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La nanotecnologia, ovvero il controllo e la manipolazione della materia a scala nanometrica, viene impiegata ormai in moltissimi campi, dalla fisica alla chimica, dalla geologia all'ingegneria, dalla biologia alla medicina. A partire dagli anni 2000 ha inoltre cominciato ad interessare in maniera crescente il settore dei prodotti per l'edilizia, e negli ultimi anni è stata oggetto di studio e sperimentazione anche nel restauro architettonico. Le possibilità offerte dai nanomateriali infatti, ovvero la capacità di ottenere, a scala nanometrica, proprietà e caratteristiche nuove nei confronti dei rispettivi materiali massivi, permette di superare i limiti dei trattamenti tradizionali (che spesso non sono in grado di soddisfare i requisiti fondamentali della scienza della conservazione - reversibilità, durabilità e compatibilità chimico-fisico-meccanica) ma anche di ottenere prestazioni del tutto nuove (come i materiali autopulenti). Il presente lavoro si è concentrato sullo studio dei nanomateriali maggiormente utilizzati nel restauro architettonico: la nanocalce, il nanobiossido di titanio, la nanosilice e il nanoidrossido di stronzio. Sono state analizzate le caratteristiche e le proprietà dei suddetti materiali, nonché diverse sperimentazioni effettuate sia in situ che in laboratorio. La bontà dei risultati prodotti offre una nuova opportunità nel campo del restauro architettonico, inoltre la maggiore durabilità ottenuta dai nuovi trattamenti permette la riduzione degli interventi di manutenzione e di conseguenza dei costi. Tuttavia bisogna anche evidenziare come attualmente non ci sia uno studio approfondito sull'impatto ambientale e sulla salute umana delle nanoparticelle. Per questo motivo l'analisi del ciclo di vita dei nanomateriali o dei prodotti che li contengono, considerando gli stadi che vanno dalla produzione, all'uso e al suo smaltimento, diventa essenziale ed urgente prima che il loro impiego diventi ancora più ampio.
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ALMA MATER STUDIORUM - UNIVERSITÀ DI BOLOGNA
FACOLTA’ DI INGEGNERIA
CORSO DI LAUREA IN INGEGNERIA EDILE-ARCHITETTURA
DIPARTIMENTO DI INGEGNERIA CIVILE, CHIMICA, AMBIENTALE E DEI MATERIALI -
DICAM
TESI DI LAUREA
in
Chimica e tecnologia del restauro e della conservazione dei materiali
NANOMATERIALI PER IL RESTAURO ARCHITETTONICO: STATO
DELL'ARTE E PROSPETTIVE
CANDIDATO RELATORE:Di Simone Iolanda Prof. Ing. Franzoni Elisa
Anno Accademico 2011/2012
Sessione III
Quest'opera è stata rilasciata con licenza Creative Commons
Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 3.0
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sito web http://creativecommons.org/licenses/by-nc-sa/3.0/ o spedisci
una lettera a Creative Commons, 171 Second Street, Suite 300, San
Francisco, California, 94105, USA.
Per info: http://iniminimainimo.altervista.org
II
Indice generale
1. Il restauro architettonico.........................................................................................................5
1.1 Il degrado dei materiali architettonici..............................................................................5
1.1 La pulitura........................................................................................................................7
1.2 Il consolidamento...........................................................................................................12
1.3 La protezione..................................................................................................................14
2. La scienza della conservazione ............................................................................................16
2.1 La scienza della conservazione nel tempo.....................................................................16
3. Le nanotecnologie.................................................................................................................22
3.1 Nanoscienza e nanotecnologia: potenzialità e sviluppo.................................................22
3.2 I nanomateriali: caratteristiche e proprietà ....................................................................27
3.3 Tecnologie di produzione dei nanomateriali..................................................................28
4. Le nanocalci e le nuove frontiere per il restauro...................................................................32
4.1 Cenni storici sull'uso della calce nel patrimonio culturale.............................................32
4.2 Il metodo Ferroni – Dini (o Metodo del Bario)..............................................................37
4.3 Dal Metodo Ferroni-Dini alle nanocalci........................................................................47
4.4 Preparazione delle nanocalci..........................................................................................50
4.4.1 Preparazione di nanocalci in dispersioni acquose .................................................50
4.4.2 Preparazione di nanocalci mediante dioli...............................................................53
4.4.3 Preparazione di nanocalci in dispersioni alcoliche ................................................57
4.5 Proprietà e metodo applicativo delle nanocalci..............................................................61
4.6 Esempi di sperimentazione e restauro con l'impiego di nanocalce in Italia ..................72
4.6.1 Gli affreschi del complesso Agostiniano di Santa Maria delle Grazie di Gravedona
(CO).................................................................................................................................72
4.6.2 Gli affreschi di Andrea da Firenze nel Cappellone degli Spagnoli (Chiostro Verde
nella basilica di Santa Maria Novella a Firenze).............................................................80
4.6.3 Gli stucchi della Cappella della Madonna di Lourdes nella Chiesa di S. Giovanni
Evangelista di Venezia.....................................................................................................82
4.6.4 Gli affreschi della Cappella del Podestà al Museo del Bargello di Firenze...........86
4.6.5 Gli affreschi della cripta di San Zeno a Verona......................................................90
4.7 Esempi di sperimentazione e restauro con l'impiego di nanocalci nel mondo...............96
4.7.1 I dipinti murali dei siti archeologici Maya in Messico ..........................................96
4.7.1.1 Dispersioni di nanocalce per il consolidamento dei dipinti murali di Calakmul
III
...................................................................................................................................109
5. Il nanoidrossido di stronzio.................................................................................................114
5.1 Il nanoidrossido di stronzio: proprietà, sintesi e applicazioni......................................114
6. La nanosilice.......................................................................................................................119
6.1 La nanosilice: proprietà e metodi di sintesi..................................................................119
6.1 Applicazioni della nanosilice in edilizia e nel restauro................................................122
6.1.1 Esempio di applicazione della nanosilice per il consolidamento di una calcarenite
molto porosa..................................................................................................................126
6.1.2 Esempio di applicazione della nanosilice nel sito archeologico di Tajin in Messico
.......................................................................................................................................131
7. Il nanobiossido di titanio ....................................................................................................136
7.1 La fotocatalisi contro l'inquinamento atmosferico......................................................136
7.2 Le proprietà fotocatalitiche del nanobiossido di titanio .............................................145
7.2.1 Metodi di sintesi...................................................................................................152
7.3 Applicazione del nanobiossido di titanio in edilizia ....................................................153
7.4 Applicazione del nanobiossido di titanio nel restauro .................................................154
7.4.1 Esempio di applicazione del nanobiossido di titanio su travertino......................155
7.4.2 Esempio di applicazione del nanobiossido di titanio su marmo ..............................159
7.4.2 Esempio di applicazione del nanobiossido di titanio su pietra leccese ...............164
7.5 Impatto ambientale del nanobiossido di titanio............................................................166
Conclusioni.............................................................................................................................169
Non ringraziamenti ................................................................................................................171
Bibliografia.............................................................................................................................173
IV
1. Il restauro architettonico
1.1 Il degrado dei materiali architettonici
I manufatti artistici, polimaterici complessi costituiti da diverse strati-
ficazioni, rappresentano dei sistemi i cui materiali sono soggetti ad un
naturale degrado.
Il degrado naturale, processo inarrestabile, ha comunque una sua di-
gnità e spesso conferisce alle opere tratti che ne possono aumentare il
fascino, ma l'invecchiamento che avviene prematuramente per cause
patologiche le deturpa e le disgrega [1].
La causa principale di questo deterioramento va ricercata nelle intera-
zioni fisiche e chimiche tra l'opera d'arte e l'ambiente circostante: cro-
ste nere, erosione, patine biologiche, efflorescenze e distacchi sono
solo alcuni dei meccanismi di degrado che si innescano a causa
dell'inquinamento da combustibili, dei batteri, dei cloruri e dei gas
presenti nell'atmosfera [2].
Le patologie più frequenti negli intonaci e negli strati pittorici, anche
in virtù dei modificati elementi inquinanti presenti nell'atmosfera, han-
no come caratteristica accomunante la perdita di coesione dei vari co-
stituenti per il venire meno della funzione legante del carbonato di cal-
cio, con la conseguente caduta di particelle di pigmento, sfarinature
d'intonaci e piccoli collassi meccanici della struttura.
I materiali lapidei invece devono il loro deterioramento principalmen-
te all'azione dell'acqua, sia piovana che di condensa: essa agisce attra-
verso fenomeni fisico-meccanici (come il gelo/disgelo) ma anche, so-
prattutto, mediante l’attacco chimico, in quanto veicola le sostanze ag-
gressive presenti nell’atmosfera (anidride carbonica, ossidi d’azoto e
anidridi dello zolfo) attraverso i pori della pietra stessa per effetto del-
la capillarità, aumentandone la porosità complessiva. Questo porta, a
lungo andare, a manifestazioni di alveolizzazione, corrosione, distac-
5
chi ed esfoliazioni [3].
Anche il calcestruzzo, materiale da costruzione piuttosto recente larga-
mente usato in Italia, è soggetto a meccanismi di degrado: difetti del
materiale (sbagliato rapporto acqua/cemento, presenza di sostanze
espansive, carenze nella posa in opera) o cause estrinseche (dilava-
mento, presenza di sali solubili e cicli di gelo-disgelo) possono gene-
rare corrosione delle armature, attacco chimico ed efflorescenze.
Tutti questi processi, chimici e fisico-meccanici, possono essere piut-
tosto complessi termodinamicamente e cineticamente e possono porta-
re il manufatto ad alterazioni che, in assenza di un intervento in grado
di fermare il lento degrado, potrebbero comportare conseguenze nega-
tive importanti, fino alla perdita totale dell'opera. Segue che una detta-
gliata conoscenza della natura dei materiali usati dagli artisti, incluse
le proprietà comportamentali di questi materiali, deve essere una com-
ponente fondamentale per l'applicazione dei metodi restaurativi e per
la conservazione dei manufatti a lungo termine.
Per questi motivi un intervento di restauro, poiché si applica ad opere
di valore artistico e di importanza storica, deve seguire criteri e metodi
rigorosi. L'atteggiamento principale deve essere di profondo rispetto
per l'opera: il restauro migliore è quello che appare meno, in modo che
l'opera sembri originale. L'oggetto però non deve risultare, alla fine
dell'intervento, così come era in origine, ma, se un'opera è antica, il
passaggio del tempo deve essere riconoscibile, essa cioè non deve
sembrare “nuova”.
Normalmente un'opera d'arte denuncia due tipi di problemi: quelli che
riguardano la micro-struttura e quelli che riguardano il suo aspetto e
risiedono soprattutto nella superficie. I primi possono richiedere deli-
cate operazioni di consolidamento della micro-struttura, perché l'opera
mantenga la sua solidità. I secondi rendono necessario pulire la super-
ficie, proteggerla, ed eseguire eventualmente delle integrazioni [4].
Le caratteristiche degli interventi si distinguono naturalmente a secon-
da dei materiali e delle tipologie di oggetti con cui si ha a che fare,
6
però alcune metodologie sono comuni: ogni intervento presuppone
sempre uno studio accurato dell'opera, sia dal punto di vista storico
che dei materiali, da compiere anche grazie a indagini tecnico-
scientifiche. Questa importante fase preliminare nota come
diagnostica, è determinante per l'intervento di restauro, in quanto è
solo grazie alla raccolta, più ampia possibile, di notizie storiche e
analisi a carattere scientifico che si può impostare in maniera corretta
l'intera operazione di restauro. Dato che i manufatti storici sono
considerati unici e insostituibili, è necessario inoltre che questa
indagine non sia invasiva, o che al massimo impieghi tecniche di
microcampionamento [5].
Attualmente la ricerca sta dando diversi contributi in questo campo,
con progetti dedicati al miglioramento delle tecniche analitiche per
l'accertamento diagnostico e l'identificazione delle cause e degli effetti
dei processi di degrado. Le informazioni ottenibili con le metodologie
diagnostiche non sono di facile interpretazione, per questo risulta
estremamente utile che l'esecuzione degli esami sia fatta, per quanto
possibile, dal restauratore stesso: questi, via via che procede nell'ese-
cuzione materiale dell'intervento, potrà rielaborare e interpretare cor-
rettamente ciò che le indagini gli hanno mostrato, e potrà valutare con
precisione quando e in quali zone eseguire nuovamente gli esami e gli
eventuali prelievi da sottoporre all'indagine del laboratorio chimico
[6].
Conclusa l'analisi diagnostica, l'operazione di restauro prosegue con
tre momenti principali che si possono definire, in ordine temporale, di
pulitura, consolidamento e protezione.
1.1 La pulitura
La pulitura è l'operazione finalizzata alla rimozione di tutto ciò che è
inadeguato o dannoso alla conservazione del materiale.
Le sostanze che si depositano su un'opera d'arte possono avere diversa
7
origine: il naturale invecchiamento (sporco e polvere), batteri e funghi
(che portano alla formazione di patine biologiche), croste nere, eventi
straordinari (fango e terra dalle inondazioni o altri eventi catastrofici),
errati interventi di restauro, o addirittura il volere dello stesso artista,
come nel caso di vernici che degradano e scuriscono nel tempo e de-
vono essere periodicamente sostituite. A volte si manifesta anche la
necessità di dover rimuovere film polimerici che nel passato venivano
applicati sulle superfici pittoriche con funzione protettiva. Ad esempio
quando la superficie di un dipinto su supporto murario è coperta con
un film polimerico (principalmente resine acriliche e viniliche), tra i
pori del dipinto stesso ha luogo la cristallizzazione dei sali, che condu-
ce a un forte stress meccanico per lo strato pittorico, portando l'opera
d'arte alla totale distruzione in pochi anni a seconda delle condizioni
ambientali. In aggiunta al degrado del supporto, l'invecchiamento del
polimero produce drastici cambiamenti nelle proprietà fisico-chimiche
dei costituenti inorganici del dipinto e del polimero stesso (ad esempio
la permeabilità al vapore acqueo diminuisce, la solubilità e le proprietà
meccaniche si riducono anch'esse drasticamente, il colore cambia con
il passare del tempo) rendendone necessaria l'immediata rimozione
(Fig. 1).
Fig. 1: dipinto murale nel “Tempio de los Nichos Pintados” a Mayapan (Yucatan).
Le immagini mostrano il degrado dall'ultimo restauro del 1999 in cui si è applicato
uno strato protettivo con una resina acrilica (Mowlilith DM5) [7].
8
E' evidente quindi come la pulitura rappresenti la fase più delicata e ri-
schiosa alla quale può essere sottoposta un'opera d'arte, dato il suo ca-
rattere completamente irreversibile.
Durante la sua esecuzione, particolare attenzione viene infatti posta
nell'impedire il deterioramento del supporto sano e il rilascio di sotto-
prodotti dannosi; inoltre deve essere effettuata rispettando gli strati so-
vrapposti nel tempo che possono rivelarsi significativi come testimo-
nianza storica delle vicissitudini subite dall’opera. Non è un caso che
in relazione a questo particolare intervento siano spesso sorte aspre
polemiche che, oltre ad aver messo in luce i possibili danni connessi
all'operazione, hanno anche reso evidente come non esistano e difficil-
mente potranno mai esistere norme precise a cui attenersi, ma si debba
forzatamente affidarsi - caso per caso - alla competenza e alla sensibi-
lità di chi materialmente deve eseguire la pulitura [8].
Le tecniche sono diverse a seconda del tipo di degrado da trattare e
sono principalmente suddivise in due grandi gruppi: la pulitura mecca-
nica e la pulitura chimica.
Fanno parte della pulitura meccanica tutte quelle tecniche che sfrutta-
no la forza meccanica dell'acqua, spruzzata ad una certa pressione, e la
forza abrasiva della sabbia. A seconda della pressione utilizzata si avrà
ovviamente un sistema più o meno distruttivo. La pulitura chimica
consiste invece nell'applicazione di soluzioni acquose ad azione sol-
vente pure o additivate con detergenti, tensioattivi, resine a scambio
ionico. In questo settore gli sforzi della ricerca sono numerosi e fina-
lizzati alla messa a punto di soluzioni sempre più rispettose nei con-
fronti dei materiali sui quali si interviene, che, ovviamente, si trovano
sempre in condizioni più o meno precarie.
A dispetto dell'apparente semplicità, la pulitura è un problema impe-
gnativo sia per i conservatori che per gli scienziati. I primi devono va-
lutare l'opzione di rimozione di alcuni materiali da un'opera d'arte sul-
la base di considerazioni storiche, estetiche e a volte filosofiche, men-
tre i secondi devono fornire un metodo efficace e sicuro per compiere
9
questa operazione.
Nei secoli passati, gli artisti e i primi conservatori hanno sperimentato
quasi ogni tipo di possibilità per trovare agenti pulenti efficaci. I tradi-
zionali metodi di pulitura includevano l'uso di vino, aceto, succo di li-
mone, cipolla e aglio [9]. Queste formulazioni contenevano già quasi
tutte le classi di componenti e principi attivi usati nelle moderne so-
stanze pulenti, anche se il contributo di ogni ingrediente al risultato fi-
nale del processo essenzialmente non era ben definito. L'aceto ad
esempio, con il suo contenuto di acido acetico, era un efficace e poten-
te agente pulente in grado di dissolvere materiali altrimenti insolubili
con un pH più alto. La saliva invece rappresenta tuttora uno dei siste-
mi di pulitura più completi e complessi mai impiegato, infatti è ancora
usata una sua versione sintetica non biodegradabile.
Oggi tra gli strumenti “tradizionali” a disposizione per le operazioni di
pulitura, i solventi organici sono forse quelli con cui il restauratore si
sente più a proprio agio: apparente semplicità e prevedibilità dell'azio-
ne, basso costo e, considerando la varietà di materiali sui quali posso-
no funzionare, discreta efficacia [10]. La disponibilità di una grande
scelta di questi prodotti ha aperto nuove prospettive per le operazioni
di pulitura, ma al giorno d'oggi la maggior parte dei solventi organici
non rappresenta la migliore soluzione, a causa della loro tossicità e
della difficoltà di riciclo [11]. E' inoltre interessante notare come i sol-
venti con maggiore potenziale di aggressività per l'opera d'arte spesso
siano anche i più tossici per l'organismo umano [10]. Fino a pochi anni
fa il possibile rischio per la salute dell'operatore e la sicurezza
dell'ambiente di lavoro erano problemi poco considerati e sottovaluta-
ti. Ma oggi ampi settori industriali, dal punto di vista economico molto
più rilevanti del settore delle belle arti e del restauro, stanno già af-
frontando questo problema ed effettuando una parziale o completa
conversione al mezzo acquoso: si pensi ad esempio alle pitture a sol-
vente che sempre più si trasformano in pitture all’acqua.
Attualmente esistono diversi sistemi di pulitura efficaci che permetto-
10
no di ottenere ottimi risultati senza incorrere nei problemi di tossicità,
come i sistemi micellari a base acquosa e le microemulsioni (pure o
combinate con gel) (Fig. 2).
Le micelle sono aggregati di molecole in fase colloidale con proprietà
tensioattive e anfifiliche (ovvero contengono sia gruppi funzionali
idrofobici che idrofili) mentre una microemulsione è un sistema ter-
modinamicamente stabile e isotropo formato da acqua, olio e un ten-
sioattivo. L'uso di questi sistemi acquosi nanostrutturati permette di
effettuare un'operazione di pulitura controllata e selettiva e soprattutto
a bassa tossicità. Un'altra importante caratteristica è che alcuni poli-
meri, che una volta invecchiati diventano insolubili o appena solubili
nei solventi, sono spesso invece rimovibili mediante l'uso delle mi-
croemulsioni [11].
Queste soluzioni possono inoltre essere utilizzate incorporate in gel,
sistemi versatili che si adattano facilmente alla pulitura di qualunque
opera d'arte (Fig. 3).
Fig. 2: rappresentazione schematica di una micella (A) e una microemulsione olio-
in-acqua (B); le teste polari idrofiliche sono disposte verso la fase acquosa [11].
11
Fig. 3: Oratorio San Nicola al Ceppo, Firenze. Porzione dell'affresco dove sono sta-
te effettuate prove di solubilizzazione mediante microemulsioni, prima (A) e dopo
(B) l'applicazione del sistema disperso [12]
1.2 Il consolidamento
L’operazione di consolidamento ha lo scopo di ridare adesione, coe-
sione e compattezza, migliorando così la resistenza meccanica della
struttura. Il trattamento si effettua mediante l'impregnazione con un
prodotto che, penetrando in profondità, migliora la coesione del mate-
riale alterato e l'adesione fra questo ed il substrato sano.
La prassi operativa e gli studi condotti nel settore hanno permesso di
definire una serie di proprietà da richiedere al consolidante.
Esso deve avere:
• bassa forza adesiva
• buona penetrazione nella struttura decoesa
• affinità con il materiale su cui è applicato
• buona capacità d'aggregazione
• buona resistenza all'invecchiamento
Inoltre non deve:
12
• modificare la naturale permeabilità al vapore del substrato
• modificare le caratteristiche ottiche delle superfici su cui è ap-
plicato
• essere causa di proliferazione di biodeteriogeni
Nelle caratteristiche richieste ai consolidanti non si è indicata la rever-
sibilità perché, anche se il prodotto ha questa proprietà, una volta pe-
netrato nella struttura porosa dei manufatti non potrà essere rimosso in
modo completo e pertanto di fatto sarà non reversibile.
Sarebbe auspicabile invece che il trattamento eseguito possa essere ri-
petuto anche dopo diversi anni e con prodotti diversi, pertanto il requi-
sito di reversibilità potrebbe essere sostituito con quello della ritratta-
bilità [13].
Se si prende in considerazione il caso dei materiali lapidei, un buon
prodotto consolidante deve quindi venire assorbito uniformemente,
raggiungere tutto il materiale alterato, consolidarlo e collegarlo alla
pietra sana più interna senza produrre discontinuità, ma formando con
essa un “corpo” unico. Deve altresì conservare inalterati l'aspetto e i
valori cromatici del materiale originale, non deve provocare variazioni
significative di dilatazione termica, modulo elastico e permeabilità al
vapore e non deve provocare la formazione di sottoprodotti secondari
dannosi.
I consolidanti attualmente utilizzati possono essere classificati in due
gruppi, a seconda della natura chimica, cioè in consolidanti inorganici
e organici .
I primi sono composti che vengono veicolati nei pori del materiale de-
gradato in soluzione acquosa o alcolica e che, per reazione con un
componente dell’ambiente, danno luogo ad un precipitato insolubile,
che si deposita all’interno dei pori. I consolidanti organici invece sono
sostanze polimeriche, che vengono veicolate all’interno del materiale
degradato sciolte in un solvente organico e che formano un film conti-
nuo sulle pareti interne dei pori, per semplice evaporazione del solven-
13
te stesso (se termoplastici) o per reticolazione (se termoindurenti).
Tra i consolidanti inorganici, a titolo di esempio, si può citare l’idrato
di bario che, veicolato in soluzione acquosa, reagisce con l’anidride
carbonica dell’aria per formare all’interno dei pori un precipitato di
carbonato di bario, insolubile. Come sottoprodotto della reazione si
forma semplicemente acqua che evapora attraverso i pori del materia-
le. Un secondo esempio interessante è il silicato di etile, veicolato in
un solvente organico, il quale subisce una reazione d’idrolisi che porta
alla precipitazione di silice; come sottoprodotto della reazione si for-
ma alcol etilico, molto volatile.
I consolidanti organici sono invece composti polimerici, che apparten-
gono a classi diverse: polimeri acrilici, siliconici e fluorurati.
Ovviamente non esiste un consolidante ideale che abbia contempora-
neamente tutte le caratteristiche richieste, ma si dovrà di volta in volta
scegliere il consolidante più appropriato.
1.3 La protezione
L'ultima fase che conclude l'intervento di restauro è la protezione, ef-
fettuata stendendo sulle superfici prodotti chimici trasparenti e idrore-
pellenti o strati coprenti di “patinature” o d’intonaco, con lo scopo di
realizzare una superficie di sbarramento contro l’aggressione degli
agenti chimici e degli inquinanti atmosferici.
Generalmente vengono utilizzati composti polimerici che, se opportu-
namente scelti, hanno un'elevata idrorepellenza grazie all'alto valore
dell'angolo di contatto.
Le classi dei polimeri ordinariamente impiegati sono principalmente
tre: acrilici, siliconici e fluorurati. I polimeri acrilici hanno prezzi mol-
to bassi, ma qualità modeste, sia per quanto riguarda la stabilità, sia
per quanto riguarda l’idrorepellenza; i fluorurati hanno stabilità ecce-
zionale e valori dell’angolo di contatto molto elevati, ma il costo è ec-
cessivo per la maggior parte dei casi. I siliconici invece rappresentano
14
un buon compromesso tra qualità e costi [14].
E' importante che il prodotto non cambi colore con il passare del tem-
po, infatti gli obiettivi di quest’ultima operazione non sono solo di ca-
rattere conservativo ma anche estetico, dovendo in alcuni casi attenua-
re macchie, pellicole o stuccature inamovibili dal colore particolar-
mente accentuato, per raggiungere un giusto equilibrio cromatico
d’insieme [4].
15
2. La scienza della conservazione
2.1 La scienza della conservazione nel tempo
Il termine “conservazione” può avere differenti significati in differenti
campi. Si può parlare ad esempio di conservazione di libri e mano-
scritti, ma anche di conservazione dell'ambiente (ecologia). Per quanto
riguarda le opere d'arte, comunemente si considera trattamento conser-
vativo ogni intervento diretto al restauro e alla salvaguardia delle ope-
re.
Durante le ultime decadi, il contributo degli scienziati al lavoro con-
servativo del patrimonio artistico è cresciuto enormemente. L' odierno
approccio alla conservazione di un’opera d’arte infatti non può pre-
scindere dal supporto che la scienza e la tecnologia possono fornire,
sia nel caratterizzare l’opera, sia nell’intervenire per arrestarne il de-
grado ed operarne il consolidamento. Numerose tecniche sono impie-
gate, al giorno d’oggi, per analizzare i materiali che compongono un
manufatto, e per studiarne l’eventuale degrado. In questo senso, la dia-
gnostica ricopre un ruolo fondamentale nella fase preliminare di ogni
intervento di tipo restaurativo. Si è visto infatti come lo studio del de-
grado di un’opera sia indispensabile nel processo di conservazione,
durante il quale è necessario intervenire direttamente sul manufatto,
spesso in maniera invasiva, come avviene nelle fasi di pulitura e di
consolidamento. In questo contesto, le giuste conoscenze nell’ambito
della scienza dei materiali si rivelano di fondamentale importanza per
la sicurezza dell’opera.
Un importante concetto, alla base della scienza della conservazione,
prevede che nel restauro di un'opera debbano essere impiegati mate-
riali la cui natura chimico-fisica sia il più possibile simile a quella dei
materiali originali. Inoltre questi prodotti devono assicurare la massi-
ma durabilità nel tempo e l'intero trattamento deve risultare reversibi-
16
le, in modo che in qualunque momento si possa tornare allo stato
originale dell'opera d'arte (si deve cioè poter eliminare il materiale
usato per la protezione, ciò significa che alcune sostanze sono asso-
lutamente proibite, come le resine epossidiche che sono insolubili)
[15].
La prima considerazione, ovvero il concetto di compatibilità tra il ma-
teriale originale e il materiale applicato, è stata in realtà ignorata per
diversi anni in maniera più o meno consapevole in molti interventi di
restauro, producendo effetti drammatici sulle opere d'arte [16].
Nel consolidamento dei dipinti murali, ad esempio, sono stati a lungo
impiegati fissativi organici sintetici, polimeri e copolimeri vinilici o
acrilici (come il Paraloid B72), i quali presentano una notevole diver-
sità chimica e strutturale rispetto ai supporti minerali su cui sono ap-
plicati. Questi prodotti sono costituiti da polimeri ad elevato peso mo-
lecolare che formano molecole con dimensioni pari o superiori al rag-
gio dei micropori presenti nei materiali da trattare. L'azione consoli-
dante è dovuta al loro spiccato potere adesivo: penetrando attraverso i
macropori e le microfratture presenti in un manufatto decoeso essi ne
rivestono più o meno continuamente le pareti legando tra loro gli ele-
menti minerali, riducendo la permeabilità al vapore delle superfici
trattate e conferendo loro una più o meno spiccata idrorepellenza. Na-
turalmente anche le proprietà fisiche dei consolidanti organici sono di-
verse da quelle dei supporti minerali su cui sono applicati, come ad
esempio i coefficienti di dilatazione e le proprietà elastiche. Pertanto il
comportamento nel tempo della struttura trattata non è del tutto chiaro
anche per via delle molteplici varianti che possono intervenire [13].
Nonostante questo i consolidanti organici ancora oggi trovano talora
impiego e numerosi lavori ne evidenziano le caratteristiche negative: il
loro basso costo, la loro facilità d'uso e i risultati apparentemente posi-
tivi ottenuti immediatamente dopo l'applicazione possono dare una ra-
gione della loro ancora diffusa applicazione.
Inizialmente infatti una sperimentazione di Feller [17] su oggetti espo-
17
sti alla National Gallery (USA) li classificava come adatti ai Beni
Culturali in quanto non davano significative variazioni di colore e, so-
prattutto, erano considerati reversibili fino a 100 anni. Ma è facile ca-
pire che tale sperimentazione evidenziò una buona durabilità proprio
perché fu condotta su materiali esposti in ambienti museali e non
all'aperto. Recenti lavori hanno infatti confermato la scarsa stabilità e
perdita di efficacia dei polimeri acrilici dopo invecchiamenti sia artifi-
ciali che naturali [18].
Questi prodotti si alterano nel tempo variando le proprie caratteristiche
chimiche, cromatiche e meccaniche; inoltre presentando un'incompati-
bilità di base con il substrato inorganico delle opere, innescano una se-
rie di meccanismi di degrado estremamente pericolosi per la conserva-
zione del materiale originale, come la perdita di coesione tra i vari
strati del dipinto con conseguente esfoliazione o distaccamento dello
strato pittorico, fenomeni che causano una forte alterazione sia dal
punto di vista meccanico che estetico [16].
Un chiaro esempio di questo comportamento è costituito dagli affre-
schi Maya di Cacaxtla, in Messico, dove l'invecchiamento del polime-
ro acrilico (Paraloid B72) utilizzato in un precedente intervento di re-
stauro come consolidante, ha causato il danneggiamento del dipinto.
La resina polimerica acrilica consisteva in una pellicola sottile che
funzionava da collante: il dipinto sembrava tornare come nuovo per-
ché la pellicola otturava i pori e impediva la diffrazione della luce che
penetrava nelle porosità del muro e opacizzava la superficie [19]. Ma
avendo il materiale organico caratteristiche chimico-fisiche molto – se
non completamente – diverse dal supporto inorganico, la pellicola si è
degradata velocemente e il suo restringimento ha sollevato e distacca-
to lo strato pittorico, manifestando inoltre un forte ingiallimento che
ne alterava notevolmente l'aspetto estetico (Fig. 4).
In casi come questo è l'intervento stesso che distrugge l'opera d'arte. In
un luogo in condizioni climatiche temperate un affresco restaurato può
conservarsi dai 20 ai 50 anni, ma in Messico un dipinto può andare
18
perduto anche in due o tre anni.
L'invecchiamento dello strato polimerico inoltre non porta solo ai pro-
blemi sopraccitati ma altresì tende a minare l'altro punto cardine della
teoria del restauro: il concetto di reversibilità di un intervento.
