente generalizzabile in modo da rendere conto anche delle pro-prietà espressive di un paesaggio, di un disegno, di una disposizione di colori. Anche un paesaggio ha un suo profilo e lo stesso può dirsi per il gioco dei colori che ci sembra felice in un dipinto o in un prato. Anche in questi casi avremmo a che fare con un’espressività intransitiva e anche in questi casi dovremmo poter ricondurre il gioco delle forme al gioco dei comportamenti espressivi umani – al fondamento stabile di una espressività transitiva. Siamo arrivati allora ad una teoria pienamente soddisfacente?

Io non lo credo.

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LEZIONE NONA

1. La teoria del profilo: considerazioni critiche

Quando nel 2002 Peter Kivy pubblica la sua An Introduction to Philosophy of Music, la teoria del profilo gli sembra per molti versi criticabile ed alcune delle ragioni che egli illustra e cui solo in parte ritiene di poter rispondere coincidono almeno parzialmente con le perplessità che io credo che le pagine di Kivy suscitino.

La prima è enunciata a chiare lettere da Kivy e concerne il carattere espressivo che di fatto attribuiamo a proprietà elementari della musica: al timbro, agli accordi, ad un singolo suono. S tratta evidentemente di un problema per la teoria del profilo perché ciò che la caratterizza è, kantianamente, la centralità della struttura. Proprio come, per Kant, il bello è possibile solo là dove si dà un disegno ed una struttura di ordinamento che suggerisca l’idea di una conformità a scopi senza scopo, così per Kivy l’espressività chiama in causa un’analogia strutturale con il comportamento umano e presuppone quindi che ci sia qual-cosa – un disegno comune – che ci consenta di coglierla. Kivy scrive così, eppure è evi-dente che una settima diminuita ha una sua peculiare nota espressiva e che – se dalla musica muoviamo alla sfera dei colori – non è certo possibile attribuire una qualsiasi nota espressiva ad un colore qualsiasi. Quando Ulisse giunge all’isola dei Cimmeri e scende nell’Erebo, nel regno dei travolti da morte, vede infiniti guerrieri con i corpi straziati dalle lance e vecchi che avevano molto sofferto e fanciulle tenere “dal cuore nuovo al dolore” – vede tutto questo e sente le grida raccapriccianti dei corpi esangui che gli si accalcano

intorno e non può proprio per questo restare indifferenti ad uno spettacolo così spaventoso: “verde orrore mi prese” – è così che dice Omero. O più precisamente: Omero dice clwrÕn d◊oj

– un orrore verde-giallastro. L’orrore, per Omero, ha proprio il colore di questo rettangolo. Si può forse restare perplessi leg-gendo queste parole, ma è difficile negare che qualcosa in que-sta descrizione ci sembra davvero persuasivo. Se mai avesse

un colore, l’orrore dovrebbe proprio apparirci così: verde cloro. Non capiremmo invece se qualcuno ci dicesse che l’orrore è color verde mare o che è azzurro carta da zuc-chero. Non lo capiremmo perché questi colori ci sembrano inconciliabili con quelle valorizzazioni espressive. Ma se così stanno le cose, se non è possibile negare che anche co-lori e suoni di per sé presi hanno una loro valenza espressiva come può Kivy chiudere gli occhi di fronte a queste ovvietà e proporre una teoria che rende conto dell’espressività riconducendola al momento del disegno e della struttura?

Forse, per rispondere a questa domanda, sembra lecito avanzare una supposizione che sembra essere suffragata dalla grande mole degli esempi che Kivy ci propone – esempi che appartengono tutti alla grande stagione della musica europea dal seicento alla fine dell’Ottocento. Certo, dietro questa scelta vi è con tutta probabilità una questione di sen-sibilità estetica e di competenza specifica – una competenza che nel caso di Kivy è dav-vero rilevante. Non può tuttavia non sorgere il dubbio che il disinteresse per la musica novecentesca consenta a Kivy di distogliere lo sguardo da tutto ciò che appartiene ad un rinnovato sforzo di scoperta per la natura del suono, per la sua singolarità e per la mate-rialità dei suoi aspetti timbrici, al di là della specificità delle strutture compositive all’in-terno delle quali è chiamato a fungere. Proprio come Kant, anche Kivy sembra pagare sul terreno dell’estetica un prezzo alla determinatezza dei suoi gusti musicali.

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Forse le cose stanno anche così, e tuttavia non è difficile rendersi conto che Kivy è costretto a sottovalutare la dimensione espressiva dei materiali dalla prospettiva cogniti-vistica che attraversa per intero la sua riflessione teorica. L’abbiamo dianzi osservato: per Kivy, la possibilità di un’accezione intransitiva dell’espressività fa tutt’uno con la possi-bilità di riconoscere un’analogia tra la forma di un determinato decorso fenomenico e la manifestazione di una qualche emozione sul terreno del comportamento umano. Ma se le cose stanno così, allora è fin da principio evidente che l’espressività deve necessariamente fare tutt’uno con la dimensione strutturale del disegno, perché è solo l’identità di struttura che può accomunare un comportamento ad una successione di suoni o di colori. Posso riconoscere nell’andamento del secondo movimento del primo concerto brandeburghese un’analogia di struttura con il comportamento che è caratteristico della malinconia, ma non posso trovare un elemento che accomuni il verde giallastro al terrore. Un simile ele-mento non c’è, e questo rende difficilmente comprensibile non soltanto come si possa venire a capo di una simile forma di espressività a partire dalla teoria del profilo, ma anche che cosa ci consenta di parlare di espressività intransitiva per il materiale sonoro o cro-matico. L’espressività intransitiva è per sua natura derivata poiché trae il suo senso dall’analogia che la lega ad un decorso fenomenico che stia per un vissuto emotivo o affettivo. Ma ciò è quanto dire che di un’espressività intransitiva si può parlare solo per ciò che può stare in una relazione di analogia con un’espressione in senso proprio e tran-sitivo. Ne segue che l’inapplicabilità della teoria del profilo si traduce immediatamente nell’impossibilità di parlare di una espressività intransitiva: il carattere espressivo dei co-lori e dei suoni non è dunque, per Kivy, solo difficile da spiegare nei termini della teoria del profilo – è anche incomprensibile alla luce della teoria dell’intransitività dell’espres-sione.

Riconoscere questa difficoltà vuol dire del resto richiamare l’attenzione sul nesso che Kivy stringe tra espressività intransitiva e riconoscimento. Questo nesso è per molti versi problematico, ma lo è innanzitutto perché ci costringe a vincolare l’afferramento di una proprietà espressiva ad un riconoscimento che non sembra affatto aver luogo, almeno in una prospettiva fenomenologica. Come abbiamo appena osservato, in certi casi un rico-noscimento sembra essere di fatto impossibile: che cosa posso riconoscere in una settima diminuita? O nel verde giallastro? Ma anche là, dove un riconoscimento è in linea di prin-cipio possibile, non sembra essere affatto vero che esso abbia propriamente luogo perché non sembra vero che si sia effettivamente consapevoli di ciò che pure dovremmo aver riconosciuto. Normalmente le cose non stanno così: se nelle sconnessure dell’intonaco di un vecchio muro vedo un volto sono anche consapevole di avere riconosciuto in quel gioco di linee un volto. Così dovrebbe accadere anche sul terreno musicale: se avverto la malinconia di una successione di accordi dovrei avere riconosciuto anche la forma di quel comportamento umano in virtù del quale mi appare malinconico ciò che sento come ma-linconico – ma le cose stanno davvero così? Nel secondo movimento del primo concerto brandeburghese riconosco davvero la struttura che caratterizza i gesti e il comportamento di una persona profondamente malinconica? Non credo che nessuno possa dire così: nella norma ascoltiamo quell’adagio e lo troviamo malinconico senza che ci sia alcun bisogno di scorgere l’analogia in virtù della quale soltanto dovremmo sostenere che ha proprio quel carattere emotivo. In altri termini: se la teoria del profilo fosse vera, dovrebbe essere banalmente vera, ma non lo è – e questa è una buona ragione per supporre che sia falsa.

Certo, se qualcuno mi dicesse, per farmi avvertire con maggiore chiarezza la malinconia di quell’adagio, che è come se quelle note descrivessero il tentativo sempre di nuovo fru-strato di liberarsi da una forza che ci trascina verso il basso, forse capiremmo meglio quale sia la malinconia che pervade quegli accordi e non troveremmo fuori luogo una simile

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descrizione. Possiamo ascoltare quell’adagio alla luce di quest’analogia, ma nel proporla non stiamo affatto indicando un aspetto che dovremmo poter percepire nei suoni – l’iden-tità di struttura con una certa forma del comportamento umano – ma suggeriamo invece un possibile contesto immaginativo che potrebbe aiutarci a determinare l’orientamento di senso che avvertiamo in quei suoni. Così, chi ascolta Il mare di Debussy può lasciarsi orientare dal titolo generale della composizione e dai titoli delle tre parti che lo compon-gono e può ascoltare meglio ciò che sente, ora pensando all’alba e al mezzogiorno, ora al gioco delle onde, ora al vento e al mare e al loro strano dialogo, ma sarebbe falso sostenere che per sentire l’espressività di quei brani dobbiamo saper scorgere l’analogia che li lega al mare e che lega il mare a chissà quale vicenda umana. Un titolo suggerisce una possibile interpretazione: ci aiuta ad ascoltare, proprio come un titolo di una quadro astratto non dice che cosa il quadro significa, ma continua a parole il gioco che l’immagine suggerisce.

Un quadro di Paul Klee, dipinto nel 1929, si intitola Fuoco nella sera e noi, guardandolo, potremmo di fatto esclamare: “ecco il fuoco – il suo centro è il ret-tangolo centrale arancione, ma lo vedi anche nelle sue propaggini meno vive e forse anche nelle mac-chie nere di fuliggine, ed ecco la sera – una sera d’estate con i suoi colori sereni, nonostante il fumo ed il fuoco”. Potremmo reagire così a quel titolo, ma non per questo crederemo di vedere davvero in quei rettangoli un fuoco la sera e ci sbaglieremmo se pen-sassimo anche solo per un istante che quel titolo fosse una descrizione effettiva della scena. Quel ti-tolo non ci dice che cosa dobbiamo vedere; non ci

invita a riconoscere qualcosa là dove non è possibile riconoscere nulla, ma ci suggerisce un gioco che continua le fantasie del quadro: ci dice come possiamo immaginare quel che vediamo, lungo quali direttrici di senso possiamo far risuonare i colori di quello che è, e deve restare, un quadro astratto, privo di un contenuto di mondo determinato. Lo stesso accade quando cerchiamo di scorgere un’analogia tra un brano musicale e le forme del nostro comportamento: non indichiamo il fondamento in virtù del quale soltanto una suc-cessione di suoni può acquisire un valore espressivo, ma suggeriamo un contesto imma-ginativo che ci consente di orientare in una direzione determinata le emozioni e le deter-minazioni espressive che comunque avvertiamo. Quando diciamo “ascoltalo così: è come se quelle note mettessero in scena il tentativo sempre di nuovo frustrato di liberarsi da una forza che ci trascina verso il basso” non ripetiamo qualcosa che non può essere sfuggito a chi ha colto la malinconia di quel movimento, ma suggeriamo una narrazione minimale che ci aiuta a immaginare il senso di quegli accordi, ma che non può sostituirli e non deve nemmeno legarsi ad essa in un nodo troppo difficile da slegare. Insomma: la teoria del profilo che Kivy ci propone sembra da un lato essere priva di un fondamento fenomeno-logico e, dall’altro, sembra confondere la dinamica delle suggestioni immaginative con il problema di un fondamento delle proprietà espressive.

Cercare di ricondurre l’afferramento delle proprietà espressive ad un riconoscimento è tuttavia discutibile per un’altra, differente ragione che ci riconduce ad una piega intellet-tualistica del discorso di Kivy. All’origine di questo atteggiamento di carattere generale vi è, io credo, un’esigenza che non può essere semplicemente messa da canto: Kivy in-tende prendere le distanze da ogni concezione causalistica della musica e ritiene che sia della massima importanza sottolineare quanto l’ascolto musicale sia guidato dalla nostra capacità di cogliere strutture e forme e non sia il risultato di un nesso causale che vanifica

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ogni dimensione cognitiva. Ciò non toglie, tuttavia, che la soluzione che Kivy ci propone resti insoddisfacente. Per cogliere il carattere espressivo di una successione di accordi devo, per Kivy, poter scorgere la somiglianza che lega quella forma sonora ad una forma determinata del comportamento umano: devo afferrare ciò che Kivy chiama l’icona emo-tiva che la musica in sé racchiude. L’icona emotiva – tutto questo è molto ben detto, ma proprio per questo ci costringe a comprendere che qui ha luogo un fraintendimento de-scrittivo che deve essere messo in luce. Quando ascolto una musica e ne avverto la ma-linconia è questo quello che sento: il suo essere malinconica, e non la sua somiglianza con un lamento. La somiglianza con un lamento è un fatto tra gli altri: implica un afferramento puramente cognitivo e ci restituisce un dato affettivamente neutro, perché la somiglianza di per sé non è né malinconica, né felice. Ci si può compiacere di avere scoperto una somiglianza o si può dolersene, ma la somiglianza di per sé è un fatto che non ha valenza espressiva.

Certo, se ci si pone in questa prospettiva, sembra possibile venire a capo con relativa facilità di uno dei problemi cui per le teorie proiezionistiche è così arduo far fronte: il problema della distinzione tra l’avvertire il carattere espressivo di una successione di ac-cordi e il provare l’emozione che a quella musica corrisponde. Sembra possibile, ma è dubbio che le cose stiano davvero così. Per Kivy, avvertire la malinconia di un adagio significa riconoscere una certa struttura – e non vi è dubbio che questo non comporti af-fatto il dover provare malinconia. Ma avvertire la malinconia di qualcosa è ben diverso dal riconoscere un’identità di struttura: la prima è un’esperienza emotivamente carica, la seconda non lo è affatto. Quando sento una musica malinconica, posso mantenere il mio umore sereno – questo è certo, ma ciò non toglie che io avverta che vi è in ciò che sento uno stato doloroso. Non si tratta, insomma, di un’esperienza puramente cognitiva, ma di un’esperienza emotivamente determinata. Kivy invece ci invita a tradurla in un linguaggio troppo asettico e ritiene che si possa ricondurre la distinzione tra avvertire e provare alla distinzione tra riconoscere e provare – dove il riconoscere è un atto cognitivo che ha per oggetto una somiglianza. Ma se le cose stanno così, se parlare di espressività intransitiva significa sostenere che la nostra esperienza di proprietà espressive coincide con il ricono-scimento veridico di un’identità di struttura, allora non è affatto chiaro che cosa voglia dire sostenere che una musica è malinconica o allegra e che queste proprietà sono pro-prietà del decorso sonoro. In quella successione di suoni la malinconia non c’è: c’è solo una somiglianza rilevante con un momento della nostra prassi umana che accompagna un determinato stato effettivo. Ma chiamare “malinconia” questa struttura non sembra legit-timo, se poi si sostiene che l’espressività intransitiva dipende dall’accezione transitiva dell’esprimere. Delle due l’una: o si sostiene che un comportamento è malinconico e si rinuncia alla tesi secondo la quale l’espressività intransitiva dipende nel suo senso dall’espressività transitiva o si riconosce che il parlare di malinconia per una successione sonora è solo avvalersi di un’espressione equivoca, poiché in questo caso il parlare di proprietà espressive vorrebbe dire in realtà soltanto parlare di identità o di somiglianze di ordine strutturale.

