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Linguaggio e cambiamento. L'uso di parole chiave in terapia Luigi Boscolo - Paolo Bertrando - Paola Maria Fiocco R. Meri Palvarini - Jacqueline Pereira Le considerazioni che seguono nascono dal nostro interesse verso i processi di cambiamen- to che si verificano in terapia. È nostra opinione che spesso tali processi siano legati all'uso di espressioni verbali, dotate d'un certo margine d'ambiguità e d'indeterminazione o capaci di evocare particolari stati emotivi, espressioni ver- bali che includono quelle che abbiamo scelto di chiamare "parole chiave". A volte, nel nostro lavoro, la scelta d'una parola chiave si è dimo- strata determinante nel mettere in moto un cam- LUIGI BOSCOLO Co-direttore, Centro Milanese di Terapia della Famiglia, via Leopar- di 19, Milano. PAOLO BERTRANDO Associazione Ricerche sulla Schizofrenia (ARS), via Tamagno 5, Mi- lano (Direttore Scientifico: Prof. C.L. Cazzullo). PAOLA MARIA FIOCCO Dipartimento di Sociologia, Università di Padova (Direttore: Prof. S. Acquaviva). R. MERI PALVARI NI Unità Sanitaria Locale, Pavullo (Modena). JACQUELINE PEREIRA Centro Milanese di Terapia della Famiglia. biamento o nello sbloccare situazioni che pare- vano condannate allo stallo. A volte, addirittura, i cambiamenti sono stati innescati da parole o metafore cui erano i clienti ad attribuire una particolare importanza, esplicitata da connes- sioni tra il cambiamento che si era verificato e una parola o un concetto a cui il terapeuta non aveva dato rilevanza. Ciò è in sintonia con l'idea che i significati sono attribuiti dal ricevente, non dall'emittente. Parole chiave sono state usate in molte altre situazioni, oltre che in terapia: basti pensare alle "parole d'ordine" dei politici, parole o frasi tali da avere una pregnanza e un impatto emo- tivo intensi. Parole come queste vanno lette ciascuna nel proprio contesto, ma a volte han- no una potenza tale da riuscire, da sole, a costruire un contesto. Il "new deal" di Roose- velt è un esempio del genere, una frase che a distanza di decenni ancora riesce a evocare un'atmosfera di ottimismo e fiducia nel futuro; analoga valenza è stata posseduta dal nome scelto per il sindacato libero polacco, "Solidar- nosc" (solidarietà). Anche nella nostra cultura sono state usate parole d'ordine analoghe: un politico italiano, per indicare la necessità di accordi tra partiti che però non limitassero la possibilità d'azione di 41

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Linguaggio e cambiamento.L'uso di parole chiave in terapia

Luigi Boscolo - Paolo Bertrando - Paola Maria FioccoR. Meri Palvarini - Jacqueline Pereira

Le considerazioni che seguono nascono dalnostro interesse verso i processi di cambiamen-to che si verificano in terapia. È nostra opinioneche spesso tali processi siano legati all'uso diespressioni verbali, dotate d'un certo margined'ambiguità e d'indeterminazione o capaci dievocare particolari stati emotivi, espressioni ver-bali che includono quelle che abbiamo scelto dichiamare "parole chiave". A volte, nel nostrolavoro, la scelta d'una parola chiave si è dimo-strata determinante nel mettere in moto un cam-

LUIGI BOSCOLOCo-direttore, Centro Milanese di Terapia della Famiglia, via Leopar-di 19, Milano.

PAOLO BERTRANDOAssociazione Ricerche sulla Schizofrenia (ARS), via Tamagno 5, Mi-lano (Direttore Scientifico: Prof. C.L. Cazzullo).

PAOLA MARIA FIOCCODipartimento di Sociologia, Università di Padova (Direttore: Prof. S.Acquaviva).

R. MERI PALVARI NIUnità Sanitaria Locale, Pavullo (Modena).

JACQUELINE PEREIRACentro Milanese di Terapia della Famiglia.

biamento o nello sbloccare situazioni che pare-vano condannate allo stallo. A volte, addirittura,i cambiamenti sono stati innescati da parole ometafore cui erano i clienti ad attribuire unaparticolare importanza, esplicitata da connes-sioni tra il cambiamento che si era verificato euna parola o un concetto a cui il terapeuta nonaveva dato rilevanza. Ciò è in sintonia con l'ideache i significati sono attribuiti dal ricevente, nondall'emittente.

Parole chiave sono state usate in molte altresituazioni, oltre che in terapia: basti pensarealle "parole d'ordine" dei politici, parole o frasitali da avere una pregnanza e un impatto emo-tivo intensi. Parole come queste vanno letteciascuna nel proprio contesto, ma a volte han-no una potenza tale da riuscire, da sole, acostruire un contesto. Il "new deal" di Roose-velt è un esempio del genere, una frase che adistanza di decenni ancora riesce a evocareun'atmosfera di ottimismo e fiducia nel futuro;analoga valenza è stata posseduta dal nomescelto per il sindacato libero polacco, "Solidar-nosc" (solidarietà).

Anche nella nostra cultura sono state usateparole d'ordine analoghe: un politico italiano,per indicare la necessità di accordi tra partiti cheperò non limitassero la possibilità d'azione di

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ciascuno, parlò negli anni sessanta di "conver-genze parallele", un'azione quasi paradossale,insieme necessaria e - a rigor di termini - impos-sibile.

Nel dominio della terapia, il gruppo di Milanoiniziò a servirsi di parole chiave (pur senzadefinirle tali) già negli anni settanta, rendendosiconto della loro efficacia. Nei primi anni settan-ta, l'attenzione era fecalizzata sull'elaborazionedi un'ipotesi sistemica dalla quale derivava unintervento finale, cui era attribuita la possibilitàd'indurre un cambiamento; l'interesse per laseduta era trascurabile (24).

Dopo il 1975, l'attenzione si spostò sulla con-duzione di seduta; di qui nacquero i concetti dineutralità, circolarità e ipotizzazione (25). Ledomande circolari diventarono uno degli stru-menti più importanti del terapeuta nella condu-zione di seduta. Con tali domande, il terapeutavalutava le ipotesi che man mano emergevanonel discorso. L'attenzione verso il linguaggio fuuna naturale conseguenza di tale processo. L'in-teresse verso i comportamenti verbali, paraver-bali e non verbali che intercorrevano tra fami-glia e terapeuta si associò a quello, preesistente,per le modalità organizzative del sistema osser-vato. Parallelamente, un altro elemento d'inte-resse diventarono le emozioni e le loro espres-sioni linguistiche e analogiche.

