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FANHS N. 3 Rivista di cultura e religiosità pagana Rivista elettronica mensile “Phanes”, num. 3, Ottobre 2011, Roma. Tutti i diritti riservati al sito www.phanes.jimdo.it, Roma 31 Ottobre 2011. Personaggio del Mese: J. F. Champollion Triadi e Moltiplicazioni I Fabbri Divini Ecate: prescrizioni e origini di un culto Giano Prove Ontologiche dell’esistenza di Dio La pianta dell’Iperico Sheela na Gig Ecate Celeste Sortilegio contro le scottature Il Museo dell’Arte Classica Marte punisce Cupido Il Dio pesce di Lepenski Vir Recensioni

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FANHS N. 3

Rivista di cultura e religiosità pagana

Rivista elettronica m

ensile “Phanes”, num. 3, O

ttobre 2011, Rom

a.

Tutti i diritti riservati al sito ww

w.phanes.jim

do.it, Roma 31 O

ttobre 2011.

Personaggio del Mese:

J. F. Champollion

Triadi e Moltiplicazioni

I Fabbri Divini

Ecate: prescrizioni e origini di un culto

Giano

Prove Ontologiche dell’esistenza di Dio

La pianta dell’Iperico

Sheela na Gig

Ecate Celeste

Sortilegio contro le scottature

Il Museo dell’Arte Classica

Marte punisce Cupido

Il Dio pesce di Lepenski Vir

Recensioni

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PHANES rivista di cultura e religiosità pagana

rivista mensile elettronica

Redazione:

Caporedattore

Jonathan Righi. [J.R.]

Redattore

Lorenzo Abbate. [L.A.]

Contributi

Massimiliano Caretto. [M.C.]

Maurizio Solimine. [M.S.]

Recapiti

www.phanes.jimdo.com

[email protected]

Tutti i diritti sono riservati agli autori dei singoli contributi ed al sito www.phanes.jimdo.com. Ogni violazione del copyright e dei diritti di riproduzione saranno perseguiti a norma di legge. La riproduzione è vietata, anche se parziale, se non previo accordo con il sito, che si occuperà di contattare gli aventi diritto.

Roma 31. Ottobre 2011.

Phanes n.3

Tutti i diritti riservati a www.phanes.jimdo.com

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Editoriale Tutti i diritti riservati a www.phanes.jimdo.com

Phanes n.3

Nel momento in cui il ciclo del Piccolo Sole inizia, quando le giornate vanno accorciandosi sempre maggiormente, in questo momento dicevamo, abbiamo deciso di far uscire il terzo numero della nostra rivista. Samhain è da poco passato, e con lui le superstizioni, le diatribe fra cristiani e pagani, e non ultimo, il così detto “capodanno” celtico. Ebbene si, infatti dal celeberrimo calendario di Coligny sappiamo che proprio Samhain rappresentava l’ultimo ed il primo giorno dell’anno stellare celtico. In questo numero abbiamo cercato di accentrare gli articoli sulle varie espressioni del numero “tre” nella cultura pagana. Sicuramente non abbiamo avuto modo di terminare gli argomenti, ma per essere un inizio, riteniamo sia un buon inizio.

Fra le novità che molti di voi avranno notato c’è il neo-nato blog Vox Media, creato per comunicare le informazioni più disparate: dagli eventi culturali di varie città, alle “recensioni” su libri e musei, fino al commento dell’enormità del materiale informatico a tema pagano e racimolabile dal web. Più di tutte, due sezioni, ossia Apologia Paganorum e De Imperfectione, hanno suscitato più scalpore e (felici di ammetterlo) consenso.

Torniamo alla rivista, per questa uscita abbiamo avuto di nuovo il piacere di avere Massimiliano fra noi, con due articoli che avrete modo di leggere. Sulla scia della novità, anche Maurizio Solimine ci ha donato il suo contributo, sul tema delle prove ontologiche dell’esistenza di Dio. Parrebbe strano leggere un articolo apparentemente avulso dal sentire pagano, eppure questa redazione ha ritenuto fondamentale chiarire e riassumere quali sono le basi sulle quali la religione Cristiana fonda la sua stabilità. L’articolo di Maurizio vuole essere uno spunto di riflessione interessantissimo, per poter meglio comporre dei paralleli e delle divergenze su ciò che per ognuno di noi rappresenta il fondamento sulla esistenza del “divino”. Si parla di “divino” e non di divinità, perché sarebbe ovviamente infruttuoso cercare di tendere somiglianze fra culti politeisti ed un culto in cui la prima delle direttive è costituita dall’unicità esclusiva di Dio. Detto ciò, ringraziamo tutti coloro che anche per questo numero ci hanno sostenuto, incitato ed appoggiato, ed auguriamo a noi stessi prima che a voi, che la lettura possa risultare piacevole e costruttiva. [J.R.]

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Pagina 1 Phanes n.3

INDICE:

J. F. Champollion 2

Triadi e Moltiplicazioni 7

L’aritmetica Divina.

I Fabbri Divini 10

L’alchimia dei metalli.

Ecate: prescrizioni e origini di un culto 14

Giano 19

Ovvero i due volti dimenticati.

Prove Ontologiche dell’esistenza di Dio 24

La Pianta dell’Iperico 29

Sheela na Gig 31

La Dea dalla Grande Vulva.

Ecate Celeste, una preghiera 36

Sortilegio contro le scottature 37

Il Museo dell’Arte Classica 39

Marte punisce Cupido 40

Di Bartolomeo Manfredi.

Il Dio pesce di Lepenski Vir 42

Recensioni 45

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Si dice spesso che la lingua di una civiltà sia l'espressione fondamentale della società a tutto tondo: religione, arte, quotidianità, letteratura, tutto ha come base comune proprio la lingua. Ma la lingua è soggetta a mutazioni, cambiamenti ed evoluzioni (o involuzioni?), mentre quello che rimane, quasi una fotografia, una cristallizazione istantanea di un dato periodo è la scrittura. Questo è doppiamente vero per la civiltà egizia, che riuscì a codificare la propria lingua in ideogrammi e

fonogrammi chiamati sin dall'antichità “geroglifici”(1). Questi segni avevano una doppia funzione: eternare parole, racconti, storie e miti, ma anche una funzione meno ovvia ad un lettore occidentale e moderno, ovvero quella di poter spandere, grazie solo alla loro fissazione su un materiale, la propria carica magica e simbolica(2). L'Egitto sviluppò una civiltà fortemente attaccata al proprio stile di scrittura, tanto che i grafemi non cambiano dalle prime

a t t e s t a z i o n i scritte, fino alle

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J. F. CHAMPOLLION

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ultime, di età imperiale romana, ma si a r r i c c h i s c o n o s e m p l i c e m e n t e , mantenendo il nucleo originario come base alle evoluzioni successive. Una attenzione quella degli egizi alla scrittura facilmente riscontrabile da chi, oggi, apra un qualsiasi libro sull'antica civiltà: ogni parete, ogni tempio e tomba, ogni statua porta le tracce di questi “segni sacri”, che per la stragrande maggioranza dei moderni rimangono non altro che “segni”. E segni, muti e silenziosi, erano rimasti per moltissimi secoli, trascinando nelle tenebre un'intera civiltà, che rimase avvolta nel mistero fin quando a Figeac, in Francia, nel 1790 non nacque quello che sarà designato dagli Dei, ed indicato dagli uomini come “il decifratore dei geroglifici”. L'iter della vita di Jean-François Champollion fu turbinoso, come le vite di tutti gli enfant prodige: cattivo scolaro dalle doti impressionanti, ribelle e stralunato, si racconta che già a 5 anni fosse in grado di associare i segni grafici della lingua francese alla lingua che ascoltava e poteva parlare, riuscendo quindi ad imparare da solo a leggere. Trasferitosi presso il fratello, erudito e filologo, a Grenoble, Champollion già agli undici anni padroneggiava le principali lingue antiche: latino e greco non avevano misteri, tanto da spingerlo a dedicarsi all'ebraico. Fu proprio in quell'anno che si delineò nella sua mente un cammino ben preciso: studiare per possedere armi linguistiche inoppugnabili per accingersi alla decifrazione dei geroglifici(3). A tredici anni è il momento di arabo, caldeo, siriaco e copto, e l'antico cinese, tutte lingue

studiate in funzione della loro presunta possibile utilità per affrontare il geroglifico: i sistemi basati su ideogrammi per il loro utilizzo dei simboli, le lingue antiche per la possibile derivazione dall'egizio, garantendogli così possibilità di storicizzare i dati acquisiti. Nel 1807 presenta all'accademia di Grenoble i risultati delle sue ricerche, che gli valsero l'ammissione come membro. Proprio in quell'anno ebbe il primo contatto con la stele di Rosetta, una pietra di oltre 470 kg di basalto nero, iscritta su tre fasce, geroglifico, demotico e greco. Ne fu ossessionato. Molti altri studiosi nel mentre che anche Champollion si accingeva allo studio del reperto, conducevano serrati studi sull'iscrizione, seguendo però le idee propugnata da Orapollo, scrittore del IV sec. d. C., che descrisse i geroglifici in base al loro valore astratto, trascurando completamente il loro essere segni esprimenti, oltre che un significato arcano, anche dei fonemi, e quindi una lingua! Tra il 1807 ed il 1808 Champollion lavora serratamente sul copto e sul sanscrito, e nel mentre confronta la scrittura della stele con quella di alcuni papiri, incorrendo per caso, prima quindi di allestire un lavoro sistematico, nella decifrazione fonetica di un intero rigo di scrittura: era il 30 agosto del 1808, gli Dei avevano dato luce al loro prescelto. Quattordici anni però dovranno passare prima che a Champollion si delinei un quadro preciso della lingua geroglifica: era il 17 settembre 1822 quando lesse a Parigi, all'Accademia di epigrafia e belle lettere la sua

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fondamentale “Lettera a M. Dacier relativa all'alfabeto dei geroglifici fonetici”. Altri studi, altri reperti, altre suggestioni, altri errori e conferme allietarono la vita di Champollion, che aveva fatto della decifrazione dei geroglifici la missione della propria vita. E proprio come nelle storie di tutti gli enfant prodige, la morte sorprese Champollion prima del normale decorso di una vita, precursore di tappe nella vita e nella morte, si spense a 41 anni il 4 marzo 1832 a Parigi. Poco dopo la sua morte si moltiplicarono gli scritti pronti a ritrattare ed attaccare le sue scoperte, dipingendole come fandonie senza metodo. Bisognerà aspettare il 1866, quando venne ritrovato il “decreto di Canopo”: reperto che portava su di se una iscrizione bilingue ed una conferma storica agli studi del “decifratore dei geroglifici”. [L.A.]

