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Shangri La e l'utopia del paradiso.
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James Hilton
Orizzonte perduto
Titolo originale: Lost Horizon
Traduzione di Simona Modica
Copyright 1935
by James Hilton
Copyright 1962
by Alice Hilton
Copyright 1995
Sellerio editore Palermo
Da questo libro, nel 1937 Frank Capra trasse un film celebre, che
giunse in Italia col titolo ShangriLa. Il film spinse molti a
ritornare al libro (inseguendo una "sinergia" oggi banale, allora
nuova). Ma il libro conserva un autonomo messaggio, e un'ambizione,
nell'avventuroso intreccio, non solo spettacolare. ShangriLa è il
monastero tibetano che ospita una antichissima e segreta città di
saggi, raccolti da ogni parte del mondo, di sesso cultura religione e
temperamento diversi, che meditano studiano vivono estremamente
longevi e passabilmente felici senza inseguire un preordinato disegno
di felicità - e soprattutto senza preoccuparsi di imporlo per le vie
della religione o della condotta o dell'utopia. Nessuno vi cerca
l'Uomo Nuovo; ognuno vivendo coopera a conservare i differenti valori
dell'umana civiltà. Orizzonte perduto racconta l'avventura di quattro
persone che vi giunsero, quello che videro e il destino che li
inseguì da quella esperienza. Un'avventura etica, esoterica,
sapienziale; ma soprattutto, dovrebbe dirsi, un'avventura
rooseveltiana escogitata in anni in cui i totalitarismi architettando
l'Uomo Nuovo ingigantivano tutte le antiche archeologie di morte. "Se
dovessi dirvelo in breve potrei definire la nostra principale
credenza così: moderazione. Inculchiamo la virtù di evitare eccessi
di qualunque specie; persino, perdonatemi il paradosso, eccessi di
virtù. Questo principio è la fonte di uno speciale grado di felicità.
Noi governiamo con moderata severità, e siamo soddisfatti di
un'obbedienza pure moderata. La nostra gente è moderatamente sobria,
moderatamente casta, e moderatamente onesta".
James Hilton (1900-1954) scrisse in Inghilterra, prima di
trapiantarsi a Hollywood come sceneggiatore, due romanzi di vasto
successo, questo Orizzonte perduto del 1933, e Addio, Mr' Chips
(1934).
Prologo
I sigari erano quasi alla fine; e cominciava a manifestarsi in noi
quella lieve delusione che i vecchi compagni di scuola provano quando
si ritrovano uomini e si accorgono di non essere affatto, nei gusti e
nel temperamento, così simili tra loro come credevano una volta.
Rutherford adesso scriveva romanzi; Wyland era segretario
d'Ambasciata, e ci aveva appunto invitati a pranzo a Templehof, non
direi con eccessiva cordialità, ma con quel giusto equilibrio che
ogni diplomatico deve saper mantenere in tali occasioni. Più che una
riunione di exstudenti, sembrava l'incontro casuale di tre inglesi
celibi in un paese straniero; e io m'ero subito accorto che il
leggero formalismo giovanile dell'amico Wyland non era diminuito con
gli anni; perciò preferivo Rutherford, il cui aspetto virile non
ricordava più in nulla il magro fanciullo precoce che allora mi
divertivo a proteggere e tormentare nello stesso tempo. L'unica
emozione in comune tra Wyland e me era forse una segreta punta
d'invidia, sorta dal dubbio che Rutherford stesse ora guadagnando più
di noi e che la sua vita fosse più interessante della nostra.
La serata, del resto, non era affatto noiosa. Dal nostro posto
vedevamo benissimo atterrare all'aeroporto i grandi aerei Lufthansa
provenienti da ogni parte dell'Europa Centrale, e quando poi, verso
l'imbrunire, le lampade ad arco si accesero la scena assunse un
aspetto fantastico, una luminosità quasi teatrale.
Tra gli aerei giunti uno era inglese, e il pilota che ne smontò,
passando poco dopo - ancora in completa tenuta di volo - davanti alla
nostra tavola, salutò Wyland. in un primo momento questi non lo
riconobbe, ma subito dopo ce lo presentò, e lo invitammo a sedersi
con noi. Era un allegro e simpatico giovinotto; si chiamava Sanders.
Wyland scherzò alquanto sulla difficoltà di riconoscere le persone
in casco e tuta. Sanders rise e confermò: "Oh, ne so qualcosa, io!
Non dimentichi che ero a Baskul". Anche Wyland rise, ma meno
spontaneamente, e si parlò d'altro. Con Sanders il nostro piccolo
gruppo fece un piacevole acquisto, e bevemmo insieme molta birra.
Verso le dieci Wyland ci lasciò un momento per parlare con qualcuno a
un tavolo vicino, e Rutherford, approfittando di quella pausa, chiese
a Sanders:
"Ha nominato Baskul. E' una località che conosco. E' accaduto
qualcosa laggiù?... a che fatto alludeva?...".
Sanders sorrise con un certo imbarazzo.
"Oh, un piccolo episodio; quando ero là in servizio militare;
piccolo... ma sconcertante... Ebbene" continuò il giovane, che non
sapeva tacere a lungo, "un afgano, o un indiano, o qualcun altro
insomma, se ne volò via con uno dei nostri apparecchi, e può
immaginare il chiasso che ne nacque. Si figuri che quel tale aveva
colto di sorpresa il pilota mentre si dirigeva verso il campo, lo
aveva intontito con un pugno, lo aveva spogliato della divisa e,
raggiunto l'apparecchio in completa tenuta di volo, era saltato nella
carlinga senza che nessuno si accorgesse dell'accaduto. Dati ai
meccanici i giusti segnali, s'era alzato in volo splendidamente... Il
guaio è che poi non fece più ritorno".
Rutherford parve interessarsi.
"E quando accadde il fatto?".
"Oh... forse un anno fa. Nel maggio del '31. Stavamo sgombrando la
popolazione civile da Baskul a Peshawar: c'era la rivoluzione, se ne
ricorda? Un grande trambusto. Senza quella confusione, certo la cosa
non sarebbe potuta succedere. Invece accadde; e poi si dice che
l'abito non fa il monaco!...".
Rutherford s'interessava sempre più.
"Credevo che in occasioni simili la responsabilità di un
apparecchio non fosse esclusivamente di un solo uomo".
"Non è di uno solo sui soliti trasportotruppe, ma quello era un
velivolo speciale, costruito in origine per un maharaja; una macchina
di lusso. Gli addetti alla Sorveglianza Indiana l'avevano usato per
voli a grande altezza nel Kashmir".
"E dice che non giunse mai a Peshawar?".
"Non solo non vi giunse mai, ma la cosa più strana è che - almeno
per quanto riuscimmo a saperne noi - non atterrò mai in nessun altro
luogo. Certo, se quel tale era membro di qualche tribù indigena, avrà
potuto dirigersi verso le montagne dell'interno con l'idea di farsi
pagare poi il riscatto dai suoi passeggeri. Io però credo che siano
morti tutti. Ci sono verso la frontiera tante lande sperdute dove se
accadesse un disastro aereo non se ne saprebbe nulla".
"Sì, conosco il paese. E quanti erano i passeggeri?".
"Credo quattro. Tre uomini e una suora missionaria".
"Uno di essi non si chiamava per caso Conway?".
Sanders lo guardò stupito:
"Ma sì, infatti. Il "glorioso" Conway; lo conosceva?".
"Siamo stati a scuola insieme" rispose Rutherford; ma lo disse con
un certo imbarazzo, perché quella frase, benché rispondesse alla
verità, gli parve banale e inopportuna.
"A Baskul lo dicevano un simpatico camerata" continuò Sanders.
Rutherford confermò:
"Certo; ma che cosa straordinaria... straordinaria... I giornali
non devono averne parlato" continuò tosto, come riprendendosi dopo
una divagazione mentale, "io leggo tutto, non mi sarebbe sfuggito.
Come mai questo silenzio?...".
Sanders parve confondersi, fin quasi ad arrossire.
"Veramente credo di aver chiacchierato più del dovuto" rispose. "O
forse oramai non importa. Se ne parlava mesi fa a ogni
mensaufficiali, e persino nei bazar. ma tutto fu messo a tacere...
sì... voglio dire... circa il modo come la cosa si svolse. Non
avrebbe fatto buona impressione. Le autorità si limitarono a
dichiarare che mancava un apparecchio e a dare i nomi delle persone
scomparse. Fuori dal nostro ambiente nessuno se ne interessò gran
che".
In quel momento Wyland tornò e Sanders sentì il bisogno quasi di
scusarsi con lui:
"Sa, Wyland, questi amici hanno parlato di Conway "il glorioso" e
io temo di aver spifferato la storia di Baskul. ho fatto male?...".
Wyland tacque un momento, contrariato. Ma tentò di conciliare la
cortesia cameratesca con la correttezza ufficiale.
"Non posso fare a meno di pensare" disse, "che non sia conveniente
farne un aneddoto. Credevo che voi aviatori aveste l'obbligo, sul
vostro onore, di non far chiacchiere inutili fuori di scuola".
Mortificato così il giovane, Wyland si rivolse, con particolare
gentilezza, a Rutherford:
"Nel tuo caso non importa, ma capirai che, se accadono fatti
speciali verso la frontiera, è necessario evitare che se ne sappia
troppo".
"D'altra parte" replicò asciutto Rutherford, "è naturale che si sia
curiosi di conoscere la verità".
"Non l'abbiamo mai nascosta a chi avesse un motivo serio di esserne
messo a parte; te lo posso assicurare, perché a quell'epoca io ero a
Peshawar. lo conoscevi bene Conway? Lo hai frequentato anche dopo gli
anni di scuola?".
"A Oxford ogni tanto ci si vedeva. Più tardi i nostri incontri
furono pochi e casuali. Tu, invece, l'hai incontrato spesso?".
"Ad Ankara, nel periodo in cui ero là di servizio ci vedemmo due o
tre volte".
"Che impressione ti fece?".
"Mi pareva molto intelligente, ma un po' apatico".
Rutherford sorrise:
"Certo era intelligentissimo. Fece i corsi universitari in modo
magnifico; fino allo scoppio della guerra. Rematore abilissimo,
veniva sempre mandato a tutte le gare; era molto stimato e molto
influente nell'"Union"; aveva vinto numerosi premi in campi
diversissimi; ed era poi, secondo me, il miglior pianista dilettante
che io abbia mai sentito. Uomo di infinite risorse, insomma; il tipo
ideale che Jowett avrebbe sognato come futuro primo ministro. E
invece non si sentì mai parlare molto di lui, dopo gli anni di
Oxford. fu certo la guerra a troncargli la carriera. Era
giovanissimo, e rimase al fronte quasi tutto il tempo".
"Se non erro" soggiunse Wyland, "fu ferito da una scheggia di
granata; o in qualche altro modo; ma non gravemente. Si fece onore,
ed ebbe in Francia una decorazione. Credo che sia ritornato poi, per
un certo tempo, a Oxford con uno speciale incarico: tutor, o qualcosa
di simile. So che nel '21 andò in Oriente. La sua conoscenza delle
lingue orientali gli valse l'impiego senza troppe difficoltà; e
occupò in seguito vari posti".
Rutherford sorrise in modo più aperto.
"Tutto questo si spiega. La storia non rivelerà mai quanta
intelligenza sprechino i dipendenti del Foreign Office offrendo tè e
pasticcini nei frequenti ricevimenti di Legazione".
"Conway apparteneva al servizio consolare, non alla carriera
diplomatica" disse Wyland con sussiego. Non gli piaceva esser
canzonato, e perciò non protestò affatto quando Rutherford, dopo
altre due o tre frasi del genere, si alzò per andarsene.
Si faceva tardi e anch'io dovevo lasciare la compagnia. Mentre ci
salutavamo, i modi di Wyland furono ancora di ufficiosa correttezza e
di silenziosa sopportazione; invece Sanders si mostrò molto cordiale
e disse che sperava di rivederci.
Dovevo partire l'indomani mattina a un'ora impossibile; mentre
aspettavamo un taxi Rutherford mi propose, per ingannare l'attesa del
treno, di accompagnarlo al suo albergo; avremmo potuto discorrere nel
suo salottino. Visto che accettavo con piacere, Rutherford disse:
"Potremo parlare ancora di Conway, se non sei stanco di
quest'argomento".
Feci capire a Rutherford che non mi dispiaceva affatto.
"Conway lasciò la scuola quando io finivo il mio primo anno" dissi;
"poi non lo rividi più. Ma era stato molto buono con me, nuovo
dell'ambiente, tanto più giovane di lui, senza nessuna qualità per
poterlo interessare; e quelle sue attenzioni, forse di nessuna
importanza per altri, io non le ho mai dimenticate".
Rutherford approvava; disse che anche lui gli voleva molto bene,
quantunque l'avesse visto assai poco.
Seguì uno strano silenzio, durante il quale apparve evidente che
stavamo entrambi pensando a qualcuno di cui ci importava molto più di
quanto non potessero lasciar immaginare i brevi incontri avuti con
lui. In seguito mi sono accorto spesso che chi aveva incontrato
Conway, sia pur fugacemente, lo ricordava poi a lungo con grande
vivezza. Da giovane non poteva certo passare inosservato e in quanto
a me, che lo conobbi nell'età in cui è facile crearsi con la fantasia
un eroe, ho di lui un ricordo quasi romantico.
Era alto e di aspetto distinto, e non solo eccelleva in tutti gli
sport, ma vinceva facilmente premi scolastici di ogni sorta. Un
professore sentimentale chiamò un giorno "gloriosi" i suoi successi,
e perciò gli rimase quel soprannome. Soltanto lui, forse, era degno
di portarlo da vivo. Aveva tenuto un'orazione pubblica in greco, ed
era un ottimo attore dilettante. Aveva qualcosa di elisabettiano; la
facile versatilità, il bell'aspetto, quell'unione fervida di attività
fisiche e intellettuali. Una specie di Philip Sidney. La nostra
civiltà non produce spesso esemplari simili, oggi. Lo dissi a
Rutherford ed egli mi rispose:
"E' vero, e li chiamano con disprezzo dilettanti. Credo che anche
Conway sia stato giudicato così da qualcuno. Da qualcuno come Wyland.
non mi piace molto Wyland. il vero tipo del puritano; così pieno di
sé... Non lo posso soffrire. E quella perfetta mentalità burocratica...
l'hai osservata? Quelle espressioni: "obbligo sul vostro onore...",
"chiacchiere inutili fuori di scuola...", come se la V Classe a S'
Domenico fosse l'Impero! Non ho mai avuto una grande stima di questi
diplomatici padreterni!".
Dopo un breve silenzio continuò:
"Tuttavia sono molto contento di non aver perduto questa serata. Mi
ha interessato moltissimo sentire Sanders raccontare l'incidente di
Baskul. me l'avevano già riferito, ed ero rimasto perplesso. Siccome
però l'incidente faceva parte di una storia molto più vasta e più
fantastica, una piccola ragione per credervi mi pareva di averla. Ora
le ragioni, anche se piccolissime, sono due. Non credere ch'io sia
tanto credulone; ho viaggiato quasi tutta la vita e so che al mondo
accadono fatti strani, ma finché non li vediamo noi stessi... finché
li sentiamo raccontare... Eppure questa volta...".
Parve a un tratto convincersi ch'io non potevo interessarmi molto a
quanto stava dicendo, e s'interruppe con una risata.
"Però una cosa è certa: che non mi confiderei mai con Wyland.
sarebbe come andar a offrire un poema epico a un giornale umoristico...
Se mai, preferirei provare con te".
"Forse ora vuoi farmi un complimento" soggiunsi.
"No, è stato il tuo libro a farmi pensare così".
Durante tutta la sera non avevo mai accennato a una certa
pubblicazione piuttosto tecnica, di cui ero l'autore (un neurologo
non può pretendere di interessare il primo venuto); fui quindi
piacevolmente sorpreso nel sentire che Rutherford conosceva il mio
libro. Glielo dissi, e mi rispose:
"Me ne sono interessato in un periodo in cui appunto Conway era
stato colpito da amnesia".
Eravamo intanto giunti all'albergo e dovette interrompersi per
farsi dare, al bureau, la sua chiave. Mentre salivamo al quinto piano
disse:
"Con tante parole, finora abbiamo soltanto girato intorno
all'argomento. La verità è che Conway non è morto; almeno non lo era
pochi mesi fa".
Non c'era possibilità di maggiori spiegazioni nel breve limite di
spazio e di tempo di una salita in ascensore. Pochi secondi dopo, nel
corridoio, gli domandai:
"Ne sei certo? Come lo hai saputo?".
Rutherford stava aprendo la porta:
"Ho viaggiato con lui da Sciangai a Honolulu in un piroscafo
giapponese lo scorso novembre".
Non continuò finché non fummo seduti in poltrona, provvisti di
sigari e di bibite.
"Io viaggio molto; e l'autunno scorso, per le mie vacanze, mi ero
recato in Cina.
"Da anni non avevo più visto Conway; non ci eravamo mai scritti, e
benché il suo viso fosse uno dei pochi rimasti nella mia memoria non
avevo davvero pensato spesso a lui. Ora mi accadde di incontrare
sull'espresso di Pechino, al ritorno da Hankow dove ero stato a
trovare un amico, la madre superiora di certe suore francesi di
carità, una donna molto simpatica. Andava a ChungKiang, dov'era il
suo convento, e siccome io me la cavo abbastanza col francese, mi
parlò volentieri del suo lavoro. In generale non ho molta simpatia
per le congregazioni missionarie, ma devo ammettere, e oggi non sono
il solo a riconoscerlo, che i cattolici romani formano una classe a
sé, perché lavorano molto e non si considerano pezzi grossi in un
mondo di gente inferiore. Ma ciò non importa. Questa suora parlandomi
del suo ospedale missionario accennò a un caso di febbre grave: un
uomo che le avevano portato poche settimane prima e che essa credeva
europeo, benché fosse senza documenti e incapace di dar notizie di
sé. Vestiva poveramente da indigeno, e quando le suore lo avevano
accolto era in condizioni molto gravi. Parlava correntemente il
cinese e abbastanza bene il francese, e la suora mi assicurò che
dapprincipio, finché il ricoverato non seppe di trovarsi in un
ospedale francese, si era espresso in un inglese purissimo, da
persona istruita.
"Le feci osservare che la cosa mi pareva piuttosto sensazionale, e
la canzonai un poco sulle sue capacità di distinguere l'accento
raffinato in una lingua che non conosceva. Scherzammo su questo e su
altri argomenti e tutto finì con un invito a visitare la missione se
fossi capitato da quelle parti. Il che naturalmente mi parve
probabile quanto un'ascensione sull'Everest, e così quando il treno
giunse a ChungKiang mi separai dalla superiora con sincero
rammarico. Invece il caso volle ch'io fossi di ritorno a ChungKiang
entro poche ore. Dopo alcuni chilometri la locomotiva ebbe un guasto
e ci rimorchiò faticosamente alla stazione di partenza, dove
apprendemmo che un treno di soccorso non avrebbe potuto giungere
prima di dodici ore. Queste cose capitano frequentemente sulle
ferrovie cinesi. Avevo perciò una mezza giornata da perdere a
ChungKiang e pensai di fare una visita alla buona suora.
"Fui ricevuto con piacevole sorpresa. E' piuttosto difficile per i
non cattolici riuscir a capire come mai i cattolici possano tanto
facilmente far andare d'accordo la rigidezza ufficiale con una non
ufficiale larghezza di vedute. Le sembra troppo complicato? Comunque
l'accoglienza che ebbi alla missione fu da parte di tutti
simpaticissima. In meno di un'ora fu preparato un buon pranzo e un
giovane medico cinese cristiano sedette a tavola con me esprimendosi
in un misto di francese e di inglese divertentissimo. Poi fui
condotto, dal medico e dalla madre superiora, a visitare l'ospedale,
di cui erano molto fieri. Avevo detto loro che ero uno scrittore e
nella loro semplicità erano molto emozionati al pensiero che potessi
metterli in un libro. Passando da un letto all'altro, il dottore
spiegava i vari casi. C'era la massima pulizia e un ordine perfetto.
Mi ero completamente dimenticato del misterioso paziente dall'accento
inglese purissimo quando la madre superiora me lo rammentò
avvertendomi che eravamo appunto giunti presso di lui. Sembrava che
il paziente dormisse. Non ne vedevo che il capo dalla parte della
nuca. Mi esortarono a rivolgergli la parola in inglese; gli dissi
"Buon giorno", la prima espressione (non molto originale!) che mi
venne alle labbra. Improvvisamente l'uomo si voltò a guardarmi, e
rispose "Buon giorno" non con l'accento di una persona del volgo. Ma
non ebbi il tempo di stupirmene che già avevo riconosciuto Conway,
quantunque non lo avessi più visto da un pezzo e malgrado il suo
aspetto mutato e la barba cresciuta. Era lui, ne ero certo; e
tuttavia, riflettendoci meglio, avrei dovuto concludere che non era
possibile. Per fortuna agii secondo l'impulso del momento. Lo chiamai
per nome e gli dissi chi ero; anche se mi fissava senza mostrare di
riconoscermi, eppure ero sicuro di non essermi sbagliato. I suoi
muscoli facciali avevano un leggero tremito che già in passato avevo
notato in lui e i suoi occhi erano proprio quelli che a Balliol
definivamo più del colore blu di Cambridge che di quello di Oxford.
"Ma anche all'infuori di queste caratteristiche, non avrei potuto
sbagliarmi. Era un uomo che visto una volta non si poteva dimenticare
mai più.
"Naturalmente il dottore e la madre superiora furono molto stupiti.
Spiegai loro che si trattava di un mio amico inglese, e che se non mi
riconosceva doveva aver perduto completamente la memoria. Si
persuasero, pur rinnovando la meraviglia, e ci consultammo a lungo
circa il da farsi. Non sapevano assolutamente dirmi per qual motivo
Conway fosse arrivato a ChungKiang in tale stato.
"Per farla breve, rimasi là una quindicina di giorni, sempre
sperando di riuscire in un modo o nell'altro a risvegliare i suoi
ricordi. Non ebbi fortuna, ma egli si ristabilì fisicamente e
parlammo a lungo. Quando mi decisi a dirgli chi era, e chi ero io,
non protestò affatto. Continuò ad essere abbastanza di buonumore, e
parve gradire la mia compagnia. Quando poi gli proposi di ricondurlo
a casa sua rispose semplicemente che non aveva nulla in contrario.
Quella sua apparente mancanza di desideri personali era sconcertante.
"Appena potei fissare il giorno della partenza mi confidai con un
amico del Consolato di Hankow, e così ebbi il necessario passaporto
senza tutte le chiacchiere che si potevano temere. Per la pace di
Conway mi pareva molto meglio che di tutta questa faccenda si
parlasse il meno possibile: niente pubblicità, niente articoli
sensazionali (che occasione perduta, per i giornalisti!).
Fortunatamente riuscii nel mio intento.
"Potemmo così lasciare la Cina in modo perfettamente regolare.
Navigammo lo Yangtse fino a Nanchino e raggiungemmo Sciangai per
ferrovia. La sera stessa partiva per San Francisco un piroscafo
giapponese e riuscimmo a imbarcarci".
"Quanto hai fatto per lui!" dissi a Rutherford.
"Non credo che avrei fatto altrettanto per nessun altro" mi
rispose. "Ma Conway emanava dalla sua persona un che di inspiegabile
- simpatia? fascino? - così che diventava un piacere prodigarsi per
lui".
"E' vero. Una specie di attrazione inconsapevole alla quale ripenso
volentieri anche adesso, benché nella mia mente lo riveda sempre
scolaretto, in calzoncini di flanella pronto per giocare a cricket".
"Peccato che tu non l'abbia conosciuto a Oxford. era
brillantissimo: non v'è altra parola. Dopo la guerra dissero che era
cambiato; pensai così anch'io, perché mi pareva che con tutti i suoi
talenti avrebbe dovuto far più strada: ma forse, fra tanta maestosa
burocrazia britannica un grand'uomo non può far carriera. E Conway
era grande, o almeno era destinato ad esserlo. L'abbiamo conosciuto
entrambi e non credo di esagerare se affermo che non potremo
dimenticarlo. Anche quando lo ritrovai in Cina con la mente svanita,
e con un passato misterioso, conservava ancora quella sua strana
attrattiva".
Rutherford tacque a lungo, immerso nei ricordi; poi continuò:
"Naturalmente, a bordo, riallacciammo la nostra vecchia amicizia.
Gli raccontai tutto quel che sapevo di lui e mi ascoltò con
un'attenzione che poteva sembrare un po' strana.
"Dal suo arrivo a ChungKiang in poi ricordava chiaramente ogni
cosa, e, particolare interessante, non aveva dimenticato le lingue.
Mi disse, a questo proposito, che doveva aver trascorso un periodo in
India, perché sapeva parlare indostano.
"A Yokohama il piroscafo si riempì, e fra i nuovi passeggeri c'era
anche il pianista Sieveking, che si recava negli Stati Uniti per una
tournée di concerti. Cenò alla nostra tavola e qualche volta Conway
gli parlò in tedesco. Ciò dimostra quanto il mio amico fosse in
apparenza normale. A parte la perdita della memoria, che non poteva
venir notata da chi lo incontrasse casualmente, non pareva diverso
dagli altri.
"Alcune sere dopo la nostra partenza dal Giappone Sieveking
acconsentì a dare un concerto a bordo, e andammo entrambi - io e
Conway - nel salone a sentirlo. Suonò Brahms, Scarlatti, e molto
Chopin, benissimo. Guardai due o tre volte Conway e mi parve felice;
il che era naturalissimo, dato il suo passato musicale. Conclusosi il
programma, il concerto si prolungò perché Sieveking fu così cortese
da concedere molti bis ad alcuni entusiasti raccolti intorno al
pianoforte. Suonò soprattutto Chopin: la sua specialità. Infine
lasciò il pianoforte e, attorniato dagli ammiratori, si avviò
lentamente verso l'uscita. Allora accadde un fatto abbastanza strano.
Conway, sedutosi al pianoforte, cominciò a suonare una melodia rapida
e vivace che non riconobbi, ma che fece voltare Sieveking, e lo fece
tornare indietro eccitatissimo a domandare di che pezzo si trattasse.
Conway, dopo un lungo inspiegabile silenzio, rispose semplicemente
che non lo sapeva. Sieveking trovò la cosa incredibile e si eccitò
più di prima. Allora Conway, con uno sforzo mentale grandissimo,
cercò di ricordarsi e disse che era uno studio di Chopin. sieveking
negò decisamente, e io non me ne stupii perché ero incredulo come
lui. Allora con mia grande meraviglia Conway che fino allora s'era
mostrato indifferente a tutto, d'improvviso s'irritò. "Mio caro"
osservò Sieveking, "conosco tutta quanta l'opera di Chopin e posso
assicurarle che non ha mai scritto quel che ora ha suonato. Potrebbe
averlo fatto, perché è proprio nel suo stile, ma non l'ha fatto. La
sfido a mostrarmi quelle pagine in qualunque edizione". Ma Conway gli
rispose: "E' vero, ora ricordo, questo studio non fu mai stampato. E
io lo conosco unicamente per aver incontrato un pianista che fu
allievo di Chopin... Ecco un'altra pagina inedita che ho imparato da
lui"".
Rutherford, che mi vedeva attentissimo, continuò:
"Non so se tu sia appassionato di musica, ma anche se non lo sei
puoi figurarti l'esaltata meraviglia di Sieveking, e la mia, mentre
Conway continuava a suonare. Io vedevo in quell'episodio soltanto un
improvviso e strano sguardo di Conway sul suo passato: il primo
balenìo di un ritorno. Sieveking invece era tutto preso dal problema
musicale, abbastanza sconcertante se si pensa che Chopin è morto nel
1849.
"Questa coincidenza sembra talmente impossibile che faccio appello,
per la mia tranquillità, ai numerosi testimoni - una dozzina circa -,
fra cui un professore d'università della California, molto conosciuto
e stimato. Naturalmente, si fece presto a trovar cronologicamente
sbagliata, o quasi, la spiegazione di Conway, ma restava da spiegare
la musica. E se non era come aveva detto Conway, di chi poteva
essere?... Sieveking assicurava che se quei due pezzi fossero stati
pubblicati, li avremmo trovati entro sei mesi nel repertorio di ogni
pianista. Quest'affermazione, per esagerata che fosse, dava un'idea
del giudizio artistico di Sieveking. seguì una lunga discussione, ma
senza risultato perché Conway insisteva nel suo racconto iniziale;
siccome mi pareva affaticato, cercai di allontanarlo dalla folla e
mandarlo a letto. Ci fu ancora un ultimo episodio riguardante
l'incisione di alcuni dischi. Sieveking si offrì di fare tutti i
passi necessari appena giunto in America, e Conway promise che
avrebbe suonato davanti al microfono. E' proprio un gran peccato che
non abbia potuto mantenere la sua parola!".
Rutherford guardò l'orologio e mi assicurò che avevo tutto il tempo
per prendere il treno: la storia era quasi terminata.
"Perché... subito dopo il concerto, quella stessa notte... la
memoria gli tornò. Ci eravamo coricati tutti e due, ma io ero ancora
sveglio quand'egli entrò nella mia cabina e mi diede la notizia. Il
suo viso esprimeva ora una tristezza invincibile, una specie di
tristezza universale, non so se mi spiego, qualcosa di remoto e di
impersonale.
"Raccontò che ormai rammentava tutto; aveva cominciato mentre
Sieveking suonava; in principio, però, solo a tratti. Venne a sedersi
sul mio letto e vi rimase a lungo senza parlare; non gli chiesi
nulla, aspettai che facesse il suo racconto quando e come voleva. Gli
dissi soltanto la mia soddisfazione per il ritorno della memoria, ma
subito aggiunsi che me ne rammaricavo anch'io, visto che lui avrebbe
preferito lo stato di prima.
"Alzò gli occhi e proferì una frase che ricorderò sempre con intimo
compiacimento: "Ringrazio il Cielo che ti ha concesso di comprendere,
Rutherford".
"Dopo un poco pensai di vestirmi e lo persuasi a tornare nella sua
cabina e fare altrettanto; passeggiammo poi a lungo, su e giù, sul
ponte.
"Era una calma notte stellata, molto calda; il mare, chiaro e
pallido, come latte denso. Se non ci fosse stata la vibrazione delle
macchine avremmo potuto illuderci di passeggiare su e giù per un
viale.
"Preferii lasciare che Conway seguisse liberamente i suoi pensieri,
senza fargli domande.
"Cominciò a parlare verso l'alba, velocemente, e quando terminò era
giorno alto, con un sole caldo. Quando dico "terminò" non intendo che
non ci fosse altro da raccontare, dopo questa prima confessione.
Durante le ventiquattr'ore successive riempì molte lacune importanti.
Pareva molto triste, e non aveva nessuna voglia di dormire, perciò
parlammo quasi ininterrottamente.
"Verso sera avevo fatto portare delle bibite nella mia cabina,
perché il piroscafo doveva giungere a Honolulu intorno alla
mezzanotte. Mi lasciò ch'erano circa le dieci, e non lo rividi mai
più...".
"Non vorrai dire che...". Mi era balenata alla mente l'idea di un
suicidio.
Rutherford rise. "Per carità, no. Non era il tipo. Mi piantò,
semplicemente. Scendere a terra era abbastanza facile; il difficile
sarà stato, per lui, evitare quelli che sguinzagliai immediatamente
sulle sue tracce. Seppi più tardi che era riuscito a unirsi alla
ciurma di una nave bananiera in partenza per le Figi".
"Come sei riuscito a saperlo?".
"Per la via più diretta. Mi scrisse lui stesso, tre mesi dopo, da
Bangkok, accludendo un assegno per rimborsarmi delle spese sostenute
per lui. Mi ringraziava, diceva di sentirsi benissimo e ch'era in
procinto di ripartire per un lungo viaggio, verso il nordovest. ecco
tutto".
"Verso il nordovest?...".
"Già; è un po' vago, vero? Ce ne sono parecchie di località a
nordovest di Bangkok. anche Berlino, per esempio".
Rutherford si interruppe, e riempì i nostri bicchieri. Che strana
storia!... Era stato Rutherford a farmela sembrar tale? Non riuscivo
a raccapezzarmi: la parte musicale, per complicata che fosse, non mi
interessava tanto quanto il misterioso arrivo di Conway all'ospedale
della missione cinese, e non potei fare a meno di farlo osservare a
Rutherford. questi rispose tranquillamente che erano due aspetti
dello stesso problema.
"In che modo sarà potuto arrivare a ChungKiang?" domandai. "Non te
lo disse quella notte, a bordo del piroscafo?".
"Sì... qualcosa mi disse; e poiché ormai ti ho raccontato tanto,
sarebbe assurdo che ti tacessi il resto. Ma... prima di tutto, è un
racconto abbastanza lungo e non farei in tempo nemmeno a dartene un
cenno sommario prima della partenza del tuo treno. E poi... ci
sarebbe un mezzo molto più comodo. Per carità, non pensare ora ch'io
abbia il cattivo gusto di adoperare certi trucchi degli scrittori di
romanzi... ma ti dirò sinceramente che la storia di Conway, quando la
ripensai a mente fredda, mi affascinò. Avevo già preso in fretta
qualche appunto dopo le nostre conversazioni di bordo, per non
dimenticare alcuni particolari; più tardi certi dettagli mi avvinsero
talmente che fui spinto a fare di più, a riunire e ordinare quel che
avevo scritto e quel che ricordavo a memoria in un'unica narrazione.
Posso però assicurarti di non aver inventato né alterato nulla: il
materiale era più che sufficiente di per se stesso, e Conway aveva il
dono naturale di esprimersi bene e di saper creare un'atmosfera. Da
parte mia, poi, sentivo di cominciare a capirne l'anima".
Aprì una valigia e ne estrasse un dattiloscritto.
"Eccolo qui; giudicalo come vuoi".
"Temi forse ch'io non presterò fede a quel che hai scritto?".
"Oh, non intendo questo. Ma, se veramente ci crederai, sarà per la
famosa ragione di Tertulliano - ricordi? - quia impossibile est.
forse il soggetto non è disprezzabile. In ogni caso fammi sapere cosa
ne pensi".
Presi il dattiloscritto e lo lessi quasi tutto sull'espresso di
Ostenda. Era mia intenzione, appena giunto in Inghilterra, di
restituirlo con una lunga lettera, ma poi fui costretto a ritardare,
e prima di spedirlo ricevetti un biglietto da Rutherford che mi
annunziava d'essere nuovamente in partenza per le sue peregrinazioni
e di non potermi dare per qualche mese nessun indirizzo fisso.
Sarebbe andato nel Kashmir, e poi verso oriente. La qual cosa non mi
sorprese affatto.
I
Durante la terza settimana di maggio la situazione politica a
Baskul era molto peggiorata, e il 20 giunsero da Peshawar vari
apparecchi dell'Aeronautica per mettere in salvo gli europei. Questi
formavano un gruppo di circa ottanta persone la maggior parte delle
quali furono trasportate al sicuro attraverso i monti in aerei da
trasportotruppe. Data l'urgenza furono anche adoperati alcuni
apparecchi di diversa forma e portata, tra i quali uno con cabina
appartenente al maharaja di Chandapore. Verso le dieci del mattino vi
presero posto quattro passeggeri: Miss Roberta Brinklow, della
Missione Orientale, Henry D' Barnard, cittadino degli Stati Uniti,
Hugh Conway, console di S'M' Britannica, e il capitano Charles
Mallinson, viceconsole di S'M' Britannica. Questi sono i nomi che
apparvero più tardi nei giornali indiani e inglesi.
Conway aveva trentasette anni. Era a Baskul da due anni in un
impiego che ora, alla luce degli eventi, poteva esser paragonato a
"un continuo puntare sul cavallo perdente".
Un periodo della sua vita stava per finire; entro poche settimane,
o forse dopo alcuni mesi di licenza in Inghilterra, lo avrebbero
mandato in qualche altro posto. Tokio o Teheran, Manila o Muscat,
nella sua professione non si sapeva mai cosa sarebbe accaduto. Da
dieci anni era nel servizio consolare, un tempo sufficiente dunque
per assicurarsi l'avvenire con la stessa intelligenza che soleva
usare per i casi altrui. Sapeva che la parte migliore della torta
sarebbe toccata ad altri, ma se ne consolava facilmente non con la
scusa dell'uva acerba, ma riflettendo che il dolce, in fin dei conti,
non gli piaceva.
Preferiva quelle occupazioni che fossero meno formali e più
pittoresche, e che soprattutto non lo vincolassero; ma siccome questi
incarichi erano quasi sempre i meno importanti, così agli occhi di
qualche critico superficiale poteva apparire maldestro nel giocare le
sue carte. E invece egli sentiva che, dati i suoi gusti, le aveva
giocate piuttosto bene, e aveva trascorso un decennio vario e
abbastanza piacevole.
Alto, molto abbronzato, con capelli castani e occhi d'un azzurro
tendente al grigio, appariva serio e magari anche imbronciato; ma se
poi rideva (il che non gli accadeva spesso) allora sembrava un
ragazzo. Qualche volta, se lavorava o beveva troppo, gli si
manifestava un leggero tic nervoso vicino all'occhio sinistro; e
appunto quando salì sull'aereo, siccome era stato occupatissimo tutto
il giorno e tutta la notte a far bauli e a distruggere documenti, il
tic era molto visibile. Sentendosi sfinito era molto soddisfatto di
partire col lussuoso aereo del maharaja, invece che con uno degli
affollatissimi trasportotruppe. Si adagiò mollemente in un sedile di
vimini mentre il velivolo si alzava da terra. Era uno di quegli
uomini che abituati alle più dure fatiche, ricercano in compenso
tutti gli agi minori. Era capace di sopportare con disinvoltura i
rigori della strada che va a Samarcanda ma avrebbe speso i suoi
ultimi scellini per prendere la "Freccia d'Oro" da Londra a Parigi.
Il volo durava ormai da più di un'ora, quando Mallinson, che sedeva
in uno dei posti anteriori, osservò che la rotta seguita dal pilota
non gli sembrava quella giusta.
Mallinson era un giovane di circa venticinque anni, dal colorito
roseo, intelligente se non intellettuale, e con tutte le limitazioni
delle scuole private ma anche con la loro superiorità. Causa
principale del suo invio a Baskul era stata la bocciatura a un esame;
Conway l'aveva avuto come collega per sei mesi, e aveva stretto con
lui una buona amicizia.
Ma adesso, in aereo, Conway non se la sentiva di far lo sforzo di
una conversazione. Aprì gli occhi sonnolenti e rispose che, qualunque
fosse la rotta, il pilota certo la conosceva bene.
Mezz'ora dopo, quando la stanchezza e il rumore delle eliche
l'avevano quasi addormentato, ecco Mallinson disturbarlo di nuovo.
"Ma dica un po', Conway, il nostro pilota non era Fenner?".
"Ebbene, non lo è forse?".
"Ha voltato la testa e giurerei che non è lui".
"Averne la certezza attraverso i vetri non è facile".
"Riconoscerei il viso di Fenner in qualunque momento".
"Ebbene, allora sarà qualcun altro; che importa?".
"Perché Fenner mi assicurò che avrebbe preso questo apparecchio".
"Avranno cambiato idea, e gliene avranno dato un altro".
"E allora, chi è costui?".
"Come posso saperlo, mio caro? Bisognerebbe che ricordassi a
memoria la faccia di tutti i tenenti dell'Aviazione, vi pare?...".
"Io ne conosco tanti, ma questo non so chi sia".
"E allora appartiene a quella minoranza che lei non conosce".
Conway sorrise e aggiunse: "Quando fra poco saremo giunti a Peshawar
potrete fare la sua conoscenza, e sapere di lui quanto v'interessa".
"Continuando così non arriveremo affatto a Peshawar. le assicuro
che il pilota è fuori rotta. E non c'è da stupirsene: vola così alto
che non può certo orientarsi".
Conway non si preoccupò. Era abituato ai viaggi aerei e a prender
le cose con filosofia. E poi non aveva niente di speciale da fare, né
persone da vedere a Peshawar, perciò gli era assolutamente
indifferente che il viaggio durasse sei ore piuttosto che quattro.
Non aveva moglie, quindi niente saluti teneri all'arrivo. Sì,
probabilmente qualche amico lo avrebbe invitato al club per brindare
insieme: prospettiva piacevole, ma non al punto da sospirarla.
E neppure retrospettivamente sospirava, passando in rivista gli
avvenimenti del passato decennio; spettacolo piacevole anch'esso,
sebbene non del tutto soddisfacente.
Di quel periodo della sua vita questo era l'indice barometrico:
"mutevole, tendente al bello, piuttosto temporalesco": su per giù
come il barometro mondiale. Aveva girato molto: rifacendo il cammino
a ritroso vedeva Baskul, Pechino, Macao, parecchie altre
destinazioni, e più lontana di tutte Oxford, dove aveva insegnato per
un paio d'anni dopo la guerra, tenendo conferenze sulla storia
orientale, respirando la polvere di quelle biblioteche assolate e
facendo innumerevoli corse in bicicletta su e giù per la High Street.
Ricordi interessanti, che però non lo commuovevano: sentiva di
avere raggiunto finora soltanto una tappa del lungo cammino che
avrebbe potuto compiere.
Un ben noto disturbo allo stomaco lo avvertì che l'aereo cominciava
la discesa. Ebbe la tentazione di canzonare Mallinson per i suoi
presentimenti, e forse l'avrebbe fatto se il giovane non si fosse
bruscamente alzato, picchiando la testa nel soffitto e svegliando
Barnard, l'americano, che sonnecchiava nel suo sedile dall'altro lato
dello stretto corridoio.
"Dio mio" esclamò Mallinson, guardando dal finestrino. "Guardi
laggiù!".
Conway guardò. Se si aspettava qualcosa, non era certo ciò che
vide. Invece degli accantonamenti, regolari e geometrici, invece
delle grandi rimesse, non si vedeva altro che una nebbia opaca, su
una terra desolata, squallida, arsa dal sole. Benché l'apparecchio
stesse scendendo rapidamente, era ancora ad un'altezza insolita per
un comune viaggio aereo. Si potevano distinguere lunghe creste di
monti, che distavano forse un miglio dal nebbioso orlo delle vallate.
Conway non aveva mai osservato da una tale altezza un così tipico
scenario di frontiera. Ma quel che più lo colpì fu di non ritrovarsi
nelle vicinanze di Peshawar.
"Non riconosco questa parte del globo" commentò. Poi, senza farsi
sentire dagli altri per non spaventarli disse all'orecchio di
Mallinson:
"E' certo come dice lei: ha sbagliato strada".
L'aereo scendeva adesso ad una velocità spaventosa e l'aria intanto
si faceva sempre più calda: di sotto, la terra arsa era come un forno
che fosse stato improvvisamente aperto. Una dopo l'altra le vette dei
monti si alzavano in strane silhouettes: si volava adesso lungo una
vallata ricurva il cui fondo era disseminato di rocce e di detriti di
torrenti in secca; sembrava il pavimento di una stanza coperto di
gusci di noce.
L'aereo saltava e ballava dentro incomode sacche d'aria, come una
barca fra onde agitate. I quattro passeggeri si tenevano ben
aggrappati ai loro sedili.
"Sembra che voglia atterrare!" urlò rauco l'americano.
"Non può!" rispose Mallinson. "Tentarlo sarebbe una pazzia!
Urterebbe in pieno, e allora...".
Ma il pilota atterrò. Apparve un breve spiazzo a lato di un
burrone, e l'apparecchio, abilmente guidato, rullò e si fermò
pesantemente. Ciò che accadde subito dopo fu ancor più strano e meno
rassicurante. Una torma di uomini barbuti e in turbante, certo di una
tribù indigena, accorsero da ogni parte, circondando l'apparecchio
per impedire che ne uscisse qualcuno oltre il pilota. Questi balzò a
terra e ebbe con loro un colloquio molto agitato, durante il quale fu
più che evidente che non solo non era Fenner, ma che non era inglese
e probabilmente neppure europeo.
Intanto da un vicino deposito furono trasportati alcuni recipienti
di carburante e se ne riempirono i capaci serbatoi dell'aereo. Alle
grida dei quattro prigionieri risposero con beffe e un silenzio
sprezzante; il solo accenno a un timido tentativo di scendere a terra
provocò un minaccioso movimento da parte di una ventina di uomini
armati di fucili. Conway che conosceva un poco la lingua putshu,
arringò come poté gli indigeni, ma senza alcun risultato - e il
pilota, alle osservazioni e alle richieste rivoltegli in varie
lingue, rispose unicamente puntando la rivoltella.
Senz'armi - perché era stata questa una delle condizioni per la
partenza degli stranieri da Baskul - i quattro passeggeri dovettero
rassegnarsi, tanto più che si sentivano moralmente e fisicamente
esausti per l'inutilità delle loro proteste e per il caldo della
cabina dardeggiata dal sole di mezzogiorno.
Quando finalmente i serbatoi furono richiusi, venne loro offerto,
attraverso uno dei finestrini, un recipiente da petrolio pieno
d'acqua tutt'altro che fresca. Pur non mostrandosi ostile, quella
gente non rispose mai a nessuna domanda. Il pilota, dopo un ultimo
breve parlottare, raggiunse di nuovo il suo posto nella carlinga, un
indigeno girò alla meglio l'elica, e il volo riprese. In quel
ristretto spazio e con l'esagerato carico di carburante, la partenza
rivelò un'abilità ancora maggiore che nell'atterraggio. L'aereo si
alzò rapidamente nella nebbia, svoltò verso est come a cercare la sua
rotta. Era pomeriggio avanzato.
Che strana e sconcertante avventura! Appena ebbero un po' di
sollievo dall'aria fresca, i quattro passeggeri uscirono dallo
stordimento e cominciarono a rendersi conto dell'accaduto. Un sopruso
simile non s'era mai sentito né visto fra i turbolenti fatti di
frontiera. E se non ne fossero stati essi stessi le vittime,
l'avrebbero detta un'invenzione fantastica. Era quindi naturale che,
passata l'incredulità, subentrasse l'indignazione, e sbollita
l'indignazione cominciassero ansiosi tentativi di spiegare in qualche
modo il fatto.
Fu Mallinson a prospettare l'idea accettata più facilmente in
mancanza di meglio. Erano stati rapiti nella speranza di un riscatto.
Niente di nuovo, dunque, all'infuori del mezzo originale e della
speciale tecnica. Il constatare che, dopo tutto, non erano i
protagonisti di un dramma senza precedenti li confortò alquanto;
rapimenti ce n'erano stati anche prima, e molti di essi con lieto
fine. Gli indigeni li avrebbero tenuti nascosti nelle montagne
trattandoli bene, finché il Governo non avesse pagato il riscatto;
poi sarebbero stati rilasciati. E non essendo loro il denaro pagato,
tutto si sarebbe concluso col finire della prigionia. Poi,
naturalmente, l'Aviazione avrebbe mandato una squadriglia da
bombardamento, e loro avrebbero potuto raccontare una bellissima
storia per tutta la vita.
