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oggetti per passione

il mondo femminile

nell’arte giapponese

A cura di Anna Maria Montaldo

e Loretta Paderni

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Il museo come luogo di scambio e relazione culturale 7 L’oriente ad ovest della penisola 9

L’arte giapponese nelle collezioni 11 di Stefano Cardu e Vincenzo Ragusa I collezionisti 12 L’oriente, la ricerca e la passione 14 Il Museo Civico d’Arte Siamese Stefano Cardu 16 L’arte giapponese nella collezione Stefano Cardu 19 Quando fuori “c’era tanto mondo...” 22

Presentarsi in pubblico 25 Abbigliamento e accessori 27 Ventagli 33 Toeletta 43

Arti predilette 55 Shōdo, calligrafia 57 Ikebana, disposizione dei fiori 69 Musica 85

Momenti di svago 93 Gioco 95 Fumo 107

Bibliografia 109 English text 112

Indice

copertina e pagine illustrate

Le immagini sono tratte da: Suzuki Harunobu, Ehon seirō bijin awase, “Libro illustrato a paragone delle bellezze delle case verdi”, 1770

COMUNE DI CAGLIARI

ScenografiaSabrina Cuccu Progetto Fondazione Teatro Lirico di Cagliari Realizzazione

Progetto grafico Subtitle

Fotografie Fabio Naccari Foto oggettiChise Saito, Art Research Centre, Ritsumeikan University, Kyoto, Foto libro Harunobu© Soprintendenza al Museo Nazionale Preistorico Etnografico Luigi Pigorini su concessione del Ministero per i Beni e le Attività CulturaliGiuseppe Ungari (foto pag. 20-21)

Traduzioni David Nilson

Servizi educativi Musei Civici di Cagliari in collaborazione con Associazione Orientare

Ufficio Stampa Francesca Cardia

Un sentito ringraziamento per la realizzazione della mostra e del catalogo alla Soprintendenza al Museo Nazionale Preistorico Etnografico Luigi PigoriniFrancesco di Gennaro SoprintendenteEgidio Cossa Responsabile della sezione Eventi e MostreGrazia Poli Sezione Eventi e MostreMario Mineo Responsabile del Laboratorio Fotografico e dell’Archivio Fotografico e Storico

Si ringraziano inoltre Ikuko Kaji e Maria Cristina Gasperini Istituto Giapponese di Cultura (The Japan Foundation), Roma Rosanna Bussu, Tiziana Ciocca e Marzia Marino Associazione Orientare

Oggetti per passione Il mondo femminile nell’arte giapponese

Cagliari, Palazzo di Città Museo d’Arte Siamese 27 giugno – 8 settembre 2013

Progetto e cura della mostra Anna Maria Montaldo, Loretta Paderni

Realizzazione della mostra Musei Civici Cagliari in collaborazione con la Soprintendenza al Museo Nazionale Preistorico Etnografico Luigi Pigorini, Roma

Testi Anna Maria Montaldo, Loretta Paderni

Segreteria Organizzativa Simona Pala, Maria Antonietta Pellecchia, Donatella Pusceddu, Stella Spiga, Francesca Zenoni – Musei Civici, Cagliari

Cura e preparazione degli oggetti Jesus Garcia Lourido, sotto la guida di Luciana Rossi e Maria Francesca Quarato, Laboratorio di Conservazione e Restauro della Soprintendenza al Museo Nazionale Preistorico Etnografico Luigi Pigorini

Collaborazioni Elisabetta Borghi, Vincenzo Crisafulli, Serena Fiorletta, Mayumi Koyama, Mario Pesce

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L’arte giapponese nelle collezionidi Stefano Cardu e Vincenzo Ragusa

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Stefano Cardu Vincenzo Ragusa

I collezionisti

Stefano Cardu nacque a Cagliari il 18 novembre 1849 da una famiglia di artigiani di agiate condizioni economiche; giovanissimo si imbarcò su un bastimento a vela e, dopo anni di navigazione, approdò sulle coste del Siam nel 1874. In questi luoghi si stabilì per oltre vent’anni e creò un’ingente fortuna come impresario di opere pubbliche (gli si attribuì anche la costruzione del Palazzo Reale di Bangkok). Al successo economico si unì un grande prestigio personale: Cardu fu spesso ospite della Corte reale siamese e riferimento privilegiato dell’alta nobiltà italiana che ivi soggiornò. Nella capitale siamese il Cagliaritano conobbe, probabilmente, la sua futura moglie, Rosa Fusco, figlia e sorella di musicisti napoletani attivi a Bangkok, e con lei, intorno al 1893, incominciò i preparativi per tornare in patria. Nel 1896, infatti, Cardu doveva trovarsi già in Europa visto che, in tale data, donò alla piccola parigina Luigia Le Bailly d’Inghieu, adottata solo nel 1911, alcuni degli oggetti più belli e preziosi della sua collezione orientale. Il 22 giugno 1914, il collezionista, ancora ricco e relativamente giovane, ormai stabilitosi nella sua città natale, scrisse all’allora Sindaco Ottone Bacaredda per offrire in dono al Comune di Cagliari la sua raccolta di oggetti e armi orientali. Con delibera n. 484 del 3 luglio 1914, il Consiglio comunale accettò la donazione e destinò al museo una sala del secondo piano del nuovo Palazzo Civico. Dopo un’intricata vicenda burocratica che si concluse solo nel 1923 con l’acquisizione della totalità della collezione da parte del Comune di Cagliari, Cardu si trasferì a Roma dove morì, tristemente, il 16 novembre 1933.

Vincenzo Ragusa, nato a Palermo l’8 luglio 1841, seguì Garibaldi a Milazzo nel 1860. Studiò con l’abate Giovanni Patricolo (1789-1861), Nunzio Morello (1806-1874), Salvatore Lo Forte (1809-1885) e frequentò l’Accademia del Nudo di Palermo. Trasferitosi a Milano, ottenne nel 1875 il diploma ad honorem dall’Accademia di Brera, che gli permise di accedere e superare la selezione per la scelta di tre artisti italiani da inviare presso la costituenda Scuola di Belle Arti (Kōbu Bijutsu Gakkō) di Tōkyō. Dal 1876 al 1882 v’insegnò scultura, introducendo la tradizione plastica occidentale in Giappone. A Tōkyō conobbe la giovane e promettente pittrice Kiyohara Tama (Tōkyō, 10 giugno 1861-Tōkyō, 6 aprile 1939), che lo seguì al suo ritorno a Palermo nel 1882, inserendosi con successo nel panorama artistico della città. Vincenzo Ragusa fondò e diresse a Palermo la Scuola d’Arte Applicata all’Industria, di cui Tama fu direttrice della sezione femminile. Alla scuola fu inizialmente annesso il Museo giapponese costituito dalla ricca collezione di oggetti d’arte e d’artigianato che lo scultore aveva collezionato durante il suo soggiorno in Giappone. Ragusa morì nella sua città natale il 13 marzo 1927. Dopo molte trasformazioni, la scuola fondata da Ragusa è oggi diventata Liceo Artistico, dal 2006 intitolato allo scultore e alla moglie. La collezione di oggetti giapponesi è conservata al Museo Nazionale Preistorico Etnografico Luigi Pigorini di Roma.

Stefano Cardu Vincenzo Ragusa

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la cetra e il tamburo. La terza sezione è dedicata ai “Momenti di svago” e qui convergono tutti quegli oggetti che hanno a che fare con i giochi, le carte, gli scacchi, le conchiglie, l’incenso e il fumo, considerato una delle quattro arti signorili, aspetti della vita quotidiana che svelano, per noi occidentali, il lato più inedito delle donne giapponesi e ce le mostrano nei momenti più intimi e oziosi della giornata.

Ad introdurre e contestualizzare le tre sezioni, sia nell’esposizione che nel catalogo, le magnifiche xilografie a colori, tratte dal volumetto Ehon seirō bijin awase, anche questo in mostra. Le immagini rappresentano le cortigiane di Yoshiwara, l’universo più segreto delle maisons vertes, delle geisha e delle case del tè, romanticamente ammantato di esotica diversità. Queste, sono da intendersi come una tarda evoluzione della pittura di genere. Con sottili grafismi ed uno spiccato gusto decorativo, narrano le atmosfere raffinate, l’aspetto elegante, etereo e grazioso delle figure femminili, ritratte in solitario splendore su di uno sfondo neutro e luminoso. Così stupisce la garbata gestualità che accompagna il rito quotidiano dell’abbigliamento e della toeletta, il vezzo del fumo, la consuetudine del gioco, l’arte e la maestria della calligrafia, della pittura, della musica e dell’ikebana.

