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GIANNI BATTISTA PREMESSE ALL'ECONOMIA NUOVA PREFAZIONE DI ALBERTO DE- STEFANI ACCADEMICO D'ITALIA NICOLA ZANICHELLI EDITORE BOLOGNA 1940-XVUI

PREMESSE ALL'ECONOMIA NUOVA

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GIANNI BATTISTA

PREMESSE

ALL'ECONOMIA NUOVA

PREFAZIONE

DI ALBERTO DE- STEFANI ACCADEMICO D'ITALIA

NICOLA ZANICHELLI EDITORE

BOLOGNA 1940-XVUI

R A C C O L T A D I S C R I T T I A C U R A D E L L ' I S T I T U T O

D I P O L I T I C A E C O N O M I C A E F I N A N Z I A R I A

D E L L A R . U N I V E R S I T À D I R O M A

D E L L O S T E S S O A U T O R E

VOLUMI :

La politica commerciale italiana nel dopo guerra (Stam-peria Reale, Roma, 1932-X, pagg. 287).

Lezioni di politica economica corporativa (Castellani, Roma, 1936-XIV, pagg. 231).

Coalizioni d'imprese e corporazioni (Cremonese, Roma, 1938-XVI, pagg. 203).

Organizzazione e attività delle case d'oltremare anseatiche (« Commercio », Roma, 1939-XVII, pagg. 109).

Lezioni di politica economica e finanziaria (G.U.F., Ca-tania. 1939-XVII, pagg. 743).

MONOCRAFIE E SAGGI:

Pro e contro la clausola della nazione più favorita (Roma, 1930-VIII).

Studio critico sulla politica commerciale italiana dal 1860 al 1914 (Roma, 1931-IX).

La politique itahenne des traités de commerce (Bruxelles, 1932-X).

L'economia sovietica e il piano quinquennale (Milano, 1932-X).

La Marine marchande italienne (Bruxelles, 1932-X). Planned trade and corporative system (Cambridge, 1934-

XI). Numi orientamenti della politica commerciale internazio-

nale (Roma, 1935-XII). Alcune note introduttive allo studio dell'economia corpo-

rativa (Roma, 1936-XIV). Corporativismo e capitalismo (Roma, 1937-XV). Il controllo corporativo dei consorzi volontari (Roma, 1938-

XVI). Autarchia e commercio estero (Roma, 1938-XVI). « L'iniziativa sindacale » nell'economia corporativa (Roma,

1939XVII). La nuova Rivoluzione Economica - Industrializzazione dei

Paesi agricoli e ritorno alla terra dei Paesi industriali (Roma, 1939-XVII).

DEp X 165

GIANNI BATTISTA

PREMESSE

ALL'ECONOMIA NUOVA

PREFAZIONE

DI ALBERTO DE- STEFANI ACCADEMICO D'ITALIA

NICOLA ZANICHELLI EDITORE

BOLOGNA 1940-XVIII

N.roINVENTARIO PRE

P R O P R I E T À L E T T E R A R I A

I DIRITTI DI RIPRODUZIONE E DI TRADUZIONE SONO RISERVATI PER

T U T U I P A E S I COMPRESA LA SVEZIA, LA NORVEGIA E L'OLANDA

P R E F A Z I O N E

Nell'autore di questo libro, voglio dire nel suo pensiero, ci sono dei fermenti attivi che me-ritano attenzione; la loro vitalità viene dai fatti di cui si nutrono.

Quel processo di rinnovamento ideologico e dialettico che il Gianni Battista ha attraversato e superato, conferisce alle sue idee un valore at-tuale interpretativo ed esortativo superiore a quello di scritti sistematicamente ponderati e rifiniti, ma non altrettanto ricchi di sensibilità adesiva. La tendenza verso le economie nazio-nali complesse, in antitesi o a complemento della divisione internazionale del lavoro, ha trovato in questo libro una feconda ed eloquente dimo-strazione.

Il pregiudizio della utilità del commercio estero, come principio assoluto, non regge alla prova dei fatti. Eppure molti ancora ragionano

come se quella utilità apodittica tuttavia esi-stesse. Perfino così ragionano i più convinti assertori dell'autarchia, che cercano nella ra-gione politica la sua giustificazione. Verrà giorno in cui anche costoro si accorgeranno che non c'è bisogno d'incomodare la politica per giusti-ficare in molti settori i piani autarchici. Avere sotto mano la difesa dell'economia autarchica e non servirsene è veramente sorprendente. Ma i cervelli hanno bisogno di un periodo di adatta-mento e di assimilazione perchè un'idea vecchia e sbagliata se ne vada e un'altra ne prenda il posto.

Nell'attesa di questa sostituzione, ci fa pia-cere leggere un libro che vi contribuisce. I gram-matici dottrinali vi troveranno molto da dire. Ma essi sono pregati di meditare sulla idea cen-trale e di vederla nella luce dei fatti e in rap-porto alla legge di economia del lavoro nazio-

nale, della quale l'autarchia è da considerarsi la realizzazione pratica. Naturalmente ci sono i bari dell'autarchia, come c'è il vizio accanto alla virtù, la colpa accanto all'innocenza. I bari e i profittatori dell'autarchia si devono stroncare senza tanti riguardi, perchè non la compromet-tano. Questa è la condizione pregiudiziale dello

sviluppo fisiologico dell'autarchia e della sua eco-nomicità.

Gianni Battista può camminare tranquillo per la sua strada, con la sicurezza di essere tra non molto raggiunto dai zelanti dottrinari di domani, da quelli stessi che oggi non ne condi-vidono le idee o le contornano con dei « se » e dei « ma ».

ALBERTO DE' STEFANI

Roma. 26 marzo 1940-XVIII.

P A R T E P R I M A

L A F I N E D E L « L A S C I A R F A R E »

C A P . I

I N D I V I D U A L I S M O E L I B E R T A ' E C O N O M I C A

i. - Il principio del lasciar fare riposa, come è noto, sul presupposto formulato dagli economisti classici a cominciare da Adamo Smith, e basato i°) sull'armonia tra interessi individuali e interessi pubblico-statali; 2°) sull'affermazione che, per l'azione di leggi naturali gli individui, perseguendo il loro tornaconto in un regime di libertà, raggiungono l'interesse generale. Quindi l'armonia riposa sullo sforzo posto in essere dagli individui per realizzare il loro particolare interesse.

Questa concezione venne poi ad associarsi con un'altra teoria, sempre sulla linea dell'individuali-smo: cioè la teoria «utilitarista» del Bentham, (i), con la quale si viene a gettare un ponte logico tra filosofia individualistica ed economia : ogni individuo proponendosi di raggiungere il massimo di utilità propria f a si che raggiunga anche quello che il Ben-tham chiama « the greatest happiness of the grea-

( I ) B E N T H A M : A Marinai of Politicai Economy. (Scritto nel 1793, pubblicato poi nel 1843 da Browring).

test number » : il massimo benessere collettivo. Il lasciar fare venne diffuso come la conclusione pra-tica dell'economia ortodossa dalla scuola manche-steriana, dagli « utilitari » di Bentham, da tutti i loro seguaci di primo e di secondo piano, fino alle storie educative di Martineau e della Marcet.

Il periodo compreso tra il 1750 e il 1870, durante il quale il pensiero del Bentham influenzò diretta-mente quello di James Mill e di Ricardo, sino a John Stuart Mill (2) la cui dottrina segnò l'apogeo dell'individualismo economico (1848-1870), sembra confermare tale concezione, perchè tutto il progresso economico, culturale, politico compiuto in questo secolo fu opera della iniziativa individuale, della « free competition ». Cosicché sembrava che non dovesse più essere posto dubbio su questa formula che era stata proclamata per la prima volta nel 1751 dal D'Argenson : « laisser aller, laisser faire » e « pour mieux gouverner il faudrait ne pas gouverner ».

Entro questa atmosfera ideologica trionfante, che va dalla Rivoluzione Francese alla guerra mondiale, si è attuata la prima esperienza storica piena e tota-litaria della vita di una grande società sulla base del principio individualistico. In questo periodo si formò e si evolse il capitalismo moderno. L'individualismo economico divenne la spina dorsale dell'organizza-zione capitalistica. Sono due termini associati stret-tamente, tanto nella fortuna del sistema, quanto nella sua decadenza. Studiare l'evoluzione dell'uno vuol dire, quindi, penetrare nell'essenza dell'altro.

L'individualismo nacque come reazione all'orga-

(2) H A L É V Y : L'evolulion de la doctrine utilitaire. (Paris, pag. 219).

nizzazione corporativa della società, ai privilegi accor-dati alle corporazioni professionali, ai controlli dello Stato, e si basava anzitutto sul raggiungimento della eguaglianza, della libertà, e del ristabilimento del-l'ordine naturale delle cose, il quale era concepito come una mistica che avrebbe dovuto governare la società secondo le stesse leggi che governano il mondo fisico.

In effetti, i fautori dell'individualismo sostene-vano che in un mondo dove i rapporti economici fossero assolutamente liberi, ove ciascuno potesse dedicarsi ad una professione di sua scelta e cambiarla al bisogno, ove nulla impedisse la formazione dei più svariati contratti, basati sulla piena eguaglianza delle parti, la ricchezza si ripartirebbe, al di fuori di ogni intervento e fuorviamento, secondo una giustizia perfetta.

Così si disegna nettamente l'idea centrale del liberalismo: sostituire un sistema automatico al siste-ma vincolato dell'epoca corporativa: abbandonare l'arte economica per la scienza economica, cessare di governare gli uomini, per dar modo alle cose di ordi-narsi meccanicamente. Un tal sistema avrebbe dovuto assicurare all'economia una elasticità perfetta. Una industria falliva? Un'altra rinasceva che avrebbe compensato i danni creati. Gli operai non trovavano più lavoro? Essi avrebbero cambiato impiego come i capitali, quando non sarebbero più stati compensati da impieghi rimunerativi.

Infatti, libera da ogni legame giuridico, animata dal dinamismo propulsore del più sfrenato indivi-dualismo, l'economia mondiale conobbe dai primordi del secolo scorso fino alla grande guerra, un'espan-sione prodigiosa.

Il liberalismo non aveva, comunque, niente inven-tato. Il mondo conobbe prima di lui la macchina, la manifattura, la società per azioni, la borsa e le grandi banche. Ma tutto questo era contenuto, limitato, regolamentato, umanizzato, da regole di ispirazione morale. La sola originalità del sistema nuovo consi-steva in un'altra maniera di servirsi delle forze eco-nomiche. Un solo motto, una sola parola d'ordine regnava: produrre di più per guadagnare di più.

Tutte le forme di attività umana, dalla più mate-riale alla più evoluta, hanno concorso a questo scopo.

Così, beneficiando della libertà del lavoro che per-metteva di abbracciare la professione di propria scelta senza dover fare una preventiva prova della sua moralità e della sua competenza, il produttore ha potuto per più di un secolo fabbricare quanto e quan-do ha voluto, non sufficientemente imbrigliato dal freno automatico della concorrenza.

All'inizio del sistema la libertà è totale, senza obbligazioni, nè sanzioni. Producendo come vuole e ciò che vuole, il produttore ricerca soltanto di accre-scere la sua ricchezza.

Per raggiungere questo scopo egli moltiplica il rendimento del lavoro introducendo su vasta scala la macchina: poi moltiplica il rendimento del capitale, volgarizzando le società anonime e accrescendo la potenza delle banche; infine, egli moltiplica il rendi-mento della natura, ricercando sempre nuove sor-genti di energia.

Ma abbandonandosi in seguito a tutte le conqui-ste dell'organizzazione capitalistica, il produttore diventa lo schiavo dei meccanismi economici da lui

stesso creati e di cui non saprà nè arrestare lo svilup-po, nè fermare il declino.

Questa è la crisi del capitalismo.

2. - L'organizzazione economica individualista fondava dunque la sua forza su due blocchi: prin-cipi ideologici da un lato, e realizzazioni materiali dall'altro.

Sul piano ideologico, un sistema completo di idee, di leggi, di credenze ispirate alla libertà assoluta e primitiva della proprietà, sganciata da ogni obbliga-zione giuridica, o da sanzioni sociali.

Sul piano materiale, l'efficienza e la possibilità di questa proprietà totale erano state elevate al mas-simo, perchè il lavoro e il capitale beneficiavano, gra-zie alle macchine, alle miniere, alle nuove sorgenti di energie produttive, di una moltiplicazione enorme di rendimento.

Si comprende come una civiltà dotata di una tale forza espansiva e penetrativa dovesse trovare ben pre-sto angusti i limiti politici dei differenti Stati.

La dottrina classica, per rimuovere questi incon-venienti, creò la teoria della divisione internazionale del lavoro.

Sarebbe stato sufficiente, cioè, aprire le frontiere per assistere al moltiplicarsi degli scambi internazio-nali, ed allo stabilimento, tra paesi industriali e agri-coli, di un equilibrio economico perfetto, al quale ciascuno avrebbe contribuito limitandosi a produrre ciò che era il più adatto a fornire a tutto il resto del mondo.

I risultati di questo sistema non potevano, in quell'epoca, che essere eccellenti. L'Europa attraversò

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2 - B A T T I S T A : Premessa all'economia nuova.

un periodo di formidabile espansione economica, si consolidarono i grandi imperi coloniali, e il capitali-smo si affermò come il sovrano dei sistemi di orga-nizzazione economica.

Tuttavia, un'ombra sembrò dovesse proiettarsi su tale sviluppo. Con la nascente potenza degli Stati Uniti infatti, una delle più ricche parti del mondo, usciva dal cerchio di influenza dell'Europa. Gli Stati Uniti divennero autonomi e la loro potenza si accrebbe con un ritmo accelerato. La loro produzione si affermò tra le principali del mondo.

Sorse così il nuovo astro mondiale, da cui doveva partire la prima scintilla della grande crisi.

Volendo analizzare il liberismo economico in regime liberale, M. Noyelle ha trovato questa for-mula lapidaria: «L'interesse individuale per base, la concorrenza come mezzo, la libertà come condizione, la responsabilità come sanzione » (3). Dopo più di un secolo che cosa resta di valido di ciascuno di que-sti elementi essenziali del sistema?

L'individualismo è ora limitato all'artigianato, ad alcuni settori rurali, al piccolo commercio. (Da nota-re che, specialmente per quest'ultimo, le forme asso-ciative hanno avuto un grande sviluppo in questi ultimi decenni particolarmente in Svizzera, Germa-nia, Stati Uniti d'America, e recentemente anche in Italia, ecc.) (4).

( 3 ) S A I N T - G E R M A I N : Puissance et déclin du capitalisme. (Paris,

*936 . P ag- 248)-

( 4 ) B A T T I S T A : li problema degli acquisti collettivi, in «Com-mercio », febbraio-marzo 1938-XVl e ottobre 1929-XVIII.

Accanto a questi settori particellari, si è edificata una potente economia organizzata, sottomessa al controllo delle banche e delle coalizioni d'imprese.

La concorrenza, in un grandissimo numero di casi, ha distrutto la concorrenza. In altri (5), si arrivò alla cosidetta « concorrenza imperfetta », come si sarebbe potuto dire di « libertà imperfetta » (6). Senza dubbio anche all'apogeo del capitalismo, l'ideale della libertà e dell'individualismo non è stato mai libera-mente realizzato (7) nè all'esterno dove il lasciar fare è stato da tempo attenuato più o meno forte-mente dalla protezione, nè all'interno dove la poli-tica monetaria fiscale e sociale dello Stato ha da tempo impedito la disponibilità assolutamente libera dei prodotti dello scambio e degli strumenti della produzione. L'individualismo è stato sempre tempe-rato dalle concezioni collettive del sindacalismo e de-gli aggregati economici nel settore privato, dal prote-zionismo commerciale, dalle imprese di Stato e dalla percezione di certe imposte nel settore pubblico. Di qui il risultato che il capitalismo è inconcepibile senza un minimo di intervento.

La libertà economica « imperfetta » diventò sempre più parziale per effetto delle reazioni nazio-nali e politiche contro il sistema della libertà, là dove essa non si poteva accordare con la necessità di poten-

(5) A L B E R T I : La realtà economica. Como 1 9 3 8 - X V I I pag. 75). ( 6 ) R O B I N S O N : The economic of imperfect competition (London

' 9 3 4 ) ; S E C R I S T : The Triumph of mediocrity in business (North-western University, 1933); K N I G H T : The ethics of competition (New York, 1935); B R O O C K S : The economics of human happiness (London • 9 3 3 ) ; S E L L A : La concorrenza (Torino 1915).

(7) L A U F E N B U R C E R : L'intervention de l'Etat (Paris 1939).

ziare le attività delle categorie economiche in con-trasto tanto tra loro quanto con quelle estere, attra-verso le varie forme del protezionismo e dell'inter-venzionismo dello Stato. Per superare tale contrasto interno ed esterno, i produttori che una volta erano guidati dallo spirito avventuroso della lotta perma-nente, dal gusto della costruzione pericolosa, hanno ceduto di fronte alle necessità di una maggiore eli-minazione del rischio individuale, aderendo alle coa-lizioni che tendono ad assicurare loro il dominio dei mercati e dei prezzi. Infatti il sistema della « li-bera concorrenza » aveva condotto alla soppressione, in misura sensibile, della libertà economica dei sin-goli ed alla necessità per essi di aggrupparsi in coa-lizioni con la conseguente e correlativa rinuncia ad una parte cospicua della propria autonomia di mo-vimenti.

Il campo in cui si poteva esercitare la piena liber-tà economica si è notevolmente ristretto. Il sindaca-lismo operaio e la pratica dei contratti collettivi hanno esclusa l'efficacia delle contrattazioni indivi-duali di lavoro; il produttivismo quella della produ-zione; i mezzi organizzati di offerta e di domanda delle merci quella dei prezzi; la standardizzazione dei prodotti quella del consumo; infine, lo statalismo quella dei contratti.

L a responsabilità personale è scomparsa con l'indi-vidualismo: ovunque, essa ha ceduto il posto alla concentrazione, mentre la direzione degli affari è stata disgiunta dalla responsabilità reale. Banche, società anonime, imprese a grande rendimento sono dirette da gerenti di capitali, costantemente inter-cambiabili, ed il depositante, l'azionista, l'obbliga-

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zionista, subiscono l'imperio, e si astengono in silenzio.

Accanto al crollo degli strumenti di azione del sistema economico liberale, anche le leggi che ne sorreggono la concezione ideologica, sono superate.

La legge dell'offerta e della domanda ha cessato di giocare liberamente da quando: l'offerta è orga-nizzata da un monopolio di fatto, la domanda è fal-sata dalle continue variazioni del potere di acquisto, lo Stato interviene sui prezzi, la speculazione non ha più esercitato il suo ruolo regolatore e da quando, infine, la moneta è stata manovrata.

L'automatismo non è dunque più possibile; il sistema economico ha perduto tutta la elasticità da quando: i capitali male investiti hanno cessato di poter passare ad un altro ordine di attività, i disoc-cupati non hanno potuto trovare un impiego, gli stabilimenti chiusi non hanno potuto sperare di ria-prirsi, trasformando il loro genere di produzione.

In definitiva, del sistema perfettamente ordinato che l'economia liberale proponeva al mondo, oggi non c'è un solo pilastro suscettibile di rimanere in piedi: fallimento del sistema di scambi basato sulla libertà, ipertrofia della circolazione, superamento della divisione internazionale del lavoro.

3. - Non si costruisce niente di duraturo contro l'uomo, contro la società, contro la nazione (8). Lo sbaglio di aver misconosciuta questa verità di buon

( 8 ) S A I N T - G E R M A I N : O p . c i t . , p a g . 2 5 1 .

senso, ha portato il liberismo verso la sua con-danna.

