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MAURO ALFONSO L’haiku come modello di una teoria del processo creativo

Mauro Alfonso. L'haiku come modello di una teoria del ... Alfonso. L'haiku come modello di... · Permessi ulteriori rispetto alle finalità della presente licenza possono essere disponibili

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MAURO ALFONSO  

L’haiku come modello di una teoria del processo creativo 

 

                

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Mauro Alfonso ‐  L’haiku come modello di una teoria del processo creativo  Pagina 2 

   

L'haiku come modello di una teoria del processo creativo di Mauro Alfonso è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione ‐ Non commerciale – Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale. 

Permessi ulteriori rispetto alle finalità della presente licenza possono essere disponibili presso www.mauroalfonso.eu. 

  

In copertina: Sentiero senza meta. Foto realizzata da Mauro Alfonso 

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Mauro Alfonso ‐  L’haiku come modello di una teoria del processo creativo  Pagina 3 

  

  

Introduzione    

Ancora adesso, provo incredulità per il mio approdo alla poesia  di  stile  haiku:  non  lo  avrei mai  immaginato.  Se, però,  guardo  al  percorso  compiuto,  un  senso  riesco  a trovarlo.  Adolescente, sono partito dalla  filosofia occidentale. Ho poi incontrato, frequentato e praticato la psicoanalisi di Freud e la micro‐psicoanalisi di Silvio Fanti. In entrambi i  campi,  la  vita  è  stata  con  me  davvero  generosa, facendomi  conoscere  alcuni  uomini,  i  quali  mi  hanno voluto  bene.  Nei  momenti  importanti,  Bruno  Musso, Nicola  Peluffo,  Silvio  Fanti  e  Pierre  Codoni,  sono  stati maestri non meno severi dei più duri maestri Zen.   A ben vedere, sul piano culturale e spirituale  l’approdo di  cui  parlavo  era  quasi  scontato,  dato  che  la micropsicoanalisi, quale era stata concepita e vissuta da Fanti,  rappresentava  già  quel  ponte  fra  Occidente  e Oriente,  che  ha  favorito  il  mio  accostamento  alla filosofia e alla meditazione orientale, specialmente Zen.   

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Mauro Alfonso ‐  L’haiku come modello di una teoria del processo creativo  Pagina 4 

L’aver scoperto le opere e il pensiero di Lin‐Chi, maestro buddhista cinese, fondatore della scuola zen Rinzai, o di Basho,  considerato  l’“iniziatore”  della  poesia  haiku, mi ha  fatto  pensare  che  forse  si  poteva  realizzare,  grazie anche alla micropsicoanalisi, quello  spirito  “planetario” di  cui parlava  il  filosofo  tedesco Martin Heidegger. Con questo obiettivo, ho dedicato  sette anni a  formalizzare, nel  libro  “Psicoanalisi  e  oltre”,  quell’avvicinamento  fra Oriente ed Occidente, fra la Psicoanalisi e il Buddhismo. Sono  stati  sette  anni  di  vera  e  propria  meditazione, durante i quali ho cercato di colmare quel divario, senza peraltro misconoscere la ricchezza delle loro differenze.  Dopo questo lavoro, le cose, per me, non sono state più le  stesse.  Avevo  scoperto,  da  un  lato,  in  una  sorta  di illuminazione,  che  la  psicoanalisi  non  poteva  darsi un’anima  senza  confrontarsi  con  la  cultura  orientale, come  aveva  già  compreso  Fanti;  dall’altro,  che  la tradizione occidentale non poteva liberarsi di tutti i suoi assolutismi,  talvolta  feroci,  senza  misurarsi  con  l’idea della vacuità in senso buddhistico. Il pensiero orientale, dal canto suo, non poteva credere di riuscire a sottrarsi, senza pagare un prezzo salato, al potere e alla potenza della  logica  argomentativa  e  deterministica  del mondo occidentale.  Il  fatto  di  aver  avuto  la  possibilità  di  sperimentare personalmente questi  due modi di  concepire  il mondo, mi  ha  anche  permesso,  attraverso  una  ravvicinata frequentazione di molti seguaci di entrambe queste due 

