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Lingua e cultura - Giuseppe Guarino€¦ · 1 Orsolina Montevecchi, Bibbia e papiri, pag. 39. 8 sequenza delle consonanti, avremo nel nostro alfabeto YeHoVaH. In proposito Asher Intrater,

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  • Lingua e cultura ebraiche nel

    Nuovo Testamento

    Giuseppe Guarino

  • Copyright © 2016 Giuseppe Guarino

    All rights reserved.

    ISBN-13: 978-1533680280 ISBN-10: 1533680280

  • INDICE

    Introduzione 1

    1 La lingua del Nuovo Testamento 3

    2 Originali in ebraico perduti? 11

    3 Cultura ebraica nel Nuovo Testamento 15

    4 Parole ebraiche nel Nuovo Testamento 29

    5 Parole ebraiche nella nostra lingua 37

    6 I rotoli del Mar Morto 43

    7 Il Nuovo Testamento a Qumran 51

    8 Prassi qumraniana nel Nuovo Testamento 59

    9 Radici ebraiche ed universalismo della fede cristiana 67

    Conclusione 73

    Appendici

    I Abba, Padre 77

    II Chi erano i "magi"? 81

    III Il Tetragramma era negli originali del Nuovo Testamento? 89

    IV Il Tetragramma nel Nuovo Testamento – ulteriori riflessioni 97

    V Gesù o Yeshua? 105

    VI La dottrina di Gesù e la fede ebraica 111

    VII Il sabato è per l’uomo (o l’uomo per il sabato?) 115

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    INTRODUZIONE

    Il Nuovo Testamento è stato scritto in Greco Koinè, la

    lingua più diffusa al mondo quando il cristianesimo muoveva i suoi primi passi. Si trattava di un linguaggio quotidiano, parlato da mercanti e dal popolo. Lo potremmo rapportare benissimo all’inglese di oggi.

    Con il mandato di evangelizzare tutti i popoli e l’opera missionaria di Paolo, quella lingua era la più giusta per favorire la diffusione del Nuovo Testamento e del messaggio cristiano.

    Nonostante l’Evangelo e le Sacre Scritture siano ormai diffuse in tutto il mondo e tradotte in tutte le lingue, non possiamo disconoscerne le origini, le radici ebraiche della nostra fede.

    Gli apostoli e Gesù vissero in un ambiente culturale ebraico. L’ebraico e l’aramaico erano le lingue dei primi apostoli e discepoli. Ebraico il loro modo di pensare. Sebbene il loro insegnamento sia stato trasmesso fino a noi in lingua greca (e poi tradotto nelle nostre lingue) era impossibile che la mentalità e persino le parole della fede giudaica scomparissero del tutto.

    L’autentica essenza della nostra Fede, la sua origine ebraica, è oggi viva e vegeta nelle nostre Bibbie, vive nel nostro linguaggio, nelle abitudini delle nostre chiese. Terminiamo le nostre preghiere in tutto il mondo, in tutte le confessioni cristiane, con la parola ebraica Amen. Nell’adorazione gridiamo

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    al Signore Alleluia. Chiamiamo Gesù “Messia”, parola che viene direttamente ad entrare nel nostro linguaggio dall’ambiente religioso giudaico: “Cristo” è solo la traduzione greca dell’ebraico “Messia”. E sia in greco sia nelle nostre lingue, il significato è totalmente dipendente dalla cultura ebraica.

    Nelle pagine che seguono approfondirò questo argomento, a mio avviso molto interessante, ma anche rilevante per una migliore conoscenza della nostra identità di cristiani.

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    LA LINGUA DEL NUOVO TESTAMENTO

    Secondo i criteri di datazione che ho già proposto altrove, sono convinto che i libri che fanno parte del Nuovo Testamento sono stati scritti tutti entro il primo secolo d.C., nella lingua allora maggiormente diffusa: il greco. È vero che in quel periodo l'impero romano dominava da tempo tutte le terre che si affacciavano sul Mediterraneo, ma la sua potenza militare non era riuscita a spodestare la cultura e la lingua greche. Come la caduta dell'impero britannico non ha significato la fine della diffusione della lingua e cultura inglese - che continua inarrestabile - anche nel mondo antico, nonostante la prematura morte di Alessandro Magno, il grande promotore dell'ellenismo nel mondo, lo smembramento del suo vastissimo impero prima e l'inarrestabile e sistematica conquista romana poi, non riuscirono a porre fine al dominio mondiale della cultura greca. Già nel terzo secolo a.C., in Egitto, sotto la dinastia (greca) dei Tolomei, si era cominciato a tradurre la Bibbia ebraica in greco. Questa versione fu detta - e tale nome rimane fino ad oggi - dei Settanta (LXX), ovvero Septuaginta, a motivo del numero (fra storia e leggenda) dei traduttori originari del Pentateuco.

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    In quale greco venne approntata questa antica versione? La lingua del tempo offriva almeno due possibilità. La prima era quella di optare per il greco classico, l'elegante ma rigido linguaggio letterario. La seconda opzione era quella del greco Koiné, il greco parlato, il greco delle transazioni commerciali, dei documenti privati, più pratico e meno retorico, meno rigido, più fluido ed aperto all'innovazione ed al cambiamento - come sono di solito le forme colloquiali di tutte le lingue. La scelta della versione dei LXX ricadde sul Koiné. Ancora oggi la Settanta è oggetto di particolare studio ed offre spunti di riflessione sulla terminologia greca proposta per interpretare le parole ed i fatti della fede ebraica.

    Il mandato di Gesù agli apostoli era di diffondere la buona notizia della salvezza a tutto il mondo. “Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.” (Matteo 28:19) “... mi sarete testimoni in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e Samaria, e fino all'estremità della terra.” (Atti 1:8) La cosa più ovvia era che gli apostoli ed i loro discepoli ripiegassero sull'utilizzo del greco per le Scritture sacre della nuova fede, in modo da poterne assicurare la diffusione e la lettura al di fuori della cerchia ristretta del mondo ebraico. Anche per la composizione del Nuovo Testamento, la scelta non ricadde su una lingua colta e sofisticata, ma su un linguaggio che rendeva accessibile e chiaro il messaggio evangelico. Continuando il percorso già felicemente inaugurato dalla LXX, le Scritture cristiane furono scritte in Koiné. Ovviamente il Nuovo Testamento, da un punto di vista

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    squisitamente letterario, non è opera di un solo scrittore. Purtroppo nelle sue versioni in italiano, l'intervento determinante del traduttore – sostanzialmente, sebbene non in maniera premeditata – uniforma lo stile dei singoli libri che lo compongono. Leggendolo invece nell'originale greco, questa omogeneità non si riscontra affatto. Mettendo Marco a confronto con Giovanni, è evidente la netta differenza di stile e di linguaggio. Paolo, poi, è ancora diverso. Per non parlare di Luca, la cui introduzione al vangelo è scritta in un greco piuttosto sofisticato - anche questo favorì la popolarità della sua opera presso alcune fazioni gnostiche avverse all'ebraismo. Tutti gli autori del Nuovo Testamento - mi sento di dire, quindi, anche l'Autore dietro gli autori che è lo Spirito Santo - hanno rinunciato agli schemi fissi, alla retorica artificiosa della lingua letteraria, preferendo la vitalità ed immediatezza della lingua koiné. Le ripercussioni di tale scelta sono state stupefacenti e le sperimentiamo quotidianamente nella lettura della Parola di Dio, nel modo in cui la comprendiamo e viviamo. Il greco del Nuovo Testamento è quindi semplice e chiaro, ma non elementare o banale: non è sofisticato, perché vuole innanzi tutto comunicare; ma non rinuncia ad esprimere una propria identità e quelle caratteristiche che ne fanno un fenomeno letterario di tutto rispetto. Vale la pena evidenziare il felice connubio fra cultura ebraica e lingua greca. Per quanto riguarda invece le influenze della cultura greca su quella ebraica, le idee sono state diverse in vari ambienti ed in vari periodi storici. Alcuni hanno attribuito un ruolo preponderante al senso del contributo greco - a mio avviso immotivatamente: l'ebraismo non disconosceva di fatto i meriti del mondo greco e accettava il valore della sua lingua, ma non era certamente pronto a soccombere ai suoi schemi culturali. La tradizione ebraica era troppo forte e troppo sicura della propria identità ed eredità

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    perché potesse facilmente cedere ad influenze esterne. Ecco quindi che il linguaggio della LXX e quello del Nuovo Testamento, suo logico prosieguo, è allo stesso tempo semplice, ma innovativo: chiaro, ma vivo e stimolante. La parola greca “agape” (in alfabeto greco: αγαπη), famosa anche al di fuori della cerchia di chi studia il greco biblico, è propria della traduzione dei LXX e del Nuovo Testamento: non la si trova infatti nel greco classico. La famosa parola greca “zoe” (ζωη) che significa “vita”, è stata adottata dalla Bibbia, in particolare dal Nuovo Testamento e dagli scritti di Giovanni, per ricevere connotati più definiti e specifici di quanto il termine greco in sé non intendesse originariamente comunicare. È incredibile come un vocabolo colloquiale sia stato arricchito di significato al punto da reinventarlo quasi del tutto, mantenendo soltanto la riconoscibilità della sua forma, per trasmettere dettagli nuovi e meravigliosi. L'uso giovanneo della parola “zoe”, “vita” in particolare, le dona connotati di una profondità spirituale davvero notevole. Un vocabolo degno di nota particolare è quello non attestato nel greco classico, ma che troviamo nell' Apocalisse: “pantokrator” (παντοκράτωρ), cioè “onnipotente”. Il contesto in cui esso viene utilizzato è solenne, in armonia con la forza di un'espressione di questo genere. Al di fuori dell'Apocalisse, il Nuovo Testamento lo riporta soltanto in 2 Corinzi 16:18. “Io sono l'alfa e l'omega”, dice il Signore Dio, "colui che è, che era e che viene, l'Onnipotente”. (Apocalisse 1:8) Giovanni prese in prestito la parola “pantokrator” dai brani dell'Antico Testamento dove i LXX avevano reso così

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    l'espressione ebraica che le nostre Bibbie traducono in italiano “SIGNORE degli Eserciti” ovvero “Eterno degli Eserciti”. In Nahum 2:13, ad esempio, la LXX riportava, translitterato nel nostro alfabeto: Kyrios Pantokrator (gr. κύριος παντοκράτωρ), che letteralmente significa: “Signore Onnipotente”. Perché questa scelta da parte dei traduttori in greco dell'Antico Testamento? Pantokrator “(che pure è stato usato per tradurre Sebaoth anche nei libri più antichi) interpreta l'espressione nel significato più universale: non nel significato originario di , che dà al suo popolo la vittoria sui nemici, bensì nel senso di [...] l'evoluzione di significato dell'espressione ebraica Sebaoth ha la sua continuazione nella parola greca, che fu scelta per tradurlo (o addirittura coniata a questo scopo) ...”1 Le affermazioni di questa studiosa gettano luce sul fenomeno della cultura religiosa ebraica che si spinge al di fuori dei suoi confini, per divenire la cultura propria di chiunque voglia avvicinarsi alla fede del Dio unico ebraico. In questo contesto non sarà inopportuno notare un ulteriore dettaglio nelle parole dell'Apocalisse: quando Giovanni si riferì a Dio come Colui “che è, che era e che viene”, esprimeva una valenza - evoluzione universalistica di un termine ebraico, simile a quella che ha portato alla nascita ed uso di "pantokrator". Giovanni conosceva il Tetragramma, YHVH (in ebraico יהוה), il Nome di Dio rivelato a Mosè nell'Antico Testamento, ma anziché proporlo nell'originale, preferì trasmetterne il significato al lettore di lingua greca. Le quattro consonanti ebraiche vengono vocalizzate nel testo Masoretico, e, aggiungendo semplicemente le vocali alla