Mallinson aveva manifestato il suo pensiero con una nervosità
briosa, ma Barnard, l'americano, volle superarlo giungendo
pesantemente fino alla facezia. "Ammiriamo pure questo rapimento come
una brillante trovata di qualcuno, ma non posso dire che la vostra
Aviazione vi si sia coperta di gloria. Voialtri inglesi fate dello
spirito a proposito dei rapimenti di Chicago, ma io cerco inutilmente
tra i miei ricordi un cannoniere fuggito con un aereo dello zio Sam.
e, tra parentesi, vorrei sapere che cos'ha fatto del vero pilota
quest'individuo. L'avrà intontito, certo" sbadigliò. Era un tipo alto
e grosso, con un volto fortemente segnato in cui alcune rughe bonarie
sparivano tosto entro gonfiori tetri. A Baskul nessuno lo conosceva a
fondo; si sapeva che era arrivato dalla Persia e che si occupava di
petrolio.
Intanto Conway si era dato a un compito pratico. Aveva chiesto
tutti i fogli di carta disponibili e scriveva in vari idiomi indigeni
numerosi messaggi da gettare a terra ad intervalli. Era una
probabilità molto scarsa in un territorio così poco popolato, ma ne
valeva la pena.
Il quarto passeggero, Miss Brinklow, dalle labbra serrate e dal
busto eretto, era sempre rimasta seduta facendo pochi commenti e non
lagnandosi mai. Era una donnetta coriacea, e aveva il contegno di chi
sia intervenuto suo malgrado a una riunione dove accadono cose che
non possono essere del tutto approvate.
Conway aveva parlato meno degli altri due uomini, perché tradurre
messaggi di S'O'S' in differenti dialetti indigeni era un esercizio
che richiedeva una certa concentrazione. Aveva però risposto alle
domande rivoltegli, e s'era trovato d'accordo con Mallinson circa la
sua teoria sul rapimento, e anche, fino a un certo punto, con le
critiche mosse da Barnard all'Aviazione.
"Ci sono però delle attenuanti" disse. "E' comprensibilissimo che,
con tutta la città in fermento, un uomo in tenuta di volo sia stato
scambiato per un altro. Come dubitare della buona fede di un pilota
in divisa regolare e sicuro del fatto suo? E che fosse sicuro costui
lo ha dimostrato: quanto ai segnali e quanto al resto. Abbiamo
constatato che sa volare, no? Tuttavia sono d'accordo con lei che in
faccende simili qualcuno deve pagare. E qualcuno pagherà, certo; ma
probabilmente chi ne ha meno colpa".
"Davvero, signore" rispose Barnard, "ammiro il modo in cui riesce a
vedere i due aspetti della questione. E' bello saper ragionare così...
nel momento stesso che vi portano via... a fare una passeggiata
chissà dove!...".
Conway pensò all'abilità con cui gli americani sanno dire le cose
senza offendere. Sorrise e tacque. La sua stanchezza era tale che
nessun pericolo l'avrebbe vinta.
Sul tardo pomeriggio, quando Barnard e Mallinson discutendo si
rivolsero a lui, videro che s'era addormentato.
"E' stanchissimo" commentò Mallinson, "e non me ne meraviglio, dopo
la fatica di queste ultime settimane".
"E' amico suo?" chiese Barnard.
"Ho lavorato con lui al Consolato, e so che da quattro notti non è
andato a letto. Siamo davvero fortunati ad averlo con noi in una
faccenda come questa. Oltre a conoscere molti dialetti del paese ha
uno speciale modo di trattare con la gente. Se c'è uno che possa
portarci fuori da quest'impiccio è lui. Conserva quasi sempre il suo
sangue freddo, anche nei casi più difficili".
"Allora lasciamolo dormire" consentì Barnard.
E Miss Brinklow fece una delle sue sobrie osservazioni:
"Pare davvero un uomo molto coraggioso" disse.
Veramente, nel suo intimo, Conway non si sentiva così sicuro di
essere "un uomo molto coraggioso".
Oppresso dalla stanchezza fisica, aveva chiuso gli occhi, ma non
dormiva. Avvertiva ogni movimento dell'aereo e aveva pure sentito
l'elogio che di lui aveva fatto Mallinson. appunto allora aveva
cominciato a dubitare, accorgendosi di un curioso stiramento allo
stomaco, abituale indice di reazione alle affannose preoccupazioni.
Egli non era affatto, e lo sapeva benissimo, una di quelle persone
che amano il pericolo per il pericolo in se stesso. Ne apprezzava
qualche volta una certa caratteristica: la sua qualità di eccitante,
di controtorpore; ma non gli piaceva affatto rischiare la vita.
Dodici anni prima era giunto a odiare i pericoli della guerra nelle
trincee francesi, ed era riuscito parecchie volte a evitare la morte
rinunciando ad eroiche gesta impossibili. Anche la decorazione
l'aveva conquistata non tanto col suo coraggio fisico quanto con una
speciale tecnica di resistenza. E quando dopo la guerra si era
nuovamente trovato in pericolo, l'aveva affrontato con crescente
disappunto, fuorché nei casi in cui ne sperasse insolite e forti
emozioni.
Eccolo ancora lì ad occhi chiusi. Le parole di Mallinson lo avevano
commosso, e anche un po' turbato. Pareva proprio destino che si
scambiasse la sua calma per coraggio!... mentre era, in realtà,
qualcosa di più indifferente di meno virile. Vedendo sé e i compagni
in una situazione terribilmente imbrogliata, anziché sentirsi pieno
d'ardimento, provava un'invincibile ripugnanza contro quell'ignoto
pericolo d'ora in ora più vicino. Pensava soprattutto a Miss
Brinklow. se a un dato momento avesse dovuto agire, non avrebbe
dovuto dimenticare che una donna, in certe circostanze, conta più di
tre uomini messi insieme; e il suo spirito all'idea di doversi
comportare eventualmente in modo così differenziato, si ribellava.
Tuttavia, quando finse di svegliarsi, fu a Miss Brinklow che
rivolse la parola. Poveretta! non era né giovane né graziosa; ma per
fortuna queste virtù negative sarebbero state di grande aiuto nel
genere di difficoltà in cui la comitiva si sarebbe presto venuta a
trovare. Gli faceva anche pena perché probabilmente né Mallinson né
l'americano amavano i missionari, tanto meno quelli di genere
femminile. Conway non aveva certo simili pregiudizi, ma appunto per
questo temeva di poter sembrare a Miss Brinklow, per la sua larghezza
di vedute, ancora più urtante e lontano degli altri. "Ci troviamo,
pare, in una curiosa posizione" disse chinandosi a parlarle
all'orecchio, "ma vedo con piacere che lei prende le cose con calma.
Non credo però che ci accadrà nulla di terribile. Piuttosto ci dica
se possiamo fare qualcosa perché si trovi più a suo agio".
Barnard raccolse la frase.
"A nostro agio?!" disse rauco. "Ma naturalmente siamo tutti a
nostro agio. Ci godiamo la gita. Peccato che non abbiamo un mazzo di
carte - si potrebbe fare un bridge in quattro".
Pur non piacendogli il bridge, Conway fu contento di quest'uscita
spiritosa.
"Non credo che Miss Brinklow giochi" rispose sorridendo. Ma la
missionaria si volse svelta a rispondere: "Gioco, invece, e non credo
che si commetta un peccato giocando alle carte. Certo nella Bibbia
non se ne parla".
Risero tutti, riconoscenti per quel minuto di distrazione. "Grazie
al Cielo" pensò Conway, "non ha tendenze isteriche".
L'aereo aveva volato tutto il giorno, tra le sottili nebbie
dell'atmosfera, troppo in alto per permettere una chiara visibilità
delle terre sottostanti. Talvolta, a lunghi intervalli, il velo si
squarciava per qualche istante, e mostrava la linea dentata di una
vetta, o il luccichio di qualche fiume sconosciuto. Dal corso del
sole si poteva determinare all'incirca la direzione dell'apparecchio.
Si andava verso oriente, con virate occasionali a nord, ma per
arguire dove precisamente si fosse mancava a Conway il modo di
giudicare con esattezza la velocità di volo. Pareva anche probabile
che molto del carburante fosse ormai consumato. Quel che Conway era
in grado di affermare con sicurezza, anche se privo di nozioni
tecniche aviatorie, era l'indiscutibile abilità del pilota, chiunque
egli fosse. Ne aveva dato prova con l'atterraggio nella vallata
seminata di sassi, e poi in altri momenti difficili. Perciò Conway
sentiva risorgere in se stesso un sentimento già provato altre volte
nella sua vita di fronte a casi di abilità perfetta e indiscutibile.
Il solo pensiero di poter essere lasciato in pace - lui avvezzo a
continue richieste d'aiuto - lo tranquillizzava, malgrado le
preoccupazioni per il futuro. Ma non poteva pretendere che i suoi
compagni la pensassero come lui; le loro ragioni di preoccupazione
erano probabilmente maggiori. Mallinson, poi, aveva in Inghilterra
una fidanzata; forse Barnard era ammogliato; e Miss Brinklow aveva il
suo lavoro, o vocazione, o ideale, che dir si voglia. Mallinson era
il meno calmo dei tre: mentre le ore passavano la sua agitazione
aumentava, con tendenza a prorompere davanti a Conway a causa di
quella stessa calma che aveva prima lodato alle sue spalle. E ad un
tratto sorse una discussione così burrascosa da superare il rombo del
motore.
"Ma insomma!" urlò Mallinson rabbiosamente, "dobbiamo star qui a
rigirarci i pollici mentre questo pazzo fa tutto quello che gli passa
per la testa? Che cosa ci impedisce di rompere quel vetro e di
finirla con lui?".
"Proprio niente", replicò Conway, "a parte che lui è armato e noi
no, e che, ad ogni modo, nessuno di noi sarebbe poi capace di
atterrare".
"Non dev'essere molto difficile. Sono convinto che lei ci
riuscirebbe".
"Ma li aspetta sempre da me, caro Mallinson, questi miracoli?...".
"Le confesso che i miei nervi non reggono più. Perché non
obblighiamo costui ad atterrare?".
"In che modo?... Me lo dica lei".
L'agitazione di Mallinson aumentò ancora.
"Ebbene, è lì distante da noi meno di due metri, sì o no? e siamo
tre uomini contro uno! Dobbiamo continuare a guardar la sua schiena
tutto il tempo? Potremmo almeno obbligarlo a dirci cosa diavolo
intende fare, no?".
"Bene, proviamo".
Avanzando di pochi passi, Conway raggiunse la parete divisoria tra
cabina e carlinga. Essendo questa un po' rialzata, il pilota, girando
il capo e curvandosi un poco aveva modo di comunicare coi passeggeri
attraverso una lastra di vetro scorrevole. Conway vi picchiò su con
le nocche. La risposta fu comicamente simile a quanto si aspettava;
il vetro si aprì e comparve la canna di una rivoltella. Solo questo;
neppure una parola. Conway si ritirò senza discutere e lo sportello
fu richiuso.
Mallinson, osservatore attento, non rimase molto soddisfatto.
"Non credo che avrebbe avuto il coraggio di sparare" commentò.
"Probabilmente ha voluto fare una spacconata".
"Sarà" disse Conway, "ma preferirei che ad accertarsene ci andasse,
se mai, lei stesso".
"Ebbene, io penso che, prima di arrenderci così indecorosamente, in
un modo o nell'altro dovremmo lottare".
A Conway questa frase piacque. Gli risvegliò nella memoria il buon
vecchio convenzionalismo con tutte le sue oleografiche associazioni
di idee: i soldati dalle divise rosse, i libri di storia scolastica,
gli inglesi che non temono nulla, non si arrendono mai e non sono mai
battuti. Ma disse:
"Iniziare una battaglia senza la minima probabilità di vincerla è
un gioco inutile, e io non sono eroe fino a questo punto".
"Le do ragione, signore" interruppe cordialmente Barnard. "Quando
qualcuno vi ha afferrato per i capelli e vi tiene ben stretto, tanto
vale prender la cosa con filosofia e darsi per vinto. Per conto mio,
finché la vita dura, intendo godermela e fumare il mio sigaro.
Pericolo più pericolo meno, c'è proprio da prendersela tanto?".
"Per quel che riguarda me, no; ma potrebbe dar fastidio a Miss
Brinklow". Barnard volle subito fare ammenda: "Scusi, signora, forse
il fumo le dà noia?".
"Affatto" rispose lei cortesemente; "io non fumo, ma l'odore del
sigaro mi piace".
Conway si persuase che fra tutte le donne capaci di dare una
risposta simile, Miss Brinklow era la più tipica.
Per fortuna la sovreccitazione di Mallinson si era un po' calmata,
e allora Conway, benché lontanissimo dal pensiero di fumare, gli
offrì amichevolmente una sigaretta.
"So quel che prova" disse con accondiscendenza; "è una brutta
faccenda, e il peggio è che non ci si può fare nulla". E aggiunse fra
sé: "Per quanto mi riguarda, tanto meglio così...".
Si sentiva stanchissimo. V'era un lato della sua natura che si
sarebbe potuto definire pigrizia, benché non lo fosse.
All'occorrenza, nessuno più di lui era capace e pochi si sarebbero
addossate le responsabilità meglio di lui; ma che proprio l'attività
e la responsabilità costituissero la sua gioia... Facevano parte del
suo lavoro, ecco, e doveva accettarle; sempre pronto però a cedere il
passo a chi potesse fare quanto lui o meglio. A questo si doveva in
parte il fatto che la sua riuscita nel servizio governativo non fosse
stata così brillante quanto avrebbe potuto: non era abbastanza
ambizioso per farsi largo tra gli altri, o per mettersi in mostra
artificiosamente quando non v'era gran che da fare. I suoi resoconti
erano laconici fino all'inverosimile, e quella sua calma in ogni
circostanza, benché ammirata pareva sospetta. Alle autorità piace
sapere che un loro subalterno impone a se stesso sforzi e sacrifici;
e che la sua apparente noncuranza nasconde un corredo di ben
controllate emozioni. Talvolta nasceva sì, in qualcuno, il dubbio
ch'egli non fosse proprio imperturbabile al punto da non scomporsi
mai per nulla. Ma anche tale interpretazione, come quella riguardante
la pigrizia, era errata. Ciò che la maggior parte degli osservatori
non riusciva a scorgere in lui era una cosa semplicissima: l'amore
della quiete, della contemplazione, della solitudine. E ora, poiché
ne sentiva il bisogno e non c'era altro da fare, si abbandonò nella
poltrona di vimini e si addormentò. Più tardi svegliandosi constatò
che anche gli altri, malgrado le loro varie preoccupazioni, avevano
ceduto al sonno. Con gli occhi chiusi, seduta e ben diritta, Miss
Brinklow somigliava a un idolo in cattivo stato e fuori moda;
Mallinson pencolava in avanti e si reggeva il mento col palmo della
mano. E l'americano russava, persino. "Sono stati molto giudiziosi"
pensò Conway; "era inutile consumare le forze discutendo". Ma tosto
avvertì strane sensazioni fisiche - un leggero capogiro, il cuore che
gli batteva forte, una tendenza a respirare con sforzo e più
profondamente. Ricordò d'aver provato sintomi simili una volta in
Svizzera. Si girò dal lato del finestrino e guardò fuori.
Tutt'intorno il cielo s'era completamente schiarito e, nella luce del
tardo pomeriggio, apparve un tale spettacolo che per un attimo Conway
restò senza fiato. Lontanissime, all'orizzonte, si vedevano catene e
catene di vette nevose, contornate da ghiacciai, quasi isole vaganti
su un mare di nubi. Occupavano per intero l'arco di visibilità,
emergendo a occidente in uno sfondo di colore sgargiante, come una
tela impressionista dipinta da un genio folle. E intanto su quella
meravigliosa ribalta l'aereo filava, alto sull'abisso, avendo di
fronte una ripidissima montagna bianca che sembrava confondersi col
cielo stesso; finché la luce del tramonto non la investì, e allora
fiammeggiò superba, accecante, incandescente, come una Jungfrau dieci
volte più alta.
Conway non era facile a impressionarsi, e non era mai andato in
cerca di panorami - tanto meno, poi, di quelli famosi per ammirare i
quali i municipi più previdenti predispongono dei sedili. Condotto
una volta a TigerHill, presso Darjeeling, a vedere il levar del sole
sull'Everest, era rimasto veramente deluso dall'aspetto della più
alta montagna del mondo. Ma quest'incredibile spettacolo visto dal
finestrino di un aereo, era di ben diversa portata; non aveva l'aria
di essersi messo in posa per farsi ammirare. C'era qualcosa di crudo
e di mostruoso intorno a quei maestosi scoscendimenti di ghiaccio, ed
era sublime temerarietà avvicinarsi tanto ad essi. Si immerse in una
profonda meditazione, e ogni tanto ripassava mentalmente carte
topografiche, calcolava distanze, stimava tempi e velocità. Poi,
accortosi che anche Mallinson si era svegliato, lo chiamò toccandogli
il braccio.
Ii
Fedele al proprio temperamento, Conway aspettò che i compagni si
svegliassero da sé e rispose con poche parole alle loro esclamazioni
di meraviglia; ma quando, più tardi, Barnard gli rivolse una domanda
precisa, allora si espresse con la pronta scioltezza di un professore
universitario che chiarisca un problema. Secondo il suo parere erano
ancora in India; avevano volato parecchie ore verso oriente, troppo
in alto per veder qualcosa; ma probabilmente la rotta aveva seguito
la valle di qualche fiume, in direzione approssimativa da est a
ovest.
"Preferirei non dovermi affidare alla sola memoria ma ho
l'impressione che possa trattarsi dell'alta valle dell'Indo, il che
significherebbe esser giunti in una delle più spettacolose regioni
del mondo, come può constatare".
"Allora riconosce dove siamo?" interruppe Barnard.
"Ma no, non sono mai stato in questi paraggi: però non mi
stupirebbe che quella montagna fosse il Nanga Parbat, dove morì
Mummery. Struttura e posizione collimerebbero con ciò che ne ho
inteso dire".
"E' alpinista lei?".
"In gioventù mi piaceva molto. Naturalmente, le solite arrampicate
in Svizzera, niente di più".
Mallinson intervenne di malumore:
"Invece di perderci in altri discorsi, non sarebbe meglio cercar di
indovinare dove andiamo? Ah, se qualcuno me lo dicesse!...".
"Bene, a me sembra che filiamo dritti verso quella catena laggiù"
disse Barnard. "Non le pare, Conway? Mi scusi se la chiamo così, ma
dovendo correre tutti insieme questa piccola avventura non mi sembra
il caso di far cerimonie".
A Conway pareva naturale esser chiamato col proprio nome, e trovò
quindi un po' fuori luogo le scuse di Barnard.
"Ma certo" rispose e aggiunse: "Credo che quella sia la catena del
Karakorum. ci sono parecchi valichi, se il nostro uomo intende
attraversarla".
"Il nostro uomo?" esclamò Mallinson. "Vuol dire il nostro pazzo!
Credo che ormai la teoria del rapimento non regga più. A quest'ora le
terre di frontiera sono lontane, e tribù indigene non ce ne possono
essere da queste parti. La sola spiegazione plausibile è che costui
sia un pazzo furioso. Chi, se non un pazzo, continuerebbe a volare in
un paese simile?".
"Solo un aviatore che sia stato a scuola dal demonio può esserne
capace" osservò Barnard. "La geografia non è mai stata il mio forte
ma capisca che queste montagne sono le più alte del mondo e che
l'attraversarle sarà un bell'avvenimento".
"Sarà anche la volontà di Dio" disse inaspettatamente Miss
Brinklow.
Conway non manifestò il suo parere. Volontà di Dio o pazzia d'uomo,
ciascuno poteva scegliere a piacimento, come del resto è sempre
consigliabile quando bisogna trovare una spiegazione alle cose di
quaggiù. Oppure (e il capovolgimento glielo suggerirono quella
piccola cabina bene ordinata, e quello sfondo tra il reale e
l'irreale dei monti lontani), volontà d'uomo o pazzia di Dio. Poterne
esser certi, qualunque fosse il punto di vista, doveva essere una
soddisfazione. Ma ecco che, mentre osservava e meditava, a poco a
poco si produsse uno strano mutamento. Sulle vette la luce diventò
azzurrognola e le più basse pendici presero una tinta viola. Quel
senso di tranquilla superiorità che Conway s'era abituato a sentir
riaffiorare in sé prontamente in qualunque evenienza, fu scosso ora
da qualcosa di più profondo: non si trattava di agitazione, e tanto
meno di paura; era uno stato di acuta sospensione e di attesa. Disse:
"Ha proprio ragione, Barnard, questa faccenda si fa d'ora in ora
più interessante".
"Interessante o no" replicò Mallinson, "non mi par proprio il caso
di tesserne un elogio. Abbiamo chiesto noi di esser condotti qui?...
e Dio sa quel che ci aspetta quando ci fermeremo! Per me, poi, il
fatto che costui sia un aviatore abilissimo non diminuisce la sua
colpa verso di noi. E' tanto abile, quanto pazzo. Ci fu un pilota -
m'hanno detto - che impazzì a mezz'aria. Questo era certamente pazzo
prima di partire. Ecco la mia convinzione, Conway".
Conway taceva. Urlare di continuo sopra il rombo del motore era una
fatica; e dopo tutto, a che pro arzigogolare sulle probabilità?... Ma
quando Mallinson insistette, fu costretto a dire la sua opinione.
"Una pazzia ben architettata, se mai. Basta pensare che questo era
l'unico apparecchio capace di salire a un'altezza simile".
"Ciò non prova che non sia pazzo. Può esserlo stato in grado
sufficiente per organizzare ogni cosa".
"Sì, può darsi".
"E allora dobbiamo stabilire un piano d'azione. Che cosa faremo
quando atterrerà? Beninteso se non ci avrà sfracellati e uccisi in
blocco. Che cosa faremo?... Corrergli incontro, forse, e
congratularci con lui per il suo magistrale volo?".
"Le prometto che la lascerò andare avanti per primo" rispose
Barnard; "ma se le è cara la vita non lo faccia".
Conway si sentì riprendere dalla solita indolenza e rinunciò a
continuare la discussione, tanto più che l'americano con le sue
chiacchiere sensate dimostrava di poter benissimo proseguire da solo.
In fondo Conway pensava che la compagnia avrebbe potuto anche essere
peggiore. Soltanto uno, Mallinson, aveva tendenza a brontolare; ma si
poteva, in parte, attribuirlo all'altezza. L'aria rarefatta produce
sulle persone effetti diversi: per esempio, a Conway dava
contemporaneamente una sensazione di lucidità mentale e di apatia
fisica, nient'affatto sgradevole. Respirava quell'aria purissima con
vera gioia. La situazione, vista nel suo complesso, era indubbiamente
spaventosa, ma intanto perché crucciarsi minuto per minuto di cose
che si svolgevano con tanta regolarità e in modo così interessante?
E mentre fissava la meravigliosa montagna, fu invaso da un intimo
sublime compiacimento, al pensiero che vi fossero ancora sulla terra
visioni simili, lontane, inaccessibili, quasi vergini di impronta
umana. Le pareti ghiacciate del Karakorum erano ora più
impressionanti che mai contro il cielo diventato a nord di un grigio
sinistro; i picchi mandavano un riflesso gelido: maestosi e remoti,
pur senza nome, avevano una dignità particolare. Inferiori in altezza
ai più noti colossi, forse appunto per quelle poche centinaia di
metri in meno si salvavano per sempre da esplorazioni alpinistiche,
perché offrivano un minore allettamento agli ostinati superatori di
record; rispetto ai quali Conway era proprio l'antitesi: la passione
occidentale per i superlativi gli pareva di cattivo gusto; "tendere
verso l'alto" era per lui una frase più ragionevole e più nobile che
non l'altra: "il massimo sforzo per la massima altezza". Non aveva
nessuna simpatia per gli eccessi.
Era tuttora assorto in quello spettacolo, quando cadde il
crepuscolo e immerse le valli in un'oscurità vellutata, che poi si
diffuse lentamente verso l'alto. L'intera catena, ora molto più
vicina, impallidì in uno splendore nuovo; sorse la luna piena
toccando uno dopo l'altro tutti i picchi come un accenditore celeste,
finché il vasto orizzonte rifulse candido contro il cielo
neroazzurro. L'aria si faceva fredda e il vento sbalzava qua e là
l'aereo in modo poco piacevole. Questi nuovi inconvenienti
demoralizzarono i passeggeri; una continuazione del volo dopo il
tramonto non era stata prevista, e adesso, l'ultima loro speranza era
nel consumo totale del carburante; eventualità che non poteva tardare
a verificarsi. Mallinson cominciò a discuterci su e Conway, un po'
riluttante, perché davvero non poteva saperlo, stimò che l'autonomia
massima dell'apparecchio dovesse aggirarsi intorno alle mille miglia,
la maggior parte delle quali era già stata percorsa.
"E allora dove dovrebbe portarci questa autonomia?..." domandò il
giovane scoraggiato.
"Non è facile giudicarlo, ma probabilmente in qualche punto del
Tibet. se questi monti sono il Karakorum, dietro c'è il Tibet.
intanto una di queste vette dev'essere il K2, considerata la seconda
montagna del mondo".
"In ordine di altezza viene subito dopo l'Everest" commentò
Barnard. "Accidenti! questo sì che è un panorama".
"Dal punto di vista alpinistico, è una montagna ancor più difficile
dell'Everest. il Duca degli Abruzzi vi rinunciò stimandolo un picco
assolutamente inscalabile".
"Averne voglia!" brontolò Mallinson a denti stretti. Invece Barnard
rise:
"Ma lei, Conway, è proprio la guida ufficiale di questo viaggio di
piacere!... E allora le dirò che se avessi una fiaschetta di caffè e
cognac non m'importerebbe affatto che questo fosse il Tibet piuttosto
che il Tennessee".
"Ma che cosa faremo, domando io!" ribatté Mallinson. "Perché siamo
qui? Io non capisco come lei abbia voglia di scherzare! Costui
dev'esser matto; non c'è altra spiegazione. Non è vero, Conway?".
Conway scosse il capo.
Miss Brinklow si girò indietro come se fosse nell'intervallo di uno
spettacolo.
"Siccome non avete chiesto il mio parere, forse non dovrei parlare"
cominciò modestamente, "ma vorrei dirvi che son d'accordo con Mr'
Mallinson. credo che il pover'uomo non abbia la testa interamente a
posto. Il pilota, si capisce. Perché se non fosse pazzo, non avrebbe
proprio nessuna scusa". E aggiunse confidenzialmente, urlando sul
fragore: "Figuratevi che questo è il mio primo viaggio aereo! Proprio
il primo! Una mia amica aveva fatto di tutto per indurmi a volare con
lei da Londra a Parigi; ma non mi ero mai lasciata persuadere".
"E invece ora sta volando dall'India al Tibet" disse Barnard. "Cose
che capitano ai mortali".
Lei continuò:
"Ho conosciuto una volta un missionario che era stato nel Tibet.
diceva che i tibetani sono gente stranissima. Credono che noi
discendiamo dalle scimmie".
"Così progrediti sono?!...".
"Oh no, non intendevo secondo le teorie moderne. Hanno questa
credenza da centinaia di anni; è una delle loro tante superstizioni.
Naturalmente io sono contrarissima, e considero Darwin assai peggiore
dei tibetani. Io mi baso sulla Bibbia".
"Siete fondamentalista, suppongo?".
Non parve che Miss Brinklow capisse quella parola.
"Ho fatto parte dell'L'M'S'" urlò, "ma non ci trovavamo d'accordo
quanto al battesimo degli infanti".
Anche dopo essersi ricordato che le iniziali erano quelle della
London Missionary Society, Conway continuò a pensare che
l'osservazione era abbastanza comica. E mentre immaginava già tutti
gli inconvenienti ad intavolare una discussione teologica alla
stazione di Euston, cominciò a trovare Miss Brinklow piuttosto
interessante. Si chiese se fosse il caso di offrirle qualcuno dei
suoi indumenti contro il freddo notturno; ma poi si persuase che
probabilmente era più robusta di lui. E allora si rincantucciò,
chiuse gli occhi, e si addormentò subito pacificamente.
E il volo continuò.
Furono svegliati all'improvviso da uno scossone dell'apparecchio.
Conway batté il capo contro il finestrino rimanendo per un attimo
intontito; un altro scossone in senso inverso lo scaraventò fra le
due file dei sedili. Il freddo era adesso più intenso. La prima cosa
che Conway fece, automaticamente, fu di guardare il suo orologio da
polso: era l'una e mezzo, aveva dunque dormito un poco. Sentiva ora
negli orecchi uno strano frusciar d'ali; sulle prime lo credette un
ronzio immaginario, ma poi s'accorse che il motore era spento e che
l'aereo si trovava in mezzo alla burrasca. Guardò dal finestrino e
vide la terra, lì sotto, vicinissima, che fuggiva via indistinta e
grigiastra.
"Sta per atterrare!" urlò Mallinson; e Barnard, sbalzato anche lui
dal suo sedile, aggiunse freddamente:
"Se avrà fortuna".
Miss Brinklow, che fra tutti sembrava la meno turbata
dall'incidente, si aggiustava il cappello con la stessa calma come se
l'avessero avvertita che si era in vista del porto di Dover.
Poco dopo l'aereo atterrò. Ma questa volta malamente.
"Che cosa succede, Dio mio!" gemette Mallinson tenendosi stretto al
suo sedile durante i dieci secondi di rullio e di urtoni. Si sentiva
qualcosa tendersi e schioccare: uno dei pneumatici scoppiò.
"Questa è la fine" aggiunse con pessimismo angoscioso. "Abbiamo la
coda spezzata; dovremo starcene dove siamo, ormai".
Conway, che nei momenti difficili non parlava mai, allungò le gambe
intorpidite e si toccò la testa là dove aveva preso la botta contro
il finestrino. Roba da poco: una contusione. Era suo dovere far
qualcosa per aiutare i compagni. Ma quando l'aereo fu fermo, l'ultimo
dei quattro ad alzarsi fu proprio lui.
"Attenti" disse mentre Mallinson spalancava la porta della cabina e
si preparava a saltare a terra.
"Non occorre più stare attenti" risuonò stranamente nel gran
silenzio la voce del giovane, "sembra la fine del mondo, non c'è
anima viva intorno".
Un minuto dopo, intirizziti e tremanti, constatarono che era
proprio così. Nessun suono all'infuori dell'urlo del vento e dei loro
passi incerti; la terra e l'aria parevano impregnate di qualcosa di
selvaggio. La luna si era nascosta dietro le nuvole e le rare stelle
illuminavano un immenso vuoto battuto dal vento. Si poteva credere
d'esser scesi su un altipiano altissimo le cui montagne avessero già
per sostegno altre ed altre montagne.
Se ne vedeva una catena luccicare all'orizzonte come una fila di
denti canini.
Febbrilmente Mallinson si avviò verso la carlinga.
"Certo a terra non mi fa paura costui, chiunque sia" gridò; "adesso
regoleremo i conti io e lui...".
Gli altri guardavano, ipnotizzati da tanta energia, ma anche un po'
in apprensione. Conway gli saltò dietro; troppo tardi per impedirgli
di investigare. Senonché, dopo alcuni secondi, il giovane tornò sui
suoi passi, afferrò il braccio di Conway e gli mormorò rauco:
"Sa, Conway... è strano... Credo che stia male... o sia morto. Non
risponde. Venga su a vedere. In ogni modo gli ho tolto la
rivoltella".
"La dia a me; è meglio" disse Conway, e benché ancora intontito per
il colpo ricevuto alla testa si preparò ad agire. Fra tutte le
situazioni difficili, di tempo e di luogo in cui s'era trovato,
nessuna gli era mai apparsa così complicata e problematica come
questa. Si drizzò sulla punta dei piedi fino a poter vedere, più o
meno, nella carlinga chiusa. C'era un forte odore di benzina, non si
arrischiò quindi ad accendere uno zolfanello. Poté appena distinguere
il pilota, rannicchiato in avanti, con la testa abbandonata sui
comandi. Lo scosse, gli slacciò il casco, gli allentò il colletto.
Dopo un momento si volse a dire:
"Sì, gli è capitato qualcosa. Bisogna tirarlo fuori".
Ma un osservatore attento avrebbe potuto dire che anche a Conway
era accaduto qualcosa. La sua voce era più forte, più decisa: non
pareva più ondeggiare sull'orlo di qualche dubbio profondo. Il luogo,
il tempo, il freddo, la sua stessa stanchezza ora contavano meno:
c'era un lavoro che doveva esser fatto; e allora quella parte del suo
"io" meno dominante e perciò docilmente pronta all'azione necessaria,
aveva il sopravvento.
Con l'aiuto di Barnard e di Mallinson il pilota fu estratto dalla
carlinga e adagiato a terra. Era svenuto, non morto.
Conway, pur non avendo mai studiato medicina, aveva la pratica di
chi ha vissuto a lungo in luoghi isolati; i sintomi di alcune
malattie gli erano familiari.
"Si tratta forse di un attacco di cuore cagionato dall'altezza"
diagnosticò chinandosi sullo sconosciuto. "Qui fuori, e con questo
vento infernale, è impossibile far qualcosa per lui. Sarebbe meglio
portarlo nella cabina; meglio anche per noi che, non sapendo dove ci
troviamo, non potremo muoverci prima di giorno".
Gli altri furono pienamente d'accordo e Mallinson diede il suo
valido aiuto. Portarono l'uomo in cabina e lo adagiarono nel vano di
passaggio tra le due file dei sedili. Lì non faceva davvero meno
freddo che fuori, ma si era almeno al riparo dalle raffiche del
vento. Il vento diventò presto la loro preoccupazione principale, il
motivo dominante, per così dire, del notturno spettacolo. Non era uno
dei soliti venti che fanno esclamare "che vento forte!", "che vento
freddo!". Era un vero uragano, che li circondava come un padrone
mostruoso scorrazzante sui propri domini. Scuoteva furiosamente
l'aereo, fin quasi a sollevarlo; e quando Conway guardava dalle
finestre provava l'impressione che la sua violenza strappasse persino
turbinanti frammenti di luce alle stelle.
Lo sconosciuto giaceva inerte, e Conway lo esaminò come poteva, in
tanta scarsezza di luce e ristrettezza di spazio. Ma l'esame rivelò
ben poco.
"E' il cuore che è debole" disse infine; e allora Miss Brinklow,
che aveva intanto frugato nella borsetta, ebbe un tratto proprio
commovente.
"Forse questo potrebbe giovare a quel poveretto!" disse con
slancio. "Io non ne assaggio mai neppure una goccia, ma lo porto
sempre con me in caso di incidenti. E qui si tratta proprio di un
incidente, vero?".
"Direi" rispose asciutto Conway. Svitò il turacciolo, annusò, e
versò un po' di cognac nella bocca del ferito.
"Proprio quel che ci vuole per lui. Grazie".
Dopo una breve attesa poté osservare alla luce di un fiammifero un
lievissimo moto delle palpebre. Mallinson fu assalito da un
improvviso nervosismo. Rise convulsamente.
"Perdonatemi" gridò, "non posso dominarmi. Abbiamo l'aria di tanti
pazzi che accendano dei fiammiferi sopra un cadavere... Non vi pare
una scena edificante?... Cinese, ecco; e ho detto tutto".
"Può darsi". La voce di Conway era calma, e un po' severa. "Ma non
è ancora un cadavere. Se la fortuna ci assiste riusciremo forse a
rianimarlo".
"Fortuna? La fortuna sarà sua, e non nostra".
"Non ne sia troppo sicuro. E per ora zitto, è già abbastanza".
Benché Mallinson non fosse in grado di controllarsi troppo, la
consolidata abitudine alla disciplina scolastica lo rese subito
obbediente al comando secco di un "senior".
La preoccupazione maggiore di Conway era, suo malgrado, il pilota.
Non era più tempo di parole; l'eccitante avventura, seguita con una
specie di curiosità durante il volo, minacciava di diventare ora una
difficilissima prova di resistenza con probabile fine catastrofica.
Per tutta la notte non gli riuscì di prender sonno; e nel frastuono
della burrasca meditò in silenzio ponendosi con risolutezza davanti
al fatto compiuto. Era convinto che avessero superato di molto la
catena occidentale dell'Himalaya, verso le meno note altitudini del
KuenLun. stando così le cose, si trovavano nella parte più alta e
meno ospitale della superficie terrestre, l'altipiano del Tibet, una
regione vasta, disabitata e in gran parte inesplorata, sempre battuta
dal vento. L'isola più sperduta e più deserta sarebbe stata
preferibile a quelle terre abbandonate. A un tratto, come se la
natura, vedendo Conway perplesso, volesse rispondergli e turbarlo
maggiormente, avvenne tutt'intorno un mutamento impressionante. La
luna che egli aveva creduto nascosta dalle nuvole sfiorò l'orlo di
un'ombra montagnosa e, pur non mostrandosi direttamente, rivelò
l'oscurità che aveva di fronte. Conway riuscì a scorgere i margini di
una lunga vallata, fiancheggiata da cupi colli tondeggianti, non
molto alti, di un nero inchiostro contro gli squarci azzurri del
cielo e le frequenti scariche elettriche. Ma i suoi occhi furono
attratti irresistibilmente dallo sfondo della valle, perché lì,
sorgendo dal vuoto, magnifica nel pieno lume di luna, appariva la più
meravigliosa montagna del mondo. Semplice di linea, come se l'avesse
disegnata un bimbo, era per forma un cono di neve quasi perfetto, non
però classificabile quanto a dimensioni, altezza e distanza. Appariva
così radiosa, così serenamente imperante, da non sembrar vera. Mentre
Conway l'osservava, un lieve spruzzo nevoso ne snebbiò il fianco e un
successivo rombo, attenuato dalla distanza, confermò l'ipotesi di una
valanga.
Fu tentato di svegliare gli altri per farli partecipi dello
spettacolo, ma rifletté che quella vista non sarebbe stata
sufficiente per dar tranquillità a persone di buon senso; anzi,
quell'immenso splendore inviolato avrebbe forse accresciuto il senso
di isolamento e di pericolo. Il nucleo umano più prossimo era forse
distante centinaia di miglia. Essi non avevano viveri; potevano
contare su un'unica rivoltella, e se anche uno di loro avesse saputo
guidare, l'aereo era danneggiato e quasi al termine del carburante.
Non avevano abiti adatti contro quel freddo e quel vento tremendo;
il soprabito di Conway e il cappotto automobilistico di Mallinson
erano assolutamente insufficienti, e anche Miss Brinklow ricoperta e
imbottita come per una spedizione polare (che impressione ridicola
gli aveva fatto a prima vista!) doveva sentirsi a disagio. Inoltre,
eccetto lui, erano tutti più o meno disturbati dall'altitudine.
Barnard stesso era diventato malinconico. Mallinson brontolava fra
sé, e si capiva già che cosa sarebbe accaduto al perdurare di quelle
condizioni.
Di fronte a questa prospettiva così poco incoraggiante Conway non
poté trattenersi dal rivolgere a Miss Brinklow uno sguardo
d'ammirazione. Rifletté che, probabilmente, non era una persona
normale: infatti non si poteva considerare tale una donna che
insegnava a cantare inni sacri agli afgani. Ma le era molto grato per
il fatto che ad ogni nuova calamità ella riuscisse comunque a
mantenersi normalmente anormale.
"Spero che non si senta troppo male" le disse con simpatia, appena
incontrò il suo sguardo.
"Durante la guerra mondiale i soldati soffrirono ben più di così"
rispose.
Il paragone non convinse troppo Conway. Per altri era giustissimo
ma, in realtà, lui non aveva mai passato in trincea una notte così
spiacevole.
Concentrò allora la sua attenzione sul pilota, che ora respirava
irregolarmente e tentava qualche movimento.
Mallinson aveva forse ragione di crederlo cinese. Per quanto fosse
riuscito a farsi passare per autentico tenente dell'Aviazione
inglese, i suoi zigomi e il naso erano tipicamente mongolici.
Mallinson l'aveva trovato brutto, ma a Conway che aveva vissuto in
Cina parve passabile, benché ora, sotto la luce dei fiammiferi
accesi, la sua pelle giallastra e la bocca spalancata fossero
tutt'altro che da ammirare.
La notte proseguì come se ogni minuto fosse qualcosa di materiale e
pesante da spinger via a forza per far posto ai successivi. Il
chiarore lunare impallidì, e con esso la lontananza spettrale della
montagna; da allora, fino all'alba, si aggravarono i tre problemi del
buio, del freddo e del vento. Ma ai primi albori, quasi per un
segnale convenuto il vento cadde, e lasciò la natura in una quiete
pietosa. Incorniciata nel pallido triangolo di fronte, la montagna
riapparve, prima grigia, poi argentea, e finalmente rosea ai primi
raggi di sole sulla vetta.
Nella luce crescente la valle ritrovava la sua forma rivelando un
fondo roccioso e ghiaioso che prendeva rilievo a poco a poco. Non era
una natura amica; Conway, osservandola, ne riceveva un'impressione di
bellezza, non però di fascino romantico, ma di pura intellettualità,
netta come l'acciaio. La bianca piramide erta e distante costringeva
la mente a un consenso matematico e spassionato come dinanzi a un
teorema d'Euclide - e l'incanto fu rotto poco dopo quando il sole
sorse nel cielo azzurro e Conway si sentì nuovamente un po' meno a
suo agio.
Gli altri si svegliarono quando già la temperatura era diventata
più tiepida ed egli suggerì di portare all'aperto il pilota nella
speranza che l'aria e il sole lo aiutassero a rinvenire. Così fu
fatto, e venne iniziata un'altra veglia, però più piacevole della
prima. A un tratto l'uomo aprì gli occhi e cominciò a parlare
convulsamente; i quattro si chinarono su di lui attentamente, ma
soltanto Conway parve comprendere quei suoni strani, perché di quando
in quando rispondeva. Dopo qualche momento le forze del pilota si
affievolirono; pronunciava le parole con crescente difficoltà e
infine spirò. Potevano essere le dieci del mattino.
Conway si voltò verso i compagni.
"Mi spiace dovervi dire che ha parlato ben poco; s'intende,
rispetto a quanto avremmo desiderato sapere.
"Siamo nel Tibet, il che era già ovvio. Non mi ha spiegato bene
perché ci ha portato qui, ma certamente conosceva la località.
Parlava un cinese che ho capito poco, ma credo che nominasse un
convento di Lama qui vicino, lungo la valle mi pare, dove potremmo
trovare cibo e rifugio. Lo ha chiamato ShangriLa. In tibetano La
significa passo di montagna. Insisteva perché vi andassimo".
"Non mi pare una buona ragione per farlo" disse Mallinson.
"Probabilmente non era più in sé. Non crede?".
"Ne so quanto lei, caro Mallinson. ma se non andiamo là, dove mai
andremo?".
"Dove vuole, per me è lo stesso. Sono sicuro però che se ShangriLa
si trova da quella parte dev'essere ben lontano da ogni consorzio
civile. Diavolo, non le viene proprio in mente nulla, amico, da
tentare per farci tornare indietro?...".
Conway, paziente, replicò: "Credo che lei non comprenda bene la
nostra posizione, Mallinson. ci troviamo in una parte del mondo di
cui si sa ben poco, all'infuori che è difficile e pericolosa, anche
per una spedizione bene equipaggiata. Considerando che un paesaggio
simile a questo si estende probabilmente intorno a noi per centinaia
di miglia, l'idea di tornare a piedi a Peshawar non mi sembra molto
incoraggiante".
"Temo che, forse, io non ci riuscirei" disse seria Miss Brinklow.
barnard assentì con un cenno del capo.
"Se questo monastero è qui alla prossima svolta, potremo dirci
fortunati".
"In fondo sì" rispose Conway. "Dopo tutto non abbiamo viveri e,
come vedete anche voi, questo paese non potrebbe facilmente
fornircene. Fra poche ore saremo tutti affamati. E se la notte
prossima ci trovasse ancora qui, dovremmo riaffrontare il freddo e il
vento. Non è una prospettiva allettante. L'unica nostra possibilità,
mi sembra, è di trovare altri esseri umani; dove dovremmo cercarli se
non là dove ci fu detto che ne esistono?".
"E se fosse una trappola?" chiese Mallinson.
Ma Barnard aggiunse:
"Una bella trappola ben calda, con un pezzo di formaggio: sarebbe
l'ideale in terra, per me".
Tutti risero, meno Mallinson, che pareva assente e nervoso. Alla
fine Conway continuò:
"Dunque, mi pare che, più o meno, siamo d'accordo... Guardate,
lungo la valle si distingue abbastanza bene una strada; non sembra
molto ripida, ma ci obbligherà a salire lentamente. Tanto, qui non si
può far nulla! non si potrebbe neppure seppellire questo disgraziato
senza dinamite! Inoltre i monaci potranno forse darci dei portatori
per il ritorno; ne avremo bisogno. Propongo di partire subito, così
se durante il pomeriggio non avremo individuato il luogo preciso, ci
resterà il tempo per tornar giù a passare nella cabina un'altra
notte".
"E se riusciremo a individuarlo?" brontolò Mallinson, sempre
intransigente. "Che garanzia abbiamo di non essere assassinati?".
"Nessuna. Ma penso che il rischio sia minore, e fors'anche
preferibile a quello di morire di fame e di freddo".
E pensando che una logica così gelida non fosse adatta al caso,
aggiunse subito:
"Del resto c'è ancora meno probabilità d'esser assassinati in un
monastero buddista, che in una cattedrale inglese".
"Come il Vescovo di Canterbury" approvò in pieno e con enfasi Miss
Brinklow, capovolgendo però il suo punto di vista.
Mallinson alzò le spalle e rispose di malumore:
"Bene, bene, incamminiamoci verso ShangriLa. Sia quel che sia,
proviamo ugualmente. Auguriamoci almeno di non dover salire mezza
montagna".
Quest'osservazione fece volgere i loro sguardi sulla scintillante
piramide a cui conduceva la valle. Nella piena luce del giorno essa
apparve snella e magnifica; ma subito la loro ammirazione si mutò in
fissità, perché lontano lontano, giù per la discesa, scorsero un
gruppo di persone che si avvicinava.
"La Provvidenza!" disse sottovoce Miss Brinklow.
Iii
In Conway c'era sempre una parte che rimaneva spettatrice, per
quanto attivo potesse essere tutto il resto. Ora, per esempio, mentre
aspettava che i nuovi venuti fossero più vicini, non si affrettò
affatto a considerare tutte le possibili contingenze e a decidere
quel che avrebbe potuto fare. Coraggio? Freddezza? Orgogliosa
sicurezza di poter prendere una decisione sul momento? Niente di
tutto questo. Era, se vogliamo giudicare senza indulgenza, una forma
di pigrizia, una riluttanza istintiva ad abbandonare il suo posto di
osservatore dell'avvenimento imminente.
Intanto il gruppo lontano, procedendo giù per la valle, si rivelò
composto di una dozzina di persone o poco più, alcune delle quali
reggevano una portantina su cui si poteva distinguere una persona
vestita d'azzurro. Conway non era in grado di immaginare dove fossero
diretti, ma parve anche a lui, come già a Miss Brinklow,
provvidenziale che si trovassero a passare di lì. Appena furono
abbastanza vicini, Conway lasciò i suoi e s'incamminò; lo fece però
lentamente, ricordandosi che gli orientali amano il rituale degli
incontri e desiderano impiegarvi tutto il tempo necessario. Fermatosi
a distanza di pochi metri, s'inchinò con la dovuta cortesia. Con sua
grande sorpresa il personaggio dalla lunga veste scese dalla
portantina, avanzò con tutta dignità, e gli stese la mano. Conway
gliela strinse, e intanto fissò curiosamente quel cinese, alquanto
decorativo nella sua veste di seta ricamata, vecchio o almeno già
maturo, dai capelli grigi e dal volto rasato. A sua volta il cinese
parve scrutare nello stesso modo Conway; dopo di che gli parlò in un
inglese chiaro e un po' ricercato:
"Io appartengo al monastero di ShangriLa".