NOTE:

1. Che tradotto suona propriamente come “segni sacri”.

2. Un caso per tutti: il geroglifico rappresentante il serpente Apopi è rappresentato spessissimo con coltelli puntati verso il serpente infernale, in modo che la valenza simbolica fosse inibita.

3.Si racconta che Champollion undicenne, a cospetto di Fourier, figura di spicco nelle relazioni Egitto-Francia, ebbe modo di osservare dal vivo i primi reperti archeologici recanti iscrizioni egizie, e che esclamò che un giorno, da grande, sarebbe stato in grado di leggerle.

Immagini:

p.5, Stele di Rosetta.

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Pagina 6

A cura di Jonathan Righi

SEZIONE CELTICA

TRIADI E MOLTIPLICAZIONI

I FABBRI DIVINI

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Uno, il principio, Due, la coppia, Tre, la generazione; da sempre questi primi tre numeri si sono trovati a governare su iconografia e simbolismo in praticamente ogni percorso spirituale della Terra. In particolare analizzeremo l’utilizzo del numero tre nello sviluppo della cultura celtica. Già le tre funzioni della società indoeuropea, ossia contadini, guerrieri e sacerdoti, possono iniziare ad aprirci una finestra su come questo numero possa aver influenzato le società successive(1). Tre sono le braccia del celtico triskel, tre i

modi con i quali erano performati i sacrifici umani (la vittima era pugnalata, bruciata ed affogata), ed infine tre i colori dei capelli dell’eroe Cuchulain. Nelle terre celtiche la Dea, qualsiasi ambito presiedesse, non di rado è “triplicata”, o presenta tre “aspetti”, facciamo alcuni esempi: tre sono le Dee che incarnano la terra d’Irlanda, ossia Eriu, Banbha e Fodla, queste regine erano le vere detentrici della sovranità, ed i Re mortali a loro dovevano “sposarsi” per acquisire il potere legittimo. Altro esempio è rappresentato

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TRIADI E MOLTIPLICAZIONI L’aritmetica divina.

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da Macha, Badb e Nemhain, chiamate complessivamente Morrigan: sono divinità guerriere, o comunque collegate a realtà ctonie e funebri, e le loro figure sono intese singolarmente sotto il nome di Morrigan ossia Grande Regina(2). Infine abbiamo Boann, Eithnè e Etaine; è importante sottolineare come anche le divinità maschili fossero sovente considerate triplamente, come Goibniu, Crednè e Luchta, i tre fabbri, i quali guarda caso forgiavano le armi con solo tre possenti colpi dei loro strumenti. Qui si necessita una specifica, infatti vi sono due modi attraverso i quali i Celti consideravano le triplici iconografie: in un caso, come negli esempi sopraccitati, la Dea o il Dio, formavano una triade nella quale tuttavia si può comunque

riscontrare un’unicità a volte rappresentata da una quarta divinità riassumente(3). Morrigan in effetti è “formata” e definita dalle sue tre componenti, che rispettivamente rappresentano la ferocia della madre soprannaturale, il corvo sovrano dei campi di battaglia, ed il lamento funebre. L’altra interpretazione della triplicità la ritroviamo nelle Matronae: queste siedono spesso tutte e tre su un solo trono, o assumono tutte la stessa posizione. Nel loro caso si può intuire che ognuna di queste figure è in realtà la stessa medesima Dea “moltiplicata” per tre. La domanda sorge spontanea: perché? Moltissimi studiosi sono giunti ad una singola spiegazione, l’atto del moltiplicare, o comunque riproporre per un definito numero di volte la figura divina, ne moltiplicherebbe la forza e l’importanza(4). Bisogna essere tuttavia attenti a definire se una divinità viene “moltiplicata” o è propriamente triplice; nel primo caso si tratta della stessa divinità, nel secondo caso si parla di tre divinità non definibili come differenti, ma riconvergenti sotto una stessa figura predominante, vedi Morrigan. Nelle sculture delle Matronae(5) non ritroviamo solamente Dee moltiplicate, bensì in alcune effigi le tre Dee hanno visi differenti, o età diverse. Nell’iconografia è possibile trovare anche singole parti del corpo rappresentate plurimamente, come negli Dei a Reims ed in Borgogna, muniti di tre teste; o nelle monete dell’Età del Ferro, che presentano una testa triplicata. Notiamo come queste divinità tricefale assolvano quasi sempre a

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funzioni riguardanti abbondanza e prosperità. In Belgio il Mercurio celtico di Tongeren ha tre falli, e svariate statuette animali come quelle dei tori presentano tre corni. In quest’ultimo gruppo di raffigurazioni animali la triplicazione di un attributo come quello delle corna, funge da rafforzativo per le caratteristiche di virilità, aggressività, fecondità e potenza che già di per se l’animale rappresentava(6). La simbologia del numero tre come si intuisce, è onnicomprensiva e totalizzante, a livello temporale con passato, presente e futuro, a livello spaziale, con il dietro, il “qui” ed il davanti, e a livello cosmico, come nel cielo, nella terra e nell’oltretomba. Si capisce che una divinità rappresentata in triplice forma, quale sia il motivo o il tipo di triplicità, debba assumere il controllo su tutto ciò che è a sua volta sintetizzabile secondo il numero tre; quindi il cosmo intero. A volte le figure sono moltiplicate quattro o cinque volte, in questi casi non c’è un accrescimento della potenza, ma una degradazione della figura, di solito maschile, al rango di “seguito”. La preponderanza del numero tre in ogni produzione artistica è innegabile oltre ad essere fondamentale per comprendere la cultura celtica.

[J.R.]

NOTE:

1. GREEN 1989.

2. CUNLIFFE 1979.

3. HODDER 1982.

4. STEAD 1985.

5. si veda l’articolo “Le Madri della Ferilità” in Phanes n.2 p. 5 e sgg.

6. O’FAOLAIN 1954.

SCIOGLIMENTO DELLE SIGLE:

- GREEN 1989: M. GREEN, Symbol and Irnage in Celtic Religious Art, Londra 1989.

- CUNLIFFE 1979: B. CUNLIFFE, The Celtic World, Londra 1979.

- HODDER 1982: F. HODDER, Symbolic and Structural Archaeology, Cambridge 1982.

- STEAD 1985: I. STEAD, Celtic Art, Londra 1985.

- O’FAOLAIN 1954: E. O’FAOLAIN, Irish Sagas and Folk-Tales, Oxford 1954.

Immagini:

p.7, Matres provenienti da Xanten, esempio di come tre dvinità femminili possano essere rappresentate su di un singolo trovo, a simbolo dell’identità delle tre figure.

p.8, Mecurio gallico trifallico, Museo Gallo-romano di Tongeren, Belgio.

p.9, Triplice volto proveniente da Kirklington, raffigurante probabilmente il Dio Ogma, signore della scrittura.

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La lavorazione dei metalli ha sempre suscitato grande mistero e sorpresa nella cultura celtica; ed in effetti cosa se non la magia permette ad un ammasso informe di ferro di poter divenire una magnifica mortale spada grazie all’incandescenza del fuoco? Questa percez ione d i soprannaturalità permise alla classe dei fabbri di acquisire importanza e onore nella società del tempo. In particolare nella Britannia in epoca coeva alla dominazione romana, gli artigiani del metallo, e le loro opere erano considerati prodotto ed emanazione del Dio Vulcano. Ad esempio a Corbridge nel Northumberland è stata ritrovata una figurina maschile dipinta su un vaso di ceramica, descritta nell’atto di impugnare un lingotto ed una pinza da fabbro,

davanti ad una incudine. La sua barba è stata dipinta di rosso, ed il cappello è stato foggiato a punta, similmente a quello mitraico. Il reperto risale al II sec. d.C., e non è la sola fonte dalla quale possiamo dedurre dati per analizzare il nostro argomento: gli Dei Goibniu in Irlanda, e Govannon in Galles ci regalano altre preziose informazioni. Govannon, figlio di Don, compare per la prima volta nel racconto di Olwen e Culhwch(1); quest’ultimo lo consulta per portare a termine una delle prove che lo avrebbero portato a realizzare il suo matrimonio, ossia tracciare degli enormi solchi in terra. Goibniu invece è descritto assieme ai suoi due “aspetti”, erano quindi considerati come una triade: Luchta e Creidne. Goibniu il fabbro, Luchta l’armaiolo, e

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I FABBRI DIVINI L’alchimia dei metalli.

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Creidne il chiodaio, formano la triplice rappresentazione degli Dei fabbro irlandesi(2). Questi Dei prendono parte attivamente nella vita dei Tuatha de Danaan, ed infatti forgiarono per loro le potentissime armi che li accompagnarono durante la seconda battaglia di Magh Tuiredh. Goibniu forgiava la testa e la lama delle armi, Luchta la loro impugnatura, ed infine Creidne i chiodi o

i rivetti: quest’ultimo aiutò anche Dian Cecht il Dio della medicina, a costruire una protesi d’argento per il Dio Nuadu, ferito in battaglia. Diviene quindi chiarissima l’influenza che queste divinità esercitavano sulla popolazione celtica, pensiamo anche che nel Nord della Contea di Wicklow, nella foresta di Glenn Treicim, si trova la Cerdcha Gaibhnenn, ossia la Forgia di Goibniu, a conferma del suo importante seguito cultuale(3). La

figura del fabbro quindi non si limitava alla lavorazione fisica del metallo, bensì consisteva in un’arte che penetrava nei segreti della terra, che riusciva con il fuoco a sublimare e trasformare la materia, similmente a ciò che poi venne chiamata alchimia. Chiudiamo l’articolo con la riflessione più interessante: Brighit(4), la più importante forse delle Dee irlandesi, ha fra i suoi epiteti quello

di “Signora della Forgia”, ed infatti era venerata anche dai fabbri, che la ritenevano patrona della loro professione. Dall’analisi delle differenze fra le descrizioni di Goibniu e Brighit riguardo all’arte metallurgica sono arrivato ad alcune personali conclusioni: Goibniu e la sua triade presiedevano sulla produzione materiale, e sulla trasformazione fisica e spirituale del metallo; mentre Brighit si inseriva nell’arte dei metalli in quanto

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ispiratrice dell’opera. Abbiamo quindi da una parte la generazione mentale dell’idea da formare, donata dalla divinità femminile, dall’altra la messa in pratica di questa idea, possibile grazie alle energie del Dio maschile. Altro fattore comune fra Brighit e Goibniu è il potere di guarigione, che tuttavia nel Dio si manifesta limitatamente solo per quanto riguarda le ferite prodotte da spine. Come non rimanere affascinati dal livello di accuratezza e complessità che i Celti raggiunsero nelle loro produzioni metalliche, e come non giustificare se non per ispirazione divina, le forme e la tecnica sviluppate in un popolo che spesso è definito come “barbaro”? Le manifatture pervenuteci parlano chiaramente con il loro stesso esistere. [J.R.]

