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Indice Introduzione 7 Capitolo primo Claudia & family (Marina Cometto) 9 Capitolo secondo Walter (Rossella Marg herita Mon aco) o o 29 Capitolo terzo Lulu (Claudio Dardi ) i i 51 Capitolo quarto La storia di Diletta (Fabiana Gianni ) i i 57 Capitolo quinto Simone (Chiara Bonanno Madussi ) i i 85 Capitolo sesto Emanuele (Mauro Ossola ( ( ) a a 115 Capitolo settimo Abile, disabile, disabile grave: storia di Silvia e della sua famiglia (Giorgio Genta ) a a 157 Capitolo ottavo Andy (Patrizia de Gregoriis ) s s 187 Decalogo 199 Glossario e indirizzi utili 207

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Indice

Introduzione 7

Capitolo primoClaudia & family (Marina Cometto) 9

Capitolo secondoWalter (Rossella Marg(Rossella Marg( herita MonRossella Margherita MonRossella Marg aco)aco)aco 29

Capitolo terzoLulu (Claudio Dardi(Claudio Dardi( )Claudio Dardi)Claudio Dardi 51

Capitolo quartoLa storia di Diletta

quartoLa storia di Diletta

quarto(Fabiana Gianni(Fabiana Gianni( )Fabiana Gianni)Fabiana Gianni 57

Capitolo quintoSimone (Chiara Bonanno Madussi(Chiara Bonanno Madussi( )Chiara Bonanno Madussi)Chiara Bonanno Madussi 85

Capitolo sestoEmanuele (Mauro Ossola(Mauro Ossola( )Mauro Ossola)Mauro Ossola 115

Capitolo settimoAbile, disabile, disabile grave: storia di Silvia

e della sua famiglia (Giorgio Genta(Giorgio Genta( )Giorgio Genta)Giorgio Genta 157

Capitolo ottavoAndy (Patrizia de Gregoriis(Patrizia de Gregoriis( )Patrizia de Gregoriis)Patrizia de Gregoriis 187

Decalogo 199

Glossario e indirizzi utili 207

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IntroduzioneMauro Ossola

Come tutte le cose, anche questo nacque!Come fa un libro a nascere?Non lo so, ma questo… nacque!

Lasciate che vi premetta il fattaccio: alcuni maratoneti correvano (e si rincorrono tuttora) in vari gruppi di discussione alla ricerca dell’arcana risposta alle bizze, non proprio stabili, della vita. La vita bizzosa non è propriamente la loro, ma, pa-rafrasando Gibran,1 è della freccia lanciata dall’arco:freccia lanciata dall’arco:freccia

Voi siete gli archi da cui i fi gli, come frecce vive, sono scoccate in avanti. L’Arciere vede il bersaglio sul sentiero dell’infi nito e vi tende con forza affi nché le sue frecce vadano rapide e lontane. Affi datevi con gioia alla mano dell’Arciere.

Poiché come ama il volo della freccia così ama la fermezza dell’arco.

A furia di correre, prima o poi, o si rallenta o si cade.Così fu per i nostri maratoneti: rallentarono cadendosi

addosso (e avevano dei fondati sospetti che qualcuno avesseteso la gambetta…).

Da qui, risollevandosi e dopo aver controllato la propria integrità fi sica (quella psichica non è dato loro valutare), de-

1 Gibran K. (1996), Il profeta, Il profeta, Il pro Milano, San Paolo.

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cisero che forse era giuntocisero che forse era giuntocisero che forse era il momento di esternare, di buttare fuori e allo stesso tempo di riposare un po’ le stanche menti e le altrettanto stanche membra.

Si scoprì, con la ponderazione e la razionalità del poi, poi, poi che la gambetta misteriosa, tragica fautrice del rovinoso capitom-bolo, era attaccata saldamente a uno dei maratoneti, forse il più attivo o forse il più lungimirante. Ella (non la gambetta, ma la proprietaria di quest’ultima) propose il progetto!

E da qui nacque l’avventura… ora scritta, ora urlata, ora raccontata. Ve lo anticipai che nacque e qui ve lo dimostrai. Buona lettura.

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La nostra bella storia

i chiamo Marina, Mammamarina, in famiglia l’onorevole Angelina, da un famoso personaggio cinematografi co

degli anni Cinquanta interpretato dall’indimenticabile Anna Cinquanta interpretato dall’indimenticabile Anna CinquantaMagnani (i matusa se la ricorderanno certo).

La nostra famiglia è composta, oltre che da me, da tre fi glie da un papà.

Cristina, la nostra primogenita, sognata fi n da prima di essere sposati, è stata la mia cavia è stata la mia cavia è stata : da lei ho imparato a fare la mamma e oggi, mamma a sua volta, non si è dimenticata di essere ancora fi glia e sorella.

Claudia, la principessa dai capelli rossi: mi ha insegnato ad apprezzare la gioia delle piccole cose.

Mirko, il fi glio della maturità: lo avevamo cullato nel cuore per quattordici anni prima di dare completo sfogo alla volontà di essere nuovamente genitori, senza ascoltare i timori che la ragione ci poneva: sarà sano? Da quando c’è lui sembra che il sole sia entrato nella nostra vita: ci rallegra tutti, è un gran bel buffone.

Infi ne c’è papà, soprannominato Brontolo, che non prende l’iniziativa e appoggia le idee, a volte bislacche, che l’onorevole Angelina partorisce.

CAPITOLO PRIMO

Claudia & familyMarina Cometto

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Questa sera, bimba mia, siamo sole in questa grande casa. Il tuo fratellone è andato a giocare a pallone, la sua passione,nonostante sia ormai grandicello: ha vent’anni ma ha man-tenuto intatta la sua gioiatenuto intatta la sua gioiatenuto intatta di bambino nel ritrovarsi con gli amici; il tuo papà è andato con lui perché ama condividere le vittorie e le sconfi tte del suo principe ereditario; Cristina è a casa sua con i bambini e noi siamo qui a dover passare la serata in attesa di prepararci per la notte. Che fare? Guardare la tv no, leggere no, guardarci negli occhi e scambiare in silenzio i nostri pensieri neppure: questa sera voglio fare una cosa che rimanga per sempre, qualcosa che tu possa tenere sempre con te: i miei ricordi, i ricordi e i pensieri della mia vita con te, mia bella principessa, quindi con la mia mano tra le tue sono qui davanti al pc e scrivo questa mia lettera a te. Qualcuno potr. Qualcuno potr. Q à sempre leggertela e ti parrà di essere ancora insieme, come in questo momento.

28 aprile 1973: il tuo arrivo!

uando il medico ci confermò che nella nostra famiglia sarebbe arrivato un altro bimbo, dopo Cristina che aveva

allora poco più di due anni, toccammo il cielo con un dito. allora poco più di due anni, toccammo il cielo con un dito. Eravamo giovani, ci amavamo, avevamo una splendida fi glia e ora coronavamo un altro sogno che fi n dall’infanzia portavo in cuore: avere tanti fi gli. Eravamo a quota due; chi ben comincia è a metà dell’opera, si dice…

Dopo due mesi giunsero le prime avvisaglie che non tutto procedeva a meraviglia: minaccia d’aborto, necessità di riposo assoluto, cure, Cristina che si lamentava; pensavo: «Ma come, non è ancora nato e già mi rovina le giornate?».

Poi tutto iniziò ad andare per il verso giusto. Questo si sperava almeno, ma non avendo la sfera di cristallo (con il

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trascorrere degli anni mi sono organizzata), pensavamo che il periodo più nero fosse passato.

Facevo passeggiate a più non posso per far svagare la tua sorellina, un po’ gelosetta di quel pancione ingombrante che non le permetteva più di avere tutte le coccole per sé, ma no-nostante tutto anche lei era felice, perché mi vedeva, ci vedeva sereni e pazzerelli come sempre.

E fi nalmente il gran giorno arrivò; è strano come a distanza di trentatré anni io mi ricordi ancora tutto nei minimi parti-colari. Era una data importante, l’inizio di una nuova vita in tutti sensi: mi svegliai verso le due e trenta del mattino con dei dolori lancinanti. Ero tranquilla, però, perché sapevo che di lì a poco avrei stretto tra le braccia un nuovo cucciolo; il mestiere che mi ero scelta, fare la mamma a vita, si stava realizzando.