Conway si inchinò di nuovo, e dopo una necessaria pausa cominciò a
spiegargli brevemente per quali circostanze si trovasse coi suoi
compagni in quella remota parte del mondo. Alla fine del racconto il
cinese fece un gesto di assenso.
"E' veramente un fatto notevole" disse, e guardò con attenzione
l'aereo danneggiato. Poi aggiunse: "Mi chiamo Chang; vuole essere
così gentile da presentarmi ai suoi compagni?".
Conway riuscì a sorridere con garbo. Gli faceva un certo effetto
incontrare questo fenomeno: un cinese che parlava l'inglese
perfettamente e usava nel Tibet selvaggio tutte le cortesie formali
di Bond Street. si volse agli altri, che ormai lo avevano raggiunto e
stavano guardando quella scena ciascuno con un diverso grado di
stupore.
"Miss Brinklow... Mr' Barnard, americano... Mr' Mallinson... ed io
che mi chiamo Conway. Siamo lieti di vederla, anche se il nostro
incontro è quasi altrettanto strano per noi quanto il fatto di
trovarci quassù. Stavamo proprio per dirigerci al suo monastero,
perciò siamo doppiamente fortunati. Vuole darci qualche indicazione
circa la strada?...".
"Non occorre. Sarò felice di guidarvi io stesso".
"E' molto gentile, ma non posso permettere che si disturbi tanto.
Se non è troppo lontano...".
"Lontano no, ma la strada non è facile. Sarà per me un onore
accompagnarla coi suoi compagni".
"Ma davvero...".
"Insisto".
Conway sentiva che, considerati il luogo e le circostanze, la
discussione minacciava di diventare ridicola. "Benissimo" rispose.
"Gliene siamo molto grati".
Senonché Mallinson, che aveva tollerato con faccia scura queste
gentilezze, si frappose con sgarberia da caserma.
"Non vi resteremo a lungo" annunciò secco. "Pagheremo quanto vi
sarà dovuto, e poi combineremo con alcuni dei vostri uomini perché ci
aiutino nel viaggio di ritorno. Vogliamo tornare alla civiltà il più
presto possibile".
"E' proprio sicuro di esserne tanto lontano?".
La domanda, proferita con soavità, punse il giovane, rendendolo
ancor più sgarbato.
"Sono sicurissimo di trovarmi ben lontano da dove vorrei; e così i
miei compagni. Le saremo grati per un rifugio momentaneo, ma più
ancora se ci procurerà i mezzi per tornare. Quanto tempo ci vorrà per
un viaggio fino in India?".
"Non glielo saprei proprio dire".
"Ebbene, spero che non incontreremo in proposito nessuna
difficoltà. Sono pratico di contratti con portatori indigeni e siamo
certi che lei userà la sua influenza perché ci trattino onestamente".
Conway trovò inopportuna questa insolenza e stava già per
intervenire, quando giunse la risposta, calma e dignitosa: "Posso
soltanto assicurarle, Mr' Mallinson, che sarà trattato onorevolmente,
e che alla fine non avrà alcun rimpianto".
"Alla fine?" esclamò Mallinson, alzando il tono della voce; ma si
poté facilmente evitare una scenata perché i portatori tibetani,
vestiti di pelli di pecora, con un cappello di pelo e scarpe di yak,
offrivano a tutti vino e frutta, presi in quel momento dalle ceste.
Il vino aveva un piacevole profumo che ricordava certi squisiti vini
del Reno, e tra la frutta v'erano dei manghi perfettamente maturi,
d'una delizia quasi commovente a trangugiarsi dopo tante ore di
digiuno.
Mallinson mangiò e bevve con ghiotta avidità, ma Conway, sollevato
dalle preoccupazioni più immediate e riluttante a crearsene altre, si
stupiva che i manghi potessero esser coltivati a tale altezza.
Inoltre lo interessava molto la montagna di fronte: un picco
sensazionale, unico; si stupiva di non averne mai trovato notizia in
nessuno di quei libri che i viaggiatori scrivono quasi sempre dopo
esser stati nel Tibet. fissandolo lo scalava mentalmente, scegliendo
le due sole strade possibili: il valico di un alto colle oppure la
scorciatoia di uno stretto corridoio roccioso... finché
un'esclamazione di Mallinson lo richiamò sulla terra: voltò il capo e
s'accorse che il cinese lo osservava attentamente.
"Contempla la montagna, Mr' Conway?" si sentì chiedere.
"Sì. E' un bello spettacolo. Avrà un nome, immagino".
"Si chiama Karakal".
"Non credo di averne mai sentito parlare. E' molto alta?".
"Più di 28'000 piedi".
"Davvero? Credevo che soltanto l'Himalaya raggiungesse tale
altezza. E' sicuro che l'abbiano studiata bene? Chi l'ha misurata?".
"Che cosa pensa, caro signore? Che vi sia forse qualcosa di
incompatibile fra vita monastica e trigonometria?".
Conway gustò la frase, e rispose:
"No, no, niente affatto" e rise amabilmente. La battuta non gli era
sembrata un gran che, ma aveva voluto gratificarlo. Poco dopo
incominciarono il viaggio verso ShangriLa.
La salita continuò per tutta la mattina, lentamente e a gradi; data
l'altezza, era necessario un notevole sforzo fisico e a nessuno
rimaneva più energia per parlare. Il cinese viaggiava da gran signore
nella sua portantina, cosa che sarebbe parsa poco cavalleresca verso
Miss Brinklow, se il solo figurarsela in quella cornice regale non
fosse stato invece ridicolo. Conway, disturbato meno degli altri
dall'altezza, si sforzava di afferrare il senso delle parole dei
portatori colte qua e là. Di tibetano ne sapeva ben poco, però
abbastanza per capire che gli uomini erano contenti di tornare al
monastero. Anche se avesse desiderato continuare la conversazione con
il loro capo non avrebbe potuto, giacché questi, chiusi gli occhi e
il viso nascosto in parte dietro le tendine di seta, sembrava
possedere il segreto di un sonno opportuno.
Intanto il sole andava diffondendo un benefico tepore; la fame e la
sete erano quietate, se non soddisfatte; e l'aria, già tersa al punto
da sembrare di un altro pianeta, diventava sempre più fine a ogni
nuovo passo della salita. Si era costretti a respirare coscientemente
e volutamente, e se sulle prime dava un po' noia, a poco a poco si
risolveva poi in un beneficio di estatica tranquillità per la mente.
Tutto il corpo si muoveva in un unico ritmo di respiro, moto e
pensiero; l'azione dei polmoni non era quasi più automatica, ma
disciplinata in armonia con l'intelletto e con le membra; Conway, nel
cui spirito qualcosa di mistico contrastava stranamente col suo
preponderante scetticismo, si trovò ad arzigogolare su tale
sensazione. Una o due volte disse qualche parola incoraggiante a
Mallinson, ma il giovane era tutto preso dalla tensione della salita.
Anche Barnard soffiava asmaticamente, mentre Miss Brinklow, impegnata
in una dura lotta coi suoi polmoni, tentava, chissà perché, di
nasconderla.
"Siamo quasi in cima" disse Conway per incoraggiarla.
"Una volta dovetti correre dietro a un treno, e provai una
sensazione identica" rispose lei.
"Così come c'è della gente che trova il sidro uguale allo
champagne" rifletté Conway tra sé e sé; "questione di palato".
E subito si stupì constatando che, eccettuata questa considerazione
di carattere generale, non aveva dentro di sé proprio nessun'altra
preoccupazione, soprattutto per quel che riguardava la sua persona.
Vi sono momenti nella vita in cui si apre la propria anima, proprio
come si spalanca il portafogli quando il passatempo di una sera sia
riuscito magari più costoso del previsto ma anche più inatteso. Così,
in quella calma mattinata, in vista del Karakal, Conway, che per aver
trascorso dieci anni in varie località asiatiche sapeva valutare
molto bene paesi e avvenimenti, diede adesso, di fronte a quella
nuova esperienza che gli si offriva, una pronta confortante e
tranquilla risposta: "Davvero questo paese è promettente come nessun
altro".
Dopo un paio di chilometri la salita si fece più ripida, ma in quel
momento il sole si velò e una nebbia argentea nascose la vista. Tuono
e valanghe rimbombarono in alto dai campi di neve; l'aria cominciò a
raffreddarsi, finché per i rapidi mutamenti delle regioni montane
divenne gelida. Si levò un forte vento, e un'improvvisa pioggia
inzuppò tutti aumentando il tormento; a un certo punto anche Conway
ebbe l'impressione che sarebbe stato impossibile proseguire. Ma poco
dopo sembrò che il più alto punto del tragitto fosse raggiunto perché
i portatori si fermarono per assestare meglio il loro carico. Nuova
pausa per le condizioni di Barnard e di Mallinson, che soffrivano
molto per il dislivello, ma i tibetani si mostrarono ansiosi di
continuare, e spiegarono a cenni che il resto del viaggio sarebbe
stato meno faticoso.
Dopo tali assicurazioni fu una delusione vedere che svolgevano
delle corde.
"Pensano forse di impiccarci?" si sforzò di esclamare Barnard, con
disperata allegria; ma presto apparve chiaro che l'intenzione delle
guide non era così macabra, e che si trattava soltanto di legare
insieme tutti i componenti della comitiva, alla maniera delle cordate
alpinistiche. Quando si accorsero che Conway era pratico di
ascensioni divennero più rispettosi e gli permisero di disporre i
suoi compagni come meglio credesse. Egli si mise accanto a Mallinson,
con due tibetani davanti; dietro collocò Barnard e Miss Brinklow,
seguiti da altri tibetani. Capì subito che durante il sonno del capo
gli uomini erano disposti a lasciarlo fare. Riaffiorò pronta in lui
l'abitudine al comando; se si fossero trovati in difficoltà avrebbe
dato loro ciò che era in suo potere: ordini e fiducia. Un tempo era
stato alpinista di prim'ordine, e lo era ancora, probabilmente.
"Abbia cura di Barnard" disse a Miss Brinklow, un po' per scherzo,
e un po' seriamente, e lei gli rispose, con la civetteria di
un'aquila:
"Farò del mio meglio, ma, sa, è la prima volta che mi trovo in una
cordata".
Ciò che seguì, benché in certi momenti impressionante, fu meno
faticoso di quanto si aspettasse, e alleviò un poco la penosa
tensione della salita. Il sentiero da percorrere era tagliato in una
roccia a picco la cui cima era nascosta dalla nebbia. Per fortuna
questa nascondeva pure l'abisso sottostante; però Conway, capace di
calcolare ad occhio le altitudini, avrebbe preferito sapere dove si
trovava. In certi punti il sentiero non era più largo di due piedi e
l'abile manovra dei portatori suscitava la sua ammirazione almeno
quanto la calma del cinese in portantina, sempre tranquillamente
assopito. Questi tibetani erano così esperti e sicuri che non c'era
da temere; tuttavia, appena il sentiero si allargò dando inizio a una
lieve discesa, essi stessi mostrarono sul volto un senso di sollievo,
e cominciarono a cantare: ondeggianti motivi barbarici che Conway
pensò subito adattissimi ad essere musicati da Massenet per qualche
balletto tibetano. La pioggia cessò e l'aria divenne tiepida.
"Possiamo ritenerci sicuri che non saremmo mai stati capaci di
giunger quassù da soli" disse Conway con l'intenzione di essere
incoraggiante; ma su Mallinson la frase non ebbe l'effetto sperato.
Era tutt'altro che tranquillo, e lo dimostrava di più adesso che il
pericolo era passato.
"Sarebbe stata una grave perdita?" rispose amaramente.
Il sentiero discendeva ora più ripido e Conway trovò alcuni
edelweiss, il primo fausto segno di un'altezza più ospitale. Ma
quando li mostrò a Mallinson questi non ne fu affatto consolato.
"Dio mio, Conway, crede forse di fare una gita sulle Alpi? In che
razza d'inferno andiamo? E quando ci saremo dentro, come ne usciremo?
Che cosa dobbiamo fare?".
Conway disse tranquillamente:
"Se conoscesse la vita come la conosco io, saprebbe che vi sono dei
momenti in cui la cosa migliore è non far nulla. Ci accadono cose
strane? Accettiamole. Così fu per la guerra. E' una fortuna se
qualche volta una spruzzatina di novità dà sapore a ciò che sembra
spiacevole".
"Al diavolo la sua filosofia! Non era così a Baskul, durante quei
disordini".
"Naturalmente; poiché allora avevo qualche probabilità di poter
modificare con la mia volontà gli avvenimenti. Ma qui, almeno per il
momento, tale probabilità non esiste. E se vuole una spiegazione le
dico che siamo qui perché siamo qui. Per me, questa, è sempre stata
una ragione consolante".
"Ma almeno si rende conto della difficoltà di ritornare per questa
stessa via. Durante l'ultima ora del nostro viaggio abbiamo
strisciato sul fianco di una vertiginosa parete a picco. Me ne sono
accorto benissimo".
"Io pure".
"Davvero?". Mallinson tossì, eccitato. "Sarò seccante, ma bisogna
che dica il mio pensiero. Tutto ciò mi è sospetto. Mi pare che stiamo
seguendo un po' troppo la volontà di costoro. Vogliono prenderci in
trappola, caro mio!".
"E se anche fosse? Quale altra scelta avevamo? O accettare il loro
aiuto, o restar là a morire".
"Lei è razionale, ma non serve a nulla. Io non mi sento di
accettare questa situazione con la sua serenità. Non posso
dimenticare che due giorni fa eravamo al Consolato di Baskul. tutto
ciò che è accaduto da allora è troppo. Mi secca. Non ne posso più.
Ora mi rendo conto che fortuna mi è toccata schivando la guerra;
certi disagi non li avrei sopportati. Mi pare che intorno a me il
mondo intero sia impazzito. E devo essere un po' pazzo pure io per
parlarle così".
Conway scosse il capo. "Ma niente affatto, mio caro. Ha
ventiquattro anni e si trova sopra i cinquemila metri... ce n'è
abbastanza per spiegare qualunque stato d'animo. Trovo piuttosto che
ha superato molto bene una prova difficile; meglio di quanto avrei
potuto fare io alla sua età".
"Ma non le sembra assurdo tutto quel che è accaduto?!... La corsa
al disopra delle montagne, e quella tremenda notte fra la tempesta di
vento, e il pilota morente, e l'incontro con costoro... non le pare
un incubo, una cosa incredibile a ripensarci?".
"Sì, lo ammetto".
"E allora come fa a mantenersi così calmo?".
"Lo vuole proprio sapere? Glielo dirò, anche se mi crederà un
cinico. E' perché ricordo tante cose che mi sembrano anch'esse
incubi. Questa non è l'unica parte pazza del mondo. Per esempio, lei
che prova il bisogno di pensare a Baskul, non ricorda, prima della
partenza le torture inflitte dai rivoluzionari ai loro prigionieri
per avere informazioni? Una delle solite macchine da stiro, dal
funzionamento perfetto, è vero, ma io non ho mai visto nulla di più
comicamente orribile. E non ricorda l'ultimo telegramma ricevuto,
poco prima che fossero tagliate tutte le comunicazioni? Era la
circolare di una ditta di Manchester che ci domandava se si sarebbero
potuti far buoni affari a Baskul vendendo busti! Non è una pazzia
anche questa? Mi creda, il peggio che può esserci capitato arrivando
qui è d'aver cambiato una forma di pazzia con un'altra. E in quanto
alla guerra, se lei ci si fosse trovato avrebbe fatto come me -
avrebbe imparato a scherzarci su anche quando non ne avesse avuto
voglia".
Stavano ancora discorrendo quando una breve ma ripida salita tolse
loro il fiato, riconducendo in quei pochi passi tutta la faticosa
tensione di prima. Ma poi il terreno si appianò e uscirono fuori
dalla nebbia in un'aria limpida e soleggiata. Davanti a loro, a breve
distanza, sorgeva il monastero di ShangriLa.
A Conway, che lo vedeva per la prima volta, apparve come una
visione fluttuante al di là del ritmo insolito in cui la rarefazione
dell'aria aveva ristretto tutte le sue facoltà. E veramente era uno
spettacolo strano e quasi incredibile. Un gruppo di edifici
variamente colorati stava saldamente sul fianco del monte non con la
severa tenacia di certi castelli sul Reno, ma piuttosto con la grazia
di petali sparsi su una rupe rocciosa. Scenario superbo e
affascinante. Si provava un'emozione così austera, che lo sguardo era
irresistibilmente attratto in alto, e non si stancava di posarsi ora
sui tetti di un azzurro lattiginoso ora sul grigio bastione di
roccia, spaventoso quanto il Wetterhorn sopra il Grindelwald. e
dietro a questo, in smagliante piramide, si ergevano i pendii nevosi
del Karakal. un paesaggio montano più orrido, pensava Conway, non
poteva esistere sulla terra; e immaginava quale immensa mole di neve
e di ghiaccio la roccia dovesse arginare. Si mise a fantasticare
sulle probabilità che un giorno l'intera montagna si spezzasse in due
e metà dello splendore gelido del Karakal rovinasse nella valle; e si
domandò se le scarse probabilità di quella rovina sommate col terrore
della possibile tragedia potessero costituire per qualcuno qualcosa
di piacevolmente eccitante.
Di non minore interesse era la vista verso il basso, perché la
parete del monte continuava a cadere a picco entro una voragine,
originata forse da un remotissimo cataclisma. E, nel fondo, una valle
pianeggiante, velata e lontana, tutta verde, riparata dai venti,
dominata o, meglio, vigilata dal monastero, parve a Conway un sito
privilegiato, anche se dal lato opposto alte e inaccessibili catene
obbligavano al più completo isolamento gli abitanti, ammesso che la
valle ne avesse. Soltanto verso il monastero v'era l'apparenza di
qualche possibile uscita. Guardando giù, Conway provò una certa
apprensione - i presentimenti di Mallinson non erano del tutto
trascurabili. Ma fu una sensazione momentanea, subito superata da
un'altra più profonda, metà spirituale e metà reale: quella di avere
finalmente raggiunto la meta.
Più tardi non ricordò mai con esattezza in che modo lui e i suoi
compagni fossero giunti al monastero, né chi li avesse accolti,
slegati, introdotti. L'aria sottile, di una trasparenza irreale in
armonia con l'azzurro porcellana del cielo, e ogni respiro, ogni
sguardo, gli avevano dato un'impronta così profonda da renderlo
insensibile tanto all'insofferenza di Mallinson quanto all'arguzia di
Barnard e allo spettacolo di Miss Brinklow, modesta signora ormai
pronta a tutto. Ricordava appena di aver provato una grande sorpresa
nel trovarsi in locali ampi, ben riscaldati e puliti, ma che il tempo
di osservare era stato brevissimo perché il cinese, non più in
portantina e parlando in modo molto affabile, faceva da guida
attraverso le anticamere.
"Debbo scusarmi" disse, "per avervi lasciati a voi stessi durante
il tragitto, ma vi confesso che viaggi di questo genere non sono per
me e che devo aver cura della mia salute. Spero che non vi sentiate
troppo stanchi".
"Ce la siamo cavata" rispose Conway con un sorriso sbadato.
"Benissimo. E ora se venite con me, vi mostrerò le vostre stanze.
Credo che un bagno vi farà piacere. Qui tutto è semplice, ma spero
che non mancherà nulla.
A questo punto Barnard, che soffriva ancora per la mancanza di
fiato, si abbandonò a un asmatico gorgoglio.
"Ebbene" soffiò, "non posso ancora dire che il clima mi piaccia; mi
pare che l'aria mi schiacci il petto; ma avete davvero una vista
meravigliosa dalle finestre della facciata. Dobbiamo far la fila per
il bagno, o questo è un albergo americano?".
"Credo che tutto sarà di vostro gradimento, Mr' Barnard".
Miss Brinklow assentì con aria affettata:
"Lo spero anch'io".
"E dopo" continuò il cinese, "sarò molto onorato se vorrete tutti
pranzare con me".
Conway accettò cortesemente. Solo Mallinson, di fronte a un
cerimoniale così ameno, non aveva dato segni del suo parere; soffriva
ancora, come Barnard, per l'altezza; ma con uno sforzo trovò fiato
per esclamare: "E dopo, se non le dispiace, ci accingeremo a fare
anche i nostri preparativi per andarcene. Per parte mia, più presto
sara, meglio sarà".
Iv
"Vedete dunque" diceva Chang, "che siamo meno barbari di quanto vi
aspettavate...".
Riflettendo a sera inoltrata su queste parole, Conway non trovò
niente da obiettare. Si sentiva in tale stato di benessere fisico e,
insieme, di lucidità mentale, che mai aveva avuto la sensazione di un
equilibrio così perfetto. Fino a quel momento l'organizzazione di
ShangriLa era quanto di meglio si potesse desiderare; superiore
certo alle sue aspettative. Che un monastero tibetano possedesse un
impianto di riscaldamento centrale non costituiva poi un fatto così
straordinario in un'epoca in cui anche Lhasa era fornita di telefoni,
ma la cosa più singolare era che vi si trovasse ancora con la
tecnologia per l'igiene occidentale molto tradizionalismo d'Oriente.
Per esempio il bagno in cui s'era immerso poco prima era di una fine
ceramica verde di Akron, Ohio, come diceva la scritta. Ma il
servitore l'aveva lavato alla maniera cinese, pulendogli le narici e
le orecchie, e passandogli sotto le palpebre un fine lembo di seta.
Si era chiesto se i suoi compagni avessero ricevuto le stesse
attenzioni e in che modo le avessero accolte.
Conway aveva vissuto in Cina per dieci anni, e sempre nelle
maggiori città, eppure quel tempo era stato per lui forse il più
lieto della sua vita. I cinesi gli piacevano, e gli piacevano le loro
abitudini, specialmente la cucina cinese, con tante sottili sfumature
di gusti; perciò il suo primo pasto a ShangriLa lo aveva ricondotto
in un'atmosfera già familiare e bene accetta. Non si stupì dunque
troppo quando gli venne il sospetto che i cibi potessero contenere
qualche erba o droga per regolare il respiro, perché notava non solo
qualcosa di diverso in se stesso, ma anche nei compagni un maggiore
sollievo. Osservò che Chang non mangiava che poca insalata verde, e
non beveva vino. "Mi scuserete", aveva spiegato in principio, "ma il
mio regime è assai rigoroso: debbo aver cura della mia salute".
Era la stessa ragione da lui addotta prima, e Conway cercò di
immaginare di quale malattia soffrisse. Guardandolo più da vicino
trovò difficile indovinare la sua età: i tratti del volto minuti e
imprecisi, la pelle quasi di umida argilla gli davano un'apparenza
che poteva esser quella di un giovane prematuramente invecchiato, o
di un vecchio molto ben conservato. Dato il tipo, era simpatico; una
certa cortesia formale gli aleggiava intorno, paragonabile a un
profumo troppo fine che si avverta soltanto dopo che è già svanito:
la sua veste di seta azzurra tutta ricami e aperta ai lati, coi
calzoni stretti alla caviglia, anch'essi di un color cielo
all'acquarello, aveva una fresca grazia metallica che Conway trovava
piacevole; come trovava di suo gusto quell'atmosfera più cinese che
tibetana, perché gli dava una gradevole sensazione di trovarsi a casa
sua. Ma sapeva benissimo che i tre compagni non erano dello stesso
parere. Anche la camera gli andava a genio; era di perfette
proporzioni, sobriamente tappezzata e adorna di qualche raffinato
oggetto di lacca. La luce veniva da lanterne di carta, immobili
nell'aria calma. Conway provava un senso di riposo della mente e del
corpo, e ripensando alla possibilità di qualche droga calmante
ammannita nei cibi non sentiva nessuna apprensione. Di qualunque cosa
si trattasse, ne era derivato un sollievo al corto respiro di Barnard
e all'impertinenza di Mallinson: avevano entrambi pranzato bene,
pensando più a mangiare che a parlare. Anche Conway si era seduto a
tavola con una gran fame, ma non gli era spiaciuto che l'etichetta
cinese imponesse in materia così importante approcci graduali. Non
avendo mai avuto il desiderio di affrettare le situazioni che recano
godimento per se stesse, questo sistema gli andava bene. E fu
soltanto dopo aver acceso una sigaretta che cedendo un po' alla
curiosità, disse a Chang: "Sembrate una comunità molto fortunata; e
ospitale verso gli stranieri. Però immagino che non ne vedrete
spesso".
"Raramente, è vero" rispose il cinese con un certo sussiego.
"Questa è una parte del mondo poco frequentata".
Conway sorrise. "Arrivando, ho avuto l'impressione d'aver raggiunto
il luogo più isolato che si possa immaginare. Qui una cultura a basi
proprie potrebbe fiorire senza esser contaminata dal mondo esterno".
"Contaminata, dice?".
"Uso questa espressione per indicare le musiche da ballo, il
cinema, le réclame luminose, e così via. Il vostro impianto per
l'acqua calda è veramente dei più moderni: l'unica cosa
effettivamente apprezzabile, secondo me, che l'Oriente possa portar
via all'Occidente. Penso spesso che i romani erano fortunati: la loro
civiltà arrivò fino ai bagni caldi senza dover fare la conoscenza
delle macchine".
Conway tacque. Aveva parlato con una facilità improvvisa che, pur
essendo spontanea, aveva soprattutto lo scopo di avviare il discorso
su un dato argomento e dirigerne gli sviluppi. In questo riusciva
benissimo. E se non fosse stato il timore di mancar di rispetto verso
ospiti tanto cortesi, sarebbe diventato senz'altro più sfacciatamente
curioso.
Miss Brinklow, invece, non aveva tali scrupoli.
"Prego" disse, - e il tono nient'affatto gentile corrispondeva ben
poco alla parola - "vuole parlarci del monastero?".
Chang sollevò adagio le sopracciglia come se volesse con bel garbo
deprecare tanta fretta. "Lo farò col più gran piacere, signora, per
quanto mi sarà possibile. Che cos'è che desidera sapere?".
"Prima di tutto in quanti siete qui, e a quali nazionalità
appartenete?".
Era chiaro che la sua mente ordinata funzionava con lo stesso
rigore come alla missione di Baskul.
Chang rispose: "Circa cinquanta di noi sono già Lama interamente
iniziati; e ve ne sono altri che, come me, non hanno ancora raggiunto
la completa iniziazione. Speriamo che ciò accada entro il tempo
necessario. Fino a quell'epoca saremo come coloro che voi chiamate
postulanti. Riguardo alle diverse razze, abbiamo rappresentanti di
moltissime nazioni, benché la maggioranza logicamente consti di
cinesi e di tibetani".
Miss Brinklow, che in tutte le cose aveva sempre bisogno di
giungere a una conclusione, anche se errata, disse: "Capisco. Si
tratta realmente di un monastero indigeno. E il vostro Gran Lama è
tibetano o cinese?".
"Le spiegherò più tardi".
"Vi sono degli inglesi?".
"Parecchi".
"Questo è strano". Miss Brinklow sostò un attimo a prender fiato e
proseguì: "E ora mi dica quali sono le vostre credenze".
Conway si appoggiò alla spalliera sicuro di divertirsi. Osservare
l'urto di mentalità opposte gli era sempre piaciuto; e ora
quell'ingenuità di ragazza esploratrice applicata alla filosofia del
lamaismo gli prometteva un bello spasso. Siccome però non desiderava
che il suo ospite se ne impressionasse:
"Questa è una questione un po' complessa" disse per temporeggiare.
Ma Miss Brinklow non l'intendeva così. Il vino, che aveva reso più
calmi gli altri, pareva averle dato una nuova vitalità.
"Naturalmente io credo nella vera religione" disse con gesto
magnanimo, "ma ho la mente abbastanza aperta per ammettere che altri
- forestieri, beninteso - possano essere assolutamente sinceri nelle
loro credenze. In particolare non penso che in un monastero si possa
trovare che ho ragione io".
Questa concessione provocò un inchino da parte di Chang.
"E perché no, signora?" replicò nel suo inglese fiorito e preciso.
"Dobbiamo forse ritenere che perché una religione è vera, tutte le
altre siano false?".
"Ma mi sembra ovvio, no?".
Conway s'interpose nuovamente. "Credo che il meglio sarebbe non
discutere. Ma Miss Brinklow ha la mia stessa curiosità intorno a
questa vostra comunità veramente unica".
Chang rispose con lentezza, quasi sussurrando le parole: "Se
dovessi dirvelo in breve potrei definire la nostra principale
credenza così: moderazione. Noi inculchiamo la virtù di evitare
eccessi di qualunque specie; persino, perdonatemi il paradosso,
eccessi di virtù. Nella vallata che avete visto e dove parecchie
migliaia di abitanti vivono sotto il controllo del nostro ordine
monastico abbiamo sperimentato che questo principio è la fonte di uno
speciale grado di felicità. Noi governiamo con moderata severità, e
siamo soddisfatti di un'obbedienza altrettanto moderata. E posso
assicurarvi che la nostra gente è moderatamente sobria, moderatamente
casta, e moderatamente onesta".
Conway sorrise. Tutto ciò era stato espresso bene, e queste
affermazioni coincidevano col suo temperamento. "Credo di capire. Gli
uomini che ci hanno accompagnato questa mattina appartengono alla
vostra vallata, vero?".
"Sì. Spero che non avrete avuto da lagnarvene durante il viaggio".
"Affatto. Ora però mi rallegro con me stesso che la loro abilità e
sicurezza fossero un po' più che moderate. Ma questa regola della
moderazione che si applica a loro si riferirà pure alla vostra
comunità, immagino".
Chang scosse il capo.
"Mi dispiace, signore, che abbia toccato un argomento su cui non
posso intrattenerla. Sappia soltanto che la nostra comunità ammette
fedi e abitudini varie, ma la maggior parte di noi è eretica soltanto
moderatamente. Mi rincresce di non poterle dire di più".
"Non si scusi, per carità. Sono felice di potermene restare con la
più interessante delle congetture". Ma il suono della sua voce e quel
che provava dentro, rinnovarono in Conway l'impressione di esser
stato leggermente ingannato. Sembrò dello stesso parere anche
Mallinson, benché cogliesse la palla al balzo per osservare: "Tutto
questo è stato molto interessante, ma mi sembra tempo di cominciare a
far progetti per il nostro ritorno. Quanti portatori potete
fornirci?".
Questa domanda, così pratica e chiara, rivolta al cinese, incontrò
la solita superficie di soavità e non trovò appoggio. Dopo un
intervallo abbastanza lungo venne la risposta di Chang:
"Sfortunatamente, Mr' Mallinson, io non sono la persona adatta per
dirglielo. Ma in ogni caso non credo che la faccenda possa venir
sistemata subito".
"Ma si deve fare qualcosa! Abbiamo tutti occupazioni e impegni...
chissà i nostri parenti e amici come staranno in pena per noi!
Dobbiamo assolutamente tornare. Le siamo obbligati per l'ottima
ospitalità, ma non possiamo più restare qui a far niente. Se può
farci partire domani al più tardi, ne saremo felici. Quelli, fra i
suoi uomini, che saranno disposti a scortarci non avranno a
pentirsene".
Mallinson terminò nervosamente, come se fosse rimasto deluso di non
esser stato interrotto, ma non poté ottenere da Chang che un
tranquillo rimprovero: "Gliel'ho detto, tutto ciò non dipende da me".
"No? Ad ogni modo potrà, credo, far qualcosa. Prestarci una buona
carta del paese, per esempio, sarebbe già un aiuto. Dovendo fare un
lungo viaggio, è consigliabile partire al più presto. Avrete delle
carte, immagino".
"Sì, moltissime".
"Allora ce ne presti qualcuna, la prego. Gliela restituiremo alla
prima occasione; delle relazioni col mondo esterno ne avrete, di
quando in quando, io credo. E sarebbe pure una buona idea spedire
subito qualche messaggio per rassicurare i nostri amici. Quanto è
distante la più vicina linea telegrafica?".
La faccia rugosa di Chang pareva aver acquistato una espressione
intensa di pazienza, ma non venne nessuna risposta.
Mallinson aspettò un momento, poi continuò:
"Insomma, dove vi rivolgete quando vi occorre qualcosa? Qualcosa
che provenga da paesi civili". Nella sua voce e nei suoi occhi
comparve uno spavento nuovo. Spinse indietro la sedia e si alzò. Era
pallido, e si passava con fatica la mano sulla fronte.
"Sono così stanco" balbettò guardandosi intorno. "Mi pare che
nessuno di voi voglia aiutarmi. Risponda almeno a una domanda, la più
semplice che possa farle. Come sono arrivate qui quelle moderne
vasche da bagno?".
Seguì un altro silenzio.
"Allora non mi si vuol rispondere. Sarà uno dei tanti misteri. Ma è
possibile che lei, Conway, sia così apatico? Perché non cerca di
capire la verità?... Adesso ho esaurito tutte le mie forze, ma
domani, badi, domani dobbiamo andarcene, è necessario...".
Sarebbe caduto a terra se Conway non l'avesse sostenuto e aiutato a
sedere. Si riprese un poco, ma non parlava.
"Si sentirà meglio domani" disse Chang dolcemente. "Quest'aria da
principio fa un po' soffrire chi non c'è abituato, ma è questione di
giorni".
A Conway stesso pareva di aver sognato.
"Sono state prove dure per lui" disse calmo con tono di
compassione. "Del resto, ce ne siamo accorti un po' tutti; sarebbe
meglio rinviare la discussione e andarcene a letto. Barnard, vuole
occuparsi di Mallinson? Sono sicuro che anche lei, Miss Brinklow, ha
bisogno di riposo". Qualcuno doveva aver dato un segnale perché
comparve un servo: "Sì, tutto andrà bene, buona notte, buona notte.
Vi raggiungerò presto".
Li spinse quasi fuori della stanza; poi, con poca cortesia, in
marcato contrasto coi suoi modi di prima, si volse all'ospite. Era
spronato dal rimprovero di Mallinson:
"Non voglio trattenerla a lungo, signore, perciò vengo subito al
punto. Il mio amico è vivace, ma non lo biasimo; ha ragione di voler
le cose chiare. Noi dobbiamo organizzare il viaggio di ritorno; e non
possiamo farlo senza l'aiuto suo o di qualcun altro del monastero.
Capisco benissimo che non è possibile partire domani, e per parte mia
un breve soggiorno qui può essere interessantissimo; non altrettanto
per i miei compagni, a quel che sembra. Perciò, se come dice, lei non
può far nulla, la prego di metterci in contatto con qualcun altro che
sia in grado di aiutarci".
Il cinese rispose: "Lei è più saggio dei suoi amici, caro signore,
e perciò meno impaziente. Mi fa piacere".
"Questa non è una risposta".
Chang si mise a ridere, di un riso così stridente, così acuto, così
forzato che Conway vi riconobbe quella educata pretesa di scherzo
immaginario con cui i cinesi se la cavano nei momenti difficili.
"Le assicuro che non avete motivo di preoccuparvi" rispose
finalmente Chang con molto ritardo. "Al momento giusto vi daremo
tutto l'aiuto di cui avete bisogno. Vi saranno delle difficoltà, si
capisce, ma se affronterete il problema sensatamente, e senza
un'inutile fretta...".
"Io non pretendo di fare in fretta. Chiedo soltanto informazioni
circa i portatori".
"Ebbene, caro signore, questa è una questione a parte. Io dubito
assai che possiate trovare facilmente degli uomini pronti a
intraprendere un tale viaggio. Hanno le loro case nella valle, e non
desiderano lasciarle per gite lunghe e faticose lontano di qui".
"Si può però indurli a farlo; in caso contrario, dovrò chiederle
per qual motivo e verso quale meta la accompagnavano questa mattina".
"Questa mattina? Ah, si trattava di una cosa ben diversa".
"Diversa in che? Non stava per iniziare un viaggio quando io e i
miei compagni la abbiamo incontrata?".
Chang non rispose, e Conway continuò con voce più calma:
"Capisco. Non è stato un incontro casuale. Me l'ero già quasi
immaginato, sa. E' dunque venuto ad incontrarci deliberatamente. Se è
così doveva sapere in anticipo che stavamo per giungere. E allora
ecco il punto interessante della questione: in che modo lo sapeva?".
Le sue parole portarono una nota di forza nella quiete paradisiaca
dell'ambiente. La faccia del cinese, illuminata dalla lanterna,
continuò ad apparire calma e statuaria. All'improvviso, con un
piccolo gesto della mano, Chang ruppe la tensione; facendo scorrere
una tenda di seta svelò una porta a vetri che metteva su un balcone.
Poi prese sottobraccio Conway e lo guidò nella fredda aria
cristallina.
"Lei è perspicace" disse come in sogno, "ma non ha del tutto
ragione. Perciò le consiglio di non preoccupare i suoi amici con
queste discussioni astratte. Mi creda, non c'è nessun pericolo né per
lei né per loro a ShangriLa".
"Ma non è del pericolo che ci preoccupiamo. E' del ritardo".
"Giustissimo. Ma un certo ritardo è inevitabile".
"Se si tratta di poco, e non se ne può proprio fare a meno,
cercheremo di adattarci".
"Ecco un'idea molto sensata; perché noi desideriamo soprattutto che
il vostro soggiorno qui sia per lei e per i suoi compagni una gioia
continua, minuto per minuto".
"La ringrazio; e le ripeto che io, personalmente, mi ci trovo
benissimo: sarà una nuova e interessante esperienza; e del resto,
poi, un po' di riposo ogni tanto fa bene".
Guardava in alto verso la lucente piramide del Karakal. in quel
momento, illuminata dalla luce della luna, dava l'illusione di
poterla toccare con mano, tanto era chiara contro l'azzurra
immensità.
"Domani" disse Chang, "vi sembrerà forse ancor più interessante. E
in quanto a riposarsi, se è stanco, non troverà molti luoghi al mondo
migliori di questo".
Mentre Conway continuava ad ammirare lo spettacolo, si sentiva
immerso in una calma sempre più profonda, come se quello scenario
parlasse alla mente oltreché allo sguardo. A contrasto con la furiosa
burrasca della notte precedente, adesso non c'era quasi alito di
vento; e la valle gli si rivelava come un rifugio ben coltivato che
il Karakal dominava a guisa di faro. Il paragone gli parve ancor più
appropriato quando s'accorse che in vetta c'era davvero una luce, un
raggio biancoazzurro di ghiaccio non meno intenso dello splendore
che rifletteva. Istintivamente volle conoscere il vero significato di
quel nome, e la risposta di Chang gli giunse come una lontana eco del
suo fantasticare.
"Karakal, nel dialetto della valle, vuol dire Luna Azzurra".
Conway non palesò affatto ai compagni la sua convinzione che il
loro arrivo a ShangriLa fosse stato in qualche modo atteso dagli
abitanti del monastero. Capiva la gravità della cosa e sentiva di
dover parlare, ma al mattino dopo la preoccupazione era diventata
soltanto teorica, e non volle esser la causa di altri assilli per i
suoi compagni. Ma dentro qualcosa tornava a ripetergli con insistenza
che il luogo aveva qualcosa di strano e di misterioso, che il modo di
fare di Chang, la sera prima, non era stato rassicurante, che essi si
trovavano virtualmente prigionieri e lo sarebbero stati finché le
autorità non avessero fatto qualcosa per loro. Era dunque suo dovere
indurle all'azione. Dopo tutto egli era un rappresentante del Governo
Britannico, e gli abitanti di un monastero tibetano respingendo una
sua giusta richiesta commettevano una vera e propria iniquità...
Questa sarebbe stata certo la normale veduta ufficiale, e un lato
della personalità di Conway si conservava appunto normale e
ufficiale. Nessuno sapeva fare meglio di lui l'autoritario; durante i
difficili giorni precedenti l'ordine di sgombero si era condotto in
modo (lo riconosceva con rigorosa imparzialità) da meritare non meno
di un cavalierato e di un libro Henty, premio scolastico, intitolato
Con Conway a Baskul. aver assunto la responsabilità di guidare alcune
decine di borghesi tra cui donne e bambini; averli fatti rifugiare in
un piccolo Consolato durante una sanguinosa rivoluzione diretta da
agitatori xenofobi, e aver minacciato e lusingato i rivoluzionari
affinché permettessero una generale evacuazione aerea, non era certo
una cosa da poco. Forse manovrando abilmente i fili e scrivendo
rapporti interminabili avrebbe potuto far saltare fuori da tutto ciò
qualcosa di buono nella lista "ricompense" di Capodanno. In ogni modo
si era conquistato la fervida ammirazione di Mallinson.
sfortunatamente il giovane doveva provare adesso una grave
disillusione. Peccato; ma ormai Conway ci s'era abituato, a suscitare
ammirazione proprio perché la gente lo credeva diverso. La sua natura
non era affatto quella dell'uomo risoluto, dalle forti mascelle,
pronto con martello e tenaglie a costruire un impero; anziché eroe da
poema epico era piuttosto l'autore di una commediola in un atto,
ripetuta di quando in quando col consenso del fato e del Foreign
Office, e per uno stipendio che chiunque poteva conoscere sfogliando
le pagine dell'Annuario di Whitaker.
La verità era che l'enigma di ShangriLa e dell'arrivo al monastero
cominciava ad esercitare su di lui un fascino singolare. Nessuna
preoccupazione personale, intanto; come funzionario del Ministero
degli Esteri poteva in qualunque momento esser mandato nelle più
diverse e strane parti del mondo, e, in generale, più erano strane e
meno ci si annoiava: perché, dunque, brontolare se un incidente aveva
mandato lui in questo stranissimo luogo, invece di mandarci un
novellino?
Ma a brontolare non ci pensava nemmeno. Quando al mattino si alzò e
vide dalla finestra quel cielo di lapislazzuli, non avrebbe preferito
trovarsi in nessun altro luogo della terra, né a Peshawar, né a
Piccadilly. E fu contento di constatare che una notte di riposo aveva
avuto un benefico effetto anche sugli altri. Barnard criticava
amenamente i bagni, i letti, e altre piacevolezze di quel luogo
ospitale. Miss Brinklow confessò che malgrado avesse frugato
dappertutto, il suo appartamento non presentava nessuna delle
manchevolezze a cui aveva pensato di dover adattarsi. Anche il tono
di Mallinson rivelava un'imbronciata soddisfazione.
"Immagino che per oggi non si partirà" brontolò, "se non ci sarà
qualcuno un po' sveglio che se ne occupi. Questa gente è tipicamente
orientale; impossibile ottenere da loro qualcosa di sbrigativo e di
ben fatto!".
Conway lasciò correre. Quel giudizio categorico Mallinson lo dava
dopo un solo anno passato all'estero, come lo avrebbe probabilmente
ripetuto dopo venti; e fino a un certo punto aveva ragione. Ma non
era possibile invece che non loro, le razze orientali, fossero
particolarmente lente, ma piuttosto - pensava Conway - fossero gli
inglesi e gli americani a galoppare per il mondo in un continuo e
assurdo stato febbrile?... Certo non gli sarebbe riuscito di far
accettare questo punto di vista a un collega d'Occidente, ma per
conto suo, col passare degli anni e con l'esperienza, se ne
convinceva sempre più. D'altra parte doveva anche ammettere che Chang
era un arzigogolatore sottile, e che quindi l'insofferenza di
Mallinson non era del tutto ingiustificata. Per far piacere al suo
giovane compagno, avrebbe desiderato di potersi mostrare impaziente
in ugual misura; invece si limitò a dire:
"Credo che sia meglio star a vedere cosa accadrà. Sperare che
facessero qualche cosa fin da ieri sera sarebbe stato un eccesso di
ottimismo".
Mallinson lo guardò: "Forse ieri sera sono stato uno sciocco a
sollecitare così?... Non ho potuto farne a meno, quel cinese mi
pareva così subdolo... e mi pare ancora. E' riuscito a tirargli fuori
un po' di buon senso, dopo che noi siamo andati a letto?".
"Non abbiamo parlato a lungo. Era così vago nei suoi discorsi...
non voleva compromettersi".
"Ma oggi lo faremo cantare".
"Certamente" approvò Conway, senza entusiasmo. "Intanto questa è
una colazione eccellente". C'era pompelmo, tè, e poi tartine,
preparate e servite alla perfezione. Verso la fine del pasto entrò
Chang, e fatto un piccolo inchino cominciò a scambiare i soliti
convenzionali saluti, che in lingua inglese suonavano come roba
d'altri tempi. Conway avrebbe parlato volentieri cinese, ma preferì
non rivelare ancora la sua conoscenza di lingue orientali: più tardi
sarebbe stata una buona carta in mano. Ascoltò gravemente le cortesie
di Chang e lo assicurò che avevano dormito bene e che si sentivano
molto meglio. Chang espresse soddisfazione per queste buone notizie e
aggiunse: "Dice bene il vostro poeta nazionale; il sonno rimette in
ordine il confuso groviglio delle preoccupazioni".
Questa ostentata erudizione non fu accolta con troppo entusiasmo.
Mallinson rispose col tono un po' sprezzante che ogni giovane inglese
di mente sana trova subito appena sente parlare di poesia.
"Credo che lei alluda a Shakespeare, benché non riconosca la
citazione. Ma ne so un'altra che dice: Al comando di andare non
indugiate; andate subito. Ecco, a costo di sembrarle maleducato,
quello che io e i miei compagni vorremmo fare. E io desidero cercar
subito questi benedetti portatori; questa mattina stessa, se non ha
niente in contrario".
Il cinese ricevette impassibile quest'ultimatum, e poi rispose: "Mi
rincresce doverle dire che non servirebbe a nulla. Qui, uomini
disposti ad accompagnarvi tanto lontano, temo che non ne troverete".
"Ma, signore, non crederà che ci contenteremo di questa
risposta?...".
"Me ne dispiace sinceramente, ma non posso dargliene altra".
"Si direbbe che l'abbia messa insieme stanotte" intervenne Barnard.
"Non era così esplicito ieri sera".
"Per non darvi un dispiacere mentre eravate già così abbattuti dal
viaggio. Ora, dopo una notte di riposo, spero che vedrete le cose
sotto un aspetto più ragionevole".
"Senta" interruppe con vivacità Conway, "questa incertezza e questa
prevaricazione non vanno. Sa benissimo che non possiamo restar qui
indefinitamente. Ed è pure chiaro che non possiamo andarcene con
mezzi nostri. E allora, che cosa propone?".
Chang ebbe un luminoso sorriso, palesemente diretto al solo Conway.
"Caro signore, è per me un piacere poterle esporre un'idea che m'è
venuta in mente. Non c'era nessuna risposta all'atteggiamento del suo
amico, ma ce n'è sempre una alla domanda di un uomo saggio. Se
ricorda, si parlò ieri sera della necessità che abbiamo di comunicare
qualche volta col mondo esterno. E' verissimo. Di tanto in tanto ci
occorrono varie cose da depositi lontani, e ce le facciamo mandare al
momento giusto, non è necessario che io le dica con quali mezzi e
sistemi. Uno di questi invii di merci è atteso fra poco, e siccome
gli uomini che le porteranno dovranno poi ritornare, mi sembra che
potreste cercare di accodarvi a loro. Non saprei, veramente, proporle
niente di meglio, e spero, quando arriveranno...".
