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POVERTA’ E ESCLUSIONE SOCIALE/ MATERIALE SCARICATO DA ITALIANI EUROPEI L’Unione europea contro la povertà. Coordinamento aperto e processo di inclusione sociale di Maurizio Ferrera, Manos Matsaganis, Stefano Sacchi Fino alla metà degli anni Novanta, la nozione di «Europa sociale» era principalmente assimilata all’introduzione di norme sovranazionali mirate alla salvaguardia e, possibilmente, al miglioramento dei sistemi di protezione sociale degli Stati membri. Gli ostacoli politici ed istituzionali a tali norme erano ben noti in pratica ed altrettanto ben compresi in teoria, segnatamente sulla scia del dibattito relativo alla dicotomia tra integrazione positiva e negativa. La hard law, l’emanazione di regolamenti e direttive, sembrava però essere l’unica strategia d’azione efficace, visti da una parte gli scarsi effetti prodotti da strumenti istituzionali di minor vigore quali le raccomandazioni, e dall’altra i sempre maggiori incentivi al «dumping sociale» scaturiti dalla realizzazione del mercato interno. Fino alla metà degli anni Novanta, la nozione di «Europa sociale» era principalmente assimilata all’introduzione di norme sovranazionali mirate alla salvaguardia e, possibilmente, al miglioramento dei sistemi di protezione sociale degli Stati membri. Gli ostacoli politici ed istituzionali a tali norme erano ben noti in pratica ed altrettanto ben compresi in teoria, segnatamente sulla scia del dibattito relativo alla dicotomia tra integrazione positiva e negativa. La hard law, l’emanazione di regolamenti e direttive, sembrava però essere l’unica strategia d’azione efficace, visti da una parte gli scarsi effetti prodotti da strumenti istituzionali di minor vigore quali le raccomandazioni, e dall’altra i sempre maggiori incentivi al «dumping sociale» scaturiti dalla realizzazione del mercato interno.

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POVERTA’ E ESCLUSIONE SOCIALE/MATERIALE SCARICATO DA ITALIANI EUROPEI

L’Unione europea contro la povertà. Coordinamento aperto e processo di inclusione sociale di Maurizio Ferrera, Manos Matsaganis, Stefano Sacchi

Fino alla metà degli anni Novanta, la nozione di «Europa sociale» era principalmente assimilata all’introduzione di norme sovranazionali mirate alla salvaguardia e, possibilmente, al miglioramento dei sistemi di protezione sociale degli Stati membri. Gli ostacoli politici ed istituzionali a tali norme erano ben noti in pratica ed altrettanto ben compresi in teoria, segnatamente sulla scia del dibattito relativo alla dicotomia tra integrazione positiva e negativa. La hard law, l’emanazione di regolamenti e direttive, sembrava però essere l’unica strategia d’azione efficace, visti da una parte gli scarsi effetti prodotti da strumenti istituzionali di minor vigore quali le raccomandazioni, e dall’altra i sempre maggiori incentivi al «dumping sociale» scaturiti dalla realizzazione del mercato interno.

Fino alla metà degli anni Novanta, la nozione di «Europa sociale» era principalmente assimilata all’introduzione di norme sovranazionali mirate alla salvaguardia e, possibilmente, al miglioramento dei sistemi di protezione sociale degli Stati membri. Gli ostacoli politici ed istituzionali a tali norme erano ben noti in pratica ed altrettanto ben compresi in teoria, segnatamente sulla scia del dibattito relativo alla dicotomia tra integrazione positiva e negativa. La hard law, l’emanazione di regolamenti e direttive, sembrava però essere l’unica strategia d’azione efficace, visti da una parte gli scarsi effetti prodotti da strumenti istituzionali di minor vigore quali le raccomandazioni, e dall’altra i sempre maggiori incentivi al «dumping sociale» scaturiti dalla realizzazione del mercato interno.

Nella seconda metà degli anni Novanta si è assistito a un graduale cambiamento sia di clima sia di prospettive. Una legislazione vincolante continuava a essere percepita come un ingrediente fondamentale della dimensione sociale europea, e anzi il dibattito sui diritti fondamentali e su una possibile Costituzione europea a pieno titolo ha fatto ulteriormente avanzare il fronte delle ambizioni giuridiche al riguardo. Contemporaneamente, però, ha cominciato a essere oggetto di considerazione e sperimentazione un’altra strategia d’intervento politico, basata sulla complessa combinazione di ingredienti istituzionali relativamente «soffici», ma dotati di una forte capacità potenziale di orientare le trasformazioni in atto a livello nazionale. Applicato in origine all’area dell’occupazione, il nuovo approccio è stato poi esteso ad altri settori di policy, e in particolare alle politiche volte a combattere l’esclusione sociale, sotto il nome di «metodo aperto di coordinamento», MAC, espressione coniata nel 2000, nel corso del semestre di presidenza portoghese.

Gli ingredienti istituzionali principali del MAC consistono in linee guida comuni, piani d’azione nazionali, revisione inter pares (peer review), rapporti di valutazione congiunta e raccomandazioni. Nessuno dei suddetti strumenti ha carattere vincolante, fondato sulla possibilità di enforcement. Inoltre, pur fornendo agli attori delle policy un’agenda relativamente chiara, la miscela di tutti questi ingredienti lascia ampie possibilità di adeguamento al contesto nazionale. Il nuovo approccio rimane quindi soft e nation-state friendly: due caratteristiche che facilitano molto l’adozione di decisioni coordinate. Pur intervenendo in assenza di norme e sanzioni cogenti, il MAC genera

comunque, nei confronti dei governi nazionali e subnazionali, numerosi incentivi al rispetto delle indicazioni emesse. Gli ingredienti istituzionali di cui sopra sono organizzati in «processi» relativamente strutturati che si ripetono nel tempo sulla base di un calendario regolare, processi che creano fiducia e atteggiamenti cooperativi in tutti i partecipanti e tendono a incoraggiare le dinamiche dell’apprendimento. È proprio in questo senso che il MAC presenta una forte capacità potenziale a esercitare una reale influenza sugli sviluppi delle policy, quanto meno a raffronto delle raccomandazioni una tantum o anche della classica cooperazione intergovernativa stile OCSE.

L’esclusione sociale ha fatto il suo ingresso nella sfera applicativa del metodo aperto di coordinamento nel corso del 2001. Sebbene i confini effettivi di tale area di policy rimangano, come vedremo, relativamente vaghi, il suo obiettivo primario riveste un ruolo di straordinaria rilevanza nel cosiddetto modello sociale europeo. Far sì che ogni cittadino possa contare su una piattaforma di diritti e di risorse per poter prendere parte alla società rappresenta una delle principali «questioni di interesse comune» per tutti gli Stati membri dell’Unione europea. Tradizioni e sensibilità nazionali (e persino subnazionali) su come tale obiettivo debba essere raggiunto differiscono però enormemente, forse ancor più di quanto non avvenga in altre aree di politica sociale quali le pensioni o l’occupazione. Se ben concepite e ben calibrate, le politiche di coordinamento aperto contro l’esclusione potrebbero dunque condurre a una virtuosa combinazione fatta di stimoli esterni a porsi interrogativi sui vari problemi, e di sforzi interni volti a identificare (e mettere in atto) soluzioni adeguate. In quanto segue verranno ricostruite le varie fasi del cammino che ha portato al lancio del nuovo «processo di inclusione sociale» a livello comunitario, descrivendo le caratteristiche salienti del processo stesso per poi discuterne l’efficacia e le prospettive future.

La comparsa dell’esclusione sociale nell’agenda comunitaria

I trattati originari rispecchiavano la convinzione, tipica dell’età dell’oro del capitalismo industriale, che la crescita economica potesse da sola migliorare le possibilità di vita di tutti i cittadini. Tale credenza cominciò a vacillare nel corso degli anni Ottanta, e nel 1989 una risoluzione del Consiglio specificava che «la lotta all’esclusione sociale può essere considerata una parte importante della dimensione sociale del mercato interno» e postulava la «necessità di abbinare le politiche di sviluppo economico con politiche di integrazione specifiche, sistematiche e coerenti».

La nozione di esclusione sociale ha cominciato a prendere piede nel discorso relativo alle policy dell’Unione europea durante la prima fase della presidenza Delors (dal 1985 all’inizio degli anni Novanta). Nato in seno al dibattito francese, il concetto di esclusione sociale ha, nell’uso consueto, una connotazione piuttosto vaga, e viene spesso suggerito che è forse proprio questa vaghezza la fonte stessa del suo grande richiamo nei confronti dei policymakers. Quando posto a confronto con quello di povertà, il concetto di esclusione sociale viene comunemente inteso come multidimensionale, dinamico e volto a cogliere gli aspetti relazionali (laddove il concetto di povertà sarebbe unidimensionale, statico e orientato agli aspetti distributivi), ed è proprio in questi termini che è stato inquadrato nel discorso di politica sociale dell’Unione. Comunque, povertà ed esclusione sociale sono spesso inscindibilmente legate nei testi comunitari: nella relazione congiunta sull’inclusione sociale, per esempio, si legge che «i termini povertà ed esclusione sociale si applicano ai casi in cui gli individui non sono in grado di partecipare pienamente alla vita economica, sociale e civile e/o quando il loro accesso al reddito e ad altre risorse (personali, familiari, sociali e culturali) è così inadeguato da escluderli dal godimento di un tenore e di una qualità di vita considerati accettabili nella società in cui vivono. In tali situazioni gli individui sono sovente incapaci di accedere pienamente ai propri diritti fondamentali».

I primi passi: dalle raccomandazioni del 1992 alla strategia concertata

Dalla appena citata risoluzione del Consiglio scaturirono, nel 1992, due Raccomandazioni, che la Commissione aveva cercato, senza successo, di fare approvare come direttive. La prima, la Raccomandazione 441/92/CEE sui criteri comuni in materia di risorse e prestazioni sufficienti nei sistemi di protezione sociale, appare in retrospettiva di grande importanza, in primo luogo perché ha avuto il pregio di riconoscere che la crescita economica da sola non è sufficiente a garantire l’integrazione sociale e rimane quindi necessaria l’adozione di politiche specificamente mirate allo scopo. Inoltre, ha invitato gli Stati membri (giacché le Raccomandazioni non hanno forza vincolante) a riconoscere, nel contesto dei loro rispettivi sistemi di protezione sociale, «il diritto fondamentale della persona a risorse e a prestazioni sufficienti per vivere conformemente alla dignità umana» e quindi, in sostanza, a porre in essere o a mantenere degli schemi di reddito minimo o loro equivalenti funzionali.

