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N o te e discussioni
Fascismo e antifascismidi Marco Revelli
Quasi due anni or sono una violenta polemica mise in discussione il senso stesso del concetto di ‘antifascismo’ e della sua sopravvivenza come valore di riferimento nell’Italia di oggi. Una polemica di prevalente taglio giornalistico, di basso profilo scientifico, non scevra da aspetti di politica meschinamente politicante (la tentazione da parte di molti di spartirsi le spoglie di un Msi giudicato agonizzante dopo l’abbandono di Almirante), a cui aderirono però studiosi di un certo rilievo come Renzo De Felice e Lucio Colletti. E che poneva anche — non possiamo nascondercelo — problemi seri. Domande inquietanti: che senso ha continuare a parlare, come di un valore vivo, dell’antifascismo (di un paradigma politico nato per contrapposizione), nel momento in cui non esiste più, storicamente, il termine contro cui ci si contrappone; nell’epoca in cui, si suppone o si spera, il fascismo non costituisce più, per lo meno in Italia, un pericolo reale? Non si cade, continuando a fare dell’antifascismo un fattore costitutivo d’identità, in una qualche forma di archeologia politica? Di più: non si rischia, continuando a riproporlo come pregiudiziale culturale e politica, un atteggiamento di sostanziale conservazione; una ri
nuncia ad aprirsi al nuovo che avanza, e che offre scenari del tutto incomparabili con quelli del passato? E non si perpetua, in qualche modo, una forma di arretratezza storica italiana, di fronte a un’Europa che da tempo sembra essersi lasciata alle spalle le identità belliche?
La questione è tanto più seria oggi, nel momento in cui non solo, per lo meno in Europa, è scomparso ogni residuo del fascismo storico al potere, ma stanno dissolvendosi in forma sempre più accelerata le conseguenze stesse della ‘guerra antifascista’. Nel momento in cui si assiste, in senso letterale, alla fine del dopoguerra, con la liquidazione dello stesso ordine geopolitico prodotto dalla seconda guerra mondiale, e si entra in un’epoca qualitativamente nuova, in cui la storia sembra farsi, nuovamente, invenzione e avanzamento attraverso l’inedito, ‘contro’ il passato. In particolare contro ‘quel’ passato che produsse l’ordine europeo fino a ieri vigente. Il congedo da quell’ordine non impone anche un contemporaneo congedo dal complesso di valori politici, di esperienze storiche e di opzioni culturali che unirono le forze (i movimenti, gli stati, gli eserciti) che a quell’ordine diedero origine, e che sono in qualche modo riconducibili al termine ‘anti-
II testo riproduce la relazione presentata dall’autore al convegno “Attualità dell’antifascismo. Le ragioni di una scelta lontana”, organizzato dall’Istituto storico della Resistenza in Cuneo e provincia, Cuneo, 7-9 dicembre 1989.
Italia contemporanea”, giugno 1990, n. 179
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fascismo’? Quale ruolo può giocare, nel grande, entusiasmante (e anche inquietante) movimento che si sta manifestando nel centro dell’Europa, quello che abbiamo chiamato il ‘paradigma antifascista’?
La questione non è di quelle che si possono risolvere con qualche facile gioco di parole, né con tecniche spettacolari. È densa e complessa. Richiede apertura alla critica, accettazione del rischio di vederci, domani, privati d’un colpo di tutti i nostri ieri, disponibilità al confronto impietoso con la realtà attuale. Ma anche serietà e profondità. Richiede soprattütto precisione terminologica.
Occorre innanzitutto intenderci: Quale antifascismo? Cosa s’intende col termine ‘anti-fascismo’ quando se ne proclama l’attualità o l’obsolescenza? A quale costellazione concettuale, o esperienza storica, ci si riferisce? I protagonisti della polemica cui facevo riferimento all’inizio, pur con differenziazioni interne notevoli, sembrano comunque riferirsi a un’accezione univoca del termine: 1’ ‘anti-fascismo’, in quel contesto, è uno schieramento-, un insieme di forze storicamente determinate, tenute insieme, in un preciso momento storico (la prima metà degli anni quaranta), dall’impegno contro un comune nemico (il fascismo italiano e il nazionalsocialismo tedesco). O meglio, è il minimo comun denominatore che sottendeva quello schieramento. Per quanto riguarda l’Italia, 1’ ‘antifascismo’ sono i Cln: l’arco politico che a essi ha dato origine e che in essi è stato (per un breve periodo) rappresentato; il fugace punto d’incontro delle culture cattolica, socialista e comunista, animate dallo spirito intransigente del Partito d’azione e saldate dall’esistenza di un regime che ne aveva soffocato con la violenza la possibilità di espressione.
In quest’accezione, indubbiamente, l’autonomia dell’antifascismo dal suo termine qualificante per opposizione, dal fascismo, sarebbe assai limitata, per non dire
nulla. E la proiezione storica dell’antifascismo oltre l’arco cronologico dell’esperienza fascista sarebbe assai breve: già la guerra fredda, in campo internazionale, e il 1947- 1948 in Italia, ne segnano l’estinzione come progetto attivo e rinnovatore. Tra le sue sopravvivenze nell’Italia repubblicana, oltre la dodicesima Disposizione transitoria, rimarrebbe una quantità di usi istituzionali, non del tutto scevri da un certo qual connotato conservatore di legittimazione dell’ordine politico dominante (delle forze politiche appartenenti al cosiddetto ‘arco costituzionale’). Così definito, in sostanza, l’antifascismo finirebbe per coincidere con il progetto di breve termine dei vincitori della seconda guerra mondiale; e per svanire con il raggiungimento dell’unico obiettivo che li teneva insieme: la sconfitta militare del fascismo; sopravvivendo, tutt’al più, nella difesa degli assetti geopolitici e sociali che da quella guerra scaturirono.
Né, in questo caso =•— se le cose stessero così, se cioè l'antifascismo si riducesse al semplice denominatore comune di un fronte istituzionale eterogeneo, esteso dai liberali ai comunisti e identificato con la semplice difesa dell’ordine repubblicano — esso avrebbe i suoi primi oppositori nei più recenti critici di destra: ben da prima, per lo meno dalla metà degli anni sessanta, quel tipo di antifascismo era stato oggetto di una dura critica ‘da sinistra’; da parte, cioè, di quelle posizioni culturali e politiche emergenti che nell’ ‘ordine repubblicano’ riconoscevano inaccettabili continuità col regime precedente, e che rivendicavano più ampie e più radicali forme di partecipazione e di cittadinanza.
Ma è sufficiente una sia pur superficiale conoscenza storica per sapere che in realtà le cose non stanno così. Che l’antifascismo non è riconducibile, così schematicamente, a un significato univoco. In sostanza, che non esiste un’unicà accezione di antifascismo,
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ma una pluralità di accezioni e significati, stratificatisi nel tempo, lungo l’intero arco del ventennio, e articolati nell’ampio ventaglio delle componenti politiche che alla lotta antifascista diedero luogo. Più che di antifascismo, occorrerebbe parlare di ‘antifascismi’: per lo meno uno per ogni tipo di definizione e di ‘critica del fascismo’ che nel corso di quella lunga lotta fu formulata. Ed uno per ogni generazione che, nel corso del tempo, scoprì ed elaborò il proprio ‘essere contro’.
È noto — e nessuno meglio di De Felice dovrebbe saperlo — che anche volendo limitare l’analisi al ventennio compreso tra le due guerre, si possono individuare per lo meno tre grandi filoni d’interpretazione critica del fascismo, ognuno dei quali Connesso a una determinata ipotesi e ragione di opposizione ad esso: le ‘teorie’ del fascismo come parentesi, come reazione di classe e come rivelazione dei mah storici della storia italiana. Ora, di questi tre grandi ‘fondamenti’ dell’antifascismo storico, forse solo il primo
l’idea del fascismo come parentesi all’interno di una storia caratterizzata, per quanto riguarda il prima e il dopo, comunque dallo sviluppo dell’idea di libertà — sembrerebbe dare origine a un modello di antifascismo destinato a iniziare e ad estinguersi in stretta simbiosi con l’esperienza storica del fascismo. E anche in questo caso la conclusione sarebbe forse discutibile. Come è noto fu Croce, in un discorso tenuto al primo congresso dei partiti del Comitato di liberazione a Bari il 28 gennaio 1944, a proporre per primo la concezione parentetica: “Che cos’è, nella nostra storia — si chiese — una parentesi di venti anni?”, aggiungendo subito dopo: “Ed è poi questa parentesi tutta
storia italiana o anche europea e mondiale?”1. Parentesi, dunque, nei termini più netti. E tuttavia è lo stesso Croce, in un articolo per il “New York Times” di appena un anno prima, ad aver alluso a una possibile lettura culturale e metastorica del fascismo, cogliendone i germi non solo nella prassi del fascismo-regime ma anche nelle dominanti correnti filosofiche e letterarie di quella congiuntura: “Risorgerà questa coscienza [della libertà] nella sua vivezza e pienezza — scriveva —; dovrà di necessità risorgere; ma per ora nessuno certamente potrebbe affermare che sia forte e sicura di sé, dominante negli animi, emanante luce, infondente calore. Dove sono i suoi riflessi nelle filosofie contemporanee, dal più al meno decadentistiche e pessimistiche? Dove nella letteratura contemporanea parimenti decadentistica e sensualistica?”2. Si riferiva indubbiamente alla diffusione dell’esistenzialismo nella sua chiave heideggeriana, alla crescente sfiducia nell’idea di progresso che a partire dai primi decenni del secolo era andata erodendo l’ottocentesca fiducia nella storia, alla crisi dell’ottimismo storicistico che stava nonostante tutto alla base del suo idealismo; e alla necessità di una battaglia culturale — di un antifascismo culturale, potremmo dire — la cui attualità, nella presente congiuntura filosofica, non è certo facile negare.
Comunque, quali che siano le considerazioni che s’intendono svolgere sulla tesi crociana, quel che è certo è che né l’interpretazione del fascismo come reazione di classe né quella del fascismo come rivelazione possono accreditare un’idea dell’antifascismo come schieramento destinato a perdere di significato con la sconfitta politica e militare del fascismo storico. Non la prima — la iet-
1 In Benedetto Croce, Per la nuova vita dell’Italia. Scrìtti e discorsi 1943-1944, Napoli, Ricciardi, 1944, pp. 55-56. Riprodotto col titolò II fascismo come parentesi in // fascismo. Antologia di scrìtti critici, a cura di Costanzo Ca- succi, Bologna, Il Mulino, 1982, p. 347.2 Riprodotto anch’esso in B. Croce, Per la nuova vita dell’Italia, cit., pp. 13-20; e in II fascismo, cit., pp. 340-347.
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tura’ classista del fascismo — la quale, pur tra limiti e schematismi, aveva l’indubbio merito di sottrarre interpretazioni e critica del fascismo al piano, incerto ed effimero, delle circostanze e della casualità, per ancorarlo saldamente alla media e lunga durata delle derive strutturali, del contesto sociale, dei conflitti tra soggetti collettivi. Lasciamo da parte la formula più nota della vulgata terzinternazionalista, che definiva il fascismo come “la dittatura terroristica aperta degli elementi più reazionari, più sciovinisti e più imperialisti del capitale finanziario”3; formula sbagliata nei suoi contenuti, incapace di cogliere gli elementi di massa della dittatura fascista, la sua base reale di consenso; determinata più dalle esigenze tattiche del Comintern che da fondamenti scientifici. Consideriamo piuttosto, e più in generale, la scelta di trattare il fascismo come una variabile possibile del conflitto sociale, da cui è discesa la multiforme analisi dei comunisti italiani. Essa aveva al proprio centro, come nucleo concettuale, l’idea che — in condizioni storiche particolari (siano esse quelle dei paesi qualificabili come “anello debole della catena imperialistica”, o delle nazioni a “sviluppo industriale tardivo”) — le classi dominanti, la borghesia, anche quella industriale, cosiddetta ‘avanzata’, possono abbandonare il terreno della legalità e del confronto ‘costituzionale’ per affidarsi a mezzi extra-legali e a soluzioni fondate sulla forza (siano esse riconducibili al modello del bonapartismo, o del partito reazionario di massa). L’idea, cioè, che le regole del gioco democratico non sono garantite da un patto astratto, valido una volta per tutte, ma da un rapporto di forza (“organi
co”, direbbe Gramsci) che va di volta in volta riverificato e costruito. Fu quella, in qualche modo, pur nella sua genericità, a volte schematicità, l’idea guida su cui si fondò un particolare tipo di antifascismo: quello che si potrebbe chiamare Vantifascismo sociale, e che costituì il tramite attraverso il quale masse ampie furono strappate a una millenaria subalternità culturale, politica, esistenziale, e furono trascinate al livello del protagonismo storico, riuscendo finalmente a saldare, sia pur per una breve stagione — in uno dei pochi ‘momenti alti’ della nostra storia — istanza di emancipazione sociale e progetto di costituzione di uno ‘stato nuovo’. Fu probabilmente quella istanza ‘classista’ che rese la Resistenza il primo reale momento di partecipazione della società italiana alla formazione dello stato. Fu ancora da quell’istanza che derivò — forse contro le intenzioni degli stessi dirigenti più legati al modello vetero-comunista — un’idea di democrazia radicale, partecipata, sociale che, sia pur parzialmente, e spesso delusa, trapassò anche nella Costituzione. E fu infine da quell’istanza — o meglio da quell’intuizione circa il possibile carattere extra-legale della difesa dei propri privilegi da parte delle classi dominanti — che si alimentò Vantifascismo militante dei tardi anni sessanta e dei primi anni settanta; che derivarono utili lenti alla lettura di quanto poteri occulti e corpi separati dello stato stavano operando in Italia. La storiografia sembra rendersene conto solo ora (penso al bel libro di Paul Ginzborg sulla Storia d ’Italia dal dopoguerra a oggi4, appena apparso), la politologia sembra tuttora ignorarlo, ma nel passaggio dagli anni sessanta agli anni settanta, e per quasi tutto
3 Secondo la definizione adottata dalla Tredicesima sessione plenaria del Comitato esecutivo dell’Internazionale comunista e ripresa da Dimitrov nel Rapporto presentato al Settimo congresso deUTnternazionale comunista il 2 agosto 1935. Cfr. Dimitrov, Questioni del fronte unico e del fronte popolare, Milano, Cooperativa editrice Nuova cultura, 1973, p. 4.4 Paul Ginzborg, Storia d ’Italia dal dopoguerra a oggi, Torino, Einaudi, 1989. Si veda in particolare il secondo volume, Dal “miracolo economico" agli anni ottanta.
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il corso di quel decennio, si è svolto in Italia un duro, sotterraneo ma feroce confronto tra tenuta del modello democratico e forze consistenti, potenti, saldamente rappresentate nel potere economico e all’interno dello stato, che puntavano a una violenta liquidazione di esso. Sarebbe difficile comprendere l’asprezza di quegli anni, senza considerare questo sfondo inquietante all’interno del quale uno schieramento eterogeneo, fatto di partiti e forze istituzionali ma soprattutto di movimenti dal basso spese ed esaurì, fino alla consunzione, la propria carica emancipa- tiva in uno scontro di estrema durezza con un blocco di poteri occulti, intreccio di reazione tradizionale e di moderna intolleranza. Chi ne dubita si legga la relazione presentata proprio in questi giorni dal professor Franco Ferraresi alla Commissione stragi del nostro Parlamento, documentazione precisa dell’allucinante processo per la strage di piazza Fontana, dei sistematici tentativi di depistaggio, di copertura, di insabbiamento che hanno portato a decretare ufficialmente, e definitivamente, quella strage ‘priva di autori’. Ebbene, se uno strumento ebbe a disposizione quel movimento, che non a caso si definì ‘antifascista militante’, questo fu tratto, sia pure in parte, e con le dovute innovazioni, dalle chiavi interpretative e dalle riflessioni emergenti dall’analisi del fascismo storico e del suo rapporto con la struttura sociale italiana. Analisi e stimoli che forse oggi possono apparire obsoleti e superati, inadeguati alle nuove forme della sfida tra democrazia dal basso e organizzazione del consenso dall’alto, ma che una certa qual chiarezza continuano a produrla, non solo per quanto riguarda il nostro passato remoto ma anche quello prossimo.
Quello però che meno di ogni altro mi sembra comprimibile alFinterno del mero
arco temporale del fascismo, e riducibile alla semplice contrapposizione ad esso, è il terzo filone interpretativo del fascismo — quello che si è definito, sinteticamente, la “teoria della rivelazione” — e il corrispondente tipo di antifascismo da esso derivante. È il filone di analisi e di critica gobettiano. Quello che vede (e combatte) nel fascismo l’emergere, in forma patologica e violenta, di una lunga deriva storica italiana, di un male antico, proveniente da lontano e destinato a durare a lungo; che coglie in esso 1’ ‘autobiografia della nazione’, l’attestazione dei suoi vizi d’origine e della sua cattiva coscienza — la tradizione trasformista, unanimista, moderata, conformista e ministeriale; la sintesi dell’ ‘altra Italia’, controriformista, lontana anni luce dallo spirito di responsabilità dell’etica protestante, nemica delle contrapposizioni nette, dei conflitti chiari, legalista e leguleia, corrotta nel suo gusto del quieto vivere e nel suo rifiuto della chiarezza, adoratrice della mediazione e dell’annacquamento.
Gobetti fu forse il primo a negare che esistesse un solo antifascismo. A parlare di ‘antifascismi’. E lo fece a caldo, per così dire sotto il fuoco, quando opportunità e prudenza avrebbero consigliato di attenuare i contrasti, di favorire unità fittizie. Su “La rivoluzione liberale” dell’aprile 1924, in una breve “Postilla” su Noi e le opposizioni — riprodotta da Costanzo Casucci nella sua utilissima antologia con l’opportuno titolo / due antifascismi: della normalizzazionee dell’intransigenza — scriveva: “Di fronte alla Marcia su Roma nacquero immediatamente almeno due antifascismi. Il primo era la resistenza dei battuti dal colpo di stato: l’antifascismo, per intenderci, dei vecchi democratici e liberali che erano stati ministri o ministeriali nel dopoguerra o filo- fascisti delusi”5. Il secondo era l’antifasci
5 Piero Gobetti, Noi e le opposizioni, “La rivoluzione liberale”, anno III, n. 17, 22 aprile 1924, p. 65, firmato “La rivoluzione liberale”; ora in Opere complete di Piero Gobetti, a cura di Paolo Spriano, vol. I: Scritti politici,
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smo dei giovani. Di coloro che, liberi dalle pastoie, dalle delusioni e dagli errori del passato, avevano capito che “occorreva smascherare Mussolini con un’intransigenza feroce preparando con l’esempio una situazione storica in cui l’effettiva lotta politica rendesse impossibili i costumi del paternalismo e le dittature plutocratiche mascherate da dittature personali”6; e che non pensavano di “batterlo con le coalizioni e le crisi ministeriali, ma con la soppressione delle radici che lo hanno generato, [combattendo] in Mussolini, ingigantito, il vizio storico che rese possibili in Italia i fenomeni Depretis e Giolitti”7, Mentre i primi — “non si trattava di oppositori, ma di disorientati”, continuava Gobetti — “si illudevano di trovarsi di fronte a un fenomeno passeggero, che si poteva vincere con l’astuzia, con cui era opportuno trattare, collaborare, mettere delle pregiudiziali per negoziarle”, i secondi combattevano invece “Mussolini come corruttore prima che come tiranno; il fascismo come tutela paterna prima che come dittatura”8. “Non insistemmo — concludeva Gobetti — sui lamenti per la mancanza della libertà e per la violenza, ma rivolgemmo la nostra polemica contro gli italiani che non resistevano, che si lasciavano addomesticare. Offrimmo una diagnosi della immaturità economica italiana che si accompagna e determina l’immaturità della lotta politica e la scarsa dignità personale”9. È la sintesi, que
sta, di un antifascismo etico10 — contrapposto all’antifascismo rassegnato e accomodante, potremmo definirlo ‘pratico’, della vecchia classe politica battuta —, che caratterizzò fin da subito, fin dal 28 ottobre, e prima ancora, l’atteggiamento gobettiano. E che si prolungherà poi, per tutti gi anni trenta, nella generazione della galera e del confino.
Consideriamo, come esempio, la reazione immediata, a caldo, che Gobetti oppose alla Marcia su Roma, non per gusto filologico, ma perché lì sta il momento genetico di questo terzo tipo di antifascismo, di cui stiamo trattando. Già il 9 novembre 1922, prima ancora del discorso dell’ “aula sorda e grigia”, “La rivoluzione liberale” usciva con un articolo intitolato La tirannide. Nelle prime righe vi si affermava: “Siamo rimasti quasi soli ad avere la responsabilità della formazione delle nostre classi dirigenti. Sentiamo la delicatezza, la gravità del compito. Fra tanti ciechi e monocoli siamo condannati a vedere; tra tanti illusi dobbiamo essere consci di tutta un’esperienza storica e attuale”11. E nelle ultime righe: “Abbiamo sempre saputo di lavorare a lunga scadenza, quasi soli, in mezzo a un popolo di sbandati che non è ancora una nazione. Oggi dobbiamo continuare il nostro lavoro senza più pensare a scadenze, senza speranze. Non ci hanno esiliato. Ma restiamo esuli in patria. I
Torino, Einaudi, 1969, p. 641-644. Riprodotto con il titolo I due antifascismi: della normalizzazione e dell’intransigenza, in C. Casucci (a cura di), Il fascismo, cit., pp. 361-363. Gobetti contestava a questo primo tipo di antifascisti un’opposizione “squisitamente parlamentare”: “Essi — scriveva — non sentivano una repugnanza di natura verso i vincitori, erano assolutamente alieni da! lavorare per un’altra generazione, provavano soprattutto ira e dispetto perché i loro calcoli erano stati sventati e si vedevano sfuggir di mano il potere”, P. Gobetti, Noi e le opposizioni, in Opere complete, cit., pp. 641-642.6 P. Gobetti, Noi e le opposizioni, in Opere complete, cit., p. 642.7 P. Gobetti, Noi e le opposizioni, in Opere complete, cit., p. 643.8 P. Gobetti, Noi e le opposizioni, in Opere complete, cit., p. 642; “Questo era il vero antifascismo, era la vera politica dell’opposizione” , annotava contestualmente Gobetti.9 P. Gobetti, Noi e te opposizioni, in Opere complete, cit., p. 642.10 Antifascismo etico sarà appunto il titolo di un’altra Postilla, apposta questa volta in polemica con un articolo di Filippo Burzio comparso ne “La rivoluzione liberale” del 19 febbraio 1924,11 Cfr. P. Gobetti, La tirannide, “La rivoluzione liberale”, n. 33, ora in Opere complete, cit., p. 427.
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partiti di masse si sono dimostrati inferiori alle loro funzioni. Gli uomini politici sono stati tutti liquidati. In mezzo alle orge dei vittoriosi riaffermiamo che lo spirito della rivoluzione e della libertà non si potrà Uccidere. [...] Mentre gli scimmiotti della setta gentilesca pensano ad azzaffare cattedre, per noi il problema è tutto qui: di riuscire ad essere i nuovi illuministi di un nuovo ’89”li.
E pochi giorni dopo, il 23 novembre, sotto il titolo Questioni di tattica, ritornava sull’argomento: “La nostra è un’antitesi di stile”, ribadiva, “noi non combattiamo, specificamente, il ministero Mussolini, ma l’altra Italia. [...] La nostra opposizione è così intransigente che ci rifiutiamo di esaminare i programmi e di collaborare con la critica. Combattere Mussolini per sostituirgli tra sei mesi Nitti, Cocco-Ortu, Orlando o Giolitti, no e poi no. Le nostre sono antitesi integrali: restiamo storici al di sopra della cronaca, anche senza essere profeti, in quanto lavoriamo per il futuro, per un’altra rivoluzione”12 13. Sullo stesso numero, infine, VElogio della ghigliottina: un programma, e per certi aspetti un testamento politico. “In Italia — scriveva, in polemica con raccomodante Giustino Arpesani, che proponeva una ‘valorizzazione’ del fascismo da parte dei liberali — non ci sono proletari e borghesi: ci sono soltanto classi medie. Lo sapevamo: e se non lo avessimo saputo ce lo avrebbe insegnato Giolitti. Mussolini non è dunque nulla di nuovo: ma con Mussolini ci si offre la prova sperimentale dell’unanimità, ci si attesta l’inesistenza di minoranze eroiche, la fine provvisoria delle eresie [...] A un popolo di dannunziani non si può chiedere spirito di sacrificio [,..] Io ho atteso ansiosamente
che venissero le persecuzioni personali perché dalle nostre sofferenze rinascesse uno spirito, perché nel sacrificio dei suoi sacerdoti questo popolo riconoscesse se stesso”14. E ancora: “C’è stato in noi, nel nostro opporci cieco, qualcosa di donchisciottesco. Ma nessuno ha riso perché ci si sentiva una disperata religiosità. Non possiamo illuderci di aver salvato la lotta politica: ne abbiamo custodito il simbolo. E bisogna sperare (ahimè con quanto scetticismo) che i tiranni siano tiranni, che la reazione sia reazione, che ci sia chi avrà il coraggio di levare la ghigliottina, che si mantengano le posizioni fino in fondo. Si può valorizzare il regime; si può cercare di ottenerne tutti i frutti: chiediamo le frustate perché qualcuno si svegli, chiediamo il boia perché si possa veder chiaro”15.
L’antifascismo etico di Gobetti forse è tutto qui: in questo giovanile entusiasmo per la lotta, per il conflitto, per la partecipazione (“Non può essere morale chi è indifferente”), nella fiducia che solo nello scontro tra posizioni nette possa formarsi uno spirito pubblico vero, e una classe politica responsabile e dignitosa (“Una nazione che crede alla collaborazione tra le classi, che rinunzia per pigrizia alla lotta politica, è una nazione che vale poco”16); in questo sentimento quasi religioso dell’impegno politico, che impone alle minoranze eroiche un compito eticopedagogico di elevazione morale da realizzarsi attraverso il sacrificio e la testimonianza (“C’è un solo valore incrollabile al mondo: l’intransigenza, e noi ne saremo, per un certo senso i disperati sacerdoti”17; “Noi abbiamo la sola sicurezza: la responsabilità, ed un solo fanatismo: la coerenza. Preferiamo
12 P. Gobetti, La tirannide, in Opere complete, cit,, pp. 428-429.13 P. Gobetti, Questioni di tattica, “La rivoluzione liberale”, n. 34; in Opere complete, cit., pp, 429-430.14 P. Gobetti, Elogio della ghigliottina, in Opere complete, cit., pp. 433-434.15 P. Gobetti, Elogio della ghigliottina, in Opere complete, cit., p. 434.16 P. Gobetti, Elògio della ghigliottina, in Opere complete, cit., p. 433.17 P. Gobetti, Elogio della ghigliottina, in Opere complete, cit., p. 432.
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Cattaneo a Gioberti, Marx a Mazzini”18); infine in questa capacità di solitudine, che riesce a rinunciare al successo immediato perché sa di lavorare a lunga scadenza, “per il futuro, contro corrente” , derivante da una concezione politica che in primo luogo individuava la propria “necessità in sé, e non nel suo divulgarsi”, imperativo morale prima ancora che tattica politica, come tale non preoccupata delle esigenze spicciole, del compromesso con la realtà, del proselitismo burocratico, del successo immediato e pratico, perché su tutto ciò riponeva il proprio compito di formazione per il futuro (“Che se noi non riusciremo a vedere i termini del nostro calcolo — è ancora, naturalmente, Gobetti — avremo servito il paese come politici e non soltanto come persone oneste, preparando per domani classi dirigenti che avranno diritto di essere rispettate”19).
Ne sortirà una generazione di antifascisti, terribilmente ristretta nel numero, ma disperatamente tenace: la generazione del confino e della galera.
L’antifascismo degli anni trenta, della piena massificazione del regime, l’antifascismo di Ernesto Rossi, dei Rosselli, di Leone Ginzburg, l’antifascismo che non si misura più col fascismo nascente, squadristico, attivistico ma che deve vivere la quotidianità pesante del fascismo regime, degli anni del
consenso, è profondamente impregnato di valori gobettiani. Rileggendo quello splendido libro che è Padri e figli di Alessandro Galante Garrone20, alla ricerca d’ispirazione per questa relazione, mi ha colpito con forza un elemento di omogeneità, presente come un tratto genetico in tutti gli appartenenti a quella generazione di politici per fede e per principio, di militanti nati alla politica in un contesto storico drammaticamente e brutalmente bloccato: tutti sono capaci di “indomabili dinieghi”; d’ “implacabile intransigenza”; tutti hanno, nel corso della propria esperienza, “la forza di sentirsi soli” (come raccomandava la madre dei Rosselli ai propri figli)21; la capacità di non sacrificare la propria identità al successo immediato; e la consapevolezza del rischio di propter vitam vivendi, perdere causam (come scriveva Francesco Ruffini)22. Tutti posseggono, in qualche modo, le virtù che convergono a definire la vocazione dell’eretico, quale emerge nella concezione in fondo religiosa della storia e della permanenza dei valori in essa (radicale negazione di ogni relativismo), e insieme dall’atteggiamento per molti aspetti straordinario nei confronti della sconfitta e del successo.
Se scorriamo i testi autobiografici — da l’Elogio della galera di Ernesto Rossi23, ad Acción y caracter di Carlo Rosselli24 — tra i molti temi ricorrenti troviamo appunto que-
18 P. Gobetti, Per una società degli Apoti, “La rivoluzione liberale”, n. 31, 25 ottobre 1922, ora in Opere complete, cit., p. 412.19 P. Gobetti, Antifascismo etico, in Opere complete, cit., p. 605.20 Alessandro Galante Garrone, Padri e figli, Torino, Albert Meynier, 1986.21 “Abbi la forza e il coraggio di sentirti solo”, scriveva al figlio Carlo, esule in Francia pochi mesi dopo l’evasione da Lipari. Citato in A. Galante Garrone, Padri e figli, cit., p. 87.22 L’espressione è del novembre 1925. Cfr. A. Galante Garrone, Padri e figli, cit., p. 45.23 Ernesto Rossi, Elogio della galera. Lettere 1930-1943, Bari, Laterza, 1968.24 Carlos Rosselli, Acción y caracter, Buenos Aires, Editorial Americalee, 1944; riproduce in traduzione Carlo Rosselli, Scritti politici e autobiografici, Napoli, Polis, 1944 (prefazione di Gaetano Salvemini). Le pagine sull’A- ventino sembrano, per molti aspetti, scritte dal Gobetti di Noi e le opposizioni: “L’opposizione — vi si legge, a proposito delle elezioni del 1924 — diventava per la prima volta opposizione, minoranza; come minoranza avrebbe potuto darsi una psicologia virile, d’attacco. Ma aveva troppi ex nelle sue file, era troppo appesantita da
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sta costante, insistita volontà di non identificare la vittoria con la ragione, il successo con il valore-, la permanente tendenza a non temere la sconfitta come il peggiore dei mali, se nella sconfitta si salva la propria continuità ideale; l’esplicita simpatia per quelli che “nuotano contro corrente”, e che potranno certo, per questo, perdere, ma che tuttavia “non avranno mai torto” . Lo troviamo nelle parole di Nello Rosselli: “C’è bisogno oggi di stringersi a un uomo che non conobbe vittorie e che dalla sconfitta uscì sempre più ostinato” — si riferiva a Mazzini —25; e nella sua scelta di dedicare uno dei suoi più coinvolgenti lavori storici a quel Pisacane che della sconfitta feconda era l’emblema, rappresentando, appunto, con Mazzini, “uno di quei vinti che oscuramente preparano l’avvenire” — un modello, questo, che pare ricalcato direttamente sul modello d’italiano sognato da Gobetti: “l’italiano che non se l’intende col vincitore, che combatte alla luce del sole... che non si arrende alle allucinazioni collettive”26; e che pare riecheggiare direttamente l’elogio, tessuto da Ruffini, di quei “pochi pazzi” che sanno riscattare la storia dal conformismo
dei “troppi savi” ; o l’affermazione di Amendola: “Possiamo rallegrarci tra noi di aver tenacemente preferito la causa dei vinti a quella che avrebbe perduto le nostre anime”27.
E poi, insieme a questo, una sorta di illuministico ottimismo, saldo nella sua fiducia nella Ragione, e tuttavia consapevole del carattere tragico dell’esistenza, della necessità del sacrificio e della negazione quando il corso del mondo entra in contrasto irreparabile con valori non negoziabili28. Un atteggiamento, questo, assai simile a quello attribuito da Max Weber, a conclusione di una sua nota conferenza, all’autentico “politico per vocazione”: colui — sono parole di Weber — “che è sicuro di non venir meno anche se il mondo, considerato dal suo punto di vista, è troppo stupido o volgare per ciò che egli vuole offrirgli, e di poter ancora dire di fronte a tutto ciò ‘Non importa, continuiamo!”’29.
Ho insistito a lungo, forse troppo a lungo, su questo terzo tipo di antifascismo, l’antifascismo etico — il quale si salderà, nel pieno della catastrofe bellica, a quell’altro
uomini che avevano gustato le gioie del potere e della popolarità, che si erano fatti in tutt’altra atmosfera [...] Erano depressi, stanchi, preoccupati; non avevano la psicologia dell’attacco ma della ritirata”, ivi, p. 64. E poco oltre: “Non mezzi termini. Verità assolute e ideali integrali. Rinunzia alla propaganda vecchio stile, o rovesciamento dei suoi termini. Anziché partire dal fatto assiomatico ‘Lotta contro il fascismo’, rivoluzione, per porre le basi di un nuovo stato, partire dalla conquista morale e intellettuale del mondo nuovo, dalla netta affermazione di valori non contaminati per portare la nuova generazione alla lotta a morte contro lo stato consacrato delle cose”, ivi, p. 73. Infine, parlando dei militanti di Gl: “Sono antifascisti perché il pensiero non può essere fascista, perché l’intelligenza non può sacrificare all’irrazionale. Sono antifascisti perché la dignità non può tollerare la visione del tiranno e della folla incatenata o ubriaca che sfila tristemente in parata od osanna”, ivi, p. 110.25 La citazione è tratta da A. Galante Garrone, Padri e figli, cit., p. 96.26 A. Galante Garrone, Padri e figli, cit., p. 19.27 A. Galante Garrone, Padri e figli, cit., p. 82.28 “Conosco ormai troppo bene gli italiani e la loro storia — scriveva il 7 settembre 1931 dal reclusorio di Pallanza Ernesto Rossi — per farmi illusioni [...] E non si cambiano in due o tre generazioni le caratteristiche d’un popolo abituato per secoli a liberarsi col confessionale d’ogni preoccupazione sulla valutazione dei problemi morali, ed a rinunciare nelle mani dei dominatori stranieri ad ogni dignità di vita sociale. Ma questo poco importa. C’è chi ha la funzione di firmare decreti, e chi ha la funzione di crepare in trincea o di marcire in galera. È una divisione del lavoro anche questa. E si può preferire la seconda alla prima funzione, quando si crede di affermare così due valori che costituiscono la ragione stessa della nostra vita”, E. Rossi, Elogio della galera, cit., p. 62.29 Max Weber, Il lavoro intellettuale come professione, Torino, Einaudi, 1977, p. 121.
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tipo di antifascismo che è Vantifascismo esistenziale, a cui Guido Quazza ha dedicato pagine decisive30, l’antifascismo istintivo che permise a migliaia di giovani, nel momento in cui l’Italia ufficiale si dissolveva e tradiva, di scegliere, di partecipare, di combattere —; ho insistito, dicevo, su questo tipo di antifascismo, perché è quello che sento più vicino. E anche, per rispettare il tema che ci si è proposti, più attuale. Forse l’unico, veramente e senza retorica, attuale. Certo, in un universo di valori politici come quello presente, che sembra aver fatto del successo l’unico metro di misura del valore e, nell’abrogazione del problema dei fini, aver ridotto tutto a mezzi, quella cultura politica può apparire incomprensibile, paralizzante, persino autodistruttiva. Ma non vi è, in realtà, nulla di tutto questo, in essa. Nessuna abdicazione, né vocazione al- l’autodissoluzione. Vi è, piuttosto, una forte, sostantiva fiducia nel corso storico. Una capacità di progetto nel tempo, di proiezione oltre il confine stretto dell’esistente, e la disponibilità a lavorare sul lungo periodo, con serenità e profondità (“il coraggio di non contare ad anni, ma a generazioni”, come scriveva Carlo Rosselli). Quello stesso che credo abbia animato in questi decenni le componenti più consapevoli dei movimenti esplosi in questi giorni all’Est, e che sembra, invece, da noi estinto, di fronte all’esaltazione dell’istantaneo e dell’imme- diato.