"Ma quando arriveranno?" interruppe secco Mallinson.
"La data esatta, naturalmente, non si può prevedere. Le difficoltà
di muoversi in questa parte del mondo le avete sperimentate voi
stessi. Possono capitare cento imprevisti... Il cattivo tempo...".
Conway intervenne di nuovo. "Spieghiamoci una volta per tutte. Lei
ci propone, come portatori, degli uomini che dovranno arrivare qui
fra poco con le vostre mercanzie. Buona idea; ma non basta. Prima di
tutto, e gliel'abbiamo già chiesto, per quando aspettate questa
gente? E poi, vorranno riaccompagnarci?".
"Questa domanda dovrete farla a loro".
"E ci condurrebbero proprio in India?".
"E' materialmente impossibile che io possa dirvelo".
"Ebbene, risponda allora alle altre domande. Quand'è che saranno
qui? Non le chiedo una data, voglio solo rendermi conto se sarà la
settimana prossima o l'anno prossimo".
"Potrebbe essere fra un mese circa. Probabilmente non più tardi di
due mesi".
"O tre, o quattro, o cinque mesi" interruppe con ardore Mallinson.
"E crede forse che noi aspetteremo qui questa carovana, o cosa
diavolo sarà, che ci porti Dio sa dove, in un'epoca di là da
venire?".
"Penso, signore, che la frase "di là da venire" non sia del tutto
appropriata. A meno che non accada qualche imprevisto, il vostro
periodo d'attesa dovrebbe durare press'a poco quanto vi ho detto".
"Ma due mesi! Due mesi in questo paese! E' assurdo! Conway, non
vorrà mica... Due settimane sarebbero già troppe!".
Chang raccolse le pieghe dell'ampia veste con un piccolo gesto
deciso.
"Mi rincresce. Non intendevo offendervi. Il monastero continuerà ad
offrire a tutti voi la sua migliore ospitalità per tutto il tempo che
avrete la sventura di rimanervi. Non so cosa dirvi di più".
"Non occorre" ribatté Mallinson furioso. "E se crede di aver la
frusta per il manico contro di noi, vedrà presto che si è
solennemente sbagliato. Troveremo tutti i portatori che vogliamo, non
dubiti. Si inchini pure, strisci, dica quel che vuole...".
Conway lo agguantò per il braccio per farlo tacere. Quando
Mallinson andava in collera, sembrava un bambino; qualunque cosa gli
venisse in mente la diceva senza pensare all'effetto che avrebbe
prodotto. Era fatto così; e Conway lo avrebbe compatito anche questa
volta, se non ci fosse stato il pericolo di offendere la
delicatissima suscettibilità di un cinese.
Ma fortunatamente Chang, con tatto ammirevole, se l'era svignata in
tempo per non sentire il peggio.
V
Trascorsero il resto della mattinata discutendo. Era certamente un
colpo inaspettato dover passare due mesi in un monastero del Tibet,
mentre avrebbero potuto fin da allora godersi gli agi dei club e
delle missioni di Peshawar. ma dopo l'emozione iniziale dell'arrivo,
le forze per indignarsi o stupirsi erano molto diminuite; Mallinson
stesso dopo la prima sfuriata, s'era adagiato in una specie di
fatalismo stupefatto.
"Non ho più la forza di discutere" disse fumando nervosamente una
sigaretta. "Lei sa quel che provo, Conway. Fin da principio mi sono
accorto che questa faccenda era molto strana. Ora è meno chiara che
mai, e vorrei già esserne fuori".
"Non le do torto" rispose Conway. "Purtroppo nessuno di noi può
esserne soddisfatto, ma dobbiamo adattarci agli avvenimenti. Se
questa gente non vuole o non può fornirci portatori indigeni,
bisognerà attendere gli altri, quelli che devono arrivare. Mi costa
dover ammettere che non siamo liberi di agire, ma temo che sia la
verità".
"Intende dire che dovremo stare qui due mesi?".
"Non so cos'altro potremmo fare".
Mallinson scosse la cenere della sigaretta con un gesto di calma
forzata.
"E va bene. Diciamo due mesi, e gridiamo tutti insieme: Hurrà!".
Conway seguitò: "Non vedo perché dovrebbe esser peggio qui che in
qualunque altra regione solitaria. Nel nostro mestiere si può esser
sbalzati da un momento all'altro nelle residenze più insolite; credo
che ci sia abituato anche lei come me, no? Certo non è simpatico per
chi ha parenti e amici. Io, personalmente, sono fortunato, perché non
saprei proprio chi dovrebbe preoccuparsi del mio destino; e quanto al
lavoro potranno subito sostituirmi".
Si voltò verso i compagni come per invitarli a dire il loro caso.
Mallinson non parlò, ma Conway conosceva già press'a poco la sua
condizione. Aveva in Inghilterra i genitori e la fidanzata: difficile
dunque, per lui, rassegnarsi.
Invece Barnard accettò la situazione col solito buon umore.
"Ma sì, non è poi una gran disgrazia, per me. Due mesi di
penitenziario non mi porteranno mica alla tomba! E in quanto ai miei
concittadini chi se ne accorgerà?... non sono mai stato famoso per
scriver lettere".
"Oh, ci penseranno i giornali a dare la notizia! Pubblicheranno
nome e cognome di tutti e quattro" gli fece osservare Conway. "Ma ci
daranno per dispersi, e la gente come al solito penserà al peggio".
Barnard sul momento parve colpito; poi rispose con un sogghigno:
"Sì, sì, è vero; ma per me è indifferente, gliel'assicuro".
Benché la cosa gli sembrasse un po' strana, Conway ne fu
soddisfatto. Si volse allora a Miss Brinklow, che essendo rimasta
silenziosa persino durante il colloquio con Chang, poteva avere
qualche preoccupazione personale. Ma rispose subito e vivacemente:
"Per due soli mesi, come ha detto Mr' Barnard, non bisogna
prendersela troppo a cuore. Quando si è al servizio di Dio, in
qualunque luogo ci si trovi fa lo stesso. Questa io la considero una
chiamata divina. E' la Provvidenza che mi ha mandato qui".
Conway trovò questo modo di pensare molto opportuno, date le
circostanze.
"Sono sicuro che al suo ritorno" disse incoraggiante, "la società
missionaria da cui dipende sarà molto contenta di lei. Potrà fornire
informazioni utilissime. Tutti quanti, del resto, stiamo imparando
qualcosa. Il che dovrebbe esserci di conforto".
La conversazione si ravvivò ora da parte di tutti. Conway, vedendo
non senza stupore Barnard e Miss Brinklow facilmente adattati alla
nuova prospettiva, si sentì molto sollevato: sarebbe rimasta così una
sola persona di malumore con cui trattare. Ma anche Mallinson, pur
essendo ancora turbato, appariva più disposto a vedere il lato
migliore delle cose.
"In che modo riusciremo a far passare il tempo lo sa il Cielo"
esclamò, ma bastava questa osservazione a dimostrare che stava
riconciliandosi con se stesso.
"Prima di tutto dobbiamo evitare di urtarci i nervi a vicenda"
consigliò pronto Conway. "Per fortuna qui c'è molto spazio e poca
gente. Se togliamo i servi, abbiamo visto finora uno solo degli
abitanti di ShangriLa".
Barnard aveva un altro motivo per essere ottimista.
"In ogni caso, se i pasti consumati finora sono un saggio della
cucina, non moriremo di fame. Sa, Conway? questa bottega non
marcerebbe così se non ci fossero molti quattrini. Quei bagni, per
esempio, chissà quanto costano. E non vedo nessuno qui che guadagni;
a meno che lavorino molto altri individui giù nella valle... ma ad
ogni modo non potrebbero mai produrre tanto per un commercio di
esportazione. Mi piacerebbe sapere se estraggono qualche minerale".
"Tutto è mistero profondo, qui" rispose Mallinson. "Scommetto che
hanno denaro nascosto a sacchi, come i Gesuiti. E i bagni saranno un
regalo di qualche patrono milionario. Sia quel che sia, appena
partito non me ne preoccuperò più. Però, in effetti, devo dire che la
vista nel suo genere è piuttosto bella. Che magnifici sport
invernali, se fossimo in un centro attrezzato. Chissà se è possibile
sciare su quei pendii lassù?!".
Conway gli diede un'occhiata eloquente e un po' scherzosa. "Ieri,
quando trovai quegli edelweiss, mi ha ricordato che non eravamo sulle
Alpi. Credo che ora tocchi a me dirle la stessa cosa. Non le
consiglierei di provare i suoi bei salti e acrobazie in questa parte
del mondo".
"Qui nessuno deve aver mai visto un bel salto con gli sci".
"E neppure una gara di hockey su ghiaccio" rispose gaio Conway. "Si
potrebbe tentare di formare qualche squadra. "Gentlemen" contro
"Lama"... che ne direste?".
"Faremmo vedere loro come si gioca!" interruppe Miss Brinklow con
una serietà folgorante.
Commentare adeguatamente questa frase sarebbe stato difficile; ma
per fortuna non ce ne fu bisogno perché furono distratti dalla
colazione, servita con rapidità e modi estremamente interessanti. E
quando più tardi entrò Chang, nessuno ebbe più voglia di rimettersi a
litigare. Il cinese, con molto tatto, si comportò come se fosse in
ottimi rapporti con tutti, e i quattro esiliati lo assecondarono.
Ancora di più: quand'egli accennò che forse una visita al monastero
non sarebbe loro dispiaciuta e che in tal caso era pronto a far da
guida, l'offerta fu subito accettata.
"Sicuro" disse Barnard, "già che siamo sul posto è meglio farcene
un'idea subito. Tanto più che dopo dovrà passarne del tempo, prima
che ci decidiamo a venirvi a trovare una seconda volta!".
Miss Brinklow cercò di mitigare un poco l'uscita di Barnard:
"Quando siamo partiti in aereo da Baskul non avrei certo mai
immaginato che saremmo giunti in un luogo come questo" mormorò mentre
tutti s'incamminavano guidati da Chang.
"E ancora non ne sappiamo il perché" aggiunse Mallinson, che non
dimenticava.
Conway non aveva pregiudizi di razza, né di colore; perciò, quando
a volte in uno scompartimento di prima classe oppure al club
sosteneva di avere una speciale predilezione per la "bianchezza" di
una bella faccia rossoaragosta sotto il ciuffo, non era sincero. A
comparire così si risparmiava qualche seccatura, in India
specialmente: e a risparmiarsi le seccature Conway ci teneva. Ma in
Cina non era tanto necessario; aveva molti amici cinesi, e non gli
era mai passato per la mente di trattarli da inferiori. Perciò,
vedeva in Chang semplicemente e senza prevenzioni un vecchio signore
dai bei modi, del quale forse non ci si poteva del tutto fidare, ma
certo di una bella intelligenza. Mallinson, invece, aveva la tendenza
a immaginarselo attraverso le sbarre di una gabbia; Miss Brinklow
stava sempre attenta e all'erta con lui come col cieco pagano cinese;
e Barnard gli usava una bonarietà tra saggia e ironica come avrebbe
fatto con un maggiordomo.
Senonché la lunga visita a ShangriLa si fece subito così
interessante da far passare in seconda linea tutte le prevenzioni.
Non era quella la prima istituzione monastica che Conway visitava, ma
era di gran lunga la più vasta e certo la più notevole, anche a voler
prescindere dalla posizione. Soltanto per attraversare le stanze e i
cortili (e Conway si accorse di molti appartamenti, anzi di interi
fabbricati che Chang tralasciava deliberatamente) occorse l'intero
pomeriggio. Tuttavia ne videro abbastanza per confermare l'opinione
che ciascuno se n'era già fatta.
Barnard era ormai convinto che i Lama fossero ricchi; Miss Brinklow
notò abbondanti testimonianze della loro immoralità; Mallinson,
passato il primo interesse per la novità, si sentì non meno stanco
che dopo una delle sue molte gite turistiche ad altezze ben minori: i
Lama, diceva, non sarebbero mai diventati i suoi eroi prediletti.
Il solo Conway cedeva a un incanto, che d'ora in ora diventava
maggiore. Non era tanto attirato da questa o quella cosa quanto dalla
graduale rivelazione di eleganza, di gusto sobrio e impeccabile, di
armonia perfetta che appagavano l'occhio senza imprigionarlo. Fu
soltanto con uno sforzo che seppe strapparsi dall'obliosa estasi
dell'artista per riacquistare la coscienza del conoscitore, e
riconobbe allora tesori che milionari e direttori di musei si
sarebbero contesi a suon di dollari, meravigliose ceramiche
azzurroperla Sung, pitture a inchiostri colorati conservate da più
di mille anni, lacche in cui i freddi e bellissimi particolari
fiabeschi erano, più che disegnati, orchestrati. Un mondo di
incomparabile raffinatezza indugiava tremulo su porcellane e vernici,
commovendo un istante prima di sciogliersi in puro pensiero. In
quelle delicate perfezioni, non ombra di vanteria, né ricerca di
effetto, né fredda volontà di conquista su chi osasse guardarle: esse
avevano l'aria d'esser venute alla luce così come petali d'un fiore.
Avrebbero fatto impazzire un collezionista, ma Conway non era mai
stato raccoglitore di nulla; gli mancavano i denari e anche l'istinto
del compratore. L'attrazione per l'arte cinese era tutta
intellettuale: in un vasto mondo di progresso assordante e di cose
enormi, cercava per la sua gioia intima piccoli oggetti carini, dai
contorni precisi, miniature. E ora mentre passava di stanza in stanza
si sentì pervaso da un lontano brivido al pensiero della mole del
Karakal incombente su quelle fragili grazie.
Ma il monastero, lungi dall'esaurirsi in un'esposizione di oggetti
cinesi, era in grado di offrire ben altro. C'era, per esempio, una
splendida biblioteca, alta e spaziosa, contenente un'infinità di
libri così armonicamente radunati presso alcove e finestre che
l'atmosfera del luogo era di saggezza piuttosto che di sapere, di bei
modi piuttosto che di serietà. Conway, data una rapida occhiata agli
scaffali, si stupì: c'era il meglio della letteratura universale,
mista a una gran quantità di astruserie e di stranezze che non
avrebbe saputo valutare. Abbondavano i libri in inglese, francese,
italiano, tedesco e russo, e ce n'erano pure moltissimi in cinese e
in altre lingue orientali. Una sezione che lo interessò
particolarmente era tutta dedicata al Tibet: osservò varie rarità,
fra cui il Novo descubrimento de Grao Catayo ou dos Regos de Tibet di
Antonio da Andrada (Lisbona 1626), China di Atanasio Kircher (Anversa
1667), Voyage à la Chine des Pères Grueber et d'Orville di Thévenot,
e Relazione inedita di un viaggio al Tibet di Beligatti. Stava
osservando quest'ultimo quando s'accorse che gli occhi di Chang lo
fissavano con soave curiosità. "E' forse uno studioso?" gli domandò
il cinese.
Conway trovò difficile rispondere. Il suo periodo di insegnamento a
Oxford gli dava qualche diritto a rispondere affermativamente, ma
sapeva che quella parola complimentosa, in bocca a un cinese, aveva
tuttavia un suono un po' saputello per le orecchie inglesi; per cui
si trattenne, specialmente per un riguardo ai compagni, e disse:
"Naturalmente leggere mi piace, ma in questi ultimi anni il mio
lavoro non mi ha lasciato molte opportunità per una vita di studio".
"Eppure la desidera?".
"Oh, non direi proprio così, ma so che può essere molto attraente".
Mallinson, che aveva preso in mano un libro, li interruppe:
"Qui c'è qualcosa per la sua vita di studio, Conway: una carta del
paese".
"Ne abbiamo una raccolta di parecchie centinaia" disse Chang. "Sono
tutte a vostra disposizione, ma posso risparmiarle la fatica. In
nessuna troverete segnato ShangriLa".
"Strano" commentò Conway. "Chissà perché".
"C'è un'ottima ragione, ma non posso dirvi di più".
Conway sorrise, ma Mallinson parve di nuovo irritato.
"Avanti coi misteri!" disse. "Finora però non abbiamo visto nulla
che si debba nascondere".
All'improvviso Miss Brinklow uscì da un lungo e muto stupore.
"Ci farà vedere i Lama al lavoro?" disse con un tono acuto,
certamente già adoperato per mettere in soggezione più d'uno degli
uomini di Cook. si capiva che la sua mente era tutta occupata da
confuse visioni di manufatti indigeni, tappeti da preghiera, o altre
cose pittoresche e primitive, di cui avrebbe potuto parlare a lungo
appena tornata a casa. Aveva uno strano modo, quando qualcosa
eccitava la sua meraviglia, di non sembrare mai molto sorpresa, ma
sempre un po' indignata; combinazione di espressioni che la risposta
di Chang non disturbò minimamente.
"Mi dispiace doverle dire che le persone estranee al monastero non
possono vedere mai i Lama, se non in casi davvero eccezionali".
"Vuol dire che dovremo privarcene" concluse Barnard. "Peccato! Non
ha idea di quanto mi sarebbe piaciuto dare una stretta di mano al
vostro capoccia".
Chang ricevette con molta serietà e indulgenza questa risposta. Ma
Miss Brinklow non era donna da ripiegarsi su se stessa. "Che cosa
fanno i Lama?" continuò.
"Si dedicano alla contemplazione, signora, e alla ricerca della
saggezza".
"Ma questo non significa fare qualcosa".
"E allora non fanno niente, signora".
"Lo penso anch'io". Era riuscita anche questa volta a tirare le
somme. "Ebbene, Mr' Chang, tutto ciò è molto interessante, ma non
potrà convincermi che un'istituzione come questa faccia realmente del
bene. Preferisco qualcosa di più pratico".
"Vorrebbe forse prendere un po' di tè?".
In un primo momento Conway non capì se queste parole fossero dette
ironicamente, ma presto si accorse che non era così: il pomeriggio
era passato in fretta e Chang, benché molto frugale nel mangiare,
aveva la tipica passione cinese di bere il tè a frequenti intervalli.
Anche Miss Brinklow confessò che vedere gallerie e musei le dava
sempre un po' di mal di testa, perciò i quattro accettarono l'offerta
e seguirono Chang attraverso vari cortili finché si trovarono a un
tratto di fronte a una scena di incomparabile bellezza. Un colonnato
comunicava per mezzo di alcuni scalini con un giardino in cui c'era
uno stagno ottenuto con uno speciale sistema di irrigazione, e
sull'acqua numerose foglie di loto vicinissime le une alle altre
davano l'impressione di un pavimento di umide piastrelle verdi.
Orlava la vasca un vero serraglio di leoni di bronzo, draghi,
liocorni, ognuno stilizzato ferocemente quasi a far meglio risaltare
la pace circostante, piuttosto che a turbarla. L'intero quadro era di
proporzioni tanto perfette che l'occhio non sentiva nessuna fretta di
passare da un punto all'altro: e fra i vari punti era talmente
assente ogni sentimento di gara o di vanità che anche la vetta del
Karakal, meravigliosa sopra i tetti azzurri, pareva essersi
docilmente arresa dentro quella squisita cornice artistica.
"Grazioso posticino" commentò Barnard entrando con Chang in un
padiglione arioso dove Conway, a sua maggiore gioia, trovò insieme un
clavicembalo e un moderno pianoforte a coda: incredibile coronamento
di un pomeriggio di meraviglie. Chang rispose a tutte le sue domande
con piena sincerità: spiegò che i Lama apprezzavano infinitamente la
musica occidentale, specialmente quella di Mozart; possedevano una
notevole raccolta di musica europea, e alcuni di essi suonavano
strumenti vari in modo perfetto.
Ma Barnard si interessò specialmente al problema dei trasporti.
"Vorrebbe dire che questo pianoforte è stato portato qui per la
strada che abbiamo fatto ieri?".
"Non ve n'è altra".
"Ah, bene, questa è grossa!... Cosicché, se aveste un grammofono e
una radio, non vi mancherebbe più nulla! Ma forse la musica
modernissima non la conoscete ancora".
"No, no, ce ne hanno parlato; ma ci hanno pure avvertiti che queste
montagne renderebbero impossibile una ricezione radio, e quanto al
grammofono il progetto di averne uno è già stato portato davanti alle
nostre autorità, che però non sentono il bisogno di affrettarsi a
decidere".
"Anche se non me l'avesse detto, l'avrei pensato da me" replicò
Barnard. "Dev'essere il motto della vostra società. Niente premura".
Rise forte, poi continuò: "Ebbene, per venire alla parte pratica,
supponiamo che i vostri principali decidano di voler davvero
acquistare un grammofono; in che modo procederanno? I fabbricanti non
ve lo consegneranno certo a domicilio. Forse avete un agente a
Pechino, o a Sciangai, o in qualche altro posto, ma allora prima che
riceviate qualcosa, deve costarvi un bel mucchio di dollari".
Come già in altre occasioni, Chang tergiversò: "Le sue supposizioni
sono giuste, Mr' Barnard, ma temo di non poterle discutere".
Conway capì che erano giunti un'altra volta sull'orlo
dell'invisibile linea di confine fra il rivelabile e il non
rivelabile. E stava già pensando che ormai su quella linea, con un
po' d'immaginazione, avrebbe presto cominciato a orientarsi, quando
ebbe una nuova sorpresa. Insieme agli svelti servi tibetani che
portavano in basse scodelle il tè profumato entrò, quasi inosservata,
una ragazza vestita alla cinese. Andò direttamente al clavicembalo e
cominciò a suonare una gavotta di Rameau. Il primo toccante accordo
diede a Conway un piacere non soltanto di semplice stupore: quei temi
argentini della Francia settecentesca rivaleggiavano in eleganza coi
vasi Sung, con le lacche squisite, con la vasca dai fiori di loto là
fuori; un'identica sfida alla morte emanava da loro, dando, da
un'epoca spiritualmente tanto lontana, il senso dell'immortalità.
Osservò allora la suonatrice. Aveva il lungo naso fine, gli alti
zigomi, e il pallore della razza manciù; i capelli neri erano
pettinati all'indietro ben tirati e strettamente intrecciati; la
bocca sembrava un piccolo convolvolo roseo. Si poteva credere di
esser dinanzi a una miniatura eseguita con la più grande diligenza.
Eccetto il movimento delle mani e delle dita affusolate, tutto il
resto della persona si manteneva in un'immobilità perfetta. Appena
terminata la gavotta fece un piccolo inchino e uscì.
Chang la guardò sorridendo, poi, con una cert'aria di trionfo
chiese a Conway: "Le piace?".
"Chi è?" domandò Mallinson, prima che Conway potesse rispondere.
"Si chiama LoTsen. suona molto bene le musiche dell'Occidente.
Come me non ha ancora raggiunto l'iniziazione completa".
"Lo credo bene!" esclamò Miss Brinklow. "Pare poco più di una
bimba. Cosicché voi avete anche delle donne Lama?".
"Non vi sono distinzioni di sesso, fra noi".
Dopo un breve silenzio, Mallinson commentò con una certa
superiorità:
"E' straordinario questo vostro lamaismo".
Continuarono a bere il tè senza più parlare: gli echi del
clavicembalo parevano tuttora nell'aria, col loro fascino strano.
Poco dopo, uscendo dal padiglione, Chang espresse ai quattro ospiti
la sua speranza che quella visita fosse stata di loro gusto. Conway
rispose anche per gli altri con la solita altalena di complimenti.
Chang li assicurò allora del piacere che aveva avuto
nell'accompagnarli e aggiunse che dovevano considerare biblioteca e
sala da musica a loro completa disposizione durante l'intero
soggiorno. Conway lo ringraziò cordialmente. "Ma i Lama" aggiunse,
"non desiderano mai servirsene?".
"Cedono con molto piacere il posto ai loro onorevoli ospiti".
"Bene, questa la chiamerei proprio una cosa simpatica" disse
Barnard. "E ciò che è più importante, dimostra che i Lama sanno
veramente che noi esistiamo. Ecco un passo avanti: mi sento più a
casa mia. Ha fatto le cose bene qui, Chang, e quella sua ragazzetta
suona il piano benone. Chissà che età ha".
"Temo di non poterglielo dire".
Barnard rise. "Non vuole svelare il segreto dell'età di una
signora, vero?".
"Precisamente" rispose Chang con un impercettibile sorriso.
Quella sera, dopo pranzo, Conway trovò il modo di lasciare gli
altri e aggirarsi per i quieti cortili illuminati dalla luna.
ShangriLa, avvolto dal mistero che è alla radice di ogni bellezza,
era affascinante. In quell'aria fredda e calma l'immensa guglia del
Karakal pareva vicina, molto più che di giorno. Conway si sentiva
fisicamente felice, tranquillo nei sensi e nei pensieri; ma nella sua
intelligenza, che non è proprio lo stesso che la mente, c'era una
vaga incertezza. Non riusciva a decifrare l'enigma. La segreta linea
che aveva cominciato a scoprire diventava, sì, più netta, ma soltanto
per rivelare uno sfondo inscrutabile. La serie di straordinari eventi
capitati a lui e ai suoi tre compagni occasionali gli passava dinanzi
nitida come davanti al fuoco d'un obiettivo: finora non ne penetrava
il significato, ma sperava che una volta o l'altra ci sarebbe
riuscito.
Passando attraverso un chiostro raggiunse la terrazza che dava
sulla valle. Il profumo delle tuberose gli riportò alla memoria
ricordi deliziosi. In Cina lo chiamano l'odore del chiaro di luna.
Fantasticò capricciosamente che se la luna avesse avuto un suono,
questo avrebbe potuto essere la gavotta di Rameau ascoltata di
recente, e ciò lo fece ripensare alla piccola manciù. Non aveva
immaginato che vi potessero essere delle donne a ShangriLa:
associare alle pratiche monastiche la loro presenza era un po'
difficile. Tuttavia rifletté che poteva essere un'innovazione
piacevole; una clavicembalista, poi, in una comunità che si
permetteva di essere (erano parole di Chang) moderatamente eretica,
poteva riuscir preziosa.
Guardò dal muretto nel vuoto neroazzurro. Un salto di oltre mille
metri! Chissà se gli avrebbero permesso di scendere nella valle a
visitare quella civiltà di cui Chang gli aveva parlato?! Questo
strano vivaio culturale, nascosto fra catene di montagne sconosciute,
e dominato da una specie di teocrazia, lo interessava come studioso
di storia, anche indipendentemente dagli strani misteri del
monastero.
A un tratto, portati dal vento, gli giunsero dal basso dei suoni.
Ascoltando attentamente poté sentire note di gong e di trombe ed
anche (ma forse era la sua immaginazione) lamenti corali di voci
umane; i suoni si affievolirono nel vento, poi tornarono per svanire
di nuovo. Ma quel segno di vita e di attività in quella profondità
nebbiosa, rendeva ancora più grande la serena austerità di
ShangriLa. Pareva che nei cortili deserti, nei pallidi fabbricati,
tutti i crucci dell'esistenza fossero svaniti lasciandovi un
silenzio, una calma dove i minuti stessi non osassero passare. A un
tratto, da una finestra in alto sulla terrazza si diffuse la luce
d'oro e rosa di una lanterna: era forse lì che i Lama si dedicavano
alla contemplazione e alla ricerca della saggezza? Ed era questo il
momento del loro raccoglimento? Gli parve di poter risolvere il
problema entrando semplicemente dalla prima porta, ed esplorando la
galleria e il corridoio fino a scoprire la verità; ma sapeva che
questa sua libertà era un'illusione, e che ogni suo movimento era
strettamente sorvegliato. Due tibetani avevano attraversato la
terrazza, e ora oziavano presso il parapetto. Parevano due buoni
compagni, e lasciavano scendere negligentemente i loro mantelli
colorati su di una spalla nuda.
L'eco di gong e di trombe si fece nuovamente sentire, e Conway si
accorse che uno dei due chiedeva qualcosa al compagno. La risposta
fu: "Hanno sepolto Talu". Conway che da una sola frase non poteva
capir molto, sperava che continuassero a parlare, anche se conosceva
pochissimo il tibetano. Dopo una pausa, colui che già prima aveva
interrogato il compagno riprese la conversazione, ma Conway dal suo
posto non poteva udirlo. Afferrò invece le risposte dell'altro, e le
interpretò all'incirca così:
"Morì fuori".
"Obbedì agli ordini dei grandi di ShangriLa".
"Venne attraverso l'aria sopra le grandi montagne trasportato da un
uccello".
"Portò anche dei forestieri".
"Talu non aveva paura del vento di fuori, né del freddo".
"Benché fosse andato fuori da molto tempo quelli della vallata
della Luna Azzurra lo ricordano ancora".
Conway non riuscì ad afferrare altro, e dopo un breve indugio tornò
nelle sue stanze. Aveva sentito abbastanza per poter squarciare un
altro velo del mistero; e tutto si andava facendo così chiaro che si
meravigliò di non averne scoperto prima il significato. Se anche per
un attimo ci aveva pensato, gli era parso così irragionevole!... Ora
si persuadeva, invece, che le cose irragionevoli e fantastiche sono
possibilissime. Il volo da Baskul non era stato l'impresa senza scopo
di un pazzo. L'idea, la preparazione, l'attuazione erano partite da
ShangriLa. Qui gli abitanti conoscevano il pilota morto, almeno di
nome; era stato, in qualche modo, uno dei loro; la sua morte era
compianta. Ogni cosa ubbidiva dunque a un'altra intelligenza
direttiva intenta ai suoi scopi; c'era stata una sola volontà a
misurare tutte quelle inspiegabili ore e miglia. Ma quali erano
questi scopi? Quale il motivo plausibile per cui quattro occasionali
passeggeri di un aereo del Governo Britannico erano stati rapiti e
portati nelle solitudini dell'Himalaya?
Davanti a questo interrogativo Conway era stupito, ma nient'affatto
contrariato. Lo affrontava nel solo modo che avesse a disposizione
per accettare prontamente una sfida; facendo funzionare una certa sua
chiarezza di idee che per essere messa in moto aveva solo bisogno di
un compito adeguato. Ma per cominciare decise intanto questo: che non
avrebbe parlato con nessuno della scoperta, né coi suoi compagni,
incapaci di dargli aiuto, né coi suoi ospiti, che potendo aiutarlo,
certamente non l'avrebbero fatto.
Vi
"In fin dei conti, c'è della gente che deve adattarsi a luoghi
peggiori" osservò Barnard verso la fine della sua prima settimana a
ShangriLa; saggia conclusione che lasciava già presagire altri
futuri insegnamenti. In quel breve tempo i quattro compagni erano
riusciti a organizzarsi in una specie di routine giornaliera; e con
l'aiuto di Chang si annoiavano molto meno che non certe comitive in
vacanze organizzate perfettamente. Si erano tutti abituati
all'altezza e anzi trovavano quell'aria corroborante, beninteso, pur
di non dover sostenere grosse fatiche.
Sapevano ormai che le giornate erano calde e le notti fredde, che
il monastero era quasi completamente riparato dai venti, che le
valanghe sul Karakal erano frequenti verso mezzogiorno, che nella
vallata cresceva una buona qualità di tabacco, che alcuni cibi e
bevande erano più piacevoli di certi altri e che ciascuno di loro
aveva gusti personali e speciali particolarità. Vicendevoli scoperte
interessanti, come avrebbero potuto farle quattro allievi nuovi in
una scuola in cui fossero misteriosamente assenti tutti gli altri
studenti. Chang era instancabile nei suoi sforzi per facilitare e
rendere gradevole ogni cosa. Dirigeva escursioni, suggeriva
occupazioni, raccomandava libri; durante i pasti colmava con la sua
lenta fluente parola certi silenzi imbarazzanti, e in ogni occasione
si mostrava bonario, cortese, pieno di risorse. Era talmente netta la
linea di demarcazione tra le informazioni offerte volentieri e quelle
negate cortesemente, che non si offese più nessuno, se non Mallinson
sporadicamente.
Conway fu lieto di constatarlo e di poter arricchire d'un'altra
nota i suoi appunti, di giorno in giorno più numerosi. Barnard era
persino gioviale con il cinese, alla maniera un po' bislacca voluta
da una convenzione rotariana del West americano.
"Sa, Chang, che questo vostro albergo è proprio pessimo? Come mai
non ricevete i giornali? Darei tutti i libri della biblioteca per
l'"HeraldTribune" di questa mattina". Le risposte di Chang erano
sempre ponderate, anche quando non prendeva la domanda sul serio.
"Abbiamo tutte le annate del "Times" fino a pochi anni fa, signor
Barnard. mi spiace per lei che si tratti del "Times" inglese".
Conway sentì con piacere che la vallata non era "fuori confine"
benché le difficoltà della discesa non permettessero gite senza
scorta. Una mattina Chang li condusse a visitare il piano
verdeggiante, già tante volte ammirato da Conway quando dalla
terrazza contemplava il pauroso abisso. La gita fu oltremodo
interessante, almeno per Conway. Viaggiavano in portantine di bambù,
oscillanti pericolosamente sull'orlo del precipizio. Non era una
strada per paurosi; ma i portatori, gli antistanti come i
retrostanti, cercavano con calma la via per la ripida discesa. Quando
alla fine raggiunsero il più basso livello delle colline e della
foresta, allora apparve chiara la fortuna del monastero. La vallata
era un custodito paradiso di una fertilità prodigiosa, che dava la
sensazione di essere scesi da una zona temperata a una zona
tropicale. Vi crescevano a profusione, e contigui, raccolti
diversissimi, non un pollice di terreno che fosse infruttuoso.
L'intera area coltivata si estendeva in lunghezza per circa dodici
miglia, variando da uno a cinque miglia in larghezza; e aveva la
fortuna, pur essendo stretta, di ricevere il sole nel miglior momento
della giornata. L'aria era piacevolmente calda anche all'ombra,
benché i ruscelli che irrigavano il suolo provenissero dai ghiacciai.
Conway, alzando gli occhi alla meravigliosa parete montana, sentì
nuovamente quel che c'era di stupendo e di terribile in quella scena;
senza una provvidenziale barriera, al posto della valle ci sarebbe
stato un lago, nutrito di continuo dai ghiacciai circostanti. Invece
alcuni fiumicelli scorrevano benefici a riempire serbatoi, a irrigare
campi e piantagioni, con una disciplinata coscienza, degna di un
ingegnere. Disegno miracolosamente felice, la cui fortuna era
strettamente legata a quella della cornice e alla sua resistenza
contro eventuali terremoti o frane.
Ma anche simili timori, vaghi e futuri, finivano col mettere in
maggior valore la meravigliosa bellezza del presente. Conway ne fu
conquistato un'altra volta, in virtù di quelle stesse qualità di
grazia e semplicità che gli avevano reso il soggiorno in Cina più
felice di ogni altro. Il circostante massiccio montagnoso era in
perfetto contrasto con le piccole praterie e coi giardinetti ben
tenuti, con le case da tè a vivaci colori presso il fiume e le
frivole casette simili a giocattoli.
Gli abitanti gli parevano un felice risultato di cinese e di
tibetano; erano puliti e belli e parevano aver sofferto poco degli
inevitabili connubi tra elementi di una comunità così piccola. Al
passaggio dei forestieri in portantina sorridevano o ridevano, e
avevano una buona parola per Chang; erano di buon carattere e
moderatamente curiosi, cortesi e spensierati, occupati in
innumerevoli lavori, ma senza mai alcuna fretta. Conway li trovò una
delle più piacevoli comunità che avesse mai visto, e anche Miss
Brinklow, che stava osservandoli per scoprire segni di pagana
degradazione, dovette ammettere che all'apparenza tutto pareva in
regola. Fu assai sollevata nel vedere che gli indigeni erano
completamente vestiti; pur disapprovando le donne in calzoni cinesi
stretti alla caviglia; e per quanto scrutasse dappertutto, le sue
critiche dovettero limitarsi a pochi particolari. Chang spiegò che il
tempio aveva i suoi propri Lama, controllati blandamente da quelli di
ShangriLa, benché non fossero dello stesso ordine. Vi erano pure,
più innanzi nella valle, un tempio Tavist e un tempio confuciano.
"Il gioiello è sfaccettato" disse il cinese; "possono coesistere
molte religioni, ed essere tutte moderatamente vere".
"Sono d'accordo con lei" disse Barnard cordialmente. "Non ho mai
capito le gelosie settarie. Lei è un filosofo, Chang. molte religioni
sono moderatamente vere. Voglio tenerla a mente questa sua
osservazione. Voialtri lassù sulla montagna siete un bel gruppo di
innocui spaventapasseri, se la pensate così. E avete ragione. Ne sono
arcisicuro".
"Ma noi ne siamo solo moderatamente sicuri" rispose Chang, col suo
fare sognante.
Miss Brinklow, a cui tutte queste chiacchiere davano noia perché le
parevano un segno di rilassatezza, s'era infervorata in un'idea.
"Quando tornerò" disse a denti stretti, "domanderò alla mia società
di mandar qui un missionario. E se brontoleranno per la spesa li
tormenterò tanto finché si decideranno".
Questo era un modo di pensare sano; e persino Mallinson, che
simpatizzava pochissimo con le missioni all'estero, fu preso
d'ammirazione.
"Dovrebbero mandare lei" disse. "Purché, s'intende, un posto come
questo sia di suo gusto".
"Di mio gusto o no..." rispose Miss Brinklow. "Naturalmente, non mi
piacerebbe. Ma quel che importa è fare ciò che si deve".
"Penso" disse Conway, "che se fossi un missionario, preferirei
scegliere questo posto piuttosto di molti altri".
"In tal caso" replicò Miss Brinklow, "non vi sarebbe alcun
merito".
"Ma io non pensavo al merito".
"Peggio, allora. Fare una cosa perché le piace farla, non ha nessun
valore. Guardi questa gente!".
"Sembrano tutti felicissimi".
"Esatto" rispose accentando con forza. Poi aggiunse: "A buon conto,
la prima cosa da fare è ch'io cominci fin d'ora a studiare la lingua.
Potrebbe prestarmi un libro adatto, Mr' Chang?".
Chang era, in quel momento, molto mellifluo.
"Certamente, signora; col più grande piacere. E, se mi permette di
dirlo, trovo che l'idea è ottima".
Se ne occupò con la massima cura quella sera stessa, appena furono
tornati a ShangriLa. Miss Brinklow rimase un po' intimidita da quel
massiccio volume, compilazione ingegnosa di un tedesco del
diciannovesimo secolo (si era aspettata qualche lavoro più leggero,
qualcosa come il tibetano in quindici lezioni), ma con l'aiuto di
Chang e incoraggiata da Conway, cominciò di buona lena; dopo poco
tempo un occhio perspicace avrebbe notato ch'essa traeva dal lavoro
una soddisfazione un po' torva.
Anche Conway, oltre al problema a cui s'era interamente dedicato,
trovò molti interessi di cui occuparsi. Durante le chiare e tiepide
giornate si serviva liberamente della biblioteca e della sala da
musica persuadendosi sempre più che i Lama fossero di una eccezionale
cultura. Nei libri dimostravano un gusto eclettico: Platone nella
lingua originale era vicino a Omar in inglese; Nietzsche aveva
compagno Newton; vi era Thomas More, e anche Anna More, Thomas Moore,
George Moore, e anche Moore il vecchio. Il numero dei volumi poteva
essere tra venti e trentamila e Conway trovò interessante indagare
sui metodi di scelta e di acquisto. Tentò anche di scoprire se la
biblioteca fosse stata aggiornata di recente, ma il volume più
moderno che gli capitò fra le mani fu un'edizione economica di Im
Westen Nichts Neues. però in una visita successiva, Chang gli disse
che altri libri, pubblicati fin verso la metà del 1930, sarebbero
stati presto aggiunti negli scaffali; erano già arrivati al
monastero. "Può constatare che ci manteniamo abbastanza al corrente"
commentò.
"Non sono sicuro che questa sua affermazione sarebbe condivisa da
tutti" replicò Conway con un sorriso. "Dall'anno scorso sono accadute
nel mondo moltissime cose, sa".
"Niente d'importante che non potesse essere previsto nel 1920, o
che non sarà meglio compreso nel 1940".
"Allora non le interessano gli ultimi sviluppi della crisi
mondiale?".
"Me ne occuperò a fondo, ma a suo tempo".
"Sa, Chang, credo di cominciare a capirla. E' di un'altra pasta,
ecco. Il tempo ha per lei minore importanza che non per gli altri.
Come a me non importerebbe, se fossi a Londra, di veder sempre un
giornale dell'ultima ora, così a lei, a ShangriLa, non importa di
vederne uno dell'anno scorso. Queste disposizioni mentali mi sembrano
tutt'e due piene di buon senso. Ma mi dica, da quanto tempo non aveva
ricevuto qui degli ospiti?".
"Con mio grande rammarico, Mr' Conway, non le posso rispondere".
Era la solita fine della conversazione; ma Conway la trovava meno
irritante del fenomeno opposto di cui aveva tanto sofferto ai suoi
tempi, quando certe conversazioni, per quanto si sforzasse, non
sembravano finir mai. Chang cominciò a piacergli di più, man mano che
lo frequentava; però gli pareva strano di non incontrare mai qualcun
altro del monastero. Anche supponendo che i Lama non fossero
avvicinabili, non v'erano forse altri "postulanti" oltre Chang?
Vedeva qualche volta la piccola manciù nella sala di musica; ma lei
non sapeva l'inglese, e lui preferiva non rivelare ancora la sua
conoscenza del cinese. Era ancora incerto se facesse musica per
passione o per studio. Il modo di suonare, come del resto tutto il
suo comportamento, era deliziosamente convenzionale; sceglieva sempre
composizioni fiorite, Bach, Corelli, Scarlatti e talvolta Mozart.
preferiva il clavicembalo, ma quando Conway suonava il pianoforte lo
ascoltava gravemente, con un compiacimento più ossequioso che
sentito. Era impossibile sapere che cosa pensasse, ed era anche
difficile indovinare la sua età. Forse non più di trent'anni e non
meno di tredici; supposizioni possibili entrambe.
Mallinson, che in mancanza di meglio veniva ogni tanto ad
ascoltare, la trovava sconcertante. "Non riesco a capire che cosa
faccia qui" disse a Conway più di una volta. "Questa professione di
lamaismo andrà benone per un vecchio come Chang, ma che interesse può
avere per una ragazza? Chissà da quanto tempo è qui".
"Anch'io me ne stupisco, ma probabilmente è una di quelle cose che
non vogliono dirci".
"Crede che le piaccia star qui?".
"Direi che non le dispiace".
"Sembra quasi insensibile: una bambolina d'avorio più che un essere
umano".
"E' bello essere così".
"Finché dura...".
Conway sorrise.
"E se ci pensa bene, Mallinson, durerà abbastanza. Dopo tutto la
bambolina d'avorio ha bei modi, veste con gusto, è carina, ha un bel
tocco sul clavicembalo e non cammina per la stanza come se giocasse a
hockey. L'Europa occidentale, per quel che ricordo, conta un numero
grandissimo di donne che son prive di tali virtù".
"Lei è terribilmente cinico in materia di donne, Conway".
A quel rimprovero era abituato. Eppure non aveva mai avuto molto a
che fare col gentil sesso; durante le poche licenze nelle stazioni di
collina indiane gli era stato facile avvalorare questa reputazione.
In realtà aveva avuto molte amicizie affettuose con donne che
l'avrebbero volentieri sposato, se solo avesse detto una parola; ma
non l'aveva detta. Una volta aveva persino risposto ad un annuncio
sul "Morning Post"; ma la ragazza non voleva vivere a Pechino, e lui
non voleva vivere a Tunbridge Wells, e queste reciproche
incompatibilità avevano mandato tutto a monte. La sua esperienza in
materia femminile era stata intermittente, incerta e poco
concludente. Malgrado ciò, non era affatto un cinico.
Disse ridendo:
"Ho trentasette anni, lei ne ha ventiquattro. Ecco la differenza".
Dopo una pausa fu Mallinson che chiese all'improvviso:
"A proposito, che età crede che abbia Chang?".
"Un'età qualunque" rispose Conway con leggerezza, "fra i
quarantanove e i cinquantanove".
Tra le molte informazioni che Chang dava ai nuovi arrivati, alcune
li persuadevano subito, altre li lasciavano incerti; e se una volta
la loro curiosità non veniva appagata, subito scendeva un'ombra di
diffidenza su tutto il resto delle cose rivelate.
Un argomento rispetto al quale non v'erano segreti era quello delle
abitudini e usi della popolazione della vallata; e Conway avrebbe
potuto raccogliere, durante le lunghe conversazioni, materiale
sufficiente per una tesi di laurea. Come studioso di politica lo
interessava soprattutto il modo in cui era governata la popolazione:
una specie di autocrazia temperata ed elastica, esercitata dal
monastero con una tranquilla benevolenza. Questo sistema era riuscito
molto bene, e se ne persuase sempre più a ogni nuova discesa in quel
fertile paradiso. Ma Conway si stupiva di non trovare fondamenti di
legge e di ordine; non vi si vedevano né soldati né polizia, eppure
qualche mezzo per correggere i delinquenti doveva essere stato
escogitato. Chang spiegò che i delitti erano rari, sia perché si
consideravano tali solamente fatti molto seri, e sia perché ognuno
aveva a sufficienza tutto ciò che potesse ragionevolmente desiderare.
Come estremo rimedio contro un colpevole i servi addetti al monastero
avevano la facoltà di espellerlo dalla valle, benché questo castigo,
considerato come gravissimo e senza appello, fosse stato applicato
assai raramente. Ma il fattore principale nel governo di Luna
Azzurra, continuava Chang, era l'insegnamento di buone maniere, per
cui gli abitanti imparavano subito che certe cose "non si fanno", e
chi le fa si abbassa moralmente e socialmente.
"Anche voi inglesi nelle vostre scuole pubbliche cercate di
inculcare il medesimo sentimento" disse Chang, "ma temo che non lo
facciate con gli stessi scopi. Per esempio gli abitanti della nostra
vallata sentono che "non è cosa da farsi" l'essere inospitale verso i
forestieri, o discutere con rancore, o lottare fra compagni per il
primo posto; e parrebbe loro barbarica l'idea di divertirsi a quella
simulazione di guerra che i vostri maestri inglesi consigliano nei
campi da gioco; lo stimerebbero, anzi, un indegno incoraggiamento di
tutti gli istinti più bassi".
Conway domandò se avessero mai litigato a causa di donne.
"Molto raramente, perché non sarebbe buona educazione prendersi una
donna desiderata da un altro".
"Ma se qualcuno la desiderasse al punto da infischiarsene se sia
buona educazione o no?".
"In tal caso, caro signore, sarebbe buona educazione da parte
dell'altro il concedergliela, e anche da parte della donna il
mostrarsi condiscendente. Non può credere quanto certe piccole
cortesie siano utili per risolvere facilmente tanti problemi".
Infatti, durante le sue gite nella vallata, Conway riconosceva fra
gli abitanti uno spirito di buona volontà, e una contentezza
maggiormente apprezzabili dal momento che sapeva come, fra tutte le
arti, quella del governare fosse la più lontana dalla perfezione. Se
ne congratulò con Chang, che gli rispose:
"Vede, noi siamo persuasi che per governare bene bisogna evitare di
governare troppo".
"E non avete nessuno strumento democratico, né voto, né altro?".
"Per carità! La nostra gente si scandalizzerebbe se dovesse
dichiarare che una politica è buona e l'altra è cattiva".
Conway sorrise. Questo modo di vedere le cose gli era veramente
simpatico.