Svegliai il tuo papà, che telefonò alla tua zia preferita perché venisse a tenere compagnia a Cristina e mi preparai a uscire di casa… Ma che mi stava succedendo? Permesso… corsa al bagno e… splash… le acque si ruppero, disperazione, che fare?

In quei momenti vengono in mente tutte le raccomanda-zioni di mammà, sorelle, zie: fai così, fai cosà, girati di lì, girati di qua, massaggio, riposo assoluto. Guardai papà in faccia e con un sorriso che mascherava il terrore gli dissi: «Andiamo, presto»; uscimmo senza neanche dare un bacio a Cristina che beata dormiva nel suo lettino.

Arrivammo all’ospedale, silenzio assoluto… (è strano come, nei luoghi in cui dovrebbero esserci attenzione, assistenza, cura, professionalità, tutto sembri sovente piatto, trascurato, nemico).

Dopo un po’ giunse l’ostetrica che mi assalì con un’inter-minabile fi la di domande. Chissà perché noi donne in preda ai dolori del parto, con la fi fa che toglie il fi ato e la voglia di piangere di quando eravamo bambine, dovevamo rispondere a tutte quelle domande, tanto inutili quanto inopportune.

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«Data di matrimonio?»… ma non me lo puoi chiedere dopo? «Ultima mestruazione?»… ma che mestruazione, lo vuoi capire che sto partorendo e sono qui perché tu mi aiuti? «Quanti fi gli ha?»… non me lo ricordo. «Quanti anni hanno?»… ma se ti ho detto che non mi ricordo! Guarda, ti prometto che se mi fai partorire bene, in fretta e senza problemi, io domani ti dedico tutta la giornata e ti racconto tutta la mia vita, ma per adesso no: non mi tormentare e fai uscire il mio bimbo da questa pancia che mi sembra proprio lo voglia lanciare fuori a cento all’ora.

Forse capì… mi fece sedere su una sedia a rotelle, una di quelle che sarebbe diventata come una fi glia per me.

Altra mezz’ora di attesa, parlavo con il futuro papà, ma senza riuscire a tirargli su il morale; il mio era ormai sottoterra: come facevo a tirarmi dietro anche il suo? Preferii allora il silenzio.

Finalmente sentii qualcuno spingere la sedia a rotelle: per fortuna si era decisa, viaaaa verso la sala parto ed ecco un’altra gentile… che? Infermiera? Ostetrica? Una due, tre, quattro, tutti mi volevano visitare: già eravamo dei fenomeni. Dottoressa? No, i dottori in sala parto no, «si chiamano solo se c’è un’emergenza» intanto «signora si metta sul lettino».

Signora? E dov’è questa signora? Che ridere sai, gioia, mi chiamavano signora, ma non vedevano che ero una ragazzina, terrorizzata da quello che mi stava succedendo (il primo parto era stato una passeggiata e ora invece sentivo solo un tremendo dolore): volevo la mamma, e invece ero sola in mezzo a estranei che se ne infi schiavano di me, di te. «Ehi tu che sei nella mia pancia, come stai? Ci sei sempre oppure ci sono riusciti a farti del male con tutte ’ste chiacchiere?»

Nulla, assolutamente non davi segni; io ti parlavo, io quasi ti urlavo; arrivò il dottore, fi nalmente qualcuno aveva pensato che questa era un’emergenza: loro mi dicevano di non spingere, era un’emergenza: loro mi dicevano di non spingere, erama io non ce la facevo più e come un tappo di champagne ti

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catapultai in questo mondo, tra queste mani, tra questi esimi professori che invece di aiutarti a nascere bene e senza problemi ti regalarono, ci regalarono, un palcoscenico speciale, dove però, anche se ci abbiamo messo un po’ di tempo, siamo riuscite a diventare protagoniste, e a dimostrare che non è importante come si nasce, importante è come si vive e noi, cucciola mia,viviamo alla grande.

Aspettavo il tuo benaugurato strillo, che però non arrivò. «Dottore non piange!» «Non si preoccupi signora.» Quante volte mi sono sentita dire questa frase, ancora oggi quando capitasento il sangue salire alla testaa testaa … Dottore non piange!

Poi ecco il tuo fl ebile, tenero, dolce miagolio: «Ecco signora, sente che piange?». Ma che dottore sei, non ti sei accorto che non è un pianto, sembra più un lamento, ma poverina (intanto mi dissero che eri una femmina, la mia Claudia) non hai la forza di respirare, e loro cosa fanno? Ti portano via, dicendomi che stai bene: «È un po’ blu ma non si preoccupi tra pochi giorni tutto passerà e diventerà bella e rosea come tutti i neonati».

Avevano ragione: dopo dieci giorni circa eri bella, eri rosea, ma non eri come tutti i neonati: eri Claudia, non come eri destinata a essere, ma come i professionisti che ci avevano seguito t’avevano fatta diventare, una meravigliosa creatura che però proprio loro consideravano e considerano meno dinulla.

La principessa dai capelli rossi

ono molti gli episodi della mia vita insieme a te, Claudia, che sono rimasti chiari nella mia mente, nei miei occhi e

nel mio cuore; alcuni, forse i più signifi cativi, ancora oggi li rammento sommessamente, nel mio essere più profondo.

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Nel tempo tutto questo provare, chiudere e riaprire un progetto e poi di nuovo richiuderlo mi cambiò radicalmente e defi nitivamente. Sentivo un fuochino nel cuore. Che lentamente diventava sempre più grande. Mi stavo innamorando di mia fi glia, non attraverso la volontà di curarla, ma semplicemente mi innamoravo di lei, di com’era, di ciò che mi aveva già in-segnato.

Stavo accettando la realtà ma non passivamente. Ero en-tusiasta dei sogni e dei progetti che mi venivano in mente per lei. Cominciavo a sorridere quando nei negozi mi fi ssavano.

Cominciavo a essere io quella che provava compassione per chi era così arido di emozioni da non capire quanto amore e quanta vita portavo con me. Mi stupivo sempre più davanti ad affermazioni errate e sciocche.

L’ordine dei valori nella mia vita non era cambiato.Era cambiata la mia stessa vita.Solo una persona è forse in grado di capire quanto scrivo.

L’unica che è sempre stata con me. L’unica, pur non essendo madre, che è stata capace con preziosa sensibilità di capire quanto fosse grande il dono della vita a prescindere da ogni logica culturale, da ogni religione: zia Danda. L’unica ad avere un rapporto con Diletta fi n dai primi tempi. L’unica che ha assorbito da me le sfumature di contatto per aiutare me e Diletta. L’unica capace di tornare sulle sue idee per il bene di Diletta. L’unica a imporsi quando mi vedeva vacillare. L’unica a fare rinunce per essere con noi. Per anni ho avuto solo lei, ma ha compensato in gran parte il vuoto che sentivo. La sua funzione era quella di giocoliere, di intrattenitrice, di tata, di amica. L’unica che vedeva me e il mio torpore e mi scuoteva per riportarmi a vivere. L’unica che ha pianto e riso insieme a me. L’unica a far fi nta di niente quando insieme a me avrebbe voluto dare capocciate al muro. L’unica a trattenere le lacrime davanti alle grida di Diletta sdrammatizzando, insegnando a

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Diletta che «lei era la più forte». L’unica a difendere Diletta senza remore, senza calcolo delle conseguenze. Mitica zia Danda! Grazie!

Centinaia di volte mi sono sentita dire: «Certo che tu con questa tragedia che porti sulle spalle…». All’inizio pensavo: «Perché dice “tragedia”?» ma non osavo dirlo apertamente. Dopo un po’ di tempo iniziai a rispondere con garbo: «Guarda che non è una tragedia, è Diletta!».

Poi il mio garbo emigrò e iniziai a stupire, le mie risposte divennero un po’ più volgari e irrispettose, però ormai è il gioco preferito da Diletta, prendere in giro chi si mostra così stupidino…

Ha imparato che questa gente non è cattiva ma solo ignorante. Diletta sa che queste persone, in realtà, vedendo pochi bimbi in carrozzina, non hanno la più pallida idea di quanto possa essere sereno un individuo che cammina con le ruote.

Spesso le dico di osservare il fatto che di bimbi in carrozza ce ne sono pochi, e per questo i grandi li guardano: perché non sono abituati.