    1 Orsolina Montevecchi, Bibbia e papiri, pag. 39.

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    sequenza delle consonanti, avremo nel nostro alfabeto YeHoVaH. In proposito Asher Intrater, ebreo messianico, nel suo libro “Chi ha pranzato con Abrahamo” (ed. Perciballi) scrive qualcosa che può spiegare il perché delle parole dell'apostolo Giovanni: "Aggiungendo le vocali “e”, “o”, “a” alle consonanti YHVH, si ottiene il nome YeHoVaH. In questa struttura verbale, la “e” (sh’va) indica il tempo versale futuro, la “o” (holom) il presente e la “a” (patach) il passato, dando al nome YeHoVaH il significato di “Egli sarà, Egli è, Egli era”: in altre parole, l’Eterno”. Potremmo quindi ipotizzare che Giovanni stesse letteralmente traducendo ed universalizzando l'espressione ebraica יהוה תצבאו (Adonai Sebaoth) tradotta di solito nell'Antico Testamento "Signore degli Eserciti". Molto importante per la corretta lettura del senso dell'incarnazione del Figlio di Dio, è la comprensione del termine greco Logos (Λόγος) – utilizzato nell'originale greco del Vangelo di Giovanni e di solito tradotto "Parola" dai protestanti mentre i cattolici preferiscono "Verbo", seguendo la lezione dell'antica versione latina della Bibbia. "Nel principio era la Parola, la Parola era con Dio, e la Parola era Dio." (Giovanni 1:1) Si tratta di un vocabolo importante perché nel mondo della filosofia greca il concetto di Logos era già esistente quando Giovanni scriveva il suo Vangelo. Ma ciò non deve indurre a cadere nell'errore di immaginare che l'apostolo si ispirasse a concetti estranei al mondo ebraico: anche qui, una terminologia presa in prestito dalla lingua greca, esprime un concetto profondamente semitico. Gli antichi scrittori cristiani di lingua greca - come Giustino (nel II sec. d.C.) – hanno colto l'occasione per esprimere il senso dell'incarnazione ai non

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    ebrei, proprio sfruttando questa somiglianza fra il Logos greco e quello neotestamentario. Nulla accade per caso, ne sono profondamente convinto. La lingua ebraica è nata e cresciuta con la fede nel Dio unico ed è per questo che esprime meglio di ogni altra il linguaggio delle cose di Dio. Quella greca aveva raggiunto una grande diffusione ed una maturità perfetta proprio nel momento in cui venne a contatto con l'Antico Testamento: nelle mani giuste, permise di esprimere al meglio qualsiasi tipo di concetto, dal più concreto al più astratto. Divenne la lingua della Settanta prima e del Nuovo Testamento poi, il perfetto veicolo attraverso il quale la fede in Cristo poté essere diffusa in tutto il mondo.

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    ORIGINALI IN EBRAICO PERDUTI ?

    Il Nuovo Testamento è una raccolta di scritti fondamentalmente indipendenti. È un solo libro, insieme all’Antico Testamento, se ne consideriamo l'unità di intento, gli scopi, e, naturalmente, l'ispirazione dello Spirito Santo. Ma da un punto di vista squisitamente letterario, i libri raccolti nelle Scritture cristiane sono stati scritti in parti diverse del globo, per motivi diversi, da persone diverse, in momenti diversi e per diversi destinatari.

    È più che legittimo interrogarci e chiederci: "Vi sono parti del Nuovo Testamento che sono state scritte in ebraico?"

    Fino al 1947, anno in cui vennero scoperti i cosiddetti rotoli del Mar Morto, una domanda di questo genere era impensabile. Infatti era comunemente ritenuto che la lingua parlata in Israele durante il primo secolo fosse l'aramaico2 e non l'ebraico, che si pensava fosse una lingua morta. Speculazioni e teorie si sono infrante sotto il peso delle evidenze: oltre l'85% dei manoscritti rinvenuti nelle grotte di

    2 L'aramaico era un linguaggio internazionale con il quale Israele entrò in contatto durante l'esilio babilonese e la seguente dominazione persiana dal sesto secolo a.C. in avanti. Alcune parti dell'Antico Testamento furono scritte in aramaico. Parte del libro di Esdra e di Daniele.

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    Qumran erano scritti in ebraico. Oggi, quindi, è corretto pensare che se il Nuovo Testamento non venne scritto in greco, l'unica altra lingua nella quale può essere stato scritto è l'ebraico.

    Quando si parla di un originale aramaico del vangelo di

    Matteo, è soltanto l'eco di pubblicazioni ormai datate. È pressoché certo che vi fosse un Matteo semitico che circolava nel periodo della Chiesa antica e che doveva essere scritto in ebraico. Ma per parlare concretamente di un originale ebraico di Matteo dovremmo prima stabilire in quale rapporto l’ipotetico vangelo semitico stava con il Matteo canonico, del quale esiste solo la versione in greco.

    Eusebio di Cesarea scrive nel quarto secolo, riportando la credenza comune della Chiesa: "Matteo, avendo già proclamato il vangelo in ebraico, quando stava per andare ad altre nazioni, lo mise per iscritto nella sua lingua natia, e così supplì alla sua assenza con loro, per mezzo del suo scritto". Storia Ecclesiastica, libro 1, capitolo 24.

    Tutto nel vangelo di Matteo è ebraico: luoghi, idee, la gente, la cultura, ecc... Ma la verità è che se anche l'autografo di questo vangelo era realmente in ebraico, ne è comunque sopravvissuta soltanto la versione in greco. È quindi saggio parlare di ciò che sappiamo e di un testo in nostro possesso, piuttosto che avventurarci alla cieca nel regno delle congetture. Più avanti in questo libro parlerò di nuovo della possibilità di un Matteo ebraico.

    Recentemente è stata sostenuta la tesi della composizione

    originale in ebraico anche per il vangelo di Marco. Jean Carmignac è uno studioso che stimo moltissimo. Ritengo la sua opera "La nascita dei Vangeli Sinottici" indispensabile sia per lo studioso sia per chi è interessato alla questione da semplice credente. Egli sostiene che il greco di Marco è troppo

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    facile a tradursi in ebraico e che ciò dimostrerebbe che il secondo Vangelo, come noi lo possediamo, altro non sarebbe che la traduzione letterale di un originale ebraico perduto. La sua teoria è senz'altro affascinante e per molti versi seducente. Ma non vi è alcuna concreta prova oggettiva a sostegno di questa tesi. Marco, infatti, ci è stato preservato in greco soltanto e lo stesso Eusebio citato poco fa narra proprio che l'evangelista mise per iscritto in greco le memorie dell'apostolo Pietro. In ultimo, se mai fosse del tutto accertato che dei frammenti di Marco si trovavano nella grotta 7 di Qumran come sostengono O'Callaghan e Thiede, la possibilità di un originale semitico diviene ancora più remota.

    Non vi è alcun motivo valido per dubitare delle parole che

    troviamo all'inizio del vangelo di Luca.

    "Poiché molti hanno intrapreso a ordinare una narrazione dei fatti che hanno avuto compimento in mezzo a noi, come ce li hanno tramandati quelli che da principio ne furono testimoni oculari e che divennero ministri della Parola, è parso bene anche a me, dopo essermi accuratamente informato di ogni cosa dall'origine, di scrivertene per ordine, illustre Teofilo, perché tu riconosca la certezza delle cose che ti sono state insegnate." (Luca 1:1-4)

    L'evangelista parla di altri scritti sulla vita di Gesù. Con

    evidente mentalità greca riassicura Teofilo, il suo ipotetico primo destinatario, di aver effettuato accurate ricerche che rendono attendibile quanto sta per narrare. L'accuratezza del lavoro di ricerca dell'autore del terzo vangelo è dimostrata dal fatto che, abbandonato il livello di greco quasi classico e retorico della sua introduzione, conserva nel resto del suo scritto un numero di semitismi persino superiore a quello degli altri due sinottici. Ciò è chiaro sintomo che egli ha attinto a dei documenti o memorie autentiche, in ebraico, e che si è

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    sforzato di rimanere il più fedele possibile al pensiero ebraico, anche a spese del livello letterario suo greco.

    Alcuni sostengono che l'epistola agli Ebrei sia stata

    originariamente composta in ebraico e che la traduzione in greco oggi in nostro possesso sia stata eseguita da Luca. Non vi sono prove che ciò sia accaduto, nessuna traccia nelle evidenze manoscritte. Al contrario, vi sono delle citazioni all'inizio del libro che sembrano armonizzarsi con il contesto solo se provengono dalla versione in greco dell'Antico Testamento (LXX). Questo l'ho riscontrato personalmente studiando l'inizio di questo meraviglioso trattato - il termine epistola sta un po' stretto a questa porzione della Scrittura, anzi non gli si addirebbe affatto se non fosse per la chiusa. Solo congetture quindi su un possibile originale ebraico di Ebrei. Le uniche prove oggettive, la consolidata e variegata tradizione manoscritta, sono a favore di una composizione in greco anche per questo scritto.

    Poco o niente da dire sugli scritti di Giovanni o le epistole di Paolo. Difficile argomentare il senso di un fantomatico originale ebraico perduto per questi scritti, sia per via dei contenuti, sia per le oggettive circostanze di composizione.

    Il libro degli Atti segue la stessa scia del Vangelo di Luca, di cui è un logico e dichiarato prosieguo.

    Nessuna traccia o evidenze di originali ebraici per le epistole di Giacomo e Pietro.

    Concludendo. Si può speculare quanto si vuole sulla possibilità che questo o quel libro del Nuovo Testamento sia stato scritto in ebraico ed in un secondo momento tradotto, ma non vi sono prove oggettive a sostegno di una tale tesi.

    È in greco che il Nuovo Testamento è stato riconosciuto dalla Chiesa, universalmente, come la raccolta delle Scritture cristiane ispirate dallo Spirito Santo.

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    CULTURA EBRAICA NEL NUOVO TESTAMENTO

    Come ho già detto, la lingua del Nuovo Testamento sarà pure il Greco, ma i pensieri che stanno dietro, la cultura, i luoghi, l’intera ambientazione, è ebraica. Gesù disse apertamente che lui era venuto a confermare la Legge mosaica e non ad abolirla. “Non pensate che io sia venuto per abolire la legge o i profeti; io sono venuto non per abolire ma per portare a compimento”. (Matteo 5:17) Durante i suoi discordi Gesù certamente parlava in aramaico ed ebraico. È naturale che gli evangelisti, nel “tradurre” le sue parole in greco, devono avere incontrato delle difficoltà. E certamente non era nemmeno fra i loro scopi tradire l’origine della loro fede.