Oggi la nostra ricerca sulle espressioni lingui-stiche, di cui questo lavoro sulle parole chiaveè un primo esempio, sta cercando di passare dauna fase intuitiva a una fase analitica. In questasede ci occuperemo di parole chiave, mentredelle metafore e delle metonimie, che apparten-gono al campo della retorica, ci occuperemo inun prossimo lavoro. Cercheremo di capire comee perché determinate parole agiscono. Ciò si-gnifica indagare sul processo terapeutico ser-vendosi di strumenti linguistici. Per questo ènecessario innanzitutto precisare i confini dellanostra indagine.

livelli di analisi del

II costruttivismo di Gregory Bateson (3)ma, di Maturana e Varela (15) e Heinz vonjFoerster (12) poi e il costruttivismo radicale dilvon Glasersfeld, che hanno potentemente in-Jfluenzato il pensiero sistemico-cibernetico, co- jstatuiscono un modello scientifico che pone in iprimo piano il ruolo dell'osservatore nella co- ;struzione della realtà. Un contributo in questo ;senso, del resto, era già venuto dallo sviluppo 'degli studi semiotici nella prima metà del nove-cento. L'idea di arbitrarietà nella connessione trasignificante e significato introdotta dalla teoriadel segno di de Saussure (7) aveva aperto lastrada alla possibilità di concepire la lingua co-me modalità di costruzione dei significati, equindi costruzione diretta della realtà .

Alcune delle teorie linguistiche attualmentepiù accreditate hanno abbandonato completa-mente il filone della "corrispondenza biunivo-ca" tra parole ed oggetti esterni. Le semiotichee semantiche strutturali indagano le determi-nanti culturali e le interazioni ambientali cheportano una lingua naturale ad essere parlatacom'è parlata. La grammatica universale chom-skiana, invece, analizza le determinanti respon-sabili della nostra capacità di parlare una qual-siasi lingua. Nel primo caso si indagano eventi,nel secondo potenzialità. Le diverse teorie dellinguaggio si pongono cioè differenti obiettivi.Ma per perseguirli devono lavorare sul linguag-gio a più livelli. Possiamo schematizzarli parten-do dal livello più generale (Livello Zero) perarrivare ai livelli più specifici.

'Questa linea di pensiero ha raggiunto la sua espressionemassima con le opere di Sapir (23) e di Whorf (26), ed è statapiù di recente estesa da Umberto Eco (8, 9).

2 Tutta la famiglia delle grammatiche generative derivatedall'opera di Chomsky, fino alla sua "Grammatica Universa-le" (6).

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Linguaggio e cambiamento.L'uso di parole chiave in terapia

Luigi Boscolo - Paolo Bertrando - Paola Maria FioccoR. Meri Palvarini - Jacqueline Pereira

Le considerazioni che seguono nascono dalnostro interesse verso i processi di cambiamen-to che si verificano in terapia. È nostra opinioneche spesso tali processi siano legati all'uso diespressioni verbali, dotate d'un certo margined'ambiguità e d'indeterminazione o capaci dievocare particolari stati emotivi, espressioni ver-bali che includono quelle che abbiamo scelto dichiamare "parole chiave". A volte, nel nostrolavoro, la scelta d'una parola chiave si è dimo-strata determinante nel mettere in moto un cam-

LUIGI BOSCOLOCo-direttore, Centro Milanese di Terapia della Famiglia, via Leopar-di 19, Milano.

PAOLO BERTRANDOAssociazione Ricerche sulla Schizofrenia (ARS), via Tamagno 5, Mi-lano (Direttore Scientifico: Prof. C.L. Cazzullo).

PAOLA MARIA FIOCCODipartimento di Sociologia, Università di Padova (Direttore: Prof. S.Acquaviva).

R. MERI PALVARI NIUnità Sanitaria Locale, Pavullo (Modena).

JACQUELINE PEREIRACentro Milanese di Terapia della Famiglia.

biamento o nello sbloccare situazioni che pare-vano condannate allo stallo. A volte, addirittura,i cambiamenti sono stati innescati da parole ometafore cui erano i clienti ad attribuire unaparticolare importanza, esplicitata da connes-sioni tra il cambiamento che si era verificato euna parola o un concetto a cui il terapeuta nonaveva dato rilevanza. Ciò è in sintonia con l'ideache i significati sono attribuiti dal ricevente, nondall'emittente.

Parole chiave sono state usate in molte altresituazioni, oltre che in terapia: basti pensarealle "parole d'ordine" dei politici, parole o frasitali da avere una pregnanza e un impatto emo-tivo intensi. Parole come queste vanno letteciascuna nel proprio contesto, ma a volte han-no una potenza tale da riuscire, da sole, acostruire un contesto. Il "new deal" di Roose-velt è un esempio del genere, una frase che adistanza di decenni ancora riesce a evocareun'atmosfera di ottimismo e fiducia nel futuro;analoga valenza è stata posseduta dal nomescelto per il sindacato libero polacco, "Solidar-nosc" (solidarietà).

Anche nella nostra cultura sono state usateparole d'ordine analoghe: un politico italiano,per indicare la necessità di accordi tra partiti cheperò non limitassero la possibilità d'azione di

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Luigi Boscolo - Paolo Bertrando - Paola Maria Fiocco - R. Meri Palvarini - Jacqueline PereiraLinguaggio e cambiamento. L'uso di parole chiave in terapia

ciascuno, parlò negli anni sessanta di "conver-genze parallele", un'azione quasi paradossale,insieme necessaria e - a rigor di termini - impos-sibile.

Nel dominio della terapia, il gruppo di Milanoiniziò a servirsi di parole chiave (pur senzadefinirle tali) già negli anni settanta, rendendosiconto della loro efficacia. Nei primi anni settan-ta, l'attenzione era fecalizzata sull'elaborazionedi un'ipotesi sistemica dalla quale derivava unintervento finale, cui era attribuita la possibilitàd'indurre un cambiamento; l'interesse per laseduta era trascurabile (24).

Dopo il 1975, l'attenzione si spostò sulla con-duzione di seduta; di qui nacquero i concetti dineutralità, circolarità e ipotizzazione (25). Ledomande circolari diventarono uno degli stru-menti più importanti del terapeuta nella condu-zione di seduta. Con tali domande, il terapeutavalutava le ipotesi che man mano emergevanonel discorso. L'attenzione verso il linguaggio fuuna naturale conseguenza ditale processo. L'in-teresse verso i comportamenti verbali, paraver-bali e non verbali che intercorrevano tra fami-glia e terapeuta si associò a quello, preesistente,per le modalità organizzative del sistema osser-vato. Parallelamente, un altro elemento d'inte-resse diventarono le emozioni e le loro espres-sioni linguistiche e analogiche.

