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Quadrimestrale Numero Speciale 5 - anno 2018 per la tutela dei Beni Culturali

Numero Speciale 5 - restauratore beni culturali · Beni Culturali Numero Speciale 5 - 2018 rivista fondata da Giulio Bresciani Alvarez Direttore Renzo Fontana Direttore responsabile

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Roberto Bergamaschi Note di tecnica della tarsia lignea tra XV e XVI secolopagina 2

SOMMARIOPROGETTO RESTAUROQuadrimestrale per la tutela dei

Beni CulturaliNumero Speciale 5 - 2018

rivista fondata daGiulio Bresciani Alvarez

DirettoreRenzo Fontana

Direttore responsabileLuca Parisato

VicedirettoreAnna PietropolliResponsabile di redazioneMarina Daga

RedazioneAntonella B. Caldini, Luca Caburlotto, Daniela Concas, Maria Sole Crespi, Daphne De Luca, Paolo Ervas, Marco Ferrero, Raffaella Marotti, Olimpia Niglio, Renzo Ravagnan, Francesca Saccardo, Deodato Tapete

Corrispondente dall’InghilterraClaudia Sambo

Corrispondente dagli U.S.A.Maria Scarpini

PeriodicitàQuadrimestrale

Amministrazione e redazioneil prato publishing house srlvia Lombardia, 43 - 35020 Saonara (Padova)tel. 049 640105e-mail: [email protected] - www.ilprato.com

© Copyright gennaio 1998il prato Publishing House srl - Padova

Codice ISSN 1974-7799

Ideazione graficaNicoletta Silvestrin

Protezione dei dati personali - Informativa ex artt. 13 e 23 D.Lgs. n. 196/2003. I dati personali raccolti almomento dell’abbonamento sono trattati dalla casa edi-trice il prato, titolare del trattamento. Il conferimentodei dati richiesti è facoltativo: un eventuale rifiuto dicomunicare i dati indicati nel modulo on line come neces-sari comporta, tuttavia, l’impossibilità di fornire il Serviziorichiesto. L’abbonato potrà esercitare i diritti di cui all’art.7 del D.Lgs. n. 196/2003 (accesso, correzione, cancella-zione, opposizione al trattamento ecc.) rivolgendosi alTitolare del trattamento: il prato Publishing House srl,via Lombardia 43, 35020 Saonara (PD).

Tutte le informazioni relative al prezzo della rivistaProgetto Restauro si possono trovare nel sitoprogettorestauro.ilprato.com

Registrazione presso il Tribunaledi Treviso n. 971 del 19.09.1995

In copertinaIl disegno per la preparazione del toppo, un motivo ditoppo e la coda cavallina.Le opinioni espresse e le foto pubblicate negli articoli dallarivista Progetto Restauro impegnano esclusivamente i rispettiviautori.

Periodo (p. 2)Fonti (p. 4)Specie Legnose e Fornitori (p. 5)Utensili - prime lavorazioni (p. 7)Preparazione dei “lastroni” (p. 9)Dal disegno al legno (p. 14)Il taglio delle tessere (p. 15)Procedure (p. 16)Incollaggio (p. 16)Ombreggiatura (p. 18)Tintura (p. 19)Profilatura (p. 26)Verniciatura (p. 26)Il toppo (p. 30)

Note (p. 31)

Note di tecnica della tarsia lignea tra XV e XVI secolo

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Tecnicae Restauro

Note di tecnica della tarsia lignea tra XV e XVI secoloRoberto Bergamaschi*

Il testo fondamentale per lo studiodella tecnica della tarsia rinascimen-tale e dei suoi antecedenti è statopubblicato in occasione del restaurodello studiolo di Gubbio presso ilaboratori del Metropolitan Museumof Art di New York. A questo studio,uscito in edizione italiana nel 2007, sifa riferimento per l’ampiezza e la pro-fondità dei temi trattati, per losguardo tecnico che li informa, non-ché per il repertorio bibliografico1.Tuttavia, nonostante la ricchezza delmateriale offerto, c’è ancora spazioper approfondire diversi aspetti tec-nici, la cui definizione è spessocostretta a seguire suggestioni dai per-corsi non sempre certi o convergenti.Alcuni di questi percorsi – quelli amio avviso più accostabili e docu-mentati – saranno materia di questenote, che riguardano soprattutto uten-sili e sostanze in uso nell’operativitàdi quelle botteghe che tante stupendeopere ci hanno lasciato.

PeriodoLa tarsia rinascimentale è caratteriz-zata da una sorprendente efficaciafigurativa.Questo perché dai suoi esordi è parteintima di un “ragionamento”che lapone “all’incrocio di tutte le arti”2 inquanto intimamente legato alla sco-perta della prospettiva (Figg. 1-2).L’efficacia figurativa viene poi esaltatadalla sovrapposizione tra quanto rap-presentato ed il luogo fisico che laospita, e cioè l’arredo. Perfettamentesovrapponibile al dato reale la vistadi interni con ante e oggetti vari; piùlibera ma ancora convincente l’aper-

tura come di finestre su veduteurbane, finestre prospettiche appunto.E da ultimo la nitidezza dei “cantivivi”3, propria della tecnica, enfatizzala sorprendente trama del ragiona-mento sotteso.L’arco cronologico preso in conside-razione per analizzarne gli aspetti tec-nici va dagli arredi delle pareti lateralidella Sagrestia di Santa Maria delFiore a Firenze (Fig. 3), eseguiti trail 1436 ed il 1445 da Agnolo di Laz-zaro ed Antonio Manetti, “primoesempio documentato dell’applica-zione della nuova scienza della pro-spettiva all’arte della tarsia”4, fino al

Fig. 1. Liuto, studio moderno di tarsia storica. (foto Roberto Bergamaschi)

Fig. 2. Finestra prospettica. Albrecht Dürer, Lo sportello, 1525 ca. - Gabinetto disegnie stampe degli Uffizi, Firenze.

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Tecnicae Restauro

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coro ligneo di Santa Maria Maggiorea Bergamo (Fig. 4), costruito tra il1523 ed il 1533 da Giovan FrancescoCapoferri su disegni di LorenzoLotto5, che restituisce un linguaggioancora di alto livello, ma ormai deci-samente mutato.Nel corso del secolo le tarsie si arric-chiscono di capacità espressive, comeevidente nell’opera dei grandi maestridi intarsio che lo hanno percorso6.Solo per fare un esempio ricordiamola ricchezza di dettagli al limite delvirtuosismo di Fra Giovanni daVerona (Fig. 5), o la coerente (nel-l’ambito della rappresentazione pro-spettica) e potente sintesi della figuraumana realizzata dai Canozi, come

Fig. 3. Scaffale con libri. Agnolo di Lazzaro - Firenze, Sagrestia delle Messe - paretesud - sec. XV. G. Manni (a cura di), I signori della prospettiva - Le tarsie dei Canozie dei canoziani (1460-1520) - Cassa di Risparmio di Mirandola, 2002.

Fig. 4. Giuditta e Oloferne. Giovan Francesco Capoferri - Bergamo, Coro di SantaMa ria Maggiore - sec. XVI.

Fig. 5. Scaffale con oggetti vari. Fra Gio-vanni da Verona - Verona, Coro di SantaMaria in Oragano - sec. XV. G. Manni (a cura di), I signori della prospettiva - Le tarsie dei Canozi e dei canoziani(1460-1520) - Cassa di Risparmio diMirandola, 2002.

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Documentie Restauro

nello stupendo San Gregorio Magnodel Duomo di Modena, 1461-1465(Fig. 6), fino ad arrivare a scene distoria ambientate tanto in nitide archi-tetture (ma sempre più ricche di det-tagli e di piccoli attori) quanto in pae-saggi ormai dalla forte valenza pitto-rica, come nelle rappresentazionivetero testamentarie e negli emblemidel coro bergamasco.Delle opere fiorentina e bergamascaabbiamo documenti di spesa redattidall’amministrazione delle Fabbrice-rie. Altri documenti presi in conside-razione riguardano i cori dei Canozial Santo di Padova e al San Giminianodi Modena, entrambi degli anni ’60del XV secolo, e i cori di Santa Mariain Organo a Verona e dell’Abbaziadi Monte Oliveto Maggiore a Siena,entrambi di Fra Giovanni da Verona,costruiti a cavallo tra XV e XVIsecolo7.

FontiI libri contabili, qualora conservatisi,sono i documenti più attendibili, an -che se scarni, per completare le infor-mazioni tecniche di cui sono portatricile opere giunte fino a noi. Sono i piùattendibili perché danno effettiva-mente conto di quanto viene acqui-stato per un determinato lavoro, chenon sono solo legni, ma anche colle,vernici, coloranti. Mancano, se nonin rarissime occasioni, gli utensili, peri quali cercheremo di fornire comun-que, appoggiandoci a documenti nota-rili come l’inventario redatto a Padovanel 1440 in morte del marangone diAntonio Zilio, o quello del 1496 diAngelo di Giacomo carpentiere inPerugia, la terminologia più oppor-tuna8.Tuttavia i materiali citati nei docu-menti ed il loro effettivo impiego nonsono sempre di facile interpretazione,

sia per aspetti lessicali quanto per ladistanza temporale dell’operativitàche andiamo ad indagare. Per cercaredi comprenderli ci si deve rivolgereperciò ad altre fonti, di carattere piùgenerale.Per quanto riguarda gli utensili, findall’antichità troviamo documentifigurativi, con rappresentazioni nellearti maggiori di scene di lavoro, maper noi risulta particolarmente inte-ressante quanto riprodotto dagli intar-siatori stessi.In realtà per arrivare a descrizionisistematiche degli utensili e del loroutilizzo la trattatistica comincia adessere esplicativa solo dal XVII-XVIII secolo.Per gli altri materiali (colle, vernici,coloranti) i ricettari sono la fonte piùpreziosa per interpretare i libri dispesa. Ricchi di informazioni vannoconsiderati tuttavia con molta cautela.

Fig. 6. San Gregorio Magno. Cristoforoe Lorenzo Canozi - Modena, coro delDuomo - sec. XV. G. Manni (a cura di), ,I signori della prospettiva - Le tarsie deiCanozi e dei canoziani (1460-1520) -Cassa di Risparmio di Mirandola, 2002.

Fig. 7. Armadio con armatura. Giulianoda Maiano - Urbino, Palazzo Ducale -secolo XV. M.Wilmering, Le tarsie rina-scimentali e il restauro dello studiolo diGubbio, Federico Motta Editore, Milano2007.

Fig. 8. Alcune specie legnose. (foto RobertoBergamaschi)

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Prima e dopo il Cennini9, autore delprimo vero ricettario moderno, risen-tono comunque del clima culturale edegli interessi del compilatore, nonsempre effettivamente attento allafedeltà o alla verosimiglianza diquanto descritto10.

Specie legnose e fornitoriUn capitolo solo in parte indagato èquello dell’approvvigionamento deilegnami. Il grande mercato riguardale forniture militari (quercia, faggioe abete per gli arsenali), edili o deicombustibili, concentrate solo sualcune specie legnose prevalentementea crescita boschiva o forestale. A Vene-zia “oltre il novanta per cento dellegname prodotto e portato in lagunaera costituito da borre da fuoco diabete rosso, faggio, o larice, mentrele specie legnose impiegate nell’ediliziaveneziana si distinguono tra quelleimpiegate per le fondazioni, roveri,ontani, pioppi, olmi, che sono tuttespecie dei boschi planiziali, e quelleutilizzate per le opere in spiccato(orizzontamenti, pareti leggere), pre-valentemente abete, larice, pino, chesono tutte specie alpine, per le dimen-sioni, l’abbondanza, la facilità del tra-sporto, ma soprattutto per il rapportofavorevole leggerezza-resistenza”11.In una scala di interesse commercialedecisamente minore, spesso locale,erano le forniture per i legnaioli, maanche di altre attività che vedevanosempre nella lavorazione del legno, dialcuni particolari legni (che vedremoutili anche all’intarsiatore) la lororagione produttiva.Tanto il noce ed il pioppo, che servi-vano alla costruzione degli arredi,quanto il larice, il rovere ed il castagno(in dipendenza dalle aree geografiche)impiegati come legni strutturali, dove-vano comunque essere reperiti insignificative quantità.Essi potevano essere usati anche perle tarsie; in particolare il noce grazie

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all’ampia gamma di tonalità, nonchédi “disegno”, che lo caratterizzano:“pro certo ligno nucis maculato seuum brato”, come registrato negliacquisti della Misericordia a Bergamonel giugno del 1531. È noto il pannellodi Giuliano da Maiano dello studiolodi Urbino (1473-76), con la rappre-sentazione di una armatura collocatain un vano prospettico, realizzato,come riconosciuto nel restauro deglianni ’80, quasi esclusivamente conquesta specie legnosa (Fig. 7).Sono più di venti le specie legnoseimpiegate dagli intarsiatori rinasci-mentali (Fig. 8). Nel XVIII secolo lagamma di legni a disposizione, grazieanche al commercio di legni esotici,si amplierà fino a comprenderne circa80, come nell’elenco del Mazzanza-nica relativo alla bottega del Maggio-lini12.Nei libri di spesa tra i fornitori emer-gono, oltre ai commercianti di le gna -me, i colleghi legnaioli (o marangoniin veneto), ma anche i cofanari ed ifusari. Acquisti di legni particolarisono fatti presso il tintore.A Padova, il 27 aprile 1462, i fratelliCanozi firmano il contratto per lacostruzione del coro nella Basilica delSanto. Nei mesi successivi iniziano gliacquisti di legname. Il 29 dicembre,tra le altre date, gli incaricati dellaBasilica si recano nella bottega diFrancesco da Pieve, marangone inPiazza del Vino, l’attuale Piazza delleErbe. Con loro era “presente maistroLorenzo”, a sopraintendere l’acqui-sto di parte del legname necessarioalla realizzazione delle tarsie del coroin costruzione.Francesco da Pieve fornisce al Santola fusaggine ed il legno negro, specielegnose emblematiche della tarsialignea, che troviamo infatti, unita-mente al noce, al pioppo (già visti perla costruzione degli arredi) ed al pero,nella rosa dei legni acquistati per per-duti banconi intarsiati della sacrestia

nord di Santa Maria del Fiore, realiz-zati attorno al 1435 da Agnolo di Laz-zaro. La gamma fiorentina si ampliapochi anni dopo nella pannellaturadelle pareti laterali eseguite da Agnoloe dal Manetti con l’acero, il gelso ed“altro legname atto per tarsie”.Per avere in bottega questi legni evi-dentemente Francesco da Pieve rea-lizzava a sua volta mobili intarsiati,ma aveva dovuto cedere il passo peruna commissione così importante aglispecialisti di un nuovo tipo di rap-presentazione: i “maestri di prospet-tiva”.Per quanto riguarda il “legno negro”il canale di un abbondante approvvi-gionamento doveva essere particolare,al di fuori del circuito degli abbatti-menti boschivi. Le maestranze di Ber-gamo dovevano andare a Brescia perreperirlo. Si tratta di un legno con colo-razione nera naturale, ovvero non otte-nuta “per artificio”. Nei documentiveniva spesso associato alla quercia,ed era anche chiamato, in un docu-mento del XIV, “legno diluvi” e, ancoraoggi, “quercia affogata”. Ma altre specielegnose potevano condividere con laquercia il medesimo processo.È infatti un legno fossile e lo si trovain cava, come in quelle di sabbia pros-sime al letto dei fiumi, o comunque inluoghi un tempo interessati dalla pre-senza di acqua.Nel XVI secolo G. Soderini così lodescrive: «Il legname della quercia èdurabilissimo in terra e nell’acqua, etin queste quasi eterno, solo dopomolte centinaia d’anni diventandovinera morata come l’ebano, buona atarsii et altri lavori»13.Quando nel XVII secolo FrancescoStelluti lo studia (Fig. 9) – ormai illegno nero non aveva più interessecommerciale – gli viene comunqueconcesso un limitato approvvigiona-mento di materiale in quanto il sito discavo era già stato precedentementeabbondantemente “devastato”14.