Il segreto mondo femminile si svela, gradualmente, nell’allestimento scenografico della mostra. Un semplice rotolo di cartone ondulato crea sipari, paraventi e astratte evocazioni del paesaggio nipponico nel quale si manifestano gli oggetti “gentili” delle geisha, ora leggeri ed aerei, ora imponenti e regali. Gli ultimi due piani del museo accolgono, dunque, le visitatrici e i visitatori in un luogo dove finalmente, nel nostro mondo globalizzato, c’è ancora tanto da scoprire.

collezione Cardu. Là dove, infatti, Cardu ha caratterizzato tutta la raccolta con un’impronta ed un gusto tipicamente maschile che si conforma perfettamente allo spirito e alla curiosità dei viaggiatori ottocenteschi, Ragusa, forse condizionato dalla propria sensibilità artistica o influenzato dalla moglie, nelle sue scelte ha dato spazio all’universo femminile e i pezzi selezionati dalla raccolta romana ne danno prova. L’idea è proprio quella di entrare in punta di piedi e sottovoce in un mondo che è sempre stato inaccessibile, quasi proibito, spostare delicatamente un byōbu, il tipico paravento utilizzato per delimitare gli spazi privati, e curiosare in una dimensione che è distante da noi nello spazio e nel tempo.

Il percorso della mostra si snoda tra il primo e secondo piano del Palazzo di Città, in piazza Palazzo, e si conclude con una citazione negli spazi del MAS. Oggetti ricercati o strumenti della vita quotidiana raccontano piccole e grandi storie e l’inflessibile disciplina delle cortigiane pari a quella militare dei samurai, attraverso tre sezioni e relative sottosezioni. La prima sezione è intitolata “Presentarsi in pubblico”, suddivisa in abbigliamento e toeletta. Qui spiccano i magnifici kimono, finemente ricamati con grande varietà di temi decorativi, specie il kosode in crespo di seta, già segnalato da Vincenzo Ragusa come “Veste per gran dama… sposa di qualche generale”. I segreti dell’apparire sono ancora svelati da: scatole e ciotole in lacca; bruciaprofumi e astucci per belletto; fermacapelli in legno, argento, corallo e giada. Ma la tendenza alla perfezione estetica ed etica si manifesta in modo più compiuto nella seconda sezione “Arti predilette”. Pittrici, calligrafe, maestre dell’ikebana, le cortigiane giapponesi tra le arti preferite avevano anche la musica, quella del liuto, soprattutto, testimoniato in mostra dalla presenza di ben tre esemplari, senza disdegnare

“Oggetti per passione”… quando l’amore per la bellezza e l’eleganza emerge anche dalle forme degli oggetti più semplici e banali, dall’uso squisito e aggraziato di questi, ci si rende conto di essere di fronte ad una cultura che basa il proprio gusto estetico nella profonda e radicata conoscenza dell’armonia e dell’equilibrio della natura. L’universo femminile giapponese, o meglio quello delle cortigiane, forse ancora oggi poco noto, appare così dalla selezione di una serie di oggetti, provenienti dalla raccolta di opere d’Arte Asiatica del Museo Nazionale Preistorico e Etnografico Luigi Pigorini di Roma, una interessante sezione, non ancora esposta ma studiata e curata in questi anni da Loretta Paderni. Al suo interno un’importante collezione di arte giapponese intitolata a Vincenzo Ragusa (Palermo 1841-1927), scultore siciliano che visse in Giappone tra il 1876 e il 1882, dove raccolse più di 4000 oggetti d’arte che portò in Italia e cedette, in due momenti diversi, al museo romano.

L’idea della mostra nasce dall’inevitabile raffronto con ciò che è più noto, nel nostro caso l’analoga esperienza, di avventura ed esotismo, che ha caratterizzato la vita di Stefano Cardu, il collezionista cagliaritano che dopo aver vissuto nel Siam per oltre vent’anni, all’inizio del Novecento tornò a Cagliari, carico di tesori dell’Estremo Oriente.

Stimolante è stato mettere a confronto le personalità dei due collezionisti per evidenziare le numerose corrispondenze e le differenze. Tanto per cominciare c’è una perfetta coincidenza cronologica: Stefano Cardu approdò sulle coste del Siam nel 1874, Vincenzo Ragusa giunse a Tōkyō, a distanza di due anni, nel 1876. Entrambi isolani, uno sardo, l’altro siciliano, in Oriente hanno trovato la loro fortuna, il successo, il riscatto sociale. Cardu divenne impresario di opere pubbliche, Ragusa si affermò come scultore. I

due in Oriente trovarono anche l’amore, Cardu incontrò la sua futura moglie, la napoletana Rosa Fusco, Ragusa la promettente pittrice Kiyohara Tama che con lui fondò a Palermo la scuola di arti orientali, divenuta, nel 1908, Istituto d’Arte. Come il cagliaritano Stefano Cardu, Vincenzo Ragusa fu un grande appassionato dell’Oriente e della sua cultura, anche lui collezionista. Una tendenza, quella dell’orientalismo, che nell’Ottocento divenne un fatto di costume, quasi una moda, alimentata dai racconti di viaggio, dalla circolazione delle stampe e degli oggetti che in quantità sempre più massiccia entravano in Europa. La prima differenza la si percepisce nella composizione delle due collezioni definite come “siamese” quella del Cardu e “giapponese” quella del Ragusa. Nella selezione delle opere, inoltre, Cardu appare più eclettico, guidato da un intuito infallibile per la bellezza, Ragusa si rivela, invece, più monotematico e tecnico, attento agli aspetti didattici. Ad essere diverse erano, infatti, le motivazioni dei due collezionisti. Ragioni formative, finalizzate all’apertura di una scuola, quelle del Ragusa, più edonistiche quelle del Cardu, desideroso di riportare in Occidente e nella sua città natale la bellezza, l’eleganza e la raffinatezza incontrate in Oriente. Gli oggetti vennero scelti e raccolti, infatti, con metodo direttamente in Giappone dal Ragusa, in maniera più varia e diversificata dal Cardu durante i suoi numerosi spostamenti. Non dimentichiamo, inoltre, che nel mercato siamese era a quell’epoca fiorente l’importazione dalla Cina e dalle isole giapponesi. Ulteriore coincidenza nella triste fine dei due collezionisti: le difficoltà riscontrate con le istituzioni locali, le ingiustizie subite, i debiti, per entrambi il fallimento di un sogno.

Il progetto stesso della mostra “Oggetti per passione. Il mondo femminile nell’arte giapponese” è, dunque, in parte frutto del raffronto tra la raccolta romana e il nucleo giapponese della

Anna Maria MontaldoDirettore Musei Civici di Cagliari

L’oriente, la ricerca e la passione

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1. Primo allestimento Museo d’Arte Siamese Stefano Cardu, 1918.Palazzo Civico, via Roma, Cagliari.

2. Attuale allestimento del museo. Cittadella dei Musei, Cagliari

Il Museo Civico d’Arte Siamese Stefano Cardu

La storia del museo inizia il 22 giugno 1914, quando con una lettera all’allora Sindaco Ottone Bacaredda, il collezionista Stefano Cardu offrì in dono al Comune di Cagliari una “modesta raccolta”, così lui la definì, di oggetti e armi orientali, collezionati in oltre un ventennio di permanenza a Bangkok.

Con delibera n. 484 del 3 luglio 1914, il Consiglio Comunale accettò la donazione e destinò al museo una sala del secondo piano del nuovo Palazzo Civico.

Il museo si aprì solo nel 1918 e, per volere del munifico donatore, gli incassi furono devoluti agli orfani della Prima Guerra Mondiale. In quella occasione Cardu prestò al Comune anche la raccolta di oggetti ed armi che intendeva mantenere di sua proprietà. Prese avvio un’intricata vicenda burocratica conclusasi, solo dopo cinque anni, con un atto di transazione tra il collezionista ed il Comune che, a seguito del pagamento di £135.000, entrò in possesso dell’intera collezione. Nel 1939 il museo fu disallestito e le opere furono trasportate nelle grotte dei Giardini Pubblici, dove la magnifica raccolta si salvò dagli atroci bombardamenti, che nel 1943 sventrarono anche il Palazzo municipale della Città. Soltanto nel 1969, a seguito dell’incarico all’illustre orientalista Gildo Fossati, si intraprese un riordino sistematico della raccolta che fu così studiata e inventariata. L’esposizione potè essere visitata dal 1977 nelle sale della Galleria Comunale d’Arte e, successivamente, trasferita negli ambienti della Cittadella dei Musei dove ancora oggi è fruibile in un rinnovato allestimento.