Direi che proprio questo costituisce il contenuto realmente rivoluzionario di quella generazione e di quel modello di antifascismo.
Insieme a un altro aspetto cruciale: a una teoria della classe politica, della sua formazione e selezione, radicalmente democratica e insieme, in qualche modo, sacralizzata, fondata sull’idea che essa non può che essere il frutto di un processo faticoso, impegnativo, conflittuale, costoso in termini personali, in cui funzione pedagogica, legittimazione sostanziale, responsabilità personale s’intrecciano inscindibilmente. E che senza una verifica effettiva dei propri compiti storici da parte delle élites di governo, senza ‘fede’, vorrei dire, nei propri progetti, e capacità di tenere il proprio posto, senza la consapevolezza della non negoziabilità di alcuni fondamenti ultimi della propria identità, e disponibilità a battersi per essi, una classe politica, qualunque classe politica, decade a mero ceto di potere, a sovrastruttura parassitaria.
Non si tratta, si badi bene, di una concezione della politica incentrata sul carisma. Questa, teorizzata dall’antifascismo etico, non è una classe politica di guerrieri, Ma neppure di mercanti (né leoni, né volpi, direbbe Machiavelli). Di sacerdoti, forse: sacerdoti laici. Una concezione, me ne rendo conto, decisamente ‘inattuale’. Ma che ha segnato tuttavia uno dei pochi ‘momenti alti’ della nostra storia politica; ha offerto, per qualche decennio, all’Italia repubblicana una sia pur limitata sezione di personale politico decoroso e presentabile; e forse, proprio perché ‘inattuale’, può contribuire a salvare la nostra democrazia dall’asfissia in cui sta silenziosamente languendo.
Marco Revelli
30 Cfr. Guido Quazza, Resistenza e storia d ’Italia. Problemi e ipotesi di ricerca, Milano, Feltrinelli, 1976. Si veda in particolare il sesto capitolo: L'autogoverno partigiano, in cui è affermata “la specificità della Resistenza come iniziativa dal basso, come nascita e affermazione di un’ ‘autonomia’ delle masse dopo decenni di passività e di dominio dall’alto” (p. 233); e in cui è restituito pienamente il carattere liberatorio e insieme “drammatico” della scelta, nell’ambito di quel “microcosmo di democrazia diretta” che fu la banda partigiana; “La ‘partecipazione’ — scrive ancora Quazza — si configurava come condizione in se stessa drammatica dell’uomo che in prima persona, senza il riparo e lo ‘scarico’ dell’ ‘autorità superiore’, deve decidere di fronte al dubbio, inevitabilmente tormentoso, sulla opportunità o meno di agire” (p. 236).
Guido Dorso interprete della crisi liberaledi Francesco M. Biscione
Gli intellettuali ‘irregolari’, che percorrono sentieri inusitati e originali, pongono spesso con la loro stessa presenza problemi di interpretazione, di sintesi, di collegamenti: non a caso, quindi, alla figura di Guido Dorso la critica e la ricerca storica sono ritornate con una certa periodicità dal dopoguerra in poi, ponendosi intorno all’intellettuale avellinese nuove e più complesse questioni, alle quali gli scritti dorsiani non hanno mancato di dare risposte. Sia la sua personalità e la sua formazione, sia il punto di vista che egli assunse per osservare una società in tumultuosa trasformazione, sia, infine, l’intreccio fra i due primi elementi — che determinarono l’eccezionaiità delle sue analisi e delle sue scelte militanti —, lo rendono infatti un punto di riferimento per l’approdo ad alcuni nodi decisivi delle vicende del nostro Novecento.
L’essere punto di riferimento di un dibattito ampio e complesso era già capitato in vita a Dorso allorché, nel settembre 1925, le edizioni di Piero Gobetti pubblicarono La rivoluzione meridionale. Saggio storico-politico sulla lotta politica in Italia e molti dirigenti antifascisti (Sturzo, Carlo Rosselli,
Gramsci, ecc.) utilizzarono quel libro per riflettere sulla crisi, alla ricerca di strategie che riuscissero a invertire la trionfante ondata reazionaria. Post mortem furono gli amici Carlo Muscetta e Tommaso Fiore1 a compiere una prima ricostruzione critica del personaggio, mentre l’opera di Dorso veniva riletta soprattutto da quegli intellettuali — da Salvatore Francesco Romano a Massimo L. Salvadori a Piero Bevilacqua, per lo più storici — intenti a ricostruire le vicende della secolare discussione sulla questione meridionale, oppure dai militanti del meridionalismo postbellico (Mario Alicata, Emilio Sereni, Francesco Compagna, ecc.). Fu Norberto Bobbio, fin dagli anni sessanta2, a riprendere in esame l’autore di Avellino accentrando l’attenzione sui saggi politologici e sulla ripresa in chiave democratica delle tematiche moschiane sulle élites, allargando di molto la prospettiva critica nella quale Dorso poteva venire collocato, mentre una rinnovata attenzione ai problemi della crisi politica (attenzione talora ispirata alle posizioni della sinistra extraparlamentare) e originali ricerche documentarie3 davano finalmente, al volgere degli anni settanta, la pos-
1 Tommaso Fiore, Guido Dorso. Manduria, Lacaita, 1947; Carlo Muscetta, Guido Dorso, “Belfagor”, a. Il, 1947, pp. 575-587.2 Cfr. Norberto Bobbio, Saggi sulla scienza politica in Italia, Bari, Laterza, 1972, pp. 219-239. Vedi pure Eugenio Ripepe, Gli elitisti italiani, II, Pisa, Pacini, 1974, pp. 735-841.3 Vedi, ad esempio, Italo Freda, L ’interventismo meridionalistico di Guido Dorso (in appendice cinque lettere di Mussolini a Dorso), “Rivista storica del socialismo” , a. V ili, 1965, n. 24, pp. 121-142; Mario Caronna, Guido Dorso e il partito meridionale rivoluzionario, Milano, Cisalpino-Goliardica, 1972.
“Italia contemporanea”, giugno 1990, n. 179
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sibilità di una ricostruzione complessiva della personalità di Dorso. A questa ricostruzione portava un contributo essenziale il Centro di ricerca Guido Dorso sorto ad Avellino, che per prima cosa riordinava le fonti e ne pubblicava una bibliografia e una rassegna abbastanza meticolosa, quindi dava vita ad una collana di “Annali” contenenti prevalentemente studi sulla storia del- l’Irpinia moderna. In questo rifiorire di ricerche dorsiane è da segnalare la prima biografia sistematica, mentre l’ultimo degli “Annali” del centro Guido Dorso — che riporta gli atti di un convegno del 1987 — costituisce una raccolta largamente riassuntiva e per qualche verso innovativa dei precedenti studi4.
Grazie soprattutto agli studi degli ultimi anni, i percorsi politici di Dorso ci sono ormai abbastanza noti, anche nel senso che ulteriori utili ricerche difficilmente modificherebbero nella sostanza il quadro storicobiografico d’insieme finora disegnato. Meno definiti sono invece alcuni suoi percorsi teorici. Nel corso della sua vita, Dorso più volte ha tentato di inventare degli strumenti interpretativi atti a dar ragione dei tumultuosi sommovimenti che andavano trasformando la società italiana; segnatamente — ed è questo l’aspetto che vogliamo qui rapidamente tratteggiare — egli è stato, con La rivoluzione meridionale e gli scritti coevi, un formidabile e geniale interprete della crisi del liberalismo, e la sua interpretazione, che non ha avuto finora né prosecuzione storiografica né una degna discussione, ci sembra meriti un’attenzione specifica.
Brevemente: mentre nell’analisi di lungo periodo Dorso fa risalire al compromesso
risorgimentale fra le classi dirigenti del Nord e del Sud (la “conquista regia”) le cause più remote della crisi liberale, le più recenti vengono individuate nel dibattito e nella mobilitazione per l’intervento. Il punto di partenza di Dorso è che la contrapposizione fra interventisti e anti-interventisti (pur nella tetrapartizione tra interventismo rivoluzionario, interventismo regio, neutralismo giolittiano e neutralismo socialista) passa essenzialmente attraverso l’accettazione o il rifiuto del regime liberale quale Gio- litti l’aveva realizzato; vale a dire, la politica dell’intervento è funzionale — non solo oggettivamente ma anche nei voti di molti leader — a liquidare il giolittismo, gabbia istituzionale incapace di dare spazio alle pulsioni di una società divenuta più complessa e bisognosa di trovare nuove forme di espressione. Lo stesso Dorso nel riassumere la posizione più originale che si delinea in questo periodo (e destinata a sviluppi allora imprevedibili), quella dell’interventismo rivoluzionario, sottolinea come esso “intuiva, per quanto grossolanamente e senza chiarezza teorica, che la guerra avrebbe richiesto uno sforzo collettivo così imponente da obbligare la dittatura giolittiana a logorarsi rapidamente; avrebbe determinato, cioè, una necessità di apporto di nuove forze, che, non potendo trovare sistemazione nei vecchi schemi politici, avrebbero potuto permettere non soltanto il sovvertimento della dittatura parlamentare giolittiana, ma altresì il sovvertimento dello stesso regime”5.
La crisi — sempre nella ricostruzione dorsiana — si sviluppò poi, nel dopoguerra, attraverso due momenti: la “rivoluzione in
4 Per conoscere Guido Dorso. I suoi libri e il suo carteggio, a cura di Francesco Saverio Festa - Fiorella Bruno - Bruno Ucci, Napoli, Centro di ricerca G. Dorso, 1984 (una bibliografia su Dorso alle pp. 154-164); Santi Fedele, Guido Dorso. Biografia politica, Roma-Reggio Calabria, Gangemi, 1986; Guido Dorso e i problemi della società meridionale, Avellino, Centro di ricerca G. Dorso, 1989 (annale 1987-1988).5 Guido Dorso, La Rivoluzione meridionale, Torino, Einaudi, 1972 (edizione dalla quale citiamo), p. 56.
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atto” , ovvero il bolscevismo, e la “rivoluzione in marcia” , ovvero il fascismo, dove il termine bolscevismo, più che indicare determinate strategie e tattiche rivoluzionarie, riassume l’atteggiamento spirituale dell’insieme delle pulsioni partecipative dei movimenti di massa nel dopoguerra (è interpretazione, cioè, del “sentimento indistinto della necessità di uno sforzo rivoluzionario per sistemare in un nuovo Stato tutte le forze che la guerra aveva fatto improvvisamente affiorare”)6. Era del resto molto meno pregnante, allora, la distinzione tra chi aveva caldeggiato e chi avversato l’intervento, e anzi, sulla spinta dell’ “ondata bolscevica”, massimalismo, movimento dei fasci e combattentismo furono di fatto concorrenti.
Restò a Giolitti, dopo le elezioni del 1919, l’appoggio irrinunciabile dei popolari, pagato peraltro al prezzo elevatissimo del parziale smantellamento dello stesso regime giolit- tiano, dato che il popolarismo si nutriva almeno in parte dello stesso spirito del tempo che animava le forze antigiolittiane più radicali, mentre l’isolamento dei riformisti (confinati nella Confederazione generale del lavoro e in minoranza nel Partito socialista) rendeva più drammatica e irrimediabile la solitudine dello statista di Dronero, ormai un “cavaliere inesistente” .
Falliti dunque tutti i tentativi di alleanza costituzionale con le sinistre, “ormai il gio- littismo era sconfitto e il dilemma che si imponeva era: o l’avventura fascista o la democrazia parlamentare. Messi finalmente alle strette, non potendo più far leva sugli uomini di paglia del liberalismo trasformista, i ceti dirigenti non esitarono a scegliere il primo corno del dilemma, sperando di trovare in Benito Mussolini il nuovo dominatore della vita pubblica italiana”7.
Ma che cos’era dunque il fascismo? Quali spiriti lo animavano? In un articolo del 1924 Dorso ne aveva parlato come “aspetto reattivo della rivoluzione in atto”8, a sottolinearne il profondo radicamento, quasi la complementarietà, con tutta quella fase di rivolgimenti politici. La sua lettura storica non si distanzia comunque da quella corrente (abbandono delle “imbottiture bolsceviche” del 1919 che dovevano rendere il fascismo concorrente con il movimento rivoluzionario, sovversivismo reazionario della piccola borghesia spaventata dall’ondata bolscevica e sfiduciata nell’azione dello stato, protagonismo combattentistico e postcombattentistico, appoggio della borghesia agraria e industriale alla violenta reazione antisocialista e antioperaia, cedimento politico — prima che militare — delle organizzazioni proletarie), tranne che nel descrivere la crisi e i suoi esiti come trascendenti le volontà e aspirazioni dei singoli movimenti9.
Quantunque riassuntive (e in ogni riassunto qualcosa va inevitabilmente perduto), queste note sono in grado di dirci già molto sul contributo dorsiano alla critica storica del periodo considerato. Naturalmente, la verifica analitica della plausibilità e dell’efficacia di uno schema interpretativo avrebbe bisogno di una ricostruzione storica ampia e approfondita; non potendo ora compierla, qui ci limiteremo a poche considerazioni rimandando a un più ampio lavoro sulla crisi liberale un giudizio maggiormente probatorio. Ci soffermeremo pertanto su tre punti:a) i problemi generali di periodizzazione che pone l’interpretazione dorsiana; b) l’humus politico-culturale nel quale essa si forma; c) il rapporto che Dorso stabilisce, pur implicitamente, fra coscienza di massa e processi di trasformazione.
6 G. Dorso, La rivoluzione meridionale, cit., p. 72.7 G. Dorso, La rivoluzione meridionale, cit., p. 85.8 La “Pacificazione”, “La rivoluzione liberale”, a. Ili, n. 20, 13 maggio 1924.9 G. Dorso, La rivoluzione meridionale, cit., pp. 80-90.
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a) Per Dorso la fine del giolittismo coincide con l’esplosione democratica, a lungo compressa dalla “dittatura parlamentare” giolittiana, delle pulsioni partecipative e delle rivendicazioni di potere di larghissimi strati sociali sino ad allora esclusi da qualunque esercizio di sovranità, ed è questo ciò che trasforma in profondità la società italiana, la vera rivoluzione, non già l’avvento del fascismo, che della crisi appare soluzione transitoria e inessenziale.
In seguito — da Cróce in poi10, via via per gran parte della storiografia antifascista — la chiave di lettura prevalente avrebbe accomunato i due momenti e la crisi del liberalismo giolittiano sarebbe stata largamente interpretata come crisi degli istituti parlamentari e della democrazia tout court. Il fatto che il dibattito storiografico abbia posto gli accenti — anche per comprensibili motivi politici — più sul fascismo che sulla crisi del liberalismo al fine di ricercare il fondamento della nostra democrazia (con la conseguenza, però, di relegare di fatto in un ambito accademico e specialistico gli studi sul liberalismo e la sua crisi), è stato uno dei motivi principali per i quali non è stata compiuta una lettura in chiave ‘non meridionalistica’ del saggio dorsiano. Eppure questa lettura non sarebbe parsa illegittima, dato che la rivoluzione meridionale del titolo è soprattutto un’opzione politica e il libro costituisce di fatto — come indicava il sottotitolo, soppresso nelle edizioni successive alla prima — un saggio sulla lotta politica e sociale a cavallo della guerra, che ‘leggeva’ nella questione meridionale la contraddizione più dirompente e insanabile del vecchio (liberale) come del nuovo (fascista) sistema di potere.
Ora, la lettura dorsiana della crisi politica a cavallo della guerra pone la cesura che
apre la nostra ‘età contemporanea’ non nell’antifascismo e nella Resistenza, bensì nel momento in cui milioni di uomini posero nei fatti — pur in assenza di una compiuta consapevolezza della portata dello scontro in atto — il problema della partecipazione al potere, della democrazia. Accogliere il punto di Vista dorsiano nella prospettiva di una complessiva ricostruzione storica implicherebbe, dunque, da una parte la riconsiderazione dei limiti del sistema politico liberale, che non riuscì a trasformarsi in democrazia; da un’altra, porterebbe forse ad articolare meglio di quanto non sia avvenuto finora il giudizio sul fascismo e le sue fasi. Ma soprattutto permetterebbe di riappropriarsi di un ambito ben più ampio rispetto a quello intorno al quale verte il dibattito politicostoriografico, riconoscendo con maggior sottigliezza le ‘destre’ e le ‘sinistre’ che si sono fronteggiate — e che ancora si fronteggiano — in questo secolo, 6 dandoci forse modo di inventare il filo d’Arianna per uscire dal “labirinto italiano” — sul quale Nicola Tranfaglia ha di recente richiamato l’attenzione11 —, che è, kantianamente, soprattutto un labirinto degli storici e delle idee.
b) Sul terreno della storia delle idee, l’interpretazione dorsiana della crisi liberale affonda le radici in quella grande disgregazione politico-culturale che ne anticipò gli aspetti politici. L’inquieto adolescente che teneva conferenze su Eucken, Bruno e Mazzini presso il circolo anticlericale di Avellino divenne ben presto il giovane che sul “Popolo d’Italia” di Mussolini (gennaio-maggio 1915) perorò vivacemente la causa dell’intervento, motivandone la necessità sia con l’esigenza democratica di battere le potenze autocratiche della Triplice alleanza, sia con
10 Benedetto Croce, Storia d ’Italia dal 1870 a! 1915, Bari, Laterza, 1928.11 Nicola Tranfaglia, Labirinto italiano. Il fascismo, l ’antifascismo, gli storici, Firenze, La Nuova Italia, 1989; vedi soprattutto l’Introduzione.
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l’opportunità di acquisire i mercati dei Balcani, ma soprattutto con la prospettiva di liberale dal giolittismo la società italiana. Traspaiono dai giovanili articoli di Dorso le idee di Mussolini, ma anche quelle di Gaetano Salvemini e di Arturo Labriola. La cultura di Dorso affonda cioè le radici in quel grande iato formatosi fra le crisi concomitanti del liberalismo e del socialismo riformista.
Il mondo culturale aveva avvertito ed espresso con anticipo sui tempi della crisi l’emergere della società di massa e le pulsioni partecipative degli strati popolari, impedendo così la nascita di una cultura liberale di massa in Italia. Ma non solo il mondo culturale; sul terreno politico le anticipazioni della crisi erano state espresse, più che dalle polemiche socialiste fra rivoluzionari e riformisti, da quel vasto fermento del mondo proletario che va sotto il nome di sindacalismo rivoluzionario, formidabile fucina di gran parte delle mentalità e delle personalità che emersero come protagoniste nel dopoguerra. Ora, il sindacalismo rivoluzionario non fu solo radicalismo operaio-bracciantile e meridionalismo; esso fu anche la più incisiva e diffusa corrente critico-teorica (e prefigurante dei futuri sviluppi) avversa al sistema di potere dell’oligocrazia borgheseliberale (va altresì aggiunto che il sindacalismo rivoluzionario è il punto dove ha meno insistito la storiografia del movimento operaio, e che esso costituisce un campo d’indagine ancora largamente aperto il cui approfondimento è conditio sine qua non per una ricostruzione storica del Novecento italiano).
Il precipitato di queste tensioni fu il dibattito sull’intervento. All’interno di un’area che potremmo genericamente definire ‘di movimento’ (sarebbe fuori luogo utilizzare
qui le tradizionali categorie di destra e sinistra) si vennero a costituire delle alleanze che solo qualche anno più tardi sarebbero apparse impensabili. Proprio perché uno dei temi centrali del dibattito sull’intervento era il giudizio sul giolittismo, si trovarono sullo stesso fronte interventista gli intellettuali meridionali (esponenti più o meno diretti del sindacalismo) e mille frange del radicalismo proletario; mentre, per converso, in questa stessa ottica, appare del tutto comprensibile la convergenza del neutralismo giolittiano con quello riformista.
Nei nove anni passati dall’intervento al 1924, anno in cui Dorso scrisse La rivoluzione meridionale, la crisi del liberalismo si era consumata, ma non ne era scaturito un generale moto di liberazione; la crisi aveva bensì prodotto nuove forme di oppressione e inasprito le condizioni di lotta. In questo decennio di studio e di meditazione Dorso elabora i complessi passaggi delle vicende italiane e, profondamente maturato anche attraverso crisi personali laceranti, perviene, con la direzione del periodico “Corriere del- l’Irpinia” , la collaborazione a “La rivoluzione liberale” e, soprattutto, con La rivoluzione meridionale, alla proposta di gettare sul terreno della battaglia politica un Meridione federalista, democratico, antifascista.
Un iter per più versi parallelo aveva percorso Antonio Gramsci. Non è casuale che il più brillante saggio del marxismo italiano, lo scritto gramsciano del 1926 sulla questione meridionale12, nasca come recensione critica e militante al libro di Dorso. Tanto il sardo quanto l’avellinese erano stati fortemente influenzati dal sindacalismo, e la lettura che Gramsci compie di alcuni aspetti della crisi del liberalismo (il giolittismo, il sindacalismo rivoluzionario, il riformismo socialista e il suo atteggiamento nei riguardi
12 Antonio Gramsci, Alcuni temi delta quisiione meridionale, in Id., La costruzione del partito comunista 1923- 1926, Torino, Einaudi, 1971, pp. 137-158.
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della questione meridionale, ecc.) è del tutto omogenea e complementare a quella di Dorso. Né è casuale che il terreno d’incontro fra i due fosse fornito da quello straordinario operatore culturale che fu Piero Gobetti, il quale — convinto anch’egli che la crisi del giolittismo avesse liberato immense energie — dedicò tutti gli sforzi affinché la cultura della nuova Italia, humus di una democrazia moderna, si vivificasse di mille pulsioni civili, democratiche e popolari.
Insomma, la solitudine nella quale Dorso elabora la sua personalissima traiettoria nulla toglie al fatto che il suo approdo sia comune ad altri intellettuali, alfieri di una liberazione di là da venire, nei quali sono rilevabili un giudizio analogo e sostanzialmente positivo sulla crisi del liberalismo e il comune impegno militante verso l’allargamento degli spazi civili che si erano aperti. (Va altresì segnalato come sia comune ai tre la ricerca sul Risorgimento quale origine del mancato sviluppo democratico dell’Italia.)
c) Dunque, per Dorso, il problema posto all’ordine del giorno dalla crisi era la democrazia partecipativa (o, se si vuole, la rivoluzione democratica) e non la rivoluzione proletaria. Il “fare come in Russia” gli appare, in mancanza di un’egemonia proletaria sugli strati sociali popolari, un appello fantasma- tico; di qui il giudizio sugli aspetti avventuristi del ‘bolscevismo’ massimalista: “mentre si sentiva il bisogno di una rivoluzione politica, che adeguasse le istituzioni e la rappresentazione alla realtà economica del paese, gli estremisti bolscevichi parlavano di rivoluzione sociale”13.
Più in generale, il tipo di sintesi che egli compie del quadro delle forze in campo la
scia trasparire la constatazione della diffusa incomprensione da parte degli attori politici di quale fosse la posta in gioco. Gli esponenti della classe dirigente sulla quale posavano i vecchi equilibri (giolittiani e riformisti) non colgono — in gran parte per l’obsolescenza delle griglie interpretative — tutto il nuovo della situazione del dopoguerra; non vedono nell’ “ondata bolscevica” se non un’ubriacatura, senza avvertire compiutamente che dopo questa l’oligocrazia liberale sarebbe risultata impossibile. Non vi è razionalità politica (nel senso di progettualità chiara e realistica) neanche da parte delle forze nuove che i movimenti di massa alimentavano (massimalisti, popolari, combattenti, fascisti). La separazione sino ad allora vigente fra masse e stato aveva impedito alle nuove forze politiche — e fu questo forse l’elemento più dirompente della crisi — un lucido approccio al problema del potere, dando l’illusione che la liquidazione di Giolitti risolvesse ipso facto il problema della partecipazione e facendo sì che ciascun movimento immaginasse uno stato ‘proprio’, senza sapere né come costruirlo né quali rapporti stabilire con le altre forze politiche e sociali.
Questo aspetto della crisi fu oggetto di discussione, limitatamente al movimento fascista e alla sua ‘coerenza’, allorché uscì il primo volume della biografia di Mussolini scritto da Renzo De Felice14, e se conclusione può trarsi, questa non può che essere la conferma dell’ ‘irrazionalità’ (nel senso sopra specificato) delle convulsioni del 1919- 1922. Il tentativo di Dorso di interpretare la crisi alla luce di una lettura in grado di superare il modo con il quale i protagonisti danno giustificazione del proprio agire, ci pare per qualche verso assimilabile a quello del
13 G. Dorso, La rivoluzione meridionale, cit., p. 68.14 Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario 1883-1920, Torino, Einaudi, 1965; Roberto Vivarelli, Il fallimento del liberalismo. Studi sulle origini del fascismo, Bologna, Il Mulino, 1981, pp. 77-109; N. Tranfaglia, Dallo stato liberale al regime fascista. Problemi e ricerche, Milano, Feltrinelli, 1973, pp. 74-89.
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l’americano Charles S. Meier15 che ha descritto la tendenza al “corporativismo” come tratto caratteristico di questo periodo in almeno tre paesi europei, collegando questa tendenza alla crisi delle istituzioni parlamentari e all’ascesa dei fascismi. Ora, se la tendenza alla corporativizzazione della società (che in Italia era stata genialmente descritta da Santi Romano fin dal 190916, ciò che mi pare stia a indicare la superiorità della cultura giuridica del tempo, nella quale lo stesso Dorso si era formato, sulla cultura politica) aiuta a comprendere l’incomunicabilità tra le nuove forze politiche e sociali, essa contribuisce pure a spiegare perché fu il fascismo e non la democrazia parlamentare ad emergere dalla crisi liberale. Una democrazia parlamentare avrebbe potuto nascere se, più forte delle spinte corporative, si fossero verificati il riconoscimento dello stato da parte delle masse emergenti e, viceversa, il riconoscimento dei nuovi soggetti politici e sociali da parte della classe dirigente, che da liberale avrebbe dovuto farsi democratica; sarebbe cioè occorso quel salto nella coscienza collettiva che solo con il movimento di Resistenza si sarebbe compiuto.
Insomma, se anche non si troverà in Dorso l’espressione ‘società di massa’, è in effet
ti questa la chiave che egli utilizza per interpretare la crisi liberale. E, di conseguenza, il fascismo al potere gli appare come il precario compromesso fra un elemento rivoluzionario (la lotta di classe della piccola borghesia contro il proletariato e il capitalismo) e l’intramontabile destra della vecchia classe dirigente (i ‘fiancheggiatori’). (Anzi, su questo terreno Dorso — che scriveva il libro prima della tragica soluzione della crisi aventi- niana — si spinge ad alcune previsioni che, seppur parzialmente erronee, mostrano la solidità dell’impianto analitico17.) La sua interpretazione anche su questo terreno appare in ogni caso non banale e per più aspetti convergente con la lettura togliattiana del fascismo come regime reazionario di massa18.
In conclusione, l’interpretazione dorsiana della crisi liberale contiene spunti rilevanti per una ricostruzione di una storia sociale del potere in Italia e le linee generali di un sentiero di ricerca che, pur se ancora largamente da esperire, mostra di poter condurre a nuove conoscenze in grado di aiutarci a comprendere la posizione e i compiti storici della nostra generazione.
Francesco M. Biscione
15 Charles S. Meier, La rifondazione dell’Europa borghese. Francia Germania e Italia nel decennio successivo alta prima guerra mondiale, Bari, De Donato, 1979 (ed. orig. : Princeton, Princeton University Press, 1975).16 Santi Romano, Lo stato moderno e la sua crisi, Milano, Giuffrè, 1969, pp. 8-26.17 G. Dorso, La rivoluzione meridionale, cit., pp. 105-108; alcune considerazioni in R. De Felice, Mussolini il fa scista, II, L ’organizzazione dello Stato fascista 1925-1929, Torino, Einaudi, 1968, pp. 5-10.18 Paimiro Togliatti, Lezioni sul fascismo, Roma, Editori Riuniti, 1970. L’episodio tramandato da Muscetta per cui nel 1946 Togliatti offrì a Dorso una candidatura come indipendente nel Pei, che Dorso non accettò, mi pare vada interpretata, più che come un’obiettiva convergenza di posizioni (che al tempo non c’era), come il riconoscimento da parte di Togliatti di una comune ispirazione di fondo, sperimentata per oltre un ventennio.
QUADERNI DI STORIASommario del n. 31, 1990
Saggi
Eugenio Garin, Polibio e Machiavelli; Enrico Berti, Il concetto aristotelico di "ragione pratica"', Fabio Roscalla, La dispensa di Iscomaco. Senofonte, Platone e l ’amministrazione della casa', Giorgio Mangani, Procedure congetturali nella geografia greca antica-, Pasquale Martino, La morte di Sertorio. Orosio e la tradizione liviana.
Miscellanea
Pier Giovanni Fabbri, Il “Caos” di Giuliano Fantaguzzi', Alexander KoSenina, Die Germa- nisierung des Hellenentums. Ein ungedrucktes Gratulationsgedicht von Ulrich von Wila- mowitz-Moellendorf zu Wilhelm Ftaabes 70. Geburtstag; Marcello Gigante, Achille Vogliano compagno del sabato', Giorgio Fabre, Le polizie del fascismo', Manfred Los- sau, Serlos Worte.
Recensioni a:
M. Conche (a cura di), Heraklit, noch einmal. Una nuova collazione, traduzione e interpretazione dei frammenti' E. Nolte, Nazionalismo e bolscevismo. La guerra civile europea 1917-1945', F. Montanari (a cura di), Da Omero agli alessandrini. Problemi e figure della letteratura greca', R.S. Bagnai e W.V. Harris (a cura di), Studies in Roman Law in memory of A. Arthur Schiller.
Rassegna bibliografica
Direttore: Luciano Canfora Edizioni Dedalo - Bari
Le ferrovie nella storiografia italianadi Andrea Giuntini
È noto che la moda delle celebrazioni non lascia indenni neppure gli storici. Così anche i centocinquant’anni dalla prima ferrovia, la mitica Napoli-Portici inaugurata appunto nel 1839, non possono non indurre ad una riflessione e ad un bilancio di carattere storiografico sulle ferrovie in Italia.
Certo non si può neppure fare a meno di notare come la ricorrenza cada in un momento particolarmente grigio per le ferrovie italiane. I disservizi, gli scioperi e le inefficienze, oltre agli scandali che ne hanno decapitato la dirigenza — e uno degli inquisiti, Coletti, appare anche fra gli autori qui citati — hanno riportato brutalmente le ferrovie sulle prime pagine dei giornali. La questione ferroviaria insomma è quanto mai attuale: si potrebbe dire che la sua incidenza sulla vita politica ed economica nazionale è tornata ad essere quella di cent’anni fa, quando infuriavano le polemiche fra sostenitori della gestione privata e di quella pubblica.
Si tratta di un grave scacco per chi ha governato il paese nell’ultimo quarantacin- quennio. L’aver portato sull’orlo del fallimento un settore che nella storia italiana recente si era sempre meritato un posto del tutto centrale, rappresenta un grave errore per quella classe dirigente che fin dagli anni immediatamente successivi alla liberazione ha abbracciato decisamente ed insensata
mente l’opzione motoristica, le cui conseguenze più drammatiche si toccano con mano quotidianamente in un’Italia paralizzata dai motori. Si è trattato di un atteggiamento miope, al quale si è tentato malamente di porre rimedio, peggiorando in taluni casi una situazione già deteriorata. Poco ha significato così, pur nel suo rilievo tecnico che ci pone in effetti all’avanguardia nel settore, l’aver introdotto spunti di grande modernizzazione, come l’alta velocità, in un quadro di assoluto degrado.
Uno strumento bibliografico in tema di ferrovie, per quanto limitato, aiuta quindi a riflettere su una situazione del genere, ripercorrendo le tappe del dissesto. I ritardi e le mancanze degli attuali governanti appaiono così in una luce ancora più ampia, calati in una prospettiva storica che li evidenzia impietosamente.
Lo scopo di queste pagine è costituito dall’intenzione di offrire, elencando e raggruppando più che scavando e discutendo i testi, un agile e probabilmente utile strumento di lavoro a quanti s’interessano a queste tematiche, pur sapendo di presentare un panorama che non ha pretesa di completezza.
Tentativi di questo genere la letteratura storica ne conta finora due, estremamente diversi fra loro. Il primo risale a più di ven- t ’anni fa e ne è autore Livio Jannattoni1; si
1 Livio Jannattoni, Saggio di ricerca bibliografica e di varia documentazione da servire per la storia delle ferrovie italiane, “Ingegneria ferroviaria”, 1965, n. 7-8, pp. 705-720.
“Italia contemporanea”, giugno 1990, n. 179
326 Andrea Giuntini
tratta di un saggio concepito con lo scopo esplicito di avviare la compilazione di una bibliografia ferroviaria, utilizzando criteri rigorosi di catalogazione bibliografica. Di tutt’altro genere è il secondo, curato dallo scrivente2, che raccoglie, dividendoli per settori, gli scritti di argomento ferroviario — ne sono stati rintracciati quasi quattromila — pubblicati in questi centocinquanta anni.
Ogni volta che ci si accinge a stilare bilanci, di queste dimensioni poi, occorre delimitare con precisione il campo sul quale si agisce. Per quanto riguarda l’aspetto temporale, prenderemo in considerazione le opere relative alla storia delle ferrovie italiane pubblicate dal secondo dopoguerra. Per quello che invece attiene alla struttura e al contesto, prenderemo in esame qui solo ricerche specifiche sulla storia delle ferrovie, salvo rari casi di scritti sui trasporti, per i quali non ci siamo sentiti di decretare l’esclusione; sono stati esclusi invece tutti i lavori di storia generale che, pur attribuendo alle ferrovie un posto di rilievo, non sono specificamente dedicati all’argomento.
La delimitazione contestuale è fissata altresì alle riviste specializzate di storia, tralasciando quindi la copiosa memorialistica ferroviaria che affolla le pagine di molte altre pubblicazioni periodiche di vario tipo, citiamo per tutte “Ingegneria ferroviaria” , ma ve ne sono diverse altre, che pure un occhio di riguardo nei confronti della storia
l’hanno sempre avuto. Pur con queste limitazioni, adottate per non rendere la ricerca troppo lunga e tortuosa, fra i titoli appaiono egualmente, come si vedrà, diversi articoli apparsi su riviste di questo genere; avendoli ormai individuati, abbiamo comunque reputato più utile comprenderli in questo bilancio anche a costo di venir meno ad uno dei criteri che hanno informato il lavoro.
Due parole vanno spese anche a proposito della struttura di questo brevissimo saggio e quindi della classificazione. Abbiamo in gran parte, ma non del tutto, rinunciato alla tradizionale ripartizione, basata su una pe- riodizzazione accettata in pratica in modo unanime dagli studiosi di cose ferroviarie: le origini, l’epoca delle compagnie private, la statizzazione, le due guerre ed infine l’ultimo quarantennio. Si è optato così per brevi flash sulle questioni alle quali si è via via fatto cenno.
Ci siamo però mantenuti fedeli allo schema per quanto riguarda la prima voce, nella convinzione che effettivamente le questioni relative alle ferrovie preunitarie debbano godere di una certa indipendenza in un quadro storiografico. Tra l’altro è innegabile che l’epoca pionieristica delle strade ferrate, come si chiamavano allora, è stata oggetto anche ultimamente di lavori del tutto apprezzabili, facendo registrare un consistente incremento di scritti3.