Volendo costruire un universo perfettamente coordinato, ove niente avrebbe dovuto ostacolare il gioco automatico delle cose, e ove le leggi naturali avrebbero retto tutte le attività e dove i prezzi si sarebbero adattati in ogni cambiamento del rapporto tra produzione e consumo, si è completamente per-duto di vista l'uomo. L'uomo non è affatto disposto a fare l'autòma, e lasciarsi trasportare dalle forze naturali (9). Il suo interesse non è sufficiente a man-tenerlo in perpetua concorrenza: al contrario, la sua volontà di potenza, lo poita a voler prevedere, pre-disporre, dirigere gli avvenimenti. Cose incompati-bili con le leggi dell'economia liberale.

Per quanto riguarda la Società, essa non ha senso che in funzione dello Stato, come la esistenza dello Stato è in funzione del suo diritto d'intervenire nella Società. L'idea liberale di uno Stato che si astiene di intervenire nell'esistenza dei gruppi, presuppone che questi gruppi agiscano in regime assolutamente ed immutabilmente individuale.

L'individualismo « puro » ha cessato di vivere dal giorno in cui la prima società anonima si è fondata

(9) K E Y N E S : La fine del lasciar fare (Nuova collana degli Eco-nomisti, Torino, voi. Il i , pag. 326). « Non è vero che gli individui posseggano una libertà naturale imposta dalle loro attività econo-miche. Non vi è alcun patto o contratto che conferisca diritti per-petui a coloro che posseggono o a coloro che acquistano. Il mondo non è governato dall'alto in modo che gli interessi privati e sociali coincidano sempre. Esso non è condotto quaggiù in modo che in pratica essi coincidono. Non è deduzione corretta dai principi di economia che l'interesse egoistico illimitato operi sempre nell'interese pubblico ».

o le prime imprese si sono concentrate. Tutti i me-todi collettivi di produzione conferiscono un carat-tere sociale alla proprietà, e necessitano di un con-trollo. Anche in questo caso il liberalismo urtò contro il muro della realtà economica.

Infine, col rifiorire e l'affermarsi del nazionali-smo politico ed economico, come le nazioni si sareb-bero potute adattare a un sistema che negava la loro esistenza? Era necessario scegliere tra il liberalismo o la nazione stessa. Se il liberalismo trionfava biso-gnava accettare, con la divisione internazionale del lavoro, di perdere ogni indipendenza economica, di essere alla mercè di una guerra o di un blocco.

Spogliato così da ogni apparenza realistica, il libe-ralismo si mostra sotto la sua verità: quella di un sistema il più rigido, il più totalitario, il più artificiale che lo spirito umano abbia conosciuto. Nella stessa misura in cui esso misconosceva l'uomo, lo Stato e la nazione, si associava alla più potente delle dit-tature : quella delle coalizioni capitalistiche. E per realizzare la piena « libertà » del sistema sarebbe stato necessario un intervento continuativo teso a mantenere la concorrenza obbligatoria tra gli indi-vidui, proibire la concentrazione, prescrivere il mec-canismo, regolare la produzione affinchè i prezzi fossero liberi. Essere presente ovunque : nelle banche, nelle officine, nelle borse; distruggere le intese, impe-dire alle società anonime di formarsi, distruggere il credito.

Inoltre, necessitava l'abolizione delle frontiere, la pace interna tra i popoli e il mantenimento utopistico di un internazionalismo intransigente.

Tra il liberismo economico e la libertà d'asso-ciazione la contraddizione era dunque assoluta ed

irriducibile. L'ordine naturale delle cose non poteva esistere che con la dittatura autarchica indefinita su-gli uomini.

E ' riconoscendo questa ultima impossibile, che la libertà economica è stata esclusa dalla scena del mondo.

A questo punto del distacco, sulla medesima scena del mondo, riappare un fattore non nuovo, ma nuo-vamente concepito nella sua funzione come supremo regolatore della libertà economica intesa in un senso ben diverso da quello liberale: lo Stato.

GAP. II

L ' I N T E R V E N T O D E L L O S T A T O N E L L A E V O L U Z I O N E D E L L E D O T T R I N E

E C O N O M I C H E

i. - Come abbiamo già visto, la formula del la-sciar fare adottata al servizio della filosofia utilitaria è quella del Bentham. Nei confronti dell'intervento dello Stato nell'economia, la sua posizione negativa è netta. Infatti, nel citato saggio A Manual of poli-ticai economy egli scrisse: « La regola generale è che niente dovrebbe essere fatto o tentato dal governo; il motto o la parola richiesta che l'agricoltura, l'in-dustria, il commercio presentano ai governi è mo-desta e ragionevole come quella che Diogene fece ad Alessandro " Togliti dal sole " , per affermare più oltre che l'interferenza dello Stato è, nello stesso tempo « generalmente inutile » e « generalmente dannosa ».

La necessità dell'intervento dello Stato in alcuni settori dell'economia era, però, ammessa, come è noto, anche da Adamo Smith, per il quale « secondo il sistema di libertà naturale, il sovrano ha soltanto tre doveri da compiere... » e cioè: i) dovere di man-tenere lo Stato indipendente, proteggendolo dalle violenze e dalle invasioni (spesa per la difesa): 2) do-

vere di proteggere, fino al limite del possibile, ogni membro della società dalla ingiustizia od oppres-sione di ogni altro membro (spesa di giustizia); 3) dovere di creare e di mantenere certe opere pub-bliche e certe istituzioni che non possono essere gestite dai privati (spese per opere pubbliche).

J . B. Say definisce l'economia come la scienza che studia soltanto l'aspetto economico dei fenomeni sociali; pur tuttavia egli è costretto ad ammettere la presenza dello Stato e la sua ingerenza nei mezzi collettivi, anche se riafferma il distacco assoluto tra economia e politica.

La posizione di Ricardo è invece più estremista. Se la produzione è lungi dal convenire alle esigenze del mercato, ciò si deve alla legislazione dello Stato; lo Stato è quindi per lui sempre un elemento per-turbatore della vita economica. Dunoyer assegna allo Stato la funzione del mantenimento del ri-spetto dell'ordine e delle leggi. John Stuart Mill, in sostanza, segue la dottrina di Adamo Smith pur perfezionandola e determinandola, sostenendo che lo Stato deve occuparsi della sicurezza, della giu-stizia, della istruzione. Tutto il resto deve essere lasciato all'individuo, perchè l'individuo lo fa meglio dello Stato. Tuttavia vi sono delle eccezioni a questi principi, fra le più importanti delle quali lo Stuart Mill pone tutto quello che può essere materia di società anonime, giacché questo può essere fatto altrettanto bene dallo Stato a causa, egli suppone, della mancanza di responsabilità delle anonime. Le altre eccezioni sono poi per la legislazione sociale, per gli atti relativi alla pubblica carità, per quelli la cui portata si estende nel tempo così da trascendere i fini della vita individuale (ad esempio la coloniz-

zazione, le esplorazioni geografiche, ecc.). E, in via generale, andrebbero assegnate allo Stato tutte quelle opere che devono essere realizzate per il bene della collettività o delle generazioni future, ma che non potrebbero essere adeguatamente compiute dagli indi-vidui o dai gruppi.

Dopo il ventennio in cui la dottrina di Stuart Mill raggiunse il suo apogeo, cioè a dire dopo il 1870, economisti autorevoli hanno reagito fortemente con-tro questa corrente.

Cairnes fu il primo economista che si schierò con-tro il lasciar fare. In una conferenza detta all'Uni-versity College di Londra, nel 1870, dichiarò che « la massima del lasciar fare non ha alcuna base scienti-fica, ma tutt'al più una semplice e comoda regola pratica ».

Tale affermazione è stata per gli ultimi cinquan-tanni l'opinione di tutti i più importanti economisti. Con la scuola marshalliana o neoclassica si verifica un ancora più netto cambiamento di atmosfera : Marshall dedicò gran parte della sua opera a dimo-strare che in molti casi interesse individuale e inte-resse collettivo non armonizzano. Come giustamente osservò il compianto e indimenticabile nostro Mae-stro Filippo Carli, in quella efficace sintesi dell'evolu-zione del pensiero economico compiuta nei primi ca-pitoli della sua ultima opera (10), Marshall vide due

( 1 0 ) C A R L I : Le basi storiche e dottrinali della economia corpo-rativa (Padova, 1938-XVI).

Di quest'opera, che tanto ci ha giovato per la trattazione di questo capitolo, sottolineamo, ai fini della bontà della tesi che qui sosteniamo, la parte nella quale Carli dimostra, sulla scorta di una logica concatenazione della storia dei fatti e delle dottrine, come

cose molto importanti per la comprensione della realtà economica : la prima è che il gruppo sociale non è una semplice somma degli individui che lo compongono; e la seconda, che le istituzioni sociali hanno una grande parte nelle vicende economiche individuali. Ma egli era troppo imbevuto di elementi classici per procedere molto oltre su questa linea.

Infatti, rileva il Keynes (i i), l'atteggiamento cauto e privo di dogmi dei migliori economisti non è pre-valso contro l'opinione generale che un lasciar fare individualistico sia tanto quello che essi dovrebbero insegnare, quanto quello che in realtà essi insegnano.

Keynes, e l'altro discepolo di Marshall, Pigou, andarono più lontano del Maestro.

Pigou nell'« Economia del benessere » pubblicata nel 1912 e ristampata nel '20 esamina con attenzione e dettaglio i casi in cui l'azione dell'individuo è meno redditizia dal punto di vista di quello che egli chiama il dividendo sociale (in definitiva il reddito nazionale) dell'azione dello Stato. Egli esamina poi la posizione di John Bates Clark nei riguardi della concezione monopolistica.

Nella sua « Filosofia della ricchezza », Clark ha scritto che « la concorrenza individuale, grande rego-latrice dell'età passata, era in molti importanti set-tori praticamente scomparsa; essa doveva scomparire poiché era attualmente incapace di operare sulla vita economica ».

sia in atto la definitiva fine del « lasciar fare », al quale si è sosti-tuito l'interventismo statale, non come fatto empirico, ma bensì come elemento continuativamente determinante dell'equilibrio eco-nomico.

( 1 1) Op. cit.

In seguito il Clark giunge alla necessità di una azione di Stato, che però è necessaria solo per far vivere il regime di libera concorrenza in quanto esso non riesce a mantenersi liberamente. In sostanza, quella che dovrebbe essere una forma inestinguibile della concorrenza, molto spesso si estingue come avviene in America coi trusts; in tal caso lo Stato deve fare ciò che la concorrenza farebbe. Lo Stato non deve però fare agire schemi nuovi, ma solo for-zare la vita economica alla libertà, mantenere vive le forze in cui gli aderenti del lasciar fare ripo-sano la loro speranza di giustizia e di prosperità. Clark sostiene inoltre che lo Stato dovrebbe fissare anche i salari, i prezzi, ecc. il più vicino che sia pos-sibile al livello della concorrenza.

Un altro aspetto dello sviluppo del pensiero economico verso una nuova posizione ideale degli economisti rispetto all'attività dello Stato nell'ordine economico, rileva il Carli, è quello in dipendenza della teoria della crisi. Si vide, cioè, la possibilità di giustificare logicamente l'intervento dello Stato in vista degli errori dell'individuo, errori che possono spiegare la crisi. Allora lo Stato venne concepito come un correttivo degli errori individuali e — quando gli errori sono stati commessi o hanno portato a deter-minate conseguenze — come un fattore che deve cercare di eliminare le conseguenze degli errori, sia assumendosi l'opera dei salvataggi, sia assumendo il rischio delle imprese sbagliate.

Dopo Pareto — che ha fondato la teoria della elisi in modo prevalente sull'errore -— è il Pigou che la riprende, avvalorandola con la sua autorità, e facendola seguire così da molti altri. In tal modo fu possibile innestare una teoria dell'intervento sta-

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tale sopra una concezione della crisi basata sull'ele-mento errore.

Allo Stato sarebbe riservata dunque una grande funzione economica; e Pigou per quanto consideri la libertà come la regola e l'intervento come l'ecce-zione afferma che « è evidente che, ammessa la pe-riodicità delle fluttuazioni, lo Stato acquista una fun-zione centrale nella realizzazione dell' equilibrio eco-nomico. Qui non si tratta più di una estensione della zona d'intervento dello Stato, ma di una funzione sostanziale di controllo, che lo Stato viene ad acqui-stare nel dinamismo economico ».

L'altro discepolo di Marshall, il Keynes, nel 1926 si dichiarava favorevole ad una forma di organizza-zione economica, media tra individuo e Stato. « Io propongo — scriveva — un ritorno alla concezione medioevale di economie separate. In ogni caso le Corporazioni sono un modo di governo che non ha mai cessato di essere impiegato ed è armonico con le nostre istituzioni » (12).

Due importanti economisti, discepoli di Marshall, richiedono dunque l'intervento dello Stato non più in termini empirici, come Smith, ma secondo una teoria organica.

2. - Accanto alla evoluzione delle dottrine econo-miche classiche le quali sono costrette a fare inter-venire lo Stato nel quadro delle forze economiche in qualche settore o in qualche momento della trat-tazione, non dobbiamo dimenticare il contributo dato

(12) Op. cit.

allo studio del problema dell'interventismo dalle dot-trine eterocritiche, cioè da quelle dottrine che hanno costruito una critica dall'esterno della dottrina clas-sica formulata in Germania e in Francia e de-fluita poi in Inghilterra. Vogliamo riferirci cioè in Germania, al movimento romantico con a capo Adamo Miiller, alla dottrina dell'economia nazio-nale di Listz, alla scuola storica, e poi alla nuova scuola storica, al socialismo di Stato o socialismo della cattedra, al socialismo collettivistico, al movi-mento cristiano-sociale. In Francia il movimento ete-rocritico ha fatto capo dapprima ai riformatori come Saint Simon e Fourier e agli indipendenti come Si-smondi: poi troviamo la corrente socialistica, il movi-mento cattolico-sociale, il protestantesimo sociale, ecc..

Queste correnti di pensiero hanno importanza non solo per se stesse, ma anche per il loro influsso sullo stesso pensiero tradizionale e quindi sulla for-mazione delle correnti autocritiche. La loro influenza si è esercitata specialmente nei seguenti modi:

1) con la critica della premessa individualistica dell'economia, con la critica cioè àz\\'homo oecono-micus (Miiller, Listz, Roscher, Flildebrand, Kneis);

2) col dimostrare l'errore del postulato dell'eco-nomia classica della coincidenza degli interessi indi-viduali con l'interesse generale (Sismondi, Dupont-White, Schmòller, Brentano);

3) coll'imporre delle riforme sociali (nella legi-slazione fiscale, ecc.) il che ha indotto gli economisti ortodossi a ricercare il fondamento razionale di tali riforme e ad inserire sistematicamente l'azione dello Stato nei loro sistemi teorici : con il che si dava in sostanza un colpo all'atteggiamento classico dell'im-possibilità della scienza economica a considerare lo

Stato nel quadro dell'economia pura (Schmòller, Sismondi, Rodbertus, Wagner).

Le teorie classiche furono costrette a rivedere le loro posizioni e le loro premesse, tanto dalla realtà economica, quanto da queste critiche mosse da parte delle correnti di pensiero che stavano fuori dal campo, tradizionale.

Tale revisione si effettuò specialmente nel decen-nio 1870-1880, che può considerarsi come un periodo di crisi del pensiero economico, in cui si scontrano le più opposte correnti di pensiero e in parte si fon-dono, in parte si modificano reciprocamente. E da Cairnes a Schmòller, a Wagner, fino a Marshall, l'economia politica subisce quel processo di autore-visione e di trasformazione che doveva produrre tutti i movimenti, sviluppatisi nei decenni successivi, influendo sugli ultimi atteggiamenti degli economisti appartenenti alla scuola neo-classica nei riguardi della necessità dell'intervento statale nell'ordine economico.

Pigou, in una conferenza tenuta all'Università di Londra nel 1934, e pubblicata nel 1935, riprese l'argomento dell'azione dello Stato rispetto alla teoria classica del lasciar fare, assumendo come punto di partenza la possibilità di una divergenza tra inte-ressi individuali e interessi generali, affermando che gli economisti classici non hanno mai dato valore assoluto a questa identità. Inoltre egli rilevò che esi-stono casi in cui c'è una dispersione di energia econo-mica in dipendenza dell'azione individuale e ciò rende legittimo l'intervento dello Stato. Quindi in sostanza egli ammette un tipo di intervento statale soltanto occasionale (sebbene in maniera molto larga), ma non fa rientrare l'azione dello Stato nella teoria dell'equilibrio economico. Ed è proprio da questo

punto di vista che la posizione assunta dall'altro discepolo di Marshall, il Keynes, si presenta interes-santissima per la nostra trattazione; perchè nel suo libro (13) pubblicato nel 1936, si pone senz'altro contro la teoria classica. Anzi, si può parlare addirit-tura di una conversione del Keynes, se si tiene conto che fino al 1936 era considerato un seguace della teoria classica. Nella citata opera il Keynes ha dimo-strato quali siano i nuovi termini che devono essere introdotti nella equazione dell'equilibrio economico: essi si identificano nella parola Stato. Infatti, poiché col solo automatismo delle forze individuali né il saggio dei salari né quello dell'interesse possono mai raggiungere il livello di equilibrio, e poiché soltanto l'azione dello Stato può far sì che si raggiunga tale livello, è evidente che lo Stato non esercita più una azione di carattere empirico, bensì necessaria e logica, sull'equilibrio economico, e che quindi esso rientra per ragioni di necessità nel quadro dell' economia pura.

E ' la dottrina classica dunque, che, nello sviluppo storico, giunge a poco a poco, alla propria nega-zione, ammettendo anche in sede dottrinaria quel-l'intervento statale sempre respinto, o quanto meno accettato come « arte », quindi come fatto empirico e contingente.

(13) K E Y N E S : The general theory of employment interest and money (London 1936).

— 33 —

3 - B A T T I S T A : Premessa all'economia nuova.

CAP. ILI

R A G I O N I E F O R M E D E L L ' I N T E R V E N T O D E L L O S T A T O

i. - Secondo la dimostrazione che Saitzew ha dato nel suo contributo alle « Melanges Fleiner » (14), il termine interventismo comprende tutta una serie di espressioni quali: economia diretta, controllata, organizzata; capitalismo regolato o pianificato, neo-capitalismo, neo-mercantilismo, riformismo sociale, comunismo, corporativismo, ecc.. In sostanza due principali concezioni dominarono la evoluzione eco-nomica del dopoguerra ed informarono le principali manifestazioni dell'interventismo (15). Da una parte, negli Stati autocratici sopratutto, la potenza dello Stato supera tutte le altre considerazioni e pone al suo servizio l'organizzazione economica e sociale per cui quella si allontana volontariamente dai principi classici del minimo sforzo e del miglior rendimento. L'interventismo acquista così un aspetto essenzial-mente politico.

(14) S A I T Z E W : ìnterventiunismus. Festgabe fiir Fritz Fleiner (Zu-rigo >937)-

( 1 5 ) L A U F E N B U R G E R : O p . c i t .

D'altra parte, i paesi democratici, sopratutto per soddisfare un preteso o malinteso debito di ricono-scenza verso quelli che hanno principalmente sop-portato i pesi della guerra, aspirano all'accrescimento del benessere, sia degli individui, sia dei gruppi o delle classi di individui (operai, rurali, ecc.).

L'interventismo è, in tal caso, nettamente sociale; e nella misura in cui tale interventismo rispetta la proprietà privata, appare come una attenuazione più o meno accentuata del capitalismo. Se al contrario la tendenza all'aumento del livello di vita delle masse s'accompagna alla unificazione degli strumenti di produzione, l'interventismo sociale si avvicina più o meno al socialismo: in entrambi i casi è specifica-mente materialista.

Il socialismo integrale non ha di molto superato lo stadio iniziale, sopratutto se noi lo riguardiamo nella sua forma più avanzata, quella del comunismo. Questo tende a mettere in comune non solamente gli strumenti di produzione, ma anche i beni di con-sumo da distribuirsi secondo il criterio e i bisogni. L 'U. R. S. S. non è riuscita ad abolire l'economia di scambio, ha conservato il salario variabile secondo 10 sforzo, e, malgrado l'uguaglianza puramente teo-rica dei bisogni, una ineguaglianza delle pretese dei salariati sul mercato. Nell'agricoltura russa solamente 11 ritorno al comunismo del consumo si è iniziato; il che comporta tuttavia numerose eccezioni.