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concezioni,  di  osservare  come  siano  ancora  forti  le chiusure  difensive  in  posizioni  a  volte  quasi  settarie. Spesso,  a  dominare  nei  due  campi,  sono  la  reciproca ignoranza  dei  differenti  punti  di  vista,  nonché  la confusione delle idee e i pregiudizi. Quanta sufficienza – se  non,  addirittura,  infondato  disprezzo  –  da  parte  di molti  psicoanalisti  verso  le  forme  di  meditazione orientale.  Quanta  diffidenza  verso  la  psicoanalisi  in molti  seguaci e praticanti,  soprattutto occidentali, delle più diverse forme di meditazione derivate dalle filosofie orientali.   Da  tale  punto  di  vista,  il  libro  che  ho  pubblicato1,  è davvero per me quell’esito inaspettato e, spero, riuscito, di  essere  andato  oltre  quei  limiti  e  quelle  specifiche sofferenze  che  la  cultura  occidentale  mi  ha  imposto, senza  però  alcun  rinnegamento  di  essa.  Questo “superamento”  non  ha  significato,  comunque, un’accettazione  pedestre  e  fideistica  di  tutto  ciò  che  la cultura orientale mi proponeva.   I  cinquantuno  haiku  che  compongono  la  raccolta  non sono  i  primi  che  ho  scritto  e  pubblicato.  In  un  piccolo libro,  che  ho  dedicato  al  Roero2,  una  regione  collinare del Piemonte, mi sono cimentato, per la prima volta, con questo tipo di composizione.   

1 Alfonso M., Haiku inauditi, Libreria Cortina, Torino, 2013 2 Alfonso M., Roero. Istanti in poesia, Cromografica Roma, 2011

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Mauro Alfonso ‐  L’haiku come modello di una teoria del processo creativo  Pagina 6 

Devo dire, poi, che questa seconda raccolta mantiene le mie  scelte  formali  non  ortodosse  –  anche  per  questo “inaudite”  –  rispetto  all’haiku  classico.  Da  un  lato,  ho continuato  a  dare  un  titolo  ad  ogni  poesia,  poiché ritengo  che  un  titolo  –  quando  non  sia  una  dedica  – rappresenti  la  costrizione  ad  una  ulteriore  sintesi,  la quale,  esprimendo  l’impressione  da  cui  nasce  la composizione,  ha  il  vantaggio  di  rendere  ancora  più accessibile il contenuto del testo, come auspica lo spirito dell’haiku.  Dall’altro  lato,  ho  conservato  la  mia  preferenza  per  il verso  libero  dallo  schema  sillabico  5/7/5,  proprio dell’haiku,  confortato  in  questo  da  illustri  maestri giapponesi, quali, ad esempio, Hōsai oppure Hōsha.  Vorrei soltanto notare, a questo proposito, che se è vero che  ogni  rigido  purismo  formale  può  alimentare  quel fenomeno  di  “destabilizzazione”3  che  favorisce  il processo  creativo,  è  anche  vero  che  esso  può  essere posto,  per  converso,  al  servizio  di  quelle  difese psicologiche  volte  a  proteggere,  legittimamente  e umanamente,  i nostri attaccamenti consci o  inconsci, di qualsiasi  genere  essi  siano.  Lo  scolasticismo  è  una potentissima  forma di  rassicurazione:  la vita, del  resto, tende  ad  essere  conservatrice.  Vale  la  pena  ricordare che qualcuno, nella storia dello Zen, non esitò a liberarsi dei  libri  degli  skanda,  bruciandoli,  o  a  suggerire  di uccidere il Buddha, quando lo si  fosse incontrato per la strada.  3  Il concetto verrà chiarito più avanti 

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 Per  quanto  riguarda  le  tematiche  trattate  negli  haiku che  seguono, posso dire  che una buona parte di  essi  si pone  ancora  nella  linea  classica  di  un’attenzione all’ambiente  naturale.  Ciò  avviene,  però,  nella consapevolezza  del  fatto  che  il  referente  privilegiato non  è  più  quell’ambiente  come  poteva  essere  all’epoca di  Basho4.  Questo,  non  soltanto  perché  l’ambiente  ha subito  tali  stravolgimenti  da  parte  dell’uomo  che  è difficile  pensarlo  ancora  come  “naturale”,  bensì  anche perché  la  pervasività  di  questa  azione  trasformatrice, conseguenza  della  civiltà  industriale,  ha  fatto  sì  che  i manufatti  dell’uomo  possano  essi  stessi  essere  ormai considerati “naturali”.   Un ampliamento delle tematiche, che anch’io ho cercato di  realizzare,  è,  del  resto,  già  stato  avviato,  nell’epoca moderna  e  contemporanea,  da  grandi  poeti  di  haiku,  i quali hanno prestato un’attenzione maggiore al mondo umano e alla ricchezza della gamma della sua affettività. Questa apertura mi ha permesso di non escludere dagli haiku  che  presenterò,  alcun  genere  di  spunto  –  per questo  alcuni  di  essi  appariranno  “inauditi”  –  nel rispetto,  in  fondo,  di  quelle  che  erano  le 