    L’atmosfera dei vangeli è ebraica; ben visibile anche dopo la traduzione in greco e dal greco, poi, nella nostra lingua.

    Oggi i predicatori e i commentatori biblici si sforzano di adattare le parole della Bibbia alle nostre realtà quotidiane. Visto che la maggior parte del mondo occidentale abita in grandi città, non potremmo essere più lontani dal mondo agricolo e pastorale di Israele all’inizio del primo secolo d.C. Consideriamo qualche esempio specifico.

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    Matteo 1:1

    "Libro della genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abrahamo" Qui sopra cito dalla Nuova Diodati per avere una traduzione letterale che faccia meglio trasparire il sostrato ebraico. La Nuova Riveduta traduce: "Genealogia di Gesù Cristo". Ma "Il libro della genealogia" è un'espressione molto importante, perché fa emergere immediatamente tutta la cultura ebraica di questo vangelo. Un riferimento veloce al libro della Genesi fa comprendere come lo stesso autore ci tenga a far uso della cultura biblica della Torah. "Questo è il libro della genealogia di Adamo" (Genesi 5:1 - Nuova Riveduta) La parola ebraica libro è ספר, (si legge da destra verso sinistra, sefer) ed ha un senso più ampio che in italiano. Può infatti indicare una lettera3 o un rotolo4. Vale la pena sottolineare che il libro come lo conosciamo ed intendiamo descrivere noi con questo vocabolo non era ancora stato inventato nel periodo in cui vennero scritti i vangeli.

    Luca 1:34

    “Maria disse all'angelo: "Come avverrà questo, dal momento che non conosco uomo?” La parola “conoscere”, traduce letteralmente il greco originale. Ma nella nostra lingua, le parole di Maria, prese per quello che sono, non hanno molto significato. Siamo davanti ad un chiaro esempio di un pensiero ebraico espresso con parole greche e, di conseguenza, italiane.

    3Vedi 2 Re 5:6 4 Vedi Deuteronomio 17:18

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    Se si traduce non solo la parola, ma anche l’idea che sta dietro, dovremmo far dire a Maria: “…visto che io non ho avuto rapporti sessuali con alcun uomo”. Ma l’espressione biblica è ormai divenuta così comune per i lettori cristiani, e anche al di fuori della cerchia dei lettori biblici soltanto, che, a dimostrazione di quanto dico in diverse parti del mio studio, possiamo sostenere che l’influenza della mentalità semitica è stata tanto forte nella nostra cultura da arricchire il significato delle nostre parole, estendendolo fino alla terminologia delle Scritture.

    Giovanni 2:1

    “Tre giorni dopo, ci fu una festa nuziale in Cana di Galilea…” L’apostolo Giovanni ci informa dicendoci che il matrimonio ebbe luogo di Martedì, giorno comune per la celebrazione dei matrimoni in Israele. Questa tradizione era collegata alle due volte che Dio definì buona la sua creazione in Genesi 1:10-12, dove le due cose vengono intese allegoricamente come l’uomo per la donna e la donna per l’uomo.

    La Domenica è il primo giorno della settimana. In Italia, purtroppo, mi sono accorto che la maggior parte della gente ti dirà che il primo giorno della settimana è il Lunedì. Così non è. Siamo noi ad avere adottato dal mondo ebraico la settimana. Fu l’imperatore Costantino che, nel suo desiderio di uniformare l’uso dell’impero romano con le abitudini dei molti cristiani che lo popolavano, la introdusse in occidente. E il Sabato è il settimo ed ultimo giorno della settimana. La Domenica il primo. Infatti, in Marco 16:9 leggiamo: “Or Gesù, essendo risuscitato la mattina del primo giorno della settimana…” Se la Domenica è il primo giorno, ne consegue che il Lunedì sia il secondo e Martedì il terzo. Le nozze di Cana ebbero luogo di Martedì, in perfetto accordo con l’uso ebraico.

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    Luca 9:51

    “Poi, mentre si avvicinava il tempo in cui sarebbe stato tolto dal mondo, Gesù si mise risolutamente in cammino per andare a Gerusalemme” La Nuova Riveduta abbandona la traduzione letterale di “Gesù si mise risolutamente in cammino per andare” e ne offre una che spieghi il senso dell’espressione idiomatica (semitica) che, invece, compare nel greco originale. Luca certamente attinse a fonti ebraiche per le sue narrazioni e qui ne abbiamo un’ulteriore prova. Egli traduce dalle sue fonti (che fossero scritte o orali) in maniera letterale. Personalmente lo ritengo un pregio del suo lavoro. Preferisco, infatti, anche in campo lavorativo, leggere una traduzione letterale, piuttosto che una che si limiti a darmi il significato che il traduttore comprende del testo originale. Nel caso di Luca 9:51 la scelta della Nuova Riveduta è ininfluente: si perde, però, la bellezza della espressione originale.

    Luca 10:30-34

    " ... Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico, e s'imbatté nei briganti che lo spogliarono, lo ferirono e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso un sacerdote scendeva per quella stessa strada, ma quando lo vide, passò oltre dal lato opposto. Così pure un Levita, giunto in quel luogo, lo vide, ma passò oltre dal lato opposto. Ma un Samaritano, che era in viaggio, giunse presso di lui e, vedendolo, ne ebbe pietà; avvicinatosi, fasciò le sue piaghe versandovi sopra olio e vino, poi lo mise sulla propria cavalcatura, lo condusse a una locanda e si prese cura di lui." Per apprezzare il profondo senso che avevano queste parole di Gesù dobbiamo attentamente valutare il contesto storico e culturale nel quale furono pronunciate.

  • 19

    "La Gerico dell'età erodiana è descritta nelle fonti antiche come una città in cui numerosi esponenti della classe sacerdotale in contrasto con i responsabili del tempio a Gerusalemme avevano posto la loro dimora ... questi sacerdoti "ribelli" erano quindi fra i maggiori fruitori della strada che da Gerico conduce a Gerusalemme." 5 La comunità sacerdotale, costituita quindi da appartenenti alla discendenza levitica, dimorava a Gerico per protestare contro il compromesso con il quale conviveva il clero ufficiale di Gerusalemme. Quindi i due che passano per la via e non si curano dell'uomo ferito fanno parte di una casta sacerdotale che si proponeva di promuovere un'adesione più fedele alla Legge mosaica. Eppure lasciano un uomo morente per strada senza prestare soccorso. I samaritani erano il popolo che abitava a nord della Giudea, dove una volta vi era l'antico regno di Israele, distrutto nell'intero popolo deportato per mano degli assiri. La popolazione che rimase era la parte più umile e si mischiò con gli assiri che vennero a colonizzare. Ovviamente la fede giudaica dei samaritani, così come la loro razza, non era ritenuta pura dai giudei e dagli abitanti di Gerusalemme. Vedi l’incontro di Gesù con la samaritana descritto in Giovanni 4. Alla luce di quanto sopra, le parole di Gesù devono aver avuto un significato molto evidente per chi le udiva e il dottore della legge al quale risponde con questa parabola, deve aver percepito anche il profondo senso spirituale delle parole del Signore che mirava a colpire una religiosità astratta, a favore della concreta spiritualità che Gesù ha sempre promosso nella sua interpretazione della Legge mosaica.

    Luca 11:50-51

    “ … affinché del sangue di tutti i profeti sparso fin dall'inizio del

    5 Simone Paganini, Gesù, Qumran e gli esseni, edizione paoline, pag. 75

  • 20

    mondo sia chiesto conto a questa generazione; dal sangue di Abele fino al sangue di Zaccaria che fu ucciso tra l'altare e il tempio; sì, vi dico, ne sarà chiesto conto a questa generazione.” La contraddizione che salta agli occhi del lettore attento della Bibbia è evidente: Abele fu davvero il primo uomo ucciso nella Bibbia, ma Zaccaria non fu di sicuro l’ultimo. Come può avere commesso Gesù un errore così grossolano? Ebbene, l’apparente contraddizione la spiega benissimo il sostrato ebraico e il contesto nel quale Gesù pronunciò il suo monito. Egli infatti parlava a persone che avevano ben chiaro in mente il canone giudaico delle Sacre Scritture. Lì l’omicidio di Zaccaria era narrato nell’ultimo dei libri sacri, quello delle Cronache. Quindi l’affermazione di Gesù equivarrebbe a quando oggi noi diciamo: “Dalla Genesi all’Apocalisse”, intendendo dire “dall’inizio alla fine”; sebbene con molta probabilità l’Apocalisse non è stato l’ultimo libro del Nuovo Testamento ad essere scritto. Esempi di questo tipo ci mettono in guardia verso chi troppo frettolosamente parla di errori nella Bibbia.

    Marco 4:41

    “Ed essi furono presi da gran timore e si dicevano gli uni gli altri: "Chi è dunque costui, al quale persino il vento e il mare ubbidiscono” “Temettero di grande timore” è la traduzione letterale del Greco di questo brano, ovviamente dipendente dalla costruzione ebraica della frase. La Nuova Riveduta lascia la letteralità del testo per trasmetterne il significato: “Ed essi furono presi da gran timore…” Una costruzione simile la rinveniamo in Matteo 2:10 che legge, traducendo letteralmente: “veduta la stella gioirono di grande gioia”. La Nuova Riveduta è in questo caso un po’ più letterale: “Quando videro la stella, si rallegrarono di grandissima gioia.” Evita,

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    però, la ripetizione che invece esiste anche nell’originale della parola “gioia” come nella mia traduzione.

    Matteo 5:13-16

    “Voi siete il sale della terra ... Voi siete la luce del mondo ...”

    Il contesto storico e culturale delle frasi di Gesù è imprescindibile. Il sale, infatti, era prezioso in tempi antichi, tanto da essere utilizzato come moneta – da qui la nostra parola italiana “salario”, come sinonimo di “paga”. Oggi possediamo frigoriferi e congelatori e, se sudiamo troppo assumiamo degli integratori. Ma così non era ai tempi di Gesù e queste funzioni erano svolte dal sale.

    Anche la luce oggi non viene apprezzata come di sicuro lo era allora. Immaginate quanto sarebbe difficile fare qualsiasi cosa di notte se non avessimo la luce elettrica. Uscire, lavorare, leggere, oggi è tutto più facile grazie all’energia elettrica. Immaginiamo quanto preziosa doveva essere la luce del giorno a quel tempo, perché permetteva di potere attendere a tutti i propri affari. La notte era poi più insidiosa e piena di pericoli.

    Matteo 13:38

    “il campo è il mondo; il buon seme sono i figli del regno; le zizzanie sono i figli del maligno;”

    “Figli del regno” è un’espressione idiomatica che corrisponde nella nostra lingua a: “coloro che appartengono al regno.” Lo stesso significato nella frase che segue, ma in senso negativo. Non solo l’espressione, ma anche il ritmo della frase è tipicamente ebraico: due affermazioni consecutive descrivono

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    due condizioni opposte. Di seguito qualche espressione dello stesso tenore che rinveniamo nei vangeli.