2 Andrea Giuntini, Contributo alla formazione di una bibliografia storica sulle ferrovie in Italia, Milano, Società nazionale di mutuo soccorso fra ferrovieri e lavoratori dei trasporti, 1989.3 G. Gambirasio, La prima avventura ferroviaria della provincia di Bergamo, Bergamo, Ed. Orobiche, 1952; L. Jannattoni, L'avvento della strada ferrata a Roma e nel Lazio, “Rassegna del Lazio”, 1954; A. Panizzi, La ferrovia centrale toscana, “Miscellanea storica della Valdelsa”, 1955, pp. 50-81; A. Morselli, La ferrovia a Modena cento anni fa , Modena, Bassi, 1959; L. Jannattoni, Nascita ed evoluzione della rete ferroviaria nel Lazio, “Rassegna del Lazio”, 1962; C. Corsini, Il primo progetto di strada ferrata in Toscana: la Firenze-Empoli-Pisa-Livorno, “Miscellanea storica della Valdelsa”, 1961, n. 1-2, pp. 66-85; A. Vianelli, Le ferrovie a Bologna e nelle Romagne agli albori dell’Unità d ’Italia, in / / 1859-60 a Bologna, Bologna, Calderini, 1961, pp. 449-463; R. Liverani, La ferrovia Porrettana fu un miracolo di tecnica e di ardimento, “La mercanzia”, 1963; F. Brancato, Il primo progetto per la costruzione delle ferrovie in Sicilia, “Nuovi quaderni del Meridione”, 1965, pp. 371-384; P. Negri, Gregorio X V I e le ferrovie in alcuni documenti degli archivi di stato di Roma e di Bologna, “Rassegna degli archivi di stato”, 1968, n. 1, pp. 103-127; G. Salvagnini, Giovanni Ciardi e la transappenninica, “Prato storia e arte” , 1968, n. 21, pp. 85- 88; P.L. Landi, Intorno a un progetto di strada ferrata da Livorno a Genova (1856-1857), “Nuova rivista storica”,
Le ferrovie nella storiografia italiana 327
Va detto subito che, quantitativamente, nel complesso il bilancio appare insoddisfacente. Se non sembrano pochi per l’arco di tempo considerato i titoli riportati in queste pagine, bisogna considerare che vi sono aspetti completamente assenti, argomenti mai trattati, nei confronti dei quali gli storici hanno dimostrato sempre totale indifferenza.
Fra questo dobbiamo notare il rilievo modesto dato alla storia delle società ferroviarie, che oggi invece, visti anche i consistenti passi in avanti compiuti dalla storia d’impresa negli ultimi anni, si presterebbe adeguatamente per studi di taglio nuovo, sono altrettanto latitanti lavori relativi alle que
stioni organizzative ed amministrative, terreno ancora praticamente quasi del tutto vergine4.
Addirittura inesistenti le tracce di scritti concernenti le tariffe e l’industria delle costruzioni ferroviarie, mentre oltremodo desolante si presenta il panorama offerto dagli studi sulla storia della tecnologia ferroviaria5 e dei tecnici6. Nell’ambito del gruppo catalogato sotto l’etichetta tecnologia, se escludiamo il recente lavoro della Merger, che propone spunti interessanti che ancora in Italia non hanno trovato emuli, per il resto la consultazione si restringe in pratica al Loria e al volumetto a cura del servizio Trazione di Firenze, assai utile specialmente
a. 1972, fase. III-IV, pp. 376-388; A. Bernardello, Un’impresa ferroviaria nel Lombardo-Veneto: la Società Ferdi- nandea da Milano a Venezia, “Rivista storica italiana”, 1973, n. 1, pp. 186-199; A. Curci, Da Porta Nolana al Gra- natello la prima ferrovia italiana, Roma, Tip. Ferri, 1975; P. Negri, L ’archivio del commissariato generale per le ferrovie pontificie, Roma, Quaderni della rassegna degli archivi di stato, 1976; N. Ostuni, Iniziativa privata e ferrovie nel Regno delle Due Sicilie, Napoli, Giannini, 1980; G. Catoni, Un treno per Siena. La strada ferrata centrale toscana dal 1844 al 1865, Siena, Ind. Grafica Pistoiesi, 1981; C. Lacchè, Pio IX e la ferrovia Roma-Ceprano, in Lunario Romano 1982. Ottocento nel Lazio, Roma, Palombi, 1981; I. Lombardi, La strada ferrata Lucca-Pisa, “Rivista di archeologia storia costume”, 1981, gennaio-marzo, pp. 33-58; M. Panconesi - M. Colliva - S. Franchini, Cara Porrettana..., Bologna, Ponte Nuovo, 1982; G.P. Borghi - R. Zagnoni, Documenti per una storia della ferrovia Centrale Italiana. Il carteggio di Francesco V con il conte Bayard De Volo, “Atti e memorie della deputazione di storia patria per le antiche provincie modenesi”, s. XI, vol. V, 1983, pp. 231-265; A. Giuntini, Alle origini del sistema ferroviario toscano: la Maria Antonia, la prima ferrovia pratese, “Prato storia e arte” , 1985, n. 66, pp. 50-57; Id., Speculazione e strade ferrate nella Toscana granducale: il caso della Ferdinanda Maremmana (1845- 1847), “Bollettino della società storica maremmana”, 1985, n. 49, pp. 202-212; Gruppo di studi Alta Valle del Reno, La ferrovia Transappennina. Il collegamento nord-sud attraverso la montagna bolognese e pistoiese (1842- 1934), Porretta, 1985; A. Bernardello, Imprese ferroviarie e speculazione di borsa nel Lombardo-Veneto e in A ustria (1836-1847), “Storia in Lombardia”, 1987, n. 3, pp. 33-102; G. Catoni, Un altro treno per Siena, “Carroccio”, 1987, n. 17, pp. 2-4; D. Barsanti, Le ferrovie nella Toscana lorenese: considerazioni a margine di un annoso dibattito storiografico, in La Toscana dei Lorena. Riforme, territorio, società. A tti del Convegno di studi (Grosseto, 27-29 novembre 1987), a cura di Z. Ciuffoletti e L. Rombai, Firenze, Olschki, 1989, pp. 491-513.4 Le opere che si contano sono soltanto due e vertono entrambe su questioni amministrative: G. Coletti, Storia di una riforma: l ’ente Ferrovie dello Stato, Roma, Cari, 1985; e Id., Sinossi di un prossimo futuro: l ’ente Ferrovie dello Stato, Roma, Cafi, 1988.5 Per la tecnologia cfr. Collana di conferenze tenuta da tecnici delle Fs nella sede del Collegio degli ingegneri ferroviari italiani a celebrazione del cinquantenario dell’azienda statale, Roma, 1955; Evoluzione tecnica ed economica delle ferrovie dei cento anni dell’Unità d ’Italia, 1861-1961, Roma, Cifi, 1961; M. Diegoli, Storia del mostro (le nostre locomotive a vapore), Roma, Ferrovie dello Stato, 1970; M. Loria, Storia della trazione elettrica ferroviaria in Italia, Firenze, Giunti, 1971; 1883-1983. Il servizio materiale e trazione delle Ferrovie dello Stato. Cento anni di progettazione a Firenze, Roma, Ferrovie dello Stato, 1983; M. Merger, Un modello di sostituzione: la locomotiva italiana dal 1850 al 1914, “Rivista di storia economica”, n.s., voi. Ill, n. 1, febbraio 1986, pp. 66-108; M. Cruciani, Il tempo delle littorine. Storia delle automotrici Breda 1932-1954, Salò, Etr, 1987.6 A. Folic - P. Pellis, Carlo Ghega e la sua maggiore opera: la ferrovia Trieste-Vienna, Trieste, 1952; G. Bellotti, Pietro Paleocapa, Bergamo, Orobiche, 1953; S. Fontana, Luigi Negrelli nel centenario delle linee ferroviarie Vero- na-Trento-Bolzano, “Bollettino di scienze naturali” , 1953; G. Angiolini, La Grande Galleria del!'Appennino sulla
328 Andrea Giuntini
per chi s’interessa di storia dei locomotori.La parte dedicata ai tecnici è composta in
pratica di alcuni profili biografici per lo più concepiti in modo tradizionale; meritano forse un interesse particolare per il contesto generale in cui sono stati elaborati — una storia cioè dei più importanti manager pubblici ideata da Alberto Mortara — i lavori di Bonelli e, duole citarsi, dello scrivente, rispettivamente sul primo e sul secondo direttore delle Ferrovie dello Stato.
Ancora poco poi si è lavorato sulle stazioni7, dovendo escludere da questa rassegna le lucidissime considerazioni sull’argomento offerteci da Lucio Gambi. Il lavoro disponibile più documentato è senz’altro quello di Bernardello, che si ferma però agli anni sessanta del secolo scorso; di rilievo anche i contributi raccolti in occasione del convegno
organizzato per festeggiare i cinquant’anni della stazione di Santa Maria Novella di Firenze. Manca per il resto qualsiasi sensibilità nei confronti dei problemi urbanistici, geografici ed anche sociologici, che uno studio del genere è in grado di stimolare. È di recente pubblicazione un testo, che da questo punto di vista presenta caratteristiche ben più ampie, affrontando la questione proprio in termini di storia sociale8. Ma occorrerà citare un altro esempio di storia delle stazioni, il catalogo della bellissima mostra parigina organizzata al Beaubourg dal titolo Le temps de gares.
In ritardo è anche la storiografia in tema di ferrovieri. Rispetto al patrimonio di ricerche sul movimento operaio, in proporzione sui lavoratori delle ferrovie è stato scritto decisamente poco9. A poco quindi è servito
Direttissima Bologna-Firenze ed un grande ingegnere: Enrico Marone, Bologna, 1955; A. Bignardi, J.L. Protche costruttore della ferrovia porrettana, “Strenna della fameja Bulgneisa”, 1958; G. Adami, In memoria dell'eminente ingegnere Luigi Negrelli nel primo centenario dell’apertura al traffico delle linee ferroviarie Verona-Trento-Bol- zano, “Atti dell’Accademia degli Agiati di Rovereto”, vol. I, 1959; T. Giacalone Monaco, L ’ingegnere Vilfredo Pareto nella Società delle Strade Ferrate Romane, “Giornale degli economisti e annali di economia”, 1963, n.s., n. 7-8, pp. 537-378; L. Cunsolo, Achille Fazzari e la Ferdinandea, “Brutium, Società Mattia Preti” , 1965, n. 4, pp. 8- 10; R. Rogora, Carlo Cattaneo e la ferrovia a cavallo (tram-road) Tornavento-Sesto Colende, in “Il Risorgimento” , 1974, pp. 31-35; F. Bonelli, Protagonisti dell’intervento pubblico: Riccardo Bianchi (1854-1936), “Economia pubblica”, 1975, n. 11-12, pp. 11-17 (poi anche in A. Mortara (a cura di), Iprotagonisti dell’intervento pubblico, Milano, Angeli, 1984, pp. 73-87); A. Nicolardi, Antonio Zannoni, “In Rumagna”, 1983-1984, pp. 99-104; A. Giuntini, Protagonisti dell’intervento pubblico: Raffaele De Cornè, “Economia pubblica”, 1985, n. 6, pp. 281-288; A. Giuntini, Jean Louis Protche, ingegnere ferroviario lorenese in Italia. Un breve profilo biografico (1818-1886), “Il Carrobbio”, 1987, pp. 239-246.7 M. Bordello, La nuova stazione di Napoli Centrale, Napoli, 1960; L. Mirone, La stazione ferroviaria di Torino Porta Nuova, Torino, 1962; G. Angeleri - U. Mariotti Bianchi, I cento anni della vecchia Termini, Roma, Statina- ri, 1974; P. Michi, La stazione della strada ferrata ‘Maria Antonia’ in Prato (1847-1848), “Prato storia e arte”, 1974, n. 39, pp. 44-48; La stazione Centrale di Milano. Mostra del cinquantenario, Milano, Di Baio, 1981 ; E. Got- tarelli, La Stazione Ferroviaria di Bologna, “Il Carrobbio”, 1982, pp. 149-162; Dopolavoro Ferroviario Bergamo. Storia di una stazione: Bergamo, 1838-1984, Bergamo, Ed. Dopolavoro Ferroviario, 1984; A. Bernardello, L ’origine e la realizzazione della stazione ferroviaria di Venezia (1838-1866), “Storia urbana”, 1985, n. 33, pp. 3-45; V. Savi, De auctore, Firenze, Edifir, 1985; G. Ciucci, Le vicende dell’architettura italiana e le stazioni, “Ingegneria ferroviaria”, 1985, pp. 143-150; C. Columba, Tecnica e tipologia nelle stazioni degli anni trenta, ivi, pp. 151-162; V. Savi, La nuova stazione di Firenze, ivi, pp. 163-166; G.K. Koenig, La stazione di Firenze ed il disegno del prodotto industriale, ivi, pp. 169-174; G. Angeleri - C. Columba, Milano Centrale, storia di una stazione, Roma, Abete, 1986; A. Giuntini, La costruzione della stazione ferroviaria di Pistoia, “Farestoria” , 1987, n. 1-2, pp. 11-20.8 J. Richards - J.M. Mackenzie, The Railway Station. A social history, Oxford-New York, Oxford University Press, 1986.9 A. Castrucci, Battaglie e vittorie dei ferrovieri italiani (cenni storici dal 1877 al 1944), Milano, Gruppo Ferrovieri Milanesi, 1945; L. Guerrini, Organizzazione e lotte di ferrovieri italiani, Firenze, Sindacato Nazionale Ferrovieri, 1957; L. Del Piano, La compagnia reale delle ferrovie sarde e i moti operai del 1864-65, “Studi sardi”, 1968, pp.
Le ferrovie nella storiografia italiana 329
il conosciutissimo lavoro dell’antesignano Guerrini, rimasto tronco e mai completato, che risale ormai a più di un trentennio fa.
Infine abbiamo individuato soltanto un’opera di sociologia ferroviaria, nel senso più ampio del termine e forse non propriamente ortodosso, troppo poco per un protagonista dell’immaginario collettivo come il treno10.
Il fatto che le ferrovie abbiano attirato soltanto parzialmente l’attenzione degli storici va fatto risalire a più motivi. Lo stato del servizio e il lungo cahier des doléances esposto ogniqualvolta se ne parla certamente non hanno stimolato gli storici a cimentarsi con le ferrovie. Il motivo comunque che ha condizionato più pesantemente i risultati della ricerca storica in questo settore è senza dubbio costituito dall’inesistenza di una pluralità di filoni e di scuole. Di conseguenza sono venuti a mancare quel dibattito e quel confron
to che invece hanno infiammato nel dopoguerra più volte e sempre profittevolmente la comunità degli storici. Il caso delle ferrovie una sola volta è balzato alla ribalta delle dispute metodologiche, in occasione, come del resto è ben risaputo, degli interventi di Stefano Fenoaltea11. Non si sta qui ad entrare nel merito di una contesa, nella quale a vario titolo e più o meno direttamente sono entrati anche altri nomi prestigiosi, quali quelli di Gerschenkron, di Romeo e di Fogel. Ci limitiamo a notare che un’impostazione quanti- tativista, intesa nel senso più ampio, ha avuto poca presa in Italia12.
A ben guardare quindi l’unica materia, nella quale gli studi italiani possono legittimamente affermare di appartenere ad un filone ben individuato e con salde radici nel passato, è quella dei trafori alpini ed appenninici e delle ferrovie di montagna13.
483-544; Cento anni di lotte sociali e sviluppo dei trasporti: 1877-1977. A tti delle celebrazoni del centenario della Società nazionale di mutuo soccorso fra ferrovieri Fs, Milano, 1977; G. De Lorenzo, La prima organizzazione di classe dei ferrovieri, Roma, Ed. Cooperativa, 1977; G. Brini, I ferrovieri sulle strade ferrate dell’Emilia-Romagna, Bologna, Scuola Grafica Salesiana, 1979; G. Dinucci, Il sindacato ferrovieri italiani e la scelta di autonomia dalla Cgdl e dall’Usi (1911-1913), “Annali dell’Istituto di Storia”, Università di Firenze, Facoltà di magistero, 1982- 1984, pp. 135-154; G. Checcozzo - S. Stefanelli, La Mutua dei Macchinisti e Fuochisti. Una storia nella Storia dei ferrovieri, Milano, Società nazionale di mutuo soccorso fra ferrovieri e lavoratori dei trasporti, 1987.10 M.G. Imbrò - G. Mazzoleni, Partire è un p o ’ morire. Per una etno-storia del treno in Italia, Roma, Bulzoni, 1979.11 S. Fenoaltea, Le ferrovie e lo sviluppo industriale italiano 1861-1913, in G. Toniolo (a cura di), Lo sviluppo economico italiano 1861-1940, Bari, Laterza, 1973, pp. 157-186; Id., Italy, in P. O’Brien (a cura di), Railways and the economie development o f western Europe 1830-1914, Oxford, St. Antony’s-Macmillan Press, 1983, pp. 49-120; S. Fenoaltea, Le costruzioni ferroviarie in Italia, 1861-1913, “Rivista di storia economica”, n.s., vol. I, n. 1, giugno 1984, pp. 61-94. Del libro di O’Brien cfr. anche la recensione-discussione di G. Canciullo, Ferrovie e sviluppo economico, “Italia contemporanea”, 1985, n. 161, pp. 117-121.12 Ma dobbiamo ricordare un articolo che s’immette di diritto in questo solco: V. Zamagni, Ferrovie e integrazione del mercato nazionale nell’Italia post-unitaria, in Studi in onore di Gino Barbieri, Pisa, Pem, 1984, vol. Ili, pp. 1635-1649.13 P. Pellis, La Pontebbana per la valle del Gail, Trieste, Camera di commercio, 1950; Ferrovie dello Stato. Il cinquantenario del traforo del Sempione (1906-1956), Roma, 1956; P. Pellis, Il cinquantenario della ferrovia transalpina, 1956; A cento anni dall’inizio del traforo del Fréjus, Roma, Direzione generale delle Ferrovie dello stato, 1957; G. Lupi, Le grandi gallerie alpine ed appenniniche, “Ingegneria ferroviaria”, 1961, n. 2, pp. 623-632; G.A. Boltshauez, Il Monte Cenisio e il traforo delle Alpi, “Il Politecnico” , vol. XXII, 1964, pp. 71-99; R. Sertoli Salis, La ‘strada ferrata’ dello Spluga in alcune lettere del secondo Ottocento, “Bollettino della Società storica valtelline- se”, n. 19, 1966, pp. 49-52; Camera di commercio, industria, artigianato ed agricoltura di Bolzano, 100 anni di ferrovia del Brennero, Bolzano, 1967; Per il traforo ferroviario dello Spluga. Una discussione di sessant’anni fa , Lecco, Banca Popolare, 1970; C. Codegone, Il centenario della galleria del Fréjus, “Studium”, 171, pp. 623-629; G. Guderzo, La politica dei trafori e la scelta del Fréjus net programma di sviluppo della Padania subalpina, in A tti del convegno su Problemi attuali connessi con lo sviluppo tecnologico ed economico del Piemonte e regioni limitro-
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Legati ancora in gran parte ad una visione celebrativa ed agiografica, i molti libri ed articoli scritti sulle linee che attraversano le Alpi, in minor misura gli Appennini (che non sempre abbiamo aggiunto a questo gruppo), contribuiscono a dare un’immagine più mitica che storica della storia delle ferrovie.
La distanza dall’esperienza dei paesi anglosassoni in questo caso diviene davvero incolmabile. Ciò ha inesorabilmente sancito il grave ritardo subito dal riconoscimento dell’autonomia di questi studi, ora aggregati alla storia politica, ora alla storia economica, ora alla storia dei trasporti. La spiegazione di questo ritardo e nel contempo i suoi effetti sono individuabili anche nella totale assenza, oltre che di cattedre d’insegnamento, anche di centri di ricerca indirizzati specificamente verso lo studio di tali tematiche.
Ma non basta. Non possiamo tralasciare la questione dell’inagibilità dell’Archivio delle ferrovie. Abbandonato a se stesso, non se ne conosce neppure la consistenza e rispecchia fedelmente l’atteggiamento che l’azienda prima e l’ente poi hanno sempre tenuto nei confronti della propria storia; mai infatti sono venuti da villa Patrizi stimoli ed incoraggiamenti di nessun tipo ad approfondire le vicende dei trasporti ferroviari nel nostro paese14. Se un domani questa fonte essenziale per chi si interessa di storia delle ferrovie, e non solo, fosse messa a disposizione dei ricercatori, certamente gli studi ne trarrebbero un impulso decisivo15 e forse si giungerebbe a quella storia complessiva delle ferrovie in Italia, che ancora a tutt’oggi manca16. Di tutti il più convincente risulta senz’altro il Briano, soprattutto per le pagine dedicate dall’autore alle questioni squisi-
fe , Torino, 1971; Id., Per i cent’anni del Fréjus. Ferrovie e imprenditorialità ne! Piemonte di Sebastiano Grandis, “Bollettino della società per gli studi storici, archeologici ed artistici nella provincia di Cuneo”, 1971, n. 65, pp. 5- 51; O. Macchia, Il centenario de! traforo del Fréjus, 1871-1971, Torino, Istituto Luigi Burgo, 1971; M. Abrate, A cento anni dal traforo del Moncenisio, “Il Risorgimento”, 1972, pp. 29-48; G. Migliardi, La ferrovia Fell da Susa a St. Michel de Maurienne. Il valico del Moncenisio nei secoli passati, Pinerolo, Alzani, 1973; D. Severin, San Gottardo, Spluga e interessi di Como (1836-1973), Como, Camera di commercio, 1974; G. Roselli, Il centenario della ferrovia Pontebbana, Udine, 1979; B. Caizzi, Cavour e i suoi consulenti nella questione della ferrovia transalpina, “Bollettino storico della Svizzera italiana”, 1980, voi. 92, pp. 99-108; Settantacinquesimo anniversario del Sempio- ne, Milano, Grafiche Ghezzi, 1981; R. Mortarotti, Il traforo del Sempione nel settantacinquesimo (1906-1981), Domodossola, La Litografica, 1981; I cento anni della ferrovia del San Gottardo, Bellinzona, Casagrande, 1981; B. Caizzi - R. Ceschi, I cento anni della ferrovia del San Gottardo, 1882-1982, Bellinzona, Casagrande, 1982; San Gottardo e l ’Europa. Genesi di una ferrovia alpina, 1882-1982. A tti del convegno di studi, Bellinzona, 14-16 maggio 1982, Bellinzona, Arti Grafiche Salvioni, 1983.14 Stesse deludenti considerazioni vanno fatte a proposito del progetto del museo di Pietrarsa, di cui si parla da anni e che ancora non è giunto ad integrale compimento. Sul museo, che dovrà sorgere dove un tempo erano le officine ferroviarie del regno di Napoli, cfr. Museo nazionale ferroviario di Napoli Pietrarsa. Riuso musealistico delle antiche officine borboniche, Roma, 1982.15 L’unico archivio consultabile all’interno dell’Ente è quello del Consiglio d’amministrazione, su cui cfr. A. Giuntini, Una fonte poco nota per la storia dell’impresa ferroviaria: l’archivio del Consiglio di amministrazione delle Ferrovie dello stato, “Annali della Fondazione Assi”, pp. 495-507.16 Pochi e per lo più cronachistici, anche se non inutili per la messe d’informazioni che riportano, risultano ad esempio: Origini, sviluppo e programma delle ferrovie italiane. Celebrazioni torinesi per il Centenario del 1848, Torino, 1948; L. Jannattoni, Dalla Bayard all’Etr 300. Sommario storico delle ferrovie italiane, Roma, Quaderni delle Fs, 1956; F. Ogliari, Storia dei trasporti italiani, Milano, Cavallotti, 1962-74; U. Cantutti, Sviluppo e vicende delia rete ferroviaria italiana negli ultimi cento anni, “Ingegneria ferroviaria”, 1961, pp. 583-594; C. Lacchè, Cronache ferroviarie del Risorgimento italiano, Viterbo, Agnesotti, 1970; L. Jannattoni, A cento anni dalla breccia di Porta Pia. I treni che unificarono l ’Italia, Firenze, D’Anna, 1971; L. Jannattoni, Il treno in Italia, Roma, Editalia, 1975; I. Briano, Storia delle ferrovie in Italia, Milano, Cavallotti, 1977; C. Lacchè, L ’ottocento ferroviario italiano dopo il settanta, Viterbo, Agnesotti, 1977; Id., La ferrovia da Giolitti a Mussolini, Viterbo, Agnesotti, 1980; Id., Quell'antico odore di fum o dei treni. Cronache ferroviarie degli Stati Sovrani Italiani, Firenze, Medicea, 1986.
Le ferrovie nella storiografia italiana 331
tamente tecniche; ma l’unico lavoro scientifico orientato esplicitamente a dare un’occhiata d’insieme su uno spaccato di storia ferroviaria piuttosto esteso, fino al 1905 in questo caso, è quello, ottimo peraltro, di Elvira Cantarella17.
Note più felici invece provengono dall’immensa fototeca delle Ferrovie dello stato, che raccoglie una straordinaria quantità di immagini ferroviarie. Dalla fototeca provengono molte delle suggestive fotografie contenute nel volume pubblicato proprio alle soglie del centocinquantenario18.
Ciò non toglie che non manchino studi di ottima levatura e il saggio citato di Cantarella ne è una prima conferma. La maggior parte di questi volumi e saggi sono stati pubblicati negli ultimi due decenni, a conferma di un crescente interesse nei confronti della storia delle ferrovie. Gli storici finalmente esitano sempre meno a considerare centrale un argomento che pure non appartiene alla tradizione nobile della storia. Ne è una prova tangibile anche il peso che le fer
rovie vanno assumendo aU’interno delle storie generali e nell’ambito di lavori non specificamente ferroviari, mentre contiamo soltanto un convegno, in questo quarantennio, impegnato a discutere tematiche ferroviarie19.
Abbiamo detto che per lunghi anni la storia delle ferrovie è stata legata — in rapporto di dipendenza, bisognerebbe precisare — alla storia politica. Se analizziamo i lavori più rilevanti risalenti ai primi anni della pe- riodizzazione che ci siamo dati, il dato appare in tutta la sua evidenza. Pur estremamente dissimili fra loro per taglio ed impostazione, e non se ne potrebbero non rilevare le profonde disomogeneità, che comunque qui non discutiamo, questi scritti sono però riconducibili ad una matrice comune, quella appunto dell’appartenenza all’area della storia più tradizionalmente politica. Non è possibile all’interno di questo gruppo trascurare il ruolo svolto da Giulio Guderzo, uno dei padri fondatori della storia delle ferrovie in Italia20.
17 E. Cantarella, Lo sviluppo delle ferrovie dalle origini alla statizzazione, in Storia della società italiana, Milano, Teti, 1987, vol. XVII, pp. 101-147.18 Ferrovie Italiane. Immagine del treno in 150 anni di storia, a cura di P. Berengo Gardin, Roma, Editori Riuniti, 1988. Trattando di libri fotografici sulle ferrovie vanno ricordati anche Vie del ferro. Cento fotografi per cento treni, a cura di P. Berengo Gardin, Milano, Electa, 1985; F. Monteverde - M. Signoretto, C ’era una volta la vaporiera. Cartoline delle Ferrovie e delle Tramvie a vapore 1900-1954, Cuneo, L’Arciere, 1985; A. Giuntini, Treni nel verde. Strade ferrate in Toscana dalle origini ad oggi, Firenze, Alinari, 1987.19 R. Lorenzetti (a cura di), La questione ferroviaria nella storia d ’Italia. Problemi economici sociali politici e urbanistici. A tti del convegno nazionale di studi storici organizzato dal Comune di Rieti 24-26 gennaio 1986, Roma, Editori Riuniti, 1989. In occasione del convegno fu tenuta una mostra, il cui catalogo è stato dato alle stampe: La questione ferroviaria in Sabina tra ’800 e ’900. Mostra storico documentaria dell’Archivio di stato di Rieti, Conti- gliano, Secit, 1985. Di un’altra mostra ferroviaria ha scritto L. Jannattoni, Cimeli ferroviari alla “Mostra della fo tografia a Roma: 1840-1915”, “Ingegneria ferroviaria”, 1954, n. 11, pp. 875-894.20 E. Passerin, Pietro Bastogi e la fondazione della Società italiana per le strade ferrate meridionali, “Bollettino storico livornese”, 1951, n. 1-2, pp. 6-17; F. Arese, Cavour e le strade ferrate, Milano, 1953; E. Guidi, Le ferrovie toscane dal 1849 al 1859, “Rassegna storica toscana”, 1956, n. 1-2, pp. 141-155; A. Berselli, La questione ferroviaria e la ‘rivoluzioneparlamentare’ del 18 marzo 1876, “Rivista storica italiana”, 1958, n. 2, pp. 188-238 e n. 3, pp. 376-420; R. Giuffrida, La dittatura di Garibaldi e il problema ferroviario in Sicilia, in La Sicilia verso l ’Unità. Memorie e testi raccolti in occasione del 39° Congresso nazionale dell’Istituto di Storia del Risorgimento, Palermo, Manfredi, 1960; G. Guderzo, Per una periodizzazione della politica ferroviaria sabauda (1826-1859), in Studi giuridici e sociali in memoria di Ezio Vanoni, Pavia, Tip. del Libro, 1961, pp. 338-369; G. Guderzo, Lo sviluppo delle ferrovie sabaude (autunno 1848-primavera 1859), “Bollettino della Società pavese di storia patria”, 1961, n.s., voi. XIII, n. 2, pp. 53-60; E. Passerin D’Entreves - L. Coppini - N. Carranza - P. Ridolfi - C. Padovani, La Società italiana per le strade ferrate meridionali nell'opera dei suoi presidenti, 1861-1904, Bologna, Zanichelli, 1962; T . Urso, Contributo alla storia delle ferrovie toscane. I progetti per le linee Pontedera-Saline e Saline-Colle Val d ’Elsa, “Mi-
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E veniamo infine all’epoca più recente, la cui produzione rispecchia quindi l’andamento attuale della storia delle ferrovie in Italia. Caratterizza e unisce questi scritti la definitiva emancipazione dalla storia politica in vista, com’è auspicabile, della fondazione di una disciplina autonoma, la storia delle ferrovie appunto. Si nota agevolmente come in
questi saggi (una quindicina solamente, mentre i libri che trattano esplicitamente di ferrovie sono soltanto tre), la storia delle ferrovie venga affrontata con strumenti differenziati e angolazioni diverse, che delineano una tendenza ormai netta verso un approccio di tipo economico21.
Andrea Giuntini
scellanea storica della Valdelsa”, 1964, n. 2, pp. 91-122; S. La Francesca, La statizzazione delie ferrovie e sviluppo dell’industria elettrica in Italia, “Clio”, 1965, n. 2, pp. 275-306; R. Giuffrida, Lo Stato e le ferrovie in Sicilia (1860- 1895), Caltanissetta, Salvatore Sciascia, 1967; F. Ippolito, Lo stato e le ferrovie dalla caduta della destra alle convenzioni dell’85, “Clio”, 1967, n. 2, pp. 231-248; P. Negri, Le ferrovie nello stato pontificio (1844-1970), “Archivio economico dell’unificazione italiana”, s. I, vol. XVI, n. 2, 1967; R. Chiarini, La sinistra al potere e la questione ferroviaria (con un inedito di Zanardelli), “Nuova rivista storica”, 1979, n. 1-2, pp. 115-148.21 M. Abrate, Sviluppo, crisi e ferrovie, “Economia e storia”, 1970, n. 3, pp. 316-363; P.L. Landi, Le costruzioni ferroviarie in Toscana nel periodo postunitario: la linea Pisa-Collesalvetti, “Bollettino storico pisano”, 1970, pp. 201-264; A. Mioni, Un caso di studio: la strada ferrata lombardo-veneta da Milano a Venezia, in C. Carozzi - A. Mioni (a cura di), L ’Italia in formazione. Ricerche e saggi sullo sviluppo urbanistico del territorio nazionale, Bari, De Donato, 1970, pp. 304-327; M. Dezzi Bardeschi, Genesi e trionfo della vaporiera: la creazione della rete ferroviaria e le grandi manovre del capitale sul territorio, in ‘Le magnifiche sorti e progressive... ’. Architettura del territorio ed istituzioni dell’Italia unita (1861-1898), Firenze, Teorema Editrice, 1972, pp. 149-237; M. Di Gianfrance- sco, Politica dei trasporti e sviluppo economico regionale: aspetti storici del disquilibrio italiano, “Rivista di politica economica”, 1972, n. 3, pp. 1499-1541; G. Guderzo, A proposito dello sviluppo ferroviario in Italia dal 1850 al 1914: aspetti geografici, economici e tecnologici, “Bollettino della Società pavese di storia patria”, 1972-1973, pp. 141-172; A. Papa, Classe politica e intervento pubblico nell’età giolittiana. La nazionalizzazione delle ferrovie, Napoli, Guida, 1973; G. Pagliarino, Le concessioni ferroviarie in Italia dal 1885 al 1905, “Economia e storia”, 1974, n. 4, pp. 475-510; P.L. Landi, Le costruzioni ferroviarie in Toscana nel periodo postunitario: la linea Cornia- Piombino, “Ricerche storiche”, 1975, n. 1, pp. 5-36; E. Cantarella, Capitale estero e capitale nazionale: alle origini della Bastogi, “Studi storici” , 1976, n. 3, pp. 97-137; D. Brianta, Piemontesi e toscani di fronte alla legge di riordinamento del 1865. Problemi economico-finanziari nella vendita delle Ferrovie dello Stato alla Società dell’Alta Italia, “Il Risorgimento”, 1976, n. 2, pp. 173-194; M. Di Gianfrancesco, La rivoluzione dei trasporti in Italia nell’età risorgimentale. L ’unificazione del mercato e la crisi del Mezzogiorno, L’Aquila, 1979; B. Bandini, La ferrovia Fi- renze-Ravenna: storia ‘mancata’ di un collegamento tra Adriatico e Tirreno, “Studi romagnoli” , pp. 105-114; G. Busino, Sociologia e storia del capitalismo ferroviario ottocentesco, “Bollettino storico della Svizzera Italiana”, vol. XC1V, n. 3-4, 1982, pp. 3-13; G. Barone, Politica economica e istituzioni. Il ministero dei Lavori pubblici, 1922-1925, “Italia contemporanea”, 1983, n. 151-152, pp. 5-39; A. Giuntini, Igiganti della montagna. Storia della ferrovia Direttissima Bologna-Firenze (1845-1934), Firenze, Olschki, 1984; Id., / progetti ferroviari di comunicazione fra la Romagna e la Toscana: rassegna e note critiche, “Studi romagnoli”, 1984, pp. 403-406; G. Spinelli, Un caso ferroviario: la correzione del tracciato della Ferdinandea fra Milano e Brescia (1860-1878), in “Studi bresciani” , n.s., 1984, n. 15, pp. 7-28; A. Giuntini, Una ferrovia mai costruita: la Prato-Empoli, “Prato storia e arte” , 1986, n. 68, pp. 72-75; R. Lorenzetti, Strade di ferro e territori isolati. La questione ferroviaria in un ’area dell’Italia centrale (1846-1960). Una ricerca dell’Archivio di stato di Rieti, Milano, Angeli, 1986.
L ’Italia contemporanea nella rivista “Quellen und Forschungen”di Alessandro Roveri
Negli ultimi dieci anni la critica storica relativa all’Italia contemporanea è stata con tanta autorità ed ampiezza setacciata ed arricchita dalla rivista tedesca “Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken”, emanazione dell’Istituto storico germanico di Roma, che una rassegna di studi tedeschi sulla storia dell’Italia dall’Unità ad oggi non solo non può prescinderne, ma deve a nostro avviso riservarle uno spazio non minore di quello che giova concedere a tutta la restante produzione tedesca. Di “Quellen und Forschungen” (QuF) ci occuperemo pertanto esclusivamente in questa rassegna allo scopo di poter meglio affrontare le questioni cruciali alle quali questa rivista ha dedicato la sua attenzione — per merito, è doveroso precisare, di Jens Petersen, funzionario del Deutsches Histori- sches Institut di Roma e collaboratore di Wolfgang Schieder nella gestione dell’Ar- beitsgemeinschaft fiir die neueste Geschichte Italiens (se oltre che a queste istituzioni si pensa all’attività svolta in Italia dai Goethe- Institute, si ha un’idea dell’abisso che separa il livello di presenza della cultura storica tedesca in Italia da quello della presenza, in Germania, della cultura storica italiana). Ed è doveroso ricordare che il merito di avere esteso le attività dell’Institut alla storia del fascismo è da attribuire a Gerd Tellenbach, suo direttore dal 1962 al 1971.