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Tecnicae Restauro

Per quanto riguarda la fusaggine erail legno bianco per eccellenza. Eradetta anche silio o evonimo ed era illegno usato, con il noce che faceva dafondo, nella tarsia a buio, tanto chequest’ultima prese anche il nome di“commesso in silio”. La fusaggineviene acquistata dal collega maran-gone ma sopratutto dal tornitore,anzi, un particolare tipo di tornitore,ovvero il fusaio, “quel dai fusi”,quello che fabbrica i fusi per la filaturao, più in esteso, “colui che fa le Fusa,e altri lavori di legno più minuti ...come a dire Mèstole, Cucchiai, Sco-delle, Frullini, Mortajetti, Pestelli, ealtri consimili dozzinali arnesi”. Inun documento più antico, del XIVsecolo: “loco li fusarie chi faceano lifusi delle femmene”15.Il fuso è uno strumento che permettedi filare a mano. La filatura si ottienecon la torcitura di fibre tessili in mododa trasformare un ammasso di fibrein un filato.E proprio dai “fuxari de S. Agnese”,contrada padovana, che gli incaricatidel Santo acquistano unicamente pezzidi fusaggine, legno tanto di eccellenzaper la costruzione dei fusi da deter-minare la contaminazione lessicale.Si noti che dal marangone era statoacquistato un solo pezzo di fusaggine“grosso e longo 10 pie”, ovvero pro-babilmente un tronchetto veramentedi notevoli dimensioni, mentre daifusari il fornimento era di 20 o 30pezzi alla volta. Evidentemente eranoi semilavorati pronti per il tornio, cosìpreparati dal tornitore stesso o da chilo riforniva.Acquisti presso i fusari di legno perfare tarsie li troviamo anche in altricontesti, come nei libri di spesa del-l’Archivio Capitolare della Fabbriceriadel Duomo di Modena, dove il 18agosto 1463 viene acquistato appunto“dal Fuxaro che sta in tel Chastelaro”del legno “per fare tarsia”.Il termine “fusaggine” non compare

Fig. 9. Tavola con legno fossile. Francesco Stelluti,Trattato sul legno fossile, sec. XVII.(Google Books)

mai nel coro di Bergamo, credo per-ciò le si debba attribuire la dizione di“legno di rochado”, già sciolto inquesto senso, anche se con dubbio,nella disanima delle specie legnoseimpiegate dal Maggiolini, tra cuicompare la “roncaggine”. Del restorocca e fuso erano strettamente uti-lizzati nel medesimo ambito.Altri marangoni esercitavano in Piaz -za del Vino dove viene acquistato ilpero (già visto a Firenze) e Zuan Ma -lacrea, sempre sotto la supervisionedi Lorenzo, aveva fornito del sorbo,al quale aggiungiamo, per completarela documentazione di Padova dei legnida intarsio, acquisti di rovere, sia pertarsie che per legni strutturali, dicipresso, bosso, salice e ontano, non-

ché di gelso ed acero (ultimi della rosafiorentina). La perdita di intere annated’archivio ci priva probabilmente dellapossibilità di aggiungere all’elencoaltre specie legnose, come ad esempiol’olmo compreso tra gli acquisti delquasi contemporaneo coro sempredei Canozi per la chiesa di San Gimi-niano a Modena. Non tra i legni citati,a Bergamo abbiamo anche l’acquistodi legno di sambuco, olivo e pruno.Tra i fornitori accenniamo qui ancheal tintore, dal momento che tra le variematerie coloranti impiegate nella suaattività alcune di esse provengo daspecie legnose. Siamo sempre a Pa -dova, in località Pontemolin, dove SerZuanfrancesco esercitava questa atti-vità e dal quale, secondo i documenti

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del Santo, viene acquistato lo scotano,mentre del verzino e del sandalo, legnidi importazione, se ne specifica la pro-venienza veneziana.È da notare che questi legni, cono-sciuti per le proprietà di mordenti e/odi coloranti, vengono acquistati inlibbre od in once e non in assi od in

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Fig. 10. Tavola (particolare) con Segotto,Sega e Lucerta. M. Agostino Gallo, Levinti giornate dell’agricoltura et de’ pia-ceri della villa - sec. XVI. (Google Books)

Fig. 11. Tavola con Sega a refendere. A.Félibien, Des Principes de l’architecture,de la sculpture, de la peinture et desautres arts - Parigi 1676. (Google Books)

Fig. 12. Disegno con Sega meccanica. Francesco di Giorgio Martini - sec. XV.M. Wilmering, Le tarsie rinascimentali eil restauro dello studiolo di Gubbio, Fede-rico Motta Editore, Milano 2007.

pezzi, come specificato per gli acqui-sti fatti dal marangone o dal tornitore.Ma della colorazione dei legni se neparla più avanti.A fianco dei legni che compaiono neilibri di spesa abbiamo ovviamente lapossibilità di osservare direttamentei manufatti superstiti. Oltre al rico-noscimento macroscopico, non sem-pre possibile (o affidabile), risulta particolarmente efficace il riconosci-mento microscopico. Propedeuticheal restauro sono le campagne di inda-gine, condotte sia per fini conoscitiviche operativi (reintegrazione). Pub-blicato ad esempio uno studio del2001 relativo alla diagnostica sulle tar-sie lignee di Gianfrancesco Brennonanegli ar madi della sagrestia di SanPiero a Modena, datati al 154816. Daquesta ricerca, tra i legni non ancoracitati, aggiungiamo il melo, il faggioed il pino, annotando a fianco e nono-stante il periodo avanzato l’assenzadi legni di nuova importazione.Da altre indagini condotte in occasionedei restauri del coro dell’Oratorio deiRossi a Parma (inizi XVI sec.) e del“coro delle monache” in San Zaccariaa Venezia (XV sec.) aggiungiamol’abete, il corniolo ed il tasso.

Utensili - prime lavorazioniDal Neolitico fino al XIX secolo lostrumento principale per l’abbatti-mento degli alberi era la scure, mentrel’utilizzo della sega, categoria di uten-sili anch’essa conosciuta dall’anti-chità17, seppure incentivato dai pro-prietari dei boschi per la migliore resain termini di produttività, incontròspesso notevoli resistenze da partedegli operai forestali che, significati-vamente, la chiamavano “latta da fati-care”. Era al contrario la favorita deiladri di legname, perché più silen-ziosa18.Comunque con la sega, o meglio col“segone”, si sezionavano anche nellalunghezza voluta gli alberi abbattuti,

destinati alla produzione degli assor-timenti necessari ai vari impieghi. Eradetta anche “sega da scapezzare”,oppure, per stare al XV secolo, “segamad scapizandum”, come nell’inventa-rio del 1440 di Antonio Zilio. Nel-l’incisione proposta19, siamo in arealombarda nel 1569, viene definito“segotto da scavezar arbori grossi”(Fig. 10).Il tavolame era invece ottenuto conla “sega a refendere” (Fig. 11), ovverola “segam ad sfendendum” di Zilio,tanto che fosse azionata da energiaidraulica (Fig. 12), o umana, adattando“i legnami grossi sopra la piedica”,oppure su cavalletti (Fig. 13), mentreancora con particolari scuri ed ascesi refilavano tavole e travi.La sega per eccellenza, quella più usatadal marangone e destinata a varie lavo-razioni, prende evidenza dalla ridon-danza pleonastica con cui viene a volteindicata, come la “sega ad mandan-dum” dell’inventario di Zilio (1440),che dovrebbe stare per sega a mordereo, con medesimo pleonasmo, la “sciea debiter” di un trattato francese del

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XVII secolo20 (Fig. 14 - lettera B),ovvero sega a tagliare. Tuttavia piùcomunemente veniva chiamata sem-plicemente “sega”, come in Gallo (Fig.10). È ben descritta nel dizionario diG. Carbone21 (1863), che però lachiama sega a mano, termine in realtàstoricamente più usato per altri tipidi seghe (vedi oltre; si può ipotizzareche nel XIX secolo con la diffusionedelle seghe meccaniche la definizione“a mano” si venne ad ampliare disignificato): “questa specie di sega ècomposta da uno staggio, o regolo,lungo circa un braccio, più o meno;ai due capi di esso sono i due mani-chetti, calettati a gruccia, cioè in formadi T, ma non incollati, ne altramentefermati, per ciò capaci di un po’ dimovimento a modo di leva; fra le dueestremità di ciascun manichettostanno, parallelamente allo staggio,

da una banda la lama dentata, largacirca due dita, fermata ai due capi indue piuoli, girevoli entro un foro inciascun manichetto; dall’altra parte èla fune addoppiata, rattorta su di sè,e tesa dalla stecchetta di legno, chia-mata la nottola; questa impedita distorcersi dall’essere rattenuta nellatacca o incastro che è nel mezzo dellalunghezza dello staggio”.Sono poi da ricordare, per procederenell’inventario Zilio (1440) anche senon riguardano direttamente i lavoridi intarsio, le cosiddette “seghe amano”. Infatti la “sega a manu” chevi compare doveva essere un utensilecon una sola impugnatura all’estremitàdella lama (rappresentato con mede-sima definizione in Felibien, (Fig. 14- lettera F, “scie a main o egoine”),come erano la “lucerta” (lucertola) diarea lombarda (Fig. 10 - Gallo 1569)

o, sempre per analogia zoomorfa, il“gattuccio” (uno squalo di forma par-ticolarmente allungata), di areatoscana. Infatti Baldinucci22 (1681)così lo descrive: “spezie di sega per lopiù stretta, e senza quel telaio di legno,con cui la sega si tira e maneggia, macon un manico, come quello degli scar-pelli da legno: questo s’introduce perpunta in un buco fatto a posta col suc-chiello in quella parte dell’asse o legno,in cui devon dintornarsi con la sega,rabeschi o altre cose”.Altre “seghe a mano” con lame di di versa dimensione e forma, impugna-tura più complessa ed eventuale“dorso”, sono quelle oggi chiamatesegaccio, saracco e pettenella. Que-st’ultimo termine lo trovo dal XVIIsecolo con definizione di “sega perpettini”, rappresentata anche nellavariante con arco metallico.

Fig. 14. Tavola con seghe. A. Félibien, DesPrincipes de l’architecture, de la scul-pture, de la peinture et des autres arts -Parigi 1676. (Google Books)

Fig. 13. Tavola con sega a refendere e cavalletti. Diderot - D’Alambert, Enciclopedia- sec. XVIII. (Google Books)

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Per concludere con le seghe del ma -rangone di Padova, secondo il lessicodell’inventario al quale abbiamo so -stanzialmente cercato di attenerci,bisogna citare la “sega pestarola”. “Èun tipo dì sega molto corta per fare lebatude, cioè le scanalature dì botti,mastelli, ecc.”23, che potrebbe in partecorrispondere alla “scie a enraser”rappresentata da Felibien (Fig. 14 -lettera E).

Preparazione dei “lastroni”La tarsia veniva fatta unendo tessereopportunamente sagomate per com-porre il disegno. Le tessere venivanoricavate dai lastroni. Il termine “la -strone” non compare nei dizionaridella lingua italiana, almeno non nel-l’accezione di un segato di circa 3-5mm di spessore, ricavato dal taglio ditronchetti o tavole di diverse specielegnose. Ma è forse il termine piùimpiegato dagli artigiani che ancoraproducono e lavorano questo parti-colare semilavorato, e compariva inalcuni dizionari del XIX secolo. Tut-tavia vengono spesso chiamati anchepiallacci, fogli, ecc.Come abbiamo visto i legni venivano

reperiti in tavole o “panchoni” (Firen -ze, anno 1430), oppure in assortimentipronti per particolari lavorazioni,ovvero in pezzi, oppure in toppi, roc-chi, tronchetti.Per ottenere i lastroni veniva usataancora la sega a refendere, ma diminore dimensione e con impugna-tura più semplice (Fig. 14 - lettera A).Il termine si mantiene fino ai nostrigiorni; in alcune località del nord Italiaè chiamata tutt’oggi “refendina” o“rantega” (da rantolo, per il rumoreche fa). Nel XIX secolo è sempre chia-mata “sega a refendere, o sega armatain quadro”, con la lama al centro deltelaio. L’abbiamo già vista usata “perrecidere i legnami grossi, adattandolisopra la piedica” o su cavalletti. Suscala “industriale” questo era il lavorodei “segatori” che usavano la forzadelle braccia per ridurre i tronchi intavole, dove non vi era a disposizionela forza motrice dell’acqua o, per ipaesi nordici, del vento.Su scala ridotta, come è quella dellapreparazione dei lastroni, i tronchettidi dimensioni minori venivano lavo-rati direttamente nella bottega del-l’intarsiatore. Essi venivano bloccati

per il taglio in un apposito “banco amorsa”, come rappresentato da An -dré- Jacob Roubo (Fig. 15) in unimportante trattato edito a Parigi trail 1769-177424. Il banco poteva ancheessere dotato di una buca per inserirvitronchetti troppo lunghi (Fig. 16).Dopo il taglio i lastroni dovevanoessere regolarizzati a spessore e levi-gati, togliendo i segni lasciati dallasega che avrebbero reso difficile la let-tura delle superfici, il trasferimentodel disegno e l’incollaggio, nonché,come segnala Félibien, avrebbe favo-rito l’eventuale colorazione delletessere. Félibien ci dice che gli ebani-sti (denominazione che entra in usosolo nel suo secolo) dopo aver segatoi diversi legni in fogli con lo spessoredi una linea o due (ligne = linea, checorrisponde a mm 2,256) li portano aspessore con le pialle, diverse - sotto-linea l’autore - da quelle ordinarie delfalegname (Fig. 17).Le pialle sono una categoria di uten-sili molto varia ed anch’essa in usodall’antichità; le denominazioni cor-renti dividono questi utensili in pialledi diverse dimensioni – e con alcunevarianti per forma e disposizione delferro – (nell’incisione Félibien A, B,C, H), sponderuole (numerosissime,tra cui quelle essenziali a canto, abastone ed a forcella) e incorsatoi.Di queste ultime, spondaruole ed

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Fig. 15. Tavola con taglio dei lastroni. M. Roubo, L’art du menuisier ebeniste, - Parigi1676. (Google Books)

Fig. 16. Banco con morsa e sega a refendere.A. Félibien, Des Principes de l’ar chitecture,de la sculpture, de la peinture et des autresarts - Parigi 1676. (Google Books)