NOTE:

1. si veda l’articolo “Mabon” in Phanes n.2 p. 10 e sgg.

2. MAC CANA 1983.

3. DELANEY 1989.

4. si veda l’articolo “Brighit” in Phanes n.1. p. 14 e sgg.

SCIOGLIMENTO DELLE SIGLE:

-MAC CANA 1983: P. MAC CANA, Celtic Mythology, Londra 1983.

-DELANEY 1989: F. DELANEY, Legends of the Celts, Londra 1989.

Immagini:

p.10, bracciale da spalla in oro.

p.11, in alto, serie di torquis celtici, British Museum.

p.12, parti di monili provenienti da una sepoltura adiacente alla collina di Heuneburg, Germania.

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A cura di Lorenzo Abbate

SEZIONE GRECO ROMANA

ECATE: PRESCRIZIONI E ORIGINI DI UN CULTO

GIANO

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Triplice, trivia, amabile e terribile, protettrice dei cani. sanguinosa divinità, madre, divoratrice di anime, sovrana della magia e nutrice dei giovani: queste sono solo alcune delle qualità c h e g l i a n t i c h i piombarono nel bacino divino di Ecate. Quelli che agli occhi di un moderno potrebbero apparire come palesi c o n t r a d d i z i o n i , nell'animo di un fedele antico apparivano come aspetti differenti di un unico spirito divino: Ecate poteva presentarsi come madre cosmica, ma anche come divinità i n f e r a , c o m e “baccheggiante con le anime dei morti”, ma anche come “amabile, / celeste”. Una divinità dalle mille sfaccettature dunque, che in chiave moderna è stata sintetizzata a mito, a divinità cardine di molte sette e sotto-sette

paganeggianti, vedendo il s u o r u o l o , g i à contraddittorio per gli antichi, svilito a madre dei misteri e di magie poco aderenti con la tradizione. Ma anal izz iamo le principali sfaccettature di questa Dea dal fascino infinito partendo dalla fonte più antica a noi nota: Esiodo. La nascita di Ecate s a r e b b e i l f r u t t o dell'unione di Asteria (sorella di Leto(1)) e Perse(2). Riassumendone le capacità si evince che la Dea ha potere nel concedere grazie(3), nel donare ricchezza(4), sulla terra e sul mare(5), in cause di giustizia(6) , come agevolatrice dei pubblici oratori(7), come difesa durante scontri di guerra(8) e procacciatr ice di vittoria(9). Ma anche i cavalieri(10), i lottatori agonali(11), i pescatori(12) avevano interesse a p r o c a c c i a r s i l a benevolenza della Dea. Ma non solo come salvatrice e protettrice di uomini viene

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ECATE, PRESCRIZIONI E ORIGINI DI UN CULTO

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invocata Ecate: la difesa e la crescita degli animali le competono, assieme ad Ermes(13), e come è garante della crescita del bestiame,è tutrice dei giovani, che favorisce ed assiste(14), assicurando una protezione totale all'oikos familiare: dalle grazie supplicate fino ai giovani ed alle loro attività ludico-sportive, dalle preghiere delle madri partorienti, agli ambiti di lavoro particolari fino agli animali, tutto questo, tutta la vita, trovava protezione tra le braccia di quella che ci appare più come una madre che come un demone. L'onore ed il rispetto che le erano tributati sono assolutamente tangibili nei versi di Esiodo: “Costei (Asteria) concepì e generò Ecate, che fra tutti / Zeus Cronide onorò, e a lei diede illustri doni, / Che potere avesse sulla terra e sul mare infecondo; anche nel cielo stellato ha una parte d'onore, e dagli Dei immortali è sommamente onorata.”(15). Ma tale forza, tale potere

immenso e totalizzante, da dove le deriva? Ancora una volta Esiodo ci soccorre nel rintracciare le origini dell'arcana forza divina: “Di quanti da Gaia e da Urano vennero generati, / e ne furono onorati, ai privilegi di tutti costoro ella partecipa,”(16) ed ancora, come se non bastasse la compartecipazione a tutti gli ambiti del divino: “Lei neppure il Cronide privò di alcuna cosa con violenza / tra quelle che aveva ottenuto grazie ai Titani, i primi fra gli Dei, / ma anzi, la trattiene ancora, secondo quanto fu la spartizione iniziale.”(17).

Il problema dell'identificazione della divinità, e della sua genealogia fu molto sentito, e molto dibattuto nell'antichità, lasciando una profonda traccia nelle fonti, che si schierano ora a favore di una associazione, ora a favore di un'altra, presentando epiteti più o meno espliciti. Le linee di parentela la vorrebbero, seguendo Esiodo, cugina di Apollo. Ora

però analizziamo il nome della Dea: ÉEkãth, questo altro non è che il femminile di ÜEkatow, antico nome che indicava proprio Apollo(18), ed infatti grazie ai tragici greci si andò spianando la strada affinchè Ecate venisse assimilata alla sorella di Apollo, Artemide: Euripide la invoca come figlia di Leto(19), Eschilo(20) invece proprio come Artemide Ecate. La fusione con la Dea Selene è attestata

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in maniera molto semplicistica dal lessico Suda(21): “Ecate: alcuni la chiamano Artemide, altri invece Selene”; tutto questo collima perfettamente con le parole di apertura del secondo inno orfico a lei dedicato, che recita “Polu≈nume da›mon” ovvero “demone dai molti nomi”.

Due inni di particolare importanza ci sono giunti, tramandati in una silloge infinitamente preziosa, gli Inni Orfici, che ci possono perfettamente far capire le differenze che potevano incontrarsi nella venerazione della Dea: da un lato una divinità panthea, (inno 1) e dall'altra una divinità settorializzata e prettamente femminile (inno 2). L'inno primo(22) ci presenta da subito la sconcertante potenza

della Dea, ed assieme le apparenti contraddizioni che permeano la sua figura: la Dea è trivia, amabile e celeste (vv. 1-2), ma anche ctonia (v. 3), potente sul mare e sulla terra (v. 2), amante della solitudine, ma protettrice (l'inno più propriamente dice “nutrice”) dei giovani (v. 8), annunciata dal ruggito delle belve feroci (v. 6), ma protettrice di cani, e cervi (v. 4). Il secondo inno invece ci presenta una dea già settorializzata, sotto il nome di Prothyraia (ovvero, “colei che è dinnanzi alle porte”), connotata come divinità prettamente femminile: “Ascoltami … / soccorritrice nelle doglie, soave al cospetto dei talami, / sola salvatrice delle donne,” (vv. 1-3) e ancora

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“che accelleti il parto, che fra i mortali assisti le giovani” (v. 4), “che assisti le partorienti … / partecipi alle doglie e gioisci dei parti felici” (v. 7). Ma la parte finale dell'inno, di una finezza poetica strabiliante, insiste ancora di più, se mai ce ne fosse bisogno, sul lato femminile del culto: il verso 10 “te sola le puerpere chiamano riposo dell'anima” apre la strada quasi ad una acris iunctura “poichè in te solo i tormenti che liberano dai dolori dei parti”: un tormento, che vive nella Dea, capace però di liberare dagli strazianti dolori del parto, una medicina per l'animo in grado di sedare gli effetti fisici. L'invocazione finale, che riassume tutto l'inno recita: “Ascolta, beata, essendo soccorritrice, da' discendenza / e salva, dacchè per natura sei sempre salvatrice di tutti.” (vv. 14-5). “Salvatrice di tutti”(23), questa espressione andrà ripetuta nella propria mente in maniera costante, sopratutto quando si cercheranno e si analizzeranno le fonti che ci riportano al “lato oscuro” della Dea, che emergerà solo a partire dal periodo alessandrino. Sono stato molto combattuto sull'opportunità o meno di riportare il passo che segue, tratto da un testo molto raro, del quale esistono solo due traduzioni italiane, per altro introvabili(24), inerente proprio alla faccia tetra, sanguinaria e misteriosa di Ecate, ma mi sono poi risoluto per il riportarlo, come monito della potenza divina. Il testo in questione sono le Argonautiche Orfiche, un poemetto tardo, probabilmente successivo al corpus degli inni orfici, che ci presenta le peripezie degli argonauti raccontate da uno dei

partecipanti, lo stesso Orfeo. Il sacrificio qui descritto è effettuato da Orfeo (per permettere a Giasone di afferrare il vello d'oro) con l'aiuto di Medea, ma leggiamolo assieme, sperando che nessuno possa avere il cuore di riprodurre oggigiorno un simile rituale, se non solo per il rispetto della vita animale, anche per i terrificanti effetti dell'invocazione: “La sapiente Medea mi recò molti famachi / che ella aveva presi dalle arche dei penetrali odorosi d'incenso. / Subito modellai delle figure […] / le gettai sulla pira e compii il sacrificio / immolando tre neri cuccioli di cane.”(25) si procede a mescolare il sangue dei poveri cuccioli con erbe magiche e sostanze chimiche, per formare una pasta onde imbottire i ventri degli sfortunati animali prima di bruciarli sul fuoco sacro. Le interiora vengono mescolate ad acqua, e vengono sparse intorno al fuoco da Orfeo, ammantato di nero, nel mentre percuote uno scudo di bronzo. Il sacrificio dà i suoi frutti, e dalle fiamme emergono le Erinni, ed assieme “ne giunse un'altra (Dea) di forma cangiante / tricefala alla vista, un mostro funesto inimmaginabile, / Ecate figlia del Tartaro; dal suo omero sinistro balzò / un cavallo dalla lunga criniera; sulla destra era possibile vedere /una cagna dallo sguardo furente, nel mezzo un serpente d'aspetto selvaggio; / in entrambe le mani aveva delle daghe con l'elsa”(26). La divina Ecate si presenta nel modo più feroce e cruento possibile, come se l'invocarla secondo quelle bestiali modalità sia una bestemmia contro i cani, che, come abbiamo visto, le sono sacri. La

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Dea infuriata scaglia il suo serpente contro gli uomini, che terrorizzati scappano in un bosco sacro: solo la lira di Orfeo potè placare la Dea, intercedendo per la discesa di Sonno: “D'un tratto un sonno profondo uguale alla morte afferrò gli occhi / del serpente immane; fece cadere al suolo il lungo collo / e il capo pesante sotto le squame”(27). L'ira della Dea è terribile, e si abbatte quindi su chiunque possa effettuare pratiche rituali contrarie alla sua natura benevola? Ci chiediamo se utilizzare la figura di Ecate in ambiti estranei alla sua natura originaria sia possibile o meno, ma sicuramente, a quanto visto, questo non sarà vantaggioso all'officiante qualora cada nell'offesa della Dea trivia. [L.A.]