Oggi la nostra ricerca sulle espressioni lingui-stiche, di cui questo lavoro sulle parole chiaveè un primo esempio, sta cercando di passare dauna fase intuitiva a una fase analitica. In questasede ci occuperemo di parole chiave, mentredelle metafore e delle metonimie, che apparten-gono al campo della retorica, ci occuperemo inun prossimo lavoro. Cercheremo di capire comee perché determinate parole agiscono. Ciò si-gnifica indagare sul processo terapeutico ser-vendosi di strumenti linguistici. Per questo ènecessario innanzitutto precisare i confini dellanostra indagine.

livelli di analisi del linguaggio

II costruttivismo di Gregory Bateson (3) pri-ma, di Maturana e Varela (15) e Heinz vonFoerster (12) poi e il costruttivismo radicale divon Glasersfeld, che hanno potentemente in-fluenzato il pensiero sistemico-cibernetico, co-stituiscono un modello scientifico che pone inprimo piano il ruolo dell'osservatore nella co-struzione della realtà. Un contributo in questosenso, del resto, era già venuto dallo sviluppodegli studi semiotici nella prima metà del nove-cento. L'idea di arbitrarietà nella connessione trasignificante e significato introdotta dalla teoriadel segno di de Saussure (7) aveva aperto lastrada alla possibilità di concepire la lingua co-me modalità di costruzione dei significati, equindi costruzione diretta della realtà .

Alcune delle teorie linguistiche attualmentepiù accreditate hanno abbandonato completa-mente il filone della "corrispondenza biunivo-ca" tra parole ed oggetti esterni. Le semiotichee semantiche strutturali indagano le determi-nanti culturali e le interazioni ambientali cheportano una lingua naturale ad essere parlatacom'è parlata. La grammatica universale chom-skiana, invece, analizza le determinanti respon-sabili della nostra capacità di parlare una qual-siasi lingua. Nel primo caso si indagano eventi,nel secondo potenzialità. Le diverse teorie dellinguaggio si pongono cioè differenti obiettivi.Ma per perseguirli devono lavorare sul linguag-gio a più livelli. Possiamo schematizzarli parten-do dal livello più generale (Livello Zero) perarrivare ai livelli più specifici.

1Questa linea di pensiero ha raggiunto la sua espressionemassima con le opere di Sapir (23) e di Whorf (26), ed è statapiù di recente estesa da Umberto Eco (8, 9).

2 Tutta la famiglia delle grammatiche generative derivatedall'opera di Chomsky, fino alla sua "Grammatica Universa-le" (6).

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Luigi Boscolo - Paolo Bertrando - Paola Maria Fiocco - R. Meri Palvarini -Jacqueline PereiraLinguaggio e cambiamento. L'uso di parole chiave in terapia

Livello Zero

A questo livello possiamo porre le grammati-che generative e trasformative, da Chomsky (6)a Fodor (11) e agli altri linguisti di derivazionechomskiana, che hanno assunto rilevanza negliultimi decenni. Questi autori prendono in con-siderazione la facoltà innata (che si presumegeneticamente determinata) che rende possibiligli atti linguistici degli esseri umani. Tale facoltàè da essi definita "competenza linguistica". Lelingue naturali sono considerate come attualiz-zazioni delle potenzialità insite nel sistema"Grammatica Universale". L'indagine linguisticasi concentra sulle caratteristiche comuni a tutti iparlanti di tutte le lingue, situandosi così allivello più generale della nostra classificazione.

Livello 1

I linguisti che operano a questo livello, daSaussure (7) a Jacobson (14), a Sapir (23) eWhorf (26), fino a Hilary Putnam (21), si occu-pano principalmente dello studio delle linguestoricamente esistenti, quindi della realizzazio-ne delle possibilità indagate dalla GrammaticaUniversale. Tale approccio linguistico (la lingui-stica strutturale) vede la lingua non da punto divista neurobiologico, ma come co-creazione diuna comunità di parlanti, cioè come un fenome-no interattivo. Ogni lingua ha delle caratteristi-che (grammatica, sintassi, semantica) che la di-stinguono dalle altre. La linguistica strutturale,che de Saussure definiva la "linguistica dellalangue", è quella che si occupa di ciò che ècomune a tutti i parlanti di una data lingua.

Livello 2

Alcuni linguisti, come Morris, hanno definito

questa disciplina "pragmatica", altri, come Um-berto Eco, preferiscono vederla come una bran-ca della semantica. Essa si occupa dell'interazio-ne linguistica tra gli individui e dei suoi effetti,cioè delle singolarità dei vari modi di parlare: vipossono rientrare tutte le manifestazioni di co-municazione paraverbale o non verbale (2, 4),spesso trascurate dallo studio linguistico perchénon codificabili, o comunque difficilmenteobiettivabili. Nello studio della conversazionedevono considerarsi incluse tutte le modalitàcomunicative impiegate (o impiegabili) nelleeffettive interazioni di due o più esseri umani.Questo è il livello più vicino alla nostra praticaterapeutica. All'interno di questo livello, ci inte-resserà il linguaggio nel suo duplice risvoltoverbale e non verbale, cognitivo ed emotivo. Cioccuperemo anche di significati, di metafore, dimetonimie, e naturalmente anche di "parolechiave", che costituiscono un piccolo settore diquesto livello, e che sono il soggetto dell'odier-na presentazione.

Retorica e terapia

Indagando il livello 2 dello studio del linguag-gio, ci sembra che una delle ricerche potenzial-mente più fruttuose sia quella che esplori laconnessione tra la terapia e la retorica (17, 18,19, 20, 22). Gli antichi greci definivano la reto-rica come "l'arte di persuadere". In questa defi-nizione, concetti come "persuasione" e "convin-cimento" non stanno a indicare quegli effetti diplagio cui si pensa volgarmente. La retoricagreca considera il modo in cui si possono otte-nere degli effetti attraverso il parlare, ovvero ilrapporto tra azione e linguaggio, che è uno deipunti centrali nella relazione terapeutica. Que-sto significa che, fin dall'antichità, erano note lerelazioni intime tra i due aspetti della comuni-cazione e soprattutto non se ne ignoravano i

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risvolti psicologici. In questo senso, la retoricaè stata la {Mima disciplina che si sia posta comeponte tra pensiero e azione, a differenza dellalogica, che scindeva queste due realtà. L'arte delben parlare è secondaria, mentre ciò che è pri-mario per noi sono le emozioni evocate nell'in-terazione attraverso una determinata strutturadel discorso, cui si connettono pensieri e signi-ficati. (|̂ ji jajpdo in cui un discorso - una data *esposizione degli elementi del discorso - riescead agire sull'interlocutore, evocando emozioniconnesse a determinati significati).