Abbiamo usato più sopra, a proposito dell’attività di QuF, i verbi “arricchire” e
“setacciare” pensando alle due sezioni che compongono ogni numero della rivista: quella iniziale dei saggi e della ricerca storica e quella finale delle recensioni e delle schede, entrambe di fondamentale importanza: la prima per il livello della maggior parte dei contributi; la seconda per la sistematicità dell’approccio alla produzione storiografica italiana. Riteniamo inoltre che il presente rendiconto sull’ultimo decennio di attività di QuF sia tanto più utile in quanto la barriera linguistica ha fatto sì che spesso non siano riuscite ad entrare nel circuito delle discussioni italiane le riflessioni e le proposte interpretative ospitate da QuF, rivista bilingue sì, ma con netta prevalenza del tedesco sull’italiano. Ciò è accaduto anche ai saggi pubblicati in traduzione italiana, anche se in misura minore.
È questo per esempio il caso del testo della conferenza tenuta da Ernst Nolte il 26 aprile 1976 all’Istituto storico germanico e pubblicata nel fascicolo immediatamente successivo, quello del 1977. Si tratta di un testo che presenta svariati motivi di interesse. In primo luogo, vi si può individuare un’anticipazione della tendenza di Nolte ad attribuire un peso sempre maggiore alla paura suscitata nella borghesia europea dalla Rivoluzione russa del 1917. Le principali tappe di questo cammino saranno l’articolo del 24 luglio 1980 (Die negative Lebendig- keit des dritten Reiches, “Frankfurter Allge- meine Zeitung”) e, come è noto, quello del
Italia contemporanea”, giugno 1990, n. 179
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6 giugno 1986, che ha innescato VHistori- kerstreit (Vergangenheit, die nicht vergeht): nel primo Auschwitz viene vista “come reazione, generata dalla paura, contro i precedenti genocidi della rivoluzione russa” , e nel secondo il gulag è definito “prius logico e fattuale” di Auschwitz. Ma nella conferenza romana Nolte era lontanissimo dall’aberran- te tesi del 1986. Scriveva infatti: “i delitti di Stalin contro il proprio popolo e contro il proprio partito non possono esser considerati alla stessa stregua delle atrocità perpetrate, con l’eliminazione degli ebrei, dal fascismo radicale e preparate spiritualmente dal grido di guerra contro protestanti, massoni, meteci ed ebrei, che esulava dai limiti della eliminazione del sistema partitico peculiare al fascismo normale” (p. 313).
Della sottolineatura della paura borghese in Europa per l’estendersi della rivoluzione proletaria alPinterno dei singoli paesi Nolte si servì in quella conferenza per prendere le distanze dalla tendenza di Renzo De Felice, allora già da lui individuata, a negare l’esistenza stessa della categoria ‘fascismo’ mercé la preminenza data ai “condizionamenti nazionali del fascismo italiano” . Nolte non ha dubbi: fin dall’inizio il fascismo “è stato un fenomeno generale e non solo nazionale” . E — aggiungeva — anche se “la struttura del nazionalfascismo europeo del periodo dal 1919 al 1945 era caratterizzata in tutti i paesi europei, ma più evidentemente in Italia e in Germania, da una sintesi travagliata di fascismo di sinistra e fascismo di destra [...] non sarà mai ribadito abbastanza che il nazionalfascismo europeo è stato un fenomeno di destra, e che di destra era anche il cosiddetto fascismo di sinistra” (pp. 302-
303: affermazioni che marcavano una differenziazione radicale rispetto a De Felice).
Nolte difendeva insomma la sua concezione del fascismo come fenomeno europeo epocale e come forza politica di destra, di quella destra che aveva alle spalle una tradizione secolare di difesa e valorizzazione delle disuguaglianze (e dell’ordine), di contro ad una sinistra da lui giudicata, con un implicito richiamo a Rousseau, come una forza politica che “ha sempre un rapporto positivo con gli oppressi, considera l’eguaglianza degli individui come una legge naturale e la disuguaglianza come la risultanza contro natura di complicate istituzioni; essa guarda al passato preistorico come al paradigma di una forma di esistenza naturale e giusta, e preconizza un futuro in cui la famiglia del genere umano sarà un amalgama unitario” . La conclusione è che “comunque si voglia giudicare il ‘socialismo in un solo paese’ dei sovietici, o anche lo stalinismo al suo apogeo, esso non potrà mai, in nessun caso, essere equiparato al fascismo”: uno, infatti, è di sinistra, e l’altro di destra (p. 303). La stessa prospettiva di giudizio vale per i movimenti di liberazione nazionale del nostro tempo e i regimi che ne sono scaturiti. Nolte prende posizione, al riguardo, contro James A. Gregor, The Fascist Persuasion in Radicai Politics, Princeton, Princeton University Press, 1974, che “identifica nel fascismo paradigmatico di Mussolini una prefigurazione di numerosi movimenti di liberazione nazionale del nostro tempo”, dimostrando nei confronti del politologo filoneofascista dell’università di Berkeley una fiducia assai minore di quella che talvolta gli viene accordata in Italia1.
1 Ancora più netto, su Gregor, il giudizio di un altro collaboratore scientifico dell’Istituto storico germanico, Karl- Egon Lònne recensore di James A. Gregor, Italian Fascism and Developmental Dictatorship, Princeton, Princeton University Press, 1979, libro in cui il fascismo è giudicato come modello di dittatura di sviluppo verso la modernizzazione e l’industrializzazione (posizione che ritroveremo in Italia nella mostra romana L ’economia italiana fra le due guerre, e, come ha egregiamènte dimostrato Tim Mason con la sua rassegna critica in “Italia contemporanea”, 1985, n. 158, nella maggior parte dei saggi del suo catalogo: Mason ha parlato di “esercizio piuttosto rozzo di revi-
L’Italia contemporanea nella rivista “Quellen und Forschungen” 335
Un altro motivo di interesse di questo testo di Nolte è rappresentato dalla sua parte conclusiva, nella quale (siamo nel 1976) egli prende in considerazione l’eurocomunismo e lo giudica, meno paradossalmente di quanto possa sembrare a prima vista, una prova ed una conferma ulteriori del carattere epocale del fascismo. Il ragionamento è questo: certi partiti comunisti dell’Europa occidentale hanno finito per trarre “insegnamenti sostanziali dalle esperienze fatte nell’epoca del fascismo”, quando avevano invano tentato l’assalto frontale al capitalismo; il carattere epocale del fascismo sarebbe quindi rintracciabile nel fatto che, attraverso l’esperienza delle alleanze antifasciste, il fascismo ha portato i partiti comunisti dall’entusiasmo rivoluzionario “alla ragione” . E in conclusione Nolte chiedeva ai partiti dell’eurocomunismo di dimostrare la sincerità della nuova tendenza accettando, oltre che il concetto di “epoca del fascismo”, anche “il pluralismo dei partiti e la pluralità degli interessi”, e realizzando un “rapporto positivo con la libertà economica, e quindi con il mercato comunque configurato” . Che era una posizione assai più aperta di quella assunta, in quegli stessi anni, da Renzo De Felice.
Proseguendo le segnalazioni in ordine cronologico, incontriamo nel voi. 58 (del1978) Peter Hertner, Banken und Kapital- bildung in der Giolitti-Àra, cui seguì nel volume 65 (del 1985), dello stesso autore, Banken und Wirtschaftsentwicklung in Italien. Ein Forschungsbericht. Teil I: 1883-
1914. Quest’ultimo lavoro, come avverte il sottotitolo, è un utile ed aggiornato bilancio di studi di storiografia bancaria italiana relativa al periodo compreso tra l’unità d’Italia e la prima guerra mondiale: grazie alle ricerche di Confalonieri sul contributo delle banche all’industrializzazione, a quelle di Luigi De Rosa sulla storia del Banco di Roma e agli studi di Franco Bonelli, di Jon S. Cohen, di Benny Lai e di altri, si evidenzia un patrimonio di conoscenze degno di essere invidiato dagli altri settori della storia economica dell’Italia contemporanea. Quanto all’articolo del 1978, esso era incentrato soprattutto sulle due maggiori banche italiane dell’era giolittiana (la Commerciale e il Credito italiano) e sul ruolo in esse svolto dal capitale straniero (soprattutto tedesco), con particolare riferimento all’industria elettrica. Il lettore italiano ha ritrovato parte di queste acquisizioni scientifiche e molti elementi nuovi in varie opere successive di Hertner in lingua italiana: Capitale straniero, banche miste e sviluppo industriale in Italia, in L ’industrializzazione in Italia, a cura di Giorgio Mori, Bologna, Il Mulino, 1981; l’articolo II capitale straniero in Italia (1883-1914), “Studi storici” , 1981, pp. 767-795; il volume II capitale tedesco in Italia dall’Unità alla prima guerra mondiale. Banche miste e sviluppo economico italiano, Bologna, Il Mulino, 1984; Il capitale tedesco nell’industria elettrica italiana fino alla prima guerra mondiale, in Energia e sviluppo. L ’industria elettrica italiana e la Società Edison, a cura di Bruno Bezza, To-
sionismo storiografico”). Ha scritto tra l’altro Lònne sulla “Historische Zeitschrift” , voi. 239, ottobre 1984, pp. 446-447: “Come si fa a parlare di modernizzazione senza prendere in considerazione e caratterizzare per quel che è — ossia come un fatto reazionario — il ritorno della partecipazione sociale e politica a precedenti gradi dello sviluppo della civiltà? Si può [...] interpretare la politica estera fascista come sforzo per l’allargamento delle risorse economiche, senza almeno accennare alla sua tendenza ad una propria volontà imperialistica e con ciò alla tendenza a scatenare conflitti internazionali? Non è forse il topos della nazione proletaria il perno della traduzione dei problemi sociali interni in tensioni internazionali, che suscitarono nuovi impedimenti e nuovi arretramenti in fatto di modernizzazione?”. Ci permettiamo di ricordare che una stroncatura altrettanto netta del filofascismo di Gregor è nel nostro Le cause del fascismo, Bologna, Il Mulino, 1985, p. 122.
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rino, Einaudi, 1986. Non c’è dunque alcun bisogno di analizzare in questa sede tali contributi di Hertner2.
Nel volume successivo, il 59 (1979), troviamo due contributi di notevole interesse: uno studio in tedesco, di Dietrich von Delhaes- Giinther sulla politica demografica del fascismo (pp. 392-420) e il testo italiano di una conferenza di Helmut Goetz su padre Gemelli e il giuramento del 1931 (pp. 421-435).
Nel primo saggio (Die Bevòlkerungspoli- tik des Faschismus), von Delhaes-Giinther, dopo aver preso le mosse dagli obiettivi strategici della politica demografica mussolinia- na, ne ricostruisce le tappe fondamentali sia riguardo ai matrimoni e alla natalità, sia riguardo all’emigrazione e alle migrazioni interne — controllate attraverso il Comitato permanente per le migrazioni interne istituito nel 1926 e il Commissariato per le migrazioni e la colonizzazione interna creato nel 1931 — e dimostra che il programma demografico di Mussolini fallì quasi compieta- mente: la crescita demografica che si verificò nel ventennio non fu dovuta all’aumento delle nascite, ma al blocco dell’emigrazione. Nel lungo periodo le curve demografiche dell’era fascista non presentano variazioni apprezzabili rispetto al passato.
La lezione-conferenza dal titolo Agostino Gemelli ed il giuramento del 1931, quanto mai in sintonia con gli interessi dell’autore, il cattolico democratico Helmut Goetz, era stata tenuta all’università Cattolica di Milano il 17 gennaio 19783. Il saggio del 1979 la riproduce con qualche ritocco e con raggiunta di un documento inedito, tratto dal fondo Polizia politica dell’Archivio centrale dello Stato (è un interessante rapporto di un informatore della polizia, datato Milano 26 giugno 1932, sui pretesti adottati da padre Gemelli per giustificare il proprio rifiuto del giuramento fascista). Com’è noto, il giuramento non venne imposto ma solo consigliato ai docenti della Cattolica, quattro dei quali soltanto, tuttavia, vi si rifiutarono: i giuristi Rotondi e Rovelli, lo storico Soran- zo e padre Gemelli. Nel ricostruire la vicenda, Goetz si è imbattuto nel ben più arduo rifiuto del giuramento da parte di Gaetano De Sanctis, professore all’università statale di Roma, ammirato in questo dallo stesso pontefice Pio XI, che pure aveva autorizzato i professori cattolici a giurare. Dei dodici professori delle università dello stato che nel 1931 rifiutarono il giuramento fascista, De Sanctis, già strenuo neutralista nel 1914- 1915, fu l’unico cattolico. Era più che natu-
2 Sarà semmai utile menzionare, per comodità dell’eventuale utente, gli altri principali contributi dello storico tedesco alla storia economica dell’Italia contemporanea, a cominciare da quelli pubblicati in lingua italiana (ringrazio al riguardo, per l’ampia informazione fornitami, l’autore, attualmente docente dell’Istituto universitario europeo di San Domenico di Fiesole): La Società “Tubi Mannesmann” a Dalmine. Un esempio di investimento internazionale (1906-1917), “Ricerche storiche”, 1978, pp. 105-123; Capitale tedesco e industria meccanica in Italia: la Esslingen a Saronno, 1887-1918, “Società e storia” , 1982, pp. 583-621; La geografia dell’industrializzazione, “Passato e presente”, 1982, n. 2, pp. 9-14; La transizione dall’economia di guerra all’economia di pace in Italia e in Germania dopo la prima guerra mondiale, “Annali dell’Istituto storico italo-germanico”, quaderno 11, Bologna, 1983; Un investimento tedesco in Lombardia tra le due guerre mondiali: la “Officine Lombarde di Apparecchi di Precisione", “Storia in Lombardia”, 1986, pp. 7-37; La stabilizzazione in Germania dopo la grande inflazione (1923-1924), “Rivista milanese di economia”, Serie Quaderni 11, 1986, pp. 58-66; La storia delle imprese multinazionali. Risultati e problemi di un nuovo indirizzo di ricerca, “Passato e Presente”, 1987, n. 13, pp. 29-33; Espansione multinazionale e finanziamento internazionale dell’industria elettrotecnica tedesca prima del 1914, “Studi Storici” , 1987, pp. 819-860; Municipalizzazione e capitale straniero nell’età giolittiana, in Aldo Berselli - Franco Della Peruta - Angelo Varai (a cura di), La municipalizzazione nell’area padana. Storia e esperienze a confronto, Milano, Angeli, 1988.3 Goetz aveva già pubblicato nelle Sonderausgaben dell’Istituto, nel 1960, il volumetto, con appendice di documenti, I membri francesi del governo provvisorio della repubblica napoletana del 1799.
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rale che Goetz si appassionasse alla sua nobilissima figura e gli dedicasse una specifica ricerca. Ne è nato, dedicato a Silvio Accame “con gratitudine” , il bel saggio Gaetano De Sanctis e il rifiuto del giuramento fascista, QuF, voi. 62 (1982), pp. 303-318.
Il saggio immediatamente successivo (QuF, 1982, pp. 319-335) di Hansjakob Stehle, Togliatti, Stalin und der italienische Kommunismus 1943-1948, costituisce l’apprezzabile sforzo di uno studioso tedesco di comprendere e spiegare la realtà comunista italiana degli anni 1943-1948, ossia uno dei fenomeni politici europei più lontani dall’esperienza storico-politica della Germania occidentale. Sono poche ma assai dense pagine, costruite utilizzando anche fonti vaticane e statunitensi (una delle quali attesta l’interrogativo che ci si pose a Washington alla vigilia delle elezioni del 18 aprile 1948, e del quale Togliatti ebbe sentore: se, cioè, per evitare la vittoria elettorale del Fronte socialcomunista, non fosse preferibile mettere fuori legge il Pei e, nel probabile caso di guerra civile, rioccupare militarmente le basi del sud contro il nord comunistizzato).
Nel volume 61 (1981) di QuF appare un compendio della tesi di laurea di Winfried Adler sulla politica culturale del fascismo in Alto Adige (Die Kulturpolitik des italieni- schen Faschismus in Siidtirol; relatore Wolfgang Schieder). Borsista dell’Istituto storico germanico di Roma nel biennio 1973-1974, Adler ha potuto sfruttare a fondo le carte dell’Archivio centrale dello stato, ed è riuscito a chiarire, contro quasi tutta la letteratura tedesca sul Sudtirolo, che il fallimento del compromesso raggiunto nel 1923 tra partito fascista e Deutscher Verband non fu provocato dai nazionalisti italiani e da Tolo- mei, ma da Preziosi e Mussolini. Quest’ultimo varò nel 1926 la legge per l’italianizzazione dei cognomi in risposta alla campagna pro Sudtirolo condotta nella repubblica di Weimar dalla destra nazionalista, e per ragioni diplomatiche di buon vicinato con Au
stria e Santa Sede fu tollerante nei confronti della stampa altoatesina e dell’insegnamento catechistico di lingua tedesca.
Niente più che diligenti rassegne di studi italiani sono i due contributi del 1987, dedicati rispettivamente alle lotte agrarie italiane tra Risorgimento e fascismo e alle vicissitudini dei prigionieri di guerra italiani del secondo conflitto mondiale. Di essi sono autori, nell’ordine, Volker Hunecke (lo stesso di Arbeiterschaft und industrielle Revolution in Mailand 1859-1892, Goettingen, Vanden- hoeck & Ruprecht, 1978, tr. it. Classe operaia e rivoluzione industriale a Milano (1859-1892), Bologna, Il Mulino, 1982) e Lutz Klinkhammer. I loro lavori s’intitolano rispettivamente Die Agrargeschichte Italiens und ihre Konflikte zwischen Risorgimento und Faschismus (conferenza tenuta il 27 novembre 1985 all’università di Amburgo) e Leben im Lager. Die italienischen Kriegsge- fangenen und Deportierten im zweiten Weltkrieg. Ein Literaturbericht (QuF, voi. 67, 1987, pp. 311-335 e 489-520).
Abbiamo infine lasciato di proposito per ultimo quello che a nostro avviso è il contributo più significativo, almeno per quanto riguarda il grande problema del fascismo: quello del 1982 di Meir Michaelis (QuF, voi. 62, pp. 270-302), che purtroppo, a causa della difficoltà rappresentata dalla lingua, non è entrato nel circuito del dibattito storiografico italiano. Non tragga in inganno la dimessa semplicità del titolo, aperto da un termine assai modesto: Anmerkungen (annotazioni), ed accennante ad un argomento apparentemente circoscritto: il concetto italiano di totalitarismo (Anmerkungen zum italienischen Totalitarismusbegriff)\ il sottotitolo preannunzia qualcosa di ancor più specifico: un’analisi critica delle tesi di Hannah Arendt e di Renzo De Felice al riguardo: Zur Kritik der Thesen Hannah Arendts und Renzo De Felices. In realtà il docente tedesco-israeliano, nel definire le ragioni del proprio dissenso sia dalla Arendt sia da De
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Felice, propone un superamento di alcuni limiti delle posizioni dei due studiosi che costituisce a nostro avviso una tappa assai importante sulla strada dell’approfondimento della questione del totalitarismo (e Meir Mi- chaelis sembra essersene reso conto, dal momento che, cosa inconsueta in una rivista, ha premesso a questo scritto una dedica alla memoria di suo padre Heinrich, 1884- 1932). L’argomento è tutt’altro che archeologico. Nella fase di rivoluzione tecnologica nella quale viviamo vi sono autorevoli voci responsabili che, ad deterrendum, vi intravedono elementi di tendenziale totalitarismo: è il caso di Adam Schaff, l’ex membro del Comitato centrale del partito comunista polacco ora presidente del Centro europeo del Consiglio internazionale delle scienze sociali di Vienna, e di due sue recenti opere: Il prossimo Duemila. Rapporto al Club di Roma sulle conseguenze sociali della seconda rivoluzione industriale, Roma, Editori Riuniti, 1985, e La rivoluzione tecnologica: una nuova sfida per l’idea socialista, “Mondo Operaio” , dicembre 1988.
L’iniziale osservazione di Michaelis (p. 270), secondo cui in Italia il concetto di totalitarismo — benché il termine vi fosse stato coniato poco dopo la marcia su Roma — non sarebbe stato adeguatamente discusso dagli specialisti, fa il paio con il recente rilievo di Tim Mason relativo al fatto che in Italia è mancata anche un’analoga discussione concettuale sui termini ‘modernità’ e ‘modernizzazione’: Moderno, modernità e modernizzazione: un montaggio, “Movimento operaio e socialista”, 20, 1987. Sono preziosi avvertimenti stranieri che dovrebbero indurci a maggiore cautela nell’uso di certi termini. Sta di fatto che il primo saggio sulla genesi del concetto di totalitarismo in Italia citato da Michaelis è quello del già
ricordato Petersen, ed è stato pubblicato in Germania nel 1978 in un volume di autori vari4.
Lo studioso del totalitarismo da cui prende le mosse Michaelis è Hannah Arendt, e ciò in virtù dell’influenza da lei esercitata sui principali contestatori italiani del carattere totalitario del fascismo mussoliniano: soprattutto Augusto Del Noce e Renzo De Felice. Par di capire che secondo Michaelis gli studi sul totalitarismo non costituiscano la parte più viva del pensiero arendtiano (ed è opinione da noi condivisa, soprattutto in riferimento agli scritti della nota politologa tedesca sulla polis aristotelica e sul momento consiliare delle rivoluzioni, scritti di cui gli arendtiani neoconservatori italiani sembrano essersi dimenticati: è il caso di Nicola Matteucci, il quale, nel sostenere sul “Giornale” che i veri eredi del giacobinismo sono oggi i khmeri rossi di Pol Pot, incensa ed utilizza Arendt in funzione di tale aberrante tesi). Michaelis ricorda infatti che la tesi della politologa tedesca — secondo cui hitlerismo e stalinismo rientrano nella categoria del totalitarismo, mentre ad essa non apparterrebbe il fascismo italiano — risale al momento più aspro della guerra fredda, quello della guerra di Corea, e, aggiungiamo noi, è stata funzionale alla demonizzazione delFUnione sovietica (meta ultima del totalitarismo sarebbe, secondo Arendt, la riduzione dell’individuo a “cane di Pavlov”, ubbidiente ai riflessi condizionati).
Arendt separò dunque il fascismo dal nazionalsocialismo e, mentre abbinava l’hitle- rismo allo stalinismo, avvicinò il regime mussoliniano alle antiquate dittature militari di Romania, Polonia e Spagna; fece terminare il movimento fascista con la conquista del potere e la subalternità del Pnf allo stato; sottolineò la mitezza della repressione
4 Jan Petersen, Die Entstehung des Totalitarismusbegriffs in Italien, in Manfred Funke (a cura di), Totalitarismus. Ein Studien-Reader zur Herrschaftsanalyse moderner Diktaturen, Düsseldorf, 1978.
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mussoliniana, l’assenza in essa di anticlericalismo e anticristianesimo, la rinuncia del regime fascista all’assoggettamento dell’esercito (mentre in Germania e nell’Urss esercito e stato, per esempio, sarebbero stati trasformati in funzioni del movimento, sempre allo scopo di ridurre l’uomo a cane di Pavlov). Solo dopo il 1938 sarebbero comparsi nel regime fascista, ma soprattutto per imitazione di quello nazista, dei tratti totalitari. Tutto questo non convince per nulla Mi- chaelis, a partire da quei tardivi tratti totalitari che, egli obietta, non potendo cadere dal cielo, dovevano essere stati potenzialmente presenti anche prima. Ma soprattutto Michaelis dimostra una assai più perspicua conoscenza dell’Italia fascista, confutando le affermazioni-chiave di Arendt e ricordando che il fascismo non si accontentò della conquista dello stato, ma anelò alla creazione di un’Europa fascista e di un “uomo nuovo”, cercando di disporre della totalità della vita umana, e precisando che, al di là dei patteggiamenti tattici con la chiesa cattolica, esso fu anticlericale e, cosa ancor più significativa, anticristiano e tendente all’affermazione del proprio valore universale. Michaelis conferma quindi il giudizio che nel 1971 Martin Jànicke diede dell’interpretazione arendtiana del totalitarismo, da lui giudicata una tendenziosa demonizzazione5. E tra le numerose adesioni italiane alla suddetta interpretazione arendtiana il collaboratore di QuF sceglie, come la più degna di riscontro critico, quella di Renzo De Felice, ossia del “principale studioso italiano del fascismo”. Ma lo fa per sottoporla a quella che forse, tra tutte le pur numerose conte- stazioni subite dallo storico reatino, è la più efficace ed insidiosa, soprattutto perché proveniente da un osservatore straniero ed estraneo alle controversie storiografiche specificamente italiane.
Dire De Felice significa dire la dittatura di Mussolini vista come “vecchio tradizionale regime” in uniforme di partito; ovvero significa dire contrasto tra fascismo-movimento e fascismo-regime, con le vecchie élites che svuotarono il fascismo del suo rivoluzionari- smo e lo usarono. Proprio come Arendt, De Felice giudica quello fascista come un regime autoritario di massa almeno fino al 1938, anno dopo il quale secondo lui le tendenze totalitarie comparvero, ma restarono limitate. In contrasto con il suo amico Del Noce (“zu seinem Freunde Del Noce”) De Felice ammette un sia pur ridottissimo comune denominatore tra fascismo e hitlerismo, rappresentato in negativo dalle istituzioni e dalle forme culturali respinte da entrambi. Ma se si passa alla visione in positivo, la differenza tra i due fascismi è sentita da De Felice come enorme, a partire dalla esclusivamente germanica dottrina razzista, quasi in contrapposizione alla quale emerge nel fascismo l’anelito alla creazione dell’ “uomo nuovo” e per continuare con il contrasto tra il porsi di Mussolini come figura carismatica insostituibile e il nascondersi di Hitler dietro il rituale di partito per facilitare la propria successione. Sarebbero addirittura antitetiche le prospettive dei due regimi, fondata quella italiana sull’idea del progresso, e quella tedesca sulla sua negazione.
Le confutazioni di Michaelis fanno leva soprattutto sulle gravi contraddizioni nelle quali nelle sue diverse opere (diverse anche per taglio e finalità) è incorso De Felice, e culminano nella contestazione del concetto di totalitarismo usato dallo storico italiano, un concetto, scrive Michaelis, confuso ed unilaterale, che fin dagli anni sessanta è messo in dubbio anche da autori non marxisti. Ü8 Felice, inoltre, poco conosce il prezioso originario concetto italiano di totalitarismo e nelle comparazioni è sovente indotto
5 Martin Jànicke, Totalitare Herrschaft. Anatomie einespolitischen Begriffes, Berlin, 1971.
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all’errore dalla sua non piena padronanza del materiale tedesco e russo. In una macroscopica contraddizione — afferma ancora Michaelis — cade poi De Felice quando da una parte afferma che il compromesso con la vecchia classe dominante ha costretto Mussolini ad accontentarsi fino al 1938 di “modifiche in senso autoritario” e dall’altra traccia una netta linea divisoria tra il regime fascista e i sistemi autoritari, non miranti come il primo alla mobilitazione delle masse e alla creazione di un uomo nuovo, per cui nemmeno la dittatura di Franco in Spagna è assimilabile al regime fascista italiano.
Forse per sfuggire alla contraddizione, sembra dire Michaelis, De Felice ricorre al concetto di “democrazia totalitaria” di Tal- mon e parla di totalitarismo di sinistra. Ma è corretto parlare di totalitarismo di sinistra nel senso di Talmon a proposito del regime fascista? Parrebbe di no, perché Talmon assegna al totalitarismo di sinistra una filosofia basata sull’uomo, l’individuo e la ragione, e al totalitarismo di destra, invece, una filosofia basata su categorie organiciste e razziste6. Inoltre, secondo Talmon il totalitarismo di sinistra tende a proporre valori universali prodotti dalla forza unificante della ragione, mentre il totalitarismo di destra nega l’esistenza di valori universali, e rappresenta anzi una forma di pragmatismo ravvivata dal mito. E ancora: il totalitarismo di sinistra crede nella perfettibilità dell’uomo e quindi usa solo temporaneamente la coercizione, mentre il totalitarismo di destra caldeggia una coercizione perenne a difesa dell’ordine. Quello che per Talmon è il totalitarismo di destra corrisponde al fasci
smo e al nazismo, entrambi dichiaratamente ostili ai principi del 1789. Ancora: De Felice parla di carattere di sinistra del primo fascismo, appoggiandosi alla presunta realtà dei “ceti medi emergenti” , ma molti studiosi hanno confutato quell’ ‘emergenza’.
Anche in riferimento ai due movimenti e alle persone dei due dittatori, Michaelis riscontra in De Felice gravi contraddizioni. Si ritorcono contro di lui quasi tutti gli argomenti usati per differenziare i due movimenti: ‘“ Dominio del partito’ ha voluto dire nel Terzo Reich esattamente la stessa cosa che in Italia, ossia il primato del duce del partito rispetto al capo del governo”; anche il partito nazista, come quello fascista, si affiancò allo stato, e non lo sottomise, e in Germania come in Italia partito e stato furono strumenti in mano alla suprema istanza: il duce (e già dal 1922 Hitler era dell’opinione che il partito dovesse sparire). Certo la questione ebraica non ha giocato in Italia un ruolo paragonabile a quello che essa giocò in Germania, tuttavia anche prima dell’Asse c’è stato un razzismo fascista estremamente aggressivo in Africa. Contrariamente a quanto affermato da De Felice (“uomo nuovo” fascista contro 1’... uomo antico nazista), anche il fascismo ha guardato indietro, ossia a Roma antica, e anche Hitler voleva l’uomo nuovo. E l’esercito non fu mai sottomesso neanche in Germania. Del tutto fuorviante è poi la tesi dei diversi ruoli della figura del capo. Hitler presuppose non meno di Mussolini la propria insostituibilità, ed affermò di dover realizzare tutto nel corso della sua vita.
Alessandro Roveri
Cfr. Jacob L. Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, Bologna, Il Mulino, 1977.6
S to r ia e s to r ia d e llo sp o r t C on tribu ti a una d iscu ssion e
Con gli interventi che qui presentiamo, si conclude il dibattito sulla storia del fenomeno sportivo nell’età contemporanea, aperto dall’articolo di Stefano Pivato (Le pigrizie dello storico. Lo sport fra ideologia, storia e rimozioni, “Italia contemporanea”, 1989, n. 174) e proseguito con gli interventi di Antonio Papa, Pierre Lanfranchi, Sandro Portelli, Lauro Rossi e Tony Mason ospitati sul n. 176. Intervengono in questo numero Sergio Giuntini, docente di Storia e diritto sportivo presso la Civica scuola per animatori sportivi del Comune di Milano; Riccardo Grozio, presidente del Circolo di documentazione e studi sportologici Sportopolis di Genova; Gaetano Bonetto, ricercatore presso il Dipartimento di culture comparate dell’università dell’Aquila; Guido Panico, ricercatore presso il Dipartimento di scienze storiche e sociali dell’università di Salerno. A questi contributi, alcuni dei quali di carattere metodologico ed altri centrati sulla realtà italiana, si affianca una più ampia ricostruzione della storia dello sport in Francia ad opera di Pierre Arnaud, direttore del Centre de Recherche et d ’innovation sur le Sport, università di Lione.
Italia contemporanea”, giugno 1990, n. 179
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Storiografia dello sport in Italiadi Sergio Giuntini
L’istituzione di una cattedra di Storia sociale dello sport affidata al professor Antonio Papa presso l’università di Salerno rappresenta un primo traguardo raggiunto e nel contempo impone di stilare una scala delle priorità per lo sviluppo futuro. In particolare si tratta d’approntare un sistema integrato (locale-nazionale, pubblico-privato) d’agenzie culturali e di servizi di documentazione sulla storia dello sport, sottolineando la centralità della metodologia, delle fonti e la valenza interdisciplinare della nuova materia1.
Negletto e mortificato, in seno agli Isef2 l’insegnamento di Storia dell’educazione fisica e degli sport non ha mai sortito ricadute significative; di più esso sembra vivere un dualismo interno che non ne facilita la definizione. Vale a dire che la compresenza dell’educazione fisica, afferente all’area di studio della pedagogia, e degli sport, che per- tengono a quella delle scienze sociali, deter
mina ambiguità scientifiche ed incertezze metodologiche ormai croniche3. Dagli Isef al Coni il quadro non migliora di molto. Sostanzialmente sono due le strutture principali cui fare riferimento: la Fondazione Giulio Onesti4 e la Biblioteca nazionale dello sport, con una consistenza patrimoniale dichiarata, al 1984, di appena venticinquemila opere5.
Ci troviamo insomma all’anno zero o quasi; in una fase ‘costituente’ che necessita chiarezza concettuale e duttilità pragmatica. Intanto si deve riconoscere allo sport oggetto di storia la soggettività d’un fenomeno da comprendere e non più solo da spiegare: un processo sociale coestensivo all’intera vicenda umana6, il quale non può esser ricondotto ad una realtà o categoria univoca bensì abbisogna d’una molteplicità d’interpretazioni, l’interazione disciplinare mutuata dalla ‘nuova storia’.
Con una formula suggestiva questo ap-
1 Sulle tendenze e le prospettive della storiografia sportiva in Italia: Stefano Pivato, Le pigrizie dello storico. Lo sport fra ideologia, storia e rimozioni, “Italia contemporanea”, 1989, n. 3, pp. 17-27; Antonio Papa, Le domeniche di Clio. Origini e storie del football in Italia, “Belfagor”, 1988, n. 2, pp. 137-143.2 I ritardi culturali e il disagio vissuto dagli Isef sono stati analizzati da Giuseppe Refrigeri, Gli insegnanti di educazionefisica, “Riforma della scuola”, 1988, n. 3.3 Vedi G. Refrigeri, Radiografia scientifica della disciplina, “Itinerari di storia dell’educazione fisica e dello sport” , Bologna, Patron, 1987, pp. 87-98.4 Scopo della Fondazione Giulio Onesti è “promuovere ed attuare studi e ricerche, convegni e seminari ed ogni altra iniziativa tendente alla divulgazione, all’approfondimento e allo studio dei problemi dello sport”.5 Biblioteca sportiva nazionale. Roma “Catalogo” (Prefazione di Bruno Zauli), Roma, Coni, 1958, pp. 344; Biblioteca sportiva nazionale. Roma “Catalogo. Aggiornamenti” (Prefazione di B. Zauli), Roma, Coni, 1962, pp. 55.6 In tale direzione si muove il volume di Richard D. Mandell, Storia culturale dello sport, Roma-Bari, Laterza, 1989.
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proccio globale è stato qualificato col termine “sportologia” : intesa “non tanto come logia, dotata di un proprio statuto disciplinare, ma come conoscenza topica del fatto sport”7.
Di qui, nel concreto, va posta con forza l’assunzione di una peculiare metodologia della ricerca che, dalla storia locale riletta alla luce della squadra sportiva, spazi alla memoria orale, all’iconografia volante (manifesti, locandine, ecc.), ai più moderni mass media (cinema, radio-televisione), senza trascurare gli strumenti tradizionali: organi di stampa e pubblicazioni specializzate8.
Strettamente correlato al discorso metodologico è quello delle fonti. “La storia sportiva non ha né fonti istituzionali né archivi”9, ha affermato recentemente Papa e ciò è tanto più vero per il nostro paese, laddove, a ricostruire le origini dello sport in Italia, le carte conservate dall’Archivio centrale dello stato alla voce “Ginnastica, tiro a segno, nuoto, palestre e scherma. Ministero alla Pubblica istruzione (1860-1894)” assommano alla cifra complessiva di settantu- no buste!10 Una documentazione palesemente lacunosa, alla quale non può sostituirsi l’importante contributo recato negli ultimi anni dalla rivista “Lancillotto e Nau-
sica”11 o il pregevole, sebbene datato, repertorio curato da Virgilio Narducci nel 197112.