Cerco insomma di giustifi carli come posso.E mi rendo conto che lei approva. Diletta distingue bene

gli sguardi e spesso li commenta, e ci scherziamo insieme.Abbiamo capito che la tragedia, il dramma, la disavventura,

il problema, derivano tutti dal fatto che in pochissimi sanno riconoscere una persona oltre l’apparenza.

Ma questa è una storia più complicata: ma in fondo che ne sanno loro?

Che ne sanno che la prima carrozzina di Diletta fu il più bel regalo, per il suo quarto compleanno? Che appena seduta lì disse: «Wow, sto comoda… comoda…»? Che ne sanno del pacco gigante che arrivò a Diletta, della carrozzina completa-mente rosa, piena di adesivi, rosa pure quelli, e copertine di

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ogni genere. Come fanno a immaginare che spegnemmo le candeline con tanta gioia per la sedia di Diletta? Non avevo più nessuno vicino con cui festeggiare… molti si persero quel pomeriggio di gioia e allegria.

Sono scelte.E così ognuno si tiene il suo cervello, e tutti felici e contenti

continuiamo a far fi nta di perseguire l’integrazione. I passanti che ci incontrano e che spesso fi ngono di volerci concedere la loro approvazione dovrebbero iniziare a ringraziare i disabili per il solo fatto che, con la loro esistenza, costringono le menti atrofi zzate dal consumismo a elaborare dei pensieri con senso compiuto.

I genitori di bambini «abili» dovrebbero imparare a tra-smettere ai propri fi gli l’idea della comunità vera, dove ognuno è com’è, dove ognuno aiuta l’altro per arricchire se stesso prima che per ogni altro scopo.

Insegniamo l’integrazione multirazziale a scuola e poi non rivolgiamo nemmeno la parola a chi chiede l’elemosina perché «sono tutti sfaticati»… Nella stessa scuola chi non può usare la penna non scrive, perché la disabilità dell’insegnante inca-pace va rispettata al pari della graduatoria che determina il suo diritto a svolgere questo mestiere (salvando tantissimi ottimi insegnanti). Incontriamo tante scale, ascensori rotti, supplenze e indifferenza che fanno perdere il sorriso.

Ma poi loro, i nostri bambini, stravincono su tutto… ed è una vittoria senza pari. Perché dimostra che la loro forza è vera.

Una volta una persona disabile disse: «Un disabile in car-rozzina si sente davvero tale quando davanti a sé incontra un gradino». Sacrosanta verità.

In tutto questo, durante questi attimi lunghi un’eternità o concentrati in un soffi o, passava il tempo e Diletta era sempre più attenta. I nostri equilibri erano ormai consolidati.

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Gli ausili

l rapporto con gli ausili stava diventando abituale. Rispetto al primo passeggino avevamo fatto enormi progressi.

Fu comica e tragica insieme la prima volta! Ormai Diletta era grandina e passava molto tempo nel passeggino tra cuscini e sostegni casalinghi… La sistemavo come un automa ogni minuto, ma scivolava, pendeva, stava storta. Così ci decidemmo a entrare in una «offi cina» ortopedica.

Mi sentii come Geppetto quando costruisce Pinocchio: tanti di quegli attrezzi da mettere paura! Una gentile commessa si avvicinò e cominciò a illustrarci come poteva essere utile quel bellissimo seggiolone — orribile a mio avviso — tutto di ferro,alto, grosso e pesante.

Mentre ci venivano mostrati molti altri ausili, io stringevo Diletta sempre più forte e dentro di me pensavo: «La commessa è pazza, incompetente! Come si permette di dire proprio a me che dovrei far provare a Diletta simili invenzioni?». Poco dopo arrivò il tecnico ortopedico, e io mi chiesi cosa ci dovevamo cosa ci dovevamo cosafare con un tecnico. Diletta non era un televisore rotto, né un lavandino che perdeva!

Perché un tecnico? Lo capii appena vidi questo signore con un camice bianco avvicinarsi con un catafalco che chiamò «passeggino» (assicuro ai lettori che non somigliava affatto ai passeggini che tutti siamo abituati a vedere).

Mio marito approfi ttò del mio stupore per prendere Diletta e poggiarla urlante sul catafalco. Diletta fece la cacca: fui così felice. Pensai: fa pure la cacca! Pensa quanto le fa schifo questo coso! Ho ragione io: fa schifo e basta.

Scappai. Firmai tutto e scappai. Dopo un mese dovetti tornare a prendere il catafalco:

loro spiegavano come regolarlo, come chiuderlo e io annuivo. Non avevo capito niente. Uscii e, in preda a una crisi nervosa,

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ridendo e gridando caricai questo coso enorme in macchina buttando giù tutto ciò che potevo, per fare posto. Con zia Danda lo caricammo e ridemmo isteriche. Non ho mai avuto bisogno di parlare con lei. Non sono mai servite giustifi cazioni. Ci guardammo e sapevamo già che Diletta su quel mostro non ci sarebbe mai stata.

Subimmo quell’evento con una rabbia che non può essere spiegata. Ma neanche quello ci avrebbe fatto demordere. Al contrario, passammo ore a parlare degli ausili di Diletta.

Giunsi a casa con la nausea, portai su il catafalco e lo chiusi in bagno senza farlo vedere a Diletta. Aveva anche un vassoio! A cosa serviva il vassoio? A niente, in realtà, se non a far credere agli operatori che sia fondamentale la manipolazione anche quando il bambino disabile non può manipolare nulla. Però tutto faceva parte di un progetto ambizioso, così ambizioso da non poter essere raggiunto.

Andammo al collaudo. C’erano delle modifi che da fare all’obbrobrio: tagliare il vassoio perché troppo grande, mettere un po’ di ovatta ai lati perché la misura del passeggino era sba-gliata, sagomare la pedana per bloccare meglio i piedi e creare le condizioni per poter immobilizzare il tronco (cioè rendere Diletta un salame). Chiesi di prendere un caffè, mi allontanai con Diletta in braccio e scappai dall’ospedale. Ridemmo a cre-papelle in macchina. Dicevo a Diletta che lì c’erano dei matti, che quel passeggino non lo avrebbe più rivisto.

Con noi in quei momenti c’era sempre zia Danda, mitica e insostituibile presenza, prima nella mia vita e poi in quella di Diletta. Una regina mascherata da carabiniere con una corona piena di pietre di mille colori, con gli orli svolazzanti rifi niti a lama, pronta ad accarezzare o distruggere qualunque presenza si scontrasse con le nostre anime sconvolte.

Iniziò così il mio studio degli ausili. In un anno Diletta aveva il suo passeggino (dignitoso), la sua statica in legno a forma

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di pinguino per stare in piedi e il suo banchettino di lavoro a forma di leoncino sul quale si esercitava con i suoi giochi.

Certo che ero a terra, ma ero anche serena perché mia fi glia era tra i giochi come tutti, tra i colori come tutti, bam-bina tra i bambini e non un diverso in mezzo a ferro, bulloni e tessuti neri.

La scuola materna

osì, immersa tra mille colori giunse al suo primo anno di scuola materna. Un’esperienza che da sola basterebbe per

un fi lm…Iscrizione, un fi ume di parole e tante rassicurazioni. De-

cidemmo di portarla con una settimana di ritardo così avrebbe evitato i problemi tipici dei primi giorni.

C’è da ridere, pensando ai problemi meno tipici che ci aspettavano. L’assistente assegnata a Diletta soffriva di ernia, quindi non poteva sollevarla. A questa ne seguì un’altra con lo schiacciamento delle vertebre; poi un uomo che non aveva mai avuto esperienze simili.

Stanca di tante assurdità, alla fi ne convocai una riunione e comunicai che, pagando un’assicurazione, la legge mi consen-tiva di far entrare a scuola una mia tata. Cioè Diletta sarebbe andata al parco con la tata: l’unica differenza era che incontrava sempre gli stessi bimbi.