La retorica nacque a Siracusa nei primi de-cenni del V secolo a.C., quando due tiranniespropriarono i terreni per darli ai soldati mer-cenari (16). Abbattuta la tirannide, iniziò unalunga stagione di processi. Corace e il suo allie-vo Tisia vi lavorarono con il seguente principio:il sembrare vero conta certo assaipiù dell'esserevero.

Quindi si diedero alla ricerca delle tecnicheatte alla dimostrazione di una tesi.

Sempre in Sicilia prosperava la psicagogica,cioè un genere di retorica che trascinava glianimi degli ascoltatori. Essa mirava a suscitareintense emozioni nell'ascoltatore per ottenere ilcambiamento del suo agire. Più tardi Aristoteleintrodusse, a suo modo, il concetto di contesto,parlando della "opportunità" del discorso, chedoveva variare a seconda delle circostanze edelle condizioni degli interlocutori. Egli siste-matizzò la retorica, riconoscendone l'efficacia,stabilendo pure che, come la logica fa uso delsillogismo, la retorica ha il suo strumento prin-cipale nell' entimema,^che arriva a conclusioniprobabili e confutabili. Molti entimemi aristote-lici sono basati sui cosiddetti "luoghi comuni" .Aristotele, inoltre, si occupò ampiamente della

Mortara Garavelli (16) ne cita uno (p. 24): -Se neppure tuttigli dei sanno tutte le cose, ancor più diffìcilmente le sapran-no gli uomini». Esso si basa sul luogo (Jopos) comune del"più e del meno".

metafora e dei suoi effetti come figura centraledel discorso.

A questo punto è agevole rintracciare le simi-litudini e le differenze tra un retore e un terapeu-ta sistemico. Entrambi cercano di cambiare lepremesse dei propri interlocutori attraverso illinguaggio e le emozioni veicolate dal linguag-gio, entrambi lavorano su parole e metafore. Mase il retore ha una sua tesi da sostenere, ilterapeuta, nel dialogo con i pazienti, è continua-mente alla ricerca di una "tesi", che non arriveràmai ad essere una tesi definitiva: gli effetti diquesta ricerca possono favorire nel cliente - enon solo nel cliente - il sorgere di nuove emo-zioni, nuovi sistemi di significato, che possonodiventare nuove premesse. In questo senso,parafrasando Pirandello, una famiglia che va interapia può essere vista come un gruppo dipersonaggi in cerca d'autore: alla ricerca, conesso, d'un nuovo copione.

Il terapeuta che opera con il metodo di Milanoesplora, con i clienti, molte ipotesi diverse, e nelturbinio di domande e risposte possono sorgerenuove concezioni, idee, significati, in pocheparole nuove storie. In questo senso, la terapiasistemica è inquadrabile in una retorica deU'im-predicibilità.

Lessico terapeutico e parole chiave

Definiamo lessico terapeutico il particolarelinguaggio che emerge, nel tempo, dalla relazio-ne tra clienti e terapeuta. Ad esempio, nellaterapia rogersiana il terapeuta tende a ripeterecerte domande o affermazioni del cliente secon-do uno stilema particolare: «Lei dice ah-ah»,che segnala allo stesso tempo attenzione e ac-ccttazione. Si crea così un lessico che è tuttofondato sul linguaggio del cliente, mentre ilterapeuta si riserva soprattutto di evidenziare esottolineare certe parole ed emozioni espresse

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dal cliente. L'analista freudiano classico inter-rompe i suoi lunghi silenzi con affermazioni ointerpretazioni precedute da una forma dubita-tiva: «Mi domando se...», che apre il discorso,lasciando al cliente la scelta del significato.

È noto che gran parte dei terapeuti familiari,ispirantisi ai più diversi modelli, tende ad esseremolto attiva nel corso della seduta. È caratteri-stico del lessico del modello di Milano la formu-lazione, da parte del terapeuta o del consulente,di domande suggerite da ipotesi formulate sullabase dei "dati" offerti dai clienti, oltre che, natu-ralmente, dalle premesse (pregiudizi, teorie) delterapeuta stesso. Non si deve pensare, natural-mente, che il processo sia così meccanico eunidirezionale come può apparire da questadescrizione: è possibile anche una descrizioneopposta, cioè che le domande del terapeutasiano suscitate dalle affermazioni dei clienti.

Come abbiamo accennato all'inizio dell'arti-colo, il nostro recente interesse al lessico tera-peutico ci ha portato a considerare l'importanzadi certe parole o perifrasi, legata alla naturastessa delle parole oppure al contesto in cuisono pronunciate, oppure a entrambi.. Tali pa-role, le "parole chiave", hanno una grande po-tenzialità di ridefinizione. Esse possono inserirsinelle mappe dei clienti, nelle loro storie, intro-ducendo un alto grado di "disordine", dal qualepuò originarsi una riorganizzazione, cioè uncambiamento. Utilizzando il linguaggio di Pri-gogine, si potrebbe dire che le parole chiavepossono portare un sistema lontano dall'equili-brio, dall'ordine preesistente. Il sistema si rior-ganizza producendo cambiamento se la nuovacostruzione piace, attira, sorprende. Frequente-mente le parole chiave evocano momenti signi-ficativi della vita di relazione, sono parole-ponteatte a collegare mondi diversi e contrapposti.Possono creare stati di ambiguità, per la loronatura polisemica; attivare corto circuiti tra i trediversi livelli della cognizione, dell'emozione e

dell'azione, generando un percorso a spiraleche non ha inizio né fine: è l'"eterna ghirlandabrillante" (13) di Hofstadter.

Potremmo dividere le parole chiave in jlgetcategorie: ̂ quelle utilizzabili in situazioni diver-se, con diversi clienti, e quelle uniche a unospecifico cliente e a uno specifico momento.Tale suddivisione richiama quella dei rituali nelprimo periodo del gruppo di Milano (1971-75).Molte parole chiave della prima categoria sonocorrelate a temi di alta pregnanza emotivo-affet-tiva, quali, ad esempio, nascita/morte, attacca-mento/distacco, malattia/sanità e così via. Cisono parole che sono più adatte di altre adevocare questi temi.