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incorsatoi, necessarie a realizzare sca-nalature, battute e modanature, “cen’ha una infinitudine”25, e apparten-gono più esclusivamente alla falegna-meria. Il grande numero di ceppi eferri da pialla, ovvero “zochatos e fer-ris a piola”, che troviamo nell’inven-tario Zilio potrebbe in gran parteappartenere a questa categoria, vistoche in un caso viene data la specificadi “piola a soasa”.Ma prima di vedere le caratteristichedelle pialle dell’ebanista merita qual-che osservazione sulle pialle ordinarie,in quanto comunque utili tanto alfalegname, quanto all’intarsiatore, persgrossare, spianare, assottigliare epulire il legno.Pialla, piallone (Fig. 18) e pialletti sonodescritti da Roubo: il piallone (var-lope), utensile dotato di impugnaturee lungo più di 70 cm, la pialla (demi-varlope), simile al piallone ma più pic-cola (ca. 60 cm), e i pialletti (rabots -lunghi da 20 a 25 cm), tra cui i piallettida finitura, più piccoli e con inclina-zione più verticale della buca. Ingenere una accentuata sporgenza delferro, definita “taglio ingordo”, non-ché la sua forma (arrotondata nellosbozzino), evidenzia le caratteristiche

delle pialle “da disgrossare”, mentrel’inclinazione del ferro è fondamentaleper la qualità del “pulire”. Quest’ul-timo dato tecnico è già di rilievo perle pialle ordinarie e diventa un discri-mine fondamentale per quelle da eba-nisteria. Roubo consiglia per le pialleordinarie una inclinazione del ferrodai 45 ai 60 gradi, sulla base del com-binato di efficenza del taglio, qualitàdi finitura e agevole conducibilitàdell’utensile, in relazione alle caratte-ristiche della specie legnosa in lavo-razione (durezza e tessitura) quantodalla conformazione del pezzo stessoche può più o meno essere, secondouna definizione del XIX secolo“ritroso, nocchiuto, avvitolato”.Nel lessico del XV-XVI secolo lapialla ed il piallone compaiono con itermini di dritura, declinato in “dri-tura magna” e “dritureta”, come nel-l’inventario Zilio (Padova 1440), o di“derizzatoi”, nell’inventario di Angelodi Giacomo (Perugia 1469), “grandie piccoli” o di “dirittore” in Citolini(Venezia 1561), ma anche di “piona”,anch’essa “grande” nel caso del pial-lone (Fig. 19), in Gallo. In Veneto ladritura, o piallone, era detta, almenonel XIX secolo, anche barlotta26.

Pialle e piallone sono in genere dotatedi impugnatura, singola o doppia, lacui forma può assumere caratteristichediverse. Abbiamo già visto l’utensilenell’incisione di Roubo. Diversa eparticolare l’impugnatura rappresen-

Fig. 17. Pialle. A. Félibien, Des Principesde l’architecture, de la sculpture, de lapeinture et des autres arts - Parigi 1676.(Google Books)

Fig. 18. Piallone. M. Roubo, L’art du me -nuisier ebeniste, sec. XVIII. (Google Books)

Fig. 19. Piona grande, Pionetto e Pionino.M. Agostino Gallo, Le vinti giornatedell’agricoltura et de’ piaceri della villa -sec. XVI, particolare. (Google Books)

Fig. 20. Piallone. Ambrogio Lorenzetti,Siena Palazzo Pubblico - sec. XIV.

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tata dal Lorenzetti a Siena nel XIVsecolo (Fig. 20), mentre per stare alperiodo preso in considerazione (XV-XVI secolo) vediamo che l’impugna-tura della “piona grande” di Gallo èidentica, e utile per riporre l’utensile,in un dipinto di Antonio Vivarini del1450 ca (Fig. 21).Del piallone merita un approfondi-

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Fig. 21. Piallone. Antonio Vivarini, SanPietro Martire guarisce la gamba di ungiovane (The Metropolitan Museum ofArt) - sec. XV.

Fig. 22. Cagnaccia. Cristoforo e Lorenzo Canozi - Modena, coro del Duomo - sec. XV.G. Manni, I signori della prospettiva - Le tarsie dei Canozi e dei canoziani (1460-1520)- Cassa di Risparmio di Mirandola, 2002.

Fig. 23. Cagnaccia. Codice Acquisti e Doni 793 della Biblioteca Laurenziana diFirenze, sec. XVII. M. Bernabò, C. Mocali, Spasso di principi e ingegno di artigiani.Disegni di strumenti e ricette di un maestro artigiano del Seicento, Edizioni PolistampaFirenze, Firenze 1998.

mento quello detto cagnaccia. Il ter-mine lo trovo nel dizionario di Car-bone e Arnò (Torino 1835), testoanche attento al lessico francese, men-tre sembra ignorato nei dizionariveneziani e fiorentini. La definizionealla voce “piallone” è la seguente:“dicesi anche cagnaccia, galére in fran-cese, ed è una pialla con due manichi,

che attraversano il ceppo orizzontal-mente da capo, e da piè per servirsenein due”. È di particolare interesse per-ché questo utensile è rappresentatodai Lendinara nel coro di Modena(Fig. 22), nonché in un disegno delCodice Doni del XVII secolo27, conincerta didascalia che dovrebbe cor-rispondere al termine “cagnaccia”(Fig. 23, a sinistra). In un dizionariosempre francese di inizi ’900 la“Galére” viene così descritta: “Uten-sile a fusto usato dai carpentieri persgrossare e raddrizzare i legni; è fattocome la demi-varlope dei falegnami,ma è più larga. È lunga 60 cm; èmaneggiata da due uomini per mezzodei manici che la attraversano oriz-zontalmente”28. Tuttavia da altri autoriviene data per la cagnaccia anche lautilità del “pulire”29; infatti Felibienoltre ad inserirla tra gli arnesi del car-pentiere precisa essere utile anche alfalegname.Un’interessante variante di questa

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pialla è rappresentata dagli intarsiatoristessi, nei cori di Antonio Barili (Siena1500, Fig. 24), di Paolo Sacca (Bologna1520, Fig. 25) e altri. Nel Codice Doniviene anch’essa rappresentata e defi-nita con grafia chiara, “CAGNIACCIA”(Fig. 23, a destra). Effet tivamente èdiversa da quella già vista. Le impu-gnature, diventate due sporgenzecontinue lungovena, ricavate nel mas-sello stesso, fuoriescono dal fustorestituendo all’utensile una particolareforma a T, particolarmente adatta perscorrere entro una guida.Questo utensile compare in un fogliodel Codice Atlantico di Leonardo30,dove è effettivamente collocato dentrouna guida (Fig. 26). È indubbiamentelo stesso rappresentato dagli intarsia-tori, mentre il particolare di un topponel medesimo foglio associa le rifles-sioni leonardesche a questo ambito(Fig. 27). Questo insieme di pialla eguida era evidentemente già in usopresso i legnaiuoli, rispetto al qualeLeonardo si limiterebbe a propornedelle migliorie legate forse al trasci-namento dell’utensile. La guida impe-

disce al ferro di scendere oltre unamisura data. La si direbbe dunqueuna pialla “a spessore” utile alla fini-tura dei toppi, ma anche di qualsiasisemilavorato da cui ricavare i piccolisolidi costituenti il toppo stesso, odestinato a battere cornici e modana-ture.

Fig. 24. Cagnaccia. Antonio Barili - Siena,coro Duomo (ora a San Quirico d’Orcia)- sec. XV. M. Wilmering, Le tarsie rina-scimentali e il restauro dello studiolo diGubbio, Federico Motta Editore, Milano2007 - e altri.

Fig. 25. Cagnaccia. Paolo Sacca - coro diSan Giovanni in Monte (BO) - sec. XVI.G. e G.V. Gurrieri, Il coro intarsiato di SanGiovanni in Monte in Bologna, Bologna1984.

Fig. 26. Disegno con cagnaccia. Leonardoda Vinci, Codice Atlantico - particolare.M. Wilmering, Le tarsie rinascimentali eil restauro dello studiolo di Gubbio,Federico Motta Editore, Milano 2007.

Fig. 27. “Chalzuolo de tarsia”. Leonardoda Vinci, Codice Atlantico - particolare.M. Wilmering, Le tarsie rinascimentali eil restauro dello studiolo di Gubbio,Federico Motta Editore, Milano 2007.

Fig. 28. Pialletto. Marcantonio Zucchi -Par ma, coro di San Giovanni Evangelista- sec. XVI. M. Wilmering, Le tarsie rina-scimentali e il restauro dello studiolo diGubbio, Federico Motta Editore, Milano2007.

Fig. 29. Pialletto. Paolo Sacca - coro di SanGiovanni in Monte (BO) - sec. XVI. G. eG.V. Gurrieri, Il coro intarsiato di SanGiovanni in Monte in Bologna, Bologna1984.

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Il pialletto lo abbiamo visto nell’inci-sione di Félibien (Fig. 17 - lettera H);è sui 25 cm, può essere privo di impu-gnatura o averne una frontale, comein quello rappresentato da Marcanto-nio Zucchi nel coro di San GiovanniEvangelista a Parma (Fig. 28) o daPaolo Sacca nel coro di San Giovannial Monte (Fig. 29).Nell’inventario di Angelo di Giacomo(1496) il pialletto dovrebbe corrispon-dere alla specifica di “pialletto a doimano”, perché normalmente con-dotto con l’uso delle due mani, perdifferenziarlo dalle “piallette a unamano”, intendendosi probabilmenteper quest’ultime un utensile partico-

larmente piccolo e conducibile conuna mano sola, come quelli rappre-sentati da Gallo con il termine di “pio-nin” (Fig. 19).Un particolare “pionetto” è quellorappresentato ancora da Gallo (Fig.19), di discrete dimensioni (35-40 cmdi lunghezza, se le pialle rappresentatesono – come sembrerebbe – in scala),e notevole larghezza, con particolariimpugnature ai lati, che in qualchemodo lo avvicinano alla cagnaccia.L’importanza della larghezza del ferroè sottolineata anche dal Griselini che,differendo dalle indicazioni di Roubo,indica come caratteristica della piallada pulire “il suo ferro larghissimo e

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Fig. 30. Pialle da ebanista. M. Roubo,L’art du menuisier ebeniste, sec. XVIII. (Google Books)

quadrato, e serve ad addolcir l’ope -ra”31. Questa peculiarità sembra emer-gere anche nel documento di Angelodi Giacomo (1496) dove vengonoinventariati “doi pialletti lar ghe”.La notevole varietà delle specie legno -se impiegate nella tarsia rinascimen-tale, così come nell’ebanisteria delXVII secolo, comprende evidente-mente legni di difficile lavorazione,diversi dai pochi in uso nei lavori difalegnameria. Si pensi in particolarealla preparazione dei “lastroni”, temaa cui ricondurre queste note.Secondo Félibien (XVII sec.) le pialledell’ebanista sono caratterizzate dauna diversa inclinazione del ferro,

Fig. 31. Trasferimento del dise-gno. Luchino Bianchino -Parma, coro del monastero diSan Paolo (ora ai Rossi) - sec.XVI. (Foto Roberto Bergamaschi)

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che può essere, a seconda della du -rezza e delle caratteristiche (anda-mento della tessitura e nodi) del legnoin lavorazione, mezzo disteso (fer àdemi couché) oppure portato versola verticale (fer à debout). Inoltre ilferro può essere provvisto di denti(fer a petits dents), mentre la suolapuò anche essere in metallo.Come vediamo nella tavola di Roubo(Fig. 30) l’inclinazione del ferro vainfatti ben oltre i limiti proposti perle pialle ordinarie. Viene inoltro intro-dotto il cosiddetto “ferro a denti”.Nei documenti del XV secolo è diffi-cile individuare le pialle specializzatenella preparazione e finitura deilastroni. Per noi è di particolare inte-resse la specifica nell’inventario Ziliodi “dritura a lambello”, che potrebbeindicare l’utilizzo proprio di un ferroa denti. Non trovo definizioni speci-fiche del termine. Lambello è nellafigura araldica un elemento compostodi un listello dal quale pendono goc -ce, ma anche, in altro ambito, ilrastrello. Nel XVIII secolo per “lim-bello” si intende “una spezie di pialla,che serve a fare le scanalature”.

Dal disegno al legnoIl trasferimento del disegno dovevaavvenire imprimendo sul legno conun punteruolo una serie di fori lungole linee del disegno stesso tracciato sucarta da lucido. Questa tecnica è con-fermata da un indizio ritrovato in unpannello del coro di San Paolo aParma, ora ai Rossi (Luchino Bian-chino, inizi XVI secolo) con ancoraevidenti, in una tessera, i fori del tra-sferimento (Fig. 31).Il ritrovamento è casuale, infatti i forierano destinati a scomparire a causadel taglio e della levigatura. Non èneppure da escludere che venisseroimpressi sulla superficie destinataall’incollaggio, ma di questo non hoal momento evidenze documentali nemateriali.

È probabile che il supporto maggior-mente usato per questo trasferimentofosse la carta da lucido, la cui traspa-renza era importante per poter valu-tare il settore di legno da scegliere. Cennino Cennini da tre indicazioniper fare “carta lucida” – questa cartalucida ti bisogna, non trovandonedella fatta, farne per questo modo –con l’impiego in alternativa di pelle dicapretto, colla di pesce ed infine cartabambagina. Particolarmente interes-sante quest’ultima, al capitolo XXVI:

“Come puoi fare carta lucida di cartabambagina... Prima, la carta fattasottilissima, piana, e ben bianca; poiugnila detta carta con olio di lin seme,detto di sopra. Vien lucida, ed èbuona”.

Nel libro di Spese di Bergamo tro-viamo acquisti per vari tipi di carta.Tra queste, fin dal 1523 e per quasitutto il periodo, emergono numeroseforniture di “papér de stamegnia”,ovvero una particolare carta da impan-nate, cioè la “chiusura che si mettealle finestre”. Troppi gli acquisti diquesto materiale per i quali si specificainoltre, in un paio di occasioni, esseredestinati a m.o Francesco, cioè alCapoferri, per non pensare che fosseimpiegata come versione economicadella carta da lucido. Nella prepara-zione non differisce infatti dalla pre-scrizione del Cennini. Un dizionariodi fine XVIII secolo dice:

“La povera gente, la quale nongiunge alla spesa de’vetri s’accomodacon le pure impannate... per fare unaimpannata chiara pigliate carta, telao seta... quindi ungetela d’olio”32.

Fig. 32. Sega da volgere. Antonio Barili -Siena, coro Duomo (ora a San Quiricod’Orcia) - sec. XV. M. Wilmering, Le tar-sie rinascimentali e il restauro dellostudiolo di Gubbio, Federico Motta Edi-tore, Milano 2007.