    Matteo 23:15

    “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, perché viaggiate per mare e per terra per fare un proselito; e quando lo avete fatto, lo rendete figlio della geenna il doppio di voi.”

    Luca 20:36

    “neanche possono più morire perché sono simili agli angeli e sono figli di Dio, essendo figli della risurrezione” Questa ultima affermazione è stupenda sia per i contenuti, per la speranza che da a noi credenti, sia dal punto di vista letterario. Ottima scelta tradurla letteralmente.

    Giovanni 17:12

    “Mentre io ero con loro, io li conservavo nel tuo nome; quelli che tu mi hai dati, li ho anche custoditi, e nessuno di loro è perito, tranne il figlio di perdizione, affinché la Scrittura fosse adempiuta.”

    Da notare quanto sia palesemente semitica l’espressione “io li conservavo nel tuo nome”, che non ha il senso che può apparire se considerata letteralmente in italiano, ma un ben più profondo significato. Nel mio libro “il nome di Dio” esamino l’occorrenza del termine “nome” nella versione della Bibbia in italiano e ne valuto la profonda valenza semitica attribuita in tutte le Scritture.

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    2 Thessalonicesi 2:3

    “Nessuno vi inganni in alcun modo; poiché quel giorno non verrà se prima non sia venuta l'apostasia e non sia stato manifestato l'uomo del peccato, il figlio della perdizione” Noti il lettore che Giuda è definito come l’anticristo, soggetto delle parole di Paolo: il figlio della perdizione. L’inesplicabile tendenza a rivalutare la persona di Giuda, il traditore, non la rinveniamo nel Nuovo Testamento. La si deve al cosiddetto “Vangelo di Giuda”, clamoroso falso del secondo secolo attribuito dai contemporanei (Ireneo) alla setta gnostica dei caniniiti. Sebbene il valore della riscoperta di una antica copia di questo “vangelo” sia un importante ritrovamento archeologico, dal punto di vista storico-filologico l’unico valore che possiamo dare ad un tale scritto è quello di confermare ulteriormente l’attendibilità dei vangeli canonici.

    1 Thessalonicesi 5:5

    “perché voi tutti siete figli di luce e figli del giorno; noi non siamo della notte né delle tenebre” Notiamo qui come la forte influenza della cultura ebraica riesca con prepotenza a bypassare la lingua greca e l’italiano per comparire in tutta la sua straordinaria bellezza.

    Luca 22:15

    “καὶ εἶπε πρὸς αὐτούς· ἐπιθυμίᾳ ἐπεθύμησα τοῦτο τὸ πάσχα φαγεῖν μεθ᾿ ὑμῶν πρὸ τοῦ με παθεῖν”

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    Traduce così questo brano la Nuova Riveduta: “Egli disse loro: "Ho vivamente desiderato di mangiare questa Pasqua con voi, prima di soffrire.” La Nuova Diodati: “Allora egli disse loro: "Ho grandemente desiderato di mangiare questa Pasqua con voi prima di soffrire”. In effetti la costruzione della frase in italiano suona davvero troppo poco elegante se si mantiene l’espressione ebraica. Ma Luca lo ha fatto in greco e la stessa struttura la troviamo in altre parti del Nuovo Testamento. Letteralmente “ἐπιθυμίᾳ ἐπεθύμησα” si traduce “desiderato con desiderio”, sostanzialmente improponibile nella nostra lingua. La King James Version mantiene l’espressione originale traducendo: “And he said unto them, With desire I have desired to eat this passover with you before I suffer”.

    Marco 1:1

    “Inizio del vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio” Non capivo l’inizio del Vangelo di Marco. Avevo sempre avuto una certa preferenza per i vangeli di Matteo e Luca e consideravo il secondo vangelo una sorta di via di mezzo breve, un riassunto degli altri due. Mi sbagliavo. Jean Carmignac era un autorità sui reperti di Qumran, che sono contemporanei con i vangeli. Egli parla del prologo di Marco dicendo che questo è perfettamente in armonia con lo stile letterario del tempo quando la tradizione cristiana antica ci dice che questo vangelo venne scritto. Non vi è nulla di più naturale per uno scrittore che essere in armonia con gli scritti della sua epoca, per risultare più chiaro ed esprimersi in

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    maniera familiare per chi legge. Quando imparai sufficientemente bene il greco e cominciai a leggere Marco in originale, mi resi conto di quanto unico fosse questo vangelo, quanto profondo, prezioso, ricco nei dettagli e con prospettive inedite. Jean Carmignac fu sorpreso quando iniziò a lavorare al testo di Marco e scoprì quanto facile fosse tradurlo in ebraico. Egli notò che l'ordine delle parole - che in greco non è così rigido - si adattava perfettamente alle regole della grammatica ebraica. Se non conosciamo l'ebraico, possiamo solo fidarci di ciò che dice Carmignac. Eppure, l'influenza semitica sui libri del Nuovo Testamento è così evidente da essere ben visibile anche attraverso le traduzioni nella nostra lingua. Ovviamente, più una traduzione sarà letterale, più il fenomeno sarà evidente. Nei primi tredici versi di Marco, i versi 5, 6, 9, 10, 11, 12 e 13 cominciano con "kai", cioè "e". In italiano non iniziamo le frasi con "e". Spesso farlo è addirittura considerato un errore. Lo stesso dicasi per il greco. Ciononostante, Marco utilizza "kai" per introdurre le sue affermazioni. Rimaniamo nella Bibbia. 29 versi su 31 nel primo capitolo della Genesi cominciano con "e". È inevitabile concludere che, quantunque scriva in greco, Marco è profondamente dipendente dallo stile dell'ebraico biblico. Bisogna inoltre aggiungere che "e" in ebraico è più che una semplice congiunzione. Come vedremo nell'esempio qui di seguito. "Diceva loro: «Si porta forse la lampada per metterla sotto il moggio o sotto il letto?" (Marco 4:21- Nuova Riveduta) "Parimente, non si accende la lampana, e si mette sotto il moggio." (Matteo 5:15 - Diodati)

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    Come si nota la congiunzione "e" utilizzata nella citazione di Matteo e che Diodati traduce letteralmente, ha un significato più ampio di quello che di solito noi le attribuiamo nella nostra lingua. Marco qui è meno letterale di Matteo nell'originale greco. In ossequio a questo principio, traducono così oggi il greco le versioni più moderne di Matteo 5:15 "Similmente, non si accende una lampada per metterla sotto il moggio" (Matteo 5:15 - Nuova Diodati)

    Giovanni 1:1

    "In principio era la Parola,

    e la Parola era con Dio, e la Parola era Dio."

    Il quarto vangelo comincia con uno sguardo nell'eternità, al tempo quando Gesù non si era ancora fatto uomo. Nell'eternità egli comunque era, ed era con Dio quando creò ogni cosa e con lui creò ogni cosa, perché egli stesso era Dio. Giovanni chiama Gesù prima della sua incarnazione "logos", nell'originale, termine di solito tradotto "Parola" o ""Verbo". Vi è chi ha pensato che Giovanni avesse attinto alla filosofia greca per l'idea di un logos mediatore cosmico, che questa aveva già da tempo proposto. In realtà Giovanni utilizzò la terminologia greca per esprimere un concetto profondamente ebraico: cioè che la rivelazione del Dio invisibile avvenisse tramite la sua Parola. In parole povere, sebbene vestito in panni greci, il prologo del quarto vangelo non potrebbe essere più ebraico. Il ruolo nella creazione della "Parola" è chiaro già dal libro della Genesi, dove leggiamo, che Dio creò ogni cosa,

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    chiamandola letteralmente all'esistenza. Come del resto sinteticamente ci conferma il salmista: "I cieli furono fatti dalla parola del Signore, e tutto il loro esercito dal soffio della sua bocca." (Salmo 33:6) Ho cercato la "Memra", equivalente aramaico della parola greca "logos" e dell'italiano "Parola", nella Enciclopedia giudaica (www.jewishencyclopedia.com). Vi ho trovato questo: " ... termine utilizzato nel Targum come sostituto per "il Signore" quando si deve evitare una espressione antropomorfa." Vediamo anche un solo esempio tratto proprio dal Targum che è in parole povere una parafrasi in aramaico dell'Antico Testamento, dove le nostre Bibbie traducono letteralmente così l'ebraico di Esodo 20:1: "Allora Dio pronunciò tutte queste parole". Il Targum di Gerusalemme invece ha: "e la Parola del Signore pronunciò l'eccellenza di queste parole dicendo ... " Questa citazione è dal testo inglese del Targum disponibile sul sito www.targum.info/targumic-texts/. Filone alessandrino è un ebreo vissuto ad Alessandria d'Egitto fra il 20 a.C. ed il 50 d.C. Egli era un commentatore e difensore della Legge mosaica e della religione giudaica. Egli sosteneva che era stata la Torah ad avere influenzato il pensiero dei filosofi greci e non viceversa. Ed io concordo con lui. Egli scrisse molto sul logos di Dio. Non arrivò a definirlo Dio come fa il Nuovo Testamento, né riconosce che si sia fatto uomo in Gesù di Nazareth come sostengono gli apostoli, ma la sua testimonianza è la prova finale che i concetti espressi da Giovanni e da Paolo su Gesù affondano le loro radici nella cultura ebraica e non in quella pagana o greca. I primi versi del Vangelo di Giovanni non dicono nulla di nuovo per la mentalità ebraica se non la sconvolgente conclusione:

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    “E la Parola è diventata carne e ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre.” (Giovanni 1:14) Conclusione L'influenza semitica sul Nuovo Testamento è stata davvero molto forte. A parte il fatto che arricchisce la nostra cultura con la preziosa eredità ebraica della nostra fede, ciò è anche prova dell'antichità degli scritti del Nuovo Testamento e della loro autentica origine apostolica.

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    PAROLE EBRAICHE NEL NUOVO TESTAMENTO

    Sarà chiaro ormai al lettore che l’unica vera cosa che riguarda il mondo greco che rinveniamo nel Nuovo Testamento è la lingua. Pensiero, terminologia, idee, contesto, tutto appartiene al mondo giudaico. Alcune parole ebraiche sono state addirittura soltanto trascritte (traslitterate) in alfabeto greco, o nel nostro nelle traduzioni.

    Vediamo qualche esempio.

    Matteo 1:23

    “La vergine sarà incinta e partorirà un figlio, al quale sarà posto nome Emmanuele", che tradotto vuol dire: "Dio con noi”. Questo brano è una citazione di Isaia 7:14 Ebraico: אל עמנו Greco: Εμμανουηλ In italiano: Emmanuele Come succede in questi brani, l’ebraico è mantenuto e traslitterato in greco e ne viene data la traduzione. A mio avviso questo rafforza le prove a favore di una composizione

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    originale dei vangeli in greco. Alcuni dicono che Matteo stava citando qui la traduzione dei Settanta. La traduzione “al quale sarà posto nome Emmanuele” non è particolarmente felice. La CEI traduce “che sarà chiamato Emmanuele” e dello stesso tenore anche la versione Nuova Diodati. Nella prima traduzione si perde tutto il gusto semitico dell’espressione: infatti, Gesù non fu chiamato Emmanuele! Ma il “nome” qui è inteso nell’ampio senso ebraico del termine, che indica qualità, attributi e non alla lettera il nome personale dell’individuo. Il nostro Signore non si chiamava Emmanuele, ma Gesù; ma era l’Emmanuele, il Dio con noi.