Faremo un esempio. Se ci troviamo di fronteai genitori di un figlio sintomatico, che comespesso accade si ritira dalla vita sociale, lascia gliamici e a volte la scuola e il lavoro, e in brevefinisce per trincerarsi in casa, possiamo chiederloro: «Come spiegate il fatto che vostro figlio siaentrato in sciopero?», e poi al figlio: «E lei, perchéha deciso di far sciopero?». "Sciopero" è unaparola ambigua e polisemica, che definisce unamplissimo campo semantico, all'interno delquale vari possibili significati entrano in gioco.L'ambiguità della parola è relativa al suo impie-go in un contesto clinico, in cui degli esperti lasostituiscono alla parola "malattia": a questopunto, dal momento che il contesto è matricedi significati, ed è in relazione alla conversazio-ne, quella parola rende ambiguo il contesto. Dalmomento che ogni sistema interattivo tende atrovare una coerenza, i clienti possono reagirea quest'inserzione di ambiguità trovando nuovisignificati.

Per comprendere la nostra ipotesi sul modoin cui una parola chiave come "sciopero" puòfavorire il lavoro terapeutico, è utile fare riferi-mento alla linguistica saussuriana com'è statariveduta e modificata dapprima da Roland Bar-thes, quindi da Umberto Eco (8,9). Secondo

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questo modello, ogni segno collocato in un par-ticolare sistema di significazione consta di dueelementi, significante e significato, indissolu-bilmente uniti come le due facce d'un foglio. Ilrapporto tra significante^ significato, però, nonè così semplice come appare a prima vista: essoè univoco solo in certi linguaggi, come quelli diprogrammazione dei computer, mentre nellelingue naturali è ben più complesso. Eco hachiarito assai bene la distinzione tra denotazio-ne (rispondenza, univoca tra significante e signi-ficato) e connotazione(rìspondenza molteplicee multiforme tra i due termini):

«Sulla base di un codice dato, un significante de-nota dunque un significato. Il rapporto di denotazio-ne è un rapporto diretto e univoco, rigidamentefissato dal codice (...). Il rapporto di connotazione sipone quando una coppia formata dal significante edal significato denotato diventano insieme il signifi-cante di un significato aggiunto. Potrà poi accadereche questa connotazione ne generi una seconda,rispetto alla quale il significato già connotato diventail significante del nuovo significato.» (8, pp.37-38).

È evidente, da quanto detto, che l'azione delleparole chiave si colloca al livello della conno-tazione. Quanto più i termini usati sono poliva-lenti, ricchi di possibili connotazioni, tanto mag-giore potrà essere l'efficacia. È opportuno che ildiscorso sia tale da veicolare queste connota-zioni. All'interno del discorso terapeutico si co-stituisce un equilibrio tra le varie connotazionidelle parole usate: in tal modo, i clienti hannola possibilità di scegliere un significato rispettoa un altro.

Riprendiamo ora la parola "sciopero" ed esa-miniamone le diverse connotazioni e i relativieffetti qualora la si sostituisca alle parole "sinto-mo" o "malattia" nella conversazione terapeuti-ca:

1) la parola "malattia" è un'etichetta e implica

pertanto che tutti i comportamenti osservatisono da considerarsi involontari; la parola"sciopero" introduce una connotazione divolontarietà e intenzionalità;

2) "sciopero" è una parola che per definizioneconnota una relazione, e rappresenta un'a-zione compiuta contro qualcuno o per qual-cuno;

3) il terapeuta, con l'uso della parola "sciope-ro", da un senso al comportamento del pa-ziente nella relazione con le persone signifi-cative;

4) i diversi significati, ovvero le diverse conno-tazioni offerte della parola introducono, co-me già osservato, ambiguità: uno scioperopuò essere giustificato o ingiustificato, puòessere fatto prò o contro qualcuno, per otte-nere qualcosa o evitare qualcos'altro, puòsostenere una causa giusta o ingiusta, ecc.;

5) anche l'orizzonte temporale evocato dallaparola "sciopero" è diverso da quello evoca-to da "sintomo" o "malattia": implica un pe-riodo di vita definito da un inizio e da unafine, mentre la malattia può avere un corsobreve, ciclico oppure cronico.

Così è possibile chiedere: «È il primo scioperodi questo tipo nella vostra famiglia? Di solito,uno sciopero come questo quanto dura? È unosciopero generale o è rivolto verso qualcuno inparticolare? Che cosa dovrebbero fare i suoifamiliari per rispondere alle istanze di questosciopero?».

Ricordiamo un'operazione simile fatta da Sal-vador Minuchin nel corso di una prima seduta.Alla domanda «Perché avete richiesto il miointervento?», il padre della paziente designatarispose: «Perché mia figlia soffre di anoressianervosa!». Minuchin subito intervenne, conespressione interrogativa, quasi perplessa:«Anoressia nervosa?... Ah sì, quella parola grecache vuoi dire "ostinazione" (stubborness ). Voi

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siete venuti qui perché avete una figlia ostina-ta... Ah, ah».

Sono molte altre le parole-chiave utilizzabiliin terapia. Ad esempio, introdurre la parola"schiavitù" come causa di un sintomo o di uncomportamento è frequentemente utile nei casidi anoressia o bulimia, oppure nelle tossicodi-pendenze o nelle nevrosi ossessive, in breve, intutti i casi in cui i sintomi hanno un forte poterecompulsivo e il problema di base è quello delcontrollo. Il terapeuta definisce il paziente desi-gnato come "schiavo" di una forza più grandedi lui, che lo obbliga a comportamenti indeside-rati. Il campo semantico evocato è in certo modoopposto a quello derivante da "sciopero": là uncomportamento giudicato involontario è ridefi-nito come intenzionale, qui un comportamentoche spesso il paziente designato pensa di potercontrollare è riformulato come incontrollabile.In quest'ultimo caso, il terapeuta ha la possibi-lità di creare un'alleanza con il paziente, vittimad'un potere negativo che lo condiziona, e inquesto modo lo sottrae all'idea di essere "mala-to" o "cattivo".