Fig. 33. Sega da traforo. M. Roubo, L’artdu menuisier ebeniste, sec. XVIII. (Google Books)

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Il taglio delle tessereOltre alle seghe già citate (la sega ascapezzare o segone, la sega a refen-dere e la sega) nel XV-XVI secoloerano in uso altri tipi di seghe, desti-nate a varie lavorazioni.In particolare quella chiamata sem-plicemente sega poteva avere dellevarianti – differendo per dimensionee lama – destinate a particolari lavo-razioni, quali la sega per tenoni e lasega da volgere. Sono rappresentatenell’incisione di Félibien (Fig. 14C -scie a tenon e D - scie a tourner). Inquesto contesto ci interessa partico-larmente la sega da volgere, che infattiè, secondo un dizionario del XIXsecolo, una “sega come quella a mano,di cui però è meno grande, la qualecon facilità, segando, si volta in giro,o altrimenti”; più o meno è la mede-sima definizione del Baldinucci (1681).Questa sega la troviamo in Zilio(1440) come “sega ad volvendum”,declinata anche come “segeto o par-vula”, sottolineandone le dimensioniridotte.Tornando alla tarsia ed al taglio deifogli di legno di pochi millimetri (i lastroni), dai quali ricavare tessereirregolari ed anche con particolaripiuttosto minuti, la sega da volgere ècertamente di primaria importanza.Tuttavia non basta la definizione chefosse “a girare” e “parvula” (piccola),ma doveva essere di lama e dentaturaparticolarmente sottile. Una sega conuna lama particolarmente sottile latroviamo rappresentata in un pannellodi Antonio Barili (Fig. 32), parte diun ciclo realizzato per il Duomo diSiena (1502 ca), ma ora a San Quiricod’Orcia e, qualche anno dopo (entroil 1530), in un pannello di SebastianoBencivenni a Todi. In realtà la lamanon era così sottile come quelle checonosciamo oggi, ma poteva esseresufficiente alla maggior parte dei taglinecessari alla preparazione delle tes-sere, che dovevano probabilmente

essere poi rifinite anche con scarpelli,sgorbie e raspe.A questo proposito notiamo infattiche nella rappresentazione dei propriutensili da parte degli intarsiatori delXV e del XVI secolo spicca l’assenzadel seghetto da traforo, così comeoggi lo conosciamo, che vediamo rap-presentato in una elegante incisionedel XVIII secolo (Fig. 33). La suaevoluzione in chiave moderna sem-brerebbe risalire alla prima metà delXVI secolo, ponendosi perciò al -l’estremo limite cronologico delperiodo preso in considerazione. Losviluppo dell’utensile viene posto inrelazione appunto con la possibilitàtecnica di realizzare lame molto sottili,derivante dal contemporaneo sviluppodell’orologio con carica a molla.Infatti, è proprio dalla molla prodottaper l’orologeria che si ricavano:“Tagliasi il tutto... sopra una speciedi morsa, detta asino. Le lamine...sono fatte con pezzi di molla di oro-logio tagliate di varie larghezze, daun millimetro, compresa la dentatura,fino a 3 millimetri, sopra i 5 centimetridi lunghezza. La dentatura è assai finee quasi diritta acciò non si smussifacilmente”33. Annoto che l’introdu-zione del meccanismo a molla risaleal XV secolo, come si può dedurre dadue lettere dell’orologiaio Bartolomeo

Manfredi del 1462 ed una del 1482,che ne tratta come di oggetti abba-stanza noti34.Si noti anche la menzione dell’“asino”,un particolare tipo di panca con morsaproprio al mestiere dell’intarsiatore,che vediamo nel dettaglio di Roubo(Fig. 34). È con tutta probabilità il“banco da tenere la tarsia” che tro-viamo nell’inventario di Angelo diGiacomo (1496).

ProcedureDopo il taglio le tessere venivanoincollate al supporto. La procedura ditaglio e incollaggio doveva essere infunzione della complessità del dise-gno, secondo una logica individuatadall’intarsiatore stesso; l’intarsio sicompletava in varie fasi, accostandonuove tessere, rifinendo con coltelli,scarpelli e sgorbie quanto già incol-lato. Oppure scavando nuove sedinelle tessere già incollate. L’inseri-mento di nuovi particolari potevaavvenire levando fino al supporto. Isegni di strumenti da taglio che si tro-vano sovente sulla tavola di fondo,ovviamente quando resi visibili perperdita dell’intarsio, possono appar-tenere a queste lavorazioni. Alcune diqueste incisioni potevano però avereanche funzione di disegno preparato-rio, come ritenuto da alcuni studiosi.

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Fig. 34. Asino. M. Roubo, L’art du menuisier ebeniste, sec. XVIII. (Google Books)

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Significativi i pannelli della sagrestiadei Consorziali a Parma (Fig. 35).Tuttavia doveva essere anche usualeinserire i nuovi particolari senza ar -rivare al supporto, come evidentenell’importante testimonianza mate-riale relativa allo studiolo di Gubbio,rara per evidenti motivi (Fig. 36).In questa fase l’intarsiatore dovevautilizzare anche un particolare stru-mento da taglio, il coltello da spalla.Un’ottima rappresentazione del suouso è in un pannello, purtroppo per-duto, ancora di mano di AntonioBarili (Fig. 37). Anche in questo casopossiamo avvicinarci all’utensile grazieai trattati del XVII-XVIII secolo.“Differisce dai coltelli per la lunghez -za (ca. 18 pollici) e forma del suomanico. Lo si può impugnare con duemani, un po’ sopra il ferro, appog-giandone l’estremità sulla spalla peravere un punto di appoggio, e si dirigeil coltello tirandolo a sé” (Fig. 38).

IncollaggioGli adesivi usati in questa epoca sonola “colla caravella”, estratta da carti-lagini animali, e la “colla di caseina”(nella forma di caseinato di calcio),preparata dal formaggio con aggiuntadi calcina. Di esse, entrambe a baseproteica ma molto diverse per carat-teristiche ed utilizzo, troviamo lericette per la preparazione in Cennini(fine secolo XIV).

“A fare una colla di calcina e di for-maggio. Egli è una colla la quale ado-perano maestri di legname; la qualesi fa di formaggio, mettudo in mollonell’acqua. Rimenala con un’as sicellaa due mani, con un poca di calcinaviva: mettila tra un’asse e un’altra; epoi le commette e attacca bene insiemel’una coll’altra”

“Come si fa la colla di caravella, ecome si distempera, e a quante cose èbuona. Egli è una colla che si chiama

colla di spicchi, la quale si fa di moz-zature di musetti di caravella,peducci, nervi, e molte mozzature dipelli. Questa tal colla si fa di marzoo di gennaio, quando sono quelligrandi freddi o venti; e fassi bolliretanto con acqua chiara, che tornamen che per mezzo. Poi la metti bencolata in certi vasi piani, come concheda gialatina o bacini. Lasciala stareuna notte. Poi la mattina con coltellola taglia a fette come di pane; mettilain su stuore a seccare a venti, sanzasole; e viene perfetta colla. La qualecolla è adoperata da’ dipintori, da’sellari, da moltissimi maestri, sì comeper lo innanzi ti mostrerò. Ed è buonacolla da legname e da molte cose:della quale tratteremo compiuta-mente, a dimostrare in ciò che ado-perar si può, e in che modo in gessi,in temperar colori, far liuti, tarsie,attaccar legni, fogliame insieme, tem-perar gessi, far gessi rilevati; e a moltecose è buona”

Il “chacio per fare mastrice” compareda subito in modo esclusivo a SantaMaria del Fiore (1435), così come nel1461 a Modena: “formaio de pegoraave li maistri da lendanara per farechola per le tarsie”. Si noti che il for-maggio poteva anche essere di vacca,come appare in altri documenti “for-maio de vacha... per fare cola” aproposito dei perduti lavori del daBaìso e dei Canozi a Belfiore (metàXV sec.)35, oppure come nel Mano-scritto bolognese36: “Affare colla decascio - Recipe cascio de qualunq(ua)ragion(e) ...”.Successivamente sono entrambeacquistate dai costruttori di arrediintarsiati, come al Santo dove tra il1462 ed il 1469 oltre al “formayo dacolla” troviamo acquisti di “colla gara-vela”, all’interno di quello che sembraessere una progressiva e diversa spe-cifica d’uso tra le due colle.Infatti pur attribuendo alla colla diformaggio una migliore resistenza

Fig. 35. Incisioni sul supporto. Cristoforo Lendinara - Parma, Duomo, sagrestia deiConsorziali, sec. XV. G. Manni, I signori della prospettiva - Le tarsie dei Canozi e deicanoziani (1460-1520) - Cassa di Risparmio di Mirandola, 2002.

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all’umidità nonché il vantaggio dipoter essere usata a temperaturaambiente, ha lo svantaggio di diven-tare opaca e di far scolorire il legnocol quale è a contatto; adatta certa-mente per incollare pezzi ad una certaprofondità, ma non per i particolaridi superficie. Ovvero sarebbe pococonsona alle ripetute applicazioninecessarie in tarsie sempre più ricchedi particolari, dove l’adesivo utilizzatoinsisterebbe anche sulla superficiedelle tessere già incollate. Gli acquistiper entrambe le colle proseguono finea fine periodo, come registrato negli

acquisti per il coro di Bergamo, dovela “chola charavela”, o caravella, ogaravella, o anche, negli anni successivial 1528, “chola de charnuzo”, a con-ferma della loro utilità per incollaggidi diversa natura.Quello che ci interessa particolar-mente tra gli acquisti del Santo sonole “23 latole, over perteghe, per apon-telare le tarsie incollà”. È una infor-mazione importante per rendereconto della tecnica impiegata per eser-citare la pressione necessaria all’in-collaggio, tecnica perfettamente rap-presentata nel XVII secolo da Félibien

(Fig. 39). Nell’incisione oltre alle“latole” vediamo anche uno strettoioa vite, del cui utilizzo nel XV secolonon ho però evidenze documentali.Dopo l’incollaggio le superfici anda-vano “nettate”, secondo il lessico fio-rentino del XV secolo, ovvero, contermine più moderno, “polite” o“pulite”, per prepararle alla vernicia-tura. Nel 1463 Francesco di Giovannilengnaiuolo è pagato per “raconciare”alcuni pannelli intarsiati della Sagrestiadelle Messe, “et netargli tutti, cioèraderli e dar loro la colla”. Nel XIXsecolo gli strumenti per radere, ovveroper la finitura delle superfici, eranole “rasiere”, la “pelle di can marino”e la pomice: “all’azione della rasierasuccede quella della pelle ruvida di

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Fig. 36. Fronte e retro di tarsia. Giuliano da Maiano - Studiolo di Gubbio (New York,The Metropolitan Museum of Art) - sec. XV. M. Wilmering, Le tarsie rinascimentalie il restauro dello studiolo di Gubbio, Federico Motta Editore, Milano 2007.

Fig. 37. Coltello da spalla. Antonio Barili- Siena, coro Duomo (pannello perduto) -sec. XV.

Fig. 38. Coltello da spalla. M. Roubo, L’art du menuisier ebeniste, sec. XVIII.(Google Books)

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squalo, o cane di mare, ... ultima nelpulimento del legno viene la pomice”.L’utilizzo della pomice e della pelledi can marino lo ritroviamo in unaricetta del XVII secolo: “Bisogna pri-mieramente che il pero, o altro legnosia diligentemente lavorato, et lisciatocon pumice, et anco con certa pelledi pesci che à Venezia chiamanoscuena”37. Ci informa Boerio trattarsidella “squaèna... uno squalo [pessecan] la cui pelle aspra e scabrosa passain commercio col nome di Spaena eserve per polire a guisa di raspa i lavoridi legno, onde detto anche Rina... dalgreco Lima”.In alcuni casi è detta anche zigrino edè appunto “la pelle di parecchi selaci,cioè pescicani, razze, ecc., fittamentecoperta di minuti dentelli cutanei,aventi la punta rivolta indietro e rive-stita di smalto, che la rendono adattaa essere usata (come avveniva in pas-sato) per levigare avorio, ebano, ecc.,allo stesso modo della carta vetrata”.Roubo, che predilige tanto le vernicia cera (ma siamo alla fine del XVIIIsecolo), quanto quelle resinose, dopola rasiera (racloir) e la pelle di canemarino (peau de chien), prescrivel’uso della coda cavallina (prele), chevedremo anche in seguito per la poli-tura delle superfici verniciate, mentreriserva la pomice, impiegata conacqua, ad altri casi osservando che èpoco consona agli “ouvrages de pla-cage”.

OmbreggiaturaDurante varie fasi della lavorazione ilcolore del legno poteva essere modi-ficato, variandolo od imbrunendolocon interventi artificiali. Della tinturavedremo in seguito mentre “l’imbru-nitura” o “abbronzatura” serviva adare risalto al volume degli oggettirappresentati creando delle ombre,con variazioni di tono fatte senzaaccostare più specie legnose di colorediverso (Fig. 40). Vasari ne prende

nota: “Usarono già per far l’ombreabbronzarle col fuoco da una banda,il che bene imitava l’ombra; ma glialtri hanno usato di poi olio di zolfoet acque di solimati e di arsenichi...”.Nel XVIII secolo Roubo compendia:“si ombreggiano [le tarsie] in duemodi; col fuoco o, per meglio direcon la sabbia calda, o con liquoriacidi”. In particolare, seguendo leindicazioni di Roubo, per ombreg-giare a fuoco si mette della sabbiamolto fine in una padella di ferromessa a scaldare su un fornello, finchéil calore della sabbia sia in grado diimbrunire il legno, senza però bru-ciarlo, avvertendo che l’operazione“per quanto semplice richiede atten-zione ed esperienza” (Fig. 41). È unatecnica non evidenziata nei libri dispesa, che permette di creare ombreintense e sfumate: “rafforzando indiverse riprese, più o meno secondoquanto vogliamo intensificare l’om-bra, che altrove si ombreggia natu-ralmente e dolcemente”.I “liquori acidi” indicati da Roubosono l’acqua di calce con aggiunta,per aumentarne la forza, di sublimatocorrosivo, che è il sale di mercuriodello spirito marino (acido cloridrico),lo spirito di nitro (acido nitrico) el’olio di zolfo (acido solforico). L’ac-qua di calce, in realtà fortementebasica, è la preferita da Roubo perchéa suo avviso meglio gestibile: “va pre-parata da se stessi, cosa molto facile,perché non si tratta che di spegneredella calce viva nella comune acqua,e di prendere il liquore che galleggiaquando la calce si è spenta... le altredroghe si trovano presso le Spezieriecon i nomi indicati”.Queste sostanze, compreso “l’acquadi arsenico” citata dal Vasari, sonovelenose, corrosive e caustiche. Laloro pericolosità è ed era evidente-mente nota; ad esempio nei trattatidel XVII e XVIII secolo, per la pre-parazione dell’acqua di Arsenico, si

avverte che “si ha da manipolare que-st’opera in luogo aperto, guardandotidal fumo, il quale ha forza di fareaddormentare, e offende il Cerebro asegno tale, che può uccidere”38. Delsublimato corrosivo si annota che:

“Al calore vivo, che è quelo del’acquabollente, con facilità si riduce avapori, e sparge un fummo bianco alrespirare dannosissimo; preso perbocca oltrepassa in violenza ogniveleno... gli effetti caustici che pro-duce sono come quelli del fuoco”39.

Fig. 39. Incollaggio - latola o pertica. Féli-bien, Des Principes de l’architecture, dela sculpture, de la peinture et des autresarts - Parigi 1676. (Google Books)

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Anche per l’estrazione del mercuriosi annota che:

“la gente miserabile condannata oprezzolata a lavorare in quelle mine,muoiono tutte in pochissimo tempo,e sono primieramente assaliti da tre-mori, e poi vengono a salivarsi; quindicadono i loro denti, e sono attaccatida dolori in tutto il corpo, special-mente nell’ossa, che ‘l mercurio pene-tra, e così mojano”40.