    Marco 3:17

    “Giacomo, figlio di Zebedeo e Giovanni, fratello di Giacomo, ai quali pose nome Boanerges, che vuol dire figli del tuono”.

    Marco 5:41

    “E, presala per mano, le disse: "Talità cum!" che tradotto vuol dire: "Ragazza, ti dico: àlzati!”

    Marco 7:11

    “Voi, invece, se uno dice a suo padre o a sua madre: "Quello con cui potrei assisterti è Corbàn (vale a dire, un'offerta a Dio)”.

    Marco 7:34

    “poi, alzando gli occhi al cielo, sospirò e gli disse: “Effatà!” che vuol dire: “Apriti!”

    Giovanni 1:41

    “Egli per primo trovò suo fratello Simone e gli disse: "Abbiamo trovato il Messia" (che, tradotto, vuol dire Cristo).” Ebraico: מׁשיח Traslitterazione in greco: τὸν Μεσσίαν

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    Traduzione in Greco: Χριστός Italiano: Messia Messia è la parola ormai entrata nel vocabolario dei paesi di tradizione cristiana ed è chiaramente presa in prestito dall’ebraico. Cristo è l’adattamento nelle nostre lingue della sua traduzione in greco. L’ebraico Messia e il greco Cristo significano in realtà “unto”, ma trovo molto appropriato l’uso comune di entrambi i termini, visto il senso esclusivo dell’uso di questi per Gesù.

    Giovanni 1:49

    “Natanaele gli rispose: “Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d'Israele”. La parola Rabbi, cioè Maestro, è di uso così comune anche oggi. Rabbino è una sua derivazione.

    Giovanni 19:13

    “Pilato dunque, udite queste parole, condusse fuori Gesù, e si mise a sedere in tribunale nel luogo detto Lastrico, e in ebraico Gabbatà.”

    Giovanni 19:17

    “Presero dunque Gesù; ed egli, portando la sua croce, giunse al luogo detto del Teschio, che in ebraico si chiama Golgota”. Negli ultimi due esempi, la traduzione precede la parola ebraica. In Giovanni 19:19-20, troviamo un’informazione molto importante: “Pilato fece pure un'iscrizione e la pose sulla croce. V'era scritto: GESÙ IL NAZARENO, IL RE DEI GIUDEI. Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città; e l'iscrizione era in

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    ebraico, in latino e in greco.” Il latino era ovviamente la lingua ufficiale dell’impero romano. L’ebraico era la lingua parlata in Israele. Il greco, come si vede, era tanto importante nell’impero da affiancarlo alla lingua ufficiale e del luogo.

    Matteo 21:9

    “Le folle che precedevano e quelle che seguivano, gridavano: "Osanna al Figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nei luoghi altissimi!” La parola Osanna è la traslitterazione dell’ebraico Hoshia’na. Come succede spesso, è difficile esprimere il pieno significato di certe parole o espressioni nel tradurle da una lingua all’altra. Io traduco spesso dall’inglese (americano) all’italiano e viceversa; quindi credetemi, so cosa dico. Ad esempio, un vocabolo molto comune nell’americano parlato di oggi è “cool”. Nei film lo traducono a volte in un modo, a volte in un altro; ma è perché in realtà non vi è un corrispondente esatto nella nostra lingua. Tanto che, in certi ambienti, ho visto che il vocabolo inglese sta entrando anche nel nostro uso; più o meno come la parola “okay”, di solito abbreviata “ok”, oggi è stata totalmente incorporata nel nostro vocabolario. Lo stesso dicasi per la parola computer. In campo commerciale poi, che è il mio campo lavorativo, l’uso eccessivo della lingua inglese ha portato all’utilizzo di vocaboli (che rarissimamente vengono ben pronunciati) dei quali nemmeno si considera l’equivalente nella nostra lingua: reverse charge, spread, ecc … Ma tornando al nostro brano biblico in questione, la parola originale Osanna, può essere tradotta: Salva Ora! Ma è molto più di questa semplice traduzione, come rivela la citazione del brano messianico dal quale è tratta. Essa

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    rappresenta il grido del popolo al Messia promesso venuto per salvarli. Ovviamente, il popolo non aveva idea della meravigliosa e perfetta salvezza che Dio stava per portare a compimento per mezzo di Gesù!

    Matteo 27:46

    “E, verso l'ora nona, Gesù gridò a gran voce: "Elì, Elì, lamà sabactàni?" cioè: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” L’evangelista vuole conservare l’originale, straziante grido di Gesù sulla croce. Ci riesce donando ulteriore drammaticità alla forte narrazione della crocefissione. Lo stesso incidente è narrato negli altri sinottici.

    Marco 15:34

    “All'ora nona, Gesù gridò a gran voce: "Eloì, Eloì lamà sabactàni?" che, tradotto, vuol dire: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" Voglio invitare il lettore a notare una piccolissima differenza fra il resoconto di Matteo e quello di Marco. Matteo scrive prima di spiegare il significato della frase ebraica un semplice “cioè”, mentre Marco specifica “che tradotto vuol dire”. Come ho già detto, ho scoperto il vangelo di Marco dopo averlo letto nell’originale Greco. In italiano mi sembrava soltanto una versione breve di Matteo. Ma in greco è pieno di tantissime stupende sfumature che lo rendono insostituibile e di sicuro non soltanto una versione breve di Matteo.

    Per chiudere questo paragrafo presento una serie di parole originali rimaste invariate nel testo del cosiddetto Sermone della Montagna di Gesù che troviamo nel vangelo di Matteo.

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    Matteo 5:18

    “Poiché in verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, neppure un iota o un apice della legge passerà senza che tutto sia adempiuto.” La parola che troviamo tradotta nelle nostre Bibbie con “in verità”, altro non è nell’originale greco che la parola Amen, traslitterata in quella lingua dall’ebraico. “Iota” ed “apice” fanno riferimento alle parti più piccole della scrittura ebraica. Il fatto che le nostre Bibbie traducano la parola “Amen” originale con “in verità”, non ci fa vedere quante volte questa parola ebraica è rimasta invariata nel greco originale. Controllando con il software biblico e-sword, ho visto che la frase “Amen Amen” compare 25 volte nella Bibbia ed è tipica del vangelo di Giovanni. Ma nelle versioni italiano ciò non è riscontrabile, visto che, quasi invariabilmente, traducono “in verità in verità”. La ripetizione due volte consecutive di una parola è tipica della lingua ebraica. Grazie a Dio anche della nostra e ciò ci rende più semplice capire il concetto. Ho avuto invece difficoltà a spiegare questo fenomeno in inglese, perché lo stesso non accade in quella lingua. Visto che Giovanni utilizza la parola ebraica Amen con tanta sicurezza, dando per scontata la familiarità del termine nella comunità cristiana, ci rendiamo conto di quanto popolare fosse questa parola nella Chiesa già allora. Del resto quasi tutti i libri del Nuovo Testamento terminano con la parola Amen. Tutti tranne l’epistola di Giacomo - e potrebbe essere un’ulteriore prova dell’antichità di questa e gli Atti degli Apostoli che non possono concludersi veramente visto che l’opera della Chiesa continua a tutt’oggi.

    Matteo 5:22

    “Ma io vi dico: chiunque si adira contro suo fratello sarà sottoposto al

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    tribunale; e chi avrà detto a suo fratello: "Raca" sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli avrà detto: "Pazzo!" sarà condannato alla geenna del fuoco.” Vi sono dei termini che non si possono proprio tradurre. Quando parlo con dei miei amici che non sono italiani, non posso tradurre in alcun modo la parola “pasta”. Anche in inglese, "pasta" è "pasta". La parola "pizza" è italianissima, e ormai a tutti gli effetti parte del vocabolario inglese. Una curiosità linguistica è la parola inglese angiovis. In italiano significa "aggiuga". Nulla di strano se non il fatto che, non per coincidenza, in siciliano "aggiughe" si dica "angiovi". È ovvio dedurre che il vocabolo sia stato preso in prestito dal siciliano, lingua parlata da molti emigranti italiani in America. Lo studio delle lingue è molto appassionante. Ad esempio, si riesce ad individuare il ceppo delle lingue indo-europee da alcuni vocaboli comuni a tutte queste lingue. La parola “notte”, ad esempio, è indizio di questa comune origine. Infatti in greco è “niuchtos”, “night” in inglese, “nacht” in tedesco, “nuit” in francese, “noche” in spagnolo. Ma più sorprendente nei miei studi, è stato scoprire che la parola inglese “adobe” è diretta discendente di una parola egiziana! Ma questa è un’altra discussione interamente e lascio il lettore con la curiosità.

    Insomma, fondamentalmente non siamo i primi a mischiare elementi della nostra propria cultura con quella di altri. È un fenomeno linguistico normale, con molti precedenti. Torniamo, però, alle parole di Gesù.

    Matteo 6:24

    “Nessuno può servire due padroni; perché o odierà l'uno e amerà l'altro, o avrà riguardo per l'uno e disprezzo per l'altro. Voi non potete servire Dio e Mammona.”

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    La parola Mammona viene dall’ebraico, ma la cosa strana in questo brano è che viene declinata secondo le regole della lingua greca come in italiano viene italianizzata dai traduttori.

    Romans 9:29

    “E come Isaia aveva predetto: «Se il Signore Sabaoth non ci avesse lasciato un seme, saremmo diventati come Sodoma e saremmo stati simili a Gomorra»

    Non ho trovato una traduzione in italiano che rispetti il

    testo greco originale di questa epistola. Quella che ho proposto è un mio adattamento basato sulla Nuova Diodati.

    "Signore degli eserciti" delle versioni italiane traduce l'affermazione ebraica (יהוה צבאות - Adonai Sabaoth) che però Paolo riporta in greco semplicemente traslitterandola: κύριος Σαβαὼθ - Kirios Sabaoth. I traduttori italiani avrebbero dovuto fare lo stesso, a mio avviso, lasciando agli esegeti il compito di spiegare il senso di questa affermazione. Ho già parlato altrove di questo nome di Dio, inutile discuterne ulteriormente di nuovo qui.

    La stessa identica circostanza si ripete in Giacomo 5:4 che trattiene il termine originale ebraico. "Ecco, il salario da voi defraudato agli operai che hanno mietuto i vostri campi grida, e le grida di coloro che hanno mietuto sono giunte agli orecchi del Signore Sabaoth."

    Nel capitolo che segue discuteremo di alcune parole

    ebraiche che sono parte ormai del nostro linguaggio quotidiano, grazie all'influenza della Bibbia.