Alla propria maniera, Miss Brinklow ricavava intanto soddisfazioni
dallo studio della lingua tibetana, mentre Mallinson si stizziva e
brontolava, e Barnard persisteva in una sorridente tranquillità che,
fosse vera o simulata, era ugualmente notevole.
"Francamente" osservava Mallinson, "l'allegria di costui mi dà sui
nervi. Prendere le cose con filosofia va bene, ma quel suo insistere
in frizzi e motti di spirito mi secca. Se non stiamo in guardia
imporrà lui il tono alla compagnia".
Anche Conway aveva trovato un po' strana la facilità di adattamento
dell'americano; ma preferì limitarsi con Mallinson a parole
generiche.
"Non le pare una fortuna per noi che accetti la faccenda così
bene?".
"Io lo trovo stranissimo. Sa qualcosa di lui? chi sia, che cosa
faccia...?".
"Credo che ritornasse dalla Persia, dove era stato alla ricerca di
petrolio. Quando organizzai la partenza degli stranieri per via aerea
ho dovuto faticare non poco per persuaderlo a venire con noi.
Acconsentì soltanto quando gli dissi che il suo passaporto americano
non lo avrebbe riparato dalle pallottole".
"A proposito, l'ha mai visto il suo passaporto?".
"Credo di sì, ma non me ne ricordo. Perché?".
Mallinson scoppiò in una risata. "Ora dirà che mi sono impicciato
in affari che non mi riguardano. E' stato proprio un caso, e
naturalmente non ne ho fatto parola con nessuno. Non pensavo di dirlo
neppure a lei, ma, giacché è venuto il discorso, meglio così".
"Certo; parli".
"Barnard ha viaggiato con un passaporto falso; non si chiama
affatto Barnard".
Conway alzò le sopracciglia, più con interesse che con
preoccupazione. "Chi crede che sia, allora?".
"E' Chalmers Bryant".
"Davvero! E che ragione ha per crederlo?".
"Stamattina Chang ha trovato a terra un portafoglio; me lo ha dato,
credendo fosse mio. Non l'ho aperto, ma mi sono accorto che era pieno
di ritagli di giornali; perché ne caddero alcuni, e non mi vergogno a
dirle che li ho guardati. Non sono misteri privati, i giornali, o
almeno non dovrebbero esserlo. Parlavano tutti di Bryant, e delle
ricerche in corso per rintracciarlo, e uno riproduceva una fotografia
molto somigliante a Barnard, però senza baffi".
"Ha parlato con Barnard della sua scoperta?".
"No, gli ho restituito il portafoglio senza commenti".
"Tutto ciò si basa allora sul riconoscimento di un ritratto di
giornale?".
"Ebbene, per ora sì".
"Non credo che condannerei qualcuno per così poco. Può darsi che
lei abbia ragione; non è una cosa impossibile. Se si tratta proprio
di Bryant, allora ecco spiegata la sua soddisfazione di trovarsi qui;
non credo che vi sia un luogo migliore per nascondersi".
Mallinson parve un po' disilluso davanti a questa fredda
accoglienza di notizie che gli erano sembrate sensazionali. "E così
che cosa pensa di fare?" domandò.
Conway rifletté un momento, poi rispose: "Non saprei. Forse non
farò niente".
"Ma, accidenti, se costui fosse Bryant...".
"Mio caro Mallinson, se anche fosse Nerone, per ora non ce ne
dovrebbe importare. Santo o empio, dobbiamo stare insieme e farci
compagnia finché rimarremo quassù; non so quindi cosa ci
guadagneremmo a trasformarci da compagni in giudici. Se avessi avuto
dei sospetti finché eravamo a Baskul, certo mi sarei messo in
contatto con Delhi; sarebbe stato mio dovere. Ma ora posso
considerarmi in vacanza".
"Non le pare un modo di pensare un po' indolente?".
"Non importa che sia indolente, se è sensato".
"Mi consiglia dunque di dimenticare ciò che ho scoperto?".
"Non ci riuscirà; ma tacere sì. E' il miglior partito per entrambi.
Non verso Barnard, o Bryant, o chi diavolo sia, ma per non trovarci
poi in una situazione scomoda quando ripartiremo di qui".
"Intende dire che dovremmo lasciarlo scappare?".
"Diciamolo in altre parole: daremo a qualcun altro il piacere di
acchiapparlo. Quando si è vissuti, per qualche mese, di buon accordo
con un tale sembra un po' fuori luogo mettergli le manette".
"Non sono del suo parere. Costui non è altro che un ladro in grande
stile, conosco molte persone che a causa sua hanno perso i loro
denari".
Conway alzò le spalle. Ammirava la semplicità e rettitudine di
Mallinson; l'etica delle scuole private è forse cruda, ma per lo meno
è schietta. Se qualcuno infrange la legge è dovere di tutti
consegnarlo alla giustizia, sempre che si tratti di una legge che sia
veramente proibito infrangere. E la legge che si riferisce ad
assegni, a titoli bancari, a conti correnti, è proprio di questo
genere; Bryant l'aveva trasgredita, e Conway ricordava che quantunque
allora non si fosse interessato molto del caso ne aveva ricevuto una
cattiva impressione. Il fallimento del grandioso gruppo Bryant a New
York aveva cagionato perdite di circa cento milioni di dollari, una
catastrofe eccezionale, anche per gli ambienti abituati a esperienze
simili. In certo qual modo (Conway non era un esperto finanziario)
Bryant si era beffato di tutti a Wall Street, e di qui l'ordine di
arresto, la sua fuga in Europa, mandati di estradizione in cinque o
sei diversi Stati.
Finalmente Conway disse: "Se vuol dare retta a me, non dica niente
a nessuno; non per un riguardo a lui, ma per noi stessi. Del resto
decida lei; non senza aver prima riflettuto, però, che potrebbe anche
trattarsi non di Bryant ma di tutt'altra persona".
Ma era proprio Bryant; ne ebbero la rivelazione la sera stessa,
dopo pranzo. Chang se ne era andato; Miss Brinklow aveva ripreso la
sua grammatica tibetana, e i tre uomini stavano prendendo il caffè e
accendendo i sigari. Durante il pranzo più d'una volta il tatto e
l'affabilità di Chang erano venute in soccorso quando la
conversazione languiva; ma ora che Chang s'era assentato vi fu un
altro penoso silenzio. Una volta tanto Barnard rimaneva serio. Conway
vide chiaramente che Mallinson non riusciva a trattare l'americano
come se nulla fosse accaduto, e che Barnard s'era già accorto di
qualcosa.
A un tratto l'americano gettò via il sigaro. "Voi tutti sapete
ormai chi sono, credo" disse.
Mallinson arrossì come una ragazzina, ma Conway rispose col solito
tono pacato: "Sì, Mallinson ed io crediamo di saperlo".
"Sono stato proprio stupido a lasciare in giro quei giornali".
"Capita a tutti alle volte".
"Bene, se prendete la cosa con calma, sono abbastanza fortunato".
Vi fu un nuovo silenzio, rotto alla fine dalla voce stonata di Miss
Brinklow.
"Io non so davvero chi sia, Mr' Barnard, ma avevo indovinato da un
pezzo che viaggiava in incognito". Tutti la guardarono con sorpresa e
lei proseguì: "Quando Mr' Conway ha detto che i nostri nomi sarebbero
stati messi sui giornali lei ha risposto che non le importava. Ho
pensato allora che probabilmente Barnard non era il suo vero nome".
Il colpevole ebbe un lento sorriso mentre accendeva un altro
sigaro.
"Signora" disse poi, "non solo lei è un intelligente detective, ma
ha trovato una parola davvero gentile per definire la mia posizione
attuale. Io viaggio "in incognito". L'ha detto lei, e ha mille volte
ragione. Quanto a voialtri, ragazzi, in un certo senso non m'importa
che mi abbiate scoperto. Finché nessuno di voi avesse dubitato,
potevamo andar avanti così, ma giacché ora sapete sarei un idiota se
mi dessi delle arie con voi. Siete stati tanto simpatici che non
voglio ora seccarvi in alcun modo. Sembra che, bene o male, saremo
costretti a vivere insieme un bel po' di tempo; dobbiamo perciò
aiutarci l'un l'altro il più possibile. Quanto a quello che accadrà
poi, lasceremo che a suo tempo le cose facciano il loro corso...".
Queste parole erano talmente ragionevoli che Conway osservò Barnard
con maggiore interesse e persino con una certa stima. Era strano
pensare che quell'uomo pesante, grosso, di buonumore, quasi paterno,
fosse uno dei più grandi truffatori del mondo. Pareva piuttosto uno
di quei tipi che, con un po' di istruzione, possono diventare dei
bravi direttori di scuola preparatoria. Dietro la sua apparente
giovialità v'erano segni di tensione e di preoccupazione, ma ciò non
significava affatto che quella giovialità fosse forzata. Egli era
veramente ciò che pareva: un buon compagno, come suol dirsi; agnello
per natura, e lupo solo per professione.
Conway disse: "Meglio così".
Allora Barnard rise. Evidentemente le sue riserve di buonumore
erano inesauribili.
"Perdio, ma sa che ha proprio del pazzesco?" esclamò adagiandosi
nella sua poltrona. "Voglio dire tutta questa faccenda d'inferno.
Prima una corsa vertiginosa attraverso l'Europa; poi avanti, la
Turchia, la Persia, fino a quel paesetto! E la polizia che mi correva
appresso... A Vienna per poco non mi prendevano! In principio è quasi
divertente essere rincorso ma dopo un po' dà sui nervi. Però a Baskul
ebbi tempo di riposarmi. Pensavo di essere al sicuro in mezzo a una
rivoluzione...".
"Lo era" disse Conway sorridendo, "non però dalle pallottole".
"Ecco; ed era proprio quello che mi seccava, alla fine. Capirete
ora che la scelta non era facile per me. O stare a Baskul ed essere
massacrato, o accettare un viaggetto a bordo di un aereo del governo
e trovare le manette ad aspettarmi all'arrivo. Non ci tenevo molto né
a una cosa, né all'altra".
"Me ne ricordo".
Barnard rise di nuovo. "E' andata com'è andata! e potete figurarvi
se il cambiamento che mi ha portato fin qui mi preoccupa. E' un
mistero dei più complicati, d'accordo, ma a me personalmente non
poteva capitare niente di meglio. E quando sono soddisfatto non ho
l'abitudine di brontolare".
Il sorriso di Conway si fece più cordiale. "E' stato di buon senso,
anche se qualche volta ha oltrepassato un po' il limite. Cominciavamo
tutti a fantasticare come mai lei potesse mostrarsi così contento".
"Lo ero veramente. A conoscerlo, questo non è poi un brutto posto.
Il fresco è un po' pungente all'inizio, ma non si può certo avere
tutto. Per chi debba cambiare aria è tranquillo e riposante.
D'autunno vado sempre a Palm Beach a fare una cura, ma in quei posti
eleganti non si riesce a riposare, si è sempre in ballo come in
città. Invece qui c'è proprio tutto ciò che il dottore mi ha ordinato
e sento che mi fa benone. Seguo una dieta diversa dal solito, non
posso occuparmi di affari, e il mio agente non mi telefona".
"Crede che ne abbia il desiderio?".
"Certo. Chissà che pasticci da aggiustare, laggiù!".
Lo disse con tanta semplicità che Conway non poté fare a meno di
rispondere:
"Non m'intendo molto di ciò che chiamano alta finanza".
Era un avvio, e l'americano lo accettò senza schermirsi.
"In generale" disse, "l'alta finanza non val niente".
"L'ho sospettato spesso".
"Senta, Conway, glielo spiegherò così. Un tale fa ciò che ha fatto
per anni, e ciò che tanti altri pure hanno fatto; improvvisamente ha
tutto il mercato contro di sé. Non c'è rimedio, ma si fa forza, e
aspetta il solito giro. Aspetta, aspetta... non capita più come le
altre volte; e quando poi ha perso dieci milioni di dollari legge su
un giornale che un professore svedese annunzia la fine del mondo.
Ora, le domando, è questo il modo di aiutare il mercato? Naturalmente
l'uomo d'affari riceve una bella batosta, ma anche lì, nessun
rimedio. E rimane così finché vengono i poliziotti a prenderlo. Se
può li aspetta. Io non li ho aspettati".
"E' stata dunque solo colpa del destino?".
"Certo; ed è così quasi sempre".
"Aveva anche i denari di altri" intervenne Mallinson seccamente.
"Sì. E sa perché? Perché tutti volevano qualcosa gratis, ma non
avevano il cervello per procurarselo".
"Non sono d'accordo. Avevano invece fiducia in lei, e credevano i
loro denari al sicuro".
"Ebbene, non erano al sicuro. Non potevano esserlo. Non c'è
sicurezza in nessun luogo e quelli che ci credono sono come una massa
di cretini che durante un tifone cerchino di salvarsi sotto un
ombrello".
Conway interruppe conciliante. "Certo sarebbe stato impossibile
trovare un rimedio contro il tifone".
"Non potevo neppure tentarlo; come lei non poteva far nulla contro
ciò che è accaduto dopo la partenza da Baskul. me ne sono convinto
quando l'ho vista così padrone di sé sull'aereo in fuga, mentre
invece Mallinson era tanto nervoso. Sapeva di non poter fare nulla e
non gliene importava affatto. Ho provato lo stesso anch'io al momento
della mia catastrofe".
"Sciocchezze!" gridò Mallinson. "Chiunque può fare a meno di
truffare. Basta condurre il gioco secondo le regole".
"Il che diventa infernalmente difficile quando tutto il gioco va a
pezzi. Del resto non c'è anima al mondo che conosca queste regole.
Non potrebbero insegnargliele neppure tutti i professoroni di Harvard
e di Yale".
"Parlo di poche regole semplicissime, della vita d'ogni giorno"
replicò Mallinson con un certo disprezzo.
"Allora sono certo che nella sua vita di tutti i giorni non entra
nessuna amministrazione di compagnie di credito finanziario".
Conway si affrettò a intervenire. "E se evitassimo le discussioni,
non sarebbe meglio? In fin dei conti, se io paragono i suoi affari ai
miei, non ho nessuna obiezione da muovere. Io credo che in questi
ultimi tempi s'è volato tutti alla cieca, nel significato letterale
della frase, e in altri sensi. Ma ora siamo qui, questo è
l'importante, e penso anche che avrebbe potuto capitarci di peggio.
Ed è ben strano che di quattro persone scelte a caso e rapite per
mille miglia ve ne siano tre capaci di trovare nel fatto qualche
consolazione. Lei ha bisogno di una cura di riposo e di un rifugio
sicuro; Miss Brinklow si sente chiamata a evangelizzare i pagani del
Tibet...".
"E la terza persona?" interruppe Mallinson. "Non sarò io spero?".
"Stavo per includere nella serie me stesso" rispose Conway. "E
forse la mia ragione è la più semplice. Mi piace essere qui".
Infatti, quando poco dopo fece la sua solita passeggiata serale
lungo la terrazza e verso la vasca dei fiori di loto, provò un senso
di profondo benessere fisico e morale. Aveva proprio detto la verità:
gli piaceva essere a ShangriLa. Due sensazioni opposte, l'atmosfera
calmante e l'assillo del mistero, agivano su di lui con benefico
risultato d'equilibrio. Per di più, da alcuni giorni aveva raggiunto
grado a grado una bizzarra conclusione circa il monastero e i suoi
abitanti: ci stava ancora studiando, ma senza tormento. Era come un
matematico che cercando la soluzione di un astruso problema, se ne
preoccupasse, sì, ma con molta calma e spassionatamente.
Quanto a Bryant (che però decise di chiamare ancora Barnard) la
questione delle sue azioni e della sua identità svaniva subito appena
la si inseriva in quel contesto; si salvava solo una frase: "l'intero
gioco va a pezzi". Probabilmente Conway dava a questa frase un
significato più esteso di quanto non intendesse l'americano: ne
sentiva la verità, ma non soltanto nei limiti di un'amministrazione
bancaria di credito in America. Era vera tanto a Baskul, come a Delhi
come a Londra, tanto per fare una guerra e costruire un impero quanto
per i Consolati, per le concessioni commerciali e per i pranzi al
palazzo del Governo: c'era un lezzo di dissoluzione su tutto quel
mondo di memorie e Barnard l'aveva forse drammatizzato meglio di lui.
L'intero gioco andava in pezzi; ma per fortuna non sempre i giocatori
erano condotti in giudizio per i pezzi che non riuscivano a salvare.
I finanzieri sì, ingiustizia della sorte.
Ma a ShangriLa c'era una pace profonda. In un cielo senza luna le
stelle brillavano e sulla vetta del Karakal v'era un pallido lume
azzurro. Conway era certo che se i portatori attesi fossero giunti in
quell'istante, non avrebbe provato una gioia esaltante all'idea di
poter partire subito. E, con un sorriso, rifletté che neppure Barnard
sarebbe stato contento. Forse non era giusto mettere al bando un uomo
perché aveva perduto cento milioni di dollari; sarebbe stato più
facile se avesse soltanto rubato un orologio. Dopo tutto come si
potevano perdere cento milioni? Forse soltanto con la stessa
leggerezza con cui un ministro potrebbe dichiarare di aver dato via
l'India. Ripensò allora a quando avrebbe lasciato ShangriLa con i
portatori sulla via del ritorno. Immaginava il lungo viaggio faticoso
e il gran momento dell'arrivo alla casetta di qualche piantatore nel
Sikkim o nel Baltistan: un momento che doveva essere di gioia
delirante, ma che forse poteva anche risolversi in una disillusione.
Poi le prime strette di mano e le prime presentazioni; le prime
bevute offerte sulla veranda di un club; visi abbronzati che lo
scrutavano con mal celata incredulità. A Delhi sarebbe stato
certamente ricevuto dal viceré e dalle autorità: e qui inchini di
servi in turbante, infiniti rapporti da scrivere e spedire. Forse
anche un ritorno in Inghilterra e a Whitehall; giochi a bordo del
piroscafo; la flaccida mano di un sottosegretario; interviste di
giornalisti; voci di donna dure, canzonatorie, curiose. "E' proprio
vero, Mr' Conway, che quando era nel Tibet...?". Di una cosa poteva
esser sicuro: raccontando la sua filastrocca avrebbe potuto ricevere
inviti a pranzo per un anno intero. Ma gli sarebbe piaciuto? Gli
tornò in mente un detto di Gordon durante gli ultimi giorni a Cartum:
"Preferirei vivere da derviscio col Mahdi piuttosto che essere
invitato a pranzo tutte le sere a Londra". L'avversione di Conway non
era così assoluta, piuttosto pensava che gli sarebbe dispiaciuto
molto, e che lo avrebbe anche rattristato, dover raccontare la sua
storia al passato remoto.
A un tratto, durante queste riflessioni, si vide Chang vicino.
"Signore" disse il cinese meno lentamente del solito, "mi onoro di
recarle importanti notizie...".
"Ecco che i portatori arriveranno prima del previsto" pensò subito
Conway. E provò quella punta di delusione alla quale era già un po'
preparato.
"Ebbene?" chiese.
Chang, dato il suo temperamento e il suo fisico, era in evidente
stato di agitazione.
"Caro signore, mi congratulo con lei" continuò, "e sono felice di
pensare che in certo qual modo il merito è mio. Dopo le mie vive e
ripetute raccomandazioni il Gran Lama si è deciso. Desidera vederla
subito".
Lo sguardo di Conway ebbe un guizzo scherzoso.
"Lei è meno coerente del solito, Chang. che cosa è accaduto?".
"Il Gran Lama vuole vederla".
"Ho capito. Ma perché questa agitazione?".
"Perché è un avvenimento straordinario e senza precedenti. Io
stesso, pur sollecitandolo, non l'aspettavo così presto. Non sono
neppure due settimane che lei è qui, e sta già per essere ricevuto da
lui! Una cosa simile non è mai accaduta così presto!".
"Sono ancora un po' tra le nuvole, mi scusi. Devo vedere il vostro
Gran Lama, questo l'ho capito. Ma c'è qualcos'altro?".
"Non le pare che basti?".
Conway rise.
"Basta, gliel'assicuro; non mi creda sgarbato. Ma stavo pensando a
qualcosa di molto diverso... non ci badi. Sarà un onore e un piacere
per me conoscerlo. Quando dovrò andarci?".
"Adesso. Sono stato mandato per accompagnarla da lui".
"L'ora non è un po' tarda?".
"Non importa. Fra poco capirà molte cose, caro signore. E desidero
esprimerle la mia personale soddisfazione che questo periodo un po'
imbarazzante sia ormai terminato. Mi creda, è stato spiacevole anche
per me doverle così spesso rifiutare le informazioni che desiderava;
molto spiacevole. E sono contentissimo di pensare che questo non sarà
mai più necessario".
"Lei è strano, Chang" rispose Conway. "Ma non si disturbi con altre
spiegazioni; apprezzo le sue parole. Andiamo dal Gran Lama; sono
prontissimo. La prego, mi faccia strada".
Vii
Seguendo Chang attraverso il vasto cortile deserto Conway era in
apparenza calmissimo, ma il suo aspetto nascondeva un ardore, che si
faceva più intenso di minuto in minuto. A giudicare dalle parole del
cinese, era giunto per lui il momento di importanti scoperte; avrebbe
presto saputo se le sue congetture erano davvero così inverosimili
come potevano sembrare.
Ma oltre questo, lo attendeva certo un colloquio interessante.
Durante la sua carriera di diplomatico s'era incontrato con molte
personalità; ma le numerose delusioni subite avevano finito per
scaltrirlo nei suoi giudizi. Niente affatto timido, aveva il prezioso
dono di poter dire cose gentili anche in lingue che conosceva poco.
Ma forse questa volta il suo compito sarebbe stato semplicemente
quello di ascoltare.
Notò che Chang gli faceva attraversare delle stanze che non aveva
ancora visto; erano in penombra, e alla tenue luce delle lanterne
parevano belle. Poi salirono su per una scala a chiocciola fino ad
una porta a cui il cinese bussò; un servo tibetano aprì con tale
prontezza che Conway ebbe il sospetto che stesse già pronto lì
dietro. Questa parte superiore del monastero era ornata finemente
quanto il pianterreno; ma ciò che più colpiva era un calore asciutto
quasi irritante, come se tutte le finestre fossero chiuse e
funzionasse in pieno un riscaldamento a vapore. Il senso di
rarefazione dell'aria aumentava di stanza in stanza, finché Chang si
fermò davanti a un'ultima porta che sembrava introdurre a un bagno
turco.
"Il Gran Lama" mormorò Chang, "la riceverà da solo". Aprì la porta,
fece entrare Conway, e richiuse poi così silenziosamente che questi
quasi non se ne accorse. Conway rimase lì incerto, non soltanto per
quell'aria soffocante, ma anche perché i suoi occhi si abituarono
all'oscurità solo dopo parecchi secondi. Si accorse allora di
trovarsi in un ambiente piuttosto basso, dalle cortine scure,
mobiliato semplicemente con una tavola e poche sedie. In una di
queste era seduto un essere piccolo, pallido e rugoso, immobile
nell'ombra: dava l'impressione di un antico ritratto a chiaroscuro,
quasi svanito. Se si potesse affermare l'esistenza della realtà
separata dalla persona fisica, ecco, essa era lì, adorna di una
classica dignità, emanazione, più che attributo, della persona
stessa. Conway si stupiva di percepire così nettamente tutte queste
sensazioni e si chiedeva se non fossero illusorie reazioni fisiche a
quel crepuscolare caldo di serra; sotto quello sguardo d'altri tempi,
si sentiva girar la testa; fece alcuni passi, poi si fermò. I
contorni dello strano personaggio seduto si facevano ora meno vaghi,
non però più corporei; era un vecchietto in ricchi abiti cinesi, le
cui pieghe ondeggiavano sul vuoto di un corpo emaciato.
"Lei è Mr' Conway?" sussurrò in un inglese perfetto.
La voce era dolce e suggestiva, e quasi commuoveva per una
malinconia gentile che procurò a Conway una strana beatitudine; ma la
parte più scettica ch'era in lui ne diede la colpa alla temperatura.
"Sì" rispose.
La voce continuò: "Mi fa piacere vederla, Mr' Conway. L'ho mandata
a chiamare perché ho pensato che sarebbe utile che discorressimo
insieme. Sieda qui, la prego, e non abbia timore. Sono vecchio, e non
posso far male a nessuno".
Conway rispose: "Esser ricevuto da lei è per me un grande onore".
"La ringrazio, mio caro Conway; la chiamerò così alla maniera
inglese. Come le ho già detto, questo è per me un momento di grande
piacere. La mia vista è cattiva, ma creda, sono capace di vederla con
la mente più che con gli occhi. Spero che si sia trovato bene a
ShangriLa, dal suo arrivo in poi...".
"Benissimo".
"Ne sono lieto. Chang ha certamente fatto tutto il possibile. E
pure lui è contento. Mi ha detto che gli ha posto molti interrogativi
sulla nostra comunità e sulle nostre regole".
"Sono certo molto interessanti".
"E allora, se vorrà concedermi un po' del suo tempo, sarò lieto di
intrattenerla sulla nostra fondazione".
"Non potrebbe farmi un piacere maggiore".
"E' proprio quel che credevo... e speravo... Ma prima di tutto,
prima di cominciare la nostra conversazione...". Fece un
impercettibile cenno della mano e subito entrò un servo a preparare
l'elegante rito del tè. Conway, che conosceva la cerimonia, guardò
con compiacimento le finissime tazzine piene di liquido quasi
incolore che venivano poste sul vassoio di lacca; e la voce riprese:
"Vedo che le nostre abitudini le sono familiari".
Obbedendo a un impulso che non avrebbe potuto né spiegare né
controllare, Conway rispose: "Ho vissuto per alcuni anni in Cina".
"A Chang non l'ha detto".
"No".
"Perché allora mi onora così della sua confidenza?".
In generale Conway non si trovava imbarazzato a spiegare le sue
ragioni, ma questa volta nessun motivo si presentò al suo spirito.
Alla fine rispose:
"A voler essere sincero non ne ho la minima idea... forse volevo
dirlo proprio a lei".
"Ottima ragione, per due persone che vogliono diventare amiche...
Questo profumo non le pare indicato? I tè cinesi sono di varie
qualità e tutte profumate, ma a parer mio questo speciale prodotto
della nostra vallata, può reggere ogni paragone".
Conway portò la tazza alle labbra, e bevve. Sentì un sapore leggero
e recondito, una fragranza spettrale che non si posava sul palato, ma
stava sospesa tutt'intorno. Disse:
"E' delizioso, e anche nuovo per me".
"Sicuro, è prezioso e unico come molte erbe della nostra valle. Si
dovrebbe bere con molta lentezza, e non solo per un sentimento di
affezione o di riguardo, ma anche per estrarne il più alto grado di
piacere. Possiamo imparare questa famosa lezione da Kou Kai Tchoud,
che visse circa quindici secoli fa. Egli esitava sempre quando stava
per giungere al midollo dolcissimo della canna da zucchero, perché
diceva: "voglio guidare gradualmente me stesso nella regione delle
delizie". Ha forse studiato qualcuno dei grandi classici cinesi?".
Conway rispose che ne conosceva pochissimi e superficialmente.
Secondo l'etichetta, la conversazione sarebbe continuata così finché
fossero state portate via le tazze del tè; Conway lo sapeva ma,
nonostante il suo desiderio di sentire la storia di ShangriLa, non
trovava irritante il ritardo. Forse sentiva in se stesso un poco
della riluttante sensibilità di Kou Kai Tchoud.
Finalmente il segnale fu dato, col solito mistero il servo entrò,
poi uscì e senz'altri preamboli il Gran Lama di ShangriLa
incominciò:
"Probabilmente lei conosce, caro Conway, nelle sue linee generali,
la storia del Tibet. chang mi ha informato che frequenta assiduamente
la nostra biblioteca, e son certo che avrà studiato i pochi, ma
interessanti annali di queste regioni. Saprà, in ogni modo, che il
Cristianesimo nestoriano era assai diffuso in Asia durante il
medioevo, e che dopo la sua scomparsa ne sopravvisse per molto tempo
il ricordo. Nel diciassettesimo secolo vi fu un risveglio cristiano
appoggiato e spinto direttamente da Roma, per mezzo di quegli eroici
missionari gesuiti i cui viaggi, se mi è permesso dirlo, sono molto
più interessanti da leggersi rispetto a quelli di San Paolo. A poco a
poco la Chiesa si propagò in larga misura, ed è degno di nota (molti
europei non se ne rendono conto) che vi sia stata per un periodo di
trentotto anni una missione cristiana nella stessa città di Lhasa.
Non fu però da Lhasa, ma da Pechino che partirono nel 1719 quattro
frati cappuccini per ricercare ciò che della dottrina nestoriana
rimaneva nell'interno del paese.
"Viaggiarono per mesi verso sudovest, da Lanshor a Koko Nor,
incontrando tutte quelle difficoltà che potete immaginare. Tre
morirono durante il cammino, il quarto non era molto lontano dalla
morte quando capitò per caso nella gola rocciosa che anche oggi
rappresenta l'unica porta per entrare nella valle della Luna Azzurra.
Ivi trovò, con gioia e sorpresa, una popolazione amichevole e
prospera che si affrettò a dimostrargli ciò che ho sempre considerato
come la nostra più antica tradizione: l'ospitalità agli stranieri.
Riacquistò presto la salute, e cominciò a predicare la sua fede. Gli
abitanti erano buddisti, ma lo ascoltarono volentieri, ed ebbe molto
successo. Su questa stessa montagna v'era già un antico monastero di
Lama, ma in tale stato di decadenza che il cappuccino vedendo
aumentare il numero dei suoi proseliti concepì l'idea di fabbricare
nella stessa meravigliosa posizione un monastero cristiano. Sotto la
sua sorveglianza il vecchio edificio fu riparato e in gran parte
ricostruito, e lui stesso cominciò a vivere qui nel 1734, quando
aveva cinquantatré anni.
"Lasci che le dica qualcosa di più su costui. Si chiamava Perrault,
ed era nato nel Lussemburgo. Prima di dedicarsi alle missioni
dell'Estremo Oriente aveva studiato a Parigi, a Bologna e in altre
università: era quel che si dice uno studioso. Della sua gioventù ci
restano pochi ricordi; ma non gli era occorso nulla di speciale o di
diverso da quel che possa accadere a un uomo della sua età e della
sua professione. La musica e le arti lo attiravano, aveva una
spiccata disposizione per le lingue, e prima di esser certo della sua
vocazione aveva conosciuto tutti i piaceri dell'esistenza umana.
Durante la sua gioventù c'era stata la battaglia di Malplaquet e
conosceva per esperienza gli orrori della guerra e dell'invasione
straniera. Fisicamente robusto, durante i primi anni del suo
soggiorno qui lavorò la terra con le sue mani, come facevano gli
altri; coltivò l'orto traendo insegnamenti dagli altri e dandone a
sua volta. Trovò lungo la valle giacimenti d'oro, ma non lo
tentarono; molto più lo interessavano le piante e le erbe del luogo.
Era umile, e niente affatto bigotto. Non approvava la poligamia, ma
non vedeva motivo per inveire contro il gusto prevalente per la bacca
tangatse che era popolare non solo per le sue virtù medicinali, ma
soprattutto perché agiva come blando narcotico. Perrault stesso se ne
lasciò sedurre; accettava dalla vita indigena ciò che essa gli poteva
offrire di innocuo e di piacevole e prodigava in cambio i tesori
spirituali dell'Occidente. Non era un asceta: sapeva godere i beni
del mondo, e ai suoi proseliti insegnava il catechismo, ma anche
l'arte di cucinare. Desidero darvi l'impressione che Perrault fosse
un uomo serio, operoso, colto, semplice ed entusiasta, che, pur non
mancando alle sue funzioni di sacerdote, non sdegnava indossare la
blusa del muratore e lavorare alla costruzione di queste stesse
camere. Naturalmente le difficoltà di quest'ultima impresa erano
immense e soltanto il suo orgoglio e la sua perseveranza riuscirono a
superarle. Ho detto orgoglio perché certamente questa fu la sua forza
fin dal principio: l'orgoglio della sua fede lo rese certo che se
Gotamo era riuscito a far costruire dai suoi seguaci un tempio sullo
scoglio di ShangriLa, Roma era ben capace di fare altrettanto.
"Ma intanto gli anni passarono e, com'era naturale, i propositi
orgogliosi cedettero gradualmente il passo a ragionamenti più calmi.
Dopo tutto l'emulazione è una virtù giovanile, e all'epoca in cui
questo monastero fu ultimato Perrault si trovò carico d'anni. In
realtà, secondo un severo punto di vista, non aveva agito
regolarmente, quantunque si debba accordare un certo margine di
iniziativa a chi viva così lontano dai suoi superiori ecclesiastici,
soprattutto quando le distanze si misurano più facilmente in anni che
in miglia. Però la gente della vallata e gli stessi monaci non
avevano apprensioni di sorta: lo amavano e gli obbedivano, e col
passare degli anni giunsero a venerarlo. Aveva l'abitudine di mandare
a intervalli regolari resoconti al vescovo di Pechino, ma spesso non
giungevano a destinazione, e siccome era probabile che i messaggeri
morissero fra le asprezze e i pericoli del lungo viaggio, Perrault
divenne a poco a poco sempre più riluttante ad esporre la vita dei
suoi uomini; fino a quando verso la metà del secolo interruppe del
tutto quest'abitudine. E' però probabile che qualcuna delle sue prime
lettere fosse arrivata e avesse destato qualche sospetto circa le sue
attività, perché nel 1769 uno straniero portò un messaggio, scritto
dodici anni prima, con l'invito a Perrault di recarsi a Roma. Se
l'ordine gli fosse giunto senza ritardo, avrebbe avuto allora
settantasette anni; invece quando lo ricevette ne aveva ottantanove.
Non avrebbe certo potuto affrontare il lunghissimo viaggio tra le
montagne e sull'altipiano, né sopportare le furiose tempeste e il
freddo intenso di quella zona semiselvaggia. Mandò una cortese
risposta, spiegando la situazione, ma non si seppe mai se questo suo
messaggio avesse poi oltrepassato le grandi catene montuose.
"E così Perrault rimase a ShangriLa, non certo per un
atteggiamento di sfida agli ordini dei suoi superiori, ma per
l'assoluta impossibilità fisica di eseguirli. Del resto, la morte
sarebbe presto venuta a metter fine alle sue irregolarità.
"Invece, ecco che proprio intorno a quest'epoca nell'istituzione da
lui fondata cominciò a verificarsi un sottile mutamento. Mutamento
che qualcuno deplorò forse; ma si trattava di un fatto logico;
l'incredibile, se mai, era che quest'uomo potesse un giorno riuscire
da solo e senz'aiuti a mutare per sempre le abitudini e le tradizioni
di tutta un'epoca. Non aveva nessun collega dell'Occidente che
potesse sostituirlo quando gli fossero venute a mancare le forze, e
probabilmente era stato un errore costruire il monastero in un luogo
ricco di memorie anteriori e diverse. Ma se errore fu, Perrault non
lo riconobbe. Era troppo vecchio e troppo felice. I suoi seguaci gli
erano devoti anche se qualche volta dimenticavano di seguire i suoi
insegnamenti; gli abitanti della vallata avevano per lui un così
reverente affetto che non poteva non perdonarli se ricadevano ogni
tanto nelle abitudini di prima. Era ancora attivo e tutte le sue
facoltà si conservavano acute. All'età di novantott'anni cominciò a
studiare i libri buddisti lasciati a ShangriLa dai primi abitanti,
ed era sua intenzione dedicare gli anni che gli rimanevano alla
preparazione di un libro che attaccasse il buddismo dal punto di
vista dell'ortodossia. Riuscì a condurre a termine quest'impresa
(abbiamo qui il suo manoscritto completo) ma la critica non fu molto
severa perché aveva ormai raggiunto i cento anni, e a quell'età anche
i più acerbi rancori tendono a svanire.
"Nel frattempo, come potrete immaginare, molti dei suoi primi
discepoli erano morti, e siccome pochi erano venuti a sostituirli, il
numero di coloro che vivevano a ShangriLa sotto la guida del vecchio
cappuccino diminuiva costantemente. Erano stati ottanta da principio,
poi si erano ridotti a una ventina, e infine solo a dodici, quasi
tutti vecchissimi. La vita di Perrault ormai non era più che una
serena e placida attesa della fine. Era troppo vecchio per ammalarsi,
o per soffrire di noia; soltanto il sonno eterno avrebbe potuto
impadronirsi di lui, ed egli non ne aveva paura. La buona gente della
vallata pensava a provvedere il cibo e il vestiario; la biblioteca
gli forniva i libri per continuare gli studi prediletti. Era
diventato debole ma conservava energia sufficiente per poter compiere
la maggior parte del cerimoniale del suo ufficio; occupava il resto
delle sue tranquille giornate con i libri, con i ricordi, e con le
dolci estasi del narcotico. La sua intelligenza si conservava
straordinariamente lucida, così da consentirgli persino di cominciare
uno studio su certe pratiche mistiche che gli indiani chiamano yoga,
e che si fondano su vari e speciali metodi di respirazione. Una tale
impresa in un uomo della sua età poteva parere arrischiata e infatti
poco dopo, in quel memorabile anno 1789, si sparse nella valle la
notizia che Perrault stava per morire.
"Giaceva in questa camera, mio caro Conway, e dalla finestra poteva
scorgere del Karakal quello che i suoi occhi quasi spenti gli
permettevano: una nebbia candida; ma vedeva pure con la sua
intelligenza e poteva raffigurarsi quei meravigliosi e netti contorni
ammirati per la prima volta mezzo secolo innanzi. Rivedeva pure, come
in strano corteo, tutte le passate vicende, gli anni di viaggio
attraverso il deserto e l'altipiano, le grandi folle nelle città
dell'Occidente, il clangore e lo scintillio delle truppe di
Marlborough. la sua mente si adagiava in una calma di neve; era
pronto alla morte; ne era desideroso e contento. Radunò attorno a sé
gli amici e i servi e li salutò tutti, poi chiese di esser lasciato
solo per qualche tempo. Aveva sempre sperato che, giunto quel
momento, col corpo cadente e la mente tesa verso la beatitudine
avrebbe abbandonato l'anima a Dio... ma non fu così. Giacque per
molte settimane immobile senza poter parlare, poi a poco a poco
cominciò a migliorare. Aveva centootto anni".
Il sussurrio di quella voce cessò un momento e a Conway, che aveva
ascoltato senza fiatare, parve che il Gran Lama avesse tradotto
fluidamente in parole un lontano sogno personale. Poi continuò:
"Come a coloro che aspettano a lungo sulla soglia della morte,
anche a Perrault fu concessa una significativa visione da riportare
con sé nel mondo; e di questa visione le parlerò poi. Io mi limiterò
qui alle sue azioni e alla sua condotta, che furono realmente degne
di nota. Perché invece di trascorrere la sua convalescenza nell'ozio,
come ci si poteva aspettare, si tuffò subito in una rigorosa
autodisciplina stranamente combinata con l'inveterata abitudine del
narcotico. Prendere droghe, e fare esercizi profondi di respirazione
non sembrerebbe un sistema con cui sfidare la morte, eppure quando
nel 1794 morì l'ultimo dei vecchi monaci, Perrault era ancora in
vita.
"La cosa avrebbe fatto sorridere, se a ShangriLa vi fosse stato
qualcuno sufficientemente dotato di umorismo. Il rugoso cappuccino,
decrepito non più di quanto lo fosse stato durante gli ultimi dodici
anni, perseverò segretamente in quel suo strano rituale, mentre, per
la gente della vallata, diventava un essere avvolto nel mistero, un
eremita dal potere soprannaturale, che viveva solitario su quella
formidabile rupe. Ma perdurava una tradizione di affetto verso di
lui, e presto diventò azione meritoria e di buona fortuna salire a
ShangriLa e lasciarvi un modesto regalo, o eseguirvi qualche
necessario lavoro manuale. Perrault concedeva la sua benedizione a
tutti questi pellegrini, senza più pensare, forse, che erano
pecorelle smarrite: ora, nei templi della valle, si udivano
ugualmente il Te Deum laudamus e l'Om Mane Padme Hum.
"Mentre stava per nascere il nuovo secolo, la leggenda si trasformò
in una strana e fantasiosa superstizione popolare; si diceva che
Perrault fosse diventato un dio, che operasse miracoli e che certe
notti volasse sulla vetta del Karakal per alzare un lume verso il
cielo. C'è sempre, con la luna piena, un chiarore sulla montagna, ma
non occorre che io le dica che mai né Perrault né altri salirono
lassù. Gliene parlo, benché possa sembrare inutile, perché esiste una
grandissima quantità di testimonianze infondate che tendono ad
assicurare che Perrault faceva e poteva fare anche cose impossibili.
Si supponeva, per esempio, che possedesse l'arte della
autolevitazione medianica di cui si parla tanto nei resoconti del
misticismo buddistico, ma la verità è invece che malgrado molti
tentativi, non riuscì ad ottenerla. Riuscì invece a scoprire che
l'affievolimento di alcuni sensi può essere compensato con lo
sviluppo di altri: nella telepatia acquistò un'abilità speciale, e
sebbene non pretendesse di poter guarire gli infermi, v'era nella sua
sola presenza qualcosa che in certi casi aiutava.
"Desidererà sapere in che modo passava il tempo durante questo
periodo di vecchiaia senza precedenti. Si può spiegare così il suo
modo di pensare: non essendo morto in età normale cominciò a ripetere
a se stesso che non c'era motivo perché il fenomeno dovesse o non
dovesse verificarsi in un particolare momento futuro. Essendosi già
riconosciuto fuori dal comune gli era facile persuadersi che questa
anormalità potesse continuare all'infinito, oppure terminare
all'improvviso. E pensando così, cominciò ad agire senza più
preoccuparsi affatto di quella fine di cui si era già tanto curato;
avendo conservato nel cuore, malgrado tanti avvenimenti, i gusti
tranquilli dell'uomo studioso, cominciò a vivere una vita come
l'aveva sempre desiderata, ma che di rado gli era stata possibile.
Dotato di una memoria straordinaria, che pareva aver spezzato i
legami fisici per spaziare in alte regioni di chiarezza ideale, era
quasi convinto di poter imparare qualsiasi cosa con facilità maggiore
di quando, nei lontani giorni studenteschi, si credeva capace di
imparare tutto. Ma naturalmente fu presto a corto di libri; però fra
i pochi che aveva avuto con sé fin da principio v'erano una
grammatica e un dizionario inglese e la traduzione di Montaigne fatta
da Florio, con l'aiuto dei quali riuscì a imparare la vostra lingua.
Nella nostra biblioteca abbiamo ancora il manoscritto di uno dei suoi
primi esercizi: una traduzione in tibetano del saggio di Montaigne
sulla vanità. Un lavoro unico, suppongo".
Conway sorrise. "Mi piacerebbe vederlo, un giorno, se sarà
possibile".
"Col più grande piacere. Lo giudicherà anche lei, forse, un
passatempo di scarso valore pratico; ma non deve dimenticare che
Perrault aveva raggiunto un'età... poco pratica davvero. Se non
avesse trovato il modo di occuparsi avrebbe sentito la solitudine,
per lo meno fino al quarto anno del diciannovesimo secolo, anno che
segna una data importante nella storia della nostra fondazione.
Perché giunse dall'Europa nella vallata della Luna Azzurra un altro
straniero. Era un giovane austriaco che si chiamava Henschell e aveva
combattuto in Italia contro Napoleone: un giovane di famiglia nobile,
di vasta cultura, e di modi assai simpatici. Era stato rovinato dalle
guerre, e attraverso la Russia era passato in Asia con la vaga
intenzione di rifarsi un avvenire. Sarebbe interessante sapere con
precisione come fosse giunto all'altopiano, ma lui stesso non ne
aveva un'idea chiara perché quando arrivò qui era prossimo a morire
come era già accaduto a Perrault. una seconda volta ShangriLa offrì
la sua ospitalità, e lo straniero guarì. Ma a questo punto il
paragone cessa, perché Perrault era giunto per predicare e
convertire, mentre Henschell s'interessò subito ai giacimenti
auriferi. L'unico suo desiderio era di arricchirsi per tornare al più
presto in Europa.
"Invece non ritornò. Accadde una cosa strana; benché si sia
ripetuta poi tante volte che ora potremmo benissimo non chiamarla più
così. La valle, con la sua pace e il suo completo distacco dai crucci
del mondo, lo incantò al punto da fargli rimandare di giorno in
giorno la partenza, finché una volta, udita la leggenda di
ShangriLa, vi salì e conobbe Perrault.
"L'incontro fu storico, nel senso più solenne che possa avere
questa parola. Perrault, benché fosse ormai al di là di ogni
sentimento umano di amicizia o di affezione, era tuttavia ricco di
uno spirito benigno e condiscendente che toccò il giovane come
l'acqua reca beneficio a un terreno arso dal sole. Non cercherò di
descriverle i sentimenti che sorsero fra i due: l'uno diede completa
adorazione, l'altro fece partecipe il nuovo venuto della scienza,
delle sue estasi, del sogno pazzo che era diventato ormai l'unica
realtà della sua vita".
"Scusi se la interrompo, ma non capisco bene quest'ultima frase".
"Lo so". La risposta, sospirata appena, esprimeva una profonda
simpatia. "Sarebbe straordinario che potesse capire. Ho intenzione di
spiegarglielo prima che il nostro colloquio sia terminato, ma ora, mi
perdoni, vorrei limitarmi alle cose più semplici. La interesserà
sapere che fu Henschell a cominciare le nostre collezioni di arte
cinese, e a fare i primi acquisti per quel che riguarda la biblioteca
e la musica. Fece un interessante viaggio a Pechino e ne riportò il
primo materiale nel 1809. Da allora non lasciò mai più la valle, ma
fu la sua ingegnosità ad architettare il complicato sistema grazie al
quale il monastero fu in seguito capace di procurarsi dal mondo
esterno tutto il necessario".
"Vi sarà stato facile fare i pagamenti in oro".
"Sì, siamo stati fortunati nel possedere scorte di questo metallo
tanto stimato in altre parti del globo".
"Tanto stimato che è stata per voi una vera fortuna poter schivare
una corsa all'oro".
Il Gran Lama chinò il capo con un lievissimo cenno di consenso.
"Questa fu sempre la paura di Henschell, mio caro Conway. Aveva
ogni cura perché i portatori di libri e di tesori d'arte non si
avvicinassero troppo; li obbligava a lasciare i loro carichi a una
giornata di distanza; noi mandavamo poi gli uomini della nostra valle
a ritirarli. Fece pure in modo che all'entrata del valico vegliassero
sempre delle sentinelle. Ma s'accorse che esisteva una difesa più
facile o definitiva".
"Davvero?". L'accento di Conway, benché controllato, ebbe una
vibrazione intensa.