NOTE:

1. Era quindi cugina di Artemide e di Apollo, figli di Leto, sua sorella.

2. Esiodo, Teogonia 409-11.

3. Esiodo, Teogonia 417.

4. Esiodo, Teogonia 420.

5. Esiodo, Teogonia 427.

6. Esiodo, Teogonia 434.

7. Esiodo, Teogonia 430.

8. Esiodo, Teogonia 431-2.

9. Esiodo, Teogonia 433.

10. Esiodo, Teogonia 439.

11. Esiodo, Teogonia 435.

12. Esiodo, Teogonia 440.

13. Esiodo, Teogonia 444-7.

14. Esiodo, Teogonia 450-2.

15. Esiodo, Teogonia 409-11.

16. Esiodo, Teogonia 421-2.

17. Esiodo, Teogonia 421-5.

18. LIMC VI, 1, p. 985 sgg.

19. Euripide, Fenicie 109 sg.

20. Eschilo, Supplici, 676.

21. Suda, ÉEkãth, 364.

22. L'inno primo ci è stato tramandato dai manoscritti come unito al precedente proemio, ma l'analisi dei filologi ha dimostrato come questi 10 esametri abbiano una natura indipendente e svincolata dal proemio.

23. Inni Orfici 2, 15.

24. Le uniche due traduzioni italiane sono OTTINO 1874 e MIGOTTO 1994.

25. Argonautiche Orfiche 955 sgg.

26. Argonautiche Orfiche 975 sgg.

27. Argonautiche Orfiche 1013 sgg.

SCIOGLIMENTO DELLE SIGLE:

OTTINO 1874 : E. OTTINO, Gli argonauti: poema orfico, Torino 1874.

MIGOTTO 1994 : Argonautiche orfiche, a c. L. MIGOTTO. Pordenone 1994.

Immagini:

p.14, Ecate Chiaramonti, Musei Vaticani.

p.15, cratere greco raffigurante Ecate, Musei Vaticani.

p.16, incisione cinquecentesca raffigurante Ecate.

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La visione moderna di una divinità come Giano (in latino Ianus) risulta alquanto limitata e limitante: Dio delle porte, dalle due teste, con un tempio a Roma le cui porte indicavano palesemente se lo stato fosse o meno in guerra. Questo è quanto scolasticamente (a voler essere davvero ottimisti!) si impara su questa divinità tipicamente romana e latina; ma quali erano i reali poteri di questo Dio? Quali le abitudini correlate ai suoi riti che ancora oggi si perpetrano? Uno strumento

formidabile per la conoscenza del calendario sacro romano è rappresentato dai Fasti ovidiani, sicuramente una delle opere meno note, meno fruibili e fruite, e forse, meno riuscite del poeta. Nel primo (di sei; il progetto originario ne prevedeva dodici) libro, dedicato alle festività di Gennaio, troviamo un lungo brano dedicato proprio al Dio nomenclatore del mese; un passo che porta in scena un colloquio diretto tra il fedele-poeta e Giano. Alle calende di Gennaio (primo

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GIANO Ovvero i due volti dimenticati.

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giorno del mese) cadeva la festa cardine del Dio, il famoso "Ianus dies", giorno che sappiamo essere celebrato dal popolo con beneauguranti usanze. Difatti i romani erano soliti regalarsi nel giorno della festa di Giano datteri, fichi secchi e vasetti bianchi colmi di miele(1) accompagnato da un dono simbolico in monete (2): il perchè dell'usanza è chiesto direttamente da Ovidio al Dio che risponde: «Ne è causa il presagio, [...] affinchè il sapore passi / nelle cose, e l'anno trascorra dolce come il suo inizio» (3), ed ancora «Un tempo si donavano monete di rame: ora è di miglior augurio / l'oro» (4).

Ma prima di addentrarci nell'analisi dei poteri del Dio, procediamo a ripercorrere le tappe principali della festività del primo gennaio. «Vedi come l'aria risplende di fiamme odorose / e la spiga di Cilicia crepita sui fuochi accesi? / La fiamma riverbera il chiarore sull'oro dei templi / e irradia un vibrante splendore al sommo degli edifici. / Alla rupe Tarpea si ascende con toghe immacolate, / e anche il popolo veste di bianco la sua festa.» (5) e ancora: « I giovenchi non ancora domati che l'erba falisca ha nutrito / nei suoi campi, porgono il collo al colpo che li immoli; intanto Giove dall'alto della sua reggia mira l'orbe intero, / e non v'è cosa che veda se non romana. / Salve, giorno felice, ritorna sempre migliore, / degno di essere onorato dal popolo signore del mondo» (6).

Ma come invoca lo stesso Ovidio il Dio Giano? Una splendida sezione del primo libro ci conserva proprio la

preghiera del poeta, bellissima, sentita e viva, che ci fa perfettamente capire la struggente unità tra singolo e società nel periodo post augusteo: « Tu che solo fra gli Dei puoi vedere il tuo dorso, / sii propizio ai duci per opera dei quali la fertile / terra gode di serena pace, e così il mare; / sii propizio ai senatori e al popolo di Quirino / e dischiudi con un solo tuo cenno gli splendidi templi. / Sorge un giorno felice: accoglietelo con animi e discorsi / appropriati: in questo giorno lieto si dicano liete cose. All'orecchio non giungano liti, stiano lontane le folli / contese, e tu maligna turba rinvia la tua opera » (7).

L'invocazione è pronunciata, le consuetudini spiegate, non ci resta che capire con che divinità abbiamo a che fare: «Ma quale divinità dirà che tu sei, o Giano bifronte?» (8). La descrizione ovidiana, poetica e non teologica ha dei merit i però non indif ferent i , tramandandoci perfettamente strutturata ed articolata la fisionomia, la natura, i poteri del Dio italico: le origini sono prettamente autoctone, concetto ribadito con orgoglio in quel «Nam tibi per nullum Graecia numen habet»(9). Ovidio si sta interrogando sul Dio, quando una luce abbagliante invade la casa, ed il Dio bifronte gli si palesa davanti, lo spavento è facilmente intuibile, ma il Dio lo tranquillizza: «Deposto il timore, apprendi, operoso poeta dei giorni, / ciò che desideri sapere e tieni a mente quanto dico. / Mi chiamavano Caos gli antichi, - dacchè io sono una antica divinità -; /vedi

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quali remoti eventi io stia celebrando. / Quest'aria translucida e i tre restanti elementi, / il fuoco, l'acqua, la terra, costituivano un solo coacervo. / Appena tale massa si disgregò per la discordia dei propri componenti, / separata andò a collocarsi in nuove sedi. / Il fuoco salì in alto, lo spazio vicino accolse / l'aria, la terra e il mare posarono in un luogo intermedio. / Allora io, che ero stato di forma sferica, molto / informe, mi ridussi nell'aspetto e nelle membra degne d'un Dio. / E anche ora è piccolo segno dell'antica confusa figura / il mio apparire lo stesso davanti e dietro» (10). e ancora: « Quanto vedi ovunque, il cielo, il mare, le nubi, / le terre, tutto si chiude e s'apre per

mia mano. Presso di me è la custodia del vasto universo, il diritto / di volgerne i cardini è tutto in mio potere. / Quando mi piace trarre dalla quiete del tempio la Pace, ella cammina libera per vie ininterrotte. / Il mondo intero sarebbe lordato da mortifero sangue / se robuste sbarre non tenessero inchiuse le guerre; / insieme con le mie Ore custodisco le porte del cielo, / e il fatto che Giove stesso ne esca e rientri è nelle mie mansioni» (11). I sacerdoti erano soliti chiamare il Dio come Patulico e Clusio, nomi che dovevano suscitare l'ilarità dei fedeli, ma che a dispetto del suono rimandavano a concetti molto importanti, l'uno all'apertura e l'altro alla chiusura

(Patulicus < patere : aprire ; Clusius < claudere : chiudere ) (12), e nel mentre provvedere al rituale di offerta di focacce di farro mescolato a sale. Proprio questa focaccia ci introduce un altro curioso argomento ed alla fine del nostro percorso tematico: la preparazione della « mola salsa », cibo sacro, cibo degli Dei. Questa era una particolare focaccia, offerta e poi distribuita in piccoli pezzi ai credenti come atto lustrale. La « mola salsa » e la sua preparazione erano prerogativa esclusiva delle Vestali, che tramite un impasto di farina di farro con salatura superficiale realizzavano una pietanza sacrificale e purificatrice per chi la assumeva partecipando alla celebrazione sacra. Il potere di questa divinità, della quale

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abbondano erme e rappresentazioni, rispettata, temuta e sempre invocata per prima nelle preghiere di qualsiasi fedele romano risulta oggi sbiadito: la fiducia, la venerazione hanno lasciato il passo ad una semplice riverenza, un continuo rispetto archeologico ed antiquario, innato ed inspiegabile, simbolo forse, di una forza pu l s a n t e n on a n c or a s op i t a . [L.A.]

NOTE:

1. OVIDIO, Fasti I, 185-6. (le traduzioni, dipendono da CANALI 2011.

2. OVIDIO, Fasti I, 190.

3. OVIDIO, Fasti I, 187-8.

4. OVIDIO, Fasti I, 221-2.

5. OVIDIO, Fasti I, 75 sgg.

6. OVIDIO, Fasti I, 83 sgg.

7. OVIDIO, Fasti I, 65-74.

8. OVIDIO, Fasti I, 89.

9. OVIDIO, Fasti I, 90.

10. OVIDIO, Fasti I, 101-14.

11. OVIDIO, Fasti I, 116-26.

12. MACROBIO, Saturnalia I, 9, 15; SERVIO, Scolii all'Eneide, VII, 610.

SCIOGLIMENTO DELLE SIGLE:

-CANALI 2011 : OVIDIO, I Fasti , intr. e trad. di L. Canali, Milano 2011.

Immagine:

p.19, Giano Bifronte, Musei Vaticani.

p.21, Giano, tratto da The Delphian Society, Hammond W. B. Conkey Company, 1913.

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A cura di Lorenzo Abbate

SEZIONE MISCELLANEA

PROVE

ONTOLOGICHE

DELL’ESISTENZA

DI DIO

LA PIANTA DELL’IPERICO

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SHEELA NA GIG

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L'avvento del cristianesimo prima e la cristianizzazione dell'impero romano poi ad opera dell'imperatore Costantino rappresentano elementi di novità storica che possono farci comprendere come si arriva nella storia della filosofia a ciò che viene canonicamente definito come filosofia medievale e, quindi, in particolar

modo ad alcuni ambiti di r i f l e s s i o n e n e l l a discussione filosofica introdotti dalla novità del cristianesimo.