Passarono così i primi due mesi, durante i quali l’assistenza non c’era più ma era comunque rimasta la maestra di sostegno (nel senso che era una maestra con grande bisogno di sostegno!). Esordì dicendomi che Diletta era grave e che non sapeva come fare. Le chiesi perché pretendeva di essere un sostegno se una minima diffi coltà la stava mandando in tilt. Polemiche inutili. Tolsi Diletta da lì, senza che mai avesse potuto consumare un

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imbronciata, il rigonfi amento morbido e liscio delle guance,quella piccola fossetta che si formava al lato destro della bocca.Poi, fi nalmente, aprì gli occhi e io rimasi senza fi ato, estasiata della profondità di quell’azzurro intenso. Era così raro che aprisse gli occhi, il mio bambino! Anche in incubatrice succedeva di rado. I primi giorni della sua vita erano riusciti a calmare il suo dolore solo posizionandogli una benda sugli occhi, ma adesso… per la prima volta mi guardava!

Era uno sguardo strano, assorto, forse un po’ sognante ma anche sfuggente; in realtà non sembrava proprio che guardasse me, ma oltre me, quasi io fossi trasparente.

Un po’ dispiaciuta distolsi lo sguardo anch’io; mi sentii a disagio, rifi utata….

Che assurdità mi venivano in testa! Il mio bambino aveva solo bisogno di riconoscermi. Mi chinai su di lui cantando la nenia indiana che aveva accompagnato la mia gravidanza. Sentii il suo corpicino rilassarsi e sorrisi: si era addormentato.

* * *

La Terapia Intensiva Neonatale era come una tecnologica foresta incantata, formata da teche di cristallo: oltre che dai piccoli ospiti era abitata da diversi personaggi particolari. Alcuni erano scostanti e inaspriti, al punto che ti chiedevi spesso perché continuassero ad aggirarsi fra quel brusio di macchinari se gli era così d’incomodo; altri invece sembravano continuamente distratti da altro: passavano velocemente per quelle vie intricate,soffermandosi di volta in volta per leggere qualche valore par-ticolare sui monitor,ticolare sui monitor,ticolare sui monitor guardando raramente oltre lo schermo, il viso atteggiato in una cupa espressione. E poi c’era lei: me ne avevano parlato i genitori che soggiornavano da più tempo in questo strano ambiente di piccoli addormentati. Lei era la fata buona, quella che spesso era riuscita a prendere per i capelli la vita di un bimbo che stava per sfuggire, quella che, altre volte, aveva

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stretto le mani a mamme e papà singhiozzanti, perché il cuore del loro bimbo aveva cessato di battere. Lei, con i suoi grandi occhi scuri e decisi, che non temevano il confronto, il dolore e la disperazione. Lei, dal linguaggio schietto e sincero.

Fu da lei che si rifugiarono le menti agitate di noi geni-tori, a lei cominciammo a porre le tantissime domande che si accalcavano in gola rischiando di strozzarci. Ci raccontò della sua nipotina, condivise le sue ansie ascoltando le nostre, poi ci diede una formula magica che tutt’ora conservo gelosamente: «Nessuno vi può dire quello che il vostro bambino sarà in grado di fare. Forse non camminerà, forse non sarà in grado di fare tante altre cose, ma quello che sarà Simone dipende da voi, dalla fi ducia che avrete in lui e nella sua intelligenza». E poi, dopo un attimo di rifl essione, ci confi dò un altro segreto che aveva imparato ella stessa da pocoella stessa da pocoella : «Ricordatevi sempre che Simone Ricordatevi sempre che Simone Rè un bambino, non un handicap».

Se la prima formula fu assorbita istantaneamente, come se fossimo noi artefi ci di quest’idea, la seconda rimase oscura per molto, molto tempo.

Eppure fu da quel momento che, di fatto, prendemmo coscienza che la nostra vita aveva cambiato direzione: ci aspettava un lungo cammino in un mondo sconosciuto e minaccioso.Eravamo spaventati? Sì, molto. Ma anche molto determinati ad aiutare il nostro piccolino a crescere.

Apnea

alla fi nestra della cucina la fredda luce di una mattina autunnale si mescolava con i rassicuranti rumori del vialetto di casa.

Stringevo i denti al ronzio fastidioso dell’ingombrante tiralatte elettrico affi ttato in farmacia, gli occhi assonnati dopo l’allat-tamento notturno e la colazione preparata all’alba a mio marito.

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La Neuropsichiatria Infantile aveva vinto le nostre perples-sità al momento delle dimissioni: «Vostro fi glio dovrà effettuare dei controlli di follow-up, principalmente per vigilare sul defi cit uditivo, ma niente di più: non c’è necessità di sottoporlo a sedute di fi sioterapia o altro, si rimetterà da sé».

Diceva ben altro il referto delle dimissioni che avevo nella borsa — gravissima emorragia intracranica, sordità centrale, epilessia —, ma per quella specialista mio fi glio non era più un vegetale sofferente. Mi aveva fatto notare il modo particolare in cui piagnucolava durante la visita: gaunguuu gaunguuuu, una specie di lallazione, insomma.

Il tiralatte ronzava nel silenzio della cucina, mi ero messa in un’altra stanza per non disturbare il sonno di Simone. Strano. Sapevo del suo grave defi cit uditivo eppure continuavo a com-portarmi come se potesse sentirmi perfettamente: gli cantavo le ninnenanne che avevo imparato durante la gravidanza, recitavo le fi lastrocche, imitavo suoni e rumori; quando ero con lui non smettevo un attimo di raccontare, e lui… sembrava proprio ascoltare tutto.

Non so come mai, ma a un certo punto decisi di control-lare il bambino nell’altra stanza. Ci pensai a lungo, dopo: non avevo sentito rumori sospetti, né stavo rifl ettendo su qualcosa di particolarmente inquietante, eppure avevo avvertito l’im-pellente necessità di sorvegliare il sonno di mio fi glio. Forse si trattava solamente di quel sesto senso che si dice abbiano in genere le mamme.

La scena che mi si presentò davanti agli occhi mi lasciò impietrita: il visino di Simone era livido, intorno alla bocca un alone biancastro faceva risaltare ancora di più le piccole labbra nere.

Sollevai quel corpicino talmente abbandonato da sembra-re una bambola di pezza e cominciai a scuoterlo cercando di risvegliarlo. Niente.

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Niente!Il piccino era esanime tra le mie mani. Dio mio: no! Gridai

con la voce strozzata: «Svegliati Simo, svegliati!».Lo presi per le gambette e lo misi a testa in giù, poi lo

scossi ancora… nulla! nulla! nulla! Allora lo colpii con for-za sulla schiena, sentii il colpo riecheggiare nel suo torace: temetti di avergli fatto male, ma non mi fermai, lo colpii ancora una volta e poi un’altra volta ancora… ecco, fi nal-mente, un piccolo, fl ebile suono mi fece capire che Simone era ancora vivo.

Lo strinsi tra le braccia continuando a battere brevi colpi sulla schiena, trattenendo il fi ato fi n quando non sentii il singulto farsi gemito e poi concitato vagito. Mi aggrappai a lui come un naufrago su uno scoglio, confondendo le mie lacrime con le sue. Era così piccolo e leggero, una delicata piuma bianca e un qualsiasi impercettibile refolo poteva portarmelo via.

Quando il medico lo visitò, dopo una precipitosa corsa in ospedale, tutto era tornato nella norma e Simone sgambet-tava roseo e sorridente nell’ambulatorio del Pronto Soccorso.Mi rimandarono a casa con la sensazione di aver fatto solo un brutto sogno, ma quella notte Simone smise di nuovo di respi-rare, così piantammo le tende in ospedale fi nché non decisero per il ricovero.

* * *

Capii all’istante che l’atmosfera del reparto pediatrico era profondamente diversa da quella della TIN. C’era sciatteria e nervosismo da parte di tutto il personale nei riguardi dei piccoli ricoverati e dei loro genitori.

La stanza dove avevano messo Simone era circondata da vetrate: mi sentivo così esposta agli sguardi di chiunque che smisi di mungermi. Vero è che il latte mi era diminuito drasticamente dal giorno prima.

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Mi presento

i presento: Mauro, 46 anni, in arte Ranocchio31, genitore professionista e, a tempo perso, libero professionista. Stato

civile: padre di 4 fi gli.Star della famiglia: Emanuele, 9 anni, numero tre nella lista dei

pargoli, fi glio poco meno che abile reduce da sepsi da streptococco betaemolitico di gruppo B. Metodiche riabilitative seguite (in ordine cronologico): fi sioterapia presso la ASL, metodo Vojta, metodo Doman, programma Fay, protocollo DAN!, cura Montinari…

Stato attuale: non dobbiamo scrivere un libro? Che capitolo mi tocca? Ah! Ecco: iniziamo.

