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1 Orizzonti Periodico di attualità, cronaca, cultura, a cura dell’Associazione “Osvaldo Costanzi” Autorizzazione Tribunale di Avezzano - Registro stampa1/2016 del 12/01/2016 Direttore: Maurizio Cichetti - Anno I - Agosto 2016 marsicani OTTOBRE 2 0 1 6 Una libertà da difendere Giornali e testate vendute in un assordante silenzio e sostanziale indifferenza, redazioni che subiscono drastici ridimensionamenti di organico (quello del- l’informazione è il settore che negli ultimi anni ha visto il più alto tasso di decremento dell’occupa- zione), compensi da fame a collaboratori e cronisti che lavorano senza alcuna tutela e, per non farsi mancare niente, un clima generale che sta diven- tando sempre più intollerante verso un mondo, quello dei mass-media, spesso costretto a subire in- timidazioni verbali, quando non fisiche, come le cro- nache del resto puntualmente riportano. Non sarà del resto un caso se l’annuale monitoraggio di Reporters sans frontieres sulla libertà di stampa, ha visto nel 2016 l’Italia precipitare al 77° posto (già da un poco lusinghiero 73° posto del 2015) su 180 paesi presi in esame. Maglia nera, fra l’altro, nell’Unione europea, solo davanti a Cipro, Grecia e Bulgaria. Persino il Burkina Faso, in Africa, sta meglio di noi. Venendo più nello specifico alla realtà abruzzese, è lo stesso Presidente dell’Ordine d’Abruzzo, Stefano Pallotta, ad illustrare -nell’intervento ospitato in que- sta stessa pagina- la situazione allarmante in cui versa l’informazione regionale, alle prese con un lo- goramento del suo ruolo che ne mina la stessa, essen- ziale funzione di contropotere e di contrappeso, rispetto a scelte politico-imprenditoriali sempre più debordanti e che sembrano ormai diventate refratta- rie ad ogni sollecitazione critica. Non appaia, quindi, eccessivo il richiamo alla neces- sità di difendere una libertà di stampa che è il più au- tentico presidio alla tenuta di una società civile. mc Il grido d’allarme del Presidente dell’Ordine regionale Se muore l’informazione… Si possono riassumere in una frase le condizioni dell’informazione in Abruzzo? Si potrebbe se non si corresse il rischio, di essere troppo schematici e perfino superficiali. Ma vale la pena correre il pericolo, non fosse altro per suscitare, con l’impatto semantico, una riflessione più appropriata, sotto i molteplici angoli di lettura, sull’informazione nella nostra regione. E al- lora ecco: “ l’informazione in Abruzzo è agonizzante; anzi, è moribonda”. Peraltro, tra l’in- differenza delle istituzioni e del ceto politico il cui silente atteggiamento è così eloquente che non ha bisogno di esegesi particolari. L’informa- zione sta morendo? Per la politica (questo tipo di politica) è una con- dizione ottimale. Autonomia e indipendenza per i giornalisti? Cosa pretendono costoro. Siamo noi (la politica) a pagare i loro stipendi: stiano al loro posto e scrivano sotto dettatura, altro che indipendenza. Il giornalismo d’inchiesta che disvela i raffinati meccanismi della corruzione che – secondo i rapporti più recenti – vive una nuova stagione di floridezza e di spavalda tracotanza? Ma quale giornali- smo d’investigazione: le inchieste costano e creano nemici agli editori che hanno bisogno dell’appoggio politico per fare altri affari. I giornali servono per altro, non per fare denunce. I giornalisti cani da guardia al servizio dell’opinione pubblica, così come vorrebbe la mitopoiesi della professione? Cani da passeggio, piuttosto. E con rigoroso guin- zaglio se non addirittura con la mordacchia. Pluralismo dell’infor- mazione: tante voci che dialetticamente discutono e si confrontano sui temi della società, dello sviluppo, della cultura e del progresso? Ma che vi salta in mente: meglio un solo giornale, anzi via tutti i gior- nali. Molto meglio la televisione, possibilmente sotto il controllo rigoroso della politica che potrà di volta in volta scegliere direttori, capiredattori e responsabili dei sistemi di comuni- cazione. Congrue retribuzioni per i giornalisti al fine di salvaguardarne l’autonomia? I giornalisti bisogna tenerli alla fame (5 euro lordi a pezzo): e ci ringrazino pure perché di que- sta beneficenza potremmo fare anche a meno. Loro ormai non servono più: tutti sono gior- nalisti con le nuove tecnologie, con i social e con i blog. Stiamo esagerando? Forse, ma non troppo. Lo scenario che stiamo cercando di descrivere è quello di un sistema dell’informa- zione in Abruzzo che si sta progressivamente desertificando: scompaiono giornali; chiudono storiche redazioni; televisioni che diventano contenitori di pubblicità e di televendite; gior- nalisti “venduti e comprati” nell’indifferenza più assoluta. Probabilmente il frastuono, l’over- load information (sovraccarico cognitivo) dovuto ai social network , al magmatico flusso delle informazioni delle rete ed anche alla spettacolarizzazione stessa dell’informazione te- levisiva, sta mimetizzando l’ampio processo di ristrutturazione e riposizionamento del si- stema informativo nazionale che tocca anche l’Abruzzo. Non è cosa da poco se uno dei più importanti gruppi editoriali lascia la nostra regione e cede il più importante quotidiano a un gruppo d’imprenditori locali. Eppure il tutto sta avvenendo senza che l’isterilimento dell’in- formazione (almeno di quella mainstream) abbia prodotto un minimo di riflessione su quello che potrà significare non solo a proposito dei profili imprenditoriali e occupazionali ma, pro- filo ancor più rilevante, la formazione critica di un’opinione pubblica consapevole in grado di giudicare altrettanto criticamente le scelte della politica. Insomma, al fronte i giornalisti sono stati lasciati soli e la battaglia per la libertà di stampa (che non significa semplicemente la possibilità di aprirsi un blog e di scrivere su Facebook e Twitter) non la potranno vincere da soli. Occorre che la cosiddetta società civile faccia propria questa battaglia perché ne va della qualità della democrazia e della civile convivenza. Ma ci rendiamo conto che urlare nel deserto è esercizio autoreferenziale e si finisce per essere considerati sterili visionari. Stefano Pallotta Presidente dell’Ordine dei Giornalisti d’Abruzzo