Il museo presenta una notevole varietà di pezzi artistici di origine e di culture asiatiche diverse. Tuttavia non è individuato come “Museo d’Arte Orientale” ma come “Museo d’Arte Siamese” per evidenziare che la parte preponderante degli oggetti è di tale provenienza, ed è proprio questa caratteristica a dare alla collezione peculiarità, unicità e importanza a livello europeo.

Il percorso espositivo è suddiviso in aree geografiche e tematiche. Si inizia con il nucleo degli argenti siamesi, finemente decorati a sbalzo e a niello, probabilmente provenienti dalle medesime officine che lavoravano per la corte di Bangkok. Tra le porcellane spiccano quelle cinesi del periodo Ming e dei primi imperatori Qing (dal XIV secolo agli inizi del XVII) notevoli per bellezza di forma, qualità, decorazione, smalti, ornato e una tecnica esecutiva di altissimo livello. La sezione, forse, più affascinante del museo è dedicata alle armi. Tra queste prevalgono i pezzi da parata, le lance della guardia reale siamese, realizzate con inserti in oro e abbondante uso d’argento. Caratteristici sono i pungoli da elefante, talvolta utilizzati come armi. Un piccolo gruppo a sé è costituito dagli oggetti di uso rituale, in particolare i “pugnali da esorcismi” impiegati nella medicina tradizionale e i rasoi da tonsura. Di grande fascino sono, inoltre, le armi provenienti dalla Malesia, spade, coltelli e pugnali caratteristici come il kriss, reso celebre da Salgari. Accanto alle sculture di tema religioso, emergono infine gli avori, specchio del profondo mutamento sociale che prese avvio in Giappone a partire dalla fine del XVII secolo e che vide l’ascesa al potere di nuovi classi sociali.

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All’interno del nucleo di opere giapponesi della collezione Cardu, spiccano i piccoli avori, specchio del profondo mutamento politico, economico e sociale che, agli inizi del 1700, vide in Giappone l’ascesa, ai vertici del potere, della classe dei commercianti.

Una rivoluzione che fu anche culturale e che determinò, inevitabilmente, il mutamento del gusto estetico: agli artisti non si richiedeva più la trattazione di soggetti di nobile schiatta, ma raffigurazioni di contenuto popolare, adatte anche ad un pubblico non colto. Le piccole sculture in avorio della Collezione Cardu rappresentano, con marcato gusto naturalistico e dovizia di particolari, umili personaggi, colti nel quotidiano, e animali senza gloria come il granchio, la scimmia, il topo o la rana. Databili tra la fine del periodo Edo (1615-1867) e il periodo Meiji (1868-1912), tali oggetti sono degli okimono, ninnoli ornamentali ricollegabili, per caratteristiche stilistiche e dimensioni, alla vasta produzione di netsuke, anche questi presenti in gran numero nella raccolta. Il netsuke era una sorta di bottone destinato a fissare alla cintura del kimono maschile, sfornito di tasche, la scatoletta delle medicine o del tabacco (inrō), l’astuccio della pipa. Una produzione funzionale all’abbigliamento tradizionale che, ben presto, assunse anche un valore decorativo. Da semplici placche bidimensionali, i netsuke iniziarono a divenire delle vere e proprie figure tridimensionali. Un passaggio da oggetto-funzionale a oggetto-opera d’arte che divenne definitivo quando, durante il periodo Meiji, il Giappone aprì le porte all’Occidente abbandonando, gradualmente, anche il tradizionale indumento, il kimono, e tutti i suoi accessori. è in

quel momento che i raffinatissimi intagliatori, veri e propri artisti, cominciarono a lavorare, soprattutto, per il mercato estero e a produrre statuine che si ispiravano al gusto figurativo dei netsuke.

Anche le scatole della collezione, alcune delle quali catalogate come portagioie, sono state realizzate in questo periodo per il mercato occidentale, considerato che, per tradizione, le donne giapponesi non indossavano gioielli. Tra queste merita una particolare menzione il contenitore portadolci in avorio, interamente scolpito con figure di draghi, esempio mirabile del raffinato gusto che guidò Stefano Cardu nella selezione dei pezzi della sua collezione. Come quando si imbatté nella rara teierina in ceramica Banko, con decorazioni a smalto. Un esempio pregevole di quello stile, a volte bizzarro, capriccioso e fantastico, che molto affascinò i viaggiatori europei per i temi tratti dal folklore e dal mondo della natura.

Nella sezione giapponese, oltre agli splendidi esemplari di katana, forniti di fodero e impugnatura in avorio decorato con bassorilievi e intarsi, la collezione offre un’interessante serie di tsuba in metallo. Si tratta della guardia o elsa che doveva separare l’impugnatura della spada dalla lama, facilitando, in questo modo, il controllo dell’arma e garantendo la protezione della mano dello spadaccino. In periodi di relativa pace come quello Edo, questo oggetto, solitamente tondo o leggermente ovoidale, prevalentemente metallico ma spesso anche eburneo, iniziò ad essere elegantemente ornato con motivi decorativi di varia natura.

L’arte giapponese nella collezione Stefano Cardu

3. Teiera con coperchio, della manifattura Banko, firmata, ceramica, smalti, oro. Il manico e il pomello del coperchio sono a forma di doppio cordoncino ritorto, cm 6,5, XIX secolo

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7. Contenitore cilindrico con coperchio, draghi a tutto tondo e a rilievo, duplice firma, base cm Ø 9 x 20, XIX secolo

4. Okimono, pescatore con cesto di pesci, firmata, avorio scolpito, brunito, inciso, cm 10,5, XIX secolo

5. Okimono, venditore di bonsai, firmata, avorio scolpito, brunito, inciso, cm 8,5, XIX secolo

6. Okimono, pescatore con cormorano, avorio scolpito, brunito, inciso, cm 6,5, XIX secolo

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Ragusa ebbe quindi la possibilità di acquistare oggetti d’uso quotidiano o cultuale di epoca Edo (1600-1867), documenti di un periodo storico da poco concluso ma testimoni di un mondo destinato a essere completamente soppiantato in brevissimo tempo. Insieme alla collezione prese corpo l’idea di una scuola–officina da impiantare a Palermo, una volta rientrato in Italia, in cui avvalersi di tecniche e insegnanti giapponesi per creare una manifattura industriale specializzata nella lavorazione della lacca. Gli oggetti raccolti in Giappone furono esposti nelle undici sale del Museo annesso alla scuola, inaugurato nel 1883. Nel disegno di Ragusa essi avrebbero dovuto supportare le attività didattiche della scuola-officina, fornire modelli tecnici ed estetici cui ispirarsi, ed essere al tempo stesso fonte di conoscenza del paese da cui provenivano. Come spesso accade, però, i grandi sogni sono interrotti da bruschi e traumatici risvegli. La miopia della burocrazia e forse anche l’invidia per una fortuna ricercata con coraggio al di fuori delle consuetudini e dei confini ristretti della propria terra, portarono ben presto alla chiusura delle Officine della lacca giapponese e del Museo. I debiti costrinsero lo scultore, che aveva rinunciato alla sua arte per diventare didatta e divulgatore, a vendere la collezione, che ora è conservata a Roma, presso il Museo Nazionale Preistorico Etnografico Luigi Pigorini.