Lo spegnimento della calce avvieneinoltre con forte sviluppo di calore econ notevole aumento di volume.Negli acquisti della Misericordiaabbiamo sostanze accostabili ai pre-parati citati, quali “orpimento e risi-gallo” (bisolfuro e trisolfuro di arse-nico), “acqua forte” (acido nitrico),“solfaro” (zolfo), “argento vivo” (mer-curio), “vetriolo romano” (solfato diferro – i vetrioli sono sali metallici cherisultano dalla combinazione del-l’acido solforico e di uno o piùmetalli... se si fa abbruciare del vitrioloo dello zolfo... si ha l’acido solforico

concentrato, detto anche l’olio divitriolo41), “sal alemorniado” (o salearmoniaco, cloruro di ammonio “cherisulta dalla combinazione dell’acidocloridrico coll’alcali volatile, cioè conl’ammoniaca”42). Difficile compren-derne nel dettaglio l’utilizzo, visto chele composizioni e gli impieghi pote-vano essere diversi, utili anche per pre-parare mordenti, siccativi, pigmenti.

TinturaOltre agli interventi di ombreggiaturala stessa colorazione del legno potevasubire interventi artificiali. AncoraVasari:

“... costui [Benedetto da Maiano]come gli altri passati le lavorò [le tar-sie] solamente di nero e di bianco; mafra’Giovanni Veronese, che in essefece gran frutto, largamente lemigliorò, dando varii colori a’ legnicon acque e tinte bollite e con oliipenetrativi, per avere di legname ichiari e gli scuri, variati diversamente,come nell’arte della pittura...”, e, loabbiamo visto: “usarono già per far

l’ombre abbronzarle col fuoco da unabanda, il che bene imitava l’ombra;ma gli altri hanno usato di poi olio dizolfo et acque di solimati e di arseni-chi, con le quali cose hanno dato quelletinture che eglino stessi hanno voluto,come si vede nell’opre di fra’ Damianoin S. Domenico di Bologna”.

In epoca successiva alle sagrestie fio-rentine si cerca infatti di aumentarela gamma cromatica dei legni utiliz-zati. Nei libri di spesa cominciamo atrovare acquisti di sostanze colorantiper la tintura delle tessere. Lasciamogli “oli penetrativi”, i “solimati” e gli“arsenichi” del Vasari, anche senza lapretesa di avere sciolto ogni voce,nella sezione dedicata alle ombreg-giature, seppure con essi si potesseroottenere anche, come lascerebbe sup-porre Vasari stesso e conferma Roubo,modifiche del colore. Vediamo diseguito le “acque e tinte bollite”. Latecnica non è nuova, ma si recuperanoe sviluppano anche precedenti cono-scenze, così come testimonia unaricetta del XIV secolo:

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Fig. 40. Ombreggiature - tarsia con ghironda. MarcantonioZucchi, coro di San Giovanni Evangelista, Parma - sec. XVI.G. Manni, I signori della prospettiva - Le tarsie dei Canozie dei canoziani (1460-1520) - Cassa di Risparmio di Miran-dola, 2002.

Fig. 41. Ombreggiatura a fuoco. M. Roubo, L’art du menuisierebeniste, sec. XVIII. (Google Books)

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Affare colori de lengiami da terzia.Tolli una erba che si chiama cinquefoglia, la quale ane la foglia tondacome uno quatrino et è partita in cin-que parti et pestela et tranne il sucoet colalo per feltro et tolli allume diroccho et caccianello dentro sicondola quantità che tu ne fai et a ongnicolore soctoscritti ne metti. Se llo voiverde mettive verde rame, allo azurrometti dello azurro; allo rosso mettisangue di dragone, al giallo mettidell’orpimento. Ogniuno de questicolori si vole fare bullire tanto chechali 3 o per 1/1 et farli il suco tem-perato sicondo il legniami che tu mettigrosso sicondo si vuole fare stare inmollo, et quanto più è sottile megliopiglia il colore; et fallo stare 8 dì o piùsicondo vedrai pigliare il dicto colorestandovi dentro. Et da poi fa bulireil decto legnio in una caldaia collodicto suco et erba dicto di soprasicondo il colore voi et quando seràlevato da fuoco et assciutto seràfatto43.

Infatti la tarsia lignea, così come lapratica di tingere i legnami, era già inuso in contesti stilistici e geograficidiversi da quello preso in esame. Afianco della ricetta del Fondo Pala-tino riportiamo altre due successivericette del XVI secolo, molto interes-santi perché contengono anch’essenel titolo la destinazione d’uso:

Colorire legni di diversi colori perlavorare di prospettiva o tarsie o altrilavori begli. Togli el legname, el qualtu vuoi colorire che sia verde, et fallobollire in acqua con allume di roccha,tanto che sia allumato. Poi habbialiscìa, colata sopra una parte calcinaviva et dua parte cenere, bene mesco-late insieme et bene inchalchate sopraun poco di paglia, ut bene possit colare.Et fa liscìa che tengha l’uovo di ghal-lina a ghalla bene scoperto; et in que-sta liscìa fa bollire il legno. Et se tu

vuoi che sia colore rosso mettivi cima-tura di grana, tanta che condisca benela liscìa; et se etiam vi sarà qualchegranello di grana, tanto verrà meglio.Et questo habbiamo provato; et hab-biamo provato per il colore verde, incambio di liscìa torre siele di capradal quale sia levato bene la ricotta;et favi bollire dentro el legno allu-mato, et mettivi verderame buono,et sarà verde bello. Et fa bollire questilegni con e’ colori, tanto che sienobene coloriti a tuo modo et che elcolore sia bene penetrato dentro, etriesce bene. Altri colori non habbiamoprovati, ma io credo che ogni coloreche habbia corpo, macinato asciuttoet messo a bollire con la liscìa et conlegno, colorirà; et la robbia con laquale si tigne e’ panni credo che etiamfarebbe un bello rosso44.

Secreto bellissimo per tinger legnod’ogni color che vuoi. Et questo è quelche alcuni maestri di legname, omarangoni adoprano per far bellissimetavole da mangiare, o altri lavori difigure ad ogni colore. Et lo tengonotanto secreto, che un fratello il nascondeall’altro. La mattina a buon’hora sipiglia del letame fresco che la fatto ilcavallo la notte, pigliandosi il piùhumido con tutta la paglia, e ogni cosa,e si mette sopra alcuni legni intraversatialti, acciociandovi un catino di sotto,e si raccoglie quello che cola da talletame. Et se in una mattina no nehaverai bastanza, puoi pigliarla l’altra,e l’altro quanto ti piace. Et poi colalamolto bene, e mettivi dentro per ognibocale di tal acqua, tanto allume diroca, quanto è una fava, e altrattantagomma arabica. Et in essa poi stemperaquel colore che vuoi, facendone diversivasi se vuoi molti colori. Poi mettevidentro i pezzi di legname a modo tuo,e tienli al Sole o al fuoco, e vien divolta in volta cavando fuori di queipezzi, e mettendoli da parte, e lascian-dovi gli altri, che come più vi stanno

più mutano il colore. Et in questamaniera verrai ad haver gran quantitàdi colori diversi più chiari, e d’ognisorte, di accomodartene, e servirtenesecondo che ti tornerà in taglio nellecose che vorrai adoperarli. Et sarantutti dentro, e fuori, ne mai per acqua,ne per altro perderanno tal colore45.

Aggiungerei anche, per la sua sempli-cità, una ricetta che viene dal “Plicthode l’arte de tintori”, edito a Venezianel 1548, l’unica non destinata ai tes-suti:

“Acqua da tenger penne ossi et tavolede legno et maneghi de cortelli et ognialtra cosa. Prendi aceto rosso fortis-simo quanto vorrai et mettilo in unovaso vidriato et mettili dentro moltalimatura de rame et de laton e vitrioloRomano lume de rocca verderame,et metti ogni cosa insieme per alquantigiorni, ma prima lascialo boglir unopoco cioè uno bon boglio et farai unafina tentura verde si forte cbe mai piunon andara via”

Se effettivamente la committenza difra Giovanni annota spese “per tingerlignamo” per la realizzazione del corodi Santa Maria in Organo a Ve rona(1493), trent’anni prima, al Santo aPadova (1463), abbiamo già acquistidi materiali tintori, quali lo scotano,il verzino ed il sandalo. La mancanzadi documenti per il coro ricordato daVasari di frà Damiano Zambelli,costruito tra 1528 ed il 1549, puòessere compensata dalla ricca docu-mentazione del coro di Bergamo, ini-ziato pochi anni prima dal Capoferriche era stato, oltretutto, allievo delloZambelli. La vediamo più avanti.A Padova lo “scodano per le tarsie”(Fig. 42) fu comprato in libbre presso“Ser Zuanfrancesco tentore in Pon-temolin”, ovvero il Ponte Molinosotto le cui arcate dal X al XIX secoloerano in funzione numerosi mulini

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natanti, mentre il verzino, ed il san-dalo, legni importati dall’Oriente, ven-gono acquistati (ancora in libbre o inonce) a Venezia. Nel XIV secolo que-sti legni sono già compresi in liste dicarico di galere provenienti da Beirute da Damasco. Nel XIII secolo il ver-zino è menzionato da Marco Polocon il nome di “berci”, che annota:“del seme de’ berci recai io a Vinegia,e non vi nacque per lo freddoluogo”46. Per la sua colorazione rossaera conosciuto anche come legnorosso o legno brasile, “bresiluim”, dabrasa, ovvero brace. Da esso lo statodel Brasile – in quanto ricco di materiaprima – prese il nome, ed è datato al1503 il primo carico di verzino giuntoin Portogallo dal Nuovo Mondo47.Anche il sandalo, nella qualità di san-dalo rosso, è ricordato da Marco Poloma doveva essere meno usato del ver-zino, in quanto non compare con lastessa frequenza nei ricettari coevi.

Commerciati in polvere, ma anche inpezzi, è stato notato che potevanotrovare impiego anche come legno daintarsio.Mentre a Padova sembrerebbe inte-ressare solo l’arricchimento dellagamma dei rossi (bisogna però tenerepresente l’incompletezza delle fonti),la ricetta del Palatino comprendecoloranti (e pigmenti) verdi, azzurri egialli; inoltre per il rosso la materiacolorante proviene da una resina esotica, il sangue di drago (Fig. 43).Come vedremo risulta diversa anchela fonte dei mordenti di natura tan-nica impiegati. Evidentemente lesostanze tintorie, quanto quelle ausi-liarie alla tintura, potevano variaretanto da bottega a bottega, quanto peraree temporali e geografiche.Naturalmente delle ricette presentate(Fondo Palatino, Manoscritto dellaMarciana, Girolamo Ruscelli e Gio-vanventura Rosetti) sarebbe interes-

sante poter verificare a ritroso – semai fosse possibile – il percorso chele ha rese accessibili al compilatore.Per noi risulta comunque estrema-mente significativa la testimonianzadel coro bergamasco, tanto per la ric-chezza della documentazione super-stite, quanto per i contenuti in materiadi sostanze coloranti. Senza presun-zione di completezza esaminiamonealcuni aspetti, con una nota.Le maggiori informazioni sui mate-riali tintori, tanto per quanto riguardale fonti, quanto per ciò che concernegli studi, le abbiamo nel settore deitessili e saranno di seguito usate,almeno per la comprensione di alcuniprincìpi.Le proprietà tintorie dei coloranti siriferiscono alla capacità di formarelegami deboli o forti, diretti o indiretti(mordenzatura) con le molecole checostituiscono la fibra tessile. Nellatintura delle stoffe i coloranti vengonoclassificati secondo il metodo di appli-cazione: coloranti al tino, a mordentee diretti. Ai coloranti al tino appar-tengono l’indaco e il guado: il loroprincipio colorante deve subire ini-zialmente un’azione chimica (ridu-cente) per divenire solubile e quindipenetrare nella fibra tessile sulla qualeesso si stabilizzerà (ossidandosi) unavolta estratto dal bagno ed espostoall’aria. Questo procedimento vienedetto “al tino” per i recipienti di legnoin cui avveniva la tintura. La colora-zione a mordente prevede di trattarei filati od i tessuti, prima della tintura,con sali metallici, in prevalenza allumedi rocca (solfato idrato di alluminioe potassio) e cremor di tartaro (tar-trato acido di potassio), ma anche salidi ferro (solfato ferroso) e tannini(estratti da foglie cortecce e galle) perla mordenzatura delle tinte più scure.Ai coloranti diretti appartengonoalcune sostanze come l’oricello, lozafferano e la curcuma: esse si legano“direttamente” in soluzione alla fibra

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Fig. 42. Scotano. Pietro Andrea Mattioli,Della materia medicinale (Erbario delMattioli), Venezia 1744. (Google Books)

Fig. 43. Sangue di drago. Don Garzia Da L’Horto, Dell’Historia de i semplici aromati... - Venezia 1605. (Google Books)

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Fig. 44. Galle. Pietro Andrea Mattioli,Della materia medicinale (Erbario delMattioli), Venezia 1744. (Google Books)

che vi viene immersa. Si intende per“piede” o “impiumino” un primobagno di colore, al quale seguivanoaltri bagni con coloranti diversi48.Effettivamente quando si parla di tin-tura del legno e di colori (verdi, gialli,azzurri come nella ricetta del FondoPalatino e come ricompariranno nelcoro bergamasco) bisogna tenere pre-sente che il “piede” su cui avviene lacolorazione difficilmente sarà bianco,come quello ottenuto con specificiprovvedimenti nella tintura dei tessili,ed influirà nella colorazione finale. Èprobabile che “rimontare” in azzurroporti ad una colorazione verde. Unaricetta del Plictho con impiego diindaco come colorante, evidenziaquanto osservato: “...a fare una maistrade tentori che tenze questi colori. Ilmorello diventa alessandrino; il biancoturchino; il giallo diventa verde49”.Le maestre erano acque “di diversotipo e composizione e si possono con-siderare bagni per trattamenti preven-tivi delle fibre, o bagni di ri mon ta50”.Erano caratterizzate dal fatto dipotersi conservarte ed utilizzare allabisogna per assolvere, in dipendenzadella loro composizione, alle varie fasidel procedimento tintorio: purgatura,ingallatura, alluminatura, estrazionedel colorante e tintura. In realtàabbiamo visto che queste fasi pote-vano essere ricondotte ad un unicobagno tintorio che necessitava ordi-nariamente di tempi lunghi e di som-ministrazione di calore.A Bergamo dal 1523 abbiamo acquistidi “lume de rocha, galla e vedrioloromano”, ovvero allume di rocca, tan-nini di cui sono ricche le “galle diquercia” e solfato di ferro. Anche il“salmetri” dei libri di spesa potrebbeessere un composto a base di allumedi rocca, secondo quanto riferisce lamisteriosa Isabella Cortese nel 156551.Seppure i tannini hanno proprietàcoloranti in bruno, e con sali metalliciin nero, a tutte queste sostanze viene

attribuita anche funzione di mordente:“...per la persistenza della tintura siprocedeva alla mordenzatura... il piùcomune mordente, già presso gliEgizi, era l’allume... altro prodottocon funzione di mordente e coloranteera la noce di galla (Fig. 44), ricca ditannino”52. In Europa fin dall’anti-chità fonti di materie tanniche, oltrea quelle già citate, furono il sommaco,lo scotano, la corteccia di quercia edi castagno, il mallo e le radici delnoce, il legno di biancospino... e altriancora53. Lo scotano lo abbiamo vistotra i materiali del coro del Santo, men-tre anche la “cinquefoglia” (Fig. 45)della ricetta del Fondo Palatino, “dettada Linneo Potentilla reptans... trovasiper le fosse o per i boschi... la suaradice è ricercata dagli Speziali comeastringente e balsamica... nasce neiluoghi aquitrinosi e presso gli aqui-dotti e si usa nella Medicina”54, con-tiene tannini. L’azione dei mordentinon è di facile comprensione e tantomeno lo era nel periodo preso inesame; vediamo alcune tarde consi-derazioni, del XVIII secolo, nel dizio-nario di Chambers alla voce Tingere(naturalmente si parla di tessili):

“L’allume, assai usato, sebbene conqual intento non si sa ben daccordo;se per render l’acqua un mestruo pro-prio ad estrarre le particole tingentidi certe droghe dure? o per nettar viala sordizia, che viene a frapporsi trail drappo e la tinta, e ad impedire laloro debita adesione? o per far dive-nire teneri i peli della lana, e i drappidi pelo, affinché meglio de’ lor coloris’imbevano? o per contribuire al colorestesso, come fa la copparosa alle gal-lozze nel fare nero, o il sugo di limonealla cocciniglia negli incarnatini, ol’acqua forte impregnata con peltronello scarlatto nuovo? ovvero, ciò chepar più probabile, per servire di vin-colo tra il panno ed il colore, come gliolj tegnenti, e l’acque di gomma fan

nella pittura; essendo l’allume unasostanza, le cui particelle aculeate,disciolte con liquori caldi, entrerannone’ pori de’ drappi, e sulla qualefaranno presa le particelle delle droghetingenti! sebbene egli può ancora ser-vire ad altr’uso, cioè a seccare certeparticelle, che non s’accordassero colcolore da darci sopra: al che siaggiunga, poter egli anche servire adilluminare un colore, in crostando ildrappo, che si vuol tignere, co’ suoicristalli; su’ quali venendo ad appli-carsi il colore, fa questi un più bel-l’effetto, che s’ei fosse applicato suruna materia scabrosa, qual’è un pannonon alluminato.”