4 Il primo haiku della raccolta è rivolto al poeta giapponese:   

Dedicato a Basho  

Ti prego, rana, ancora una volta salta nello stagno. 

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raccomandazioni  di  alcune  forme  di  meditazione buddhistica.   A quanto  appena detto  vorrei  aggiungere  che  in  alcuni dei miei  haiku  compare  un  tratto  che  in  genere  non  si incontra in quelli classici: l’ironia. Non si giudichi questa disposizione d’animo come qualcosa di  impertinente. A ben  considerare,  la  presa  di  coscienza  che  segue  alla scoperta di un attaccamento e che porta ad un distacco affettivo,  è  sempre accompagnata,  sul piano emotivo, o dal pianto o dal  sorriso disincantato dell’ironia. Questa non è il sarcasmo: essa è sempre benevola. Io credo che, proprio  per  questa  benevolenza,  l’umanità  meriti  più ironia – e compassione – di quanta, sovente, si è disposti a  concederle,  specialmente  quando  ci  facciamo  giudici troppo severi della innegabile “stupidità” degli uomini.  Un’ultima cosa. La mia scoperta del fascino della poesia haiku risale ad una trentina di anni  fa. Solo, però, dopo la  recente  stesura  del  mio  libro  “Psicoanalisi  e  oltre”5, nel  quale  ho  tentato  di mettere  a  punto  una  revisione della  psicoanalisi  alla  luce  del  pensiero  sistemico,  ho scoperto come l’haiku potesse essere assunto a modello del processo creativo stesso, nel suo schema di sviluppo. Di questa intuizione ho cercato di offrire la breve sintesi che segue.  

 

5 Alfonso M., Psicoanalisi e oltre, Libreria Cortina, Torino, 2011 

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 L’haiku come modello di una teoria del processo creativo 

   

È stato scritto da Leonardo Arena, nella introduzione alla raccolta  “Haiku”  da  lui  curata,  che  l’haiku  presenta  un tratto  essenziale,  consistente  in  una  particolare «atmosfera» definita in giapponese dal termine yūgen. Quest’ultimo  esprime  una  «profondità  misteriosa»  ed una «realtà che non sarà mai colta, finché la si cercherà attraverso la razionalità occidentale»6.   Per  parte  mia,  vorrei  aggiungere  che  il  “mistero”  che circonda  l’haiku  è  il  medesimo  mistero  che  circonda ogni opera d’arte: è il mistero di ogni evento creativo e del  processo  che  conduce  ad  esso.  In  ogni  haiku,  si realizza  quello  che  si  ritrova  in  ogni  altra  produzione artistica:  la  generazione  di  un  «mondo  nuovo».  Più avanti cercherò di chiarire meglio il senso di una simile affermazione,  che  in  sé  non  presenta  un  carattere  di grande originalità. Per ora, vorrei chiarire quello che  io intendo  per  mistero,  alla  luce  della  micropsicoanalisi sistemica7.  Spesso,  il  concetto  di  mistero  è  definito  6 Arena (2010), p. 7. 7  Chiamo  ‘micropsicoanalisi  sistemica’,  il  tentativo  con  il  quale  ho  cercato  di  riconsiderare  la psicoanalisi classica freudiana e la micropsicoanalisi di Silvio Fanti, nell’ottica delle risultanze di quello  sviluppo  delle  scienze  del  XX  secolo,  che  va  sotto  il  nome  di  “pensiero  sistemico”.  Il risultato di questo impegno è contenuto nel mio libro Psicoanalisi e Oltre. 