Gli oggetti della collezione di Vincenzo Ragusa continuano a raccontare un Giappone profondamente diverso da quello di oggi. Per l’esposizione “Oggetti per passione” sono stati selezionati materiali legati al mondo femminile che, pur non essendo esaustivamente rappresentato nella raccolta, emerge tuttavia vivido e intrigante, anche in virtù dell’accostamento con le immagini delle cortigiane di Yoshiwara,

(il quartiere del piacere della capitale Edo) che sono state scelte per accompagnare gli oggetti. Nella raccolta Ragusa sono molte le xilografie e i libri illustrati (ehon) che raccontano l’ukiyo, il mondo fluttuante della cultura e della società di Edo, il suo culto per la bellezza unito alla consapevolezza dell’effimera realtà della natura umana. Spesso i volumi erano veri e propri cataloghi delle cortigiane più conosciute, ne sottolineavano l’avvenenza, la raffinatezza o la maestria nelle arti dell’intrattenimento, al fine di indirizzare i clienti nella scelta più appropriata per passare piacevolmente il tempo nella “città senza notte”. Pur appartenendo a questo genere di libri illustrati, nei volumi della serie Ehon seirō bijin awase (Libro illustrato a paragone delle bellezze delle Case Verdi) pubblicati da Suzuki Harunobu, nel 1770 le cortigiane non appaiono come maliarde raggiungibili solo da pochi eletti, disposti a spendere capitali per i loro favori, ma sono ritratte nella dimensione della vita quotidiana, nei quartieri privati (oku) dove si svolgevano i momenti più intimi della loro giornata. Le giovani donne mostrano con grazia eterea come si prendevano cura del proprio corpo, il trucco del viso, le elaborate acconciature dei capelli, l’abbigliamento e gli accessori del vestiario che le rendevano così affascinanti agli occhi dei clienti. Rivelano la dedizione al perfezionamento delle arti indispensabili per la loro attività di intrattenitrici nei banchetti: la musica, la danza, la composizione floreale (ikebana), la conoscenza della poesia e della calligrafia, strumenti di una seduzione più sottile ma altrettanto necessaria per la conquista della notorietà. I momenti di ozio e di svago, i passatempi preferiti, il fumo, la lettura, la compagnia degli animali domestici, i giochi, completano il quadro di un mondo celato agli sguardi indiscreti dal sottile ma invalicabile schermo dei silenziosi pannelli scorrevoli.

scelto di farsi conoscere attraverso le Esposizioni Universali in voga all’epoca, mostrando a un pubblico sempre più ammirato la straordinaria creatività e abilità tecnica dei suoi artigiani-artisti. Nello stesso tempo aveva intuito di dover apprendere, il più velocemente possibile, da tecnici ed esperti stranieri di tutte le specializzazioni, perché, parafrasando il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa “bisognava che tutto cambiasse, perché tutto rimanesse com’era”. Ragusa era tra questi oyatoi gaikokujin (stranieri noleggiati). Su domanda del governo giapponese, che aveva richiesto all’Italia, il “bel paese” dell’arte, tre insegnanti per la costituenda Scuola di Belle Arti del Ministero dei Lavori Pubblici di Tōkyō (Kōbu Bijutsu Gakkō), fu selezionato, tra molti aspiranti, insieme al pittore Antonio Fontanesi e all’architetto Gian Vincenzo Cappelletti. Pur non conoscendo nulla del Giappone, se ne fece rapidamente conquistare. Ne apprezzava la sobrietà, la serietà e la dedizione nel lavoro, la sensibilità artistica presente in tutte le manifestazioni del vivere quotidiano. Su tutto furono le straordinarie competenze tecniche degli artigiani e la creatività degli artisti a catturare la sua attenzione e a spingerlo alla raccolta di una collezione di circa 4200 oggetti, rappresentativi di tutti i settori delle arti figurative e decorative giapponesi. Del resto le contingenze non potevano essergli più favorevoli. Come esperto straniero godeva di una discreta disponibilità economica e di prestigio sociale, in un momento in cui le riforme socio-economiche del governo Meiji, provocando un terremoto nelle attività produttive e nella struttura della società, avevano portato alla svendita scellerata di patrimoni d’inestimabile valore. Migliaia di artigiani avevano perso il sostegno economico garantito dai signori locali e dai templi. La classe samurai era stata esautorata dal suo ruolo e privata dei suoi privilegi, prima di tutto quello di portare la spada.

Durante la presentazione della sua autobiografia romanzata “Case, amori, universi” Fosco Maraini, con l’abituale sagacia questa volta tinta di malinconia, raccontò che il titolo del volume era stato in qualche modo imposto dalla casa editrice ma che lui in realtà avrebbe voluto usare il più evocativo “C’era tanto mondo…”, per alludere all’inesauribile fonte di sorpresa e di conoscenza che aveva sperimentato nei suoi tanti viaggi in un’epoca e in un mondo non ancora globalizzato.

Con lo stesso sguardo, aperto alle straordinarie potenzialità del confronto quando ancora “c’era tanto mondo”, arrivò in Giappone nel 1876 Vincenzo Ragusa (1841-1927). Il percorso di vita di questo giovane scultore siciliano seguì il sentiero tracciato da una volontà di ferro, animata dalla passione per l’arte e dai principi risorgimentali tesi alla costruzione morale dell’uomo e della Patria, alla solidarietà tra gli individui e tra i popoli, all’educazione intesa come strumento di riscatto e crescita personale. Il Giappone che si trovò davanti agli occhi era un paese in fermento, un paese che si stava reinventando, in cui era diventato possibile che uno straniero di umili origini quale lui stesso era, fosse ricevuto a corte da uno dei sovrani fino allora più inavvicinabili, il Tennō, diretto discendente degli dei. L’arrivo delle “navi nere” del commodoro Perry nel 1853, aveva incrinato l’autoisolamento del Giappone in una dimensione feudale, durato ininterrottamente per oltre 200 anni. L’autorità dello shōgun era stata minata e nel 1867, dopo aspri conflitti, il potere era stato restituito all’imperatore. Da quel momento, anche per evitare di essere fagocitato dalle mire imperialistiche dei paesi occidentali, il Giappone si era imposto di diventare una potenza moderna, industrializzata ed economicamente sviluppata, apprezzata a livello internazionale. Il governo dell’imperatore Meiji (1868-1912) aveva

Vincenzo Ragusa e gli “Oggetti per passione”

Loretta PaderniDirettore Sezione Asia del Museo Nazionale Preistorico Etnografico Luigi Pigorini

Quando fuori “c’era tanto mondo…”

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Eleganza, sensualità, grazia erano parte del fascino apparentemente ingenuo e spontaneo delle cortigiane del periodo Edo, così come il distacco, l’inflessibilità, l’artificio con cui in realtà veniva costruito. Il livello di raffinatezza raggiunto sia sul piano estetico sia su quello etico era definito iki, parola intraducibile, la cui essenza permea la cultura giapponese. Con disciplina pari a quella dei samurai nell’addestramento militare, le donne si preparavano alla seduzione curando nei minimi dettagli gesti, posture, sguardi e, naturalmente, il proprio aspetto esteriore sia nella toeletta sia nell’abbigliamento.

Presentarsi in pubblico

自分自身を提示する方法

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Tra i simboli più affascinanti della cultura giapponese, il kimono (termine generico che indica “ciò che si indossa”) è oggi usato in occasioni particolari come matrimoni, funerali, feste tradizionali o per la cerimonia del tè. Il suo precursore, il kosode (lett. manica piccola), ha avuto una lenta evoluzione, adattandosi ai cambiamenti sociali, leggi e mode che si sono susseguite nella storia. Utilizzato dalla gente comune come abito quotidiano e come sottoveste dalle classi più elevate, il kosode fu adottato come capo d’abbigliamento della classe dei samurai*. In seguito fu l’elemento di vestiario principale per tutte le classi e per entrambi i sessi. Durante il periodo Edo (1600-1867) la stabilità politica e il crescente benessere nella nuova capitale, scelta dallo shōgun Tokugawa (l’odierna Tōkyō), stimolarono la fioritura delle arti tessili, e la produzione di capi d’abbigliamento più elaborati per le mogli dei ricchi chōnin (mercanti e artigiani). Dopo l’emissione di rigide regole suntuarie (riforme dell’era Tenpō, 1830-1844) per arginare gli eccessi di tale ostentazione, si sviluppò la tendenza ad adeguarsi all’estetica dell’iki, con colori tenui, tessuti semplici, e attenzione ai dettagli, a un lusso nascosto e non esibito.