"Come vede, è inutile temere l'invasione di un esercito; date le
distanze, e la natura del paese, non sarà mai possibile. Tutt'al più
ci si potrà aspettare l'arrivo di pochi vagabondi quasi sperduti e
così indeboliti dalle difficoltà del viaggio da non costituire alcun
pericolo anche se fossero armati. Perciò fu deciso che da quel giorno
in avanti gli stranieri sarebbero potuti arrivare liberamente, però
con una clausola importante. Arrivarono di quando in quando, col
passar degli anni, alcuni stranieri; mercanti cinesi desiderosi di
attraversare l'altipiano talvolta scelsero a caso questa direzione,
fra le molte altre possibili; nomadi tibetani, allontanatisi dalle
loro tribù, si perdettero qui talvolta, come animali sfiniti. Furono
tutti bene accolti, ma parecchi raggiunsero il rifugio della valle
soltanto per morirvi. Nell'anno di Waterloo due missionari inglesi
che viaggiavano verso Pechino, valicarono le catene di monti
attraverso un passo sconosciuto ed ebbero la straordinaria ventura di
arrivare qui tranquillamente come per una visita. Nel 1820 un
commerciante greco, accompagnato da alcuni servi affamati e malati,
fu trovato morente sul più alto crinale del passo. Nel 1822 due
spagnoli, che avevano sentito parlare vagamente di oro, giunsero qui
dopo molto vagabondare e molte disillusioni. Nel 1830 vi fu maggiore
affluenza. Due tedeschi, un russo, un inglese e uno svedese fecero la
pericolosa traversata dei TianShan, spinti da uno scopo che andava
acquistando popolarità: l'esplorazione scientifica. Verso l'epoca del
loro arrivo era avvenuta a ShangriLa una leggera modifica circa le
accoglienze da farsi ai forestieri. Non solo erano i benvenuti se
capitavano per caso nella valle, ma si era presa l'abitudine di andar
loro incontro se si avventuravano entro un certo raggio. Tutto questo
per una ragione di cui parleremo poi, ma il punto importante è che il
monastero non era più indifferente riguardo ai suoi ospiti; aveva già
bisogno e desiderio di nuovi arrivi. E veramente negli anni che
seguirono accadde a più di un gruppo di esploratori, felici del loro
primo lontano sguardo al Karakal, di incontrare dei messaggeri latori
di un cordiale invito che veniva raramente rifiutato.
"Intanto il monastero cominciava a prendere molte delle sue
caratteristiche attuali. Devo insistere sul fatto che Henschell era
abilissimo e intelligente, e che lo ShangriLa di oggi deve a lui
altrettanto quanto al suo fondatore. Non meno; lo penso spesso. La
sua era quella mano ferma eppure buona di cui ogni istituzione ha
bisogno a un certo punto della sua ascesa; e la sua perdita sarebbe
stata irreparabile se prima di morire non avesse compiuto una
quantità di lavoro molto superiore a quella di una normale esistenza
umana".
Conway alzò gli occhi e, debolmente come un'eco, esclamò: "Dunque è
morto!".
"Sì. Una cosa improvvisa. Fu ucciso. Era l'anno della vostra
ribellione indiana. Poco prima della sua morte un artista cinese
aveva disegnato il suo ritratto... glielo posso mostrare ora, è in
questa camera".
Il lieve gesto della mano fu ripetuto, e il servo entrò nuovamente.
Conway, come uno spettatore ipnotizzato, vide il tibetano scostare
una tenda all'altro capo della stanza e appendere una lanterna
nell'ombra. Poi udì il bisbiglio che lo invitava ad avvicinarsi, il
bisbiglio risuonante ormai al suo orecchio come una ben nota musica.
Si alzò vacillando e traversò la stanza fino al tremulo cerchio di
luce. Il disegno era piccolo, poco più di una miniatura in inchiostri
colorati, ma l'artista era riuscito a dare alle carni un tono cereo
di grande delicatezza. I tratti del viso erano molto belli, di una
linearità quasi femminile, e Conway, oltre ai suggestivi fascini del
tempo, della morte e dell'arte, trovò in quella bellezza qualcosa che
gli toccò il cuore. Ma ancor più strano fu ciò che scoprì dopo il suo
primo impeto di ammirazione: il viso era quello di un giovane.
Tornando indietro balbettò: "Ma... ha detto... che questo ritratto...
fu dipinto poco prima della sua morte...".
"Sì. Gli somiglia moltissimo".
"Eppure, se è morto nell'anno in cui asserisce...".
"Sì".
"Ed è arrivato qui nel 1803, ha detto, quando era giovane?".
"Sì".
Conway non rispose subito, poi con uno sforzo si riprese e domandò:
"Mi diceva che è stato ucciso?".
"Sì, fu ucciso da un inglese; un altro esploratore; da poche
settimane a ShangriLa".
"Per quale motivo?".
"Aveva litigato a proposito di alcuni portatori. Henschell gli
aveva appena comunicato la condizione che regola la nostra
accoglienza degli ospiti: compito un po' difficile, che d'allora in
poi, malgrado la mia debolezza, sono stato costretto a eseguire io
stesso".
Il Gran Lama fece un'altra pausa più lunga, in cui c'era una muta
domanda; poi continuò:
"Forse sta cercando, caro Conway, quale possa essere questa
condizione?".
Conway rispose lentamente e a bassa voce:
"Credo di aver già indovinato".
"Davvero? E non può indovinare altro, dopo questa mia lunga e
strana storia?".
Conway provava un senso di vertigine che gli impediva di
rispondere: la stanza era come un vortice d'ombre al cui centro
stesse quel benevolo personaggio antico. Aveva ascoltato la
narrazione con tale intensità che forse non aveva potuto afferrar
bene tutto, ma ora si impadroniva di lui uno stupore profondo, e la
certezza che si faceva largo nel suo cervello lo soffocava
mozzandogli le parole.
"Pare impossibile" balbettò. "Eppure non posso fare a meno di
pensare... è stupefacente... è straordinario... incredibile... ma non
è al di là della mia comprensione...".
"Che cosa, figlio mio?".
E Conway, scosso da un'emozione irrazionale che tuttavia non tentò
di nascondere, rispose:
"Che lei sia ancora in vita, Padre Perrault".
Viii
Vi fu una pausa, causata dal desiderio del Gran Lama di prendere
ancora un po' di tè; Conway non se ne meravigliò, perché dopo un
racconto così prolungato il vecchio doveva provare una tensione
nervosa piuttosto forte. E lui stesso desiderava un attimo di riposo.
Sentiva che quest'intervallo era necessario anche da un punto di
vista estetico, e che le tazzine del tè, col loro accompagnamento
convenzionale di cortesie apparentemente improvvisate, avevano la
stessa funzione che ha la cadenza alla fine di un brano musicale.
Questo suo pensiero ebbe come conseguenza immediata una strana
dimostrazione del potere telepatico del Gran Lama (o fu soltanto
coincidenza casuale?) perché questi cominciò subito a parlare di
musica rallegrandosi che almeno in questo i gusti di Conway avessero
trovato appagamento a ShangriLa. Conway rispose con la dovuta
cortesia e aggiunse che era rimasto molto sorpreso nel trovare al
monastero una raccolta di composizioni europee tanto completa. Il
complimento parve ben accetto, durante il lento sorseggiare del tè.
"In questo, mio caro Conway, siamo assai fortunati, perché uno dei
nostri è un musicista di valore. E' stato infatti allievo di Chopin,
e abbiamo affidato a lui con gioia l'intera direzione della nostra
sala da musica. Sarà bene che lo conosciate".
"Molto volentieri. So già da Chang che fra i musicisti
dell'Occidente il vostro favorito è Mozart".
"E' vero" rispose. "Mozart possiede un'eleganza austera che
corrisponde ai nostri gusti. Egli costruisce una casa non troppo
grande né troppo piccola, e la ammobilia con sensibilità perfetta".
Questo scambio di commenti continuò finché le tazze del tè furono
portate via, e dopo quella breve interruzione Conway si sentì in
grado di osservare con calma: "Così, per continuare la nostra
discussione di prima, la sua intenzione verso me e i miei compagni è
di trattenerci qui? La condizione importante e inevitabile è questa,
io credo".
"Ha indovinato, figlio mio".
"E dobbiamo rimanere qui per sempre?".
"Preferirei servirmi della vostra eccellente lingua inglese e
invece di dire "per sempre" direi: tutti quanti noi siamo qui... per
il meglio".
"Ciò che non riesco a capire è perché siamo stati scelti proprio
noi quattro fra tutti gli abitanti del mondo".
Riprendendo il suo pomposo modo di prima, il Gran Lama rispose: "E'
una storia un po' complessa. Dovete sapere che fin dall'inizio ci
siamo proposti di mantenere il reclutamento, per quanto è possibile,
in numero costante, e che, a parte ogni altra ragione, è molto
piacevole avere fra noi gente di varia età e che rappresenti periodi
storici differenti. Ma disgraziatamente dopo la guerra europea e la
rivoluzione russa, i viaggi e le esplorazioni nel Tibet sono quasi
completamente cessati; infatti l'ultimo nostro ospite, un giapponese,
arrivò nel 1912, e non fu neppure un acquisto molto prezioso. Devo
dirle, mio caro Conway, che noi non siamo affatto ciarlatani, e
perciò non possiamo né vogliamo garantire il successo del nostro
sistema. Alcuni fra i nostri ospiti non traggono alcun beneficio dal
loro soggiorno qui; altri vivono soltanto fino a un'età normalmente
avanzata, poi muoiono per indisposizioni da nulla. Abbiamo in
generale rilevato che i tibetani, avvezzi a quest'altitudine e alle
rimanenti condizioni di vita, soffrono molto meno delle altre razze;
sono gente simpatica, e ne abbiamo ricevuti molti; ma temo che ben
pochi di loro sopravvivranno oltre i cento anni. I cinesi resistono
meglio, ma anche con loro abbiamo avuto numerosi insuccessi. Senza
dubbio i soggetti migliori sono per noi le razze europee latine e
nordiche: forse sarebbero ugualmente adatti gli americani degli Stati
Uniti e stimo una fortuna che vi sia tra i suoi compagni un cittadino
di quella nazione. Comunque, per tornare sulla via che mi farà
rispondere alla sua domanda, la nostra posizione, come le spiegavo,
era dunque questa: per circa due decadi non avevamo accolto nessun
nuovo venuto, e siccome parecchi degli adepti erano morti, si
affacciava il problema di sostituirli. Ma qualche anno fa uno dei
nostri ci venne in aiuto con un'idea nuova: era un giovane della
nostra vallata, degno di tutta la fiducia e simpatizzante con gli
scopi propostici; purtroppo, come si verificava sempre per tutti
quelli della valle, a lui era negato per natura ciò che viene più
fortunatamente accordato a quelli del mondo lontano. Si offrì di
partire, di raggiungere le terre circostanti e di portarci dei nuovi
compagni servendosi di un mezzo che sarebbe stato impossibile in età
precedente. La proposta ci parve sulle prime rivoluzionaria, ma dopo
matura riflessione acconsentimmo. Perché bisogna camminare coi tempi
nuovi, anche a ShangriLa".
"Vuole dire che fu mandato col preciso compito di riportare
qualcuno per via aerea?".
"Era un giovane intelligentissimo e di molte risorse, e noi avevamo
in lui grande fiducia. Fu un'idea sua e si diede carta bianca per
eseguirla. Tutto ciò che sapevamo era che la prima parte del suo
progetto comprendeva un periodo di addestramento in una scuola di
volo americana".
"Ma come poté compiere il resto? Fu puro caso che un aereo di quel
tipo si trovasse a Baskul...".
"E' vero, caro Conway, molte cose accadono per caso. E il caso che
Talu attendeva era proprio quello. Se avesse perduto quell'occasione,
avrebbe dovuto aspettare un anno o due, e forse inutilmente. Vi
confesso la mia sorpresa quando le sentinelle ci avvertirono del suo
atterraggio sull'altipiano. In aviazione i progressi sono molto
rapidi, ma a me sembrava che dovesse occorrere un tempo maggiore
prima che un apparecchio normale potesse attraversare queste
montagne".
"Ma non si trattava di un apparecchio normale. Era stato costruito
apposta per voli a grandi altezze".
"Un altro caso?... Il nostro giovane fu davvero fortunato. Peccato
non poterne parlare con lui: la sua morte ci addolorò molto. Talu le
sarebbe piaciuto, Conway".
Conway annuì; lo trovava possibile. Poi, dopo un breve silenzio,
domandò: "Ma qual è infine il suo proposito?".
"Figlio mio, il modo con cui mi rivolge questa domanda mi dà un
infinito piacere; nel corso della mia lunga esperienza non mi era mai
stata rivolta in tono così pacato. Prima d'ora la mia rivelazione è
stata accolta in tutti i modi immaginabili; con indignazione,
spavento, furia, incredulità, isterismo; mai con semplice interesse.
Io accetto con tutto il cuore questa sua disposizione di spirito.
Oggi sente interesse, domani sarà ansioso, e chissà, in avvenire
potremo contare sul suo consenso devoto".
"Lei ora dice molto di più di quanto io possa prometterle".
"Anche il suo dubbio mi piace: è la base di una fede profonda e
sensata... Ma non divaghiamo. Sente interesse, e per un uomo come lei
è molto. L'unica richiesta in più è di non svelare, per ora, ai suoi
compagni ciò che sto per dirle".
Conway tacque.
"Verrà il giorno in cui anche loro sapranno, ma è meglio non
affrettare quel momento. Sono così certo della sua saggezza in
proposito che non le domando una promessa; lei agirà, lo so, come
pensiamo entrambi che sia meglio... Ora lasci che io le tracci un
quadro molto piacevole. Lei è ancora abbastanza giovane; ha dinanzi
tutto un avvenire, come suol dirsi: e normalmente la sua attività
dovrebbe, per venti o trent'anni ancora, diminuire di ben poco. Una
prospettiva lieta, che certamente lei è lontanissimo dal considerare
come la considero io sotto il mio speciale punto di vista: un troppo
rapido e affannoso intermezzo. Il primo quarto di secolo della sua
vita è stato da lei indubbiamente vissuto nella nebbia dell'esser
troppo giovane per le cose, mentre l'ultimo quarto sarà normalmente
oscurato per lei da quella nebbia ancor più fitta dell'esser troppo
vecchio per esse: fra queste due nubi che piccolo e stretto raggio di
sole illumina una vita umana! Ma può darsi che lei sia più fortunato
degli altri, perché, secondo le norme e i calcoli di ShangriLa, i
suoi anni di sole sono appena incominciati. Le accadrà forse, tra
qualche decennio, di sentirsi tale e quale come oggi; lei potrà forse
conservare a lungo, come fece Henschell, una meravigliosa giovinezza,
ma badi, questa sarà soltanto una prima fase superficiale. Verrà un
tempo in cui invecchierà come gli altri, anche se in modo meno
rapido, e in condizioni meno avvilenti; a ottant'anni potrà salire
fino al valico con l'andatura di un giovane, ma non speri che questa
cosa meravigliosa possa continuare quando avrà raggiunto il doppio di
quell'età. Noi non facciamo miracoli, noi non abbiamo vinto la morte,
e neppure il decadimento. Tutto ciò che abbiamo fatto, e che possiamo
fare talvolta, è allargare i tempi di questo intervallo che si chiama
vita. E lo otteniamo con metodi che sono tanto semplici qui quanto
sarebbero impossibili altrove; ma non s'inganni, la fine ci attende
poi tutti.
"Io le svelo tuttavia una prospettiva piacevole, lunghe ore di
calma durante le quali osserverà un tramonto come gli uomini del
mondo esterno ascoltano lo scoccare delle ore, e con preoccupazione
molto minore. Verranno gli anni, e passeranno, e lei dai godimenti
della carne passerà in regni più austeri, ma di non minore
soddisfazione; perderà la forza dei muscoli, e l'aspetto giovanile,
ma un nuovo guadagno la ripagherà di questa perdita: raggiungerà la
calma e la profondità, la maturità e la saggezza, e l'incantevole
limpidezza della memoria. E, tesoro più prezioso di ogni altro, avrà
il tempo, dono raro e bellissimo che nei vostri paesi occidentali si
perde quanto più lo si ricerca. Rifletta un momento. Potrà leggere a
suo agio; non salterà più le pagine per risparmiare qualche minuto,
né tralascerà uno studio per timore che poi la assorba troppo. Lei
ama la musica, ha detto; ebbene, ecco qui partiture e strumenti, e
tutto il tempo e la calma per penetrarne l'intera bellezza. E lei è
pure, posso dirlo, un uomo di buona compagnia; non si rallegra al
pensiero di sagge e serene amicizie, di un lungo amichevole scambio
mentale da cui la morte non la strapperà con la sua fretta consueta?
Oppure, se preferisce la solitudine, potrà servirsi dei nostri vasti
cortili e appartamenti per arricchire la mente in pensieri
solitari...".
La voce si fermò creando una pausa che Conway non volle riempire.
"Vedo che non fa alcun commento, mio caro Conway. Perdoni la mia
eloquenza; io appartengo a un'epoca e a una nazione che non hanno mai
considerato di cattivo gusto il dono della favella... Ma forse lei
sta pensando a una moglie, a genitori, a figlioli, lasciati laggiù
nel mondo? Mi creda, benché ora ne possa provare una pena acuta, fra
un decennio non sentirà più, di questa pena, neppure l'ombra. Ma
direi, leggendole negli occhi, se non erro, che lei non abbia alcuna
di tali preoccupazioni".
Conway fu colpito da quel giudizio così esatto.
"E' proprio così" rispose. "Non ho moglie; ho pochi amici veri, e
nessuna ambizione speciale".
"Nessuna ambizione? Come ha fatto a salvarsi da una malattia tanto
diffusa?".
Conway si accorse che ora, dopo aver lungamente ascoltato, stava
prendendo parte attiva alla conversazione. "Gran parte di quel che
nella mia professione è considerato buon successo mi è riuscito
sempre antipatico, e richiedeva, secondo me, più sforzo del
necessario. Ero nel servizio consolare in un posto affatto in
sottordine, ma per me andava benissimo".
"Ma non vi dedicava tutto se stesso?".
"No, non tutto me stesso, e neppure metà delle mie energie. Io sono
di natura piuttosto pigro".
Le rughe si accentuarono e si intrecciarono sul viso del Gran Lama,
tanto che parve a Conway ch'egli sorridesse.
"Esser pigri nel fare certe cose può anche essere una virtù"
continuò la debole voce sussurrante. "In ogni caso vedrà che noi non
pretendiamo mai troppo. Credo che Chang le abbia spiegato il nostro
principio della moderazione, e una delle cose in cui siamo sempre
moderati è appunto l'attività. Io stesso, per esempio, sono stato
capace di imparare dieci lingue: avrei potuto impararne venti
lavorando smodatamente. Ma non l'ho fatto. E accade lo stesso nelle
altre cose: non ci troverà né uomini dissoluti né asceti. Finché non
raggiungiamo quell'età in cui è necessario aver cura di noi stessi,
gustiamo volentieri i piaceri della tavola, mentre per i nostri
colleghi più giovani le donne della vallata hanno felicemente
applicato il principio della moderazione alla loro castità. Tutto
considerato, credo che lei si abituerà senza difficoltà al nostro
sistema di vita. Chang era in proposito molto ottimista, e lo sono
anch'io dopo questo nostro incontro. Ma devo ammettere che c'è in lei
una strana caratteristica che non avevo mai trovato in alcuno dei
nostri ospiti. Non è proprio cinismo, e ancor meno amarezza; forse è
in parte un senso di delusione, ma anche una chiarezza di idee che
non mi sarei mai aspettato in nessun uomo di età diciamo inferiore a
un secolo, o giù di lì. Lei è, per dirlo in una parola: spassionato".
Conway rispose: "Una parola, nel mio caso, abbastanza espressiva.
Non so se lei abbia l'abitudine di classificare la gente che giunge
qui, ma se lo fa può scrivere per me così: 1914-1918. Credo che
costituirei un campione unico nel suo museo di antichità. I tre che
sono giunti con me non hanno niente a che fare con questa categoria.
Io ho consumato durante quei quattro anni la maggior parte delle mie
energie e delle mie passioni, e benché non ne parli molto, la sola
cosa che ho chiesto al mondo dopo di allora è di esser lasciato in
pace. Trovo in questo luogo un fascino e una quiete che mi toccano, e
senza dubbio, come ha detto lei, mi ci abituerò".
"E questo è tutto, figlio mio?".
"Credo di applicar bene a me stesso la vostra regola di
moderazione; non le pare?".
"Lei è intelligente: Chang me l'aveva detto che è molto
intelligente. Ma dica, nella prospettiva che le ho delineato non v'è
nulla che le susciti un sentimento più forte?".
Conway tacque a lungo, poi rispose:
"Il suo racconto del passato mi ha fatto una profonda impressione,
ma se devo essere sincero, il suo progetto circa il futuro mi
interessa soltanto in astratto. Non so guardare così lontano. Mi
spiacerebbe certamente dover lasciare ShangriLa domani, o la
settimana prossima, o magari l'anno venturo, ma non posso prevedere
adesso quel che penserei in proposito quando avessi cent'anni. Sento
di poter considerare serenamente questo avvenire come qualsiasi
altro; ma perché io mi ci appassioni devo avere uno scopo. Mi son
chiesto più di una volta se la vita stessa abbia uno scopo; e se non
l'ha, una vita lunghissima deve essere ancora più insulsa...".
"Le tradizioni di questo monastero, buddiste e cristiane insieme,
offrono forza e fiducia, amico mio".
"Può darsi. Ma temo di aver bisogno d'una ragione molto chiara e
precisa, prima di risolvermi a invidiare i centenari...".
"Una ragione c'è, ed è chiara e precisa. La trova in questa colonia
di stranieri riuniti dal caso per vivere oltre il loro normale
termine di vita. Non è un esperimento vano, e neppure un capriccio
assurdo, il nostro. Abbiamo un sogno e una visione. E' la stessa
visione che apparve la prima volta al vecchio Perrault quando giaceva
morente in questa stanza nel 1789. Come le ho già detto, rivedeva col
pensiero tutta la sua lunga vita, e gli pareva che le cose più belle
fossero passeggere e caduche, e che la guerra, la concupiscenza e la
brutalità le avrebbero un giorno schiacciate fino a non lasciarne più
traccia. Ricordò avvenimenti già visti con i propri occhi, e con la
mente ne immaginò altri; vide le nazioni farsi più forti, non in
saggezza ma per passioni volgari e per volontà di distruggere; vide
la potenza delle loro macchine moltiplicarsi al punto che un solo
uomo armato avrebbe potuto gareggiare con un intero esercito del Gran
Re. E si accorse che non appena avessero riempito d'orrore e di
rovine la terra e il mare si sarebbero rivolti all'aria... Può dire
che questa visione non fosse vera?".
"Verissima, purtroppo".
"Ma non era tutto. Previde il tempo in cui gli uomini, inebriati
dalla nuova tecnica dell'omicidio, si sarebbero accaniti a tal punto
contro il mondo intero che ogni cosa bella sarebbe stata in pericolo,
che ogni libro, ogni quadro, ogni musica, i tesori custoditi per due
millenni, le cose più sublimi, delicate, senza difesa, si sarebbero
perdute per sempre, come i libri di Livio, o sarebbero state
saccheggiate come gli inglesi saccheggiarono il Palazzo d'Estate a
Pechino".
"Condivido perfettamente la sua opinione".
"E' naturale. Ma che cosa contano contro il ferro e l'acciaio le
opinioni di uomini ragionevoli? Mi creda, la visione del vecchio
Perrault diverrà realtà. Ed è per questo che io son qui, figlio mio,
e che c'è lei, e che dobbiamo pregare di poter sopravvivere al fato
che da ogni parte ci si stringe attorno".
"Sopravvivere?".
"Una probabilità c'è. Prima che lei sia vecchio quanto me tutto
sarà passato".
"E ShangriLa potrà sfuggire al comune destino?".
"Forse. Aspettarci misericordia è inutile; ma possiamo sperare che
per trascuratezza il fato ci lasci in disparte. Staremo qui con i
nostri libri, con la nostra musica, con le nostre meditazioni, a
custodire le fragili eleganze di un'età moribonda, cercando quella
saggezza di cui gli uomini avranno tanto bisogno quando le loro
passioni si saranno consumate. Abbiamo un patrimonio da amare e da
tramandare. Fino al giorno in cui dovremo lasciarlo agli eredi,
accettiamo dunque i piaceri che ci sono concessi".
"E poi?".
"Poi quando i forti si saranno divorati l'un l'altro, figlio mio,
allora forse l'etica cristiana finalmente trionferà, e sarà dato ai
mansueti il regno della terra".
Una sfumatura di enfasi arricchì il mormorio, e Conway ne fu
conquistato; allora sentì intorno a sé l'ondata di oscurità, ma
simbolicamente, come se il mondo esterno si preparasse già per
l'uragano. Vide allora che il Gran Lama stava per muoversi, lo vide
sorgere dalla sedia, star ritto come l'incarnazione di un'ombra.
Conway venne avanti per aiutarlo ma, colto improvvisamente da un
nuovo irresistibile impulso, fece quel che non aveva mai fatto
dinanzi a nessun uomo: s'inginocchiò senza quasi sapere il perché.
"La comprendo, padre", disse.
In qual modo poi si fosse congedato non riuscì a ricordarlo.
Passando dal calore di quelle stanze là in alto all'aria gelida della
notte s'era come svegliato da un sogno, e trovandosi in presenza di
Chang, silenziosamente sereno, aveva attraversato con lui i cortili
sotto la luce delle stelle. ShangriLa non aveva mai offerto ai suoi
occhi una così grande e completa bellezza: gli pareva che la vallata
fosse lì subito oltre l'orlo del dirupo, e se l'immaginava come
un'acqua calmissima in perfetto accordo con la pace dei suoi
pensieri. Conway aveva ormai superato anche il sentimento della
meraviglia. Quella lunga conversazione, così ricca di fasi, l'aveva
liberato di tutto, lasciandogli soltanto una piena soddisfazione
della mente, dei sentimenti, e dello spirito; nemmeno i dubbi lo
tormentavano più; erano entrati anch'essi a far parte dell'intero
tessuto armonico. Né Chang né lui parlarono. Era molto tardi, e
Conway fu contento che tutti gli altri fossero già andati a letto.
Ix
La mattina dopo Conway fantasticò a lungo se tutto ciò che gli
tornava alla memoria non appartenesse a una visione avuta dormendo o
vegliando.
Ma fu presto costretto a ricordare con precisione. Quando si
presentò a colazione fu accolto da un coro di domande.
"Che discorso lungo ieri col principale..." cominciò l'americano.
"Che tipo è?".
"Ha detto qualcosa riguardo i portatori?" chiese avidamente
Mallinson.
"Spero che gli avrà parlato dell'utilità di far stabilire qui un
missionario" disse Miss Brinklow.
L'attacco indusse Conway a preparare le consuete armi difensive.
"Temo di dover dare una delusione a tutti" cominciò scegliendo la
via più facile. "Non gli ho accennato affatto la questione delle
missioni; non mi ha parlato di portatori, e quanto al suo aspetto
posso dirvi soltanto che è vecchissimo, che parla l'inglese molto
bene, e che è proprio intelligente".
Mallinson interruppe irritato. "La cosa più importante per noi è
sapere se ci si possa fidare o no. Crede che voglia ingannarci?".
"Non mi ha dato l'impressione di essere disonesto".
"Come mai non ha insistito riguardo i portatori?".
"Non ci ho pensato".
Mallinson lo fissò incredulo. "Non la capisco più, Conway. A Baskul
ha condotto talmente bene la faccenda ch'io non posso credere che sia
lo stesso uomo. Sembra andato in pezzi".
"Me ne dispiace".
"Non serve che gliene dispiaccia. Dovrebbe mettersi di puntiglio e
interessarsi di quel che ci capita".
"Mi ha frainteso. Volevo dire che mi dispiace di deluderla".
La voce di Conway era asciutta come se cercasse di mascherare i
suoi sentimenti, i quali, del resto, erano talmente confusi che
nessuno sarebbe riuscito a indovinarli. Si era meravigliato lui
stesso della sua facilità a fuorviare ogni indagine: era chiaro che
intendeva seguire il consiglio del Gran Lama e mantenere il segreto.
E si stupiva pure della sua naturalezza nell'accettare una posizione
che i suoi compagni avrebbero giudicato, non senza motivo, come un
tradimento verso di loro: certo, come aveva detto Mallinson, da un
eroe c'era da aspettarsi ben altro. Conway provò per il giovane
un'improvvisa e pietosa tenerezza; poi si irrigidì pensando che
quando si ha il culto di un eroe bisogna essere preparati alle
delusioni. A Baskul Mallinson era stato il novellino che adora il suo
caposquadra; ora questi vacillava... era forse già caduto dal
piedistallo. E' sempre triste il crollo di un ideale, anche se
illusorio; l'ammirazione di Mallinson avrebbe potuto almeno in parte
consolare Conway della fatica di fingersi ciò che non era. Ma ora non
si poteva più fingere. C'era nell'aria di ShangriLa un che, dovuto
forse all'altezza, che impediva lo sforzo di un'emozione simulata.
Conway disse: "Senta, Mallinson, è inutile continuare a ricordare
Baskul. allora era diverso; era completamente diversa anche la
nostra situazione".
"Diversa e più sana. Sapevamo almeno cosa ci aspettava".
"Per esser precisi ci aspettavano assassinii e rapine. Se vuole,
può chiamarli più sani".
La voce del giovane si fece più acuta:
"Sì, in un certo senso li dico davvero più sani. Preferisco un
chiaro pericolo di fronte, piuttosto che tutti questi misteri". Poi
continuò all'improvviso: "Per esempio, quella ragazza cinese... Come
ha potuto arrivare qui? Gliel'ha detto il Gran Lama?".
"No, perché avrebbe dovuto dirmelo?".
"E lei perché non glielo ha chiesto, se la interessa? Trova tanto
naturale che una ragazza così giovane viva in un monastero in mezzo
ai monaci?".
"Questo non è un monastero come gli altri" fu la sola risposta che
poté dare dopo averci pensato.
"Non lo è davvero, Dio mio!".
Tacquero perché evidentemente era difficile continuare la
discussione. La storia di LoTsen pareva a Conway lontana
dall'argomento; la piccola manciù stava così quietamente nei suoi
pensieri che quasi non se ne accorgeva. Ma appena si parlò di lei,
Miss Brinklow alzò gli occhi dalla grammatica tibetana che stava
studiando anche durante la colazione; (e Conway pensò segretamente
che per far ciò avrebbe avuto tempo tutta la vita). A proposito di
ragazze e di monaci le tornavano in mente quelle storie di templi
indiani che i missionari protestanti raccontavano alle loro mogli, e
che queste riferivano poi alle loro colleghe zitelle.
"Si sa già" disse a denti stretti "che in questi luoghi la morale è
disastrosa; ce lo potevamo aspettare". Si volse a Barnard, come a
chiedergli approvazione, ma l'americano si limitò a fare una smorfia.
"Non credo che voialtri ci teniate molto a conoscere la mia
opinione in materia di morale" osservò seccamente. "Ma se posso
esprimere anch'io un mio pensiero, dico che litigare non serve a
nulla. Giacché siamo obbligati a star qui ancora un bel po', tanto
vale non arrabbiarsi e prender le cose con calma".
Conway trovò l'esortazione giudiziosa, ma Mallinson non si placava.
"Lei, si capisce" disse con intenzione, "starà meglio qui che a
Dartmoor".
"Dartmoor? Il vostro grande penitenziario? Sfido! Non ho mai
invidiato chi vi abita. E devo dirle anche un'altra cosa: a prendermi
in giro così, non creda di offendermi. Pelle dura e cuore tenero,
ecco come son fatto".
Conway lo guardò con una certa stima, poi si volse a Mallinson
quasi a rimproverarlo, ma ebbe a un tratto la sensazione che stessero
tutti quanti recitando su un grande palcoscenico di cui lui fosse
l'unico a conoscere lo sfondo, e saperlo e doverlo tacere gli diede
un desiderio improvviso di stare solo. Con un cenno di saluto uscì
nel cortile. Ogni disagio svanì in vista del Karakal, e i rimorsi
verso i tre compagni si dileguarono in una misteriosa accettazione di
quel nuovo mondo così lontano dal loro spirito. Verrà un tempo,
pensò, in cui l'evidente mistero di tutte le cose renderà ancora più
difficile la spiegazione di qualche mistero singolo; e allora si
accerterà tutto senza più stupirsi. Aveva dunque già tanto progredito
a ShangriLa; e ricordò che un'imparzialità simile, ma assai meno
piacevole, l'aveva già raggiunta durante i suoi anni di guerra. Per
adattarsi alla doppia vita cui sarebbe stato costretto, aveva bisogno
di essere imparziale. Coi compagni, d'ora in poi, avrebbe dovuto
vivere in una ristretta zona controllata dal pensiero dell'arrivo dei
portatori e del ritorno in India ma negli altri momenti l'orizzonte
si alzava per lui come un sipario, il tempo si allargava e lo spazio
si restringeva, e il nome di Luna Azzurra assumeva un significato
simbolico. Si chiedeva quale delle due vite fosse la più reale, ma il
problema non era urgente; e di nuovo ripensava alla guerra, perché
durante i bombardamenti aveva avuto la stessa sensazione confortante
di possedere diverse vite, di cui una sola poteva esser reclamata
dalla morte.
Naturalmente ora Chang gli parlava senza più riserve e avevano
lunghe conversazioni sulle regole e l'andamento del monastero. Così
Conway imparò che durante i primi cinque anni avrebbe vissuto una
vita normale, senza alcun regime speciale; ciò si faceva sempre,
diceva Chang, "per abituare il corpo all'altitudine ed anche per dare
ai rimpianti sentimentali e morali il tempo di disperdersi".
Conway osservò sorridendo:
"Dunque siete certi che non esista sentimento capace di
sopravvivere a una lontananza di cinque anni?".
"Certo può sopravvivere, ma soltanto come una lieve fragranza di
cui potremo poi gustare la malinconia".
E Chang continuò a spiegare che dopo i cinque anni di noviziato
sarebbe iniziata la pratica del sistema per ritardare la vecchiaia.
In caso di favorevole riuscita Conway avrebbe potuto vivere circa
mezzo secolo ancora dimostrando in apparenza una quarantina d'anni:
età bellissima per rimanervi fermi a lungo.
"E che cosa mi dice di lei? Che risultato si è avuto nel suo
caso?".
"Ah, caro signore, io ho avuto la fortuna di arrivare qui
giovanissimo; avevo solo ventidue anni. Ero militare; comandavo delle
truppe che nel 1855 operavano contro tribù di briganti. Stavo facendo
coi miei soldati una ricognizione, ma non potei tornare indietro a
riferirne il risultato ai superiori perché mi perdetti nelle
montagne. Dei miei cento uomini solo sette sopravvissero ai rigori di
questo clima. Quando fui finalmente soccorso e condotto a ShangriLa
ero così mal ridotto in salute che fui salvato soltanto dalle risorse
della mia giovinezza".
"Ventidue anni" ripeté Conway mentre faceva mentalmente un conto.
"Perciò ora ne ha novantasette?".
"Sì. Ben presto, se i Lama daranno il loro consenso, riceverò
l'iniziazione completa".
"Capisco. Deve aspettare di aver raggiunto la cifra tonda".
"No, noi non abbiamo veramente un limite fisso, ma in generale si
ritiene che un secolo sia l'età giusta oltre la quale le passioni e
le fallaci idee di un'esistenza normale sono probabilmente
scomparse".
"Pare anche a me. E dopo l'iniziazione che cosa farà? Per quanto
tempo crede di poter ancora vivere?".
"Spero di entrare nel lamaismo con tutte quelle probabilità che
sono possibili a ShangriLa. Riguardo poi agli anni, avrò forse
davanti a me un altro secolo, e anche più".
Conway assentì. "Mi congratulo con lei, se permette; pare che abbia
avuto il meglio nei due sensi: dietro a lei sta una lunga e felice
gioventù, e di fronte ha una non meno lunga e piacevole vecchiaia. E
quando ha cominciato apparentemente a invecchiare?".
"Quando avevo più di settant'anni. Capita spesso così, benché ancor
oggi sembri forse più giovane di quanto non sia".
"Certamente. E supponendo che lei debba lasciare adesso la valle,
che cosa accadrebbe?".
"Se restassi assente per alcuni giorni, morirei".
"Perciò quest'atmosfera è indispensabile?".
"Esiste una sola vallata della Luna Azzurra, e sarebbe troppo
chiederne alla natura una seconda".
"Ebbene, che cosa sarebbe accaduto se per esempio l'avesse lasciata
trent'anni fa, durante la sua prolungata giovinezza?".
Chang rispose:
"Forse anche allora sarei morto. Avrei in ogni modo preso subito
l'aspetto di un uomo della mia vera età. Alcuni anni or sono ne
avemmo un esempio strano, benché altri esempi meno significativi vi
fossero stati anche prima. Uno dei nostri lasciò la valle per recarsi
ad incontrare alcuni viaggiatori del cui arrivo eravamo stati
informati. Costui era un russo; era giunto qui la prima volta nel
fiore degli anni e si era così bene adattato ai nostri sistemi di
vita che a circa ottant'anni ne dimostrava la metà. Avrebbe dovuto
rimanere assente una sola settimana (il che non avrebbe avuto
importanza per lui) ma disgraziatamente fu fatto prigioniero da
alcune tribù di nomadi e condotto a una certa distanza. Sospettammo
qualche incidente e lo credemmo perduto. Invece, dopo tre mesi circa,
riuscì a fuggire e a tornare a ShangriLa. Ma era del tutto mutato
nell'aspetto e nella persona: rivelava chiaramente la sua età, e morì
poco dopo, come può morire un vecchio".
Conway per un po' non rispose. Erano in biblioteca, e durante quasi
tutto il racconto aveva fissato attraverso la finestra il valico che
conduceva al mondo esterno: una piccola nuvola ne velava gli orli.
"E' una storia poco allegra, Chang" commentò finalmente. "Dà
l'impressione che il tempo sia un mostro in agguato, che ci aspetti
fuori della valle per impadronirsi dei negligenti che son riusciti a
sfuggirgli più a lungo di quanto avrebbero dovuto".
"Negligenti?" chiese Chang. conosceva l'inglese molto bene, ma
talvolta uno speciale modo di dire non gli riusciva del tutto chiaro.
"Negligente" spiegò Conway, "un uomo pigro, un buono a nulla. Non
parlavo sul serio, naturalmente".
Chang s'inchinò per ringraziarlo della spiegazione. S'interessava
molto di lingue e gli piaceva pesare con filosofia ogni nuova parola.
"E' significativo" disse poi, "che gli inglesi considerino la
pigrizia come un vizio. Invece si dovrebbe di gran lunga preferirla
all'iperattivismo. Non ve n'è forse già troppo nel mondo attuale, e
non si vivrebbe meglio se i pigri fossero più numerosi?".
"Quasi quasi sarei d'accordo con lei" rispose Conway con una certa
gravità allegra.
Durante la settimana che seguì il colloquio col Gran Lama, Conway
fece la conoscenza di parecchi fra i suoi futuri colleghi. Chang non
pareva né frettoloso né riluttante nel fare le presentazioni, e
Conway si sentiva avvolto da un'atmosfera nuova e simpatica in cui né
l'urgenza si faceva prepotente, né il ritardo procurava disillusioni.
"Accadrà forse" spiegò Chang "che la conoscenza di alcuni Lama le
sia posticipata di qualche tempo, magari di qualche anno, ma non deve
meravigliarsene. Sono pronti a conoscerla alla prima occasione, ma se
non dimostrano fretta ciò non significa affatto che non ne abbiano il
desiderio". Conway, che aveva provato spesso una sensazione simile
quando doveva far visita ai nuovi addetti dei Consolati stranieri,
comprendeva appieno la disposizione d'animo dei Lama.
In ogni caso gli incontri che fece gli andarono a genio, e la
conversazione con uomini che avevano tre volte la sua età non
risentiva affatto di quel lieve imbarazzo mondano tanto frequente a
Londra o a Delhi. Il primo con cui parlò fu un tedesco piuttosto
gioviale chiamato Meister, che era entrato nel monastero verso il
1880, ed era l'unico superstite di una spedizione esploratrice. Si
esprimeva in un buon inglese, con un lieve accento straniero. Dopo
due o tre giorni ebbe luogo una seconda presentazione, e Conway
conobbe e parlò per la prima volta con colui che il Gran Lama gli
aveva già nominato in modo particolare: Alphonse Briac, un francese
di piccola statura, magro, che non pareva affatto vecchio benché si
proclamasse allievo di Chopin. conway sentì che tanto lui quanto il
tedesco gli sarebbero diventati buoni compagni. Dopo altri incontri
giunse a delle conclusioni di carattere generale: si accorse che, per
quanto i Lama avessero una spiccata individualità, possedevano tutti
una qualità comune non altrimenti specificabile se non col nome di
senza età. E inoltre erano tutti acuti e calmi, e questa loro
intelligenza si manifestava in opinioni misurate e ben equilibrate.
Conway si sentì subito attratto dai loro modi gentili, corrispose con
simpatia e si accorse che gliene erano grati. Trovò perciò facile
andar d'accordo con loro come avrebbe potuto capitargli con qualsiasi
altro gruppo di persone colte, benché spesso gli sembrasse strano
sentir parlare di reminiscenze tanto lontane e di poca importanza.
Per esempio, uno di costoro, dai capelli bianchi e dall'aspetto
benevolo, chiese a Conway se si interessasse delle sorelle Brontë.
"Sì, un poco" rispose Conway; e l'altro replicò: "Vede, quando verso
il 1840 ero curato nel West Riding, andai una volta a Haworth e
abitai nella parrocchia. Dal mio arrivo qui ho fatto uno studio
completo dell'intero problema della famiglia Brontë, anzi sto
scrivendo un libro sull'argomento. Forse le piacerebbe che una volta
lo vedessimo insieme?".
Conway acconsentì cordialmente; e più tardi, rimasto solo con
Chang, si stupì della chiarezza con cui i Lama ricordavano la loro
vita di prima.
Chang rispose che questo faceva parte del loro allenamento.
"Vede, mio caro, uno dei primi passi verso la piena lucidità della
mente è ottenere una veduta generale del proprio passato, e ciò
riesce meglio, come per tutti i panorami, in prospettiva. Quando sarà
rimasto con noi per tempo sufficiente, si accorgerà che la sua vita
di prima si profilerà in modo sempre più chiaro, come succede quando
a poco a poco adattiamo alla nostra vista le lenti di un telescopio.
Tutto si rivelerà preciso, ben proporzionato e nel significato
autentico. Il Lama che ha conosciuto ultimamente, per esempio, ha
scoperto che il vero grande momento della sua vita fu quello in cui,
da giovane, visitò la casa di un vecchio pastore protestante che
viveva là con le sue tre figliole".
"Allora dovrò anch'io mettermi al lavoro per ricordare i miei
grandi momenti?".
"Non dovrà fare alcuno sforzo, verranno da sé".
"Non so fino a che punto darò loro il benvenuto" rispose Conway
soprappensiero.
Qualunque cosa potesse offrirgli il passato, egli stava scoprendo
la felicità nel presente. Quando si tratteneva in biblioteca a
leggere, o nella sala di musica suonava Mozart, si sentiva tutto
preso da una profonda emozione spirituale, come se ShangriLa fosse
davvero un'essenza di vita, distillata dalla magia degli anni e
preservata miracolosamente contro il tempo e contro la morte. In quei
momenti gli tornava alla memoria la sua conversazione col Gran Lama;
sentiva quella intelligenza quieta passare con bontà sopra ogni
divergenza, dare agli occhi e alle orecchie mille lievi e mormorate
assicurazioni. E se ascoltava LoTsen, ammirando la sua abilità nel
dominare qualche intricato ritmo di fuga si chiedeva che cosa vi
fosse dietro quel leggero impersonale sorriso che le schiudeva le
labbra a somiglianza di un fiore. Essa parlava pochissimo, pur
sapendo adesso che Conway conosceva la sua lingua; era quasi muta per
Mallinson, al quale talvolta piaceva entrare nella sala da musica. Ma
Conway trovava nei suoi silenzi un incanto che si esprimeva
perfettamente.
Desiderò conoscere la sua storia, e seppe da Chang che la fanciulla
apparteneva alla famiglia reale manciù.
"Era fidanzata a un principe del Turkestan e viaggiava verso
Kashgar per incontrarlo quando i suoi portatori si persero nelle
montagne. Sarebbero certo periti tutti se non avessero incontrato i
nostri messaggeri".
"E quando accadde tutto questo?".
"Nel 1884. Aveva diciotto anni".
"Diciotto anni allora?".
Chang s'inchinò. "Sì, con lei riusciamo proprio in modo eccellente,
come lei stesso può vedere. Ha progredito costantemente e molto
bene".
"E come ha accettato la situazione nei primi tempi?".
"Forse fu più riluttante degli altri: non protestò, ma ci
accorgemmo che per un lungo periodo rimase molto turbata.
Naturalmente trattenere una giovinetta che viaggiava per incontrare
il suo sposo fu un caso eccezionale. E tanto più grande fu il nostro
desiderio di vederla felice qui". Chang sorrise blandamente. "Temo
che l'esaltazione dell'amore renda più difficile una pronta
condiscendenza, benché cinque anni siano un tempo più che sufficiente
allo scopo".
"Suppongo che provasse un sentimento profondo per l'uomo che doveva
sposare...".
"Non si potrebbe dirlo, caro signore, perché non l'aveva mai visto.
E' l'antica usanza cinese, come sa. L'agitazione dei suoi sentimenti
era del tutto impersonale".
Conway assentì pensando con dolce tenerezza a LoTsen. se la
immaginò come poteva essere cinquant'anni prima, mentre i portatori
la trasportavano faticosamente attraverso l'impervio altipiano: una
statua nel suo palanchino istoriato, con lo sguardo fisso
sull'orizzonte spazzato dai venti che doveva apparirle così duro dopo
i suoi giardini orientali, i suoi stagni pieni di fiori di loto.
"Povera bimba!" disse fra sé pensando a tanta eleganza prigioniera da
anni: essa era come un freddo vaso prezioso, senza alcun altro
ornamento che un fuggevole raggio di luce. Conoscere il passato di
lei aumentò in Conway - anziché affievolirlo - il suo compiacimento
per quella calma e per quel silenzio.
Si sentiva appagato, ma con minore estasi, anche quando Briac gli
parlava di Chopin e gli suonava brillantemente le note melodie.
Pareva che del suo grande maestro il francese conoscesse molte
composizioni che non erano mai state pubblicate, e, siccome se le era
trascritte, Conway passò molte ore piacevoli ad impararle a memoria.
Provò un'acuta soddisfazione pensando che né Cortot né Pachmann
avevano avuto tanta fortuna. E i ricordi di Briac continuavano: la
sua memoria gli suggeriva ogni tanto altri brani buttati giù o
improvvisati dal compositore: man mano che li ricordava trascriveva
anche questi e ve ne erano alcuni davvero deliziosi.
"L'iniziazione di Briac è recentissima, perciò deve perdonargli se
parla molto di Chopin. i Lama più giovani si preoccupano ancora del
passato; è uno scalino necessario onde poter contemplare il futuro".
"Credo che questa sarà l'occupazione dei più vecchi".
"Sì. Per esempio il Gran Lama consacra quasi completamente la sua
vita a una chiaroveggente meditazione".
Conway pensò un momento e poi chiese:
"A proposito, quando crede che potrò rivederlo?".
"Certamente alla fine dei primi cinque anni, mio caro signore".