Fig. 4: dipinto murale denominato “Della Battaglia” a Cacaxtla, Mexico, dopo
l'ultimo intervento di restauro. La freccia indica l'area (in basso un ingrandimento)
in cui non è stato ancora rimosso il polimero acrilico (Paraloid B72) [20]
19
Spesso, infatti, i polimeri invecchiati risultano essere solo parzialmen-
te solubili nei solventi d'elezione e questo rende particolarmente diffi-
coltoso un eventuale processo di rimozione di tali sostanze [21].
E' evidente quindi che un prodotto organico, anche se può risultare un
buon adesivo e reversibile in tempi brevi, non può considerarsi un
buon consolidante per un materiale lapideo esposto all'aperto.
I consolidanti inorganici presentano invece una notevole affinità chi-
mica e fisica con i supporti minerali, un'elevata durabilità nel tempo e,
se applicati correttamente, permettono la ripetibilità del trattamento.
La loro azione consolidante avviene generalmente attraverso la preci-
pitazione di un nuovo composto scarsamente solubile all'interno dei
pori che formano il reticolo capillare della struttura da trattare, ridu-
cendo i vuoti dovuti al degrado della matrice. La conseguente riduzio-
ne di porosità non altera sostanzialmente la struttura, la sua idrofilia e
la bagnabilità della superficie.
L'applicazione di tali prodotti presenta talvolta degli inconvenienti, ma
in linea di principio i fissativi di natura inorganica sono sempre da
preferirsi proprio in virtù delle notevoli garanzie di durevolezza e resi-
stenza agli agenti esterni.
L'idrato di calcio ad esempio è da considerarsi la sostanza consolidan-
te ottimale per tutti i materiali litoidi a matrice carbonatica (in partico-
lare gli intonaci) e ogni intervento di restauro inteso come ripristino
dello status originale dell'opera, non può, in linea di principio, prescin-
dere dall'uso di tale materiale [22].
I prodotti a base di calce infatti, carbonatandosi all'interno del materia-
le lapideo, ne ricostruiscono solidamente la micro-struttura senza
causarne le alterazioni chimiche e fisiche proprie invece dei
consolidanti organici.
Tuttavia tale tipo di consolidamento si scontra con alcune grosse pro-
blematiche: la scarsa penetrazione in profondità, la formazione di car-
bonato di calcio con scarsissimo potere consolidante e l'incompleta
carbonatazione dell'idrossido.
20
Per superare questi limiti si stanno conducendo numerose ricerche fi-
nalizzate allo studio di soluzioni alternative che permettano di conti-
nuare ad utilizzare prodotti compatibili con i materiali utilizzati nelle
opere d'arte che non comportino le grosse limitazioni date dai prodotti
a base di calce. Ad esempio un composto inorganico in fase di studio
per l'applicazione sui materiali lapidei è l’ossalato d’ammonio, che
produce una passivazione dei granuli di carbonato di calcio trasfor-
mandoli parzialmente in ossalato di calcio e conferisce al contempo
una protezione idrorepellente al supporto [22].
Anche il silicato di etile ha dato discreti risultati: la prima idea di im-
piego come consolidante per materiale lapideo risale alla metà
dell'800 con il chimico tedesco A. W. Von Hoffman [23], fino ad arri-
vare al brevetto Conservare-OH della Wacker del 1960 [18]. Questo
composto dovrebbe legarsi con legame chimico con il substrato lapi-
deo contenente gruppi -OH, quindi essenzialmente con le pietre silica-
tiche, producendo così un effetto consolidante. Vari studi ne hanno
però evidenziato diverse problematiche: la fragilità, il ritiro in fase di
asciugamento con conseguente fessurazione, la scarsa efficacia con
substrati carbonatici e infine un comportamento molto discusso con i
materiali argillosi (sia nelle pietre carbonatiche che in quelle silicati-
che).
Soluzioni interessanti sembrano essere offerte dal settore delle nano-
tecnologie, un campo relativamente nuovo e ancora in fase di appro-
fondimento, ma che sta dando ottimi risultati sia nel restauro architet-
tonico che nelle applicazioni in edilizia. Nei trattamenti di na-
noparticelle, infatti, nonostante la chimica sia la stessa di quelli tradi-
zionali, grazie alle dimensioni nanometriche le proprietà e i comporta-
menti della materia cambiano, e non comportano le limitazioni e le
problematiche riscontrate invece con i metodi tradizionali.
21
3. Le nanotecnologie
3.1 Nanoscienza e nanotecnologia: potenzialità e sviluppo
La nanotecnologia ha come fine il controllo e la manipolazione della
materia sulla scala nanometrica, per arrivare allo sfruttamento delle
proprietà che si manifestano su tale scala.
La nanostrutturazione è sempre esistita in natura e in effetti quest'ulti-
ma sta molto a cuore ai nanotecnologi: nei suoi quattro miliardi di
anni di esistenza infatti la natura ha trovato soluzioni sorprendenti ai
suoi problemi, primo fra tutti la capacità della materia vivente di auto-
strutturarsi fino al livello più fine per ottenere proprietà assolutamente
nuove. Questo è precisamente quello che vogliono fare anche i nano-
tecnologi.
Il fiore di loto ad esempio (Figg. 5-7) mantiene pulite le sue foglie
grazie alla loro nanostruttura ruvida: queste foglie sono infatti rivestite
da cristalli di una cera idrofobica di dimensioni nanometriche; in que-
sta scala le superfici ruvide risultano più idrofobiche di quelle lisce,
quindi le goccioline d'acqua scorrono via dalla superficie senza aderir-
vi.
Fig. 5: nanostrutturazione di una foglia di loto [24].
22
L’effetto loto è stato studiato approfonditamente dal professor Bar-
thlott e dai suoi collaboratori dell’università di Bonn [25], ed è già sta-
to infatti utilizzato in una gamma di prodotti, come le pitture per ester-
ni su cui l’acqua scivola via portando con sé lo sporco. Inoltre è molto
facile mantenere pulite le ceramiche sanitarie dotate di una struttura a
loto.
Fig 6: la foglia di loto e la sua capacità idrorepellente: l'acqua che arriva in contatto
con la foglia non la bagna, ma forma delle gocce che rotolano fino a cadere [26].
Fig. 7: goccioline d'acqua su una foglia di loto viste con un microscopio elettronico
speciale (ESEM) all’università di Basilea [26].
23
Nel mondo animale il geco è un altro esempio di nanostrutturazione:
questi animali possono arrampicarsi sui muri, correre a testa in giù sul
soffitto e persino rimanervi aggrappati con una zampa sola. Riescono
a fare tutto questo grazie alla nanostrutturazione dei loro polpastrelli,
ricoperti di peli finissimi talmente adattabili che possono avvicinarsi a
qualche nanometro dal supporto, ricoprendo superfici molto ampie. A
quel punto entra in gioco il cosiddetto legame di Van der Waals, una
forza debolissima ma che moltiplicata per i milioni di punti di aderen-
za sostiene il peso del geco. Il legame si scioglie facilmente per “spel-
latura”, nello stesso modo in cui si stacca un nastro adesivo (Fig. 8).
Fig. 8: piede del geco osservato a diversi livelli di ingrandimento tramite
Microscopio Elettronico a Scansione (SEM): ogni dito è costituito da una serie di
setole chiamate setae (C), ciascuna delle quali (D) possiede da 100 a 1000
diramazioni chiamate spatulae (E) [28]
24
Le prospettive rivoluzionarie associate alle nanotecnologie derivano
dal fatto che, come detto, a questi livelli di dimensioni, comportamenti
e caratteristiche della materia cambiano drasticamente; così i metalli
diventano semiconduttori o isolanti, e alcune sostanze, come il telluru-
ro di cadmio (CdTe), nel nanocosmo sono fluorescenti, in tutti i colori
dell’iride, mentre altre convertono la luce in corrente elettrica. Per
questo le nanotecnologie rappresentano un modo radicalmente nuovo
di produrre per ottenere materiali, strutture e dispositivi con proprietà
notevolmente migliorate o del tutto nuove [29].
Le applicazioni di questo settore sono diventate ormai sempre più nu-
merose e grazie ai risultati fortemente incoraggianti si ritiene che uno
dei più importanti campi di ricerca delle prossime decadi sarà proprio
lo studio delle proprietà e della sintesi dei materiali nanostrutturati
[30].
Le nanotecnologie solitamente vengono considerate implicate princi-
palmente in elettronica e nella miniaturizzazione dei sistemi, ma in
realtà sono diffuse e contribuiscono praticamente in tutti i settori pro-
duttivi [31].
Lo sviluppo negli ultimi anni della nanoscienza ha aperto infatti la
possibilità a differenti aree scientifiche della fisica, chimica, biologia,
geologia, medicina o ingegneria di applicare le nuove proprietà dei
materiali, tanto a livello funzionale quanto strutturale.
Negli anni 2000 la ricerca applicata sui materiali nanostrutturati, o na-
nomateriali, inizialmente limitata ai soli settori aerospaziale e biome-
dico, ha cominciato ad interessare in maniera crescente anche il campo
dei prodotti per l'edilizia. Anche in questo settore infatti cominciano
ad essere impiegate varie tipologie di prodotti innovativi che sfruttano
le proprietà peculiari delle nanostrutture.
Questa nuova scienza ha suscitato un alto interesse, dovuto alle nuove
applicazioni dei materiali che precedentemente non erano utilizzabili,
giacché a scala nanometrica il comportamento degli stessi si modifica
in seguito alla riduzione della dimensione delle particelle.
25
Negli ultimi anni nel settore edilizio cominciano a essere utilizzate di-
verse tipologie di nanocompositi, con matrice organica (polimerica) o
inorganica (cementizia o vetrosa) alla quale mediante processi chimici
vengono legate nanopolveri o nanoparticelle anch'esse a base inorga-
nica (ossidi metallici o ceramica) o organica (carbonio). È inoltre pos-
sibile rivestire mediante coating nanostrutturati molti materiali comu-
nemente impiegati nelle costruzioni, selezionando la tipologia di rive-
stimento in base alle prestazioni specifiche richieste.
Anche nel campo del restauro le applicazioni delle nanotecnologie
sono numerose: si è visto infatti come in questo settore sia diffusa or-
mai l'opinione e più che consolidata la teoria sull'impiego di materiali
che, seppur prodotti industrialmente, abbiano il più elevato grado pos-
sibile di compatibilità con quello esistente "storico". Per questo i na-
nomateriali offrono un'ottima soluzione e opportunità d'impiego, intro-
ducendo nella scienza della conservazione del patrimonio culturale
nuovi prodotti che migliorano le proprietà di protezione e consolida-
mento dei materiali, con vantaggi molto superiori ai trattamenti tradi-
zionali [32].
L’utilizzo di particelle nanodimensionate consente infatti di modifica-
re le proprietà di superficie, impartendo nuove funzioni al substrato
trattato. Questo perché le nanoparticelle presentano caratteristiche chi-
miche e strutturali specifiche che stando in contatto con la superficie
di differenti materiali, che siano essi pietra, dipinti murali, legno o me-
talli, possono produrre reazioni con i costituenti propri dei materiali
modificando la superficie degli stessi. L'insieme delle proprietà con-
temporaneamente apportate permettono poi al materiale trattato di rag-
giungere una serie di prestazioni per ognuna delle quali attualmente si
utilizza un idoneo prodotto chimico, il che si traduce quindi anche in
un minor numero e un più basso costo delle applicazioni.
La nanotecnologia apre quindi la possibilità di poter applicare tratta-
menti specifici per i materiali che costituiscono il patrimonio cultura-
le: può migliorare la penetrazione dei trattamenti, favorire la idrore-
26
pellenza dei materiali, aumentare la coesione dei suoi componenti,
evitare la colonizzazione dei microrganismi, e in definitiva, dare ai
beni culturali una maggiore durabilità o capacità di resistenza rispetto
agli agenti di deterioramento.
Le grandi incognite legate all’utilizzo di tali materiali riguardano la
stabilità nel tempo delle reazioni chimiche prodotte sulla superficie,
l’eventuale rilascio di sostanze tossiche nel lungo periodo, i livelli di
sostenibilità nei processi produttivi su scala industriale e le modalità di
dismissione. Sono stati infatti lanciati avvertimenti sugli effetti scono-
sciuti che le nanoparticelle possono provocare sulla salute umana e
sull’ambiente, al punto che in molti hanno chiesto che la ricerca nano-
tecnologica sia accompagnata da studi sull’ecotossicologia [32].
3.2 I nanomateriali: caratteristiche e proprietà
Un nanomateriale si definisce come quel materiale con almeno una
delle sue dimensioni sia nell'intervallo 1-100 nanometri (un nanometro
è la milionesima parte del millimetro). Le proprietà peculiari di tali
materiali risiedono proprio nelle caratteristiche a livello nanodimen-
sionale. Al di sotto dei 100 nanometri infatti, la percentuale di atomi
di superficie di un corpo diventa sempre più significativa fino a predo-
minare su quella degli atomi interni quando la dimensione è assai
prossima al nanometro. Nei materiali nanostrutturati diventano allora
fondamentali forze come quelle di tensione superficiale e di Van Der
Waals, mentre perdono di importanza altre forze, come ad esempio
quella di gravità.
Questa condizione fisica permette di ottenere proprietà e caratteristi-
che nuove, singolari, che non si erano mai viste nei materiali comuni,
come l'alta reattività e il controllo e la modulazione della reattività e
delle proprietà mediante il controllo della forma delle particelle [20].
Ma poiché in un solido le proprietà macroscopiche sono strettamente
correlate a quelle microscopiche, anche alla macroscala è possibile
27
sfruttare le particolari caratteristiche proprie degli atomi di superficie
(in termini di contenuto di energia, proprietà termiche, proprietà mec-
caniche, ecc.).
La nanostrutturazione inoltre conferisce miglior resistenza al logora-
mento e alta densità ai materiali che richiedono una resistenza molto
alta.
Nei trattamenti conservativi si utilizzano spesso soluzioni ed emulsio-
ni basate sulle nanoparticelle, al fine di risolvere o prevenire i proble-
mi connessi al deterioramento delle superfici nei beni culturali.
Per questo motivo è stata fondamentale e strategica l'implementazione
dell'applicazione di nanoparticelle su superfici deteriorate per miglio-
rare il consolidamento e la pulitura delle stesse.
3.3 Tecnologie di produzione dei nanomateriali
Ad oggi le sperimentazioni in ambito edilizio riguardano diverse tipo-
logie di prodotti: i materiali fotocatalitici rappresentano il settore
maggiormente sviluppato, con le malte cementizie autopulenti, le pia-
strelle, le ceramiche, le vernici e i vetri basati sul trattamento con bios-
sido di titanio; seguono i compositi fibrorinforzati nanostrutturati, che
permettono la realizzazione di strutture leggere e resistenti, le vernici e
i rivestimenti nanostrutturati antiusura e anticorrosione, e i vetri foto-
cromici e termocromici con nanoparticelle [33].
I processi di lavorazione dei nanomateriali sono di natura complessa e
richiedono un accurato controllo al fine di ottenere le prestazioni ri-
chieste. Nel caso dei nanocompositi una delle principali difficoltà ri-
siede nell’attitudine delle nanoparticelle ad aggregarsi in forme cristal-
line di dimensioni micrometriche per ridurre la propria energia libera
di superficie.
È necessario che le cariche siano disperse uniformemente nella matri-
ce e che ciascuna presenti le medesime caratteristiche di forma, di-
mensione e composizione, contribuendo alla stessa maniera al rag-
28
giungimento delle proprietà finali del composito (la forma delle na-
noparticelle, ad esempio, risulta fondamentale per aumentare la resi-
stenza meccanica del materiale secondo direzioni preferenziali).
A seconda della tipologia di materiale nanostrutturato da ottenere si
può operare seguendo diversi processi di lavorazione.
Un primo metodo, denominato top-down (Fig. 9), consiste essenzial-
mente in un approccio fisico che permette di creare strutture molto
piccole (di dimensioni nanometriche appunto) mediante la lavorazione
di un pezzo più grande, ovvero di un solido di dimensioni discrete. Il
processo più comune è basato su tecniche di miniaturizzazione me-
diante litografia a fasci di elettroni, ioni o raggi X, che tendono a ri-
durre progressivamente le dimensioni dei reticoli cristallini. Attual-
mente tuttavia i metodi di miniaturizzazione non sono in grado di pro-
durre nanostrutture con una dimensione inferiore ai 100 nm per limita-
zioni legate principalmente alla capacità di focalizzazione dei fasci.
L’altro approccio è quello bottom-up (Figg. 9-10), di tipo chimico, in
cui la nanostruttura è generata per addizioni successive di atomi, con
una tecnica basata principalmente sull’attivazione di processi chimici
(ad esempio con tecniche sol-gel o di deposizione chimica da vapore).
A questo scopo viene sfruttata la capacità che hanno certi atomi o mo-
lecole di autoassemblarsi in ragione della loro natura e di quella del
substrato. I metodi nanochimici consentono il controllo della dimen-
sione delle strutture fin da un livello atomico o molecolare e appaiono
oggi i più adeguati per la produzione di quantità elevate di materiale
nanostrutturato, anche perché sembra matura la possibilità di un tra-
sferimento della produzione su scala più ampia.
Ovviamente le nanoparticelle o i materiali nanostrutturati che si otter-
ranno dovranno essere adeguati al tipo di applicazione per cui sono
stati prodotti, ma in linea generale ci sono alcune caratteristiche comu-
ni che i materiali devono avere per la realizzazione di nanocompositi:
– misura identica di tutte le particelle (particelle monodimensio-
29
nali o particelle con distribuzione di misura uniforme)
– identica forma e morfologia
– identica composizione chimica e struttura cristallina desiderate
tra differenti particelle e dentro le particelle individuali, così
come il nucleo e la composizione superficiale devono essere gli
stessi
– particelle monodisperse (disperse individualmente), senza ag-
glomerazione. Se l'agglomerazione accade, le nanoparticelle
dovrebbero essere immediatamente ridispersibili
Fig. 9: illustrazione degli approcci top-down (in alto) e bottom-up (in basso) [34].
30
Fig. 10: tecnica bottom-up: a sinistra, nanoparticelle di idrossido di calcio di un
prodotto commerciale sintetizzato; a destra, nanoparticelle ottenute mediante piro-
lisi spray [32].
Nell'ambito della scienza della conservazione l'utilizzo delle
nanoparticelle di differenti elementi chimici ha fornito uno strumento
di trattamento dei materiali nel restauro.
La Tab. 1 riassume i principali trattamenti applicati in differenti beni
del patrimonio artistico.
Prodotto Applicazioni
Ca(OH)2, Mg(OH)2 Consolidamento di rocce calcaree, marmi,
malte, etc. tele pittoriche, legno, carta
Sr(OH)2 Eliminazione dei sali in pietra e pitture murali
Ferrite Trattamenti di pulitura sulle tele
SiO2 Consolidamento delle rocce silicatiche e delle
malte
TiO2, MgO, PdO, ZnO, Ag BiocidiTab. 1: nanoparticelle applicate in differenti materiali del patrimonio culturale [34].
Nei capitoli successivi verranno approfondite le applicazioni e le
proprietà dei quattro principali gruppi di nanomateriali:
– nanocalce
– nanobiossido di titanio
– nanosilice
– nanoidrossido di stronzio
31
4. Le nanocalci e le nuove frontiere per il restauro
4.1 Cenni storici sull'uso della calce nel patrimonio culturale
Storicamente, la calce è stata usata da tutte le civiltà di ogni epoca e
ogni area geografica. Sia in soluzione satura (acqua di calce) che in
sospensione (latte di calce), viene da sempre impiegata nei trattamenti
consolidanti e protettivi di superfici architettoniche a matrice carbona-
tica (intonaci, affreschi, dipinti murali, materiali lapidei, etc.) con ri-
sultati eccellenti. Non è ancora chiaro quando iniziò l'uso della calce
nelle malte, ma ne sono stati trovati antichi esempi nell'area mediterra-
nea. Uno dei primi usi documentati della calce come materiale da co-
struzione è datato 4000 a.C., quando gli Egizi la usarono per intonaca-
re le piramidi [35]. Questa tecnologia era usata anche nell'età classica
da Greci e Romani, dai Mesoamericani nell'epoca precolombiana, e si
diffuse largamente anche in Oriente durante i secoli.
La calce si ottiene per cottura di rocce calcaree ad alte temperature
(900°C) producendo, mediante la decomposizione termica del mate-
riale e l'eliminazione del diossido di carbonio, masse porose di ossido
di calcio conosciute come calce viva.
CaCO3→CaO+CO2
Queste masse vengono fatte reagire con l'acqua formando idrossido di
calcio (calce spenta) sotto forma di polvere di calce o grassello di cal-
ce, a seconda della quantità d'acqua usata.
CaO+H 2 O→Ca(OH )2
La mescolanza dell'idrossido di calcio con un aggregato (solitamente
sabbia) e l'aggiunta di acqua forma la malta. L'aggregato è necessario
32
per evitare fessurazioni in fase di asciugatura, inoltre conferisce durez-
za alla malta. La durezza e la resistenza meccanica finali della malta
sono dovute al processo di carbonatazione dell'idrossido di calcio che,
lentamente, reagisce con l'anidride carbonica dell'aria per formare il
carbonato di calcio.
Ca(OH )2+CO2→CaCO3+H 2 O
Le calci idrauliche hanno rimpiazzato parzialmente le ordinarie malte
di calce a partire dalla metà del diciottesimo secolo; queste ultime fu-
rono poi completamente abbandonate con lo sviluppo del cemento
Portland (brevetto di Joseph Aspdin, costruttore inglese, 1824). Questa
tendenza fu certamente favorita dalle ben note difficoltà associate con
l'uso delle malte di calce, come i lunghi tempi di presa e la scarsa du-
rata in condizioni di umidità. Inoltre, a causa della loro bassa resisten-
za meccanica, le malte di calce sono maggiormente inclini al degrado
a causa dei processi di cristallizzazione dei sali.
Il processo di carbonatazione veniva sfruttato anche nel caso degli af-
freschi, che costituiscono una grande parte del patrimonio culturale ar-
tistico del passato. Gli affreschi sono dipinti murali realizzati su into-
naco fresco a base di calce aerea (idrossido di calcio) e sabbia. Si rea-
lizza dipingendo con pigmenti di origine minerale stemperati in acqua:
una volta che nell'intonaco si sia completato il processo di carbonata-
zione, il colore ne è completamente inglobato, acquistando così parti-
colare resistenza all'acqua e al tempo.
Generalmente un affresco si compone di tre elementi: supporto, into-
naco, colore. (Fig. 11)
Il supporto, di pietra o di mattoni, deve essere secco e senza dislivelli.
Prima della stesura dell'intonaco, viene preparato l'arriccio, una malta
composta da una miscela di calce Ca(OH)2 (detta grassello) e grosse
particelle di sabbia di fiume o, in qualche caso, pozzolana, in un rap-
33
porto in volume di una parte di calce ogni tre di sabbia. Viene steso in
uno spessore di 1 cm circa al fine di rendere il supporto più uniforme
possibile [36].
Fig. 11: rappresentazione della stratigrafia di un affresco [20]
Dopo l'indurimento di questo strato dovuto alla carbonatazione del
grassello (Figg. 12-13) , viene depositato l'intonaco, l'elemento più
importante dell'intero affresco. È composto di un impasto più ricco in
grassello e contiene sabbia molto più fine di quella impiegata
nell'arriccio in un rapporto in volume di uno ad uno o inferiore a uno
rispetto al grassello.
Il colore, che deve appartenere alla categoria degli ossidi per non inte-
ragire con la reazione di carbonatazione della calce, è obbligatoria-
mente steso sull'intonaco ancora umido (da qui il nome “a fresco”).
Questa fase rappresenta la principale difficoltà per l'affrescatore, in
quanto deve lavorare in tempi stretti prima che l'intonaco asciughi.
Per ovviare a questo problema, l'intonaco viene applicato a zone dette
giornate e dipinto mentre è ancora fresco, in modo che i pigmenti, di-
spersi in acqua, siano fissati durante l'indurimento dell'intonaco.
34
Colore/Strato pittorico
Intonaco
Arriccio
Supporto
Supporto Arriccio Intonaco
Fig. 12: rappresentazione del processo di presa di un intonaco per perdita d'acqua e
carbonatazione [20]
Fig. 13: contrazione dell'intonaco durante la disidratazione per evaporazione
dell'acqua [20]
35
L'uso di soluzioni di idrossido di calcio nelle pratiche manutentive
delle superfici architettoniche è ormai largamente documentato, ma il
loro uso inizialmente non era finalizzato al consolidamento delle su-
perfici dei materiali su cui erano applicate.
Solo nel recente passato la possibilità di utilizzarle per il consolida-
mento di superfici affrescate e materiali lapidei è stata valutata con
grande interesse, tanto che i trattamenti alla calce possono essere an-
noverati tra i metodi tradizionali più diffusi in Inghilterra [37].
I trattamenti con acqua di calce, soluzioni di carbonato di calcio e so-
luzioni sature di bicarbonato di calcio, avvenivano attraverso ripetute
applicazioni. L'applicazione d'idrossido di calcio era effettuata con so-
luzioni calde, bagnato su bagnato. Per poter raggiungere un effetto
consolidante erano richieste molte applicazioni che tenevano costante-
mente bagnate le superfici dipinte dando luogo però a diversi inconve-
nienti, dovuti essenzialmente alla scarsa solubilità dell'idrossido di
calcio in acqua (1.7 g/l a 20°C). Inoltre l'eccessivo apporto d'acqua
nella struttura, determinato dal trattamento, può causare la migrazione
di sali verso la superficie e innescare altri degradi. L'effetto consoli-
dante viene quindi meno, oltre che per la mancata penetrazione, anche
per la naturale bassa concentrazione d'idrossido di calcio nella solu-
zione, e il trattamento dunque può non corrispondere alle attese.
Queste soluzioni e i modi d'applicazione presentano quindi dei grossi
limiti. L'aspetto però interessante nell'utilizzo dell'acqua di calce era la
volontà di integrare i difetti coesivi delle superfici a matrice carbonati-
ca con lo stesso legame utilizzato nella tecnica artistica esecutiva.
Per superare queste problematiche sono state messe a punto ulteriori
metodologie di intervento, studiate sempre nel rispetto della filosofia
che sta alla base della scienza della conservazione, come il Metodo
Ferroni-Dini e i sistemi nanofasici.
36
4.2 Il metodo Ferroni – Dini (o Metodo del Bario)
Le pitture murarie si deteriorano perché il carbonato di calcio in cui
sono imprigionati i pigmenti si degrada col passare del tempo, trasfor-
mandosi, per esempio, in solfato. Questa alterazione nella composizio-
ne chimica è causata principalmente dall'acqua, dall'aggressione di sali
e dall'inquinamento atmosferico che si infiltra nella matrice porosa del
muro [19].
La contaminazione dei sali nei dipinti è una delle cause più frequenti
di deterioramento. Tra i possibili sali che si possono formare, i solfati
sono sicuramente tra i più comuni e dannosi. La loro formazione è do-
vuta alla degradazione chimica del carbonato di calcio a causa degli
inquinanti acidi, della risalita per capillarità dal terreno, o della pre-
senza di solfobatteri.
La pericolosità dei solfati consiste nel fatto che possono cristallizzare
in diversi stati di idratazione e quindi con volumi molto diversi. La
formazione di nuovi cristalli nei pori o all'interfaccia tra il dipinto e
l'intonaco genera tensioni meccaniche che possono avere come conse-
guenza sollevamenti e distacchi dello strato pittorico (Fig. 14), polve-
rizzazione in superficie, opacizzazione della superficie dipinta, crepe e
fessurazioni dell'intonaco [38]. Infatti le forti pressioni sulla struttura
porosa possono rompere l'intonaco in più punti fino a formare dei veri
e propri crateri.
Perciò, oltre a rappresentare un sintomo di un processo di degradazio-
ne chimica già avvenuta, i solfati favoriscono ulteriori deterioramenti
a causa delle sopramenzionate tensioni meccaniche.
Gli effetti della cristallizzazione dei sali sono solitamente fortemente
amplificati se non è presente nessuno strato protettivo, generalmente
applicato in precedenti trattamenti di restauro. Si è già visto come in
passato i polimeri, principalmente resine acriliche e viniliche, siano
stati largamente usati per consolidare i dipinti murali e conferire prote-
zione e idrorepellenza allo strato pittorico, con risultati però spesso
37
peggiorativi. I materiali inorganici invece, specialmente se dello stesso
tipo usato nelle opere d'arte, sono perfettamente compatibili con i di-
pinti murali, minimizzano i suddetti rischi e prevengono inaspettati ef-
fetti collaterali. Questo perché i consolidanti inorganici sono altamente
stabili chimicamente e mantengono la porosità del dipinto, in modo da
assicurare effetti di consolidamento a lungo termine.
Fig 14: Piero della Francesca: particolare de La Leggenda della vera Croce, Chiesa
di San Francesco, Arezzo [39].
Si è visto come l'idrossido di calcio sia la sostanza consolidante ideale
per tutti i materiali a matrice carbonatica (in particolare gli intonaci, e
quindi gli affreschi). Ma l'impiego di calce nel restauro di intonaci af-
frescati si è sempre scontrata con problemi insormontabili, rendendo
così necessari ulteriori studi e ricerche per la messa a punto di nuove
metodologie d'intervento.
Una di queste è il procedimento comunemente indicato come “metodo
del bario”, una tecnica di consolidamento “in situ” di affreschi che
venne messa a punto, nella sua versione più diffusa, da Enzo Ferroni
(Professore di Chimica nell'allora Istituto di Chimica Fisica dell'Uni-
versità di Firenze) e il restauratore Dino Dini, a Firenze negli anni ’60
[22].
I numerosi risultati sperimentali ottenuti furono presentati per la prima
volta nel 1969 ad Amsterdam, alla conferenza internazionale
38
dell'ICOM [40].
L’utilizzo del bario, ovvero dell’idrossido di bario in soluzione acquo-
sa, era già stato sperimentato in passato, ma il metodo Ferroni-Dini in-
trodusse elementi di novità e specificità, favorendone una diffusione
ampia ed un riscontro positivo che, a distanza di molti anni, lo accre-
dita tra i sistemi più compatibili e durevoli.
Il metodo consiste in una tecnica di consolidamento chimico-struttura-
le che opera il risanamento dai fenomeni di cristallizzazione dei sali,
realizzando però anche una stabilizzazione della struttura dell'intonaco
e la rigenerazione del legante naturale dello strato pittorico, ovvero il
carbonato di calcio [22]. Quindi agisce in due direzioni: da una parte
risolve il problema del degrado dei dipinti ad opera dei solfati,
dall'altro consente di consolidare l'opera d'arte.
La sua caratteristica principale sta nella compatibilità chimico-fisica
che esiste tra la soluzione di idrossido di bario inorganico e la matrice
minerale che caratterizza i dipinti murali realizzati con la tecnica del
"buon fresco".
In tal modo essa rappresenta un’alternativa sostanziale ai trattamenti
storicamente adottati nel restauro basati sull’impregnazione dei manu-
fatti con colle di origine animale, olii vegetali, uovo e, in tempi più re-
centi, film di resine sintetiche, che in genere mostrano doti di compati-
bilità e durabilità alquanto modeste.
La solfatazione dei dipinti è dovuta principalmente alla lenta trasfor-
mazione del legante CaCO3 in solfato di calcio bi-idrato
CaSO4⋅2H2 O ovvero gesso, un agente di degrado molto frequente e
dannoso per i dipinti murali, dato che può provocare imbianchimenti o
piccole bolle che distruggono la trasparenza dei colori e causano la de-
coesione dello strato pittorico (Fig. 15).
La differenza nella patina di solfato di calcio bi-idrato è dovuta alla
porosità dell'intonaco su cui l'artista dipinge.