Tempi e sogni

l tempo è sempre tiranno, un po’ come i sogni, quelli che si inseguono da bambini e che, puntualmente, decidono di

cambiare strada al primo incrocio della vita. Fate conto che d’incroci, nella mia vita, ne ho passati

parecchi, alcuni senza rispettare le precedenze o, addirittura, sbagliando completamente direzione; ma, tutto sommato, mi è sempre andata bene.

CAPITOLO SESTO

EmanueleMauro Ossola

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Per conoscermi meglio e per meglio comprendere la mia storia lasciate che vi spieghi, in poche righe, i miei sogni e i miei tempi.

Fui paracadutato sulla terra nel lontano 1960. Non mi avvisarono che potevo nascere anche sotto un

cavolo. Mi sarei risparmiato una caduta libera che mi alterò il metabolismo e alcune capacità di maturazione cerebrale.

Sin da bambino dimostrai un certo interesse verso le professioni lucrative: infatti tra i 4 e i 5 anni (non ricordo ma esistono testimonianze affi dabili) volevo fare il ginecologo.

Raggiunti i 6 anni volevo diventare pediatra, sogno in-carnato nella mia indole, maledettamente attratta dal pianeta bambino; così fu fi no ai 13 anni.

Nell’età delle decisioni importanti, i 14 anni (così mi dis-sero di quell’età: l’età delle responsabilità), volevo fare il pilota da caccia e questa, ammetto, è la passione che ancora oggi mi entusiasma… fra l’altro, giustifi cherebbe i miei voli pindarici tra realtà e fantasia.

Dopo questo inseguimento di sogni, fra incroci mancati e precedenze non date, diplomato ragioniere, sono un artigiano che opera nel campo della lavorazione dei materiali lapidei. In breve faccio il marmista, e ho realizzato concretamente tutti i miei sogni!

Se la mia vita è stata segnata da grande incertezza nella scelta dell’ambito professionale, è stata invece molto determinata nel campo degli affetti: volevo una moglie, dei fi gli, possibil-mente in numero maggiore di uno e minore di trenta, a causa del poco spazio, ed esercitare la professione che ritengo la più entusiasmante della vita di un maschietto, quella di padre.

A tal proposito vorrei erudire il lettore su un fatto: no-nostante il maschio abbia sempre la tendenza a voler apparire il Tex Willer della situazione, borchiato come un rottweiler e un po’ maleodorante, con tanto di coltellaccio arrugginito

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con cui radersi perché fa duro e macho… be’ si tratta solo, per l’appunto, di apparenza.

Mettete un bimbo (meglio bimba) che dica: «Taooo papà!» sull’uscio di casa e assisterete al crollo immediato di questo Rambo dal cuore di ghiaccio.

Ma scriviamo queste pagine per raccontare un po’ di Emanuele, scusate la divagazione.

Lieta novella numero 3

vete presente le famiglie della Mulino Bianco? A noi mancava solo la mongolfi era e qualche altro piccolo

dettaglio: la fattoria, i prati ben rasati, i vestiti curati, le mani sempre pulite e due fi gli sempre sorridenti… dettagli per l’ap-punto! Ma eravamo al top della felicità: la felicità comunementeconosciuta nel mondo consumistico del pre-euro.

Cristina, mia moglie, lavorava con me e c’era tra noiquella sorta di complice intesa che ci rendeva una coppia perfetta anche nel lavoro. C’è chi la segretaria se la sposa davvero! Mia moglie fu investita dello scettro di aiuto ammi-nistratrice nel momento in cui ci conoscemmo, viste le sue spiccate doti professionali; in seguito, l’aiuto amministratore divenni io e il capo lei. Non ho mai capito come funzionò quel ribaltone.

I fi gli crescevano bene, gli anni passavano, c’era posto anche per la noia. anche per la noia. anche per la

Sì, avevamo tempo da dedicare alla noia, pratica, comun-da dedicare alla noia, pratica, comun-da dedicare allaque, ormai scomparsa completamente dalle nostre abitudini.

Iniziai la mia opera di persuasione «pro incremento fami-glia» con l’invio di fi ori senza apparente motivo, la sistematica affi ssione di bigliettini in luoghi tattici della casa (sullo spec-chio del bagno: da lì si passa prima o poi!) e, con l’avvento dei

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maledetti sms, ne produssi una quantità industriale. Alla fi ne arrivò il pargolo numero tre: Emanuele.

Le gravidanze precedenti erano state segnate da qualche diffi coltà, risolta con allettamenti più o meno prolungati e riposi forzati. Con Emanuele, Cristina riuscì a lavorare fi no all’ultima settimana prima del parto.

Personalmente, non accusai problemi renali o respiratori nella gestazione, nonostante la profonda simbiosi con la mia com-pagna; per lei fu diverso soprattutto quando Emanuele decise che fosse fi nito il momento di essere un subacqueo a tempo pieno.

Il 25 maggio 1997 avevo appuntato un’altra stella nel mio cuore, una stella luminosa e vivace.

Ma qualcosa non funzionò proprio benissimo: il 26 maggio la mia stella a cinque punte si era già spuntata di un paio di raggi. Le informazioni frammentarie, le diagnosi che accenna-vano a una malformazione cardiaca mi facevano rimbombare il cuore nelle orecchie; fu la prima volta che lo sentii battere addirittura nell’alluce!

Non ero preparato a un’emergenza su mio fi glio, ma so-prattutto non ero preparato a elemosinare notizie qua e là, senza sapere la verità, la diagnosi esatta della malattia di Emanuele.

Per Dio, i medici erano un mito irraggiungibile per me, posati su piedistalli dorati e con la risposta sempre pronta, con Ippocrate aggrappato alla tasca dello stetoscopio e la cultura-sapienza stampata sull’altra, piena di «girandole» multicolori per i calcoli più disparati (sono sempre rimasto affascinato dal calcolatore della data di nascita; non ho mai capito come funzio-na, ma sicuramente so che non indovina mai la data giusta).

Il 27 maggio la mia stella non aveva più le punte e la sua luce era un poco fi oca. Fu come aprire le mani e accorgersi che la vita che mi era stata affi data, Emanuele, era simile alla sabbia che ti scivola via attraverso le dita e non sai come trattenerla, disperandoti per la tua impotenza.

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Io, maschio neppure troppo virile, con la presunzione di essere custode della forza a protezione di ogni avversità, con l’arro-ganza di avere sempre la risposta da dare al momento opportuno, ero inerme, legato alla sola speranza che fosse tutto un errore.

Non lo era! Passammo da una diagnosi iniziale di mal-formazione cardiaca a una defi nitiva di sepsi da streptococco betaemolitico di gruppo B: non era proprio la stessa cosa!

Fummo dimessi un mese dopo con un fardellino (qualcu-no lo chiamò «fi orellino», forse per sottolineare il nesso con il mondo vegetale, al quale — secondo la diagnosi — mio fi glio apparteneva) etichettato con «cerebropatia evolutiva».

Non voglio starvi a tediare con le vicissitudini della terapia intensiva neonatale, ma mi permetto di scrivere alcuni rapidi capitoli, magari apparentemente nemmeno legati tra loro, con le parti salienti, le impressioni e le considerazioni anche ironiche di chi sa solo essere padre.

La «meccanica» di Emanuele

el primo anno di vita Emanuele dovette sottoporsi a molti tagliandi: a ogni verifi ca sul manuale d’uso e costruzione

del bambino perfetto venivano diminuite le prestazioni no-minali e aggiunto qualche nuovo propellente per bilanciare lo scoppiettio, a volte afono, di una macchina uscita perfetta dal garage materno e incidentata da un collaudatore, certifi cato con laurea, un poco distratto.

In breve tempo, il nostro nuovo acquisto scintillante rischiava di ritrovarsi come una Ferrari senza carrozzeria né motore, e le gomme le stavano già sgonfi ando.

È vero che era sovralimentato ad antiepilettici tipo car-bamazepina, ma questo optional non l’avevamo né desiderato né richiesto!