Ma profetizzando con tanta sicurezza Chang si sbagliava, perché
dopo meno di un mese dal suo arrivo a ShangriLa Conway ricevette un
secondo invito di recarsi in quelle torride stanze superiori. Chang
gli aveva detto che il Gran Lama non usciva mai dai suoi appartamenti
e che quell'aria riscaldata era necessaria alla sua vita fisica,
perciò Conway, già preparato, trovò questa volta più sopportabile il
cambiamento. E veramente respirò senza fatica, appena ebbe fatto il
suo inchino e quegli occhi affondati nell'orbita gli ebbero risposto
con un battito impercettibile. Si sentiva legato a quell'uomo per il
tramite dell'intelligenza, e benché sapesse che questo secondo
colloquio così vicino al primo fosse un onore senza precedenti, non
si sentiva affatto nervoso, né oppresso da tanta solennità. Per lui
l'età non costituiva un fatto imbarazzante, come del resto neppure il
rango o il colore. Nulla gli aveva mai impedito di trovar simpatica
la gente perché troppo giovane o troppo vecchia. Sentiva per il Gran
Lama il più sincero rispetto, ma anche gli pareva naturale che le
loro relazioni dovessero essere cortesi.
Vi fu il solito scambio di cerimonie, e Conway rispose a molte
domande gentili. Disse che la vita a ShangriLa gli piaceva e che
aveva già stretto alcune amicizie.
"E ha mantenuto il segreto con i suoi compagni?".
"Finora sì. Certi momenti sono stati imbarazzanti, ma forse lo
sarebbero stati di più se avessi parlato".
"Proprio come prevedevo: ha agito nel modo che credeva migliore. E
questo imbarazzo, dopo tutto, non è che temporaneo. Chang mi
riferisce che probabilmente due di loro non ci daranno alcun
fastidio".
"Lo credo anch'io".
"E il terzo?".
Conway rispose:
"Mallinson è un giovane eccitabile... ha un assillante desiderio di
ritornare".
"Gli è affezionato?".
"Sì, gli voglio molto bene".
In quel momento fu portato il tè, e mentre sorseggiavano la
profumata bevanda il discorso si fece meno serio. Era questa
un'opportuna convenzione che permetteva alle parole di acquistare
quasi un alito di quella frivola fragranza, e Conway vi era
particolarmente sensibile. Quando il Gran Lama gli chiese se, nella
sua vasta esperienza di luoghi e di persone, non trovasse che
ShangriLa fosse unica al mondo, e se l'Occidente avesse qualcosa di
simile, Conway rispose sorridendo: "Ebbene, sì. A voler essere
sincero, mi rammenta un poco Oxford, dove ho studiato e in seguito ho
tenuto lezioni e conferenze. Il paesaggio non è certo così bello, ma
spesso gli argomenti di studio non hanno davvero maggior praticità
dei vostri, e benché anche il più vecchio dei lettori e conferenzieri
non sia certamente così avanti negli anni come lei, nondimeno danno
l'impressione di invecchiare in modo simile al suo".
"Lei ha uno humour" replicò il Gran Lama, "di cui negli anni a
venire le saremo tutti molto grati, caro Conway".
X
"E' straordinario" disse Chang quando seppe che Conway era stato
nuovamente chiamato dal Gran Lama. E la parola era assai
significativa da parte di uno che non usava mai superlativi. Prima
d'ora non era mai accaduto, insisteva; mai il Gran Lama aveva
desiderato un secondo colloquio prima che i cinque anni di noviziato
avessero purificato il nuovo aspirante di tutte le sue emozioni.
"Perché, vede, è per lui una gran fatica parlare a un nuovo arrivato
di tipo comune. La sola presenza di passioni umane è, all'età sua,
una cosa spiacevole e non desiderata. Non già ch'io dubiti della sua
profonda saggezza in proposito, ché anzi essa c'insegna come persino
le regole fisse della nostra comunità siano soltanto moderatamente
fisse; ma l'avvenimento è ugualmente straordinario".
Per Conway, naturalmente, ciò non era più straordinario di tutto il
resto, e dopo aver visitato il Gran Lama una terza, poi una quarta
volta, cominciò a considerarlo con crescente disinvoltura. Già nel
modo in cui le loro due mentalità si avvicinavano, c'era qualcosa di
predestinato; come se ogni tensione in lui si rallentasse,
lasciandogli poi, al termine, una calma perfetta. Certe volte gli
pareva di essere del tutto ammaliato dal potere di quell'intelletto
accentratore; poi, mentre bevevano il tè nelle trasparenti tazzine
azzurre, tutto ciò che v'era stato di cerebrale fra loro si mutava in
una vivacità gentile di miniatura, come se un teorema si sciogliesse
limpidamente in un sonetto.
Le loro conversazioni spaziavano largamente senza timore: interi
sistemi filosofici, lunghi periodi di storia venivano analizzati in
tutti i possibili sviluppi. Per Conway l'esperienza era affascinante;
ma serbava sempre il suo spirito critico, tanto che una volta, dopo
averlo ascoltato, il Gran Lama gli disse: "Figlio mio, lei è giovane
d'anni, ma la sua saggezza ha la maturità dell'età avanzata. Certo le
è accaduto qualcosa fuori del consueto".
Conway sorrise: "Niente di più di quel che è toccato a molti altri
della mia generazione".
"Non ho mai conosciuto nessuno che le somigli".
Dopo una pausa Conway rispose:
"Non c'è in questo niente di misterioso. Se una parte di me stesso
le pare invecchiata ne fu causa una forte e prematura esperienza. Il
periodo che va dai diciannove ai ventidue anni è stato per me un
periodo di educazione eccezionale, ma anche molto estenuante.
"Ha sofferto molto in guerra?".
"Non poi eccessivamente. Ero di volta in volta eccitato, temerario,
spaventato, imprudente, e talora in preda a una collera pazza. Del
resto così come me erano alcuni milioni di giovani. Mi ubriacavo,
uccidevo, sfogavo i più bassi istinti in grande stile. Provavamo
un'acre soddisfazione a colpire e soffocare dentro di noi ogni
sentimento, e se uno riusciva a scampare ne rimaneva un senso di noia
infinita e di irritazione. E' questo stato d'animo che ci rese poi
tanto difficili gli anni successivi. Non creda che la mia sia una
posa tragica; in generale ho avuto poi abbastanza fortuna. Ma ci
pareva di essere in una scuola con un direttore cattivo; ad averne
voglia ci si poteva anche divertire, ma che logorio di nervi, e che
poco costrutto! Credo di esserne stato consapevole più della maggior
parte di noi".
"E la sua educazione continuò così?".
Conway alzò le spalle. "Forse l'esaurirsi delle passioni è il
principio della saggezza, se mi permette di modificare il proverbio".
"Figlio mio, questa è pure la dottrina di ShangriLa".
"Lo so. Perciò qui mi trovo benissimo".
Aveva detto la verità. Col passare dei giorni e delle settimane
cominciava a sentirsi preda di un male dolcissimo che gli avvolgeva
intelletto e corpo insieme: stava cedendo al fascino, come già
Perrault, e Henschell, e gli altri. Luna Azzurra l'aveva preso: e
senza scampo. Le montagne tutt'intorno splendevano come un baluardo
di inaccessibile purezza, da cui i suoi occhi abbagliati scendevano
alle verdi profondità della valle; era un quadro meraviglioso, e se
allora gli giungeva, attraverso lo stagno dai fiori di loto,
l'argentea e moderata melodia del clavicembalo, provava l'impressione
che questa intessesse un ricamo di suoni e di immagini per formare un
disegno perfetto.
Si era silenziosamente innamorato della piccola manciù, e lo
sapeva. Il suo amore non chiedeva nulla, neppure una risposta; era un
tributo dell'intelletto, e i sensi vi aggiungevano soltanto una lieve
fragranza. Quella fanciulla era per lui il simbolo di tutto ciò che è
fragile e delicato; la sua gentilezza stilizzata, il tocco delle sue
dita sulla tastiera, gli davano un senso di intimità che lo appagava
completamente. Le aveva parlato qualche volta in un modo che, se lei
lo avesse voluto, li avrebbe condotti a una conversazione meno
formale; ma le sue risposte non infrangevano mai la squisita
riservatezza dei suoi pensieri, né, del resto, egli lo avrebbe
desiderato. A un certo momento si era accorto che il gioiello
promesso aveva una sola sfaccettatura: il tempo; egli possedeva il
Tempo, tempo per tutto ciò che desiderava accadesse, così tanto tempo
che anche il desiderio si placava nella certezza dell'appagamento
futuro. Fra un anno, fra dieci anni avrebbe avuto ancora tempo. La
visione crebbe e gli diede una grande felicità.
Ma poi, a intervalli, ritornava nella vita degli altri per urtare
nell'impazienza di Mallinson, nella giovialità di Barnard, nelle
robuste intenzioni di Miss Brinklow. sentiva che sarebbe stato
contento solo quando anche loro avessero saputo tutto; e prevedeva,
come Chang, che né l'americano, né la missionaria si sarebbero
ribellati troppo. Una volta, anzi, Barnard lo divertì dicendogli:
"Creda, Conway, questo è un bel posticino per fissarcisi per sempre.
Da principio mi pareva di non poter fare a meno dei giornali e del
cinema, ma credo che ci si abitui a tutto".
"Lo credo anch'io" rispose Conway.
Seppe più tardi che Chang, sollecitato da Barnard, lo aveva
accompagnato giù nella valle a godere di tutti quei divertimenti che
il luogo poteva offrirgli per una notte di libera uscita. Quando
Mallinson ne fu informato ebbe una smorfia di disprezzo.
"Per bere, m'immagino" disse a Conway, e aggiunse poi rivolto a
Barnard: "Non dovrei immischiarmi negli affari altrui, ma ricordi che
deve mantenersi in buona salute per il viaggio! I portatori
dovrebbero arrivare fra un paio di settimane, e, da quanto mi è stato
detto, il ritorno non sarà proprio una gita di piacere".
"Non ho mai creduto che lo potesse essere" acconsentì di buon grado
Barnard. "E quanto a mantenermi in forma non mi sono mai sentito così
bene da anni. Faccio la mia passeggiata tutti i giorni, non ho
seccature, e le osterie della valle non ci permettono di passare un
certo limite. Non lo sapete? Il motto della ditta è Moderazione".
"Sì, sono sicuro che è riuscito a spassarsela moderatamente" disse
acido Mallinson.
"Ci sono riuscito certo! In quest'albergo ciascuno può trovare quel
che desidera. A certuni, per esempio, piacciono le ragazzine cinesi
che suonano il piano; non è così? I gusti son gusti".
Conway non se la prese affatto, ma Mallinson arrossì come uno
scolaretto. Punto da una collera che lo fece uscire dai gangheri,
scattò a dire:
"Ma quando si piglia gusto alla roba degli altri, si può finire in
prigione".
"Sicuro, se ci si lascia prendere" ribatté l'americano con una
strizzatina d'occhi. "E giacché siamo sul discorso" continuò, "voglio
dirvi subito, a tutti, una cosa. Ho deciso di fargliela a questi
famigerati portatori. Credo che arriveranno qui abbastanza
regolarmente; ebbene, io aspetterò che facciano un'altra gita, e
magari un'altra ancora. Se però i monaci si fideranno e mi faranno
credito sul conto dell'albergo".
"Vuole dire che non verrà via con noi?".
"Già. Ho deciso di star quassù per un po' di tempo. Per voi che
sarete ricevuti a suon di banda quando ritornerete a casa, va
benissimo; ma io che il mio benvenuto me lo aspetto da una fila di
poliziotti... Più ci penso, a una tale accoglienza, e meno mi va".
"In altre parole, non se la sente di andare incontro a quella
musica".
"Intanto devo dire che per la musica non ho mai avuto nessuna
passione".
Mallinson disse con freddo disprezzo: "Questo riguarda lei. Quanto
al resto nessuno potrà impedirle di restar qui tutta la vita, se le
piace". Guardò tuttavia gli altri con aria interrogativa. "Non credo
che tutti sceglierebbero così; ma i modi di pensare sono differenti.
Che ne dice Conway?".
"Che è vero. I modi di pensare sono differenti".
Mallinson si voltò verso Miss Brinklow, che improvvisamente posò il
libro e dichiarò: "In quanto a questo credo che anch'io resterò qui".
"Come?" gridarono tutti insieme.
Essa continuò con un chiaro sorriso che le illuminava la faccia:
"Ho pensato molto a come si sono svolti i fatti che ci hanno condotto
fin qui, e non posso venire che a una sola conclusione: c'è un potere
misterioso che opera dietro le scene. Non lo crede, Mr' Conway?".
Conway si sarebbe trovato in imbarazzo a dover rispondere, ma Miss
Brinklow continuò sempre più incalzante: "Chi sono io per poter
discutere i dettami della Provvidenza? Sono stata mandata qui per uno
scopo, e ci resterò".
"Vuole dire che spera di fondare qui una missione?" chiese
Mallinson.
"Non solo lo spero, ma ne ho tutta l'intenzione. So come si deve
agire con questa gente; troverò la mia strada, non tema. Mancano
tutti di decisione".
"E lei si propone di insegnargliela?".
"Lo desidero, Mr' Mallinson. mi oppongo fermamente a quell'idea di
moderazione di cui qui si parla tanto. Chiamatela pure larghezza di
vedute, se così vi piace, ma per me conduce soltanto alla peggiore
rilassatezza. Il peggior guaio di questa gente è proprio questa loro
cosiddetta larghezza di vedute, e io intendo combatterla con tutte le
mie forze".
"E crede che glielo permetteranno?" disse Conway sorridendo.
"Può darsi che la trovino così decisa da non riuscire a
impedirglielo" interruppe Barnard. poi aggiunse scherzando: "E'
proprio come vi ho detto io, quest'albergo provvede per tutti i
gusti".
"Se le piace la prigione, può darsi" scattò a dire Mallinson.
"Ebbene, anche in questo caso, vi sono due modi differenti di
vedere le cose. Perbacco, ma pensi a tutti coloro che darebbero
quanto possiedono pur di trovarsi in un luogo come questo ed esser
fuori dei pasticci, e invece non possono uscirne!... Siamo in
prigione noi o loro?".
"E' un sottilizzare confortante... per una scimmia in gabbia"
ribatté Mallinson, senza accennare a calmarsi.
Più tardi parlò a quattr'occhi con Conway.
"Quell'individuo mi dà sui nervi" disse camminando su e giù per il
cortile. "Se non tornerà indietro con noi non mi dispiacerà affatto.
Mi dia pure del permaloso, ma esser schernito a proposito di quella
ragazza cinese non mi diverte".
Conway prese Mallinson sotto braccio. Si accorgeva sempre più che
gli voleva bene, e che le ultime settimane trascorse insieme avevano
rafforzato il suo sentimento, malgrado l'umore di lui talvolta
urtante. Gli rispose:
"L'ho inghiottita io la sua pillola, convinto che la presa in giro
fosse per me, non per lei".
"No, mi creda, parlava per me. Sa che mi interesso a lei. Mi ci
interesso davvero, Conway. Vorrei sapere come mai si trovi qui, e se
le piaccia realmente. Mio Dio, se parlassi la sua lingua come lei,
saprei spiegarmi ben presto".
"Chissà poi se ci riuscirebbe... Vede bene che non parla a lungo
con nessuno".
"Mi stupisco che non la tormenti con mille domande".
"Non credo che sia nelle mie abitudini tormentare la gente".
Avrebbe desiderato dirgli di più, ma subito la pietà e l'ironia lo
trattennero creando quasi un velo di nebbia tra lui e l'amico: quel
giovane così avido e ardente non avrebbe davvero accettato con
rassegnazione la confessione di Conway. Questi si limitò a dire:
"Se fossi in lei non mi cruccerei tanto per LoTsen. sembra
abbastanza felice".
La decisione di rimanere dichiarata da Barnard e da Miss Brinklow
parve a Conway un'ottima cosa, quantunque per tale decisione venisse
a trovarsi - in apparenza - schierato in campo con Mallinson contro
di loro. Era una situazione straordinaria, e per affrontarla non
aveva ancora fatto nessun piano speciale.
Per fortuna non ce n'era per ora alcuna necessità. Prima di due
mesi non sarebbe potuto accadere niente di nuovo, e più tardi la
crisi, anche se ci si fosse preparato con la più grande diligenza,
non sarebbe stata meno acuta. Non voleva dunque affliggersi per
l'inevitabile. Tuttavia una volta disse a Chang:
"Mi preoccupo per Mallinson. temo che la prenderà piuttosto male
quando ne sarà informato".
Chang si espresse con simpatia: "Sì, non sarà facile persuaderlo
della sua buona fortuna. Ma, dopo tutto, si tratterà di una
difficoltà assolutamente temporanea. Fra vent'anni il nostro amico si
sarà riconciliato col suo destino".
A Conway parve un po' troppo da filosofi questo modo di vedere le
cose:
"Ma come faremo a spiegargli la verità? Sta contando i giorni che
ci separano dall'arrivo della carovana, e se i portatori non
venissero...".
"Ma verranno".
"Davvero? Credevo che tutti i suoi discorsi su quel tema fossero un
piacevole raccontino per tenerci a bada".
"Niente affatto. Abbiamo a ShangriLa l'abitudine di essere
moderatamente sinceri, e vi assicuro perciò che quanto ho detto a
proposito dei portatori è quasi esatto. Li aspettiamo press'a poco
per l'epoca che conoscete".
"Se è così, vi riuscirà difficile impedire a Mallinson di
seguirli".
"Ma non lo tenteremo neppure. Constaterà personalmente che i
portatori sono riluttanti e incapaci di scortare qualcuno sulla via
del ritorno".
"Capisco. Ecco il vostro sistema. E poi cosa credete che avverrà?".
"Dopo un periodo di disinganno, siccome è giovane e ottimista
ricomincerà a sperare che la nuova carovana, attesa fra nove o dieci
mesi, si presti più docilmente dell'altra alle sue proposte. E noi,
se saremo saggi, non gli troncheremo a tutta prima queste nuove
speranze".
Ma Conway disse seccamente: "Non credo affatto che abbia la
pazienza di aspettare. Tenterà di fuggire per conto suo".
"Fuggire? Le pare la parola adatta... Sì, il valico è aperto a
tutti e sempre. Noi non abbiamo carcerieri, se non quelli che la
natura stessa ci ha fornito".
Conway sorrise.
"La natura ha fatto il suo lavoro alla perfezione. Ciò nonostante
non credo che possiate sempre fidarvi di lei. Pensate ai numerosi
gruppi di esploratori che sono giunti qui. Il valico era ugualmente
aperto per loro anche quando volevano andar via, no?".
Toccò ora a Chang di sorridere.
"Mio caro signore, vi sono circostanze speciali che richiedono uno
speciale trattamento".
"Benissimo. Voi lasciate dunque alla gente qualche probabilità di
fuggire soltanto quando sapete che sarebbe da pazzi provarci? Eppure
sono convinto che qualcuno lo tenterà ugualmente".
"Sì, è accaduto; ma molto di rado. Però chi si allontana è sempre
lietissimo di poter tornare appena abbia provato a passare una sola
notte sull'altipiano".
"Senza riparo, né vestiario adatto?... Se è così, capisco
perfettamente come i vostri dolci sistemi abbiano la stessa efficacia
dei più severi. Ma che accade di quei pochi che non ritornano?".
"Ha risposto lei stesso alla domanda" replicò Chang. "Non
ritornano". Ma si affrettò ad aggiungere: "Le assicuro però che di
così disgraziati ce ne sono stati ben pochi, e spero che il suo amico
non sarà tanto imprudente da aumentarne il numero".
Conway non si sentì abbastanza rassicurato da queste risposte e il
futuro di Mallinson continuò a preoccuparlo. Desiderava che il
giovane potesse avere il permesso di partire per poi ritornare,
com'era stato recentemente concesso all'aviatore Talu. Chang ammise
che i superiori avevano pieni poteri di fare tutto ciò che credessero
giusto e saggio. "Ma saremmo davvero saggi, caro signore, se
affidassimo noi stessi e tutto il nostro avvenire semplicemente ai
sensi di gratitudine del suo giovane amico?". La domanda era giusta
perché intuiva facilmente quel che Mallinson avrebbe fatto appena
tornato in India. Da quel momento divenne questo il tema favorito di
Conway, e vi si esercitò spesso, quantunque non gli piacesse nemmeno
col pensiero ritrovarsi in quel mondo profano che a grado a grado
veniva relegato nell'ombra dal ricco e invadente mondo di ShangriLa.
Fuorché nei momenti in cui pensava a Mallinson si sentiva pienamente
soddisfatto: la struttura di questo nuovo sistema, rivelandoglisi
lentamente, lo meravigliava per quel complicato adattarsi ai suoi
gusti e alle sue necessità.
Un giorno disse a Chang: "A proposito, che posto occupa nella
vostra vita l'amore?... Immagino che qualche volta accadrà ai vostri
ospiti di innamorarsi".
"Accade di frequente" rispose Chang con un largo sorriso.
"Naturalmente ne sono immuni i Lama, e anche la maggior parte di noi
quando raggiungiamo un'età molto avanzata; ma fino allora siamo come
gli altri uomini, con la differenza che forse ci comportiamo più
ragionevolmente. E questo discorso mi offre l'occasione per
assicurarle, Mr' Conway, che l'ospitalità di ShangriLa sa
comprendere tutto. Il vostro amico Mr' Barnard ne ha già avuto la
prova".
Anche Conway sorrise, poi rispose un po' asciutto: "Grazie. Lo so.
Ma per il momento sono attratto da tutt'altro. Domandandovi che posto
occupa nella vostra vita l'amore, ero curioso di conoscerne piuttosto
l'aspetto emotivo che non quello fisico".
"Le pare di poterli facilmente dividere? Sta forse innamorandosi di
LoTsen?".
Conway fu un po' scosso, ma sperò che l'altro non se ne accorgesse.
"Perché me lo chiede?".
"Perché se ciò le accadesse, caro signore, sarebbe cosa
naturalissima; sempre, beninteso, con moderazione. LoTsen non le
corrisponderebbe in modo appassionato, non se lo potrebbe aspettare;
ma sarebbe un esperimento delizioso, gliel'assicuro. E ne parlo con
cognizione di causa perché io stesso mi innamorai di lei quando ero
molto più giovane".
"Davvero? E le corrispose, allora?".
"Mostrando di apprezzare gentilmente l'onore che io facevo, e
concedendomi un'amicizia divenuta con gli anni preziosa".
"In altre parole, non le corrispose".
"Se lo preferisce, no". E Chang aggiunse sentenziando: "Risparmiare
ai suoi innamorati quel momento di sazietà che segue il possesso
completo è stata sempre la sua prerogativa".
Conway rise. "Questo va benissimo nel suo caso, e forse anche nel
mio, ma che dice del caso di un giovane dal sangue ardente come
Mallinson?".
"Mio caro amico, sarebbe la miglior cosa che possa capitare. E non
per la prima volta toccherebbe a LoTsen di dover confortare il
dolente esiliato, venuto a conoscenza che per lui non vi sarà più
ritorno".
"Confortare?".
"Certo, ma non deve fraintendere questa mia espressione. LoTsen
non offre le sue carezze, eccetto quelle spontanee che può suscitare
in un cuore affranto, esclusivamente con la sua presenza. Che cosa
dice di Cleopatra il vostro Shakespeare? "Vi fa più affamati dove più
vi soddisfa". Tale tipo femminile si ritrova frequentemente in quelle
razze che sono scosse dalla passione, ma sarebbe fuori posto a
ShangriLa. E se potessi correggere la citazione, direi che LoTsen
toglie la fame quanto meno la soddisfa. Occorre, per riuscirci, un
talento ben più delicato e più duraturo".
"Che mi pare essa eserciti con molta maestria".
"Sì, è vero, ne abbiamo avuto numerosi esempi. Riesce a calmare le
scomposte vibrazioni del desiderio riducendole a un tranquillo
mormorio, sempre piacevole anche quando è lasciato senza risposta".
"In tal senso, si potrebbe dire che faccia parte del sistema
d'allenamento di questa casa?".
"Se le garba, dica pure così" rispose Chang con blanda
condiscendenza. "Ma sarebbe più gentile, e non meno vero, paragonarla
all'arcobaleno riflesso in una coppa di cristallo, o alle gocce di
rugiada sui boccioli di una pianta da frutti".
"Sarebbe molto più gentile, è vero!". Conway apprezzava sempre le
risposte agili ma misurate che provocava frequentemente lui stesso
con quella scherzosa maniera di trattare il cinese.
Ma la prima volta che si trovò solo con la piccola manciù sentì che
le osservazioni di Chang erano fini ed acute. C'era in lei una
fragranza che si comunicava all'emotività di Conway, accendendone la
brace in una fiamma che non bruciava, ma riscaldava soltanto.
Improvvisamente si rese conto che ShangriLa e LoTsen erano
un'armonia ideale e che a lui non restava altro da desiderare di più
se non smarrirsi in quella grande calma e trovarvi un'indefinita
parvenza di consenso. Le sue passioni erano state per anni come un
fascio di nervi su cui avessero agito tutte le vibrazioni del mondo;
ora il male era acquietato e poteva finalmente abbandonarsi a un
amore che non gli desse più né tormento né noia. Qualche volta
passando di notte presso lo stagno dei fiori di loto si immaginava di
avere la fanciulla tra le braccia, ma subito sopraggiungeva il senso
del tempo a far svanire la visione e a calmarlo infondendogli una
tenera infinita riluttanza.
Sentiva di non esser stato mai così felice, neppure in quegli
spensierati anni precedenti la grande barriera della guerra. Gli
piaceva il sereno mondo di ShangriLa, non oppresso ma pacificato da
quella sua unica tremenda idea. Gli piaceva quello speciale sistema
per cui i sentimenti erano avvolti e contenuti dal pensiero, e i
pensieri si trasformavano in felicità dopo essere passati attraverso
il linguaggio. Conway, a cui l'esperienza aveva insegnato che la
franchezza non è sempre una garanzia di buona fede, non era per
contro neppure disposto a considerare una frase ben tornita come
prova di poca sincerità. Gli piaceva la tranquilla atmosfera di bei
modi in cui la conversazione non era un'abitudine, ma un ornamento. E
gli piaceva constatare che si può anche parlare di cose da poco senza
timore di far perdere tempo, e che anche i più fragili sogni possono
essere bene accolti dall'intelletto. ShangriLa era sempre
tranquillo, e tuttavia era come un'arnia di lavoro continuo ma non
assillante; i Lama vivevano come se avessero davvero il tempo nelle
loro mani, ma questo tempo non pesava più di una piuma. Conway non
fece la conoscenza di nessun altro di loro, ma a poco a poco fu
edotto circa la varietà e il genere delle loro occupazioni; oltre a
conoscere molte lingue, alcuni erano studiosi di vasti problemi che
avrebbero certo destato grande meraviglia nel mondo dell'Occidente.
Parecchi stavano preparando manoscritti su molteplici argomenti: uno
di essi (così diceva Chang) faceva importanti ricerche di matematica;
un altro stava sviluppando Gibbon e Spengler entro una vasta sintesi
di storia della civiltà europea. Ma non tutti si occupavano di
materie così profonde, e neppure vi si applicavano dalla mattina alla
sera: vi erano altre vie in cui si avventuravano fantasiosamente,
ricercando, per esempio, come Briac, brani di vecchi motivi musicali,
oppure, come l'ex pastore inglese, una nuova teoria sulla genesi del
famoso romanzo di Emily Brontë Cime tempestose. E vi erano inoltre
occupazioni più superficiali e meno pratiche. A questo proposito una
volta, durante una delle sue visite al Gran Lama, Conway fece
un'osservazione e il Gran Lama subito replicò raccontando la storia
di un artista cinese del terzo secolo avanti Cristo. Essendosi questo
artista dedicato per anni a intagliare draghi, uccelli e cavalli
sopra un nocciolo di ciliegia, aveva infine offerto il suo lavoro a
un principe reale. Il principe sulle prime non vide altro che un
nocciolo, ma l'artista gli disse "di far innalzare un muro, di far
aprire in esso una finestra e di osservare bene il nocciolo nella
luminosa gloria dell'alba". Così fece il principe, e soltanto allora
si accorse che il nocciolo era bellissimo. "Non le pare una storia
delicata, mio caro Conway, e non crede che ci insegni una lezione
preziosa?".
Conway fu d'accordo con lui: gli era dolce pensare che i sereni
scopi di ShangriLa potevano riunire un'infinità di occupazioni
minime e strane, proprio secondo i gusti che aveva sempre avuto lui
stesso. E veramente, quando ricordava il passato, vedeva
riaffacciarsi tutte le immagini, alquanto numerose, dei compiti che
non aveva potuto realizzare perché gli erano sembrati o troppo vaghi,
o troppo faticosi: ora invece erano tutti possibili, anche sentendosi
pigri. Era una prospettiva deliziosa, tanto che non trovò nulla da
ridire quando Barnard gli confidò che anche lui intravedeva per quel
che lo riguardava un avvenire interessante a ShangriLa.
Pareva dunque che le gite di Barnard nella valle, fattesi più
frequenti negli ultimi tempi, non fossero del tutto dedicate al bere
e alle donne. "Vede, Conway, glielo dico perché è così diverso da
Mallinson, che mi darebbe volentieri una coltellata; se ne sarà
accorto. Ma credo che lei possa capire la situazione molto meglio di
lui. E' una cosa buffa: voi impiegati del Governo inglese siete
terribilmente duri e inamidati da principio, ma poi tirate le somme,
di voi ci si può fidare".
"Non si fidi troppo" rispose Conway sorridendo. "Del resto anche
Mallinson è un impiegato del Governo inglese come me".
"Sì, ma non è che un ragazzo. Prende le cose senza un pizzico di
buon senso. Noi due invece siamo uomini di mondo, accettiamo quel che
capita. Per esempio, ora siamo in quest'imbroglio, è vero, e non
possiamo ancora capirne né il dritto né il rovescio, né perché siamo
sbarcati qui, ma infine non può accadere a tutti gli uomini di questo
mondo?... E lo sappiamo, poi, perché ci troviamo in questo
mondo?...".
"Forse c'è qualcuno che non lo sa davvero; ma che cosa significa
questo preambolo?".
Barnard abbassò la voce e mormorò rauco:
"Oro, ragazzo mio". Poi continuò quasi estatico: "Proprio così; e
niente altro. Nella valle ce ne sono tonnellate, alla lettera. In
gioventù sono stato ingegnere minerario e so riconoscere la roccia.
Mi creda, è ricca quanto il Rand e mille volte più facile da scavare.
Pensava che andassi a far baldoria, tutte le volte che scendevo giù
in poltroncina. Niente affatto. Sapevo io quel che facevo. Già me
l'ero immaginato da un pezzo che questi bei tipi non potevano
procurarsi quel po' po' di roba che arrivava qui da lontano senza
pagarla salata; e in che altro modo avrebbero potuto pagare se non
con oro, o argento, o diamanti o qualcosa di simile? E' logico, mi
pare. Quando ho cominciato a guardarmi intorno, non ci è voluto molto
a scoprire tutto il trucco".
"Ha fatto la scoperta da solo?" chiese Conway.
"Non proprio, ma ho quasi indovinato; e allora mi sono rivolto
direttamente a Chang, capite, da uomo a uomo. Mi creda, Conway, quel
cinese non è affatto un cattivo compagno, come avremmo potuto
credere".
"Ma io personalmente non l'ho mai creduto".
"Lo so che vi siete sempre intesi, e perciò non la stupirà che ci
siamo messi d'accordo. Mi ha mostrato tutti quanti i lavori, e se le
interessa saperlo, ho il pieno consenso delle autorità per fare nella
valle tutte le ricerche che voglio, e compilare poi un rapporto
esteso. Che cosa ne pensa, eh, ragazzo mio? Parevano entusiasti di
avere il parere di un tecnico, specialmente quando dissi che sarei
probabilmente riuscito a dar loro dei punti circa l'aumento della
produzione".
"Mi accorgo che si troverà qui come a casa sua" disse Conway.
"Ebbene, ho trovato lavoro, e questo è già molto. Poi non si sa mai
come andranno a finire le cose. Forse a casa mia non avranno più
tanta voglia di mandarmi in galera quando sapranno che posso insegnar
loro la via di una nuova miniera d'oro. Non c'è che una difficoltà:
mi crederanno sulla parola?".
"Perché no? Si possono far credere tante cose!...".
Barnard approvò con impeto. "Son contento di vedere che mi capisce,
Conway. E' qui che noi due possiamo preparare un bel colpo.
Naturalmente faremo a metà in tutto. La cortesia che dovrà usarmi
sarà di mettere la sua firma al mio rapporto: Console d'Inghilterra,
e tutto il resto. Sarà una bella garanzia".
Conway rise: "Vedremo, vedremo, stenda intanto il suo rapporto".
Come si divertiva a contemplare una probabilità tanto remota! E
nello stesso tempo era lieto che Barnard avesse trovato una
momentanea consolazione.
La pensava così anche il Gran Lama, che Conway cominciò a vedere
sempre più spesso. Andava a visitarlo di sera tardi, e vi rimaneva
parecchie ore, dopo che i servi avevano portato via per l'ultima
volta il vassoio del tè, ed erano stati licenziati per la notte. Il
Gran Lama non mancava mai di interessarsi al benessere e ai progressi
dei suoi tre compagni, e una volta chiese particolari sulla loro
precedente carriera, inevitabilmente interrotta dal loro arrivo a
ShangriLa.
Conway rispose, ma soprappensiero: "Mallinson... nel suo ramo...
sarebbe riuscito bene... E' ambizioso e pieno di energia. Ma gli
altri due...". Alzò le spalle: "Conviene a entrambi di rimanere qui...
almeno per un certo tempo".
Notò, attraverso le cortine della finestra, un debole balenio di
luce; già aveva sentito tuonare mentre attraversava i cortili per
salire a quelle stanze ormai familiari. Non si sentiva alcun suono, e
i pesanti cortinaggi attenuavano i lampi fino a ridurli a brevi e
pallide scintille.
"Sì" disse il Gran Lama, "abbiamo fatto tutto il possibile perché
non li assalisse la nostalgia. Miss Brinklow desidera convertirci, e
anche Mr' Barnard vorrebbe farlo: convertirci in una società
ristretta e passiva. Progetti innocui: serviranno a far loro passare
il tempo piacevolmente. Ma che dire del suo giovane amico, a cui non
recano sollievo né l'oro né la religione?...".
"Certo sarà un problema".
"Temo che sarà un problema per lei" disse il Gran Lama.
"Perché per me?".
Non ebbe una risposta immediata perché in quel momento fu recato il
tè e all'apparire dei servi il Gran Lama riprese il suo antiquato
cerimoniale d'ospitalità. "In questa stagione il Karakal ci manda dei
temporali" osservò alleggerendo la conversazione secondo l'uso. "La
gente di Luna Azzurra li crede prodotti dai demoni infuriati
nell'immenso spazio oltre il valico. Li chiamano quelli di fuori;
forse si sarà accorto che nel loro dialetto questa espressione è
usata per tutto il resto dell'universo. Naturalmente ignorano
l'esistenza di altri paesi come la Francia, l'Inghilterra e persino
l'India! Si figurano che lo spaventoso altipiano si estenda - e non
si sbagliano di molto - senza limiti. Comodamente radunati a un
livello tiepido e riparato dai venti, pare loro incredibile che
qualcuno della vallata desideri lasciarla: si immaginano, anzi, che
tutti quanti quelli di fuori siano oltremodo sventurati e desiderino
entrare in quel luogo sicuro. Si tratta soltanto di un punto di
vista, non è vero?".
Conway si ricordò delle osservazioni quasi uguali di Barnard, e le
citò. "Che buon senso!" commentò il Gran Lama. "E pensare che è il
primo americano entrato nella nostra comunità! Siamo proprio
fortunati".
"Grande fortuna davvero" pensò Conway divertendosi "poter
annoverare fra gli adepti di ShangriLa un uomo attivamente ricercato
dalla polizia di dodici nazioni" e avrebbe voluto far partecipe di
questo suo pensiero il Gran Lama, ma poi preferì lasciare che Barnard
stesso scegliesse il momento più opportuno per raccontare la sua
storia. Disse soltanto: "Senza dubbio ragiona bene, e ce ne sono
molti altri al mondo oggi che sarebbero ben lieti di trovarsi qui".
"Ce ne sono troppi, mio caro Conway. Noi siamo un'unica barca di
salvataggio dentro un mare in tempesta; possiamo prendere a bordo
alcuni sopravvissuti, ma se tutti i naufraghi ci raggiungessero e si
arrampicassero su, saremmo noi a naufragare... Non ci pensiamo per
ora. Sento che ha fatto amicizia col nostro ottimo Briac. un mio
simpatico compatriota; io però non condivido il suo parere che Chopin
sia il più grande fra i compositori. Per parte mia preferisco
Mozart...".
Finalmente fu portato via il tè e il servo ebbe il permesso di
andare a coricarsi; allora Conway osò tornare sulla domanda alla
quale non era stato risposto.
"Si parlava di Mallinson, e lei ha detto che sarebbe diventato un
problema per me. Perché proprio per me?".
Con molta facilità il Gran Lama rispose:
"Perché io sto per morire, figlio mio".
Pareva straordinaria una simile dichiarazione, e Conway rimase
senza fiato. Dopo qualche minuto il Gran Lama continuò:
"E' sorpreso? Eppure, amico mio, siamo tutti mortali; anche a
ShangriLa. Può darsi che mi vengano ancora concessi alcuni minuti, o
forse, chissà, alcuni anni. La sola cosa certa che posso annunciarle
è questa: vedo già la fine. E' molto affettuoso da parte sua
preoccuparsene, e non nasconderò che anche alla mia età v'è qualche
cosa di malinconicamente penoso nella contemplazione della morte. Per
fortuna mi rimane fisicamente ben poco che sia soggetto a morte
materiale e, in quanto al resto, tutte le nostre religioni mostrano
un ottimismo unanime. Sono pago, ma durante il poco tempo che mi
resta devo abituarmi a una strana sensazione: devo rendermi conto che
mi rimane appena tempo per una sola cosa. Può immaginare di che si
tratta?".
Conway tacque.
"Riguarda lei, figlio mio".
"Sono confuso da tanto onore".
"Ho in mente di fare molto per lei".
Conway s'inchinò lievemente senza parlare, e il Gran Lama, dopo una
breve pausa, ricominciò: "Forse sa già che la frequenza dei nostri
incontri è stata una cosa del tutto insolita qui. Ma è tradizione
nostra, se posso permettermi il paradosso, di non essere mai schiavi
della tradizione. Niente di rigido, niente regole inflessibili.
Facciamo ciò che ci sembra giusto, guidati un poco dall'esempio del
passato, ma più ancora dalla nostra presente saggezza e dalla
chiaroveggenza nell'avvenire. Ed è perciò ch'io mi sento incoraggiato
a quest'atto finale della mia esistenza".
Conway era sempre silenzioso.
"Io metto nelle sue mani, figlio mio, l'eredità e il destino di
ShangriLa".
La tensione si ruppe infine, e subentrò per Conway una benevola e
dolce persuasione: poi tutti gli echi svanirono nel silenzio e non
rimase altro che il battito del suo cuore, come un gong percosso. E
allora, attraverso quel ritmo, gli giunsero queste parole:
"L'ho aspettata, figlio mio, per un tempo lunghissimo. Seduto in
questa stanza ho osservato i volti dei nuovi venuti, ho scrutato i
loro occhi e ascoltato le loro voci, sperando che un giorno sarebbe
giunto lei. I miei colleghi sono diventati vecchi e saggi, ma lei in
giovane età è saggio almeno quanto loro. Amico mio, il compito che le
lascio non è affatto troppo arduo, perché nel nostro ordine
conosciamo soltanto legami di seta. Basterà che sia gentile e
paziente, che abbia cura delle ricchezze dell'intelletto, che sappia
presiedere con segreta e tranquilla saggezza mentre fuori infuria
l'uragano: tutto questo sarà semplice e piacevole per lei, e vi
troverà la felicità".
Di nuovo Conway tentò di parlare senza riuscirvi, ma alla fine un
vivido lampo rischiarò l'ombra ed egli poté esclamare:
"L'uragano... l'uragano di cui parla...".
"Sarà l'uragano, figlio mio, come il mondo non ne ha mai visti.
Invano si chiederà sicurezza alle armi, appoggio dall'autorità, aiuto
dalla scienza. L'uragano infurierà finché ogni fiore di bellezza sia
calpestato, e tutte le cose umane siano livellate in un caos immenso.
Ho avuto già una visione simile quando ancora Napoleone era uno
sconosciuto; la visione mi si ripresenta di nuovo oggi, più chiara
col passar di ogni ora. Crede che mi inganni?".
Conway rispose:
"No, credo che abbia ragione. Una rovina simile ci ha già travolto
un'altra volta e le oscure età che seguirono durarono cinque secoli".
"Il confronto non è del tutto esatto. Quelle età non furono poi
così oscure; erano piene di tremule luci, e se queste luci si fossero
spente in Europa per sempre, altri raggi vi sarebbero stati, dalla
Cina al Perù, con i quali avrebbero potuto riaccendersi. Ma l'età
oscura che verrà coprirà tutto il mondo con un'unica coltre funebre;
non vi saranno rifugi né santuari se non quelli troppo nascosti per
venir scoperti, o troppo umili per esser cercati. ShangriLa può
sperare salvezza per questi due motivi. L'aviatore diretto alle
grandi metropoli con il suo carico seminatore di morte non passerà
per questa via, e se per caso ci passasse stimerà inutile sciupare
per noi una delle sue bombe".
"E tutto ciò accadrà così presto ch'io potrò vederlo con i miei
occhi?".
"Credo che sopravvivrà all'uragano. E continuerà a vivere anche
dopo, durante il lungo periodo di desolazione, diventando sempre più
vecchio e sempre più saggio e più paziente. Custodirà l'essenza della
nostra storia aggiungendovi l'aroma del suo intelletto. Accoglierà
benevolmente gli stranieri e insegnerà loro i segreti del vivere a
lungo e della sapienza e forse uno di loro prenderà il suo posto
quando sarà diventato vecchissimo. Oltre questo la mia visione si
affievolisce; ma vedo, lontanissimo, un mondo nuovo sorgere dalle
rovine, lo vedo agitarsi rozzamente, e pieno di nuove speranze
cercare i suoi perduti e leggendari tesori. Che saranno tutti qui,
figlio mio, nascosti nella vallata della Luna Azzurra, protetti dai
monti, miracolosamente salvati per un nuovo Rinascimento...".
La voce cessò e Conway vide davanti a sé un volto illuminato da una
attraente remota bellezza; poi il chiarore svanì e non rimase altro
che una maschera in ombra, in procinto di sbriciolarsi come un legno
antichissimo. Maschera immobile, con gli occhi chiusi. Lo guardò a
lungo; poi, come in sogno, si accorse che il Gran Lama era morto.
Tutto era talmente strano e incredibile intorno, che sentì il
bisogno di attaccarsi a qualcosa di reale, e con un moto istintivo
dell'occhio e della mano guardò l'orologio da polso. Era mezzanotte e
un quarto. Attraversò la stanza per giungere alla porta, ma qui si
rese conto dell'impossibilità di domandare aiuto. Sapeva che i
tibetani erano stati licenziati per la notte, e non aveva la minima
idea di dove trovare Chang o qualcun altro. Stette incerto sulla
soglia dell'oscuro corridoio; vide dalla finestra che il cielo si era
rischiarato, benché le montagne fossero ancora accese a tratti da un
lampeggiare continuo, come in un affresco argenteo. E in quel
momento, avvolto ancora nelle spire del sogno, si sentì padrone di
ShangriLa. Gli stavano intorno le cose da lui predilette, create
nella sua anima più profonda in cui ora viveva con fervore crescente,
lontano dall'irritante mondo. I suoi occhi, frugando nelle tenebre,
incontrarono le sottili punte dorate rilucenti nelle bellissime
lacche, e il profumo di tuberosa, appena avvertibile tanto era
sottile, lo guidò di stanza in stanza. Si trovò, barcollando, nel
cortile accanto allo stagno; la luna piena navigava nel cielo dietro
il Karakal. mancavano venti minuti alle due.
Più tardi si accorse che Mallinson gli s'era avvicinato e lo
prendeva per il braccio trascinandolo via in gran fretta. Non capì
bene di che si trattasse, ma sentì confusamente che il ragazzo
parlava infervorato.
Xi
Quando raggiunsero la stanza dove solevano pranzare, Mallinson lo
trascinava ancora per il braccio.
"Venga, Conway, ci resta appena il tempo fino all'alba per radunare
la nostra roba e andarcene. Gran novità, mio caro; chissà cosa
diranno domattina Barnard e Miss Brinklow quando vedranno che siamo
partiti... eppure, se loro restano, è perché vogliono; probabilmente
senza di loro faremo più strada. La carovana di portatori è a cinque
miglia dal valico; sono arrivati ieri carichi di libri e di altre
cose... domani cominceranno il viaggio di ritorno... E' chiaro che
quelli del monastero volevano burlarsi di noi... non ce l'hanno mai
detto... saremmo rimasti abbandonati qui Dio sa quanto... Ma che
succede? Si sente male?".
Conway si era lasciato cadere su di una sedia e si appoggiava al
tavolo sui gomiti. Si passò la mano sugli occhi.
"Male? No, non credo. Forse... sono un po' stanco".
"Il temporale, probabilmente. Dove è stato tutto questo tempo? L'ho
aspettata per ore".
"Ero... ero andato a fare una visita al Gran Lama".
"A quello! Bene, in ogni modo sarà l'ultima, grazie a Dio".
"Sì, Mallinson, è stata proprio l'ultima visita".
C'era nella voce di Conway e più ancora nel silenzio che seguì una
sfumatura che fece andar in collera il giovane.
"Davvero mi piacerebbe che non prendesse le cose con tanta calma;
dobbiamo fare un bel po' di strada, sa?".
Conway si irrigidì nello sforzo di ritrovare la piena coscienza di
se stesso.
"Mi spiace" disse. Poi per accertarsi dei suoi nervi e della realtà
delle sue sensazioni accese una sigaretta, ma si accorse che la mano
e le labbra tremavano. "Temo di non capirla... dice che i
portatori...".
"Sì, i portatori, amico mio. Su presto, si rimetta".
"Sta pensando di andar loro incontro?".
"Pensandoci? Ma ne sono certissimo, che diavolo! Li troveremo
subito di là dal crinale. Dobbiamo raggiungerli immediatamente".
"Immediatamente?".
"Sì, sì, perché no?".
Conway fece un secondo tentativo per passare da un mondo all'altro.
Vi riuscì in parte, e allora disse:
"Si renderà conto che non è molto facile".
Mallinson, che stava allacciandosi un paio di stivali tibetani da
montagna, rispose tagliente:
"Facile o no, dobbiamo farlo e lo faremo; e con fortuna, se non
perdiamo tempo".
"Non vedo come...".
"Oh Dio, Conway, ma dunque ha paura di tutto? Non le è rimasta
nelle vene neppure una goccia di sangue?...".
Questo richiamo, in parte appassionato e in parte canzonatorio,
aiutò Conway a ritornare in se stesso.
"Non è questione di sangue nelle vene; se vuole le spiegherò. Si
tratta di alcuni particolari importanti. Supponendo che lei arrivi
oltre il valico, e che trovi là i portatori, è sicuro che la
conducano con loro? Che cosa può offrir loro per allettarli? E se non
si mostrassero così volenterosi come lei li vorrebbe? Non può certo
presentarsi e chiedere che lo scortino ad ogni costo. Occorrono
accomodamenti, discussioni preventive...".