In tal senso meritano una citazione speciale alcune esperienze pilota che, giusto muovendo dal problema fonti, sembrano denunciare una positiva inversione di tendenza. Coordinato dalla professoressa Carmen Di Donna Prencipe è stato avviato, a partire dalla regione Emilia Romagna, un censimento nazionale della bibliografia sportiva antecedente il Novecento. A Genova il circolo culturale Sportopolis, analogamente ad una iniziativa già sperimentata con successo dall’amministrazione comunale di Carpi13, lavora ad un progetto di tradizione orale e memoria collettiva che, attraverso interviste e registrazioni su nastro, ripercorre la storia dello sport ligure14. In Lombardia l’Istituto lombardo per la storia del movimento di liberazione in Italia ha redatto un catalogo dei periodici sportivi presenti nelle biblioteche della regione15. A Brescia dal 1989 è attivato il ricchissimo archivio della Mille miglia. Parallelamente la medesima storia sportiva locale registra un salto di qualità, uscendo da quel limbo di mera produzione celebrativa e agiografica che l’aveva sino ad oggi connotata16. Resta inteso come gli
7 Mario Flamigni - Riccardo Grozio, Sportologia, “Alfabeta”, 1987, n. 101.8 Cfr. Roland Renson, Storiografia dello sport: tradizioni e nuove prospettive, “Itinerari di storia dell’educazione fisica e dello sport”, Bologna, Patron, 1987, pp. 77-85.9 Silvestro Serra, Laurea in pallone, “Panorama”, 18 giugno 1989, pp. 188.10 Vincenzo Fannini - Lauro Rossi, Scaffali pieni di buste vuote. Le fon ti introvabili di una storia da scrivere, “Lancillotto e Nausica”, 1988, n. 1, pp. 36-38.11 “Lancillotto e Nausica. Critica e storia dello sport” , Pellicani, 1984, n. 1.12 Opere di educazione fisica sport e giuoco. Repertorio bibliografico dal 1870 al 1971 a cura di Virgilio Narducci, Roma, Centro didattico nazionale per l’educazione fisica e sportiva, 1971.13 “Dorando Pietri tra mito e storia” a cura di Luciana Nora della Sezione etnografica del Museo civico di Carpi, Carpi, Comune di Carpi, 1985.14 “Sportopolis notizie” , n. 2, 1989.15 Comprensivo di 646 titoli il catalogo compilato nel 1987 è strutturato per grandi aree sportive: Aviazione, Stampa sportiva, Basket, Calcio, Automobilismo, Vela, Alpinismo ed escursionismo, Sport e fascismo, Caccia e pesca sportiva, Giochi olimpici, Tiro a segno e a volo, Ciclismo, Atletica leggera, Pugilato, Ippica e sport equestri, Moto- ciclismo, Legislazione enti ed istituzioni sportive, Motonautica, Ginnastica, Bocce, Sci e sport invernali, Tennis, Canottaggio, Medicina dello sport, Educazione fisica e sport nella scuola, Nuoto, Scherma, Ping pong.16 Segnaliamo: Cento anni di vita della Società ginnastica ligure C. Colombo a cura di Edilio Pareto, Genova, Stabilimento arti grafiche, 1964; Bruno Viviano, Società Ginnastica Milanese Forza e Coraggio 1870-1970, Milano,
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esempi addotti non esauriscano un panorama mosso e allo statu nascenti17, che cerca di colmare il ritardo ‘storico’ accumulato nei confronti di Francia, Gran Bretagna, Germania, Stati Uniti e alle nazioni dell’Est europeo. Semmai il rischio anche in questo ambito è quello del particolarismo di ‘scuola’ e della scarsa circolazione delle informazioni che minacciano di compromettere una fase genetica estremamente promettente. Coniugando piano concettuale e pragmatico l’idea comune attorno alla quale riunire energie così sparse e volontaristiche potrebbe forse, allora, esser quella di un Museo italiano dello sport18; una provocazione, certo — riflettendo sul drammatico degrado museale della penisola —, ma anche una esigenza avvertita per affermare il valore di ‘bene culturale’ permanente, e non solo d’immediato consumo, dello sport. Soprattutto però qualcosa d’assai diverso da una precoce ‘museificazione’ burocratica e im- balsamatrice della nuova disciplina, al con
trario una verifica sul campo del metodo storiografico e della trasversalità delle fonti19.
Il modello funzionale a cui richiamarsi è quello del Musee du Sport inaugurato allo Stadio del parco dei Principi di Parigi il 3 febbraio 1988. Schematicamente ad esso farebbero capo un archivio della documentazione scritta suddiviso nei rami librario, dei periodici, dei manoscritti e autografi (di grandi scrittori di sport, dei pionieri dell’educazione fisica, dei campioni sportivi) e un archivio sonoro; un dipartimento audiovisivo ordinato secondo i settori del film documentario, del film-fiction e televisivo; una terza sezione adibita all’evoluzione dei materiali, dell’abbigliamento e degli strumenti sportivi, e infine un settore dell’immagine iconografica per la conservazione di foto, affiches, volantini e gadgets sportivi, bandiere, medaglie, diplomi, stampe, quadri, francobolli, figurine, memorabilia.
Come emerge chiaramente questa ipotesi
Galli e Thierri, 1970; Nel nostro futuro cento anni di gloria a cura di Alfredo Berra, Oscar Eleni, Giorgio Reineri, Milano, Edb Libri, 1982; 1901-1981. Società Ginnastica Educativa Sempre Avanti a cura di Rossella Bignami, Lidia Testori, Bologna, Edizioni Arci, 1981; Mario Reguzzoni, Società Ginnastica e Scherma del Panaro. Un secolo di vita, edito con il contributo dell’amministrazione comunale di Modena, 1970; Alessandro Portelli, Muscoli d ’acciaio. Forza lavoro e passione sportiva nella Terni operaia, in “Lancillotto e Nausica”, n. 3, 1987; Luciano Moia, Gentiluomini e federali. Il faticoso avvio del fascismo a Novara (1922-1926), “Lancillotto e Nausica”, n. 1, 1988; Mario Gandini (a cura di), Un secolo di ginnastica e di sport a S. Giovanni in Persiceto, Amministrazione comunale di S. Giovanni in Persiceto, 1986; Gabriella Giovannetti, Un fiume, una città, la Battellieri Colombo, Pavia, 1985; Guido Panico, Dai salotti alle pelouses: le origini del football a Napoli, “Quaderni di Nord-Sud”, n. 1-2, 1988; Sergio Giuntini, La donna e lo sport in Lombardia durante il fascismo, in Atti del convegno “Donna lombarda 1860-1945”, Milano, 12-13-14 aprile 1989; Id., L ’associazionismo sportivo: la società ginnastica “La Patria”, in Atti del convegno “Alfredo Bertesi e la società carpigiana del suo tempo”, Carpi, 25-26-27 gennaio 1990.17 Tra le altre iniziative meritorie (seppur relativamente alla stampa sportiva periodica corrente) è il catalogo delle riviste di sport: “Sport in rivista”, supplemento a “La Rivisteria” , 1986, n. 9.18 Musei dello sport esistono a Parigi, Mosca, Leningrado, Budapest, Kiev, Los Angeles, Springfield, Losanna (del Ciò), ecc. Nel 1985 (Losanna 27-29 settembre) si è tenuta la prima riunione mondiale dei musei dello sport con la partecipazione di ottantaquattro delegati di trentasei nazioni. A fronte di questi dati i ritardi del nostro paese risultano ancora più evidenti, e denunciano il disinteresse delle pubbliche istituzioni per un patrimonio che, ha dichiarato il ministro dello Sport francese inaugurando il Museo del parco dei Principi, permette di “allineare sullo stesso piano sport, cultura e tradizione”.19 Una prova delle potenzialità insite in questo approccio è offerta dalla mostra “L’uomo a due ruote” (curata per la ricerca storica da Giuseppe Genazzini, Ettore Manacorda, Bruno Rizzo), allestita a Milano dal 22 novembre 1987 al 27 marzo 1988 ed oggi itinerante per molte realtà del paese.
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di Museo dello sport italiano sintetizza gli indirizzi di fondo che fanno da cornice all’intero contributo. E in definitiva non si vuole inventare l’ennesima sub specie autonoma di storia sociale o imporre moduli teo
rici precostituiti, ma attribuire allo sport quella dignità storica che, inconsciamente, il suo peso nella società gli ha già riconosciuto.
Sergio Giuntini
La ‘sporologia’ tra antropologia e storiadi Riccardo Grozio
La scarsissima presenza di titoli all’interno del ‘soggetto’ sport testimonia ampiamente della posizione occupata dallo sport nell’ambito della consueta partizione dei saperi. Inoltre, la eterogeneità ed accidentalità che accomunano il manuale al libro di memorie, il testo di medicina al saggio sociologico evidenzia, ancor più, la condizione di marginalità assegnatagli.
Tale premessa serve a connettere le problematiche inerenti la storia dello sport al più ampio alveo di un complessivo ‘sapere di sport’, che, seppur prevalentemente ancor sotterraneo, sta comunque affermando la propria identità in questi ultimi anni. Dal punto di vista della produzione dei saperi, poi, paradigmatica è la mancata dialettica, almeno nel nostro paese, tra istituzioni sportive e istituzioni culturali, che rimangono arroccate nella propria unilateralità: sapere acritico e celebrativo, da un lato, sapere ipercritico e colonizzante, dall’altro.
Solo un approccio interdisciplinare e comprendente, vicino all’ ‘oggetto’, ma nel contempo affrancato dalle istituzioni sportive, può consentire una effettiva conoscenza del ‘soggetto’ sport. Occorre sempre tenere ben presente ciò che affermò Marc Augè ne II calcio e la folla (“Prometeo” , 1973, n. 1, p. 48): “L’antropologia religiosa ha conseguito uno statuto scientifico da quando non è più stata monopolio dei missionari o di altri
‘professionisti della religione’: è tempo, perciò, che la sociologia dello sport si affranchi dalle colonne dei quotidiani sportivi. Quale che sia il rispetto per i ministri del culto, per i cronisti sportivi o per gli arbitri di calcio, bisogna ammettere che essi fanno parte dell’oggetto di studio, e, quindi, non possono essere dei buoni osservatori. Con ciò non si vuol negare il fatto che il calore di un’esperienza intima o l’emozione fuggente legata ad un ricordo personale non possano servire, in queste materie, a intuire prima e a comprendere poi la forza dell’efficacia simbolica” .
Proprio a partire da tali tematiche si è dipanato il dibattito maturato, non solo in Italia, ma anche in altri paesi europei, negli anni ottanta. Interpretabili nel senso della ricerca di una metodologia, in particolare tre convegni, Sapere di sport (a cura di Stefano Jacomuzzi, Milano, Guanda, 1983), Lo sport tra natura e cultura (a cura di Massimo Canevacci - Vincenzo Padiglione - Maurizio Panunzio, Napoli, Guida, 1984), Sport: spettacolo o rito? (numero monografico di “Lancillotto e Nausica” , 1987, n. 1), hanno rappresentato un momento assai significativo della riflessione, in direzione del superamento delle dicotomie tra sapere e sport, soggetto e oggetto. Del resto, su questo nuovo punto di vista ha influito non poco la ‘torsione’ concettuale operata negli anni ottanta, che, mettendo in discussione
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modelli utilitaristici e funzionalistici di varia natura (economicistici, biologici, ecc.) e ispirazione (marxisti, liberali, ecc.), ha consentito l’emergenza di soggetti ‘deboli’, quali lo sport, all’interno del sapere. Ridotto in precedenza a mera sovrastruttura ed epifenomeno, lo sport, come altri fatti sociali legati più al simbolico che al produttivo, ha acquisito una sua autonomia teorica, che significa, da un lato, riconoscimento del suo valore socioculturale, dall’altro, la necessità di una conoscenza specifica che consenta di coglierne le strutture più profonde.
Tale nuovo sapere di sport, già designato, non senza un certo intento provocato- rio, “sportologia” (Mario Flamigni - Riccardo Grozio, Sportologia, “Alfabeta” , n. 101, ottobre 1987, pp. 25-27), ricopre perlomeno tre significati, che corrispondono ad altrettanti punti di vista, ovvero a tre momenti di un medesimo processo circolare. A seconda di come si dispongono spazialmente le singole discipline, si può avere un sapere esterno, esterno-interno, interno.
Il ‘sapere esterno’ è costituito da un approccio pluridisciplinare che affianca, l’una accanto all’altra, le diverse materie, senza che interagiscano fra loro. Ciò che congiunge tanti saperi paralleli è solo l’oggetto comune sport, mentre estrinseci rimangono i punti di vista. L’ ‘incrocio esterno-interno’, rappresentato dalla interazione dei saperi, allude a quello scambio mutuale che consente, attraverso la circolazione di modelli e paradigmi, la messa in discussione di alcune convenzioni disciplinari. È il topos delle controversie metodologiche. La storia mette in discussione la sociologia, l’antropologia la storia, la linguistica l’antropologia, la storia la linguistica, in un continuo rimando tra le diverse discipline. Il ‘sapere interno circolare’ parte dal riconoscimento dello sport come fatto sociale totale che abbisogna di un approccio fenomenologico che consenta di cogliere, al di là di tutte le
spiegazioni possibili (fisiologiche, psicologiche, sociologiche, economiche, linguistiche, ecc.), quel quid unico e irriducibile che contiene: il ludico-agonale.
Si disvelerebbe, allora, una storia quasi immobile che attraversa l’intera civiltà occidentale, laddove ai greci spetta la prima codifica del ludico-agonale, inteso non solo come metafora, ma come struttura portante dell’Occidente stesso. Né deve stupirci l’incomprensione di quello Sciah di Persia che, visitando l’Inghilterra, rinunziò — come sottolineato da Johan Huizinga in Homo Ludens (Torino, Einaudi, 1973, p. 59) — ad assistere alle corse con la motivazione “che egli sapeva benissimo che un cavallo corre più dell’altro” . Il fatto è che, pari- menti alla storia stessa, lo sport è una vicenda intrinsecamente connessa alla civiltà occidentale, che solitamente è incline a raccontarsi in termini agonistici, attraverso la seriale elencazione delle vittorie e delle sconfitte, proprio come negli almanacchi sportivi. Il pareggio, del resto, assimilato dal sociologo Duffy Daugherty (Marshall Sahlins, Cultura e utilità, Milano, Bompiani, 1982, p. 51) all’incesto — è come baciare la propria sorella —, non è previsto all’interno dei nostri giochi competitivi ‘disgiuntivi1 — quelli rituali sono al contrario congiuntivi —, così come non è previsto all’interno del nostro concetto di storia che si costituisce proprio a partire dalla differenza tra vinti e vincitori. Il sapere circolare della sportologia si trasforma quindi in circolazione del sapere, portandoci così al di là dello sport stesso, ad interrogativi globali che riguardano l’intera nostra conoscenza.
Si deve comunque tenere presente che, dal punto di vista della produzione dei saperi, esiste, accanto a quello legato alle istituzioni accademico-culturali, un sapere ‘interno’, direttamente connesso alla istituzione sportiva. Il che complica certamente vieppiù le cose, giacché introduce un’ulteriore variabile
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nella già pur complicata dialettica tra le differenti discipline. Né ciò dovrà essere considerato un inutile esercizio epistemologico, in quanto, al contrario, e soprattutto per quel che concerne la storia, ci troviamo di fronte ad una tematica centrale, che pone non poche domande. Quale il ruolo delle storie delle federazioni e delle associazioni, delle memorie dei campioni, degli almanacchi e della stampa sportiva? Debbono essere considerate fonti, come le altre, oppure, proprio perché costituiscono il tentativo di raccontarsi da parte dello sport stesso, vanno interpretate diversamente? A tali interrogativi non si può, al momento attuale del dibattito, che rispondere formulando altre domande. Esiste una storia ‘fattuale’ dello sport che non sia quella tramandataci dalla stessa istituzio
ne sportiva? Se esiste, quali sono i suoi paradigmi? E, infine, è possibile una storia delle ‘storie interne’ dello sport? E quelle esterne quante e quali sono?
Se dal punto di vista stilistico avremmo dovuto concludere con questa sequenza di “interrogative”, ci pare comunque opportuno, proprio per non farci irretire dalla grammatica e dalla retorica, sottolineare che due sono comunque oggi i percorsi che si possono intravedere: uno, antropologico, che, attraverso le storie interne allo sport, consente di cogliere alcune invarianti deH’immagina- rio ludico-agonale, l’altro, storico, costituito da una molteplicità di storie, giocate su differenti estensioni spaziali e temporali.
Riccardo Grozio
Dalla ginnastica allo sportdi Gaetano Bonetta
Non voler attribuire alla storia dei fenomeni sportivi quei tre quarti di nobiltà sufficienti per farla assurgere a dignità storiografica non è solo questione di pigrizia, ma soprattutto di senescenza culturale. Infatti, la discriminazione che oggi patisce la storia dello sport, inteso nella sua accezione non sporti- stica ma ideologica, politica e socioculturale, da un lato è il risultato di un certo misoneismo pervicacemente ostentato dalla pur differenziata e magmatica storiografia eticopolitica, da un altro lato, è l’espressione della ‘deliberata’ opera di protezione della categoria culturale, prima ancora che storiografica, del politico formale come luogo privilegiato della memoria storica. È superfluo ricordare come questa assunzione ‘arbitraria’, benché storicamente ‘legittima’ e comprensibile, sia oltremodo ideologizzata non tanto
per una diretta filiazione partitica — come accadeva qualche tempo fa — quanto per la necessità che il sapere storico politico ha di autoriprodursi, ossia per gli interessi che le vestali di quel sapere hanno nel riprodurre il culto che amministrano. Non è poi oltraggioso ricordare come la ‘società degli storici’ che più conta, che appronta la ‘cultura storica di massa’, e che coincide con quella che ha la maggiore audience massmediale, viva per se stessa, intenta a confezionare ‘merci’ piuttosto che a produrre cultura, sempre alla ricerca di ‘nuove’ approvazioni e legittimazioni politiche, e raramente è disposta ad avventure epistemologiche e culturali con il fine di aprire nuovi campi alla conoscenza storica.
Se al contrario la storia dello sport non rimane vittima di ostracismi e stigmatizzazio
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ni di ‘inferiorità’ storiografica, non si fa opera di filoneismo affermando che essa può rappresentare una fonte per l’analisi delle ‘costruzioni’ delle nazioni prima e delle società complesse e di massa dopo, sia nella loro variante totalitaria che in quella democratica. Potranno essere lumeggiati non solo i meccanismi della riproduzione del consenso e gli aspetti più macroscopici della nazionalizzazione delle masse, ma anche, in particolare, i percorsi socioculturali per la formazione dell’identità individuale e nazionale, dell’Io e del Super Io collettivi, e il sistema di valori delle mentalità diffuse alla base della quotidianità di massa e delle relazioni sociali. Difatti l’analisi delle tecniche della socializzazione e della normazione del corpo, incanalate poi nella standardizzazione del tempo libero, sono i luoghi del politico informale, ovvero sono i luoghi ove il politico non è verbalizzato e non si verbalizza secondo il linguaggio formale. Come tale l’evento sportivo, assumendo ben altre valenze rispetto a quelle sportistiche, diventa l’espressione di ritorno di ‘investimenti’ non solo politici tout court ma educativi, in special modo igienici, sanitari, ideoculturali, ‘morali’ nella più piena accezione antropologica.
Quanto detto risulta con tutta evidenza nel periodo di formazione della nostra società nazionale, nei decenni di consolidamento politico ed economico del regno d’Italia, quando tutta la migliore intellettualità del paese nel progettare un’ ‘educazione totale’ per l’italiano nuovo, sotto la spinta dello scientismo positivistico, materialistico, evoluzionistico e darwiniano, assegna alla cura del corpo ed all’uso sociale del corpo una funzione primaria. Lo sport, consapevole attività motoria regolamentata ludicamente con finalità fisiche, psicologiche, etiche, ricreative e fi- nanco religiose, è infatti prassi educativa, è socializzazione fisica e culturale: come tale il suo rapporto con la sfera politica della vita nazionale è diretto e visibilissimo.
Lo sport così inteso ha una storia che ri
percorre più o meno parallelamente quella degli stati nazionali. Come è noto, la prima formalizzazione dell’attività motoria con finalità ludico e fisico-educative fu la ginnastica: di questa, della sua funzione sociale e politica si prese a trattare sempre più insistentemente nella seconda metà del Settecento. Saggisti politici, scrittori di argomenti scolastici ed educativi, Filangieri, Genovesi, Cuoco, numerosi scrittori giacobini illustrarono i benefici sicuri di un armonioso e simultaneo sviluppo intellettuale e fisico e indicarono per grandi linee i principi di una prima educazione motoria ed igienica.
Era questo il riflesso più chiaro dell’avvento di una nuova era culturale, caratterizzata dalla ‘scoperta’ del corpo. È in questo torno di tempo infatti che il corpo conclude la sua ‘rincorsa’ dell’anima, della sfera intellettuale, dell’elemento morale: perde i tratti dell’ ‘inferiorità’ e acquista quelli della pari- teticità. Gli ideologues, e Pierre-Jean Georges e Cabanis anzitutto (cfr. Rapports du physique et du moral de l’hômme, 1802), indicano i nuovi rapporti fra il fisico ed il morale dell’uomo. L’individuo non è più concepito come la semplice sintesi fra un corpo sostanzialmente inerte e un’anima o principio attivo (di cui avevano parlato la tradizione filosofica e scientifica), oppure come quell’organismo dinamico che ha tutte le funzioni sensorio-motorie comandate dal centro cerebrale-cosciente. Il corpo ha ora una vita ‘soggettiva’, come tale autonoma; esso non ‘obbedisce’ solamente ma è in grado di produrre sensibilità e pulsioni, in grado di influenzare attraverso i centri nervosi le funzioni di altri organi, compreso il cervello e quindi la produzione di idee a cui quest’ultimo è adibito (cfr. Rapports du physique et du moral de l’hômme, 1802).
Perduta la vecchia subalternità, acquisito un ruolo protagonistico nella determinazione dell’individuo, il corpo non può non caricarsi di compiti decisivi per il destino morale e sociale dei membri della società. In parti
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colare non può non essere totalmente rivalutato in sede educativa. Così, quando emerge drammaticamente il malessere fisico della popolazione, ecco l’unanime auspicio, l’universale utopia educativa di una ‘rivoluzione’ pedagogica al servizio della rigenerazione sociale, economica e politica e tutta fondata sulla inscindibile educazione intellettuale e fisica.
Johann Basedow, nel suo “Philantropi- num”, promuove attività fisiche ludiche che oltre alla “compostezza” , alla “intrepidezza” mirano al pieno dispiegamento di tutte le qualità tipiche dell’uomo virtuoso (cfr. Manuel éleméntaire on recueil méthodique des connaissances nécessaires à l ’instruction de la jeunesse, Altona, 1774). Secondo Johann C.F. Guts Muthus (Gymnastik für die Jugend, Schnepfenthal, 1793), lo sviluppo del corpo è indispensabile a quello morale ed intellettuale: l’educazione del corpo è indispensabile cioè per il “perfezionamento” dell’uomo, per il raggiungimento delle forme più elevate di civilizzazione. Enrico Pe- stalozzi, in un orizzonte utilitaristico rivaluta le valenze educative del corpo infantile e, nel quadro di una corretta educazione spirituale, delineata nel suo Come Gertrude educa i suoi figli, 1801, prescrive la conoscenza e la cura fisica per porre un freno ad ogni tendenza “dissolutrice” dell’esistenza individuale. Friedrich Jahn, radicato nella reazione nazionalistica successiva alla sconfitta di Jena, animato da patriottismo fichtiano, ‘inventa’ con il suo Deutsches Volkstum, Lubecca, 1810, l’esercizio ginnastico politi- co-militare al servizio della rivincita del popolo tedesco. Bandito ogni perfezionismo estetico egli si preoccupa di uniformare ad uno stile di vita virile, di creare un costume di vita comunitario con rigide norme spirituali e con quotidiane serie di esercizi liberi e di giuochi fisici. La sua creatura, il turnen, che sostituisce la gymnastik di estrazione greco-romana, diventa il motore essenziale per la formazione morale di quei giovani che
devono preparare la nuova patria tedesca. Per Adolf Spiess la ginnastica è fondamentalmente mezzo etico di educazione, e come tale deve essere utilizzata in ogni luogo formativo (cfr. Die Lehre der Turnkunst, voi. IV, Bâle, 1840-1846). Per questa ragione essa deve avere sistematicità, deve farsi ordi- nativa, in una parola deve diventare disciplina scolastica, o meglio ancora procedimento educativo formalizzato. Ed è proprio alla ricerca di uno statuto disciplinare e di una storicamente pertinente funzione sociale della medesima disciplina che il movimento ginnastico e sportivo italiano si muove per tutto l’Ottocento e per i primi decenni del ventesimo secolo. Ricerca che si fa più complessa con l’Unità e si intensifica per tutta l’età liberale.
Già all’indomani del 1859 la migliore intellettualità del paese e le più sensibili ed avvertite coscienze pedagogiche nel porre mano al grande progetto della ‘costruzione’ della nazione italiana pedagogizzano il corpo ed indicano nell’educazione del corpo un percorso di sicura rinascita culturale e di trionfo e consolidamento delle nuove idealità.
La ginnastica dello svizzero Rudolf Ober- mann, sperimentata con un certo successo fin dagli anni trenta in Piemonte con finalità istruttive militari (cfr. Della ginnastica, I-VII, “Letture di famiglia”, 1844-1845), una volta fattasi educativa sotto la spinta della torinese Società ginnastica e dell’ ‘e- roe’ risorgimentale Ernesto Ricardi di Netro diventa la pedagogia ufficiale del corpo (cfr. Dell’educazione nazionale, Torino, 1875). La ginnastica educativa diviene cioè quella ordinata attività fisica in grado di garantire e di accrescere non solo la capacità muscolare degli individui, ma il loro temperamento, la loro moralità, e specialmente la loro fede negli ideali della patria. Ed essendo educativa deve, come sarà, essere parte costitutiva della scuola, del maggiore agente istituzionale della socializzazione. Man mano che la
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ginnastica penetra nella mentalità diffusa attraverso i gangli della relazione e della comunicazione sociale popolare, comune luogo culturale diventa quello che considera la ginnastica, integrata dal tiro a segno e dal canto corale, un elemento basilare e distintivo nella formazione stereotipica dell’italiano.
In virtù della sua spiccata valenza sociale la ginnastica educativa non sarà mai uguale a se stessa. Infatti, quando in Italia imperversa la questione sociale, quando è necessario controllare politicamente le dinamiche economiche e sociali, reprimere la turbolenza sociale, fronteggiare la devianza morale, ecco sorgere ed affermarsi una teoria ginnastica come espressa educazione del carattere. Prima in modo poco distinto, poi sempre più precisamente, e con Emilio Baumann in particolare, si arriva alla definizione della cosiddetta prospettiva psicocinetica (cfr. Il fine della ginnastica, Bologna, 1882; Psico- cinesia, ovvero l’arte di formare il carattere, Roma, 1890; Ginnastica e scienza, ovvero la ginnastica italiana e le scienze affini, Roma, 1910). Un nutrito gruppo di ginnasiarchi e di educatori, che hanno nella Società ginnastica di Bologna il loro punto di riferimento, in polemica con la “vetusta” scuola torinese, troppo “tedesca” , propongono un rinnovamento delle finalità ginnastiche consono allo sviluppo sociale della nazione. Per costoro, contro obiettivi educativi non più funzionali alla realtà del paese, occorre diversificare gli esercizi ginnastici per meglio curare e potenziare la sfera volitiva, la soggettività del cittadino. È questa una via obbligata: il progresso sociale va preparato formando l’uomo ed il suo carattere. È infatti opinione prevalente quella che vuole che il volontarismo ideologico, fatto principalmente di cultura lavorista e di etica nazionale, divenga il motore della società italiana.
Più tardi, quando era facile osservare lo scarso sviluppo ginnastico e quando anche l’indirizzo ‘bolognese’ sembrò ammantarsi
di retorica e di verbosità, non riuscendo a toccare i problemi di fondo dello stato fisico della popolazione, rappresentati dalla ‘incessante’ degenerazione della specie, parecchi furono quelli che si adoperarono per un nuovo rinnovamento ginnastico.
Sulla scia di un recupero fisiologico, anatomico, biologico, medico della ginnastica va prendendo corpo quella che verrà chiamata educazione fisica. In una prospettiva di rigenerazione eugenetica, auspicata incessantemente da ogni foglio d’informazione, dalla pubblicistica e dalla saggistica più varia, il movimento fisico “guidato” viene ora nutrito con nozioni igieniche che riguardano il complesso muscolare così come il suo sano mantenimento. Molti pensano che al raggiungimento di questo scopo serva poco la ginnastica tradizionale: occorre una più estesa e diversificata attività, occorrono i giuochi sportivi. Sull’esempio delle popolazioni anglosassoni, ora che in Italia crescono le agglomerazioni urbane e si acuiscono i problemi della salute pubblica, comprensiva di quella mentale, si rivendica da parte degli ambienti scientifici più accreditati l’introduzione nella scuola e la diffusione nei costumi sociali dei giuochi sportivi all’aria aperta. Si pensa che soltanto uscendo dal chiuso di una palestra, restituendo all’esercizio fisico il suo carattere ludico, facendone anche un momento di relazione sociale, si possa vincere quell’ostilità culturale cui si addebita il contenuto sviluppo della ginnastica. Il tutto naturalmente nell’ottica di un recupero di risorse umane per la ricchezza della nazione. A così alto compito educativo venne, altrettanto naturalmente, chiamato lo stato, con i suoi organi preposti, quelli ministeriali, il quale si pensava condividesse questa più moderna e sperimentata tecnica di ‘nazionalizzazione’ della socialità.
Retto fin dalla sua nascita da uomini della conservatrice scuola ‘torinese’ il ‘governo’ nazionale dell’educazione fisica non si mo
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strò affatto sensibile alla nuova accezione sociologica della ginnastica. Al ministero si preferì anzi restaurare la ginnastica eticomilitaristica e farne un addestramento premilitare ed un momento di esaltazione nazionalistica. L’intervento riuscì in pieno. La ginnastica ‘bellica’ nella sua formalizzazione venne ideologizzata secondo il montante nazionalismo dell’inizio del ventesimo secolo. Così la ginnastica nella realtà più comune continuò a essere non un momento di esercizio fisico bensì solo un’occasione di proclami ideologici e un modo per emotivizzare il consenso.
I giuochi sportivi finirono sotto il segno delle oramai decadenti Società ginnastiche e pian piano, con diverse, alterne e singolari
vicende, divennero momenti importanti del movimentismo cattolico e socialista, rappresentando non solo un’occasione di aggregazione ma anche il luogo di verbalizzazione e veicolizzazione ideologica.
Quella che abbiamo descritto è senz’altro la lunga alba dello sport italiano, la sua preistoria, che è anche la sua più chiara stagione educativa che fa apparire tutte le più profonde implicazioni ideologiche del fenomeno ginnastico sportivo. È da quella stagione che è necessario partire per risalire alle motivazioni di fondo che hanno sempre legittimato l’importanza socializzativa dell’ - ‘uso’ sociale ed ideologico dell’esercizio fisico.
Gaetano Bonetta
Quando gli italiani scoprirono il calciodi Guido Panico
“Il calcio in Italia si è ricominciato a giocarlo circa dieci o dodici anni or sono; i primi campionati italiani furono banditi nel 1896”. Così nel 1905 Luigi Bosisio, uno dei maggiori pionieri del calcio italiano, ricordava gli esordi del gioco nella penisola (cfr. L. Bosisio, Calcio, “Annuario sportivo 1903”, p. 426). Questa testimonianza contrasta con uno dei dati più rilevanti della memoria delle genti del calcio: la diffusissima retrospettiva italiana del football ricorda il 1898 e non il 1896 come data del primo torneo nazionale. Una contraddizione agevolmente spiegabile: nel 1898 si disputò il primo torneo sotto l’egida della neonata Federazione, la “Coppa federale” . Prima d’al- lora non erano mancati tornei con la partecipazione di squadre italiane e anche straniere; tra questi un campionato nazionale, vin
to nelle sue prime edizioni, quella del 1896 e del 1897, dal Genoa.
Si è di fronte a un equivoco in sé trascurabile, ma che rivela con chiarezza un limite di fondo di gran parte della storiografia italiana del football: le vicende del calcio restano inestricabilmente legate a quelle delle sue istituzioni. Il terreno culturale su cui nelle varie realtà della penisola germogliò e si diffuse il gioco sportivo resta sostanzialmente in ombra. Il come e il quando in Italia si imparò a giocare a pallone resta una questione aperta.
In effetti prima del 1898 e anche dopo questa data il nuovo gioco sportivo ebbe modo di farsi largo nei gusti di una parte della gioventù italiana, seguendo percorsi diffusivi assai vari, solo in parte riconducibili allo schema della colonizzazione inglese.
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Ma c’è di più. Le varie vicende del calcio dei pionieri, sebbene a un certo punto legate a quelle della Federazione italiana football, non si esauriscono certo in questa. In realtà nel 1898 la neonata Federazione riunì solo una parte di un movimento che si andava formando in modo puntiforme regione per regione. Inoltre il campionato nazionale e le altre manifestazioni organizzate dalla Fif non erano che episodi di una più ricca stagione agonistica.
Un primo dato che fornisce chiarimenti in questo senso è questo: nel 1905 le società federate erano in tutto quindici, concentrate in massima parte nelle regioni nordoccidentali. La “Società Virtus Juventusque” di Livorno era la più meridionale. Eppure il calcio nelle altre regioni, comprese quelle dell’estremo Sud, non era assente. Nel novembre del 1900 era stato fondato il “Palermo football club” (cfr. Palermo foot-ball club, Statuto, Palermo, 1913, p. 1). Il club, che tra l’altro non fu il primo esempio di società di calcio siciliana, rappresentò nella belle époque un’importante forza nel complessivo panorama del football dell’area mediterranea. La squadra partecipò a diversi tornei, soprattutto internazionali, ottenendo lusinghieri successi. A Bari e a Napoli un buon numero di studenti cominciò fin dagli ultimi anni dell’Ottocento a cimentarsi in gare regolate per grandi linee dalle norme dell’ “International Board”. Qui i primi veri e propri club non tardarono a venire. A Napoli nel 1905 fu fondato il “Napoli Fbc” (cfr. Gibus, Napoli Foot-Ball Club, “Il Giorno”, 30 aprile 1905) ad opera di un gruppetto di studenti, appartenenti alle più prestigiose élites professionali della città e destinati a svolgere una funzione di primo piano anche nelle successive vicende sportive. A Bari nel 1901 la fondazione del “Club foot ball challenge” (cfr. Gianni Antonucci, Bari 1908-1988. Ot- tant’anni, Bari, 1988, p. 9) chiamò a raccolta insieme alla comunità straniera residente in città i più intraprendenti tra gli studenti
della città borghese e mercantile. Nella stessa Calabria, dove effettivamente a lungo il calcio — come del resto qualsiasi altra attività sportiva — ebbe scarsissimo successo, nel 1906 fu fondato il “Boston Fbc” di Reggio con lo scopo di promuovere il nuovo gioco sportivo nella regione (cfr. Foot-ball, “Il Mattino”, 28-29 giugno 1906).
Ancora più vivace era il panorama delle altre regioni. Esperienze come quella della “Società podistica Lazio” fondata nel 1900 e che costituì il più importante punto di riferimento del calcio della capitale, sono a tutti note. Meno note sono le situazioni riscontrabili proprio nelle aree di più intensa e silenziosa diffusione del calcio. Ad esempio l’area veneto-friulana, dove già alla fine dell’Ottocento si assisteva, in un terreno culturale reso fertile dalle attività delle società sportive di tradizione squisitamente italiana, a una notevole e diffusa presenza del nuovo gioco. Analoghe considerazioni possono essere fatte per alcune grandi città del Nord della penisola e dello stesso Sud. A Milano, durante la belle époque, accanto ai club più noti, quelli destinati a recitare un ruolo di preminenza nelle maggiori vicende agonistiche nazionali e di riflesso nella retrospettiva d’occasione, vivevano una loro intensa stagione numerose squadre formate in massima parte, se non esclusivamente, da studenti.