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    PAROLE EBRAICHE NELLA NOSTRA LINGUA

    Alcune parole provenienti dalla lingua ebraica, sono ormai parte del nostro vocabolario e le utilizziamo con naturalezza senza avere bisogno di tradurle. Questo in Chiesa e fuori dalla Chiesa. Sebbene è solo nell’uso religioso che questi vocaboli vengono onorati, nel rispetto della profondità di significato che intendono esprimere. Si pensi a quanto blasfemo sia l’uso della parola Alleluia al di fuori della lode a Dio: provo un fastidio fisico quando sento delle canzoni che la utilizzano con una leggerezza imperdonabile. AMEN

    Ebraico: אמן Traslitterazione in greco: ἀμήν Nel nostro alfabeto: Amen

    È la più comune fra le parole provenienti dalla tradizione giudaica. La parola si trova nel nostro Nuovo Testamento più volte di quelle che vediamo nella traduzione in italiano. Infatti, spesso quello che in greco era stato mantenuto, per amore di

  • 38

    chiarezza viene tradotto con “in verità” o “in verità in verità”, quest’ultima espressione essendo tipica del vangelo di Giovanni. La prima volta che troviamo la parola nel Nuovo Testamento è in Matteo 6:13, nella preghiera chiamata “Padre nostro”. È oggi nostro uso chiudere tutte le nostre preghiere – e credo sia comune a tutta la cristianità – con la parola ebraica Amen. In questo caso la parola significa esattamente la traduzione che ne viene data molto spesso, e cioè “così sia”: esprime la certezza della fedeltà di Dio in risposta alla preghiera. L’ultima volta che la parola compare nel Nuovo Testamento è alla fine dell’Apocalisse. È la parola conclusiva delle nostre Bibbie: e non se ne poteva trovare una migliore. In questo senso viene utilizzata spesso (io lo faccio onestamente) come parola di assenso ad un discorso, a denotare che “è così”. ALLELUIA – in ebraico הללו Ebraico: הללו Traslitterazione in greco: ἀλληλούϊα In italiano: Alleluia Il Salmo 111:1 legge: “Alleluia. Io celebrerò il SIGNORE con tutto il cuore nel convegno dei giusti e nell'assemblea.” Apocalisse 19:1: “Dopo queste cose, udii nel cielo una gran voce come di una folla immensa, che diceva: "Alleluia! La salvezza, la gloria e la potenza appartengono al nostro Dio…” Nonostante questa affermazione si rinvenga una sola volta nel Nuovo Testamento, essa è davvero comunissima. Anche troppo, visto che alcuni la utilizzano anche al di fuori del contesto di adorazione che impone.

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    ABBA

    Ebraico: אבא Greco: ἀββᾶ Traslitterazione: Abba

    “Diceva: "Abbà, Padre! Ogni cosa ti è possibile; allontana da me questo calice! Però, non quello che io voglio, ma quello che tu vuoi”. (Marco 14:36) “E voi non avete ricevuto uno spirito di servitù per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito di adozione, mediante il quale gridiamo: "Abbà! Padre!” (Romani 8:15) “E, perché siete figli, Dio ha mandato lo Spirito del Figlio suo nei nostri cuori, che grida: "Abbà, Padre”. (Galati 4:6) La parola "Abba" è di origine aramaica. È un’espressione familiare per rivolgersi al padre. Deve essere stata così comune e allo stesso tempo dal significato così peculiare, che gli autori del Nuovo Testamento hanno voluto mantenerla per tramandarla a tutti i credenti.

    MARAN ATHA

    Ebraico: מרן אתא Greco: Μαράν ἀθά Traslitterazione: Maran atha

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    “Se qualcuno non ama il Signore, sia anatema. Maran atha.” (1 Corinzi 16:22) Questa parola doveva essere di uso comune fra i cristiani delle origini. Paolo la utilizza, senza aggiungere alcuna ulteriore spiegazione.

    La parola Maran atha è aramaica e il suo significato lo troviamo espresso altrove nella Bibbia stessa: “Colui che attesta queste cose, dice: "Sì, vengo presto!" Amen! Vieni, Signore Gesù!” (Apocalisse 22:20) Nel termine originale è sia racchiusa la fede nel prossimo ritorno di Gesù Cristo che la preghiera stessa della Chiesa. Tale ambivalenza non poteva tradursi interamente e, quindi, il termine deve essersi diffuso fra i credenti anche non di lingua ebraica. In sé poi l’aramaico originale significava: Il Signore è venuto, Il Signore è presente, Il Signore viene. È entusiasmante vedere la stessa sostanza della nostra fede racchiusa all’interno di una parola sola, che credo faremmo bene ad utilizzare con la stessa frequenza con cui ricordiamo il termine “Alleluia”. MESSIA

    Ebraico: מׁשיח Traslitterazione in greco: τὸν Μεσσίαν Traduzione in greco: Χριστός Traslitterazione: Messiah “Egli per primo trovò suo fratello Simone e gli disse: "Abbiamo trovato il Messia" (che, tradotto, vuol dire Cristo)” (Giovanni 1:41) “La donna gli disse: "Io so che il Messia (che è chiamato Cristo) deve venire; quando sarà venuto ci annunzierà ogni cosa”. (Giovanni 4:25)

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    Questo termine ebraico è così diffuse che non è mai tradotto. Significa letteralmente “unto”, come ho già detto. La parola "Messia" nella nostra lingua ha dato origine all’aggettivo messianico, che non ha un parallelo nel corrispondente termine derivato dal greco in uso nella nostra lingua, cioè "Cristo". Quest’ultima parola è ormai talmente associata al nome di Gesù, da esserne diventata completamento e sinonimo allo stesso tempo. Il termine d’origine ebraica "Messia" invece, non ha mai perso il profondo significato religioso che la caratterizza. In proposito all'uso della parola “Messia”, voglio attirare l'attenzione del lettore su un brano della Scrittura al quale sono particolarmente affezionato: Daniele 9:24-27, la cosiddetta profezia delle 70 settimane. Questo il testo della Nuova Riveduta al confronto con quello della Nuova Diodati.

    Nuova Diodati Nuova Riveduta 9:25 Sappi perciò e intendi che da quando è uscito l'ordine di restaurare e ricostruire Gerusalemme fino al Messia, il principe, vi saranno sette settimane e altre sessantadue settimane; essa sarà nuovamente ricostruita con piazza e fossato, ma in tempi angosciosi.

    Sappi dunque e comprendi bene: dal momento in cui è uscito l'ordine di restaurare e ricostruire Gerusalemme fino all'apparire di un unto, di un capo, ci saranno sette settimane e sessantadue settimane; essa sarà restaurata e ricostruita, piazza e mura, ma in tempi angosciosi.

    9:26 Dopo le sessantadue settimane il Messia sarà messo a morte e nessuno sarà per lui. E il popolo di un capo che verrà distruggerà la città e il santuario; la sua fine verrà con un'inondazione, e fino al termine della guerra sono decretate devastazioni.

    Dopo le sessantadue settimane un unto sarà soppresso, nessuno sarà per lui. Il popolo d'un capo che verrà distruggerà la città e il santuario; la sua fine verrà come un'inondazione ed è decretato che vi saranno devastazioni sino alla fine della guerra.

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    La Nuova Riveduta traduce in Giovanni 1:41 e 4:25 le parole "Messia" e "Cristo", o meglio non traduce, ma traslittera i termini, visto che questi ormai fanno parte del nostro linguaggio religioso con un significato ben fissato. Eppure in Daniele 9 la stessa versione svuota il testo del suo profondo significato messianico. L' "unto" soppresso, non è "un unto" qualsiasi ma Gesù, il Cristo, il Messia. La profezia di Daniele è profondamente messianica e tale è riconosciuta dalla Chiesa dagli albori ad oggi; ma tradurre "un unto" piuttosto che semplicemente traslitterare l'ebraico "Messia" (come in Giovanni) impedisce al lettore comune di percepire ciò di cui invece deve essere subito cosciente. La profezia delle 70 settimane è una meravigliosa profezia messianica, e la traduzione Nuova Diodati lo comunica al lettore come dovrebbe fare una traduzione cristiana della Bibbia. Ai traduttori della Nuova Riveduta suggerisco: non è mai troppo tardi.

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    I ROTOLI DEL MAR MORTO

    Nel lontano 1947, per caso, un pastore si imbatté nel ritrovamento di alcuni manoscritti all’interno di una grotta presso il Mar Morto. Fu l’inizio di una serie di ritrovamenti che riportarono alla luce il contenuto di undici caverne, un tesoro di reperti datati dagli studiosi fra il 250 a.C. ed il 68 d.C.

    Lo studio dei cosiddetti rotoli del Mar Morto ha permesso di ottenere una migliore conoscenza della realtà del giudaismo del secondo tempio, in particolare del periodo precedente la distruzione operata dai romani. "I manoscritti ... forniscono uno spaccato di questa società presentandola secondo caratteristiche che prima del 1947 erano sconosciute". 6

    Va evidenziato che con tale scoperta si è entrati nella disponibilità di prove manoscritte per l’Antico Testamento, circa mille anni più antiche di quelle utilizzate fino a quel momento.

    A seguito delle ricerche condotte negli anni nelle varie grotte con il tempo riscoperte, sono stati rinvenuti in realtà

    6 Simone Paganini, Gesù, Qumran e gli esseni, edizioni Paoline, pag. 60

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    frammenti, nella gran parte, ma che testimoniano l’esistenza ed il testo di circa 850 libri. Sembra comunque che si possa parlare di circa 1200 rotoli che facevano originariamente parte di questa straordinaria biblioteca, ripartita in ben undici grotte.

    Molti di questi libri sono sopravvissuti in frammenti. Il

    famosissimo rotolo di Isaia (qui sopra in una foto facilmente reperibile su internet) è un’eccezione. Si tratta di un manoscritto completo, un testimone impossibile da sottovalutare. La sua esistenza e lo stato del suo testo dimostrano l’attendibilità del testo Masoretico utilizzato sia dagli ebrei che dai cristiani come base per le traduzioni dell’ Antico Testamento.

    “Appena gli studiosi ebbero avuto l’opportunità di studiare il grande rotolo di Isaia proveniente dalla caverna 1 (1QIsa, copiato approssimativamente nell’anno 100 a.C.) e poterono confrontarlo con il testo Masoretico, essi furono impressionati dai risultati. Nonostante il rotolo di Isaia fosse circa mille anni più antico della versione masoretica di Isaia, i due erano virtualmente identici ad eccezione di qualche dettaglio minore che raramente andava ad alterare il significato

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    del testo... I risultati ottenuti dagli studi comparativi di questo tipo sono stati ripetuti per molti altri testi biblici rinvenuti a Qumran. La grande maggioranza dei nuovi rotoli appartengono alla stessa tradizione del testo Masoretico. Essi sono, comunque, più antichi di secoli e dimostrano così in maniera molto convincente quanto siano stati attenti gli scribi ebrei nel trasmettere quel testo negli anni”.7

    La più antica ed accreditata teoria sui manoscritti del Mar Morto vuole che questi siano i sopravvissuti della “biblioteca” nella disponibilità di una comunità insediata a Qumran. L'accesso ad alcune grotte è infatti possibile soltanto passando da tale insediamento.