A sua volta, la Raccomandazione 92/442/CEE sulla convergenza degli obiettivi e delle politiche di protezione sociale è importante perché ha avanzato per la prima volta l’idea di una «strategia di convergenza» che, pur nel rispetto dell’esclusiva competenza degli Stati membri in materia di protezione sociale, miri a definire «obiettivi comuni atti a guidare le politiche degli Stati membri al fine di consentire la coesistenza dei vari sistemi nazionali e di farli progredire in armonia reciproca verso gli obiettivi fondamentali della Comunità». Nella Raccomandazione si chiedeva inoltre alla Commissione di organizzare consultazioni regolari con gli Stati membri sull’evoluzione delle politiche di protezione sociale. Cinque anni dopo, nel 1997, è stato firmato il Trattato di Amsterdam, che ha incorporato l’Accordo sulla politica sociale. Basato sulla Carta sociale del 1989, l’Accordo era stato allegato nel 1992 al Protocollo sulla politica sociale, a sua volta allegato ma non incluso nel Trattato di Maastricht in ragione dell’opposizione britannica. Il governo del New Labour, al governo dal maggio 1997, ratificò immediatamente l’Accordo rendendone così possibile l’inclusione nel Trattato. Per la prima volta nella storia dell’integrazione europea, la lotta contro l’esclusione sociale veniva esplicitamente menzionata in un trattato: l’articolo 136 la indica infatti tra gli obiettivi della Comunità e degli Stati membri. Le disposizioni di maggior rilievo sono comunque quelle dell’articolo 137, dove l’integrazione delle persone escluse dal mercato del lavoro è citata tra le aree in cui la Comunità «sostiene e completa» l’azione degli Stati membri. Ne consegue che il Consiglio può, mediante la procedura di codecisione e dunque votando a maggioranza qualificata, adottare direttive volte ad introdurre «prescrizioni minime applicabili progressivamente». Con la medesima procedura, il Consiglio può «adottare misure destinate a incoraggiare la cooperazione tra Stati membri attraverso iniziative volte a migliorare la conoscenza, a sviluppare gli scambi di informazioni e le migliori prassi, a promuovere approcci innovativi e a valutare le esperienze fatte per combattere l’esclusione sociale». Infine, alla Commissione sono oggi attribuiti i compiti di «incoraggiare la cooperazione» tra gli Stati membri e «facilitare il coordinamento» delle loro azioni in materia di politica sociale (articolo 140), laddove in precedenza si parlava semplicemente di «promuovere una stretta collaborazione tra gli Stati membri».

Nel 1999 la Commissione ha varato un documento che si è rivelato di fondamentale importanza nel processo iniziato con le Raccomandazioni del 1992: la Comunicazione intitolata «Una strategia concertata per modernizzare la protezione sociale». Sulla scorta della creazione della moneta unica e della sempre maggiore istituzionalizzazione della Strategia europea per l’occupazione, la Commissione riteneva che fosse giunto «il momento di approfondire la collaborazione esistente a livello europeo», al fine di assistere gli Stati membri nel compito di modernizzare la protezione sociale e di formulare «una visione politica comune della protezione sociale nell’Unione europea». Quattro obiettivi venivano quindi indicati come fondamentali per la realizzazione di una strategia

concertata. Primo. Rendere il lavoro remunerativo e garantire un reddito sicuro. Secondo. Garantire la sicurezza e la sostenibilità dei sistemi pensionistici. Terzo. Promuovere l’inclusione sociale. Quarto. Garantire un’assistenza sanitaria al contempo di elevata qualità e sostenibile

Al Consiglio la Commissione chiedeva di sottoscrivere tali obiettivi nonché di predisporre il «contesto per una più stretta cooperazione nel campo della protezione sociale, fondata sullo scambio di esperienze, la concertazione reciproca» e la valutazione degli sviluppi delle policy in corso così da poter identificare le «migliori prassi». Si trattava evidentemente della richiesta formale dell’avvio, nel campo della protezione sociale, di un processo simile a quello già operante nell’ambito della strategia europea per l’occupazione, similitudine rafforzata dall’invito rivolto agli Stati membri affinché nominassero dei funzionari ad alto livello a cui affidare la gestione di tale processo, ovvero qualcosa che condividesse i tratti del Comitato per l’occupazione e modellato su di esso. Alla fine del 1999, il Consiglio adottò la strategia concertata e i quattro obiettivi, e istituì il Gruppo ad alto livello per la protezione sociale, in seguito sostituito dal Comitato per la protezione sociale.

La svolta: Lisbona

Il Consiglio europeo straordinario tenutosi a Lisbona nel marzo 2000 sarà senza dubbio ricordato come un momento cruciale nell’evoluzione della politica sociale nell’UE. Il vertice di Lisbona ha infatti fissato un obiettivo strategico per l’Unione, per il decennio 2000–2010: quello di «diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggior coesione sociale». Il raggiungimento di tale obiettivo presuppone una «strategia globale» volta, tra le altre cose, a combattere l’esclusione sociale.

Due furono gli strumenti identificati al fine di tradurre tale strategia in realtà: l’introduzione di un nuovo «metodo aperto di coordinamento» e il potenziamento del ruolo di guida e coordinamento del Consiglio europeo, un ruolo peraltro messo in evidenza anche dal Libro Bianco della Commissione sulla governance europea. Per quanto concerne il MAC, esso ha lo scopo di diffondere le prassi migliori e conseguire una maggiore convergenza verso i principali obiettivi dell’Unione e, «concepito per assistere gli Stati membri nell’elaborazione progressiva delle loro politiche», adotta un’impostazione «totalmente decentrata». In estrema sintesi, il MAC consiste nel definire degli orientamenti per l’Unione secondo calendari specifici per il raggiungimento degli obiettivi stabiliti, nel determinare indicatori e parametri di riferimento (benchmarks) per poter confrontare le prassi migliori, nel tradurre tali orientamenti in politiche nazionali e regionali, e nello svolgere periodicamente attività di monitoraggio, verifica e valutazione inter pares (peer review) con lo scopo di attivare processi di apprendimento reciproco tra gli Stati membri.

Per consentire al Consiglio europeo di poter coordinare efficacemente le politiche occupazionali, macroeconomiche e sociali secondo un’unica strategia coerente, da allora nota come «strategia di Lisbona», il vertice di Lisbona decise di affiancare ai due tradizionali Consigli europei di giugno e dicembre un nuovo vertice, da tenersi ogni anno in primavera, dedicato espressamente alle questioni economiche e sociali nonché, dopo il lancio di una strategia per lo sviluppo sostenibile da parte del vertice di Göteborg, ai problemi ambientali.1 Si decise inoltre che la Commissione avrebbe contribuito al vertice di primavera stilando annualmente una «relazione di sintesi», basata su indicatori strutturali concordati e determinata a valutare i progressi compiuti ogni anno nelle aree d’interesse della strategia di Lisbona.

La presidenza portoghese intendeva chiaramente dare alle politiche sociali e dell’occupazione un peso maggiore nell’ambito della definizione delle politiche dell’Unione. Oltre a porre tali processi sotto l’ala protettrice del Consiglio europeo, Lisbona tentò anche di ridurre la competenza virtualmente esclusiva del Consiglio ECOFIN sugli indirizzi di massima per la politica economica e di far sì che, in seguito, in questi si tenesse conto anche delle questioni relative all’occupazione e alla coesione sociale. Che questo sia effettivamente avvenuto è decisamente opinabile, e la tattica prescelta potrebbe anche essere stata controproducente, ad esempio per quanto riguarda il modo in cui il MAC è stato applicato alla riforma delle pensioni.

Il vertice di Lisbona decise di applicare il MAC alla lotta contro l’esclusione sociale seguendo le linee definite dalla Commissione nella sua comunicazione «Costruire un’Europa solidale», pubblicata poco prima. Tale proposta comportava la presentazione di piani d’azione nazionali da parte degli Stati membri e la realizzazione di un programma d’azione comunitario per sostenere la lotta. Il vertice rivolse al Consiglio l’invito a concordare, allo scopo di «imprimere una svolta decisiva alla lotta contro la povertà», obiettivi «adeguati» entro la fine del 2000.

Dagli obiettivi di Nizza ai piani nazionali: il decollo del «processo di inclusione sociale»

Il vero e proprio avvio del processo di inclusione sociale ha avuto luogo nel dicembre 2000, con il Consiglio europeo di Nizza. In tale occasione, il Consiglio europeo ha approvato gli obiettivi per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale concordati poco prima in seno al Consiglio, ovvero: primo, promuovere la partecipazione all’occupazione e l’accesso di tutti alle risorse, ai diritti, ai beni e ai servizi; secondo, prevenire i rischi d’esclusione; terzo, intervenire a favore delle persone più vulnerabili; quarto, mobilitare tutte le parti interessate.

Il Consiglio europeo invitava inoltre gli Stati membri a «sviluppare le loro priorità nel quadro di tali obiettivi, a presentare entro il giugno 2001 un piano nazionale d’azione per un periodo di due anni e a definire indicatori e modalità di controllo che permettano di valutare i progressi compiuti». Sulla base dei suddetti piani nazionali (NAP/INCL nel gergo comunitario), la Commissione veniva incaricata di presentare una «relazione di sintesi che individui le buone prassi e le impostazioni innovative d’interesse comune per gli Stati membri» in vista dell’elaborazione di una relazione congiunta da parte di Consiglio e Commissione.

Pertanto, almeno per il primo ciclo biennale del processo, l’esercizio di verifica doveva porre l’accento sulle caratteristiche positive dei NAPS/INCL, più che valutarne il contenuto. Un tale approccio «protettivo» potrebbe essersi rivelato di vitale importanza per un processo che muoveva di fatto i suoi primi passi, e ciò soprattutto alla luce delle tensioni tra gli Stati membri e la Commissione originate da alcune valutazioni che quest’ultima ha inserito nella propria bozza di relazione sull’inclusione sociale. L’atteggiamento benevolente della Commissione rappresenta tuttavia una differenza significativa di stile di guida tra il processo di inclusione sociale e quello di Lussemburgo (relativo all’occupazione).

I quattro obiettivi di Nizza, (cinque di fatto, poiché il primo è stato diviso e trattato come se fossero due) sono intenzionalmente vaghi e suscettibili di interpretazioni diverse da parte di ciascuno Stato membro per poter tenere in considerazione quella tanto radicata eterogeneità dei vari «modi di fare» nazionali in un’area di policy così delicata. Accanto agli obiettivi per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale, il Consiglio europeo di Nizza ha inoltre approvato l’Agenda sociale europea, che definisce «priorità d’azione concrete» per il periodo 2001–2005 sulla base di «sei orientamenti strategici in tutti i settori della politica sociale». Non sorprendentemente, uno dei sei orientamenti riguarda proprio «la lotta alla povertà e a tutte le forme di esclusione e discriminazione per favorire

l’integrazione sociale». Vale la pena notare che una delle azioni da intraprendere secondo l’Agenda consiste nell’«aiutare i paesi candidati a far propri gli obiettivi della lotta alla povertà e all’esclusione sociale», il che sta a significare che il processo dell’inclusione sociale è considerato parte integrante dell’acquis communautaire. Al termine del Consiglio europeo, è stato raggiunto un accordo sul Trattato di Nizza. La «lotta contro l’esclusione sociale» è oggi enumerata tra quei campi in cui la Comunità «sostiene e completa l’azione degli Stati membri» (articolo 137 del Trattato emendato). Al Comitato per la protezione sociale, CPS, viene accordato uno status ufficiale (articolo 144): formato da due rappresentanti per la Commissione e per ogni Stato membro, esso ha «carattere consultivo, al fine di promuovere la cooperazione in materia di protezione sociale tra gli Stati membri e con la Commissione».