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OrizzontiPeriodico di attualità, cronaca, cultura, a cura dell’Associazione “Osvaldo Costanzi” Autorizzazione Tribunale di Avezzano - Registro stampa1/2016 del 12/01/2016

Direttore: Maurizio Cichetti - Anno I - Agosto 2016

marsicaniO T T O B R E2 0 1 6

Una libertà da difendere

Giornali e testate vendute in un assordante silenzioe sostanziale indifferenza, redazioni che subisconodrastici ridimensionamenti di organico (quello del-l’informazione è il settore che negli ultimi anni havisto il più alto tasso di decremento dell’occupa-zione), compensi da fame a collaboratori e cronisti

che lavorano senza alcuna tutela e, per non farsimancare niente, un clima generale che sta diven-tando sempre più intollerante verso un mondo,quello dei mass-media, spesso costretto a subire in-timidazioni verbali, quando non fisiche, come le cro-nache del resto puntualmente riportano. Non sarà delresto un caso se l’annuale monitoraggio di Reporterssans frontieres sulla libertà di stampa, ha visto nel2016 l’Italia precipitare al 77° posto (già da un pocolusinghiero 73° posto del 2015) su 180 paesi presi inesame. Maglia nera, fra l’altro, nell’Unione europea,solo davanti a Cipro, Grecia e Bulgaria. Persino ilBurkina Faso, in Africa, sta meglio di noi.Venendo più nello specifico alla realtà abruzzese, èlo stesso Presidente dell’Ordine d’Abruzzo, StefanoPallotta, ad illustrare -nell’intervento ospitato in que-sta stessa pagina- la situazione allarmante in cuiversa l’informazione regionale, alle prese con un lo-goramento del suo ruolo che ne mina la stessa, essen-ziale funzione di contropotere e di contrappeso,rispetto a scelte politico-imprenditoriali sempre piùdebordanti e che sembrano ormai diventate refratta-rie ad ogni sollecitazione critica. Non appaia, quindi, eccessivo il richiamo alla neces-sità di difendere una libertà di stampa che è il più au-tentico presidio alla tenuta di una società civile.

mc

Il grido d’allarme del Presidente dell’Ordine regionale

Se muore l’informazione…Si possono riassumere in una frase le condizioni dell’informazione in Abruzzo? Si potrebbese non si corresse il rischio, di essere troppo schematici e perfino superficiali. Ma vale la penacorrere il pericolo, non fosse altro per suscitare, con l’impatto semantico, una riflessione piùappropriata, sotto i molteplici angoli di lettura, sull’informazione nella nostra regione. E al-lora ecco: “ l’informazione in Abruzzo è agonizzante; anzi, è moribonda”. Peraltro, tra l’in-

differenza delle istituzioni e del ceto politico il cui silente atteggiamentoè così eloquente che non ha bisogno di esegesi particolari. L’informa-zione sta morendo? Per la politica (questo tipo di politica) è una con-dizione ottimale. Autonomia e indipendenza per i giornalisti? Cosapretendono costoro. Siamo noi (la politica) a pagare i loro stipendi:stiano al loro posto e scrivano sotto dettatura, altro che indipendenza.Il giornalismo d’inchiesta che disvela i raffinati meccanismi dellacorruzione che – secondo i rapporti più recenti – vive una nuovastagione di floridezza e di spavalda tracotanza? Ma quale giornali-smo d’investigazione: le inchieste costano e creano nemici agli editoriche hanno bisogno dell’appoggio politico per fare altri affari. I giornaliservono per altro, non per fare denunce. I giornalisti cani da guardiaal servizio dell’opinione pubblica, così come vorrebbe la mitopoiesidella professione? Cani da passeggio, piuttosto. E con rigoroso guin-zaglio se non addirittura con la mordacchia. Pluralismo dell’infor-mazione: tante voci che dialetticamente discutono e si confrontanosui temi della società, dello sviluppo, della cultura e del progresso?Ma che vi salta in mente: meglio un solo giornale, anzi via tutti i gior-