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Mauro Alfonso ‐  L’haiku come modello di una teoria del processo creativo  Pagina 10 

attraverso forme vaghe o poetiche, che però rimangono soltanto  metafore  a  volte  più  oscure  di  ciò  che  esse vogliono  spiegare.  Questo,  poiché  il  mistero  è identificato come l’«inesprimibile».   Io  credo,  invece,  che  il  mistero  non  rappresenti  tanto l’inesprimibile  quanto,  piuttosto,  il  non  ancora  mai espresso. Il mistero è quella corporeità che non è ancora mai  diventata  parola  condivisa.  Questa  condizione  è quello che io chiamo ‘inconscio’. Per questo motivo, una riflessione  sull’haiku  deve  prendere  in  considerazione non  solo  il  punto  di  partenza,  bensì  anche  il  punto  di arrivo,  l’esito  di  un  processo  che  oggi,  grazie  alla micropsicoanalisi sistemica ci appare più chiaro.   Riguardo  al  punto  di  partenza,  bisogna  subito evidenziare  che  l’idea  che  il  mistero  possa  essere disvelato,  nasce  dalla  errata  concezione,  che  potremmo definire  “realismo  ingenuo”,  la  quale  presuppone  che attraverso  un  qualche  artificio  magico  sia  possibile cogliere  un mondo  già  dato,  preesistente  e  prestabilito, che  non  sia  stato  possibile  afferrare,  fino  a  quel momento, per difetto di strumenti conoscitivi.   Questa è una concezione archeologica dello psichismo.   Diverso,  invece,  è  il  modo  di  pensare  secondo  il  quale ogni atto cognitivo è un atto di produzione di un mondo. Questa  concezione,  che  è  presente  da molto  tempo  nel pensiero orientale, compare in Occidente soltanto nel XX 

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secolo,  nella  teoria  della  conoscenza  di  due  scienziati, quali Humberto Maturana e Francisco Varela.   Secondo  questa  teoria,  il  mistero  potrebbe,  allora, essere visto come il mondo del non‐ancora‐condiviso, il mondo della non‐ancora‐coscienza. Io direi che esso è il mondo  corporeo  che  non  si  è  ancora  fatto  conscio (“saputo  ‐  con”).  Non  è  dunque  –  lo  ripeto  –  il  mondo dell’inesprimibile, bensì quello del non ancora espresso. Il mistero è tale fino a che è mistero: quando si svela, non si  ha  più  mistero.  Il  mistero  è  misterioso  finché  resta mistero. Come il segreto o, anche, come l’inconscio.  Non è, pertanto, vero che  l’opera d’arte susciti o evochi l’insondabile,  come  qualcosa  che  non  sia  raggiungibile. Essa,  invece,  in  qualsiasi  forma  si  presenti,  evoca  e rimanda  ad  esperienze  già  vissute,  ma  ancora  mai condivise dal compositore o, eventualmente, dal fruitore. L’opera d’arte dà parola (qualunque sia il codice in cui si esprime)  ad  un  mondo  –  quello  dell’affettività  –  non ancora mai rappresentato.   Vi  è,  tuttavia,  un  secondo  aspetto  del  mistero  che riguarda  anche  l’esito  del  processo  artistico.  Voglio aggiungere,  cioè,  che  l’opera  d’arte,  in  quanto  prodotto originale  di  creazione,  è  essa  stessa mistero.  Il mistero che  la  avvolge,  almeno  in  un  primo  momento,  è l’estraneità  –  con  il  turbamento  che  ad  essa  si accompagna  –  di  ciò  che  l’artista  ha  prodotto.  Egli  è andato al di là del mondo conosciuto: è il mondo nuovo che non si è ancora cristallizzato nello stereotipo, nella 