Giochi linguistici

Wittgenstein (27) direbbe che le parole-chia-ve sono parole spendibili in più giochi linguisti-ci. Noi aggiungiamo che sono fatte in modo taleda favorire il passaggio da un gioco linguisticoa un altro, ponendosi come "interfacce" tra diessi. Nelle parole dello stesso Wittgenstein:

•Chiameremo "giochi di linguaggio" o "giochi lin-guistici" i sistemi di comunicazione (...). Essi sono piùo meno affini a ciò che, nel linguaggio comune, noichiamiamo: giochi. Ai bambini s'insegna la loro ma-drelingua mediante tali giochi, che hanno il caratteredivertente proprio dei giochi. Noi, tuttavia, conside-riamo i giochi di linguaggio da noi descritti non comeparti incomplete d'un linguaggio, ma come linguaggi

in sé completi, come sistemi completi di comunica-zione umana.» (27, trad. it. pp. 108-109).

Spesso i nostri clienti sembrano ancorati a(

giocare soltanto certi giochi linguistici, e nonaltri. L'uso di parole e di frasi ambigue assumeallora una funzione di ponte tra giochi diversi.L'ipotesi sottesa a una tale prassi è che, se iclienti riescono a giocare nuovi giochi, possonoanche sfuggire a quella sorta di necessità che neperpetua la sofferenza. Sperimentare emotiva-mente (e non solo cognitivamente) nuovi giochidi linguaggio contribuisce a cambiare le pre-messe.

Ad esempio, una parola-chiave in grado dimettere in moto un nuovo gioco linguistico è laparola "idea"* Si può chiedere a un cliente:"Quando le è venuta l'idea di essere un incapa-ce? Quando ha avuto per la prima volta l'ideache non sarà mai, mai un padre all'altezza di suopadre? Chi, nella sua famiglia, condivide con leiquesta idea?". Usare "idea" in luogo di "sintomo"è un modo di eliminare virtualmente il verboessere. Si passa dal gioco ontologico (chi è in-capace) a quello epistemologico (chi pensa diessere incapace). Si introduce epistemologiadove c'era ontologia. Un'altra parola utilizzabilecon una certa dose d'ambiguità può essere "in-namoramento", "innamorarsi", riferita a relazio-ni familiari. Esemplificheremo con un caso.Giorgio era un giovane di 28 anni, con genitoriproprietari di una lavanderia e una sorella mi-nore di cinque anni, fidanzata. Lavorava in la-vanderia con il padre, ma da quasi cinque anniaveva preso a fare uso di eroina, spendendovitutti i suoi guadagni e anche di più (spessorubava in casa). A un certo punto, nel corsodella prima seduta, il terapeuta sbotta: «Giorgio,non è che lei si droga perché è innamorato disua madre?». Il giovane ribatte: «È vero, io sonosempre stato innamorato di mia madre!». Altredomande introducono poi la possibilità che

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Giorgio si sia dato all'eroina proprio per evitaredi potersi innamorare di un'altra donna, e so-prattutto per mettere alla prova l'amore dellamamma, che è sempre la persona cui si rivolgequando è senza soldi per la droga o si trova incrisi d'astinenza. I soldi ricevuti da lei sono unaprova d'amore. Giorgio annuisce e ribatte: «Èsbagliato amare così tanto una madre?». «Inastratto, no - replica il terapeuta - è una sceltache lei fa, una scelta che condiziona la sua vita.Di solito i bambini, all'età di dieci-dodici annilasciano la madre e s'innamorano del padre, perpoi, nell'adolescenza, innamorarsi di persone,situazioni esterne alla famiglia. Nel suo caso,questo passo non si è compiuto, lei è rimastoinnamorato della mamma. E l'eroina è il mezzoche le permette di mantenere l'innamoramentoverso di lei».

La parola "innamoramento", in questo conte-sto, evoca due possibili scenari: quello naturaledell'amore tra genitore e figlio, e quello "inna-turale" incestuoso in cui il figlio assume il ruolodi partner. Nel corso della seconda seduta, ilterapeuta, in un dialogo con la sorella, s'interes-sa della posizione del padre all'interno dellafamiglia. Inaspettatamente, il padre si mette apiangere. Emerge a poco a poco una situazione,per il padre, di solitudine ed emarginazione,giustificata dallo stesso per amore del figlio. Daquando il figlio è sintomatico, il padre si è ritira-to e ha lasciato la moglie al figlio. La parolachiave "innamoramento" in questo caso ha in-nescato un processo di cambiamento che si èriverberato sulle sedute seguenti.

Un altro caso ci mostrerà quanto una parola-chiave possa rivelare le ambiguità di una rela-zione. Mario era un ragazzine di 15 anni, primo-genito di una famiglia con cinque fratelli, d'ori-gine meridionale, che abitava alla periferia diMilano. Dopo essere stato un bambino esem-plare fino a 12 anni, improvvisamente si eramesso a rubare e a diventare sempre più antiso-

ciale, fino a essere riconosciuto capo di unabanda di teppisti in erba del rione. Catturato piùvolte dai carabinieri, era ormai il pensiero fissodella madre e del padre. L'assistente sociale delcomune inviò infine la famiglia in terapia: sape-va che il maresciallo dei locali carabinieri atten-deva ormai con impazienza i 15 anni di Mario,età in cui avrebbe potuto finalmente imputarloe mandarlo in carcere per le sue malefatte. L'in-viante manifestava una particolare preoccupa-zione per questo cliente: "Se va in prigione perlui è finita, inizierà la carriera di delinquente"affermava.

Alla prima seduta la famiglia si presenta alcompleto, una famiglia modesta ma dignitosa.La madre appare figura centrale, e colpisce tuttal'equipe per la sua grande energia ed intensitàemotiva. Tutti i figli le sembrano legati stretta-mente. Mario pure era molto legato a lei primadi iniziare a delinquere. L'equipe, partendo daun'ipotesi in cui Mario ha cominciato a protesta-re in modo sintomatico per presunte preferenzedella madre verso i fratelli, sceglie la parolaintensità, relativa alla madre, e la parola morale,relativa a Mario, per evocare il tema attaccamen-to/perdita, centrale in questo caso: «Noi ritenia-mo che Mario sia un ragazzo molto morale. Alcentro della sua attenzione c'è la giustizia. Atredici anni ha incominciato ad accorgersi che,essendo la mamma una donna molto intensa, ifratelli e le sorelle si stavano legando sempre dipiù a lei, isolando il padre. Essendo la mammacosì intensa, Mario ha sentito il pericolo che ifratelli e le sorelle non si sarebbero più staccatida lei in futuro, non si sarebbero più sposati, eil padre sarebbe stato privato della sua parte dimamma. Mario ha deciso allora di diventare luiun grosso problema, permettendo che mammae papa si occupino di lui, restituendo al padrela posizione che aveva perduto e lasciando solii fratelli e le sorelle, in modo da costringerli aoccuparsi di altre cose».