nali. Molto meglio la televisione, possibilmente sotto il controllo rigoroso della politica chepotrà di volta in volta scegliere direttori, capiredattori e responsabili dei sistemi di comuni-cazione. Congrue retribuzioni per i giornalisti al fine di salvaguardarne l’autonomia? Igiornalisti bisogna tenerli alla fame (5 euro lordi a pezzo): e ci ringrazino pure perché di que-sta beneficenza potremmo fare anche a meno. Loro ormai non servono più: tutti sono gior-nalisti con le nuove tecnologie, con i social e con i blog. Stiamo esagerando? Forse, ma nontroppo. Lo scenario che stiamo cercando di descrivere è quello di un sistema dell’informa-zione in Abruzzo che si sta progressivamente desertificando: scompaiono giornali; chiudonostoriche redazioni; televisioni che diventano contenitori di pubblicità e di televendite; gior-nalisti “venduti e comprati” nell’indifferenza più assoluta. Probabilmente il frastuono, l’over-load information (sovraccarico cognitivo) dovuto ai social network , al magmatico flussodelle informazioni delle rete ed anche alla spettacolarizzazione stessa dell’informazione te-levisiva, sta mimetizzando l’ampio processo di ristrutturazione e riposizionamento del si-stema informativo nazionale che tocca anche l’Abruzzo. Non è cosa da poco se uno dei piùimportanti gruppi editoriali lascia la nostra regione e cede il più importante quotidiano a ungruppo d’imprenditori locali. Eppure il tutto sta avvenendo senza che l’isterilimento dell’in-formazione (almeno di quella mainstream) abbia prodotto un minimo di riflessione su quelloche potrà significare non solo a proposito dei profili imprenditoriali e occupazionali ma, pro-filo ancor più rilevante, la formazione critica di un’opinione pubblica consapevole in gradodi giudicare altrettanto criticamente le scelte della politica. Insomma, al fronte i giornalistisono stati lasciati soli e la battaglia per la libertà di stampa (che non significa semplicementela possibilità di aprirsi un blog e di scrivere su Facebook e Twitter) non la potranno vincereda soli. Occorre che la cosiddetta società civile faccia propria questa battaglia perché ne vadella qualità della democrazia e della civile convivenza. Ma ci rendiamo conto che urlare neldeserto è esercizio autoreferenziale e si finisce per essere considerati sterili visionari.

Stefano PallottaPresidente dell’Ordine dei Giornalisti d’Abruzzo

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In Italia si legge poco, anzi pochissimo e,però, è altrettanto vero che si scrive e si pub-blica molto. Le due cose sono in fondo unadelle tante contraddizioni del post-moderno,della sua molteplicità di caratteri tanto disso-nanti e che parimenti giustificano la pre-senza, tra noi, di una comunità ristretta diirriducibili lettori, quasi un substrato sociale,colto e silente, sospeso nell’ambiguità del pre-sente e che cerca in tutti i modi di districarsidall’ossessione ricorrente delle regole delmercato di massa, dal maglio ossessivo dipossedere a tutti i costi i suoi nuovi simboli,quelli che lo fanno sopravvivere e che, poi,altro non sono, che la trasfigurazione dei fe-ticci di sempre.Un contrasto significativo a questo circuitotanto mortificante, potrebbe essere offertodalla letteratura locale, quella letteratura,cioè, definita minore perché parte di ambitiraccolti, locali appunto, e che non di menoviene animata da tanti autori, tutti figli diquel microcosmo in cui gli Stessi si son tro-vati a vivere e che sentono il bisogno di rac-contare. A volte nello sfogliare le pagine delle loropubblicazioni, ti stupisci perché avverti su-bito il fare artigianale che le ha generate: unComitato, che generalmente ne ha patroci-nato l’iniziativa, il contributo di qualche pic-colo imprenditore, che talvolta e a malavogliane ha sponsorizzato la stampa. E che dire diquest’ultima? Un mito! perché per essa si èfatto ricorso ad una vecchia ed ansimanteHeidelberg del sessanta che ti ricorda persinodi quando andavi in giro scalando i tornantimontani d’Abruzzo al volante di una Seicentocon il radiatore che sbuffava in continua-zione.

Ti rendi subito conto che la grafica è insolita,forse un po’ incerta, ma vera! Non si trattadei “tipi” usuali di questo o quell’editore. E’una grafica senza veli, libera, costruita sulmomento nel chiuso di una piccola tipografiadi provincia. Ti piace sapere che lo stampa-

tore, chiamato all’opera, resiste ai tempi, chequella pubblicazione viene fuori tra un bi-gliettino da visita ed un manifesto della pro-loco che annuncia l’arrivo dell’ultimorockman sulla piazza del tuo paese.