Il ruolo del Comitato per la Protezione Sociale (CPS)

Istituito da una decisione del Consiglio nel giugno 2000, ma operativo solo a partire dal dicembre dello stesso anno, il CPS ha immediatamente scoperto che avrebbe dovuto lottare con le unghie e con i denti per difendere l’autonomia della protezione sociale dalle politiche di bilancio. Un esempio è rappresentato dal modo in cui la Commissione ha stilato la sua prima relazione di sintesi sulla strategia di Lisbona, presentata al Consiglio europeo di Stoccolma nel marzo 2001. Basata su una lista di indicatori «strutturali», la relazione di sintesi è il contributo della Commissione al vertice di primavera, e contiene una valutazione dei progressi ottenuti ogni anno nelle aree appartenenti alla strategia di Lisbona.2 I pochi e scarni riferimenti alla strategia per una maggiore coesione sociale fatti dalla relazione di sintesi 2001 scatenarono delle aspre critiche da parte del CPS, che sottolineò come il Rapporto non riflettesse a «sufficienza l’equilibrio generale di Lisbona tra politiche economiche e politiche sociali», né tantomeno «l’importanza che il Consiglio europeo di Lisbona aveva assegnato alla lotta contro la povertà e l’esclusione sociale». Nel corso del 2001, il CPS si è inoltre adoperato per produrre una lista di indicatori di coesione sociale definiti di comune accordo tra gli Stati membri, come prescritto dal mandato del Consiglio europeo di Lisbona. Nel dicembre 2001 il Consiglio ha adottato la lista di diciotto indicatori suggeriti nel rapporto. Gli indicatori sono divisi in due gruppi (dieci primari e otto secondari), abbracciano quattro dimensioni dell’esclusione sociale, segnatamente la povertà finanziaria, la situazione lavorativa, la salute e l’istruzione e sono destinati ad essere utilizzati dagli Stati membri nei NAP/INCL e da Consiglio e Commissione per la relazione congiunta sull’inclusione che verrà presentata nel secondo round del processo di inclusione sociale. In altre parole, mentre nei NAP/INCL del 2001 gli Stati membri sono stati liberi di utilizzare gli indicatori a loro avviso più adeguati, a partire dal 2003 dovranno fare ricorso a quelli concordati congiuntamente e accomodare le specificità nazionali nell’ambito di un terzo gruppo di indicatori che non saranno armonizzati a livello comunitario.

La prima fase del processo di inclusione sociale

I NAP/INCL, strutturati secondo un indice comune per facilitare il loro utilizzo nell’ambito di un esercizio di apprendimento reciproco, sono stati presentati dagli Stati membri nel giugno 2001.

Sulla base dei quindici NAP/INCL e di una tornata di incontri bilaterali con gli Stati membri organizzati nel corso dell’estate, la Commissione ha adottato nell’ottobre del 2001 un progetto di relazione congiunta sull’inclusione sociale. Tale bozza è stata poi discussa dalla Commissione stessa e dai rappresentanti degli Stati membri nel CPS, e in tale occasione sono emerse alcune tensioni, generate da quelle sezioni della bozza che classificavano i NAP/INCL sulla base della loro

qualità.3 Dopo la rimozione delle sezioni incriminate, la bozza così emendata è stata adottata come relazione congiunta sull’inclusione sociale dal Consiglio, riunito nella formazione «Occupazione e politica sociale» nel dicembre 2001.

La relazione congiunta sull’inclusione

La relazione congiunta è un documento di 250 pagine, suddiviso in tre parti: la prima riguarda l’Unione nel suo insieme, la seconda esamina ciascun NAP/INCL e la terza riporta l’elenco degli indicatori utilizzati e gli esempi di buone prassi menzionate dai NAP/INCL. In ciò che segue limiteremo la nostra attenzione alla prima parte della relazione.

Seppure in misura e intensità variabili, anche considerevolmente, tra Stato membro e Stato membro, tutti i NAP/INCL affrontano otto «sfide cruciali»: 1) sviluppare un mercato del lavoro inclusivo e promuovere l’occupazione come un diritto e un’opportunità per tutti; 2) garantire reddito e risorse adeguate a condurre una vita dignitosa; 3) combattere lo svantaggio in materia di istruzione; 4) salvaguardare la solidarietà familiare e tutelare i diritti dei bambini; 4) garantire una buona sistemazione abitativa per tutti; 6) garantire uguali possibilità d’accesso a servizi di qualità (salute, trasporti, servizi sociali, assistenza, cultura, tempo libero, assistenza giuridica); 7) migliorare l’erogazione dei servizi; 8) riqualificare le aree caratterizzate da una molteplicità di svantaggi.

È interessante notare che i punti deboli dei vari NAP/INCL emergono chiaramente dalla relazione congiunta. Nonostante la vocazione di quest’ultima non sia quella di «giudicare le politiche degli Stati membri e la loro efficacia» ma semplicemente «trarre una lezione dalle impostazioni adottate nei vari Stati membri» in modo tale da «contribuire all’identificazione e allo scambio delle buone prassi», un certo numero di lacune dei NAPS/INCL viene identificato esplicitamente. Manca sovente una valutazione rigorosa delle politiche attuate, il che rende estremamente difficoltosa l’individuazione delle misure che davvero meritano lo status di «buone prassi»; in parte a causa del poco tempo disponibile per la loro preparazione, la maggior parte dei NAP/INCL tende a concentrarsi sulle politiche già in atto piuttostoche lanciare nuove iniziative e nuovi approcci di policy; la maggior parte delle politiche proposte non include alcuna stima relativa ai costi loro associati; solo pochi NAP/INCL si spingono oltre generiche aspirazioni per fissare traguardi quantitativi allo scopo di poter valutare i progressi compiuti; alla questione della parità di genere è accordata ben poca visibilità; sebbene le parti sociali e i rappresentanti delle organizzazioni non governative siano stati formalmente consultati nella maggior parte dei paesi, sulla base delle sole informazioni fornite è risultato difficile valutare quale sia stato il loro reale contributo ai NAP/INCL; in generale, il loro coinvolgimento appare limitato; non viene riportata evidenza sufficiente per valutare il reale coinvolgimento degli enti locali e regionali nella stesura NAPS/INCL.

Molte di queste lacune sono simili a quelle identificate nei piani nazionali d’azione per l’occupazione nei primi anni del processo di Lussemburgo. Inoltre, non è comunque da escludere che, pur insoddisfacenti e disarticolati, i NAP/INCL del 2001 possano aver contribuito alla lotta contro l’esclusione sociale per almeno tre ragioni. Primo. I NAP/INCL hanno dato prova di costituire una notevole fonte di informazioni «dal basso», gettando luce su quelli che ciascuno Stato membro percepisce come gli aspetti importanti e ben funzionanti delle proprie politiche, facilitando così la policy discovery da parte degli altri Stati membri. In breve, i nuovi NAP/INCL hanno mostrato un «potenziale euristico». Secondo. La necessità di elaborare i NAP/INCL ha spinto molti dei governi nazionali e locali coinvolti a consolidare o addirittura creare dal nulla delle strutture (e delle capacità) volte alla progettazione e al monitoraggio delle politiche di contrasto all’esclusione

sociale: i nuovi NAP/INCL hanno pertanto messo in mostra un «potenziale di costruzione delle capacità istituzionali». Terzo, infine. Nel redigere i NAP/INCL, i responsabili politici nazionali hanno avuto occasione di mettere alla prova l’adeguatezza delle basi informative delle varie politiche e di individuare debolezze nell’efficacia o nell’equità delle politiche stesse o strozzature e tensioni nei meccanismi di coordinamento istituzionale (ad esempio tra i livelli nazionali e quelli locali). In questo senso i NAP/INCL hanno dato prova di un potenziale maieutico».4 Resta ovviamente da vedere se in futuro queste potenzialità si tradurranno in realtà.

Conclusioni e raccomandazioni di politica pubblica

Come la precedente discussione dimostra, il nuovo «processo di inclusione sociale» dell’Unione europea segna uno sviluppo importante nella lotta contro la povertà e l’esclusione sociale in Europa. Una nuova fase è dunque cominciata, caratterizzata da un’impostazione più strutturata e, forse, da una maggiore determinazione a raggiungere risultati reali, che si traducano cioè in miglioramenti tangibili negli standard di vita di almeno una parte di quegli europei che sono stati (o rischiano di essere) lasciati indietro. Inutile dire che l’esito finale di questa nuova fase è ancora sconosciuto, giacché tante sono le possibilità e tanti i rischi. Le circostanze sono note a tutti. Come per la politica sociale in senso lato, la lotta contro la povertà e l’esclusione sociale è un’area gelosamente custodita dagli Stati membri. Se è vero che la coesione sociale è un principio che nessun politico può permettersi di non avere a cuore, all’atto pratico il grado di priorità che le viene attribuita è determinato da una vasta serie di fattori, che vanno dalla «visibilità» del problema, all’esistenza di strutture di policy adeguate, alla forza delle organizzazioni non governative, all’influenza dei gruppi di pressione, all’atteggiamento delle forze politiche e così via. Il fatto che queste componenti possano differire (e differiscano) significativamente da uno Stato membro all’altro pone un limite alla profondità e velocità del coordinamento delle policy e vanifica dal punto di vista politico qualsiasi approccio che non adotti un «metodo aperto». I rischi sono altrettanto evidenti: in mancanza di sanzioni (come nel caso del traguardo dell’Unione economica e monetaria) o anche soltanto di linee guida (come nel caso della Strategia europea per l’occupazione), l’intero processo potrebbe scadere in un mero rituale in cui ogni due anni si «mette il vestito buono» alle politiche già esistenti, almeno per quanto riguarda quei governi che hanno poca inclinazione a dedicare energia e risorse a questa area di policy.

In ragione di quanto detto, è lecito porsi il seguente interrogativo: può il nuovo processo generare risultati politici significativi? Per noi la risposta è affermativa, purché vi sia l’impegno sufficiente e a condizione che si adottino misure supplementari per sostenere e rendere più efficace il processo. In primo luogo, i processi inevitabilmente separati dei piani d’azione nazionale per l’occupazione e per l’inclusione sociale dovrebbero essere progressivamente avvicinati. La prima ragione è piuttosto ovvia: il lavoro rimane il modo più efficace per affrancarsi dall’esclusione sociale. La seconda è più sottile e forse più controversa. Il binomio «sicurezza e flessibilità» (flexicurity) è divenuto un paradigma di politica pubblica di importanza primaria, ma implica che si agisca su entrambi i fronti: dal lato della politica per l’occupazione (uno sforzo graduale e negoziato per rendere i mercati del lavoro più flessibili) e da quello della politica sociale (un chiaro impegno a elevare gli standard di protezione sociale e a rendere le reti di protezione sociale più forti e più fitte). Collegare i due processi è fondamentale per creare fiducia e per convincere coloro che nutrono scetticismo nei confronti della flexicurity: Occorre in altre parole promuovere la credibilità dell’operazione come strategia capace di migliorare contestualmente tanto l’efficienza che la giustizia sociale.

Evitare nella misura del possibile di compiere solo operazioni cosmetiche implica necessariamente un’apertura dei piani d’azione nazionali alle parti sociali e alle organizzazioni non governative.

Realisticamente, la responsabilità generale rimane nelle mani dei governi, e non potrebbe essere altrimenti, ma la partecipazione attiva della società civile è assolutamente essenziale per assicurare che i piani nazionali d’azione raggiungano il proprio scopo. Il coinvolgimento di tali organizzazioni (e, presumibilmente, dei rappresentanti dei poveri e dei socialmente esclusi) potrebbe essere reso più sostanziale se procedure semiformali di consultazione fossero istituite a livello nazionale ed europeo.

Il significato della Raccomandazione 441/92 per l’evoluzione di una politica europea contro la povertà e l’esclusione sociale è oramai ampiamente riconosciuto. La mera adozione di una Raccomandazione sulle «risorse sufficienti» nel contesto politico dei primi anni Novanta è un riflesso del fatto che, nonostante le discrepanze tra regimi di welfare, tradizioni istituzionali, preferenze politiche, l’esistenza di un minimo garantito al di sotto del quale non si può vivere decentemente rappresenta una componente chiave del «modello sociale europeo». Dieci anni dopo, forse è giunto il momento per una nuova iniziativa politica dal duplice scopo: estendere la portata della Raccomandazione 441/92 al di là del reddito garantito per includere garanzie su sanità, alloggio e formazione continua, ma anche incoraggiare la messa in atto di schemi di reddito minimo (o equivalenti funzionali) pienamente sviluppati in tutti gli attuali Stati membri dell’Unione europea e in quelli destinati ad esserne parte in futuro.5

Bibliografia

1 Si noti che la lotta all’esclusione sociale è parte di tale strategia.

2 Gli «indicatori strutturali» riguardanti la protezione sociale si riferiscono essenzialmente alla dispersione dei redditi, alla povertà e alla persistenza in stato di povertà, alla disoccupazione e all’abbandono scolastico.