Fornire dati precisi e attendibili sul complessivo movimento calcistico di questi primi anni del secolo è assai difficile. I sodalizi, che si andavano formando con grande spontaneità nelle grandi città italiane e anche in taluni medi e piccoli centri, ebbero il più delle volte vita assai breve, essendo legati assai spesso a una stagione della vita dei suoi protagonisti, quasi sempre studenti. Certo è che ovunque la diffusione del calcio avvenne in tempi relativamente brevi attraverso il moltiplicarsi di piccole esperienze associative. Ogni indagine fatta su singole città rivela l’esistenza, accanto ai club più noti, di decine di sodalizi minori. Si è di fronte a espe
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rienze minime, ma non minori, che assai raramente sono entrate nel patrimonio della diffusa memoria calcistica. Del vivace football milanese si celebrano con enfasi le vicende del Milan e dell’Internazionale, mentre assai rari sono i ricordi delle importanti esperienze associative studentesche, che promossero una capillare e sapiente cultura del gioco tra le classi borghesi. Allo stesso modo assai poco note sono le vicende della grande provincia padana, che pure fu la maggiore protagonista di questa nostra storia.
A maggior ragione quasi del tutto ignorate appaiono le storie sportive della provincia meridionale, sebbene non mancassero già agli inizi del Novecento esempi di una discreta diffusione del gioco. È il caso di Salerno. La cittadina campana era certamente alla periferia del movimento sportivo nazionale; scarse se non inesistenti le tradizioni sportive e ginnastiche ottocentesche. Eppure qui due o trecento giovani sportsmen diedero vita a ben tre club calcistici, formati esclusivamente da studenti liceali (cfr. Football club “Campania” , Statuto, Salerno, 1913, p. 5). In realtà qui, come altrove, il calcio si andava a inserire su un terreno culturale, certamente, come nel caso di Salerno, ristretto a una piccolissima parte della città, ma tuttavia non indifferente alle istanze di rinnovamento e di modernità provenienti dai recenti riti sportivi celebrati in Italia e in Europa.
La considerazione sui prerequisiti culturali nella diffusione dello sport risulta tanto più valida per città come Torino: la città di Amore e ginnastica, la città di Edmondo De Amicis, la città dove un diffuso e autorevole associazionismo già nel tardo Ottocento incoraggiava una notevole pratica di attività fisiche. Qui il calcio si cominciò a imparare già dagli anni ottanta. Nel giro di dieci anni entrò nei gusti e nelle competenze degli ambienti giovanili delle classi borghesi.
Si è fatto riferimento già al mondo stu
dentesco in merito alla diffusione del gioco. Torino e la sua squadra più nota, la Juventus, fondata nelle aule di un liceo, confermano questa indicazione. Certamente le scuole e in particolare i licei costituirono uno dei luoghi privilegiati per la diffusione del dialetto calcistico. È qui che si incontrarono e si scambiarono esperienze culturali le nuove generazioni delle élites del denaro e delle professioni, cresciute nelle nuove realtà urbane di fine secolo. È questo però un dato puramente generazionale: a sedici o diciotto anni si era, tra i ceti protagonisti di questa nostra storia, necessariamente studenti.
In realtà la scuola non è mai stata in Italia un soggetto sportivo. Anzi è questa una delle caratteristiche principali che differenzia la nascita e la diffusione degli sport in Italia rispetto ad altre realtà del vecchio continente. L’onomastica dei club calcistici, anche di quelli formati unicamente da studenti, lo dimostra ampiamente: inesistenti i riferimenti a nomi di scuole o di università. In questi anni di esordio del calcio non mancavano tornei, che opponevano squadre di vari licei, squadre organizzate in modo estemporaneo dagli studenti. Di questi episodi tuttavia non vi è traccia nelle memorie e nelle tradizioni dei licei: le loro bacheche non espongono trofei e coppe conquistati nei campi sportivi.
Non è qui dunque che bisogna cercare il luogo di promozione della cultura calcistica. Tanto meno tra i luoghi di lavoro: è escluso nell’onomastica dell’età delle origini ogni riferimento ad aziende o a categorie di lavoratori. L’attenzione va indirizzata piuttosto al tradizionale associazionismo sportivo, a quello ginnastico più di altri, e ad alcune esperienze della sociabilità, legate in parte al movimento sportivo e in parte a vere e proprie forme di incontro mondano.
Sul ruolo assunto dal mondo ginnastico nella promozione del calcio italiano ha già scritto Antonio Papa (cfr. Le domeniche di Clio. Origini e storie del football in Italia, “Belfagor”, 43, 31 marzo 1988, pp. 130-
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131). Recentemente Stefano Pivato è tornato a insistere sulla singolare funzione culturale, oltre che politica, dell’associazionismo ginnastico in regioni come la Romagna (cfr. Associazionismo sportivo e associazionismo politico nella Romagna di inizio Novecento, “Bollettino del museo del Risorgimento”, 1987-1988, pp. 168-193). È evidente che la componente nazionale della cultura sportiva italiana va ricercata in massima parte proprio in queste esperienze associative.
Le vicende del calcio confermano questo schema. Delle quindici squadre aderenti nel 1905 alla Fif sei erano espressione diretta delle società ginnastiche o ne erano collegate. Agli inizi del decennio successivo non meno del cinquanta per cento delle squadre aderenti alla Federazione italiana giuoco calcio, squadre che nel 1913 erano diventate cin- quantatrè, rivelano nell’onomastica un chiaro richiamo alle tradizioni italiane, a quelle evocate soprattutto dal mondo ginnastico. Nell’area padana e forse ancora di più in quella veneto-friulana la cultura patriottica e risorgimentale di ampia parte della borghesia, compresa quella dell’artigianato e della più minuta imprenditoria, ebbe riflessi nell’associazionismo sportivo. Qui il calcio divenne già alla fine dell’Ottocento una componente importante di riunioni sportive, che si svolgevano in un contesto di esercizi fisici e di manifestazioni civili capaci di attirare, come in una festa popolare, la gente comune.
All’interno del mondo ginnastico e delle sue manifestazioni si svilupparono le vicende della Pro Vercelli (cfr. F. Leale, Marcel, tira, gol! ovvero la storia minuta, sconosciuta, aneddotica della compagine in maglia bianca, Vercelli, 1988), la squadra di calcio che con il suo gioco e le sue vittorie segnò un momento di particolare fascino e importanza del calcio italiano di inizio secolo. Il club, espressione di una società ginnastica e che orgogliosamente rivendicava la sua origine, il suo carattere interamente italiano, attirò l’attenzione di una parte considerevole della popola
zione della laboriosa cittadina piemontese. La gran parte della popolazione maschile di età giovanile assisteva agli incontri per la conquista del primato in campionato disputati dalla squadra sul proprio terreno. Si è di fronte a un esempio, per l’Italia precoce, dell’identificazione culturale e sentimentale tra squadra sportiva e città.
Quello di Vercelli, sebbene presenti aspetti di notevole originalità non è che un caso. In realtà importanti contributi allo sviluppo del calcio vennero dal fervore ginnastico riscontrabile un po’ in tutto il Centro-nord della penisola. Seguendo le tracce dei pionieri del calcio si finisce quasi inevitabilmente per entrare in una palestra. A Roma, a Firenze, a Bologna, a Torino le vicende del calcio nascono su noti ceppi ginnastici. A Milano agli inizi del secolo decine e decine di società ginnastiche, lombarde e non, italiane e svizzere, partecipavano a varie manifestazioni ginnico-sporti- ve, che prevedevano nei loro folti programmi, tra l’altro, anche un torneo di calcio. Nel 1902 la Società ginnastica milanese Forza e Coraggio organizzò un importante concorso nazionale, che prevedeva diversi giochi sportivi. Tra questi un posto di grande rilievo spettò proprio al calcio, sebbene in una versione che per alcune norme si rivelava estranea alla cultura del gioco derivante dall’asso- ciation football. Era previsto, in caso di parità al termine degli incontri, l’assegnazione della vittoria alla squadra tecnicamente migliore e soprattutto più disciplinata. Concorso nazionale ginnastico. Regolamento tecnico per le gare e i giuochi, “Bollettino della Società ginnastica milanese ‘Forza e coraggio’ ”, 12 marzo 1902, p. 2. La derivazione di questa norma dalla cultura ginnastica è evidente. Era in contrasto netto con i criteri del- l’oggettività e della quantificazione dei risultati tipici dei giochi sportivi di ascendenza britannica.
Il rilievo dato al ruolo giocato dal mondo ginnastico in questa nostra storia non mette in discussione che il calcio sia stato importato
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in Italia dall’estero. È quasi superfluo ribadire che le tante ipotesi sull’origine nazionale di tanti sport moderni non hanno fondamento, sebbene costituiscano una parte importante delle tradizioni e della mitologia della diffusa cultura sportiva. Da ribadire piuttosto il fatto che l’originaria grammatica del calcio fu in alcuni casi prontamente tradotta in italiano. Le intelligenti riflessioni di Gianni Brera sulla nascita tutta padana del cosiddetto calcio all’italiana, sui suoi caratteri etnici e antropo- logici, pongono al proposito rilevanti questioni di storia sociale e culturale, che meriterebbero maggiore attenzione (cfr. Gianni Brera, Storia critica del calcio in Italia, Milano, 1975).
Più intimamente legata all’assunzione di modelli stranieri si rivela invece l’altra importante esperienza associativa, che favorì la scoperta del calcio in Italia: i circoli sportivi che sul finire dell’Ottocento radunavano nelle città maggiormente interessate da scambi commerciali di tipo internazionale significativi gruppi delle élites locali ed esponenti delle comunità straniere. Erano circoli che rivelavano immediatamente in una diffusa onomastica inglese snobistiche vocazioni internazionali. Il linguaggio degli sport costituiva per i tecnici dell’industria, per i piccoli e medi operatori economici stranieri, per i quadri medi dei corpi consolari una delle vie per entrare in contatto con gli italiani. Non è da dimenticare che si trattava in prevalenza di giovani uomini. Una proposta di scambio culturale assai bene accolta dalle élites borghesi delle città italiane, che celebravano nell’associazionismo sportivo un prestigioso leisure time dal forte sapore di modernità. Il calcio con il suo forte accento inglese entrava a pieno titolo in questo meccanismo. I suoi più numerosi alfieri non furono però gli inglesi. Questo per un semplice motivo: svizzeri, tedeschi, austriaci, belgi più degli inglesi costituirono in Italia, come in buona parte dell’Europa mediterranea, la più considerevole pattuglia di quadri tecnici e imprenditoriali qui operanti.
Tra le esperienze associative che maggiormente favorirono rincontro, fuori dal tempo del lavoro, tra giovani italiani e stranieri è da ricordare quella dei circoli nautici, che in città come Napoli ebbero una funzione determinante nella diffusione del calcio e anche di altri sport. In fondo, l’inizio della vita sportiva a Napoli coincide con l’apertura del primo circolo nautico nel 1889. Questi club, che si inserivano in un rito associativo elitario e internazionale, esercitarono grande fascino su giovani dal cospicuo patrimonio familiare e dalla grande voglia di promozione sociale. A Napoli, come in parte a Palermo, il dialetto calcistico e degli altri sport capaci di evocare immagini di snobistica e avventurosa modernità, come l’automobilismo e lo stesso ciclismo turistico, catturò agli inizi del secolo l’attenzione di ben individuati settori giovanili dagli stili di vita destinati all’esaltazione, riprendendo la celebre espressione di Veblen, dello “sciupìo vistoso” (cfr. Thorstein Veblen, La teoria della classe agiata, Torino, Einaudi, 1971).
Quello di Napoli e degli ambienti schematicamente delineati costituiscono alcuni esempi della multiforme realtà culturale e sociale che sorresse la scoperta e la diffusione del calcio in Italia. Tutto ciò suggerisce l’importanza di un approfondimento sulle varie città e aree della penisola, abbandonando la tradizionale strada della storia della Federazione e dei grandi club con il suo strascico di anacronismi.
Come per qualsiasi altro tema di storia sociale la ricerca di ambito locale può effettivamente portare a importanti e originali conoscenze. Questo da un lato per dare completezza e precisione al quadro generale, fin qui descritto per grandi linee, un quadro dal punto di vista interpretativo indubbiamente debole. Dall’altro lato è l’ambito locale, che più di ogni altro può orientare la ricerca verso le componenti culturali e di mentalità degli sport.
Guido Panico
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Sport ed educazione fisica in Francia nell’ultimo secolodi Pierre Arnaud
L’ “Educazione fisica e sportiva” (Edp) non deve essere confusa con le “Attività fisiche e sportive” (Aps)1. Vale a dire che la scuola è il luogo di un insegnamento specifico che non può essere confuso con le pratiche educative realizzate altrove (la società sportiva, il centro di animazione, ecc.). Questa rivendicazione di una specificità scolastica può essere capita soltanto se si analizzano gli sforzi compiuti da una professione per af
fermare la propria identità corporativa di fronte alla concorrenza esercitata dallo ‘sport di professione’. Ne consegue che l’Edp può diventare una disciplina d’insegnamento a pieno titolo soltanto se viene adeguata alle regole ed agli usi della scuola (ortodossia scolastica), in modo da rispettare 1’ ‘organizzazione pedagogica’, quale è stata attuata da Octave Gréard nel 1867- 1868 per il complesso delle discipline inse-
Nell’impossibilità di citare le svariate fonti documentarie (archivi pubblici e privati, documenti e opere a stampa), presentiamo i seguenti orientamenti bibliografici:
1. Volumi: M. Amar, Nés pour courir, Grenoble, Presses Universitaires de Grenoble, 1987; P. Ariès, L ’enfant et la vie familiale sous l’Ancien Regime, Paris, Seuil, 1973; P. Arnaud, Les savoirs du corps, Lyon, Presses universitaires de Lyon, 1981; P. Arnaud - G. Broyer, Psychopédagogie des activités physiques et sportives, Toulouse, Privât, 1985 (II ed. 1988); P. Arnaud e coll., Les Athlètes de la République, gymnastique, sport et idéologie républicaine, Toulouse, Privât, 1987; P. Arnaud, Le sportsman, l ’écolier, le gymnaste, tesi, 3 voli., Université de Lyon 2, 1986 (in corso di stampa presso le Presses universitaires de Lyon); P. Arnaud - J. Camy, La naissance du mouvement sportif associatif en France, Lyon, Presses universitaires de Lyon, 1986; J.M. Cholvy, Les patronages, ghetto ou vivier?, Paris, Nouvelle cité, 1988; B. Duôons - G. Pollet - M. Bèrjat, Naissance du sport moderne, Lyon, La Manufacture, 1987; J. Dupaquier, Histoire de la population française, Paris, Puf, voli. 3 e 4, 1988; B. During, La crise des pédagogies corporelles, Paris, Scarabéè, 1981; J.T. Fieschi, Histoire du sport français, Paris, Pac, 1983; J.L. Gay-Lescot, L ’éducation générale et sportive de l ’Estat français du Vichy, 1940-1944, tesi di dottorato, Université Bordeaux III, 1988, 2 voli.; P. Neaumet, Les institutions éducatives et sportives en France, Paris, Vigot, 19802; Nouvelle histoire de la France contemporaine (collana), Paris, Seuil, voli. 10-18; P. Parlebas, Activités physiques et éducation motrice, Paris, Ed. revue Eps, 1976; A. Prost, Petite histoire du X X esiècle, Paris, Colin, 1984; Id., L ’Ecole et la Famille dans une Société en mutation, in Histoire générale de l ’enseignement et de l ’éducation en France, vol. 4, Paris, Nouvelle Libraire de France, 1981; A. Rauch, Le corps en éducation physique, Paris, Puf, 1982; Id., Le souci du corps, Paris, Puf, 1983; M. Spivak, Education physique, sport et nationalisme en France, du second Empire au Front populaire, tesi di dottorato, Université Paris I - Sorbonne, 1983; J. Thibault, Sports et éducation physique, Paris, Vrin, 1973; Id., Les aventures du corps dans la pédagogie, Paris, Vrin, 1977; G. Viga- rello, Une histoire culturelle du sport, tecniques d ’hier et d ’aujourd’hui, Paris, Laffont-revue Eps, 1988; A. Wahl, Les Français et la France (1859-1899), Paris, Sedes, vol. 1, 1986; J. Zoro, 150 ans d ’éducation physique et sportive, Paris, Ed. Amicale Eps, 1986.
2. Periodici: Simon Le Binet, Université Lyon 2, n. 583-589-608-614 (serie di articoli sulla storia dell’educazione fisica in Francia); M. Spivak, Le développement de l ’éducation physique et du sport français 1852-1914, “Revue d’histoire moderne et contemporaine”, 1977, n. 24; “Relations internationales” , 1984, n. 38 (articoli sugli sport e le relazioni internazionali); “Sport histoire”, n. 1, febbraio 1988; n. 2, novembre 1988; n. 3, aprile 1989 (unica rivista francese specializzata nella storia dei giochi e degli sport); “Revue Staps” , Paris, Clermont Ferrand, Dossiers spéciaux Capeps-Ecrit 1- 1986-1987 e 1987-1988.
3. Testi e documenti ufficiali: Bollettino amministrativo del ministero della Pubblica istruzione; Bollettino ufficiale dell’Educazione nazionale; Gazzetta ufficiale della repubblica francese: leggi e decreti, dibattiti parlamentari; Statistiche del ministero dell’Educazione nazionale; Statistiche del segretariato di stato per i Giovani e gli Sport.1 L’affermazione viene ripetuta nelle disposizioni ufficiali del 1967 e del 1985 promulgate dallo stato per i professori di educazione fisica e sportiva (Eps). Le Aps designano l’insieme delle attività fisiche e sportive della società globale.
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gnate2. Straniera nella ‘scuola’, I’Eps ha potuto integrare i programmi di insegnamento soltanto conferendo veste scolastica alla propria pedagogia e didattica. Sotto questo punto di vista, i rapporti conflittuali tra sport ed educazione fisica sembrano aver ritardato a lungo il riconoscimento istituzionale dell’Eps.
La comparsa del movimento sportivo associativo in Francia è contemporanea alla approvazione della legge (27 gennaio 1880) che rendeva “obbligatorio [’insegnamento della ginnastica in tutti gli istituti dipendenti dall’autorità dello stato, dei dipartimenti, dei comuni” . A partire da questo momento, difensori della ‘ginnastica’ e promotori dei giochi e degli sport si confronteranno nel nome di concetti radicalmente opposti dell’insegnamento. È la storia di questo confronto che cercheremo di delineare rapidamente, in quanto essa fornisce la chiave per capire le poste in gioco presenti e future dell’Eps.
Dalla ginnastica all’educazione fisica
La legge del 27 gennaio 1880 si inserisce in un contesto molto particolare. I repubblicani sono al potere da dieci anni e si apprestano ad avviare una politica volontaristica in favore della democrazia e dell’insegnamento. Sotto l’impulso di uomini come Léon Gambetta e Jules Ferry avrà inizio un periodo di mobilitazione revanchista. La sconfitta di Sedan (1870) ha convinto i responsabili politici che le cause dovevano essere ricercate nell’impreparazione fisica, intellettuale e morale dei giovani francesi. Ecco allora che numerosi provvedimenti verranno a completare la legislazione sull’insegnamento della ginnastica: la legge sull’insegnamento gra
tuito (16 giugno 1881), obbligatorio e laico (28 marzo 1882); il decreto di istituzione dei battaglioni scolastici (6 luglio 1882); le leggi successive sul servizio militare obbligatorio (1872 poi 1889). I repubblicani favoriranno inoltre la creazione di diversi collegamenti educativi istituzionali tra la scuola e l’esercito, in modo da garantire la continuità dell’inquadramento dei giovani. È in questo contesto che si situa lo sviluppo prodigioso delle sociétés conscriptives (società di ginnastica, di tiro e di preparazione militare) largamente sostenute dai notabili politici, dalle autorità municipali, dai militari d’alto rango, nonché la creazione della Lega dei patrioti (18 maggio 1882) ad opera di Henri Martin e Paul Déroulède, o quella della Lega dell’istruzione (il cui primo congresso si svolse nel maggio del 1881), per iniziativa di J. Mace.
In questo contesto patriottico e nazionalista, l’insegnamento della ginnastica, soprattutto nelle scuole di primo grado, vedrà le sue più belle realizzazioni quando si confonderà, perlopiù, con l’istruzione militare. L’unione del maestro, del ginnasta e del militare, tanto auspicata da Gambetta, è una realtà. E lo stato non risparmia né sforzi né denari per incitare o motivare studenti e insegnanti: costruzione di palestre, fornitura di materiali, acquisto di fucili per il tirassegno scolastico, premi, ecc. Questa mobilitazione politica ed al tempo stesso pedagogica raggiunge il suo culmine nel 1889, in occasione delle celebrazioni del centenario della Rivoluzione francese, dopo il fallimento del tentativo di colpo di stato di Boulanger. A questa data gli insegnanti di ginnastica hanno a disposizione un Manuel de gymnastique et d ’instruction militaire (pubblicato nel 1881) e la Union des Sociétés de gymnastique de France (Usgf), fondata nel 1873, rag
2 In questa sede possiamo soltanto accennare ai diversi aspetti sollevati da questa problematica, rinviando, per maggiori dettagli, alle nostre pubblicazioni (v. nota zero).
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gruppa oltre 250 sociétés conscriptives (in realtà esse sono molto più numerose, in quanto non tutte sono affiliate alPUnion).
L’anno 1889 rappresenta tuttavia una frattura politica (la repubblica ne viene legittimata) e culturale, che si traduce in uno sconvolgimento dei valori e delle pratiche sociali tradizionali. Sulla scuola soffia un vento di riforma, grazie all’azione congiunta dei medici e dei pedagoghi. Dà l’avvio la ‘campagna degli igienisti’ (1887-1888) attraverso un rapporto dell’Accademia di medicina che fustiga il regime dell’internato, responsabile della sedentarietà e dell’eccessivo affaticamento intellettuale degli studenti. Viene aspramente criticato l’insegnamento austero, collettivo e disciplinare della ginnastica, in quanto aggrava la mancanza di moto. I progressi della fisiologia (Lavoisier, Paul Bert, Auguste Chauveau, Etienne Jules Marey) orientano le ricerche sugli effetti benefici degli scambi gassosi provocati dalle corse e dai giochi. In breve, le riforme sono nell’aria, come testimonia l’opera (premiata dall’Accademia di medicina) di F. Lagrange, Physiologie des exercises du corps (1888). Contemporaneamente, una campagna giornalistica ed editoriale si sforza di promuovere gli sport tradizionali francesi. P. Tissie crea a Bordeaux nel 1888 la Lega girondina di educazione fisica e Paschal Grousset, a Parigi, la Lega francese di educazione fisica, entrambe con l’obiettivo di rinnovare i metodi di insegnamento mediante l’organizzazione di sagre.
Mentre i primi club sportivi vengono creati a Parigi negli anni ottanta (Racing club de France, nel 1882; Stade français, nel 1883), è per l’impulso di alcuni studenti liceali parigini e di G. de Saint Clair che compaiono le prime “associazioni sportive scolastiche di atletica” , che costituiranno l’ossatura della Union des Sociétés françaises de sports athlétiques (Usfsa), istituita il 31 gennaio 1889. Con scelta opportuna Pierre de Cou- bertin pubblica alcune opere, tra le quali
L ’Education en Angleterre (1888), e raccoglie l’adesione degli uomini politici più in vista (tra i quali Jules Simon) per costituire, lo stesso anno, il Comité pour la propagation des exercises physiques dans l’éducation. Si deve in grande misura a questa congiuntura favorevole lo sviluppo dell’ideale sportivo e, dopo il 1890, le associazioni sportive atletiche si moltiplicheranno. Tuttavia, nonostante qualche tentativo velleitario, lo stato si dimostrerà incapace di portare a termine una riforma dell’insegnamento della ginnastica e, più in generale, del sistema scolastico. Lo sport diventa sì una vetrina dell’innovazione pedagogica, in effetti però soltanto all’interno di alcune istituzioni private (Bert le definisce i “battelli pilota”), come l’Ecole alsacienne, l’Ecole Monge o, successivamente, l’Ecole des Roches. L’esposizione universale del 1889 ne sarà l’esempio più vivo.
È sin troppo chiaro, in effetti, che lo sport si presenta per molti politici e pedagoghi come un’antiginnastica. Attraverso la ginnastica la scuola può appagarsi di un insegnamento ‘magistrale’ basato sull’ordine, il silenzio, la disciplina che la ripetizione di movimenti collettivi impone sotto l’autorità di un maestro che conta e batte il tempo. La ginnastica è fatta di metodo: è progressiva, razionale, scientifica, dosata... tutte cose che si inseriscono perfettamente in una gestione dei gruppi, dello spazio, del tempo, dell’esercizio consoni alle esigenze dell’organizzazione pedagogica. Giochi e sport, al contrario, lasciano agli allievi troppa iniziativa e troppa libertà. E, ancora, nessuna regola pedagogica può garantirne la serietà ed il controllo. Gli esercizi, per di più, rischiano di fiaccare l’organismo, di aumentare l’affaticamento. Infine, sono violenti, se non addirittura pericolosi. Lo sport non può essere un gioco per ragazzi!
Giochi ridicoli, sport pericolosi! Concessione al modernismo o necessaria compensazione all’immobilismo scolastico? Il legislatore pubblicherà nondimeno un nuovo Ma-
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nuel de gymnastique et de jeux scolaires (1891) in sostituzione di quello del 1881 (si noterà il significativo cambiamento nel titolo). Ma si rifiuterà di avviare la creazione di un nuovo corpo di insegnanti, di professori di giochi. Il vento di riforma a favore dell’istruzione liberale (Victor de Laprade) è caduto... e non soffierà più tanto presto! La scuola non può essere “il posto dove ci si diverte” ...3.
Giochi e sport non integreranno quindi la lezione di ginnastica e saranno condannati a svilupparsi, al di fuori dell’orario scolastico, in associazioni scolastiche di atletica scarsamente controllate dall’Usfsa. Sotto l’impulso di de Coubertin e della ripresa dei giochi olimpici (1892), il movimento sportivo associativo guadagnerà progressivamente le grandi città ed i centri industriali al punto da rappresentare una seria concorrenza per le sociétés conscriptives. Alla vigilia del 1914, l’Usfsa raggruppa circa 1.640 società di cui 191 associazioni scolastiche, contro le 1.450 della Usgf. Peraltro, i conflitti ideologici che contrappongono i cattolici ai repubblicani, sostenitori dell’insegnamento libero e fautori della laicità, a partire dal 1898 favoriranno la diffusione dei giochi e degli sport nell’ambito della Fédération gymnastique et sportive des patronages de France (Fgspf), d’obbedienza cattolica. La Federazione comprende nel 1914 oltre 1.485 società e si contrappone alla potente Ligue française de l’enseignement (con le sue associazioni ed i suoi patronati laici), che si sforza di arginare il flusso di studenti i quali “al termine della scuola”4 raggiungono i patronati cattolici. Giochi e sport diventano gli strumenti per conquistare i giovani. Per convertire bisogna pur sedurre, lo si faccia nel nome di Giovanna d’Arco o di Marianna.
Questo fermento intorno all’insegnamento attraverso il gioco e lo sport modificherà progressivamente l’atteggiamento del legislatore. Nuovi testi ufficiali saranno pubblicati e il gioco si imporrà come un eccellente complemento della ginnastica. Da questa tendenza nascerà in Francia 1’ ‘eclettismo’, ovvero un ‘metodo’ composito di educazione fisica che dalle diverse correnti pedagogiche mutua quanto hanno di meglio, secondo l’espressione di G. Démeny. La pubblicazione di un nuovo Manuel d ’exercises physiques et jeux scolaires (1907) intende consacrare l’unificazione dei metodi di “educazione fisica” , termine ora ufficialmente utilizzato dopo la creazione, ad opera di De- meny, del Corso superiore di educazione fisica (1903) per la formazione di insegnanti di... ginnastica.
Alla vigilia della grande guerra, la situazione è alquanto confusa, tanto più che le tensioni franco-tedesche hanno contribuito a creare società scolastiche e postscolastiche di tiro (1907). Il governo repubblicano guarda con sollecitudine soltanto alle sociétés conscriptives. La scuola di Joinville (fondata nel 1852) resta l’unica istituzione competente in materia di ginnastica (come istituzione militare, sino al 1903 sarà la sola abilitata a rilasciare il Certificato di attitudine all’insegnamento della ginnastica (Caeg), istituito nel 1869). Incaricata dai ministeri delle Forze armate e dell’Istruzione pubblica di riformare i programmi e i metodi di insegnamento della ginnastica, essa elaborerà, nel 1893, 1902 e 1910 una serie di “Regolamenti” che consacreranno l’eclettismo (con ampio riferimento ai metodi stranieri, in particolare al metodo svedese). Di fatto, nelle scuole vengono realmente insegnati solo i movimenti collettivi e ripetitivi, da un perso-
3 Secondo l’espressione di G. Mery che, a proposito della Ecole Monge, ha scritto un libro nel 1984 con questo titolo.4 Espressione di M. Turmann, A u sortir de l’Ecole, les patronages, Paris, V. Lecoffre, 1906J.
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naie disparato e insufficientemente formato (ginnastica educativa direttamente preparatoria ad una ginnastica detta di applicazione; la ginnastica selettiva — attrezzi e sport — è riservata ai soggetti più vigorosi). Se appaiono solidamente stabilite le basi scientifiche dell’educazione fisica, nella pratica la ginnastica scolastica si identifica nella semplice organizzazione dei gruppi. D’altronde, in linea generale ben pochi istituti scolastici dispongono di insegnanti di ginnastica.
In conclusione, in ultima analisi, il rischio di confondere ginnastica e istruzione militare è tale da indurre Démeny a farsi portavoce della difesa della specificità scientifica e pedagogica dell’educazione fisica a scuola5.
Dall’educazione fisica all’educazione fisica e sportiva
Tra il 1914 e il 1918 non si registrano trasformazioni di rilievo nell’insegnamento scolastico dell’educazione fisica. Tutt’al più esso assume un carattere più marcatamente patriottico e militare, utilitario e naturale (come si può constatare, ad esempio, presso il liceo Ampère di Lione). Vi contribuiscono puntualmente le “società di coscrizione”, così come le primissime associazioni scoutistiche e le società postscolastiche (patronati, sodalizi). Abortiranno i tentativi tardivi (aprile 1918) di promuovere le attività atletiche nelle scuole medie superiori e inferiori. Cionondimeno la creazione dei centri regionali di istruzione fisica (Crip) consente di formare diecimila insegnanti uomini e tremila insegnanti donne. Non ebbero sviluppi concreti le missioni, di cui il governo avrebbe incaricato de Couber- tin, durante la guerra, per studiare le modalità di rinnovamento dell’educazione fisica.
Gli anni immediatamente successivi registrano una completa riorganizzazione dell’insegnamento dell’educazione fisica, senza che ne siano peraltro messi in discussione i rapporti con lo sport. Il faticoso approntamento, ad opera di H. Paté e poi di G. Vidal, nel 1923, di un servizio dell’educazione fisica presso il ministero dell’Istruzione pubblica documenta l’asprezza del conflitto tra quanti M. Spivak definisce “i preparatisti” (i militari), i “tradizionalisti” (i medici) e “i modernisti” (i sostenitori dello sport). Poco a poco, tuttavia, i medici avranno la meglio, come dimostra la composizione delle commissioni ministeriali competenti in materia di educazione fisica. Il prevalere della loro influenza va senz’altro ascritto alle conseguenze della guerra: caduta del tasso di natalità, sensibilità esacerbata al problema demografico, alla rigenerazione della razza. Bisogna proteggere il bambino (e la futura madre), lottare contro la miseria, le devastazioni dell’alcolismo e della tubercolosi. Le finalità dell’educazione fisica saranno quindi di natura igienica e morale e un’attenzione del tutto particolare sarà dedicata alla ragazza, nel momento stesso in cui lo sport diventa uno strumento privilegiato dell’emancipazione della donna. Non cesseranno per questo gli inviti dei medici alla prudenza, in questo campo: “la donna non è costruita per lottare, ma per procreare”6.
All’era militare succede l’era medica. A partire dal 1920 a Lione, poi, ufficialmente, dal 1927 in tutto il paese gli Istituti regionali di educazione fisica (Irep) sono posti sotto l’autorità delle facoltà di medicina, con il compito di formare gli insegnanti di ginnastica. Nello stesso periodo il bilancio dell’educazione fisica è gestito dal ministero della Pubblica istruzione e non più da quello della
5 G. Démeny, 'm Manuel d ’exercises gymnastiques et de jeux scolaires, 1891.6 M. Boigey, Manuel scientifique d ’éducation physique (opera premiata dall’Accademia di medicina), Paris, 1922. La frase è ripresa integralmente nel Règlement général d ’éducation physique. Méthode française, parte prima, Paris, 1925, p. 16.
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Guerra. La costituzione, nel 1933, dell’Eco- le normale d’éducation physique (Enep) segue la chiusura di Joinville e sanziona la perdita di influenza dei militari in campo scolastico.
Gli anni tra le due guerre consacrano tuttavia anche lo sviluppo dello sport competitivo. A dare il tono è stata l’organizzazione dei Giochi interalleati nel 1919. Le Olimpiadi di Parigi nel 1924 (e di Chamonix per le prime Olimpiadi invernali) sono servite a rendere le autorità politiche consapevoli del fatto che “lo sport è diventato un affare di stato” (Vidal, nel 1921). Numerosi campioni sportivi francesi conseguono vittorie sulla scena internazionale: Georges Carpentier e E. Thill nel pugilato, i fratelli Henri, Francis e Charles Pelissier e A. Leducq nel ciclismo, Suzanne Lenglen e i “tre moschettieri” (Jacques Brugnon, René Lacoste, Henri Cochet, Jean Borotra) nel tennis, G. Lamoumègue o ancora A. Guillemot nell’atletica... In breve, questi successi contribuiscono a divulgare l’idea dello sport nella letteratura (A. Giraudoux, Henri de Montherlant) e la stampa sportiva conta svariate pubblicazioni (“L’Auto”, “Le Miroir des sports”, “La Vie au grand air”, ecc.). La salita al potere dei regimi fascisti in Italia e in Germania cristallizzerà poco a poco l’attenzione dell’opinione pubblica e dei poteri politici sull’importanza dello sport in quanto barometro della salute delle nazioni o vetrina dei regimi politici. Le Olimpiadi di Berlino nel 1936 rappresenteranno in Francia l’occasione dei primi tentativi di boicottaggio.
Questo folgorante progresso dello sport provoca numerose critiche circa il dilettantismo non autorizzato, la violenza, le truffe, il doping, ecc.; né migliora la situazione con l’introduzione, negli anni trenta, del professionismo nel calcio. D’altro canto, dopo l’esplosione dell’Usfsa nel 1920, le federazioni dei singoli sport si sono moltiplicate ed incontrano notevoli difficoltà a contenere e controllare questi eccessi. Le critiche rivolte
allo sport sono riassunte in modo particolarmente felice in un libro di Georges Hébert dal titolo significativo: Le sport contre l’éducation physique (1925). Ai danni fisici provocati dallo sport (deformazioni legate alla specializzazione, cuori ‘spompati’, organismi sovraffaticati...) si aggiungono i danni sociali (professionismo, mercantilismo: le Olimpiadi sono “la fiera internazionale dei muscoli”) e i danni morali (la vittoria a qualsiasi prezzo, la vanità, l’orgoglio...). Soltanto allo sport ‘vero’, non ‘deviato’ si riconoscono, al caso, virtù educatrici.
Sostenitori e avversari dello sport si affrontano in questo contesto. Ed è lo stato che deve decidere: quale sarà l’educazione fisica per questa gioventù che bisogna al tempo stesso proteggere e rigenerare? Questione delicata... poiché non soltanto, dopo il 1911, un nuovo arrivato viene a stravolgere le idee correnti in materia di educazione fisica (Hébert ed il suo “metodo naturale”), ma numerosi innovatori del sistema educativo francese ammirano le realizzazioni della Germania. La rigenerazione della razza francese non passa forse attraverso l’adozione di misure che al di là del Reno hanno dato buona prova?