E ti rende felice sapere che si accresce fortu-natamente l’insieme di autori, genuinamentepopolari, che animano il “circus” della lette-ratura locale.Il più delle volte la narrazione coglie i luoghinei loro aspetti artistici, monumentali, natu-ralistici, insomma dei veri e propri quadernidi viaggio, autentiche guide non meno origi-nali di quelle proposte nell’ottocento dallesparute schiere di raffinati viaggiatori d’ol-tralpe e che resero celebri l’arte ed il paesag-gio italiano in Europa.Gli itinerario preferiti sono soprattutto in-timi, locali, ruotano intorno quasi sempre adelle enclavi, a momenti familiari ma, piùspesso, investono le tante comunità conta-dine e pastorali che da sempre hanno abitatoed animato la piana di Silone e l’entroterraabruzzese.Sono cammini che assumono contorni inat-tesi, inconsueti per molti aspetti, e talvoltaanche intriganti. Tanti sono i volti, i nomi, lemicrostorie, i luoghi e l’umanità che vi simuove. Non sono maschere di un tempo pas-sato, comparse improvvisate di un teatrinoda saltimbanchi, sono invece autentici perso-naggi, figure basilari e fondanti di una mi-riade di modeste ma allo stesso tempodistintive comunità a cui va l’indubbio meritodi aver saputo predisporre la piattaforma diun futuro migliore per i propri figli.

Ecco allora che avverti dal profondo un’emo-zione che ti coglie e ti spinge con il pensieroa tornare indietro nel tempo, perché hai vo-glia di incontrare quegli antichi padri, correr-gli incontro, abbracciarli, parlare con loro,chiedergli delle tante piccole cose di cui soloora avverti il valore, la primazia rispetto adun presente senza sostanza, nel vuoto di una

crisi valoriale che non ha precedenti, chiusinella tana di un soffocante relativismo senzaanima e pudori. Comprendi che devi reagiree che pure che hai bisogno di rinvenirlaun’anima, e sai che quell’anima che cerchi, lapuoi trovare solo in quei padri preziosi. Sonostati loro i detentori di un focolare sempre ac-ceso, di una passione autentica verso la vitache non può appassire dinanzi alla preoccu-pazione di un lavoro che non c’è, sol perchéormai tutto è fatto, è pronto, è stato costruito,è sul mercato, sulle vetrine, sui media osses-sivi di un mondo di soli balocchi piovuti dalcielo della globalizzazione e che pretende diannichilire tutta la tua memoria. Ti accorgiin quel momento che combatti con un avver-sario abile e senza talloni, forte come un ci-clope e astuto più d’un Ulisse. Usa condisinvoltura armi scientifiche, potenti, ep-pure ti bombarda di sole parole, immagini esuoni – si fa chiamare Comunicazione diMassa! – ed è capace di far convergere l’atten-zione di tutti verso un unico fatto o cosa, acui la frenesia cinica, razionale ed efficienti-stica di uno Spirito volgare, ha preassegnatoun periodo di vita ben delimitato, ha toltoanche agli oggetti, ai compagni silenti dellatua vita, la dignità di sopravvivere al tempo,come se sopravvivere fosse inutile, inoppor-tuno, non funzionale. Ecco allora che il ri-chiamo alla comunità, all’anima popolarecome valore, ai suoi borghi rurali, fatti anchedi stenti, dolore, passioni, delusioni, alleamarezze di una vita difficile ma mai senzasenso, rasserenano l’orizzonte dove la lettera-tura locale, le sue microstorie con i loro tantiframmenti, si esaltano perché sanno porre alcentro dell’ interesse i valori di quella “variaumanità” troppo spesso confusa ed oscuratanella semplificazione metodologica della pre-sunta grande storia.

Sergio IACOBONI

Un antidoto alla crisi dei tempi. Il richiamo ai valori delle antiche comunità rurali ed il ruolo fondante della letteratura locale.

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La lingua italiana oggi.In questo nostro tempo in cui la lingua italiana viene insidiata e progressivamentesoppiantata da termini stranieri, soprattutto inglesi, che prendono sempre più spazionei discorsi, nei giornali, nelle trasmissioni televisive e radiofoniche, nei manifestipubblicitari e nelle insegne dei nuovi negozi, perfino nel linguaggio degli uomini digoverno, siamo fuori dal nostro tempo se ci poniamo il problema linguistico che, innome di un’Europa unita, sta relegando l’italiano ad un ruolo subalterno e margi-nale?La nostra lingua, scaturita da un antico, nobile e illustre lignaggio; formatasi a faticalungo il corso dei secoli per ragioni storiche e politiche, nella prima decade del XIXsecolo stava rischiando di scomparire, insidiata seriamente, auspice Napoleone Bo-naparte, dalla lingua francese largamente diffusa fra i ceti colti, mentre nella vita quo-tidiana i dialetti erano molto usati, nonostante il ripristino dell’Accademia dellaCrusca, a cui era demandato il compito di vigilare soprattutto sul lessico. Il dilagare dei francesismi suscitò la protesta di molti letterati, con a capo l’abate An-tonio Cesari, caposcuola del cosiddetto purismo, propugnatore di una restaurazionedella purezza della lingua e dell’eliminazione di tutti i neologismi accumulati nei secoliper ritornare addirittura al padre Dante.A distanza di duecento anni, a dimostrazione della veridicità dei corsi e ricorsi vi-chiani, il problema linguistico dell’Italia di oggi, si ripresenta tale e quale, con la dif-ferenza che al posto del francese è subentrato l’inglese. All’orizzonte, però, non apparenessun abate Cesari, che, pur riconoscendo la naturale evoluzione della lingua chenon può rimanere statica, abbia il coraggio di gridare che…est modus in rebus! Sepoi al dilagare degli inglesismi si aggiunge l’intervento dell’Accademia della Cruscache accoglie termini come “ petaloso” che sa più di bicicletta che di rosa, la perplessitàe la riprovazione di chi ha un po’ a cuore il problema dell’italiano crescono a dismi-sura.Oggi l’abate Cesari avrebbe meno successo di fronte all’invadenza progressiva dell’in-glese, perché dovrebbe fare i conti anche con la pesantezza del linguaggio rozzamente