Il kimono è una tunica a forma di T ricavata da un’unica striscia di tessuto lunga 11 metri e larga circa 36 centimetri, tagliata in sette parti: due lunghi pannelli rettangolari cuciti insieme in verticale formano il corpo, lungo fino ai piedi, due strisce di tessuto formano le maniche, due i baveri, e una fascia il colletto. Viene drappeggiato intorno al corpo e fermato con una lunga fascia (obi) che gira più volte intorno alla vita e termina con un elaborato nodo. Poiché tutti i kimono hanno la stessa forma e una misura standard possono essere utilizzati da chiunque. A differenza degli abiti occidentali, non sottolinea la fisicità corporea nei suoi particolari, ma la cela “nelle sue forme

senza forma”, avviluppandola con grazia. Il kimono sfoderato è indossato d’estate, mentre in inverno il calore è fornito dal kimono imbottito, indossato in molti strati. La semplicità delle linee dal taglio squadrato lo rende simile a una tela bianca, dove la decorazione definisce il ruolo, lo status sociale e la sensibilità culturale ed estetica di chi lo indossa. Il motivo decorativo che sale dall’orlo fino alla spalla identifica le donne nubili; quello nella parte bassa dell’abito indica una donna sposata; l’obi annodato in alto è per le ragazze giovani, in basso per le donne mature. Con il procedere dell’età si passa da colori brillanti a tinte meno vivide. Caratteristica principale è la lunghezza della manica che nel furisode (lett. manica che pende), indossato dalle ragazze nubili e dalle spose, può raggiungere i 90-100 cm, nel tomesode (lett. manica trattenuta), indossato dopo il matrimonio, arriva fino alla vita. I colori delle stoffe e i temi decorativi sono infiniti: le differenze sono connesse a una simbologia codificata, con diversi livelli di significato. Le tinte dei tessuti cambiano secondo il susseguirsi delle stagioni. L’uso di motivi specifici può alludere alle virtù o alle caratteristiche di chi lo indossa (o a ciò cui la persona potrebbe aspirare), può riflettere emozioni, o riferirsi alla stagione in corso e in certi casi anticipare quella che verrà. Gli elementi del mondo naturale hanno di solito associazioni poetiche, che sottolineano la cultura letteraria di chi lo indossa. Allo stesso modo le scene di paesaggio si riferiscono a storie tratte sia dalla letteratura classica sia dalle tradizioni popolari. Raro trovare nei kimono la rappresentazione di figure umane, evocate invece da particolari oggetti che ne suggeriscono la presenza.

* Anna Jackson, V&A Pattern: Kimono, 2010

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Abbigliamento e accessori

8. Katabira furisode, tela di ramiè (Boehmeria utilis) stampata e ricamata, seta, filo metallico, cm 175 x 128, XVIII secolo.

Ume ga ka oSode ni utsushiteTodometebaHaru wa sugu to moKatami naramashi

Se potessi impregnare la manica con il profumo del susinoe conservarlo sarebbe un ricordo del veloce passaggio di questa primavera

Anonimo, Kokinshū (secolo X)

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11. Hakoseko, borsetta, velluto ricamato, seta, filo metallico, cm 8 x 16,5 x 3,7;Kamiire, portafazzoletti velluto ricamato, seta, filo metallico, cm 8 x 17, XVIII-XIX secolo.

nettamente distinti dal fondo, colorato dal bagno di tintura. Le creste delle onde sono ricamate con filo ricoperto da foglia d’oro. Il fondo è stato probabilmente ritinto in epoca Meiji (1868-1912). Il colletto e le maniche sono foderati con mussola di seta arancione.

11. Hakoseko, borsetta di velluto (birōdo) a forma di scatola rettangolare, con fascia di chiusura e sacchetto circolare pendente. Il velluto fu introdotto in Giappone dai portoghesi nel XVI secolo e lo stesso termine con cui viene indicato, birōdo, deriva dalla parola portoghese veludo. Accessorio dell’abbigliamento femminile, l’hakoseko era indossato nel periodo Edo (1600-1867) dalle donne della casta samurai che in occasioni formali lo inserivano nella fascia avvolta attorno alla vita (obi) per portare con sé il rosso per le labbra (beni ita), il piumino da cipria (mayuhake), fazzoletti di carta, incenso, un piccolo specchio di metallo, lo spillone ornamentale per capelli (kanzashi). Oggi ha un ruolo puramente decorativo,

come nell’abito da sposa tradizionale. Il motivo ornamentale, realizzato con ricami in seta e filo d’oro, raffigura una ruota e un particolare della parte finale della carrozza di corte (gosho guruma), da cui fuoriescono cortine ricamate che sventolano nell’aria tra i fiori di ciliegio. Nell’epoca Heian (795-1185), era usanza dei nobili di corte recarsi sulla carrozza trainata da buoi ad ammirare la fioritura degli alberi, in particolare quella dei ciliegi in primavera. Questa tradizione, detta hanami, ha ancora oggi largo seguito ed è un’occasione per festeggiare all’aperto.

Kamiire, sacchetto in velluto (birōdo) color rosso mattone a forma di busta, utilizzato per fazzoletti di carta morbida (hanagami). La decorazione di fiori e boccioli di ciliegio è realizzata con applicazioni di seta bianca. I particolari dei fiori sono ricamati con filo di seta bianco, mentre le foglie hanno diverse gradazioni di verde. Tra i fiori due passeri (suzume) stilizzati e visti dall’alto, realizzati con filo metallico d’oro e d’argento.

pagine precedenti9. Kosode imbottito, seta stampata e ricamata, filo metallico, cm 170 x 120, XIX secolo

10. Katabira kosode tela di ramiè (Boehmeria utilis) stampata e ricamata, seta, filo metallico, cm 175 x 128, XIX secolo

samurai. Lo stesso Vincenzo Ragusa annota nel suo inventario a proposito di questo kimono: “Veste per gran dama, sposa di qualche generale”. I kosode goshodoki si caratterizzano per la presenza di paesaggi immaginari, all’interno dei quali sono inseriti elementi simbolici, allusivi a citazioni tratte da drammi del teatro nō, dalla letteratura classica o da storie popolari. Il fondo verde chiaro di questo kosode suggerisce l’immagine di una primavera incipiente, anche se il paesaggio è tipicamente invernale, contrassegnato dai “tre amici dell’inverno”: gli alberi di pino e bambù, carichi di neve, i primi fiori di susino, tra i quali scorrono le acque parzialmente gelate di un ruscello. Nella parte inferiore del paesaggio, al riparo tra le rocce e gli alberi, è ricamata con filo d’oro una capanna rustica dal tetto di paglia ma con preziose cortine raccolte che fanno intravedere all’interno un ventaglio e un copricapo dorato. Al centro una staccionata con un alto portale di legno, isolata nel paesaggio. All’altezza della spalla destra un cappello conico (kasa) e un mantello (mino), entrambi di paglia, tradizionalmente utilizzati dai contadini e dai viaggiatori per proteggersi dalla pioggia e dalla neve. La presenza di due lunghe armi inastate, probabilmente di origine cinese, rimanda all’appartenenza alla classe samurai della proprietaria del kosode.

10. Katabira, kimono estivo con maniche piccole (kosode) in tela di ramiè (Boehmeria utilis), stampata con la tecnica di tintura a riserva shiroage e ricamata con seta policroma e filo d’oro. La decorazione si sviluppa in diagonale e termina sulla manica destra, tralasciando la zona delle spalle. Un motivo di erbe palustri, iris, peonie e glicine è ricamato in arancione, viola, bianco, giallo e verde. Tra i fiori si muovono onde increspate, realizzate con la tecnica shiroage, che, mediante l’applicazione di una pasta di riso resistente al colore permetteva di ottenere dei motivi bianchi

8. Katabira, kimono estivo con lunghe maniche (furisode), in tela grezza di ramiè (Boehmeria utilis) stampata con la tecnica di tintura a riserva katazome e ricamata con seta policroma e filo d’oro. Il katazome prevedeva l’uso di matrici di carta di gelso intagliate (katagami) e di una pasta di riso (norioki) resistente al colore che veniva applicata negli spazi vuoti della matrice e poi rimossa dopo l’applicazione della tintura. Il motivo a forellini dai contorni scuri (suribitta) imita l’effetto della più complessa e dispendiosa tecnica di tintura a riserva kanoko shibori, realizzata mediante imbastiture e proibita, per i costi esorbitanti, dalle leggi suntuarie emanate dagli shōgun Tokugawa nel XVII secolo. Il katabira è interamente coperto dal tradizionale motivo saikan san’yū, i “tre amici dell’inverno”: pino, bambù coperto di neve e susino in fiore (shōchikubai), considerato di buon auspicio e utilizzato anche in occasione degli auguri per il nuovo anno. Il sempreverde pino, infatti, è simbolo di longevità, il flessibile bambù, che resiste ai rigori invernali senza spezzarsi, è associato alla perseveranza, il susino, primo albero a fiorire ogni anno è immagine di rinnovamento. L’associazione delle gru (tsuru) in volo, simbolo del cielo, con le mitiche tartarughe dal mantello di alghe (minogame), simbolo della terra, richiama la dimora degli Immortali, il mitico monte Horai e rafforza il significato augurale di lunga vita. I motivi e le tecniche utilizzati per questo furisode sono tipici dell’aristocrazia militare.