Queste considerazioni ci inviano a dubitare che Kivy abbia davvero soddisfatto la prima e la terza delle condizioni cui avevamo dianzi fatto cenno e a ben guardare, è dubbio che anche la seconda condizione sia stata effettivamente soddisfatta. Certo, se deve sussistere una somiglianza tra la struttura di una melodia e un qualche aspetto del comportamento umano perché si possa parlare di espressività, sia pure intransitiva, è indubbio che piccole variazioni sul piano strettamente sonoro potranno determinare variazioni del carattere espressivo che è loro proprio. E tuttavia il criterio che dovrebbe decidere se questo adagio resta malinconico quando ne altero la forma sonora è il permanere di una qualche analogia

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con la struttura del nostro comportamento della malinconia, e non credo che sia difficile riconoscere che non è affatto detto che i limiti di alterazione entro cui una somiglianza permane coincidano con i limiti di alterazione del materiale sonoro entro cui avvertiamo ancora la stessa valenza espressiva.

Infine, anche la dimensione della motivazione è in qualche misura problematica. Se ciò che cogliamo in una successione di accordi è solo una determinata struttura e la sua somi-glianza con un momento del nostro comportamento espressivo, non si vede perché do-vremmo sentirci motivati ad assumere un atteggiamento emotivo qualsiasi. Ancora una volta: Kivy assume una posizione intellettualistica che mi sembra incapace in linea di principio di spiegare come possa accadere che talvolta non ci si limiti ad avvertire ciò che la musica esprime, ma ci si senta costretti a condividerne le emozioni e le passioni.

Forse chi ha letto la Filosofia della musica riterrà che queste considerazioni non rendano affatto merito al tentativo di Kivy, e non vi è dubbio che in quelle pagine si faccia avanti una diversa lettura della relazione che lega le proprietà espressive del fatto musicale alla percezione del profilo che le lega al comportamento umano. In questa sua ultima opera Kivy insiste, in primo luogo, sull’immediatezza con la quale avvertiamo le caratteristiche espressive dei fatti musicali e, in secondo luogo, ci invita a sostenere apertamente che l’avvertimento della concordanza avviene ad un livello subliminale e ci guida verso una lettura immediata dei fatti musicali alla luce di una famiglia di somiglianze peculiari – quella che ha a che fare con le emozioni che sono importanti per noi. Insomma, Kivy ci invita a leggere la teoria del profilo in una chiave nuova che da un lato riconosce aperta-mente che non vi è traccia sul terreno fenomenologico del riconoscimento su cui si fonda l’afferramento delle proprietà espressive e che, dall’altro, ci invita a sostenere che l’ana-logia sorregge e guida una percezione orientata in senso espressivo. Che poi a farsi avanti sia solo la somiglianza con il comportamento espressivo e non le altre infinite possibili somiglianze che possono occorrere tra una successione di suoni e qualsiasi altro evento nel mondo, lo si deve – per Kivy – alla centralità evolutiva che rivestono le nostre espe-rienze emotive. Leggiamo, anche a costo di fare una citazione un po’ lunga quello che Kivy ha da dirci in proposito:

La teoria del profilo dell'espressività musicale si imbatte immediatamente in alcune difficoltà. Tanto per cominciare, non deve diventare una teoria rappresentazionale; non deve cioè essere costruita come la teoria secondo cui la musica «rappresenta» la voce e la gestualità dell'espressione umana, allo stesso modo in cui un dipinto su tela rappresenta i tratti visibili del mondo. Infatti la rappresentazione non cattura il modo con cui esperiamo le qualità emotive della musica. Ciò significa che non udiamo i suoni come rappresentazioni del comportamento malinconico e allegro, nel modo in cui vediamo un dipinto su tela come una rappresentazione di uomini e donne malin-conici e allegri, e poi, in virtù di tali rappresentazioni, udiamo la musica come ma-linconica e allegra. Udiamo immediatamente la malinconia e l'allegria della musica, nella musica, e possiamo essere del tutto ignari delle caratteristiche della musica in virtù delle quali essa è malinconica o allegra. E persino se siamo consapevoli delle caratteristiche che rendono espressiva la musica, e frequentemente lo siamo, non le percepiamo come rappresentazione di alcunché. Inoltre, ci deve essere una qualche spiegazione, in difesa della teoria del profilo, del perché a giocare un ruolo così im-portante nell'esperienza dell'ascolto sia la somiglianza strutturale tra la musica e il comportamento espressivo. Dopotutto, il profilo della musica è probabilmente si-mile, a livello strutturale, ai suoni inanimati e agli oggetti naturali, così come è simile al comportamento espressivo umano. Che cosa ha di tanto speciale il comportamento espressivo da essere preferito a queste altre cose? Infine, la teoria del profilo è dav-

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vero migliore rispetto a una teoria rappresentazionale per cogliere la nostra espe-rienza delle qualità espressive della musica ? Può far comprendere il modo in cui esperiamo le emozioni in musica, vale a dire come qualità percettive di cui si ha esperienza diretta? Affinché l'analogia tra il profilo musicale e il profilo del compor-tamento espressivo umano funzioni in modo non-rappresentazionale, essa deve fun-zionare a livello subliminale: vale a dire, dobbiamo non essere completamente con-sapevoli di ciò che sta accadendo; dobbiamo non essere consapevoli dell'analogia. Assumiamo per il momento che questo è quanto realmente accade. Ma perché do-vremmo udire emozioni nella musica a causa di questa percezione subliminale, e non qualcos'altro? Credo che una possibile risposta a questa domanda possa essere tro-vata in un ben noto fenomeno percettivo. Quando ci imbattiamo in figure ambigue tendiamo a vederle come forme animate anziché come forme inanimate: come esseri viventi piuttosto che non-viventi. Tendiamo a vedere forme viventi nelle nuvole, nelle macchie sui muri, così come nelle cose che si celano ombrose nei boschi. Ve-diamo il bastone come un serpente. Perché ? Forse perché l'evoluzione ci struttura così per selezione naturale. L'Evoluzione dice: «Meglio sicuri che sofferenti. Meglio errare che essere mangiati». Gli esseri viventi possono essere nocivi. E meglio ve-dere il bastone, immediatamente, erroneamente, come un serpente, che essere morsi dal serpente mentre si riflette sul problema, se alla fine quella cosa risulta essere proprio un serpente (ivi, pp. 50-51).

Così appunto Kivy. E ciò è quanto dire: chi vede un bastone come un serpente commette un errore: riconosce qualcosa per quello che non è. Così dovrebbe accadere anche sul terreno di quelle che abbiamo chiamato proprietà espressive senza espressione ed in par-ticolar modo sul terreno musicale. Si deve tuttavia riflettere bene sul senso di queste con-siderazioni perché se ha luogo un falso riconoscimento, allora non ha alcun senso chia-mare in causa la nozione di espressività intransitiva: si dovrebbe pensare piuttosto ad un’erronea attribuzione di una espressività in senso proprio. Chi confonde un bastone con un serpente, crede di avere davanti a sé un serpente e si comporta di conseguenza e lo stesso dovrebbe accadere a chi confonde (dovremmo proprio scrivere così) un brano mu-sicale con un lamento: dovrebbe farsi presso l’oboe e consolarlo, cosa che però non ac-cade. Le cose tuttavia non soltanto non stanno così, ma non potrebbero nemmeno stare così: se si trattasse di un falso riconoscimento, dovremmo presto accorgercene e questo dovrebbe portare con sé il venir meno della dimensione espressiva. Credo che un ramo-scello sia un minaccioso serpente e lo evito, ma appena mi rendo conto di essermi sba-gliato che cosa potrebbe mai trattenermi dal prendere atto del fatto che ciò che vedo è soltanto un ramo, per giunta innocuo? Questo dovrebbe accadere anche con i suoni: i falsi riconoscimenti sono emendabili e i fraintendimenti cui mettono capo dovrebbero dissol-versi come neve al sole. Kivy ritiene di avere una risposta per questo problema – una risposta che si avventura ancor di più nella dimensione dei giudizi inconsapevoli:

Incombe però un'altra questione. Nel caso di fenomeni visivi ambigui, siamo co-scienti di quello che stiamo vedendo (o che pensiamo di vedere). Prendo il bastone per un serpente e corro via. Questo non sembra però essere quanto succede nella musica. Siamo consapevoli della proprietà espressiva, dell'emozione; non siamo però coscienti di prendere il profilo musicale per un enunciato espressivo o un com-portamento umano. Perché accade questo? E possibile avanzare una qualche plausi-bile ragione? Affinché la nostra teoria funzioni non possiamo semplicemente pre-supporre che le cose stanno così. S consideri allora quanto segue. Il senso della vista è senso primario per la «sopravvivenza» degli esseri umani (e di altri primati su-periori). Il senso dell'udito non lo è, sebbene possa benissimo esserlo stato per i nostri avi nel corso della catena evolutiva. Pertanto non abbiamo alcun bisogno

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di udire consapevolmente le cose come minacciose allo stesso modo in cui con-sapevolmente vediamo le cose come minacciose. Perciò non è del tutto insensato supporre che quella che potrebbe davvero essere stata una propensione a udire consapevolmente suoni ambigui come animati e come (potenzialmente) minac-ciosi in noi si sia atrofizzata, come l'appendice, e rimanendo soltanto una reliquia vestigiale di un passato che dipendeva maggiormente dal suono. Per dirla diver-samente, non è completamente insensato, per ragioni evolutive, pensare che, men-tre il vedere forme ambigue come animate rimane un fenomeno cosciente della percezione umana, l'udire suoni in questo modo sia un fenomeno ricaduto nella semi-incoscienza come una sorta di «rumore di fondo» (ivi, pp. 52-53).

Dovremmo allora sostenere questo: che ha luogo un riconoscimento inconsapevole che produce un’acquisizione solo in parte inconsapevole. Sentiamo i suoni come minacciosi, ma allo stesso tempo non li sentiamo consapevolmente come una minaccia – ed è per questo che non fuggiamo anche se ne avvertiamo il carattere emotivo. Il riconoscimento sarebbe abbastanza inconsapevole da sfuggire al gioco delle verifiche e abbastanza con-sapevole da produrre un effetto avvertibile.

Può darsi che si possa tentare di seguire questa via. Ma a me sembra davvero un sentiero poco promettente. Così com’è, tuttavia, non sembra facile criticarlo soprattutto perché non è facile comprendere bene che cosa davvero significhi.

Vi è, per il vero, un accenno di Kivy che sembra muoversi in una direzione differente. Nel suo primo libro, infatti, ci invita di fatto a sostenere che se leggiamo in una chiave espressiva una successione di suono , ciò accade perché non possiamo fare a meno di intenderla così, proprio come non possiamo fare a meno di vedere come vediamo le stan-ghette della Müller-Lyer. Credo che qui Kivy abbia ragione, ma credo anche che questo ordine di considerazioni ci conduca ad una tesi che non coincide con quella che Kivy ci propone – la tesi secondo la quale semplicemente ci accade di percepire così. Non pos-siamo fare a meno di sentire malinconici certi accordi e non possiamo fare a meno di sentire allegro il duetto tra Papageno e Papagena nel Flauto magico. Non possiamo farlo, come non possiamo vedere diversamente quello che vediamo – ma questo appunto ci in-vita a sostenere che la percezione delle proprietà espressive è un dato primario che non è forse opportuno cercare di giustificare, poiché potrebbe non avere alcuna motivazione, ma solo una causa. Siamo fatti così, sentiamo certe musiche malinconiche e altre allegre e se dobbiamo chiederci di che colore è l’orrore che potrebbe prenderci sulle porte dell’Erebo diremo che l’orrore è proprio verde-giallastro, e non carta da zucchero. Siamo fatti così, ed è da qui che dobbiamo partire.

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LEZIONE DECIMA

1. La scatola nera

Lo abbiamo già osservato: nella sua Filosofia della musica, Peter Kivy ritorna critica-mente sulla sua teoria del profilo e dopo aver avanzato una serie di osservazioni critiche e dopo aver tentato di rispondere ad una serie di dubbi e di perplessità, ci invita infine a mettere da canto le supposizioni teoriche avanzate in The Corded Shell per prendere sem-plicemente atto che anche se non sappiamo trovare una spiegazione convincente della nostra capacità di trovare espressive certe sequenze di suoni, è un fatto che le cose stiano proprio così. Le cose stanno così perché siamo fatti così e perché la musica è fatta così: quando ascoltiamo un Notturno di Chopin sentiamo nella norma certe emozioni e non altre, e le sentiamo come una proprietà che attribuiamo al fatto sonoro. Siamo una scatola nera in cui è difficile guardare, ma ciò non toglie che anche se non sappiamo che cosa accada in noi, possiamo egualmente volgere lo sguardo a ciò che proviamo e constatare che vi sono strutture fenomeniche che hanno una loro determinata connotazione espres-siva:

Consideriamo dunque la musica, sotto questo rispetto, come una «scatola nera», come dicono gli scienziati: vale a dire, come una macchina di cui ci è ignoto il funzionamento interno. Sappiamo che cosa vi entra e che cosa ne esce, ma ignoriamo che cosa sia a causare che ciò che vi entra produca quello che ne esce. Rispetto al modo in cui la musica riesce a esibire le emozioni comuni come qualità percettive, essa è per noi una scatola nera. Sappiamo che cosa vi entra: le qualità musicali che, per tre secoli, sono state associate con le emozioni particolari di cui la musica è espressiva. E sappiamo che cosa ne esce: le qualità espressive che sono udite come espresse dalla musica. E piut-tosto che farci prendere dall'ossessione di penetrare dentro questa scatola nera, dovremmo, o per lo meno alcuni di noi dovrebbero, tenere presenti le implicazioni che questo nuovo modo di considerare le qualità espressive della musica (infatti è davvero un modo nuovo) ha per la nostra comprensione com-plessiva della musica. (P. Kivy, Filosofia della musica, op. cit., p 59).