3 La Commissione aveva diviso i NAP/INCL in quattro gruppi: il primo comprendeva quelli di Danimarca, Francia e Paesi Bassi, che danno prova di «un approccio olistico, teso a sostenere il mutamento strutturale» e di una risposta proattiva alle sfide chiave, inserita in un quadro che include orizzonti temporali, obiettivi e traguardi quantitativi. I NAP/INCL di Portogallo, Finlandia, Svezia e Regno Unito comparivano nel secondo gruppo: essi venivano definiti «solidamente fondati sulle diagnosi dei rischi e delle sfide fondamentali, fissando degli approcci ragionevolmente coerenti e strategici». I NAP/INCL di Belgio, Germania, Spagna, Italia ed Irlanda venivano inseriti nello stesso gruppo in quanto «contengono elementi di una strategia nazionale alla quale si stanno apportando dei miglioramenti, così da riflettere le nuove realtà o da renderla maggiormente coerente», ma non fissano traguardi nazionali e neppure, nel caso dei primi quattro paesi, regionali o locali. Nel quarto gruppo sono finiti i NAP/INCL di Grecia, Lussemburgo ed Austria, che «forniscono essenzialmente un’istantanea della situazione della povertà e dell’esclusione sociale e delle politiche in vigore» senza presentare traguardi quantitativi a lungo termine.

4 Questo potrebbe essere il caso della situazione descritta dalla relazione congiunta laddove, per quanto riguarda i senzatetto, essa nota che «la maggior parte degli Stati membri ammette di sapere troppo poco sulle dimensioni e la natura del problema, ciò che li ostacola nell’elaborazione di misure maggiormente strategiche e preventive».

5 Pubblicato come Open co-ordination against poverty: the new EU «social inclusion process», in «Journal of European Social Policy», III 2002. Copyright © Sage Publications Ltd, 2002, www.sagepub.co.uk. Un’altra versione del saggio è in corso di stampa su «L’assistenza sociale».

Maurizio Ferrera, Manos Matsaganis, Stefano Sacchi Autore Maurizio Ferrera insegna Scienza dell’amministrazione all’Università di Pavia. Manos Matsaganis insegna Economia all’Università di Creta. Stefano Sacchi è dottorando in Scienza Politica dell’Università di Pavia e special student al PhD in Economics dell’Università Bocconi di Milano.

Cittadini a metà, Le nuove forme della povertà e dell’esclusione sociale di Chiara Saraceno

«Il numero di persone che vivono al di sotto della linea della povertà e che si trovano in situazione di esclusione sociale all’interno dell’Unione europea è inaccettabile. Occorre prendere provvedimenti che abbiano un impatto decisivo nella direzione di un vero e proprio sradicamento della povertà attraverso la fissazione di specifici obiettivi». Sono le parole con cui si concluse il vertice di Lisbona nel marzo 2000, e con le quali la questione della povertà entrò ufficialmente nella agenda politica europea.

«Il numero di persone che vivono al di sotto della linea della povertà e che si trovano in situazione di esclusione sociale all’interno dell’Unione europea è inaccettabile. Occorre prendere provvedimenti che abbiano un impatto decisivo nella direzione di un vero e proprio sradicamento della povertà attraverso la fissazione di specifici obiettivi». Sono le parole con cui si concluse il vertice di Lisbona nel marzo 2000, e con le quali la questione della povertà entrò ufficialmente nella agenda politica europea. Proprio mentre i fenomeni di immigrazione portano entro i confini dell’Europa sviluppata e democratica i problemi della povertà derivanti dal mancato sviluppo, l’Europa deve constatare che anche lo sviluppo non solo non è riuscito del tutto ad eliminare i problemi «tradizionali» di povertà, ma ne sta creando altri cui non è attrezzata a fare fronte. L’industrializzazione «matura» porta a fenomeni di de-industrializzazione, acuiti dalla competizione dei mercati del lavoro «deboli» dei paesi in via di sviluppo; l’aumento delle speranze di vita e l’invecchiamento della popolazione portano a sovraccarichi di dipendenze e di domande di cura sulle famiglie, vincolandone le risorse di tempo ed economiche; lo sviluppo della società della conoscenza lascia ai margini coloro che non riescono a farne parte e così via.

Il «discorso europeo» sulla questione della povertà e dell’esclusione sociale ha una lunga storia alle spalle: tre programmi di azione, un osservatorio, innumerevoli convegni e documenti, tra cui l’importante raccomandazione del 1992 sul dovere di ogni paese di fornire ai propri cittadini una garanzia minima di risorse: finanziarie, ma anche in termini di istruzione, di cure mediche, di abitazione. Questa raccomandazione ha stimolato quei paesi che ancora non avevano una politica di contrasto alla povertà organica e una misura di garanzia del reddito di ultima istanza ad introdurla. Si pensi al caso del reddito minimo di inserimento (RMI) in Francia e del reddito minimo garantito (RMG) in Portogallo. Anche se alcuni paesi, Italia e Grecia soprattutto, sono ancora inadempienti e in generale le interpretazioni su che cosa costituisca una garanzia minima di risorse – in termini di

contenuto e di livelli di generosità – varia molto da paese a paese; così come varia la sensibilità per il problema, indipendentemente dalle sue dimensioni.

Avere inserito questo tema nella agenda politica europea, e più precisamente in quell’insieme di temi che sono oggetto del metodo di «coordinamento aperto» già utilizzato per le politiche della occupazione, con il suo corredo di piani nazionali di azione, di definizione di indicatori e obiettivi comuni, di peer reviews e di verifiche ex ante ed ex post, consolida il processo di costruzione di un senso comune europeo su questo tema, a partire dalle specificità nazionali. Se, infatti, i fenomeni della povertà e dell’esclusione sociale sono trasversali a tutti i paesi sviluppati, essi non solo si presentano con specificità diverse a seconda della collocazione di ciascun paese nella divisione internazionale del lavoro e più in generale a seconda del livello e tipo di sviluppo; ma anche con specificità diverse a seconda del modello di welfare proprio di ciascun paese, come testimoniano non solo i tassi, ma la composizione demografica diversa della popolazione che si trova in povertà da un paese europeo all’altro. Nonostante il dibattito su come misurare la povertà sia ampio e per certi versi irrisolto,1 non vi è dubbio che entro l’Unione europea il grado di diffusione della povertà può aumentare anche di sette volte passando, ad esempio, dalla Danimarca al Portogallo. Non solo, paesi con livelli del PIL molto simili possono viceversa presentare percentuali di povertà molto diversi, segnalando come siano in gioco sia modelli di disuguaglianza dei redditi, sia di disuguaglianza tra i sessi e tra tipi di famiglia molto diversi. Ad esempio, nei paesi scandinavi, ove pure è molto elevato proprio quel tipo di famiglia che altrove è segnalato come più vulnerabile alla povertà, composto da genitore solo (per lo più madre) con figli, la diffusione della povertà è molto contenuta e questo particolare tipo di famiglia non appare più vulnerabile alla povertà di altri. Ciò sembra essere l’effetto combinato di un livello di disuguaglianza sia dei redditi che di un forte ruolo redistributivo del welfare: «via» servizi, ma anche «via» alleggerimento dell’esclusiva dipendenza dei figli dalla famiglia per le proprie chances di vita.

Prima di approfondire questo punto e prima di entrare nel merito della situazione italiana occorre tuttavia soffermarsi su un aspetto del discorso europeo sulla povertà e l’esclusione sociale (presente anche nelle parole con cui si apre questa riflessione, che presenta qualche aspetto problematico sia sul piano concettuale che, di conseguenza su quello dello spazio discorsivo delle policies). Si tratta della sovrapposizione, quando non sostituzione, del termine «esclusione sociale» a quello di «povertà».2 Il termine esclusione sociale ha avuto, almeno in Europa, una grande popolarità perché consentiva di tenere insieme due interpretazioni della realtà che si riferiscono ad approcci e preoccupazioni diverse: quello preoccupato dei diritti sociali e del mantenimento di una uguaglianza sostanziale nell’accesso a questi ultimi pur in società fortemente segnate da disuguaglianze; quello piuttosto preoccupato dei fenomeni di disintegrazione – disaffiliation – sociale derivanti dal venir meno dei tradizionali meccanismi di integrazione sociale – gerarchie professionali, di competenze, di genere, di generazione – in società che non solo non hanno più un univoco sistema di legittimazione e riconoscimento, ma che non sembrano neppure più avere a cuore il problema della integrazione sociale salvo che come problema di ordine pubblico. Il primo guarda alle condizioni che consentono, o viceversa impediscono, agli individui e gruppi di accedere alle risorse rilevanti e al sistema dei diritti. Il secondo guarda ai processi che favoriscono, o viceversa impediscono o indeboliscono fortemente, l’appartenenza a reti sociali e sistemi di identificazioni significativi entro una determinata comunità. Si tratta di due livelli di esperienza, e di analisi, molto importanti e persino potenzialmente complementari, che tuttavia possono coesistere senza integrarsi e persino competere. In particolare, la preoccupazione per l’integrazione sociale, per lo sviluppo di appartenenze e legami significativi, può tranquillamente coesistere con una scarsa attenzione per i diritti individuali. Di più, forti appartenenze comunitarie, forti coinvolgimenti in reti sociali di prossimità, possono per certi versi produrre altrettanto forti vincoli alle capacità di cittadinanza degli individui e persino alle loro capacità di autonomia economica. È il caso, ad esempio, di molte donne che non possono presentarsi sul mercato del lavoro, e per quella via acquisire non solo un

reddito proprio, ma anche diritti sociali propri (ad esempio una pensione) a motivo delle loro obbligazioni familiari; o è il caso di giovani e donne di ogni età in comunità che al fine di difendere la propria integrità e coesione interna, mantengono un forte controllo sui propri appartenenti, rivendicando diritti di gruppo piuttosto che diritti individuali. Viceversa, il possesso di diritti formali può di per sé non produrre automaticamente inclusione sociale, come sanno bene molti immigrati che, pur avendo un lavoro regolare e un reddito, fanno fatica a farsi affittare un appartamento o sperimentano più o meno esplicite forme di esclusione quotidiana nelle comunità in cui vivono. O ancora, in linea di principio le persone senza dimora avrebbero diritto, almeno nel nostro paese, all’assistenza sanitaria, ed in altri paesi con un sistema più sviluppato del nostro avrebbero diritto anche ad una abitazione. Ma molte di loro, a motivo delle vicende biografiche che le hanno condotte alla condizione di senza dimora e poi a causa di questa stessa esperienza, possono non avere sia le informazioni che le capacità minime necessarie per fruire di questi diritti.

Proprio questo (almeno) duplice significato del termine esclusione, d’altra parte (se ne sono lasciate in ombra le potenziali contraddizioni), lo fa ritenere come più ricco, più multidimensionale, di quello della povertà. Esso richiama la questione dei diritti e delle competenze di cittadinanza ed insieme quella del radicamento in appartenenze e reti sociali significative; formula la questione della inadeguatezza delle risorse come non limitata esclusivamente alla inadeguatezza del reddito, ma dell’insieme dei beni, materiali e immateriali, necessari per funzionare adeguatamente; di conseguenza, costringe a formulare la questione delle politiche di contrasto non solo in termini di più o meno generose erogazioni monetarie, ma di attivazione di capacità individuali e comunitarie da un lato, di verifica dei meccanismi sociali che producono esclusione dall’altro.