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Girovagando per la rete e leggendo sui forum in cui si discute di disabilità ho potuto notare come il proliferare della -terapia stia raggiungendo livelli davvero preoccupanti e quasi grotteschi. Abbiamo la cristallo-terapia, la vibro-terapia (non malignate!), la pet-terapia e infi nite altre ancora…

Diversi fi no in fondo, anche nel divertimento.

Il cassetto

siste un cassetto nella mia vita che contiene tutte le cose che non capisco. È un cassetto che apro ogni tanto, ne

scartabello il contenuto, estraggo le informazioni da confrontare con i nuovi dati recepiti tramite vie convenzionali e non e… lo richiudo. Solitamente si appesantisce un po’, ma qualche volta riesco a risolvere l’enigma e a strappare il foglio che lo conteneva per ricordarmelo. La parte dedicata a Emanuele è forse la più copiosa, esistono anche dei semplici post-it attaccati qua e là.

Con questa sezione spero di riuscire, oltre che a farvi sor-ridere, a dire delle verità che vi facciano «litigare» con le vostre sicurezze acquisite.

La croce (incontro diretto con il pietismo)

Scambio di battute all’uscita di un noto supermercato.«Scusi, ma chissà che croce deve portare con questo pro-croce deve portare con questo pro-croce

blema.»(Problema? Quale problema? Non si sarà accorto che la

bimba… lo sapevo che non dovevo darle le prugne secche! Porca miseria! O dici che si è accorto che il passeggino è usato da decenni?)

«Prego?» replico con la disinvoltura tipica di chi è stato sorpreso in difetto.

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«Intendo dire… il suo bambino? O è una bambina?»(Accidenti sta parlando proprio di Emma Sofi a… si è

accorto! Ma devi proprio farla quando siamo in giro?)«Be’ sa… è piccolina, non ha ancora un controllo per-

fetto, ma non si preoccupi, la cambio appena arrivo a casa!»E lui imperterrito: «Intendo quel bambino… o bambina?» in-dicando Emanuele sul suo superaccessoriato passeggino handy (che costa come un panda, l’automobile).

(Lui una croce? Lui il problema?)«Vede, il vero problema sono la sua ignoranza e la mia

certezza nel capire che la croce è LEI!LEI!LEI »!»!

Il verdetto (la sottile differenza tra la medicina e l’essere veggenti)

Non voglio assolutamente dissuadere nessuno dal farsi curare o consigliare da quella parte di professionisti, o presunti tali, che si rivestono della sapienza orientale.

Sembra rispondere al vero che, mentre i nostri avi erano poco più che degli orsacchiotti pelosi che cercavano moglie agitando la clava (il che giustifi cherebbe la voglia di vendetta della donna nei tempi moderni), la sapienza cinese avesse già steso un protocollo dettagliato per la cura di almeno un cen-tinaio di malattie.

Però che mettendoti in mano un pistolotto dorato (che sarebbe un sensore) e, toccandoti con un puntale collegato a un computer, sia possibile diagnosticare le patologie e decidere le cure, mi pare un poco eccessivo. Mi si dice che a volte funziona.

Non so, che mi si dica che l’infezione di Emanuele sia terminata grazie al responso di un puntale appoggiato a un dito… be’ un po’ di perplessità mi rimane.

Se penso che, per la diagnosi iniziale dell’infezione, do-vemmo spedire via aerea le granitiche cacche del santo orifi zio

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il nastro del «proviamo questa strada!», un’iniezione di «porca paletta c’è una via non provata». Per me un massacro su tutti i fronti, massacro fortunoso e fortunato… e la salvezza per Emanuele (speriamo)!

Tuttavia un insegnamento (diciamo una traccia, termine che odora meno di presunzione) è già certo: mai abbandonare la ricerca del vello d’oro. Dopotutto, chi può provare con assoluta certezza che la pecora aurea non esista?

Destino

sistono tante case editrici sul pianeta ma ce n’è sicuramente una che sfugge abilmente, e per sua fortuna, all’identifi -

cazione.Ritengo che abbia pubblicato un’opera unica, di ragguarde-

voli dimensioni e peso. È un tomo che si nomina spesso quando si devono giustifi care fatti insoliti e, normalmente, disgraziati; fra l’altro, è in pubblicazione continua e aggiornatissima!

Ritengo che l’autore di questo libraccio debba essere dotato di uno spirito goliardico spettacolare ma, dall’altra parte, anche di dubbie capacità in fatto di equità.

È un libro strano.Entra in scena quando non si hanno risposte certe, quando

magari si cerca di paracularsi un pochino o, semplicemente, quando non si sa che cosa dire. Ecco qua:

Il libro del Il libro del I Destino

Certo, ha molte forme, molti modi di essere sfogliato o interpretato, ma i suoi contenuti appaiono sempre certi!

Non sempre parla di cose brutte, forse per evitare di essere etichettato come «libro della sfi ga», ma sta di fatto che sarebbe inte-ressante fare una statistica sul suo utilizzo nel vivere quotidiano.

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Alcune citazioni commentate.«È stato stirato sulle strisce pedonali» genera il commento

«Anche se fosse stato a casa, sarebbe scivolato in bagno» e questo perché «è destino, era scritto» (che crepasse).

«Fra tante persone nel mondo, mi sono innamorato di te» genera il commento «Fa tutto parte di un disegno» e questo perché «è scritto, era destino» (che ci si innamorasse: poi magari ci si separa, ma era scritto nella pagina successiva, in nota a piè di pagina… rimane il fatto che scritto, comunque, era scritto).

«Ho vinto una vagonata di euro all’enalotto» genera il commento «Che culo!»; era scritto pure questo.

«È successo, suo fi glio è irrimediabilmente compromesso» genera il commento: «Abbiamo il sospetto che potrebbe essere per causa della mamma» seguito da «se è capitato a voi, il motivo c’è» contornato da «colpa del destino» (ma va…).

Non so, pare che l’essere umano abbia bisogno di una pianifi cazione completa, della certezza che sta vivendo e della speranza che vivrà. Il vissuto, se è andata bene, è normalità acqui-sita, altrimenti... eccolo di nuovo qua: salta fuori questo librone che appiana e lima le asperità delle incertezze della vita.

Il maggiore problema di questo librone è che può (e fa) compromettere il «vivrà» dei nostri bambini speciali. Il futuro del vivere, infatti, viene abilmente offuscato dimenticando che, comunque, esiste un diritto sancito da un’autorità al di sopra delle parti che molti chiamano Dio (in varie forme: dai monocoli triangolari alla danzatrice con quattro braccia) e che io amo defi nire semplicemente «vita».

Forse, più che il contenuto di questo libro, bisognerebbe cambiare il modo di leggerlo, ma — ne convengo — non tutti siamo dotati di questa capacità (magari era scritto pure questo!). Forse dovremmo essere noi, un po’ autori e un po’ lettori di questo librone, a imparare un modo diverso di interpretare i fatti che si susseguono: rivestirci della pelle di un camaleonte

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per poterci e saperci adattare al miracolo della vita con tutti i suoi spigoli. Non sempre la vita è quello che potremmo defi -nire una passeggiata campestre. A volte il destino (eccolo qua un’altra volta) ci impone di essere degli alpinisti su una catena montuosa del pianeta Luna.

In più, a noi provetti scalatori della riabilitazione domiciliare è destinata la parte in ombra del satellite, la parte mai visibile agli occhi. È pur vero che, non esistendo gravità sulla Luna, qualcuno di noi, a furia di saltare, riesce a far ca-polino oltre l’orizzonte del mare del silenzio, ma è anche vero che i telescopi non sembrano puntati nella nostra direzione e il ostra direzione e il ostrasalto si tramuta in capitombolo polveroso. Ci stiamo dotando di tappeti elastici e stiamo calibrando la forza per la spinta; magari se osservate attentamente ci potreste vedere apparire e scomparire all’orizzonte, in moto semiperpetuo e in attesa della «corda» del vostro soccorso, della vostra attenzione.

Non so quale mano fatata abbia confuso i pezzi del puzzle che compongono la vita di Emanuele, come non conosco chi ha probabilmente trafugato qualche tassello di quell’enorme mosaico che è la vita normodotata. Sta di fatto che ora ci tro-che è la vita normodotata. Sta di fatto che ora ci tro-che è laviamo qualche centinaio di pezzi sparsi su un tavolo e alcuni di questi tasselli non hanno ben defi nito il contenuto.