Beato Angelico ad esempio (Fig. 15, a sinistra) era solito preparare un
39
intonaco ben compatto, usando sabbia molto fine e una malta ricca in
calce spenta, mentre Sogliani (Fig. 15, a destra) non aveva la stessa
cura nella preparazione dell'intonaco, che era ottenuto mediante sab-
bia grezza e un contenuto più basso di calce spenta.
Fig. 15: due differenti tipi di solfatazione sui dipinti murali: a sinistra, piccole bolle
sul viso di S. Domenico nel dipinto S. Domenico in adorazione del Crocifisso di
Beato Angelico (XV secolo) nel Chiostro di S. Marco a Firenze; a destra, imbian-
chimento omogeneo su un particolare del dipinto L'ultima cena di G. A. Sogliani
(XVI secolo) nel Refettorio di San Marco a Firenze [39].
La differente composizione dell'intonaco produce una porosità diversa
nei due muri: l'affresco di Sogliani infatti ha una porosità più alta e
pori più grossolani rispetto a quello di Beato Angelico. I nuclei di ges-
so possono crescere omogeneamente e prendere la forma di larghi pori
nel caso di un intonaco poroso, mentre negli affreschi con una porosità
ridotta i nuclei di solfato di calcio sono costretti a crescere perpendico-
larmente alla superficie esterna formando solo piccole bolle [41].
Chimicamente la formazione del gesso è dovuta all'azione combinata
tra il legante (il carbonato di calcio), e gli ossidi di zolfo (SOX) prove-
nienti dall'inquinamento atmosferico. Questo meccanismo di degrado
40
può manifestarsi in seguito a due differenti reazioni, ad esempio nel
caso dell'anidride solforosa [42]:
(1) CaCO3+SO2atm
+acqua→CaSO3⋅xH 2 O+CO2
CaSO3⋅2H2O+1/2 O2atm
+acqua→CaSO4⋅2H2 O
(2) SO 2atm
+1/2O 2atm
+H 2 O→H 2 SO4
CaCO3+H 2 SO4+acqua→CaSO 4⋅2 H 2 O+CO2
I due schemi non sono rappresentativi di tutti i passaggi della reazio-
ne, ma spiegano perché il degrado degli affreschi è drammaticamente
aumentato negli ultimi cinquant'anni, in corrispondenza cioè
dell'aumento dell'inquinamento atmosferico, e in particolare delle par-
ticelle sospese in atmosfera dovute ai processi di combustione.
Dalle reazioni si evince come nella struttura il solfato di calcio si so-
stituisca al carbonato di calcio, ed avendo un volume quasi doppio le
tensioni che crea fanno si che il pigmento spolveri o cada in scaglie.
Fino a trent'anni fa, quando la solfatazione contaminava un dipinto, i
restauratori adottavano la drastica soluzione di staccare l'affresco dal
muro, con il grande svantaggio di perdere irreversibilmente una consi-
stente quantità di pigmenti (in alcuni casi fino al 30-40%) durante il
distacco. Questo poteva essere evitato usando colle o adesivi organici,
ma questa procedura solitamente introduceva sostanze incompatibili
con l'affresco, che potevano danneggiare potenzialmente il dipinto.
Dopo l'alluvione di Firenze del 1966, il fenomeno del degrado delle
opere d'arte aumentò drammaticamente: l'evento catastrofico produsse
danni comparabili a cent'anni di invecchiamento. Questa circostanza
aprì gli occhi agli scienziati che offrirono il loro contributo al fine di
risolvere la maggior parte delle situazioni più difficili nel restauro.
Fu proprio in quegli anni che Enzo Ferroni e Dino Dini svilupparono
un nuovo metodo per la rimozione del gesso dagli affreschi senza do-
41
verli staccare dal supporto.
Ferroni e Dini partirono dal presupposto che se il composto originale
si era trasformato [Eq. (1) – (2)] vuol dire che del carbonato di calcio
era andato perduto, quindi era necessario ricostituirlo là dove non c'era
più.
Il metodo consiste nell'applicazione di impacchi con soluzioni acquose
di carbonato di ammonio (NH4)2CO3 e di idrossido di bario Ba(OH)2
tramite due passaggi successivi [Eq. (3) - (7)].
Il primo prodotto [Eq. (3)] permette di riottenere in maniera completa,
per reazione di doppio scambio con il solfato di calcio (gesso), il car-
bonato di calcio CaCO3 (che però non è legante, in quanto da questa
reazione esso si produce sotto forma di polvere che si deposita sulle
cavità formate dal degrado senza però riempire i vuoti provocati dal
maggior volume molare del gesso) e garantisce la conversione del sol-
fato di calcio in solfato di ammonio (NH4)2SO4, che è un prodotto
estraneo ai materiali originali e può dare efflorescenze, ma risulta so-
lubile in acqua e può quindi essere lavato via; infatti solitamente viene
assorbito dalla polpa di carta usata per l'applicazione della soluzione
di carbonato di ammonio. In alcuni casi (affreschi ricoperti di fuliggi-
ne e altre polveri), prima di procedere con l'applicazione del prodotto,
si effettua una pulitura preventiva con acqua deionizzata; altrimenti,
l'uso diretto del carbonato d'ammonio porterebbe alla solubilizzazione
delle impurità, che, veicolate dall'acqua, migrerebbero irrimediabil-
mente all'interno della struttura capillare muraria, provocando macchie
e variazioni cromatiche sulla superficie dipinta. L’impacco va confe-
zionato rigonfiando della polpa di carta (o pasta di legno, fibra di cel-
lulosa pura in fiocchi) con la soluzione di carbonato d’ammonio e
pressando l’impasto ottenuto sul supporto con l’interposizione di carta
di riso. La concentrazione della soluzione cambia, secondo le condi-
zioni dell'affresco, sino a soluzione satura, ed è stabilita in base a pic-
coli saggi che consentono di individuare il grado di assorbimento della
muratura.
42
(3) (NH 4)2CO3+CaSO4⋅2H2O→(NH 4)2 SO4+CaCO3+2H2 O
(4) (NH 4)2 SO4+Ba (OH )2→BaSO4+2NH3+2H2 O
(5) Ba(OH )2+CO2→BaCO3+ H 2O
(6) Ba(OH )2+CaCO3→Ca(OH )2+BaCO3
(7) Ca(OH )2+CO2→CaCO3+H 2 O
Il secondo prodotto invece, applicato in forte eccesso mediante com-
presse di pasta di legno - per eliminare con sicurezza il solfato
d'ammonio - converte quest'ultimo in solfato di bario BaSO4 (sale
inerte, insolubile e non idratabile, non dannoso, che cristallizza e rima-
ne nelle cavità) [Eq. (4)] ed opera il consolidamento del substrato
inorganico tramite due distinti e concomitanti processi chimici: in un
primo momento si ha la graduale e lenta formazione per azione della
CO2 di carbonato di bario BaCO3 [Eq. (5)], inerte e insolubile, che
precipita gradualmente tra i cristalli di carbonato di calcio dell'intona-
co saldandoli con una struttura del tutto analoga, riempiendo quindi gli
interstizi formatisi a causa del degrado; il loro coefficiente di dilata-
zione termica è simile e la solubilità in acqua del BaCO3 è praticamen-
te nulla; in un secondo momento si ha la parziale formazione ex novo
di portlandite o idrossido di calcio Ca(OH)2 [Eq. (6)], per azione
dell'idrossido di bario Ba(OH)2 in eccesso che reagisce molto lenta-
mente con il carbonato di calcio CaCO3 non più legato all'intonaco.
Questa “nuova” calce così formatasi in situ funziona da nuovo legante
originando una nuova presa per carbonatazione [Eq. (7)] e miglioran-
do la resistenza meccanica del dipinto [43].
La compatibilità cristallografica tra il calcio carbonato e il bario car-
43
bonato garantisce la stabilità del consolidamento.
Naturalmente, come per tutti i consolidanti inorganici, non è possibile
saldare lacune macroscopiche: per l'idrossido di bario si è osservato un
limite massimo di 50 μm.
Il funzionamento di questo metodo è stato confermato da analisi
diffrattometriche [44] e impiegato con successo principalmente in
Toscana dall'Opificio delle Pietre dure ed è tuttora utilizzato. Tra le
applicazioni più note si possono citare gli interventi di restauro sugli
affreschi del Beato Angelico (Firenze, Convento di San Marco, Figg.
16-17), di Piero della Francesca (Arezzo, Basilica di San Francesco) e
del Ghirlandaio (Firenze, Santa Maria Novella) [16].
L’applicazione principale riguarda comunque il consolidamento degli
intonaci affrescati degradati in seguito al fenomeno dalla solubilizza-
zione e cristallizzazione dei sali solubili. Tale degrado, imputabile in
gran parte, come già indicato, alla formazione del solfato di calcio per
interazione con gli inquinanti dell’atmosfera, produce fenomeni di sol-
levamento, frammentazione e perdita del film pittorico, oltre che dello
strato più superficiale dell'intonaco.
Fig. 16: affresco del Beato Angelico restaurato con il Metodo del Bario [16]
44
Fig. 17: immagini dell'affresco “S. Domenico in adorazione del Crocifisso” di Bea-
to Angelico prima (a sinistra) e dopo (a destra) l'applicazione del metodo Ferroni-
Dini [20]
In alcuni casi il consolidamento diretto con idrossido di bario si appli-
ca anche nella conservazione di patine artificiali che si intende mante-
nere (es. decorazioni policrome), ma che presentano al di sotto feno-
meni di solfatazione. Questo è possibile grazie alle numerose microla-
cune (cariature, microfessurazioni, forellini ecc.) presenti su queste
stratificazioni, che permettono al prodotto di arrivare sino al substrato.
In questi casi, però, il rischio maggiore è quello di un'errata esecuzio-
ne del trattamento, che potrebbe provocare una carbonatazione incon-
trollata in superficie, con comparsa di imbianchimenti. Per questo mo-
tivo vanno valutati attentamente, secondo i casi, i tempi di posa
dell'impacco e la concentrazione della soluzione.
Per lo stesso motivo (la porosità ridotta, ma non annullata) l'idrossido
di bario deve essere considerato un consolidante e non un protettivo.
Soprattutto in condizioni di particolare inquinamento atmosferico, è
opportuno ripetere il procedimento o, eventualmente, applicare altri
tipi di consolidanti.
45
Nei manufatti esposti all'aperto va valutata anche l'applicazione di un
prodotto finale che garantisca la protezione dall'acqua, in quanto il ba-
rio non rende idrorepellente la superficie.
La particolare affinità dei materiali rende comunque questi interventi
irreversibili per cui risulta indispensabile la massima attenzione nelle
operazioni: devono essere eseguite indagini preliminari per analizzare
a fondo le condizioni generali dell'opera (proprietà chimico fisiche
dello strato pittorico e della malta, tipo di degradazione) e per valutare
nel dettaglio tempi, concentrazione e sequenze operative.
La formazione di “velature” opalescenti sullo strato pittorico è spesso
imprevedibile, a causa della scarsa conoscenza relativa alle quantità
ottimali di dosaggio dei prodotti, ai tempi applicativi e ai parametri
ambientali. Non sempre un intervento di "lavaggio" può risolvere, in-
fatti, il problema. I tempi necessari per osservare un effettivo consoli-
damento sono, di solito, relativamente lunghi, specie se sono interes-
sate ampie superfici.
I materiali inorganici, inoltre, presentano spesso lo svantaggio di com-
portarsi da filler (carica inerte), piuttosto che da adesivi, e questo ge-
nera alterazione delle caratteristiche micro-strutturali del materiale
senza apportare particolari effetti di coesione. Ciò avviene nel carbo-
nato di calcio che si forma comportandosi essenzialmente da riempiti-
vo e non da legante, a differenza del carbonato di calcio che si forma
per carbonatazione della calce.
Inoltre il trattamento con l'idrato di bario su intonaci ad alta concentra-
zione di nitrati (di Na, K, Ca) non è consigliabile perché si può forma-
re nitrato di bario per reazione di doppio scambio: il sale formato è so-
lubile e può dare vistose efflorescenze.
Secondo alcuni autori, infine, la metodologia del bario può provocare
danni anche di una certa rilevanza, in quanto la trasformazione del sol-
fato di calcio in solfato d'ammonio, e successivamente in solfato di ba-
rio, determina, a livello microcristallino, un aumento di volume con la
conseguente formazione di microlesioni nelle aree circostanti l'appli-
46
cazione. Il trattamento è anche sconsigliabile laddove si riscontrino, al
di sopra delle patine, depositi di tipo organico (cere, gomma lacca,
materiali proteici, ecc.). In questi casi infatti il bario potrebbe non
passare e la carbonatazione potrebbe verificarsi esternamente alle
patine, rendendo inutile l'intera operazione. Tale inconveniente non
compare quando i depositi sono di tipo gessoso, in quanto il bario
idrossido riesce a raggiungere la superficie della pietra dopo aver ope-
rato la trasformazione del gesso in solfato di bario e quest'ultimo bloc-
ca ulteriori processi di solfatazione.
Infine è necessario puntualizzare che la quasi totalità dei materiali uti-
lizzati negli interventi vengono prodotti dalle industrie per altri usi e
quindi presentano proprietà, grado di purezza e formulazioni talvolta
assai lontane da quelle richieste per garantire la necessaria efficacia e
durata negli interventi sui beni di interesse storico – artistico.
4.3 Dal Metodo Ferroni-Dini alle nanocalci
La lezione di Ferroni e Dini, oltre a garantire un esempio nitido della
filosofia che sta alla base della scienza della conservazione, ha aperto
la strada per lo sviluppo di alcuni metodi di intervento conservativo da
parte del Consorzio per lo sviluppo dei Sistemi a Grande Interfaseμ
(CSGI), del Dipartimento di Chimica dell'Università di Firenze. In
particolare risulta oggetto di grande studio e interesse la messa a punto
di sistemi nanofasici, metodi cioè basati sulla nanotecnologia per il re-
stauro degli affreschi [43].
I chimici fiorentini infatti, per superare le problematiche e i limiti del
Metodo Ferroni-Dini (che risulta poco efficace in caso di forte scaglia-
mento e/o polverizzazione degli strati pittorici), hanno sperimentato la
possibilità di usare dispersioni stabili di idrossido di calcio in luogo
dell'idrossido di bario.
Si è visto infatti come l'idrossido di calcio sia la sostanza consolidante
ottimale per tutti i materiali litoidi a matrice carbonatica, in virtù della
47
sua alta compatibilità fisico-chimica con il supporto, quindi il tratta-
mento con questo materiale è sempre preferibile soprattutto se il de-
grado dell'opera d'arte è il risultato di una perdita di carbonato di cal-
cio. Tuttavia, la scarsa solubilità dell'idrossido di calcio in acqua (1.7
g/l contro, per esempio, i 39,9 g/l dell'idrossido di bario) e quindi la
difficoltà di creare dispersioni stabili in acqua, ne ha ostacolato l'utiliz-
zo per diversi anni, poiché sarebbe necessaria una eccessiva quantità
di acqua per ottenere risultati apprezzabili.
Inoltre il prodotto disponibile in commercio è formato da particelle di
dimensioni troppo grandi (nell'ordine del millesimo di millimetro) per
garantire un'adeguata capacità di penetrazione e che, ancor peggio,
tendono a separarsi dal solvente, producendo una pellicola bianca in-
delebile sulla superficie dipinta.
La soluzione a queste limitazioni sembra essere offerta dalla nanotec-
nologia, mediante l'uso di dispersioni cineticamente stabili di minu-
scoli cristalli di idrossido di calcio in solventi non acquosi (alcol
isopropilici come l' 1-propanolo o il 2-propanolo), che consentono di
rendere la calce più stabile e penetrante negli strati pittorici da consoli-
dare, diminuiscono la sedimentazione e assicurano una drastica ridu-
zione degli sbiancamenti [43].
Infatti le dimensioni molto piccole delle particelle (da 100 a 250 nm) e
la tensione superficiale dell'alcol, sufficientemente bassa da assicurare
un'impregnazione ottimale per suzione capillare, assicurano un'alta ca-
pacità di penetrazione della sospensione all'interno della struttura po-
rosa delle pitture murali (fino a una profondità media di 200-300 μm),
e permettono di raggiungere pori anche molto piccoli altrimenti non
raggiungibili con le metodologie tradizionali.
In ambiente favorevole, l'alcool ha un'elevata volatilità e, comparato
con altri solventi, una tossicità ridotta. Quando evapora, i cristalli rea-
giscono con l'anidride carbonica dall'atmosfera e si legano al carbona-
to di calcio dello strato pittorico e dell'intonaco sottostante, legandoli
insieme con lo stesso processo che ha prodotto l'affresco in origine.
48
Infatti le dimensioni nanometriche delle particelle di calce determina-
no un maggior rapporto superficie/volume garantendo, così, una mag-
giore interazione con la CO2 e, conseguentemente, un miglioramento
del processo di carbonatazione.
L'uso della nanocalce consente quindi di evitare alcuni inconvenienti
tipici dei trattamenti a base di calce convenzionali, quali l'incomple-
tezza del processo di carbonatazione, la scarsa profondità di penetra-
zione raggiungibile, l'eccessivo quantitativo di acqua apportato alle
pietre e l'alterazione cromatica delle superfici.
La rinnovata compattezza e adesione allo strato pittorico rendono
l'applicazione particolarmente indicata nei casi di polverizzazione
(powdering) del colore e di esfoliazione (flaking), in quanto l'impiego
dell'idrossido di calcio permette il ripristino della struttura cristallina,
in grado di garantire l'adesione del pigmento al supporto e di ricosti-
tuire un vero e proprio processo di presa.
Fig. 18: affresco “Gli angeli musicanti” di Santi di Tito nella Cattedrale di Santa
Maria del Fiore a Firenze. L''area selezionata è stata trattata con nanoparticelle (in
alto, prima del trattamento, in basso, dopo il trattamento) [20].
49
I trattamenti con nanocalci sono stati usati con successo per il restauro
di affreschi (Fig. 18), pre-consolidamenti (in luogo di caseina o
sostanze polimeriche), e anche per la deacidificazione della carta [44].
4.4 Preparazione delle nanocalci
4.4.1 Preparazione di nanocalci in dispersioni acquose
Le particelle di nanocalce vengono sintetizzate secondo varie procedu-
re per ottenere cristalli nanodimensionati di forma esagonale nell'inter-
vallo 3-300 nm. Uno di questi metodi è la sintesi mediante una reazio-
ne in fase omogenea in acqua. La dimensione e la forma delle particel-
le possono essere definite mediante un'appropriata selezione di
determinati parametri di reazione, come la temperatura di reazione, la
concentrazione dei reagenti e il loro rapporto molare.
Le particelle cristalline submicrometriche di Ca(OH)2 vengono prepa-
rate a partire da volumi uguali [45] di soluzioni acquose di NaOH e
CaCl2, che vengono riscaldate separatamente ad una temperatura sele-
zionata nell'intervallo 60-90°C.
CaCl2+2NaOH→Ca (OH )2+2NaCl
Quando la temperatura scelta viene raggiunta, le due soluzioni vengo-
no mescolate rapidamente mediante centrifugazione, mantenendo la
temperatura del preparato costante. Il grado di supersaturazione, defi-
nito come il rapporto [Ca2+]/[Ca2+]sat dove [Ca2+]sat è la concentrazione
di cationi Ca2+ nella soluzione satura di Ca(OH)2, viene tenuto
nell'intervallo 2-10.
La sospensione di Ca(OH)2 raggiunge gradualmente la temperatura
ambiente in atmosfera d'azoto per evitare la carbonatazione. La solu-
zione surnatante viene scartata, e la sospensione rimanente viene lava-
ta cinque volte con acqua per ridurre la concentrazione di NaCl al di
50
sotto di 10-6 M. Ogni volta il rapporto di diluizione tra la sospensione
concentrata e la soluzione lavata è di circa 1:10. La completa rimozio-
ne del cloruro di sodio NaCl dalla sospensione viene controllata me-
diante test AgNO3. La sospensione viene poi concentrata in assoluto
isolamento a 40° C fino a un rapporto in peso Ca(OH)2/acqua di 0.8,
ovvero lo stesso della pasta standard di calce spenta presa come riferi-
mento.
Le particelle preparate a 60° C mostrano la geometria prismatica esa-
gonale tipica del Ca(OH)2, con un alto grado di agglomerazione parti-
cellare. La dimensione del lato dell'esagono è nell'intervallo 0.3-0.6
μm, e si evidenziano molte differenti morfologie cristalline.
Aumentando la temperatura di sintesi fino ai 90° C si assiste ad una
diminuzione della dimensione principale delle particelle, come mo-
strato in Fig. 19.
La morfologia esagonale (Fig. 20) è evidenziata meglio rispetto alla
sintesi a 60° C, e la dimensione media dei lati degli esagoni è
nell'intervallo 100-250 nm, con uno spessore di 2-40 nm.
Si può concludere che particelle più piccole, con meno agglomerazio-
ne, e maggiore simmetria dei cristalli di Ca(OH)2, sono proprietà otte-
nibili aumentando la temperatura da 60 a 90° C.
Fig. 19: gruppi di nanoparticelle di idrossido di calcio preparate mediante reazione
in fase omogenea in acqua a 90°C, osservate mediante microscopia a scansione
elettronica (SEM) [46].
51
Fig. 20: nanoparticelle esagonali di Ca(OH)2 ottenute da una fase omogenea a 90°
C; in alto, fotografia al microscopio elettrico a scansione (SEM); in basso, micro-
grafia TEM di una singola particella di Ca(OH)2 che mostra la tipica morfologia
esagonale [45].
52
Tuttavia, malgrado i risultati siano altamente incoraggianti, le disper-
sioni in acqua si sono dimostrate altamente instabili, inoltre questo
metodo non permette di ottenere nanoprismi esagonali con lati
dell'esagono più piccoli di 100 nm.
4.4.2 Preparazione di nanocalci mediante dioli
Si è visto come l'alta temperatura sia un requisito fondamentale per ot-
tenere particelle di piccole dimensioni. Per raggiungere temperature
maggiori di 100° C è stato sviluppato [45] un metodo basato sui dioli
come mezzi di reazione.
Questo metodo implica diverse peptizzazioni delle particelle sintetiz-
zate poiché la solubilità del Ca(OH)2 nei dioli è maggiore che in ac-
qua.
Quindi a partire dal sentiero sintetico in dispersione acquosa, alcuni
studiosi [47] hanno messo a punto un metodo che utilizza glicole etile-
nico o propilenico come solventi di reazione, permettendo così il rag-
giungimento di elevate temperature (fino a 175°C).
Come nel caso della dispersione acquosa, si parte da una reazione tra
il cloruro di calcio CaCl2, dissolto in glicole etilenico (EG) o propile-
nico (PG), e l'idrossido di sodio acquoso NaOH, alla temperatura di
115-175° C per favorire la velocità di nucleazione.
CaCl2(EG )+2NaOH(aq)→Ca(OH )2( s)+2NaCl( s)
Da questa reazione si ottengono aggregati macroscopici di nanofasi di
Ca(OH)2. Grazie all'alta temperatura la dimensione delle particelle si
riduce rispetto a quelle prodotte nella precedente reazione in acqua.
Dopo la sintesi bisogna eseguire la purificazione, che consiste in una
serie di lavaggi in acqua distillata e in una procedura di centrifugazio-
ne.
53
A questo punto si avvia il cosiddetto processo di peptizzazione (Figg.
21-24) ovvero di disgregazione: gli agglomerati così creati di particel-
le microdimensionate vengono lavati diverse volte con acqua o un sol-
vente alcolico (2-propanolo) e immersi in un bagno ultrasonico per ri-
muovere il diolo adsorbito e peptizzare le particelle. Questa azione
combinata realizza la separazione tra le nanounità che costituiscono
gli agglomerati micrometrici e permette di individuare singole unità di
dimensione inferiore ai 100 nm per lato dell'esagono.
L'intera procedura produce diverse nanoparticelle di differenti morfo-
logia e dimensione, a seconda delle condizioni usate nelle sintesi.
Infatti per studiare gli effetti di differenti condizioni sperimentali sulle
particelle risultanti, sono state effettuate sintesi [47] con diversi para-
metri (Tab. 2), ovvero cambiando di volta in volta una condizione e la-
sciando le altre costanti. I parametri che sono stati investigati sono: il
tipo di diolo (glicole etilenico o propilenico), l'invecchiamento della
soluzione, la temperatura di reazione, la concentrazione di Ca2+ nel
diolo, la concentrazione del NaOH e il rapporto molare NaOH/CaCl2.
Tab. 2: condizioni sperimentali per l'idrolisi del sistema CaCl2/diolo con una solu-
zione acquosa NaOH e risultati [47].
Si è sperimentato, ad esempio [47], che quando la concentrazione di
NaOH e CaCl2 è al di sotto di 0,2 mol·dm-3 non si ottengono particelle,
nemmeno con un invecchiamento maggiore di 40 minuti.
Le nanoparticelle di forma esagonale piatta e dimensione compresa fra
i 60 e i 150 nm, sono ottenute peptizzando il campione, nella sintesi 1
e 2, con 2-propanolo.
Dopo tre lavaggi si evidenzia solo una parziale disgregazione (Fig.
54
21), mentre particelle ben distinte sono ottenute dopo un'ulteriore
peptizzazione (Fig. 22).
Fig. 21: micrografia TEM del materiale ottenuto da sintesi in glicole etilenico (Sin-
tesi 1, Tab. 2) dopo tre peptizzazioni: la dimensione delle unità è compresa fra 60 e
150 nm [47].
Fig. 22: micrografia TEM del materiale ottenuto da sintesi in glicole propilenico
(Sintesi 2, Tab. 2) dopo cinque peptizzazioni: la dimensione delle unità è compresa
fra 50 e 120 nm [47].
55
Fig. 23: micrografia TEM del materiale ottenuto da sintesi in glicole propilenico
(Sintesi 5, Tab. 2) dopo tre peptizzazioni: la dimensione delle unità è compresa fra
60 e 90 nm [39].
Fig. 24: micrografia TEM del materiale ottenuto da sintesi in glicole etilenico (Sin-
tesi 3, Tab. 2) dopo una peptizzazione: la dimensione delle unità è compresa fra 30
e 60 nm [39].
56
In Fig. 23 è evidente un alone intorno alle particelle attribuibile alla
ritenzione del diolo. La forma esagonale (Fig. 22) implica cristallinità,
inoltre si è evidenziato che le particelle esagonali molto fini si
ottengono con alte temperature e un alto grado di supersaturazione.
Le particelle di Ca(OH)2 preparate in condizioni non stechiometriche
in glicole etilenico e propilenico (sintesi 4 e 5) sono peptizzate secon-
do lo stesso metodo, producendo sempre particelle di forma piatta esa-
gonale, ma di dimensione compresa fra i 40 e gli 80 nm. Una sola pep-
tizzazione produce aggregati grandi e non ben definiti, il che conferma
che diverse procedure di peptizzazione sono necessarie per raggiunge-
re singole unità nanodimensionate. Tre peptizzazioni sono abbastanza
per isolare un singolo cristallo esagonale (Fig. 23) con un lato di circa
40 nm. Una caratteristica particolarmente interessante è riportata in
Fig. 24: la diminuzione del tempo di invecchiamento (5 minuti della
sintesi 3 contro i 40 minuti delle altre sintesi) causa due effetti princi-
pali: la diminuzione della dimensione media delle nanoparticelle e il
cambio della forma da esagonale a quasi sferica. La Fig. 24 mostra
queste particelle molto piccole (30-60 nm) indagate mediante micro-
scopia TEM. Infine, il lavaggio delle particelle ottenute a bassa tempe-
ratura (sintesi 9) produce aggregati irregolari.
Usando sia l'acqua che il 2-propanolo come agenti peptizzanti, si è di-
mostrato che il 2-propanolo è più efficace, per via dell'alta solubilità
del Ca(OH)2 in acqua che riduce fortemente la produzione di nanopar-
ticelle. Inoltre il 2-propanolo usato per la peptizzazione viene assorbi-
to sulla faccia di base delle particelle esagonali, rendendo possibile il
loro raggruppamento e allineamento. Il 2-propanolo quindi distrugge
l'orientamento casuale e promuove un allineamento preferenziale.
4.4.3 Preparazione di nanocalci in dispersioni alcoliche
Sebbene le particelle sintetizzate con i metodi precedenti abbiano sia
la dimensione che la distribuzione dimensionale ideali per l'applica-
57
zione sui dipinti, non possono essere usate come dispersione in acqua,
a causa della loro tendenza ad aggregarsi in solvente. Un sostanziale
miglioramento viene raggiunto usando alcool isopropilico a catena
corta come mezzo di dispersione, per produrre dispersioni cinetica-
mente stabili. In particolare, 1-propanolo, etanolo e 2-propanolo forni-
scono, nell'ordine, una buona aggregazione e stabilizzazione delle par-
ticelle. Viene ipotizzato che questa migliorata stabilità avvenga per via
dell'assorbimento fisico dell'alcool sopra le superfici delle particelle,
dal momento che gioca un ruolo fondamentale contro l'agglomerazio-
ne particellare, favorito anche dal potenziale elettro-cinetico delle par-
ticelle stesse. L'agglomerazione particellare infatti è nota per manife-
starsi in acqua mediante un meccanismo di collegamento guidato dal
legame idrogeno.
È importante notare che anche la conformazione della catena idrofobi-
ca gioca un ruolo importante. Le dispersioni in 1-propanolo sono più
stabili di quelle in 2-propanolo, e questo suggerisce che la stabilità ci-
netica della dispersione è proporzionale allo spessore dello strato idro-
fobico presente nelle particelle di Ca(OH)2 con alcool assorbito.
Questo metodo può essere usato con efficacia nella conservazione de-
gli affreschi sia in fase di pre-consolidamento che di consolidamento,
per riaderire gli strati pittorici distaccati e sollevati, per conferire una
recoesione interna, nonché per il consolidamento dell'intonaco e
dell'interfaccia intonaco/arriccio [45].
La sintesi delle nanoparticelle viene verificata seguendo due metodi
diversi:
1) entrambe le soluzioni vengono riscaldate fino a 90-95°C su pia-
stra scaldante e la soluzione di idrossido di sodio NaOH viene
versata rapidamente in quella di cloruro di calcio;
2) la soluzione di cloruro di calcio CaCl2 viene riscaldata fino a
90-95°C su piastra scaldante e la soluzione di idrossido di sodio
NaOH viene aggiunta goccia a goccia tramite una buretta.
Al termine di ognuna delle sintesi il particolato viene lasciato decanta-
58
re per 24 ore e successivamente lavato per 10 volte con acqua bidistil-
lata per eliminare il cloruro di sodio NaCl in soluzione. Dopo ogni la-
vaggio il solido viene fatto decantare per un giorno ed il surnatante
eliminato per aspirazione sotto vuoto.
La scomparsa dei cloruri viene verificata mediante saggio analitico
con nitrato d'argento AgNO3.
Dopo l'ultimo lavaggio l'eccesso di acqua viene aspirato e la restante
sospensione acquosa viene essiccata su CaCl2 anidra sottovuoto fino
ad un rapporto Ca(OH)2/acqua di circa 0,82. Questo è il tipico rappor-
to Ca(OH)2/acqua che costituisce il grassello commerciale.
Questa pasta viene successivamente dispersa in 1-propanolo ad una
concentrazione di 1,15 g di miscela Ca(OH)2/acqua per 100 cm3 di al-
col (0,52 g di miscela di Ca(OH)2/acqua per 100 cm3 di alcol) ed omo-
geneizzata per 10 minuti con un emulsificatore.
È interessante notare come la sintesi 2 produca particelle in cui l'effet-
to di agglomerazione fra le subunità nanometriche è molto ridotto.