Con la crisi dell'impero romano va di pari passo la crisi del mondo antico. Esso termina quando cessa effettivamente di esistere quella organizzazione socio-politica incentrata s u l l ' a u t o r i t à d e l l ' i m p e r a t o r e e sull'egemonia economica e politica della romanità. Laddove non siamo più in p r e s e n z a d i u n accentramento dei poteri, d e l r i f e r i m e n t o fondamentale alla struttura gerarchica e piramidale tipici dell'organizzazione classica, ma di una commistione di questa

vecchia organizzazione con elementi eterogenei provenienti da nuove popolazioni, entriamo nel Medioevo. Il Medioevo è caratterizzato dal passaggio dall'impero romano ai regni romano-barbarici. In presenza di una discussione filosofica che tenga conto di queste mutate condizioni storiche siamo quindi

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PROVE ONTOLOGICHE DELL’ESISTENZA DI DIO

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di fronte a una riflessione non più antica ma medioevale, nella quale si pongono nuovi problemi scaturiti dalla novità del cristianesimo e dal dato rappresentato dalla rivelazione; quindi dai tentativi filosofici di una comprensione di essa.

L'elemento religioso dunque è caratterizzato dal l ' ingresso del cristianesimo che prende il posto della vecchia religione romana. Costantino, come è noto, con l'editto del 313 d.C. stabilisce la libertà di culto per il cristianesimo. Sarà con l'editto di Tessalonica del 380 ad opera di Teodosio che il cristianesimo verrà riconosciuto religione ufficiale dell'impero.

Cosa implicava dal punto di vista filosofico la presenza del cristianesimo? La prima osservazione che deve essere tenuta presente, anche per capire qualcosa che è essenziale per la filosofia tardo antica e medievale, è l'elaborazione teologica. Gesù aveva lasciato alla prima comunità cristiana un’esperienza di vita e un messaggio pratico di realizzazione del suo progetto di salvezza. Tuttavia già i primi apostoli hanno esperito la difficoltà di gestire questa nuova visione del mondo e della salvezza con significati così estesi.

Possiamo affermare che tutta la storia della filosofia medievale in fondo altro non è che il frutto dell'incontro della filosofia (greca, pagana) con la rivelazione cristiana. Così come le elaborazioni teoriche e dottrinarie avanzate nel corso dei secoli sono il tentativo di comprensione e se vogliamo di razionalizzazione del dato della fede. La

dialettica tra fede e ragione trova qui la sua espressione migliore.

I tentativi di comprensione razionale della fede, per una religione che si era sviluppata da relativamente poco tempo e che aveva avuto delle implicazioni fortemente politiche, non potevano non porre immediatamente il problema della esistenza della divinità in cui si credeva, soprattutto in polemica con la religione romana pagana. Dimostrare la necessità dell'esistenza del proprio dio equivaleva a vincere una battaglia dialettica sui pagani e dunque ad affermare quella che era considerata la vera fede e la vera religione.

Tra i più grandi pensatori della filosofia cristiana che si sia posto il problema di fornire una dimostrazione dell'esistenza di dio non può che esserci Anselmo d'Aosta (1033–1109). Egli intendeva spiegare la fede attraverso le ragioni che l'uomo può invocare per sostenerla. Il suo metodo è passato alla storia del pensiero come il metodo sola ratione: attraverso la sola ragione. Sebbene le prove che Anselmo adduca all'esistenza di dio possano configurarsi, per lo meno tecnicamente, come questioni di logica e di filosofia del linguaggio, non si può trascurare l'importanza di una parola che Anselmo premette alla formula sopra citata: saltem sola ratione. Saltem ovvero “in mancanza di altro”. Per Anselmo è pur sempre la fede il punto di partenza e di arrivo di ogni sforzo di comprensione dell'uomo. Egli è profondamente convinto della superiorità di una conoscenza scaturita

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dalla fede rispetto a una conoscenza fondata sulla ragione. La ragione può essere fonte di inganno. La vera ragione, ossia la retta ragione che si pone al seguito della fede, è l'unica via che possa aprire

all'uomo la comprensione dei misteri cristiani. Quindi in mancanza della possibilità di penetrare nel profondo il mistero della fede, non resta all'uomo che la sola ragione, che lungi dal porsi come un'autorità assoluta si pone sotto l'autorità del credere. Viola parla di “una duplice simbiosi tra l'autorità e la ragione: quella che analizza il contenuto che l'autorità (scritturistica) propone e quella che, pur mettendo tra parentesi (formalmente) l'autorità come tale, vuole arrivare con la sola ragione a quelle stesse verità proposte dall'autorità”.

Questo compito di giungere alle stesse verità della fede tramite la ragione viene affrontato in due opere fondamentali: il Monologion e il Proslogion.

Nel Monologion Anselmo compie un'ascesa del pensiero dalle cose finite verso dio per dimostrarne l'esistenza, e fornisce un climax di quattro prove. Egli parte dal concetto di bene. Esistono cose che sono più o meno buone in qualche misura ma per essere tali deve necessariamente esistere qualcosa che sia Bene in senso assoluto e questo Bene assoluto non può che essere, quindi, dio. Esistono poi cose che hanno più o meno grandezza, ma anche qui, deve necessariamente esistere qualcosa di sommo in senso assoluto rispetto al quale ogni cosa finita può misurarsi e questo sommo non può che essere dio. Tutto ciò che esiste, poi, o esiste in virtù di qualcosa, dal momento che essendo finito non può esistere in virtù di se stesso, o esiste in virtù di nulla. Ma se esistesse in

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virtù di nulla sarebbe il nulla, cosa che contraddice il fatto che qualcosa esista. Dunque deve necessariamente esistere in virtù di qualcosa, e questo qualcosa non può che essere un supremo che conferisca esistenza a tutte le cose, e questo essere è dunque dio. Le cose, infine, hanno un grado più o meno elevato di perfezione, ma perché ciò sia, deve necessariamente esistere un grado assoluto di perfezione tramite il quale le cose ricevono la propria misura e questa perfezione assoluta quindi non può che essere dio.

Questo lavoro del pensiero, tuttavia, lascia insoddisfatto Anselmo, il quale vorrebbe individuare un unico argomento (unum argumentum) con cui dimostrare non più l'esistenza di dio a partire dal creato, ma l'autoevidenza di dio a partire da se stesso. E dopo un lungo travaglio interiore durante il quale Anselmo è tentato più volte di abbandonare il compito, egli giunge all'improvviso all'argomento tanto cercato. Dio è ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore: id quo maius cogitari nequit. Se dio è quell'ente di cui non si può pensare nulla di maggiore, allora necessariamente deve esistere. Dire che dio non esiste significa ad ogni modo avere nell'intelletto la nozione di dio come qualcosa di cui non si possa pensare nulla di maggiore. Ma dio in quanto qualcosa di cui non si possa pensare nulla di maggiore non può esistere solo nell'intelletto, poiché altrimenti sarebbe possibile qualcosa di maggiore dell'id quo maius cogitari nequit. Ma ciò contraddirebbe il punto di partenza ossia che dio è qualcosa di cui non si può

pensare nulla di maggiore. In definitiva quindi, se dio è ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore, allora non può mancare proprio dell'esistenza reale, altrimenti si potrebbe pensare a un ente maggiore dotato anche dell'esistenza reale. Quindi se dio è tale, deve necessariamente esistere.

Questo argomento fu criticato già da un contemporaneo di Anselmo, Gaunilone. Gaunilone sosteneva che non si può inferire direttamente dall'esistenza ideale a quella reale. Il fatto che io possa pensare a un'isola perfetta non implica che quest'isola perfetta esista nella realtà. Anselmo risponde alla critica sostenendo che Gaunilone aveva ragione per qualsiasi esempio avesse addotto tranne uno: dio. L'isola, ancorché perfetta, è pur sempre un ente di cui si possa pensare qualcosa di maggiore. Solo dio, essendo quell'ente di cui non si possa pensare nulla di maggiore, implica nella propria definizione l'esistenza reale.

Tommaso d'Aquino (1225–1274) a differenza di Anselmo ritiene che l'unico metodo valido per dimostrare l'esistenza di dio sia la prova a posteriori, ossia ciò che fa Anselmo stesso nel Monologion con le quattro prove. Si tratta quindi di partire dall'esperienza sensibile per risalire alla causa prima.

Cinque sono le vie che Tommaso propone. Queste cinque vie hanno una identica struttura teorica alle spalle: si parte da un dato dell'esperienza sensibile; lo si analizza alla luce del principio metafisico di causa ed effetto,

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ricercandone le cause a monte; si blocca la ricerca delle cause perché altrimenti si finirebbe in una ricerca all'infinito, il che n e g h e r e b b e l ' e s i s t e n z a s t e s s a dell'esperienza sensibile dal momento che se non c'è una causa prima non c'è nemmeno un effetto ultimo; se ne deduce che la causa prima deve coincidere necessariamente con ciò che viene chiamato dio.

Queste cinque vie sono: ex motu (tutto ciò che si muove è mosso da altro e questo da un altro e così via; non potendo regredire all'infinito dobbiamo ammettere l'esistenza di un primo motore immobile che muove tutto il resto e questo primo immobile è dio); ex causa (tutto ciò che esiste è causato da altro e così via, dunque esiste una causa prima non causata e questa causa è dio); ex contingentia (tutte le cose che sono, un tempo non erano e in futuro non saranno, quindi sono contingenti. Ma se sono contingenti non possono che ricevere il proprio essere da qualcosa che invece è necessario e questo essere necessario è dunque dio); ex gradu perfectionis (le cose hanno un grado più o meno elevato di perfezione che per essere tale necessita dell'esistenza di un grado di perfezione assoluta e questo è dio); ex fine (le azioni di realtà non intelligenti nell'universo sono ordinate secondo uno scopo, quindi, non essendo in loro questa intelligenza, ci deve essere un'intelligenza ultima che le ordina così).

Nella storia della filosofia si sono susseguite nei secoli formulazioni diverse che riprendevano il problema e le stesse

modalità d'impostazione. Filosofi come Cartesio, Locke, Kant, Leibniz, Voltaire e altri hanno dato un contributo alla discussione che però si configurava, in ben diversa epoca storica, come una questione non più di fede bensì squisitamente filosofica. Il problema dell'esistenza di dio per un cristiano è certamente fondamentale, poiché ne va di tutta la sua fede. Resta certo che nella fede cristiana dio è inconoscibile se non si rivela egli stesso all'uomo come ha fatto nelle scritture. L'uomo con la sua ragione può arrivare a conoscere che dio è, ma non ciò che egli è. [M.S.]