E ' questa la forma attuale del socialismo realiz-zata nella Russia sovietica. Il collettivismo che man-tiene la libera disposizione dei beni per il consumo, si limita a socializzare gli strumenti di produzione (o capitali di produzione) come la terra, le miniere, le ferrovie, l'energia e la distribuzione elettrica, l'in-

dustria trasformatrice, gli stabilimenti di credito e di assicurazione, ecc. L 'U. R. S. S. ha applicato que-sto programma quasi integralmente nel demanio minerario, industriale e bancario, ma essa non ha raggiunto la fase terminale del collettivismo inte-grale. Da una parte, in sostanza l'appropriazione degli strumenti di produzione non è stata ancora effettuata a profitto della collettività, ma dello Stato del quale i sovieti non pensano di sbarazzarsi come vorrebbe la dottrina socialista: al contrario le sue attribuzioni e la sua potenza s'accrescono a mano a mano che avanza il regime.

2. - Il mercantilismo, in quanto a interventismo politico, è ad un tempo vecchio e nuovo. In pre-senza di una situazione profondamente turbata e minacciosa, la legge suprema è la potenza dello Stato, atta a creare l'ordine o a ristabilirlo.

Sotto questo punto di vista siamo d'accordo col Gonnard quando dice che : « con il mercantilismo noi poniamo mano ad una dottrina già stranamente prossima e vicina a quelle, o almeno ad alcune di quelle del nostro tempo » ( 16). Si tratta di un pas-sato che la prosperità economica ed il pacifismo relativo del xix secolo ci fanno considerare come

( 1 6 ) G O N N A R D : Histoire des doctrines économiques (Paris, 1 9 2 8 ) .

La più acuta e completa trattazione dei principali sistemi economici dell'epoca moderna trovasi nella serie degli scritti di Jacopo Mazzei ed in particolare nel suo Schema di una storia della politica eco-nomica internazionale nel pensiero dei secoli XVII, XVIII e XIX (Torino, 1 9 3 6 - X I V ) , e nella sua Politica doganale differenziale e clau-sola della Nazione più favorita (Firenze, 1 9 3 0 - V I I I ) . C F R . anche C I O L I :

Orientamenti e sviluppi della politica economica attraverso il tempo,

caduto in prescrizione; così come la dottrina di questo è stata misconosciuta dagli storici tanto

quanto le tendenze « totalitarie » contemporanee incontrano il dissenso di certi autori moderni evi-dentemente non « centrati » con i tempi correnti.

A partire dal xiv e dal xv secolo la preoccupa-zione principale dell'Europa Occidentale fu quella di consolidare i territori acquisiti, conquistarne dei nuovi, unificare l'insieme di uno Stato territoriale nazionale, eliminare le resistenze particolaristiche principalmente feudali ecclesiastiche e cittadine, ostili all'unificazione (17). Per realizzare questo obbiettivo politico, la ricchezza economica come fattore della potenza dello Stato si porta in primo piano.

Il mercantilismo così inteso, che regnò sotto forme e con aspetti differenti in Spagna, in Italia, in Francia, in Olanda e in Inghilterra, è un inter-ventismo che non ha niente a che vedere con il socialismo, poiché si richiama all'iniziativa privata per realizzare il programma economico dello Stato. Col mercantilismo, l'economia è per la prima volta orientata verso la realizzazione di un obbiettivo poli-tico di produttività al quale è sacrificata a seconda dei casi la preoccupazione della formazione della rendita, per quel tanto che questi termini hanno già una ragione d'essere prima dell'avvento del sistema capitalistico. Notiamo d'altra parte l'esclusivismo del

con un'introduzione di Corrado Gini (Roma, 1 9 3 3 - X I ) ; F A N F A N I : Sto-ria delle dottrine economiche (Como, 1 9 3 8 - X V I ) ; E U L E N B U R G : Aussei handel und Aussenhandelspolitik (Tübingen, 1 9 2 9 ) ; P H I L I I - P O V I C H :

Die Entwicklung der wirtschaftspolitischen Ideen im XIX Iahrliun- dert ( 1 9 1 0 ) .

( 1 7 ) B A T T I S T A : Lezioni di politica economica e finanziaria (Guf Catania, 1939-XVII).

periodo

mercantilismo vecchio, che gli conferisce verso l'esterno un carattere aggressivo e guerriero: il gua-dagno dell'uno non può realizzarsi che con la per-dita dell'altro, idea che non può concepirsi senza pensare alla lotta per i metalli preziosi.

Il neo-mercantilismo è divenuto nel periodo con-temporaneo uno degli strumenti più salienti della ricostruzione economica del dopo-guerra (18). Non è dunque sorprendente il vederlo raccomandato e pra-ticato nei paesi che hanno perduto la guerra ed in quelli che. pur essendo vincitori, stimano di non aver tratto abbastanza profitto dalla vittoria. In vari paesi la produzione agricola e industriale, il commercio interno ed esterno, la formazione delle rendite ed il loro impiego sono subordinate all'interesse generale ed alla potenza dello Stato, il cui obbiettivo è l'espan-sione politica ed economica. Il neo-mercantilismo ri-posa essenzialmente sul « help yourself », sulla rea-lizzazione degli obbiettivi tracciati per i propri mezzi. Non commetteremo però l'errore di confondere mer-cantilismo con autarchia, come cercheremo di dimo-strare più avanti.

3. - Un tal cambiamento profondo nella struttura economica mondiale, ha provocato tutta una serie di perturbazioni ciascuna delle quali sarebbe stata sufficiente, in altri tempi, per gettare i popoli nello sbalordimento. Ma il succedersi di queste crisi è stato così rapido, e le loro ampiezze così grandi, che gli spiriti si sono abituati ai cambiamenti i più estremi.

(18) G I G L I O : Mercantilismo (Padova, 1 9 4 0 - X V I I I ) .

Un desiderio generale di rinnovamento si è allora manifestato; le basi stesse degli ordini sociali vennero poste in discussione. Secondo la soluzione liberale, il sistema degli scambi era stato, per colpa di qual-cuno, spostato molto lontano dalla sua posizione di equilibrio normale. E sarebbe stato sufficiente lasciar, libero gioco alle forze economiche per ritrovare l'auto-matismo dei prezzi. E ciò avrebbe voluto dire non ostacolare l'andamento normale dell'economia; e cioè che le imprese fallissero pure, che le coalizioni si dissolvessero, che le produzioni fossero stroncate: prima o poi gli stabilizzatori automatici del sistema avrebbero funzionato.

Ma in quasi tutti i Paesi, anche in quelli che erano in primo piano tra il liberalismo dottrinale, non si lasciò fare. E fu l'abbandono generale della soluzione suggerita dalla così detta economia clas-sica: certamente il fatto più significativo della storia economica di questi ultimi anni.

Infatti, alle concezioni tradizionali si è opposto l'intervento attivo dello Stato nella vita economica, sempre più accentuato. L'importanza rispettiva di queste due tendenze si è poco alla volta modificata, poiché un terzo fattore è intervenuto. E cioè : l'intesa economica imposta o controllata dallo Stato, tra le imprese similari pubbliche o private, apparisce in alcuni casi come necessaria per rinnovare l'organiz-zazione economica e conciliare i contrastanti termini della libertà e dello statalismo; e può inoltre costi-tuire un valido strumento per l'organizzazione eco-nomica moderna, sotto il controllo dello Stato.

L'intervento dello Stato in materia economica ha fatto la sua riapparizione in forma concreta nel secolo xix. Esso sembra trovare il suo nuovo fonda-

mento nella combinazione in tre dei principali feno-meni che hanno trasformato il mondo occiden-tale (19).

Il primo, è lo straordinario sviluppo della rivo-luzione tecnica. Una parola lo riassume : la velocità. Il ritmo della vita non è cambiato per millenni. Poi, bruscamente, si accelera. La scoperta del vapore segna l'inizio di un'era nuova, che l'elettricità e il motore a scoppio contribuiscono a trasformare. L'im-portanza di questa rivoluzione industriale si trova accresciuta a contatto del secondo fenomeno: quello d'ordine economico. La ricchezza mobiliare prende rapidamente una importanza primaria. Essa riva-leggia con quella fondiaria: ben presto anzi la sop-pianta: permette il raggruppamento dei capitali nelle possenti società finanziarie, e, attraverso queste, lo sfruttamento delle invenzioni nuove. Il terzo feno-meno è lo sviluppo demografico che ha contribuito alla nascita delle grandi industrie ed alla concentra-zione delle popolazioni nelle città, fenomeno questo contro il quale i governi hanno lottato sempre e che non hanno mai potuto fermare. La costituzione di questi agglomeramenti umani ha avuto delle conse-guenze politiche, economiche e sociali di prima im-portanza e che qui è soltanto il caso di ricordare.

Sotto le influenze combinate di questi tre feno-meni, l'organizzazione economica moderna si è fatta sempre più complessa, e l'automatismo del sistema liberale non riesce più a stabilire l'equilibrio tra le grandi forze che, costituite in oligarchie, cercano di superarsi a vicenda. Chiamata o subita, graduale o

( I G ) L A Z A R D : Les ententes économiques imposées ou control-l'ées par l'Etat, pag. 8 (Paris, 1937).

progressiva, massima o minima, l'azione dello Stato si sviluppa ogni giorno di più sotto forme tanto varie quanto vaste.

Ma questa azione è metodica? No certamente. Essa sembra piuttosto correre

lungo alcune linee di grande pendenza, invisibile e imprevedibile. L'intervento dello Stato si manifesta a volta in estensione, a volte in profondità sui vari fronti dell'economia, i quali erano prima regolati dal principio iniziale della libertà. L'evoluzione si riscon-tra tanto nella gestione dei servizi pubblici ed indu-striali, quanto in quella dell'attività privata.

La mobilitazione economica effettuata dai Paesi belligeranti, durante la grande guerra, ha favorito notevolmente lo statalismo. Le esigenze di guerra provocarono la moltiplicazione dei servizi pubblici, poiché l'iniziativa privata non potè far fronte ai bisogni eccezionali che in quel periodo si manife-starono. Il dopo-guerra segnò una latente ma sempre più accentuata organizzazione economica di pace in funzione della guerra, come ha dimostrato il conflitto europeo scoppiato il 3 settembre 1939.

Per quanto riguarda l'azione sulle attività private, è anzitutto necessario ricordare che esistono varie forme indirette dell'intervento statale. Lo Stato for-nisce necessariamente in primo luogo il quadro giu-ridico e finanziario nel quale agiscono gli individui. Il diritto commerciale non è certo immutabile, e la legge ha modificato il regime della società, represso l'usura, e imposte delle regole per la professione dei banchieri. E ' il caso di ricordare a questo proposito l'importanza che ha il credito privato o pubblico per l'economia generale di un Paese, e da cui è conse-

guita tutta una legislazione, nei paesi più progrediti, per frenare la speculazione e tutelare il risparmio.

Inoltre anche la gestione delle finanze pubbliche e della politica fiscale si ripercuote sensibilmente sulle attività dell'individuo in senso limitativo. Lo Stato emana, in secondo luogo, delle disposizioni di carattere tecnico e amministrativo nell'interesse pub-blico. Il suo intervento nell'industria e nel commercio investe forme molteplici : interdizioni, autorizzazioni, o regolamenti di ogni genere. In terzo luogo, nell'at-tuale momento, sono le disposizioni con fini sociali che predominano, poiché la tendenza associativa del-l'individuo ha provocato una legislazione sociale sempre più sviluppata.

Gli interventi dello Stato nell'iniziativa privata, costituiscono dunque un vasto complesso di disposi-zioni legislative che regolano le attività individuali.

Ma v'è di più. L'intervento dello Stato prende a volte una forma diretta. Esso consiste in un aiuto portato puramente e semplicemente all'impresa pri-vata. Si possono avere due origini di tale intervento. Si ha per delle considerazioni di interesse generale, quando si risolve, ad esempio, nel soccorso dato ad una grande impresa in dissesto, per evitare il danno che deriverebbe alla collettività da un fallimento. Lo Stato, poi, può anche ordinare l'esecuzione di un programma di grandi lavori pubblici destinati a lot-tare contro la disoccupazione, e a dare quindi delle commesse alle industrie private che da quelle trag-gono giovamento.

Ma il più sovente l'intervento è richiesto dagli interessati stessi. Questi denunciano delle difficoltà in cui si dibattono le loro industrie, difficoltà che pos-sono essere organiche o funzionali. Negli ultimi

anni poi, la crisi economica è stata la ragione di tutti gli appelli al soccorso dello Stato. Questi aiuti dei poteri pubblici, rivestono delle forme innume-revoli : misure doganali; misure finanziarie; misure economiche; misure monetarie. Rinunciando ad un esame sintetico, ricorderemo ancora i diversi « regimi speciali », che si sono costituiti per alcune produ-zioni tanto agricole quanto industriali.

Ma l'intervento statale 'così ottenuto risente della mancanza di una coordinazione tra i vari provvedi-menti, della loro frammentarietà, della politica dei due pesi e delle due misure in favore di questa o quella azienda, o gruppi di aziende che possano avere influenti appoggi presso il Governo.

Sovente, parlamentari e governi desiderosi di con-ciliare gli interessi che sono spesso considerevoli ma anche opposti, cercando di risolvere difficoltà senza per questo aggravare e cambiare, hanno dovuto pro-cedere a dei continui ritocchi alla legislazione econo-mica senza poter evitare lo scoglio di una regola-mentazione intralciante.

La complessità nascente dell'intervento dello Stato, la moltiplicazione delle leggi, regolamenti, commis-sioni consultive, formalità, in sè stessa può avere scarso valore. Ma più interessante è il cambiamento delle caratteristiche dello Stato che risulta fatalmente da queste evoluzioni.

Lo Stato, alle origini, non usciva dal suo ruolo tradizionale. Infatti, pur modificando il regime doga-nale, o ricorrendo a delle sovvenzioni pure e semplici, lo Stato si teneva « al di fuori » della organizzazione economica. Oggi lo Stato si attiene sempre meno a questa forma primitiva di intervento. Esso si spoglia a poco a poco del suo carattere di potere pubblico.

Collabora con le attività private: moltiplica la gestione di servizi pubblici e di funzioni che prima erano riservate ai privati; interviene nella concorrenza tra gli individui.

Lo Stato aliena così la sua indipendenza. In questa trasformazione esso perde di autorità e sog-giace alla volontà dei partiti più forti che si avvi-cendano al governo della cosa pubblica.

Il disordine attuale testimonia delle idee incerte e degli sforzi contraddittori. Nella vana ricerca del-l'equilibrio perduto, la politica economica è sotto-messa a un empirismo tale che vengono accettati i principi più radicalmente opposti, e di volta in volta applicati. (Esempio probatorio : la politica economica di Roosevelt).

Alle due correnti d'idee sopra accennate, se ne è aggiunta una terza. Tra la libertà e l'intervento se ne apre una nuova: è la strada delle intese econo-miche volontarie o controllate dallo Stato, tra imprese similari private e pubbliche.

4. - Da più parti, e non soltanto da parte dei fautori di Carlo Marx, si è affermato essere la coali-zione d'imprese nelle sue disparate manifestazioni e particolarmente nel fenomeno dei sindacati indu-striali — di cui sono l'espressione saliente — la prova irrefutabile che l'economia capitalistica volge al tra-monto (20). I danni derivanti dalla concorrenza obbli-

(20) V I T O : 11 problema della stabilità del capitalismo, in «R i -vista Internazionale di Scienze Sociali» del 1931; e Tramonto dei-Capitalismo, in « Atti della Soc. per il Progresso delle Scienze », Sessione di Milano, 1931-IX.

gano gli imprenditori a collegarsi; il collegamento li conduce al monopolio; il monopolio apre, la via alla economia socialista. Difatti la formazione dei cartelli pone i diversi rami d'industria, l'uno dopo l'altro, nelle mani di pochi monopolisti, e quanto più questo processo progredisce, tanto più noi ci troviamo, senza avvedercene, spinti verso una economia collettivista, fatalmente regolata.

Il Sombart, pur partendo da considerazioni diverse, perviene a conclusione analoga: egli ritiene che il capitalismo che è contrassegnato dalla sfrenata ten-denza al guadagno, va sempre più perdendo terreno di fronte alle nuove forme di economia. Oggi ci troviamo in uno stadio che il Sombart ama chiamare tardo capitalismo (Spätkapitalismus); che non è altro che il ponte di passaggio ad un ordinamento econo-mico regolato dall'alto. In sostanza il vero problema che si pone oggi per l'organizzazione economica nazionale non è più quello dell'opportunità di sce-gliere tra economia libera o economia controllata: ma bensì quello tra economia controllata dalle coalizioni d'imprese bancarie, industriali, agricole, commerciali, o economia controllata dallo Stato (21). I segni annunziatori della metamorfosi imminente sarebbero : il diminuito spirito di lucro che si rivela nella generale tendenza alla stabilizzazione dei dividendi nelle imprese; ma più ancora nei movimenti di concentrazione, nazionalizzazione e nello sviluppo dei cartelli. Le agglomerazioni, le intese, le fusioni di imprese, mostrano quanto sia indebolita quella energia che caratterizza la perso-

fa 1 ) B A T T I S T A : Coalizione d'imprese e corporazioni, (Roma, 1 9 3 8 - X V I I ) .

nalità dell'imprenditore dell'economia capitalista; ma sono anche il fattore più efficace per il progressivo indebolimento dell'anima capitalistica, in quanto por-tano nell'impresa e diffondono in tutta la vita econo-mica l'automatismo e la burocratizzazione.

Il desiderio infine di stabilizzare quanto più è possibile le vicende economiche, di prevenire, fron-teggiare e superare le oscillazioni e le crisi, di razio-nalizzare l'economia rivela che l'attuale sistema economico ha toccato il vertice della parabola ed è presso a discendere. L'imprenditore ha perduto la sua funzione; al posto dell'intuito è subentrata la meditazione. Si verifica esattamente ciò che accade nella vita dell'individuo : allorché comincia a mettere giudizio vale a dire ad operare razionalmente, è segno che è già vecchio.

Ma — si domanda giustamente l'Amoroso (22) — è forse indizio di cristallizzazione la tendenza verso tutte le attività che mirano ad attenuare le conse-guenze di eventi particolarmente dannosi all'econo-mia? O non sono piuttosto suscitatrici perenni di energia, in quanto la sicurezza in un campo è condi-zione dell'audacia in altri campi, è il presupposto necessario di tutti gli slanci nuovi e di tutti gli ardimenti?

Giustissimo, ma per ottenere l'assicurazione con-tro i rischi dell'impresa, anche la coalizione a sua volta cerca una riassicurazione. E la trova quando, divenuta a causa delle sue sempre crescenti dimen-sioni « un fatto sociale », si trova in difficoltà e si

(22) Vecchie e nuove vedute di politica monetaria, « Atti del-l'Istituto Nazionale delle Assicurazioni », Roma 1929, voi. I.

getta di piombo nelle braccia dello Stato (23). E ' que-sto il momento in cui nasce e si rende sempre più necessario l'intervento dello Stato.

E' questo il momento in cui la libertà economica, passa da quella individuale a quella collettiva, e viene ad essere associata, tutelata o assunta dallo Stato, a seconda dei vari sistemi d'intervento statale (24).

( 2 3 ) M U S S O L I N I : Discorso del 14 novembre XIII al Consiglio Nazionale delle Corporazioni.

(24) Concordiamo pienamente col Gini quando afferma: « che le società moderne costituiscono ormai veri e propri organismi che in realtà provvedono al loro funzionamento, in istato di salute e in istato di malattia, con meccanismi che si sottraggono alle finalità e si sovrappongono agli interessi degli individui che ne costituiscono le parti ». (Patologia economica, Roma, 1935-Xm, pag. 733).