Punti di domanda? Probabile, ma non sempre è detto che dietro a un punto di domanda ci sia un imprevisto. Molto più facilmente esiste la probabilità di trovare un’opportunità, certo diversa, ma non per questo meno funzionale o meno incisiva.

Stato di fatto

manuele è! Potrebbe sembrare una battuta, ma non trovo manuele è! Potrebbe sembrare una battuta, ma non trovo manuele è!espressione migliore per descrivere ciò che molti si chie-

dono, ossia «lo stato di fatto» di Emanuele.

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mente» dipinti con i personaggi del Re Leone, le lenzuola verdi,gli occhi di Silvia, serissimi e interrogativi, ai quali è impossibile tacere il panico che attanaglia le viscere, le lacrime che premono disperatamente per uscire e che invece bisogna frenare. Quante volte in quella sala?

Le troppe notti passate senza dormire hanno demolito la memoria dell’uomo e se questo da una parte gli ha concesso di continuare a vivere e sperare, dall’altra gli ha quasi annullato i contatti con il mondo, causando una serie infi nita di guai.

Ma dopo la memoria se ne sono andate anche le energie: tutto adesso gli costa fatica, una tremenda fatica, la stessa fatica che fanno i pensieri a collegarsi tra loro, a formare qualcosa di comprensibile, di chiaro, di logico.

È quasi un vecchio, un povero vecchio che dimostra molti più anni della sua età e molti più acciacchi di quelli che potrebbe avere.

Purtroppo quell’uomo sono io e quella è la mia vita, quella che è stata per più di dieci anni; molto di quello che è accaduto è stato per mia colpa e ha coinvolto molte persone, ma sono certo che ricomincerei da capo e rifarei tutto, almeno le cose giuste, se fossi in grado di distinguerle da quelle sbagliate, per i begli occhi di Silvia, che fa tutto solo con quelli.

* * *La peggior disgrazia che possa capitare a una madre è

quella di avere un fi glio cerebroleso.G.D. esperto in riabilitazione

Molti anni fa la mia vita e quella della mia famiglia erano molto diverse.

Soprattutto quella di mia moglie: laureata in legge, rico-priva un incarico di prestigio in una pubblica amministrazione e aveva innanzi a sé una carriera ricca di soddisfazioni e di riconoscimenti, avendo già superato con successo gli ostacoli

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più insidiosi della professione. Alla professione mia moglie teneva moltissimo, a quella professione che si era costruita con tenacia e sacrifi ci, mantenendosi mentre studiava, vin-cendo un duro concorso e lavorando alcuni anni a centinaia di chilometri da casa; ottenuta poi una sede lavorativa più vicina (a «soli» 70 km da casa) poteva permettersi il lusso di alzarsi alle cinque e mezza del mattino, prendere un treno alle sei e rientrare a casa alle tre e mezza del pomeriggio, riunioni, trasferte e altri impegni lavorativi permettendo. Tornata a casa doveva soltanto provvedere alle tumultuose esigenze di una fi glia di cinque anni, a un marito pigro, disordinato e ricco di cattive abitudini, a una madre volitiva e monotematica («Devi tenerti meglio!»), a una casa enorme, con giardino e cane, e altre faticose piacevolezze.

Questa donna non esitò un attimo a sacrifi care tutto quello che aveva (ed era molto) e quello che avrebbe potuto avere (ed era moltissimo) per impegnare se stessa e il resto della sua vita in un compito apparentemente impossibile: salvare Silvia, che, nata da pochi mesi, iniziava a mostrare segni preoccupanti di «qualcosa che non andava».

Silvia era spaventosamente bella (sembra strano per un disabile grave, ma anche oggi dopo più di dieci anni di battaglie contro le avversità Silvia è bellissima) e di lei colpivano soprat-tutto gli occhi, dotati di uno sguardo capace di stregare.

E fu questo a ingannarci per molto tempo: sembrava impossibile che una bambina nei cui occhi si leggeva un’in-telligenza notevole e un vivace interesse per ogni particolare del mondo potesse avere dei problemi, fi guriamoci poi dei problemi gravi.

C’è un sistema praticamente infallibile per sapere in anti-cipo quello che capiterà al vostro fi glio disabile grave: provate a considerare le varie ipotesi, sforzatevi di immaginarne una particolarmente negativa, esaminatela dal peggior punto di vista

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possibile e avrete una realistica idea di quello che succederà, ma la realtà poi sarà sempre un po’ peggio dell’incubo più brutto che avete avuto negli ultimi anni.

* * *Tutto quello che c’è da fare per vostra fi glia lo sa fare

qualsiasi terapista di qualsiasi USL.Dott.ssa P. neurologa

Sarà stato poi un caso, ma nessuna terapista di nessuna USL sembrava avere la più pallida idea di quello che c’era da fare.

Scoprimmo poi, e temiamo di non essere l’unica famigliaad averlo scopertoaverlo scopertoa , che il sistema fondamentale per arrivare a una diagnosi esatta è quello di lasciar passare un congruo periodo di tempo — «Torni tra sei mesi»Torni tra sei mesi»T , «Diamole un po’ di tempo», un po’ di tempo a chi? alla patologia per evidenziarsi senza dubbi interpretativi, alla bimba per morire, alla famiglia per impazzire? — tutto il tempo necessario a rendere chiare le cose e permanenti i danni che una diagnosi precoce poteva forse attenuare.

Se è così diffi cile arrivare a una diagnosi in tempi ragio-nevoli e utili, fi guriamoci per la prognosi, come argutamente ricordò il professor M., illustre luminare, che infatti sbagliòrovinosamente, pronosticando a Silvia un futuro quasi roseo.

Un altro rischio notevole è rappresentato da quei medici o terapisti secondo i quali «in pratica c’è ben poco di utile da fare», troppo educati per dirvi brutalmente che state sprecandosoldi, tempo e fatica e che tutti i vostri sforzi e le loro eventuali cure serviranno solo a lenire i sensi di impotenza e di colpa sempre in agguato per noi poveri genitori.

Forse avevamo bisogno di un medico che, dopo averci ascoltato, soprattutto dopo aver ascoltato la madre, aver visitato la bimba ela bimba ela bimba averla seguita per un periodo di tempo non troppo lungo, fosse stato capace di affrontare un discorso sincero: «La

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situazione di Silvia è seria, di diffi cile interpretazione e forse non sono molte le cose da fare dalle quali ci si possano aspettare dei risultati concreti. Esistono delle metodologie riabilitative che qualche volta danno risultati apprezzabili, mentre comportano sempre un notevolissimo impegno di energie, di tempo e di denaro. Personalmente non ho avuto esperienze di pazienti che ne abbiano tratto un effettivo benefi cio, ma se voi siete tanto determinati e forse, scusate il termine, pazzi da volerle tentare,negli Stati Uniti c’è…, in Australia…, in Europa alcune famiglie si sono rivolte a…, da noi in Italia ritengo che le persone più qualifi cate siano… Vi auguro buona fortuna, perché ne avrete bisogno e parecchio!».

Questo sarebbe stato un aiuto prezioso, un parere profes-sionale serio e tempestivo, ma purtroppo non ci fu.

* * *Se ci fosse stato qualcosa che non andava si sarebbe

visto qualcosa nella TAC: non è emerso nulla quindi possiamo pensare si tratti di un semplice ritardo nell’accrescimento psicomotorio.

Dott. R. pediatra

Un giorno ripensando a queste preoccupazioni ci rideremo sopra: non vedete che sta già recuperando?

Dott.ssa P. pediatra

Due cose avrebbero forse potuto allarmare un attento pediatra: Silvia non sorrideva e non piangeva mai ed era un po’ troppo tranquilla, ma per il resto era tutto perfetto, mangiava con appetito (venne allattata per molti mesi dalla madre) ed era sempre attentissima a tutto quello che accadeva intorno a lei.

La nostra prima fi glia da piccola era stata un vero demo-nio scatenato ed eravamo molto contenti che Silvia fosse così tranquilla!