Immagini:

p.24, La tentazione di S. Tommaso, Diego Velasquez.

p.26, S. Anselmo.

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Il 24 del mese di Giugno si ripete il miracolo della notte di San Giovanni, che secondo le tradizioni p o p o l a r i l o c a l i rappresenta il miglior momento per dedicarsi alla raccolta di talune erbe. Queste piante sono dette “erbe di S. Giovanni”(1), ed in questa ricorrenza assumono “proprietà” terapeutiche e “magiche” assolutamente fuori dal comune. Accanto a sortilegi per trovare il proprio amore, ed a acque rigeneranti troviamo il potente iperico. L’ Hypericum perforatum è sempre stato considerato per la sua enorme gamma di qualità terapeutiche, sin dall’antichità; Ippocrate sosteneva che il suo nome significasse “più alto”, sottinteso, degli inferi. Dioscoride(2) lo prescriveva contro reumatismi, epilessia e bruciature. Il collegamento con Giovanni Battista diviene chiaro se si considera che sfregando uno dei gialli e delicati fiori dell’iperico, rimane una evidente traccia rossa sui polpastrelli; questo rosso viene collegato al sangue del suddetto Giovanni. Sul potere di guarire dal morso di serpenti e da danni provocati da ustioni, Manlio

Barberito scrive: “(…) non può stupirci, dato che l’antica sapienza già lo i n d i c a v a c o m e potentissimo strumento contro Satana e le sue opere, intese appunto a gettare il cristiano nei regni infernali per bruciare nelle fiamme eterne.”(3) Rimanendo nell’ambito cristiano ritroviamo testimonianze sull’uso di questa piantina da parte dei Cavalieri di S a n G i o v a n n i d i

Gerusalemme nelle crociate, per la cura di ferite e bruciature, ed in effetti la farmacologia ha confermato queste proprietà rendendo giustizia ai vari oli, balsami e vini prodotti per infusione e macerazione dei fiori e delle foglie di iperico. Nel Medioevo le appuntite foglioline erano sparpagliate sui tetti delle case per preservarle dai fulmini, ma soprattutto erano l’ultima risorsa utile per liberare gli “indemoniati” dagli influssi malevoli: venivano messe tre foglie sul petto della persona ed altre disposte attorno alla camera, quindi lo spirito malefico si sarebbe allontanato. Da tutte queste tradizioni l’iperico prese il nome di “cacciadiavoli”. Un secondo tipo di

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LA PIANTA DELL’IPERICO

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iperico, l’Hypericum tetrapterum, soprattutto nelle fredde terre inglesi, era considerato possedere strabilianti poteri negli esorcismi.(4) Alcuni testi sostengono lo si debba trovare casualmente per poi portarlo sotto l’ascella sinistra per poter così evitare o eliminare gli influssi del malocchio; altre scritture lo prescrivono come metodo più efficace per “purificare” le abitazioni dai “fantasmi” presenti. Ancora oggi moltissime persone, a prescindere dal loro orientamento religioso, continuano a raccogliere alcune delle erbe di S. Giovanni, tuttavia l’iperico rimane fra di loro la più raccolta e ricercata. Si presenta a noi uno di quei casi in cui la tradizione antica si ripropone costantemente nel mondano senza aver subito alcun danno o contraffazione. Il prossimo 24 Giugno datevi l’occasione di passeggiare in una campagna e raccogliete qualche mazzo di iperico, dopo aver lasciato i suoi fiori per circa un mese a macerare in olio (l’olio deve essere leggero, spremuto a freddo e preferibilmente inodore, ad esempio di soia, riso o al massimo di mandorle), filtrate il tutto. Il liquido che otterrete sarà di un rosso vivo, provatelo contro le ustioni, o come semplice idratante per capelli e pelle. [J.R.]

NOTE:

1. queste erbe sono: felce, iperico, aglio, cipolla, artemisia, lavanda, cardo, menta, rosmarino, sedum telephium, prezzemolo, salvia, scilla ed infine agnocasto.

2. DIOSCORIDE, Sulla materia medica, III.

3. BARBERITO 1922.

4. CASTORE DURANTE, Herbario novo, 1585.

SCIOGLIMENTO DELLE SIGLE:

- BARBERITO 1922: M. BARBERITO, La festa romana di S. Giovanni, Roma 1922.

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Una delle raffigurazioni più sorprendenti e sconvolgenti se vogliamo, è inerente al gruppo di sculture che ritraggono Sheela na Gig. Questa è una creatura dall’anatomia distorta rappresentata nell’atto di sottolineare o dilatare la sua vulva con le mani, dopo aver accavallato le braccia alle gambe per permettere una maggiore distensione. Andando a ritroso nei secoli per ricercare le origini di questa figura, ne ritroviamo di identiche all’interno di chiese costruite durante vari periodi di invasione normanna. I primi studi condotti risalgono al 1840, nei quali vennero interpellate le popolazioni del luogo, che davano a questa figura differenti nomi. Solo R. Collis e Johann

Kohl tuttavia riuscirono ad identificare, nella verde Irlanda, il nome più spesso utilizzato, ossia Sheela na Gig. Questi due pionieri del campo ritrovarono documenti risalenti al 1676 in una chiesa a Tuam, nella Contea di Galway: in questi scritti era contenuto l’ordine di “portare via e bruciare le immagini di quelle donne oscene” e nel caso venissero nascoste, di fare in modo non fossero più ritrovate. La tradizione popolare del luogo ancora ricordava di quando alcune donne erano use mostrare i loro genitali per combattere le influenze negative, e questi studiosi lo registrarono. Cosa significa Sheela na Gig? Eammon Kelly ritrova le radici del termine nella lingua irlandese,

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SHEELA NA GIG La Dea dalla grande Vulva.

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perorando quindi la tesi dell’origine insulare di questa Dea: il nome proverrebbe da Sighle na gCìoch ossia “vecchia signora dei seni”, od anche da Sìle-ina-Giob ossia “vecchia signora sul suo busto”(1). Da una parte abbiamo la certezza che questa figura appartenga al popolo fatato della tradizione irlandese, ossia agli Dei, dall’altra però non abbiamo avuto ancora spiegazione, almeno dal nome, del perché della vulva dilatata. Un contributo ci viene dal moderno irlandese, in cui gee pronunciato con la g dura, significa “vulva”; anche lo scozzese presenta un termine simile, ossia gigg, che significa “parte intima della donna”. Da questa ricostruzione Sheela na Gig potrebbe essere tradotto con “Vecchia

Signora della Vulva”. Andiamo ad analizzare ora i reperti dei quali siamo a conoscenza. Alcuni esempi sono presenti nelle tappe dei pellegrinaggi verso Roma; in queste costruzioni il grottesco non manca, ed oltre alla paurosa Dea, si possono osservare svariate scene di peccatori nell’atto di mostrare i glutei, o assumenti forme bestiali e provocatorie. Molti studiosi si sono soffermati a questa porzione di sculture in pietra, tuttavia in accordo con l’origine linguistica, sappiamo che esistono esemplari irlandesi ben più antichi di quelli normanni. Non esiste solo una differenza di datazione fra i gruppi di Sheelas, infatti mentre le sculture nelle chiese si trovano sempre assieme ad altre figure di peccatori,

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a l l ’ i n t e r n o d e g l i a m b i e n t i e anatomicamente ben definite, le raffigurazioni insulari si trovano prevalentemente all’esterno delle costruzioni, sono sole, ed hanno connotati anatomici mutati: chiari segni di vecchiezza, coste sporgenti, occhi protrusi e gambe e braccia apparentemente propri di una donna giovane. Sono state ritrovate circa 110 Sheelas in Irlanda, 30 in Inghilterra e solo poche in altri paesi. Freitag espose i possibili significati di questa figura nel seguente modo, elencandoli a mo’ di sommario: “Un amuleto apotropaico, il simbolo di un culto pre-cristiano della fertilità, rappresentazione della Grande Madre della Terra, una Dea celtica di creazione e distruzione, una vecchia oscena, un simbolo sessuale (…) queste sono alcune, ma non tutte, le divergenti interpretazioni delle Sheelas.”(2) Di questo enorme potere sorgente dai connotati intimi femminili se ne trova traccia nei racconti mitologici irlandesi: Macha, figlia della stirpe divina sposata ad un semplice mortale, si ritrovò, dopo il tradimento di un giuramento fatto a lei dal marito, a dover gareggiare incinta con dei cavalli in corsa davanti al palazzo reale; il risultato fu che terminata la corsa, Macha partorì dinnanzi a tutti davanti alle porte della reggia, lanciando una grave maledizione sui guerrieri dell’Ulster, essi avrebbero patito i dolori del parto prima di ogni battaglia. Così la madre condannò quei guerrieri per il poco rispetto che ebbero nei riguardi di una donna/Dea nella condizione di maggiore potenza possibile. La scena del parto davanti al

portale cittadino può essere ricollegata con la presenza di quasi tutte le Sheelas in pietra in cima a luoghi d’accesso, come porte, archi, come se similmente al romano Giano(3), potesse “controllare” e presiedere alle entrate ed alle uscite(4). Un esempio si ritrova a Fethard. Per quanto riguarda l’anatomia di Sheela na Gig, che presenta braccia e gambe da giovane, e testa e torso da anziana, si può cercare una spiegazione sempre nei racconti mitici irlandesi: svariate creature femminili divine o quasi possiedono in questi testi il potere di camuffare il loro aspetto, ed in particolare la loro età; un esempio è rappresentato da Morrigan, la Grande Regina, che si presenta all’eroe solare Cu Chullain con le sembianze di una vecchia mungitrice. Sebbene quindi funzione e interpretazione di questa impressionante divinità possano ricevere qualche spiegazione, le questioni dell’origine e dell’evoluzione rimangono irrisolte. Freitag sostiene che il culto di Sheela na Gig sopravvisse al predominio cattolico poiché troppo diffuso, e perciò i monaci avrebbero inserito le immagini di questa divinità sulle loro costruzioni(5). Altri ritengono che queste raffigurazioni non sopravvissero per la diffusione del culto, quanto più per un “riadattamento” delle figure a simbolo della Mater Ecclesia, rappresentata quindi nell’atto di accogliere con le promesse di rigenerazione e vita i fedeli all’ingresso delle chiese. Per quanto si cerchi di dare spiegazioni ad un fenomeno tanto strano e diffuso come quello delle Sheelas, non si riesce a trovare delle tesi inoppugnabili.