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La parola "morale?, capovolgendo la conno-tazione negativa di delinquenza e introducendouna funzione relazionale positiva, aveva provo-cato stupore nella famiglia. D'altro canto, laparola "intensità" riferita alla madre, ripetuta piùvolte in quest'intervento, indica sia "grande af-fettività" che "possibile pericolo" per un'even-tuale arresto evolutivo della famiglia, con con-seguente mancanza di separazione-individua-zione dei figli. Se la parola "morale" ha indottostupore, la parola "intensità" ha indotto un visi-bile disagio nella madre e nei figli più grandi, eun'espressione di piacevole sorpresa da partedel padre.

Appena a casa, Mario chiede di essere man-dato per qualche tempo in Puglia, a casa deinonni, per "cambiare aria". In precedenza, lasupplica dei genitori di andare per un certoperiodo dai nonni per sottarsi a un futuro pe-ricoloso non aveva avuto risposta. Mario ri-marrà dai nonni tre mesi, e al ritorno riprende-rà la scuola e s'incamminerà verso una vita"normale".

Contesto terapeutico, contestolinguìstico

Fin dalle prime battute, il terapeuta è attentoal "lessico" e al tipo di linguaggio degli interlo-cutori, che consiste non solo del repertorio delleparole, ma soprattutto dei gesti, degli atteggia-menti e del complesso delle connotazioni nonverbali. Tale attenzione gli consente di calibrarele proprie parole ed emozioni così da integrarlenel contesto creato con i clienti. Il terapeutas'immerge in una conversazione il più possibileaperta (Goolishian, 1, sostiene che "tenere aper-to il discorso" è l'attività principale del terapeu-ta). Il linguaggio è un atto di reciprocità tra lepersone; nella complessità degli scambi si vei-colano reti innumerevoli di possibilità, di azioni,

di significati. Questa reciprocità può essere de-scritta come la lettura degli effetti delle parole edelle emozioni del terapeuta sui clienti, e ricor-sivamente degli effetti dei clienti sul terapeuta.Dalle parole dei clienti, ma soprattutto dal lorolinguaggio analogico, il terapeuta trae orienta-mento sui significati che essi attribuiscono aisuoi interventi. Un viso che s'illumina, un'oc-chiata d'intesa, un improvviso scuotimento delcapo possono essere segnali che nuove pro-spettive stanno emergendo.

Il terapeuta, a volte, è membro di un'equipeterapeutica, che osserva la seduta da dietro lospecchio o attraverso un monitor TV. Tradizio-nalmente, nell'incontro tra terapeuta ed équipesi fanno ipotesi sulle modalità organizzative delsistema osservato, sulle premesse personali ocollettive dei clienti e del terapeuta. Recente-mente, abbiamo iniziato a interessarci particola-mente dell'analisi linguistica della relazione te-rapeutica e di consulenza. L'equipe si occupainnanzitutto delle parole e dei segni non verbaliusati nel dialogo tra terapeuta e clienti; manmano che la terapia procede, delle ridondanzelinguistiche; infine, del lessico che emerge nelsistema terapeutico. Può così assistere il tera-peuta nello scegliere le parole e le metafore piùappropriate all'ipotesi che si è costruita sul lin-guaggio di quel cliente o di quella famiglia. Ciòche stiamo dicendo ora non è nuovo: i testi ditecnica terapeutica hanno sempre sottolineatol'importanza del prendere in considerazione illinguaggio del cliente in relazione alla sua classesociale, al gruppo etnico e alla regione di pro-venienza. Noi ci proponiamo di approfondirequesto argomento alla luce anche dei recentiindirizzi nella terapia relazionale, che s'ispiranoal costruttivismo, all'analisi del linguaggio, allanarrativa. Offriamo una semplice vignetta cheillustra quel che può accadere se si trascura diconsiderare le parole, il lessico, il contesto lin-guistico. Alla prima seduta di una coppia di

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operai abitanti nella periferia milanese, sposatida cinque anni, il terapeuta, allievo del terzocorso, chiede con tono di lieve imbarazzo allamoglie: «Come sono i rapporti fra di voi?». Icolleghi dietro lo specchio non hanno alcundubbio che il terapeuta si riferisca ai rapportisessuali. La signora, perplessa, si gira verso ilmarito e con aria interrogativa dice: «Rapporti...rapporti... ma cosa vuoi dire?». Il terapeuta, dirimando, con un leggero movimento conver-gente degli indici: «Voglio dire, i vostri rapporti... rapporti!». La signora, con aria smarrita, sirigira verso il marito, e ripete con tono interro-gativo: «Rapporti... rapporti...». Il marito rispon-de come prima, con un'alzata di spalle, come asignificare che non comprende. Improvvisa-mente, la signora si volta di scatto verso il tera-peuta, illuminandosi e battendosi la fronte dice:«Vuoi dire quante volte scopiamo?». Il terapeuta,arrossendo, annuì.

Questi rilievi vogliono sottolineare una nuovaevoluzione nel nostro modo di fare terapia econsulenza. Possiamo dire che oggi l'analisi deilinguaggi del cliente, del terapeuta e dell'equipenel corso della seduta sembrano condurci allosviluppo d'un laboratorio metalinguistico . Le1

parole chiave non hanno, come già accennato,efficacia indipendente da un contesto di discor-so. È necessario che il contesto in cui si usa laparola-chiave abbia un senso tanto per il tera-peuta quanto per la famiglia. Chiariremo con uncaso.