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categoria,  che  non  è  ancora  stato  piegato  alle  esigenze del pensiero logico‐lineare.   L’haiku  nasce  –  come  tutta  l’arte  –  dalla  solitudine  di fronte  a  quell’affettività  non  condivisa,  perché  non ancora denominata  o  descritta.  Esso,  però,  come  l’arte, riesce a sconfiggere questa solitudine. Ci ricordiamo noi di  quel  turbamento,  che  possiamo  anche  osservare  nei bambini  piccoli,  provato  di  fronte  ai  primi  sogni  della vita,  quando  non  si  sa  alcunché  di  fase  Rem  o  di Sigmund  Freud?  Che  cos’è  quell’esperienza sconvolgente e misteriosa? Solo  il  loro racconto spesso ripetuto  –  una  vera  e  propria  opera  d’arte  –  riesce  a placarne  l’angoscia. Noi  uomini  abbiamo  fatto  creare  il mondo  agli  dei,  perché  questi  si  assumessero  la responsabilità  e  il  turbamento,  che  ci  deriva  dalla produzione del nuovo o dall’incontro con esso.   Dopo  questa  necessaria  riflessione  sul  significato  del mistero,  vorrei,  adesso,  offrire  alcune  riflessioni  che discendono  dalla  specificità  dell’haiku.  In  poche  e semplici parole, esso è una forma poetica, sorta in Cina e sviluppatasi in Giappone, la quale si ispira al pensiero e alla pratica Zen.   Ci sono due passaggi, ancora nell’Introduzione di Arena, sui  quali  è  importante  soffermarsi,  poiché  essi  – opportunamente  approfonditi  alla  luce  della micropsicoanalisi  sistemica  –  possono  essere  utili  ad 

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avviarci  verso  una  comprensione  nuova  sia  dell’haiku sia del processo creativo dell’arte. Arena, nel primo dei due passaggi scrive: «... non è facile comporre  haiku.  Benché  possa  suonare  paradossale,  la spontaneità  dell’haiku  si  ottiene  dopo  un  rigido training»8.  A  me,  che  ho  avuto  esperienza  di micropsicoanalista, questa  frase non può non ricordare il processo associativo, come si svolge durante la seduta di psicoanalisi.   A prima vista, sembra facile «dire tutto quello che viene in  mente»,  secondo  quanto  impone  la  “regola fondamentale” enunciata da Freud. Sembra, ma non lo è affatto.  Riuscire  a  sviluppare  una  buona  e  sciolta capacità associativa richiede un lungo e difficile training, come  direbbe  ancora  Arena.  Quella  «immediatezza»  e «spontaneità»,  richieste  sia  nella  seduta  psicoanalitica sia nella composizione dell’haiku, sono  frutto,  invece, di una disciplina “costosa” – in tutti i sensi.  L’haiku, dal canto suo, cerca di esprimere verbalmente il processo  di  raggiungimento  dell’illuminazione buddhistica,  la  quale  coincide  con  la  presa di  coscienza della vacuità e della  interdipendenza di  tutti  i  fenomeni fisici e psichici.  Questo  processo  –  a  prescindere  dal  suo  oggetto specifico di emergenza – mi è parso essere il medesimo che  si  ritrova  alla  base  del  processo  della  presa  di coscienza  in  psicoanalisi.  Per  questo  motivo,  mi  sono  8 Arena (2010), p. 9. 

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Mauro Alfonso ‐  L’haiku come modello di una teoria del processo creativo  Pagina 14 

spinto ad affermare che  la psicoanalisi potrebbe essere assimilabile  a  certe  forme  orientali  di  meditazione.  È vero  che  il  Buddhismo  si  caratterizza  per  questa specificità  esclusiva  dell’oggetto  della  presa  di coscienza,  della  quale  ho  appena  detto,  mentre  in psicoanalisi  la  presa  di  coscienza  riguarda  una  gamma più ampia di oggetti; resta però il fatto sorprendente che medesimo  è  il  processo  attraverso  il  quale  è  raggiunta questa presa di coscienza.   Che cosa hanno allora in comune il processo compositivo dell’haiku  e  quello  psicoanalitico  della  presa  di coscienza?  In  che  senso,  il  processo  psicoanalitico  e  il processo  di  meditazione  buddhistico  (non  soltanto questo)  sono  simili  nello  schema  che  sottostà  al  loro svolgersi?  Entrambi questi processi non determinano soltanto, nei loro  esiti,  l’emergenza  di  un  evento  nuovo,  originale  e creativo (poietico); essi – come ho cercato di dimostrare nel mio  libro appena citato – richiedono anche, affinché questi  esiti  siano  realizzati,  che  il  soggetto  in  essi coinvolto, sia “destabilizzato”, nel senso di una messa in crisi di tutti i suoi schemi socioculturali.  Per  illustrare  ciò  che  intendo  dire,  farò,  adesso, riferimento  al  secondo  passaggio  di  Arena  al  quale accennavo  sopra.  Egli,  citando  un  haiku  di  Issa,  scrive: «Questo haiku ha impegnato l’autore per parecchi mesi, benché  la  stesura  definitiva  sembri  il  risultato  di ispirazione  istantanea.  Issa  è  partito  da  uno  spunto 