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La Dea dalla grande vulva rimane un mistero dal grottesco aspetto, torreggiante persino su chiese e monasteri, quasi come un monito sopravvissuto alle persecuzioni grazie alla sua “sfacciataggine”, superficie di un segreto femminile ben più antico e profondo. Laciamoci con un dubbio che necessiterebbe di ulteriori specifiche: qui di seguito abbiamo immagini di due Lepenski Vir(6), come mai tanta somiglianza? [J.R.]

NOTE:

1. KELLY 1996.

2. FREITAG 1999.

3. si veda l’articolo “Giano” in Phanes n.3 p. 19 e sgg.

4. KELLY 1996.

5. FREITAG 1999.

6. si veda l’articolo “Lepenski Vir” in Phanes n.3 p. 42 e sgg.

SCIOGLIMENTO DELLE SIGLE:

- KELLY 1996: E. KELLY, Sheela-na-gigs: Origins and Functions, Dublino 1996,

- FREITAG 1999: B. FREITAG, A new light on the Sheela na Gig, 1999. p.50

Immagini:

p.31, immagine di Sheela na Gig a Kilpeck.

p.32, Lepenski Vir dell’Età del Bronzo dal Nord della Serbia, parte della stessa immagine dell’articolo “Lepenski Vir” in questo stesso numero..

p.34, Sheela na Gig, da Wellensley.

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A cura di Jonathan Righi

SEZIONE OMNIA ALTERA

ECATE CELESTE, UNA PREGHIERA MARTE PUNISCE CUPIDO

SORTILEGIO CONTRO LE SCOTTATURE IL DIO PESCE DI LEPENSKI VIR

IL MUSEO DELL’ARTE CLASSICA RECENSIONI

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Pagina 36 Phanes n.3

Abbiamo scelto di presentarvi una preghiera strettamente correlata agli argomenti trattati nella sezione greco-romana: l'inno primo del corpus degli Inni Orfici. Il canto esametrico, già analizzato nell'articolo alle pp. 14 sgg. ci offre una visione della Dea panthea, materna, serena e rilassata, ma anche frenetica, potente e ctonia, il tutto in versi di una bellezza non usuale (e oserei dire non casuale!). La riportiamo ad esclusione degli ultimi due versi, nella traduzione di G. Ricciardelli, tratta da RICCIARDELLLI 2001 pp. 12-3. [L.A.]

Ecate protettrice delle strade celebro, trivia, amabile,

Celeste e terrestre e marina, dal manto color croco,

Sepolcrale, baccheggiante con le anime dei morti,

Figlia di Perse, amante della solitudine, superba dei cervi,

Notturna, protettrice dei cani, regina invincibile,

Annunciata dal ruggito delle belve, senza cintura, d'aspetto imbattivile,

Domatrice di tori, signora che custodisce tutto il cosmo,

Guida, ninfa, nutrice dei giovani, frequentatrice dei monti.

SCIOGLIMENTO DELLE SIGLE:

RICCIARDELLLI 2001 : Inni Orfici, a c. G. RICCIARDELLI, Milano 2006.

Immagini:

p.36, incisione settecentesca dell’Ecate Chiaramonti.

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ECATE CELESTE, UNA PREGHIERA

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L’Invincibile Brighit, una fra le Dee fondamentali della spiritualità celtica, ha sempre rivendicato il suo posto nel corso dei secoli all’interno delle varie “culture” che si sono successe in Europa. Il caso di cui oggi vogliamo discutere è in relazione agli enormi poteri di guarigione che a Lei venivano imputati: durante tutto lo svolgimento dell’epoca romano-celtica, Brighit venne onorata ed invocata per mandare a buon fine gli “incantesimi” di guarigione, in Gallia ed in Britannia prevalentemente, troviamo una comune preghiera che utilizza la pianta del rovo nella cura delle ustioni.

La procedura è questa:

vengono raccolte nove foglie di rovo, che verranno immerse in acqua di fonte, successivamente le foglie bagnate verranno apposte sull’ustione una ad una, ripetendo la formula di seguito per tre volte per ogni singola foglia. Le frasi da dire sono le seguenti:

“Tre dame giungono da Oriente,

una col fuoco, due col gelo.

Vattene, fuoco; rimani, gelo.”

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SORTILEGIO CONTRO LE SCOTTATURE

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Perché proprio il rovo? Se si pensa che in Gallia era presente in alcuni villaggi il tabù sull’ingestione delle more, la prospettiva si chiarisce sufficientemente. Inoltre come dimenticare l’importanza che persino la tradizione cristiana assegna a questa pianta: nell’Esodo troviamo la rivelazione che il Signore dona a Mosè, “Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva nel fuoco, ma quel roveto non si consumava.” Questo passo ispirò l’iconografia di alcune pale sacre(1) nelle quali la Vergine Maria ed il bambinello sono avvolti da un roveto rovente. [J.R.]

NOTE:

si consideri ad esempio la pala d’altare del XV secolo nella Cappella Reale di Granada, o il dipinto di Moretto da Brescia di palazzo Martinengo.

Immagini:

p.38, Mosè ed il rovo in fiamme.

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Sono molti a Roma i musei, i luoghi, i parchi che offrono la possibilità di osservare uniche collezioni di scultura: la sete del visitatore è stemperata da insiemi assemblati in varie epoche e periodi, fino a formare insiemi strepitosi; il valore della maggior parte delle collezioni romane però risiede nell'unicità dei pezzi, nel valore degli originali visti dal vivo. Una collezione museale tipica permette però solo una visione ed un'idea parizale della storia scultorea antica, limitata ai pezzi presenti in loco. Il Museo dell'arte classica invece inverte totalmente questi canoni: il

valore non è nei pezzi, riproduzioni in gesso, ma nella mole, e nella possibilità di ammirare, raccolti in un unico luogo tutte le opere fondamentali dell'arte classica. Alla prima visita non c'è persona che non rimanga stupita da questo luogo, e non vi è possibilità di non volervi tornare, ammirati e sognanti in questo museo dell'eccellenza, dell'eccellenza artistica in assoluto. Policleto accanto ai Kyroi, Fidia accanto al gruppo dei tirannicidi, i fregi dell'altare di Pergamo accanto ai bassorilievi di Epidauro rappresentano un'occasione unica, imperdibile per chiunque. Il curioso amerà l'atmosfera unica, lo studioso potrà confrontare i più disparati e lontani esemplari delle sculture predilette, il fedele vedere raggruppate le più belle rappresentazioni delle proprie divinità. Un consiglio: la saletta che racchiude i simulacri più importanti di Venere merita una sosta particolare, il sottoscritto ha avuto la netta sensazione di vedere in tutte le statue lo stesso volto: i simulacri anche se separati da uno scarto di secoli, da diversità di scultori e soggetti sembrano ispirati da uno stessa visione divina.

[L.A.]

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IL MUSEO DELL'ARTE CLASSICA Facoltà di Lettere Università La Sapienza.

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Anno 1610: Caravaggio muore.

Il caravaggismo è già fenomeno concreto. Una schiera di seguaci della prima ora -teppisti, maneschi perdigiorno, più bulli che pittori- applica la lezione del "capo" già da qualche anno.

Tra questi c'è Bartolomeo Manfredi. Come negli altri seguaci, la lezione caravaggesca è applicata in costante bilico tra originalità e imitazione, tanto da aver fatto credere il Manfredi un falsificatore delle opere di Caravaggio. Tra le sue opere

più originali spicca il "Marte punisce Cupido".

A differenza di altri soggetti in cui il naturalismo caravaggesco può lasciarsi andare a tinte crude ed icastiche, il tema mitologico è trattato dal Manfredi con un s a p i e nt e d os agg i o d i luc i caravaggesche ed educate forme razionali, care alla severità controriformata.

La scena vede tre protagonisti: Venere, Marte e Cupido. Secondo il poeta greco Simonide, quest'ultimo sarebbe il figlio dei primi due, ma le varianti del mito sono molte. Al di là delle parentele, è ben chiaro ciò che sta succedendo nella scena rappresentata.

Campeggiante al centro, disposto in forma piramidale, è Marte vestito di porpora, con una cotta di metallo e armato di una corda usata come frusta. Sotto di lui, atterrito e bendato, è Cupido che sta per ricevere le sferzate del dio della guerra. Sul lato sinistro, una implorante quando impotente Venere cerca di trattenere la furia di Marte, facendo innalzare il suo drappo verde in un arco turbinoso. In alto a destra due colombe, simbolo di Venere, fuggono spaventate, mentre in terra giacciono spezzate le frecce di Cupido.

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MARTE PUNISCE CUPIDO di Bartolomeo Manfredi.

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Da un fondo tenebroso si stagliano squillanti i colori che contrappongono i protagonisti: verde per Venere, rosso per Marte e celeste per Cupido. La composizione soggiace quindi a quei giochi di movimento cromatici tanto cari al Barocco e che contribuiscono a dare movimento alla scena complessiva. La sensualità è mostrata sia dal seno nudo di Venere che dalle morbide forme del giovinetto-Cupido, imprigionato a subire una punizione che ha il sapore di un sadico schiavismo.

Al di là della "fonte classica", però, il soggetto vede un mondo pagano assolutamente reinventato, piegato alle esigenze della religione dell'Unico Dio. In tempi severi, quelli della lotta a Lutero e della scoperta di nuovi continenti non-cristiani, la posta in gioco è tale che il paganesimo è tollerato solo se funzionale a diffondere un messaggio edificante: l'odioso Cupido (ma meglio sarebbe dire la "cupido" in generale, cioè la concupiscenza carnale) ha fatto si che la guerra, cioè Marte, si distraesse dai suoi compiti per giacere con l'Amore, cioè Venere. Finiti gli effetti della libidine, Marte, che è sterminatore di vita, è furioso per aver protratto quella vita stessa nell'accoppiamento con Venere. Cupido va, quindi, catturato e punito il prima possibile. Siamo agli opposti dei noti quadri botticelliani che vedono la Venere lucreziana trionfare su Marte e i piccoli putti giocare con le sue armi. Nulla è qui concesso all'amore, che è sempre sporco di carnalità, e la guerra (di religione, politica, intellettuale) non deve

lasciarsi distrarre dalle "occupazioni" della materia.

La frusta flagellatrice castiga le lascive morbidezze del desiderio con fare impietoso e a nulla servono (e a nulla devono servire) le suppliche di Venere, che ha sempre accezione negativa nel contesto barocco.

L'opera è, coerentemente con l'epoca, un trionfo del castigo e non già un'esaltazione di qualche nostalgia pagana. Il Barocco è ancora una volta antitesi del sogno rinascimentale e la conciliazione degli opposti non è possibile.

Il '600 si strugge in drammi irrisolvibili che hanno il sapore della tragedia. [M.C.]

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Ciò che è grande non lo può rimanere per sempre.