P A R T E S E C O N D A

S U P E R A M E N T O D E L L A T E O R I A D E I C O S T I C O M P A R A T I

4 - B A T T I S T A : Premessa all'economia nuova.

CAP. I

L ' I N D U S T R I A L I Z Z A Z I O N E D E I P A E S I A G R I C O L I

x. - Come giustamente osserva il Barone in quel suo breve ma concettoso saggio suggestivamente inti-tolato « Dai campi alle officine » (25) il grande e decisivo fatto che domina tutta la storia economica dell'Europa, dalla fine del X V I I I secolo sino alla Grande Guerra, è la trasformazione dei paesi agricoli in paesi industriali. E noi aggiungiamo che se l'Europa occi-dentale fu la culla della « rivoluzione industriale », verso la fine del secolo scorso se ne riscontrarono i segni avvertitoli, e su ben più vasta scala, anche in altri continenti, quali l 'America e l 'Asia (Stati Uniti e Giappone). Nel dopo-guerra, poi, l'industrializza-zione si accentuò nei paesi dove aveva già operato, ed investì del suo processo evolutivo altre larghe zone del mondo: e cioè i paesi dell'Europa sud-orientale,

(25) Tale studio venne dato alle stampe isolato, e corrisponde al Cap. II della Parte I delle « Dispense » del Corso di Economia Politica tenuto dal Barene nel R. Istituto Superiore di Studi Com-merciali di Roma, negli anni 1920-21 e 1922-23. E ' stato poi ripro-dotto nel secondo volume delle « Opere Economiche » del Barone. (Zanichelli, Bologna, 1936-XIV, pag. 277).

i Dominions inglesi (specialmente il Canadà) e, per alcuni particolari aspetti, l'India, l'America del Sud, l 'Africa.

Il cammino dei paesi sembra dunque percorrere strade storicamente tracciate, le quali conducono da una economia agricola, passando per la fase inter-media dello stato agricolo-industriale, fino all'eco-nomia industriale.

E ' una aspirazione questa di tutti i popoli che tendono ad una civiltà superiore, anche se non è possibile spiegare pienamente questa attrazione quasi misteriosa, che la civiltà esercita. Senza dubbio ciò è dovuto a certe particolarità di questa civiltà, ma proviene anzitutto dal fatto che essa assicura una potenza contro la quale nessun paese può lottare se esso stesso non l'abbia raggiunta, sia pur attraverso difficili e cruenti lotte tanto nel campo economico che in quello sociale.

L'orientamento moderno di tale processo evolu-tivo è però diretto verso il raggiungimento di for-me di economia complessa intermedia agricolo-indu-striale, anche in considerazione del ritorno alla terra di alcuni paesi industriali.

Comunque, quali che siano i motivi e le forme irrazionali assunti dall'industrializzazione, è certo che si tratta di un fenomeno storicamente determi-nante dell'evoluzione e dell'orientamento dell'eco-nomia mondiale, dal 1760 (epoca alla quale si suole far risalire l'inizio della « rivoluzione industriale ») a

Secondo il Delaisi (26) mentre il « mito » nazio-

(26) D E L A I S I : Les contradictions du monde moderne (pag. 325 e segg., Parigi 1925).

naie faceva la conquista del mondo passando da un popolo agricolo, ad un altro, accadde che nel mo-mento in cui raggiungeva i limiti estremi dell'uni-verso, i paesi nei quali era il suo punto di partenza, si trovarono completamente trasformati. La rivolu-zione industriale era penetrata in Inghilterra, in Francia, ecc. (27), e aveva profondamente modificato

(27) La diffusione del sistema della libertà in Francia ebbe mo-venti diversi da quelli inglesi. Prevalentemente politico — ed anche per propaganda inglese — il liberalismo francese fu sopratutto una reazione contro gli eccessi della regolamentazione precedente e, sopra tutto, nel periodo rivoluzionario, come è stato messo in evidenza da Joseph Barthélemv, nel « Temps » dell'i i gennaio 1938.

La posizione del tutto diversa dell'Inghilterra e della Francia nei confronti dell'instaurazione del sistema della libertà economica è efficacemente sintetizzata nelle seguenti righe dell'Amoroso (Prin-cipi di economia corporativa, pag. 272, Bologna 1938): « L a diffe-renza fra il liberalismo inglese e il liberalismo francese, nel corso del Settecento, è tutta qui. Il liberalismo inglese è strumento del-l'imperialismo britannico nel mondo; il liberalismo francese è il compito incosciente di questo stesso imperialismo, ai danni della patria ».

Ed infatti, secondo si esprime una moderna Enciclopedia in-glese, la rivoluzione britannica del 1688, con la cacciata di Gia-como II e con la chiamata di Guglielmo di Orange, instaurò, in-sieme col regime delle libertà in Inghilterra, la lotta contro i re di Francia e la preparazione della rivoluzione francese, lo scoppio della quale coincise con la « industriai revolution which made England the forts manufacturing country in the world » e con un « remarkable development of England imperiai responsibilities ». E l'Hobhouse, nella sua esaltazione del liberalismo inglese (Liberalism, Londra 1912) ammette pure che « è solo in Inghilterra, e solo a motivo della preesistente supremazia industriale, che si è piena-mente riusciti a vincere il principio protettivo, ed anche in Inghil-terra la reazione protezionista sarebbe stata, almeno temporanea-mente, vittoriosa, se non fosse stato per la nostra dipendenza dai paesi esteri per viveri e materie prime ». Cfr. anche J A C K S O N : England since the industriai revolution (London 1936).

la struttura economica di queste nazioni. In luogo di imprese a sfera di azione limitata, erano sorte potenti industrie specializzate, che cercavano le loro materie prime e i loro clienti al di fuori del territorio nazio-nale. Le ferrovie, i piroscafi, i telegrafi avevano supe-rato le frontiere; le merci, i capitali, le informazioni passavano da un paese all'altro in quantità sempre crescenti. Insensibilmente le diverse nazioni si spe-cializzavano; le une, negligendo la loro agricoltura, vendevano alle altre i loro prodotti industriali in cambio delle derrate; mentre le altre, incapaci di creare fabbriche ugualmente potenti, sviluppavano le coltivazioni e l'allevamento molto al di là dei propri bisogni, accontentandosi di importare utensili, oggetti di vestiario, ecc., così che poco alla volta tutte le Na-zioni si trovavano a dover dipendere le une dalle altre, e proprio nel momento in cui ciascuna si pro-clamava autonoma e sovrana. Da allora ci fu contrad-dizione flagrante fra il « mito » politico e la realtà economica. Logicamente, gli Stati si trovavano di-nanzi alla seguente alternativa: o limitare stretta-mente il loro sviluppo industriale secondo i bisogni del mercato nazionale, con una specie di neo-rnalthu-sianesimo economico; oppure portare al massimo la loro specializzazione industriale, cercando una for-mula di interdipendenza politica adattata alla inter-dipendenza economica, e, pertanto, rinunciare al dogma della sovranità popolare. Ma l'evoluzione della società umana non procede con andamento rettilineo; è piena di correnti e di controcorrenti, che obbligano gli individui e le collettività a strane contraddizioni e ad atteggiamenti contrastanti.

E ' un fatto, dunque, quello dell'industrializza-zione, di cui bisogna logicamente tenere il massimo

conto tanto nella giustificazione e interpretazione delle dottrine classiche e della loro evoluzione, quanto di quelle dei tempi contemporanei.

Possiamo distinguere tre fasi nel processo di indu-strializzazione, in rapporto al formarsi delle dottrine economiche :

fase unilaterale (quella della « rivoluzione indu-striale » inglese, che va dal 1760 al 1830);

fase polilaterale (quella della successiva e pro-gressiva industrializzazione di alcuni paesi europei, Germania, Francia, Belgio, e d'oltre mare, Stati Uniti e Giappone, che va dalla seconda metà del secolo scorso alla vigilia della guerra mondiale);

fase totalitaria (quella del dopo-guerra, che se-gna una generale tendenza alla industrializzazione rafforzata dalle esigenze autarchiche, e che si nota specialmente in Italia, Gei-mania, nei paesi del centro e del sud-oriente europeo, in alcuni Dominions bri-tannici, e per certi aspetti, nella America del Sud, in India, in Àfrica).

La fase unilaterale è quella che ha fornito a Ri-cardo le condizioni ambientali di realtà economica da cui egli ideologicamente trasse i principi della teoria dei costi comparati e della conseguente divisione in-ternazionale del lavoro (28).

I grandi sistemi storici della politica commercia-le (29) pur militando in favore sia del protezionismo sia del libero scambio, hanno simultaneamente messo in rilievo la differenza di struttura economica esi-

(28) R I C A R D O : Principii dell'economia politica (Biblioteca del-l'Economista, Torino 1877).

(29) Tra la copiosa bibliografia sull'argomento, ricordiamo nuo-vamente le opere già citate del Mazzei.

stente tra paesi agricoli e paesi industriali. Il mer-cantilismo si è dichiarato partigiano convinto del paese industriale, mentre la fisiocrazia tendeva a svi-luppare il paese agricolo. L'idea che si trovava alla base sia dell'uno che dell'altra, riposava sulla convin-zione della produttività superiore dell'industria o dell'agricoltura.

Solo il sistema classico aveva considerati i paesi agricoli e industriali come partecipanti equivalenti al commercio internazionale. L'esempio caratteri-stico è quello di Ricardo che per esporre bene la sua teoria dei costi comparati, fece notare la differenza primordiale tra paesi agricoli e paesi industriali. Egli semplifica la sua teoria servendosi come modello della lana proveniente dall'Inghilterra e del vino proveniente dal Portogallo (30). Ecco l'antitesi più netta tra paese agricolo e paese industriale, la cristal-lizzazione più manifesta dei due tipi strutturali. Tut-tavia, pur combattendoli, la scuola classica mante-neva la necessità economica della loro coesistenza. L'idea inerente alla teoria dei costi comparati consi-ste nel considerare sullo stesso piede l'efficienza eco-nomica dei paesi agrari e industriali i quali, mediante il commercio internazionale, giungono a comple-tarsi reciprocamente. La teoria dei costi comparati si realizza così in base ad un ottimismo che caratte-rizza tutte le teorie classiche. Essa stabilisce, nel campo della politica commerciale, un'armonia pre-stabilita tra paesi agricoli e paesi industriali, attri-buendo loro una ragione di essere, affermando la loro funzione economica. L'antitesi ostile dei sistemi po-litico-commerciali che precedevano il sistema classico,

( 3 0 ) R I C A R D O : O p . c i t . , p a g . 4 3 0 .

cedette il posto a una combinazione complementare di questi due gruppi di paesi di struttura opposta. La tendenza pratica, immanente alla teoria ricardia-na, mira, però, al mantenimento dello statu quo della struttura sia agricola sia industriale; è un ideale sta-tico, una cristallizzazione dello stato di cose che porta a perdere ogni possibilità d'indipendenza economica, ad essere alla mercè di una guerra o di un bloc-co (31). Questo teoria che armonizza l'antitesi della struttura agricola e industriale ha urtato forzata-mente contro ogni politica commerciale basata su una concezione dinamica secondo cui la struttura economica di uno Stato qualsiasi non deve e non può essere abbandonata all'automatismo economico inter-nazionale, ma deve bensì evolversi verso forme che si basino sull'idea della nazionalità.

Un tal processo di evoluzione è nell'ordine storico dei fatti. Come è stato acutamente osservato dal Siegfried nella prefazione all'edizione francese del volume del Reithinger sugli aspetti economici euro-pei (32) l'improvviso ed immenso vantaggio tecnico preso dalla razza bianca europea con la rivoluzione industriale del xvm secolo che aveva messo nelle sue mani esclusive il segreto e la pratica delle produ-zioni meccaniche, aveva scartato e rese impotenti antiche civiltà, uguali per valore e dignità, come quelle dell'Estremo Oriente. Tale equilibrio è stato una fonte di benefici, dei quali l'Occidente è vissuto per centocinquanta anni. Sull'ipotesi che la situazione durasse indefinitamente l'Europa aveva posto le sue

(31) B A T T I S T A : Coalizioni d'imprese e corporazioni, pag. 25 (Roma, 1938-XVII).

(32) R E I T H I N G E R : Le visage économique de l'Europe (Paris, 1937).

nuove fondamenta economiche, con una struttura industriale destinata a rispondere a un sistema di scambi internazionali che essa aveva imprudente-mente considerato così normale come il succedersi delle stagioni.

Il libero scambio di Cobden, rappresentava lo sta-tuto perfetto di questa repubblica mercantile interna-zionale, il cui campo d'azione si estendeva al mondo intero.

Come si è potuto pensare che le altre razze, gli altri continenti, avrebbero accettato indefinitamente siffatta posizione complementare, che consacrava una inferiorità? La illusione, fondata sopra una pretesa di superiorità immutabile, non poteva durare eterna-mente. L'inevitabile si è verificato. I paesi d'oltremare si industrializzarono — il vecchio sistema degli scambi di materie prima extra europee contro pro-dotti industriali europei subì una profonda trasfor-mazione — e i profitti di una posizione di squilibrio tanto favorevole ai paesi industriali europei andarono man mano cessando (33).

(33) Il mondo occidentale, specie quello degli imperialismi plu-tocratici colpito contemporaneamente nella sua struttura industriale e nel reddito dei suoi investimenti nei paesi nuovi, si avviò verso un avvenire le cui incognite non furono evidentemente risolte defi-nitivamente nè dalla grande guerra nè dal periodo a questa susse-guente, poiché attualmente il mondo è ancora scosso da un con-flitto le cui ragioni sono molto vicine a quelle che provocarono il ri-petersi delle crisi internazionali a proposito dei quali Delhorbe, in una suggestiva e previggente sintesi nella rivista « Le Mois » del febbraio 1938, scriveva:

«Questa situazione è suscettibile di due spiegazioni: una mo-rale e l'altra meccanica. La spiegazione morale consiste nel ricercare le responsabilità. E ' quella più spesso impiegata, poiché piace alla

E ' questa la fase polilaterale della trasformazione dei paesi agricoli in paesi industriali, che segna la decadenza della supremazia industriale inglese.

In questo progressivo scorrere delle economie dei paesi verso forme di organizzazione economica com-

grande maggioranza di poter dire che se una cosa accade, la colpa ne è di qualcuno. L a spiegazione meccanica cerca di misurare le forze. Le due spiegazioni portano alla medesima conclusione, ma si esprimono in termini differenti. L a spiegazione morale dice: « E ' colpa della classe dirigente!». La spiegazione meccanica dice: « L a forza della classe dirigente segna un regresso ». E ' la stessa cosa. Qualunque sia la spiegazione preferita, è sempre colpa della classe dirigente quando le cose volgono alla violenza del mondo ed è quasi un segno che una élite di classi sociali o di nazioni dirigenti non è più all 'altezza del suo compito, o non ha più la forza di rea-lizzarlo. Tuttavia, fra la spiegazione morale e la spiegazione mec-canica esiste una differenza ed è a siffatta differenza che è sospeso l'avvenire prossimo del mondo. Infatti, se la colpa delle Nazioni dirigenti spiega la situazione presente, queste Nazioni possono an-cora correggere il loro errore e riprendersi. A l contrario, se la situa-zione presente si spiega col declinar delle loro forze, esse saranno rapidamente poste dinanzi al di lemma: abdicare o battersi». Vedere anche D E L A I S I : Les deitx Europea, pag. 180 e segg. (Paris, 1929).

(34) L I S T : Il sistema nazionale dell'economia politica (L'tet, To-rino, 1936-XIV).

La nozione dell'economia nazionale richiama alla mente oltre il nome di List quello di un altro grande economista, il francese Brocard, a cui si aggiunse il gruppo dei nazionalisti italiani, con a capo Rocco, Federzoni e Carli. Le loro teorie si sono prestate ugual-mente ad interpretazioni erronee ed a deduzioni abusive. Mentre Federico List vede nell'economia nazionale sopratutto la base della potenza economica e politica, Lucien Brocard vi trova il risultato della solidarietà umana ed il punto di partenza della collaborazione e della reciproca penetrazione internazionale.

List e Brocard sono d'accordo nel rammentare che tra l 'uomo e l'umanità, la storia ha messo le nazioni. M a l'economista di Nancy considera la Nazione come una semplice tappa — molto lunga forse — tra l'economia locale e regionale da una parte, e l'econo-

plessa, su basi quindi nazionali, consiste la teoria di List (34) e dei suoi seguaci, che contrappone alla sta-ticità della formula classica, un'idea dinamica di progresso, che meglio aderisce al fluire e i-ifluire delle correnti della civiltà moderna.

mia internazionale dall'altra. Per List invece l'economia nazionale ha in se stessa lo scopo e la fine per la potenza che essa conferisce e che può servire di punto di partenza per conquiste suscettibili di allargare questa economia nazionale, piuttosto che metter capo all'economia internazionale.

Brocard insiste molto sul fondamento regionale dell'economia nazionale: le regioni non soltanto si completano, ma esse lavorano con uno spirito di sana emulazione, spingendo così al massimo le forze produttrici della comunità e tendono allo « sviluppo com-plesso ». L'economia nazionale non esclude dunque il libero scambio, al contrario essa ne è per così dire uscita nella misura che lo « sviluppo complesso » nazionale si confonde con la libera colla-borazione regionale. II cammino verso l'economia complessa si effet-tua senza l'aiuto di alcuna protezione doganale, col gioco spontaneo e libero delle attività private. L'economia nazionale non è dunque un fenomeno artificiale, ma una realtà naturale, che risulta dal-l'azione dei fattori della collaborazione umana.

Ma una volta costituita ed organizzata l'economia nazionale deve valorizzare tutte le ricchezze. E ' su questo punto che Brocard s'incontra con List. Mentre Smith e, poi, Ricardo non considerano valori di scambio che le sole ricchezze che possono essere oggetto di commercio, Brocard, con la sua nozione dello « sviluppo com-plesso », più ancora di List con la sua dottrina delle « forze pro-duttrici », riserva un posto eminente alle ricchezze immateriali, ai gusti, alle tradizioni, alle attitudini della popolazione nazionale. Contrariamente alla nozione dello Smith dei valori di scambio, che è statica, quella dello sviluppo complesso è essenzialmente dinamica. Per assicurare la completa messa in valore delle ricchezze naturali, materiali ed umane (lavoro, destrezza, capacità) la protezione doga-nale è giustificata e s'impone, almeno temporaneamente.

Mentre List accentua il concetto dell'economia nazionale, Bro-card ne persegue lo sviluppo nella direzione dell'economia interna-zionale. Quest'ultima non si basa sulla collaborazione di una mol-

Non si può disconoscere infatti che, se da un lato la scienza economica classica insegna che nello scam-bio internazionale i vantaggi sono divisi tra paesi industriali e paesi agricoli, dall'altro la storia econo-mica del xx secolo dimostra che tale affermazione non è del tutto esatta, poiché i paesi agricoli, lenta-mente, instintivamente, passano da un'economia agri-cola ad una economia complessa agricola-industriale considerata più produttiva appunto in quanto com-plessa, su base nazionale (35). Se un paese, prede-stinato all'agricoltura, secondo la tesi di Ricardo, rinunciasse a sfruttare le riserve del proprio sottosuo-

titudine d'individui isolati, indipendentemente dalle frontiere e dal paese cui appartengono, bensì sulla collaborazione di nazioni forte-mente organizzate e rafforzate preventivamente da una protezione indispensabile. La costituzione di forti economie nazionali lungi dal-l'essere un impedimento, è dunque la condizione stessa di un'eco-nomia internazionale. Lo sviluppo delle forze produttive dei paes' nuovi, è così diventato uno dei principali scopi dell'interventismo economico.

(35) Jacopo Mazzei in un suo recente studio (Deduzioni dalla teoria dei costi comparati a favore dell'autarchia, in « Rivista Ita-liana di Scienze Economiche», marzo 1939-XVII) mette chiaramente in luce le ragioni di tale evoluzione.