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“immediato”,  sottoponendolo  poi,  però,  ad  una  lunga  e faticosa rielaborazione»9.  Sappiamo tutti che una simile fase gestatoria è comune ad  ogni  lavoro  di  creazione  artistica,  sia  essa  un’opera d’arte  in senso stretto sia essa una scoperta scientifica. Le parole di Arena appena citate riassumono bene quali siano  le  condizioni  affinché  sia  prodotta  una  forma poietica  originale  quale  è  una  presa  di  coscienza.  La presa di coscienza, l’illuminazione, è sempre alla base di ogni  successiva  opera  di  creazione  artistica10. Soffermiamoci,  dunque,  in  modo  un  po’  più  analitico, anche  se  necessariamente  breve,  sulle  condizioni  e  lo sviluppo che portano alla creazione artistica11.  Ogni  processo  poietico  ha,  dunque,  come  punto  di partenza uno «spunto immediato», che io – mutuando il termine  dalla  teoria  delle  strutture  dissipative  di Prigogine  –  chiamo  «fluttuazione  iniziale».  Tale fluttuazione  è  sovente  un  evento  casuale  che  ha  un valore  di  significatività  per  il  soggetto;  vuol  dire,  cioè, che per lui “risuona” e che, in qualche modo, determina uno stato di tensione e di relativo squilibrio.   In  condizioni  normali,  tali  “perturbazioni”  sono gradualmente  assorbite  dal  soggetto‐sistema,  a  meno che  la  loro  intensità  non  sia  eccessiva  al  punto  da determinare il collasso di questo. Nel caso in cui, invece, 

9 Arena (2010), p. 11. 10 Non mi pare un caso che i disegnatori di fumetti abbiano rappresentato la presa di coscienza attraverso una lampadina accesa. 11 Per una elaborazione più articolata, rimando ancora una volta al mio libro già menzionato. 

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come  avviene  nel  processo  psicoanalitico  o  di meditazione,  oppure  come  avviene  nel  poeta  Issa,  la perturbazione non sia abbandonata o in breve assorbita, bensì  venga  intenzionalmente  mantenuta  viva  ed “elaborata”,  si  determina  una  progressiva “destabilizzazione”. Ciò vuol dire che, al raggiungimento e  al  superamento  di  una  certa  soglia  psicobiologica  di tensione,  si  verificherà  l’emergenza  di  qualcosa  di originale12.  Questo  qualcosa  di  originale  è  sempre  una produzione di coscienza nuova – come ho già detto –  la quale  potrà  esprimersi  in  forme  diverse.  Questo processo, che ho appena descritto, non è altro che quello che comunemente viene chiamato ‘ispirazione’. La  realizzazione  dell’opera  d’arte,  la  cristallizzazione “materiale”, che la coscienza assumerà, è semplicemente un a posteriori.  Il  corpo  dell’artista  si  sarà  fatto parola, non importa quale sia il codice in cui questa si esprime: verbale,  musicale,  pittorico,  matematico,  ecc.  Sarà sempre  una  poiesi,  un  atto  creativo  originale.  Il  vero artista,  che  può  essere  anche  uno  scienziato,  è  allora sempre “genio”, inteso nell’accezione etimologica che lo definisce  come  colui  che  “genera”.  In  lui  sarà,  allora, dote precipua non tanto l’intelligenza o l’estro o questo o quel talento – condizioni peraltro necessarie, anche se non  sufficienti  –  bensì  il  coraggio  e  la  tenacia,  che non sono  altro  che quella  forza  e  quella  capacità  di  restare sulla  fluttuazione,  con  tutta  la  sofferenza  e  l’angoscia che ciò comporta.  

12  A  proposito  di  questo  processo,  rinvio  soprattutto  alla  voce  ‘destabilizzazione’  dell’indice analitico e ai relativi rimandi, contenuti in Psicoanalisi e oltre. 