Questo è dovuto alla diversa cinetica di formazione: nella sintesi 1 le
particelle si formano tutte contemporaneamente con formazione molto
probabile di aggregati policristallini. Nella sintesi 2 le particelle si for-
mano in momenti diversi via via che cade la goccia di NaOH e l'effet-
to di agglomerazione viene parzialmente inibito.
La dispersione in alcool di particelle comprese tra nm e micron deter-
mina la possibilità di aumentare la concentrazione di idrossido di cal-
cio, migliorando significativamente le condizioni applicative e l'effica-
cia del sistema con acqua di calce.
Si è sperimentato inoltre che le dispersioni diluite e ultra-diluite lavo-
rano meglio delle concentrate. Infatti supponendo di avere uno strato
pittorico polverizzato e sollevato dal supporto, applicando una disper-
sione concentrata, l'alcool isopropilico penetra guidato dalla forza di
capillarità e trasporta le particelle nei primi strati. In presenza di
un'alta concentrazione di particelle, i fenomeni di agglomerazione e di
impedimento sterico possono causare solo una parziale penetrazione
59
delle particelle al di sotto dello strato di colore, originando uno strato
opaco e riducendo la quantità di particelle tra i grani dei pigmenti e
all'interfaccia del supporto. Al contrario, applicando dispersioni diluite
o ultra-diluite diverse volte in modo da diffondere la stessa quantità di
legante, ma ogni volta con una quantità molto piccola senza rischiare
l'agglomerazione e l'impedimento sterico, si possono ottenere delle
particelle ben penetranti, senza agglomerazione, né opacizzazione del-
la superficie dipinta.
Dopo l'ultima applicazione, le nanoparticelle di idrossido di calcio
sono tutte situate al di sotto degli strati pittorici e iniziano la loro rea-
zione con il diossido di carbonio per dare in 7-10 giorni, a seconda
delle condizioni termoigrometriche, un “piano” di cristalli di calcite
(Fig. 25).
Fig. 25: piano di cristalli di calcite formatosi dopo la carbonatazione [48].
I trattamenti superficiali conservativi vengono realizzati applicando, a
spruzzo, le sospensioni alcoliche di nanocalce sulla superficie di pro-
vini normalizzati di malta, le cui superfici sono protette da fogli di car-
60
ta giapponese. La dispersione viene applicata tre o quattro volte, e tre
o quattro minuti dopo l'ultima (sufficiente per completare la penetra-
zione della dispersione nei campioni di calce) la carta giapponese vie-
ne rimossa. È da notare che le dispersioni sono altamente fluide, e che
la loro viscosità è quasi identica a 1-propanolo puro. A seconda delle
condizioni il tempo richiesto per l'evaporazione completa del 1-propa-
nolo è di più di 12 ore. Questo tempo permette alle particelle di
Ca(OH)2 di essere consolidate e ai campioni viene permesso di stabi-
lizzarsi per un mese. Dopo questo tempo l'efficacia del trattamento di
consolidamento è assicurato.
Sono state inoltre eseguite prove di laboratorio [49] che hanno utiliz-
zato la dispersione di calce in 1-propanolo come consolidante per
campioni di malta con severa decoesione, dovuta alla bassa concentra-
zione del legante. Tutti i parametri misurati hanno confermato che la
dispersione ha fornito un buon consolidamento, senza opacizzazione
delle superfici. In particolare la resistenza ai graffi tangenziali e al test
di abrasione superficiale (STT) hanno indicato un'alta recoesione degli
strati sollevati.
La tecnica è quindi considerata ideale e applicabile senza ostacoli in
tutti i casi in cui sarebbe appropriato utilizzare acqua di calce.
4.5 Proprietà e metodo applicativo delle nanocalci
La dimensione delle particelle e la stabilità della sospensione rappre-
sentano caratteristiche fondamentali per ottenere un assorbimento effi-
cace e per evitare la formazione di velature bianche sulla superficie
pittorica.
Le particelle si presentano regolarmente formate, perfettamente piatte-
esagonali e cristalline. Le dimensioni sono mediamente comprese tra
50 e 300 nm (per fare un paragone, 100 nm sono circa un decimo delle
dimensioni del grassello commerciale) [50].
Nel caso di nanoparticelle disperse in alcool, la forma piatta le rende
61
molto assorbenti nei confronti dell'acqua, aiutando così la loro trasfor-
mazione in carbonato di calcio nel momento in cui l'alcool evapora
[47].
I vantaggi della particolare forma dei nanoprismi piatti-esagonali ri-
spetto ad esempio ai nanopilastri, e che fa di queste particelle le candi-
date ideali per la recoesione degli affreschi, sono stati studiati dal The
Getty Conservation Institute di Los Angeles circa dieci anni fa, e pos-
sono essere riassunti principalmente in due punti. In primo luogo, la
plasticità dei preparati idrossido di calcio/acqua, laddove il rapporto
lc/la < 1 (Fig. 26), è estremamente alta, con una morfologia piatta do-
vuta alla formazione di strati alternati di nanoprismi di idrossido di
calcio e acqua: l'acqua infatti garantisce un buon flusso tra gli strati di
calce, in accordo con un meccanismo simile a quello responsabile del-
le buone proprietà lubrificanti della grafite.
Il secondo vantaggio è che la reazione tra l'idrossido di calcio e il
diossido di carbonio, che è strettamente dipendente dalla presenza di
acqua indispensabile per la solubilizzazione del diossido di carbonio
per dare anioni carbonio, può procedere in accordo con le migliori ci-
netiche per garantire perfette proprietà di adesione/coesione nel manu-
fatto che deve essere consolidato, poiché l'acqua intrappolata
nell'idrossido di calcio è fortemente trattenuta contro l'evaporazione.
Questo si traduce quindi in una migliore reazione di carbonatazione.
In Fig. 27 sono mostrate due particelle, una esagonale (A) ed una pri-
smatica (B), dell'ordine di 100 nm, evidenziando come anche il carbo-
nato di calcio formatosi abbia dimensioni submicrometriche.
Con particelle di tali dimensioni è possibile raggiungere una maggiore
profondità di penetrazione e una maggior grado di conversione calce-
carbonato.
62
Fig. 26: nanoprismi di idrossido di calcio: in alto, il rapporto lc/la determina la mor-
fologia piatta delle particelle; in basso, la formazione di strati alternati di nanopri-
smi di idrossido di calcio e acqua grazie alla morfologia piatta [20]
63
Fig. 27: Immagini TEM di due particelle in sospensione di dimensioni nano-
metriche: Ca(OH)2 di forma esagonale (A), CaCO3 di forma prismatica (B) [47].
Le particelle così formate tendono a riempire le cavità maggiori e gli
spazi intergranulari, senza occludere i pori originali. Questi vengono
rivestiti e diminuiscono di dimensione, rallentando così l'assorbimento
d'acqua.
La concentrazione dell'idrossido di calcio, rispetto ai trattamenti tradi-
zionali, è notevolmente superiore, passando dai circa 1700 mg/l
dell'acqua di calce ai 7/8 g/l delle soluzioni nanometriche.
Le particelle inoltre, quando disperse in soluzioni alcoliche, possono
essere utilizzate anche su pigmenti sensibili alle soluzioni alcaline.
Le soluzioni si dimostrano essere stabili e quindi le particelle non pre-
cipitano prematuramente.
Inoltre, non dovendo eseguire ripetute bagnature delle superfici, si ri-
duce drasticamente il pericolo di riportare in soluzione eventuali sali
solubili.
64
Penetrando nella struttura del materiale degradato, gli permettono di
avere un comportamento omogeneo rispetto alle sollecitazioni esterne,
ed essendo di facile applicazione lasciano la possibilità di ripetere il
trattamento senza difficoltà, anche in maniera combinata con desolfa-
tanti.
Gli effetti del trattamento su alcuni litotipi naturali (calcari, Pietra Se-
rena) sono stati valutati mediante indagini in microscopia elettronica a
scansione (SEM). I risultati ottenuti mostrano come si riescano a rag-
giungere profondità di penetrazione variabili da 1mm a circa 30 mm
[47] e come la nanocalce riempia i pori intergranulari senza occluderli
completamente (Fig. 28)
Fig. 28: micrografie al SEM: a sinistra, il calcare dopo il trattamento con nanocal -
ce; a destra, l'effetto della formazione di CaCO3 sulla porosità del materiale (pro-
fondità non specificata) [51].
L'azione consolidante superficiale del trattamento viene valutata me-
diante prove come lo Scotch Tape Test (STT) (Fig. 29), mentre gli ef-
fetti sul comportamento del materiale nei confronti dell'acqua sono sti-
mati mediante misure di capillarità per immersione totale.
Fig. 29: verifica del potere di ripristino delle proprietà meccaniche mediante STT;
da sinistra a destra: prima del trattamento; dopo 6 applicazioni; dopo 12 applicazio-
ni [39].
65
Durante il consolidamento di affreschi si applica la dispersione di
particelle e si rimuovono le compresse umide di cellulosa usate per
mantenere la superficie umida (Fig. 30), in modo da favorire la lenta
formazione di carbonato di calcio. L’applicazione viene effettuata a
rifiuto mediante pennello, con protezione delle superfici con carta
giapponese (washi), una carta porosa e molto fine (Fig. 31), oppure
mediante nebulizzazione senza carta giapponese, ripetendo le
applicazioni più volte dopo la completa asciugatura.
(a) (b) (c)
Fig. 30: differenti fasi di applicazione di nanoparticelle di Ca(OH) 2 nel consolida-
mento di un affresco: applicazione della dispersione di nanoparticelle (a) e rimo-
zione delle compresse di cellulosa usate per mantenere la superficie umida, in
modo da favorire una lenta formazione del carbonato di calcio (b-c) [52].
Fig. 31: la carta giapponese o washi, in rotolo e in fogli [52].
66
I pennelli utilizzati devono essere a setola morbida di medie dimensio-
ni, e mantenuti ben puliti. Nel caso di nanocalci ottenute con disper-
sioni alcoliche, le nanomolecole vengono prima diluite nell'alcol iso-
propilico, poi spruzzate o pennellate sulla superficie dell'opera d'arte
o, se questa è molto fragile, della carta giapponese interposta a prote-
zione (Fig. 32) [52].
Fig. 32: applicazione di carta giapponese su intonaco affrescato, preliminare
all'operazione di consolidamento [52].
L'applicazione è eseguita dall'alto verso il basso, per settori omogenei.
Nel momento in cui la superficie rifiuta l'assorbimento della sospen-
sione o, in altre parole, si è raggiunta una completa saturazione, il trat-
tamento può considerarsi ultimato: le particelle penetrano sotto la su-
perficie pittorica, che viene trattenuta dalla carta durante tutta l'opera-
zione, e si attaccano direttamente all'intonaco. Una leggera pressione
del colore sollevato (Fig. 33) provvede poi a reincollarlo al sostegno
sottostante integrato dalla nanocalce. Quando la carta è tornata perfet-
tamente asciutta (generalmente dopo circa un'ora) viene distaccata
(Fig. 34) e si provvede alla ripulitura [53].
Effetti apprezzabili di consolidamento si acquisiscono normalmente
67
dopo un numero di applicazioni che è ovviamente legato alla concen-
trazione selezionata: più la dispersione è diluita, maggiore è il numero
di applicazioni richieste. Si va normalmente da 1-2 applicazioni per la
più concentrata a 10-12 per la più diluita, ma talvolta può essere suffi-
ciente anche un numero inferiore di applicazioni.
Fig. 33: dettaglio di pittura murale con evidente esfoliazione (flaking) della
pellicola pittorica [52].
Fig. 34: fase di rimozione della carta giapponese [52].
68
In seguito al trattamento, anche dopo solo poche ore, potrebbero emer-
gere sulla superficie leggere velature bianche, dovute alla quantità li-
mitata di particelle che non riescono a penetrare. Queste potranno es-
sere eliminate facilmente mediante tamponatura con acqua deionizzata
(ossia priva di sali), o con impacchi di polpa di cellulosa e acqua deio-
nizzata per circa sei – dieci ore. Terminata l’ultima applicazione è ne-
cessario attendere 5-7 giorni prima delle prove di pulitura e verifica
delle proprietà meccaniche (adesione/coesione) della superficie [50].
In pochi giorni si produce un significativo effetto consolidante sulle
superfici trattate. Questo è particolarmente importante per i siti ar-
cheologici, dove la conservazione in situ solitamente richiede un inter-
vento immediato per proteggere il dipinto ed evitare la perdita com-
pleta dello strato pittorico.
Il consolidamento di stucchi (Fig. 35) per mezzo di applicazioni di so-
spensioni stabili di idrossido di calcio può presentare alcune differenze
importanti rispetto a quanto visto per le pitture murali.
Fig. 35: applicazione di consolidante a pennello su stucchi con interposta carta
giapponese [52].
69
Sottoposti spesso a levigatura, battitura e lucidatura, gli stucchi infatti
si caratterizzano per una certa compattezza che presuppone l'impiego
di soluzioni molto diluite. Le sospensioni adottate possono essere fino
a dieci volte meno concentrate rispetto a quelle usate per le pitture
murali. In questi casi quindi risulta spesso utile l'applicazione della so-
spensione mediante uno spruzzature manuale a getto regolabile.
Nel caso di materiale lapideo, le nanoparticelle di idrossido di calcio
possono essere applicate con una procedura mediante immersione,
spray o iniezione.
È importante che la zona degradata della pietra sia completamente sa-
turata con il prodotto, altrimenti non si può escludere un consolida-
mento incompleto. Si dovrebbe inoltre evitare una rapida evaporazio-
ne del solvente. Se necessario il trattamento può essere ripetuto tra gli
8 e i 10 giorni. La quantità di prodotto necessario dipende dalla poro-
sità del materiale e dalla profondità del degrado: tipici rapporti sono
intorno ai 100ml/m2, ma sono comunque possibili anche quantità più
alte [54].
In generale, l'applicazione delle sospensioni stabili di idrossido di cal-
cio non richiede particolari accorgimenti tecnici o operativi. Inevita-
bilmente, però, sono da considerare alcune limitazioni e accorgimenti.
Usando le nanoparticelle si evita di apportare acqua sul dipinto essen-
do la sospensione in alcool isopropilico, ma in realtà sovente viene co-
munque aggiunta una percentuale d'acqua per poter attivare la carbo-
natazione.
Inoltre una grande difficoltà risulta essere quella di calibrare bene la
permeabilità del supporto per poter applicare la diluizione giusta di
nanoparticelle ed evitare sbiancamenti anche importanti in superficie.
Questo effetto collaterale, rappresentato dalla emersione di vere e pro-
prie velature bianche, può comunque essere ridotto: le velature posso-
no essere rimosse per mezzo di spugnature o impacchi di acqua deio-
nizzata, applicando il prodotto fino a raggiungere il limite di assorbi-
mento del supporto. Inoltre la capacità di sospendere il trattamento
70
con le nanoparticelle appena prima della completa saturazione del
supporto consente comunque di ridurre al minimo la formazione degli
sbiancamenti.
La ripetizione del trattamento a distanza di alcuni anni non prevede al-
cuna controindicazione: la porosità della superficie trattata con idros-
sido di calcio, infatti, pur riducendosi, non risulta annullata e questo
consente anche l'applicazione di altri eventuali consolidanti che doves-
sero risultare più efficaci nel futuro.
Il metodo può essere utilizzato in numerose occasioni, non ultima la
protezione di supporti lapidei, ma è sempre opportuno procedere a
un'attenta valutazione delle peculiarità del supporto e delle alterazioni:
qualora le alterazioni siano macroscopiche, per esempio, l'applicazio-
ne del metodo non risulta adeguato; allo stesso modo, la ricoesione di
frammenti completamente distaccati non è favorita dall'azione conso-
lidante non così rapida ed elevata; infine, quando grandi quantità di
solfati solubili (come solfati di sodio o magnesio) sono presenti nel di-
pinto, il consolidamento con nanoparticelle di idrossido di calcio non
produce effetti durevoli. Infatti gli ioni solfato possono reagire con
l'idrossido di calcio per dare una reazione di doppio scambio, produ-
cendo gesso leggermente solubile (solfato di calcio bi-idrato). Il risul-
tato finale è la mancanza di un vero effetto consolidante. Inoltre, la re-
cristallizzazione del nuovo gesso porta alla formazione di già menzio-
nati sbiancamenti sulla superficie dipinta [46].
Ca(OH )2+Na2 SO 4+2H2 O→CaSO 4⋅2H2O+2NaOH
Prima di usare le nanoparticelle i restauratori hanno provato ad usare
anche le microdispersioni, ottenute disperdendo finemente in alcool,
tramite bagno a ultrasuoni, del grassello di calce, a pari concentrazio-
ni. Le prove di confronto tra nanodispersioni e microdispersioni hanno
dato ad alte concentrazioni (0,067 moli/litro) entrambe imbianchimen-
71
to, ma le aree trattate con nanocalce venivano ripulite con più facilità.
Questi risultati hanno consigliato perciò di diluire maggiormente
l'applicazione da stendere sulla carta giapponese che viene collocata
sulle parti da restaurare.
In definitiva perciò, il trattamento con nanoparticelle di calce risulta
essere attualmente una buona soluzione per il restauro di affreschi e
materiali lapidei, preferibile ai trattamenti tradizionali e dalla sicura
efficacia, compatibilità e ritrattabilità.
4.6 Esempi di sperimentazione e restauro con l'impiego di nano-
calce in Italia
4.6.1 Gli affreschi del complesso Agostiniano di Santa Maria delle
Grazie di Gravedona (CO)
L’intervento è stato condotto su un dipinto murale raffigurante Matteo
Evangelista posto sulle facciate esterne del chiostro del complesso
(Fig. 36).
Fig. 36:affresco raffigurante Matteo Evangelista [13].
72
Il dipinto, che fa parte degli apparati pittorici del chiostro databili tra
1467 e il 1530, è stato eseguito su un intonaco costituito da un impasto
di calce magnesiaca e sabbia grossa il cui rapporto legante:inerte è
1:1. La tecnica pittorica è a calce con aggiunta di leganti organici. I
pigmenti identificati sono principalmente composti da azzurrite, ocra
gialla e rosso di marte.
La superficie pittorica, contrariamente all’intonaco del supporto, risul-
tava notevolmente compromessa da tutta una serie di fenomeni di de-
grado che rendevano il quadro conservativo complessivo molto preoc-
cupante (Fig. 37) .
Fig. 37: stato di degrado del dipinto [13].
In particolare il viso del santo, già compromesso da lacune diffuse,
presentava un vistoso quadro decoesivo e nella zona frontale sinistra
tutta una serie di microsollevamenti della pellicola pittorica (Fig. 38).
Il dipinto era stato oggetto di una parziale indagine nel dicembre 2000
solo nella sua parte inferiore e si rendeva quindi necessario completare
73
il quadro conoscitivo con ulteriori indagini sulla rimanente parte.
Il volto di San Matteo, per la gravità del suo stato, che era da mettere
in relazione all’alto tasso di solfatazione riscontrato, è stato prescelto
per verificare se nelle condizioni di avanzato degrado in cui la pellico-
la pittorica si trovava fosse stato possibile ottenere attraverso l’appli-
cazione delle nanoparticelle un effetto consolidante tale da permettere
l’esecuzione delle successive operazioni. Il trattamento è stato condot-
to quindi prima di eseguire la desolfatazione.
Fig. 38: particolare dei microsollevamenti della pellicola pittorica [13].
Uno degli obiettivi di questa seconda campagna di indagini è stato
quello di individuare i sali presenti nella struttura e quantificarne il
contenuto. I risultati evidenziarono un alto contenuto salino nella parte
superiore dell’affresco (Fig. 39); il tasso di salinità si riduceva man
mano che si scendeva, fino a stabilizzarsi.
74
Fig. 39: punto di prelievo del campione con il più alto tasso di solfati [13]
Dalle indicazioni raccolte nelle prove preliminari è emersa la possibi-
lità di poter controllare in maniera adeguata il processo applicativo
delle nanoparticelle in relazione allo stato di conservazione della su-
perficie dipinta, utilizzando un pennello di setola morbida, interponen-
do un foglio di carta giapponese (Fig. 40).
Fig. 40: applicazione delle nanoparticelle su carta giapponese [13].
Le soluzioni applicate avevano le seguenti caratteristiche:
• soluzione alcolica di Ca(OH)2 costituita da particelle con gran-
75
dezza compresa tra i 50 e i 300 nm e con una concentrazione di
7/8 g/l
• soluzione alcolica di Ca(OH)2 costituita da particelle con gran-
dezza compresa tra i 200 nm e i 2 – 3 μm e con una concentra-
zione di ca. 4 g/l
Le particelle risultate idonee per il trattamento avevano dimensioni
comprese tra i 50 e i 300 nm .
Il ciclo applicativo si è svolto nel seguente modo:
• prima applicazione della dispersione di nanoparticelle di idros-
sido di calcio (Fig. 40);
• dopo 18 ore, impacco di carbonato di ammonio all’8% al fine
di ridurre il contenuto in solfato dalla superficie (Fig. 41);
• secondo trattamento con nanoparticelle (Fig. 42);
• dopo 4 ore, impacco di acqua deionizzata in polpa di carta
(Figg. 43-44).
Fig. 41: impacco con carbonato d'ammonio [13].
76
Fig. 42: dopo il primo trattamento con nanoparticelle e successivo impacco di car-
bonato d'ammonio [13].
77
Fig. 43: dopo il secondo trattamento con nanoparticelle e successivo impacco di ac-
qua deionizzata in polpa di carta [13].
78
Fig. 44: particolari del dipinto dopo il trattamento: si nota una maggiore vivacità
dei colori e una maggiore coesione dello strato pittorico [13].
79
Le prove condotte hanno evidenziato che l’applicazione di nanoparti-
celle di idrossido di calcio può avvenire anche in fase di preconsolida-
mento delle superfici pittoriche con risultati molto soddisfacenti.
L’efficacia consolidante del trattamento è stata verificata anche in pre-
senza di un alto contenuto di solfati.
La superficie pittorica sollevata si è riadagiata al substrato dopo la pri-
ma applicazione e la decoesione della pellicola pittorica è rientrata
permettendo di eseguire le operazioni successive.
Il sistema superficie pittorica /consolidante venutosi a creare a seguito
del trattamento con nanoparticelle di idrossido di calcio è completa-
mente compatibile con la struttura di partenza.
In definitiva quindi, considerati i risultati ottenuti, il metodo si pone
come valida alternativa ad interventi dello stesso tipo finora eseguiti
con materiali organici.
4.6.2 Gli affreschi di Andrea da Firenze nel Cappellone degli Spa-
gnoli (Chiostro Verde nella basilica di Santa Maria Novella a Fi-
renze)
I dipinti di Andrea da Firenze nel Cappellone degli Spagnoli (Chiostro
Verde della Basilica di Santa Maria Novella, Firenze) sono stati re-
staurati nel 2000 mediante il trattamento a base di nanocalci disperse
in 1-propanolo. Le immagini sottostanti (Figg. 45-46) mostrano una
porzione del dipinto contenente una decorazione geometrica, prima e
dopo il trattamento.
Il deterioramento era dovuto principalmente a esfoliazione e a polve-
rizzazione dello strato pittorico, che richiede un pre-consolidamento.
Normalmente questo si ottiene usando una miscela di calce e caseina,
ma questa introduce un materiale incompatibile (la caseina) nella
struttura del dipinto murale. Si è applicata allora una miscela con cal-
ce/dispersione 1-propanolo, che è totalmente compatibile con la matri-
ce organica del supporto.
80
Fig. 45: porzione di uno dei dipinti di Andrea da Firenze nel Cappellone degli Spa-
gnoli prima del restauro [49].
Fig. 46: porzione di uno dei dipinti di Andrea da Firenze nel Cappellone degli Spa-
gnoli dopo il pre-consolidamento effettuato con una dispersione di nanocalce in 1-
propanolo [49].
81
La dispersione viene applicata usando un pennello, proteggendo nel
frattempo pezzi di 30x30 cm della superficie del muro con fogli di
carta giapponese. La carta giapponese permette alla dispersione di es-
sere applicata sulla superficie dipinta senza arrecare i danni provocati
dalla rimozione meccanica della polvere di pigmento e/o di frammen-
ti. La distribuzione dimensionale dei pori della carta giapponese viene
selezionata in modo che tutte le particelle di Ca(OH)2 della dispersio-
ne calce/alcool possano penetrare nel muro senza lasciare alcun resi-
duo sulla superficie della carta.
Per prima cosa il muro viene trattato con 100 ml di dispersione conte-
nente 0,5 g di Ca(OH)2 per 100 ml di 1-propanolo e lasciato asciugare
per una settimana.
Questa dispersione è leggermente meno concentrata rispetto a quella
testata in laboratorio (0,625 g per 100 ml), come precauzione contro il
rischio di formazione di pellicole bianche sulla superficie del dipinto.
Una seconda applicazione di 70 ml della stessa dispersione viene poi
effettuata con la stessa procedura, e lasciata asciugare per 10 giorni.
Dopo questo pre-consolidamento, l'affresco è stato conservato utiliz-
zando il metodo Ferroni-Dini.
I risultati sono fondamentalmente gli stessi di quelli ottenuti con la
tecnica a base di caseina, ma con l'importante differenza che non ven-
gono introdotti permanentemente materiali organici nella struttura del
dipinto, che potrebbero provocare effetti dannosi a causa della prolife-
razione di microrganismi, o a causa delle differenti proprietà fisico-
chimiche del materiale organico [49].
4.6.3 Gli stucchi della Cappella della Madonna di Lourdes nella
Chiesa di S. Giovanni Evangelista di Venezia
La laguna veneziana presenta un particolare contesto ambientale e mi-
croclimatico che ha sempre posto problematiche peculiari, sia riguardo
l'impiego di opportuni materiali in edilizia storica, sia riguardo le tec-
82
niche di esecuzione sia, infine, riguardo i metodi di intervento conser-
vativo messi a punti per contrastare la massiccia azione degli agenti di
degrado tipici di Venezia [55].
Lo stucco veneziano è utilizzato soprattutto per i rivestimenti parietali,
per figurazioni a rilievo decorative o per la definizione di elementi ar-
chitettonici. È un materiale molto compatto e resistente, tuttavia in
molti casi si sono manifestate forme di degrado anche molto avanzate.
Numerose evidenze sperimentali hanno tra l'altro dimostrato che in al-
cuni casi è stato proprio l'impiego di prodotti di restauro a concorrere
all'accelerazione dei naturali processi degradativi [56]. Spesso infatti,
a causa della loro minore durabilità, sono soggetti all'azione degradati-
va molto più del substrato stesso, di natura inorganica, su cui sono sta-
ti applicati. Purtroppo tali effetti non sono solitamente prevedibili.
Il complesso architettonico oggetto dell'intervento di restauro è stato
realizzato nel 1591, quando i confratelli della Scuola di San Giovanni
Evangelista decisero di ampliare la chiesa preesistente. La committen-
za prevedeva la costruzione delle due cappelle laterali, separate da un
corridoio che conduceva al cortile interno dell'abitazione signorile
confinante. Questo ampliamento della chiesa gotica conferì all'edificio
la sua struttura architettonica conclusiva, così come appare tuttora.
La cappella fu oggetto di interventi rilevanti tra il 1872 e il 1885, oc-
casione in cui venne ridedicata alla Madonna di Lourdes. Infatti,
dall'archivio della chiesa, risulta una completa rivisitazione
dell'ambiente: dall'esecuzione delle decorazioni a stucco alla scelta de-
gli arredi e alla stessa messa in opera del pavimento.
Lo stato di degrado dei rivestimenti a stucco e delle figurazioni a rilie-
vo era piuttosto avanzato tanto da richiedere un intervento di pre-con-
solidamento.
L'umidità di risalita infatti aveva generato effetti di disgregazione ri-
scontrabili anche sulla superficie decorata a stucco della parete sinistra
della cappella e delle murature, associati anche ad efflorescenze sali-
ne, evidenti fino alla cornice del piano di imposta. Erano visibili, inol-
83
tre, le alterazioni provocate dalle infiltrazioni di acqua meteorica dal
coperto. Sul soffitto a cassettoni erano notevoli le fessurazioni e i sol-
levamenti della pellicola pittorica con conseguente diffusa caduta della
stessa, a volte accompagnata anche dalla perdita degli strati preparato-
ri sottostanti accentuati specialmente sul lato esterno.
La tipologia del degrado del film pittorico (arricciamento della pelli-
cola) faceva presupporre l'utilizzo di un legante sintetico, il quale po-
teva essere attribuito ad un intervento successivo di ridipintura.
Sulla parete sinistra in corrispondenza del corridoio interno sono
andate perdute, sempre a causa dell'umidità di risalita, gran parte delle
decorazioni a stucco. Le lacune formatesi hanno messo in evidenza gli
strati sottostanti mostrando le cantinelle di supporto e gli strati prepa-
ratori. Si sono riscontrate le tipiche stesure stratigrafiche di uno stuc-
co: fondo a base di inerte a cocciopesto, strato di calce e sabbia, stesu-
ra finale a base di calce e polvere di marmo con aggiunta di pigmento.
Prima dell'intervento di restauro sono state utilizzate tecniche diagno-
stiche indirizzate alla determinazione esatta della composizione e delle
tecniche d'esecuzione delle decorazioni dipinte, nonché dello stato di
degrado dei manufatti. In particolare si è cercato di determinare il con-
tenuto di eventuali sali, informazione importante ai fini della speri-
mentazione che si intendeva condurre mediante le dispersioni di nano-
calce. Infatti la persistenza di soluzioni saline dopo il trattamento
avrebbe potuto compromettere gli eventuali effetti positivi da esso ge-
nerati.
I prelievi sono stati eseguiti sugli stucchi delle pareti e del soffitto.
Gli stucchi delle pareti laterali sono risultati composti da calce, sabbia
e polvere di marmo. Su alcuni compariva uno strato pittorico, presu-
mibilmente originale, a giallo di cromo, bianco di bario e bianco di
zinco, mentre è risultata ovunque una stesura di rifacimento in alcune
aree decoese, costituita da una miscela di bianco di titanio, ocre e terre
naturali.
Le analisi dei sali solubili effettuate sugli stucchi, sull'arriccio a calce
84
e sabbia e sul rinzaffo a cocciopesto hanno presentato cloruri con con-
centrazione massima di 1,5% in peso e un campione ha presentato an-
che solfati in concentrazione 8%. Su tutti i campioni si è evidenziata
una piccola frazione di nitrati (0,2 %).
Gli stucchi del soffitto sono risultati composti da gesso, mentre tutte le
decorazioni a rilievo e gli stucchi di rivestimento sono a base di calce.
I test applicativi sono stati quindi eseguiti su due aree selezionate
(chiamate zona 1 e zona 2) delle pareti, le quali presentavano
essenzialmente due tipologie di degrado.
La zona 1 con polverizzazione degli strati inferiori, mostrava la pre-
senza di evidenti lacune anche se le parti superficiali ancora presenti
mostravano una discreta coesione; la zona 2 presentava evidenti solle-
vamenti fino a completo distacco degli strati superficiali, con
quest'ultimi estremamente fragili ed in parte friabili.
Sono state delineate due aree, di dimensioni 40 x 15 cm, e si è deciso
di intervenire secondo due procedure sulla base della consistenza e
della scabrezza dei materiali.
L'applicazione indicata con P1 è stata utilizzata nella zona 1 ed è basa-
ta sull'uso del pennello con cui il prodotto è stato dosato direttamente
sulla superficie protetta con carta giapponese.
Sulla zona 2, adiacente alla precedente, essendo impensabile il tratta-
mento a pennello data la scarsa consistenza degli strati superficiali, si
è impiegato un nebulizzatore (procedura P2).