    Vista la varietà degli scritti presenti nella “biblioteca”, è lecito supporre che i manoscritti siano stati trafugati e accuratamente nascosti per farli sfuggire all’ira distruttiva dei romani, furiosi per il tentativo di rivolta che poi, come ci ricorda la storia, finì per costare un numero grandissimo di

    7 James C. VanderKam, The Dead Sea Scrolls Today, p.126.

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    vittime al popolo ebraico e la distruzione della sua capitale e del secondo tempio.

    “- I manoscritti del Mar Morto testimoniano una ricchezza teologica che è impossibile ricondurre all’attività di un unico gruppo all’interno del giudaismo…

    - Questi manoscritti dai contenuti e dalle forme letterarie varie e disparate furono nascosti in grotte nelle vicinanze dell’antico insediamento di Qumran poco prima della sua distruzione".8 Come i rotoli siano giunti nelle grotte di Qumran e cosa ci facessero lì, forse non lo sapremo mai con certezza assoluta; ma ciò che conta è che questi siano riusciti a sopravvivere alle guerre delle rivolte giudaiche ed al trascorrere di quasi due millenni per giungere fino a noi ed arricchire indicibilmente le nostre conoscenze storico-archeologiche sulla vita in Israele nel primo secolo d.C. Infatti sono ben 223 i manoscritti biblici custoditi nelle grotte. I libri meglio attestati sono i Salmi (39 manoscritti) e, ovviamente la Torah, la Legge di Mosè. È davvero degno di una nota particolare il ritrovamento di ben 8 manoscritti che ci testimoniano e confermano quasi per intero il testo del libro di Daniele. 96 manoscritti non sono stati identificati. I rimanenti hanno vari contenuti. Fra questi il libro di Tobia, di Enoc, un apocrifo della Genesi, il cosiddetto Rotolo del Tempio, la Regola della Comunità, il Rotolo della Guerra e i vari commentari ai libri canonici dell’Antico Testamento. Come abbiamo già detto, la lingua dei manoscritti è particolarmente importante. Oltre l’85/90% dei testi sono in ebraico e quasi tutto il rimanente in lingua aramaica. Quanto il Nuovo Testamento sia intriso di cultura ebraica è risultato ancora più evidente grazie alla scoperta dei rotoli.

    8 Simone Paganini, Gesù, Qumran e gli esseni, ed. Paoline, pag. 18-19.

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    Oggi più che mai appare chiaro che i libri del Nuovo Testamento erano perfettamente in armonia con la lingua e gli stili letterari del tempo nel quale sono stati scritti. Le affinità con le opere letterarie giudaiche del primo secolo, conducono a delle conclusioni.

    Il Nuovo Testamento è più antico di quanto gli studiosi hanno finora supposto e ciò in accordo con le informazioni tramandate dalla Chiesa antica. I vangeli, le epistole, non possono essere stati scritti dopo la distruzione della città e del tempio di Gerusalemme nel 70 d.C. Fino ad allora l’elemento ebraico nei convertiti alla fede cristiana era predominante. Fu da quel catastrofico momento in avanti e con il successo dell’opera missionaria di Paolo che i convertiti al cristianesimo furono principalmente non ebrei.

    Con tutto il clamore che hanno suscitato alcuni vangeli apocrifi, grazie a sapienti operazioni mediatiche, va sottolineato come gli scritti al di fuori del canone neotestamentario come il Vangelo di Tommaso, il Vangelo di Giuda, ecc…, mostrino chiaramente di essere risalire a periodi molto posteriori rispetto alle opere canoniche, proprio perché non hanno tracce dell’influenza semitica che invece nel Nuovo Testamento è tanto evidente.

    I vangeli sono delle opere molto antiche. Sono stati scritti da testimoni oculari o storici che hanno raccolto diligentemente le informazioni di testimoni oculari, come Luca. Ciò è avvenuto molto presto, come è dimostrato dall’affinità di stile fra Marco, Matteo e Luca e gli scritti qumranici.

    Gli studiosi appartenenti a certe correnti di pensiero sono ancora oggi saldamente ancorati a conclusioni datate e ormai non più sostenibili, ma che comunque vengono ancora proposte per non far tremare cattedre e non dover consegnare all’oblio testi ritenuti ormai quasi sacri da una certa cerchia di critici. Ma nuove evidenze impongono una rilettura di tutto il

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    quadro. J.A.T. Robinson fece scandalo quando nel 1976 ha

    pubblicato Redating the New Testament (1976) e Priority of John (1985), dove, andando contro corrente rispetto alla critica avversa all'antichità degli scritti neotestamentari, ridatava il Nuovo Testamento a favore di una sua maggiore antichità.

    Jean Carmignac, Carnsten Thiede, Robinson, ed altri pionieri, sono stati studiosi che hanno avuto il coraggio di rompere con i legami intellettuali dello studio del Nuovo Testamento, per rimettere tutto in discussione.

    Simone Paganini fa un’esposizione dettagliata delle affinità fra gli scritti di Qumran e il Nuovo Testamento. Esamina particolari, stili, contenuti. Poi, però, non riesce a concludere e semplicemente – ed anche tristemente a mio avviso – forse per evitare che la sua opera venga scartata in certi ambienti “sacri”, conclude: “La ricerca scientifica sui testi del Nuovo Testamento rivela che i vangeli furono scritti tutti dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme nel 70 d.C.”9 Ma che dici Simone? Tutte le informazioni che hai raccolto nel tuo libro sono prova che il Nuovo Testamento è stato scritto prima del 70 d.C. e che la comunità che si definisce “scientifica” ma che è principalmente “scettica” e imbevuta di pregiudizi deve rendersi conto che i tempi sono maturi per rivedere drasticamente le sue posizioni o essere pronta a soccombere intellettualmente – visto che prima o poi le case edificate sulla sabbia finiscono per crollare. Per quello che stiamo discutendo qui, saranno oggetto di particolare attenzione i 25 frammenti di manoscritti in lingua greca rinvenuti nelle grotte numero 4 (6 frammenti) e 7 (19 frammenti). È su questi ultimi che concentreremo la nostra attenzione

    9 9 Simone Paganini, Gesù, Qumran e gli esseni, ed. Paoline, pag. 123

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    da qui in avanti, cercando di chiarire cosa ci facessero degli scritti in greco in una biblioteca ebraica e provando, se possibile, persino ad identificarne il contenuto. Avanzeremo anche delle possibili conclusioni. Eusebio Panfilo, vescovo di Cesarea, ha scritto all’inizio del IV secolo, una importantissima “Storia Ecclesiastica”. Egli narra come i cristiani scamparono alla distruzione di Gerusalemme avvenuta per mano di Tito nel 70 d.C.: “L’intera chiesa di Gerusalemme, avendo ricevuto comando per mezzo di una rivelazione divina, avuta da uomini di nota reputazione i quali si trovavano lì prima della guerra, lasciò la città …”, “Storia Ecclesiastica”, Libro III, V. Chiudo questo paragrafo con una domanda: è possibile che parte degli scritti cristiani portati via da Gerusalemme per sfuggire alla distruzione romana trovarono rifugio in una delle grotte di Qumran? Nelle pagine che seguono vaglieremo questa possibilità.

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  • IL NUOVO TESTAMENTO

    La presenza di libri del Nuovo Testamento fra i rotoli non è mai stata presa in seria considerazione. scartata a priori. Questo fino al Callaghan pubblicò un articolo nella rivista tardi, nel 1974, un libro intitolato 7 de Qumran”. La grotta numero 7 è diversa dalle altre di Qusono rinvenuti una serie di rotoliinusuale, visto che gli altri manoscritti di Qumran sono di materiale più pregiato, come la pergamena.la cosa, la grotta ha solo testi in grecoattentamente esaminato i contenuti della grotta, che ha visitato personalmente.

    Lo studioso ha tratto le conclusioni che espongo qui di seguito Egli concorda con l'identificazione di (nell'immaginecome Esodo 28:444. Ma poi va sostiene di essere riuscito ad identificare gli altri reperti in greco della grotta come

    frammenti contenenti brani del Nuovo Testamento.

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    L NUOVO TESTAMENTO A QUMRAN

    La presenza di libri del Nuovo Testamento fra i rotoli non è mai stata presa in seria considerazione. A dire il vero è stata

    Questo fino al 1972, quando il gesuita José O’ cò un articolo nella rivista “Biblica” e più

    un libro intitolato “Los papiros greco de la Cueva

    è diversa dalle altre di Qumran. Vi si i rotoli di papiro, materiale piuttosto

    inusuale, visto che gli altri manoscritti di Qumran sono di materiale più pregiato, come la pergamena. Per complicare la cosa, la grotta ha solo testi in greco. José O' Callaghan ha

    contenuti della grotta, che ha visitato

    Lo studioso ha tratto le conclusioni che espongo qui di seguito.

    Egli concorda con l'identificazione di 7Q1 nell'immagine) e 7Q2, che sono riconosciuti

    28:4-7 e l'epistola di Geremia 43-poi va oltre rispetto ai suoi colleghi e

    ene di essere riuscito ad identificare gli altri reperti in greco della grotta come

    frammenti contenenti brani del Nuovo Testamento.

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    O' Callaghan identifica 7Q5 con Marco 6:52-53, 7Q6,1=Marco 4:28, 7Q6,2=Atti 27:38, 7Q8=Giacomo 1:23-24, 7Q4=1 Timoteo 3:16-4:1-3, 7Q7=Marco 12:17, 7Q9=Romani 5:11-12, 7Q10=2 Pietro 1:15, 7Q15=Marco 6:48.

    Il frammento qui accanto è appunto il 7Q5, sigla che indica il manoscritto catalogato con il numero 5, rivenuto all'interno della grotta chiamata numero 7. Esso faceva originariamente parte di un rotolo scritto soltanto da una parte (recto).

    Sono visibili 20 lettere greche, distribuite su cinque righe. 10 lettere sono danneggiate.

    Il punto di massima altezza del frammento è 3.9 cm. Il punto di massima larghezza misura 2.7 cm.

    Il reperto si trovava al Rockfeller Museum di Gerusalemme, ma adesso è nella disponibilità delle Israelian Antiquities Authorities.

    Si può vedere in alta definizione e quindi anche esaminare nei siti ufficiali:

    http://www.antiquities.org.il/ http://www.deadseascrolls.org.il/ José O’Callaghan ritiene che 7Q5 fosse originariamente

    parte di un manoscritto che conteneva il vangelo di Marco. Egli identificò le 20 lettere con il testo originale di Marco 6:52-53.

    Se il Vangelo era veramente fra i manoscritti del Mar Morto, ciò ha delle ripercussioni notevoli in altre branche degli studi legati all'origine del Nuovo Testamento. Si renderebbe necessario rivedere radicalmente (sarebbe ora) alcuni capisaldi di una certa critica che, mascherata da cristiana, mira soltanto a distruggere la credibilità degli scritti apostolici. Chiedo scusa se parlo con troppa verità.