Forse si può rimanere stupiti di fronte ad una rinuncia così radicale, ma io credo che vi sia un senso in cui l’ipotesi della scatola nera meriti di essere davvero presa sul serio e generalizzata. Ciò che dice è in fondo soltanto questo: ci invita a prendere atto che vi è una dimensione descrittiva del problema espressivo e che non è affatto necessario vinco-lare una riflessione fenomenologica sulla natura delle proprietà espressive ad una qualche teorizzazione che verta sulle ragioni occulte che determinano il nostro avvertire il nero come lugubre e il rosso porpora come solenne. Accade così, così come accade che una certa successione di suoni ci sembri serena e il tramonto triste. Guardiamo il tramonto e sentiamo la malinconia del Sole che cala all’orizzonte, in un gioco di colori che ci toccano profondamente. Il fatto di non sapere perché ciò accada non è poi così rilevante. Anche

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se non riusciamo a cogliere nel tramonto un’icona emotiva che lo riconduca ad una qual-che vicenda umana, sentiamo egualmente la sua malinconia e questo, in un certo senso, può bastarci – almeno da un punto di vista fenomenologico1.

Da un punto di vista fenomenologico, appunto. Se ci ponessimo sul terreno di un’inda-gine di carattere esplicativo non avrebbe alcun senso discorrere dell’insondabilità della “scatola nera” e non sarebbe lecito fermarsi al contenuto manifesto della nostra espe-rienza: sul terreno esplicativo siamo infatti invitati a riconnettere gli eventi alle loro cause e a trovare in queste le ragioni di quelli. Così, se qualcuno ci chiedesse perché vediamo rosse le fragole avrebbe senso tentare di dare una risposta: chiameremmo in causa la luce, il fatto che la superficie di quei frutti assorbe la luce e restituisce solo certe lunghezze d’onde e poi ci soffermeremmo sulla capacità dei differenti tipi di coni di attivarsi o non attivarsi a seconda delle lunghezze d’onda della luce che giunge alla retina, per poi im-mergerci in un’indagine di natura neurofisiologica, secondo un percorso tanto complesso, quanto aperto. Ragioneremmo insomma secondo uno stile causale, che ci consentirebbe di ricondurre la nostra esperienza ad una successione di nessi reali, potenzialmente aperta all’infinito.

Ragioneremmo così se qualcuno ci chiedesse una risposta che si dipani sul terreno espli-cativo, ma non sapremmo davvero che cosa dire se qualcuno pretendesse che rispondes-simo a quella domanda senza abbandonare il terreno descrittivo. Se ci manteniamo sul terreno fenomenologico alla domanda «perché vediamo rosse le fragole?» non possiamo semplicemente rispondere. Le fragole le vediamo rosse perché sono rosse – ma che questa non sia una risposta ma solo un modo per scrollare le spalle di fronte ad una domanda insensata, lo si comprende bene quando si rammenta che, su questo piano, dire che una cosa è rossa non significa altro che dire che la vediamo così in circostanze normali.

Non facciamo altro che ribadire questo ordine di considerazioni se osserviamo che al-meno in parte le cose stanno così anche per le proprietà espressive. Non so dirti perché il nero mi appaia lugubre o quale sia la ragione per la quale una settima diminuita mi appare inquietante: mi appaiono così e basta, anche se questo evidentemente non è ancora un motivo sufficiente per escludere che indagini di carattere esplicativo di natura psicologica o neurofisiologica possano spiegarci il perché delle nostre reazioni. E ciò è quanto dire: anche sul terreno delle proprietà espressive è necessario riconoscere che vi sono proprietà elementari immediate di cui non possiamo fare altro che prendere atto. Il giallo limone ci fa un’impressione diversa dal viola – e non sappiamo dire per quale motivo ciò accada. Dal punto di vista descrittivo, tuttavia, non c’è nessuna ignoranza di cui ci si debba emen-dare: le ragioni finiscono dove i fatti si impongono e non ha senso domandare oltre. Non ha senso chiedere perché il giallo lo avvertiamo in un modo e il viola in un altro: accade così. Di qui, da questi dati elementari, inizia il gioco con le proprietà espressive ed ogni

1 Si badi bene: questo non significa negare che vi siano relazioni di somiglianza tra i fenomeni che troviamo espressivi e le manifestazioni sensibili espressive del comportamento umano. Un simile nesso di somiglianza potrebbe sussistere sempre e spesso è possibile coglierlo con relativa facilità. Il punto non è questo: è che si falsificherebbe il contenuto descrittivo della nostra esperienza se si sostenesse che percepiamo triste una successione di suoni o una qualche composizione cromatica perché in qualche modo cogliamo una somiglianza con la struttura esteriore del comportamento umano. Dal punto di vista descrittivo una percezione di somiglianza non si dà, e anche se si potesse davvero affermare della somiglianza che è la causa che determina la nostra esperienza delle pro-prietà espressive, dovremmo comunque tacerne: di ciò che accade nella scatola nera è opportuno tacere perché non appartiene al senso vissuto della nostra esperienza.

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domanda che pretenda di chiedere conto del perché ciò accade, contiene un rimando ad una dimensione esplicativa che in questo caso deve essere semplicemente messa da parte.

Credo che queste considerazioni debbano essere condivise. E tuttavia una perplessità resta: riconoscere che le proprietà espressive sono un dato elementare non significa in fondo alludere ad una dimensione di passività che sembra ricondurci agli esiti da cui ave-vamo preso le distanze quando avevamo discusso delle teorie causalistiche?

Su questo punto è opportuno riflettere con un po’ di calma.

2. Un ricordo kantiano: cose di cui non si può disputare, ma si può discutere

Se dovessimo raccogliere le considerazioni che abbiamo appena esposto sotto un unico titolo, potremmo forse sostenere che la tesi secondo la quale abbiamo un’esperienza di-retta e intuitiva delle proprietà espressive fa tutt’uno con il riconoscimento del loro im-porsi alla soggettività, proprio come si impongono alla soggettività le proprietà in senso stretto percettive di un oggetto. La percezione, si diceva una volta, appartiene alla dimen-sione della recettività: è un fatto passivo che si impone al soggetto percipiente, il quale non può fare altro che percepire quello che gli si offre. Non posso decidere di vedere diversamente da quello che vedo: se ho davanti a me un cesto di fragole rosse non posso decidere di vedere qualche cosa di diverso, così come non posso decidere di vederle di un altro colore. E non posso nemmeno decidere di non vederle affatto: la percezione può implicare una serie di movimenti e po’ assumere la forma di una prassi, ma non per questo può fare a meno di apparirci come un processo in cui l’attività si subordina infine ad una passività dominante – al fatto che percepiamo quello che c’è e che non possiamo non percepirlo se si impone alla nostra attenzione. Questo stesso ordine di considerazioni vale evidentemente anche per le proprietà espressive. Cammino per le strade di una città d’estate e sento che da qualche casa giungono le eco di una melodia malinconica. Non vorrei ascoltare quello che sento, ma non posso farne a meno, così come non posso fare a meno di sentire che quello che sento è malinconico. Le proprietà espressive le esperiamo e le esperiamo innanzitutto mentre percepiamo gli oggetti cui ineriscono, e proprio come la percezione di quegli oggetti è passiva, così è passiva anche l’esperienza delle proprietà espressive che loro ineriscono.

Non posso decidere di vedere diversamente da come vedo, eppure a tutti noi è capitato di trovarci in situazioni in cui la scena che avevamo sotto gli occhi poteva essere colta in

differenti modi. Alziamo lo sguardo al cielo e vediamo qua e là nell’azzurro qualche nuvola bianca. Vediamo così e non ci sembra che ci sia proprio null’al-tro da vedere, finché la voce di un amico non ci invita a guardare meglio perché nella parte infe-riore di quella nuvola si può ve-dere un volto e insieme a quel volto si può leggere un’espres-sione: vediamo la testa di un uomo che spalanca la bocca, at-territo. Guardiamo meglio e forse,

di primo acchito, continuiamo a vedere quello che vedevamo: non vediamo nulla se non la nostra nuvola. Poi ascoltiamo pazientemente le istruzioni che ci vengono date: ci si chiede di guardare una linea ben precisa e ci si dice che possiamo scorgervi il disegno

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della fronte e del naso; poco più in basso si apre la bocca, spalancata per il terrore – ed ecco che ora vediamo anche noi quel volto e anzi ci chiediamo come abbiamo fatto a non vederlo prima. Anche prima guardavamo proprio quella nuvola, ma ora ci sembra incre-dibile di non aver visto quello che pure si poteva cogliere così bene. Qualcosa è cambiato: prima vedevamo un’unica nuvola bianca, sfilacciata nei suoi contorni e dispersa dal vento. Ora si staglia invece una figura che impone con chiarezza i suoi contorni e che ha acquisito un orientamento spaziale particolare: vediamo una testa reclinata, che guarda in una dire-zione particolare, mentre della nuvola che prima vedevamo non avrebbe certo avuto alcun senso sostenere che era reclinata o che era rivolta in una direzione particolare.

Qualcosa è cambiato, ma sarebbe davvero un modo infelice di descrivere la scena che abbiamo davanti agli occhi il sostenere che abbiamo ascoltato attentamente quel che il nostro amico ci diceva e abbiamo, proprio per questo, deciso che volevamo vedere anche noi un volto e non soltanto una nuvola. Le cose non stanno affatto così e per rendersene conto è sufficiente rammentare che in quella nuvola non possiamo affatto vedere quel che vogliamo. Non riusciamo, per esempio, a vedere un cane, proprio come non riusciamo a vedere un volto sereno e la giusta constatazione secondo la quale ciò che vediamo – il volto atterrito – dipende in qualche modo dal nostro aver prestato attenzione a ciò che ci veniva detto, non significa affatto che possiamo vedere quello che vogliamo. E la ragione è ovvia: in quella nuvola possiamo vedere un volto atterrito perché si può vedere un volto atterrito, anche se per scorgerlo è necessario guardare con attenzione e assoggettare la nostra prassi percettiva ad un percorso particolare – quel percorso che è scandito passo dopo passo dalle richieste che il nostro amico formula. Del resto, potrebbe anche accadere che quel volto ci sfugga: ascoltiamo quel che il nostro amico ci dice, fissiamo gli occhi in una direzione particolare e guardiamo ora in alto, ora poco più in basso, tentando i rico-noscimenti che l’amico ci suggerisce, eppure non vediamo affatto il volto che ci si chiede di cogliere. Guardiamo, ma la rete della percezione non si chiude sull’oggetto che cer-chiamo: vediamo ancora una nuvola, anche se cerchiamo un volto. Decidiamo di dar retta al nostro amico e cerchiamo di trovare un volto, ma questa decisione non è ancora suffi-ciente perché si possa vedere: il vedere, banalmente, non dipende da noi. Possiamo forse esprimerci così: non possiamo decidere di vedere, ma possiamo scegliere come guardare e il modo in cui di fatto guardiamo non è senza conseguenze rispetto a ciò che vediamo.

Questa distinzione può essere ulteriormente approfondita, osservando in primo luogo che posso imparare a guardare qualcosa e che, correlativamente, è possibile anche inse-gnare a qualcuno a guardare in un certo modo: posso volgere gli occhi nella direzione che tu mi indichi e posso guardare come tu mi chiedi. Non posso invece imparare a vedere:

che io veda questo o quello è un fatto che accade se vi sono le condizioni per le quali può accadere. Puoi insegnarmi come devo guardare quella nuvola e posso obbedirti passo dopo passo, ma questo non basta ancora perché io riesca a vedere quello che mi chiedi. Il vedere è un verbo che indica un acca-dimento e tutti abbiamo qualche volta dovuto constatare che ci si dice che in un disegno si può vedere qualcosa e ci si spiega anche come dobbiamo fare per vederla. Ci si dice di guardare così e noi obbediamo, ma non vediamo lo stesso quel che ci era stato promesso. In questa fotografia (che è tratta da un libro di Gregory) si può vedere un cane dalmata, ma che cosa diremmo se, nonostante questa indicazione e nonostante l’aiuto di un

amico che ci invita a guardare ora un contorno, ora una macchia più scura, invitandoci ad un riconoscimento, noi dovessimo confessare che un cane tra questa miriade di punti non

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riusciamo affatto a vederlo? Accadrebbe, io credo, solo questo: che dovremmo ricono-scere una cosa che, per altro, sappiamo già molto bene, e cioè che non basta sapere come dobbiamo guardare e che cosa dobbiamo cercare per riuscire a vederla. «L’avevo davanti al naso e non riuscivo a vederla» – è una frase che ci è capitato di dire e di sentire molte volte.

Non si tratta tuttavia di una peculiarità del vedere: anche le altre modalità della nostra esperienza percettiva sembrano consentirci la dualità di forme dell’esperienza in cui ci siamo appena imbattuti. Posso udire una successione di note e posso cercare di ascoltarla meglio perché mi è sfuggita una qualche loro relazione di cui tu mi parli. Ed anche in questo caso, ciò che odo dipende anche da come ascolto, ma sarebbe privo di senso soste-nere che sento quello che voglio o che il mio ascoltare così sia capace di creare un mio peculiare modo di sentire. In un suo libro – Le sorgenti della musica – Kurt Sachs racconta l’aneddoto di un musicista popolare albanese che, udita la Nona sinfonia di Beethoven, la giudica senza appello troppo semplice, anche se in fondo bella. Ecco la prova che un’abi-tudine di ascolto determina interamente ciò che sentiamo – verrebbe da dire, perché nes-suno di noi, cresciuti nella nostra cultura musicale si stupirebbe della semplicità ritmica di quella sinfonia e si lascerebbe colpire dalla complessità della struttura melodica e dalla sua profonda bellezza. Solo chi è cresciuto nella nostra cultura può apprezzare queste forme di bellezza, proprio come per noi è preclusa – una volta per tutte – la bellezza per noi inattingibile dei canti esquimesi, delle musiche africane, delle armonie indiane. Per afferrarle, avremmo dovuto crescere in quei mondi, imparare le loro lingue, vivere le loro vite – ma così non è stato: solo così avremmo potuto acquisire quelle lenti che colorano e deformano il loro e il nostro mondo secondo quella cifra che sola ci appartiene.

Sembra necessario concludere così, ma si tratta ancora una volta di una conclusione affrettata che nel tentativo di riconoscere la differenze delle culture e forse anche di pren-dere commiato, una volta per tutte, dagli errori dell’eurocentrismo, le rinchiude in se stesse, invitandoci in fondo a disinteressarcene. Non potremo mai sentire quel che ha udito quel musicista albanese perché non siamo nati e cresciuti in quelle terre in cui la cultura occidentale si è incontrata – e scontrata – con il mondo islamico: non è andata così, e ora siamo costretti con rammarico rinunciare a comprendere quel che ci dice. A queste con-siderazioni si deve semplicemente contrapporre quel che già sappiamo, liberandoci una volta per tutte dalla metafora ingannevole delle lenti colorate che ci costringerebbero a vedere il mondo secondo una tonalità inaccessibile a chi le indossa. Le cose non stanno così. Alla metafora delle lenti si deve sostituire il riconoscimento che sono possibili molti e diversi modi di articolare il nostro mondo percettivo. Vediamo quello che c’è – ed è per questo che possiamo decidere che vi è questo e quello sulla base della nostra percezione, ma questo non toglie che il nostro percepire sia comunque orientato dalle nostre abitudini percettive. Forse, nessuno di noi avrebbe detto che la Nona sinfonia di Beethoven è dav-vero troppo semplice perché non si anima di strutture ritmiche complesse, ma questo si-gnifica forse che non possiamo sentire la semplicità di quel ritmo?