Sin dal 1916, la scuola di Joinville, proseguendo i lavori di Démeny (che morirà nel 1917), elabora un nuovo progetto di Regolamento che apparirà nel 1919. Successivamente appronta la Méthode française di educazione fisica che sarà pubblicata a partire dal 1925. Con questo documento vengono stabiliti per più di trent’anni finalità, programmi e metodi dell’educazione fisica. Lo sport si impone come “il coronamento dell’educazione fisica”; vale a dire che la preoccupazione di preservare il bambino e l’adolescente da tutti i suoi eccessi vince nettamente su quella di modernizzare i contenuti dell’educazione fisica. Se l’eclettismo continua a trionfare, lo fa in nome della moderazione, della razionalità, della pro-
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gressività e del dosaggio. E soltanto la ginnastica metodica, illuminata dalle prescrizioni che provengono dall’anatomia e dalla fisiologia, può pretendere di raggiungere questa perfezione.
Molti sostenitori dello sport, tra gli atleti o i giornalisti e gli scrittori, si indignano all’idea stessa che un giorno lo si possa insegnare: “l’insegnamento nello sport è come il baco nella mela”7. Sicuramente in quanto temono che nelle pratiche di apprendimento sportivo si introduca una preoccupazione di metodo che toglierebbe ad esso il suo carattere ludico, libero e spontaneo. Per quanto riguarda i medici, preoccupati di salvaguardare la salute del bambino e dell’adolescente, non possono che opporsi alle competizioni precoci. Lo stato non può tuttavia ignorare l’importanza dei giochi e degli sport nell’educazione. Nuove direttive ufficiali instaureranno la mezza giornata all’aria aperta (decreto del 19 gennaio 1925 e istruzioni ufficiali del 26 giugno 1923). Nella stessa linea, lo sport scolastico sarà organizzato con la creazione, nel 1923, secondo le raccomandazioni del Congresso internazionale dello sport universitario (tenuto nello stesso anno), dei comitati sportivi d’accademia. Cionondimeno le deliberazioni assunte testimoniano esplicitamente tutte le riserve dei medici nei riguardi di una pratica competitiva precoce. Così, nessuna competizione è autorizzata prima dei quindici anni; competizioni minori sono tollerate per studenti dai quindici ai diciotto anni. Soltanto gli studenti di oltre diciott’an- ni, muniti di certificato medico, dell’autorizzazione dei genitori e del libretto individuale di educazione fisica potranno iscriversi a campionati scolastici (circolare del 2 maggio e del 14 dicembre 1923).
La vittoria delle sinistre nel 1936 e l’insediamento del Fronte popolare accentueranno questa chiusura scolastica nel nome di una politica al tempo stesso protezionista e ambigua. L’introduzione del brevetto sportivo popolare (Bsp) nel 1937 e successivamente quella dell’Ente dello sport scolastico e universitario (Ossu) nel 1938 rappresentano senza dubbio delle concessioni al modernismo. Ma esse non rimettono assolutamente in discussione la volontà di mantenere la funzione igienica e corroborante dell’educazione fisica. Queste misure rispondono inoltre alla preoccupazione di rendere autonomo lo sport scolastico e di proteggerlo, per evitare le deviazioni e gli eccessi di cui cadrebbe vittima se restasse sotto il controllo delle federazioni sportive. D’altro canto, il crescere dei pericoli induce il governo del Fronte popolare ad adottare una politica di risanamento della morale e delle pratiche sportive, privilegiando lo sport di massa rispetto a quello d’élite e condannando l’utilizzo dei risultati sportivi per scopi nazionalisti e politici. Questo atteggiamento pacifista di J. Zay o di L. Lagrange paradossalmente trasforma lo sport in strumento di rigenerazione della razza e di preparazione militare. Tuttavia i giochi olimpici di Berlino del 1936, i Giochi mondiali universitari del 1937 o la Coppa del mondo di calcio del 1938 a Parigi renderanno più incomprensibile questo atteggiamento nel momento stesso in cui le preoccupazioni eugenetiche ritornano in primo piano8.
In breve, dopo aver intrattenuto rapporti di aperto contrasto, sport ed educazione fisica stabiliscono tutt’al più relazioni di complementarietà. Nessuna pratica seria può essere presa in considerazione se non è preceduta da una solida formazione generale. Di
7 P. Hamelle, Pourquoi fait-on du sport? Pour s ’amuser, “Le Miroir des sports” , 5 ottobre 1922, n. 118.8 Nel 1913 Francia e Germania registravano lo stesso tasso di inabili al servizio militare (rispettivamente 27 e 26 per cento). Nel 1938 la percentuale è del 33 per cento per la Francia e del 17 per cento per la Germania. Da qui la convinzione che la razza francese stia degenerando.
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fatto lo sport continua ad essere estraneo ai programmi di insegnamento a dispetto dei tentativi promossi da alcuni precursori di dargli un ‘metodo’ (ad esempio il dottor Bellin du Coteau e la sua opera sul “metodo sportivo” pubblicata nel 1930). Le iniziative private, dal canto loro, hanno modo di moltiplicarsi: istituzione di brevetti da parte delle federazioni sportive (nuoto, atletica), promozione di gare e di concorsi da parte dei giornali (“La Vie au grand air”, “L’Intransigeant”, ecc.) o di mecenati francesi o americani (come la Croce rossa junior), moltiplicazione delle “feste della gioventù” (a Lione, per esempio), eccetera. Ma i giochi e gli sport, al di fuori di alcuni esempi eccezionali, restano estranei alla scuola. E i risultati mediocri degli sportivi francesi (se si eccettuano le vittorie di Emile Allais e di James Couttet nello sci) contribuiscono a dare un’immagine alquanto attenuata del dinamismo e della salute della Francia.
L’insediamento del regime di Vichy, subito dopo la sconfitta del giugno 1940, consentirà ai dirigenti della “Rivoluzione nazionale” di riorganizzare totalmente il sistema educativo e sportivo. L’istituzione di un Commissariat général à l’Education générale et aux sports (13 luglio 1940) risponde alle accuse mosse agli uomini politici della Terza repubblica di aver lasciato i giovani arrugginire in una cultura libresca. Il maresciallo Pétain e Borotra (sino all’aprile del 1942) e successivamente il colonnello Pascot (sino all’agosto del 1944), svilupperanno, paradossalmente data la guerra e l’occupazione, una politica sportiva estremamente ambiziosa. Che si concretizzerà in diverse misure, quali l’adozione di una “Carta degli sport” (20 dicembre 1940), la pubblicazione di nuove Istruzioni ufficiali per l’istruzione generale e sportiva (Egs) (1° giugno 1941), l’introduzione per la prima volta di prove fisiche facoltative agli esami di baccalaureato (26 marzo 1941). A dispetto delle loro critiche verso il Fronte popolare, gli uomini di Vichy
si ispirano ampiamente alle sue iniziative, come dimostra la trasformazione del Bsp in Brevetto sportivo nazionale (Bsn). In senso generale, del resto, la maggior parte degli storici concorda nell’affermare che vi è stata una grandissima continuità tra la politica sportiva del Fronte popolare, di Vichy e della Quarta repubblica. Se Vichy ha visto realizzarsi molti progetti abbozzati tra il 1936 e il 1938 (in particolare nel campo degli impianti sportivi, del controllo medico e della rivalutazione dello statuto degli insegnanti di educazione fisica), la Quarta repubblica ha ampiamente beneficiato di questa ‘eredità’.
Questo periodo nero della storia politica della Francia consacra nondimeno l’inserimento dello sport nei programmi dell’istruzione generale: ne sono i principali sintomi l’istituzione del diploma di abilitazione all’insegnamento dell’educazione fisica e sportiva (Capeps) il 31 dicembre 1942, l’introduzione dell’avviamento allo sport accanto al “metodo naturale” (eretto in metodo unico). Al Consiglio nazionale della Resistenza (Cnr), che non può essere sospettato di particolari simpatie per il regime di Vichy, non resterà quindi che prendere atto del legato che gli è trasmesso.
Il ritorno alla legalità repubblicana offre l’occasione per una nuova riorganizzazione dei servizi dell’educazione fisica e dello sport, anche se l’urgenza della ricostruzione e le esigenze economiche non consentiranno di apportarvi innovazioni. A maggior ragione se i regimi politici cambiano, mentre gli uomini (responsabili politici e amministrativi dello sport) sono molto spesso gli stessi: il movimento sportivo nel suo complesso non è stato assolutamente toccato dall’epurazione. Le istruzioni ufficiali del 1° ottobre 1945 si riallacciano all’eclettismo dell’anteguerra e sono caratterizzati soprattutto dalla volontà di rompere con il metodo unico imposto sotto Vichy. Se lo sport resta integrato nel programma d’insegnamento, con la mezza
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giornata all’aria aperta, la lezione all’interno dell’istituto continua ad essere caratterizzata dall’eclettismo. Le preoccupazioni eugenetiche, igieniche e morali s’impongono con tanto maggior vigore in quanto il legislatore deve tener conto delle conseguenze della sottoalimentazione e delle innumerevoli difficoltà incontrate dalle famiglie.
In realtà, sino al 1957 nessun elemento nuovo viene a sconvolgere le concezioni ufficiali dell’Eps, nonostante alcuni tentativi sperimentali — a Vanves, da parte del dottor J. Fourestier — di imporre il metà tempo pedagogico e sportivo nelle scuole primarie (1950-1959). Sotto molti punti di vista si può anzi ritenere che questo periodo rappresenti una nettissima regressione dell’integrazione dell’Eps nell’istituzione scolastica a causa dell’insufficienza del bilancio (che gli organismi sportivi e sindacali denunciano a più riprese), della sensibile riduzione (commissione della “scure e della ghigliottina”) nel reclutamento degli insegnanti di Eps (nonostante l’apporto degli effettivi di un nuovo corpo, i maestri di Eps, a seguito della trasformazione del corpo dei maestri di Eps, istituito sotto Vichy), della mancanza di una politica di costruzione di impianti sportivi. La commissione Le Gorgeu (1951), nella sua relazione di inchiesta, non potrà che assumere l’onere di questo bilancio particolarmente fosco. L’esplosione demografica del dopoguerra (il baby boom), strettamente collegata alla promozione di una politica familiare ambiziosa, accentuerà l’incapacità del sistema educativo di organizzare il flusso di studenti che a partire dalla fine degli anni cinquanta approdano alle scuole secondarie. Ondata demografica e progresso della scolarizzazione coniugano i loro effetti nell’ag- gravare la ben nota carenza delle condizioni materiali e pedagogiche dell’insegnamento dell’Eps.
Questa assenza di una politica sportiva ed educativa, aggravata dalla instabilità ministeriale della Quarta repubblica, si traduce
d’altro canto nella progressione alquanto debole delle abilitazioni all’insegnamento dello sport. Le federazioni scolastiche sono peraltro in forte aumento, beneficiando degli effetti della crescita demografica (tra il 1950 e il 1958 i loro effettivi registrano un aumento di quasi il 78 per cento). Pure lo sport diventa un fenomeno sociale e culturale sempre più importante, come dimostra l’attenzione che gli rivolgono l’opinione pubblica e gli uomini politici. È vero che la “guerra fredda” favorisce la svalutazione delle medaglie nelle grandi competizioni sportive per sostenere l’idea che lo sport è la vetrina dei regimi politici. I risultati deludenti degli sportivi francesi possono soltanto convincere i responsabili politici dell’urgenza di un piano per la ripresa dello sport nazionale.
Questa situazione allarga il fossato che separa l’educazione fisica e lo sport ed alimenta inoltre i contrasti tra le correnti pedagogiche. I difensori dell’eclettismo e della tradizione si raggruppano intorno a P. Seurin, il quale pubblica, nel 1949, Vers une éducation physique méthodique. I sostenitori di uno sport educativo, più vicino alle motivazioni degli studenti, intorno all’Institut national des sports (Ins) e all’Ecole normale supérieure d’éducation physique (Ensep), istituiti nel 1945, ed ai loro insegnanti: M. Baquet, A. Listello, quindi J. Teissie. L’elaborazione di un “metodo sportivo” , avviata da Baquet sin dal 1942 e proseguita nel 1945 in occasione di un congresso dell’Ins, giungerà a termine con la pubblicazione, a partire dal 1957-1958, degli articoli di Teissie nella rivista “Eps” , fondata nel 1950. Ma questo fermento pedagogico resta senza effetti. Le Istruzioni ufficiali del 1959 ad uso degli insegnanti di Eps si limitano a richiamare i principi fondamentali delle Istruzioni del 1945: l’educazione fisica rimane bensì Tabe dello sport; e se quest’ultimo ha delle virtù educative, esse sono ancora ignorate. Alla vigilia degli anni sessanta, l’espressione
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“Educazione fisica e sportiva” designa in modo appropriato la giustapposizione o la coabitazione delle due diverse concezioni di intendere la formazione fisica dei giovani. L’Eps è ancora di là da venire, come dimostrano i giudizi severi contenuti nelle diverse relazioni di inchiesta dell’Unesco (1947 e 1956): “Le autorità scolastiche ed i genitori degli studenti non considerano ancora l’educazione fisica come una materia d’importanza pari a quella delle altre discipline. Lo sport resta un gioco, un diversivo che rischia di far perdere tempo agli studi” .
L ’educazione fisica è sportiva
Con il cambiamento delle sue istituzioni politiche la Francia si avvia ad inaugurare un nuovo orientamento nella politica sportiva ed educativa. La creazione della Quinta repubblica consente al generale de Gaulle di avviare un ciclo di riforme intese a consolidare le istituzioni politiche, sanare l’economia e ristabilire il prestigio internazionale della Francia. Lo sport e l’Eps ne trarranno giovamento. La nomina di Maurice Herzog alla carica di alto commissario agli sport preannuncia l’attuazione di una vera e propria trasformazione: vengono adottati provvedimenti di spesa a favore delle federazioni sportive; è inaugurata una politica delle infrastrutture con la prima legge programmatica per la costruzione di impianti sportivi e socio-educativi (1961-1965) ed a una Commissione detta “della dottrina” è affidato il compito, sotto la presidenza di Borotra, di elaborare un documento di sintesi sullo sport e l’Eps in Francia. Pubblicato nel 1965, l’Essai de doctrine du sport fa eco al Manifeste sur le sport, pubblicato dall’Une- sco nel 1964, alla vigilia dell’inaugurazione dei giochi olimpici di Tokio; ed avrà ampia risonanza. Le sue proposte, però, soprattutto nel campo dell’Eps, non avranno seguito. Ciò nondimeno sarà dato incarico a delle
commissioni di intraprendere una riforma dei programmi dell’Eps. Se le Istruzioni ufficiali del 1962 consacrano l’ingresso massiccio dello sport nell’ora di lezione e nella seduta (diventata mezza giornata di sport nel 1961) di Eps, esse susciteranno polemiche alquanto vivaci tra i sostenitori del tradizionalismo (P. Seurin), del modernismo (R. Me- rand) e i difensori di un’educazione fisica scientifica (J. Le Boulch). Nuova versione dello scontro tra l’educazione fisica e lo sport? A dire il vero, il problema sta tutto nel sapere se l’avviamento allo sport debba o meno essere preceduto da una formazione di base, detta ancora fondamentale o preparatoria (come sostengono, con diverse argomentazioni, Seurin e Le Boulch), o se lo sport e le sue tecniche possano essere i supporti, gli strumenti di un’autentica educazione al movimento. La volontà politica di Herzog di rinnovare lo sport francese prima dei giochi olimpici invernali di Grenoble (1968) e la pressante insistenza delle federazioni sportive accelereranno la vittoria dei modernisti... non senza qualche concessione alla corrente scientifica. Avevano d’altronde mostrato la via alcune esperienze pedagogiche (di Corbeil-Essonnes e della “République des sports” a Calais, nel 1962-64). E la pubblicazione delle Istruzioni ufficiali del 19 ottobre 1967 consacra con notevole ritardo il valore educativo dello sport.
Nella realtà, tuttavia, l’educazione fisica è a tal punto sportiva che molto spesso si confonde con la semplice pratica competitiva quale viene svolta nei club. Confusione peraltro alimentata dall’introduzione, a partire dal 1961, di prove sportive obbligatorie negli esami e nei concorsi (come il baccalaureato) o dall’allestimento di un prontuario delle prestazioni ad opera di J. Letessier. Inoltre, molti responsabili politici e dirigenti sportivi sono fermamente convinti che “tutto deve cominciare a scuola” . È del resto da questa convinzione che nasce, sin dal 1959-1960, il desiderio di riorganizzare lo sport scolasti
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co. Dopo una acuta crisi, all’Ossu subentra l’Association du sport scolaire et universitaire (Assu), con grave danno degli insegnanti di Epe, che vedono in questa decisione un pregiudizio alla loro missione educativa a favore della massa degli studenti.
Questa nuova politica sportiva, di élite e preoccupata dei risultati, non ignora tuttavia completamente il valore educativo dello sport; tanto più che essa si rivolge ad una massa crescente di studenti dopo che il provvedimento del 6 gennaio 1959 (legge Ber- thoin) ha portato l’obbligo scolastico a sedici anni. Le scuole di secondo grado si avviano a sostenere direttamente l’ondata demografica e gli sforzi realizzati nel settore degli impianti sportivi e della formazione degli insegnanti di Eps si dimostreranno malgrado tutto insufficienti a preservare condizioni e orari di insegnamento (cinque ore di Eps alla settimana). Si tratta quindi di amministrare la scarsità, soprattutto forte nei grandi centri urbani.
La crisi del 1968 (della scuola e della società) induce il governo a riaffermare il principio delle cinque ore obbligatorie di Eps nel secondo grado. Nel primo, l’orario viene portato a sei ore con l’introduzione del “terzo tempo pedagogico” (decreto del 7 agosto 1969). Ma queste decisioni dettate dall’op- portunismo e dalla congiuntura non resisteranno alle analisi politiche, che suggeriscono un disimpegno dello stato a beneficio degli organismi privati o delle collettività pubbliche. Sin dal 1971 una serie di circolari conferma l’orientamento per lo sport dell’Eps, ancorché riducendo (provvisoriamente, si dice, ma le disposizioni sono tuttora in vigore) gli orari: tre ore nel primo ciclo e due ore nel secondo per gli istituti di secondo grado. L’orario complementare sarà svolto nei Centri di animazione sportiva (Cas), sotto l’amministrazione delle Direzioni dipartimentali dei giovani degli sport. Contemporaneamente, non cessa di diminuire il reclutamento di insegnanti di Eps, il bilancio per
i giovani e lo sport è riservato principalmente alle federazioni olimpiche (fornitrici potenziali di medaglie...) e l’Eps è sempre più il parente povero del ministero dei Giovani e degli sport. Mentre la società francese tende in misura sempre più marcata a prendere le distanze dal modello sportivo competitivo, per orientarsi verso pratiche sportive di svago, rivolte all’autoespressione e all’edonismo (sport a contatto con la natura, ginnastica di mantenimento, ecc.) e mentre, a partire dal 1972, prendono corpo le campagne a favore dello “sport per tutti” , gli insegnanti di Eps sono in preda ad una vera e propria crisi di identità. Già Le Boulch nel 1960 aveva lanciato l’allarme... trovando, a partire dal 1968, un nuovo alleato nella persona di P. Parlebas. La critica è severa: l’Eps tende a confondersi con l’apprendimento delle tecniche sportive al punto da diventare un “polipaio di tecniche” . E l’autore si dichiara per un ristabilimento dei giochi tradizionali sulla base di analisi scientifiche rigorose. Sulla scia degli avvenimenti del 1968, un’altra corrente, di ispirazione freudiano-marxista, guidata da J.M. Brohm, si lancia in una critica violentissima dell’istituzione sportiva. Altre correnti pedagogiche reagiscono al- l’imperialismo della norma sportiva, proponendo l’espressione corporea o i metodi pedagogici non calati dall’alto. Lo stesso R. Merand, capofila della corrente dello sport educativo arriva a chiedersi: “Ma qual è dunque la specificità dell’educazione fisica?” .
Gli anni settanta favoriranno dunque una vera e propria mobilitazione pedagogica per definire uno sport educativo conforme alle esigenze dell’ortodossia scolastica. L’Eps non può confondersi con le Aps della società globale... senza correre il rischio di scomparire. Bisogna quindi distinguerla dalla semplice pratica competitiva o ricreativa: in queste conclusioni si riconosceranno molte correnti pedagogiche, in particolare l’Associazione degli ex allievi dell’Enseps o con i
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corsi Maurice Baquet, istituiti sin dal 1964, organizzati da una federazione privata d’ispirazione comunista, la Federazione sportiva e ginnica del lavoro (Fsgt). Grazie alla votazione della legge sulla formazione permanente (del 16 luglio 1971), lo stato sarà indotto a favorire, sotto la pressione degli insegnanti di Eps, la creazione di strutture decentrate per il loro costante addestramento.
Lo sviluppo delle pratiche sportive al di fuori della scuola provoca tra i rappresentanti dello “sport professionale” una concorrenza acuta che porterà alla legge del 29 ottobre 1975 (detta legge Mazeaud). Da questa data, l’organizzazione istituzionale dello sport e dell’Eps in Francia cambia fisionomia. L’organizzazione dello sport scolastico si allinea a quella della scuola (ai tre livelli di scolarità, primaria, secondaria, superiore corrispondono tre federazioni scolastiche diverse). All’Enseps, istituita il 26 marzo 1973, succede l’Insep, insediato il 20 ottobre 1975 e al quale sono affidati nuovi compiti. L’11 aprile 1975, l’istituzione di un diploma di studi universitari generali in scienze e tecniche delle attività fisiche e sportive (Deug- Staps) consacra tardivamente l’assunzione in sede universitaria dei corsi di formazione per gli sport professionali e di educazione fisica. A questi provvedimenti principali manca tuttavia una decisione attesa: l’integrazione in seno al ministero dell’Educazione del- l’Eps che in effetti, dal 1963, è stata sottoposta all’amministrazione di un ministro per i Giovani e gli sport (o di un organismo equivalente) e che da tale data non ha mai ricuperato il posto iniziale. E bisognerà aspettare che la sinistra arrivi al potere nel 1981 perché sia di nuovo collocata, dopo lunghe lotte sindacali, sotto l’autorità del ministero dell’Educazione. A partire da quel
momento, gli ex Irep, diventati Unità di formazione e di ricerca in Staps saranno ufficialmente integrati nell’università e conferiranno diplomi universitari, dal Deug-Staps al dottorato Staps e disporranno di un nuovo corpo di insegnanti universitari. La pubblicazione delle istruzioni ufficiali del 1985 corona questa specificità scolastica dell’Eps negli istituti primari e secondari, accentuando la frattura tra la scuola e il-mondo dello sport9.
L ’ortodossia scolastica
Questa rapida cronistoria evoca, in modo sicuramente incompleto, la difficile coabitazione dello sport e dell’educazione fisica. Ai rapporti di conflitto si sono succeduti rapporti di complementarietà sino alla vigilia degli anni sessanta. Tuttavia, la volontà politica di orientare in senso sportivo il sistema educativo francese ha contribuito in ampia misura all’instaurarsi di rapporti di identità che hanno pregiudicato l’affermazione di una specificità scolastica dell’Eps. La storia dell’educazione fisica sta quindi nella volontà e nella capacità dei suoi insegnanti di adeguarla alle regole e agli usi di un’istruzione strettamente scolastica. Si potrebbe d’altronde dimostrare che i progressi della sua integrazione nella scuola sono sempre susseguenti a crisi politiche, culturali o pedagogiche. Rispettando scrupolosamente l’organizzazione pedagogica della scuola, l’obiettivo è certo quello di privilegiare la funzione pedagogica dell’Eps sulla sua funzione culturale, o, più esattamente, di non compromettere la prima nel nome della seconda. Preservare la posizione dell’Eps nella scuola (e dunque dei suoi insegnanti) costringeva a difendere i valori e i principi di una istruzione
9 In particolare con l’istituzione di un professorato di sport a partire dal 1985, dipendente dai Servizi dei giovani e degli sport.
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generale per la massa degli allievi e quindi a prendere le distanze dagli eccessi (sotto tutte le forme) delle pratiche sportive al di fuori della scuola. Diventando un’autentica disciplina e materia di insegnamento l’Eps accedeva ad una dignità e legittimità scolastica sino ad allora contestata.
Tutta la difficoltà stava nel superare una contraddizione: come attribuire all’Eps finalità ‘positive’ quando per oltre settantacin- que anni lo sport è stato il bersaglio di ogni critica? È confermandosi alle regole dell’organizzazione pedagogica della scuola che l’Eps ha potuto acquisire lo statuto di disciplina e di materia di insegnamento. Dotata di finalità (lo sport ha delle virtù...) e di una rappresentatività culturale, l’Eps ha un orario, programmi e contenuti di insegnamento strutturati, valutati, ma scarsamente gerar- chicizzati (...ma queste virtù si insegnano). L’attuale successo delle ricerche didattiche sembrano garantirle nel prossimo futuro l’accesso ad una vera ortodossia scolastica. È nondimeno necessario porsi la domanda se la prospettiva dell’integrazione europea che si apre con il 1992 non rimetterà in causa una conquista tanto laboriosa...
Sarebbe sicuramente sbagliato pensare che questa conquista della scuola è giustificata soltanto da considerazioni corporative. La preoccupazione di proteggere il bambino e l’adolescente dagli eccessi e dai pericoli dello sport si presenta con sufficiente costanza nel corso della storia da giustificare il vedere in essa gli effetti di una tradizione che in ampia misura eredita le esperienze della Rivoluzione francese. Da quel periodo, la protezione dell’infanzia caratterizza la parte essenziale di una legislazione preoccupata di prevenire al tempo stesso gli effetti di una demografia malthusiana, i timori di un’eventuale degenerazione della razza, le drammatiche conseguenze dei conflitti militari o i misfatti del lavoro industriale. In questo condividiamo le analisi di Philippe Ariès: l’emergenza della preoccupazione educativa risiede nel riconoscere la specificità dell’infanzia. La scuola e la famiglia non sono forse allora i migliori garanti di un’educazione fisica che mira a proteggere il bambino e l’adolescente dagli eccessi e dai danni della società degli adulti?10
Pierre Arnaud[traduzione dal francese di Francesca Ferratini Tosi]
io P. Ariès, L ’enfant et la vie familiale sous l ’Ancien Regime, cit.
L ’autonomia alpina: dal mito alla storiadi Vittorio De Tassis
Esiste uno specifico ‘regionalismo alpino’, capace, per ricchezza di sedimentazioni storiche e vitalità di prospettive politiche, di proporsi quale ideale modello di aggregazione per quella nuova Europa dei popoli e delle regioni di cui si viene parlando con sempre maggiore insistenza da un ventennio a questa parte? In che misura le esperienze autonomistiche delle regioni italiane a statuto speciale, e in particolare del Trentino Alto Adige, hanno sin qui saputo esprimere e valorizzare le istanze più genuine di tale peculiare regionalismo? Più in generale, il precario stato di salute odierno del sistema italiano delle autonomie, sullo sfondo della profonda crisi d’identità determinatasi nel cuore del continente europeo con il crollo dei regimi comunisti, può costituire l’occasione per un ripensamento in chiave squisitamente federalista non solo delle istituzioni unitarie europee, ma della stessa costituzione del nostro paese? Sul filo di questi interrogativi si è svolta la trama del dibattito che per tre giorni, dal 29 al 31 marzo scorsi, ha impegnato studiosi e politici convenuti a Trento per approfondire il tema “Autonomia e regionalismo nell’arco alpino. Attualità di un confronto a vent’anni dal pacchetto”.
L’iniziativa, promossa dal Museo trentino del Risorgimento e della lotta per la libertà in concorso con la Regione Trentino Alto Adige, si poneva in un rapporto di ideale continuità e complementarietà con il convegno sulle autonomie regionali tenutosi a Ca
gliari un paio d’anni or sono (“Le autonomie etniche e speciali in Italia e nell’Europa mediterranea. Processi storici e istituzioni”, di cui è tempestivamente comparso il volume degli atti per i tipi dell’Ufficio stampa del Consiglio regionale della Sardegna), nonché, sotto taluni aspetti, con il precedente incontro di Tolmezzo del 6-8 novembre 1986 sui problemi della montagna italiana e friulana in particolare (si vedano in proposito gli atti nel volume Montagna problema nazionale. Quarant’anni di storia: dalla liberazione ad oggi, pubblicato nel 1987 dall’Istituto friulano per la storia del movimento di liberazione). Né apparirà frutto di mera coincidenza il fatto che in tutt’e tre i casi ora citati prenda risalto il ruolo degli Istituti storici della Resistenza, che nella sensibilità ai valori democratici dell’autonomia e dell’autogoverno hanno sin dalle origini riconosciuto, come ricordava il presidente dell’In- smli Guido Quazza introducendo i lavori, uno dei lasciti più fecondi della lotta di liberazione.
In realtà, le indicazioni scaturite dal convegno di Trento non sono state né univoche né facilmente componibili in un quadro prospettico chiaro e coerente. Anzi, a chi ha seguito l’intero iter delle relazioni e delle discussioni, fino alla tavola rotonda conclusiva, non può non essere tornato alla mente il pungente commento di Pierangelo Schiera a conclusione del precedente convegno sardo, quando con la consueta franchezza aveva di-
Italia contemporanea”, giugno 1990, n. 179
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chiarato che se ne andava da Cagliari con le idee più confuse di quanto non gli fossero sembrate al suo arrivo. E ciò, anche nel caso nostro, non solo per la difficoltà di portare a sintesi i diversi approcci — storiografico, antropologico, giuridico, sociologico, ecc. — via via proposti, e nemmeno per l’eterogeneità delle matrici politico-culturali sottese ai diversi contributi e I’ancor più varia qualità delle valutazioni espresse nel merito dei singoli problemi, quanto piuttosto per l’estrema complessità della mappa comparativa venutasi a delineare e per la polivalenza e irrisolta ambiguità dei concetti chiave chiamati in causa, a cominciare da quelli topici di autonomia, minoranza, etnicità, ecc.
Sotto questo profilo, mi sembra che rapporto critico più significativo sia venuto proprio dagli studiosi che in vario modo, e prevalentemente nell’ottica del lungo periodo, hanno riesaminato nel corso della prima giornata le radici storiche dell’autonomismo delle diverse aree regionali, dalla Valle d’Aosta al Tirolo austriaco, dalla Sardegna al Friuli, dal Trentino all’area istriano-dalmata. Così Marco Cuaz, per la Vallèe, ha messo radicalmente in discussione il tradizionale paradigma storiografico del regionalismo valdostano, sottolineando gli elementi di discontinuità e di rottura che separano l’antico particolarismo di matrice feudale dalla moderna cultura autonomista, nata in realtà solo nel tardo Ottocento dalle delusioni dell’esperienza postunitaria e segnata sin dalPinizio da un’ambiguità d’ispirazione che la porterà ben presto a scindersi in due tronconi, l’uno cattolico-conservatore e l’altro liberal-progressista. A sua volta Christoph von Hartungen, ricostruendo le vicende dell’autonomismo tirolese, ha evidenziato in modo inoppugnabile l’ipoteca clerico-tradi- zionalista che su di esso ha pesato sin dai tempi del conflitto con Maria Teresa e Giuseppe II, nonché la sua permanente chiusura nazionalistica verso le rivendicazioni della minoranza trentina del Tirolo asburgico. E
Marco Meriggi, in quella che è risultata forse la relazione più brillante per vivacità di riflessioni e ricchezza di stimoli, ha per parte sua affondato il coltello nei limiti e nelle contraddizioni dell’autonomismo storico trentino, arrivando a parlare per Barbacovi di una vera e propria “invenzione di una tradizione” e negando infine recisamente ogni credenziale storica al regionalismo trentino, riducibile nel suo giudizio a particolarismo di élites urbane isolate dai ceti popolari, soprattutto delle campagne. Ancora, mentre Federico Francioni ha fornito una sommaria ma puntigliosa illustrazione dei fondamenti economico-strutturali che stanno all’origine dell’autonomismo sardo, sottolineando con vigore l’attualità delle motivazioni sardiste di un Lussu e riproponendo gli spunti di “federalismo anticoloniale” presenti nella riflessione gramsciana sul caso sardo, Nelida Milani Kruljac ha ripercorso la drammatica parabola degli italiani deH’istro-quarnerino nell’ambito della Federazione iugoslava, per anni sottoposti a una micidiale politica di cancellazione della differenza etnica, non molto dissimile da quella praticata dal fascismo verso l’elemento slavo nel precedente ventennio.
Con quest’ultima relazione, come pure con lo studio più prettamente filologico proposto da Anseimo Lucat sulla nascita dell’autonomia speciale valdostana tra il 1943 e il 1948, si sono per taluni versi anticipati i temi della seconda giornata, interamente dedicata a una sorta di bilancio consuntivo dell’operato delle regioni italiane a statuto speciale, nonché al vaglio delle loro prospettive per il futuro. E qui merita innanzitutto notare l’incoraggiante convergenza di opinioni emersa tra Nelida Milani Kruljac e Darko Bràtina, esponente della minoranza slovena di Gorizia, circa la possibile soluzione dei problemi delle minoranze etniche su entrambi i versanti del confine, attraverso il recupero dell’identità giulio-istriana quale connettivo culturale di quella comunità au-
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toctona, multietnica e multilingue, a lungo lacerata dal prevalere degli opposti schiera- menti nazionalistici. Altre convergenze, seppure più scontate, si sono poi registrate sul terreno della valutazione della fisionomia statutaria delle regioni speciali, e delle stesse regioni a statuto ordinario, le une e le altre notoriamente soggette alla pesante ipoteca centralista dello Stato italiano: sotto questo profilo, infatti, pressoché unanime è suonata la conferma delle conclusioni raggiunte al precedente convegno di Cagliari, circa l’incapacità costitutiva degli attuali ordinamenti speciali di dare una risposta forte ai nodi irrisolti di natura economico-sociale e ancor più etnico-culturale che stavano alla base della loro istituzione.
Assai più sparso e variegato, invece, il ventaglio dei giudizi più direttamente attinenti le singole realtà regionali, per non dire poi degli orientamenti non di rado contrastanti circa i rimedi da adottare, pur nella comune consapevolezza dell’intreccio indissolubile della questione con il problema più generale della riforma delle autonomie locali, a cominciare da quella cruciale delle amministrazioni comunali. Mariarosa Cardia, ad esempio, dalla constatazione dei limiti istituzionali e dei ritardi politici che hanno seriamente condizionato l’esperienza autonomistica sarda, ha tratto lo spunto per sollecitare un rinnovamento complessivo del sistema dei partiti, il cui ruolo rimane a suo avviso cruciale per la diffusione di un’effettiva coscienza autonomistica tanto nelle istituzioni quanto a livello di comunità. Per il pieno dispiegamento dell’identità regionale sarda occorrerebbe infatti che l’istanza autonomistica uscisse dai confini meramente politico-istituzionali dell’ente regione, nonché dai limiti stessi della programmazione economica, per riscoprire e valorizzare le radici storico-culturali della “diversità” isolana.
Su di un versante opposto, Otello Bòsari ha viceversa rilevato come le deboli fonda
menta storiche della specialità friulana, la sostanziale assenza di un reale movimento regionalista nel secondo dopoguerra e il conseguente ritardo dell’istituzione della Regione speciale, non abbiano impedito di ottenere risultati soddisfacenti almeno sotto il profilo della capacità contrattuale nei confronti dell’amministrazione centrale (se non sotto quello certo più qualificante della produzione legislativa e della promozione di forme di autogoverno). In effetti, la crescita economica del Friuli nell’ultimo ventennio è stata impetuosa, con indici di espansione superiori alla media dell’Italia settentrionale, in gran parte grazie agli ingenti trasferimenti finanziari dello Stato. La stessa ‘ricostruzione’ post-terremoto ha contribuito a rafforzare l’immagine pubblica della regione, nonostante l’irrazionalità complessiva degli esiti (del patrimonio edilizio così ricostituito, un terzo risulterebbe inutilizzato!). Rimane il fatto, secondo Bòsari, che se non si può pertanto parlare per il Friuli di crisi del modello autonomista, come invece ha fatto Vincenzo Cali per il Trentino, le motivazioni economiche che furono alPorigine della specialità friulana sarebbero oggi largamente superate, mentre i veri mali che affliggono l’ente regionale andrebbero ravvisati nella decadenza della vita politica, immiserita dalla carenza di progettualità e dal dilagare di pratiche clientelari e corporative sul mercato elettorale.