espressivo, che maschera il vuoto di pensiero.Il circo delle moderne arene, che per non fare brutta figura chiamiamo talk show,dove si affrontano i guerrieri logorroici di oggi, invade le nostre serate con un linguag-gio scorretto e villano che non contribuisce ad arricchire il lessico delle nostre con-versazioni, anzi con gli strafalcioni, i congiuntivi assassinati e la consecutiomassacrata influenza il parlare delle masse deboli e impressionabili, costrette a ripetereparolacce, gesti, espressioni, modi di comportarsi suggeriti e imposti.Altro che Cecco Angiolieri che almeno ha lasciato il segno di un ingegno acuto, diuna parola tagliente e sapiente! Testimonianze veraci di influenze verbali sono le chat ( ci risiamo!), nelle quali si ri-versano le moderne preziosità linguistiche acquisite, con le quali molti, che non sonocapaci di aprire bocca e mettere due parole l’una dietro l’altra, tramite una piccolis-sima tastiera, si sfogano con un linguaggio scontato e scurrile, insultando, maledi-cendo, esternando da qualsiasi luogo e in qualsiasi ora del giorno e della notte.Gli errori ortografici, i nessi sintattici, i periodi senza capo né coda riducono la linguaitaliana ad un insieme di suoni e di parole senza senso e significato. Prevalenti di-ventano l’ignoranza, la maleducazione, l’imbecillità: l’importante è sfoggiare iPad,iPhone, ultimo grido, schermo al plasma, turbo Suv…Cosa ancora più grave è che siamo sottoposti a subire dalla mattina alla sera squillidi telefonini sempre alla portata di mano, che ci inseguono dovunque; trasmissioniradiofoniche, programmi televisivi spesso insulsi e diseducanti. E tutti e dovunqueci ripetono determinate espressioni, ci inducono a ricalcare pose, atteggiamenti, af-fermazioni, violenze verbali che spesso inducono a violenze materiali.E allora in questo nostro tempo si è fuori dalla realtà se ci poniamo il problema dellinguaggio corrente o il rapporto tra l’italiano e il dialetto?Abate Cesari, quanto ci manchi!

Mario Di Be-rardino

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R I C O R R E N Z E

ALDO MORO A CENTO ANNI DALLA NASCITA

Il politico che guardava lontano

Se c’è una immagine riferita allo scorcio fi-nale del ‘900, che più delle altre ha pro-fondamente colpito e turbato

l’immaginario collettivo degli italiani, è quellache mostra il corpo senza vita di Aldo Moro, ri-verso nel bagagliaio di una R4 rossa, in via Cae-tani a Roma. Era il 9 maggio del ’78, e quella erala conclusione più tragica e drammaticamentetemuta di una vicenda che aveva avuto inizioquasi due mesi prima, in via Fani, con il rapi-mento dello statista democristiano e l’eccidiodella sua scorta, da parte delle BR. Con l’assassi-nio di Moro si toccò il momento più buio di unalunga e tragica stagione, non solo quella legataalle criminali azioni delle Brigate Rosse ma, più

in generale, di una fase tra le più inquiete della recente storia italiana, quella che, conla bomba di piazza Fontana, a Milano, nel dicembre del ’69, aveva avviato la ‘strategiadella tensione’. Se oggi appare possibile rileggere quei lontani avvenimenti alla luce di una capacità dianalisi storica che ha ormai messo da parte le contorsioni emotive e febbrili di queimomenti, a maggior ragione apparirà doveroso ripercorrere l’azione politica di AldoMoro, a cento anni dalla nascita. Era infatti venuto alla luce il 23 settembre del 1916,a Maglie (Lecce), l’uomo che forse più di ogni altro avrebbe saputo cogliere la necessitàche la politica riuscisse ad ‘attraversare’ il dinamismo della società italiana nella se-conda metà del ‘900, individuandone con lucidità i processi di cambiamento. Perchéquesto è stato, nella sostanza, Aldo Moro, il lucido pensatore che guardava lontano,più ancora che il politico che sarà pure presidente del Consiglio per sette anni, ministro

degli Esteri per cinque e segretario della Dc per quattro.Formatosi nell’associazionismo religioso, Moro vedeva nella Democrazia Cristiana “l’in-sostituibile funzione -lo diceva nel ’59- del partito come filtro delle esigenze com-plesse della vita politica, economica e sociale del paese… come strumento dieducazione e guida del popolo italiano”. Eppure sarà proprio lui a cogliere, con unavisione strategica di ampio respiro, la necessità del superamento del centrismo, all’albadegli anni ’60, con l’apertura ai socialisti. Fu anche tra i primi a intravvedere i primielementi di disgregazione e di crisi di quella democrazia parlamentare la cui tenutamorale avrebbe subito duri colpi proprio nel decennio successivo alla sua scomparsa.Senza del resto dimenticare che era stato ancora lui, il politico insofferente ai clamorie alla teatralità, ad aprire un costruttivo e laborioso confronto, nella seconda metàdegli anni ’70, con il partito comunista, verso cioè quella fase di “solidarietà nazionale”che divenne l’obiettivo politico da colpire da parte di chi si opponeva con le armi aquella nuova fase della politica italiana di cui proprio Moro era stato l’ispiratore, se-gnando in questo modo la sua stessa condanna a morte. Inutile forse dire che ancoraoggi –anzi più che mai oggi- ci sarebbe bisogno di politici che, al di là delle apparte-nenze ideologiche o di schieramento, fossero capaci di guardare lontano…