9. Kosode, kimono invernale con maniche piccole in crespo di seta (chirimen) verde giada con stampa a riserva bianca (shiroage), stampa con matrice (katazome), dipinto a mano e ricamato con seta policroma e filo d’oro. Fodera in mussola di seta arancio con imbottitura. La decorazione di questo kosode è tipica dello “stile della corte imperiale” (goshodoki), utilizzata per i kimono indossati dalle donne di alto rango della classe

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Nella cultura giapponese tradizionale il ventaglio è accessorio personale dell’abbigliamento, elemento cerimoniale, simbolo di potere, meccanismo teatrale, oggetto d’uso pratico, strumento di seduzione, segnale di battaglia, arma e molto altro ancora. Utilizzato da uomini e donne di ogni ceto sociale, si divide in due tipi principali: il ventaglio pieghevole (ōgi o sensu) di origine giapponese, per occasioni più formali, e il ventaglio rigido (uchiwa), proveniente dalla Cina. Nella collezione di Vincenzo Ragusa predominano i ventagli di quest’ultimo tipo. Sulle sue facciate di seta venivano applicate le arti predilette della calligrafia, della poesia, della pittura. Nel periodo Edo (1600-1867) si iniziarono a produrre, soprattutto per l’emergente classe borghese (chōnin), uchiwa con soggetti dell’arte popolare allora in voga, le stampe ukiyo-e: attori del teatro kabuki, cortigiane dei quartieri di piacere, eroi e personaggi della mitologia. Con il tempo il ventaglio rigido è stato utilizzato, e lo è tuttora, nell’ambiente domestico per farsi vento, ravvivare il fuoco, raffreddare il cibo, scacciare gli insetti.

12. Uchiwa, ventaglio rigido con schermo in carta grigio perla incollata su una struttura di stecche in bambù che si inseriscono in un manico appuntito di legno laccato nero (rōiro nuri), decorato con motivi floreali dorati. Alla base dello schermo una decorazione in carta nera lucida traforata a doppia virgola che lascia in vista le sottili stecche di bambù e che poggia su un inserto intagliato in lacca nera su due registri, in alto ad andamento curvilineo, in basso a cunei triangolari. Il recto è dipinto ad acquarello con rami dalle foglie marroni e fiori bianchi di susino (ume). Sul verso due uccellini a rilievo in seta imbottita. Il bordo del ventaglio è dorato.

Ventagli

12. Uchiwa, ventaglio, legno, bambù, carta, lacca, pigmenti, seta, cm 22,8 x 40,5, XIX secolo

Fuji no kaze ya Ōgi ni nosete Edo miyage

Porterò a Edo in donoil vento del Fujinel mio ventaglio

Bashō Matsuo (1644-1694)

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pagina 35

22. Uchiwa, ventaglio, legno, pigmenti, cm 19,5 x 33, XIX secolo

23. Uchiwa, ventaglio, legno, pigmenti, cm 19,5 x 33, XIX secolo

27. Uchiwa, ventaglio, legno, garza, pigmenti, lacca, metallo, cm 25,5 x 48, XVIII-XIX secolo

28-29. Uchiwa, ventaglio, legno, bambù, carta, seta, lacca, pigmenti, cm 21,8 x 37,2, XIX secolo

30. Uchiwa, ventaglio, bambù, carta, pigmenti, legno, cm 22,6 x 34,3, metà XIX secolo

24. Uchiwa, ventaglio, bambù, seta, tessuto, avorio, madreperla, pigmenti, cm 27,2 x 39, Cina, metà XVIII secolo

25-26. Uchiwa, ventaglio, legno, pigmenti, inchiostro, cm 19,3 x 33, XIX secolo

pagina 34

13-14. Uchiwa, ventaglio, legno, lacca, oro, cm 20 x 33,5, XIX secolo

15. Uchiwa, ventaglio, legno, lacca, cm 19,7 x 33,5, XIX secolo

16-17. Uchiwa, ventaglio, legno, bambù, carta, seta, pigmenti, cm 19,7 x 34, XIX secolo

18. Uchiwa, ventaglio, bambù, carta, pigmenti, cm 24,5 x 40,5, XIX secolo

19-20. Uchiwa, ventaglio, metallo, bambù, carta, seta, lacca, pigmenti, cm 22 x 36,8, XIX secolo

21. Uchiwa, ventaglio, metallo, bambù, seta, lacca, inchiostro, cm 21,7 x 36,9, XIX secolo

13-14. Uchiwa, ventaglio rigido di forma ovale allungata verso il manico. Una pagina è decorata con un tronco di bambù in lacca oro a rilievo (takamakie) e con rami e foglie di bambù in oro e argento su un fondo di lacca screziata nera e rossa. Sull’altra pagina steli e fiori di garofano dorati realizzati in “pittura cosparsa piana” (hiramakie) su fondo uniforme rossiccio. Il corto manico ligneo, che si innesta sul ventaglio con un supporto trilobato, è laccato in nero con decorazioni e spruzzature in oro.

15. Uchiwa, ventaglio rigido di forma ovale allungata verso il manico, in legno laccato. La pagina è attraversata da una linea di demarcazione obliqua che separa due diversi tipi di decorazione in lacca con effetti cromatici peculiari: lacca di Tsugaru marmorizzata (Tsugaru nuri) nella parte inferiore, con motivi rossi su fondo nero e a corteccia di ciliegio (ōhi-nuri) nella parte superiore. Sul verso di lacca bruno-rossa sono sparsi motivi decorativi stilizzati di colore nero. Il corto manico ligneo, che si raccorda allo schermo con un sostegno di forma trilobata, è laccato in nero con fiori di garofano dipinti in oro. Probabilmente si tratta di un mizu uchiwa o ventaglio per l’acqua che, impermeabilizzato dalla lacca, era usato per spruzzarsi un po’ d’acqua sul viso.

16-17. Uchiwa, ventaglio rigido di forma ovale allungata verso il manico, aggiunto dopo il completamento del corpo del ventaglio secondo la tipica manifattura di Kyoto (Kyo-uchiwa). Lo schermo è costituito da uno scheletro di sottili stecche di bambù disposte a raggiera. Una delle pagine è rivestita di carta rossa decorata con crisantemi bianchi dipinti. L’altra, di colore naturale, è in seta, distesa su una fodera in carta giapponese a fibra lunga. La seta ha un fondo con spruzzature d’oro su cui è dipinto ad acquarello un paesaggio rurale. In basso scorre un fiume che tre figure stanno attraversando sulla tipica imbarcazione detta chōki-bune (barca a forma di zanna di

sulla spalla. Sul verso alberi di pino sul mare. Il ventaglio è stato realizzato nella stessa bottega del precedente (n. 19-20). Sul fondo, tra l’innesto del manico e lo schermo, c’è un inserto di lacca nera intagliato con motivi curvilinei.

22. Uchiwa, ventaglio rigido di forma tondeggiante, con schermo in legno al naturale, dipinto ad acquarello. Su una delle pagine è raffigurata una scena dal racconto popolare del matrimonio fra topi (Nezumi no Yomeiri). La sposa, che indossa un uchikake-furisode (sopraveste dalle maniche lunghe) bianco con fodera rossa ha il capo coperto con un velo a forma di cappuccio, (tsunokakushi). La tradizione vuole che questo copra le “corna da demone”: segno di gelosia della sposa che, nascondendole, mostra la sua sottomissione allo sposo. Quest’ultimo attende seduto, indossando il completo kamishimo tipico dei samurai o dei nobili di corte. Un’assistente accompagna la sposa mentre due giovani inservienti, inginocchiate davanti a un tavolino quadrato (kagetsudai) si apprestano a servire il sake (bevanda alcolica derivata dal riso fermentato) nelle tipiche tazze per il rito del san-san-kudo, “tre volte tre”. Gli sposi si scambiano tra loro tre tazze di sake, bevendo tre sorsi da ogni tazza a turno. Alla sinistra dello sposo è posta la cosiddetta “isola dei beati” (shimadai), un tavolino quadrilobato con una composizione di pino, susino in fiore e bambù ritenuta di buon augurio. Il verso e il manico hanno la stessa decorazione del ventaglio n. 25-26.

23. Uchiwa, ventaglio rigido di forma tondeggiante di legno al naturale, dipinto ad acquarello. Su una pagina un gruppo di fanciulle semi-nascosto da nove parasole aperti di cui sono tracciate solo le linee di contorno. Delle ragazze si intravede solo un volto, i particolari dell’abbigliamento e i piedi calzati con tabi (calzini bianchi) e zori (infradito). Si scorge un ragazzo dai piedi scalzi che porta sulle spalle un mastello di legno da trasporto assicurato da funi. Sul manico dall’innesto trilobato sono

cinghiale), sospinta dal barcaiolo con un’asta. Il bordo dell’uchiwa è dipinto in oro. Dal manico ligneo pende una nappa di seta di colore azzurro.