All’origine di queste posizioni teoriche si celano, io credo, due colpe da cui è necessario emendarsi. La prima è un errore teorico. La metafora delle lenti colorate ci invita a pensare che appartenere ad una cultura significhi avere un mondo chiuso – il nostro – cui si po-trebbe accedere solo precipitandovi alla nascita. Una cultura è una decisione già presa: una decisione che determina alla radice quel che esperiamo, modificandone i contenuti. È difficile comprendere davvero che cosa questa tesi voglia dire. Non può voler dire che per percepire qualcosa è necessario possederne la parola – perché non possiamo certo pensare che una qualche felice tribù che non conoscesse la parola «dolore» reagisse entusiastica-mente alla trapanazione di un dente. Ma non può nemmeno significare che il dolore sia

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proprio questo dolore che provo a seconda della parola che lo concettualizza: non c’è un modo tipicamente italiano di sentire il dolore ad un dente, perché il dolore ai denti non lo sentiamo attraverso le parole. E non vi è nemmeno un modo tipicamente albanese di sen-tire il ritmo, anche se vi è una sensibilità acquisita attraverso un’abitudine all’ascolto che privilegia certi aspetti dell’oggetto, piuttosto che altri. Non possiamo decidere quello che si percepisce, anche se possiamo imparare ad ascoltare, dando peso a certe strutture piut-tosto che ad altre. Possiamo tendere l’orecchio per cogliere quello che siamo abituati a cogliere e questo può evidentemente farci fraintendere il senso di un’opera, ma non per questo non ci insegna nulla su di essa. In fondo, il musicista albanese, cresciuto in una cultura che privilegia la dimensione ritmica, può forse cercare qualcosa – una complessità ritmica – che non è opportuno cercare nella Nona sinfonia di Beethoven, ma non per que-sto lamenta qualcosa che per noi è impossibile sentire e comprendere. Ora che ci facciamo caso, possiamo rendercene conto anche noi, anche se non è questo che di primo acchito ci colpisce2. Di qui il secondo errore cui alludevo – un errore che ha una piega morale e di cui forse sarebbe opportuno dire che è un vizio che ha un nome antico – la pigrizia. Il musicista che lamenta l’incomprensibilità dei canti esquimesi e che si ritrae dall’impres-sione di disordine e di insensatezza di quelle musiche così diverse dalle nostre e confessa addolorato la sua incapacità di comprenderle, non ha il diritto di rifugiarsi nella concla-mata diversità delle forme di vita, come se non ci fosse più niente da fare. C’è da fare eccome, ed è tanto un errore, quanto una forma di pigrizia – e la pigrizia è figlia del di-sinteresse – il lamentare un’incomprensibilità di principio che si radicherebbe in una totale alterità dello stesso evento percettivo. Non posso sentire quel che sente il cacciatore esqui-mese perché non ho mai temuto di morire sui ghiacci cacciando le foche – ma via! Non si può ragionare così. E se si ragiona così è, in fondo, perché non ci interessa nulla di quei canti e non abbiamo voglia di fare quel che basterebbe fare: ascoltarli da capo, lasciandosi eventualmente guidare dalle parole di qualche esperto, proprio come facciamo quando vogliamo ascoltare la Nona sinfonia di Beethoven e vogliamo capirla meglio, anche se non siamo cresciuti nella Germania di fine settecento e i nostri nonni non erano contadini del Brabante e non abbiamo bevuto birra e vino del Reno. Ascoltali di nuovo e stai attento a queste strutture ritmiche e ai timbri di quelle voci e capirai, col tempo. C’è un passo dell’Odissea che mi commuove da quando ero bambino. Polifemo è ormai cieco e Ulisse si è aggrappato al ventre lanoso dell’ariete più grande e forte del gregge. Il ciclope, che cerca a tentoni chi l’ha privato della vista per ucciderlo, sente infine giungere l’ariete che tutte le mattine per primo correva a «mordere i teneri frutti dell’erba» e Polifemo, questo bestione feroce e crudele, si intenerisce e lo accarezza e gli parla e trova conforto nel pensiero che l’ariete prediletto abbandoni per ultimo l’antro perché prova affetto e tene-rezza per il padrone ferito. Lo accarezza sulla schiena, e sotto il ventre vi è Ulisse il cui peso soltanto ha reso lento l’incedere di quell’animale: lo sospinge addirittura, come si farebbe con un amico che si attarda troppo per farci un piacere. Accade così: quando sof-friamo per un torto subito, abbiamo più bisogno di conforto che di vendetta, e questo anche se siamo adulti e non possiamo più indulgere nella compassione e nella tenerezza degli altri. Lo capiamo, anche se non siamo mai stati ciechi e se non siamo ciclopi, e nemmeno greci del IX secolo avanti Cristo.

Non è difficile rendersi conto che le cose stanno così anche nel caso delle proprietà espressive. Delle proprietà espressive abbiamo un’esperienza immediata e intuitiva, e la malinconia del tramonto o la serena pacatezza di una sera d’estate si danno o non si danno

2 L’esempio di Sachs e la sua discussione sono tratti da G. Piana, Filosofia della musica, Guerini, Milano 199, pp. 38-45.

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così come accade agli oggetti della nostra percezione. Vediamo che le fragole sono rosse, proprio come vediamo vivace il loro colore che ci sembra così coerente con il loro sapore: le vediamo così e le esperiamo così, senza bisogno d’altro. Sottolineare questo fatto è importante, ma non significa negare che anche in questo caso la dialettica che abbiamo visto caratterizzare la nostra esperienza percettiva non abbia un suo spazio di gioco. Ogni esperienza percettiva è molteplice ed ogni esperienza percettiva può essere orientata in una direzione particolare. Posso sentire aspro il limone – ed è così che nella norma lo sente un bambino, ma posso avere imparato a discernere in quel sapore la continuazione di un profumo e forse anche di un colore, e posso assaporarne la freschezza e la pulizia e forse persino la raffinatezza. Così, posso vedere lugubre il nero, ma posso anche imparare a scorgerne altri aspetti: posso trovare nitida e un po’ autoritaria la sicurezza con cui il nero separa ciò che ha il suo colore dallo sfondo e forse è questa una delle caratteristiche che possono piacere nel nero come colore di abiti, borse e vestiti. E posso anche essere attratto dalla freddezza del nero, dal suo aristocratico contegno che non sollecita il nostro sguardo con un colore particolare, ma sembra piuttosto sottolineare una distanza e un mo-derato disprezzo per il chiacchiericcio dei colori.

E ciò che vale per la vista e per l’udito, vale anche per i sapori, in cui pure si possono imparare molte e diverse cose. Per i greci il vino era buono perché «era dolcezza di miele» e sono queste le stesse parole che la madre di Ulisse, Anticlea, pronuncia quando nell’Erebo gli confessa che solo il rimpianto del figlio l’ha strappata alla vita, dolcezza di miele; per Dino Campana, invece, il vino è «l’aspro succo della verde vite» e l’asprezza è una promessa di serietà e di sincerità del vivere: è «l’aspro vino che mi ha riconfortato» – e sarebbe un errore credere che si tratti soltanto di vini diversi o dell’abitudine antica di speziarli e di addolcirli o della qualità incerta del vino di Marradi. Non si tratta solo di vini diversi: è diverso anche il modo di berli e la cultura che accompagna quel bere, e l’uno e l’altra orientano il nostro modo di assaggiarli e quindi di sentirli. Fanno variare ciò che percepiamo in essi e, di conseguenza, fanno cambiare anche le ragioni per cui li apprezziamo e li viviamo in un certo modo. E forse ci sono certi momenti in cui ci sembra vero che il vino abbia sapore di miele e altri in cui ci sembra vero che sia il succo aspro della verde vite. Ci lasciamo convincere ora dall’una, ora dall’altra voce e scopriamo in uno stesso sapore sfumature che comunque si possono scoprire per la buona ragione che quelle sfumature vi sono.

Possiamo imparare: questo è il punto, anche se imparare non significa affatto assumere un atteggiamento volontaristico, ma vuol dire impegnarsi in un’esplorazione percettiva che si lascia guidare dalle parole nel suo essere una prassi, ma che non può che affidarsi al risultato cui giunge nel suo essere un accadimento. Posso guardare come tu mi chiedi il nero e posso trovarlo lugubre – ma posso farlo solo perché è lugubre, anche se non è soltanto lugubre. Puoi, insomma, insegnarmi a cercare qualcosa, ma non puoi insegnarmi a trovarlo – perché qualcosa si può cercare se abbiamo tempo e voglia per farlo, ma si può trovare soltanto se c’è.

Su questo punto è importante insistere anche perché ci consente di ritornare sui nostri passi e di leggere sotto una diversa luce una considerazione kantiana su cui c’eravamo a suo tempo soffermati: la tesi secondo la quale si può discutere, ma non si può disputare del bello. Si tratta, lo avevamo osservato, di un’osservazione che mette egualmente l’in-dice su un problema su cui vale la pena di riflettere, anche se non è facile comprendere fino in fondo il testo kantiano.

Non è facile comprenderlo sino in fondo perché non è ben chiaro che cosa nelle sue pagine voglia dire discutere – e non disputare – del bello, ma se ci concediamo qualche libertà interpretativa e facciamo di questa osservazione kantiana un motto che possa essere

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adattato ai nostri bisogni, io credo che si possa leggervi in controluce il risultato cui siamo giunti e insieme la necessità di arricchirlo in uno sviluppo ulteriore.

Quel detto ci invita innanzitutto a tenere conto del fatto che le proprietà espressive sono proprietà di cui abbiamo diretta esperienza e, come tali, si danno intuitivamente: non sono il frutto di un ragionamento e non possiamo quindi dimostrarle. Le proprietà espressive si danno alla percezione: non possiamo argomentarle, proprio come non possiamo dimo-strare che qualcosa ha un colore piuttosto che un altro. Proprio come, per Kant, accade per la bellezza, anche le proprietà espressive hanno dunque natura intuitiva e non pos-siamo fare altro che scorgerle. Dire che non è possibile disputare e decidere argomentati-vamente se il nero sia lugubre o aristocratico significa dunque soltanto questo: che si tratta di qualcosa che dobbiamo vedere ed esperire nel nero e che non ci basta capire le ragioni degli altri per vedere quello che gli altri ci dicono. Se un ipotetico musicista albanese ci dicesse che le strutture ritmiche di Messiaen sono troppo semplici faremmo fatica a se-guirlo: argomentare non basta.

Ciò tuttavia non significa che non sia possibile guidare la nostra esperienza percettiva, sino a condurla ad afferrare ciò che altrimenti ci sarebbe sfuggito. Qualche volta accade così: per riuscire a cogliere quello che tu hai colto ho bisogno di lasciarmi convincere e di farmi guidare, perché non è sempre facile cogliere quello che tu hai colto. Qualche volta è necessario, insomma, discutere, e discutere significa persuadere e indirizzare, ma non per questo pretendere di argomentare, perché l’ultima parola spetta a una percezione senza parole. «Prova a guardare così il bianco: come se fosse innanzitutto silenzioso» – è questo quello che Kandinsky ci dice, e non è affatto detto che sia questo il modo in cui innanzi-tutto il bianco ci colpisce. Paul Klee è di un altro avviso: del bianco ci dice che è innanzi-tutto privo di vita. Non così Melville che nel suo Moby Dick dedica un capitolo al bia3nco che gli appare in fondo disumano, proprio perché svela l’essenza incolore, il suo essere misteriosamente bianco al di là ogni colorata illusione:

E’ forse perché con la sua indefinitezza, adombra i vuoti e le immensità disumane dell’universo e, in tal modo, ci colpisce alle spalle con il pensiero dell’annullamento, quando contempliamo le bianche profondità della Via Lattea? O è forse perché, nella sua essenza, il bianco non è tanto un colore quanto l’assenza visibile del colore e, al tempo stesso, la fusione di tutti i colori; è forse per questi motivi che c’è una così muta vacuità, piena di significato, in un vasto paesaggio nevoso – un incolore onni-colore d’ateismo dal quale rifuggiamo? e quando consideriamo quell’altra teoria de-gli scienziati, secondo la quale ogni diversa tinta terrena – ogni imponente o aggra-ziata coloritura – i dolci riflessi dei cieli e dei boschi al tramonto; si, e i velluti dorati delle farfalle, e le guance di farfalla delle giovanette, non sarebbero altro se non inganni sottili, non veramente inerenti alle sostanze, ma deposti su di esse dall’esterno, così che ogni cosa la natura che abbiamo deificata dipinge né più né meno che una prostituta, i cui allettamenti non fanno altro che nascondere l’intimo corrompimento; e quando, procedendo oltre, consideriamo che il mistico cosmetico il quale produce ciascuna tinta, il grande principio della luce, rimane perennemente bianco e incolore in sé, e che, ove operasse senza tramiti sulla materia, toccherebbe ogni oggetto, persino i tulipani e le rose, con la sua tinta senza colore – quando con-sideriamo tutto questo, l’universo ammorbato sembra disteso sotto i nostri occhi come un lebbroso; e come il viaggiatore ostinato in Lapponia, che rifiuta di portare occhiali colorati e coloranti, allo stesso modo il povero infedele perde la luce degli occhi fissando il monumentale sudario bianco che avvolge ogni aspetto del mondo che lo circonda. E di tutte queste cose la balena albina era il simbolo. Vi stupisce dunque la caccia accanita? (H. Melville, Moby Dick, cap. XLII).