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 Questo  processo  creativo,  che  vede  un  crescendo  della tensione  e  un  progressivo  allontanamento  dall’abituale equilibrio  relativo,  trova,    a  mio  avviso,  una esemplificazione ed una conferma nella stessa struttura poetica dell’haiku. Cercherò di mostrare, qui di seguito, come l’haiku possa persino essere assunto a modello di questo processo.  Se  esaminiamo  la  struttura  poetica  dell’haiku,  vediamo che essa rivela uno schema, anche se questo sembra non apparire  esplicitamente  in  tutte  le  composizioni.  Tale schema non solo ricalca quello che ho appena descritto, bensì,  a  sua  volta,  segue  perfettamente  il  modello scientifico della teoria delle strutture dissipative.   In alcuni haiku, dunque, si può osservare facilmente che compaiono  uno  o  due  versi  (posti  all’inizio  o  alla  fine della  composizione)  nei  quali  è  presentato  quello spunto  iniziale  che  contiene  gli  elementi  di  una affettività in nuce, la quale, però, non è espressa né fatta “esplodere”  appena  sorta.  Fra  gli  haiku  che  attestano questo  andamento,  ve  n’è  uno,  composto  da Masahide, che mi sembra illustri bene quanto ho appena detto.  

 Il tetto s’è bruciato – 

ora posso vedere la luna13 

  13 Stryk e Ikemoto (1992), p. 100. 

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Come  è  facile  notare,  nel  primo  verso  è  espresso chiaramente  lo  spunto  iniziale,  l’evento  perturbante. Chiunque si aspetterebbe, come  logica risposta affettiva nella  realtà  psicologica  naturale,  un  sentimento  di contrarietà  o  di  disperazione, magari  accompagnato  da una  imprecazione.  Invece,  quella  normale  reazione umana  è  trattenuta  e  lasciata  maturare  per  un  tempo psicologico,  che  mi  pare  efficacemente  rappresentato, nella  traduzione  italiana,  da  quel  trattino  che  separa  il primo  verso  dagli  altri  due.  La  durata  cronologica  che separa il primo verso dagli altri due può essere anche di mesi, come ci ha detto Arena a proposito di Issa.  Questa  elaborazione  più  o  meno  lunga  dell’affetto conservato, alla fine darà vita all’improvvisa emergenza degli  altri  due  versi  che  appaiono  come  un  vero  e proprio  salto  poietico.  Per  dirla  in  parole  semplici,  il terzo  verso  contiene,  sovente,  una  osservazione  o  una considerazione  che  sembra non  avere  alcuna  attinenza logica  o  consequenzialità  psicologica  con  quel  che precede. Lo schema poetico che ho appena indicato, sembra, però, non  ritrovarsi  nella  maggior  parte  degli  haiku,  non essendo  esplicitata  la  fluttuazione  iniziale  contenente, come nell’haiku di Masahide, l’evento scatenante. Questa mancanza  è  soltanto  apparente,  essendo  la  fluttuazione soltanto  sottintesa.  In  questo  caso,  tutti  e  tre  i  versi, costituiscono  la  conclusione.  Essi,  però,  lasciano agevolmente comprendere quale sia il vissuto o l’evento 

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psicologico  da  cui  si  è  mosso  il  poeta.  Leggiamo  il seguente haiku di Issa:  

Non piangete, insetti –  gli amanti, persino le stelle 

devono separarsi.14  

Mi  sembra  facile  cogliere  la  premessa  affettiva  (lo spunto) da cui parte il poeta, ma della quale egli non fa parola:  un  vissuto  di  separazione‐perdita  che  ha determinato un sentimento di malinconia. Questo non è però  lasciato  scadere  in  un  autocompiacimento consolatorio.  Il  poeta,  evitando  l’assolutizzazione  di  se stesso  ed  avendo  elaborato  la  sofferenza  senza abbandonarla, scopre, allora, che anche gli altri esseri – animati e  inanimati – possono essere costretti  a vivere un’esperienza di separazione e di  lutto. La sofferenza è superata  in  una  nuova  presa  di  coscienza,  in  una illuminazione,  che  si  apre  ad  un  sentimento  di compassione  in  senso  buddhistico.  Il  distacco temporaneo  del  poeta  non  è  dalle  cose,  bensì  da  se stesso  e  dalla  propria  umana  ed  inevitabile  tendenza all’assolutizzazione  di  chi  e  di  ciò  che,  invece,  è impermanente.  La  sofferenza,  proprio  perché  accolta  e vissuta  fino  in  fondo,  non  ha  in  questo  caso  portato  al collasso  del  sistema,  bensì  si  è  trasformata  in un’esperienza  nuova,  si  è  trasfigurata.  Sembra paradossale – il paradosso di ogni forma di meditazione e  di  attività  creativa  –  ma  la  sofferenza  inizialmente  14 Ibidem, p. 80. 