« Non solo è vero — afferma il Mazzei — come la dottrina ha sempre affermato, che il vantaggio può essere diviso in parti disu-guali f ra i due paesi contraenti nel traffico internazionale, ma è anche vero che questa disuguale ripartizione può essere conseguenza di mancata o ritardata piena efficienza produttiva di un paese, che in tal caso una politica economica di intervento costruttivo può migliorare le condizioni del paese arretrato, può costituire uno stato di autarchia per lui superiore a quello di specializzazione interna-zionale, e che non porta danno generale, ma solo danneggia il paese che sfruttava a danno dell'altro la sua prima raggiunta supe-riorità economica.

Dunque è anche vero che, se pur perchè lo scambio interna-

zionale avvenga, occorre un vantaggio per i due, la distribuzione

lo, le possibilità idroelettriche dei propri fiumi e dei propri bacini d'acqua, ecc., agirebbe certamente in maniera antieconomica (36), rinunciando ad una pro-duttività supplementare che gli permetterebbe di ele-vare il grado della sua civiltà.

La guerra del 1914, provocando la chiusura dei mercati, aumentando la richiesta di capitali, mate-riali, derrate, obbligò i paesi che si rifornivano dal-l'Europa a contare soltanto sopra sè stessi. Australia, Canadà, Giappone, Cina, si posero in grado di fabbri-care da sè i principali prodotti di consumo. D'altro canto, come si è detto i vecchi paesi industriali tor-narono alla terra.

Questa sempre crescente generalizzazione delle economie complesse porta, logicamente, a rendere sempre meno valevoli i postulati liberisti della teoria

di tale vantaggio può essere, non soltanto per le proporzioni diverse, ma anche per il non raggiunto e dal libero scambio immobilizzato sviluppo di uno, causa di un vero sfruttamento dell'un paese rispetto all 'altro, di un vero arresto dello sviluppo che vuole al tempo stesso dire arresto delle sue possibilità attuali di scambio ad una quota deteriore (e in quanto tale specialmente proficua per l'altro con-traente) a quella che potrebbe essere la sua possibilità di scambio e produzione interna.

Se si pensa che spesso i paesi agricolmente specializzati non sono dei paesi aventi impossibilità di produzione industriale, ma sono soltanto dei paesi, per ragioni varie, in ritardo, si capisce come più o meno tempestivamente possa essere introdotta in essi una politica di protezione industriale e come essa possa essere proficua, per loro, come assai spesso quei paesi abbiano avuto la sensazione, che chiamerei istintiva e alla quale la scienza ufficiale rispondeva negando, di essere sfruttati dai grandi paesi industriali, di essere arrestati nelle loro possibilità future del libero scambio ».

( 3 6 ) G A R B I N I : Scienza e Autarchia (Ed. L 'Ordine Corporativo, Roma 1939-XVII).

dei costi comparati e della divisione internazionale del lavoro.

2. - Negli antichi paesi industriali è ancora molto diffusa l'abitudine di considerare lo schema dell'ante-guerra, in materia di divisione internazionale del lavo-ro, come costituente la normalità, e di stimare che tutti i mutamenti prodottisi sin d'allora non sono che semplici errori. Ci sembra di aver dimostrato inoltre che questo schema non costituisce che il risultato, sto-ricamente determinato, di una serie di fattori chia-mati a modificarsi costantemente. Fu una situazione storicamente determinata, e non una situazione sta-bilita permanentemente, che, per esempio, ha cau-sato l'iniziale concentramento dell'industria tessile del mondo in Inghilterra e in Germania.

Bisogna rendersi conto che lo schema attuale della divisione internazionale del lavoro differisce sensi-bilmente dallo schema dell'anteguerra. Oggi le Na-zioni producono e scambiano i prodotti con criteri che niente hanno a che fare con quelli enunciati or è più di un secolo da Ricardo.

Il dopo-guerra ha segnato infatti un allargamento del fronte di industrializzazione dall'Italia ai paesi del centro e sud-oriente europeo, dai Dominions bri-tannici, all'India, all'Egitto, ecc.. E ' la fase totalita-ria dell'industrializzazione, la quale registra una mo-difica nei confronti degli schemi passati, nel senso che in nessun caso il paese agricolo rinuncia totalmente alla produzione agricola. Si tratta dell'introduzione negli Stati agricoli del metodo di produzione dello Stato industriale. L'impresa agricola viene in un certo senso industrializzata, il che le ha fatto perdere sue-

cessivamente le caratteristiche del metodo di produ-zione agricola.

Dato lo stato di stretta correlazione tra i criteri industriali e agricoli, la politica commerciale moder-na non può orientarsi totalmente a favorire l'indu-stria o l'agricoltura, poiché non sarebbe più possibile poter ripartire il mondo in Stati industriali e Stati agricoli. Una tale ripartizione si baserebbe su costru-zioni fittizie, che non sarebbero fondate su fatti. Per conseguenza, sarebbe difficilie tracciare direttive sistematiche, secondo cui i prodotti agricoli dovreb-bero scambiarsi contro prodotti industriali. L'autar-chia degli Stati industriali, sempre più marcata dal punto di vista agricolo; l'industrializzazione e l'au-mento del rendimento dell'agricoltura per ettaro che ne risulta, impediscono di stabilire una correlazione politico-commerciale tra esportazioni agricole e im-portazioni industriali. Non si potrebbe ammettere per esempio una politica commerciale che raggruppasse il continente europeo in Stati agricoli e Stati indu-striali sotto forma di Stati deficitari e Stati esuberanti di cereali, in consumatori e produttori. In quest'ordi-ne di idee, ci sembra errata la concezione del Delai-si (37) secondo cui il continente europeo si divide-rebbe in due Europe, di cui una industriale e l'altra agricola, che si affrontano in formazione di battaglia. Non abbiamo che da gettare un colpo d'occhio sul sistema delle compensazioni commerciali che avven-gono oggi tra gli Stati per renderci conto del fatto che non si tratta sempre di uno scambio di prodotti industriali con prodotti agricoli, ma bensì di prodotti agricoli in prodotti agricoli come per esempio, suini

(37) D E L A I S I : Les deux Europes (Paris, 1929).

contro segale, ecc.. Ed è a torto che l'agricoltura di un paese viene considerata come una solidarietà di interessi ispirantesi alla stessa ideologia, alla stessa politica dei prezzi, agli stessi principi politico-com-merciali. Vi è invece una diversità nettissima di in-teressi tra agricoltori, per lo meno così netta come quella che può esistere tra produttori agricoli e pro-duttori industriali.

L'antagonismo tra paesi agricoli e paesi indu-striali non ha solo un'importanza economica risul-tante dal fatto della resistenza differente e della rea-zione più o meno accentuata contro le ripercussioni della crisi. Questa classificazione incisiva che si orien-ta verso un criterio di struttura economica, questo principio di selezione mirante a raggruppare i paesi secondo il carattere dei loro scambi reciproci e a de-durre un rapporto, sorpassa l'ambito puramente eco-nomico, per inquadrarsi in quello sociale e politico.

# # #

La fine della validità della teoria dei costi com-parati e il superamento della conseguente divisione internazionale del lavoro, è dunque nella stessa realtà storica del processo di industrializzazione dei paesi agricoli, e nel ritorno alla terra dei paesi industriali. Se quest'ultimo aspetto può avere per alcuni, ma non per noi, una portata contingente, l'industrializzazione dei paesi agricoli è invece un processo immanente che opera dal 1760 con lenta ma progressiva conti-nuità, e che investe zone sempre più larghe del mondo.

Quali che siano le contingenze e le emergenze che di volta in volta hanno accelerato o ritardato l'evolu-

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5 - B A T T I S T A : Premessa all'economia nuova.

zione, il progresso di industrializzazione rimane la spina dorsale del progresso umano negli ultimi due secoli. E indietro, oggi, non si può ritornare.

La fase totalitaria della industrializzazione costi-tuisce la convalida del superamento decisivo e dura-turo delle teorie ricardiane, poiché conduce alla creazione di stabili economie complesse, i cui rap-porti non sono più di interdipendenza come quelli intercorrenti tra le economie specializzate nella teo-ria ricardiana.

Il diffondersi nel mondo della struttura econo-mica complessa può portare a rendere meno ostili il nazionalismo dei differenti paesi, diminuendo la divergenza dei loro interessi economici — che è lo stimolo più efficace dello spirito nazionalista — e trasformando l'esclusività monopolizzatrice di ven-ditori e di compratori di prodotti di necessità vi-tale, in una interdipendenza graduale e più o meno serrata di clienti. L'antagonismo troppo accentuato tra paesi fornitori di materie prime o di prodotti del suolo e paesi industriali sarà indebolito, e le correnti commerciali si svolgeranno tra nazioni trovantesi approssimativamente allo stesso livello di sviluppo economico.

E d è in questo senso che bisogna intendere il signi-ficato strettamente economico dell'autarchia.

CAP. II

A U T A R C H I A E C O M M E R C I O E S T E R O

i. - Sul formarsi e il procedere dell'autarchia vi sono varie opinioni. Per alcuni, è un frutto tipico del dopo-guerra; per altri, non è che un ritorno ad una forma sia pur diversa e aggiornata del mercantilismo: per i paesi « ricchi », è il peccato originale commesso dai paesi « poveri » e da cui sarebbe derivato l'attuale acceso nazionalismo economico, con conseguente ra-refazione dei traffici internazionali.

Secondo il nostro modo di vedere le origini della autarchia sono ben profonde e più lontane. Esse si riscontrano nel formarsi e nel procedere del feno-meno di industrializzazione dei paesi agricoli, il cui scopo, come abbiamo visto, è quello di « sganciare » tali paesi dai rapporti di troppo stretta interdipen-denza con quelli industriali. Si è parlato di inferio-rità, senilismo, schiavitù, dipendenza dei paesi agri-coli nei confronti di quelli industriali. Se qualche volta la parola ha tradito il pensiero degli autori che più si sono appassionati a tali problemi, la realtà sto-rica non tradisce chi osservi attentamente l'evoluzio-ne del mondo moderno. E la conclusione è questa : la costituzione delle economie complesse risponde

appunto al principio correntemente autarchico della autosufficienza per cui, a evitare imposizioni e ricatti di nazioni a danno di altre, è necessario che i traffici possano effettuarsi tra nazioni trovantesi approssima-tivamente sullo stesso piano di potenziale economico.

Ma, mentre i limiti dell'interdipendenza tra le economie complesse avevano carattere esclusivamente economico, quelli tra le economie autarchiche così come oggi si intendono, hanno carattere principal-mente politico poiché sono stabiliti dalle previsioni di guerre o di blocchi. E ciò spiega l'acceleramento dell'industrializzazione nel dopoguerra e il ritomo alla terra di alcuni paesi industriali europei.

V'è stata dunque una autarchia per ragioni eco-nomiche, che si identifica nel processo di industria-lizzazione. V'è in atto una autarchia per ragioni poli-tiche che si è innestata su quella, accelerandone i tempi ed invertendone il senso in alcuni paesi, con il ritorno alla terra di quelli industriali. E ' un com-plesso movimento che in un nostro recente studio (38) abbiamo indicato come una « nuova rivoluzione eco-nomica » destinata ad incidere profondamente nella struttura geopolitica, economica e sociale del mondo moderno.

Per intendersi, diremo che mentre la prima forma di autarchia ha dato luogo al formarsi delle economie complesse, la seconda ha provocato la costituzione di economie autarchiche.

In sostanza, si verifica una continuità in tutta la evoluzione economica moderna, di cui l'economia autarchica è l'ultima espressione, considerandola

(38) B A T T I S T A : La nuova rivoluzione economica in ' .Rivista di Politica Economica », dicembre 1939-XVIII.

come fase « limite » di quella complessa. Potremo quindi stabilire la seguente sequenza per sintetica-mente riassumere le tappe dell'evoluzione economica moderna, dall'inizio della « rivoluzione industriale » a oggi:

1) economie specializzate; 2) economie complesse; 3) economie autarchiche.

senza che tra loro vi sia soluzione di continuità (39).

2. - Quali i rapporti di scambio tra le economie autarchiche? E ' questo il problema che più appassiona oggi gli studiosi della politica commerciale.

Anzitutto non si può che dare per superata la questione sulla scelta tra libero scambio e protezio-

(39) Il Borgatta, in un suo recente interessante aricolo pub-blicato sulla ' Rivista di Scienze Economiche » (settembre 1939), scrive : « non mi sembra che il processo attraverso il quale si passa nel corso degli ultimi 30-40 anni in molti paesi da una prevalente produzione agricola e di materie prime, ad una produzione sempre più complessa anche di prodotti industriali finiti, possa esclusiva-mente caratterizzarsi come un passaggio da un regime « liberista » di divisione del lavoro e scambio ad un regime di autarchia. Se guardiamo alla sostanza delle cose, dobbiamo considerarlo come un fenomeno complesso per cui si passa da uno stadio più arretrato della tecnica produttiva e nel quale risulta sempre più inadeguata, di fronte ai progressi industriali degli altri paesi ed all'incremento dei bisogni interni pubblici e privati, l'utilizzazione e l'impiego di fattori (risorse naturali, lavoro umano, capacità di organizzazione e di combinazione, ecc.) effettivamente disponibili nei singoli mer-cati, ad uno stadio di maggiore sviluppo delle produzioni industriali, di più esteso e razionale impiego dei mezzi produttivi attuali e potenziali di determinati paesi. Questo processo richiede bensì, in parte, i metodi della politica autarchica: aumento delle protezioni doganali o delle limitazioni amministrative alle importazioni; inter-

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nismo (40). Coloro che ai nostri giorni parlano ancora del ritorno al libero-scambio dimenticano troppo spesso — e dal punto di vista dell'economista che per ora si limita a studiare la storia e l'attualità dei fatti può essere il loro più grande errore — i molteplici cambiamenti eli struttura delle economie nazionali e dell'economia internazionale sopraggiunti dopo un secolo, e-sopratutto nel dopo-guerra.

Abbiamo visto nel capitolo precedente che il x ix secolo era quello della specializzazione e ogni paese forniva i prodotti che più gli si addicevano a seconda dei mezzi naturali e delle attitudini dei suoi abitanti. E ' così che le risorse naturali e l'ingegnosità dei suoi abitanti aiutarono la Gran Bretagna a dive-nire nel xix secolo la prima potenza industriale del mondo. Poiché essa non possedeva né lana né cotone per alimentare le fabbriche del Lancashire, l'indu-stria inglese dipendeva, per le forniture in materie prime, dall'estero, dalle economie egualmente spe-cializzate degli Stati del Sud della grande Repub-blica Americana, dall'Egitto, dall'India, dall'Austra-lia. Per delle economie così specializzate, il commer-cio internazionale e la più grande libertà degli scam-bi, erano questione di vita o di morte.

vento dello Stato per attivare, aiutare o addirittura orientare le tra-sformazioni e nuove combinazioni produttive. Ma sono numerosi i casi di industrie sorte e sviluppatesi con modesta e talora nulla protezione doganale e senza altri interventi dello Stato; ed è inte-resse della collettività e della finanza pubblica che questi casi si estendano quant'è possibile ». Giustissimo, poiché tra le economie specializzale e le economie autarchiche v'è appunto la fase dell'eco-nomia complessa derivante dall'industrializzazione.

(40) L A N D E R M A N N : La politique économique international au car- refour (« Revue Économique Internationale », dicembre 1938).

Questa tendenza alla specializzazione andava ininterottamente decrescendo durante gli ultimi cento anni e si è trasformata in una maniera rivoluzionaria durante il nostro x x secolo (41). Essa ha fatto posto ad un'altra tendenza, allo sviluppo quasi geografica-mente generale dell'industrializzazione: motivo che abbiamo definito determinante per l'evoluzione della civiltà economica contemporanea.

Il mondo che al principio del xix secolo era essen-zialmente agricolo, si è sempre più industrializzato e, dopo la guerra mondiale, questa trasformazione avviene con una rapidità crescente. La guerra mon-diale, l'abbiamo detto, ha intensificato le tendenze protezionistiche che accompagnano l'industrializza-zione crescente; le crisi economiche del dopo guerra, quella del 1929 in particolare, l'atmosfera politica poco sicura ed instabile con il corollario della sempre crescente preparazione militare ed economico-mili- tare, i disordini militari ed altre cause ancora hanno accentuato poi la tendenza verso l'autosufficienza.

Qualunque sia di conseguenza il valore degli argo-menti che s'invocano in favore del libero-scambio e di quelli che vi si oppongono, è certo che la politica del nazionalismo economico ha condotto gli Stati verso un protezionismo sempre più complesso e verso l'interventismo sotto tutte le sue forme.

L'antitesi tra libero-scambio e protezionismo non si pone più dunque ai nostri giorni. Anzi, potremmo dire che il protezionismo è superato da tutta la nuova tecnica degli scambi internazionali. Per convincersi poi che nel campo economico di tutte le Nazioni, le

(41) B A T T I S T A : La nuova rivoluzione economica (Roma, «R i -vista di Politica Economica », dicembre 1939-XVIIl).

misure protezionistiche seguono già la gamma delle misure interventistiche, e che insieme esse costitui-scono un sistema di economia diretta su un piano nazionale dove solamente il grado di direzione varia da un paese all'altro, basta dare un rapido sguardo all'evoluzione economica dell'ultimo ventennio.

Dopo la guerra mondiale, si è tentato di rico-struire, da parte delle grandi democrazie, il sistema economico internazionale sulle sue antiche basi, come se non fosse sopraggiunto nessun cambiamento d'importanza vitale.

Un giorno tutto questo è crollato. A partire dal 1929, il sistema di finanziamento internazionale, l'organizzazione bancaria nazionale, l'equilibrio auto-regolatore dei saldi di pagamento, il tallone-oro e l'antico sistema degli scambi commerciali, perfino il principio della esecuzione nonché della inviola-bilità dei contratti commerciali, in poche parole insomma, tutti i fondamenti dell'antica struttura dell'economia internazionale, sono crollati, seppel-lendo sotto le loro macerie un buon numero delle antiche concezioni economiche, sociali, politiche e sopratutto morali. E ' così che il libero- scambio, il protezionismo, l'intervento dello Stato, l'economia diretta e ben altre nozioni, hanno cambiato un po' di senso e, perdendo il loro antico significato, hanno anche perduto il contenuto reale. Prendiamo un esem-pio: la formazione dei prezzi. L'intervento crescente dello Stato in tutti i campi della vita economica, lo sviluppo di grandi imprese industriali, l'accumulo dei vasti mezzi finanziari, la formazione di controlli con tendenza monopolistica, i monopoli e i semi-mono- poli, l'affermazione di un sistema sindacale e l'esten-sione della legislazione sociale, hanno considerevol-

mente ridotto, se non distrutto, il principio della li-bera concorrenza ed hanno portato un deciso colpo all'automatismo della formazione dei prezzi. La rigi-dità che ne è risultata, è contraria all'idea liberale e libero-scambista. Ora, sono pochi ai nostri giorni, i li-bero-scambisti che si opporrebbero alla riduzione del-le ore di lavoro, al salario minimo, in breve a tutti i progressi che si sono raggiunti nel campo della legi-slazione sociale, ed agli sforzi tendenti a migliorare il livello di vita dell'operaio. Le cose, i fatti son cam-biati, e le idee e noi stessi cambiamo con loro. Dal regime del libero-scambio relativo, noi siamo passati ad un regime di protezionismo, d'intervento dello Stato e di economia diretta, dove l'antica arma del protezionismo, la tariffa doganale, si paragona alle armi moderne che sono le proibizioni e i permessi d'esportazione, il contingentamento, il clearing, ecc..

E furono proprio i paesi liberisti a mettersi sulla nuova strada. Infatti: a) gli Stati Uniti assunsero l'iniziativa dell'aumento delle barriere doganali (ta-riffa Hawley-Smoot); b) l'Inghilterra diede l'esempio della sostituzione del sistema della preferenza a quello della parità doganale (accordi di Ottawa); c) la Francia inaugurò il sistema dei contingenti.