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Tra questi molteplici modi di riferirsi al bianco per scoprirne la nascosta espressività non avrebbe senso chiedersi quale sia quello vero. L’abbiamo osservato: non possiamo argo-mentare nulla, ma questo non significa che non sia possibile discutere, perché anche se infine qualcosa deve colpirci nella sua datità percettiva – anche se infine dobbiamo riu-scire a scorgere nel bianco ciò che lo fa apparire silenzioso, privo di vita o disumano – ciò non toglie che possa essere necessario, per riuscirci, ascoltare le parole di chi sa guidarci verso quell’esperienza. Possiamo discuterne, perché qualche volta è necessario lasciarsi guidare verso una scoperta che è possibile solo se accettiamo di disporci in una prospettiva di ascolto dei fenomeni che è diversa dalla nostra e che ci parla attraverso le voci di un modo di pensare e di immaginare che è profondamente differente dal nostro. Faccio fatica a cercare nel bianco ciò che Melville vi scorge, perché per me il bianco ha la forma serena e ricca di promesse delle cose all’inizio: è la tovaglia bianca che si stende sul tavolo prima del pranzo ed è il foglio su cui si spera ancora che le idee trovino presto il loro posto. Ma anche se talvolta facciamo fatica, possiamo egualmente lasciarci persuadere, nella cer-tezza che comunque non perdiamo nulla del nostro se accettiamo di guardare diversa-mente. «Prova a guardare così!» è insomma la prima mossa di un nuovo gioco che non esclude altri giochi; tutt’altro: ci insegna a capire come le proprietà espressive che co-gliamo nelle cose ci parlino anche della prospettiva da cui le abbiamo guardate. Ci insegna che sono a portata di mano possibilità differenti, se abbiamo la pazienza e la voglia di accettare altri giochi che ci invitano ad assumere altre e diverse prospettive.

Richiamarsi al detto kantiano, tuttavia, non significa solo rammentare che la nostra ca-pacità di cogliere le diverse proprietà espressive che si legano ad uno stesso fenomeno può implicare il rimando ad una pratica persuasiva che ci invita ad appropriarci di un insieme di abitudini di ascolto e di contesti immaginativi differenti che ci consentono di cogliere ciò che è comunque possibile trovare, ma vuol dire anche sottolineare che nel fuoco di questo processo le proprietà espressive smettono di apparirci come un dato bruto ed entrano a far parte della nostra vita e del nostro mondo. Se ti chiedo di guardare così quello che hai di fronte a te è perché voglio cercare di persuaderti che è possibile trovare quello che ho colto se solo accetti di condividere un qualche tratto della forma di vita che mi è propria. Le proprietà espressive si trovano, ma se possiamo trovarle è perché impa-riamo a illuminarle con la giusta luce e a cercarle, assumendo la giusta prospettiva. Per vedere nel bianco il silenzio in cui ci si rifugia dopo che si è tacitato ogni chiacchiericcio esteriore è necessario condividere la prospettiva interioristica che Kandinsky formula nelle pagine del suo Lo spirituale nell’arte, ed un discorso analogo vale ovviamente per le premesse che ci consentono di vedere in quel colore – in quell’assenza di colore – ciò di cui Klee o Melville ci parlano.

Non vi è dubbio che a partire di qui si intraveda un discorso più ampio che ci invita a pensare alla natura e alla funzione dell’arte – al suo porsi come un grande gioco che ci insegna a guardare alle cose, disponendole lungo quella connessione di pensieri e di im-magini, di abitudini e di forme del vivere che ci dispongono nella prospettiva che sola consente di ritrovare nel mondo quelle proprietà espressive che lo rendono a vario titolo nostro. E vice versa: di ritrovare nelle proprietà espressive di un mondo il punto di vista che meglio ci consentiva di dischiuderle. Si tratta di temi che, ancora una volta, ci ricon-ducono ad un orizzonte kantiano, ma prima di tentare di dire qualcosa anche su questo tema dobbiamo insistere ancora sulle nostre considerazioni fenomenologiche. In modo particolare, dobbiamo interrogarci sulla natura delle proprietà espressive, su questa carat-teristica prospetticità che le rende pienamente visibili solo per chi le cerca nella direzione giusta, illuminandole con una luce adeguata. Per cercare di comprendere come questa prospetticità sia possibile dobbiamo addentrarci un poco nella natura delle proprietà

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espressive – dobbiamo in altri termini cercare di dire che cosa sono a partire dal modo in cui appaiono.

Lo faremo nella prossima lezione.

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LEZIONE UNDICESIMA

1. Il carattere fenomenico delle proprietà espressive

Nella lezione precedente abbiamo cercato di far luce sul fatto che le proprietà espressive sono strettamente legate alla nostra esperienza percettiva e ne condividono il destino: ci si danno come qualcosa che possiamo cercare, ma che può essere trovata soltanto se c’è. In questo appunto le proprietà espressive sono riconducibili alle caratteristiche percettive degli oggetti: posso sentire una successione di quinte solo se qualcuno la suona, anche se può certo accadere che io senta risuonare una successione di suoni senza rendermi conto di quello che ho udito.

Su questo punto ci siamo già soffermati, ma è necessario ora approfondire le nostre analisi descrittive e questo significa innanzitutto chiedersi in che misura si possa sostenere che le proprietà espressive sono proprietà che percepiamo, come percepiamo i colori e le forme. Una prima considerazione credo si imponga: anche se le proprietà espressive le incontriamo nel mondo come incontriamo forme e colori, sarebbe tuttavia sbagliato so-stenere che la malinconia di un brano musicale o l’allegria di una mattina d’estate le per-cepiamo come percepiamo le altre proprietà sensibili. Quando vediamo un tramonto che ci sembra malinconico non per questo vediamo la malinconia come se fosse una sua qua-lità sensibile che, per così dire, si trovasse accanto al colore o al ritmo degli eventi. In un certo senso la malinconia la sentiamo, ma non la vediamo affatto: anche se non la pro-viamo come se fosse un nostro stato d’animo, si tratta pur sempre si un’esperienza emotiva che non può essere trasformata in una mera percezione. Non si tratta di un’esperienza cognitiva, ma di un’esperienza emotiva: la malinconia del tramonto non è l’oggetto di un’esperienza di natura cognitiva e non è qualcosa di cui ci limitiamo a prendere atto, come potremmo prendere atto della posizione del sole rispetto ad una determinata collina o a un paese che vediamo in lontananza. Della malinconia del tramonto non prendiamo atto: la viviamo emotivamente. E tuttavia, la viviamo come qualcosa che esperiamo in altro: non siamo necessariamente malinconici e non facciamo della malinconia che avver-tiamo uno stato d’animo che proviamo. Su questo punto sarebbe necessario essere molto più chiaro di quello che sono, ma su un punto almeno mi sembra che si possa tentare di dire qualcosa di definito: vi è una differenza molto netta tra l’avvertire la tristezza di qual-cosa e il provare tristezza per qualcosa, ma sarebbe un errore – io credo – tentare di venire in chiaro di questa distinzione affiancando un’esperienza cognitiva ad un’esperienza emo-tiva. Si avverte la tristezza di un brano musicale avvertendo comunque qualcosa: anche se non è nostra la tristezza che sentiamo risuonare in quelle note, l’avvertiamo come si sente qualcosa di triste – come una limitazione dolorosa che risuona anche in noi. Le emozioni hanno un loro centro: possono avere in noi il loro punto di ancoraggio o possono averlo in un’altra persona o in una scena cui assistiamo. E le emozioni si provano quando hanno il loro centro in noi, si avvertono invece quando le troviamo nelle cose o negli altri.

Vi è tuttavia una diversa ragione che ci spinge a sostenere che non vediamo la malinco-nia del tramonto come ne vediamo i colori o le forme, ed una ragione che traspare in una forma linguistica che ci dà da pensare: la malinconia del tramonto la vediamo nei colori e nelle forme del tramonto e questo modo così particolare di esprimersi vale come un indice della particolarità della situazione fenomenologica che dobbiamo cercare di descrivere.

Una prima ragione di questo particolare modo di esprimerci riposa sulla peculiare loca-lizzazione delle proprietà espressive: anche se quando guardiamo il tramonto avrebbe senso sostenere che la malinconia la incontriamo proprio là, dove c’è il Sole, ci sembre-rebbe difficile precisare ulteriormente il luogo in cui si dà. Posso dire che esattamente in

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un punto c’è un riflesso di luce particolare, ma avrebbe senso dire che esattamente in quel punto c’è, per esempio, una peculiare piega della tristezza? Lo stesso accade quando ascolto un allegro che sento pieno di gioia: posso, certo, dire che un certo passaggio mi sembra pieno di gioia – «non senti qui come è allegro?», qualche volta ci esprimiamo così – ma sarebbe privo di senso indicare esattamente un punto, un istante di suono e dire che qui c’è allegria. Insomma: le proprietà espressive sono proprietà globali che sembrano

pervadere un certo decorso fenomenico e diffondersi in esso. Non è un caso allora se le proprietà espressive ci appaiono in una loro tendenziale olisticità. Guardiamo que-sti due ritratti di uno stesso volto: si tratta in realtà della stessa fotografia, solo che in una delle due la bocca è stata modificata almeno un poco – quel tanto che basta per accennare un sorriso. Ora un’allegria sot-tile anima quel volto e ci sembra di vederla riflettersi nello sguardo che ci sembra più luminoso – anche se è lo stesso di prima.

Vediamo un volto allegro e l’allegria si diffonde nelle pieghe di quel volto, animandolo complessivamente. L’allegria è lì, in quel volto, ma non è possibile fermarla in un punto, perché non è una proprietà che abbia una sua collocazione precisa e che si dia come un plenum della res extensa.

Di questa localizzazione sui generis ci accorgiamo del resto anche se riflettiamo sul fenomeno del contrasto. Se accosto l’uno all’altro dei colori su una superficie avrò davanti a me una certa configurazione percettiva che tuttavia può essere scandita nella successione cromatica che la compone. Che dire invece della proprietà espressiva che caratterizza

quella scena? È davvero possibile analizzarla parte per parte? Guardiamo questo quadro di Klee: piccoli rettangoli di colore si accalcano su una superficie. Al-cuni si dividono a loro volta in parti, secondo un di-segno che rende visibile un insieme di lettere. Ora, ogni colore ha una sua tendenziale proprietà espres-siva, ma sarebbe davvero insensato cercare di dire punto per punto quale impressione ci fa quest’imma-gine. C’è invece un’impressione complessiva, così come c’è un’impressione complessiva di un certo mo-vimento musicale, e non avrebbe senso cercare di spingere l’analisi al di là di una certa soglia. Per dirla in breve: le proprietà espressive sono proprietà glo-

bali e permeano di sé una scena fenomenica. Non sono analizzabili punto per punto perché ci appaiono invece come un tratto unitario che caratterizza il modo in cui un verto feno-meno si manifesta.

Su questo punto è necessario riflettere un poco. Sottolineare la localizzazione sui gene-ris delle proprietà espressive significa anche mettere in luce un aspetto della particolarità delle proprietà espressive – il loro porsi come proprietà che non sembrano dire qualcosa dell’oggetto, ma della sua manifestazione. Quando dico di un oggetto che ha una certa forma o un certo colore metto in luce proprietà che spettano alla cosa, sia pure in modo differente. La forma di un oggetto è una sua proprietà primaria: vedo la superficie del tavolo e la vedo proprio come la sento al tatto – liscia, rettangolare e grande così e così.

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Che abbia questa forma, del resto, lo si può vedere da molte altre cose: dal suo poter essere accostato ad un angolo della stanza, per esempio. Nel caso del colore le cose stanno altri-menti: che abbia questo colore e non un altro è qualcosa che vedo e che si può soltanto vedere. Il colore è appunto una proprietà secondaria: spetta all’oggetto, ma è una proprietà che si rivela soltanto allo sguardo. La vivacità di un colore, il suo tono allegro o lugubre sono invece proprietà che non sembrano caratterizzare l’oggetto in se stesso, ma il modo in cui di volta in volta si manifesta. Sono in questo senso proprietà terziarie che apparten-gono non alla cosa, ma al modo della sua manifestazione.

Si tratta, a ben guardare, di una considerazione a cui siamo già giunti nelle nostre pre-cedenti riflessioni, quando abbiamo osservato che una stessa cosa può apparirci alla luce di proprietà espressive differenti. Il nero non è lugubre nel senso in cui è un’arancia è rossa o sferica, perché non vi è contraddizione nell’affermare che uno stesso nero può apparirci alla luce di altre proprietà espressive. Su questo punto ci siamo già soffermati e abbiamo osservato che un gioco espressivo non toglie gli altri e che possiamo imparare a scorgere in una stessa realtà differenti connotazioni espressive. Ora, uno stesso oggetto può apparirci in forme differenti: possiamo per esempio vedere una stessa moneta da dif-ferenti punti di vista e ciascuno disegnerà quell’oggetto in un modo differente – avremo ora un’ellisse, ora un cerchio ora un segmento di un certo spessore. Ciascuna di queste forme di manifestazione ha la sua ragion d’essere nella forma dell’oggetto e manifesta un oggetto che ha un’identica forma, ma appunto la forma di manifestazione varia al variare del punto di vista. Ma se un identico oggetto può avere infinite forme di manifestazione, non per questo può avere più di una forma: il gioco di variazione delle proprietà espressive non può dunque parlarci di una molteplicità di caratteri oggettivi, pena il farsi avanti di un nodo di contraddizioni. Ma se così stanno le cose, allora è evidente che le proprietà espressive competono alla manifestazione della cosa e non alla cosa che si manifesta.

Di questa natura fenomenico-manifestativa delle proprietà espressive ci rendiamo conto del resto non appena ci soffermiamo sul carattere di prospetticità che caratterizza il lin-guaggio delle proprietà espressive. Se qualcuno dicesse che le dita della mia mano destra sono sette non risponderei certo dicendo che a me sembrano cinque: un simile modo di esprimersi suonerebbe ironico oppure semplicemente ridicolo. Non ci sarebbe invece nulla da ridire se dicessi che a me sembra in fondo triste la melodia che tu trovi allegra: qui il verbo “sembrare” si trova a suo agio. E non a caso: quel verbo non dà espressione ad un dubbio o a un’incertezza e non intende nemmeno, io credo, invitarci a sostenere che ogni attribuzione di proprietà espressive è meramente soggettiva: ci dice invece che le proprietà espressive sono proprietà che ci parlano del modo di manifestazione di qualcosa e sono, come tali, intrinsecamente prospettiche, ma non per questo sono meramente sog-gettive. Tutt’altro: si tratta di proprietà obiettive, anche se prospetticamente caratterizzate. Su questo punto è forse opportuno indugiare un poco. Muoviamo da un esempio. Una moneta ha un profilo ellittico se la guardi da questa prospettiva – appare così, ma è neces-sario che così appaia e non vi è in questo proprio nulla di soggettivo, anche se evidente-mente si tratta di una proprietà che ha a che fare con il modo di manifestazione della cosa e non con la cosa che si manifesta. Lo stesso accade nel caso delle proprietà espressive: se ti dico che il nero mi sembra lugubre non faccio altro che attestare che è possibile vederlo così e che lo vedrebbe così chiunque assumesse la prospettiva che caratterizza il mio generale punto di vista sulle cose. Ancora una volta possiamo ricordarci di Kant e delle sue considerazioni sull’obiettività del giudizio di gusto. Kant scriveva così:

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il giudizio di gusto non postula l’accordo di ciascuno (ché questo può farlo solo un giudizio logicamente universale in quanto può addurre ragioni); solo richiede da cia-scuno questo accordo […] rispetto al quale si aspetta la conferma non da concetti, ma dall’adesione degli altri (I. Kant, Critica della facoltà del giudizio, op. cit., p. 51).