L'intervento non ha richiesto la pulitura della superficie, operazione
tra l'altro impossibile da effettuare data l'estrema fragilità del materia-
le.
L'applicazione del trattamento è stata suddivisa in due fasi: la prima
ha previsto l'impiego di circa 400 ml di dispersione a concentrazione
4,5 g/l, la seconda, a distanza di circa 24 ore, ha richiesto 100 ml della
dispersione a concentrazione 2,2 g/l.
Sono state applicate quantità di prodotto consistenti; nonostante que-
sto non si sono evidenziate alterazioni, almeno a livello visivo, delle
85
caratteristiche morfologiche delle superfici. Il materiale è penetrato in
grandissima parte e non sono state alterate le cromie presenti a livello
di strato superficiale.
L'analisi diffrattometrica non ha fornito informazioni utili sugli effetti
del trattamento riguardo agli strati superficiali a base di calce e polve-
re di marmo, data la composizione del tutto omogenea del materiale
(calcite al 95%). Risultati invece più interessanti ed effetti evidenti si
sono registrati a livello dello strato interno a base di inerte a cocciope-
sto per il quale si è osservato un netto aumento della frazione
carbonatica (legante) per effetto del trattamento.
Sulla zona 1 sono stati eseguiti numerosi scotch tape test, prima e
dopo il trattamento. Le misure effettuate trascorsi 35 giorni dall'appli-
cazione hanno riguardato non solo le parti a vista, ma anche gli strati
interni dello stucco messi a nudo dalla presenza di ampie lacune. I ri-
sultati ottenuti hanno evidenziato un apprezzabile effetto di ricoesio-
namento, sia sulle parti più incoerenti (strati interni), sia sugli strati
superficiali (comunque più compatti).
Lo scotch tape test ha fornito informazioni anche sulle proprietà mec-
caniche delle superfici. In particolare ha consentito di esprimere il gra-
do di coesione superficiale dei materiali esaminati. La tecnica è risul-
tata poco invasiva ed eseguibile in situ.
Dai risultati ottenuti dai test sperimentali si evince quindi che il tratta-
mento di preconsolidamento è risultato soddisfacente [57].
4.6.4 Gli affreschi della Cappella del Podestà al Museo del Bargel-
lo di Firenze
Il ciclo di affreschi sul quale è stato eseguito l'intervento è opera della
scuola di Giotto (XIV secolo) ed è piuttosto famoso per la presenza, in
una scena, di una figura riconosciuta come il ritratto di Dante (Fig.
47). I dipinti, scialbati alla fine del '500, sono stati in seguito oggetto
di svariati interventi di restauro che li hanno in parte snaturati a causa
86
di reintegrazioni, ridipinture o fissaggi eseguiti con resine.
Le scene oggetto di restauro sono le “Storie della Maddalena di San
Giovanni Battista” e il “Paradiso”. Il lavoro, svolto sotto la direzione
dell'Opificio delle Pietre Dure, prevedeva la sperimentazione di nano-
materiali per risolvere una problematica che non si inseriva solo
nell'ambito del pre-consolidamento, ma che era quella di conferire
nuovo vigore strutturale, oltre che estetico, alle porzioni di film pitto-
rico ancora integre.
Fig. 47: il ritratto di Dante in una rielaborazione grafica [58].
Nel progettare l'intervento, era tuttavia necessario considerare che
qualunque procedura di consolidamento che prevedesse l'impiego di
soluzioni acquose (ad esempio l'idrossido di bario) provocava la for-
mazione di maculature gialle a causa della movimentazione di sostan-
ze organiche, introdotte nei restauri precedenti, che risalivano verso la
superficie pittorica.
Queste sostanze costituivano un impedimento anche all'uso di disper-
sioni in solvente non acquoso perché agivano da impermeabilizzanti
per la superficie, rendendo così necessario l'impiego di sistemi molto
diluiti.
In questo contesto si è inserita così la possibilità di sperimentare la
87
metodologia basata sull'impiego di nanoparticelle di idrossido di cal-
cio disperse in alcool isopropilico. La sperimentazione aveva lo scopo
di determinare in situ quali fossero le reali potenzialità del consolidan-
te e le modalità di applicazione per ottenere le migliori prestazioni.
Le zone prescelte per la sperimentazione erano distribuite su di
un'intera parete, in prossimità di una finestra; le prove preliminari
sono state effettuate su una porzione costituita da pigmento (terra ver-
de) polverulento, ma piuttosto adeso al substrato (zona 1). L'area è sta-
ta divisa in due parti uguali, 13 x 15 cm2 ciascuna, e trattata con una
dispersione di Ca(OH)2 nanometrico in 2-propanolo, di concentrazione
0,0085 M (lato destro) e 0,0043 M (lato sinistro). L'applicazione è sta-
ta eseguita a pennello fino a rifiuto, su carta giapponese preventiva-
mente bagnata con 2-propanolo. A superficie asciutta si è osservato
che entrambe le aree presentavano velatura di intensità proporzionale
alla concentrazione usata.
Si è quindi proceduto con l'applicazione di un impacco d'acqua deio-
nizzata su supporto di polpa di cellulosa, proteggendo la superficie
con carta giapponese, per rimuovere l'imbianchimento (tempo di con-
tatto: rispettivamente 15 e 30 minuti per la zona sinistra e destra). Tra-
scorsa una settimana dall'applicazione, sono state eseguite delle prove
di assorbimento d'acqua sulle superfici trattate: quella di destra, che
aveva ricevuto la dispersione più concentrata, risultava più assorbente
di quella di sinistra, trattata con un sistema più diluito. Era evidente
come l'eccessiva concentrazione non costituisse un fattore positivo per
il consolidamento, ma piuttosto un impedimento alla penetrazione del-
le particelle disperse. Inoltre l'impiego dell'impacco d'acqua necessa-
rio per rimuovere le consistenti velature aveva generato un ingialli-
mento della zona, rendendo inaccettabile l'adozione di questa metodi-
ca per l'intervento. L'unica soluzione ad un simile problema era di ef-
fettuare un trattamento preliminare che consentisse di aprire la porosi-
tà della superficie, solubilizzando le sostanze organiche altrimenti im-
penetrabili e favorendo così la distribuzione del consolidante all'inter-
88
no della matrice. Per verificare che il 2-propanolo fosse un solvente
adatto a questo scopo, è stato effettuato un pre-trattamento su due di-
verse porzioni del dipinto. L'operazione consisteva nell'applicare il 2-
propanolo, puro o in soluzione con il 20% di acqua a pennello, fino a
rifiuto, proteggendo la superficie pittorica con carta giapponese. A su-
perficie asciutta si è riscontrato che, mentre la zona trattata con la mi-
scela alcol-acqua, mostrava un discreto ingiallimento ai bordi dell'area
interessata, le aree trattate invece con 2-propanolo puro non avevano
subito alcuna alterazione indesiderata. Inoltre, la porosità di queste su-
perfici appariva più aperta e assorbente, priva dell'innaturale lucen-
tezza percettibile prima dell'intervento e conferita dalla presenza di so-
stanze estranee al dipinto. Si è quindi proceduto applicando dispersio-
ni di idrossido di calcio nanometrico a composizione diversa sulle due
zone che avevano dato un risultato soddisfacente: 0,0043 M in 2-pro-
panolo contenente il 2% di acqua in peso (zona 2 dx) e 0,0043 M in
una miscela contenente 2-propanolo e il 10% d'acqua in peso (zona 3).
la presenza di una certa percentuale d'acqua nella dispersione è neces-
saria per assicurare una buona carbonatazione del consolidante.
L'applicazione è stata ripetuta una seconda volta per entrambe le di-
spersioni, a distanza di 24 ore dalla prima.
Trascorsa una settimana, nelle due zone si è riscontrata l'assenza sia di
imbianchimenti, sia di maculature; il colore, inizialmente arido, appa-
riva più consistente, ma senza l'indesiderata lucidità propria della su-
perficie contaminata da sostanze organiche.
Visto l'effetto positivo del lavoro, anche altre due zone sono state trat-
tate con la stessa procedura usata per la seconda zona (pre-trattamento
con 2-propanolo, poi due applicazioni della dispersione 0,0043 M
contenente il 10% d'acqua).
La sperimentazione di questo consolidante per affreschi è stata affian-
cata da uno studio colorimetrico di alcune aree specifiche. Sono state
così identificate 6 zone, due a due differenti. Due zone sono state con-
solidate con l'idrossido di calcio nanofasico, le due zone intermedie
89
sono state lasciate come controllo e le ultime due sono state consolida-
te col metodo solitamente utilizzato dall'Opificio delle Pietre Dure,
vale a dire la pasta cellulosica con idrossido di bario in percentuale va-
riabile, che nel caso specifico è risultata dell'8% e con un tempo di
contatto di 2 ore e 30 minuti.
Per ognuna delle zone sono stati identificati sei punti sui quali sono
state effettuate le misure di controllo per evidenziare eventuali varia-
zioni di colore dovute al prodotto consolidante.
Le misure di controllo sono state effettuate prima dell'operazione di
consolidamento e dopo circa due mesi dalla messa in opera dei conso-
lidanti.
Nella zona trattata con idrossido di bario si ha una tendenza alla dimi-
nuzione della luminosità e un ingiallimento della superficie, mentre
nella zona trattata con idrossido di calcio nanofasico si ha un compor-
tamento opposto con un aumento della luminosità e uno spostamento
verso il blu, e anche nelle aree non trattate si hanno variazioni, molto
simili per comportamento a quelle della zona trattata con idrossido di
calcio nanofasico.
Il risultato quindi è assolutamente positivo [59].
4.6.5 Gli affreschi della cripta di San Zeno a Verona
Oggetto del presente intervento di restauro sono le pitture murali me-
dievali (XIII e XIV secolo) eseguite a calce, a fresco e a secco nella
cripta della Basilica di San Zeno di Verona [60].
Le pitture mostravano un forte degrado, come perdita di coesione dei
pigmenti e strato biancastro sulle superfici. Scartate le resine acriliche
e fluorate, nonché il silicato di etile, per problemi di alterazioni del
cromatismo delle pitture e di rischio di perdita di permeabilità, si è de-
ciso di utilizzare consolidanti inorganici.
Purtroppo la percentuale di umidità relativa della cripta è piuttosto alta
e fenomeni di condensazione si alternano frequentemente sui sottili
90
strati pittorici, a stento aggrappati alle superfici di pietra dei pilastri.
Vista quindi la complessità del caso in esame, l'impiego di nanodisper-
sioni di idrossido di calcio come materiale consolidante si è configura-
to come il metodo più promettente, sia per la sua compatibilità con il
substrato, sia per la capacità di penetrazione. Le nanoparticelle sono
state preparate e caratterizzate secondo la metodologia riportata in let-
teratura [49]. La fase disperdente più idonea a questo tipo di tratta-
mento è costituita da una miscela di alcol isopropilico (98% in peso) e
acqua (2% in peso), che ha la giusta velocità di evaporazione e buona
capacità di essere assorbita nella matrice porosa. La presenza di acqua
in piccola quantità, inoltre, costituisce un'importante riserva per
favorire il processo di carbonatazione del legante.
L'intervento vero e proprio è stato preceduto da prove di confronto tra
due serie di dispersioni, nano e micro, di idrossido di calcio in alcol
isopropilico, contenenti il 2% di acqua in peso, a diversa concentrazio-
ne. Dopo opportuna sonicazione (15 minuti), 20 μl di ogni dispersione
sono stati posti sulla superficie del provino (una mattonella di terracot-
ta con stesure di arriccio e intonaco, il cui pigmento era stato stempe-
rato in sola acqua e steso a secco per simulare la decoesione dello stra-
to pittorico). Le dispersioni più concentrate per entrambe le tipologie
di consolidante sono quelle che producono velature più marcate. Si
notano però alcune differenze riguardo l'imbianchimento: quello gene-
rato dalla nanodispersione si presenta come un film sottile e lucente,
mentre quello prodotto dalla micro è simile ad un'efflorescenza ed è
più difficile da rimuovere. Le dispersioni più diluite, invece, sembrano
penetrare meglio e non producono evidenti imbianchimenti.
Dallo studio fatto è emerso che la concentrazione che produce satura-
zione della superficie trattata è più bassa per le nanodispersioni che
per quelle micro. A parità di effetto consolidante (verificato poi nel
corso delle applicazioni in situ), si è evidenziato che l'efficacia del me-
todo non è soltanto legata alla quantità di materiale introdotto, ma di-
pende anche dalla sua qualità in termini di morfologia e dimensioni,
91
che ne determinano la superficie “attiva” e quindi la capacità di intera-
zione col substrato. In sistemi ad elevata area superficiale, come quelli
costituiti da nanoparticelle, l'interazione fra ogni singola unità consoli-
dante e la matrice è molto favorita e viene ottimizzata quando la con-
centrazione è bassa, perché il moto di ogni particella non è impedito
dall'ingombro di altre. Invece nei sistemi micrometrici, dove la morfo-
logia irregolare e le dimensioni delle particelle sono confrontabili con
quelle dei grani che compongono la matrice, l'approccio del consoli-
dante al substrato avviene in maniera più disordinata; così, al raggiun-
gimento del livello di saturazione si produce imbianchimento che, pur
non differenziandosi in maniera evidente dalla matrice porosa, non
origina un miglior consolidamento.
Dopo questi risultati si è proseguito con le prove in cantiere, su un to-
tale di 13 zone campione, selezionate in porzioni marginali, ma rap-
presentative delle molteplici tipologie di degrado.
Inizialmente si sono utilizzate nano e microdispersioni concentrate per
un massimo di sei applicazioni: per ogni applicazione, eseguita fino a
rifiuto, si è misurata la quantità di materiale introdotto e si è posta at-
tenzione all'eventuale comparsa di depositi superficiali di carbonato di
calcio.
Su ogni prova e per ogni tipo di pigmento si sono verificati il grado di
ricoesionamento dei pigmenti in polvere e la tenuta della riadesione
dei sollevamenti e delle scaglie di colore, mediante una procedura uni-
voca di controllo incentrata nella campionatura eseguita per “rullag-
gio” di uno stoppacciolo bagnato sulla superficie trattata e nella suc-
cessiva valutazione a secco della quantità dei residui di pigmento non
riadeso rimossi del tampone.
Questo sistema ha permesso, per mezzo dell'esecuzione preliminare di
un campione di confronto eseguito in zone limitrofe non trattate e del
raffronto dei tamponi prelevati dalle aree campione, di valutare l'effet-
tivo decremento della perdita di colore ottenuto con ogni applicazione
fino al raggiungimento del massimo grado di consolidamento possibi-
92
le per ogni pigmento o area degradata.
Per la riadesione dei sollevamenti e delle esfoliazioni, sono state testa-
te nanodispersioni in maggiore diluizione.
L'idrossido di calcio in microdispersione è stato applicato in tutti i casi
di rilevata mancanza di coesione dei pigmenti e in presenza di solleva-
menti di colore a scaglie o aperti, mentre lo stesso in nanodispersione
è stato per lo più utilizzato per la riadesione di sollevamenti a forma
chiusa.
Si è quindi proceduto prima con applicazione di carta giapponese con
alcool isopropilico e una piccola aggiunta di acqua demineralizzata
per migliorare il contatto del supportante con la superficie da trattare;
successivamente si è provveduto all'imbibizione delle dispersioni fino
a saturazione, al riadagiamento delle porzioni di colore sollevato e del-
le “sbollature”, a successive applicazioni della dispersione usufruendo
dello stesso supportante ancora aderente alla superficie, e infine
all'asciugatura dell'area trattata e rimozione a secco della carta giappo-
nese (Figg. 48-49).
Due applicazioni di idrossido di calcio sono risultante mediamente
sufficienti a stabilizzare la pellicola pittorica e consentire le successive
operazioni di restauro previste, articolate in pulitura, consolidamento
di profondità, rimozione e risarcimento delle vecchie stuccature, inte-
grazione pittorica.
In conclusione l'impiego dell'idrossido di calcio ha ottenuto esiti
positivi in cantiere, ma non senza limiti che si sono rivelati nel corso
della sua utilizzazione, vale a dire la diversa capacità di
consolidamento delle dispersioni che, a parità di diluizione e di
numero di applicazioni, ha determinato un minor grado di
ricompattamento dei pigmenti.
Nonostante ciò, il grado di stabilizzazione della policromia raggiunto
è da considerarsi sufficiente per la conservazione della decorazione
parietale escludendo la futura applicazione di materiali e trattamenti
diversi [60].
93
Fig. 48: pitture nella cripta di San Zeno, prima (in alto) e dopo il trattamento con
nanocalci (in basso) [15]
94
Fig. 49: particolare di un affresco nella cripta di San Zeno, prima (in alto) e dopo
l'applicazione delle nanodispersioni di calce [15]
95
4.7 Esempi di sperimentazione e restauro con l'impiego di nano-
calci nel mondo
4.7.1 I dipinti murali dei siti archeologici Maya in Messico
Le pitture murali delle antiche civiltà del Mesoamerica presentano ca-
ratteristiche peculiari nell'uso dei materiali, tali da rappresentare oggi
una delle più difficili sfide per i conservatori, anche per via delle parti-
colari condizioni microclimatiche dell'area sub-tropicale che costrin-
gono ad un'attenta scelta della più opportuna metodologia conservati-
va. Questi dipinti infatti soffrono soprattutto di bio-deterioramento a
causa di micro-organismi, batteri e alghe che possono crescere sulla
superficie degli strati pittorici ottenendo nutrimento dalla polvere o dai
componenti organici dei dipinti stessi. In tali condizioni dunque la
compatibilità chimico-fisica dei prodotti da impiegare diventa non
solo un'opportunità ma un imperativo categorico da rispettare.
Nel sito archeologico Maya di Calakmul (Fig. 50), patrimonio
dell'UNESCO, sono state scoperte estese scene pittoriche, misteriosa-
mente sepolte dalle antiche popolazioni Maya, che tornate alla luce e a
contatto con l'ambiente, hanno richiesto urgenti intervento di consoli-
damento dello strato pittorico e dei supporti [61].
Fig. 50: veduta dell'area archeologica dalla sommità della Piramide II [62]
96
L'area di Calakmul è infatti caratterizzata da un regime climatico sub-
tropicale con temperature pressoché stabili durante tutto l'anno (25-
35°C), valori di umidità relativa estremamente elevati (dal 75% al
95%) per gran parte dell'anno, e una breve stagione delle piogge. Pre-
cedenti interventi eseguiti in altri siti dello Yukatan mediante utilizzo
di polimeri sintetici mutuati dalle esperienze europee (Paraloid B72,
Mowilith 30, Primal AC 33) hanno prodotto, sfortunatamente, effetti
spesso disastrosi. Infatti se in ambienti controllati i risultati sono spes-
so accettabili, in siti archeologici con le condizioni climatiche del Me-
soamerica, l'uso di polimeri sintetici produce, dopo pochissimi anni,
forte accelerazione delle reazioni chimiche che portano al degrado dei
dipinti, come distacco ed esfoliazione delle superfici, perdita di ade-
sione del pigmento e ingiallimento dei polimeri.
Le precedenti esperienze hanno perciò condotto gli archeologi alla ri-
cerca di metodologie innovative e più rispettose delle caratteristiche
chimico-fisiche e micro-strutturali dei materiali originali, come il trat-
tamento con nanodispersioni di idrossido di calcio.
Il sito archeologico di Calakmul si trova nella regione di Peten, nella
parte meridionale dello stato di Campeche (Messico), presso il confine
con il Guatemala (Fig .51).
L'intera serie di edifici che costituivano la città è immersa nella Riser-
va di Calakmul, un'area protetta di circa 724000 ettari di giungla tropi-
cale. Calakmul costituiva uno dei centri più importanti della civiltà
Maya del periodo classico (250-800 d.C.); il sito contiene un gran nu-
mero di monumenti scolpiti, e più di 120 steli che riportano la storia
delle popolazioni che lo abitavano.
Vi sono evidenze che la città sia stata abitata per più di 12 secoli, a
partire dal 400 a.C. (periodo Pre-Classico), raggiungendo il massimo
sviluppo tra il 600 e l'800 d.C. (periodo Tardo Classico) e quindi ve-
nendo lentamente abbandonata intorno al 900 d.C. (periodo Post-Clas-
sico).
97
Fig. 51: mappa del sito archeologico di Calakmul in relazione con gli altri siti
Maya [63].
Calakmul fu scoperta nel 1931 dal botanico Cyrus Lundell, che diede
al sito archeologico l'attuale nome, che in lingua Maya significa Ca
“due”, lak “vicine”, mul “colline artificiali (piramidi) o cumuli”.
L'area urbana di Calakmul è suddivisa principalmente in sei aree:
Gran Plaza, Gran Acropolis, Acropolis Norte o Acropolis Chik Naab,
Grupo Noreste, Grupo Sureste e Pequeña Acropolis (Fig. 52).
Fig. 52: mappa del complesso archeologico di Calakmul [64].
98
Sono stati finora identificati, all'interno delle sei aree, circa 6250 tra
edifici, sculture e monumenti quali steli e altari.
Nel 1993 è nato il Proyecto Arqueologico Calakmul (PAC), che fino al
2005 ha pianificato ed eseguito, di anno in anno, scavi in tutta l'area.
Tra febbraio e settembre 2005 sono stati effettuati scavi e restauri in
Gran Plaza, Gran Acropolis e Acropolis Chik Naab (o Acropolis Nor-
te) (Fig. 53).
Fig. 53: mappa del complesso archeologico di Calakmul a maggiore scala di detta-
glio [65].
Il lavoro si è concentrato soprattutto nella Gran Plaza e nell' Acropolis
Chik Naab.
Nella primo sito la Struttura II (Fig. 54) consta di una piattaforma sul-
la quale emergono approssimativamente 9 edifici in forma di Acropo-
lis. Gli interventi si sono concentrati su uno degli edifici, denominato
Sub II-c1, su vari elementi di stucco modellato policromo, come il fre-
gio della sua facciata principale (Fig. 55) con 20 m di larghezza e 4 m
di altezza, in cui si rappresenta un personaggio con caratteristiche di
rettile al centro, fiancheggiato da due uccelli con elementi di serpente.
Altri elementi in stucco sono due grandi maschere: la prima (Fig. 56),
di dimensioni 375 x 170 cm, fa parte della facciata dell'edificio che
99
fiancheggia la scalinata principale che parte dal livello della Gran Pla-
za e porta alla parte interna del complesso architettonico retrostante,
verso sud; l'altra maschera è situata nella parte ovest della facciata del-
lo stesso edificio.
Fig. 54: vista aerea della Struttura II in Gran Plaza, prima (in alto) e dopo l'inter-
vento (in basso) [66].
100
Fig. 55: fregio nella Substruttura II-c1 durante (in alto) e dopo (in basso) l'interven-
to di restauro [66] [67].
101
Fig. 56: maschera di stucco policroma nella Substruttura II-c1 [66].
Le maschere erano state identificate durante l'esplorazione delle prece-
denti strutture e si era scoperto che erano state intenzionalmente sep-
pellite usando un insieme di materiali selezionati (pietre con dimensio-
ni ben definite e un gran numero di frammenti di ceramica) e uno stra-
to spesso di riempimento, consistente in stucco di malta e gesso de-
composti e calcare. La deliberata e attenta sepoltura indica l'intenzione
di preservare questi elementi, probabilmente per ragioni religiose.
Le condizioni generali delle maschere sono buone: qualche sezione si
è separata dal supporto e, in alcuni casi, rotta, ma è rimasta in situ. I
pigmenti decorativi sono stati trovati anch'essi in buono stato di con-
servazione. L'esposizione di questi elementi a nuove condizioni clima-
tiche (luce, temperatura e umidità) è stata monitorata e controllata per
minimizzare i potenziali effetti negativi, mediante l'installazione di co-
102
perture e limitando la presenza di persone al minimo numero neces-
sario per effettuare le delicate operazioni di escavazione e restauro
[68].
L'edificio Sub II-c2, localizzato a sud del precedente e a circa 35 m di
distanza, ha anch'esso un'enorme maschera la cui bocca corrisponde a
una volta a botte, unica per la zona Maya e per tutto il continente ame-
ricano di questo periodo (Fig. 57).
Fig. 57: volta a botte della Substruttura II-c2 [66].
Nell' Acropolis Chik Naab i lavori si sono concentrati nel primo grup-
po (Gruppo A) e nella Struttura I, dove dipinti murali ben conservati
del periodo Pre-Classico (250 – 600 a.C.) dovevano essere esaminati e
restaurati.
I dipinti del Gruppo A sono localizzati sullo schienale e sulla parte in-
feriore della cosiddetta banqueta, una camminata sopraelevata che ser-
ve da passaggio e confine tra questa Acropolis e l'area centrale della
città (Fig. 58).
103
Fig. 58: veduta esterna (in alto) e interna (in basso) del Gruppo A6 dell'Acropolis
Chik Naab, in cui si evidenzia la banqueta, una camminata sopraelevata con
un'estesa decorazione pittorica [62].
104
I dipinti del Gruppo A6 sono tra quelli che, in seguito al dissotterra-
mento, hanno richiesto maggiori interventi di consolidamento. Essi,
infatti, mostravano fenomeni di deterioramento, dovuti principalmente
all'azione di infiltrazioni di acqua e di soluzioni saline contaminanti la
matrice porosa della parete.
L'invecchiamento naturale ha provocato in alcune zone il distacco del-
lo strato pittorico e la polverizzazione della superficie con perdita di
coesione tra pigmenti e substrato [69].
Nella Struttura I della stessa Acropolis, i dipinti murali coprivano in-
vece i muri (o i gradoni) della Substruttura piramidale (Fig. 59), datata
nel Periodo Pre-Classico. L'edificio quadrato ha una base di 10 m2 ed
è alto 5 m. Sono state state esplorate le sezioni est e ovest, con la se-
zione est ben conservata rispetto a quella ovest che risulta solo parzial-
mente conservata.
Questi dipinti costituiscono uno dei più importanti documenti della
storia dell'arte pre-colombiana e un raro esempio di dipinto Maya del
periodo Pre-Classico (Fig. 60).
I dipinti riproducono scene di vita quotidiana (Figg. 61-63) che posso-
no dare una visione delle relazioni sociali del popolo Maya. Questa
scoperta archeologica è straordinaria in quanto il popolo Maya, così
come molte altre civiltà, rappresentava per lo più divinità, autorità re-
ligiose e governanti; i dipinti che descrivono attività domestiche e arti-
gianali della popolazione Maya sono state trovate solo nel sito archeo-
logico di Calakmul.
105
Fig. 59: Struttura I dell'Acropolis Chik Naab [46].
Fig. 60: dipinti murali del periodo Pre-Classico, che decorano la Substruttura I nel
lato sud-est dell'edificio [63]
106
Fig. 61: dettaglio del dipinto murale della Substruttura I; la scena mostra un mo-
mento in cui viene preparato e servito un pasto [70].
Fig. 62: dettaglio del dipinto murale della Substruttura I; la scena mostra una nobil-
donna mentre sistema una grande giara di farina di mais o pappa di granturco sulla
testa di una serva [71].
107
Fig. 63: dipinto murale della Substruttura I: scena di un portatore che trasporta un
vaso usando una fascia legata alla fronte [63].
108
4.7.1.1 Dispersioni di nanocalce per il consolidamento dei dipinti
murali di Calakmul
Nel 2004, sono iniziati gli scavi nel complesso di Chik Naab, gruppo
architettonico di circa 2,5 ettari a nord del nucleo principale.
Tra i suoi confini sono stati rilevati 68 edifici, di cui la Struttura I è la
più alta. Scoperta come un mucchio crollato, era stata prima pulita dei
detriti superficiali e poi consolidata prima che fosse scavato un tunnel
per esplorare il suo interno. Come molti edifici Maya, la Struttura I ha
dimostrato di essere un accrescimento di strutturazioni sovrapposte.
I dipinti trovati sui muri della Struttura I misurano 9 x 9 m di base e 8
m di altezza [70]. Sebbene non prodotti mediante la tecnica dell'affre-
sco vera, i risultati delle indagini effettuate suggeriscono che questi di-
pinti siano stati realizzati con un legame durevole con la superficie del
gesso ottenendo un effetto simile all' affresco.
I colori usati sono blu, verde e una varietà di gialli, rossi e marroni ap-
plicati sullo sfondo di uno stucco bianco-grigio con tinta rosata.
Alcune delle figure umane dipinte sono sproporzionate, e ciò è eviden-
te soprattutto nelle dimensioni delle teste e delle spalle.
I dipinti mostrano gruppi di uomini, donne e bambini impegnati in dif-
ferenti attività. La proporzione delle donne è molto elevata paragonata
con l'arte Maya in generale e circa un terzo delle figure ci sono donne.
La maggior parte delle scene includono immagini di vasi di ceramica,
vassoi, e vari tipi di contenitori. Altre scene mostrano persone che pre-
parano dei pasti ed altre che li consumano (Fig. 64).
Per consolidare le superfici pittoriche sono state usate nanoparticelle
di idrossido di calcio in sospensione alcolica e nanoparticelle di idros-
sido di bario. Questa formulazione ha dato effetti positivi e un buon
consolidamento (con risultati significativi già dopo una settimana)
anche se i dipinti avevano un alto contenuto di sali solfato.
Infatti in presenza di grandi quantità di solfati, l'effetto di
109
consolidamento dell'idrossido di calcio è supportato dall'uso
complementare delle nanoparticelle di idrossido di bario, che porta
alla formazione di un solfato di bario totalmente insolubile, e quindi
inerte [63].
Fig. 64: scena che mostra una donna con un contenitore cilindrico di ceramica [63].
La caratterizzazione chimico-fisica delle particelle, precedentemente
all'applicazione, è avvenuta tramite misure di diffrazione di raggi X
(XRD) e di microscopia elettronica a scansione (SEM).
È noto come nella tecnica pittorica Maya si utilizzassero estrattivi e
resine di piante locali, quali phitecellobium albicans (chucum), burse-
ra simaruba (chaca) e brosimum alicastrum (ramòn). L'impiego di
110
queste sostanze era esteso alla realizzazione degli intonaci, per lo spe-
gnimento della calce, ma anche alla stesura dello strato pittorico, in
cui essi venivano utilizzati come leganti.
È plausibile che la presenza di resine vegetali nello strato pittorico
conferisca caratteristiche idrofobiche alla superficie, che potrebbero
risultare essenziali per la conservazione dei dipinti in regioni così umi-
de.
Per valutare l'idrorepellenza dello strato pittorico dei campioni prele-
vati dal sito, si sono effettuate misure di assorbimento capillare di ac-
qua su un campione staccato proveniente dal Gruppo A6. L'acqua è
stata fatta assorbire direttamente dallo strato pittorico, valutando
l'aumento in peso del campione nel tempo. Le misure sono state effet-
tuate prima e dopo il trattamento consolidante dei campioni con una
dispersione di nanoparticelle di idrossido di calcio (denominata “di-
spersione 1”).
Dopo un primo trattamento con dispersione alcolica di nanoparticelle
si è registrato un leggero aumento nella quantità totale di acqua assor-
bita dal campione. Anche la velocità di assorbimento è cresciuta dopo
il trattamento. Questo dato ha portato all'ipotesi che l'alcool potesse
aver solubilizzato in parte la frazione organica, costituita da estrattivi
vegetali, presente nello strato pittorico, abbassandone l'idrorepellenza.
Anche se a tale alterazione non è risultata associata una perdita di
pigmentazione, si è pensato al modo di limitarne l'entità.