Molte delle politiche di contrasto alla povertà avviate in questi anni in diversi paesi europei – dal RMI francese con la sua insistenza sulle misure di accompagnamento e integrazione sociale, al welfare to work inglese nei suoi aspetti sia di investimento formativo e di attivazione non solo dei beneficiari, ma degli stessi servizi per l’impiego, sia di attenzione per le circostanze che possono impedire di presentarsi sul mercato del lavoro (ad esempio l’assenza, o il costo, di affidabili servizi per i bambini nel caso delle madri sole) – pur nella loro forte diversità anche culturale, in qualche misura partono dall’idea che la povertà non sia solo una questione di mancanza di risorse economiche e che proprio per questo possa comportare processi di esclusione sociale che vanno contrastati in quanto tali. Questa stessa idea stava alla base anche della sperimentazione del RMI avviata in Italia nel 1997 su un numero ridotto di comuni ed ora sospesa in una sorta di limbo, come molte, troppe, sperimentazioni nel nostro paese. Questo spostamento discorsivo, tuttavia, non è privo di rischi, come testimoniano indirettamente la sua fortuna e i vari usi che ne vengono fatti nei discorsi di policy. Così, ad esempio, l’enfasi sul welfare to work non rappresenta solo una opportuna critica a servizi di assistenza sociale che si limitano burocraticamente a controllare certificazioni senza preoccuparsi di analizzare i bisogni dei beneficiari e di sostenerli nella ricerca di alternative. Rappresenta, molto di più, un discorso sugli stessi beneficiari come persone in qualche misura incapaci, quando non moralmente danneggiate, bisognose di controlli e incentivi perché non si abbandonino passivamente all’assistenza. Perciò il problema della povertà e dell’esclusione sociale non sono più o tanto problemi di disuguaglianze ingiuste e insostenibili, o di politiche inadeguate, ma problemi comportamentali da correggere. E il problema della assistenza diviene il problema della welfare dependency. Nonostante nessuna ricerca seria, che abbia seguito longitudinalmente campioni di poveri assistiti, abbia dimostrato l’esistenza di meccanismi per cui il ricevere assistenza provoca una diminuzione sia delle capacità che della volontà di stare sulle proprie gambe ed anzi diverse ricerche la abbiano smentita,3 essa rimane uno stereotipo forte. Lo è paradossalmente anche nel nostro paese, ove certamente è difficile individuare misure assistenziali dirette a chi si trova in povertà tali, per generosità, universalismo e facilità di accesso, da far anche solo ipotizzare che qualcuno possa adagiarvisi. Al contrario, si potrebbe ipotizzare che proprio l’esistenza di misure categoriali, frammentate, poco generose, può provocare fenomeni di parziale

dipendenza più o meno ricorrente, insieme a fenomeni di collusione più o meno clientelistica e a imbrogli di piccolo cabotaggio.4

L’assorbimento del discorso sulla povertà da parte di quello sull’esclusione sociale, quindi, comporta un doppio rischio dal punto di vista delle policy. In primo luogo favorisce una definizione di chi si trova in povertà come persona automaticamente danneggiata anche dal punto di vista del capitale umano e delle competenze personali (come persona in qualche modo non in grado di badare a se stessa e di valutare adeguatamente ciò che è meglio per sé e la propria famiglia). In secondo luogo rischia di far ritenere la questione della povertà economica come socialmente non problematica, se non è anche accompagnata da altri tipi di disagi o svantaggi. Il secondo rischio è particolarmente grave in un paese come l’Italia in cui si sovrappone a una radicata tradizione di assistenza non solo poco generosa e fortemente diseguale a livello territoriale, ma esclusivamente categoriale, con una precisa gerarchia di «meritevolezza»: anziani, invalidi, seguiti a grande distanza dai minori, sono le tradizionali categorie meritevoli, cui il discorso sulla esclusione sociale fa ora aggiungere «quelle figure più problematiche dell’emarginazione sociale che necessitano di una rete di sostegni per non finire totalmente e irreversibilmente esclusi» – per dirla con le parole con cui Maroni ha di recente descritto i potenziali ed esclusivi beneficiari di un RMI messo a regime.

Questa visione del povero come moralmente e umanamente «danneggiato» e tendenzialmente incapace ed (auto-)escluso non corrisponde alle caratteristiche della maggioranza di chi nei paesi occidentali sviluppati e in particolare in Europa si trova più o meno temporaneamente in povertà. In primo luogo perché si tratta di una popolazione eterogenea per caratteristiche socio-demografiche, biografie, vicende che la hanno portata in povertà, durata dell’esperienza, e così via. La madre adolescente a bassa istruzione, priva di qualificazione professionale e di sostegni familiari è diversa dalla donna separata con figli che con la rottura del matrimonio ha perso l’aggancio ad un reddito sicuro e deve ricollocarsi sul mercato del lavoro; entrambe queste situazioni sono diverse da quelle della famiglia dell’operaio o impiegato che ha perso il lavoro ed esaurito l’indennità di disoccupazione senza essere riuscito a ricollocarsi sul mercato del lavoro, o ancora da chi non è mai riuscito a trovare un lavoro stabile. E tutte queste persone sono diverse da chi non solo diviene povero, ma socialmente isolato a motivo di comportamenti rischiosi: alcolismo, tossicodipendenza, ma anche fuga da casa, e ancora da chi a motivo di disagi psichici non è in grado di adattarsi ad una routine normale. E la situazione dell’immigrato che non può permettersi una abitazione decente perché non guadagna abbastanza, o perché deve saldare il debito contratto per il viaggio, o perché manda parte del guadagno al paese d’origine per mantenere la famiglia rimasta là, è diversa da quella del senza dimora autoctono divenuto tale per vicende legate ad una biografia difficile. Tutte queste situazioni presentano bisogni di reddito ed anche di servizi; ma non tutte possono essere trattate allo stesso modo dal punto di vista della valutazione delle capacità, anche di usare il reddito e i servizi.

Soprattutto, le ricerche sul fenomeno della povertà economica in questi anni hanno segnalato come la sua diffusione riguardi in maggioranza individui e famiglie che non possono essere considerate totalmente ai margini della società e tanto meno isolate. Con l’eccezione dei paesi nordici, infatti, ove non solo la percentuale dei poveri è bassa, ma riguarda in misura maggiore adulti che vivono soli, il 60% dei poveri in età da lavoro in Europa vive in famiglie in cui vi sono figli minori e il 40% appartiene a famiglie con figli minori in cui almeno un adulto lavora. E benché l’incidenza della povertà sia più alta tra le famiglie in cui nessuno è occupato e in quelle con un solo genitore (spesso non occupato), negli ultimi dieci-quindici anni l’aumento della povertà è stato più forte nelle famiglie in cui sono presenti due genitori, uno dei quali è occupato. Sono queste le famiglie in cui vive la maggioranza dei minori poveri, che hanno conosciuto, nello stesso periodo, un consistente aumento della incidenza della povertà a fronte di una sostanziale stabilità della incidenza

complessiva. Viceversa la povertà tra le famiglie e tra i minori è più bassa là dove ci sono due percettori di reddito, in particolare là dove entrambi i genitori sono occupati.

Ovvero, senza nulla togliere alla gravità dei fenomeni di esclusione sociale vera e propria, gran parte della diffusione della povertà riguarda non l’adesione a stili di vita rischiosi e neppure la pura e semplice mancanza di lavoro, per incapacità personale o per mancanza di opportunità. Riguarda uno squilibrio tra redditi e numero di consumatori familiari. Riguarda quindi il fatto che alcuni redditi da lavoro non consentono di mantenere una famiglia e che è troppo basso il numero di lavoratori per famiglia. Questo a sua volta dipende sia dalla divisione di genere del lavoro entro la famiglia (con conseguenze negative per donne e bambini nel caso in cui il matrimonio per qualche ragione finisca), sia dalla mancanza di servizi di cura che alleggeriscano il lavoro familiare delle donne consentendo loro di stare più agevolmente sul mercato del lavoro, sia da un inadeguato sistema di riconoscimento del costo dei figli a livello sia fiscale che dei trasferimenti. Se si mettono, infatti, a confronto i dati sulla diffusione della povertà tra i minori nei diversi paesi europei prima e dopo i trasferimenti alle famiglie5 si vede come in alcuni paesi questi tassi siano bassi comunque (sono i paesi ad alto tasso di occupazione femminile, quindi ad alto tasso di famiglie con due percettori di reddito, ma anche con bassi livelli di disuguaglianza da reddito); altri, come Francia, Inghilterra, Belgio e Olanda, che hanno (specie l’Inghilterra) alti tassi di povertà, riescono a ridurla in modo sostanzioso con i trasferimenti familiari. Altri ancora, come Italia, Spagna, Portogallo e Grecia hanno alti tassi di povertà tra i minori e una efficacia bassissima dei trasferimenti alle famiglie. In Italia questi trasferimenti (l’assegno al nucleo familiare) riducono l’incidenza della povertà di meno di due punti percentuali. E si capisce, dato che l’assegno al nucleo familiare riguarda solo particolari tipi di famiglie povere, quelle con lavoratore dipendente; e dato che la maggioranza dei trasferimenti negli ultimi anni è avvenuta per via fiscale, con le detrazioni, che non hanno nessuna efficacia per coloro che hanno un reddito troppo basso per fruirne, i cosiddetti incapienti.

Negli ultimi anni in Italia la diffusione della povertà è rimasta sostanzialmente stabile, sia che si utilizzi il criterio della povertà relativa (secondo il quale è povero chi ha accesso ad un consumo pari o inferiore al consumo medio pro-capite), che quello della povertà assoluta (secondo il quale è povero chi non riesce ad avere accesso ad un paniere di beni ritenuto il minimo indispensabile per vivere nel nostro paese nell’epoca attuale). Si tratta di due misure diverse, che non solo identificano soglie (più alta la prima, più bassa la seconda), quindi anche incidenze della povertà diverse, ma che si riferiscono a concezioni della povertà differenti: nel primo caso ci si riferisce al tenore di vita medio, nel secondo ad un paniere di beni essenziali, anche se individuati in riferimento ad una società e quindi stile di vita e di consumi specifici.

Più precisamente, nel quinquennio 1997-2001 la diffusione della povertà relativa tra le famiglie è rimasta sostanzialmente stabile intorno al 12%; è lievemente aumentata tra le persone dal 13% nel 1997 al 13,6% nel 2001. La povertà assoluta riguarda invece il 4,2% delle famiglie e il 5,3% degli individui.6 Non è mutata, anzi negli ultimi anni si è di nuovo accentuata, la distribuzione territoriale della povertà e la sua forte concentrazione nel Mezzogiorno, dove vive il 66% delle famiglie povere. Nel 2001, la quota di famiglie povere è stata pari al 24,3% nelle regioni meridionali e al 5% nel Nord; all’8,4% nelle regioni del Centro. Infine, anche l’intensità della povertà – cioè la distanza media della spesa per consumi delle famiglie povere dalla soglia di povertà – è rimasta stabile intorno al 22%, di nuovo con valori più bassi nel Centro-Nord e più alti nel Mezzogiorno.