18. Uchiwa, ventaglio rigido di forma rettangolare, con angoli arrotondati. Dal manico di bambù, si dipartono un orlo rigido e uno scheletro di sottili stecche disposte a raggiera, cucite tra loro e rivestite da carta giapponese dipinta ad acquerello. Su una pagina, tra nubi bordate d’argento si stagliano dei rami con fiori bianchi e rosa di ciliegio. Sull’altra sono dipinte due donne intente nelle operazioni di molitura dei cereali.

19-20. Uchiwa, ventaglio rigido costituito da uno scheletro di sottili stecche di bambù disposte a raggiera, rivestito in seta dipinta con inchiostro nero, oro, azzurro, rosso e distesa su una fodera di carta. Lo schermo è innestato a un manico di rame formato da una lamina piegata su se stessa e chiusa in alto da due ribattini. Sul manico fiori di susino e ghiaccio incrinato, simboli della primavera, dipinti in nero e argento. Sul recto, una scena della battaglia di Yashima (1185) in cui si scontrarono i clan rivali Taira e Minamoto, la cui saga è raccontata nel romanzo epico del XIV secolo Heike monogatari. Il bordo dello schermo è rivestito con carta dorata. Sul fondo, tra l’innesto del manico e lo schermo, c’è un inserto di lacca nera intagliato con motivi curvilinei.

21. Uchiwa, ventaglio rigido con schermo in seta su struttura di stecche in bambù e manico in rame decorato con piccoli motivi floreali e romboidali in oro sul recto e neri sul verso. Le pagine sono dipinte con inchiostro nero (sumi-e): sul recto il condottiero Minamoto no Yoshitsune su un cavallo bardato. Il guerriero, oltre alla tradizionale coppia di spade (daishō), porta anche un lungo arco e una faretra colma di frecce. Gli è a fianco il suo fedele compagno Benkei con il tipico copricapo nero (tokin) degli yamabushi (monaci asceti guerrieri). Benkei ha una spada lunga (katana) poggiata

dipinti fiori di ipomea (asagao) blu. Sull’altra pagina tre serti di fiori di ciliegio (sakura), ipomea (asagao), foglie di acero (momiji) e quattro rondini. Sul manico tre foglie verdi.

24. Uchiwa, ventaglio cinese di forma tonda, in seta dipinta con bordo a rilievo sul retro, dove la seta è di colore naturale. Il manico d’avorio attraversa lo schermo del ventaglio sul retro e va rastremandosi verso alto. L’avorio è scolpito in rilievo con motivi a soggetto floreale e uccelli. Il recto è dipinto in policromia con figure che portano doni a un dignitario, nel giardino di un edificio. I personaggi sono realizzati con applicazioni a rilievo: le facce sono ricavate da dischetti di madreperla e di avorio dipinti, gli abiti da ritagli di seta. L’armatura rigida che contorna lo specchio è rivestita con un tessuto broccato di colore verde. Dal manico pende una nappa di seta colore naturale.

25-26. Uchiwa, ventaglio rigido di forma tondeggiante di legno al naturale dipinto ad acquarello. Su una pagina Izanami e Izanagi, Ia coppia di fratelli divini dello Shintō. Le due figure vestite di bianco sono l’una di fronte all’altra. Izanami di spalle, avanza verso Izanagi, che è visto frontalmente. Sulla pagina la firma Kunisada ga (dipinto da Kunisada) e il timbro rosso dell’autore, probabilmente Kunisada III. Il tema dell’opera la colloca nel filone del Kokugaku, movimento nato nel XIX secolo, teso al recupero della tradizione autoctona e alla sua emancipazione dalle influenze straniere. Il manico dall’innesto trilobato è decorato con una delicata peonia rosa (botan). Sull’altra pagina una pianta di ipomea (asagao) dai fiori azzurri e cespugli di altri fiori primaverili si protendono da uno sperone di roccia, circondati da uccelli in volo. Sul manico un fiore di lilium arancione.

27. Uchiwa, ventaglio rigido simile nella forma al gumpai uchiwa, utilizzato dai comandanti militari per dirigere le loro truppe. La struttura perimetrale in legno curvato, laccato e intagliato funge da

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31. Uchiwa, ventaglio, bambù, corno, seta, pigmenti, cm 23 x 39,6, XVIII-XIX secolo

telaio di sostegno e tensione allo schermo, in garza dipinta. Le pagine in garza del ventaglio sono divise in due metà rispetto all’asse centrale, che prolunga il manico. Su ciascuna metà è dipinta con delicati colori una fenice (hōō) dalla lunga coda variopinta, in volo. Il manico e il perimetro sono interamente ricoperti da girali fitomorfe stilizzate dette “erba cinese” (karakusa) in lacca oro su sfondo ambrato “a buccia di pera” (nashiji). Il terminale in lacca oro a “pittura cosparsa piana” (hiramakie) imita una finitura in metallo. Le parti in legno sono tutte in lacca bruna con decorazione di nuvole in lacca oro. I punti d’incastro tra l’asse centrale e la struttura perimetrale sono rinforzati e decorati da applicazioni metalliche in ottone e da due stemmi famigliari imperiali (mon), a forma di foglia di kiri (Paulownia tomentosa). Secondo la leggenda quando discende sulla terra la fenice, simbolo di rinascita e d’immortalità ed emblema dell’imperatrice, vive proprio tra i rami dell’albero di paulonia. Nell’inventario della sua collezione Vincenzo Ragusa lo definisce “Ventaglio da imperatrice, per grandi ricevimenti religiosi…”

28-29. Uchiwa, ventaglio rigido di forma ovale allungata verso il manico, costituito da uno scheletro di sottili stecche di bambù disposte a raggiera, rivestito su entrambe le pagine in seta, distesa su una fodera in carta giapponese a fibra lunga. Il manico di legno in lacca nera lucida (rōiro nuri) è decorato con uccelli e fiori in lacca oro. Le due pagine dell’uchiwa sono dipinte ad acquerello con motivi floreali e uccelli, su un fondo spruzzato di pagliuzze d’oro. Su una pagina un tralcio reciso di peonie rosa e fiorellini bianchi con un passero in volo; sull’altra un ramo di ibisco (fuyō) rosso, verso cui tende un altro passerotto. Il bordo del ventaglio è rivestito con carta dorata. Dalla base del manico pende un cordoncino in seta bianca e viola intrecciata, con nodi e nappe.

30. Uchiwa, ventaglio rigido di forma tondeggiante, con schermo di carta, su struttura di stecche in bambù, manico in legno naturale. Sul recto una stampa xilografica policroma di Utagawa Kunisada, (1786-1865) uno dei più prolifici e noti autori di stampe ukiyo-e del XIX secolo. Entrato giovanissimo come apprendista nella scuola di Utagawa Toyokuni I (1769-1825) famoso autore di ritratti di attori, fu autorizzato a prendere parte del nome del maestro per comporre il suo, scegliendo per sé il nome Kunisada. Intorno al 1845 divenne il caposcuola, assumendo il nome di Toyokuni III. La stampa appartiene alla serie “Le sette variazioni dell’alfabeto Iroha” (Seisho Nana Iroha), pubblicata dall’editore Ebisuya Shōshichi nel luglio del 1856. Il titolo dell’opera è “E” che sta per Emmado (il tempio di Emma, il re degli inferi). La scena illustrata è tratta dal sesto atto del dramma teatrale kabuki Ehon Gappō ga Tsuji, opera dello scrittore Tsuruya Nanboku IV (1755-1829). In un cartiglio rosso appare la firma Toyokuni ga, adottata da Kunisada tra il 1845 e il 1850. Il verso, monocromatico, è costituito da un rivestimento di carta rosa.

31. Uchiwa, ventaglio rigido di forma tondeggiante, con schermo in seta di colore naturale, su struttura di sottili stecche di bambù. Il manico in corno è decorato con rami di glicine e motivi floreali dipinti in oro. Nella parte terminale un foro con una ghiera di metallo dorato da cui pende un cordoncino rosso in seta terminante con due nappe dello stesso colore. Sul recto una fenice (hōō) in volo, realizzata con applicazioni di tessuto viola, arancione, e verde chiaro che traspaiono attraverso un lavoro di ritaglio. Il piumaggio della fenice è bordato e rifinito con filo ricoperto di carta color oro. L’immagine è speculare sul verso.