Kant scriveva così e ancora una volta possiamo avvalerci di quel che dice, sia pure con qualche libertà. Non possiamo dare per scontato l’accordo sulle proprietà espressive – non possiamo perché non sono proprietà che spettino agli oggetti in se stessi; possiamo invece chiedere a ciascuno la pazienza e la disponibilità necessarie per assumere il nostro punto di vista e per cogliere ciò che noi abbiamo potuto cogliere: una certa particolare manife-stazione della cosa.

Di qui, da queste considerazioni di carattere generale, si può intendere in che senso anche per noi le proprietà espressive siano appunto proprietà fenomeniche.

2. Le proprietà espressive senza espressione sono proprietà intuitive

Le considerazioni che abbiamo sin qui proposto si prefiggevano un obiettivo determinato: volevano far luce su quelle proprietà espressive senza espressione che in qualche modo caratterizzano la nostra esperienza del mondo e ci consentono di riconoscerci in esso. Che un simile terreno vi sia è difficile negarlo e credo che le diverse esperienze di cui abbiamo discusso settimana per settimana in questi tre mesi di corso siano sufficienti per mostrarlo. E tuttavia, basta riflettere un poco sul titolo sotto il quale abbiamo ritenuto possibile rac-cogliere queste esperienze – un titolo che evidentemente ricalca nella sua forma quella conformità a scopi senza scopo che per Kant circoscrive l’esperienza del bello – per ren-dersi conto di un problema su cui è ancora necessario riflettere un poco. Parliamo di un’espressività senza espressione, ma ha senso farlo? Non dovremmo semplicemente ri-conoscere che non vi è alcuna autentica espressività quando parliamo di ciò che non ha una dimensione psichica? Il Sole tramonta e lo spettacolo ci sembra malinconica – ma perché non riconoscere che malinconico non lo è affatto, che lo sembra soltanto – sino a quando la piega sentimentale che talvolta prende il sopravvento non si placa. In fondo, la formula «espressività senza espressione» è davvero ossimorica e nasconde solo per un attimo la difficoltà che si cela dietro alla nostre considerazioni.

Non si tratta di un problema facile ed ancora una volta devo chiedervi di muovervi tra distinzioni sottili, e di accontentarvi di un discorso che si limita ad indicare la via da se-guire, ma non la percorre fino in fondo senza esitazioni. Il primo passo che dobbiamo compiere consiste nel rammentare una discussione in cui ci eravamo imbattuti, esponendo le tesi di Kivy: la distinzione tra un’accezione transitiva ed un’accezione intransitiva del verbo «esprimere». Si tratta di una distinzione importante che ci invita in primo luogo ad osservare che vi sono casi in cui attribuiamo un’espressività ad una determinata situa-zione, senza per questo pretendere di attribuire un vissuto a qualcosa o a qualcuno. L’esempio che Kivy ci propone ha una vena domestica. Kivy ci invita a immaginare il muso di certi cani – un San Bernardo, per esempio – per constatare che non sappiamo non vederli come se fossero tristi. Eppure sappiamo bene che non sono tristi e non pensiamo nemmeno un attimo che lo siano: il muso di un San Bernardo ci sembra che esprima tri-stezza – ma la esprime solo intransitivamente: non è triste, ma indossa perennemente la maschera di una tristezza apparente. Non possiamo non vedere disegnata sul suo muso la maschera della tristezza, ma non gli attribuiamo transitivamente lo stato d’animo della tristezza: ci limitiamo a cogliere nel suo muso l’icona della malinconia, le sue forme este-riori della tristezza – ci limitiamo a vedere una manifestazione espressiva senza espres-sione.

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Si tratta, io credo, di una distinzione importante e tuttavia io non credo che sia suffi-ciente per venire a capo del nostro problema. Certo, il muso di certi animali ci sembra triste, ma quest’esperienza sembra essere accompagnata dalla consapevolezza che le cose non stanno così: non c’è nulla che sappia commuoverci nelle guance cascanti di un San Bernardo e nei suoi occhi languidi, ed anzi c’è qualcosa di intrinsecamente comico nel suo aspetto. Vediamo la caricatura della tristezza disporsi come un velo apparente sopra il comportamento giocoso di quell’animale e non possiamo non scorgere lo scarto che si apre tra l’uno e l’altro come un fatto che ci fa sorridere, come uno strano scherzo davanti al quale è difficile rimanere seri. E non è un caso che le cose stiano così. La bocca piegata all’in giù, come la piega degli occhi e le orecchie a ciondoloni sembrano essere infatti la moneta corrente per ridestare l’immagine della tristezza: non sono soltanto espressivi della tristezza, ne sono direttamente l’espressione. Non possiamo guardarli senza essere chiamati ad attribuire uno stato d’animo – quello stato d’animo che non c’è nel caso del San Bernardo che sembra, proprio per questo, essere uscito di casa con la faccia sbagliata. Insomma: il muso del San Bernardo esprime tristezza – ma solo in un senso minimo del termine e la tristezza apparente del suo volto non è facilmente disgiungibile dall’espe-rienza del suo contrario. Quando ascoltiamo un adagio e lo troviamo malinconico le cose non stanno così e non ci sembra di trovare nulla di comico nel fatto che quelle note osten-tino una malinconia che non provano.

Forse, di fronte a queste considerazioni, la nostra prima reazione sarà quella di alzare le spalle un poco infastiditi: è davvero il caso di perdere del tempo su un esempio sbagliato, che sembra per giunta avere la funzione di alleggerire il tono del discorso? Io credo di sì. In realtà non si tratta soltanto di un esempio, ma del modo in cui Kivy intende venire a capo del nostro problema – un modo che è in fondo ancora una volta indice della piega intellettualistica delle sue riflessioni. Kivy parla del muso del San Bernardo perché di fatto ritiene che il problema cui si deve dare risposta è propriamente questo: come è possibile che qualcosa abbia la forma esteriore di una manifestazione espressiva anche quando non esprime alcunché? A questa domanda si può rispondere con chiarezza mostrando il muso di un cane: quel muso è un’icona della malinconia, anche se non esprime transitivamente malinconia. La esprime intransitivamente – leggiamo, ma è lungi dall’essere chiaro che cosa questo significhi. In fondo, le analisi di Kivy non sembrano dirci nulla più di questo: davanti ai segni della malinconia reagiamo così – rammentandoci di quella malinconia che tuttavia non possiamo attribuire realmente a ciò che esperiamo. Ascoltando un adagio di Bach ci ricordiamo della malinconia, mentre ci ricordiamo della gioia quando vediamo il cielo sereno di una giornata primaverile. Questo è quello che dovremmo dire – ed è davvero ben poco.

Il punto è qui: non si tratta di un esempio mal scelto, ma del modo in cui Kivy ritiene di dover analizzare le proprietà espressive senza espressione. A suo parere, sono icone dell’emozione che rammentano, ed un’icona è appunto questo – un segno che rimanda ad altro. Kivy muove da qui, da una discussione dei segni espressivi, ma si tratta di una mossa sbagliata perché un segno c’è ed è efficace solo quando sta davvero per qualche cosa. Il sorriso o le sopracciglia aggrottate non sono una qualunque forma espressiva, ma sono un segno della dell’allegria o del fastidio: dicono che così stanno le cose e ci costringono a prenderne atto. Quelle espressioni sono diventate parole che possiamo esibire volontaria-mente sul nostro volto e che stanno per un vissuto: se quel vissuto non c’è diventano una maschera priva di senso, un’icona che non può fare altro che ricordarci quei vissuti cui di solito legata, un poco come il riassestarsi delle assi di un pavimento può ricordarci il ru-more dei passi di un visitatore inatteso.

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Insomma: Kivy muove dai segni espressivi e proprio per questo ci invita a pensare alle forme espressive senza espressione alla luce del concetto di icona e ad intenderle come se fossero un guscio esteriore che ricorda a sproposito quello che non c’è – un certo stato d’animo.

Non credo che le cose stiano così e vorrei cercare di mostrarlo, invitandoci innanzitutto a distinguere quelli che chiamo segni espressivi da quelle che chiamo proprietà espres-sive.

Chiamo segno espressivo una certa configurazione fenomenica che è chiamata in causa esclusivamente come criterio per l’attribuzione di un certo stato emotivo, ma non è parte della sua descrizione.

Chiamo invece proprietà espressiva una certa configurazione fenomenica che può es-sere chiamata in causa dall’attribuzione di un certo stato emotivo, ma è anche parte della sua descrizione.

Un esempio può chiarire che cosa intendo. Le orecchie abbassate di un cane possono significare timore – ne sono un segno espressivo, ma questo non significa che nella de-scrizione del timore (di ciò che noi chiamiamo timore) vi sia qualcosa che concerna la posizione delle orecchie. Il timore non si rivela nella sua natura in quel gesto, anche si svela nel suo esserci, perché il fatto che le orecchie siano abbassate si accompagna nella norma a quel vissuto, così che noi possiamo fare dell’uno l’indice della presenza dell’al-tro. Certo, può darsi che le orecchie abbassate siano funzionali ad un qualche comporta-mento che si lega al timore ed è persino possibile sostenere che meri segni espressivi non si danno, ma in qualche misura credo che la distinzione possa essere tracciata e sia per-spicua: posso dire che un cane ha paura perché abbassa le orecchie, ma non posso spiegare che cos’è la paura, mostrando quelle orecchie abbassate. Al contrario, il salterellare fe-stoso intorno al padrone è parte della descrizione della gioia di quel cane – abbiamo a che fare in questo caso con una proprietà espressiva poiché ciò che osserviamo mette in scena un certo stato emotivo, non un comportamento esteriore che lo accompagna costante-mente e che, solo per questo, può fungerne da segno. La gioia del cane è anche questo – salterellare proprio così. In questo caso, se qualcuno mi chiedesse di spiegare che cosa è la gioia potrei additare un comportamento proprio così.

Della plausibilità di questa distinzione ci si convince, io credo, se ci si sofferma su due differenti constatazioni.

1. Qualche volta le emozioni si celano persino a chi le vive e posso scoprire di essere inquieto se qualcuno mi fa notare che non so darmi pace nei miei gesti e nei miei com-portamenti: mi scopro inquieto perché mi agito sulla sedia, mi alzo di continuo, cambio occupazione, e così via. Non posso invece scoprirmi felice guardandomi allo specchio e vedendo che ho la bocca atteggiata in un certo modo: il sorriso è un criterio che ci consente di asserire che qualcuno è felice, ma non è parte della descrizione della sua felicità.

2. Non facciamo che sviluppare queste considerazioni se osserviamo che non pos-siamo dire di una bocca piegata in un certo modo che è un sorriso se non è effettivamente segno di gioia (o se non pretende di esserlo): ciò che fa di una bocca atteggiata in un certo modo un sorriso è solo il suo essere segno naturale dell’esserci di un certo stato d’animo. Nel caso delle proprietà espressive le cose non sembrano stare così. In questo caso il no-stro discorrere di un carattere espressivo di una determinata scena non è vincolato all’at-tribuzione effettiva di uno stato emotivo ad una soggettività determinata e di fatto diciamo che un certo modo di fare resta inquieto anche se chi si comporta in quel modo è tranquillo ed anche se non intende ingannare nessuno comportandosi così.

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Credo che, ad un primo livello, non sia difficile comprendere la ragione di questo fatto. Essere segno di qualcosa è una relazione estrinseca che può essere attribuita ad un certo oggetto, senza per questo incidere sulla sua configurazione fenomenica: una certa piega della bocca è un sorriso solo se possiamo coglierlo come un segno di gioia. Diversamente stanno le cose quando abbiamo a che fare con le proprietà espressive. Un gesto resta cauto anche al di là delle intenzioni di chi l’ha compiuto ed anche se a rigore non è affatto un gesto perché può sembrarci cauto anche il movimento di una cosa e questo perché ciò che si manifesta non è segno di uno stato d’animo timido o timoroso, ma coincide almeno in parte con la descrizione di ciò che per noi vuol dire essere timidi o timorosi. E questo significa: nel momento in cui cogliamo la cautela di quel gesto non stiamo dicendo che è segno di un certo stato d’animo, ma stiamo descrivendo il modo in cui quel gesto ci appare – stiamo dicendo che è un gesto che ha una certa configurazione sensibile che non è pos-sibile descrivere se non nelle forme di un linguaggio carico di espressività. Ne segue che dire che qualcosa ha una proprietà espressiva non significa attribuirle anche uno stato emotivo determinato; ma non significa nemmeno sostenere che ciò che esperiamo ci ri-corda qualcosa: vuol dire invece asserire che ciò che vediamo ha le forme della tristezza, della gioia o della malinconia. Vediamo in quel comportamento la malinconia perché parte di ciò che chiamiamo malinconia l’abbiamo colto appunto in quei gesti e in quei movimenti.

Vorrei provare a chiare ciò che intendo con un’analogia che può forse insegnarci qual-cosa. Se osserviamo una stoffa, possiamo vederne la morbidezza così come possiamo ve-dere la pesantezza di un macigno che si oppone alla forza di chi tenta di smuoverlo. Non credo che si tratti di espressioni soltanto metaforiche, né che si possa renderne conto di-cendo che abbiamo a che fare con caratteri che si accompagnano alla percezione tattile della morbidezza o della pesantezza e ne sono quindi divenuti i segni. La situazione feno-menologica sembra essere un’altra: c’è qualcosa in ciò che vediamo che possiamo descri-vere solo così, parlando ora di morbidezza, ora di pesantezza. C’è qualcosa nella morbi-dezza di un tessuto che si vede e che non si tocca, ed anche se è al tatto che spetta l’ultima parola, ciò che vediamo appartiene comunque alla descrizione di quella qualità, anche se non ne mette in luce il nucleo centrale. Così, se anche dovessimo venire a scoprire che il macigno è di cartapesta o che la stoffa che ci sembra così delicata è spessa e infeltrita, morbidezza e pesantezza resterebbero comunque tratti che appartengono a ciò che ve-diamo: vediamo la morbidezza della stoffa e la pesantezza del macigno anche se non pos-siamo per altre ragioni attribuire realmente quelle proprietà agli oggetti che abbiamo sott’occhio.