100 ANNI

60 ANNI

Quando, il 4 novembre 1956, migliaia di carri ar-mati sovietici entravano a Budapest per spegnerebrutalmente il fuoco di una rivolta che nelle set-timane precedenti aveva trovato vigore dalla con-vergenza di aspettative ed interessi diversi tra lapopolazione ungherese, pochi, forse, avrebberopotuto immaginare in quei momenti ciò chequelle tragiche giornate rappresentavano, cioèl’inizio di un lento, ma inarrestabile processo dierosione di quel modello di ‘democrazia popo-lare’ imposto dall’Unione Sovietica ai paesi delPatto di Varsavia. Una fase storica, quella, che di fatto si era aperta,nel febbraio di quello stesso anno, col XX con-gresso del PCUS, con le crude denunce di Krusciove con l’avvio di quell’opera di destalinizzazioneche avrebbe aperto la strada alla rivolta di Buda-pest prima, alla primavera di Praga nel decenniosuccessivo, per arrivare poi, attraverso altre con-torsioni e sviluppi, ad anni a noi più vicini, pas-sando per l’esperienza della Polonia di Walesa,per la perestrojka di Gorbaciov, e giungere -comeesito ormai indifferibile- alla caduta del muro di Berlino e alla dissoluzione dei paesi comunisti.Eppure a sessanta anni, ormai, da quel fatidico ’56, i fatti d’Ungheria continuano a rappresen-tare uno snodo essenziale, anche in riferimento alle ripercussioni che quelle giornate ebberonegli stessi partiti comunisti occidentali, all’interno dei quali crebbero le defezioni, i ripensa-menti, le critiche verso un sistema che era stato vissuto fino allora in modo idolatrico. Ma checosa rappresentò veramente quella rivoluzione, quelle infuocate giornate di Budapest vissute

tra la fine ottobre e l’inizio novembre di quel’56? Bisogna dire che quel rivolgimento, in re-altà, non ebbe un carattere unitario e facilmenteclassificabile e riconoscibile, perché in realtà visi mescolarono caratteri diversi: anticomunismoin primo luogo, per la volontà di porre radical-mente in dubbio il modello che era stato impo-sto (il gesto simbolico di questo aspetto è certorappresentato dall’abbattimento della statua diStalin), ma poi anche nazionalismo, recuperodelle forme di democrazia diretta, e poi ancorauno spontaneismo forse non ben inquadrabile.Va detto poi che a questi caratteri si unirono, al-l’interno della rivoluzione, quelli tipici di unaguerra civile. Questo anche grazie all’ampia par-tecipazione di operai, studenti e militari. L’inter-vento sovietico, la feroce repressione, le migliaiadi vittime che si contarono fecero poi acquistarealla rivolta un carattere inconfondibile, cioè dilotta per l’indipendenza nazionale, accompa-gnata dalla volontà di un deciso rinnovamentonel governo e nella vita politica. L’esito finale,

come sappiamo, fu tragico. Oltre alle vittime si contarono oltre 100.000 ungheresi coinvoltinella rivoluzione che abbandonarono il paese rifugiandosi in Occidente. Imre Nagy, il politicoche dall’interno del sistema aveva cercato di portare l’Ungheria verso approdi di maggiore li-bertà, verrà condannato a morte e giustiziato due anni dopo. Il sogno della rivoluzione erastato infranto, ma da quei giorni qualcosa cominciava ad incrinarsi nel monolite dell’Europadell’Est.

Quelle prime crepe nel muroLa rivoluzione ungherese del ‘56

Sull’azione politica e sulla figura di Aldo Moro esiste una vastissimapubblicistica, che ha analizzato con molteplici contributi anche ilperiodo storico che ha fatto da sfondo all’opera dello statista de-mocristiano. La ricorrenza dei cento anni dalla nascita ha visto, fral’altro, la recente ripubblicazione della nota -e a suo tempo larga-mente contestata- Intervista su Aldo Moro, dello storico americanoGeorge L. Mosse, uscita nel 1979. Sono usciti proprio in questi mesi, invece, altri due libri che cercanodi inquadrare e definire la figura di un politico che non è mai statofacile fissare in comodi schematismi. Il primo è il volume di GuidoFormigoni, dal titolo Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma (Il Mu-lino). Nel libro l’autore ricostruisce la formazione umana e politicadi Moro e la complessa articolazione di un pensiero che si facevavisione strategica. La profondità dell’analisi ed uno sguardo rivoltoal futuro sono anche alla base di un altro libro uscito di recente ededicato allo statista pugliese, Governare per l’uomo, a cura di Mi-chele Dau (Castelvecchi).