A tale scopo è stata proposta una diversa formulazione delle dispersio-
ni basata sull'aggiunta di una parte di resina di Ramon (denominata
“dispersione 2”). La resina è stata ricavata direttamente dalla pianta, e
una piccola porzione di estratto (1 ml) è stata diluita con 2-propanolo
(9 ml) ad ottenere una dispersione flocculosa della gomma. Sono stati
inoltre prelevati 30 ml di dispersione di Ca(OH)2 in forma di nanopar-
ticelle a concentrazione di 5 g/l. Le due dispersioni sono quindi state
unite e trattate in bagno a ultrasuoni per 4 ore, fino ad ottenere una di-
spersione cineticamente stabile (su tempi di 3-4 ore). La dispersione
111
lattiginosa presentava una tenue colorazione beige-chiaro. È stata ap-
plicata a pennello e “a rifiuto” sulla pittura murale, protetta con carta
giapponese. Dopo qualche ora dall'applicazione, è stato posto sulla su-
perficie un impacco di acqua demineralizzata, per 1 ora circa, allo sco-
po di mantenere umida la superficie e rallentare il processo di carbo-
natazione. Al termine del trattamento non si è osservato alcun effetto
estetico sgradevole (imbianchimento o alterazione cromatica).
Dopo il trattamento è stata effettuata una misura di risalita capillare, la
quale ha evidenziato che l'idrorepellenza è stata in buona parte conser-
vata. Difatti, entro le prime due ore di risalita, la velocità di assorbi-
mento è paragonabile a quella precedente il trattamento. I buoni risul-
tati hanno suggerito l'opportunità di utilizzare dispersioni contenenti
estratti di Ramon per il consolidamento dei dipinti murali di Calak-
mul. Questo assicura il rispetto del criterio di massima compatibilità
chimico-fisica tra agente di restauro e substrato su cui esso viene ap-
plicato e di raggiungere quindi un soddisfacente livello di consolida-
mento.
Le immagini seguenti (Fig. 65) mostrano l'effetto della procedura di
applicazione delle nanoparticelle sulle superfici dei dipinti.
112
Fig. 65: dettaglio dei dipinti murali della Struttura I dell'Acropolis Chik Naab. Le
immagini a sinistra mostrano la presenza di solfati e fenomeni di distacco che han-
no danneggiato i dipinti; le immagini a destra mostrano lo stesso dettaglio sei mesi
dopo l'applicazione della miscela di nanoparticelle di idrossido di calcio/bario [46].
113
5. Il nanoidrossido di stronzio
5.1 Il nanoidrossido di stronzio: proprietà, sintesi e applicazioni
Il nanoidrossido di stronzio Sr(OH)2 è, insieme alla nanocalce, un con-
solidante facente parte degli idrossidi alcalini.
Questo materiale è ancora in fase sperimentale ma può avere interes-
santi applicazioni nella conservazione del patrimonio culturale in luo-
go di soluzioni molto tossiche come ad esempio l'idrossido di bario.
Viene spesso utilizzato anche per l'eliminazione di sali nella pietra,
nelle pitture murali e nei rivestimenti in gesso, grazie alla loro alta
reattività con gli ioni solfato [72].
Grazie al suo carattere basico, entrando in contatto con superfici che
hanno subito processi di acidificazione per via di agenti di deteriora-
mento, come pietre di tipo carbonatico (calcare, dolomia, marmo),
malte e ceramiche [72], può modificare il loro pH e portare alla loro
deacidificazione.
L'utilizzo di soluzioni alcoliche, spesso preferite per via del loro carat-
tere volatile, la bassa tensione superficiale, la facile capacità di pene-
trazione e il rispetto dell'ambiente naturale, assicura l'omogeneità e la
profondità di penetrazione neutralizzando l'acidità e riducendo la cine-
tica del processo di degrado [72].
Una tecnica di sintesi di queste nanoparticelle, oggetto di un recente
studio sperimentale [73], è quella in fase omogenea a bassa temperatu-
ra.
Il processo sperimentato produce le nanoparticelle di idrossido di
stronzio iniziando da materiali grezzi a basso costo in mezzo acquoso
(fase omogenea) e a bassa temperatura (sotto i 100°C) tramite precipi-
tazione chimica da soluzioni saline, richiedendo passi operativi molto
semplici ed evitando l'uso di solventi organici, apparecchiature specia-
listiche, lunghi tempi di processo o componenti chimici costosi.
114
I materiali impiegati sono il nitrato di stronzio Sr(NO)3 (purezza del
99,95%) e l'idrossido di sodio NaOH (purezza del 99,99%), utilizzati
senza ulteriori processi di purificazione.
Quantità appropriate dei due composti vengono dissolte in acqua sepa-
ratamente in modo da ottenere soluzioni di 0,7 M per il nitrato di
stronzio e 0,3 M per l'idrossido di sodio. La soluzione di Sr(NO)3 vie-
ne poi riscaldata fino alla temperatura di sintesi di 60°C con un bagno
termostatico ad acqua. La reazione ha luogo facendo gocciolare, me-
diante energica agitazione, la soluzione basica nella soluzione salina di
stronzio, mantenendo la temperatura costante al valore di 60°C ± 1°C.
La selezione delle concentrazioni della soluzione e della temperatura è
essenziale per raggiungere l'alto grado di supersaturazione necessario
per avere una velocità di nucleazione dell'idrossido di stronzio suffi-
cientemente più grande rispetto alla velocità di accrescimento dei cri-
stalli [74].
Questo infatti è un importante requisito per la produzione delle nano-
particelle, dato che una rapida nucleazione, seguita da un lento accre-
scimento delle particelle, è fondamentale per sintetizzare nanoparticel-
le di alta qualità in termini di uniformità della forma e distribuzione
dimensionale.
Sebbene la solubilità dell'idrossido di stronzio sia più alta degli altri
idrossidi (calcio, magnesio), le condizioni sperimentali idonee richie-
ste per raggiungere un alto grado di supersaturazione sono ben definite
e ottenibili facilmente, e permettono di produrre nanoparticelle di for-
me regolari, omogenee e con un diametro in media piuttosto piccolo.
Quando la precipitazione di Sr(OH)2 è completa, la miscela viene me-
scolata energicamente e continuamente per ulteriori 60 min (tempo di
invecchiamento) in modo da disgregare il precipitato bianco nel minor
tempo possibile. La sospensione acquosa di Sr(OH)2 viene poi raffred-
data fino alla temperatura ambiente e lasciata decantare per 24 ore. La
soluzione supernatante viene aspirata da una pipetta e la sospensione
rimanente viene lavata per tre volte con acqua fredda deionizzata (la-
115
sciando decantare la soluzione ogni volta per 24 ore) in modo da
eliminare il nitrato di sodio solubile in eccesso. Infine, la sospensione
acquosa Sr(OH)2 viene trattata in un bagno ultrasonico per 30 min per
ridurre ulteriormente le dimensioni delle particelle.
Tutte le operazioni vengono compiute in atmosfera d'azoto per evitare
indesiderati effetti collaterali come la formazione di carbonati derivan-
ti da atmosfere con diossido di carbonio [45].
La morfologia della polvere di idrossido di stronzio così preparata, in-
dagata mediante la tecnica SEM (Fig. 66) mostra che il campione di
Sr(OH)2 è costituito da una grande quantità di particelle nanodimen-
sionate, le quali si presentano omogenee, con una forma ben definita e
abbastanza regolare (quasi sferica), e una dimensione media molto
piccola (circa 30 nm di diametro).
Fig. 66: risultati SEM del materiale Sr(OH)2 sintetizzato (a e b) mostrano la grande
quantità di particelle nanodimensionate; (c) e (d) mostrano le particelle nel detta-
glio [73].
116
L'idrossido di stronzio subisce poi una reazione con la CO2 dell'atmo-
sfera, che dà origine a carbonato di stronzio (Fig. 67).
Fig. 67: diffrazione dei raggi X (XRD) effettuata su nanocristalli di idrossido di
stronzio dopo esposizione in atmosfera per 24 ore: si evidenzia la formazione di
carbonato di stronzio [73].
Proprio la formazione di carbonato di stronzio indirizza l'utilizzo di
questo prodotto al consolidamento dei beni del patrimonio culturale.
Infatti, se una dispersione di nanoidrossido di stronzio viene applicata
sugli affreschi o su materiale lapideo, potrebbe penetrare dentro i ma-
teriali e reagire con il diossido di carbonio, formando carbonato di
stronzio. Dato che il volume molare del carbonato di stronzio è simile
a quello del carbonato di calcio (Tab. 3), si possono evitare tensioni
meccaniche all'interno degli strati del materiale.
Un altro punto che merita di essere menzionato è che l'accumulo di
carbonato di stronzio negli strati di intonaco dei dipinti murali potreb-
be fornire una funzione protettiva come materiale sacrificale. Infatti il
carbonato di stronzio proveniente dal processo di carbonatazione, rea-
gendo con gli inquinanti atmosferici produce solfato di stronzio (cele-
stite SrSO4). La costante di solubilità è più bassa di quella del gesso
(Tab. 3), quindi è prevalentemente il carbonato di stronzio a reagire
117
con gli ioni solfato e non si arriva al consumo di carbonato di calcio,
evitando così la formazione di solfato di calcio bi-idrato solubile.
Test in provetta hanno inoltre rivelato che l'idrossido di stronzio è in
grado di reagire, oltre che con il diossido di carbonio atmosferico, an-
che con gli ioni di solfato derivati del gesso. Quindi può essere usato
come nuovo materiale sacrificale sia in affreschi che in restauri di ges-
so senza i problemi di tossicità tipici delle soluzioni di idrossido di ba-
rio.
Costante di
solubilità a 25 °C
(mol/l)
Volume molare
(cm3/mol)
Ca(OH)2 4,8 x 10-5
Sr(OH)2 3,2 x 10-4
CaCO3 calcite 3,36 x 10-9 36,90
SrCO3 stronzianite 5,60 x 10-10 39,57
CaSO4 · 2H2O gesso 3,14 x 10-5 74,2
SrSO4 celestite 3,44 x 10-7 41,81
Tab. 3: costante di solubilità e volume molare dei prodotti di calcio e di stronzio a
confronto [73].
I dati sperimentali raccolti suggeriscono quindi che i nanocristalli di
idrossido di stronzio potrebbero rappresentare una buona alternativa
agli altri tradizionali metodi usati nella protezione e nel consolidamen-
to dei manufatti del patrimonio artistico.
118
6. La nanosilice
6.1 La nanosilice: proprietà e metodi di sintesi
La nanosilice è un prodotto a base di biossido di silicio (SiO2).
Queste nanoparticelle sono di forma sferica e con diametro compreso
tra 5 e 100 nm. È importante sapere che esistono decine di tipologie di
nanosilici, per dimensioni e distribuzione delle particelle, modalità di
stabilizzazione, presenza di additivi di vario tipo, e che solo alcune
hanno dato risultati apprezzabili per il settore restauro.
A seconda delle modalità con cui vengono prodotte, le nanoparticelle
di silice possono essere:
• monodisperse (con una distribuzione dimensionale delle parti-
celle molto ristretta);
• polidisperse (con una più ampia distribuzione dimensionale).
In generale la nanosilice si presenta come una dispersione colloidale
acquosa, e le sue dimensioni si attestano al di sotto dei 20 nm, inferiori
quindi sia a quelle dichiarate per le microemulsioni acriliche (40-50
nm) che a quelle della nanocalce (200 nm).
Nella soluzione acquosa generalmente sono disperse delle sostanze
con funzione anti-agglomerante, come ad esempio l’idrossido di so-
dio. Esso induce la formazione di una carica negativa sulla superficie
delle particelle che vengono così a respingersi l’un l’altra, garantendo
la loro stabilità senza agglomerazioni (Fig. 68).
Fig. .68: configurazione della superficie della silice colloidale [75].
119
Eventuali fenomeni di evaporazione possono però variare la concen-
trazione delle particelle nella soluzione, con conseguente aumento del
rischio di agglomerazione.
A parità di altre condizioni (temperatura, pH, contenuto di eventuali
altri additivi), le condizioni di stabilità della sospensione acquosa au-
mentano con il grado di diluizione.
Grazie alle ridotte dimensioni delle particelle, la nanosilice [76] si pre-
senta come un liquido molto fluido, anche se ha un residuo secco del
30%, che nella maggior parte delle applicazioni deve essere diluito
con 1-2 parti di acqua, portando così la quantità di silice anche al di
sotto del 10%. Prima di essere applicato, la superficie da trattare deve
essere ovviamente pulita e risanata da eventuali sali efflorescibili pre-
senti.
Il funzionamento è molto semplice: può essere applicata per immer-
sione, mediante pennello o anche a spruzzo con irroratori a bassa pres-
sione, ed infine iniettata tramite siringhe nelle fessurazioni. A seguito
dell’evaporazione dell’acqua, le particelle si legano tra sé formando
un gel di silice, analogamente a quello che si ottiene dalla reazione del
silicato d’etile (altro materiale molto utilizzato nel campo del restauro
per il consolidamento di materiali lapidei), che può creare dei ponti tra
i granuli decoesi di una pietra o di un intonaco (effetto consolidante),
o legare particelle di pigmento sulle superfici lapidee (patinature), op-
pure può tenere insieme inerti di vario tipo (realizzazione di malte da
stuccatura inorganiche).
La formazione del gel di silice non avviene solo per evaporazione del
veicolo acquoso, ma anche agendo su altri tre parametri:
• Cambiando il pH (mescolato con la calce si cementa improvvi-
samente)
• Miscelandolo con solventi idrosolubili (alcool, acetone)
• Aggiungendo un sale (metodo però sconsigliato per il settore
restauro)
120
È necessario quindi valutare l’influenza di questi parametri prima di
procedere all'utilizzo. Nel caso di sovradosaggio è sempre possibile
asportarne l'eccesso, prima dell'indurimento, con tamponi imbevuti in
acqua demineralizzata.
Generalmente il silicato d'etile, date le sue dimensioni a livello mole-
colare, si dimostra essere più penetrante. A confronto infatti, il livello
di penetrazione di una nanosilice è molto inferiore, trattandosi di parti-
celle vere e proprie, anche se “nano”.
Sono stati effettuati dei test comparativi [77] tra i due prodotti (nanosi-
lice e silicato di etile) con provini di pietra, trattati per assorbimento
capillare e a pennello, e lasciati reagire per il tempo necessario. Sono
stati esaminati tramite misure di assorbimento d’acqua per capillarità,
di permeabilità al vapor d’acqua, e analisi al SEM-EDX.
Sui provini di pietra trattati e non trattati si è anche proceduto ad un
invecchiamento accelerato con soluzione salina secondo la norma
UNI-EN 12370, per 15 cicli di cristallizzazione, al termine del quale
sono stati pesati i provini per determinare la loro perdita in peso dovu-
to al degrado delle superfici per la violenta azione del sale.
Mentre per l’applicazione tramite assorbimento capillare il silicato
d’etile riesce a permeare l’intero provino e impartisce una eccezionale
resistenza al provino sottoposto a invecchiamento accelerato con solu-
zioni saline, nel caso più vicino alla realtà di cantiere, ovvero l’appli-
cazione a pennello, i risultati permettono di affermare che la protezio-
ne impartita dai tre sistemi con nanoparticelle risulta discreta, come si
evince dalla tabella sottostante:
Trattamento Perdita in peso %
Non trattato 18,94
Nanoparticelle di SiO2 8,28
Nanoparticelle di Ca(OH)2 5,18
Nanoparticelle di Sr(OH)2 4,18
Silicato di etile 3,54
121
Il silicato di etile si dimostra essere il consolidante più efficace, con
una perdita % in peso di circa un quinto rispetto al provino non tratta-
to, mentre i sistemi nanoparticellari oscillano tra un quarto e la metà
della perdita di peso rispetto a quella subita dall'originale.
D’altro canto le nanoparticelle lasciano la pietra più permeabile al va-
por d’acqua, rispetto al silicato d’etile, come è chiaro dalla tabella sot-
tostante, riportante la variazione di permeabilità al vapore rispetto alla
pietra non trattata.
Trattamento Diminuzione permeabilità %
Nanoparticelle di SiO2 14,5
Nanoparticelle di Ca(OH)2 24,8
Nanoparticelle di Sr(OH)2 18,3
Silicato di etile 43,1
Infine le misure SEM-EDX hanno dimostrato ancora una volta che il
silicato d’etile permea in profondità i provini, mentre la percentuale di
silice depositata dalle nanoparticelle è rilevante solo in superficie, ov-
vero entro un millimetro di profondità. Questo risultato concorda con
il noto limite delle nanoparticelle, già riscontrato per quelle di idrossi-
do di calcio [77].
6.1 Applicazioni della nanosilice in edilizia e nel restauro
Le nanoparticelle di silice trovano applicazione sia nel campo dell'edi-
lizia che del restauro.
Un materiale in cui viene impiegato con efficacia è il calcestruzzo, il
quale, in virtù della sua struttura composita, costituisce un candidato
ideale per l’applicazione della nanotecnologia. Infatti il legante ce-
mentizio, ottenuto attraverso una reazione chimica tra cemento e ac-
qua, è caratterizzato da una microstruttura con una scala che spazia dai
millimetri ai nanometri. Ne consegue che essa può essere modificata
122
ed i prodotti di idratazione controllati e variati, con l’obiettivo di
migliorare le prestazioni del calcestruzzo, soprattutto dal punto di
vista della sua durabilità nel tempo. Ad esempio si possono inserire
nella matrice cementizia materiali di rinforzo a scala nanometrica,
anche se di costo elevato, come nanofibre e nanotubi di carbonio, così
come si possono introdurre additivi chimici e aggiunte minerali, come
è il caso della nanosilice.
Dispersioni acquose o fanghi di particelle nanometriche di silice amor-
fa vengono aggiunte per migliorare le prestazioni del calcestruzzo sia
allo stato fresco (bassa segregazione) che allo stato indurito (migliori
prestazioni a livello meccanico e di durabilità), permettendo la realiz-
zazione di calcestruzzi con elevata resistenza alla compressione e alla
flessione, nonché una riduzione della porosità dopo l'indurimento, ca-
ratteristica importantissima per la diminuzione dei fenomeni di carbo-
natazione dei cementi con una maggiore durata dei ferri posizionati
all'interno.
Inoltre, aggiunta al cemento Portland, la nanosilice può essere utilizza-
ta per prevenire la reazione espansiva alcali-silice (ASR) nei calce-
struzzi con aggregati potenzialmente reattivi [75]. Questa reazione,
sviluppandosi fra gli alcali contenuti nel cemento e le fasi reattive agli
alcali degli aggregati, si è rivelata particolarmente dannosa per il cal-
cestruzzo delle opere idrauliche come le dighe, in quanto il rigonfia-
mento ad esso associato è in grado di provocare disallineamenti, pro-
blemi di movimentazione agli organi di manovra degli scarichi ed
estesi stati fessurativi. Per prevenire questa reazione vengono di solito
utilizzate aggiunte minerali quali il fumo di silice condensato o la poz-
zolana naturale, ma la nanosilice, essendo costituita da particelle ultra-
fini di silice amorfa, appare potenzialmente ancora più efficace.
Nel campo del restauro, la nanosilice è stata utilizzata come consoli-
dante, grazie agli studi del restauratore Martin Pittertschatscher che
l'aveva applicata con buoni risultati per il consolidamento di un into-
naco molto poroso [78], e come protettivo, grazie alla sua insolubilità
123
in acqua e alla sua stabilità chimica, termica, alle radiazioni e ai
microrganismi: questo materiale produce infatti un film con una buona
adesione e un’eccellente stabilità. Non porta alla formazione di
pellicole superficiali o precipitati che determinano ostruzione della
porosità, effetti antiestetici e riduzione della permeabilità. Inoltre, dato
che gli strati vengono applicati in uno spessore molto piccolo, i
substrati conservano le loro caratteristiche.
Alcune applicazioni sono state effettuate anche sulle pitture murali; in-
fatti, considerata la trasparenza di queste nanoparticelle e il loro dia-
metro medio inferiore al potere risolutivo dell’occhio umano, si può
ottenere un'ottima barriera fisica per i pigmenti instabili alle principali
fonti di attacco chimico e fisico, ma è necessaria un’attenta valutazio-
ne, date le limitate conoscenze attuali, ed in particolare considerando
l’alcalinità di alcuni tipi di dispersioni di nanosilici.
Un recente studio su provini che simulano affreschi deteriorati [79] in-
fatti ha mostrato come siano fondamentali le condizioni applicative e
soprattutto la porosità del supporto su cui si vanno ad utilizzare le na-
nosilici. Da un confronto con nanocalci si è evidenziato per entrambi i
prodotti una riduzione di assorbimento d’acqua ed un ricompattamen-
to dello strato pittorico [80].
Sempre nel campo del restauro è stato effettuato un interessante studio
[81] su pigmenti organici ricoperti con successo con nanoparticelle di
silice utilizzando la tecnica layer-by-layer assembly, che consiste nel
ricoprire i pigmenti con più strati protettivi di nanosilice.
È noto infatti che i pigmenti organici, anche se utilizzati spesso in pit-
tura, hanno un limitato potere coprente, scarsa capacità di dispersione
e soprattutto scarsa durabilità nell'ambiente esterno.
Se coperti con nanosilice come strato protettivo, i pigmenti organici
potrebbero però migliorare le loro proprietà di difesa dai raggi UV, la
loro stabilità, ed acquisire maggiore resistenza. Tuttavia sulla superfi-
cie del pigmento si può formare solo uno strato molto fine di SiO2, che
potrebbe non essere sufficiente per conferire al pigmento una maggio-
124
re proprietà di difesa dai raggi UV, inoltre la riproducibilità dei
risultati finora ottenuti è molto scarsa [82].
La tecnica layer-by-layer assembly permette però di realizzare più
strati di nanosilice sulla superficie del pigmento, conferendo caratteri-
stiche di dispersione degli UV e/o di assorbimento. È stato in partico-
lare dimostrato che queste proprietà migliorano dopo l'applicazione
del secondo e del terzo strato di SiO2, aumentando così anche la dura-
bilità nei confronti dell'ambiente esterno.
Infine la nanosilice è stata utilizzata come consolidante per i materiali
lapidei, come nel caso dei capitelli del loggiato del primo ordine della
Torre di Pisa. Questi elementi, finemente scolpiti in marmo bianco di
Carrara, avevano perso gran parte del modellato a causa del degrado
dovuto alla presenza di sali nei pori del materiale e ai noti effetti
dell'inquinamento (croste nere), senza tralasciare i danni arrecati dalla
naturale esposizione agli agenti atmosferici. Il materiale sopravvissuto
si presentava con un aspetto polverulento e incoerente.
Per il trattamento di consolidamento, la nanosilice è stata dispersa in
solvente acquoso e applicata per immersione: in corrispondenza di
ogni capitello è stata creata una vasca, sigillata con del silicone e riem-
pita con il prodotto. La nanosilice muovendosi all'interno dei pori del
materiale è riuscita a penetrare dappertutto, riempiendo in poco tempo
tutte le cavità, innescando un meccanismo molto simile alla diagenesi
delle rocce (il lungo processo geologico per mezzo del quale i sedi-
menti sciolti si trasformano in dura roccia). Da subito si è constatato
un notevole aumento della coesione del marmo senza alterazioni nel
colore dei capitelli, e grazie agli ottimi risultati ottenuti lo stesso pro-
dotto è stato utilizzato per il consolidamento del loggiato dell'ordine
superiore [83].
Dal punto di vista della sicurezza, trattandosi di una dispersione ac-
quosa, non è infiammabile e non presenta simboli di tossicità, con
conseguente riduzione dei fattori di rischio in laboratorio e su cantiere,
e riduzione dei costi di trasporto e stoccaggio. Tuttavia essendo un
125
materiale ancora poco studiato, non sono ben noti gli effetti sulla salu-
te della nanosilice.
6.1.1 Esempio di applicazione della nanosilice per il consolidamen-
to di una calcarenite molto porosa
Una sperimentazione in laboratorio [84] ha riguardato l'applicazione
della nanosilice sulle pietre con una porosità molto alta. In particolare
è stato effettuato un trattamento con nanosilice su un provino di calca-
renite, generalmente nota come “pietra gentile”, una pietra molto po-
rosa di colore bianco. Questa pietra è rappresentativa di molte pietre
tenere e porose ampiamente utilizzate negli edifici storici del patrimo-
nio culturale così come in molti siti archeologici, grazie alla loro facile
estrazione e lavorazione a dispetto della loro limitata durabilità. La
loro scarsa resistenza ai processi di degrado chimico-fisico le rende
particolarmente soggette a problemi di decoesione, perciò richiedono
trattamenti di consolidamento per ripristinare le caratteristiche fisico-
meccaniche sulla loro superficie e l'adesione al supporto non deterio-
rato.
Il trattamento è stato effettuato con nanoparticelle di silice disperse in
mezzo acquoso, ed è stato applicato con diversi metodi (per capillarità
e mediante pennello) e differenti quantità di prodotto.
Dopo la pulitura con un pennello morbido, i campioni sono stati lavati
con acqua deionizzata, in modo da rimuovere la polvere, e poi sono
stati asciugati a 60°C. Prima del trattamento le pietre sono state stabi-
lizzate in laboratorio in condizioni controllate (22 ± 2°C, 45 ± 5% di
umidità relativa U.R. ) per 24 ore.
Sono stati applicati i seguenti trattamenti.
Trattamento A: applicazione per capillarità per un'ora in modo da otte-
nere la saturazione del materiale da parte della soluzione.
Trattamento B: applicazione mediante pennello con diverse applica-
zioni consecutive fino a rifiuto.
126
Trattamento C: applicazione mediante pennello, in quattro passaggi,
con un intervallo di tempo di 10 minuti l'uno dall'altro fino a rifiuto.
Trattamento D: applicazione mediante pennello con applicazioni con-
secutive della metà della quantità massima di soluzione utilizzata
nell'applicazione B.
I dettagli delle applicazioni sono mostrati in Tab. 4.
Trattamento Metodo di applicazione Quantità di
soluzione
applicata
[mg/cm2]
Quantità di
nanosilice
[mg/cm2]
A Capillarità 280 84
B Pennello, continue
applicazioni fino a rifiuto
200 60
C Pennello, quattro
applicazioni con intervallo
di tempo
36 11
D Pennello, consecutive
applicazioni senza rifiuto
100 30
Tab. 4: dettagli dei trattamenti [84]
Dopo i trattamenti, i campioni sono stati seccati fino a peso costante a
T = 22°C, U.R. = 40%.
Con riferimento alle quantità di soluzione applicate, si è notato che
l'applicazione del trattamento in diversi passaggi con un intervallo di
tempo tra l'uno e l'altro, inibisce l'assorbimento della soluzione, in par-
ticolare questo si è rilevato molto più basso rispetto al massimo otte-
nuto mediante le applicazioni consecutive fino a rifiuto.
L'osservazione morfologica dei campioni sottoposti ai differenti tratta-
menti ha rilevato che il miglior risultato in termini di distribuzione su-
perficiale della nanosilice è stato ottenuto dal trattamento D. Infatti
comparando la superficie dei campioni trattati e non trattati è risultato
che il trattamento D non altera l'originale morfologia della superficie
della pietra (Fig. 69). Al contrario, i trattamenti A, B e C tendono ad
127
allargare le aree di accumulazione del prodotto, nascondendo la mor-
fologia originale della pietra, come si può osservare in Fig. 70, dove
sono evidenti anche delle microfratture nello strato di nanosilice sulla
superficie della pietra.
Fig. 69: in alto, superficie della pietra non trattata; in basso, superficie del campio-
ne su cui è stato applicato il trattamento D (profondità non specificata) [84].
128
Fig. 70: morfologia della superficie del campione su cui è stato applicato il tratta-
mento A (in alto) e il trattamento B (in basso) [84].
Macroscopicamente, l'accumulo del prodotto porta a un aspetto trans-
lucido della superficie della pietra e alla presenza di una polvere bian-
ca di nanosilice. La Fig. 71 mostra le superfici dei campioni di pietra
trattati e non, osservati mediante stereomicroscopio, usando luce ra-
129
dente.
È stata inoltre analizzata la variazione di colore mediante un colorime-
tro a riflessione e non risultano grandi alterazioni cromatiche delle su-
perfici dei campioni trattati rispetto al campione non trattato. Tuttavia
la variazione di colore più bassa risulta essere quella conseguente ai
trattamenti A e B, in contrasto con quanto rilevato a occhio nudo. In
questo caso la colorimetria sembra perciò non essere un metodo otti-
male per registrare le proprietà di colore delle superfici trattate. Que-
sto può essere dovuto alla presenza della nanosilice sulla superficie,
che realizza uno strato lucido: i fenomeni di riflessione indotti dalle
superfici molto lucide hanno potuto infatti causare errori nelle misura-
zioni colorimetriche in luce diretta.
Pietra Trattamento D Trattamento A Trattamento C Trattamento B
non trattata
Fig. 71: superfici della pietra dopo i trattamenti [84].
Si è evidenziata inoltre una penetrazione non omogenea del prodotto
sotto la superficie a causa dell'eterogeneità della struttura della pietra,
ma abbastanza soddisfacente, nell'intervallo di 5 – 10 mm sotto la su-
perficie, più frequentemente di 7 – 8 mm.
È stato inoltre determinato con EDX il profilo del contenuto di silice,
per i trattamenti A, B e D, fino a 8 mm di profondità. A dispetto delle
differenti quantità di soluzione applicate per ogni trattamento, il conte-
nuto di silice sembra essere abbastanza simile nei trattamenti A e D
(Fig. 72), mentre il trattamento B è quello con la quantità più bassa.
Questi risultati dimostrano che, a dispetto delle quantità di soluzione
applicate nei vari trattamenti, la profondità e la distribuzione delle na-
noparticelle di silice sono quasi le stesse, quindi la maggior quantità di
130
soluzione utilizzata nei trattamenti A e B eccede la massima capacità
di penetrazione della nanosilice permessa dalla pietra.
In questo senso il miglior trattamento risulta essere il D, essendo in
grado di offrire una penetrazione comparabile con gli altri trattamenti
ma con una quantità di soluzione applicata più bassa; inoltre evita
l'accumulo di nanosilice sulla superficie che potrebbe derivare da un
eccesso di soluzione applicata.
Fig. 72: profilo di distribuzione della silice mediante analisi EDS in riferimento a
ogni trattamento [84].
Infine, dal punto di vista della resistenza meccanica, tramite Test di
abrasione è stato rilevato che l'applicazione di nanosilice ha condotto a
un aumento del 7% della resistenza superficiale.
6.1.2 Esempio di applicazione della nanosilice nel sito archeologico
di Tajin in Messico
Il sito architettonico di Tajin (Fig. 73) rappresenta la più grande e im-
portante città preispanica della costa settentrionale del Golfo del Mes-
sico. Raggiunse il suo apice tra il IX e il XIII secolo d.C. e conserva
costruzioni con dettagliate scene religiose e simboliche scolpite in bas-
sorilievo su colonne, fregi, pannelli e altari, evidenziando la fede e le
131
credenze dei suoi abitanti [85].
Il materiale utilizzato in questo sito archeologico è la pietra arenaria,
che nel tempo ha sofferto di diverse forme di degrado, come esfolia-
zione, distacco ed erosione, fino alla perdita di estese porzioni dei bas-
sorilievi. Inoltre si sono verificati scolorimento, efflorescenze, defor-
mazione e svariate colonizzazioni biologiche. Taijin infatti è circonda-
to dalla giungla, con un clima caratterizzato da alta temperatura e mol-
ta umidità per la maggior parte dell'anno, e in prossimità del sito si
trovano aree di estrazione petrolifera che costituiscono una forte fonte
di inquinamento.
Fig. 73: sito archeologico di Tajin [86].