Fu la nonna di Silvia (a nonna di Silvia (a nonna di Silvia alla quale dobbiamo la nostra soprav-vivenza fi sica perché per molti anni, prima di diventare lei stessa

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quasi invalida, ci nutrì amorevolmente e ci aiutò in mille modi nel programma riabilitativo) ad avere i primi dubbi, vedendo che a cinque mesi Silvia non teneva il capo eretto. Nei mesi succes-sivi i progressi di Silvia furono intermittenti, consultammo altri medici, infi ne una pediatra interpellata quasi per caso suggerì un consulto neurologico in un famoso ospedale pediatrico.

La dott.ssa D., dopo due visite distanziate di un paio di mesi, non fu soddisfatta dei progressi di Silvia — che continua-va a non controllare bene la postura del capo e non strisciava correttamente in avanti — e consigliò un breve ricovero con vari accertamenti e TAC fi nale. Nella TAC per la verità c’era qualcosa che non andava, ma era una cosa così piccola che la maggior parte dei clinici che ne commentarono il referto lo giudicarono nella norma.

Ci sarebbero voluti ancora quasi due anni per fare una risonanza magnetica e scoprire che purtroppo esisteva un danno cerebrale di eziologia ignota.

Quando poi ci venne detto che ulteriori accertamenti sa-rebbero stati cruenti e in ogni caso non avrebbero avuto utilità terapeutica, ci fermammo e iniziammo a pensare a quello che di concreto potevamo fare per Silvia.

La prima cosa concreta fu prendere contatto con una esperta terapista della riabilitazione in un centro fortunatamente a pochi chilometri da casa nostra.

La terapista attuò un approccio molto soft e Silvia lavorò con lei per molti mesi, 45 minuti al giorno, mediamente 4 giorni alla settimana, esclusi ferie, agosto, Natale, malattie varie: scoprimmo più tardi che era meno di una goccia nel mare, ma era il massimo di quello che l’istituzione offriva.

Quello che non scoprimmo mai fu se la terapista credeva davvero nell’utilità pratica di quello che faceva o se l’unico suo scopo fosse quello di farci lentamente accettare una realtà inaccettabile.

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I nostri piccoli rappresentano proprio questo, la precarietà della vita, ed evocano la paura della non perfezione.

Indicazioni generali: è evidente che la nascita di un piccolo speciale non crea all’interno ea all’interno ea di una famiglia uno stato di euforia di una famiglia uno stato di euforia di unapirotecnica.

Il processo di accettazione può essere lungo, faticoso,costellato di pianti e disperazione (e quindi anche di occhiaie livide), ma un buon supporto da parte di veri amici, parenti o altri, che condividano l’evento e il futuro del piccolo, può sicu-ramente assestare il terremoto dei cuori e permettere d’iniziare un’avventura molto, ma molto intensa… per tutti.

Per i neo-genitori

Brevissimamente: mio fi glio, disabile gravissimo, ha deciso di farsi i capelli rasta.

Bene! Siamo andati da un’amica e lì si è sottoposto alla tor-

tura dell’uncinetto, cotonando e annodando i suoi lunghi capelli.

I rasta erano solo trerasta erano solo trerasta , ma ne era estremamente orgoglioso. a ne era estremamente orgoglioso. aConsiderate che la soglia di sopportazione di mio fi glio nel mas-saggio alla testa si aggira sui trenta secondi, poi sclera; per quelletre treccioline ci sono voluti trenta minuti e non ha prominuti e non ha prominuti fferito fferito fnemmeno una sillaba di disapprovazione.a sillaba di disapprovazione.a sillaba Fate voi!

Traduzione: vostro fi glio non è malato e non deve essere trattato come un incapace di intendere o volere. Ci sono mo-dalità con cui comunicherà i suoi desideri, le sue paure, le sue incertezze e i suoi capricci.

Non credete a ciò che il saggio di turno cerca di propinar-vi: croce, disagio e null’altro, cuneo che spezza la famiglia… tutte palle!

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Certo non è facile, soprattutto all’inizio… nemmeno dopo è proprio una passeggiata, ma ce la si può fare.

Suggerimenti in pillole: pochi consigli e trucchi, rapidi, mache solo voi potete decidere d’attuare:

– non chiudetevi nel dolore, ma esternate (anche urlando);– non barricatevi nella disperazione, ma combattetela (e non

da soli);– non serrate le fi la a creare un guscio, ma lasciate uno spiraglio

di intervento a chi ha già vissuto l’esperienza;– riunitevi in associazioni o cercate quelle che ci sono (è impor-

tante condividere sia le sconfi tte che gli obiettivi raggiunti);– siate sempre critici e abbandonate la passività: il raziocinio è

in noi, ma va coltivato;a va coltivato;a– non esiste una sola risposta, ma vari punti di vistaa vari punti di vistaa : componete

il puzzle e analizzatelo. Un vostro intervento potrà favorire altri piccoli, come altre esperienze vissute saranno d’aiuto per vostro fi glio;

– non crediate che sia facile, ma nemmeno che sia impossibi-a nemmeno che sia impossibi-ale;

– ogni scarrafone è bello a mamma sua (non c’entra, ma sdram-a sdram-amatizziamo!);

– la sfi ga va misurata da una giusta prospettiva: domandatevi chi è il più sfi gato;

– vi capiterà di nominare il nome di Dio invano: non preoc-cupatevi, Lui capirà.

Per i neo-laureati

Carissimi specialisti della neuropsichiatria infantile, a voi nuove leve che giudicherete il futuro dei prossimi bambini speciali, vi esorto a rammentare che esiste una laurea che non si ottiene in atenei dalle ripide scalinate, né tanto meno in templi

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dai colonnati di marmo, ma si guadagna nell’intimità di quattro mura sudate: la laurea di genitore a tempo pieno.

Ricordate che «fare» (comportamento osservabile) e «avere intenzione di fare» (intenzionalità) non sono sempre la stessa cosa, perciò non è detto che, se un bambino non fa una cosa, non abbia neanche l’intenzione di farla (magari ce l’avrebbe eccome!). L’intenzionalità non è sempre misurabile: a volte è impedita da una patologia.

Ricordate che la vera risorsa è la famiglia che vive venti-quattrore a contatto con il piccolo e l’analisi di un bambino effettuata in trenta minuti in ambiente estraneo, asettico e poco colorato a volte è incorretta.

Abbiate fi ducia nei genitori e nei loro piccoli.

Per i progettisti

Prego provvedete a comprendere nel costo dell’ausilio una minima possibilità di restyling. Gli ausili saranno anche comodi, ultrasnodati e adattabili, ma in quanto a colpo d’occhio lasciano proprio a desiderare! Dopotutto, visti i costi, cosa potevamo aspettarci? Un appunto: magari se la fi niste di prenderci in giro predicando che i costi sono giustifi cati dalla tecnologia piuttosto che dalla limitata produzione… ma per favore!

Secondo appunto: ma il Ministero della Sanità non può nulla nel controllo dei prezzi?

Per il lettore

Credo che nella lettura di questo libro qualche lacrima sia sfuggita al controllo, ma forse anche qualche sorriso ha preso il sopravvento: speriamo!

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Scopo di questo libro non è solo dare uno sfogo liberatorio agli autori: ci auguriamo che le nostre esperienze siano d’aiuto per meglio comprendere la vastità e la varietà della vita, delle diffi coltà che ognuno di noi ha nel quotidiano e la vera essenza dell’essere.

Vorremmo che il messaggio fosse trasmesso come un tam-tam tra amici, conoscenti che conoscono una situazione simile alla nostra e non sanno che fare, che vorrebbero aiutare ma non ne hanno il coraggio (e ce ne vuole!) per affrontare una situazione troppo legata alla precarietà della vita.

La nostra ambizione non è che la nostra opera diventi un bestseller: del vendere, a noi autori, in effetti non è che importi granché. Siamo mossi dalla speranza di trovare un mondo meno ipocrita, meno legato alle apparenze, un mondo che sappia dare il giusto valore alle cose e altrettanto valore al vagito con cui una vita inizia, anche se a volte, questo inizio, si rivela maledettamente in salita.

Qualcuno, sicuramente molto più capace di noi con la penna, scrisse: «Non si vede bene che col cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi»1 e i nostri bambini ne sono la testimonianza. Noi l’abbiamo capito.

1 De Saint-Exupery A. (1997), Il piccolo principe, Milano, Bompiani.