Di fatto i mordenti sono imprescin-dibili dalle operazioni di tintura, litroviamo nei libri di spesa e nei ricet-tari.Torniamo a Bergamo. Tra i colorantirossi i documenti riportano acquistidi legno di verzino e sandalo, com-

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Fig. 45. Cinquefoglio. Pietro Andrea Mat-tioli, Della materia medicinale (Erbariodel Mattioli), Venezia 1744. (Google Books)

Fig. 46. Guado. Pietro Andrea Mattioli,Della materia medicinale (Erbario delMattioli), Venezia 1744. (Google Books)

prati in once e già visti per il coro delSanto. Coloranti indiretti necessitanodi mordenzatura; tuttavia le tinte nonrisultano molto stabili e nell’industriadel tessile ne fu limitato l’uso55.Tra i coloranti azzurri troviamo acqui-sti per “endico gabade” (Indigoforatinctoria) e “sfiorada de guado” (Isatistinctoria L.). Seppure entrambe con-tengono lo stesso principio colorante(a concentrazioni diverse), il primoera importato da Bagdad già nel XIIsecolo per utilizzo in pittura, ma losi credeva un minerale, sul tipo del-l’oltremare. La provenienza vegetaledell’indaco gabade o baccadeo eraperò nota alla fine del XIII secolo,quando Marco Polo descrisse il mododi preparare il colorante secondo ilprocesso praticato nel reame di Cou-lam, sulla costa occidentale dell’India,e compare nel Capitolare dei Tintoridella città di Venezia del 130556.Il guado (Fig. 46) o pastello, cono-sciuto fin dall’antichità, era inveceampiamente coltivato in Europa.Dalla raccolta delle foglie subiva variefasi di lavorazione ottenendo prodottiintermedi e commercializzati in varieforme, destinati prevalentementeall’industria tessile che ne ultimava lapreparazione. L’acquisto di “sfiorada”rimanda a quest’ultima fase, presso iltintore. Infatti la “sfiorada” o “fiore”o “schiuma” o “spuma” di guado èil nome usuale del migliore prodottocolorante ricavato dal guado nelle fasidi lavorazione della tintura al tino:“Reccipe parte(m) una(m) floris guatjqui flos colligit(ur) i(n) caldareatinto(rum) q(ua)n(do) guatum dequo-quat(ur) ...” (Prendi una parte di fioredi guado il qual fiore viene raccoltonella caldaia dei tintori quando ilguado sia fatto ridurre [estratto il colo-rante]57. Fiore sta per “fior fiore”,ovvero appunto il prodotto miglioree più selezionato. Non mancanoricette per la lavorazione in proprioa partire dalla foglia, ma certamente

era più pratico reperire il prodottogià lavorato. Nei ricettari compareper fare azzurro, come nel citatoManoscritto bolognese in M36, Mo -dus fatiendi azur(r)u(m), nella qualesi avverte: “se non hai l’indaco al suoposto usa la spuma del guado dei tin-tori”. Il colorante genericamente indi-cato come “azzurro” nella ricetta delFondo Palatino poteva appunto pro-venire dal guado, ma non solo. Unitoall’orpimento o, come abbiamo visto,direttamente su un piede giallo, potevadare colorazioni verdi58.Tra le sostanze per colorare in verdetroviamo anche un pigmento, il ver-derame, già visto nella ricetta delFondo Palatino. Del 1540 una pre-scrizione in parte compatibile con imateriali della Misericordia:

“A far una tenta che tenze ogni cosaverde. Recipe aceto rosso e mettilo inun vaso invedriato, e mettivi assailimadure de rame over laton, e vitriol

romano e lume de roca e verderame,e lassa star tutte queste cose peralquanti di, sapiate che bisogna farboglir ditte cose avanti che lassateripossar niente, e questa sarà finis-sima tentura, e come vorrai tengeralcune cose fale boglir nella ditta ten-tura, e farà belissimo”59.

La “raspadura de latton”, oppure“limadura de latton” la troviamo inacquisti del 1523 e del 1525; il vetrioloromano lo troviamo, ma in anni suc-cessivi (1526) ed unitamente alla galla,ovvero probabilmente per formulareinchiostro; l’allume di rocca è acqui-stato dal 1524, così come il verderame.Una variante del Plichto prevedel’uso, unitamente al verderame, di salearmoniaco per fare azzurro:

“Ad fatiendu(m) azur(r)u(m). Accipesale armoniaco onc(ia). j. v(er)de ramoonc(e). 6. et macina queste polveb(e)n(e) s(u)btilj cu(m) oleo de tartaro

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sovente tanto di colorante che di mor-dente). Vengono procurati in cesti ocestelli nel mese utile alla raccolta. Sitratta di acquisti al di fuori dellesostante di rilevanza economica, mainseribili in un contesto di economiadomestica. Dal 1523 abbiamo granellineri di spincervino (tra fine agosto eottobre - Fig. 48), grani de cavroseno,ovvero ligustro (a fine ottobre - Fig.49), grani de olero, oles, olesi, ovverogranelli de sambugo (tra agosto e set-tembe - Fig. 50), e di moroni, ovveroprobabili bacche di gelso (a luglio -Fig. 51).Una ricetta per fare acqua verde conlo spincervino la tolgo dal “Plichtodel l’arte de tentori”, del 1540:

“A far acqua verde. Piglia pomelle dispino cerbino dal tempo di San Michielil mese di settembrio, e guarda a torrele ditte pomelle da mezo giorno chenon sia tempo pluvioso, ne che li habbi

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sop(ra) ma(r)mo poi lo pone i(n) unovaso vitriato et lassalo stare alcunj djet troveraj lo verde ramo convertitotucto i(n) azurro asa bello”60.

Alla Misericordia lo abbiamo come“sale alemoniado”, acquistato dal dal1525. È identificato con il cloruro diammonio e classificato tra le sostanzeausiliarie alla tintura, tra cui annove-riamo oltre all’olio di tartaro, prepa-rato con il sedimento solido che fa ilvino nelle botti, la calcina, la liscivaed il letame, già precedentemente visti.Come detto il verderame è un pig-mento. Tuttavia è usuale il suo utilizzoin tintura, spesso con altri ingredienti:infatti il verderame e gli altri sali delrame, come il vetriolo azzurro, hannoproprietà di rilievo anche nella praticatintoria61; in questo senso è proba-bilmente da considerare “l’effetto ossi-dante che i pigmenti a base rameicahanno sui materiali cellulosici. La cel-lulosa ossidata contiene gruppi...capaci di formare legami stabili con icationi rame”62.Un altro pigmento utilizzato in tinturaè l’orpimento che troviamo nellaricetta del Fondo Palatino per le colo-razioni gialle. Spesso associato al risi-gallo in quanto entrambi solfuri diarsenico, erano anche chiamati arse-nico giallo o auripigmentum ed arse-nico rosso o realgar. Compaionoentrambi, ma soprattutto il realgar,nei libri della Misericordia (BG) apartire dal 1524. Seppure il risigallodovrebbe essere annoverato tra lecolorazioni rosse lo citiamo tra i gialliper la sua stretta “parentela” con l’or-pimento e perché sempre acquistatounitamente allo zafferano (la contem-poraneità potrebbe derivare tanto dauna utilità di fornitura quanto ad unadi utilizzo), già citato tra i colorantidiretti (Fig. 47).Molti, anzi prevalenti, sono poi gliacquisti di bacche vegetali utili a tin-gere in giallo o verde (con funzione

Fig. 47. Zafferano. Pietro Andrea Mattioli,Della materia medicinale (Erbario delMattioli), Venezia 1744. (Google Books)

data la rosata [rugiada ?] e salvale inuno cadino vetriato, e lassale stare pertre giorni, e metti ne le ditte pomelleuno poco de lume de rocca, e messedale ditte pomelle per spacio de giorniotto, e poi habbi uno torcholetto, ecava fora lo sugo, e metti il ditto sugoin uno cadino, e coprilo molto beneaccio che lo aere non vadi dentro delcadin, e vallo adoperando secondoche haverai debisogno, e nota chequando metterai più lume di roccadiventa di color tanto più chiara”.

Abbiamo precedentemente visto l’ac-quisto di sostanze mordenti quali ilvetriolo romano e le noci di galla.Con esse si preparava anche l’inchio-stro, utile a molte necessità ma ancheprescritto, ad esempio, nella ricettadel XVII secolo (già vista a propositodella “scuena) per la colorazione innero del legno di pero (ebanizza-zione), unitamente al colorante estrat -

Fig. 48. Spincervino. Pietro Andrea Mat-tioli, Della materia medicinale (Erbariodel Mattioli), Venezia 1744. (Google Books)

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to dal legno tauro detto anche cam-peggio (di importazione e non dispo-nibile nel XV secolo). Per far nere lecornici, secreto che usano à Venezia:

Bisogna primieramente che il pero, oaltro legno sia diligentemente lavorato,et lisciato con pumice, et anco con certapelle di pesci che à venezia chiamanoscuena.Poi prenderai legno taurotagliato minutamente, et si faccia bollirin lisciva che non sij molto forte, etcon esso sia colorita la cornice, cherestera di color morello, o paonazzo,si lasci asciugare, e poi si tinga coninchiostro da scrivere, poi si lasci benasciugare, finalmente prendesi nerofumo, e si faccia prima stemperar colatedesca assieme due bicchieri di aqua,et mentre la cola sia liquida tu v’in-fondi il detto fumo, et perchè resta eglià gala su’ l’aqua si vadi mescolando,et si getti sopra esso tre, o quattro cuc-chiai d’aqua vita, che subito comincera

ad unirsi il fumo con la cola, e quandosi vedra ben incorporata la composi-zione, con essa gentilmente con pene-letto si onga la cornice, et si lasci asciu-gare poi con un poco di cera calda sivada lisciando quando è ben asciutto,et finalmente si freghi con panno neroche cosi resta nero come ebano, et lisciocome cristallo ogni legno63.

La scelta privilegiata del legno di peroderiva dalla sua tessitura, simile aquella dell’ebano. A volte, anche conprescrizioni più semplici, se ne garan-tisce una discreta penetrazione:

“per imitare l’ebano nero si prende illegno di pero, di sorbo, di corniolo oaltro legno di vene poco sensibili, sene disgrossano i pezzi e si fanno bolireper 3 o 4 ore in buon inchiostro a cuisi avrà aggiunto spirito di vino egomma. Il legno resterà penetrato aqualche linea di profondezza...”64

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Tornando al XVI secolo, ai docu-menti del Consorzio della Misericor-dia, non si possono escludere tratta-menti d’artificio anche per le colora-zioni nere. Oltre alla presenza disostanze utili a preparare inchiostrosi accenna anche ad una ricetta pertingere in nero, e prescrizioni di que-sto tipo compaiono spesso nei ricet-tari.In questa sezione cito infine il “legnoverde”, che troviamo tra gli acquistidi Fra Giovanni per il coro dellaAbbazia di Monte Oliveto Maggiore(Siena). Siamo nel giugno del 1505 evengono pagati “14 soldi a frate Joan -ne intaiadore per comprare legnameverde” e due giorni dopo fra Tom-maso converso comperò altro legnoverde.Questa dizione si presta a due inter-pretazioni, entrambe probabilmentepercorribili, la prima delle quali sot-tende ad una colorazione “naturale”

Fig. 49. Ligustro. Pietro Andrea Mattioli,Della materia medicinale (Erbario delMattioli), Venezia 1744.

Fig. 50. Sambuco. Pietro Andrea Mattioli,Della materia medicinale (Erbario delMattioli), Venezia 1744.

Fig. 51. Gelso. Pietro Andrea Mattioli,Della materia medicinale (Erbario delMattioli), Venezia 1744.

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data dall’infestazione di un fungo,mentre la seconda si riferisce a legnonon stagionato, accorgimento utile a migliorare l’efficacia del bagno tin-torio.La prima ipotesi sarebbe suffragatatanto dalla diretta osservazione e com-parazione di opere diverse, quanto daindagini specifiche. La seconda siappoggia su una ricetta del Mano-scritto IT.III-10 della Biblioteca Mar-ciana di Venezia del XVI secolo doveviene espressamente prescritto:

“... togli el legname el qual tu vuoicolorire, che sia verde, et fallo bol-lire...”, ovvero si tratterebbe di legnonon stagionato, che “probabilmenterispondeva meglio ai processi di tin-tura, facilitando la penetrazione deicoloranti e il loro fissaggio”, cosìcome verificato in uno studio in lin-gua tedesca sempre nel 199165”

Abbiamo visto che la presenza neiLibri di spesa di alcune sostanze nonci da strettamente conto del loroeffettivo impiego, che poteva esseredeclinato in composizioni diverse.L’avere ad esse affiancato alcune tra le molte prescrizioni contenute neiricettari ha solo lo scopo di offrirealcune plausibili suggestioni, ma ilcampo di ricerca resta, per quantopossibile, da precisare.

ProfilaturaNella primavera del 1523 quando,unitamente ai primi acquisti dilegname, si inizia la costruzione delcoro di Santa Maria Maggiore a Ber-gamo ed il giovane intarsiatore Gio-van Francesco Capoferri viaggia “permeliore instructione” in diverse cittàdel nord Italia, Lorenzo Lotto for-nisce il primo cartone al Consorziodella Misericordia di Bergamo conla promessa di curarne anche la “pro-filatura”.