Silvio C. venne in terapia con i propri genitori,la madre e il padre medico, perché bulimico. Eraun giovane di 25 anni, snello ed elegante, madivorato da attacchi di incontenibile fame, che

Ci proponiamo, in ulteriori ricerche, di occuparci dellinguaggio specifico del terapeuta. Di condurre, cioè, ilterapeuta alla consapevolezza delle proprie idiosincrasieverbali e non verbali, delle parole e delle metafore che glisono più congeniali e dei modi più efficaci in cui può usareil proprio linguaggio (la sua. parole, direbbe de Saussure).

in un anno lo avevano anche condotto due voltein ospedale per squilibri elettrolitici. Nella primaseduta, Silvio descrive gli attacchi bulimici (cheormai costano al padre più di quanto riesca aguadagnare). Prenota una saletta riservata in unvicino ristorante, mangia per un intero pomerig-gio quantità enormi di cibo, e ripetutamenteentra ed esce dal bagno contiguo, ove si appal-lottola un tovagliolo in gola e lo estrae di scattoper rigettare. Nel corso della seduta, emerge cheil giovane aveva avuto un fratellino morto a 8anni, quando lui ne aveva 12. L'equipe decidedi utilizzare quel fatto nell'intervento finale:«Quello che ci colpisce della vostra famiglia èche siete i superstiti di una morte della qualenon è stato ancora completato il lutto». 04 Silvio)«Lei, un anno fa, profondamente ha deciso difermarsi nei suoi studi temendo che la sua uscitadalla famiglia fosse intollerabile per i genitori,che avevano già perso un figlio. Ha cominciatoquindi a sviluppare un comportamento che por-ta sua madre a prepararle il cibo e suo padre alavorare per la sua sopravvivenza. In tal modoli rassicura che per ora non lascerà la casa». {Aigenitori) «Noi capiamo anche il vostro compor-tamento, che è quello di due genitori superstitidi un grave lutto e che fanno di tutto per tenerein vita il figlio affamato». Silvio, perplesso, sirivolge al terapeuta e chiede: «È per questo chemangio anche per mio fratello morto?». «È pos-sibile. Ora noi cercheremo di pensare a un mo-do per aiutarvi a elaborare il lutto, così quandoMario sarà veramente sepolto, voi potrete essereliberi di tornare al flusso della vostra vita.»

Alla seduta seguente, Silvio narra che le paro-le del terapeuta, soprattutto l'idea che lui era unsuperstite e non aveva superato il lutto gli eranorimaste dentro, gli avevano reso la notte inson-ne. Il giorno dopo, improvvisamente, avevasentito una pace intcriore, aveva chiamato gliamici che non vedeva da quasi un anno ed eraandato a passare il fine settimana con loro. Da

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allora, la bulimia era scomparsa (riapparirà, main modo assai più lieve, tre mesi dopo).

Nella discussione, l'equipe discute la "causa"presunta di un cambiamento tanto clamoroso.La tesi prevalente è che il terapeuta ha investitola famiglia di temi universali (morte, lutto, sepa-razione) con grande pathos emotivo, ridescri-vendola come un "gruppo di superstiti". A que-sta osservazione, il terapeuta ricorda che eglistesso nell'infanzia aveva avuto un fratellinomorto, e che questo era stato tra l'altro uno deitemi principali della sua analisi personale. Nellafamiglia, in effetti, la descrizione della morte delfiglio non era stata accompagnata da emozioniparticolarmente intense. Ciò conduce l'equipealla suggestiva ipotesi che i terapeuti rappresen-tino i propri conflitti profondi, e che i clienti,come osservatori possano farli propri. Questavisione è coerente con il concetto di "risonanza"nel pensiero di Mony Elkaim. Ciò fa pensareanche ad Aristotele, secondo il quale il teatro ècatartico (ovvero terapeutico) perché rappre-senta al pubblico i suoi stessi, universali dram-mi.

È naturale che attribuire a una singola parolala ragione di un cambiamento così grande èarbitrario. Tuttavia, noi pensiamo che certe pa-role, come la parola "superstiti" in questo caso,racchiudano in sé una weltanschauung che puòessere una differenza che fa la differenza.

Idiosincrasie

Nella nostra esperienza di terapeuti, alcuneparole chiave (sciopero, innamoramento, schia-vitù, calore, durezza, sofficità, ecc.) si sono di-mostrate utilizzabili in casi diversi. A volte, unaparola diventa parola chiave nel qui ed ora dellarelazione, quando ad esempio una parola sem-bra essere significativa e diventa ridondante.Queste parole chiave idiosincrasiche non sono

meno importanti di quelle molto generalizzabi-li. In un caso, ad esempio, in una famiglia dicinque membri, venne frequentemente sottoli-neato che il padre aveva trangugiato molti "boc-coni amari" nella sua vita, mentre la madre erastata abituata a "bocconi dolci", dati in abbon-danza dai figli maschi, studenti modello, cheformavano con lei la parte nobile della famiglia,in contrapposizione al padre, depresso, e allafiglia psicotica, che rappresentavano il sotto-gruppo di serie B. Il terapeuta utilizzò nell'inter-vento tali parole, sottolineando che era preoc-cupato per la madre in quanto, essendo stataabituata dai figli maschi soltanto ai "bocconidolci", poteva sviluppare un "diabete relaziona-le", non appena loro se ne fossero andati, men-tre i "bocconi amari" del padre lo avevano im-munizzato contro questi rischi, e la figlia, facen-do inghiottire i primi bocconi amari alla madre,la aiutava ad affrontare le traversie della vita. Aquesto punto, due parole utilizzate dalla fami-glia sono state riunite nella costruzione di unacomplessa metafora, che si è rivelata utile nel-l'evoluzione della famiglia. È palese che i boc-coni, lo zucchero e il diabete sarebbero stati didifficile uso in una famiglia che non avessepresentato le proprie difficoltà con quella parti-colare metafora.

A conclusione di questo lavoro, vorremmomettere in guardia dall'uso non ponderato di taliparole. Come abbiamo sottolineato, i significatiemergono nel contesto, che è co-costruito nellarelazione. In una relazione terapeutica positiva,in cui i clienti hanno un rapporto di fiducia versoil terapeuta, le parole chiave vengono ad assu-mere significati molto diversi da quelli che po-trebbero avere in un clima diverso. Parole come"sciopero", "innamoramento", "schiavitù ", ec-cetera, possono avere effetti positivi nel primocaso, negativi o anche distruttivi in altri contesti.In breve, l'uso delle parole chiave ha comepresupposto l'empatia del terapeuta, e ancor

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più profondamente, una visione positiva delsistema come si presenta .

Pensiamo che il tipo di linguaggio (le parolee il loro uso) che abbiamo descritto sia ingrado di attivare in una famiglia, nei singoli oin una coppia, uno "strano anello" (13), cioèuna struttura che connette simultaneamente eindissolubilmente, emozione, significati e la

possibilità di ristrutturazioni cognitive fulmi-nee. Le emozioni sono il collante potentissimocreato dai temi fondamentali delle parolechiave, e in questo processo può nascere ilcambiamento. I nuovi giochi linguistici si ac-compagnano a nuove descrizioni, nuoveemozioni, nuove azioni e aprono nuovi oriz-zonti.

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