In questo contesto si è pensato di operare il consolidamento delle ope-
re mediante preparati con silice colloidale, una sospensione con una
determinata frazione in volume di particelle sferiche di SiO2 in vari
solventi. La dimensione delle particelle varia da 30 a 100 nm e, a se-
conda del solvente, della temperatura e dell'umidità, si ha una diversa
sedimentazione.
Diversi studi descrivono l'uso della silice colloidale come consolidante
per pietre, intonaci e dipinti murali [87].
132
In base all'analisi petrografica l'arenaria di Taijin può essere classifica-
ta come una litarenite calcarea con frammenti di rocce sedimentarie e
quarzo. Quindi l'utilizzo di silice colloidale assicura il rispetto della
compatibilità chimica con il materiale originale.
Si è pensato di preparare un intonaco di ripristino a base di silice col-
loidale e pietra macinata applicandolo con uno strato sottile, come
quello che si otterrebbe con un intonaco di calce. L'intonaco a base di
silice ha una consistenza simile alla pietra originale, principalmente
grazie alla dimensione delle particelle di aggregato. La coesione è an-
che determinata dalla forma di queste particelle, dal momento che tut-
ta l'acqua in cui è dispersa la silice colloidale evapora e solo i cristalli
di SiO2 rimangono.
L'intonaco di silice colloidale si è dimostrato essere ben aderente alla
pietra, ma allo stesso tempo facile da rimuovere, dal momento che
l'interazione tra intonaco e pietra è esclusivamente meccanica e diret-
tamente relazionata alla consistenza superficiale e la disposizione de-
gli aggregati. Infatti se questi non sono setacciati, l'intonaco è meno
resitente rispetto a quello ottenuto con particelle di dimensioni minori.
Nel caso invece di intonaci con aggregati molto fini, risulta molto dif-
ficile distinguere l'interfaccia tra pietra e intonaco, se non a livello mi-
croscopico. Inoltre gli intonaci a grana fine sono più facili da applica-
re, e permettono di realizzare strati molto sottili che si conformano
bene ai dettagli dei rilievi. La coesione che apportano fornisce stabilità
al materiale influenzandone positivamente anche la durabilità: dopo
un anno di esposizione dei materiali alle estreme condizioni ambienta-
li di Tajin, gli intonaci più fini rimangono invariati.
Questi intonaci inoltre non lasciano residui sulla pietra, se non a livel-
lo microscopico, e danno buoni risultati anche dal punto di vista del
colore, infatti il colore e la consistenza degli intonaci a base di silice e
dell'arenaria sono molto simili (Fig. 74).
In conclusione si può affermare che la silice colloidale fornisce una
buona matrice microcristallina per la coesione degli aggregati e quindi
133
non si discosta dalla composizione dell'arenaria originale.
Fig. 74: applicazione in situ di silice colloidale nel pannello centrale dell'edificio
Ballgame. In alto, la zona trattata (nel riquadro) mostra un disegno relativo a
Quetzalcoatl; al centro, prove di colore e consistenza prima dell'applicazione di
silice colloidale; in basso, la stessa area dopo il trattamento [85].
Valutati dopo un anno di esposizione alle condizioni tropicali e di in-
quinamento di Tajin, gli intonaci a base di silice colloidale hanno di-
mostrato di avere una buona durabilità, stabilità e caratteristiche esteti-
che. Inoltre prove in laboratorio suggeriscono che sono più compatibi-
134
li con l'arenaria di quanto non lo siano i materiali a base di calce. Sono
quindi suggeriti anche per futuri interventi conservazione nel sito di
Tajin, che continuerà ad essere monitorato fino al 2020 [85].
135
7. Il nanobiossido di titanio
7.1 La fotocatalisi contro l'inquinamento atmosferico
Il problema dell’inquinamento atmosferico sta assumendo proporzioni
sempre più drammatiche, con conseguenze negative sia sulla salute
umana che sugli edifici del patrimonio architettonico. Le principali
fonti di inquinamento sono gli ossidi di azoto (NOX) e di zolfo (SOX),
le polveri sottili (PTS), i composti volatili VOC (Volatile Organic
Compound) e l'ozono.
Gli ossidi di azoto sono formati da miscele di composizione casuale di
monossido e biossido di azoto. Il biossido di azoto si sviluppa
nell'atmosfera dal monossido di azoto, prodotto in primo luogo
dall'utilizzo di combustibili fossili, ad esempio nei motori degli auto-
mezzi o nei sistemi di riscaldamento domestico.
Con il termine polveri sottili si intende invece l'insieme delle polveri
sospese in aria con diametro aerodinamico inferiore ai 10 millesimi di
millimetro. Le principali fonti di polveri sottili sono legate all'attività
dell'uomo: processi di combustione (tra cui quelli che avvengono nei
motori a scoppio, negli impianti di riscaldamento, in molte attività in-
dustriali, negli inceneritori e nelle centrali termoelettriche), usura di
pneumatici, freni ed asfalto.
Secondo i dati dell'Agenzia regionale per la Protezione dell'Ambiente
(ARPA) della Lombardia, la principale fonte d’inquinamento da PM10
è costituita dal traffico stradale, causa del 80% delle emissioni totali.
Se l'inquinamento (da PM10) venisse eliminato si avrebbe come effet-
to immediato la diminuzione dei decessi annuali. Basterebbe inoltre ri-
durlo della metà per limitare notevolmente gli episodi di bronchite
acuta nei bambini, i ricoveri annuali per cause respiratorie e cardiache,
gli attacchi d'asma, oltre ai giorni di lavoro persi a causa di un'indispo-
sizione legata all'inquinamento.
136
Con la denominazione di Composti Organici Volatili (VOC) infine
viene indicato un insieme di sostanze in forma di vapore, con la capa-
cità di evaporare facilmente a temperatura ambiente. I composti che
rientrano in questa categoria sono numerosi. Le concentrazioni urbane
dei VOC sono quasi esclusivamente prodotte dalla combustione degli
autoveicoli, dalle centrali a carbone, dagli inquinanti di incenerimento
e dall'evaporazione di solventi e combustibili. I VOC inoltre vengono
generati anche dall'utilizzo di prodotti per la pulizia, dalle pitture, dai
pesticidi, da colle e adesivi, stampanti e fotocopiatrici, fumo di tabac-
co, etc.
Il problema dell’inquinamento nelle città, e non solo, è noto anche per
le conseguenze devastanti di degradazione delle superfici degli edifici
e dei monumenti.
Attualmente lo smaltimento di inquinanti in matrice acquosa avviene
soprattutto attraverso metodi chimici, come l’adsorbimento su carboni
attivi o i trattamenti diretti con sostanze chimiche (forti ossidanti o
agenti coagulanti), che però comportano notevoli costi e presentano
rese basse. Poiché gli inquinanti organici refrattari ai metodi conven-
zionali continuano ad aumentare nell’aria e nei corsi d’acqua di scari-
co, le leggi e le norme ambientali diventano sempre più rigorose e se-
vere. Perciò, diventa necessario sviluppare nuovi metodi eco-compati-
bili per l’abbattimento di questi inquinanti.
Le attività di ricerca si sono concentrate su nuovi metodi di ossidazio-
ne denominati processi di ossidazione avanzati (AOP), per la distru-
zione di specie organiche sintetiche resistenti ai metodi convenzionali.
Gli AOP si basano sulla generazione in situ di specie radicaliche alta-
mente reattive, principalmente HO, tramite energia solare, chimica o
altre forme. Tra queste, le tecnologie a base di luce solare sono quelle
maggiormente eco-compatibili essendo questa una fonte rinnovabile e
pulita di energia. La maggiore attrattiva di tali processi è che i radicali
fortemente ossidanti permettono la distruzione di un ampio range di
substrati organici, senza selettività, ma con un’elevata efficienza; in-
137
fatti in condizioni opportune le specie da rimuovere vengono com-
pletamente convertite a CO2, H2O e sali minerali innocui. È così possi-
bile migliorare le condizioni ambientali e combattere lo sporco purifi-
cando le emissioni gassose di origine industriale o prodotte da veicoli
mediante tecnologie semplici e a bassi costi [88].
Il disinquinamento ambientale è ormai un nuovo promettente campo,
sia dal punto di vista tecnologico che economico, nel quale la fotochi-
mica sta avendo un grande sviluppo. Intense ricerche hanno fornito le
basi per un'ampia applicazione delle tecnologie fotochimiche ai mate-
riali da costruzione.
I nuovi materiali in grado di “mangiare” gli inquinanti atmosferici or-
ganici e inorganici applicano il processo della fotocatalisi, reazione
chimica che imita la fotosintesi clorofilliana (Figg. 75-76) degli alberi
nell'assorbire e trasformare le sostanze inquinanti in elementi non no-
civi [89]. Questo fenomeno è stato scoperto nel 1972 da Fujishima e
Honda, i quali si erano prefissi di scindere l’acqua tramite l’azione
della luce solare (fotoelettrolisi), in analogia a quanto fanno le piante
con la fotosintesi [90].
Rispetto a quest'ultima, in cui la clorofilla cattura la luce solare per
trasformare acqua e anidride carbonica in ossigeno e glucosio, la foto-
catalisi (in presenza di un fotocatalizzatore, di luce e di acqua) genera
un forte agente ossidante in grado di trasformare le sostanze.
La fotocatalisi è quindi un fenomeno naturale in cui una sostanza (il
fotocatalizzatore), attraverso l’azione della luce di opportuna lunghez-
za d'onda (naturale o artificiale prodotta da speciali lampade) modifica
la velocità di una reazione chimica, spesso velocizzandola o poten-
ziandola drasticamente. In presenza di aria (e conseguente umidità) e
luce si attiva un forte processo ossidativo che porta alla decomposizio-
ne dei contaminanti organici e di alcuni contaminanti inorganici che
entrano a contatto con le superfici fotocatalitiche.
Infatti, l'ossidazione della maggior parte degli idrocarburi procedereb-
be piuttosto lentamente in assenza di sostanze attive catalitiche.
138
Fig. 75: confronto tra la fotosintesi clorofilliana (in alto) e il processo di fotocatalisi
(in basso) [91].
Fig. 76: analogia tra la fotosintesi clorofilliana e il processo fotocatalitico [89].
139
Le sostanze inquinanti e tossiche così vengono trasformate, attraverso
il processo di fotocatalisi, in nitrati di sodio (NaNO3), carbonati di so-
dio (Ca(NO3))2 e calcare (CaCO3), innocui e misurabili in ppb (parti
per miliardo). Il risultato è una sensibile riduzione degli inquinanti
tossici prodotti dalle automobili, dalle fabbriche, dal riscaldamento
domestico e da altre fonti [89].
La tecnologia della fotocatalisi quindi è in sostanza un acceleratore dei
processi di ossidazione già attivi in natura. E i materiali che modifica-
no la velocità di una reazione chimica, attraverso l’azione della luce,
sono i semiconduttori. Per definizione, un semiconduttore è un mate-
riale con una struttura a bande caratterizzata da una banda di valenza
(VB) quasi piena, separata dalla banda di conduzione (CB), quasi vuo-
ta (Fig. 77).
Metallo (a) Metallo (b) Semiconduttore (c) Isolante (d)
Fig. 77: banda di valenza (in azzurro) e conduzione (in bianco) di metalli, semicon-
duttori e isolanti: in alcuni metalli la banda di valenza è parzialmente piena e funge
anche da banda di conduzione (a). In altri metalli la banda di valenza è piena, ma la
banda di conduzione si sovrappone ad essa (b). In un semiconduttore la banda di
valenza è piena, mentre quella di conduzione vuota. Il band gap (ΔE) è però suffi-
cientemente piccolo da permettere ad alcuni elettroni di transitare verso la banda di
conduzione acquistando energia termica (c). In un isolante la banda di valenza è
piena e un grande salto energetico (ΔE) la separa dalla banda di conduzione vuota.
Pochissimi elettroni possono transitare tra le due bande e gli isolanti non conduco-
no elettricità (d) [88].
Durante l’interazione degli atomi, la combinazione degli orbitali ato-
mici dà luogo ad una serie di orbitali molecolari la cui sovrapposizio-
140
ne risulta nella formazione della banda di valenza (VB), riempita dagli
elettroni, e della banda di conduzione (CB), vuota, ad energia
maggiore.
Nei metalli, la banda di valenza può essere parzialmente piena, e quin-
di fungere anche da banda di conduzione, o piena e la CB si sovrappo-
ne ad essa. Perciò gli elettroni di valenza possono essere eccitati ter-
micamente dagli orbitali di valenza pieni a quelli vuoti: la banda conti-
nua contiene il cosiddetto “gas di elettroni” che, muovendosi libera-
mente nel reticolo del metallo, dà luogo alla conduzione elettrica.
I materiali semiconduttori invece presentano proprietà di conduttività
elettrica comprese fra quelle dei metalli e degli isolanti e le due bande,
di valenza e di conduzione, distano di un certo intervallo di energia,
noto come salto energetico (EBG), la cui ampiezza varia a seconda del
semiconduttore e che corrisponde alla minima energia di luce richiesta
per rendere il materiale conduttore (Fig. 78).
Essendo l'intervallo di energia piuttosto piccolo, un gran numero di
elettroni può essere eccitato termicamente dalla banda di valenza a
quella di conduzione. La differenza fra un isolante ed un semicondut-
tore è proprio nel valore del salto energetico, che nell’isolante è EBG =
4–10 eV mentre nel semiconduttore è inferiore o uguale a 4 eV.
Fig. 78: struttura a bande di un semiconduttore [92].
141
Quando un semiconduttore è colpito da fotoni aventi energia hν mag-
giore del suo EBG, si ha una promozione degli elettroni della banda di
valenza alla banda di conduzione con seguente creazione di “buchi”
(vacanze o lacune) h+ al limite superiore della banda di valenza.
I componenti della coppia fotogenerata (e– – h+) sono in grado, rispetti-
vamente, di ridurre ed ossidare una sostanza adsorbita sulla superficie
del fotocatalizzatore (Fig. 79). Se il semiconduttore è a contatto con
acqua, le lacune (h+) possono produrre radicali ossidrilici OH• (Eq. 1),
mentre gli elettroni (e–) fotogenerati sono abbastanza riducenti da pro-
durre, dall’ossigeno, l’anione superossido O2– (Eq. 2). Queste due spe-
cie, fortemente reattive, sono in grado di decomporre le sostanze ad-
sorbite.
(1) H2O + h+ → OH• + H+
(2) e– + O2 → O2•–
Fig. 79: meccanismo della reazione fotocatalitica in un semiconduttore [92].
142
L’efficacia dell’attività fotocatalitica di un semiconduttore dipende da
molteplici e differenti fattori, quali la tipologia e la quantità relativa di
fase cristallina presente, la dimensione delle particelle e quindi la loro
superficie specifica, la tipologia dei materiali da degradare, il grado di
cristallinità, le impurezze, la densità dei gruppi ossidrile di superficie
ed il metodo di preparazione. In ogni caso, è preferibile disporre di fo-
tocatalizzatori di dimensione nanometrica, perché solo nel campo di-
mensionale <10 nm entra in gioco la variabile dimensione nelle pro-
prietà dei solidi cristallini. In particolare, per ciò che concerne i semi-
conduttori, il controllo dimensionale permette variazioni programmate
delle caratteristiche del materiale senza alterarne la composizione chi-
mica.
Variando, infatti, la dimensione dei cristalli, è possibile variare il po-
tenziale redox della coppia fotogenerata (e– - h+). A riguardo, nei nano-
cristalli, causa l’allargamento dell’intervallo di energia, i potenziali re-
dox aumentano, anche se la presenza di difetti nel reticolo cristallino
può dare origine a fenomeni di ricombinazione di carica che limitano
l’attività fotocatalitica. Dal momento che l’attività fotocatalitica si
esplica sulla superficie del fotocatalizzatore, l’elevato rapporto super-
ficie/volume che caratterizza un nanomateriale, aumentando la dispo-
nibilità di siti superficiali, contribuisce ad incrementare la velocità del-
le reazioni di foto-decomposizione.
Gli atomi superficiali infatti sono caratterizzati da valenze non sature,
le quali danno un contributo diverso all’energia libera del cristallo ri-
spetto agli atomi presenti all’interno del reticolo, che invece hanno tut-
te le valenze saturate. Nei solidi di volume gli atomi superficiali rap-
presentano solo una piccola frazione del totale rendendo tale effetto
trascurabile. Nel caso dei materiali nanostrutturati, invece, la frazione
di atomi presenti sulla superficie non è trascurabile rispetto al totale
rendendo le proprietà chimico-fisiche dipendenti dalle dimensioni.
Quando il diametro di un semiconduttore diventa confrontabile con il
diametro eccitonico (ossia la distanza fra l’elettrone e la buca fotoge-
143
nerati), insorgono degli effetti, detti di confinamento quantico, che
fanno sì che i semiconduttori nanostrutturati abbiano proprietà in-
termedie fra quelle dei semiconduttori di volume e quelle delle mole-
cole. Il principale effetto di questo confinamento quantico è la discre-
tizzazione dei livelli energetici agli estremi delle bande di valenza e
conduzione (Fig. 80).
Fig. 80: discretizzazione dei livelli energetici nei semiconduttori nanocristallini al
variare delle dimensioni [93].
La discretizzazione degli estremi di banda è sempre più evidente al di-
minuire delle dimensioni del nanocristallo, inoltre si osserva un au-
mento progressivo dell'ampiezza del band gap: maggiore è il suo valo-
re minore è la porzione di radiazione solare utilizzabile dal semicon-
duttore per formare il sistema buca-elettrone [93].
Altro fattore che può modificare l’attività del fotocatalizzatore è la su-
perficie specifica, a sua volta funzione della morfologia delle particel-
le: ad una maggiore superficie specifica corrisponde, infatti, una più
efficace attività fotocatalitica. A riguardo, la superficie specifica au-
menta sia al diminuire delle dimensioni delle particelle, sia sviluppan-
do particelle di idonee geometrie, quali nanotubi, nano-bastoncini
(nano-rods) o morfologie come i nano-fiori (nano-flowers).
La tendenza, quindi, è quella di preparare fotocatalizzatori nanocristal-
lini con geometrie particolari ad elevato sviluppo superficiale. Per
144
questo motivo è importante disporre di tecniche di sintesi in grado di
controllare opportunamente le proprietà dei nanocristalli.
7.2 Le proprietà fotocatalitiche del nanobiossido di titanio
Il biossido di titanio, detto anche titania, è l'ossido di titanio naturale,
una polvere cristallina incolore, tendente al bianco (Fig. 81).
Fig. 81: biossido di titanio [94].
È un ossido semiconduttore dotato di una elevata reattività per cui può
essere chimicamente attivato dalla luce solare.
La notevole efficacia del biossido di titanio (TiO2) nel neutralizzare le
sostanze inquinanti (gas, sali, particelle solide, fumi, microrganismi,
ecc.) è stata oggetto di numerosi studi già a partire dal 1972 in Giap-
pone, ma il processo di analisi si è intensificato a livello internazionale
soprattutto a partire dagli anni '90 e negli ultimi anni.
Con lo sviluppo della nanotecnologia l’industria chimica ha ottenuto
nanoparticelle di dimensioni pari a pochi milionesimi di mm, che op-
145
portunamente integrate con altre sostanze, hanno consentito di otti-
mizzare le caratteristiche del processo di fotocatalisi attivato dalla luce
solare o artificiale e dall’aria in presenza di TiO2. Infatti, se il biossido
di titanio è di dimensioni nanometriche, l'effetto è massimizzato per-
ché è proporzionale al rapporto superficie/volume: gli alti valori di
questo rapporto caratteristici delle nanoparticelle ostacolano la ricom-
binazione dei portatori di carica incrementando in modo notevolissimo
l’efficienza fotocatalitica. Inoltre a causa dell’alta area superficiale si
ha un elevato numero di siti attivi e quindi un’alta velocità di reazione.
Per questo il biossido di titanio è uno dei materiali fotocatalitici più
frequentemente utilizzati per la preparazione di diversi prodotti (ce-
menti, rivestimenti, vernici), avendo stabilità chimica, termica e foto-
chimica, che gli conferiscono un'elevata attività fotocatalitica nell'ossi-
dare gli inquinanti dell'aria e dell'acqua. Inoltre è un materiale, oltre
che fortemente ossidante, anche atossico ed economico.
Il biossido di titanio partecipa ai processi fotochimici di superficie
attraverso l’assorbimento diretto di fotoni incidenti (Figg. 82-83).
Fig. 82: fotocatalisi del TiO2 [95].
146
Fig. 83: fotocatalisi del TiO2 [96].
Il biossido di titanio è presente in natura in tre diverse forme cristalli-
ne (rutilo, anatasio e brookite, colorate a causa di impurità presenti nel
cristallo) e in fase amorfa.
Il rutilo e l’anatasio sono le forme più diffuse in natura. Il rutilo è un
sistema cristallino tetragonale, l'anatasio ha anch'esso struttura tetrago-
nale, ma più allungata rispetto a quella del rutilo, mentre la brookite
ha una struttura ortorombica. La struttura tetragonale del rutilo contie-
ne due molecole di TiO2 per cella primitiva.
Gli ottaedri TiO6 rappresentano l’unità strutturale di base delle varie
strutture polimorfe. Le maggiori differenze strutturali tra le diverse
forme sono nel numero di ottaedri condivisi, cioè due nel rutilo, tre
nella brookite e quattro nell’anatasio.
Ciò determina una diversa azione catalitica a vantaggio dell'anatasio,
che permette la migliore combinazione di fotoattività e fotostabilità e
per questo trova maggiore applicazione come fotocatalizzatore. Il
rutilo invece è la forma cristallina più stabile termodinamicamente (se
sottoposte ad opportuno ciclo termico, le fasi metastabili si trasforma-
no irreversibilmente in rutilo) e per questo è la più usata industrial-
mente, soprattutto come pigmento bianco.
147
Da un punto di vista elettronico, il biossido di titanio è un semicondut-
tore di tipo n; il valore di EBG dell’anatasio è pari a 3,2 eV, quello del
rutilo a 3,0 eV. Da questi valori, si evince, dall’equazione:
EBG=hυ=hcλ
=1240
λ
dove:
EBG = salto energetico;
h = costante di Planck [eV ּs]
ν = frequenza della radiazione incidente [1/s];
c = velocità della luce nel vuoto [3·108 m/s];
λ = lunghezza d'onda [nm]
che l’anatasio è “attivato” da luce avente lunghezza d’onda λ ≤ 388
nm, ossia dalla porzione UVA dello spettro elettromagnetico, mentre il
rutilo da λ ≤ 413 nm.
L’ossido di titanio è il migliore semiconduttore studiato nel campo
della conversione chimica e dell’immagazzinamento dell’energia sola-
re, nonostante il fatto che assorba solo il 5% della radiazione solare in-
cidente, questo grazie alla sua capacità di combinare l’alto indice di ri-
frazione con l’alto grado di trasparenza nella regione dello spettro vi-
sibile. Infatti confrontando l’indice di rifrazione (rapporto tra la velo-
cità della luce nel vuoto e nel materiale) del rutilo e dell’anatasio con
quello di altri materiali si evince che tanto più grande è la differenza
tra l’indice del materiale e quello dell’aria, tanto maggiore sarà la ri-
flessione della luce. L’indice di rifrazione (n) vale 2,76 per il rutilo e
2,52 per l’anatasio (per un paragone, basti pensare che nei diamanti
n=2,4).
Un'altra proprietà molto interessante della titania è quella della superi-
drofilicità, grazie alla quale l'acqua tende a ricoprire la superficie del
materiale senza formare goccioline arrotondate. Questa caratteristica
148
si manifesta dopo l'esposizione del materiale a luce UV.
Il fenomeno è più accentuato quando il titanio è in nanoparticelle, in
quanto le proprietà superidrofiliche aumentano con l'aumentare del
rapporto superficie/volume.
L'idrofilia viene misurata empiricamente osservando l’angolo di con-
tatto che si forma tra la superficie di una goccia di liquido immobile e
quella del solido su cui essa appoggia (Fig. 84) e si definisce superi-
drofilica una superficie il cui angolo di contatto dopo attivazione con
luce ultravioletta risulta essere generalmente inferiore a 15°.
Fig. 84: angolo di contatto tra liquido e superficie solida: se maggiore di 90° (a si -
nistra), si ha scarsa bagnabilità; se inferiore a 90° (a destra) si ha elevata bagnabili -
tà; se nullo la bagnatura è completa [98].
Il fenomeno dell'idrofilia del TiO2 è stato scoperto fortuitamente nei
laboratori della TOTO Ltd., JP, nel 1997 [98]. In pratica, dopo illumi-
nazione UV, parte degli elettroni e lacune fotogenerati reagiscono in
maniera differente, ossia, gli elettroni tendono a ridurre i cationi Ti4+ in
Ti3+ e le lacune ossidano gli anioni O2-. Mediante questo processo, gli
atomi di ossigeno sono espulsi e le vacanze che così si formano ven-
gono ad essere occupate da molecole d’acqua. I gruppi ossidrilici, che
si legano alle molecole di acqua con legami a idrogeno, rendono idro-
fila la superficie di TiO2. L’aumento del tempo di esposizione alla luce
della superficie di TiO2, riduce l’angolo di contatto con l’acqua.
Se il TiO2 nella forma cristallina dell’anatasio viene esposto alla luce
UV si ottengono angoli di contatto molto bassi (<1°). Dopo circa tren-
ta minuti sotto una sorgente luminosa UV di moderata intensità,
149
l’angolo di contatto tende a zero, ciò significa che l’acqua ha la
tendenza a ricoprire perfettamente la superficie, e rimane piatta invece
di formare delle goccioline. Se si interrompe l’illuminazione il
comportamento superidrofilo rimane per circa due giorni. In questa
situazione il biossido di titanio presenta un effetto autopulente, infatti
lo sporco è lavato via più facilmente da essa, consentendo anche una
notevole riduzione della necessità di ricorrere a sostanze detergenti
(anche loro di per sé inquinanti). Si pensi ad esempio che la maggior
parte delle mura esterne dei palazzi viene sporcata dai gas di scarico
dei veicoli e da microrganismi, la cui crescita è favorita dall’accumulo
di grassi e polveri. Se queste superfici vengono rivestite di materiale
fotocatalitico, lo sporco sarà lavato via con la pioggia e saranno, così,
preservate le caratteristiche estetiche dei manufatti.
Per applicazioni di questo tipo, il biossido di titanio è impiegato sotto
forma di film molto sottile depositato sulla superficie da preservare.
L’efficienza fotocatalitica del film è però influenzata dallo spessore,
dalla rugosità superficiale, dalla porosità, dalla cristallinità, dalla
quantità di impurità e dalla concentrazione di ioni ossidrilici in super-
ficie.
Ovviamente, secondo la composizione ed il trattamento, una superfi-
cie può presentare un’attività più o meno fotocatalitica e più o meno
idrofila. Tale aspetto è una peculiarità del TiO2, in quanto, a titolo di
esempio, il SrTiO3 qualora irraggiato da luce UV, si comporta da foto-
catalizzatore senza divenire idrofilo; per contro il WO3, pur mostrando
proprietà idrofila, non evidenzia attività fotocatalitica.
Un altro importante effetto dell’illuminazione UV delle superfici rive-
stite con biossido di titanio è l'azione antimicrobica: l'eliminazione dei
batteri e lo sporco di natura organica subisce il medesimo processo di
degradazione che avviene nel caso degli agenti inquinanti. La fotoca-
talisi infatti non uccide le cellule dei batteri, ma le decompone. Il si-
stema sinergico TiO2-luce genera le cosiddette Specie Reattive
all'Ossigeno (ROS), quali O2·-, H2O2 e OH·, che vengono coinvolte
150
nell'azione battericida e virucida della fotocatalisi. In particolare i
radicali ossidrile OH· sono agenti ossidanti estremamente potenti.
Proprio per la loro forte capacità ossidativa, l’ossidazione fotocataliti-
ca può effettivamente igienizzare, deodorare e purificare l'aria, l'acqua
e diverse superfici. Inoltre, avendo una durata estremamente breve, ed
essendo generati in prossimità della superficie, risultano innocui verso
le persone. Si è scoperto inoltre che l’effetto antibatterico della titania
risulta essere più efficace di qualsiasi altro agente antimicrobico, per-
ché la reazione fotocatalitica lavora anche quando ci sono cellule che
coprono la superficie e quando i batteri si stanno attivamente propa-
gando.
Riassumendo quindi il biossido di titanio di dimensioni nanometriche
risulta essere il candidato ideale per combattere l'aggressione di inqui-
nanti e contaminanti. Applicato in ambienti urbani all'esterno degli
edifici, protegge palazzi e monumenti dallo smog, decomponendo le
molecole organiche e inorganiche e riducendo l'effetto visibile dei de-
positi, spesso rappresentato anche dalla semplice polvere: basta una
semplice pioggia per rimuoverlo dalle pareti e mantenere quindi inal-
terata nel tempo l'integrità estetica di tali elementi, riducendo i costi di
manutenzione e l'inquinamento causato dall'uso di detergenti.
All'interno di gallerie e infrastrutture risulta decisivo per la sicurezza
stradale: le gallerie infatti subiscono pesantemente gli attacchi delle
sostanze inquinanti provenienti dai gas di scarico delle automobili, di-
ventando scure e pericolose per la circolazione. Stesso discorso vale
per tutti i luoghi ad altissima concentrazione di emissioni di inquinanti
da auto, come i parcheggi sotterranei e le aree di sosta.
Applicato all'interno degli edifici invece, tramite pavimenti, vernici o
rivestimenti, svolge la medesima funzione, ma con l'ulteriore benefi-
cio di eliminare anche batteri e odori derivanti dallo sporco, trattando-
si di molecole organiche ossidabili attraverso l'azione della fotocatalisi
che quindi vengono fortemente degradate e ridotte a sostanze non più
percettibili dal nostro olfatto.
151
Queste proprietà potrebbero potenzialmente portare allo sviluppo di
una nuova classe di materiali dotati di proprietà autopulenti e disinqui-
nanti, per questo numerose sperimentazioni e applicazioni sono in atto
a livello internazionale, ma anche nazionale, per la produzione di ma-
teriali sempre più ecologici ed economici.
7.2.1 Metodi di sintesi
I metodi di sintesi riportati in letteratura della titania da utilizzare
come fotocatalizzatore sono diversi. In generale, i metodi di prepara-
zione elencati di seguito portano alla formazione di TiO2 nanostruttu-
rato. Possono essere così classificati:
• idrolisi in condizioni idrotermali da: tetraetossido di titanio a
temperature >250 °C, TiOSO4 [99], soluzione acquosa di TiCl4
[100] e solfato di titanio [101];
• idrolisi di vapore di tetraisopropossido di titanio a 260°C [102];
• idrolisi da sol-gel e precipitazione da isopropossido di titanio,
seguito da trattamento idrotermale [103];
• processo di precipitazione omogenea (HPP), a partire da solu-
zione acquosa di TiOCl2 e successivo trattamento termico a
temperature >400 °C per ottenere polveri cristalline di TiO2
[104].
Indicativamente, i metodi che si avvalgono di solfati o cloruri sono
sconsigliabili per la presenza di impurezze nei prodotti finali. In parti-
colare, l’impiego di TiCl4 come precursore, non permette di controlla-
re facilmente durante il trattamento termico la forma, dimensione e di-
stribuzione delle particelle di ossido. Inoltre, il rilascio di HCl o Cl2
rappresenta un aspetto negativo ed i costi di produzione sono elevati.
Per contro, i metodi sol-gel e di sintesi idrotermale consentono di con-
trollare meglio le caratteristiche morfologiche della polvere. Nel sol-
gel, comunque, l’utilizzo di alcossidi necessita di un attento controllo
152
della reazione ed inoltre, essendo molto costosi, il loro potenziale di
commercializzazione è limitato. Il metodo della sintesi idrotermale
produce polveri di elevata qualità, anche se un processo continuo è di
difficile realizzazione. Il metodo della precipitazione omogenea sem-
bra offrire un buon compromesso fra polveri di buona qualità e costi
relativamente contenuti.