    Quasi tutti, se non tutti i testi, danno per certo che non vi

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    fossero scritti neotestamentari fra i reperti di Qumran. Ho già citato l'italiano Simone Paganini, che prima dice che nelle grotte si trovano reperti appartenenti alle più diverse fazioni del giudaismo (e il cristianesimo prima del 70 d.C. è proprio una fazione del giudaismo), documenti nascosti lì per farli sfuggire alla furia dei romani. Poi liquida la questione dicendo che non vi possono essere resti del Nuovo Testamento perché la critica ufficiale dice a priori che non potevano esistere già in quel periodo.

    Eppure, si dovrebbe procedere in tutt’altra maniera. Cioè, se si riesce a dimostrare con sufficiente probabilità la presenza di scritti neotestamentari nella grotta 7, partendo proprio da nuovi dati oggettivi si debbono rivedere i capisaldi della critica che rigetta le vedute tradizionali della Chiesa - sostenute dai Padri e dai credenti conservatori. Inoltre, dal punto di vista squisitamente filologico, se l'approfondimento dei contenuti dei rotoli ha rivelato inaspettate affinità con gli scritti neotestamentari, sarebbe almeno saggio cercare di non ancorarsi a idee preconcette, ma rivedere alla luce delle nuove evidenze, le posizioni sulle date di composizione dei vangeli.

    Carsten Peter Thiede, con convinzione ed entusiasmo, ha reiterato ed ulteriormente dimostrato la validità delle conclusioni di O’Callaghan circa i contenuti della grotta n.7.

    Ovviamente, la possibilità che vi possano essere scritti neotestamentari nella biblioteca di Qumran è considerata uno scandalo e, visto che questa è la punizione per chi non si allinea, le voci contrarie alla corrente di pensiero "scientifica" vengono condannate all'oblio.

    Ferdinand Rohrhirsch, professore all'università di Eichstatt, pensa e dichiara apertamente che la voce degli oppositori all'attribuzione di 7Q5, fra i quali vi è quella del critico testuale Kurt Aland, è il risultato di pregiudizi e non di osservazioni scientifiche: “... l'ipotesi di O’Callaghan è ancora in piedi, mentre le confutazioni proposte finora si sono dimostrate

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    inconsistenti o sbagliate”.10 L'opinione della papirologa Orsolina Montevecchi è molto

    importante. Ella era Presidente onorario della società internazionale dei papirologi. In merito a 7Q5 scrive: “Come papirologa posso dire che l'identificazione mi sembra sicura. Le cinque righe ancora visibili di cui consiste il frammento corrispondono a Mc 6,52-53. E' estremamente improbabile la corrispondenza con un altro testo... le tracce sono in righe diverse: una volta trovato che queste coincidono con un brano di Marco, è difficilissimo, praticamente impossibile, che possa trattarsi di un altro testo, magari sconosciuto... Quanto alla data di composizione, mi pare non si possa andare oltre la metà del I secolo. Cioè oltre il 50 al massimo, quindi, questo frammento del vangelo di Marco è databile 20 anni dopo la morte di Cristo”.11

    Sopra una ricostruzione del testo di Marco con il 7Q5 tratta

    da http://digilander.libero.it/Hard_Rain/7Q5/7Q5_3.htm Nel corso del convegno di Venezia appena considerato,

    venne esaminato anche il parere di Albert Dou (ne ho

    10 Marco e il suo Vangelo, Atti del Convegno internazionale di Studi “Il vangelo di Marco”, Venezia, 30-31 Maggio 1995, edited by Lucio Cilia, pag. 121. 11 Marco e il suo Vangelo, Atti del Convegno internazionale di studi "Il vangelo di Marco", Venezia, 30-31 maggio 1995, a cura di Lucio Cilia, Edizioni San Paolo, p.122

  • accennato già prima), ingegnere e dottore in matematica, ordinario di matematica presso il Politecnico di Madrid, ordinario di equazioni differenziali presso l'Università di Madrid, membro della Reale Accademia delle Scienze di Madrid. Con la disarmante teprofessor Albert Dou formula due ipotesi: 1) La probabilità che si trovi casualmente un altro testo, con lo stesso numero di spazi e lettere e con una sticometria che oscilli 7Q5, secondo l'identificazione di Mardi una su trentaseimila milioni. 2) Dal punto di vista del calcolo delle probabilità, nell'equiparare un testo letterario espressivo con un testo matematico inespressivo, si da luogo a un errore di difficile stima, di cui non si calcolo precedente. Trattandosi di un testo letterario, particolarità che modifica il primo calcolo, il professor Dou propone il nuovo valore matematico: con la stessa sticometria di 7Q5, come prima, la probabilità che si trovi casualmenaltro testo è di una su novecentomila milioni.”, pag. 122. Nel suo libro O' Callaghan descri7. Fra le ceramiche rinvenute nella grotta, vi era unun'iscrizione sopra, che merita la nostra attenzione Questa è la rappresentazione grafica del reperto come riprodotta nel libro dello studioso.

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    accennato già prima), ingegnere e dottore in matematica, ordinario di matematica presso il Politecnico di Madrid, ordinario di equazioni differenziali presso l'Università di Madrid, membro della Reale Accademia delle Scienze di Madrid. Con la disarmante testimonianza dei numeri “Il professor Albert Dou formula due ipotesi: 1) La probabilità che si trovi casualmente un altro testo, con lo stesso numero di spazi e lettere e con una sticometria che oscilli - come quella di 7Q5, secondo l'identificazione di Marco - tra 20 e 30 lettere è di una su trentaseimila milioni. 2) Dal punto di vista del calcolo delle probabilità, nell'equiparare un testo letterario espressivo con un testo matematico inespressivo, si da luogo a un errore di difficile stima, di cui non si è tenuto conto nel calcolo precedente. Trattandosi di un testo letterario, particolarità che modifica il primo calcolo, il professor Dou propone il nuovo valore matematico: con la stessa sticometria di 7Q5, come prima, la probabilità che si trovi casualmente un altro testo è di una su novecentomila milioni.”, pag. 122.

    Callaghan descrisse i contenuti della grotta Fra le ceramiche rinvenute nella grotta, vi era un vaso con

    un'iscrizione sopra, che merita la nostra attenzione. la rappresentazione grafica del reperto come

    riprodotta nel libro dello studioso.

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    L'iscrizione in lettere ebraiche, visibile in alto a sinistra, è la seguente: 12.רומא O’ Callaghan ha evidenziato che la scritta potrebbe riferirsi: - Ad un nome proprio. - Al contenuto del vaso. - Ad una località. Lo studioso spagnolo ha suggerito che le quattro lettere indicassero la città di Roma, in alfabeto ebraico. Troppi indizi per scartare a priori che a Qumran non possano esservi stati anche i libri della fazione giudaica che oggi noi conosciamo come cristianesimo, ma che prima del 70 d.C. era tutt'uno con il giudaismo del tempo. Nulla di strano se dei manoscritti giunti da Roma fossero stati dirottati nel loro contenitore in una delle grotte di Qumran. Eusebio di Cesarea nel IV secolo, scrisse quanto segue nella sua famosa Storia Ecclesiastica, esponendo con ogni probabilità l’opinione comune della cristianità: “Così tanto comunque lo splendore dell’amore illuminava la mente degli ascoltatori di Pietro, che non era sufficiente sentirlo una sola volta, né ricevere in forma non scritta la dottrina del vangelo di Dio e quindi sollecitarono in ogni maniera Marco, compagno di Pietro, e del quale abbiamo ricevuto il vangelo, che egli dovesse lasciare un’opera scritta della dottrina comunicata

    si legge da destra verso sinistra e corrisponde, nel nostro alfabeto a רומא 12ROMH. Più o meno, visto che, non avendo l'ebraico delle vocali, ho traslitterato con una “h” la " א" (aleph) prima lettera dell'alfabeto ebraico, dalla quale poi sono derivate la "α" (alfa) greca e poi la nostra “a”, ma che non assume necessariamente il suono della nostra "a" in ebraico.

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    verbalmente. E non smisero di sollecitare fino a che prevalsero con la loro richiesta e così divennero il mezzo per la nascita di quello che noi chiamiamo il vangelo di Marco. Essi dicono inoltre che l’apostolo (Pietro), essendosi resosi conto che ciò era stato fatto per rivelazione dello Spirito, fu felice dall’ardore dello zelo espresso da questi uomini, e la narrazione ottenne la sua autorità con lo scopo di leggerlo nelle chiese. Questa narrazione è data da Clemente, nel sesto libro delle sue Istituzioni, la cui testimonianza è corroborata da quella di Papia, vescovo di Ierapoli.”13 Alla luce di quanto detto fin qui, possiamo ritenere più che fondata la tesi che vi fossero degli scritti cristiani fra i rotoli del Mar Morto. Non lo troverete mai scritto in nessun testo ufficiale sui rotoli, non se questo vuole essere accettato dalla comunità scientifica, perché è molto più facile per certi studiosi “scartare a priori una tesi che non si adatta ai loro paradigmi intellettuali”.14 Il forte elemento ebraico, la sua possibile presenza a Qumran, e quanto finora discusso, fa pendere la bilancia a favore della datazione tradizionale per gli scritti del Nuovo Testamento, che è un prodotto della cultura ebraica in ogni senso. La sua composizione in greco e la diffusione fra i Gentili, i non ebrei che abbracciarono la fede in Cristo, non lo hanno spogliato di questa sua meravigliosa caratteristica, come il tempo e le nuove scoperte hanno ormai definitivamente confermato.

    13

    The Ecclesiastical history of Eusebius Pamphilus, Baker Book House, Grand Rapids, Michigan, 1991, p.64-65. 14 C.P. Thiede and M. d’Ancona, Eyewitness to Jesus, p.43.

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    PRASSI QUMRANIANA NEL NUOVO TESTAMENTO

    Chi ha letto gli articoli ed il libro che ho scritto sull'argomento sa che i miei studi mi hanno ormai portato a maturare la convinzione che il Tetragramma (יהוה) non fosse parte degli autografi del Nuovo Testamento. Vi sono, infatti, poco più che mere supposizioni e deduzioni dalla parte di chi lo ritiene possibile, ma prove oggettive ed unanimi dalla parte di chi è contro una tale eventualità.

    Eppure, io sono convinto che l'utilizzo di una lingua che non sia quella madre difficilmente potrà non risentire della mentalità natia di chi vi si cimenta. A volte mi imbatto in degli scritti in inglese che sono così chiaramente opera di italiani, che di italiano hanno proprio tutto tranne la lingua: la costruzione delle frasi, la scelta dei vocaboli, ecc..., rimangono profondamente legati alla cultura e lingua italiane. Tomasi di Lampedusa sottopose a continue revisioni il suo romanzo “Il Gattopardo” per epurarlo dai sicilianismi che originavano involontariamente nel testo a causa della sua cultura.

    La dipendenza dalla mentalità ebraica degli autori del Nuovo Testamento è riscontrabile nei cosiddetti ebraismi, o semitismi: espressioni verbali in greco palesemente dipendenti dalla lingua e dal pensiero ebraico dell'autore.

    Se così è, voglio cercare di spingere l'analisi del Nuovo Testamento greco nella direzione della ricerca della prassi

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    ebraica del I secolo che impegnava gli Ebrei nella ricerca di circonlocuzioni che pe