In tutte le ripartizioni territoriali l’incidenza della povertà è maggiore tra i nuclei con cinque o più componenti, toccando il 24,5% a livello nazionale nel 2001. Ma già l’avere quattro componenti espone a una maggiore vulnerabilità, dato che la percentuale di famiglie povere tra quelle di questa ampiezza è di oltre 2 punti percentuali superiore alla media: il 14,2%. Sono le persone che vivono

da sole ad apparire meno vulnerabili alla povertà: nel 2001 era povero in senso relativo il 9,1% delle famiglie composte da una persona sola, una percentuale che mostra una tendenza alla diminuzione nel quadriennio, soprattutto nel Nord e nel Mezzogiorno. Ciò può essere dovuto all’aumento, tra chi vive da solo, di persone in età non anziana. In effetti, l’incidenza della povertà tra le persone che vivono da sole nel 2001 era «solo» del 3,4% nel caso di persone con meno di 65 anni, di quasi quattro volte tanto, il 13,5%, nel caso di persone con più di 65 anni.

Essere anziani ed abitare in una famiglia in cui ci sono anziani continua a costituire un rischio di povertà più elevato della media, anche se tendenzialmente stabilizzato nell’ultimo quinquennio e in forte diminuzione rispetto ai primi anni Ottanta, quando gli anziani e le famiglie con anziani costituivano il gruppo percentualmente più numeroso tra le persone e le famiglie povere.

Se essere in una età che colloca al di fuori dal mercato del lavoro espone tuttora una quota di anziani alla esperienza di povertà (nonostante l’esistenza di misure di sostegno al reddito specificamente dedicate a questa fascia della popolazione come pensioni, assegni sociali, integrazioni al minimo pensionistico), è la mancanza di lavoro quando si è in età attiva ad essere il fattore maggiormente predittivo di povertà; soprattutto se ad essere in questa condizione è la persona di riferimento, il cosiddetto capofamiglia. Nel 2001 era povero il 31,8% delle famiglie in cui la persona di riferimento era in cerca di lavoro (il 42,5% nel Mezzogiorno), a fronte del 14% di famiglie povere con persona di riferimento pensionata e rispettivamente del 9,8% e del 7,5% quando la persona di riferimento è lavoratore dipendente o autonomo. Questo dato segnala sia l’inadeguatezza dei sistemi di sostegno al reddito dei disoccupati, specie nel caso di disoccupati di lungo periodo, sia il fatto che forse siamo di fronte ad un aumento della disoccupazione di lungo periodo, in particolare tra i disoccupati con basso livello di istruzione, che pure presentano un livello di esposizione alla povertà (19,5% nel 2000) molto più alto della media e soprattutto molto più alto di coloro che viceversa hanno un grado di istruzione elevato.

Come e più che nella maggioranza dei paesi europei, l’incidenza della povertà economica negli ultimi anni è aumentata tra le famiglie con minori, tra le quali la diffusione della povertà è passata dal 14% nel 1997 al 14,8% nel 2001. È stato stimato che nel 2000 in Italia circa il 17% di tutti i minori sperimentassero condizioni di povertà relativa: una quota più alta di quella rilevata per gli individui adulti fino ai 64 anni e simile a quella riscontrata tra gli anziani con 65 anni o più (16,7%); anche se il fenomeno non sembra attrarre altrettanta attenzione nel dibattito corrente e motivare politiche conseguenti. Sono le famiglie con due e, soprattutto, tre figli minori quelle in maggiore difficoltà: nel 2000 era povero il 16,4% delle prime e il 25,5% delle seconde, salite al 28% nel 2001. Esse sono concentrate nelle regioni meridionali e nelle isole, dove è povero il 27,4% di tutti i minori, a fronte del 7,4% nel Nord e l’11,3% nel Centro. I dati relativi alla povertà assoluta sono per certi versi più drammatici, anche se i tassi sono più bassi: nel 2001 non è riuscito a fruire del pacchetto di beni essenziali (in termini di alimentazione, vestiario, abitazione) il 15,5% delle famiglie con tre o più figli (con un aumento di tre punti rispetto al 2000). Anche l’indagine ISTAT «Aspetti della vita quotidiana» del 2000 aveva segnalato che il 10,4% delle famiglie aveva sperimentato difficoltà a far fronte alle spese per l’abitazione (affitto o mutuo), il 19% a far fronte al pagamento delle bollette, il 12,6% ad affrontare le spese per la scuola, il 10,9% quelle mediche, e il 6% aveva avuto problemi ad acquistare il necessario per mangiare.

Il rischio di povertà per i minori è massimo quando nessuno degli adulti con cui vivono è occupato e quando a non essere occupata è la persona di riferimento (colui o colei che si indica comunemente come capofamiglia). Quindi è la mancanza di occupazione dei padri a costituire innanzitutto un elemento di grande vulnerabilità per i figli, in termini di mancanza di reddito, ma più in generale di collocazione nel sistema delle risorse e delle forme di riconoscimento e valorizzazione. Tuttavia, il rischio di povertà rimane elevato anche quando un solo genitore è occupato. Viceversa diminuisce

sensibilmente quando entrambi i genitori lavorano: si riduce ad un terzo nel caso delle famiglie con uno e due figli, ad un quarto nel caso delle famiglie con tre o più figli. In altri termini, è lo squilibrio tra numero di lavoratori remunerati (o di percettori di reddito) e numero di consumatori familiari a provocare la povertà in queste famiglie. Il sostegno alla occupazione delle madri appare quindi uno strumento fondamentale di contrasto alla povertà, sia nelle famiglie in cui sono presenti entrambi i genitori che in quelle in cui è presente la sola madre.

Le famiglie con due o più figli minori hanno una probabilità più elevata rispetto a tutte le altre non solo di essere povere, ma di rimanerlo a lungo. È un dato che emerge dalla analisi dinamica della povertà effettuata dalla Commissione di indagine sulla esclusione sociale sulla base dei dati del Panel europeo delle famiglie e relativa al quadriennio 1993-96. La povertà, quindi, colpisce la vita dei minori due volte: peggiorandone le condizioni durante l’infanzia e l’adolescenza e riducendone le opportunità nel corso della vita da adulti. I dati qui riportati si riferiscono in grande misura alle famiglie autoctone. La popolazione immigrata difficilmente rientra in una qualsiasi indagine campionaria, o per lo meno in percentuali significative. Altri punti di osservazione tuttavia forniscono indicazioni su cui è opportuno riflettere. In primo luogo, è indubbio che tra gli immigrati sono più le persone sole che non quelli che hanno con sé la propria famiglia ad apparire più vulnerabili, date le leggi che regolano i ricongiungimenti familiari e più in generale il fatto che la presenza della famiglia costituisce un indicatore di stabilizzazione sia economica che di integrazione sociale. Un’indagine sui senza dimora effettuata per conto della Commissione di indagine sulla esclusione sociale nel 1999, ad esempio, ha segnalato l’elevato numero di maschi giovani immigrati, la cui situazione precaria può essere letta come un prezzo che pagano nella sfida verso l’integrazione, ma i cui rischi non possono essere ignorati. Così come non può essere ignorato il fatto che se è vero, come dicevamo, che l’avere una famiglia costituisce una risorsa di integrazione, dato che i lavoratori immigrati occupano per lo più i livelli più bassi della scala salariale e spesso sono gli unici percettori di reddito, anche loro sono esposti al rischio di rientrare nel gruppo delle «famiglie lavoratrici povere».

I dati sulla distribuzione della povertà, a livello territoriale, ma anche di composizione familiare e di età, evidenziano l’inadeguatezza delle politiche di questo governo e anche dei precedenti, ma prima ancora del senso comune condiviso su questi temi. Non solo la povertà economica non riguarda solo o innanzitutto gli anziani; anche se un numero ancora troppo grande di anziani, e soprattutto anziane, fa fatica ad affrontare i propri bisogni quotidiani. Ma, considerando il gran numero di minori che sperimentano più o meno gravi condizioni di povertà, anche quando hanno un genitore occupato, è difficile definirli sbrigativamente come soggetti che non hanno voglia di lavorare o che si appoggiano passivamente a misure di assistenza, che per altro non ci sono o sono miserevoli. D’altra parte proprio questo quadro variegato, mentre sottolinea la necessità di mettere finalmente a regime una misura di sostegno di ultima istanza, attuando in modo sistematico con tutte le necessarie revisioni organizzative evidenziate dalla sperimentazione, il reddito minimo di inserimento,7 segnala come questo non possa essere l’unica misura di contrasto alla povertà. Lasciando da parte la questione fondamentale di una politica per l’occupazione, soprattutto nel Mezzogiorno, i dati segnalano in modo netto l’esistenza di una povertà che deriva da un reddito da lavoro insufficiente rispetto ai carichi familiari. Questa può essere affrontata per tre vie, a mio parere complementari piuttosto che alternative. Occorre favorire l’aumento del numero dei percettori di reddito in famiglia, in particolare favorire l’occupazione delle madri (anche perché ciò ha un effetto protettivo più ampio). Occorre riconoscere in modo più adeguato il costo dei figli, evitando allo stesso tempo i limiti, e persino le contraddizioni, di una redistribuzione tutta affidata alle detrazioni fiscali, orientandosi piuttosto verso un sistema di assegni per i figli più universalistico e trasparente dell’attuale. Infine, occorre pensare a qualche forma di sostegno ai redditi bassi, del tipo di quelli introdotti in Inghilterra con il working family tax credit o in Francia con il prime pour l’emploi.

Ma oltre a politiche per l’occupazione efficaci e a misure di integrazione e sostegno economico sono le politiche della scuola e della formazione ad avere un ruolo cruciale nell’impedire, o almeno ridurre, quel meccanismo di riproduzione intrafamiliare non solo delle disuguaglianze, ma della povertà, che in Italia è particolarmente efficace e potente proprio per l’assenza, e talvolta la perversione, delle politiche, a partire da quelle formative.

Bibliografia

1 Cfr. A. Atkinson, La povertà in Europa, il Mulino, Bologna 2000; cfr. Commissione di indagine sulla esclusione sociale (a cura di C. Saraceno), Rapporto sulle politiche contro la povertà e l’esclusione sociale. 1997-2001 Carocci, Roma 2002, cpp. 5 e 6.

2 Sul ruolo avuto dall’Unione europea in questo spostamento e sulle implicazioni teoriche e concettuali di questo concetto cfr. C. Saraceno, From poverty to social exclusion. An incomplete conceptual shift?, in A. Kahm e S. Kanerman (a cura di) Beyond Child Poverty: the Social Exclusion of Children, The Institute for Child and Family Policy, Columbia University, New York 2002, pp. 39-74

3 Cfr. R. Walker e A. Shaw, Escaping from social assistance in Great Britain, in L. Leisering e R. Walker (a cura di), The dynamics of modern society. Poverty, policy and welfare, Bristol, Policy Press 2001pp. 199-242.

4 È ciò che è emerso, ad esempio, da una ricerca su diversi sistemi di assistenza ai poveri in Europa, in cui sono state studiate le cosiddette «carriere assistenziali». Cfr. C. Saraceno (a cura di), Social Assitance Dynamics in Europe. National and local poverty regims, Bristol, Policy Press 2002.

5 Cfr. H. Immervoll, H. Sutherland e K. de Vos, Reducing child poverty in the European Union: the role of child benefits, in K. Vleminck e T. Smeeding (a cura di), Child well-being, child poverty and child policy in modern nations, Policy Press, Bristol 2001.

6 I dati sono tratti da Commissione di indagine sulla esclusione sociale, cit. e ISTAT, La povertà in Italia nel 2001. Note Rapide, 17 luglio 2002.

7 Una sintesi del rapporto di valutazione sulla sperimentazione (per altro mai diffuso dal ministero e neppure discusso, come era previsto, in parlamento), si trova in Commissione di indagine sulla esclusione sociale, op. cit., cap.2.