"O qualsiasi altra cosa capace di farci ritardare" esclamò
Mallinson amaramente. "Ma che uomo è? Per fortuna non ho bisogno di
lei per agire. Tutto è già stato combinato: i portatori sono stati
pagati in anticipo, e hanno accettato di accompagnarci. Ecco qui
pronti i vestiti e l'equipaggiamento per il viaggio. Non ha più
scuse. Su, facciamo quel che si deve".
"Ma... non capisco...".
"Non importa".
"Chi ha fatto tutti questi progetti?".
Mallinson rispose bruscamente:
"Se ci tiene a saperlo, li ha fatti LoTsen. E' già con i
portatori. Ci aspetta".
"Ci aspetta?".
"Sì, viene con noi. Ha qualcosa in contrario?".
Al sentir nominare LoTsen i due mondi cozzarono nella mente di
Conway e si fusero all'improvviso. Gridò bruscamente, e quasi con
disprezzo:
"Sono sciocchezze. E' impossibile".
Anche Mallinson era urtato:
"Perché impossibile?".
"Perché... perché sì. V'è un'infinità di ragioni. Mi creda sulla
parola: non si può. E' abbastanza incredibile che sia già arrivata là
- sono stupito di ciò che mi dice -, ma è assurdo che possa andare
più avanti".
"Non mi pare affatto assurdo. Il desiderio di andarsene è tanto
naturale in lei come lo è in me".
"Ma lei non vuole andarsene. Il suo sbaglio è tutto lì".
Mallinson sorrise con i nervi tesi.
"Crede forse di conoscerla meglio di me vero?" osservò. "Ma forse
si sbaglia".
"Che cosa vuole dire?".
"Ci sono altri modi per arrivare a capire la gente senza bisogno di
studiare tante lingue".
"Ma per carità, a che cosa vuole giungere?...". Poi Conway continuò
con maggior calma: "E' assurdo. Non dobbiamo litigare, noi due. Mi
dica di che si tratta, Mallinson. non capisco ancora".
"E perché allora sta facendo questo chiasso d'inferno?".
"Mi dica la verità, la prego, mi dica la verità".
"E' abbastanza semplice. Qualunque ragazza della sua età, chiusa
quassù con quei vecchioni strambi, cercherebbe di scappare alla prima
occasione. Finora questa occasione non c'era stata".
"E' un errore di valutazione il suo. Vede la posizione di lei qui
con gli occhi con cui considera la sua. Invece, come le ho sempre
detto, è assolutamente felice".
"E allora perché ha detto che sarebbe venuta via?".
"Ha detto questo? Come ha potuto dirlo? Non parla inglese".
"Gliel'ho chiesto in tibetano. Miss Brinklow ha trovato le parole.
Non è stata una conversazione fluida, ma sufficiente... perché
c'intendessimo". Mallinson arrossì. "Non mi guardi così, Conway. Chi
ci vedesse crederebbe che ho fatto il bracconiere nelle sue riserve".
Conway rispose:
"Non passerebbe per la testa a nessuno, ma l'osservazione mi spiega
più di quanto fosse nelle sue intenzioni. Posso dirle soltanto che me
ne dispiace moltissimo".
"Diavolo, e perché mai?".
Conway lasciò cadere la sigaretta. Era stanco, preoccupato, tutto
invaso da una profonda tenerezza che avrebbe preferito non si fosse
svegliata nella sua anima. Disse con dolcezza:
"Vorrei che non dovessimo sempre bisticciarci. LoTsen è molto
carina, lo so, ma perché litigare per lei?".
"Carina?" Mallinson ripeté la parola con sdegno. "E' di più. Lei
non deve pensare che gli altri abbiano il suo sangue freddo in queste
circostanze. L'ammira come un oggetto in un museo, e crede d'aver
fatto quanto lei merita, ma io sono più pratico e quando vedo in
difficoltà qualcuno che mi piace, cerco di portargli aiuto".
"Ma si può anche essere troppo impulsivi, no? E dove crede che
potrà andare se lascia il monastero?".
"Avrà degli amici in Cina o altrove. Dovunque starà meglio di qui".
"Come fa ad esserne tanto sicuro?".
"Ebbene, se non ci sarà nessuno che si occupi di lei, me ne
occuperò io. Quando capita di salvare una persona da una minaccia
infernale, non si sta lì a informarsi se abbia o no dei parenti o un
luogo dove poter andare".
"E per lei ShangriLa è un luogo infernale?".
"Lo credo fermamente. Qui incombe una presenza oscura e maligna.
Tutta la faccenda mi ha fatto quest'impressione fin dal principio: il
modo in cui fummo portati qui da un pazzo, e poi come siamo stati
trattenuti con una scusa o con l'altra. Ma per me l'aspetto più
terribile è l'effetto che ha avuto su di lei".
"Su di me?".
"Sì, su di lei. L'ho vista andar fantasticando qua e là come se non
gliene importasse niente; la sentii persino dire che sarebbe rimasto
volentieri qui per sempre, che il posto le piaceva... Ma che cosa le
è accaduto, Conway? Non può ridiventare quello di prima? A Baskul si
andava tanto d'accordo! Era così diverso allora!".
"Mio caro ragazzo!".
Conway protese la mano verso Mallinson e ne ricevette una stretta
calda e affettuosa. Mallinson continuò:
"Lei non se n'è accorto, ma mi sono sentito terribilmente solo in
queste ultime settimane. Nessuno che si curasse dell'unico problema
veramente importante! Barnard e Miss Brinklow potevano avere qualche
ragione, ma trovar lei contro...!".
"Mi dispiace".
"Ripete sempre la stessa frase, ma non mi è di nessun aiuto".
Allora Conway, spinto da un impulso improvviso, disse:
"Ebbene, lasci che la aiuti, se posso, confidandole un segreto.
Quando mi avrà ascoltato, molto di ciò che ora le sembra così strano
e complesso apparirà chiaro. Capirà almeno per qual motivo è
impossibile che LoTsen parta con lei".
"Credo che non vi sia niente che mi possa far pensare così. A ogni
modo faccia presto, perché non c'è davvero tempo da perdere".
Conway raccontò brevemente tutta la storia di ShangriLa come
l'aveva appresa dal Gran Lama e con i particolari delle successive
conversazioni con Chang. qualunque altra cosa avrebbe voluto fare
eccetto questa, ma gli sembrò che, date le circostanze, il passo
fosse giustificato e forse necessario: Mallinson era veramente un
caso speciale per lui, da risolversi come meglio reputava. Parlò
rapido e con facilità e così facendo si sentì di nuovo soggiogato dal
fascino di quello strano mondo senza tempo; la sua bellezza lo
conquistava fin nelle intime fibre, e più di una volta gli parve di
leggere le pagine di un memoriale, tanto le idee e le frasi si erano
stampate chiaramente nel suo cervello. Tacque un solo dettaglio per
risparmiarsi un'emozione che non poteva ancora sopportare: che il
Gran Lama era morto quella notte e che lui ne era l'erede.
Verso la fine della narrazione si sentì già sollevato; quand'ebbe
finito fu addirittura contento: era stata la soluzione migliore. Alzò
allora gli occhi tranquillamente, persuaso di aver fatto bene.
Ma Mallinson, ticchettando con le dita sul tavolo, dopo una lunga
pausa esclamò:
"Non saprei davvero cosa dirle, Conway... se non che è pazzo del
tutto...".
Seguì un lungo silenzio, durante il quale i due uomini si
fissarono, ma in modo ben diverso: Conway disilluso nuovamente e
chiuso in se stesso, Mallinson a disagio e in preda a un'impazienza
mal contenuta.
"Così, mi crede pazzo?" chiese alla fine Conway.
Mallinson scoppiò in una risata nervosa.
"Mi sembra logico dopo un simile racconto... Cioè... dopo tante
sciocchezze... Insomma, mi pare che non valga la pena di discuterne".
Negli occhi e nella voce di Conway ci fu un'immensa sorpresa.
"Le chiama sciocchezze?".
"Ma in che altro modo potrei chiamarle? Mi spiace dirlo, Conway...
è una dichiarazione un po' dura... ma credo che nessun uomo con la
testa perfettamente a posto le giudicherebbe altrimenti".
"Perciò pensa ancora che siamo stati condotti qui, per caso, da
qualche pazzo che aveva fatto i suoi bravi progetti per scappare in
aereo e volare più di mille miglia soltanto per il piacere di
farlo?".
Conway gli offrì una sigaretta. Vi fu una pausa che diede a
entrambi un senso di sollievo. Poi Mallinson rispose:
"Senta, non serve discutere la faccenda punto per punto. In realtà,
circa il suo racconto che questa gente aveva pensato di mandare per
il mondo - così, vagamente - qualcuno a adescare gli stranieri, e che
il nostro pilota studiò l'arte di volare e poi aspettò pazientemente
il momento buono, e che finalmente un apparecchio adatto si trovò a
dover partire da Baskul con quattro passeggeri... via, non dirò che
sia letteralmente impossibile, ma mi sembra ridicolo e troppo ben
congegnato. E ancora, se fosse un fatto a sé si potrebbe discutere;
ma lei ci aggancia ogni sorta di altri eventi assolutamente
inverosimili... tutte queste frottole di Lama che hanno centinaia
d'anni, e che hanno scoperto un nuovo elisir di gioventù, o come
diavolo vuole chiamarlo... ebbene io mi domando da che razza di
microbo lei sia stato punto; ecco tutto".
Conway sorrise.
"Sì, può sembrare incredibile. Anche a me, forse, da principio,
fece la stessa impressione... non ricordo bene. E' certamente una
storia non comune, ma si è reso conto con i suoi occhi che anche
questo luogo non è comune. Pensi alle cose straordinarie che abbiamo
realmente visto entrambi, una valle perduta fra montagne
inaccessibili, un monastero con una biblioteca di libri europei...".
"Oh, sì, con riscaldamento centrale, e acqua corrente, e tè alle
cinque, e tutto il resto... è meraviglioso, lo riconosco".
"E che cosa ne dice allora?".
"Ben poco, lo confesso. E' un assoluto mistero. Ma questa non è una
ragione per accettare dei racconti virtualmente impossibili. Credere
nei bagni caldi perché si sono usati è molto diverso dal credere che
certa gente abbia varie centinaia d'anni perché ve l'hanno
raccontato". Rise ancora, inquieto. "Senta, Conway, questo paese le
ha scosso i nervi, e non me ne stupisco davvero. Raduni la sua roba e
andiamocene. Finiremo questa discussione fra un mese o due, dopo un
buon pranzetto da Maiden".
Conway rispose pacatamente: "Non ho alcun desiderio di tornare a
far quella vita".
"Che vita?".
"Quella a cui lei pensa ora... pranzi... balli... tennis...".
"Ma io non ho mai parlato di balli né di tennis! E del resto, che
cosa c'è di male? Vuole dire che non intende venire con me? Dunque
resterà qui con gli altri due? Ah, ma almeno non riuscirà a impedirmi
di andarmene via!". Mallinson gettò la sigaretta e balzò alla porta
tutto acceso in volto. "Lei è fuori di sé!" urlò selvaggiamente. "E'
pazzo, ecco. E' vero che è sempre calmo, mentre io sono sempre
eccitato, ma io sono sano di mente, e lei non lo è! Mi avevano
avvertito prima che vi raggiungessi a Baskul; credevo che
s'ingannassero, ma ora mi accorgo di no...".
"Di che cosa l'avevano avvertita?".
"Dicevano che lei era stato travolto in uno scoppio di granata in
guerra e che dopo di allora era rimasto un po' strano. Non glielo
rimprovero, non è colpa sua, e Dio sa se mi costa parlarle così...
Ah, me ne vado. E' terribile, e mi fa male, ma devo andare. Ho dato
la mia parola".
"A LoTsen?".
"Se vuole saperlo, sì".
Conway si alzò e gli stese la mano.
"Addio, Mallinson".
"Per l'ultima volta: non vuole proprio venire?".
"Non posso".
Si strinsero la mano e Mallinson lo lasciò.
Conway, rimasto solo, sedette nuovamente al tavolo, nella luce
delle lanterne. Gli pareva, come in quel detto famoso rimastogli
nella memoria, che tutte le cose più belle fossero passeggere e
periture; che i suoi due mondi non avrebbero mai potuto conciliarsi,
e uno di essi sarebbe sempre rimasto sospeso a un filo. Dopo aver
riflettuto a lungo guardò l'orologio: mancavano dieci minuti alle
tre.
Non si era ancora mosso dal tavolo, e stava fumando l'ultima delle
sue sigarette, quando Mallinson tornò. Il giovane entrò agitato, ma
appena si accorse di Conway fece un passo indietro verso l'ombra come
per tentare di ricomporsi. Non parlava; e allora, dopo un momento di
attesa, Conway gli domandò:
"Ebbene, che cosa è accaduto? Perché è tornato?".
Questa domanda così naturale ridonò coraggio a Mallinson; avanzò,
si tolse la pesante pelliccia di pecora e sedette. Aveva il volto
pallidissimo, e tremava in tutta la persona.
"Non ne ho avuto la forza" gridò quasi singhiozzando. "Ricorda quel
punto in cui ci legarono tutti insieme? Sono arrivato fin lì, ma non
ho potuto andar oltre. Non tollero le altezze e al chiaro di luna mi
pareva un abisso tremendo. Sono stupido, vero?". Non si controllò
più, e stava per cedere a una crisi di nervi, ma Conway riuscì a
calmarlo. Allora continuò: "Questa gente del monastero può dormire
tranquilla: nessuno li minaccerà mai per via di terra! Ma che cosa
non darei, Dio buono, per volarci sopra con un carico di bombe!".
"E perché vorreste farlo, Mallinson?".
"Perché è necessario fracassar tutto. Questo è un sito malsano e
immondo e se realmente le sue favole avessero un fondamento sarebbe
più odioso ancora! Un mucchio di vecchi stregoni, in agguato come
ragni per accalappiare chi passa vicino... è schifoso... E poi, chi
avrebbe la voglia di vivere fino a una simile età? Quanto al suo
preziosissimo Gran Lama, se ha appena la metà degli anni che lei
dice, è ora che qualcuno ponga fine ai suoi dispiaceri... Ah, perché
non vuole venir via con me, Conway? Mi pesa pregarla solo per una
ragione egoistica, ma, perbacco, io sono giovane, e siamo stati così
buoni amici... tutta la mia vita non conta proprio niente per lei in
confronto alle bugie di queste orrende creature? E LoTsen? anche lei
è giovane... non conta nemmeno?".
"LoTsen non è giovane" disse Conway.
Mallinson lo guardò e cominciò a ridere nervosamente.
"Oh, no, non è giovane... non è affatto giovane, è naturale.
Dimostra circa diciassette anni, ma lei mi dirà - immagino - che è
una novantenne ben conservata".
"E' arrivata qui nel 1884, Mallinson".
"Delira, caro mio!".
"Mallinson, la sua bellezza, come tutte le cose belle al mondo, è
alla mercé di chi non sappia apprezzarla. E' fragile e può vivere
soltanto dove la fragilità è molto amata. La porti via dalla valle e
la vedrà svanire come un'eco".
Mallinson rise aspramente, come se acquistasse fiducia dai suoi
stessi pensieri.
"Di questo non ho paura. Se mai è proprio qui che LoTsen non è
altro che un'eco". E dopo una pausa aggiunse: "Non che questo tenore
di discorsi ci porti molto lontano; sarebbe meglio tagliar corto con
tutte queste belle frasi poetiche e tornare alla realtà; Conway, io
voglio aiutarla, so che son tutte sciocchezze, ma voglio discuterle
con lei per il suo bene. Farò finta che ci sia qualcosa di possibile
in ciò che mi ha riferito, e che si debba esaminarlo. Mi dica ora
seriamente: quali prove ha da darmi in proposito?".
Conway tacque.
"Può dirmi soltanto che qualcuno le ha sciorinato una filastrocca
fantastica. Non accetterebbe senza prove una storia del genere
neppure da una persona attendibilissima e che avesse conosciuto fin
dai primi anni della sua vita. E che prove ha in questo caso? Neppure
una, a quanto vedo. LoTsen le ha forse raccontato la sua storia?".
"No, ma...".
"E allora perché credervi se gliel'ha raccontata qualcun altro? E
può forse mostrarmi un solo fatto, in questa faccenda della
longevità, in grado di darle consistenza?".
Conway pensò un momento, poi accennò alle opere sconosciute di
Chopin che Briac gli aveva suonato.
"Ebbene, io non sono musicista, e quest'argomento non mi dice
nulla. Ma anche se quelle melodie fossero autentiche Briac non
potrebbe averle avute in qualche altro modo, senza che questa storia
debba perciò esser vera?".
"Sarebbe di certo possibile".
"Poi dice che esiste questo famoso metodo per conservare la
giovinezza, eccetera, eccetera. Com'è? Ha accennato a qualche droga;
ebbene, voglio sapere di che droga si tratta. L'ha vista? provata?
Qualcuno le ha forse portato degli esempi concreti?".
"Devo ammetterlo, non conosco i particolari".
"E non si è mai curato di chiederne? Non le pareva che una storia
simile avesse bisogno di conferma? Se l'è bevuta così?". Vedendo che
era in vantaggio si fece incalzante. "E di questo luogo, a parte ciò
che le hanno raccontato, che cosa conosce in realtà? Ha visto alcuni
vecchi - ecco tutto. Più di questo non possiamo dire, se non che
tutto è bene organizzato qui e va avanti come sulle ruote. Come e
perché sia sorto il monastero non lo sappiamo; e perché vogliono
tenerci qui, ammesso che proprio lo vogliano, è ugualmente
misterioso; ad ogni modo tutto questo non è sufficiente per credere a
qualsiasi antica leggenda che ci raccontino! Se a lei, che dopo tutto
ha la stoffa del critico, dicessero tutto ciò in un monastero inglese
rifiuterebbe di crederlo - non capisco perché debba prenderlo per
buono soltanto perché ci troviamo nel Tibet!".
Conway annuì. Anche in mezzo a pensieri molto seri non poté fare a
meno di approvare una stoccata giunta a segno.
"E' un'osservazione acuta, Mallinson. suppongo che la verità sia
questa: quando dobbiamo credere senza prove a qualche cosa,
incliniamo sempre tutti dalla parte che più ci attira".
"Sarò un idiota, ma non riesco a capire che piacere ci possa essere
a continuare a vivere quando si è già mezzi morti. Per gusto mio, mi
dia una vita breve, ma brillante. E tutte queste chiacchiere su una
guerra futura... sciocchezze! Come si fa a sapere quando ci sarà
un'altra guerra, e come sarà? Nella grande guerra tutti i profeti non
si sbagliarono forse?". Siccome Conway taceva aggiunse: "E poi, a che
serve dire che gli eventi sono inevitabili? Anche se lo fossero, è
inutile crucciarsi. Se dovessi andare in guerra a battermi, lo sa il
cielo che bella paura avrei, ma preferisco affrontare la paura
piuttosto che seppellirmi qui".
Conway sorrise.
"Mallinson, lei è straordinario nel fraintendermi. Quando eravamo a
Baskul mi credeva un eroe, ora mi prende per un vigliacco. In realtà
io non sono né l'uno né l'altro, benché questo non abbia ora nessuna
importanza. Tornato in India racconti pure, se vuole, che ho deciso
di stabilirmi in un monastero del Tibet perché un'altra guerra mi
faceva paura. Il motivo non è questo ma sarà certamente creduto da
tutti quelli che già mi credono pazzo".
Mallinson rispose con una certa tristezza:
"Lo so che è sciocco parlare così. Non dirò mai una sola parola
contro di lei, qualunque cosa accada. Può contarci. Non la capisco,
lo ammetto, ma... ma vorrei capirla. Le assicuro che lo desidero
tanto. Conway, non posso proprio aiutarla? Non c'è nulla ch'io possa
dire, o fare per lei?".
Ci fu un lungo silenzio interrotto alla fine da Conway:
"Vorrei farle una domanda: mi perdonerà se sarà troppo intima".
"Ebbene?".
"E' innamorato di LoTsen?".
Il pallido viso del giovane cambiò colore in un attimo.
"Credo di sì. Le parrà assurdo e incredibile, e forse lo è, ma non
posso far violenza ai miei sentimenti".
"Non mi pare affatto assurdo".
La discussione, dopo molta burrasca, sembrava entrata in porto, e
Conway aggiunse:
"E neppur io posso far violenza ai miei. Quella ragazza e lei siete
le due persone al mondo a cui voglio più bene, benché possa sembrare
strano". Si alzò e cominciò a passeggiare per la stanza. "Abbiamo
detto tutto quello che si poteva dire, non è vero?".
"Credo di sì". Ma poi Mallinson in un impeto d'ardore continuò: "Ma
che sciocchezza... credere che non sia più giovane! Ed è anche una
cattiveria; e di pessimo gusto. Mi dica che non lo crede, Conway! E'
una cosa ridicola...".
"E chi potrebbe darle la prova che è giovane?...".
Mallinson voltò il capo da un lato e fissò gli occhi a terra; c'era
sul suo viso un'austera timidezza.
"Ne ho la certezza assoluta... Forse ora mi stimerà meno... Ma ne
sono proprio certo. Lei non l'ha mai capita, Conway. Era fredda solo
in apparenza... Il risultato della vita qui. Tutto il calore si era
raggelato... ma il calore c'era".
"Purché qualcuno lo sciogliesse dal gelo?".
"Sì... si potrebbe dire così".
"Ed è veramente giovane, Mallinson?... ne ha la certezza?".
Mallinson rispose dolcemente:
"Sì; è proprio una fanciulla. Mi dispiaceva tanto per lei; ma fu
un'attrazione reciproca. Non credo che ci sia niente da vergognarsi.
Del resto, in un posto come questo è la cosa più logica che potesse
accadere...".
Conway andò al balcone e guardò la lucida cima del Karakal; la luna
navigava sempre alta in un oceano senz'onde. Sentì che il sogno, come
tutte le cose troppo belle, era svanito al primo tocco della realtà;
sentì che l'avvenire del mondo intero messo su una bilancia contro la
gioventù e l'amore avrebbe pesato meno dell'aria. E si accorse pure
che la sua mente viveva in un mondo tutto suo, con ShangriLa in
microcosmo, e che anche questo mondo era in pericolo. Perché mentre
cercava di farsi forza, le vie della sua immaginazione si torcevano e
si tendevano sotto l'urto; gli edifici crollavano, tutto stava per
frantumarsi. Se ne sentiva addolorato solo in parte; ma infinitamente
triste e perplesso. Non sapeva più se era stato pazzo e se fosse ora
rinsavito, o se fosse stato sano di mente per un certo tempo, e poi
di nuovo impazzito.
Quando si volse, era cambiato; la sua voce si era fatta più acuta,
quasi brusca, il suo viso lievemente contratto: somigliava al Conway
che era stato a Baskul. pronto all'azione si piantò di fronte a
Mallinson con una nuova e improvvisa vivacità.
"Se fossi con lei, crede che riuscirebbe a passare in cordata quel
punto pericoloso?" gli chiese.
Mallinson gli balzò incontro:
"Conway!" gridò con voce strozzata. "Ma allora viene con me?! Si è
finalmente deciso!".
Partirono non appena Conway si fu preparato per il viaggio.
Andarsene fu straordinariamente semplice: una partenza, non una fuga:
nessun incidente nell'attraversare le zone di luce e d'ombra dei
cortili. Si poteva credere che non vi fosse nessuno, pensò Conway, e
subito l'idea di quel vuoto divenne vuoto dentro di lui; mentre
Mallinson, quasi inascoltato, seguitava a parlare del viaggio.
Com'era strano che la loro lunga discussione si fosse mutata in
azione; che questo segreto santuario venisse abbandonato da chi vi
aveva trovato tanta felicità! Non era passata un'ora che si fermarono
senza fiato a una curva del sentiero e videro per l'ultima volta
ShangriLa. Sprofondata sotto di loro, la valle della Luna Azzurra
sembrava una nuvola, e i tetti sparsi parvero a Conway quasi
fluttuanti nella scia di nebbia che si allontanava dietro ai suoi
passi. Era questo il momento dell'addio. Mallinson, rimasto
silenzioso per la fatica della ripida salita, disse ansando:
"Bravo, andiamo benone; coraggio e avanti!".
Conway sorrise, ma non disse nulla: stava già preparando la corda
per attraversare lo strettissimo passaggio a picco. Come aveva detto
il giovane, si era finalmente deciso; ma era anche vero che questa
decisione era l'unica cosa rimastagli. Tutto quel che ancora era vivo
in lui, era quel poco di energia attiva; il resto era vuoto, un vuoto
difficile a sopportare. Viandante fra due mondi, d'ora in poi avrebbe
dovuto camminare, camminare sempre; ma per il momento, nel suo
profondo annullamento interiore non sentiva se non l'affetto per
Mallinson e il dovere di aiutarlo: il suo destino era, come quello di
innumerevoli altri uomini, fuggire dalla saggezza e diventare un
eroe.
Mallinson sull'orlo dell'abisso fu tutt'altro che calmo, ma Conway
riuscì a farlo passare in perfetto stile alpinistico, e quando la
prova fu superata sentirono subito entrambi il bisogno di accendere
una sigaretta.
"E' stato molto buono, Conway... forse indovina ciò che provo...
non posso spiegarle quanto sono contento...".
"Dia retta a me: non lo tenti neppure".
Dopo una lunga pausa, e prima di riprendere il cammino, Mallinson
aggiunse:
"Non soltanto per me, ma anche per lei. Che fortuna che si sia
accorto ora che tutta quella roba era un ammasso di fandonie!... E'
meraviglioso vederla tornato come prima...".
"Niente affatto" rispose asciutto Conway, consolandosi così nel suo
interiore tormento.
Verso l'alba attraversarono il valico senza essere molestati da
nessuna sentinella, ammesso che ce ne fossero; Conway pensò che,
fedeli alla regola, non sorvegliassero la strada se non
moderatamente. Raggiunsero in breve l'altipiano, reso liscio e nudo
dai venti furiosi, e dopo una graduale discesa scorsero
l'accampamento dei portatori. Lì tutto accadde secondo le previsioni
di Mallinson: trovarono già pronti gli uomini, tipi robusti in
pellicce di pelo di pecora, appiattati contro la bufera, e ansiosi di
cominciare il viaggio verso TatsienFu, a mille e cento miglia verso
oriente, ai confini della Cina.
"Viene con noi!" gridò Mallinson fuori di sé per la gioia quando si
incontrarono con LoTsen. non s'era ricordato che non capiva
l'inglese, ma Conway tradusse la frase.
Gli pareva che la piccola manciù non fosse mai stata così
raggiante. Gli sorrise con molta grazia, ma i suoi occhi erano tutti
per il giovane.
Epilogo
Fu a Delhi che mi incontrai nuovamente con Rutherford. eravamo
stati a pranzo dal viceré, ma a tavola la distanza e più tardi il
cerimoniale ci avevano tenuti divisi fino al momento in cui i servi
in turbante ci porsero i nostri cappelli all'uscita. "Vieni con me
all'albergo a prendere qualcosa" mi disse.
Salimmo in un taxi e attraversammo poche aride miglia fra le nature
morte dei Lutyens e quel palpitante e caldo cinema che è la vecchia
Delhi. Avevo letto sui giornali che Rutherford era appena tornato da
Kashgar. s'era ormai fabbricata quella reputazione che riesce a
conquistarsi automaticamente il meglio di ogni cosa; qualsiasi
vacanza un po' insolita assume il carattere di un'esplorazione, e
benché l'esploratore si guardi bene dal fare qualcosa di speciale, il
pubblico non lo sa, ed egli ricava il cento per cento da qualche
impressione frettolosa. Per esempio, non m'era parso che il viaggio
di Rutherford, così com'era stato riportato dalla stampa, fosse di
quelli che fanno epoca: le sepolte città del Khotan erano roba
vecchia, solo che ci si ricordasse di Stein e di Sven Hedin. ero
abbastanza intimo con Rutherford da canzonarlo un poco a tal
proposito, e lui ne rise.
"Hai ragione; se avessi raccontato la verità, sarebbe stata una
storia più interessante".
Salimmo nella sua stanza d'albergo a bere un whisky.
"Hai fatto ricerche di Conway, vero?" suggerii quando mi parve
giunto il momento propizio.
"La parola ricerche è un po' esagerata" rispose. "Non si può
ricercare un uomo solo in un paese grande come mezza Europa. Posso
dire soltanto che ho visitato vari luoghi dove mi aspettavo di
incontrarlo, o di averne almeno notizie. L'ultimo messaggio, ricordi,
annunziava la sua partenza da Bangkok per il nordovest. ho trovato
qualche traccia risalendo il paese per un breve tratto, e penso che
avrà probabilmente cercato di avvicinarsi ai distretti abitati da
tribù indigene verso il confine con la Cina. Non credo che avrebbe
tentato di entrare in Birmania dove poteva imbattersi in impiegati
governativi inglesi. Forse l'unico indizio l'avrei scovato in qualche
località dell'alto Siam, ma di giungere fin là non mi è passato
neppure per la mente".
"Credevi forse più facile scoprire la valle della Luna Azzurra?".
"Confesso che mi sembrò più probabile. Hai dato un'occhiata a quel
mio dattiloscritto?".
"L'ho letto con molta attenzione. Anzi l'avrei rispedito, ma sei
partito senza lasciare indirizzo".
Rutherford annuì.
"E che cosa ne pensi?".
"L'ho trovato estremamente interessante, sempre però che sia fedele
al racconto di Conway".
"Ti do la mia parola d'onore. Non ho inventato niente; anzi, di mio
v'è forse ancor meno di quel che tu possa immaginare. Ho un'ottima
memoria, e Conway aveva un modo speciale di descrivere le cose. Non
devi dimenticare che conversammo ininterrottamente per quasi
ventiquattr'ore".
"Bene, come ti ho già detto, è molto interessante".
Si appoggiò alla spalliera della sedia sorridendo.
"Se non trovi altro da dirmi, sarà meglio che te ne parli io. Ho
l'aria di essere molto sicuro, vero? Ma forse non lo sono. In
generale, nella vita, a creder tutto troppo facilmente, si sbaglia;
ma quando si crede troppo poco, ci si annoia. La storia di Conway mi
fece certamente molta impressione, e per vari motivi; mi proposi
quindi di aggiungervi tutto ciò che era possibile, oltre - s'intende
- alla probabilità di ritrovare anche lui".
Dopo aver acceso un sigaro continuò:
"Far questo voleva dire viaggiare molto in luoghi strani; ma
siccome mi piace... I miei editori non si lagneranno se mando loro
una volta tanto un libro di viaggi. Devo aver fatto, tutt'insieme,
parecchie migliaia di miglia; Baskul, Bangkok, ChungKiang, Kashgar,
le ho visitate tutte, e il mistero è certamente racchiuso in qualche
piccolo punto di tale area. Ma è un territorio abbastanza vasto, come
vedi, e tutte le mie investigazioni non poterono oltrepassarne
neanche il margine (e neppure, perciò, il margine del mistero). Se
poi, dell'avventura di Conway, vuoi soltanto i fatti, e solo quei
fatti che siano stati controllati da me, tutto ciò che posso dirti è
che lasciò Baskul il 20 maggio e che arrivò a ChungKiang il 5
ottobre. E le ultime notizie sono che partì di nuovo da Bangkok il 3
febbraio. Tutto il resto è probabilità, possibilità, indovinello,
mito, leggenda, quel che vuoi".
"Non hai dunque trovato nulla nel Tibet?".
"Mio caro, non ci sono neppure entrato nel Tibet. al palazzo del
governo non vollero nemmeno sentirne parlare; tutto ciò che si può
ottenere da quei signori è che diano la loro approvazione a una
spedizione sull'Everest, e quando dissi che volevo vagabondare nei
KuenLuns per conto mio, mi guardarono come se avessi proposto loro
di scrivere una biografia di Gandhi. Oh, ne sapevano molto più di me:
"Andare in giro per il Tibet non è impresa per un uomo solo; bisogna
partire con una spedizione bene organizzata, diretta da qualcuno che
sappia almeno qualche parola di tibetano". (E pensare che io, mentre
Conway mi raccontava la sua storia, mi ero di continuo meravigliato
che vi fossero tante difficoltà per aspettare l'arrivo dei portatori!
dicevo: ma perché non prendere tutt'e quattro le proprie robe, e via
tranquillamente da soli?...). La gente del Governo aveva mille
ragioni; tutti i passaporti del mondo non mi avrebbero aperto la via
dei KuenLuns. mi ci avvicinai fino a poterli vedere in lontananza in
una giornata limpidissima, a una cinquantina di miglia. Non molti
europei possono dire altrettanto".
"Sono montagne spaventose?".
"Sembravano un fregio bianco all'orizzonte, ecco tutto. A Yarkand e
a Kashgar ne domandai a quanti incontravo... Credo che siano la
catena meno esplorata del globo. Ebbi la fortuna di parlare con un
americano che tempo innanzi aveva tentato di attraversarli ma non era
riuscito a trovare un valico. Diceva che v'erano sì dei passaggi, ma
tremendamente alti e non segnati sulle carte. Gli chiesi se credeva
possibile l'esistenza di una vallata come l'aveva descritta Conway, e
lui mi rispose che se non impossibile era certo poco probabile,
soprattutto sotto gli aspetti geologici. Gli domandai poi se avesse
mai sentito parlare di una montagna a cono, alta quasi come le più
alte vette dell'Himalaya, e la sua risposta fu un po' strana. Disse
che v'era in proposito una leggenda, ma che la credeva senza
fondamento. Aggiunse che la leggenda parlava di monti anche più alti
dell'Everest, ma che a lui non pareva possibile. "Non credo che il
più alto picco dei KuenLuns superi i 25'000 piedi, se pure ci
arriva" disse. Ma si affrettò ad aggiungere che quelle cime non erano
mai state misurate rigorosamente.
"Gli chiesi allora che cosa sapesse dei monasteri di Lama nel
Tibet, dove si era recato parecchie volte, e raccontò le solite cose
che si leggono nei libri. Mi assicurò che non erano davvero luoghi di
incanti, e che i monaci erano generalmente sporchi e corrotti.
"Vivono a lungo?" chiesi, e mi rispose di sì, quando però non
morivano prematuramente di qualche male ripugnante. Allora mi feci
coraggio e andai al punto chiedendogli se avesse mai sentito qualche
leggenda di longevità estrema fra i Lama. "Ne ho sentito a bizzeffe"
rispose, "se ne raccontano di tutti i generi dappertutto, ma
verificarle è impossibile. Per esempio le mostrano un essere
ripugnante e le dicono che è rimasto per cent'anni murato in una
cella; a guardarlo le parrebbe estremamente probabile, ma
naturalmente non può esigere il certificato di nascita". Interrogato
se credeva che possedessero qualche potere occulto o medicinale per
prolungare la vita o la gioventù, mi disse che realmente si
attribuiscono loro molte e strane nozioni in proposito, ma che a
parer suo chi avesse indagato un po' da vicino avrebbe scoperto
facilmente una specie di trucco indiano della corda: è sempre qualcun
altro che l'ha vista. Disse che i Lama parevano avere strane forze di
controllo fisico. "Li ho osservati mentre stavano seduti sull'orlo di
un laghetto gelato, completamente nudi, con una temperatura sotto
zero e un vento furioso; i loro servi rompevano il ghiaccio e
inzuppavano d'acqua gelida larghe lenzuola con cui poi li
avviluppavano. Lo facevano per dodici volte e più, e sempre i Lama
asciugavano queste lenzuola con il calore del loro corpo. Si crede
che mantengano il sangue a un'elevata temperatura con la forza della
volontà, ma mi pare una spiegazione poco convincente"".
Rutherford si versò di nuovo da bere.
"Ma questo, come diceva pure il mio amico americano, non ha niente
a che vedere con la longevità. Dimostra soltanto che, riguardo
all'autodisciplina, i Lama hanno gusti ben poco allegri. Ecco dunque
fin dove ero giunto con le mie investigazioni, e probabilmente sarai
d'accordo con me che, con simili testimonianze, non c'è neppure
quanto basta per impiccare un cagnolino".
Gli dissi che concordavo pienamente, e gli chiesi poi se i nomi
"Karakal" e "ShangriLa" non avessero trovato qualche eco nella
memoria dell'americano.
"Niente affatto; ho provato inutilmente. Dopo aver ascoltato le mie
domande concluse: "I monasteri mi interessano poco; una volta a un
tale che incontrai nel Tibet dissi che se per caso avessi abbandonato
la via giusta, l'avrei lasciata per evitarli, non per andare a
caderci dentro". Questa sua casuale osservazione mi fece venire
un'idea curiosa, e gli chiesi quando fosse avvenuto questo suo
incontro. ""Oh, da un bel pezzo" mi rispose, "prima della guerra.
Credo che fosse nel 1911". Insistetti per avere altri particolari che
mi diede ricordando alla meglio. Pare che allora stesse viaggiando
per una società geografica americana, con parecchi colleghi,
portatori, eccetera... una spedizione in regola. In qualche luogo
presso i KuenLuns aveva incontrato quest'individuo, un cinese in una
portantina con portatori indigeni. Questo tale parlava in buon
inglese, e aveva insistito vivamente perché visitassero un certo
monastero nelle vicinanze; anzi si era offerto come guida lui stesso.
L'americano aveva risposto che non avevano tempo e che la proposta
non li interessava, e questo fu tutto". Dopo una pausa Rutherford
proseguì: "Suppongo che questo non significhi gran che. Quando
qualcuno si sforza di ricordare un incidente qualunque capitatogli
vent'anni prima, non puoi architettarvi su grandi congetture. Ma puoi
trarne motivo per interessanti riflessioni".
"Sì, benché una spedizione bene organizzata che avesse accettato
l'invito non sarebbe poi stato troppo facile trattenerla al monastero
contro la volontà dei componenti".
"E' vero. E forse non si trattava neppure di ShangriLa".
Ci ripensammo a lungo, ma pareva un argomento troppo nebuloso per
poterlo discutere, e io continuai chiedendogli se avesse scoperto
qualche prova a Baskul.
"A Baskul non ebbi alcuna speranza; e fu anche peggio a Peshawar.
nessuno mi seppe dir nulla, eccetto che il dirottamento dell'aereo
era un fatto innegabile. Furono anche piuttosto restii
nell'ammetterlo; non era un episodio da vantarsene".
"E dell'apparecchio non si ebbe mai più nessuna notizia?".
"Non una parola, né dell'apparecchio, né dei passeggeri. Potei però
verificare che si trattava veramente di un aereo speciale, capace di
salire a grandi altezze e attraversare lunghe catene di montagne.
Cercai pure di rintracciare quel Barnard, ma il suo passato risultò
così misterioso che non sarei affatto sorpreso che fosse proprio
Chalmers Bryant, come diceva Conway. Tanto più che la scomparsa di
Bryant fra tanto chiasso e fra tutte le recriminazioni del fallimento
era sembrata a tutti stupefacente".
"Ti sei informato del rapitore?".
"Tentai, ma anche qui senza risultato. L'aviatore militare che
l'altro aveva atterrato per prenderne il posto, era morto qualche
tempo dopo; così anche questa promettente pista di indagini fu
troncata. Scrissi persino in America a un mio amico che dirige una
scuola d'aviazione per sapere se di recente avesse avuto qualche
allievo tibetano, ma la sua risposta, benché pronta, fu una nuova
delusione. Mi disse che non faceva alcuna distinzione fra tibetani e
cinesi: che di questi ultimi ne aveva istruito circa cinquanta per
combattere contro i giapponesi. Niente da fare neppure lì, come vedi.
Però feci una bizzarra scoperta, che del resto mi sarebbe stata
facile anche da Londra. Verso la metà del secolo scorso c'era a Jena
un professore tedesco che si fece giramondo e visitò il Tibet nel
1887. Non tornò più, e si diceva fosse annegato guadando un fiume. Si
chiamava Friedrich Meister".
"Cielo! uno dei nomi citati da Conway!".
"Sì, ma potrebbe anche essere una coincidenza. E poi non proverebbe
nulla perché l'uomo di Jena era nato nel 1845".
"Però è strano" dissi.
"Sì, è abbastanza strano".
"E sei riuscito a rintracciare gli altri?".
"No. E' un peccato che la lista dei nomi non fosse più lunga. Non
trovai cenno di nessun allievo di Chopin che si chiamasse Briac,
benché questo non provi che non sia esistito. Conway era piuttosto
parco nei nomi, e se ci pensi è strano che di circa cinquanta Lama
che dovevano trovarsi nel monastero me ne nominasse soltanto uno o
due. Anche di Perrault e di Henschell non potei trovare alcuna
traccia".
"E che mi dici di Mallinson?" domandai. "Che cosa gli sarà
capitato? E di quella ragazza? Quella piccola cinese?...".
"Cercai di informarmi anche di loro, mio caro. Come avrai visto dal
manoscritto, il difficile consisteva in questo: che la storia di
Conway termina nel momento in cui abbandonarono la vallata con la
carovana dei portatori. Dopo di questo o non volle o non poté
raccontarmi cosa fosse successo; però, bada, me l'avrebbe detto poi,
se avessimo avuto più tempo. Possiamo però tentare di ricostruire in
qualche modo la tragedia. Le fatiche del viaggio dovettero essere
impressionanti e v'era il pericolo di incontrare briganti, o magari
di essere traditi dalla stessa scorta. Probabilmente non sapremo mai
con esattezza ciò che accadde, ma è quasi sicuro che Mallinson non
sia mai giunto in Cina. Figurati se non ho fatto ogni sorta di
inchieste! Cercai, prima di tutto, di reperire delle notizie sui
grandi invii di libri e di merci oltre la frontiera tibetana, ma né a
Sciangai, né a Pechino, che mi parevano i luoghi più probabili per
simili spedizioni, trovai assolutamente nulla. Questo però non
avrebbe molta importanza, perché per le loro importazioni i Lama
dovevano certo preoccuparsi del segreto assoluto. Allora feci un
tentativo a TatsienFu. Sembra un luogo magico, difficilissimo a
raggiungersi, una specie di mercato alla fine del mondo, dove i
portatori cinesi dello Yunnan passano i loro carichi di tè ai
tibetani. Ne leggerai qualcosa nel mio nuovo libro, che sarà presto
pubblicato. Gli europei arrivano di rado fin laggiù. Vi trovai gente
educata e cortese, ma assolutamente nessuna testimonianza dell'arrivo
di Conway con i suoi compagni".
"Perciò non ti sei ancora spiegato come Conway abbia potuto
arrivare a ChungKiang?".
"Sono giunto a questa sola conclusione: che vi capitò per caso,
come avrebbe potuto capitare in qualunque altro posto. Però noi, una
volta a ChungKiang, possiamo finalmente rientrare nel regno dei
fatti, e questo è già un risultato. L'ospedale della missione con le
sue suore è una realtà indubitabile, ed è pure una realtà
l'entusiasmo di Sieveking a bordo quando Conway suonò quella
pseudomusica di Chopin". Rutherford si interruppe, poi disse
pensoso: "Puoi constatare che sto facendo un vero esercizio per
equilibrare tutte le probabilità; ebbene, i due piatti della bilancia
salgono e scendono con scatti quasi uguali, tanto da una parte che
dall'altra. Certo - siamo franchi -, se non accetti il racconto di
Conway, vuol dire che hai dei dubbi o sulla sua sincerità, o sulle
sue facoltà mentali".
Si interruppe nuovamente, come aspettando qualche parola di
commento; e io dissi:
"Come sai, dopo la guerra non l'ho più rivisto; ma mi dissero che
era tornato molto cambiato".
Rutherford rispose:
"Sì, lo era davvero. Come può un giovane (anzi un ragazzo, quasi)
assoggettarsi a tre anni di intenso logorio fisico e morale senza che
una parte di lui non sia fatta a brandelli? La gente dirà, immagino,
che ne uscì senza un graffio. Ma le ferite c'erano: erano dentro".
Parlammo un poco della guerra, e delle sue conseguenze a seconda
delle persone; ma tornò presto sul tema principale:
"Devo aggiungere una cosa, e forse è la più strana di tutte: un
particolare che venne fuori quando feci le mie ricerche alla
missione. Come puoi intuire, suore, medici, infermieri, fecero tutto
il possibile per aiutarmi; ma non rammentavano gran che, perché a
quell'epoca avevano avuto un lavoro enorme per un'epidemia di febbri.
Una delle mie domande fu in che modo Conway fosse arrivato
all'ospedale: da solo, oppure accompagnato da qualcuno che lo avesse
trovato ammalato in qualche luogo? Nessuno se ne ricordava, era
accaduto tanto tempo fa... Ma a un tratto, quando stavo per
rinunciare al mio interrogatorio, una delle suore disse casualmente:
"Credo che il dottore dicesse che era stato accompagnato qui da una
donna". Non seppe dirmi altro; e siccome il dottore non era più alla
missione, non potei averne subito la conferma.
"Ma ormai ero così a buon punto nelle mie indagini, che non avevo
nessuna intenzione di troncarle. Seppi che il dottore si trovava a
Sciangai, in un grande ospedale, e andai a trovarlo. Era un ometto
buffo ma intelligentissimo; parlava inglese abbastanza bene spezzando
le sillabe alla cinese in un modo divertente. Lo avevo già conosciuto
durante il mio primo soggiorno a ChungKiang, e fu molto cortese,
benché sovraccarico di lavoro per una recente incursione aerea dei
giapponesi, un avvenimento feroce; le incursioni aeree dei tedeschi
su Londra non sono nulla in confronto a quanto i giapponesi fecero
nei quartieri indigeni di Sciangai. Il dottore mi disse subito che
ricordava benissimo il caso di quell'inglese che aveva perduto la
memoria. Gli chiesi se era vero che fosse stato accompagnato
all'ospedale da una donna. "Sì, certo, da una donna cinese". Si
ricordava di lei? Mi rispose che non rammentava niente, eccetto che
anche lei era ammalata di febbri, e che era morta quasi subito...
Fummo interrotti: vennero ad avvertirlo ch'era arrivata un'altra
ambulanza di feriti e che li avevano disposti su barelle nei
corridoi, perché le corsie erano piene zeppe. Mi dispiaceva fargli
perder tempo, tanto più che il tuonare dei cannoni a Woosung ammoniva
che ci sarebbe stato ancora molto da fare. Quando ritornò,
apparentemente allegro fra tanto squallore, gli feci un'unica domanda
finale: "E quella donna cinese... mi dica... era giovane?"".
Rutherford scosse il sigaro, come se il racconto gli avesse dato
tanta emozione quanta sperava che ne procurasse a me. Poi disse:
"L'ometto mi guardò un momento con gravità, poi rispose con quel
buffo sillabare che è proprio dei cinesi istruiti: "Oh no, era molto
vecchia; più vecchia di quante ne avessi mai visto"".
Sedemmo a lungo in silenzio; poi parlai nuovamente di Conway come
lo ricordavo io, buon ragazzo, ricco di belle doti e tanto simpatico;
poi della guerra che lo aveva mutato; dei molti misteri del tempo,
dell'età e del pensiero; e della piccola manciù che era diventata
"molto vecchia" e di quell'ultimo strano sogno della Luna Azzurra.
"Credi che la troverà mai?" gli chiesi.
Fine