Qualcosa di simile accade appunto anche nel caso delle proprietà espressive. Che cosa sia la tristezza e che cosa l’allegria lo sappiamo perché lo viviamo: tristezza e allegria sono stati nei quali tutti siamo passati, infinite volte. Questo tuttavia non significa che dire di una persona che sia triste o allegra voglia sempre e necessariamente dire che prova quei vissuti che abbiamo provato poco fa o che stiamo provando ora: un comportamento può essere allegro anche se chi lo mette in scena non prova un vissuto determinato. La mattina, quando mi sveglio, sono di solito di buon umore e lo si vede dai gesti e dai modi in cui mi comporto, ma se qualcuno mi chiedesse che vissuto provo, forse non saprei affatto come rispondere. Certo, ora che me lo chiedi, ti potrei rispondere che sono allegro, ma questo non significa necessariamente che avverta qualcosa dentro di me, ma solo che fac-cio tante cose, che mi preparo volentieri il caffè, che penso a quello che devo fare, che scendo a due a due i gradini per salutare chi sta uscendo, e così via. Il mio umore lo vedi tu, come lo vedo io – e può talvolta capitare che ci si accorga dell’umore di un altro ben prima che questi se ne renda consapevole. E lo stesso accade con la tristezza: si può essere

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tristi anche senza che si avverta un vissuto particolare, ed anzi forse questa tristezza – quella che non si annuncia in una sofferenza avvertita – è quella che più ci spaventa. In un film di Uberto Pasolini, Still life, si narra la vita silenziosa e meticolosa di un impiegato comunale che deve preoccuparsi di ritrovare per le persone che sono morte in solitudine una famiglia o dei conoscenti che possano conservarne il ricordo. John May, così si chiama il personaggio di questo film, è un uomo meticoloso e paziente, ed ogni suo gesto della sua vita lascia intravedere malinconia che soffoca ogni desiderio di felicità e un restringersi doloroso dei suoi orizzonti di vita, ma non vi è davvero bisogno anche soltanto di pensare che di tanto in tanto ne soffra. Ad essere malinconici sono i suoi gesti, il suo paziente incollare su un grande album che tiene in casa le fotografie e le lettere dei morti che sono rimasti senza un nome: di altro non c’è davvero bisogno.

Discorrere di proprietà espressive e non di meri segni è importante perché ci consente di mettere da canto una falsa immagine delle proprietà espressive senza espressione: l’im-magine che ci spinge a pensarle come se fossero maschere mute che rammentano per errore un’espressività appresa altrove. Di contro a una simile immagine, dobbiamo invece sostenere che le proprietà espressive senza espressione inscenano ciò che esprimono per-ché sono parte della definizione di ciò che esprimono: proprio come vediamo la gioia nel cane che salta intorno al padrone, così sentiamo la dolcezza di una sera d’estate. Una musica malinconica non ha una forma che ci ricorda la malinconia, ma mette in scena ciò che chiamiamo malinconia – la differenza è qui.

A partire di qui sembra possibile tracciare un quadro relativamente definito del nostro problema. Quando guardo un tramonto avverto la sua malinconia, ma questo non significa che io ritenga che il sole debba essere compatito o che provi davvero le emozioni che si impongono alla nostra percezione: perché una proprietà espressiva possa essere anche una proprietà che esprime un certo stato d’animo e che ci consente di attribuire ad un soggetto, reale o immaginario che sia, un certo vissuto, alcune determinazioni contestuali debbono essere soddisfatte. Un sorriso ride soltanto in un volto umano, scriveva Wittgenstein – e per quanto diverse siano qui le nostre considerazioni da quelle che animano quest’osser-vazione wittgensteiniana, su un punto mi sembra possibile concordare: noi vediamo le proprietà espressive e ne cogliamo la determinatezza, ma per poterle cogliere come espressione di un vissuto particolare è necessario un contesto che le motivi e che le sor-regga. L’accartocciarsi della foglia riarsa e il rivo strozzato che gorgoglia rendono visibile il male di vivere – così almeno scriveva Montale, ma di per sé non ci porgono il contesto adeguato su cui l’attribuzione di quello stato d’animo possa far presa: il male di vivere non è qualcosa che possa davvero caratterizzare lo stato di una foglia o lo scorrere dell’ac-qua perché non possiamo intendere le ragioni di quell’accartocciarsi come se fossero an-che i motivi del suo esser così. E tuttavia, il venir meno del contesto che ci consente di attribuire sensatamente uno stato d’animo reale sul fondamento delle proprietà espressive che percepiamo non modifica la configurazione fenomenica di ciò che abbiamo di fronte agli occhi e non lo rende per questo descrivibile se non così – come una scena espressiva-mente carica. Nella foglia accartocciata vediamo una sofferenza che non possiamo attri-buirle. Dobbiamo dunque concludere che afferrare una proprietà espressiva in quanto tale e attribuire uno stato emotivo sono due cose distinte. Una proprietà espressiva è una proprietà puramente fenomenica: non si può attribuirla a torto, anche se si può sbagliare nell’attribuirla perché si può veder male. Uno stato emotivo, invece, è uno stato reale: c’è o non c’è, e si può quindi aver torto nell’attribuirlo anche se non sbagliamo nell’attribuirlo. E viceversa. Così, diciamo di avvertire la malinconia del crepuscolo non perché la confi-gurazione fenomenica del sole che lentamente scivola sotto l’orizzonte ci consenta di at-tribuire immaginativamente uno stato emotivo di cui il tramonto sarebbe il segno, ma

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perché la descrizione complessiva di quel fenomeno ci costringe almeno in parte a mettere in luce quegli stessi tratti di cui ci avvaliamo per descrivere la tristezza. Il tramonto ci sembra triste perché la tristezza è fatta almeno in parte così – perché vediamo la tristezza nel sole che cala all’orizzonte, anche se poi il contesto complessivo cui quella scena ap-partiene ci impedisce di affermare che sia una tristezza effettiva. Il lento calare del sole non ha motivi che ne spieghino la malinconia e il suo lento spegnersi non si lascia com-prendere come parte di un agire. Non si lascia comprendere così, anche se ne ha la forma. Ma il punto, come avrebbe detto Kant per il giudizio di gusto, è che le proprietà espressive non si muovono sul terreno del concetto e si danno prima di una qualche subordinazione concettuale. Viviamo la malinconia che si esprime nel tramonto, anche se sappiamo che non c’è, proprio come possiamo avere paura di camminare su una lastra di vetro che spa-lanca visivamente sotto di noi l’abisso, anche se sappiamo che sosterrà senz’altro il nostro peso.

Vorremmo fermarci qui, ma i nostri problemi non sono ancora del tutto risolti. Certo, la malinconia del sole al tramonto la viviamo perché si tratta di un’esperienza che cresce sulla passività della percezione e non di un concetto: non ha bisogno di giustificazioni per farsi avanti. E tuttavia riconoscere che così stanno le cose non significa ancora avere sciolto il nodo intorno a cui ci affatichiamo. Dire che un comportamento è espressivo anche senza che vi sia bisogno, o possibilità, di accedere alla dimensione psichica di chi lo compie non significa sostenere che non abbia senso interrogarsi sulla sua veridicità. Tutt’altro: ci chiediamo molto spesso come stiano le cose quando vediamo qualcuno com-portarsi in un certo modo, e ha sempre senso chiedersi se un gesto sia davvero inquieto o aggressivo e se chi agisce così è davvero felice o finge di esserlo. La via per farlo ci è ben nota: ci conduce da quel gesto al contesto di cui è parte e ci invita a comprenderlo meglio, a coglierne le motivazioni, a renderlo esplicito nei suoi nessi esplicativi. Le proprietà espressive si danno nella percezione come una voce istintiva che non può essere tacitata, ma si dispiegano solo in una prassi percettiva sorretta da credenze, da interessi di varia natura e da pensieri. Non posso non vedere la malinconia dei gesti di una persona triste, ma quest’immediatezza si approfondisce e si fa ricca e piena solo quando quei gesti si dispiegano alla luce delle motivazioni che li sorreggono. Se questi motivi non ci si danno e se l’espressività non trova conferma nel suo contesto, possiamo sì viverla, ma non ac-cordarle un significato particolare. In un certo senso, tutto è già racchiuso nell’esempio di cui ci siamo avvalsi poco fa. Possiamo avere paura di camminare su una lastra di vetro anche se sappiamo che ci sosterrà, ma questo non toglie che l’emozione che proviamo è in qualche misura addomesticata dalla ragione ed è priva della sua serietà: è una paura immotivata, ed una paura senza motivi non è solo una paura che si rivela irrazionale, ma è una paura che si esaurisce nel brivido che ci percorre la schiena. La sentiamo senza avvertirla e la viviamo sullo sfondo della ragione che la nega. Quello che resta è una parvenza priva di serietà.

Queste considerazioni sembrano essere necessariamente chiamate in causa quando ab-biamo a che fare con le proprietà espressive senza espressione. In questo caso, infatti, sembra essere non soltanto falso, ma addirittura impossibile prendere sul serio il compor-tamento che ci sembra espressivo. Vediamo nel rivo strozzato la fatica di vivere, ma che cosa potrebbe farci dimenticare che un ruscello non può essere stanco di vivere? Posso davvero dimenticarmi, anche se solo per un attimo, che l’acqua non è viva e che, proprio per questo, non può sentire il male di vivere? La risposta sembra ovvia: non posso dimen-ticarmelo, perché il contesto della mia esperienza lo ripete a chiare lettere, così come mi ripete che il sole non è malinconico al tramonto o che le sere d’estate non sono colme di un appagamento sereno.

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Di qui il problema che dobbiamo affrontare: che cosa ci consente di avvertire le pro-prietà espressive senza espressione, senza svuotarle, sin da principio, del loro senso e della loro serietà?

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LEZIONE DODICESIMA

1. Esperienze contestuali e a-contestuali

Per venire a capo del nostro problema è forse opportuno lasciarci innanzitutto guidare da un’analisi fenomenologica che ci indichi un possibile percorso e che ci consenta di avvi-cinarci, passo dopo passo, alla nostra meta. Muoviamo allora in primo luogo da un genere peculiare di esperienze in cui siamo costretti a modificare la nostra attribuzione di espres-sività dal rimando ad una dimensione contestuale: la situazione del mentitore. È capitato a tutti almeno una volta: qualcuno si finge addolorato per un danno che ci ha arrecato e allora si scusa e si accusa, si agita e si lamenta e mostra tutti i segni esteriori di un penti-mento cui tuttavia non possiamo credere, perché mentre lo vediamo strapparsi le vesti nel tentativo di rendere scusabili le sue gesta sappiamo che sta continuando a fare ciò di cui ora si dichiara pentito. Non gli crediamo, e basta sottrarre la fiducia che stavamo per ac-cordargli e in cui, nella norma, viviamo perché quei gesti rivelino la loro vera natura e ci appaiano per quello che sono: sullo sfondo di un contesto che ci impedisce di compren-derle per quel che pretendono di essere, vediamo farsi avanti piccole sfumature di com-portamento che svuotano del loro senso apparente i gesti che vengono compiuti davanti ai nostri occhi. Ora che so che non sei affatto pentito, vedo bene la natura dei tuoi gesti e colgo ciò che forse avrebbe potuto sfuggirmi: la piega insincera di un movimento, il tono troppo umile della voce, l’assenza di pause che fa pensare ad un discorso mandato a me-moria. Le cose stanno appunto così. Quando vogliamo capire davvero il senso di un com-portamento cerchiamo di scorgere le sfumature di senso che lo caratterizzano e di ricolle-garle alla situazione cui appartengono; in un senso ampio del termine, contestualizziamo l’azione cui assistiamo, cercando di vedere come reagisce al tutto di cui è una parte. Chi mente, di solito, esagera perché non ha la misura del contesto: la gentilezza diventa un-tuosa, un fare ben disposto nei confronti dell’altro assume le forme di una sottomissione ipocrita e servile.

Diversamente stanno le cose quando qualcuno apertamente recita un comportamento determinato. Un attore non ci sembra untuoso quando mette in scena la gentilezza e non lo troviamo ipocrita, a meno che non reciti la parte di un ipocrita come Tartufo. La diffe-renza, tuttavia, riposa più dalla parte dello spettatore che dell’attore. Un attore non ripete esattamente il comportamento di chi realmente è mosso da una certa passione e se lo spet-tatore cercasse davvero di saggiare la bontà del suo dire e gestire, riconducendolo al con-testo reale in cui si trova, non sarebbe difficile mettere in luce una serie di incongruenze. Tutt’altro: quelle incongruenze sono talmente evidente che lo spettatore non ha nemmeno bisogno di cercarle. L’evidenza dell’inconciliabilità di principio del contesto teatrale con l’universo che lo ospita si traduce tuttavia nel venire meno della prassi volta a saggiare la veridicità della scena e ad accettare come un fatto evidente che ciò che si recita non avanza una pretesa di realtà, ma chiede solo di divenire tema del nostro interesse di spettatori.

Il punto è questo: chi guarda uno spettacolo teatrale in linea di principio non avanza alla scena quelle domande che lo costringerebbero a stravolgerne il senso. Lo spettatore si accontenta di quello che vede e non chiede come sia possibile che recita dopo recita Otello non si sia convinto della onestà di Desdemona e non si domanda come possa accadere che Adelchi, ferito a morte, abbia il tempo e la lucidità per spiegare al padre che cos’è la storia e quale la radice feroce e ingiusta del potere. Lo spettatore non si pone queste domande perché non ha alcun interesse ad ascoltare la risposta: guarda lo spettacolo e lo coglie nella sua esplicita a-contestualità. Certo, lo spettatore percepisce la differenza che separa i la-menti di un uomo che muore realmente dal farsi via via più franta della sintassi di Adelchi

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e non può non rendersi conto della differenza che separa ciò che accade sul terreno della realtà da ciò che si recita nello spazio finzionale del palcoscenico, ma questo non significa che debba per questo riconoscerne la falsità. Lo spettatore sente che la morte di Adelchi è recitata, ma non è costretto a sentirla falsa: falsa sarebbe se pretendesse di essere vera e di avere un suo spazio reale nel mondo – quello spazio cui rinuncia in virtù della sua a-contestualità. Ciò che recita sulla scena teatrale non ci vuole ingannare e non è una men-zogna perché non pretende di essere vero e non pretende di essere vero perché accetta la misura che gli è imposta dal carattere stesso della recitazione e dalla chiusura esemplare dello spazio scenico: assistiamo ad uno spettacolo che accetta di essere privo di una pre-tesa veritativa e che rinuncia fin da principio ad avere un posto nella storia e nel tempo obiettivo del mondo. Ne segue che se tentiamo di descrivere ciò che sulla scena si recita dobbiamo mettere da canto il linguaggio reale delle emozioni e degli eventi e questo si-gnifica che dobbiamo da un lato riconoscere che ciò che accade sulla scena non pretende di essere vero nel mondo, ma non può nemmeno essere inteso come se fosse qualcosa di falso. Non si può dire che nell’Otello si insceni una gelosia reale, ma non si può nemmeno sostenere che quella gelosia che vediamo recitare di fronte a noi sia parte di un inganno e che debba essere negata come se si trattasse di un’apparenza ingannatrice: lo spettatore di quel dramma assiste infatti ad un evento sui generis e ad una gelosia sui generis che non possono essere misurate con il metro della realtà, poiché si tengono intenzionalmente di-stinte da quella. Per dirla in breve: una gelosia recitata non è una gelosia reale, ma non è nemmeno una falsa gelosia, perché il predicato «recitata» si pone come un indice che determina non l’oggetto cui si applica, ma la natura che gli è propria. Una gelosia recitata è una gelosia che appartiene alla dimensione a-contestuale della finzione scenica3.