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Resoconto semiserio di una giornata da ricordare

La magnificaescursione

Per natura non sono un gran girandolone la mia vita assomiglia piuttosto a quelladi un uccello stanziale. Anzi di più: quasi marco il mio territorio, spruzzando tuttiintorno pipì con la gamba alzata, come fanno certi animali. Per dire agli intrusi: “sciò,jiàte vénne”.Perciò, questo mio territorio, lo dovrei conoscere come le mie tasche. E invece no.Pazienza per la Marsica, che a conoscerla tutta sarebbe già un record. Ma io nonconosco bene manco Celano, Che pure ci sono nato, cresciuto e pasciuto. La prova?

Eccola: un sentiero o, per meglio dire, una traccia che da Casal Martino porta allachiesetta degli alpini, costeggiando il monte Tino.Per me, quasi un tabù: mai sentito. La scoperta? Semplice: percorrerlo era tra glieventi dell’Associazione Culturale “Osvaldo Costanzi”. La data: il 17 giugno scorso.E guai agli assenti. Titubavo: ciò che non si conosce, fa sempre un pò paura. Se èpoi un sentiero di montagna, peggio ancora. E’ che si può fallire e farsi aiutare nonè mica bello sai per una questione di orgoglio ma non potevo non esserci. Ed alloraeccomi la mattina del giorno fissato, al raduno di Casal Martino.Iniziava l’avventura, in fila indiana e sacco in spalla, con il sole che filtrava tra i radialberi dei pini, per il vero, un po’ scheletriti, con pochi rami solo verso l’alto. Ancheil sottobosco era piuttosto rado, con piantine che spuntavano qua e là. “Ditemi che cos’è questa piantina” chiedeva a noi Angelo Ianni, la nostra guida.“E’ un asparago”, risposi io prima degli altri. Ma che esile che era. Diventerà mai uncespuglio? La sosta fu questione di un attimo e poi di nuovo in marcia, lento pede.Non era una gara, ma una salutare passeggiata, magari anche per curiosare un po’qua e là, lungo le pendici della montagna.A valle e a monte c’erano, ammonticchiati, tronchi di pini rinsecchiti in attesa diessere rimossi, vittime di incendi precedenti, ma anche di eventi naturali, come

nubifragi e bufere. Più avanti ancora sosta: c’erano i ruderidella Celano vecchia. Pietra su pietra a formare una muragliainvalicabile, a difesa della città, in quei tempi terribili discorribande e devastazioni.“Ma all’ira di Federico non ci fu riparo” spiegava a noi ilprofessor Ianni. “Celano muto sito, lasciando questi luoghiimpervi in balia di capre e caprioli”. A guardare a monte tuttaroccia viva. Chissà quanta fatica per ricavarne pietre squadrateda costruzione! Pure, fu fatto. Ma la vita, lassù, sua resta unmistero: solo a scendere e a risalire, occorreva una giornata.Figuriamoci l’inverno con la neve. E il lago era distante assai eanche le poche terre coltivabili non erano ad un tiro dischioppo. Solo Dio sa come facevano a campare. Ma laricostruzione di Celano in altro sito, più a valle, la dice lungasui sacrifici immani di quella vita, vissuta tra quelle rocce equei dirupi ( ma è proprio vero che vivevano lassù o era soloun rifugio occasionale?).Intanto, tra un pensiero e l’altro, via ancora per il sentiero,curiosando curiosando. Che tenerezza quelle piantine, esili danon stare in piedi, legate alla meglio da mano amica ad altrepiantine più grandi, per protezione! Che silenzio e che pace!Una beatitudine quasi di paradiso: non un alito di vento asbuffare tra le cime degli alberi, non canti, non voli di uccelli,in alto nel cielo, non animali (selvatici) in fuga da noi. Solo ilrumore dei nostri passi felpati e un brusio di voci, le nostre, diquando in quando.Ma ad un tratto, l’altolà, il passaparola e, in un lampo, tuttiintorno a Ianni, più curiosi che mai. Gli è che eravamo al puntodi incrocio con un altro sentiero, appena più largo e,all’apparenza, più battuto del nostro. “E’ il chilometroverticale” ci spiegò Angelo. “Quì è sfida alla morte (quasi) achi arriva prima in vetta al monte Tino (quota 1800 metri) apartire dalla piazza (quota 800 metri circa) sempre di corsa perun sentiero di 3 km, a zig zag, con una pendenza di circa il 33%.Roba da sfiancare un toro.Pure.... eh, diavolo d’un generale! Giunto tra i primi ad unpalmo della vetta, visto da dietro, erano gli altri a restare conun palmo di naso. E’ una gran passione, la sua: ce l’ha nelsangue. L’amico vero, anche lui superstar. Bene! Il chilometroverticale una scoperta e una curiosità in più. Poi, però, dinuovo in fila indiana, sempre lento pede, ch’è rimedio sovranoper non cadere. Mai troppe, le precauzioni: avevamo con noil’avvocato Cantelmi con sul gruppone un sacco di primavere,ma portato a meraviglia, e due illustri ospiti, il chiarissimoprofessor Valter Santilli e Edoardo Castellucci, architetto inRoma ( il buon Albertino impedito da qualche acciacco, avevadato forfait ai primi passi). E poi c’era Lucio Quinzio, provettocampagnolo, ma escursionista in erba. Accorti, dunque. Ancheperché, a tratti, sul sentiero ora cominciava ad affiorare laroccia, a mò di informi gradoni, a salire o a scendere, aseconda dei casi.Superarli era sempre un rischio e perciò la guida consigliava eaiutava, ma più di lui era il bastone a fare miracoli (per lamontagna è davvero una mano santa). Ma eravamo ormai allafine e usciti da tra i pini fumo subito alla chiesetta degli Alpini,posta a cavaliere della Montagnola, da dove potemmoammirare uno spettacolo grandioso, con il castello in bellavista e con tutta Celano ai nostri piedi. Seguì la Santa Messa con don Claudio che ci fece una predicaappassionata e bella, a rinsaldare i cuori, la fede e la speranza.Poi il pranzo al sacco. E che ti volevi vedè! Davvero unacuccagna. Dai sacchi usciva, come per magia, ogni ben di Dio:in mezzo al pane, frittata con zucchine o con tartufi, salami esalsicce, prosciutto e formaggio. Roba da leccarsi i baffi. E ilvino scorreva a fiumi, specie quello del bravo Angiolino che,imbottigliato prima del tempo, era ancora di un bel colorevioletto. Lui, Angiolino, autoproclamatosi principe deglienologi, registrava così il suo brevetto: non poteva accettareche il colore del vino assomigliasse al rosso dei papaveri, delleciliegie e dei pomodori, Vil razza dannata.