7.3 Applicazione del nanobiossido di titanio in edilizia
In ambito edilizio uno dei primi materiali su cui si è sperimentato con
successo il processo fotocatalitico è il cemento, che rappresenta un
supporto ideale per la sua diffusione. Infatti le molecole del biossido
di titanio aderiscono alla superficie delle particelle a grana grossa del
cemento e si insediano nelle intercapedini più basse del substrato
[105].
Combinando il biossido di titanio con il cemento è stato possibile otte-
nere un legante che alle tradizionali caratteristiche di resistenza mec-
canica e durabilità associa proprietà fotocatalitiche e autopulenti, lega-
te al rispetto dell’ambiente e alla conservazione del valore estetico dei
manufatti. Le applicazioni più frequenti sono le pavimentazioni stra-
dali (Fig. 85), ma viene impiegato con successo anche nei manufatti
architettonici.
Oltre al cemento, altri materiali utilizzati nel mondo delle costruzioni
sono stati resi fotocatalitici con l'aggiunta o il rivestimento di biossido
di titanio nanometrico: vernici, piastrelle e vetri fotocatalitici che, ri-
vestiti con film trasparenti di biossido di titanio, permettono l'abbatti-
mento dell'inquinamento e l'autopulitura delle superfici [88].
Utilizzando queste nuove soluzioni il problema dell'inquinamento nel-
le aree urbane sarebbe in gran parte risolto, così come quello estetico,
per non parlare degli enormi benefici dovuti al miglioramento
delle condizioni di vivibilità e di salute dei cittadini.
153
Fig. 85: confronto tra superficie stradale ordinaria (a sinistra) e superficie stradale
trattata con biossido di titanio nanometrico (a destra) [101].
7.4 Applicazione del nanobiossido di titanio nel restauro
Nel campo del restauro il nanobiossido di titanio viene utilizzato so-
prattutto come protettivo autopulente su superfici su cui si sia già in-
tervenuto con un intervento di pulitura. Un esempio di intervento è
quello effettuato nel 2009 su un arco della cella campanaria della Tor-
re di Pisa [83]. Nell'intradosso dell'arco posto sotto pendenza, si pote-
vano infatti osservare delle antiestetiche rigature scure dovute all'inca-
nalamento dell'acqua piovana lungo direttrici preferenziali sulla super-
ficie della pietra. Dopo un'attenta pulitura del marmo, è stato applicato
a pennello un prodotto a base di biossido di titanio nanoparticellare
[106], incolore e disperso in solvente acquoso, per rendere la superfi-
cie autopulente e antinquinante.
Un altro utilizzo riguarda il nanobiossido di titanio ottenuto da proces-
si idrotermali e sol-gel, applicato mediante spray sulle superfici lapi-
dee per realizzare uno strato auto-pulente in grado di limitare gli inter-
154
venti di manutenzione e pulitura nel tempo [107]. A questo proposito
sono state effettuate sperimentazioni su diversi tipi di pietra (tra-
vertino, marmo, pietra leccese) che hanno dimostrato l'efficacia del
trattamento. Nei paragrafi successivi questi studi saranno analizzati
nel dettaglio.
7.4.1 Esempio di applicazione del nanobiossido di titanio su tra-
vertino
Una sperimentazione in laboratorio [107] ha studiato l'applicazione
del nanobiossido di titanio su travertino, una pietra calcarea spesso uti-
lizzata nei monumenti e nelle facciate degli edifici storici, per la rea-
lizzazione di uno strato autopulente in grado di limitare gli interventi
di pulitura e manutenzione dei manufatti architettonici.
Una soluzione acquosa di titania (con un contenuto di TiO2 pari all'1%
in peso) è stata preparata mediante la tecnica sol-gel, ottenendo una
dimensione media delle particelle tra 40 e 50 nm.
I campioni di travertino da trattare hanno invece dimensioni 8 x 8 x
1,5 cm3.
La soluzione è stata depositata sulle superfici dei campioni mediante
la tecnica spray, scelta per la sua facilità e velocità di utilizzo, senza
alcun tipo di trattamento termico aggiuntivo, dal momento che non
sempre è possibile utilizzare processi termici sulle superfici delle pie-
tre nel campo del restauro. Sono state applicate due differenti quantità
di titania: il primo trattamento con singolo strato (T1) e una quantità di
titania depositata pari a 0,12 g/m2, il secondo trattamento con tre strati
(T2) e 0,40 g/m2 di TiO2 depositato. Dopo una fase di asciugatura, solo
le particelle di nanobiossido di titanio risultano aderenti alle superfici
della pietra, dal momento che l'acqua della soluzione acquosa evapora.
La morfologia della pietra coperta con TiO2 non differisce da quella
dei campioni non trattati. Il sottile strato di titania è ben al di sotto di 1
μm di spessore e copre uniformemente la superficie senza originare
155
fratture e segregazione o modificare la morfologia del substrato.
Per verificare il potenziale del trattamento con TiO2 nel campo del re-
stauro, è necessario testare il soddisfacimento dei seguenti requisiti:
a) il mantenimento dell'aspetto originale delle pietre trattate;
b) una reale efficienza auto-pulente;
c) assenza di effetti collaterali dovuti all'idrofilicità fotoindotta,
poiché cambi della bagnabilità potrebbero portare a una mag-
giore esposizione a sali solubili, componenti acidi/basici e
agenti di degrado portati dalla soluzione acquosa.
Per quanto riguarda il primo aspetto, sono stati analizzati i cambia-
menti estetici dal punto di vista del colore e della lucidità, valutati e
monitorati in accordo con la normativa UNI EN 15866:2010. Le diffe-
renze di colore dopo il trattamento risultano piuttosto basse, non av-
vertibili a occhio nudo, e non ci sono cambiamenti neanche dal punto
di vista della lucidità. Infatti la titania ottenuta mediante tecnica sol-
gel risulta trasparente, quindi altamente compatibile con le superfici
architettoniche.
L'efficacia auto-pulente è stata valutata mediante due procedure stan-
dard: il test di degrado del biossido di azoto e l'analisi di decolorazio-
ne con il colorante Rodamina B.
Per determinare l'efficacia fotocatalitica contro gli agenti inquinanti, il
degrado del biossido di azoto viene determinato sistemando i campio-
ni in un reattore in cui passa aria secca contenente 0,6 ppm di NO a un
intervallo di 1,5 l/min. Dopo un breve periodo le superfici vengono
esposte a radiazione UV-A per un massimo di 45 minuti. La decompo-
sizione fotocatalitica viene monitorata ogni minuto per un massimo di
125 minuti.
Per entrambi i trattamenti (T1 e T2) è evidente la decomposizione del
NO, ma il trattamento a tre strati (T2) risulta essere più efficiente ri-
spetto a quello con singolo strato (T1), in particolare la diminuzione di
concentrazione di ossido di azoto risulta del 50% e del 30% rispettiva-
mente. La decomposizione dura per tutto il tempo dell'irradiazione e
156
termina entro breve dal momento in cui la lampada UV viene spenta.
Per quanto riguarda l'analisi con Rodamina, questa consente di valuta-
re il comportamento nei confronti dello sporco. I campioni di traverti-
no vengono macchiati con una soluzione acquosa di Rodamina B e
dopo una fase di asciugatura i campioni vengono esposti a radiazione
UV. La decolorazione della tinta organica applicata sulle superfici dei
campioni viene monitorata mediante misurazioni cromatiche prima
dell'irradiazione e dopo 1, 4 e 26 ore di esposizione (Fig. 86).
Fig. 86: analisi con Rodamina B: superfici dei campioni all'inizio dell'analisi
(NT(0), T1(0), T2(0)) prima dell'esposizione ai raggi UV e dopo 1, 4, 26 ore di illu-
minazione UV [108]
Durante le prime 4 ore di esposizione, il valore medio di decolorazio-
ne della Rodamina B sulle superfici trattate è circa 2-3 volte più alto
rispetto alle superfici non trattate. Dopo 26 ore di irradiazione, il trat-
tamento con unico strato (T1) non mostra una maggiore decolorazione
rispetto al campione non trattato, mentre il trattamento con tre strati
(T2) assicura il 17% in più di decolorazione rispetto al campione non
trattato.
157
Infine, per valutare i problemi di eventuali effetti collaterali dovuti
all'idrofilicità fotoindotta, viene misurato l'angolo di contatto, prima e
dopo l'esposizione ai raggi UV, di 5 μl di gocce d'acqua.
Senza esposizione ai raggi UV le differenze tra campione trattato e
non trattato sono abbastanza moderate e principalmente relazionate
con le proprietà fisiche eterogenee (porosità e rugosità) dei substrati di
pietra. Comparato con le superfici non trattate, il trattamento T1 au-
menta leggermente il valore medio dell'angolo di contatto, mentre le
superfici del trattamento T2 non mostrano cambiamenti.
Durante l'irradiazione ultravioletta, l'idrofilicità della titania è ben evi-
dente e i valori dell'angolo di contatto delle superfici trattate sono
molto più bassi (Tab. 5).
Non trattato
iniziale
T1 T2
iniziale finale iniziale finale
Angolo di
contatto (°)
59.0 ± 19.9 77.7 ± 19.1 21.8 ± 8.7 59.0 ± 20.1 20.7 ± 8.4
Tab. 5: valori medi dell'angolo di contatto in funzione del contenuto di titania, pri-
ma dell'irradiazione UV (iniziale) e dopo 50 minuti di esposizione (finale) [108].
In particolare è risultato che durante il primo periodo di esposizione
l'angolo di contatto è maggiore per T1, ma dopo 30 minuti di irradia-
zione UV i valori sono molto simili in entrambi i trattamenti, dimi-
nuendo drasticamente fino a un valore praticamente stabile. I valori fi-
nali ottenuti mostrano come si arrivi a una condizione di idrofilicità
ma non di superidrofilicità, quindi a un comportamento più uniforme
del materiale. Comparando i valori finali con la situazione pre-irradia-
zione, è chiaro che l'idrofilicità fotoindotta dovuta a esposizione UV
ha una influenza sulla tensione superficiale delle gocce d'acqua, e
quindi sulla loro forma, più grande di quella che potrebbe avere la
morfologia della stessa titania.
Da successive analisi di assorbimento d'acqua sia per capillarità che
158
mediante un nebulizzatore spray, risulta che l'idrofilicità fotoindotta
non necessariamente porta a un maggiore assorbimento d'acqua sulle
superfici trattate, dal momento che l'acqua crea un film sulla superfi-
cie solida del materiale scorrendo via per la forza di gravità senza es-
sere assorbita.
Mentre i campioni non esposti a UV non mostrano evidenti differenze,
la superficie trattata esposta a UV mostra una forte diminuzione
nell'assorbimento d'acqua. Questo comportamento suggerisce l'utilizzo
del nanotitanio per superfici verticali o inclinate. La differenza tra il
trattamento T1 e il trattamento T2 è piuttosto moderata, in quanto la
presenza di più strati di titania non sembra influenzare molto le pro-
prietà fotoindotte rispetto al singolo strato.
Alla luce di questi risultati quindi appare evidente che l'applicazione
di strati multipli di titania non porta a evidenti benefici se non nel
breve-medio periodo, il che tuttavia porta anche a un aumento dei co-
sti.
Grazie alla trasparenza degli strati, l'efficacia nella rimozione dello
sporco e degli inquinanti e l'assenza di incrementi di assorbimento
d'acqua, l'uso della titania sembra essere una promettente soluzione
nel campo del restauro.
Tuttavia sono necessarie ulteriori analisi a lungo termine e soprattutto
in situ per verificare la reale compatibilità di questo trattamento con
gli elementi in pietra del patrimonio culturale [108].
7.4.2 Esempio di applicazione del nanobiossido di titanio su mar-
mo
L'applicazione del nanobiossido di titanio è stata studiata anche su
marmo, un materiale con bassa porosità ampiamente utilizzato nei mo-
numenti del nostro patrimonio culturale.
Uno studio in laboratorio [109] ha effettuato un confronto tra due dif-
ferenti litotipi carbonatici: il marmo di Carrara (con una porosità
159
dell'1%) e una generica pietra calcarea (con porosità tra il 20 e il
30%).
Il trattamento utilizzato consisteva in una dispersione acquosa di un
polimero acrilico e nanoparticelle di anatasio.
L'applicazione è avvenuta mediante pennello, con due differenti quan-
tità per ogni litotipo, a seconda della porosità della pietra: 2 e 4 g/m2
per il campione di marmo (ML e MH rispettivamente), 20 e 40 g/m2
per la pietra calcarea (CL e CH).
Sono stati osservati la profondità di penetrazione della titania, l'effica-
cia antibatterica, l'assorbimento d'acqua, l'angolo di contatto e le varia-
zioni di colore.
Per quanto riguarda il primo aspetto, tramite analisi SEM-EDS (Fig.
87) si è evidenziato che la distribuzione della titania diminuisce allon-
tanandosi dalla superficie.
Fig. 87: sezione trasversale dei campioni di pietra calcarea (a) e marmo (b) trattati.
Le misurazioni di concentrazione della titania sono state effettuate nel reticolato
[109].
In particolare dall'analisi EDS è risultato che per il campione di mar-
mo il valore del contenuto di Ti diminuisce drasticamente dopo i 200
μm di profondità, per via della scarsa porosità del materiale, mentre
per il campione di pietra calcarea quantità misurabili di Ti sono state
individuate fino a 3 mm dalla superficie. Questo potrebbe essere un
160
vantaggio a favore del marmo, dato che le nanoparticelle sono preva-
lentemente concentrate in superficie, quindi in posizione corretta per
agire come fotocatalizzatrici; nella pietra calcarea invece la maggior
parte delle particelle saranno inattive dal punto di vista fotocatalitico.
Per valutare l'efficacia antibatterica è stato utilizzato un metodo consi-
stente nell'osservazione della crescita di colonie di funghi (Aspergillus
niger) sulla superficie della pietra (Fig. 88).
Le specie fungine vengono inserite in un mezzo liquido di coltura.
Una volta che i microorganismi si sono sviluppati, 500 μl di sospen-
sione vengono applicate sulla superficie di campioni di dimensioni 2 x
2 x 1 cm e poi questi vengono esposti direttamente all'ambiente ester-
no. Dopo otto giorni, le osservazioni hanno rilevato una diffusa cresci-
ta di colonie sui campioni non trattati.
In particolare, i campioni di pietra sembrano essere leggermente più
sensibili all'attacco biologico, probabilmente per la loro superficie ru-
gosa.
I trattamenti sui campioni inibiscono la crescita dei funghi e questo ef-
fetto sembra essere simile per i due litotipi. Inoltre sembra che una
maggiore quantità di nanotitanio applicato sui campioni non incre-
menti l'efficienza dell'effetto antibatterico.
Dal punto di vista delle variazioni di colore, tramite test colorimetrici
è emerso che queste sono trascurabili, il che conferma l'adattabilità del
prodotto a scopi restaurativi.
Per valutare la bagnabilità delle superfici trattate, è stata fatta una mi-
surazione dell'angolo di contatto di 20 gocce d'acqua versate sui cam-
pioni, prima e dopo 1000 h di esposizione ai raggi UV.
Sui campioni di marmo, dopo il trattamento, si è registrato un piccolo
incremento dell'angolo di contatto; inoltre dopo l'irradiazione le super-
fici trattate sembravano avere un comportamento simile a quelle non
trattate.
161
Fig. 88: colonizzazione di funghi sui campioni di pietra: campione di marmo tratta-
to (a) dopo un giorno dall'inoculazione; campioni di marmo trattati (b) e non trat-
tati (c) dopo 8 giorni; microfotografia della superficie del marmo colonizzata (d);
campione di pietra calcarea trattata dopo un giorno dall'inoculazione (e); campioni
di pietra calcarea trattati (f) e non trattati (g) dopo 8 giorni; microfotografia della
superficie della pietra calcarea colonizzata (h) [109].
162
Per quanto riguarda la pietra calcarea, i risultati sono differenti: dopo
il trattamento l'angolo di contatto è aumentato da 0 a 100, mentre dopo
l'irradiazione è stata registrata una piccola diminuzione (di circa il
20%). In Tab. 6 sono mostrati i valori dell'angolo di contatto sui vari
campioni.
Infine è stato valutato l'assorbimento d'acqua, uno dei fattori più peri-
colosi per il degrado dei materiali. È stato analizzato l'assorbimento
per capillarità sia sui campioni trattati che non trattati e dopo irradia-
zione UV, per simulare il comportamento dello strato di titania dopo
un certo periodo di irradiazione solare, che potrebbe portare a una di-
minuzione della resistenza all'acqua, a causa dell'alterazione del film
polimerico.
Angolo di contatto (°)
Campione Dopo il trattamento Dopo irradiazione
Marmo non trattato 32 ± 7 32 ± 5
ML 84 ± 6 32 ± 8
MH 90 ± 5 36 ± 7
Pietra calcarea non trattata 0 0
CL 106 ± 7 83 ± 8
CH 117 ± 8 85 ± 8Tab. 6 : valori dell'angolo di contatto dell'acqua versata sui campioni prima e dopo
1000 h di esposizione a luce UV [109].
I campioni di marmo dopo il trattamento mostrano una diminuzione
nell'assorbimento d'acqua, mentre dopo l'irradiazione hanno un com-
portamento simile ai campioni non trattati. Risultati migliori sono stati
ottenuti per i campioni di pietra calcarea: dopo il trattamento si è regi-
strata una diminuzione dell'assorbimento d'acqua di un ordine di gran-
dezza, mentre dopo l'irradiazione non ci sono state rilevanti variazioni.
Questo comportamento può essere spiegato con la diversa quantità di
prodotto applicata sui due litotipi, essendo quella utilizzata per la pie-
tra calcarea più grande di un ordine di grandezza. Inoltre la differente
163
porosità che caratterizza i due materiali ha giocato un ruolo
fondamentale: essendo la porosità della pietra calcarea dieci volte
maggiore di quella del marmo, il prodotto è penetrato più in
profondità.
In conclusione, facendo una media dei risultati ottenuti, l'applicazione
di titania sembra avere la migliore efficacia per la pietra calcarea.
7.4.2 Esempio di applicazione del nanobiossido di titanio su pietra
leccese
Un'ulteriore applicazione del nanotitanio è stata studiata [110] nei
confronti della pietra leccese, una calcarenite molto porosa che si può
considerare rappresentativa dei materiali porosi utilizzati negli edifici
storici del nostro patrimonio culturale, particolarmente nel Sud Italia e
in molti Paesi del bacino del Mediterraneo.
La pietra ha una composizione carbonatica ed è costituita principal-
mente da calcite. La sua microstruttura è caratterizzata da uno scarso
grado di cementazione, con una bassa coesione dei grani. La sua poro-
sità è piuttosto alta, dell'ordine del 30-40%.
Per via di queste caratteristiche questa pietra mostra scarsa durabilità,
essendo facilmente oggetto di degrado chimico, biologico e fisico.
Sono state così studiate le prestazioni della pietra in seguito all'appli-
cazione di nanotitanio in sospensione acquosa.
In particolare, sono stati preparati tre prodotti a base di nanotitanio
(HT01, HT02, HT03) mediante processi sol-gel e idrotermici variando
la temperatura, la pressione e il tempo di esposizione a questi parame-
tri.
I campioni di pietra invece, prima del trattamento, sono stati puliti con
un pennello morbido e lavati con acqua deionizzata in modo da rimuo-
vere i depositi di sporco. Sono stati poi completamente asciugati e te-
nuti per 24 h a una temperatura di 23° C e in condizioni di umidità re-
lativa del 50%.
164
Ogni prodotto è stato applicato su 5 campioni di 5 x 5 x 2 cm e 5 cam-
pioni di 5 x 5 x 1 cm. Solo un lato 5 x 5 cm è stato trattato.
La titania è stata applicata mediante spray, dopodiché i campioni sono
stati tenuti in laboratorio per tre giorni, in condizioni di umidità relati-
va del 50% e temperatura di 23° C; poi sono stati asciugati in forno a
60° C fino a raggiungere stabilità del peso.
Sono stati valutati i cambiamenti di colore, l'assorbimento d'acqua, la
permeabilità al vapore acqueo, l'attività fotocatalitica e la proprietà au-
topulente, confrontando i campioni trattati con quelli non trattati.
Per quanto riguarda i cambiamenti di colore, non si sono evidenziate
forti variazioni tra i campioni trattati e non trattati con i tre prodotti.
La loro entità infatti è al di sotto del valore minimo che l'occhio uma-
no potrebbe distinguere.
L'assorbimento d'acqua è stato valutato mediante capillarità: nel cam-
pione non trattato, per via delle sue caratteristiche intrinseche, è molto
alto e rapido e non si formano gocce sulla sua superficie. Lo stesso ri-
sultato si ottiene sui campioni trattati con titania, in perfetto accordo
con la sua nota proprietà di idrofilicità.
La permeabilità al vapore acqueo invece è risultata in leggera diminu-
zione dopo l'applicazione del trattamento, ma senza minare l'efficienza
del prodotto.
L'attività fotocatalitica è stata valutata mediante una prova di rimozio-
ne degli NOX e la proprietà autopulente mediante la decomposizione
di metile rosso sotto irradiazione UV. Entrambe hanno dato risultati
soddisfacenti.
In conclusione il trattamento con titania su pietra leccese, dati i risulta-
ti positivi in termini di attività fotocatalitica e di variazione del colore,
dell'assorbimento d'acqua e della permeabilità del vapore acqueo, si
può considerare un buon candidato nel campo del restauro; l'applica-
zione mediante spray inoltre rappresenta un metodo pratico ed econo-
mico per applicare TiO2 nanometrico senza alterare la morfologia e la
permeabilità delle pietre porose.
165
7.5 Impatto ambientale del nanobiossido di titanio
La reazione fotocatalitica presenta dei residui che scaturiscono dalla
sua azione ossidante. Generalmente i composti che derivano dalla tra-
sformazione degli inquinanti sono sali minerali e calcare, prodotti in
quantità minima (parti per miliardo) invisibili e innocui.
Tuttavia gli effetti sulla salute delle nanoparticelle non sono ancora
noti. Di certo, valutare la tossicità della titania non è un compito faci-
le, in quanto dipende da tanti fattori, ad esempio dal tipo di sostanze
chimiche utilizzate nella produzione e dal materiale presente sulla su-
perficie delle particelle. Inoltre ogni particella è diversa: ci sono molti
modi per produrre le nanoparticelle e ogni azienda produttrice ha una
sua modalità.
Uno studio [111] effettuato sull'applicazione di biossido di titanio
nanometrico su pannelli di vetro impiegati come finestre ha
evidenziato come l'uso di TiO2, se da un lato ha effetti positivi contro
l'inquinamento, sia interno che esterno, dall'altro risulta
ecologicamente tossico, aumentando i carichi ambientali nel
riscaldamento globale, l'esaurimento dei combustibili fossili, il
consumo d'acqua e i rischi per la salute umana (Fig. 89).
È stato riportato inoltre che le radiazioni, anche quelle provenienti dal
sole, possono aumentare la tossicità delle particelle di biossido di
titanio da 20 a 40 volte [112].
Il biossido di titanio in forma di anatasio [113] è considerato rischioso
per la salute, dannoso per inalazione, irritante per gli occhi, il sistema
respiratorio e la pelle. Inoltre fa parte di una gamma di ENM
(nanomateriali ingegnerizzati) che sono stati collegati a diversi gradi
di interruzione delle funzioni cellulari del cervello, nei polmoni e in
altri organi vitali [114].
Oberdorster [115] e Bermudez [116] hanno dimostrato che in seguito
all'inalazione di particelle ultrasottili di biossido di titanio si verifica
un'accentuata infiammazione del tratto respiratorio, maggiore rispetto
166
a quella riscontrata in seguito all'inalazione di particelle sottili dello
stesso materiale. È evidente quindi che la dimensione delle particelle
costituisce un fattore chiave nella determinazione della tossicità delle
stesse [117].
Fig. 89: indici normalizzati dell'impatto ambientale dei vetri rivestiti o meno con
nanotitanio (secondo norme ISO 14040) [111].
Spesso però le aziende non forniscono informazioni circa la tossicità e
la natura delle nanoparticelle che utilizzano nei loro prodotti. Non si
conosce molto circa le modalità di trasporto di queste particelle e
come si trasformano nell'ambiente. È quindi difficile prevedere cosa
potrebbe succedere in caso di rilascio e, quindi, di un aumento della
concentrazione nell'atmosfera.
Gli autori segnalano che le nanoparticelle possono essere accidental-
167
mente liberate nell'ambiente in differenti momenti del loro ciclo di
vita.
Una volta nell'ambiente i nanomateriali possono subire diverse trasfor-
mazioni fisiche, chimiche e biologiche che cambiano le loro proprietà.
Per questo, secondo alcuni ricercatori, è essenziale elaborare un profi-
lo di esposizione integrale del ciclo di vita dei nanomateriali, per valu-
tare i possibili effetti sulla salute umana e sull'ecosistema.
168
Conclusioni
Si è visto come la nanoscienza abbia un enorme potenziale nella con-
servazione del patrimonio culturale, dovuto alle proprietà uniche che
la riduzione delle particelle conferisce ai nanomateriali comparati con
i corrispettivi micrometrici.
Dagli affreschi ai manufatti architettonici, l'applicazione delle nano-
particelle garantisce la compatibilità fisico-chimica con i materiali
trattati e la ripetibilità dei trattamenti.
La nanocalce si è rivelata un ottimo consolidante per dipinti murali,
mentre la nanosilice e il nanoidrossido di stronzio, seppur ancora in
fase sperimentale, hanno dimostrato buone capacità consolidanti e
protettive per i materiali lapidei. Tuttavia la capacità di penetrare più o
meno in profondità va valutata caso per caso in base al litotipo da trat-
tare e alla sua microstruttura. Infine il nanobiossido di titanio conferi-
sce ai materiali su cui è applicato proprietà autopulenti e disinquinanti,
favorendo il rispetto dell'ambiente e la conservazione del valore esteti-
co dei manufatti.
Tutte queste caratteristiche comportano anche una maggiore durabilità
delle opere d'arte e di conseguenza un minor numero di interventi di
manutenzione.
I risultati nel campo dei beni culturali sono quindi incoraggianti, ma
gli studi condotti finora sono soprattutto di laboratorio e quelli in situ
sono ancora limitati.
Purtroppo inoltre di pari passo con lo sviluppo e la messa a punto di
nuovi processi produttivi e nuovi prodotti legati alle nanotecnologie, si
sta sempre più palesando la preoccupazione, innanzitutto legata alla
salvaguardia dei lavoratori addetti alla realizzazione delle nanoparti-
celle, di possibili effetti nocivi legati alle nanoparticelle stesse. Questa
preoccupazione ha finora pochi riscontri sperimentali, ma sembra es-
sere connessa da un lato alla scarsa capacità di prevedere il comporta-
169
mento dei sistemi nanostrutturati durante tutto il loro ciclo di vita,
dall'altro alla consapevolezza dell'esistenza di precedenti situazioni di
ignoranza del rischio che hanno poi causato seri problemi di salute
pubblica (come ad esempio il caso dell'amianto).
Nel caso delle nanoparticelle c'è poi una preoccupazione ulteriore, le-
gata alle loro dimensioni, che le rende estremamente leggere e difficil-
mente potrebbero essere “catturate” una volta che venissero inavverti-
tamente rilasciate nell'ambiente. La loro propagazione può quindi av-
venire in modo eguale tramite l'aria, l'acqua e il suolo, con la conse-
guenza che diverse specie viventi potrebbero essere interessate
all'esposizione, entrando in questo modo a far parte anche della catena
alimentare.
Per questo motivo l'analisi del ciclo di vita dei nanomateriali o dei
prodotti contenenti nanoparticelle, considerando gli stadi che vanno
dalla produzione, all'uso e al suo smaltimento, diventa essenziale ed
urgente prima che l'impiego di questi materiali diventi ancora più am-
pio.
170
Non ringraziamenti
Credo che in ogni tesi di laurea che si rispetti la pagina dei
ringraziamenti dovrebbe essere depennata in favore di una più sincera
e onesta lista di non ringraziamenti. Perché diciamoci la verità,
quando finalmente riusciamo a liberarci di questo fardello, siamo solo
incazzati neri, esausti, privi di ogni entusiasmo, vogliamo chiudere
questo capitolo e non tornarci mai più sopra. Fare l'ennesimo buon
viso a cattivo gioco con una serie di smielati grazie sarebbe davvero
chiedere troppo. Perciò comincio subito col non ringraziare tutti
coloro che in questi anni si sono prodigati nel farmi perdere tempo,
salute e soldi (al di là delle tasse universitarie assolutamente non
proporzionate ai servizi offerti, ho buttato una marea di soldi in carta,
ovvero stampe A0 a colori richieste dai docenti di progettazione – non
tutti per fortuna – per la revisione settimanale), riuscendo a rendere
difficili e quasi impossibili situazioni che con un minimo di
organizzazione potevano essere semplici e addirittura piacevoli.
Non ringrazio ad esempio il Consiglio del Corso di Laurea che ho
dovuto pregare quasi in ginocchio per farmi riconoscere un
legittimissimo Erasmus Placement di cui sono risultata vincitrice, solo
perché avrei ottenuto dei punti extra curriculari e quindi non necessari
al conseguimento della laurea: in Italia si sa, non è usanza premiare i
più meritevoli!
Non ringrazio i docenti che: non si sono presentati agli appelli
d’esame, facendomi arrivare sulle soglie di un esaurimento nervoso;
mi hanno dato appuntamento per un ricevimento e puntualmente mi
hanno dato buca; all’ultimo momento hanno cambiato data dell’esame
o peggio, per loro prassi (come il Prof. D.), fanno sapere la data
dell’esame solo 4 giorni prima. Non ringrazio coloro (docenti e
personale amministrativo) che sono convinti che noi studenti abbiamo
una tenda piazzata nei corridoi della facoltà e facciamo passeggiate
171
ogni giorno davanti ai dipartimenti per vedere se c'è un nuovo post-it
“Avviso importante”. Spesso questi post-it contengono davvero
informazioni fondamentali per la prosecuzione della propria carriera
universitaria, e perderne uno comporta una serie di problemi a cascata
e all'ennesimo esaurimento nervoso.
Non ringrazio poi il personale della segreteria, assolutamente incapace
di svolgere il proprio lavoro in modo decente. Non ringrazio in
generale tutti i docenti che mi hanno fatto sgobbare non già per amore
di insegnamento ma per i loro porci comodi, perché il mio lavoro gli
serviva (per le loro ricerche, i loro progetti, i loro studi privati e
quant’altro).
Non ringrazio la Commissione di Laurea (il mio relatore è escluso
dalle accuse che seguono) che alla mia sudata, anche se compilativa
tesi, hanno dato due soli punti, senza neanche ascoltare la mia
esposizione (a questo proposito non ringrazio i docenti che quando ho
iniziato la discussione si sono alzati e allontanati, in particolare non
ringrazio il Presidente della Commissione che si è addirittura
permesso di rispondere a una telefonata durante i miei miseri 15
minuti di esposizione), per l'ovvia ragione di non aver compreso
assolutamente nulla dell'argomento – d'altronde ad eccezione del mio
relatore nessuno era anche lontanamente vicino alla materia.
Non ringrazio, in generale, il sistema universitario italiano fatto solo
di teorie, carta, parole, numeri e cazzate che solo nelle loro menti
bacate possono trovare un senso.
L’unica persona che devo ringraziare sono io.
172
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