Questi tre sono i Paesi che possedevano (e pos-siedono) un quasi-monopolio mondiale dell'oro e delle materie prime, e che danno il tono alla politica economica internazionale. Se pertanto questi tre Paesi liberisti, i quali avevano la massima autonomia di decisione, hanno dovuto rinunciare alla politica economica liberale, evidentemente non è possibile contemplare il ritorno alla politica economica liberale.

3. - Un ritorno puro e semplice al sistema di poli-tica commerciale anteriore alla crisi non è possibile. Le ragioni sono le seguenti (42):

A) Il vecchio sistema di politica commerciale ha dimostrato la propria deficienza diventando anzi una delle cause della crisi economica del mondo,

Tale sistema era basato sul principio dei costi comparati : la clausola della nazione più favorita illimitata e incondizionata sembrava lo strumento atto a mantenere in efficienza il meccanismo della circolazione internazionale delle merci basato ap-punto su quel principio. Senonchè la perfetta effi-cienza del meccanismo presupponeva che si mante-nessero dei rapporti costanti fra i poteri d'acquisto dei vari Paesi, il che vuol dire delle popolazioni pro-duttive delle singole nazioni. Viceversa i Paesi forte-mente industriali, aventi cioè un sistema economico prevalentemente basato su una produzione a costi decrescenti, venivano progressivamente a trovarsi in condizioni di superiorità rispetto a quelli aventi un sistema economico in prevalenza basato su una pro-duzione a costi crescenti, o che, essendo poveri di materie prime, erano gravati da costi differenziali. La fase più saliente di questo processo di progres-sivo distanziamento dei poteri di acquisto delle varie popolazioni, fu segnata dall'industrializzazione degli Stati Uniti. Affinchè il meccanismo della cir-colazione internazionale delle merci basato sulla legge dei costi comparati e sulla clausola della na-zione più favorita si fosse mantenuto in piena effi-cienza sarebbe stato necessario che il potere d'acqui-

C I ) C A R L I : Attuali esigenze della politica commerciale (Rela-zione presentata al Congresso di Berlino della C.C.I., 1937).

sto delle Nazioni clienti d'America (e della sua stessa popolazione rurale) si fosse mantenuto al livello della sua potenzialità industriale. Ciò non avvenne per la ragione detta sopra: anzi si determinò a poco a poco un tale squilibrio che proprio questa fu una delle cause fondamentali della crisi.

B) La crisi del dopo-guerra ha spostato in una maniera che sembra durevole, i rapporti fra lo Stato e la produzione.

La odierna evoluzione economica del mondo ha spostato i termini dei rapporti fra Stato e produzione, perchè si è visto quanto questa sia intimamente ed indissolubilmente legata all'equilibrio politico.

Il problema che si è andato imponendo allo Stato come un problema di vita, è basato sul trinomio: popolazione, produzione, ampiezza del mercato di sbocco. Per l'equilibrio è necessario che lo Stato abbia un ritmo produttivo adeguato al suo dinami-smo demografico ed un'ampiezza del mercato pro-porzionata al suo dinamismo produttivo. Questo pro-blema è tanto più oscillante quanto più i Paesi hanno: i) un alto potenziale demografico e a) sono scarsi di capitali e di materie (sopratutto la scarsità di ma-terie prime è fondamentale, giacché i capitali si formano attraverso la dinamica produttività). Il pro-blema non è dunque sentito da Paesi che come la Svezia e la Norvegia, hanno un basso potenziale demografico: o, che come gli Stati Uniti, hanno scarsa popolazione e abbondanza di capitali e di materie prime: o che, come l'Inghilterra, hanno bensì un discreto dinamismo demografico, ma un serbatoio inesauribile di materie prime in un Impero colo-niale grande come un quarto della terra.

Il problema è assillante per i Paesi che, come

l'Italia e la Germania, hanno un alto potenziale de-mografico.

Per questi Paesi, più che per qualsiasi altro, è assillante il problema di avere: 1) una produzione capace di assorbire tutta la popolazione atta al lavoro, consentendo in pari tempo alla popolazione stessa-un tenore di vita non dissimile da quello delle altre popolazioni ed eguale livello di civiltà e 2) un mer-cato di sbocco adeguato alla potenzialità produttiva.

Evidentemente la nuova politica commerciale non può non tener conto delle esigenze imposte dalla nuova situazione. Essa non può non essere molto più complessa di quella precedentemente seguita. Non può essere più soltanto una politica commerciale basata su una visione individualistica della società economica, poiché lo Stato vi è intimamente legato; non più soltanto delle merci, deve tener conto, bensì anche del fattore uomo. Pensare che, nell'attuale situazione, la salvezza del mondu possa trovarsi in un ritorno al sistema della clausola della nazione più favorita, sarebbe come pensare di offrire un fuscello eli paglia ad un uomo che sta per annegare.

4. - Accertata dunque l'esistenza di una prece-dente situazione di autarchia motivata da ragioni economiche e che si identifica nel processo di indu-strializzazione; superata e spostata la questione della scelta tra libero scambio e protezionismo con la con-seguente impossibilità a ritornare ai vecchi schemi degli scambi internazionali; constatata la tendenza verso l'industrializzazione, che per ragioni politiche è sboccata nell'attuale « fase » dell'autarchia si può concludere :

1) Che i rapporti commerciali tra i paesi non avverranno più sulla base dei costi comparati e del libero scambio;

2) Che il protezionismo è stato superato come arma di difesa e sviluppo della produzione nazionale:

3) Che il formarsi di economie autarchiche per ragioni politiche non esclude lo scambio tra i paesi, ma anzi lo ammette sia pure su basi completamente nuove.

Poiché ci siamo adoperati finora per dimostrare i punti 1 e 2, veniamo a trattare del punto 3.

5. - Non si tratta di scegliere tra l'autarchia ed il commercio internazionale, come qualcuno ha pro-posto. Anche nell'ipotesi della tendenza alla più com-pleta autarchia e allo stabilirsi di una economia ermeticamente chiusa, resterebbe sempre un minimo di commercio internazionale dovuto alle differenze geografiche e geologiche tra le diverse parti del globo, alla diversità ed alla composizione chimica del suolo — fattori che determinano una distribu-zione ineguale delle risorse materiali — come anche alle differenze che si rilevano dal punto di vista della densità della popolazione, dello sviluppo tecnico e alle differenze innate tra gli uomini. Una evoluzione naturale ed alcune misure artificiali potranno atte-nuare queste differenze, ma non si potrà mai soppri-merle completamente.

Sarà bene intendere quindi il programma autar-chico come lo sviluppo integrale di tutte le forze produttive della Nazione, in modo che a questa siano assicurate, in qualsiasi momento e in qualsiasi eve-nienza, le condizioni essenziali di vita.

Tali condizioni essenziali di vita sono principal-mente :

1) Possibilità di disporre dei mezzi per difen-dersi e offendere (autarchia bellica);

2) Possibilità di disporre del fabbisogno alimen-tare della Nazione (autarchia alimentare);

3) Possibilità di produrre all'interno tutto quello che riguarda direttamente i principali settori della vita economica nazionale (autarchia delle industrie basi).

V'è dunque un nucleo centrale autarchico effet-tivo indispensabile alle esigenze belliche ed alimen-tari della Nazione. V'è poi una gerarchia d'impor-tanza nel raggiungimento dell'autarchia negli altri settori della produzione, sulla base della quale si po-tranno discriminare i prodotti che si devono impor-tare dall'estero, e le materie prime necessarie per la produzione destinata all'esportazione.

E d è in vista di tali esigenze che i paesi vanno riorganizzando la produzione nazionale su basi nuove. Potranno scomparire alcune produzioni, altre invece ne sorgeranno, a seconda di un piano prestabilito che costituisce la nuova « mappa » dell'economia pro-duttiva del paese, basata sulle possibilità di materie prime offerte dal territorio nazionale, dagli eventuali surrogati, e dalla convenienza di importare manu-fatti e materie prime dall'estero.

Nell'economia nazionale si possono dunque chia-ramente distinguere tre settori: settore di autarchia assoluta, settore di autarchia relativa; settore di scam-bio con l'estero.

Evidentemente anche la ragione di scambio tra le economie autarchiche, nei confronti dell'ultimo settore, non potranno più misurarsi col sistema dei

costi comparati, in quanto che questo presuppone la libertà di scambio per tutte le merci disponibili nei vari paesi. Condizione che nelle economie autar-chiche manca, poiché alcune produzioni sono bloc-cate in alcuni paesi e non sono intercambiabili. Oltre a tale limitazione d'ordine merceologico, v'è anche quella d'ordine geografico intesa in riferimento agli aggruppamenti politici economici e inter-imperiali dei vari paesi e che annulla la libertà di scambio tra tutti i paesi. Quindi la ragione di scambio tra le economie autarchiche seguirà i binari d'una conve-nienza non rigida ma essenzialmente mobile e sog-getta a continui cambiamenti.

6. - Alcune tendenze autarchiche sono già pene-trate nel momento attuale, nei sistemi economici di tutti i paesi (43). Ma non si può ancora stabilire una distinzione netta tra i paesi di cui tutta la politica e l'economia tendono verso la più grande autarchia, e gli altri paesi in cui il processo autarchico è in for-mazione. Forse questa distinzione diverrà meno netta in un prossimo avvenire. In sostanza è su questa evo-luzione che si basa l'avvenire degli scambi inter-nazionali.

E ' certo che tanto i paesi ad autarchia funzionale quanto quelli ad autarchia organica (44) dimostrano

(43) K E Y N E S : Autarchia economica ( U . T . E . T . , Torino 1936, voi. IT! Nuova collana degli Economisti, pag. 335).

(44) L'autarchia di un paese può avere carattere organico op-pure funzionale. Ricorre il primo caso quando il Paese ha nel suo territorio, per dono di Madre Natura, tutte o quasi quelle risorse che possono permettergli di bastare a se stesso. Tal genere di paese si identifica logicamente con quello dei così detti paesi « ricchi ».

con i fatti che il commercio estero è per essi ancora un valido strumento per progredire ed accrescere la potenzialità economica dei singoli paesi.

Infatti basta gettare uno sguardo sul commercio estero della Germania e dell'Italia (paesi ad autarchia funzionale) in questi ultimi anni, per convincersi come il volume complessivo si sia mantenuto net-tamente al disopra della media dei primi anni post-crisi 1929 (45). Tutta la politica commerciale di

L'autarchia economica è invece funzionale in quei paesi dove es-sendo scarse le risorse del suolo — sono questi i così detti paesi « poveri » — si escogitano tutti i sistemi più adatti per sfruttare il più possibile dette risorse, per sostituire a materie prime naturali materie prime sintetiche, ed infine, dove si indirizza tutta la politica economica del paese verso un preciso scopo: quello cioè di bastare a se stessi, tanto potenzialmente quanto praticamente.

In questi ultimi paesi la tendenza autarchica non è stata certo posta in essere senza una profonda giustificazione. All'indomani della guerra mondiale, ci f u tutto un rifiorire di protezionismo allo scopo, tra gli altri, di eliminare difetti e manchevolezze che si erano verificate nell'attrezzatura industriale e agricola dei vari paesi, con particolare riguardo a quelle che furono denominate « pro-duzioni basi ». I governi si posero il problema della guerra proprio all'indomani di essere usciti da una guerra, poiché il conflitto bel-lico vuol dire quasi sempre difficoltà nei rifornimenti abituali di prodotti alimentari, di materie prime, e qualche volta addirittura isolamento. In tali casi i paesi che hanno la possibilità autarchica allo stato organico possono stare tranquilli. Mentre gli altri, quelli la cui vita stessa dipende da rifornimenti esteri, sono costretti a procedere ad un rifacimento della struttura economica interna. (Cfr. B A T T I S T A : Autarchia economica e metodo corporativo, in « Commercio », giugno 1937-XV).

(45) Comunque non bisogna subire la suggestione di certe cifre e di certe statistiche, che si sogliono esibire per la valutazione delle condizioni economiche. « L'aumento e la diminuzione della cifra globale del commercio estero — scrive de' Stefani in Commenti e discorsi (Bologna, 1938-XVI, pag. 12) — non ci dice nulla di deci-

questi due paesi è diretta poi a potenziare al massimo le esportazioni, nel qual fatto è implicita la necessità di importare almeno parte delle materie prime indi-spensabili alle produzioni destinate alle esportazioni.

Per quanto riguarda il secondo gruppo di paesi, quelli ad autarchia organica, cioè naturale, esami-niamo come esempio, gli Stati Uniti.

La Confederazione nord-americana che di tutti i paesi autarchicamente naturali potrebbe più facil-

sivo come indice di un miglioramento e di un peggioramento della economia interna. Il diffondersi in tutti i paesi del mondo della capa-cità tecnica produttiva e la diminuzione delle differenze dei costi di lavoro tra paese e paese tendono a diminuire l'utilità, per cia-scuno di essi, di vasti settori del traffico internazionale. L'aumento delle produzioni non è necessariamente contradittorio con la dimi-nuzione del commercio estero. E ' appunto quell'aumento che lo fa diminuire senza che ciò avvenga con sacrificio delle singole eco-nomie nazionali, le quali vanno rendendosi indipendenti dalla ser-vitù estera. II che è in armonia con quanto osservato dallo Schmòller (nella sua opera postuma: Die soziale Frage, Monaco 1918, pag. 65):

« Se noi ammiriamo i più recenti progressi dei traffici e dei commerci mondiali, se lodiamo i loro effetti per il benessere, la pace e i costumi, non dobbiamo per questo dimenticare che un reale miglioramento non è affatto implicito nella circostanza che un numero crescente di merci percorra lunghe strade per arrivare dai luoghi di produzione a quelli di consumo. Quando ciò non sia proprio indispensabile, il più semplice e naturale, a pari bontà e costo, appare sempre l'approvvigionamento del consumo nel luogo stesso o dalle immediate vicinanze. Se ancor oggi, la maggioranza delle donne lavora nella propria casa, senza divisione del lavoro; se la popolazione agricola consuma anche adesso un terzo o la metà dei propri prodotti; se tuttora la massima parte della divisione del lavoro serve alla medesima città, alla Provincia 0 allo Stato, ciò è altrettanto naturale e vantaggioso di quanto lo sono alcune delle nostre grandi industrie che smerciano i loro prodotti in tutto il mondo ».

— SI —

6 - B A T T I S T A : Premessa all'economia nuova.

mente rendersi indipendente dal resto del mondo e che, per di più, non dipende in gran parte dal com-mercio estero, poiché questo non costituisce che il 12 % circa del movimento del suo commercio interno, fà gli sforzi più energici per mantenere ed allargare anche il proprio commercio estero. Malgrado tutta la propaganda in favore dell'autarchia, non passa un solo mese senza che un Ministro americano o fun-zionario responsabile esalti i benefici del commercio internazionale, criticando le tendenze all'autarchia. Perchè? Non possiedono gli Americani le riserve di materie prime più imponenti del mondo? Dal punto di vista del loro sviluppo tecnico e dell'ingegnosità dei loro abitanti, non sono in prima linea tra tutte le Nazioni del mondo? La ragione è che anche essi hanno bisogno dell'estero, poiché debbono impor-tare numerose merci: del caucciù per le loro automo-bili, dello stagno per le scatole di conserve, l'antimonio per i milioni di chilometri dei loro fili elettrici, della canapa per le loro corde, della seta per le calze delle loro donne. E non si accenna che alle materie prime per le quali essi sono interamente tributari del-l'estero, lasciando da parte i prodotti — che sono numerosi — dei quali non sono del tutto privi. Gli Stati Uniti importano anche ogni anno 150 milioni di dollari di caffè, 80 milioni di seta, e delle quantità impressionanti di tè, cioccolato, banane, ecc..

In realtà, nessun paese, anche largamente prov-visto di risorse naturali o che faccia tutti gli sforzi per rendersi indipendente dal mercato mondiale, potrà liberarsi dal commercio internazionale, e « se anche lo potesse, non sarebbe probabilmente utile » come affermò molto comprensivamente il Duce nel

suo Discorso del 23 Marzo XIV alla II Assemblea Nazionale delle Corporazioni (46).

In definitiva, il commercio estero dei paesi a ten-denza autarchica ha due funzioni: l'una, storica-mente determinata, è quella di mantenere i rapporti economici con gli altri paesi, ai fini dell'espansione economica; l'altra, di carattere immanente nell'autar-chia, è quella di procurarsi materie prime e prodotti per formare gli stoks ed alimentare le fabbricazioni di guerra non del tutto autarchiche (47).

Sono due ragioni a cui nessun Paese verrà mai

(46) M U S S O L I N I : Scritti e Discorsi. Voi. X, pag. 53 (Milano .936-XV).

(47) Secondo il Borgatta (articolo citato), non « può oggi affer-marsi sicuramente che i procedimenti della politica autarchica siano la caratteristica necessaria e permanente della situazione finale verso la quale l'attuale processo porta o non piuttosto condizione della fase di trasformazione. L'esperienza del processo di industrializza-zione che si è svolto in molti paesi dell'Europa continentale ed in taluni mercati transoceanici nel trentennio che ha preceduto la guerra mondiale, dimostra che il sorgere e svilupparsi di nuove industrie nei mercati sotto questo aspetto più arretrati e che ha loro consentito di ottenere localmente molti prodotti prima impor-tati dall'estero, non aveva affatto portato ad una riduzione, bensì ad un incremento degli scambi internazionali avente origine dall'al-largarsi dei bisogni, nell'aumento del potere di acquisto, nella più estesa differenziazione dei costi comparati determinati o resi possi-bili da quello stesso processo che portava a « razionalizzare » produ-zioni di merci prima importate da mercati stranieri. Onde non può escludersi la probabilità, ripetutamente prospettata in loro discorsi recenti dai ministri Thaon di ReveI e Guarneri, che il processo autarchico in corso porti ad un incremento finale, anziché ad una riduzione degli scambi internazionali, anche se questi assumeranno nuove caratteristiche (sviluppo degli scambi f ra i mercati di singoli complessi imperialistici, o partecipi di dati raggruppamenti poli-tici, o legati da sistema di compensazioni e scambi bilanciati ».

meno; ed il commercio estero cesserà di esistere come fatto economico, soltanto con lo scoppiare della guerra totale.

7. - Nell'evoluzione del pensiero scientifico in ma-teria di revisione della teoria classica del commercio internazionale e del conseguente orientamento autar-chico, originalissima è la posizione assunta recente-mente da Alberto de' Stefani. Appunto per la sua originalità ne trattiamo qui a parte.

In una nota per la rivista « Commercio » (48) de' Stefani dichiarava : « Fino a quando il problema dei costi continuerà ad essere dibattuto nell'orbita monetaria e dei prezzi, non si arriverà a nulla di serio. Questa impostazione, compatibile con un ordi-namento liberale, è sbagliata e disturbatrice in un ordinamento corporativo. Occorre uscire da questa cristallizzazione mentale e ragionare in termini di costi di lavoro senza di che non si può capire nulla nè far nulla di bene nell'economia interna, nell'autar-chia e nel commercio estero. Andare verso il popolo vuol dire anche imparare a ragionare in questo modo, se non si vuole andarvi a parole e non a fatti ».

In sostanza cioè si fa centro del sistema produt-tivo il lavoro, così come chiaramente fece il Partito nelle sue « Osservazioni » presentate in sede della Ia Riunione della Commissione suprema dell'autar-chia, definendo il lavoro come prima ricchezza ita-liana da impiegare per raggiungere l'indipendenza economica.

(48) Il problema dei costi nel pensiero di A. de' Stefani, fasci-colo di giugno 1939-XVII.

Una tale impostazione porta il problema del costo di produzione su di un piano del tutto diverso da quelli finora comunemente escogitati. Vediamo ora di approfondire i concetti espressi da Alberto de' Ste-fani, al lume dei tre articoli da lui pubblicati sul-l'argomento nei giorni 2, 8 e 13 giugno nel giornale « La Stampa » di Torino (49).

La posizione critica e nello stesso tempo costrut-tiva di A. De Stefani, è duplice:

A) Mobilitazione del potenziale lavoro na-zionale;

B) Inserimento della teoria in quella generale degli scambi internazionali.