Eppur son sindacalista...

Nel giugno del 1983 Renato Mosca si reca a Caramanico per le annuali cure termali: conosceGiuseppe Delocio, direttore degli uffici INAIL di Pescara. L’amicizia, subito nata trai due, sug-gerisce al pescarese, poeta dialettale, di scrivere una satira dedicata all’avezzanese ed alle sueattività di dipendente della locale Cartiera e di sindacalista della Camera del Lavoro: il risultatorappresenta un ritratto scherzoso del nostro concittadino.

Lu sindacalìsta Il sindacalista(All’amico Renato Mosca, gran difensore dei lavoratori, con stima ed affetto)

Caramanico, 16 giugno 1983

Tenéve li capìlle lìsce e biànche, Teneva i capelli lisci e bianchi,‘na giàcche chi li spàcche a li fiànche una giacca con gli spacchi al fianco‘na camìcia tùtta a righìne una camicia tutta a righineca paréve ‘nu figurìne che sembrava un figurinoe spriggiunéve ‘na fréche di decòre e sprigionava moltissimo decorodi ‘na fìle di buttùne tùtte d’òre. di una fila di bottoni tutti d’oro.“Pi mé ‘dà rèsse nu capitaliste!” “Per me dovrebbe essere un capitalista!”ha détte ùne a prìma vìste, ha detto uno a prima vista,“fà tróppe nu lùsse sfrenàte, “ostenta un lusso troppo sfrenatodi sicùre n’ha mài fatiàte!” di sicuro non ha mai faticato!”“Zìtte, nìn ti fà’ sentì’ da la gènte “Zitto, non farti sentire dalla gente- ja rispóste sùbbete ‘nu cunuscènte - - gli ha risposto subito un conoscente -sinnó ti pìjiene pì màtte altrimenti ti prendono per un mattoca quélle che dìce nìn è esàtte! perché ciò che dici non è esatto!Quìsse che pàre Torlònia a prìma vìste, Costui (sembra Torlonia a prima vista)è ‘nu pòvere sindacalìste è un povero sindacalistache fa pàrte di la ciggièlle, che fa parte della CGILquélle di la fàlce e lu martèlle, quella della falce e del martello,sta sèmpre da la matìne a la sère sta sempre, da mattina a sera,assettàte déntre a la cartière, seduto dentro la Cartiera,è ùne che a ógne óre è uno che in ogni oradefènde sèmpre lu lavoratóre difende sempre il lavoratoree dà’ pròprie tùtte se stésse e da proprio tutto se stessospècie a quélle dell’àltre sésse” specie a quelle dell’altro sesso”“Sò’ capìte – ja rispòste l’amìche – “Ho capito - gli ha risposto l’amico - ma vù’ sapé’ quélle che te dìche? Ma vuoi sapere ciò che ti dico?Da si tìpe me ne guàrde bène Da questi tipi me ne guardo benepicché li tròve sèmpre a prànze e céne, perché li trovi sempre a pranzo e cena,stànne sèmpre a fà’ li conferènze, sono sempre a fare le conferenze,dìchene nu sàcche di scemènze, dicono un sacco di scemenze,li trùve a ógni manifestazióne li trovi in ogni manifestazioneandó si pàrla di occupazióne, dove si parla di occupazione,ti li trùve sèmpre dapertùtte te li trovi sempre da per tuttocóme lu prezzémule e lu strùtte come il prezzemolo e lo struttoe se i vé’ pùre la vójie, e se sono assaliti dalla voglia,ti li trùve a létte che la mójie! li ritrovi a letto con la moglie!Ma quélle che è sacrosànte, Ma ciò che è sacrosanto,e l’afférme e me ne vànte, e l’affermo e me ne vanto,andó nìn li trùve màje dove non li trovi maiè a fatià’ a fiànche a l’operàje!” e a faticare a fianco dell’operaio!”

Giuseppe Delocio

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