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32. Kagami-kake, cavalletto pieghevole con funzione di supporto per specchio a manico lungo (e-kagami), composto da due elementi trapezoidali che si aprono a compasso articolati da un perno posto a tre quarti dell’altezza. L’apertura è regolata da un cordoncino in seta arancione che passa attraverso due fori praticati nelle basi d’appoggio e termina con due nappe. La parte superiore dell’elemento più lungo, arcuata e sagomata, termina con due riccioli. La lacca nera di fondo è decorata in oro con il motivo degli stemmi sparsi (mon chirashi) delle tre foglie di aoi (Asarum caulescens maxim). Emblema per molto tempo utilizzato esclusivamente dalla famiglia degli shōgun Tokugawa, veniva concesso come premio ai feudatari più fedeli.

33. E-kagami con e-kagamibako, specchio in bronzo bianco (hakudō) con manico largo e corto, rivestito con un avvolgimento a spirale in vimini, posto all’interno di una custodia in legno laccato nero a doppia valva. Il retro dello specchio è decorato con il motivo gosan no kiri (emblema di paulonia con tre infiorescenze da tre, cinque e tre fiori) e l’iscrizione Tenka-ichi Fujiwara Masashige, “Il primo sotto il cielo, Fujiwara Masashige”, ovvero il migliore del mondo. Lo specchio è insieme alla spada e al gioiello uno dei tre doni

che la dea Amaterasu fece al nipote Ninigi-no-Mikoto, progenitore della stirpe imperiale ed è quindi un oggetto legato al contesto religioso della tradizione shintoista. Utilizzati dalla nobiltà nel periodo Heian (795-1185), iniziarono a diffondersi presso la borghesia nella seconda metà del periodo Edo (1600-1867). Nel tardo periodo Edo la produzione artigianale degli specchi in bronzo comprendeva anche prodotti di qualità più modesta, per soddisfare la richiesta delle classi popolari. La paulonia (Paulownia tomentosa, giapp. kiri), è emblema della famiglia imperiale, come il crisantemo (kiku).

34. E-kagami, specchio in bronzo bianco (hakudō) con ampia superficie riflettente e un manico largo e corto rivestito con un avvolgimento a spirale in vimini. La faccia posteriore è delimitata da un bordo circolare e presenta una decorazione di arbusti di nanten (Nandina domestica), con bacche e foglie. Si riteneva che la pianta fosse di augurio per la fertilità femminile. Al centro un imponente stemma (mon) costituito da due grappoli penduli di glicine (fuji), emblema della potente famiglia Fujiwara. Verso la fine del periodo Edo (1600-1867) la dimensione degli specchi aumentò a causa delle pettinature sempre più voluminose e complesse.

ToelettaSewashige niKushi de kashira oKakichirashi

Essa di frettasi pettina i capelli,come per caso.

Nozawa Bonchō (1640-1714)

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33. E-kagami con e-kagamibako, specchio con manico e custodia per specchio, bronzo, vimini, legno, lacca nera, custodia: cm 20,5 x 3 x 32; specchio: Ø cm 18,3 x 27,2, XVIII-XIX secolo.

34. E-kagami, specchio con manico, bronzo, vimini, Ø cm 30 x 40,7, XIX secolo

32. Kagami-kake, cavalletto da specchio, legno, lacca nera, lacca oro, seta, metallo, cm 32 x 34,5 x 64,2, XVIII-XIX secolo

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38. Kanzashi, spilloni da capelli, lega metallica, cm 18,5 x 2,5, XIX secolo

39. Kōgō, scatolina per incenso, legno, lacca oro, lacca colorata, cm 9 x 7 x 3,7, XIX secolo

40. Kōgō, scatolina doppia per incenso, lacca oro, lacca nera, cm 12 x 9,7 x 4,7, XVIII secolo

35. Kogai kanzashi, spillone, legno, argento, corallo, oro, cm 15,5 x 2,5; Kogai kanzashi, spillone, legno, argento, giada, cm 16 x 2,2; Kogai kanzashi, spillone, legno, ottone, cm 18,5 x 2,5. XIX secolo

36. Set per il trucco costituito da: ciotola legno, lacca nera, lacca oro, Ø cm 4,9 x 2; Oshiroi fude, pennello per ossido di piombo, legno, lacca nera, lacca oro, setole, fibra vegetale, Ø cm 5 x 9,5; pennelli a doppia setola, per cosmesi, legno, lacca nera, lacca oro, setole, fibra vegetale, Ø 0,8 x 12.XVIII-XIX secolo

37. Set per il trucco costituito da: pennello per cosmesi doppio a scomparsa, legno, lacca oro, metallo, setole; Ø cm 0,7 x 13; pennello per cosmesi doppio, legno, lacca oro, metallo, setole, cm 8 x 4,5 x 2; astuccio per belletto, metallo dorato, cm 4 x 5; bottiglietta porta essenze profumate, metallo dorato, argento, Ø cm 1. 4 x 3,7.XIX secolo

35. Kogai kanzashi, fermacapelli a forma di barretta a sezione ovale, in legno tinto di color marrone. Le estremità sono ricoperte da due cappucci metallici, di cui uno sfilabile, terminanti in forma di corolla a cinque petali. Ogni petalo è inciso con motivi decorativi diversi, in ogni corolla ci sono due petali dorati e al centro un vago di corallo. Gli accessori per i capelli sono stati fino alla modernizzazione gli unici ornamenti delle donne giapponesi, erano realizzati con materiali pregiati e decorati con particolare cura. Kogai kanzashi, fermacapelli a sezione schiacciata, in legno tinto in color rosso. Le estremità sono ricoperte da due cappucci metallici, di cui uno sfilabile, che incastonano due rettangoli di giada. Kogai kanzashi, fermacapelli a sezione quadrata, in legno tinto in color rosso mattone. è chiuso alle estremità da due cappucci in ottone, di cui uno sfilabile, terminanti a impennatura di freccia con tre alette.

36. Set per il trucco costituito da: piccola ciotola con basso piede ad anello in legno laccato di colore nocciola all’interno, nero all’esterno; Oshiroi fude, pennello cilindrico per ossido di piombo, con manico in legno laccato nero; due pennelli a doppia setola innestata su manico di legno laccato nero. Tutti gli oggetti hanno una decorazione in lacca a “pittura cosparsa” oro (makie) di girali fitomorfe stilizzate (karakusa), che sulla piccola ciotola circondano l’aoi mon (Asarum caulescens maxim) della famiglia Tokugawa. Nel periodo Edo (1600-1867) la cosmesi prevedeva una precisa etichetta con l’uso di tre colori: rosso (estratto dal benibana, Carthamus tinctorius) per labbra e occhi; bianco per il viso, (una polvere di piombo empaku amalgamata con acqua, altamente tossica a lungo andare); nero per la tintura dei denti. Le sopracciglia venivano rasate ed erano disegnate con nerofumo un paio di centimetri più in alto.

37. Set per il trucco composto da: pennello a setole estraibili, contenuto in un astuccio cilindrico in metallo; pennello con doppie setole inserite in un corpo metallico rettangolare; astuccio per belletto in metallo, decorati in oro su fondo nero con diverse campiture di motivi geometrici. Vi è abbinata una bottiglietta porta essenze profumate, decorata con motivi floreali in oro su fondo nero e chiusa da un pomello che si avvita in una ghiera a crisantemo in argento.

38. Kanzashi, spilloni metallici a forcina che terminano con un disco inciso a motivi geometrici su ambedue le facce. Nel disco sono praticati cinque forellini da cui presumibilmente pendevano altrettante catenelle metalliche con pendagli più piccoli. Sulla sommità un puntale spatuliforme.

39. Kōgō, piccola scatola per incenso a forma di piviere (chidori) stilizzato, fondo in lacca dorata opaca (kin fundame) con disegno in lacca colorata (iro-urushi-e) raffigurante una pianta di bambù e uccellini in volo.

40. Kōgō, contenitore per l’incenso a forma di due libri sovrapposti, riconoscibili dalla tipica rilegatura cucita a mano sulla destra, rappresentata con sottili linee dorate. Sullo sfondo di lacca bruno-rossiccia spruzzata con sottile polvere d’oro del “libro” in primo piano, si sviluppa un paesaggio notturno in lacca dorata a “pittura cosparsa piana” (hiramakie) . Sulla copertina del libro sottostante una luna argentata tra le nubi, con un volo di oche selvatiche. Il fondo e l’interno sono in lacca spruzzata d’oro a “buccia di pera” (nashiji). Nello spessore del lato corto frontale appaiono la firma in oro e il marchio rosso (kao) dell’autore.

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L’intero catalogo è disponibile presso i Musei Civici di Cagliari

Galleria Comunale d’ArtePalazzo di Città

Museo d’Arte Siamese

www.museicivicicagliari.it