Chiara Saraceno Autore insegna al Wissenschaftszentrum für Sozialforschung di Berlino.

Come comprendere la povertà?

di Giancarlo Quaranta

Un deciso passo in avanti nello studio scientifico di un fenomeno vasto e complesso come la povertà nella dimensione globale è il fatto nuovo della ricerca sociale degli ultimi quindici anni. Superate le barriere ideologiche ed esorcizzato un intero mondo di significati metastorici di tipo politico e religioso, dei quali non necessariamente si mette in discussione la validità, alcuni studiosi, diversi per provenienza geografica e disciplinare, hanno realizzato un comune itinerario di ricerca scandito in tre grandi passaggi, che hanno cambiato il modo di affrontare il problema della povertà, con una notevole influenza sui programmi concreti di azione politica. Innanzi tutto, il passaggio dal «perché» al «come».

Un deciso passo in avanti nello studio scientifico di un fenomeno vasto e complesso come la povertà nella dimensione globale è il fatto nuovo della ricerca sociale degli ultimi quindici anni. Superate le barriere ideologiche ed esorcizzato un intero mondo di significati metastorici di tipo politico e religioso, dei quali non necessariamente si mette in discussione la validità, alcuni studiosi, diversi per provenienza geografica e disciplinare, hanno realizzato un comune itinerario di ricerca scandito in tre grandi passaggi, che hanno cambiato il modo di affrontare il problema della povertà, con una notevole influenza sui programmi concreti di azione politica. Innanzi tutto, il passaggio dal «perché» al «come». Alla base di quella che può essere definita una svolta epistemologica, c’è uno degli effetti indiretti della fine del conflitto Est-Ovest, vale a dire la marginalizzazione culturale della questione relativa alle cause della deprivazione sociale. Al livello scientifico, alla tradizionale domanda sul perché remoto e strutturale della povertà, a cui corrispondeva un approccio politico di tipo palingenetico e rivoluzionario, si è sostituita un’altra problematica, che si chiede non tanto il «perché» ma il «come» della povertà e soprattutto chi siano i poveri. A tale approccio corrisponde una concezione pragmatica della lotta alla povertà, non più tramite «la» politica (nel lessico anglofono: politics e polity), ma piuttosto attraverso politiche (policies) di tipo riformistico. Il secondo passaggio è consistito in una marcata accentuazione dell’uso di teorie e modelli sociologici, antropologici, psicologici e microeconomi ci, rinverdendo la ricca tradizione della ricerca europea, a scapito di categorie macroeconomiche, che tendono a ridurre la povertà, più o meno direttamente, a una mera questione di reddito e i poveri a oggetti o addirittura a entità numeriche di algoritmi econometrici. La resistenza dell’approccio economicistico tra i decisori, va ricercata certamente nell’efficacia che questo approccio garantisce – ed è vero – nelle misurazioni. D’altra parte, lo stesso approccio, per la sua «ubris riduzionistica», è a monte di molti fallimenti nel campo delle politiche di lotta alla povertà.

Il terzo passaggio è il più interessante e anche il più recente. La ricerca sulla povertà si è spostata infatti verso una nuova concezione del povero, che viene considerato, non più solo come vittima di processi sociali di dequalificazione, ma come un «agente» che si misura con situazioni anche estreme di sofferenza e di alienazione, ma pur sempre con l’orientamento al recupero della propria identità e in forte interazione con gli altri poli del sistema sociale, siano essi i gruppi sociali più fortunati, o le istituzioni di vario tipo, comprese le strutture del welfare, o le organizzazioni della società civile. Per non parlare di economia informale, di reti familiari e di vicinato, tramite le quali si esercitano forme attive di solidarietà orizzontale, o addirittura di volontariato sociale dei poveri stessi, o di azioni ai confini e qualche volta oltre i confini della legalità: tutti ambiti della vita sociale dove sono rintracciabili i segni dell’azione dei poveri. Insomma, per quanto riguarda la ricerca, potremmo parlare in estrema sintesi di un passaggio da un mondo ancora troppo oggettivizzato a un mondo di soggetti più o meno attivi, ma pur sempre soggetti e quindi in grado di esistere e di pesare come attori sociali.

A proposito di quest’ultima impostazione si possono fare due brevissime considerazioni. La prima, negativa, riguarda il rischio che la conquista conoscitiva circa la qualità «agenziale» dei poveri possa essere strumentalizzata da punti di vista caratterizzati da eccessi neoliberisti, per promuovere politiche sociali deboli o fondate su una sorta di laissez faire welfaristico. La seconda considerazione è positiva e sottolinea lo stretto nesso tra i risultati della ricerca sociale e il nuovo ed emergente paradigma dello sviluppo, in ambito internazionale, che attribuisce un ruolo cruciale – nel contesto della società della conoscenza – alle cosiddette risorse umane, anche nei paesi meno sviluppati. In tale prospettiva la lotta alla povertà è sempre meno una politica sociale e sempre più una delle strategie dello sviluppo complessivo di ogni comunità umana. Nonostante questi risultati positivi, la ricerca sociale si trova a fronteggiare alcune questioni non ancora risolte, che vanno dalla difficoltà di tradurre sul piano delle misurazioni le nuove acquisizioni teoriche – misurazioni che rimangono, come abbiamo visto, ancora dominio della macroeconomia – al tema di una migliore determinazione teorica della povertà nei paesi avanzati, soprattutto in quelli dove i sistemi di welfare, ad esempio in ambito sanitario, quando ci sono e funzionano, mitigano le stesse condizioni della povertà. Certo, la povertà in questi paesi costituisce un clamoroso paradosso e in qualche misura uno scandalo, anche perché le persone coinvolte sono sempre più spesso portatori di un alto livello di soggettività e di notevoli elementi di capitale cognitivo. Dove le politiche redistributive non sono sufficientemente adeguate, allora, la povertà, più che un fenomeno sociale negativo, diventa un fattore d’intrinseca debolezza politica delle strutture statuali, che si manifesta, ad esempio, anche negli orientamenti non scontati dell’elettorato «povero».

In particolare, due problemi ancora aperti interessano lo studio dei fenomeni di deprivazione sociale in Europa: l’esigenza di individuare una pluralità di figure di povero a cui dovrebbero corrispondere politiche sociali e interventi più mirati e quindi più efficaci; il rapporto tra la teoria della povertà e il tema, estremamente attuale, dell’esclusione sociale. Per molti anni la cultura europea ha rifiutato il termine «povero» e «povertà» cercando sostituti in altri concetti come underclass, emarginati, esclusi sociali, working poor, lavoratori precari. È solo con il passaggio ad un approccio sociologico che si è tornati a parlare e a indagare sulla povertà e, in particolare, sulle «nuove povertà» anche in Europa. Il fatto che ci si riferisca a «nuove povertà» al plurale, inoltre, sta a testimoniare l’interesse specifico verso la ricerca delle differenze all’interno del macrofenomeno povertà. Alla base di questo interesse ci sono, oltre che esigenze conoscitive, almeno due ragioni di carattere politico. Da un lato, c’è la necessità di superare l’impasse delle politiche sociali rivolte alla cosiddetta «bassa soglia» che, proprio a causa di una scarsa conoscenza dei beneficiari producono effetti paradossali, spesso aggravando le condizioni di disagio. Dall’altro lato, pesa l’imperativo della riduzione della spesa pubblica, che deve essere razionalizzata alla luce di una scala di priorità dei fabbisogni sociali, sia al livello europeo, sia ai livelli nazionale e locale.

Nel perseguire quella che possiamo chiamare «strategia delle distinzioni», tuttavia, si è corso più volte il rischio di determinare «false» o apparenti tipologie, legate a fattori estrinseci piuttosto che alla sostanziale differenza di condizioni di vita sperimentate dalle persone povere. È il caso delle cosiddette «categorie vulnerabili», costituite di volta in volta dagli anziani, dagli immigrati, dalle donne capofamiglia, dai senza fissa dimora, dai bambini. Si tratta di differenziazioni che possono introdurre pericolose rigidità, riproducendo un’uniformità all’interno di gruppi, tra l’altro, troppo ampi (ad esempio, le «donne»), e in ogni caso accomunati solo da caratteristiche sociodemografiche.

Il grande contributo della sociologia nell’interpretare le dinamiche profonde della povertà va perseguito fino in fondo. È nella sua applicazione, infatti, che è possibile cogliere le sostanziali differenze nel modo di vivere e di reagire dei soggetti poveri alla deprivazione materiale, sociale e cognitiva che si trovano ad affrontare. Il passaggio, nello studio della povertà, alla considerazione

del povero come attore e non più come semplice beneficiario di politiche assistenziali, a cui si è fatto riferimento in precedenza, pone al centro dell’analisi l’identità dell’individuo, intesa come capacità di controllare il proprio ambiente. Vivere in povertà significa aver perso in parte tale capacità e vedere intaccata, quindi, la propria identità. E ciò non avviene ovviamente in maniera uniforme. A partire dalle diverse forme di perdita dell’identità può quindi realizzarsi una sorta di mappatura della povertà, con la possibilità di individuare i diversi tipi di «povero», in modo da avvicinare alla concreta realtà delle persone, non solo la conoscenza del fenomeno, ma soprattutto le misure e gli interventi da adottare per un recupero effettivo delle soggettività presenti tra i poveri. Da questa prospettiva emergono, a un primo livello, elementari configurazioni, fortemente diversificate, della povertà, che vanno da situazioni di povertà «intermittente», per la cui soluzione potrebbe essere sufficiente un semplice sostegno materiale, anche di tipo temporaneo, a situazioni di povertà estrema, caratterizzate, non solo dalla mancanza di risorse materiali e sociali, ma soprattutto dalla presenza nei poveri di fattori psichici negativi, come il senso di rassegnazione o l’incapacità di mobilitarsi. Dovrebbe essere evidente che in queste situazioni il solo sostegno economico e materiale, per quanto necessario, potrebbe paradossalmente risultare dannoso se non accompagnato da interventi di empowerement di lungo periodo, orientati a ricostruire quell’orientamento all’azione tanto importante perché i poveri riacquistino il controllo sulla propria esistenza.

A un secondo livello, però, le forme di povertà e i tipi di povero – se così si può dire – tendono a ordinarsi secondo un continuum, dove giocano un ruolo fondamentale le differenze in tre aspetti cruciali della struttura dell’identità delle persone in difficoltà, sui quali la ricerca ha messo concordemente l’accento, e che sono alla base della definizione sociale di povertà. Si tratta prima di tutto dell’accesso sia pure minimo a un insieme di beni materiali e immateriali, della qualità e della quantità delle reti familiari e sociali residuali, e infine dell’attitudine all’azione e all’elaborazione di strategie per la sopravvivenza. Questi tre elementi possono così essere utilizzati come coordinate per identificare specifiche situazioni di povertà. In qualche caso, ad esempio, può prevalere l’assenza di legami sociali rispetto alla scarsità delle risorse materiali, come sembra accadere ad alcuni anziani nelle aree urbane nel nostro paese. Nella situazione opposta, quando a una marcata assenza di risorse fa riscontro invece una certa ricchezza di legami sociali, si osservano tipi di povertà e di poveri diversi: in questo secondo caso potrebbero rientrare certe aree dell’immigrazione in Italia. Le indicazioni che precedono dovrebbero avere un valore pragmatico, perché sono orientate alla progettazione di politiche il più possibile efficaci e pertinenti. Rimangono necessariamente fuori da questa riflessione le valutazioni sulle dinamiche e sulle forze che sono alla base delle diseguaglianze sociali. Una considerazione di respiro strutturale si può fare però a proposito dell’unificazione europea.