Si tratta di una tecnica di lavorazioneda farsi “a tempo opportuno”, cioèdopo l’incollaggio delle tessere e par-ziale finitura dei pannelli, che consistenella definizione – a carattere esclu-sivamente grafico – di particolari deldisegno e delle ombre a tratteggio(Figg. 52-53).Questa tecnica, che permette l’im-piego di campiture lignee più uniformie meno ricche di dettagli propri, nonera nel carattere della primitiva tarsiaprospettica, tanto che nella Sagrestiadelle Messe, anche in elementi confunzione più decorativa come nellatarsia a buio, il disegno poteva emer-gere dallo scavo del supporto in noce.La profilatura viene infatti sempre piùimpiegata col procedere del periodoconsiderato, via via che il ragiona-mento che informava le prime fasicede il campo alla rappresentazionepittorica.In particolare col termine di profilaturasi intende la tracciatura sul pannellogià intarsiato da parte del pittore(almeno nel caso del coro bergamasco)dei tratteggi, per costruire ombre oparticolari, che andavano a completareil disegno; su questi segni l’intarsiatoreincideva poi il legno e riempiva distucco nero. Se la manualità è propriadella tecnica dell’incisione su legno“di filo”, gli strumenti sono quelli giànoti all’intarsiatore. In particolarepotevano essere impiegati tanto lo“stracantone” quanto i coltelli propria questa disciplina, come quelli indicatida Roubo (Fig. 54). Nell’inventariodi Angelo di Giacomo (1496) uno diquesti utensili potrebbe essere quellodenominato “profilatoio da tarsia”.

VerniciaturaRisulta oggi difficile indagare diret-tamente sui manufatti le vernici impie-gate nel XV e XVI secolo, a causadell’alterazione dei materiali e dei con-seguenti restauri succedutisi nei secoli.Fino a pochi decenni fa si riteneva,

ma ancora lo si ripete, che in quelperiodo la verniciatura fosse fatta conprodotti a base di gomma lacca e dicera d’api.In realtà i documenti registrano soloacquisti “de vernixe per lo choro”(S. Maria in Organo VR - ca 1490) odi “vernicis liquide” associata anchea “oley linose” (S. Maria MaggioreBG - ca 1530), senza ulteriori specifi-che sui componenti. Nel coro berga-masco numerosi pagamenti attestanoche la verniciatura era prevalentementeaffidata alla manodopera specializzatadel “pictor”. E in questo ambito la“vernice liquida” è citata dal Cenniniche evidentemente la ritiene un pro-dotto usuale, facilmente reperibile, dalmomento che anch’esso non ne spe-cifica il contenuto. Infatti in un ricet-tario del XVI secolo si nota che la“vernice fatta da invernicare, quantomigliore è tanto è meglio; ma basta diquella comune che vendono gli spetialiper invernicare legname et ognicosa”66, a conferma della reperibilitàdi un prodotto anche già pronto all’usoe confezionato in (almeno) due diffe-renti qualità, lo vedremo, sotto ledenominazioni di “vernice liquida”,la migliore, e di “vernice comune”.In realtà nel 1529 la committenza ber-gamasca, per dare maggior lustro (intutti i sensi) ai propri beni, esploraanche la possibilità di verniciare ilcoro con la resina ambra, chiedendoneal Lotto, che abbiamo visto collabo-rare con il Consorzio fornendo diversicartoni per le tarsie, informazioni.Si tratta di una resina di origine fossiledall’origine, ancora nel XVIII secolo,incerta:

“L’ambra, di cui ancora è dubbiosal’origine, né si sa di certo se sia Gom -ma stillata dalle Piante, o pure Bitumegenerato nelle viscere della Terra.Succinum, si dice, in latino, come rife-risce il Calceolario nella sezioneseconda del suo Museo a carte 80,

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Fig. 52. Annunciazione, opera prima, part.Giovan Francesco Capoferri - Bergamo,Santa Maria Maggiore - sec. XVI. Fran-cesca Cortesi Bosco, Il coro intarsiato diLotto e Capoferri, Amilcare Pizzi, Milano1987.

Fig. 53. Lapidazione di Santo Stefano.Fra Damiano Zambelli- Bergamo, pan-nelli in san Bartolomeo - sec. XVI. Fran-cesca Cortesi Bosco, Il coro intarsiato diLotto e Capoferri, Amilcare Pizzi, Milano1987.

Fig. 54. Strumenti da incisore. M. Roubo, L’art du menuisier ebeniste, sec. XVIII.(Google Books)

perché è un sugo quagliato, non giàprodotto dagli Alberi, perché comeriferisce il Munstero si trova nellespiagge del mare di Prussia, ove nonsi vede Albero alcuno, che perciò vuoles’ingannasse Plinio, Olao Magno, eanche S. Basilio nell’Esamerone. El’Agricola lib.4 de Fossilibus disseessere un sugo grasso della terra, ilquale tramandato per le sue vene nelmare, ivi per il freddo delle acque sicongela”67

È la più dura delle resine e di difficilepreparazione, e veniva spesso ven-duta in forma adulterata, forse anchein buona fede vista la scarsità di cono-scenze. Nel Manoscritto venezianouna ricetta “A fare ambro” utilizzaalbume di uovo e olio di lino68.Non a caso Lorenzo Lotto, oltre adarne il costo sul mercato di Venezia,3 marcelli d’argento a vescica, avverteche quanto in commercio va provato.Dai Libri di Spesa si evince comunqueche infine la scelta cade su un prodottodi normale utilizzo e reperimento, lavernice liquida, probabilmente nellaresponsabilità dei dipintori chiamatialla verniciatura.Per la preparazione della verniceliquida riporto la prescrizione del Ms.Bolognese (XV secolo):

“A fare vernice liquida. Tolli gommade gineparo le doi parte et olio de semide lino e fa bulire insiemi cum focotemperato e chiaro. E se te paressetroppo sodo tu ce pone più olio pre-dicto e guarda che la fiamba non se liaprenda perché non lo poriste spin-giare, e se pure la spingesse, virianegra e brutta. E bolla per meza horae serà facta”.

Con altri dettagli è la ricetta del Ms.veneziano, sempre del XV secolo,dove si sottolinea che è “fina vernixe”destinata tanto ai “dipentui”, quantoper “invernigare zò che tu vòi”:

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“A fare la vernixe de i dipentui. To’ollio de somente de lino lib.X, e miteloa choxere in una pignata de ramo, eschiumalo bene, tanto ch’el non getipiù schiuma. E poi toi lib. 1 e 1/2 devernixe in grana e mitela in una altrapignata, e mitege uno puocho delsovra dito olio choto in lo fondo, elasala coxere; e chusì va azunzando,a pocho a pocho entro, perfin’ a tantoche tu g’ài meso dentro el dito olio, elasalo anchora buire. E quanto piùbuia, è miore. E guardate che ‘l fogono ge intra dentro. Ed è fina vernixeda invernigare zò che tu vòi”.

Per gomma di ginepro e vernice ingrana si deve intendere, in questo pe -riodo, la resina sandracca, come spessospecificato nelle ricette. Riporto dalFondo Palatino: “...la sandracca ègomma di ginepro...”; “...sandracha,cioè goma di ginepro...” e anche“...sandraca di ginepro...”, oppure,come specificato da Leonardo Fiora-vanti (1564): “...vernice di sandracca,o vernice in grana...”, dal quale riportola ricetta. Pur variando nelle propor-zioni e nelle procedure, vi compaionoi medesimi componenti maggioritari:

“Del modo di fare la vernice di san-daraca, o vernice in grana. ... Pigliaolio di lino libre 8. e pongasi a cuoceredentro una caldara di rame, e si fabollire sin tanto, che mettendovi den-tro una penna s’abbrugia subito, eall’hora sarà cotta: bisogna levarlo dalfuoco, e lasciarlo raffreddare, e raf-freddato che sarà, mettervi altrettantodi sandaraca macinata, cioè libre 8. elib.1. di pegola spagna, e tornare alfuoco, e far bollire tanto che la sanda-raca sia tutta liquefatta, e benissimoincorporata con l’olio, e in tale modosi fa la vernice di tal sorte, perché se siponesse insieme l’olio caldo, e la vernice fredda, non si può mai incor-porare insieme per modo nissuno, e seil si mettesse l’olio crudo con la ver-

seguito a denominazioni commer-ciali – la resina tratta dal pino da quellericavate da altre conifere. Col passaredei secoli il lessico si va modificandoed alcuni dei termini riferiti possonotrovare nuova accezione, dove adesempio per gomma di ginepro sidovrebbe intendere soprattutto laresina mastice, mentre viene conside-rata impropria l’identificazione dellacolofonia con la pece greca70.Le vernici oleo resinose citate reste-ranno in uso almeno fino al XIXsecolo, anche dopo l’introduzione dicomposti innovativi ottenuti sosti-tuendo l’olio con solventi volatili,come ancora annota Fioravanti:

“Del modo di fare una vernice finis-sima, e essiccante. Oltre le vernicisopradette se ne fanno ancor senzaolio, e sono bellissime... e essicante:percioche si secca all’ombra senza ilSole, e questo è stato mirabile secretonell’artificio di natura”.

Ma siamo già oltre la metà del XVIsecolo ed è improbabile, per quantoFioravanti renda conto di una praticaovviamente già in uso, che fosseroapplicate nel periodo preso in consi-derazione. Per quanto riguarda l’espo-sizione al Sole delle vernici oleo resi-nose la prescrizione la troviamo anchenel Cennini con riferimento alla ver-niciatura delle tavole, ma dobbiamoconcludere che non era indispensabiledal momento che tale pratica non eraevidentemente possibile per i grandiarredi. O più probabilmente aiutaval’uso dei cosiddetti “siccativi”. In unalettera a margine dei lavori al corobergamasco:

“Tolgi la vernise che voy et dentro limeti a discretione coporosa ben maci-nata cum olio de lin cotto sutilis -simamente et litergirio d’oro primamacinato doy volte cum la orina easuto e poy macinalo cum l’olio de

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nice, prima che l’olio fosse cotto, lavernice saria abbrugiata, e non sipotrebbe fare cosa buona”69.

Fioravanti ci informa anche che lapegola spagna, peraltro in questo casocomponente minoritario, è detta anchepece greca: “pece greca, altrimentichiamata pegola di Spagna”. Si trattadella colofonia, che diventa compo-nente maggioritario nelle ricette perpreparare la ‘vernice commune’:

“Del modo di fare la vernice com-mune a vernicare cose grosse. Lavernice commune, che si fa per verni-care cose grosse, si fa in questo modo,cioè. Si piglia oglio di semenza di linoparte una, pece greca parte due, rasadi Pino in grana parte meza, comesarebbe oglio libre due, pece librequattro, rasa libra una, e fare bollireogni cosa insieme dentro una caldaradi rame fin tanto che sia cotta, e ilmodo di conoscere la cottura di talvernice è questo, cioè. Metterne unpoco sopra un coltello, e distenderlacol dito, e se sarà untuosa, non è cotta,ma se sarà lucida, e chiara, e senzauntosità, sarà cotta: all’hora si colacon una pezza di tela, e si serba in vasiatti a tal materia,e questo è il modo difare tal sorte di vernice”.

L’autore poi schematizza all’internodi una ricetta per fare fuochi artifiziati:

“La vernice commune è una compo-sitione, che si fa di olio di lino, e dipece greca con una parte di olio, e tredi pegola, e si fa bollire fin tanto, chesia benissimo incorporata”.

Le “rase” sono considerati generica-mente essudati resinosi di diverse spe-cie legnose, compreso il pino. Da esseviene prodotta anche la pece greca,ma forse in questo caso Fioravantidistingue – probabilmente anche in

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lino cotto ut sopra, tuto separato unade l’altra. E quando voray invernicar,fa’ che la vernise sia ben caldata edentro li meti del dito litergirio etcoporosa et messeda molto ben; incor-porata, darai la vernise sempre mes-sedando seco. Non dar due mani alfondo ne meter se non tanto quantose vol vernicar, perchè altramente eldà al fondo et fa la vernise purgar,che non se po’ destenderla et è cossamolto dessecativa”.

E ancora:

“... è da notar chel litergirio vole esserprima pisto e tamisato per tamiso sotil,poi fa ut sopra; et per ogni libra devernise onza una del dito e onza unade coporosa pur pesta e tamisata et inla vernice mete per libra onze 4 oliode sasso et non meter queste cosse dis-sicative se non apunto apunto tantoquanto se va invernicando a poco apoco caldate e sempre messedandocum la spatola de legno... E olio desasso bono se vol conoscer sel atacadentro el foco et bruse in superficie,como fa l’acqua vita. In V.a non c’èal presente, vedeti per la via deModena; el suo precio sono circa 3marcelli la libra”.

Sotto il nome di copparosa o copo-rosa si designava il il vetriolo azzurro(solfato di rame), mentre il litergirioè un giallo di ossido di piombo, usatoanche come pigmento. Raro in naturaed ottenuto come sottoprodotto nelprocesso di estrazione dell’argentodal piombo argentifero71. Possiamoipotizzare che con il suo impiego siottenessero vernici dalla tonalità piut-tosto calda.È infine assodato che la verniciaturafosse preceduta da una stesura di collaanimale, come indicato in un docu-mento a proposito del coro dellaCattedrale di San Rufino ad Assisi,eseguito da Giovanni di Piergiacomo

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Fig. 56. Coda cavallina. Pietro AndreaMattioli, Della materia medicinale (Erba-rio del Mattioli), Venezia 1744.(Google Books)

da Sanseverino tra il 1518 ed il 1527,dove si dice di “dare la colla e la ver-nice al coro”72. La prassi è descritta inaltre occasioni, ancora nei documentibergamaschi, precisando che tra lecolle animali è meglio “la colla deretalgi de pergameno”, mentre quella“de foratura de crivelli non è al pro-posito”. Notevole il distinguo tra ledue colle, entrambe comunque rica-vate da ritagli di pelle animale, laprima lavorata per produrre perga-mena e la seconda destinata ad altriusi. Il crivello è un tipo di setaccio chepuò anche prevedere l’uso di “cuoioseminato di buchi”73.Comunque l’impiego della colla ani-male, per quello che modernamentedefiniamo un “turapori”, è quasidovuto visto che i pannelli intarsiatirisultano già sostanzialmente trattaticon materiale affine, cioè la già vistacolla caravella, in tutte le fasi di incol-laggio delle tessere.Le vernici venivano poi “polite” conabrasivi leggeri. A Bergamo, nel 1531“Mag.r Franciscus de Boneris pictordebet habere” non solo “in verni-zando”, ma anche in”poliendo ver-nizaturam”. Dai documenti non emer-gono i materiali usati per la politura,ma chi lavora nel restauro di questiarredi trova spesso dei residui vegetali(Fig. 55). Si tratta di rametti di equi-seto o coda cavallina (Fig. 56), cioèl’erba spreda74 che nel XVII secoloVincenzo Coronelli utilizza in unaricetta per dare il lustro alla vernice:“Raffreddata poi che si sia [la vernice]si piglia un pennello di setola e conmolta diligenza si va mettendo ugualesul Globo; il che si replicherà dieci ododici volte conforme si vuole cheriesca più o meno lustro, per dare ilquale ci vuole però l’erba Spreda,senza di che non verrebbe lustra”75.Prescrizioni del XVIII secolo preve-dono anche l’impiego di abrasivi comela pomice già vista, ed il “tripolinorosa”.