Studiamo sinteticamente tale duplice aspetto. A) Ci sono in questo tema vitale dei residui ideo-

logici ed ereditari da seppellire. Uno di tali residui, contraddittorio col sistema in atto e cioè con la ragione stessa di una economia regolata e corpora-tiva, è il modo corrente di rappresentarsi il lavoro disponibile come un fastidioso e preoccupante pro-blema di collocamento. Non è ancora praticamente superata l'inversione dei valori economici propria dei regimi liberali che rende pregiudizievole l'abbon-danza del lavoro disponibile, il quale, in un regime

(49) Tali articoli furono poi raccolti in un fascicolo edito dalla « Rivista Italiana di Scienze Economiche », intitolato : Per il mi-gliore i?npiego della potenza del lavoro italiano (Bologna, 1939-XVII). Cfr. anche del de' Stefani La parola « autarchia » - Definizione eco-nomico-politica, in « Autarchia », agosto 1939-XVII.

Per una corretta interpretazione della teoria del de' Stefani con-sultare anche gli articoli pubblicati sull'argomento da S. E. Jannac-cone e dal Borgatta, sulla « Rivista Italiana di Scienze Economiche », rispettivamente nei fascicoli di gennaio e giugno 1939.

organizzato, costituisce invece la condizione di svi-luppo delle energie nazionali.

Alle vaste possibilità di lavoro, assicurate dal Duce al popolo italiano, non mancano riserve incalcolabili oltre quelle che ci assicurano gli incrementi demo-grafici. Perciò il limite delle produttività nazionale è lontano e fuori dal nostro sguardo. Questo differenzia il caso italiano da quello di altre nazioni che hanno raggiunto il limite di saturazione del lavoro e che devono avvalersi del lavoro altrui.

I piani per la distribuzione del risparmio e per l'indipendenza nelle cose essenziali alla vita e alla difesa hanno avuto le cure che meritano e organi politico-amministrativi predisposti per la loro attua-zione. Il lavoro attende anche esso un piano generale ed organico che ne assicuri un impiego razionale fino al limite delle normali possibilità senza disper-sioni ed attese e che lo ripartisca secondo la gerarchia nazionale delle necessità. A questo riguardo il Par-tito fu molto esplicito nelle citate « Osservazioni » quando affermò l'opportunità di dislocare i nuovi impianti industriali per le produzioni autarchiche nelle zone dove più ricca si presenta la possibilità di reclutare la mano d'opera. E ' necessario dunque perfezionare il sistema, come è nelle direttive del Duce, e provvedere al suo massimo rendimento. Sa-lire verso il lavoro; partire da questo elemento origi-nario e definitivo della vita e della potenza delle nazioni, con una manovra non costretta dai tradi-zionali limiti finanziari-capitalistici; aprirgli un varco adeguato alle sue inesauste capacità di fecondazione economica.

Ma anche volendo continuare nel metodo inor-ganico e inadeguato di far dipendere dal motore

finanziario l'impiego del lavoro, ci sarebbero da fare molte e serie osservazioni. I prezzi di una impor-tante serie di prodotti venduti in condizioni di mo-nopolio o di privilegio elevano di rimbalzo i costi di produzione sopratutto agricoli. Di fronte a questi prezzi che si riflettono sugli equilibri economici famigliari e aziendali, i prezzi agricoli, ad eccezione forse del prezzo del frumento, non si sono mossi proporzionatamente.

Esiste dunque un drenaggio finanziario dal set-tore agricolo a quello industriale e commerciale, a sfondo prevalentemente urbanistico, che spiega in-sieme con la differenza dei salari, l'afflusso e la pres-sione della mano d'opera di provenienza rurale verso il settore industriale. Il prezzo dei beni di consumo (base 1928=100) è salito dal 1933 al 1937 da 61,8 a 85,6 e quello dei beni strumentali da 82,9 a 122,0. Dopo il 1937 il distacco tra questi due movimenti si è fatto anche più accentuato.

La opportunità di contenere i prezzi delle der-rate alimentari più energicamente dei prezzi dei beni strumentali non può essere contestata. Però questo va a beneficio sopratutto dei consumatori non rurali ed urbanizzati. La maggior parte dei consumi dei produttori rurali non dipende dal mercato, perchè i produttori rurali consumano prevalentemente derrate proprie. Essi devono invece fare i loro acquisti a prezzi rialzati sul mercato dei beni strumentali; e tutto ciò accade senza che la massa dei sovraprofitti serva all'autofinanziamento industriale e ai rapidi o rapidissimi ammortamenti; due aspetti del loro impiego, ancora non bene inquadrati in un piano economico nazionale, che meriterebbero attenta osser-vazione e disciplina.

Da quanto si è detto risulta che la mobilitazione del lavoro, in vista di un aumento di produzione, e l'aumento delle pubbliche entrate costituiscono due momenti di un unico programma, che apre forse la via alla risoluzione dell'antitesi tra la necessità del basso costo della vita e dell'equilibrio delle aziende specialmente rurali. Questo modo di vedere e di impostare su un terreno comune il programma della produzione a quello della pubblica finanza, richiede una revisione di metodo, eliminazione e sostituzione di competenza organiche, tali da spostare verso il lavoro quel fulcro del movimento che è stato fin qui inserito nei congegni finanziari-capitalistici anche se operanti nell'orbita dell'intervento e del controllo statale.

Si tratta di esaminare, ai fini indicati, senza compromettere lo sviluppo tecnico-industriale, anzi potenziandolo nei suoi mezzi di lavoro, l'opportunità di una inversione di metodo.

In un regime, che per l'attenuata concorrenza presenta i pericoli della staticità, la mobilitazione organica del lavoro, con i controlli e le revisioni che essa implica, costituisce un problema predominante e permanente. In un sistema di libera concorrenza e di liberi prezzi, il lavoro è mobilitato e distribuito sopratutto dalla possibilità di profitti. In regime cor-porativo sono i prezzi corporativi e i piani di cui si è voluto o consentita l'esecuzione e il finanziamento le determinanti della mobilitazione del lavoro.

E cioè la mobilitazione del lavoro è funzione di un giudizio politico. Donde la necessità di cono-scere il potenziale e la sua concreta utilizzazione. La sostituzione degli anziani che se ne vanno coi giovani che entrano nel settore del lavoro, l'impiego

degli incrementi di popolazione e di coloro che devono trovare un lavoro nuovo per il cessare del vecchio, rappresentano problemi particolari rispetto a quello immanente e più generale che si è esaminato.

La realtà ha già posto questi problemi che si vanno risolvendo talvolta disordinatamente e confu-samente, e cioè senza avere il senso unitario di questa inversione del metodo: dal lavoro alla finanza e non dalla finanza al lavoro. Nessuno può contestare che il potenziale finanziario deve servire il potenziale lavoro e non limitarne, come oggi accade, il migliore e totalitario impiego.

L'estendersi degli istituti economici parastatali, collaterali all'organica dello Stato e sempre in fun-zione finanziaria, combinazioni occasionali e spora-diche di un sistema in trasformazione, mostrano la lunga e difficile via che si deve ancora percorrere per arrivare alla inversione della forza motrice che la realtà e gli istituti da essa plasmati va sempre più imponendo e rendendo possibile. Col suo prevalere, anche l'organica corporativa subirà graduali adat-tamenti.

La sostituzione di una corrente di mobilitazione del potenziale di lavoro, che da esso origini, alla corrente di propulsione finanziaria fino ad oggi pre-valentemente adoperata, dovrebbe potersi attuare senza compromettere l'iniziativa privata con le sue prerogative di responsabilità e senza sboccare in una economia di gestione statale ancora in molti settori produttivi non consigliabile.

A questo punto di vista sulla tecnica di mobili-tazione del potenziale del lavoro, che ha evidente-mente una portata politica ed istituzionale, corrispon-

derà una tiasformazione in atto anche degli istituti finanziari.

B) Vediamo ora l'altro aspetto della teoria. Se-condo il de' Stefani la convenienza dell'autarchia, indiscutibile dal punto di vista politico-militare (pro-duzione di merci di interesse bellico e vitale per la nazione) e valutario (miglioramento della bilancia dei pagamenti) può misurarsi da un punto di vista strettamente economico con due unità differenti che sono la quantità di lavoro ed il prezzo. La conve-nienza dell'autarchia si determina perciò, in questo senso, con criteri consimili a quelli indicati rispetti-vamente dalla dottrina dei costi comparati e dalla sua variazione, quella dei prezzi comparati.

Se il prezzo monetario del prodotto estero (com-prese le spese di trasporto e tutti gli annessi) è infe-riore a quello del prodotto interno, l'autarchia non è conveniente e viceversa. Se per pagare il prodotto estero è necessario un lavoro maggiore di quello occor-rente per la produzione all'interno dello stesso pro-dotto l'autarchia è conveniente e viceversa. Ma mentre il calcolo impostato sui prezzi non è probatorio per la mancanza, sovente ricorrente (realizzandosi la proporzionalità tra prezzi e costi in lavoro solo in caso di concorrenza perfetta) di proporzionalità dei prezzi ai costi in lavoro, il calcolo impostato sui costi in lavoro è probatorio in quanto l'economicità del-l'autarchia dipende dal maggiore o minore dispendio di lavoro nazionale che la produzione autarchica impone, perchè il risparmio di potenziali di lavoro può essere impiegato diversamente con vantaggio.

La teoria del de' Stefani che, come si è detto, assume il principio del risparmio di lavoro come uno degli scopi della politica degli scambi internazionali,

si differenzierebbe da quella classica dei costi compa-rati, che pure si appunta apparentemente sui costi in lavoro, perchè considera il lavoro in sè stesso come elemento di valutazione economica, mentre la teoria classica considerava la giornata di lavoro, soltanto a titolo di esemplificazione. A nostro sommesso avviso, tuttavia, non vediamo quale distinzione possa farsi in questo senso tra le due teorie, in quanto se il de' Stefani traduce (come fa infatti) nel fattore lavoro tutti i beni necessari alla produzione, ottiene un dato che rappresenta appunto un costo di lavoro e che corrisponde a quello considerato dai classici con l'unità giornata di lavoro rappresentativa del costo; vero è che nell'ultimo caso si tratta di pura esempli-ficazione, ma il concetto viene tradotto in realtà sempre in termini di lavoro, poiché eccettuata in parte la terra, tutti i fattori di produzione altro non sono che lavoro presente e passato.

Comunque, nel pensiero di Alberto de' Stefani, l'esercizio dell'autarchia implica il controllo pubblico sulla produzione ed il commercio interno dei pro-dotti autarchici; in caso contrario la politica autar-chica si risolve in un protezionismo che consente ai produttori nazionali di vendere, in mancanza di con-correnza estera, a prezzi di monopolio oppure di declassare la qualità dei prodotti nazionalizzati. In un senso o nell'altro si verificherebbe uno sposta-mento di ricchezza dai consumatori (diminuzione della somma di utilità goduta dalla collettività) ai produttori nazionali con una diminuzione della pro-duttività netta del reddito nazionale (diminuzione della somma dei prodotti ottenibili). Questi, dunque, i problemi organici e funzionali che si vanno deli-neando sull'orizzonte dell'economia nuova. Può darsi

che la loro attualità vada velocemente avvicinandosi. Il liberalismo economico non si supera se non con mezzi adeguati al suo superamento, e cioè subor-dinando i congegni di mobilitazione al potenziale di lavoro di cui il paese dispone, e portandolo tutto, nella sua miglior forma ed efficenza, sul campo della produzione. Inversione di metodo che la politica autarchica rende ancora più necessaria.

Alberto de' Stefani ci ha posto di fronte ad una originale concezione del fenomeno produttivo, nel quale vengono spostati i rapporti tra i valori dei vari fattori della produzione. V'è da augurarsi, come ha già fatto qualche eminente economista italiano, che egli prosegua nella impostazione generale della sua teoria le cui illazioni di carattere scientifico e pratico potrebbero assumere un eccezionale valore.

CAP. ILI

I L P R O B L E M A M O D E R N O D E G L I « SBOCCHI »

i. - Lo sviluppo rapido e crescente della industria-lizzazione e la successiva fase autarchica del dopo-guerra, ha provocato un cambiamento profondo nella pratica applicazione della teoria degli sbocchi, così come l'aveva formulata G. B. Say.

Fino a prima della guerra mondiale, il quadro degli scambi non cessò di ingrandirsi. La formazione dei grandi Stati, le scoperte geografiche, i progressi raggiunti con i trasporti, sostituirono al mercato cur-tense del Medio Evo, i mercati nazionali ed interna-zionali. Nell'interno di ogni paese le possibilità di vendita si moltiplicarono, grazie all'aumento della popolazione, all'utilizzazione di nuove risorse di ric-chezza, al formarsi di nuovi bisogni, all'aumento, in definitiva, del livello di vita dei popoli.

Fu l'epoca in cui l'industrializzazione dell'Inghil-terra prima e degli altri paesi poi, pose la necessità di conquistare grandi mercati di sbocco per la propria crescente produzione.

Durante il secolo xix, grazie alle invenzioni inces-santemente rinnovantisi e all'estensione del macchi-nismo, la produzione si accelera e si accresce più

rapidamente che non le possibilità di assorbimento dei mercati : quando invece li sorpassa, sopravviene una crisi, determinando un arresto o un certo regresso. Ma come lo sviluppo del consumo è lento e regolare, gli squilibri non sono che passeggeri. Ormai il ritmo del progresso economico presenta l'alternativa sinto-matica dei periodi di prosperità e di depressione.

Alla fine della guerra 1914-18 riappare il grande problema che aveva tanto preoccupato i fabbricanti inglesi nel 1815. Bisognava scoprire dei nuovi mer-cati per utilizzare l'enorme equipaggiamento indu-striale creato durante il conflitto. Ma allorché al principio del secolo xix la soluzione poteva essere risolta grazie ai nuovi paesi ed al libero scambio, nel x x secolo gli Stati non hanno più la stessa faci-lità di espansione.

Infatti, è evidente anzitutto che il periodo delle grandi scoperte geografiche è ormai terminato. Tutta la terra abitabile è stata ai nostri giorni riconosciuta, scoperta, divisa tra le Nazioni. L'epoca delle terre ignote, dei territori liberi, dei luoghi che non sono di nessuno, l'era cioè della libera espansione è chiusa. Non più roccia che non porti un vessillo; non più vuoti sulla carta, non più regioni fuori di dogane e fuori di legge. « H tempo del mondo finito co-mincia » (50).

Accanto ai fattori geoeconomici, ve n'è un altro eli carattere politico che ha contribuito alla riduzione degli scambi internazionali.

Dopo la fine del Medio Evo, un vasto movimento di centralizzazione aveva favorito la formazione dei grandi Stati. All'interno delle loro frontiere si orga-

(50) V A L É R Y : Regards sur le Monde actuel, pag. 35 (Paris, 1926).

nizzava una vita economica complessa e, grazie ai progressi della produzione nazionale, il commercio estero si accresceva. Dopo la guerra 1914-18 una evo-luzione inversa è qualche volta prevalsa, e alcune grandi unità si sono parzialmente o totalmente disgre-gate. I piccoli Stati Baltici si sono distaccati dalla Russia, l'Impero Austro-Ungarico è stato diviso tra diverse Nazioni. In quest'ultimo caso sopratutto le rivalità e l'isolamento geloso dei nuovi Stati hanno contribuito a ridurre in forti proporzioni l'attività economica internazionale di queste regioni.

Una simile situazione doveva produrre un rivol-gimento completo della politica commerciale. Mentre nel xix secolo gli Stati ricercavano sopratutto i mer-cati esteri e sacrificavano loro anche certe attività giudicate meno « redditizie », dopo la guerra mon-diale i paesi si orientarono — per dei motivi politici ed economici — verso la difesa del mercato nazionale ch'essi potevano regolare secondo i propri desideri.

In sostanza, era il protezionismo più acceso a cui si affidava la tutela del mercato nazionale.

Le ragioni di tale protezionismo furono d'altra parte ben giustificate.

2. - La guerra mondiale, oltreché incidere un solco sanguinoso fra i popoli che l'hanno combattuta, ne scavò uno ben più profondo e duraturo nell'economia di quasi tutti i paesi.

Tanto le Nazioni vittoriose, quanto le sconfìtte e le neutrali (particolarmente quelle europee), accusa-rono nettamente il colpo d'ariete inferto dal periodo bellico alla catena dei rapporti economici che univa i paesi europei ed extra-europei nell'ante-guerra.

La pace trovò una situazione di completa anar-chia nelle economie dei paesi belligeranti: tutti i principi economici sui quali si basano i rapporti com-merciali fra le Nazioni erano stati spazzati via dalle necessità di guerra.

Ogni Nazione si era concentrata nelle sue atti-vità e disponibilità, per cercare di bastare a sè stessa il più che le fosse stato possibile. Messo da parte, quindi, il principio della divisione internazionale delle produzioni in rapporto ai costi comparati; lettera morta i trattati eli commercio; chiuse le fron-tiere dei mercati; paralizzate le comunicazioni fer-roviarie, bloccati i porti; troncati i rapporti tra i due gruppi di Nazioni che si portavano la guerra; alterati, infine, nelle loro giustificazioni economiche, quelli tra i paesi alleati.

Il caos si estendeva nel campo industriale, le cui produzioni erano orientate verso le esigenze belliche: produzioni che non si potevano di colpo trasformare per ritornare a quelle di pace.

La distruzione di ricchezze fù enorme: tutti i paesi erano restati quasi privi della linfa vitale per il funzionamento degli organismi economici: il capi-tale circolante; ed esso veniva urgentemente richiesto dalla industria per la continuazione delle normali attività e per i costosi cambiamenti di produzioni, necessarie al passaggio dello stato di guerra a quello di pace; la grande sproporzione, fra capitale fisso e capitale circolante, poi, acutizzava il disagio in-dustriale.

Anche il credito era ridotto in situazione preca-ria: le banche erano gravate da immobilizzi anti-economici, ma resisi necessari nel periodo bellico.

Il commercio estero ristagnava in parte per la paralisi che aveva colpito i paesi vinti, in parte pel-le difficoltà che essi incontravano a riprendere il ritmo normale di traffico. I noli registravano una caduta paurosa.

Infine, il dissesto monetario che aveva colpito quasi tutte le valute europee rendeva possibili falli-menti e crolli di intere Nazioni : esempio la Germania.

In mezzo a questo disordine di sistemi economici, di cose e di uomini, il protezionismo si assise indistur-bato e dominatore dei dazi di frontiera.

# # *

Lo spirito di guerra che, durante il periodo bel-lico, aveva sostenuto e galvanizzato i popoli in lotta, sopravviveva ancora in essi nel dopo-guerra ravvi-vato, nelle Nazioni alleate, dall'inebriante vittoria.

Questo particolare stato d'animo portò i popoli a trincerarsi istintivamente dietro barriere doganali, le quali furono rese ancora più necessarie dalle pres-santi esigenze economiche.

Le industrie, che allo scoppiare della guerra ave-vano dovuto trasformare le loro officine, adattandole alla produzione di materiale bellico, furono costrette, come abbiamo detto, a riprendere le loro antiche produzioni di pace; trasformazioni queste, che oltre a causare un enorme dispendio, indebolirono sensi-bilmente l'attrezzatura economica di tali industrie, rendendole gracili ed oscillanti, tanto che la più leggera ventata di concorrenza avrebbe potuto spaz-zarle. S'imponeva quindi, la protezione doganale più rigorosa.

L'inflazione monetaria, poi creava e disfaceva

— 97 — 7 - B A T T I S T A : Premessa all'economia nuova.

situazioni paradossali, rendendo ancor più difficile qualunque equilibrio economico. I Paesi colpiti da tale epidemia, cercarono di sfruttare la possibilità di esportare i loro prodotti nei Paesi a moneta ancora sana, per averne in cambio valute auree o parificate, che permettessero loro di porre un freno al dilagare dell'inflazione; mentre quelli ancora non infestati ricorsero prontamente ai ripari, consistenti nei sopra-dazi e nei divieti applicati alle merci provenienti dai Paesi a moneta deprezzata, in aggiunta alle già altissime tariffe esistenti.