Qualcosa di simile accade quando ci imbattiamo nelle proprietà espressive senza espressione. C’è un tratto che accomuna l’una all’altra la percezione di uno spettacolo teatrale e l’afferramento delle proprietà espressive senza espressione, ed è che queste ul-time si danno all’interno di un contesto che esclude fin da principio la loro realtà. Un’espe-rienza ingannevole è un’esperienza che si inscrive nell’ordine del possibile: posso fingere di essere addolorato per quello che ti è accaduto perché in generale posso provare com-

3 Chi guarda un’immagine vede aprirsi davanti a sé una profondità apparente, ma questo non

significa affatto che nella norma si inganni. Lo spettatore guarda l’immagine ed è ben consapevole del carattere peculiare di quella profondità, del suo essere presente come uno spettacolo che deve essere tenuto separato dalla profondità reale dello spazio che la ospita. La profondità raffigurata è appunto una profondità apparente, ma questo non significa che sia una profondità che abbiamo creduto reale e che, proprio per questo, dobbiamo riconoscere ora nel suo carattere illusorio. Le cose non stanno così: la profondità raffigurata è apparente perché l’immagine ci appare fin da principio come uno spazio a se stante che non può e non deve essere commisurato con il mondo e con lo spaio reali. Se la saggiamo con il metro della realtà, l’immagine si rivela per quello che è: una superficie bidimensionale. Nessuno, tuttavia, ci costringe a farlo; nessuno ci costringe a toccare la tela o a porre in contrasto l’incedere reale della profondità con il passo incerto della sua ripro-duzione figurativa; tutt’altro: quando guardiamo un’immagine dobbiamo, per un attimo, lasciarci guidare dalle regole di uno spazio a-contestuale e accettare di attribuire al linguaggio della spazia-lità una forma sui generis – quella che ci consente di dire di figure che appartengono ad uno stesso piano che sono una davanti all’altra. Lo stesso accade con le proprietà espressive senza espressione: averne esperienza significa disporsi in una dimensione a-contestuale e accettare il linguaggio sui generis delle proprietà espressive senza espressione – il loro parlarci seriamente di un’espressività che, a rigore, non ha luogo.

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passione per gli altri e posso provare dolore. Le cose non stanno così nel caso delle pro-prietà espressive senza espressione che sembrano fin da principio poggiare su un vero e proprio errore categoriale: si impongono alla percezione e le viviamo nel loro senso, ma non possiamo coglierle attribuendo loro un’effettiva realtà. Ma ciò che non può avere un posto reale nel mondo può guadagnare una sua serietà quanto più sa porsi come tema di un’esperienza che si fa a-contestuale. Esperienze come la malinconia del tramonto, l’in-quietudine di una forma o la dolcezza di un suono sono proprietà che si impongono alla percezione e che non sono tacitate dal si danno con crescente chiarezza e pienezza quanto più sanno segregarsi dal contesto di mondo cui appartengono ed assumere la forma di uno spettacolo, cui assistiamo. C’è nel farsi avanti delle proprietà espressive senza espressione un vero e proprio retrocedere del contesto di mondo cui appartengono e tanto più viva è l’espressività che ci sembra di scorgere, tanto più esile si fa il nesso che lega al contesto la scena che osserviamo. È un’esperienza che abbiamo fatto tutti: per potere apprezzare la vitalità di un temporale estivo dobbiamo starcene ben chiusi in casa o almeno dobbiamo aver trovato rifugio dentro un portone perché solo quando troviamo rispetto agli eventi una posizione che li mette a distanza è possibile indugiare sul fenomeno della loro espres-sività. Ed un discorso analogo vale per un paesaggio che ci pare tanto più espressivo, quanto più sappiamo coglierlo nella sua separatezza dal contesto di mondo cui appartiene.

Possiamo trarre allora una prima conclusione di carattere generale. Le proprietà espres-sive senza espressione si fanno vive per noi quanto più si ottunde la coscienza della realtà. Si manifestano quando concediamo loro uno spazio autonomo e ci immergiamo in una percezione che sconfina nella rêverie. Victor Hugo la definisce così:

Tutto questo non era né una città, né una chiesa, né un fiume, né colore, né luce, né ombra; era rêverie. – Sono rimasto a lungo immobile, lasciandomi dolcemente pe-netrare da questo insieme inesprimibile, dalla serenità del cielo, dalla malinconia dell’ora. Non so che cosa capitava nel mio spirito e non potrei dirlo, era uno di que-gli istanti ineffabili in cui si sente in se stessi qualcosa che si sveglia (G. Bachelard, Poetica della rêverie, a cura di G. Silvestri Stevan, Dedalo, Bari 1975, p. 19).

Hugo scrive così: «uno di quegli istanti ineffabili in cui si sente in se stessi qualcosa che si sveglia» e quest’affermazione – sulla cui rilevanza attira la nostra attenzione Gaston Bachelard – deve essere spiegata, perché la rêverie sembra invece per sua natura ricon-durci in prossimità di una sorta di sogno ad occhi aperti. Ma una cosa non contraddice l’altra: nella rêverie è la realtà nella sua determinatezza che viene messa a tacere e, corre-lativamente, è l’io della vita concreta che si assopisce per dare spazio ad un io che fanta-stica e che si perde nella contemplazione sognante di un fenomeno. Nella rêverie si desta l’io che fantastica e sogna; e il suo destarsi coincide con l’assopirsi della coscienza della realtà.

Vorrei sostenere che qualcosa del genere accade quando ci immergiamo sino in fondo nella contemplazione di un tramonto o ci lasciamo catturare dalla luminosità gioiosa di un mattino primaverile: per un breve arco di tempo prendiamo commiato dalla realtà e ci immergiamo nella scena che ci si presenta, mettendo da canto ogni domanda che pretenda di superarla, invitandoci a connetterla ad un contesto. Così facendo, la scena guadagna una su indipendenza dal mondo e non ci chiede di saggiare la plausibilità del suo conte-nuto espressivo: rinunciamo a vagliarne la realtà e possiamo proprio per questo salvare il suo manifestarsi dalla voce critica della ragione che ci costringerebbe a riconoscere che di fatto non vi è nulla che nel mondo corrisponda a quell’esprimere. Non abbiamo bisogno di dimenticarci nemmeno per poco che la malinconia è realmente di casa solo là dove vi è un soggetto, ma non per questo siamo invitati a ricordarcene e a prenderne atto: ci basta

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lo spettacolo cui assistiamo e il suo mettere in scena una proprietà espressiva che non ci chiede di attribuire uno stato d’animo a nulla, ma che egualmente si mostra e si rende esperibile.

Che la a-contestualità delle proprietà espressive senza espressione abbia come suo con-trocanto l’atteggiamento sognante della rêverie non è difficile comprenderlo, così come non è difficile comprendere il nesso che lega la a-contestualità delle proprietà espressive senza espressione ad un atteggiamento in senso lato immaginativo. Le cogliamo e le ap-prezziamo davvero quanto più accettiamo di dare alla nostra esperienza una piega imma-ginativa – quando accettiamo che la presa sulla realtà si allenti e l’esperienza si leghi ad un fantasticare ad occhi aperti, che mette da canto il problema della realtà per limitarsi alla dimensione spettacolare dell’esperienza, al compiersi della sua recita. Insomma: le proprietà espressive senza espressione si incontrano lungo il cammino che conduce l’espe-rienza verso l’immaginazione.

La contemplazione estetica, scriveva Kant, non implica l’esistenza dell’oggetto e anche in questo caso, sia pure secondo una prospettiva di cui è opportuno sottolineare la diver-sità, possiamo condividere la tesi kantiana. Le proprietà espressive senza espressione sono proprietà intuitive che semplicemente percepiamo, ma per poterle cogliere in tutta la loro serietà è necessario disporsi in una forma di esperienza che sconfina con l’immaginazione. Le proprietà espressive senza espressione si pongono così come forme di un’esperienza che prende progressivamente commiato dalla realtà.

2. Un accenno ad un insieme di problemi assai vasto

Nelle riflessioni che abbiamo appena proposto ci siamo soffermati sul nesso che lega le proprietà espressive senza espressione alla dimensione immaginativa. Di qui si dipartono molte strade che andrebbero sviluppate e discusse in modo approfondito. Non ne abbiamo più il tempo e possiamo semplicemente formularle, per ricordarci che ci sono e che do-vremo discuterle, prima o poi.

Una prima direzione di analisi ci riconduce al terreno dell’immaginazione artistica e mitica. In fondo c’è qualcosa che accomuna mitri e riti alle molteplici valorizzazioni che si danno sul terreno dell’immaginazione artistica ed è il fatto che nell’uno e nell’altro caso le proprietà espressive senza espressione trovano una loro motivazione immaginativa. Nell’uno e nell’altro caso le proprietà espressive trovano un contesto che ci consente di articolarle, una narrazione che ci permette di intenderle in un significato più ricco e defi-nito.

Così stanno le cose nel caso del mito. Pensiamo ancora una volta al sole e al suo tra-montare e pensiamo a quanti riti e miti ci insegnano a dipanare la malinconia che si im-pone alla nostra percezione, disponendola in un contesto che non è il contesto mondano della realtà. Il mito ci insegna a trovare una ragione per la fine del giorno e per la sua evidente malinconia e ci invita a credervi – sia pure nella forma peculiare in cui si “crede” ai miti e in generale alle forme dell’immaginazione religiosa. E ciò che vale per l’imma-ginazione mitica, vale anche per l’immaginazione artistica che di fatto ricrea un contesto che ci consente di cogliere la malinconia del tramonto alla luce di una molteplicità di ragioni che la motivano e che da un lato ci permettono di leggerla come se fosse immagi-nativamente presente nelle cose stesse e, dall’altro, ci invitano ad intenderla in una dire-zione determinata: non più una malinconia generica e priva di ogni ulteriore determina-zione, ma questa peculiare malinconia che si dispiega in questa situazione determinata e che veicola questi pensieri e queste decisioni di fondo. Così se guardiamo il tramonto che Bellini dipinge sullo sfondo della Imago pietatis di Brera non possiamo non renderci conto che quella scelta non è soltanto motivata dalla natura di quel dipinto – un Vesperbild,

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appunto – ma da un’istanza espressiva evidente: dobbiamo immaginare che la tristezza di quel tramonto sia una forma in cui si manifesta la partecipazione cosmica al dramma che si consuma nel primo piano del quadro. Al dolore chiuso di Maria e alla protesta dolorosa di Giovanni che distoglie lo sguardo dal corpo morto di Gesù, fa eco la malinconia onni-pervasiva e profonda del tramonto che in questo caso possiamo comprendere solo se la leggiamo alla luce di un progetto immaginativo che è sorretto, tra le altre cose, dalla con-vinzione che il creato partecipi al dramma del creatore. Non un tramonto qualsiasi e non una malinconia generica, ma una sofferenza carica di implicazioni religiose. Gli esempi potrebbero essere moltiplicati. Potremmo soffermarci sul tramonto come constatazione malinconica ed esemplare della finitezza della vita – ed è il caso di Friedrich o potremmo cercare nell’inquietudine del tramonto l’immagine onirica di una minaccia velata, come accade in un quadro enigmatico di Redon, ma vorrei concludere invece con un rimando più leggero a una poesia di Heine che sembra riflettere, con l’ironia che lo contraddistin-gue, sulla distinzione che stiamo tracciando. Heine ci propone dapprima una descrizione del tramonto – del tramonto proprio così come immediatamente lo percepiamo, nella sem-plicità un po’ kitsch del suo carattere espressivo. Le proprietà espressive ci appaiono in-nanzitutto così – nella astratta semplicità che deriva dal loro essere necessariamente prive di un contesto che le articoli e le giustifichi. Le cose mutano quando le proprietà espres-sive vengono disposte in un contesto immaginativo nuovo che, per Heine, implica una riflessione più generale sulla nostra moderna incapacità di avvertire la dimensione co-smica degli eventi, sul nostro essere in generale chiusi in una dimensione privata e irri-mediabilmente borghese – ed è così che nella seconda parte della sua poesia Heine ci invita a leggere la malinconia del tramonto: alla luce domestica di una vita familiare priva di passione e insterilita dagli anni. Quanto all’amico che nella poesia suggerisce al poeta il racconto che deve guidarlo nel costruire un contesto narrativo alla cui luce leggere il carattere espressivo del tramonto sappiamo bene come intendere la sua voce: è la voce dell’opera d’arte, il suo porsi come una realtà intenzionale e comunicativa che ci invita a costruire immaginativamente un contesto che dia un senso e uno sfondo di pensieri e di decisioni alle proprietà espressive che già percepiamo.

A questo tema se ne aggiunge un altro su cui ci siamo soffermati varie volte, ma che non abbiamo mai discusso approfonditamente – ed è il nesso che lega le proprietà espres-sive senza espressione alla nostra convinzione, tanto radicata quanto in fondo difficil-mente comprensibile, che questo mondo sia nostro e che sia conforme alla nostra vita. In fondo è proprio così: ci sembra ovvio che le giornate inizino e finiscano e che ci sia il ciclo dei giorni e il ciclo delle stagioni, quasi che ci fosse bisogno di far girare tanti astri nel cielo per ricordarci che il nostro tempo ha proprio questa forma. E tutto questo ci sembra tanto più ovvio, quanto più ci sembra di trovare un’eco delle nostre emozioni nel mondo. L’alba ha i toni pedagogici di un crescendo: ci rassicura sul giorno che verrà e inscena il trionfo della luce sul buio. Il tramonto ha un copione meno ottimistico e ci racconta la fine della giornata con una didascalia appropriata: recita la malinconia delle cose che finiscono. E il mare, il vento, e gli alberi – che hanno radici che si immergono nella terra e chiome che vanno verso il cielo – hanno anch’essi una loro esemplare espres-sività che ci sembra in qualche modo aiutarci a radicarci a nostra volta nel mondo. Ci ritroviamo nel nostro mondo perché lo troviamo nel suo recitare le nostre stesse emozioni, nel suo partecipare alla sua vita come noi partecipiamo alla nostra. Per dirla in breve: le proprietà espressive che ritroviamo nelle cose si pongono così come i mattoni con i quali ci sembra possibile costruire la nostra immagine del mondo. L’immagine di un mondo nostro. Avremmo dovuto discuterne a lungo – se solo ne avessimo avuto il tempo.