L’Europa unita può svolgere, infatti, un grande ruolo nella lotta globale contro la povertà. Innanzitutto, dando un contributo più adeguato alla cooperazione internazionale anche in termini finanziari. E poi, soprattutto come «apripista» per politiche orientate, non tanto alla sopravvivenza, ma al pieno recupero dei poveri e alla loro definitiva uscita dalla condizione di povertà. A tale riguardo, non è difficile affermare che una più approfondita conoscenza delle situazioni concrete di distretta può essere di notevole utilità. In questo quadro l’Europa, oltre tutto, potrebbe avere l’opportunità di dire e fare qualcosa di nuovo su un altro fronte delle politiche sociali, ad essa probabilmente più consueto, che è quello relativo alla prevenzione della povertà. Ed è a questo punto che entra in gioco il rapporto, talvolta controverso, tra povertà ed esclusione sociale.

Con il concetto di esclusione sociale il mondo della ricerca europea ha tentato negli anni Ottanta di contenere i paradossi prodotti dall’approccio economicistico al tema della povertà. L’esclusione si contrapponeva all’inclusione sociale. Più che nei poveri, gli esclusi venivano identificati in quegli individui, in quelle categorie e in quei gruppi umani coinvolti in forme di disagio di tipo non solo

materiale, ma anche psicologico e morale, nella vita di relazione, nella salute e nella capacità di cogliere le opportunità. Ricorrevano e ricorrono tuttora le questioni della marginalità territoriale, della precarietà del lavoro, di abitazioni improprie, disoccupazione, abbandono, tossicodipendenza, età anziana, famiglie monoparentali, malattia, stigmatizzazione, fino ad arrivare a disegnare una dinamica sociale complessiva, che ha consentito due importanti risultati conoscitivi, la cui validità attuale è indubbia. Il primo riguarda l’uso del concetto di esclusione sociale per mettere in evidenza soprattutto gli aspetti immateriali della povertà. Questo risultato è oggi messo parzialmente in discussione dall’evoluzione teorica che ha subìto al livello internazionale il concetto di povertà. Il superamento del riduzionismo economicistico, infatti, ha favorito, come abbiamo visto in precedenza, un’interpretazione della povertà come fenomeno multidimensionale. Il che ha comportato un certo disorientamento in ambito politico. Un esempio della confusione che si è prodotta si può trarre dai più recenti documenti delle Nazioni Unite dove i termini «povertà» ed «esclusione sociale» sono pressoché equivalenti e spesso costituiscono una endiadi retorica senza referenti empirici determinati. Detto questo, il concetto di esclusione sociale, portato avanti dalla ricerca europea, anche nella sua accezione complementare rispetto alla povertà, rimane di notevole utilità scientifica, a condizione che se ne valorizzi la funzione di approfondimento interpretativo rispetto a una condizione, come quella della deprivazione sociale estrema, mai abbastanza studiata nelle sue innumerevoli sfaccettature e soprattutto dal «di dentro», cioè dal punto di vista delle persone coinvolte.

Più interessante, però, è il secondo risultato conoscitivo, che mette in luce la perversità sociale della dinamica inclusione/esclusione. Cittadini a pieno titolo, appartenenti a ceti sociali differenti, che godono dei beni materiali e immateriali di una determinata comunità o area umana, avendo una posizione centrale rispetto alla rete di relazioni costitutive di quest’area, «possono» essere coinvolti in un progressivo processo di esclusione dall’accesso a quei beni. Ne consegue che la loro posizione da centrale potrebbe divenire periferica. Tutto ciò comporta un effetto sociale drammatico che può essere assimilato alla perdita progressiva, da parte del soggetto interessato, del controllo del proprio ambiente sia in senso sociale che in quello fisico. Il processo di esclusione sociale si conclude, dunque, con il raggiungimento della condizione di povertà, che – come abbiamo visto – può essere utilmente definita in chiave sociologica come perdita o drastica riduzione della propria identità. Va precisato che gli studi sull’esclusione sociale come processo indipendente dalla povertà consentono di capire come si diventa poveri, aprendo uno spazio anche politico per l’adozione di misure di prevenzione della povertà che talvolta dovrebbero andare oltre il tradizionale approccio welfaristico. È il caso, ad esempio, del rischio d’impresa, che pur investendo la vita di milioni di individui, in un paese come il nostro dove oltre il 90% del prodotto interno lordo è legato all’attività delle piccole e piccolissime imprese, non viene gestito, e forse non può essere gestito in quanto rischio, tramite le tradizionali politiche sociali. L’esclusione sociale e il processo di impoverimento, che ne è la sostanza, acquistano però il loro più pieno significato nel contesto delle teorie sociologiche degli anni Ottanta e Novanta, relative al rischio come fenomeno centrale della società contemporanea, che può essere chiamata, in forza di questa centralità, «società del rischio» per antonomasia. La scoperta e la tematizzazione della transizione da una società, per così dire, della «sicurezza» alla società del rischio comportano una rappresentazione della vita sociale estremamente fluida. Individui, gruppi, classi, popoli si giocano il loro destino sociale attraverso la capacità di misurarsi con pericoli sociali e ambientali che, sottoposti a un regime di controllo non solo pubblico, non vengono eliminati ma elaborati e trasformati in rischi calcolati o in fattori di rischio, comunque culturalmente accettabili. Se è vero che i ceti meno abbienti sono maggiormente esposti a questi fattori, è vero anche che nessun livello sociale ne è totalmente immune.

Non è questa la sede per approfondire le conseguenze culturali e politiche di un mutamento della struttura sociale di tale portata. Ad una rapidissima osservazione non può sfuggire, però, lo stretto nesso tra questa trasformazione e i nuovi ambiti della ricerca sociale riguardanti la società della

conoscenza e la governance. In ambedue questi contesti è insita una forte tendenza alla disseminazione orizzontale delle responsabilità economiche e politiche e l’attitudine a esercitare forme diffuse di potere corrispondenti, che hanno un puntuale effetto nel continuo «riempirsi» del concetto di democrazia dei contenuti più vari. Si potrebbe affermare, in conclusione, che le dinamiche del rischio, le politiche di gestione dei rischi sociali e ambientali e, in particolare, quelle di prevenzione della povertà, tendono a sovrapporsi o a confondersi con le forme ad ampio raggio di gestione e di governo delle società contemporanee. A conferma del fatto che, anche per quanto riguarda l’Europa, quando si affronta il problema della povertà non si sta lavorando ai margini del sistema sociale ma al suo centro.

Giancarlo Quaranta Autore è sociologo e Presidente del gruppo CERFE

vedere anche in Italiani Europei 4/2008 http://www.italianieuropei.net/component/option,com_magazine/func,show_edition/id,43/Itemid,1/

(di seguito gli abstrat dei diversi articoli)

Focus. Nuove povertà La necessità di una lotta su due frontidi AmministratoreNei paesi ricchi come in quelli più poveri lo scarto di reddito tra i ricchi e i meno abbienti si fa sempre più ampio. Ciò è connesso alle crescenti disparità nell’accesso al sapere, dovute al rifiuto di pensare insieme il problema economico e quello dell’istruzione. Se infatti si privilegiano anche nel campo dell’istruzione obiettivi di breve periodo per stimolare l’economia in chiave capitalistica, non si fa che rallentare ulteriormente la crescita. Occorre quindi ripensare l’importanza dell’educazione in modo rivoluzionario.

Povertà e rappresentanzadi Savino PezzottaSe in passato le lotte sociali hanno rappresentato anche i bisogni dei più deboli, strappando milioni di persone dalla povertà, da molti anni questo non accade più. Ciò è dovuto a molteplici fattori e pone numerosi problemi. La stessa povertà è oggi un fenomeno molto frammentato ed eterogeneo e quindi difficile da rappresentare. Il contrasto alla povertà richiede il crescere e il riformarsi di una cultura della solidarietà concreta e la politica deve avere un ruolo centrale in questo processo. -------------------------------------------------------------------------------- Il valore sociale della famigliadi Don Antonio SciortinoIn un paese che registra tassi di natalità sempre più bassi e un progressivo e drammatico invecchiamento della popolazione, la famiglia viene sempre più considerata, dalla politica come dagli individui, un peso invece che una risorsa. Le politiche per la famiglia adottate finora hanno condiviso un approccio ispiratore prevalentemente individualistico, che mancava di riconoscere l’apporto positivo che la famiglia può dare all’organizzazione del lavoro e della società. Il superamento di questo approccio, e quindi l’elaborazione e l’adozione di un “welfare comunitario” consentirebbe finalmente di riconoscere il valore sociale aggiunto che la famiglia può offrire.

L’emergere della vulnerabilità sociale nella società dell’incertezzadi Costanzo RanciI processi economici e sociali in atto stanno trasformando rapidamente la questione sociale. In crisi sono i principali pilastri intorno a cui si è costruito il cosiddetto “modello europeo”: una forte stabilità occupazionale, l’ampiezza e generosità dei programmi di welfare, la persistenza di forti legami familiari. Queste trasformazioni determinano la diffusione di un’ampia vulnerabilità sociale che colpisce i ceti medi, danneggiati, più che da una riduzione del tenore di vita, da una prolungata fase di instabilità sociale ed economica.

-------------------------------------------------------------------------------- Migrazioni e disuguaglianze: un intreccio complesso di Massimo Livi BacciDal punto di vista degli effetti sul fenomeno migratorio, la seconda globalizzazione – quella dell’ultimo mezzo secolo – ha avuto caratteristiche molto differenti da quella di un secolo prima. Essa ha infatti operato per contenere l’interscambio del fattore produttivo lavoro, ponendo barriere alla mobilità migratoria. La seconda globalizzazione, inoltre, non ha contribuito ad avvicinare gli standard di vita dei paesi coinvolti, e quindi non ha agito, come era avvenuto con la prima globalizzazione, da strumento di lotta alla povertà di massa. Lotta alla povertà: una battaglia che non abbiamo mai combattuto di Livia TurcoCon l’eccezione dei due governi Prodi, ben poco è stato compiuto in Italia per sviluppare politiche che mirino esplicitamente a combattere la povertà. Eppure i dati sottolineano che l’Italia è un paese con un serio problema di povertà costante e che il rischio è in crescita fra i giovani più che fra gli anziani. Il reddito minimo di inserimento, sperimentato negli anni 1999-2004, potrebbe costituire una valida opportunità per offrire servizi e assistenza a quanti vivono in stato di bisogno e devono essere reinseriti nel mondo del lavoro.

-------------------------------------------------------------------------------- Politiche contro la povertà: un problema che non trova soluzionidi Tiziano VecchiatoLa povertà in Italia non diminuisce e i segnali che si registrano a questo proposito sono preoccupanti. Una progressiva riconversione della spesa per assistenza sociale aprirebbe nuove possibilità di intervento in questo ambito. Gran parte degli interventi si riduce attualmente a soli trasferimenti monetari, mentre nuove soluzioni, senza aumentare gli attuali livelli di spesa, potrebbero venire dal potenziamento dei servizi.

Il welfare delle capacitàdi Gianluca BusilacchiL’approccio delle capacità, introdotto dal premio Nobel Amartya Sen, costituisce ormai un punto di riferimento all’interno dell’apparato teorico volto a definire strumenti di politiche pubbliche nella lotta alla povertà. Nella valutazione del benessere individuale, esso sposta l’attenzione dai mezzi (il reddito), ai fini (libertà sostanziale). Questo approccio ha un ampio spazio applicativo nel campo delle politiche sociali e potrebbe orientare il futuro del Modello sociale europeo.