Fig. 55. Coda cavallina. Dal coro di SanZaccaria a Venezia, XV sec.(Foto Roberto Bergamaschi)

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Il toppoQuella del toppo è una tecnica deco-rativa di carattere geometrico e ripe-titivo che, in un arredo ligneo delperiodo preso in esame, investe tuttele incorniciature dei pannelli intarsiatie le modanature architettoniche. Inun coro ligneo, si può sviluppare peralcune centinaia di metri lineari.Diversi possono essere i “motivi” deltoppo; nel coro delle monache di SanZaccaria a Venezia (metà del XVsecolo) ne sono stati contati più di 80(Fig. 57), ognuno dei quali potevaforse avere una denominazione pro-pria, come suggerisce la richiesta daparte di maestro Berto del 1501, dovevengono specificatamente richiesti “3ducati di tarsia di quella stretta, cioèbruciolo, vento, larnoctolo”, o ancora“i brucioli” e le “chiocciole tonde equadre” con le quali gli intarsiatori“empiono i fregi”, come nel rimpro-vero di Donatello a Paolo Uccelloriportato dal Vasari76.I toppi necessari per la decorazionedi un arredo non erano necessaria-

Fig. 57. Alcuni motivi di toppo. Ricostruzioni in occasione del restauro del coro di San Zaccaria a Venezia, XV sec. (Foto Roberto Bergamaschi)

mente approntati dalle maestranzeimpegnate nella sua costruzione, mapotevano essere acquistati presso bot-teghe specializzate, evidentementechiamate a soddisfare un vasta do -manda. Nei documenti per i perdutiarmadi della Sagrestia delle Messevengono acquistati (1436) con il nomedi “chalzuoli di tarsie”.In alcuni casi i toppi possono pren-dere particolare rilievo ed altissimaespressione, come nella sacrestia deiConsorziali nel Duomo di Parma onel coro del Duomo di Pisa, entrambiopera di Cristoforo Lendinara deglianni ’80.Per comprenderne il dato tecnico sipensi che il toppo è incollato in unasede ricavata nella cornice ed ha unospessore, pari a quello della sede stessa,che poniamo di ca 3 millimetri. L’ele-mento di partenza, il “chalzuolo” dacui quel toppo è stato ottenuto, venivaperò preparato con uno spessore cheponiamo intorno ai 6 cm, per una lun-ghezza che poteva essere di ca 70 cm.Tagliandolo si potevano ottenere, con-

siderando anche la perdita di materiacausata dalla lama, una decina di toppiidentici che potevano occupare circa7 metri lineari.Ogni toppo ha una logica costruttivapropria la cui complessità, fatta dicontinui incollaggi e tagli, dipendedal motivo (Figg. 58-59). La prepa-razione del toppo richiede una orga-nizzazione produttiva seriale e “gui-data”. Per preparare le migliaia di pic-coli solidi lignei necessari alla suacostruzione non basta l’abilità del-l’artigiano nell’uso dei comuni uten-sili, sega e pialla, ma sono necessarieparticolari guide o maschere, che nevelocizzino la produzione e ne garan-tiscano la perfezione.Di queste guide o maschere, che nelcombinato con il ferro da taglio asso-ciato vengono a formare utensili piùo meno complessi dedicati a particolarilavorazioni, se ne è sovente perso latestimonianza materiale. Tra essipotrebbe essere le “tre çeppe da tarsia,doi fornite et uno con una trafila” nel-l’inventario di Angelo di Giacomo

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(1496), purtroppo non meglio identi-ficabili. Abbiamo già visto di una pialladestinata a scorrere in una guida, conla quale ottenere probabilmente il cor-retto spessore del toppo o di semi -lavorati per la sua preparazione (Figg.24-26). Una maschera di uso incerto(probabilmente da abbinare alla sega)è rappresentata in una tarsia di PaoloSacca nel coro di San Giovanni inMonte a Bologna 1518 (Fig. 60).

Note1. A.M. WILMERING, Le tarsie rinascimen-tali e il restauro dello studiolo di Gubbio,Milano 2007. L’edizione inglese è del 1999.2. A. CHASTEL, I centri del Rinascimen to,Milano 1965.3. “Questo lavoro ebbe origine primiera-mente nelle prospettive, perché quelle ave-vano termine di canti vivi” - G. VASARI, Le

vite dei più eccellenti pittori, scultori e archi-tetti, Edizione Firenze 1568.4. M. HAINES, La Sacrestia delle Messe delDuomo di Firenze, Firenze 1983.5. F. CORTESI BOSCO, Il coro intarsiato diLotto e Capoferri, Milano 1987.6. M. FERRETTI, I maestri della prospet-tiva, Torino 1982.7. A. SARTORI, I cori antichi della chiesa delSanto e i Canozi-Dell’Abate, Padova 1961;P.L. BAGATIN, L’arte dei Canozi lendinaresi,Trieste 1990; L. ROGNINI, Tarsie e intaglidi fra Giovanni a Santa Maria in Organodi Verona, Verona 1985; G. BRIZZI, Il corointarsiato dell’Abbazia di Monte OlivetoMaggiore, Milano 1989.8. P. FERRARO, A. GAMBA, L’arte del legnoa Padova, Padova 2003; M. BERNABÒ, C.MOCALI, Spasso di principi e ingegno di arti-giani, Firenze 1998.9. CENNINO CENNINI, Il libro dell’arte, -fine sec. XIV - edizione a cura di F. BRU-NELLO, Vicenza 1971.

10. G. POMARO, I ricettari del fondo Pala-tino, Milano 1991, con Presentazione di A.CONTI, Ricettari e libri dell’arte, da Cen-nini a Watin.11. M. PIANA, La carpenteria lignea vene-ziana nei secoli XV e XVI, in: L’architetturagotica veneziana, a cura di F. VALCANOVERe W. WOTERS, Venezia 2000.12. S. BERTI e R.N. BERTI, Principali specielegnose impiegate nelle strutture e nei manu-fatti del passato e criteri per il loro ricono-scimento, In: Atti del 1º Congresso Nazio-nale Legno nel restauro e restauro del legno,Firenze 1983. Milano 1987.13. G. SODERINI, Il trattato degli arbori,sec. XVI, Bologna 1904.14. F. STELLUTI, Trattato del legno fossileminerale, Roma 1637.15. G. CARENA, Vocabolario italiano d’artie mestieri, Milano 1853; CNR - Opera delVocabolario Italiano - http:// dizionario.ovi. -cnr.it16. SBAS di Modena e Reggio Emilia, Dia-gnostica sulle tarsie lignee di GianfrancescoBrennona negli armadi della sagrestia, 2001.17. C. SINGER, E.J. HOLMYARD, A.R. HELLETREVOR, I. WILLIAMS, Storia della tecnolo-gia, Torino 1992 - Tit. originale: ‘A Historyof Technology’, Oxford 1954.18. H. KILLIAN, L’introduzione della seganell’Europa centro settentrionale, I Qua-derni n. 49, 1982.

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Fig. 58. Disegno per la preparazione del toppo. Inoccasione del restauro del coro di San Zaccaria aVenezia, XV sec. (Foto Roberto Bergamaschi)

Fig. 60. Maschera. Paolo Sacca - coro diSan Giovanni in Monte (BO) - sec. XVI.Il coro intarsiato di San Giovanni in Montein Bologna, G. e G.V. Gurrieri, Bologna,1984.

Fig. 59. Elaborato di un motivoa “toppo” del coro dell’Oratoriodei Rossi a Parma (XVI sec).

Page 33: Numero Speciale 5 - restauratore beni culturali · Beni Culturali Numero Speciale 5 - 2018 rivista fondata da Giulio Bresciani Alvarez Direttore Renzo Fontana Direttore responsabile

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Tecnicae Restauro

19. M.A. GALLO, Le vinti giornate del-l’agricoltura et de’ piaceri della villa, Venezia1569.20. A. FÉLIBIEN, Principes de l’architecture,de la sculpture, de la peinture et des autresarts, Parigi 1690 (prima edizione 1676).21. G. CARBONE e F. ARNÒ, Dizionariod’artiglieria, Torino 1835.22. F. BALDINUCCI, Vocabolario toscanodell’arte del disegno, Firenze 1681.23. Dizionario Italiano - Ladino Selvano -http://www.istitutoladino.it/24. A.J. ROUBO, L’art du menuisier ebeniste,Parigi 1769-1774.25. Sul Vivente Linguaggio Della Toscana- Lettere Di Giambattista Giuliani, Firenze1865.26. G. BOERIO, Vocabolario del dialettoveneziano, Venezia 1879.27. Codice Acquisti e Doni 793 della Biblio-teca Laurenziana di Firenze, XVII secolo,in: M. BERNABÒ, C. MOCALI, Spasso di prin-cipi e ingegno di artigiani, Firenze 1998.28. Le Dictionnaire Pratique de Menuise-rie - Ebénisterie - Charpente - Par J. JustinStorck, édition de 1900.29. Nuovo Dizionario Universale Tecno-logico, o di Arti e Mestieri, Venezia 1831-1859, prima edizione Parigi 1822-183530. Il foglio è segnalato da Wilmering chelo attribuisce al Codice Atlantico.31. F. GRISELINI, Dizionario delle arti e de’mestieri, Venezia 1768-1778.32. Dizionario universale economico ru -stico, Roma 1793-1797.33. Nuovo Dizionario Universale Tecno-logico..., cit.34. M. RIAZZOLI, L’orologeria milanese dal -le origini a metà del XVII secolo, s.d., https://www.youcanprint.it/35. P.L. BAGATIN, La tarsia rinascimentalea Ferrara, Firenze 1991.36. Ms. 2861 - Biblioteca Universitaria di Bo -logna (il ‘Manoscritto Bolognese’), sec. XV.37. V. GHEROLDI, Ricette e ricettari, Brescia1995, “Per far nere le cornici, secreto cheusano à Venezia”.38. G. DONZELLI, Teatro farmaceutico, terzaedizione, Roma 1677.39. BOME, Chimica sperimentale e ragionata,Venezia 1781. Prima edizione, A. BAUMÉ,La chimie expérimentale et raisonnée, Parigi1773.40. E. CHAMBERS, ‘Ciclopedia, ovvero Di -zionario Universale delle Arti e delle Scien -ze, Napoli 1747-1754. Prima edizione Lon-dra 1728.

41. J.H. MORITZ VON POPPE, Manuale ditecnologia, II, Padova 1821.42. J.H. MORITZ VON POPPE, Manuale ditecnologia, II, Padova 1821.43. G. POMARO, I ricettari del fondo Pala-tino, Milano 1991.44. F. FREZZATO, C. SECCARONI, Segretid’arti diverse nel regno di Napoli. Il mano-scritto It. III.10 della Biblioteca Marcianadi Venezia, Padova 2010.45. G. RUSCELLI, De Secreti del ReverendoDonno Alessio Piemontese, Pesaro 1559.46. F. BRUNELLO, Marco Polo e le mercidell’Oriente, Vicenza 1986.47. M.G. MASSAFRA, Approvvigionamentoe commercio dei legnami, in: Legni da eba-nisteria, Roma 2002.48. C. PERRONE DA ZARA, Aspetti storici etecnici della Tintura nel Medioevo e nelRinascimento, in: AA.VV, Gli arazzi dellaSala dei Duecento, Modena 1985.49. G. ROSETTI, Plictho de larte de tentori,Venezia 1548.50. F. BRUNELLO, L’arte della tintura nellastoria dell’umanità, Vicenza 1968.51. In una ricetta “Acqua bella da viso”,Secreti della signora Isabella Cortese, Vene-zia 1565.52. F. BRUNELLO, L’arte della tintura..., cit.53. AA.VV, La fabbrica dei colori, Roma1995.54. G. BOERIO, Vocabolario del dialettoveneziano, Venezia 1879.55. F. BRUNELLO, L’arte della tintura..., cit.56. IBIDEM.57 Ms. 2861 - Biblioteca Universitaria diBologna (il ‘Manoscritto Bolognese’), sec.XV.58. Così lo segnala P.A. MATTIOLI per fareun bel verde. Erbario del Mattioli, edizioneVenezia 1744.59. G. ROSETTI, Plichto de larte de tentori,Venezia 1548.60. Ms. 2861 - Biblioteca Universitaria diBologna (il ‘Manoscritto Bolognese’) - sec.XV.61. AA.VV., La fabbrica dei colori, Roma1995.62. N. BEVILACQUA, L. BORGIOLI, I. GRA-CIA, I pigmenti nell’arte, Padova 2010.63. V. GHEROLDI, Ricette e ricettari, Brescia1995.64. Dizionario universale economico rustico,Roma 1793-1797.65. A.M. WILMERING, Le tarsie rinascimen-tali e il restauro dello studiolo di Gubbio,Milano 2007; C. SECCARONI, Ricette per la

colorazione dei legni impiegati nelle tarsierinascimentali, Bollettino ICR 12, Firenze2006.66. Secreti diversi, Manoscritto della Mar-ciana - XVI sec. - riportato da M.P. MER-RIFIELD, Medieval and Rennaisance Trea-tises, New York 1967. Prima edizione, Ori-ginal Treatise on the Arts of Painting, Lon-dra 1849.67. F. BONANNI, Trattato sulla vernice det -ta comunemente cinese - Bologna 1786prima ed. 1720.68. B.S. TOSATTI, Il manoscritto veneziano,Milano 1991.69. L. FIORAVANTI, Compendio dei segretirazionali - Venezia 1564.70. V. GHEROLDI, Le vernici al principiodel Settecento, Cremona 1995.71. F. BRUNELLO, L’arte della tintura nellastoria dell’umanità, Vicenza 196872. F. COLTRINARI, Giovanni di Piergiacomoda Sanseverino, maestro di legname fra leMarche e l’Umbria del primo Cinquecento,Macerata 2013.73. G. BOERIO, Vocabolario del dialettoveneziano, cit.74. S. ZAPPETTINI, Vocabolario bergama-sco-italiano, Bergamo 1859.75. V. CORONELLI, Epitome Cosmografica1693 - tratta da G. MORAZZONI, Mobiliveneziani laccati, Milano 1958.76. M. FERRETTI, I maestri della prospettiva,Torino 1982; G. VASARI, Le vite dei piùeccellenti pittori, scultori e architetti, Edi-zione Firenze 1568.

Biografia*Restauratore di beni culturali. Nato a Lo -vere (BG) il 18 settembre 1958, vive e lavoraa Venezia. Ha conosciuto la bellezza e ladignità del lavoro nella bottega di EugenioGritti a Bergamo. Si diploma all’Opificiodelle Pietre Dure di Firenze nel 1985 conspecializzazione nelle opere lignee. Ha avutola fortuna di condividere con GiovannaMenegazzi la professionalità, la quotidianitàed il senso del “fare” nel laboratorio di MiraPorte (VE). Molti gli interventi su cori ligneiintarsiati tra il XV ed il XVI secolo, tra iquali opere di Francesco e Marco Cozzi,Cristoforo Canozi, Paolo Sacca, LuchinoBianchino.