La natura delle cose è impietosa e sottopone il mondo a leggi implacabili. Così, un mondo che fu di giganti lentamente si popola di piccole, brulicanti creature.

Lo spazio, allora, si riduce: spazio vitale e "spazio d'azione". Il tempo dei Giganti Morali -Eroi e Dei- necessita di deserti e abissi, Selve Ercinie e Foreste dei Cedri per compiere se stesso. E mentre il tempo degli Dei ha spazi immensi, il tempo della Civiltà non può sopravvivere in quegli spazi.

E allora è l'agricoltura, che abatte le foreste, l'allevamento, che aggioga le bestie, il progresso, che inesorabilmente mangia lo spazio del mondo.

Il gigantismo primordiale tende -allora- a sparire, a farsi sempre più

raro e, dove presente, a venire ricoperto da quell'oblio che solo il mondo dell'Uomo è capace di creare.

L'Europa, proprio perchè "culla di civilità", è maestra nell'aver costipato il più possibile i suoi luoghi di grandezza. La Foresta Nera è così solo un ricordo di quel

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IL DIO PESCE DI LEPENSKI VIR

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luogo in cui i Romani a stento si avventuravano, così come i Pirereni serbano solo una sottile -e inquietante- reminescenza della loro primitività.

Al pari loro è il Danubio. Come la coda di un gigantesco drago, l'immenso fiume si disnoda dalla Foresta Nera per giungere al Mar Nero. Nonostante secoli di Occidente lo facciano facilmente associare a capitali asburgiche e giri di Valzer, quest'enorme bacino idrico ha visto l'Uomo gattonare titubante nel feroce inverno paleolitico, fino a quando non divenne confine "off-limits" dell'Impero Romano tra ciò che era umano (e quindi civile) e ciò che non lo era (e quindi divino e bestiale ad un tempo).

Navigandovi sopra, si può giungere alle Porte di Ferro, oggi Lepenski Vir.

Qui è stato rinvenuto un insediamento mesolitico, probabilmente un complesso di santuari primordiali piuttosto che un luogo abitato vero e proprio. All'interno di tali costruzioni sono stati rinvenuti numerosi massi scolpiti, tutti con lo stesso soggetto. Nonostante fosse disponibile una grande varietà di rocce nei pressi dell'insediamento, furono selezionati per essere scolpiti soltanto massi di arenaria gialla di grana grossolana. Le sculture comparvero improvvisamente nel sito, datate tra il 5350 e il 4700 a. C.

La qualità della decorazione dei massi è molto varia, spesso è limitata a poche linee semplicemente incise ed stato ritenuto che il loro posizionamento avesse un ruolo fondamentale in relazione alla loro funzione, che è tutt'oggi sconosciuta.

Molte delle sculture sono scolpite in una forma che non è stata ritenuta tanto simbolica, quanto piuttosto di intento ingenuamente naturalistico. La questione della forma simbolica o naturalistica all'interno dell'Arte Primitiva è molto dibattuta, ma oggi molta produzione che un tempo era stata sbrigativamente catalogata come "simbolismo di maniera" è soggetta ad una rilettura da parte del mondo accademico, mantenendo di fatto il problema ancora aperto.

Certamente, a differenza dei loro "cugini" mediterranei, queste piccole sculture presentano lineamenti essenziali e fortemente marcati, dove la mano dell'autore è ancora molto ingenua. L'esemplare più rappresentativo è stato recuperato dalla facciata del cosiddetto "santuario" della Casa XLIV della fase LVII (5000 a. C. ca.).

Perchè Dio-pesce, dunque?

La definzione venne naturale ai primi scopritori dei reperti, per via delle loro precipue caratteristiche: un volto schiacciato, con grandi labbra ed occhi rotondi ed ampi, la pelle gibbosa e la spina dorsale curva ed evidente, le braccia sottili e ritorte. Creature grottesche, che parvero volutamente non-umane. L'associazione al contesto acheologico ed al luogo fecero scattare idee fin troppo immediate, tali per cui si era di fronte alla rappresentazione di qualcosa legato a quell'immenso e spaventoso fiume sulle cui rive sorgeva Lepenski Vir.

A tutt'oggi, pochi studiosi si sono pronunciati in maniera netta su forma e

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significiato di queste stauette. Marija Gimbutas, inserendole in un contesto più ampio, le riporta come testimonianza dei ben noti culti della fertilità femminile di epoca preistorica(1), in funzione del fatto che, sul corpo, sarebbero presenti delle incisioni volte ad indicare seni e vulve stilizzate. Fatto certamente vero, ma che è dimentico di altri reperti simili che, tuttavia, non hanno le medesime inicisioni. Senza calcolare che un'eventuale forma femminile non giustifica in alcun modo il loro collegamento a culti della fertilità.

Mantenendo lo spettro ampio, risulta invece accattivante il collegamento con divinità acquee di altri luoghi, come ad esempio gli Oannes. E che dire di quel mito estremamente elaborato (e certamente molto più tardo) delle Ondine e delle Rusalki ?

Allora, è ancora una volta l'Acqua l'elemento che ritorna con la costanza di un'ossessione quando si scandagliano gli albori dell'Umanità.

Senza dare libero sfogo a fantasie facili ed ignoranti, se queste statuette sono delle creature pesciformi, la loro analisi in un quadro più ampio sarebbe una giusta via da intraprendere a livello scientifico e accademico.

Fino ad allora, rimane la suggestione che deriva dal silenzio di queste creature grottesche. Col suo volto ferino e tragicamente umanoide al tempo stesso, la posa contratta e quasi illeggibile, lo sguardo rivolto con tensione vero l'alto, il dio pesce di Lepenski-vir sembra

rieccheggiare più a Nord le parole che Flaubert dedicò al suo Oannes in un celebre racconto: << [...] vivo negli stagni derelitti del Diluvio. Ma tutt'attorno si ingrandisce il deserto, il vento vi butta la sabbia, il sole li prosciuga; - e io muoio sul mio strato di limo, guardando le stelle attraverso l'acqua. Ora vi ritorno>>(2). Possiamo immaginare qualche lamento simile dagli abissi del Danubio?

Il fiume che fu un gigante non risponde più. [M.C.]

NOTE:

1. GIMBUTAS 2005.

2. FLAUBERT 2000.

SCIOGLIMENTO DELLE SIGLE:

-GIMBUTAS 2005: M. GIMBUTAS, Le Dee Viventi, Milano 2005.

-FLAUBERT 2000: G. FLAUBERT,Le tentazioni di S. Antonio, Milano 2000.

Phanes n.3

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"Lo scopo che questo libro si prefigge è allo stesso tempo modesto e ambizioso: modesto perchè non ha la pretesa di offrire un panorama completo di un fenomeno enormemente vasto e complesso qual è quello della religione dell'Antico Egitto [...]; ambizioso perchè intende proporre al lettore alcuni degli aspetti più affascinanti e coinvolgenti del pensiero religioso egizio, quelli relativi ai miti di creazione; il tutto con l'aiuto di testi originali." Questo l'autore scrive nel quarto di copertina. Ci sentiamo di confermare totalmente le aspettative, modeste a dire il vero, che l'autore sollecita, ed anzi, di aggiungere che il libretto, pur nella sua modestia programmatica riesce pienamente a raggiungere gli obiettivi prefissati: presentare dei miti interessantissimi in modo semplice, "veloce" e completo, basandosi sulle fonti antiche. Il risultato di questa lettura davvero piacevole è l'apprendimento di nozioni basilari, fondate, argomentate (e crediamo sinceramente sicure) sui miti fondamentali e fondanti della teologia egizia, sia nelle sue elaborazioni eliopolitana, ermopolitana e menfita. Il ricorso, molto abbondante, ai testi antichi, tradotti ex novo o in traduzioni accreditate scientificamente, rende il libro non una mera speculazione para scolastica dell'autore, ma una giusta e piacevole via

di mezzo tra una trattazione scientifica ed una lettura "piacevole" senza pretese. L'apparato delle immagini è congeniale agli argomenti trattati, ricorrendo anche ad illustrazioni non canoniche, come ad esempio la splendida rappresentazione della Dea Tefnut e di Toth sotto forma di babbuino dal tempio di Dakka (tavola III). A rendere perfetto il volumetto sarebbe stato un corredo dei testi originali presentati sia nella forma geroglifica, che nella loro trascrizione fonetica e traduzione, come ad esempio compare negli invidiabili e splendidi volumi di E. A. Wallis Budge (The Gods of the Egyptians, Dover 1969), ma non possiamo di certo rimproverare all'autore una simile " m a n c a n z a " , i n q u a n t o , programmaticamente, esula dal percorso p r e f i s s a t o s i . C o n c l u d e n d o : consigliatissimo a chi non ha una formazione di base solida sulle divinità egizie, e voglia iniziare un cammino di studio: le indicazioni bibliografiche fornite dall'autore permetteranno un approfondimento m i r a t o d e g l i a rgoment i d i i n t e r e s s e . [L.A]

Phanes n.3

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Fabrizio Felice Ridolfi, Miti e Dei dell'antico Egitto, Storie di Crea-zione dalla terra dei Faraoni, Roma 2006. [pp.102, 20 euro.]

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l volume, ormai un classico, si propone di portare il lettore, gradualmente se non alla lettura di un testo geroglifico, almeno ad una comprensione basilare delle regole, del lessico, della grammatica di questa lingua antichissima ed affascinante. Il volumetto, a metà tra studio e lettura vera e propria, risulta piacevole, procedendo per blocchi tematici: attraverso la scrittura viene analizzata la società, il mondo, le fantasie, gli Dei della civiltà egiziana. I nomi dei capitoli sono molto indicativi: L'epopea della decifrazione, Le nostre parole più usate non sono geroglifici, Incontro col Faraone, Misurare il tempo con i geroglifici, Gli animali parlano, Quando il corpo diventa geroglifico, Far di conto e misurare, In compagnia degli dèi, rendono bene l'idea del tono generale del volume: non una noiosa trattazione accademica, ma lezioni basilari su una lingua vista ancora come viva, vitale e comunicativa, sfatando quella generale visione che la vuole impossibile da apprendere ed anche solo da capire. In appendice troviamo alcuni, pochi a dirla tutta, testi, in traduzione, traslitterazione e testo geroglifico, per poi finire con un succintissimo vocabolario egiziano-italiano ed italiano egiziano. L'acquisto è consigliato, e vivamente, per chi ha curiosità di capire come possa funzionare la lingua sacra degli egizi, senza per forza doverne diventare un

esperto lettore ed un provetto traduttore.

[L.A.]

Phanes n.3

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Christian Jacq, Il segreto dei geroglifici, trad. A c. M. Jannarelli, Torino 1999. [pp. 287]

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