Sull’intricata e controversa vicenda dell’autonomia trentino-sudtirolese mi sembra sia mancata una riflessione di ampio respiro, sul tipo di quella svolta da Mariarosa Cardia per la Sardegna. Consegnato agli atti per ragioni di tempo il contributo di Cali sulle per tanti versi inadempiute istanze regionalistiche della Resistenza trentina, è toccato al giurista Franco Visetti svolgere un’equilibrata ed essenziale analisi comparativa dei due successivi statuti regionali, quello del febbraio 1948, conseguente all’accordo De Gasperi-Gruber del 5-6 settembre 1946, e
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quello del novembre 1971, che sancì la ‘provincializzazione’ delle principali competenze amministrative. Pur senza uscire dalla cornice un po’ asettica dell’impostazione giuridi- co-istituzionale, Visetti ha messo bene in luce i diversi nodi ancora da sciogliere dell’ordinamento speciale trentino-sudtirolese: in particolare, la riforma dei poteri e delle dimensioni territoriali dei comuni, la ridefinizione del ruolo degli enti intermedi, la questione dell’autonomia finanziaria, il trasferimento di nuove competenze in materia scolastica e il riconoscimento di talune competenze in materia giudiziaria, il problema del bilinguismo infine, con il delicato risvolto della situazione del gruppo etnico ladino, rimasto sin qui mortificato nelle sue legittime aspettative, specie sul versante provinciale trentino.
Sulla questione ladina, particolarmente incisiva è stata la ricognizione di Luciana Palla, autrice di uno degli studi più interessanti mai pubblicati sull’argomento (I ladini fra tedeschi e italiani. Livinallongo del Col di Lana: una comunità sociale (1918-1948), Venezia, Marsilio, 1986), che ha da un lato sommariamente esaminato le ragioni storiche del tradizionale ambivalente sodalizio la- dino-sudtirolese, dall’altro ripercorso le vicende che all’indomani del secondo conflitto mondiale condussero all’emarginazione di movimenti autonomistici di ispirazione federalista quali Zent ladina e l’Asar di Chioc- chetti, con il conseguente disconoscimento, protrattosi fino ai nostri giorni, della peculiare identità culturale di questa comunità, a tutt’oggi spartita dai confini di ben tre province e due regioni. Echi della questione ladina sono di nuovo risuonati nella rievocazione fatta da Sergio Benvenuti del Centro studi per l’autonomia regionale, che operò per conto dei Cln di Trento e Bolzano nell’immediato dopoguerra, e la cui attività, culminata nell’elaborazione del cosiddetto progetto Menestrina, finì frustrata dal rapido avvento della diarchia spartitoria Dc-Svp.
Contributi settoriali di non trascurabile rilievo sono infine venuti, secondo un’analoga ottica retrospettiva assai critica nei confronti della duplice egemonia clerico-conser- vatrice, da parte di Gianni Faustini, sull’evoluzione della vita culturale a Trento e Bolzano dalla nascita della regione alla svolta del “pacchetto”; di Anton Holzer, sulle origini dell’egemonia della Svp e sul suo consolidamento ulteriore negli anni settanta e ottanta, grazie all’applicazione della “proporzionale etnica” e all’acquisito controllo monopolistico dei flussi finanziari pubblici nella provincia di Bolzano; e di Patrizio Rasera, sulla ricorrente tentazione confessionale della De trentina a utilizzare gli spazi di autonomia in campo scolastico per la difesa di prerogative e privilegi della potente chiesa locale, con contorno di risorgenti riflessi xenofobi alla “fora i teroni!” nella stessa provincia di Trento.
Dall’insieme di questi studi sembra dunque uscire riconfermata la diagnosi più o meno esplicitamente suggerita dai lavori di più vasto respiro cronologico della prima giornata, circa l’improponibilità delle facili equazioni ideologiche del tipo “regionalismo eguale democrazia compiuta” , “autonomismo eguale convivenza interetnica assicurata” , e via dialettizzando fino ad accreditare magari sul piano politico fenomeni culturalmente involutivi e ambiguamente razzistici come le varie leghe e i meloni maturati un po’ in tutta Italia in quest’ultimo decennio. Perché se è vero che, come ricordava a Trento Joyce Lussu in uno dei suoi sempre sapidi interventi, la moderna idea di autonomia si nutre dei principi di autodeterminazione e di sovranità popolare che furono del movimento democratico dell’Ottocento e che significativamente ripresero sia Wilson che Lenin in uno dei momenti cruciali della storia di questo secolo, altrettanto indubbio è che la pratica dell’autonomismo europeo, e segnatamente alpino, reca pur sempre vi
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stosi segni dell’egemonia moderata e tradizionalista, come la stessa Svizzera per taluni aspetti insegna. Converrà sempre dunque, anche in materia di regionalismi alpini, attenersi a una sobria e realistica verifica dei contenuti concreti delle politiche perseguite. Vedere bene, cioè, che vino c’è nella bottiglia. Certo, senza forme di autogoverno periferico diffuso e senza riconoscimento e tutela della diversità, non vi può essere autentica democrazia, ma sarà anche opportuno ricordare che il tessuto istituzionale delle autonomie rappresenta solo una condizione, seppure fondamentale, per la promozione di una cultura della convivenza interetnica per molti aspetti ancora tutta da costruire — fatta forse eccezione, ed eccezione alquanto parziale, come già accennato, per quel singolare laboratorio della storia europea che è la Confederazione svizzera.
Non mi pare del resto casuale che la relazione inaugurale del convegno sia stata affidata al giurista ticinese Alberto Lepori, per una panoramica sulle intricate strutture cantonali dello stato federale elvetico che, se è rimasta un po’ ai margini del successivo svolgimento della discussione, né forse poteva essere altrimenti, ha tuttavia reso testimonianza della fondamentale ispirazione federalista dell’iniziativa trentina. E a questa stessa ispirazione si ricollegava in sede di dibattito conclusivo Alberto Relia, nel- l’auspicare una revisione in senso federale della Costituzione italiana; così come a un’analoga urgenza si richiamava l’esponente ladino Sergio Chiocchetti nel rivendi
care una diversa concezione della territorialità amministrativa, non più ancorata al dogma napoleonico della divisione giurisdizionale secondo le linee di displuvio, a tutela dell’identità ladina oggi istituzionalmente frantumata.
Quanto alla vitalità dell’idea di una “trasversalità alpina” quale asse preferenziale di aggregazione per la Grande Europa di domani, secondo l’immaginosa ipotesi proposta in chiusura da Alessandra Zendron, coordinatrice della tavola rotonda, diverse e diversamente accentuate sono state le riserve espresse da Renato Barbagallo, Alberto Relia e Pierangelo Schiera, tutti peraltro concordi nel ritenere le esperienze autonomisti- che alpine troppo distanti tra loro nelle radici storiche e nelle attuali forme istituzionali per poter essere ricondotte a un unico modello politicamente significativo. Di Pierangelo Schiera va tuttavia ricordata la suggestiva riproposizione dello stesso tema in chiave di utopia progettuale: la “trasversalità alpina”, cioè, come scelta europea, consapevole e concertata, di un terreno privilegiato per la sperimentazione di un regionalismo forte, un regionalismo non più ancorato prevalentemente alla dimensione politicoamministrativa della territorialità, ma proiettato verso la dimensione più profonda delle identità etnoculturali da tutelare e promuovere, nell’ambito di una equilibrata salvaguardia dei diritti degli individui e dei corpi collettivi componenti la società civile.
Vittorio De Tassis
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Donne fra memoria e libertàdi Rosella Prezzo
La grande vivacità teorica e partecipativa che ha animato il convegno “Donne, memoria, libertà” — svoltosi ad Amalfi e Ravello nei giorni 30, 31 marzo e 1 aprile, promosso dall’Icsr (Istituto campano di storia della resistenza) e del Dipartimento di discipline storiche dell’Università di Napoli — è stata determinata soprattutto dal carattere che esso ha assunto: non tanto luogo di esposizione-presentazione di prodotti conclusi di ricerca, quanto ‘laboratorio di interrogazione’ della storia e del discorso che la forma- lizza, così come di quella ‘memoria collettiva’ che la disciplina storica si è assunta il compito di accumulare e fissare, ma anche di produrre e selezionare, e in cui le donne sono state ‘ovviamente’ incluse ma di fatto annullate quali soggetti storicamente insignificanti. In questo senso il convegno ha rappresentato, oltre a un momento di verifica deH’ormai ricca e consolidata produzione nell’ambito della storia delle donne, un profondo ripensamento dello statuto stesso del- lo(a) storico(a), del modello di conoscenza e di sapere disciplinare, così come della sua trasmissione didattica; ciò a partire dai problemi teorico-metodologici posti dalla storiografia di genere (introdotta dalla storica americana Natalie Zemon Davis e ripresa da Joan Scott), dal pensiero filosofico del post strutturalismo e della differenza sessuale intrecciati all’istanza politica di libertà fatta valere dal movimento delle donne.
La libertà per le donne si misura — come ha puntualizzato Laura Capobianco nella sua relazione introduttiva — in un “doppio movimento” che è insieme “libertà da” e “libertà di” : decostruzione di una storia e di un discorso che, dietro una pretesa universalistica o un falso pluralismo, disconoscono il valore del soggetto parziale femminile limitandone l’autonomia; e reinvenzione di nessi
significanti e di una rete di significati che conferiscano senso all’abitare delle donne nel mondo, nella sua storia e memoria. E ‘libertà di memoria’ è stata una delle parole- chiave di questi tre giorni di discussione fra storiche, filosofe, insegnanti e giornaliste.
Il convegno si è articolato in cinque sezioni: “teorie a confronto” (Raffaella Lamberti, Gianna Pomata); “percorsi delle donne del Sud” (Gloria Chianese, Emma Baeri, Lucia Valenzi, Giuliana Vitale); “politicità della storia delle donne” (Annarita Buttafuoco, Françoise Collin, Anna Rossi Doria); “divulgazione e comunicazione” (Annamaria Crispino, Paola Masi, Titti Marrone); “ricerca e didattica” (Laura Capobianco, Anna De Mascellis, Adriana Pantano e Giovanna Senatore dell’Icsr; Francesca Koch dell’Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza (Irsfar); Simona Marino, Anna Correale e Virginia Liquidato del Seminario di filosofia della differenza dell’Università di Napoli). È stato dato anche spazio alla comunicazione visiva attraverso le immagini del video La Signora senza camelie. Voci degli anni cinquanta (a cura del Landis di Bologna) e della mostra “Il lavoro delle donne del Sud tra Ottocento e Novecento” (a cura dell’Icsr).
Il nesso passato/presente, storia/memoria è stato il nodo tematico centrale in molte relazioni. Esso è infatti immediatamente e necessariamente rimesso*in discussione nel momento stesso in cui il soggetto femminile pone l’interrogazione a partire dalla sua plateale assenza come genere in quella storia che si è detta appartenere al ‘genere umano’, in quel discorso che si è preteso sessualmente ‘neutro’. La rivendicazione ad ‘essere’ — nella storia e nella memoria, nel presente e nel passato — da parte delle donne implica, dal punto di vista metodologico, non solo il
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recupero di una storia delle donne non scritta o non fissata nella tradizione storica e storiografica; ma l’introduzione del genere come categoria interpretativa e strutturante (altrettanto importante che quella di classe o razza) della realtà storica, della sua percezione sociale e culturale, della sue rappresentazioni simboliche. Tutto ciò porta a vedere la storia generale anche come storia di genere, rendendo visibile altresì la storia degli uomini in quanto uomini; rimette in questione le modalità attraverso cui il passato è diventato presente fissandosi nella memoria storica, le regole che hanno determinato la presenza e l’assenza, la centralità e la marginalità dei soggetti sulla scena storica.
Per affrontare questi problemi, Pomata ha preso le mosse da un anomalo testo sulla storia d’Inghilterra da Enrico IV a Carlo V, redatto nel 1791, che si apre in questo modo: “Enrico IV salì al trono d’Inghilterra, con sua gran soddisfazione, nell’anno 1399. Si deve supporre che Enrico fosse sposato dal momento che sappiamo per certo che ebbe quattro figli. Non è in mio potere informare il lettore su chi fosse sua moglie” . Lo storico d’eccezione, autore di tale opera, è Jane Austen, allora sedicenne. Questa brillante parodia del genere storico-manualistico — il cui titolo completo è Storia d’Inghilterra di Enrico IV a Carlo V, scritta da uno storico parziale, pieno di pregiudizi e ignorante — è assunta da Pomata come la risposta ironica di “una lettrice imprevista proprio in quanto lettrice” del testo storico, di cui è rivelato l’aspetto macroscopico e risibile dell’assenza e marginalità delle donne. Il testo di Austen è anche un documento prezioso che ci segnala un aspetto riguardante, più in generale, la storia delle donne, e su cui occorrerebbe riflettere: come, cioè, generazioni e generazioni di ragazze si siano formate culturalmente attraverso l’esperienza “paradossale e umiliante” di leggere il resoconto del passato in cui il soggetto fem
minile è stato escluso in quanto soggetto non significativo.
Si pongono, allora, due ordini di questioni: come si è formata questa “mascolinità” del genere storiografico? E, soprattutto, quanto è fondato il luogo comune secondo cui le donne sono state generalmente escluse dalle memoria storiografica?
La tesi proposta da Pomata è che occorra considerare gli effetti prodotti dai due modelli storiografici presenti nella nostra tradizione e il primato assunto dall’uno sull’altro: il modello politico-militare di Tucidide e quello biografico-storiografico di Plutarco. Il modello che ha assunto il predominio, quello di Tucidide, implica infatti l’ingiunzione al silenzio riguardo al genere femminile: il nome di una donna non va menzionato al di fuori delle mura domestiche e la gloria delle donne sta nell’essere nominate il meno possibile. Plutarco, invece, riconosce pari dignità ai due sessi ed afferma la necessità di “lasciare le vite e le azioni degli uomini e delle donne le une accanto alle altre per confrontarle come si confrontano due opere d’arte” (Le virtù delle donne). E il filone di ‘storia delle donne illustri’, iniziato da Plutarco, rappresenta il modello più antico di storia delle donne che noi conosciamo. È inoltre proprio attraverso questo genere storiografico ‘egualitario’ che si sono espressi i maggiori esempi di scrittura (fra i quali Pomata ha ricordato una lettera scritta nel 1380 dall’umanista italiana Laura Cereta) dedicati a rivendicare la dignità del sesso femminile. Attraverso il genere plutarcheo, che non privilegia il pubblico a scapito del privato, le donne hanno avuto accesso alla storiografia sia come oggetti che come soggetti di ricerca storica, alimentando quel genere definito di ‘storia particolare’. Va infatti sottolineato — come ha documentato Davis per l’area francese e inglese, in un saggio dedicato alle donne storiche fra 1400 e 1800 — che, al contrario di quanto pensiamo oggi, numerosi sono i contributi alla sto
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riografia da parte delle donne. Nella memorialistica femminile di ‘storia particolare’, soprattutto seicentesca, la storia monumentale degli eventi, la cronaca politico-dinastica e militare lasciano il posto a una storia delle relazioni intersoggettive, dei sentimenti, dei costumi e dei cerimoniali: di quei ‘particolari’, cioè, che la storia ufficiale scarta come non memorabili. Questo genere ‘spurio’, cui le donne hanno dato un grande contributo, è uno dei filoni che condurrà alla ‘storia sociale’: assai prima della scuola delle “Annales” , la critica alla storia degli eventi è stata ‘agita’ da queste storiche.
Con l’Ottocento si attua una svolta e una rimozione di questo filone storiografico; è a partire dall’Ottocento — quando si afferma il modello storiografico positivista e contemporaneamente la storia diventa un insegnamento di massa e le donne stesse hanno accesso alla scuola superiore — che le donne scompaiono rapidamente dalla memoria storica; ciò soprattutto nei manuali, nelle sintesi generali e nell’interpretazioni storiografi- che. La nuova storia accademico-professionale, dovendo differenziarsi dalla storiografia letteraria che l’ha preceduta, elimina come ‘note di colore’ e anedottica triviale gli aspetti ‘privati’ e ‘particolari’, le ‘trame quotidiane’ della storia. Le donne fanno parte di questo versante e perdono significatività e rispettabilità storica. Un esempio eloquente è dato dalla Storia universale Larousse, la cui stessa politica editoriale, indicando ai collaboratori i criteri da seguire nella stesura dell’opera, decreta l’esclusione delle donne dalla trattazione storica in quanto elementi che ne avrebbero sminuito il tono scientifico; largamente presenti le donne rimangono invece nella parte iconografica.
Può essere ricordato qui, a riprova di quanto sostenuto da Pomata, anche la fondamentale Storia della storiografia moderna, ultimata da Edward Fueter nel 1911. Proprio in apertura, trattando delle origini della storiografia moderna nel Trecento, e in
particolare di Giovanni Boccaccio che aveva affiancato al Liber de viribus illustribus del Petrarca una raccolta di biografie di donne (De Claris mulieribus), Fueter esprime il seguente giudizio: “Era uno strano pensiero [...] quello di partire dal fatto che Petrarca aveva parlato solo di uomini, e trarne la conclusione che la giustizia o la galanteria richiedeva ora anche una correlativa opera femminile” . Petrarca infatti, secondo Fueter, non aveva trattato di uomini, piuttosto di “generali e statisti romani” cioè della “grandezza militare e politica dell’antica Roma”; mentre Boccaccio, con le sue storie femminili, “abbandonò il terreno della storia” . La storia degli uomini s’identifica qui con la storia generale, mentre le donne risultano essere rispetto ad essa ‘particolari’ storicamente insignificanti.
Questa è la tradizione e i modelli storiografici in cui si inscrivono tuttora i manuali di storia. Ripensare alla nostra tradizione storiografica vuol dire allora, secondo le indicazioni metodologiche di Pomata, considerare la presenza in essa — oltre alla tensione, già individuata da Momigliano, fra ‘tradizione antiquaria’ e ‘tradizione retorico-narrativa’ — di quella tensione, relativa all’oggetto, che si esprime fra storia e memoria, fra particolare e universale.
Se, quindi, l’amnesia e la memoria hanno una loro storia, che è anche una storia del potere; se non è possibile riabilitare le donne sia come oggetti che soggetti di storia, sottrarle al silenzio calato su di loro e sul loro pensiero come una pesante censura, senza destrutturare la ‘storia generale’; se d’altra parte, ogni soggetto che pretende legittimazione deve costruirsi un passato; un altro problema che si pone per le donne, e in particolare per le storiche — come hanno messo a fuoco gli interventi di Buttafuoco e Rossi Doria — è quello delle modalità della ‘costruzione’ di una tradizione femminile.
Ciò implica, per Rossi Doria, da un lato ridare visibilità ad una tradizione femminile
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già presente nella storia, di pari valore di quella maschile (secondo l’operazione attuata da Pomata); dall’altro, analizzare le complesse relazioni, il rapporto ambiguo fra empatia e/o distanza, fra memoria e identità, che s’intesse fra donna autrice e donna oggetto di ricerca, dove il desiderio di riparazione e di riscatto delle esistenze delle donne del passato s’intreccia a quello di un riscatto delle donne del presente ‘dal’ passato, così profondamente segnato dalla loro emarginazione. Occorre cioè fare i conti, attraverso il ripensamento del rapproto madre-figlia, con quelle interruzioni di tradizione che si sono operate all’interno stesso del sapere femminile. A questo riguardo è necessario rendersi consapevoli di quale tipo di domanda si rivolge al passato, a quale politica dell’oblio si risponde, quali strategie della memoria si mettono in atto: se, cioè, si opera una costruzione di “memoria come rafforzamento d’identità” al di là del tempo (facendo attenzione, però, al rischio possibile di riprodurre un archetipo del femminile), o una costruzione di storia come temporalizzazione. Tener insieme questa triangolazione (identità, memoria, storia) significa mantenere un equilibrio estremamente difficile. Perché entra qui in gioco anche l’aporia che le donne vivono rispetto al tempo: se, infatti, per avere ‘effetto storico’ e per costruire una tradizione, devono inserirsi e conquistare una temporalità progressivo-lineare che è il tempo dello storicismo, esse spezzano continua- mente tale temporalità nella loro vita che è ritmata da una “pluralità di tempi” (tempo arcaico, naturale-ciclico, interno, del quotidiano). Le donne devono inoltre uscire da quella rappresentazione simbolica che le ha sempre legate al tempo immobile della ‘custodia’ o a quello inafferrabile della ‘fuga’, inibendo loro il ‘movimento’ del divenire.
La conquista e la costruzione della memoria come costruzione di una dimensione storico-temporale che favorisca la valorizzazione e l’autoriconoscimento, coinvolge anche
il problema dell’ ‘interpretazione’ del passato. Questo atto, infatti, implica sempre scelta e selezione da parte dell’interpretante. Su tale aspetto si sono soprattutto incentrate le relazioni di Marino e Buttafuoco.
Marino, dando una risposta in chiave più prettamente filosofico-ermeneutica, ha sottolineato il fatto che, una volta liberatisi dell’idea metafisica di una verità ontologica da scoprire, ogni sapere si rivela interpretazione, che di volta in volta, attraverso donazione di senso, struttura un ordine performativo che non ha nessun valore di assolutezza. In questo contesto, allora, il passato non è mai dato una volta per tutte, né costituito da istanti in successione retti da una ragione storica, ma esso stesso si pluralizza in tanti passati. La memoria stessa, di conseguenza, non è un passato che ci viene consegnato per essere riportato alla luce, ma una rete differenziale di ‘tracce’ che si rendono disponibili a una parola che le raccolga o a uno sgurado che le focalizzi. Solo in essa l’evento può accadere e trascriversi in una catena di significati, che ogni volta ridisegnano le ‘possibilità’ del passato nell’orizzonte del presente all’interno delle quali è possibile scegliere le proprie storie.
Il problema dell’interpretazione è stato assunto, invece, da Buttafuoco in relazione alla responsabilità politica della storica femminista. Se infatti la storia ha una sua specificità disciplinare (cosa, questa, di cui Marino sembra non tener conto a sufficienza), è cioè quella tecnica che per suo stesso statuto “dissipa l’amnesia per attivare la memoria”, lo fa tuttavia sempre in modo selettivo: a secondo del punto di vista politico, sociale, personale, sessuale dello storico ma anche del contesto in cui si trova ad operare. Quali sono allora le donne che la storica cerca? Quali gli eventi, le vite che ‘sceglie’ di riportare alla luce, consapevole com’è che questa operazione ha effetti di ritorno nel pensarsi politico e storico delle donne nel presente? La storia non può essere una disciplina pre
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scrittiva e normativa, se non vuole diventare operazione ideologica sul passato; per questo non possono essere ‘tutte’ le donne indiscriminatamente, la categoria ‘donne’ in quanto tale ad essere sottratta dal limbo storico. Quello che la storica può e deve fare è restituire la ‘complessità’ dell’esperienza, 1’ ‘identità molteplice’ femminile (e qui il lavoro sulle biografie rivela tutta la sua importanza), così come i differenti percorsi attraverso cui i movimenti politici delle donne hanno costruito la loro tradizione. Rispetto a quest’ultimo punto, ad esempio, il caso italiano è completamente diverso da quello francese o americano. I movimenti femministi in Usa e in Francia hanno, infatti, sempre sostanziato le loro lotte col ricordo attivo dei movimenti precedenti, avvalendosi nella loro identità politica di quella che affermavano come una tradizione alta e legittimante. In Italia non c’è nulla di paragonabile: sia per il movimento emancipazionista tra Ottocento e Novecento, sia per il movimento contemporaneo del secondo dopoguerra valse il diritto all’oblio del passato, visto unicamente come un fradello mortificante da cui liberarsi per poter darsi un’identità di donne nuove, portatrice di nuovi valori e modelli. Tuttavia proprio nell’Udi si esprime sin dall’inizio il bisogno di legittimare le proprie lotte; e, qui, dove sembra non esserci una tradizione, una tradizione viene inventata: è l’origine dell’8 marzo. L’assunzione ‘mitica’ del martirio a fondamento della propria storia sostituisce la costruzione di una tradizione dando comunque legittimità alla lotta delle donne, rivelando in modo esplicito l’importanza che l’elemento simbolico assume nella storia.
La necessità di una ‘vigilanza’ nei confronti di precipitose generalizzazioni, di stereotipi ideologici, così come di tentazioni ontologiche nell’uso della categoria di genere è stata ribadita anche da Collin. Vigilanza che risulta necessaria per non ricadere nel ‘vizio’ marxista della contraddizione princi
pale che spiegherebbe tutte le altre; per avere sempre presente che la priorità che, come femminista, si dà a un paradigma è un problema di scelta e non di verità ontologica; perché il soggetto stesso femminile non è riassumibile senza residui nel suo essere sessuato. Se non si tiene conto anche della pluralità presente nel soggetto, si corre il rischio di riconoscere i soggetti femminili solo per ciò che in essi “fa segno” e può essere capitalizzato nella storia di cui si sono definite a priori le coordinate, lasciando cadere tutto quel vissuto vitale delle singolarità, che possono darsi solo a chi si pone in atteggiamento di ascolto non preconcetto o nel racconto del “tempo perduto” della Storia.
L’originalissima relazione di Baeri è stata, proprio rispetto a ciò, un felice esempio di narrazione di un percorso intellettuale-autobiografico, attraverso la tessitura del presente, in cui l’esperienza di donna del Sud negli anni sessanta-settanta — esperienza personale, politica, femminista, professionale che si muove su uno sfondo “mediterraneo e meridionale” occupato dalla fissità di figure femminili incarnanti il potere arcaico materno e dal movimento di liberazione di alcuni gruppi di donne — s’impatta con la Storia (nella sua veste di sapere disciplinare ed accademico). L’esperienza e la storia entrando in attrito finiscono per interagire rimandandosi vicendevolmente nuovo significato e senso. Ne scaturisce una ricerca che, ricomponendo i luoghi tenuti separati della storia, dà evidenza non tanto a una storia di genere accaduta o non scritta avente come denominatore comune l’oppressione o l’affermazione di principio di una libertà astratta; ma che dà significazione ai luoghi di attrito delle donne col tempo e col discorso storico, in un processo che va dall’estraneità all’assunzione di cittadinanza in essi.
Un altro aspetto del rapporto storia/me- moria affrontato in questo convegno è stato quello relativo alla trasmissione del sapere storico nella didattica. A questo proposito,
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Lamberti ha sottolineato la necessità di uscire dalla logica che vede nella didattica una pura appendice o una traduzione divulgativa della ricerca storica: la didattica è essa stessa una ricerca. Il rapporto fra accademia e scuola deve essere a doppio senso, e la ricerca storica deve saper accogliere quei quesiti di ordine storiografico-metodologico che spesso hanno origine proprio nella ricerca didattica. Un esempio di ciò riguarda proprio la storia delle donne e la storiografia di genere che hanno avuto un particolare impulso da parte delle insegnanti che hanno sollevato il problema della formazione dell’identità storico-soggettiva negli allievi e nelle allieve. Ma di tutto questo non vi è an
cora alcuna traccia nei nuovi programmi approntati per il biennio superiore. Supplendo a questa carenza, il gruppo di donne dell’I- scr e quello dell’Irsfar hanno elaborato due curricoli di storia delle donne: il primo, partendo dalla figura di Eleonora De Fonseca, ricostruisce la situazione della educazione e della cultura delle donne, le strategie matrimoniali e le relazioni internazionali nel Regno borbonico alla fine del Settecento; il secondo rilegge i profondi mutamenti sociali, economici, culturali e di costume avvenuti in Italia negli anni cinquanta attraverso i modelli e gli stereotipi femminili e la loro modificazione.
Rosella Prezzo
Eserciti e popolazioni sul Sangrodi Massimo Legnani
Se è vero che l’attenzione degli studiosi della seconda guerra mondiale è venuta sempre più spaziando dai campi di battaglia all’impatto complessivo del conflitto sulla società civile, la campagna d’Italia offre in proposito più di un teatro privilegiato di osservazione. La traversata lenta e a lungo stagnante della guerra nell’Italia centrale — indubbiamente connessa alla progressiva marginaliz- zazione strategica della penisola rispetto agli altri fronti europei, ma anche alla efficacia delle difese tedesche verso una spinta alleata ricca di pause e di gravi incertezze — rende infatti particolarmente stretto l’intreccio eserciti/popolazioni e schiude alla ricerca prospettive la cui esplorazione è stata avviata solo di recente. Un riferimento d’obbligo è in questo senso fornito dal convegno sulla “linea gotica” promosso nel 1984 dall’Isr di Pesaro e dall’Anpi di Pesaro-Urbino (ed i cui atti sono raccolti nel volume, a cura di
Giorgio Rochat, Enzo Santarelli e Paolo Sorcinelli, Linea gotica 1944. Eserciti, popolazioni, partigiani, Milano, Angeli, 1986). Sulla scia di quell’esperienza si pone ora, con spiccate analogie di impostazione, il convegno su “La guerra sul Sangro: eserciti e popolazione in Abruzzo 1943-1944”, svoltosi ad Atessa dal 5 al 7 aprile per iniziativa di quella amministrazione comunale, con la collaborazione, oltre che dell’Isr dell’Abruzzo e dell’Insmli, delle università abruzzesi, dell’Ufficio storico dello Sme, del Centro interuniversitario di studi e ricerche storicomilitari e dell’Archivio di stato di Pescara.
Il nucleo, particolarmente organico e rappresentativo, dei contributi di storia militare è stato aperto da una relazione quadro di Rochat e si è sviluppato, dopo alcune “considerazioni strategiche” svolte da Pier Luigi Bertinaria, attraverso interventi di John Strawson sui piani operativi della Vili Ar
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mata di Montgomery (corredato da una puntuale integrazione di Alexandra Ward circa le fonti archivistiche britanniche), di Gerhard Schreiber sulla condotta della Wehrmacht, di Wojciech Narebski sul II Codpo d’armata polacco, di William McAn- drew sul contingente canadese, di Neville C. Phillis su quello neozelandese. Pur senza trascurare gli effetti derivanti dalla subalternità dello scacchiere italiano, dall’insieme di questi apporti sono emerse soprattutto considerazioni relative ai limiti della visuale alleata, alle insufficienze della impostazione della campagna e del coordinamento operativo. Le inadeguate risposte al problema dei rifornimenti e dei ragguagli sul terreno e le condizioni climatiche sono salite di frequente in primo piano e di particolare interesse si è rivelata, per gli elementi critici in essa contenuti, la ricognizione sul campo — sulla vallata del Sangro come “asse trasversale” nella geografia della campagna d’Italia — condotta da un geografo, Berardo Cori. Frequenti anche le indicazioni, dirette e indirette, sull’attitudine al combattimento delle diverse unità e sulla loro struttura interna. In quest’ultimo caso vanno soprattutto sottolineate le preziose anticipazioni (derivanti da uno studio generale in via di completamento) fornite da McAndrew sui servizi psichiatrici aggregati all’unità canadese e più in particolare sui massicci interventi che questi dovettero compiere nel corso della battaglia di Ortona, una delle più violente e sanguinose dell’intero ciclo operativo.
Oltre che per le nuove conoscenze prodotte, la ricostruzione dei fatti militari, della tesa battaglia di logoramento che copre per intero gli ultimi mesi del 1943 si è rivelata di grande utilità anche ai fini di una analisi più puntuale dei modi e tempi di coinvolgimento della popolazione civile. Qui alcune coordinate indispensabili a ricomporre il panorama complessivo sono state tracciate da Costantino Felice e Luigi Ponziani. E nella trama si sono vìa via inseriti contributi più
strettamente monografici, quali quelli, fra gli altri, di Carlo Vallami ed Albino Cavaliere sulle origini e le prime azioni della Brigata Maiella, di Roger Absalom sui prigionieri alleati evasi e sui loro rapporti con la popolazione, di David Ellwood sul sistema d’occupazione angloamericano, di Giuseppe Caniglia e Angelo Stanisela sull’evolversi della vita locale rispettivamente a Bomba e ad Atessa. Tratti generali e situazioni specifiche si sono costantemente intrecciati dimostrando l’incongruità di costruire un’ipotetica immagine mediana. Ciò vale per i fenomeni che il passaggio del fronte determina (intersecarsi di disordinati flussi di popolazione, distruzioni di beni, violenze e coercizioni operate dai soldati sui civili) quanto per la percezione che singole comunità e gruppi sociali ebbero dell’evento. Appare soprattutto rilevante, a quest’ultimo riguardo, l’intento perseguito da più di un relatore di costruire categorie di giudizio interne alla situazione, registrando in diversi casi il formarsi — anche attraverso i molti episodi di autodifesa — di forme nuove di consapevolezza, ma anche non tacendo gli effetti disgreganti del conflitto. Sotto i quali, del resto, riemergono e talora si inaspriscono tensioni connaturate alla società locale e all’impiego delle sue risorse economiche e culturali. Le considerazioni di Felice sui persistenti indici di “sopraffazione” della città sulla campagna o sul non infrequente allentarsi dei vincoli di solidarietà costituiscono altrettanti richiami alla necessità di leggere in modo meno sommario e superficiale di quanto spesso si faccia le interrelazioni del tessuto sociale ed economico ‘profondo’ con i contraccolpi della “guerra in casa” .
Da quanto s’è detto, risulta evidente l’impegno del convegno a istituire uno scambio diretto e continuo tra i due poli tematici che hanno costituito l’asse dei lavori. Eserciti e popolazioni rappresentano due realtà fortemente complementari non solo perché la natura del territorio e delle operazioni militari
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che vi si svolsero determinano una stretta contiguità fisica tra i due soggetti, ma perché la dinamica dei comportamenti, sull’uno e sull’altro versante, è originata da atteggiamenti e reazioni che solo un ulteriore scavo delle rispettive culture consentirà di mettere pienamente a fuoco. V’è semmai da notare che proprio questa miscela di culture postula un loro inquadramento in un arco che superi l’ambito cronologico della battaglia. Alcuni spunti presenti nelle relazioni sulle popolazioni dimostrano che questa esigenza incomincia ad essere recepita e che essa risulta essenziale per comprendere da quale mescolanza di atteggiamenti, mentalità e interessi scaturisca la individuazione dell 'alleato e del nemico e gli eventuali capovolgimenti di prospettiva che la guerra detta. Si è così sottolineata, ad esempio, la necessità di verificare sin dove in certe zone dell’Abruzzo si sia assistito a tentativi di riorganizzare l’opinione fascista e quanto questo possa avere pesato sugli stati d’animo prevalenti nelle retrovie. Spia questa minore, certamente, di processi ben altrimenti complessi, ma in grado di aiutarci a capire meglio quali eco la ‘guerra fascista’ avesse sollevato nella socie
tà abruzzese, a quali ambiti le sue parole d’ordine fossero rimaste estranee e dove, all’opposto, fossero riuscite a penetrare provocando mobilitazione o, quantomeno, ‘lealismo’. Occorre infatti non dimenticare che soprattutto nelle province centro-meridionali le motivazioni sociali deU’imperialismo fascista avevano creato, soprattutto all’inizio del conflitto, diffuse aspettative. Tutto ciò costituisce una premessa indispensabile ad intendere quanto la caduta del regime, P8 settembre e un così lacerante passaggio del fronte abbiano contribuito al formarsi di una nuova coscienza politica o quanto invece siano stati recepiti come pura crisi di autorità e spinta a rinchiudersi nel gruppo, nella ‘piccola patria’ di paese. Si tratta di un tema nevralgico, che riconnette fortemente il 1940-1943 al 1943-1945 e dai cui sviluppi è ragionevole attendersi spunti interpretativi nuovi sul processo di transizione alla repubblica. Uno dei meriti del convegno di Atessa sta senza dubbio nell’aver proceduto alla ri- costruzione della storia locale secondo un’ottica attenta a questo interrogativo generale.
Massimo Legnani