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subita  è  superata  attraverso  una  intenzionale  e consapevole permanenza in essa.       Anche  nel  secondo  esempio  di  haiku,  è  possibile verificare,  nei  tre  versi‐conclusione,  quel  salto  di  cui parlavo a proposito dell’haiku di Masahide.   

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  L’haiku e la logica della vita    La scoperta del salto logico a cui sottopone l’haiku, può far  dire  di  esso  che  è  l’anti‐sillogismo.  Quella conclusione  che  nel  sillogismo  è  logicamente determinata  e  rigorosamente  connessa,  nell’haiku appare,  in  molti  casi,  illogica,  priva  di  apparente connessione.  Ci  troviamo,  nell’haiku,  di  fronte  a  quei nessi  associativi  che  sono  ricercati  nel  processo psicoanalitico,  e  che  di  quest’ultimo  costituiscono l’ossatura. Questo salto, questa  illogicità appaiono però comprensibili se considerati psicologicamente. Per dirla con  lo  psicoanalista  Ignacio  Matte  Blanco,  mentre  il sillogismo  aristotelico  poggia  su  un  pensiero asimmetrico,  quello  dell’haiku,  invece,  può  seguire  un pensiero simmetrico, irrazionale.    D’altra  parte,  l’haiku  e  il  sillogismo  incarnano  bene  la doppia condizione della vita stessa. Essa, per mantenersi, deve riuscire sia a rinnovarsi sia ad innovarsi. Mentre il rinnovamento  esprime  la  capacità  della  vita  di riprodurre i cicli vitali biopsico‐sociologici, l’innovazione deve  realizzare  le  trasformazioni  che  permettono  alla 

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vita  di  affrontare  e  superare  quei  mutamenti dell’ambiente  (ad  esempio  l’incendio  di  un  tetto)  che ostacolano  oppure  rendono  impossibili  o  inefficaci  i processi ciclici di rinnovamento. L’innovazione è, quindi, la  capacità  della  vita  di  far  emergere,  di  produrre, soluzioni  vitali  nuove  (salto).  L’haiku,  l’arte,  ogni scoperta  scientifica  rappresentano  quelle  rivoluzioni vere e non pseudo, che vanno oltre le vecchie forme e i vecchi  schemi,  divenuti  incapaci  di  garantire  la sopravvivenza  della  vita.  La  vita  sopravvive  soltanto facendosi opera d’arte di se stessa.    Nell’uomo, a causa della sua specificità, il bisogno vitale di  sopravvivere  coinvolge  la  coscienza.  Egli  ha,  quindi, necessità  di  rendere  più  complessa  la  propria esperienza:  glielo  impone  la  vita.  A  volte,  deve  andare oltre  se  stesso. Non  sempre,  però,  gli  è  facile,  poiché  è più economico e meno doloroso il ricorso a forme note e consolidate. Queste  forme,  tuttavia,  proprio  per  la  loro ripetitività,  non  sono  nuove.  Quelle  innovative,  invece, passano  per  una  nuova  coscienza  più  ricca,  e affettivamente  pregnante.  Una  simile  scoperta  non  è però  il  ritrovamento  di  qualcosa  di  già  dato  e preesistente,  bensì  la  produzione  di  una  realtà  nuova. Questo  elemento  di  novità,  mai  privo  di  armonia, costituisce  quella  fascinazione  che  pervade  e contraddistingue l’haiku ed ogni opera d’arte. 

 

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Bibliografia    Alfonso M., Psicoanalisi e oltre, Libreria Cortina, Torino, 2011.  Alfonso  M.,  Haiku  inauditi,  Libreria  Cortina,  Torino, 2013.  Arena L. V., Haiku, BUR Rizzoli, Milano, 20103. 

 Stryk L., Ikemoto T., Poesie Zen, Newton Compton, Roma, 19952.