La protezione delle industrie basilari si fece più accentuata; al riparo degli elevati dazi di fron-tiera sorse una quantità di organismi anti-economici, che, col perdurare della anormale situazione econo-mica dei Paesi si consolidarono e prosperarono. Tali organismi, alcuni dei quali assunsero proporzioni gigantesche, furono una ragione di più per spingere i Paesi verso il protezionismo.

La guerra aveva, inoltre, fatto affiorare difetti e manchevolezze, molto sensibili, nell'attrezzatura in-dustriale dei paesi; donde il bisogno immediato di riorganizzarle convenientemente, tanto più sotto la spinta della convinzione lasciata dalla guerra che una nazione dovesse il più possibile bastare a sè stessa.

Poiché i rinnovamenti dovevano avvenire in piena tranquillità, senza cioè avere la preoccupazione della concorrenza estera, ciò costituì una ragione di più perchè il protezionismo s'imponesse e fosse attuato.

I bilanci statali infine, presentavano larghe falle : altro stimolo all'aumento delle tariffe di confine; men-tre le leggi agrarie — che, durante la guerra, erano state necessarie per la protezione e l'incoraggiamento

dell'agricoltura — seguitarono ad aver vita ed a pro-durre i loro effetti nei vari paesi anche nel dopo-guerra, per non arrecare, con la loro soppressione, fieri colpi alle classi agricole, che il periodo bellico aveva dimostrato così necessarie.

Le Colonie ed i Dominions dell'Inghilterra che nella guerra avevano combattuto a fianco della Madre Patria, cominciarono a sbandierare i loro propositi di autonomia; e, per iniziare una politica ad essi aderente, pretesero il regime preferenziale bilaterale.

La legislazione doganale, nei vari paesi, fu, natu-ralmente, intonata al protezionismo.

L'Inghilterra, nel 1919, con l'emanazione del « Fi-nanctial Act » inaugurò un sistema protezionistico completo, cioè, sia nel campo agricolo che in quello industriale.

Il « Financtial Act » dispose vari tipi di dazi : 1) a favore delle industrie basilari; 2) contro i paesi a valuta deprezzata e anti-

dumping; 3) preferenziali per le colonie.

Inoltre, stabilì che per altri cinque anni sarebbero rimasti in vigore i dazi che nel periodo della guerra proteggevano l'agricoltura.

Negli Stati Uniti, al Presidente Wilson, rappre-sentante del Partito democratico, succedettero i repub-blicani, i quali applicarono tariffe di protezione ancor più forti di quelle ante-guerra, per difendere i mercati nord-americani dal pericolo dei dumpings europei causati dall'inflazione monetaria.

In Francia si rianimava e prendeva forza e vigore lo spirito colbertista. Ne seguì l'aumento dei diritti della tariffa doganale all'importazione in ragione di uno scarto massimo del 300 °/Q tra la tariffa massima

e la minima precedente, senza alcun pregiudizio per i coefficienti di maggiorazione già stabiliti, o che venissero stabiliti, ulteriormente.

La Spagna, che già nel 1920 aveva disposto forti inasprimenti doganali, ne elevò la portata col Decreto del giugno 1921, col quale stabilì aumento di dazi nel confronto di prodotti provenienti da paesi a valuta deprezzata.

In Svizzera, oltre acl una legge del Governo fede-rale che stabiliva i divieti d'importazione, fu appro-vata una nuova tariffa sui dazi doganali, molto elevata (1921).

Le proibizioni poi che erano state inaugurate durante il periodo bellico, seguitarono ad esistere anche nel dopo-guerra, intralciando seriamente il commercio internazionale; ma si sentì subito il biso-gno di eliminare tali intralci; e nelle Conferenze di Bruxelles (1920), di Porto Rose (1921) e di Genova (1922) se ne riaffermò la necessità.

L'idea protezionistica andava, dunque, sempre più prendendo piede, di modo che i mercati risul-tarono cintati in maniera sempre più impenetrabile; fatto questo che contribuì non poco al permanere dello stato di squilibrio economico che la guerra aveva creato, e che il dopo-guerra andava consoli-dando.

3. - A) L'attenuazione degli ostacoli che le nazioni frappongono al commercio internazionale è stato sempre considerato come uno dei principali elementi alla rinascita economica dell'Europa, e per il ristabi-limento di quell'equilibrio che prima della guerra poggiava su così solide basi.

Tale principio si è andato sempre più affermando nelle numerose conferenze economiche che si sono susseguite dalla Conferenza finanziaria di Bruxelles del 1921, a quella economica di Ginevra del 1930, per arrivare alla Conferenza di Londra del 1932.

Anche in occasione di importanti riunioni di organizzazioni internazionali, che, sotto vario aspetto, si occuparono dei principali problemi economici, (in particolare nelle assemblee della Camera di Com-mercio Internazionale) si è notato l'accentuarsi di un vasto movimento inteso ad indirizzare verso nuovi sistemi la politica doganale dei singoli Stati.

La Società delle Nazioni si è conformata deci-samente a tale indirizzo; la semplificazione delle for-malità doganali, stipulata a Ginevra il 3 novembre 1923, ha costituito, indubbiamente, il primo passo in questo campo di azione; un secondo tentativo poi, il quale però non ha dato i risultati che da esso si attendevano, è stato fatto, a Ginevra, con la Con-venzione dell'8 novembre 1927, riguardante l'aboli-zione dei divieti di importazione e di esportazione.

La Conferenza economica del 1927 si è posta la questione fondamentale della mitigazione dei diritti di confine. In seno al Comitato consultivo economico ed a quello economico, è stata messa in discussione la proposta per la conclusione di accordi collettivi, plu-rilaterali, fra il maggior numero possibile di Stati, in sostituzione od a completamento di trattati di commercio bilaterali, già stipulati o da stipulare, allo scopo di ridurre i dazi doganali di frontiera, e di regolare su una base uniforme tutti gli altri rapporti internazionali derivanti dagli scambi commerciali.

Tale principio urtava però contro ostacoli insor-montabili, così da indurre la Società delle Nazioni

ad iniziare la trattazione dell'arduo problema pro-cedendo per gradi; perciò gli Stati che avevano inte-resse alla cosa, vennero chiamati, a prendere in esame, in un primo momento, la possibilità di con-cludere accordi collettivi limitatamente ad alcuni determinati prodotti (ferro, cemento, zucchero, allu-minio, ecc.). Ma pur così ristretta e limitata, la iniziativa non raggiunse risultati concreti.

B) L'idea più combattuta, sia nel campo della politica che in quello dell'economia internazionale, è stata indubbiamente quella Paneuropea.

Dalla lentezza con cui si svolsero i tentativi per la riduzione delle tariffe doganali, presero lo spunto i delegati francesi alla X Assemblea della Società delle Nazioni, tenutasi a Ginevra dal 2 al 25 settembre 1929, per porre ed inquadrare nettamente la que-stione di tale riduzione, proponendo la costituzione di una unione doganale europea. A giustificazione di tale proposta si fece rilevare che, nel dopo-guerra, l'Europa è stata frazionata in numerosi piccoli mer-cati, dovuti alla costituzione di nuovi Stati. Tale situazione ha portato, insieme ad altre molteplici cause, alla moltiplicazione delle barriere doganali.

La questione non è nuova; nel passato fu discussa esclusivamente dai teorici dell'economia; negli ultimi anni trovò un vigoroso appoggio nella Società delle Nazioni, ad opera di una delle personalità che indub-biamente è stata tra le più credenti nell'organismo ginevrino : Briand.

Sotto l'aspetto puramente teorico, l'idea di for-mare di tutti questi compartimenti stagni, quali oggi sono gli Stati europei, un sistema di vasi comuni-canti in maniera da costituire un unico mercato, limi-tato con dazi soltanto per le importazioni da mercati

extra-europei, è certamente plausibile. Tanto più, che anche la distribuzione geografica ed etnografica euro-pea, per la quale oggi solo quattro Stati hanno più di quaranta milioni di abitanti ciascuno (la Germania, la Gran Bretagna, l'Italia e la Francia); cinque ne hanno da dieci a trenta milioni: e 18 meno di dieci milioni, indurrebbe la costituzione di questa ormai famosa Paneuropa, che potrebbe contare su cinque milioni quattrocentoquarantamila chilometri quadrati di ter-ritorio e raggrupperebbe circa 380.000.000 di abitanti.

Certamente l'esempio degli Stati Uniti, con l'enor-me sviluppo della loro economia unitaria, che con-sente una produzione di massa e riduzione dei costi, con il conseguente sviluppo industriale rapido ed in-tenso, può avere incoraggiato i fautori paneuropei. A favore dell'unione doganale, per quanto non si sia apertamente detto nelle riunioni convocate per studiare tale materia, ha contribuito la politica proi-bizionista degli Stati Uniti, contro la quale la pletora degli Stati e Statarelli europei è rimasta indifesa, e priva di armi di offesa.

La costituzione della Paneuropa potrebbe servire di contrappeso alla stragrande superiorità delle indu-strie e della politica commerciale degli Stati Uniti i quali, per i loro sistemi di organizzazione e produ-zione, possono fare il bel tempo ed il cattivo tempo nel campo economico e doganale del mondo.

In seno alla Società delle Nazioni la questione è stata oggetto di dibattiti appassionati e di studi inte-ressanti.

Il « referendum » indetto poi dal Governo fran-cese, e che ha stimolato la risposta degli Stati inte-ressati, pur riaffermando la bontà, in linea di mas-sima, dell'idea paneuropea, ha posto in chiari e pre-

cisi termini (e ciò specialmnete ad opera del memo-randum di risposta dell'Italia, dell'Inghilterra e della Germania), le difficoltà enormi che, con i presenti stati di fatto in vigore dei singoli Paesi europei, si oppongono alla costituzione di un'unione doganale europea.

Difficoltà di ordine politico economico doganale. Difficoltà che per ora sono insormontabili.

L'idea paneuropea, che, fra l'altro, dovrebbe es-sere anch'essa un rimedio per la crisi, potrà essere ripresa con una certa serietà di intendimenti per porla in opera, solamente quando il pericolo calami-toso che l'Europa sta attraversando sarà cessato, o per lo meno attenuato. Quando, cioè, gli Stati inte-ressati ad eventuale unione doganale europea, sa-ranno in grado di studiare ed osservare le situazioni nazionali senza che queste siano oscurate o falsate dal velo che la crisi ha steso su di esse.

C) La Conferenza per la tregua doganale che la ipocrita diplomazia societaria ginevrina, ha traman-dato ai posteri con la denominazione di « Conferenza preliminare per lo svolgimento di un'azione econo-mica concertata », ha, come è noto, approdato ad un risultato opposto a quello propostosi, essendosi con-statata la impossibilità assoluta di giungere alla con-clusione della progettata « azione economica concer-tata ».

Tale impossibilità a concludere, si era andata chiaramente delineando nel periodo preparatorio della Conferenza, quando l'opinione dei più si orien-tava verso un senso realistico d'esame del progetto, senza dar ascolto a taluni zelatori più o meno in buona fede, che cercavano di addolcire la pillola che avrebbe dovuto contenere dell'amaro per alcuni Paesi.

La Conferenza, che si tenne nel febbraio 1930 a Ginevra, fu chiamata a discutere la prospettata tre-gua, sulla base di un « Avant-projèt », elaborato dal Comitato Economico della Società delle Nazioni.

Sinteticamente, dunque, si sarebbe trattato per gli Stati di « buona volontà » di mettersi d'accordo per astenersi, durante un periodo di due o tre anni, dal portare le loro tariffe doganali ad un livello più alto dell'attuale, dall'imporre nuovi diritti protettivi o da creare nuovi ostacoli al commercio.

La Conferenza si trovò di fronte a difficoltà in-superabili, sia per addivenire alla enunciazione di un principio bene accetto a tutte le Parti; sia per l'attua-zione di tale principio, che, nella pratica, si dimo-strerebbe impossibile.

D) La Conferenza economica del 1930 aveva pro-spettato la possibilità di una azione rivolta alla sta-bilizzazione dei trattati di commercio attualmente in vigore tra le nazioni europee.

Tale iniziativa si concretizzò nella Convenzione del 4 marzo 1930, destinata a stabilizzare i trattati di commercio vigenti. L'accordo sarebbe dovuto an-dare in vigore al i° aprile 1931.

Viceversa, al momento di far seguire i fatti alle parole, la maggior parte degli Stati firmatari la Con-venzione, non credettero opportuno di addivenire ad un accordo per metterla in atto.

Non fu nemmeno accettata la proposta italiana, che consisteva nel mantenere in vita la Convenzione, prorogandola di sei mesi in sei mesi; con facoltà di ogni Stato firmatario di denunciarla alla scadenza di tale periodo di tempo.

La proposta era logica e moderata. Ma alla Con-ferenza sembrò inaccettabile. E ciò perchè, alcune

Potenze, che a suo tempo si erano erette a paladine della tregua doganale, del disarmo economico, di ta-riffe uniformi per tutti gli Stati, si ritrassero quando si trattò di dare sostanza alla Convenzione.

Non ostante che si sia insorti contro questo o quel paese, accusandolo di aver fatto fallire la Conven-zione del marzo 1930 (Inghilterra, Francia, Svizzera), la vera ragione della non attuazione di essa va ricer-cata nella situazione assai grave in cui versava l'eco-nomia europea.

La Convenzione del 1930 era l'unico baluardo at-tuabile contro il rincrudire del protezionismo. Si disse che sarebbe stata insufficiente: noi pensiamo, invece, che essa era essenzialmente pratica. Usciva dalle chimere del pacifismo economico astratto, sta-bilendo la rinuncia alla facoltà di denunciare trat-tati di commercio bilaterali, senza però privare gli Stati del diritto di modificare le tariffe doganali, caso per il quale era prevista l'apertura di negoziati ami-chevoli.

Sarebbe stato poco: ma abbastanza se ci fosse stata anche la buona volontà.

Dal marzo 1930 al termine prorogato del 25 gen-naio 1931, alla Convenzione furono date solamente dieci ratifiche, delle quali molte condizionate. La Germania stessa, che avrebbe avuto il più grande interesse alla stabilizzazione delle tariffe doganali, in quanto aveva una bilancia commerciale attiva con tutti i Paesi firmatari della Convenzione, non ha ra-tificato che all'ultimo istante.

L'Inghilterra, dopo aver ratificato la Conven-zione, ha dichiarato di non poterla applicare prima di aver terminato le sue trattative con sette Stati zione, dichiarò di non poterla applicare prima di

aver terminato le sue trattative con sette Stati con-tinentali; e si presentò a Ginevra legata da impegni parlamentari. La Francia poi non dette la sua ra-tifica, invocando enunciato un programma economico tendente a sgretolare la situazione esistente.

E l'ultima paratia stagna, che ancora poteva resi-stere al dilagare del protezionismo, fu distrutta (51).

E) Nel secondo semestre 1931, e nei primi mesi del 1932, il tracollo che aveva colpito il commercio estero mondiale a causa della crisi fu sensibilmente aggravato dai provvedimenti d'indole doganale e mo-netaria, a cui la maggior parte dei Paesi ricorse, per ostacolare il più che fosse possibile le importazioni, dato che le esportazioni andavano e vanno contraen-dosi in maniera impressionante.

Di due ordini furono i provvedimenti tendenti ad ostacolare il flusso normale del commercio estero. Essi si ispirarono ai seguenti principi:

1) contingentamento delle merci; '_) restrizione al commercio delle divise.

Principale conseguenza di tali nuove tendenze fu la sensibilissima contrazione verificatasi nel volume degli scambi internazionali negli anni 1930-31 e se-guenti.

4. - La salvaguardia del mercato interno a favore della produzione nazionale è dunque una conse-guenza diretta dell'autarchia economica derivante dall'esigenza bellica. E , come abbiamo detto (Capi-tolo II), furono proprio le grandi democrazie vessil-

l i ) B A T T I S T A : La politica commerciale italiana nel dopoguerra (Roma 1932-X, pag. 81 e segg.).

liiere del libero scambio ad adottare per prime le misure di recinsione del mercato interno.

Ma accanto a tale orientamento decisamente au-tarchico del problema moderno degli sbocchi, ve n'è un altro caratteristico e storicamente ricorrente.

Lo spiega assai bene il Mazzei nel già citato articolo.

A ben guardare, alla base del primo sviluppo eco- nomico-moderno inglese, di un secolo e mezzo ante-riore a quello degli altri Paesi, insieme con altre con-cause che non si intende di escludere, non si può fare a meno di porre la larga disponibilità imperiale, che forma l'economia inglese con tutti i vantaggi di una richiesta e di un'offerta intensive che hanno già pienamente le caratteristiche del traffico internazio-nale, ma hanno la sicurezza del traffico coatto. Inol-tre, si rileva per tutto il settecento e fino alla metà dell'ottocento, lo svilupparsi contemporaneo della base imperiale e della capacità di concorrenza inter-nazionale inglese; mentre è da osservare che la cam-pagna liberista ottocentesca si fonda sulla duplice consapevolezza di una superiorità raggiante nel campo coloniale e nel campo internazionale. Quando poi alla fine dell'800 e ancor più nel dopoguerra, tale superiorità comincia a vacillare, l'istinto inglese (e ben è giusto parlare di istinto perchè la scienza è ancora impigliata nella sua tesi liberista) ripiega nuo-vamente sulle preferenze coloniali non tanto conce-pite come una trincea di protezione, quanto come una base di sicurezza e di prezzi differenziali per proteggere l'espansione.

E il Mazzei soggiunge: « E chi tutto questo osserva ha ben chiara l'im-

portanza che gli imperi coloniali hanno nella espan-

sione internazionale degli Stati grandi produttori, la caratteristica importanza della autarchia su essi e da essi costruita.

« E ' infatti un'autarchia, giova sottolinearlo, che riunisce le caratteristiche estreme di produttività che possono risultare da climi e da attitudini diverse, è un'autarchia che può costituire e costruire un micro-cosmo racchiudente varie attitudini di ambiente di-verso e in cui perciò il sacrificio della costruzione autarchica può essere ridotto al minimo.

« Donde la constatazione che una politica di au-tarchia su base imperiale finisce per essere soltanto una politica di regolamentazione di produzione e di traffico, una politica di autarchia a base nazionale deve anche essere una politica di surrogati.

« Donde l'altra constazione che una politica di autarchia finisce sempre per sboccare in una que-stione coloniale ».

In senso estensivo, dunque, potremo dire che la creazione e l'organizzazione degli Imperi moderni (Inghilterra, Francia, Italia) tendono ad allargare l'ir-radiazione dell'economia autarchica sulle colonie, sui mandati d'oltremare o sui Paesi autonomi, facenti parte d'una stessa comunità politica (52). Recente-mente l'annessione di paesi europei (Polonia, Austria e Cecoslovacchia) ha fornito l'occasione alla Germa-nia di realizzare tale concezione imperiale, in una maniera particolarmente serrata, ma conseguente alle difficoltà in cui essa si è trovata nel procurarsi delle colonie.

Ma l'esempio tipico moderno del ripiegamento

(52) B A T T I S T A : Corso di Politica economica e finanziaria ( G . U . F .

Catania, 1939-XVIJ, pag. 732).

degli scambi esteri d'un paese sulle preferenze im-periali è quello dell'Inghilterra.

La guerra 1914-18, come quella attuale, lungi dal determinare lo sgretolamento dell'Impero britannico, lo trovò concorde e compatto contro la Germania. Canadesi, Australiani, Sud-Africani, Indiani, ecc., tutti vennero a combattere in Europa e vi costituirono un esercito unico, l'esercito imperiale. Ma tale solida-rietà rafforzò lo spirito di eguaglianza delle colonie autonome nei rispetti della madre patria. Niente più subordinazione, per quanto tenue e formale. Ma pa-rità costituzionale e politica, che venne raggiunta con la IX Conferenza imperiale, tenuta a Londra il 19 ottobre 1926. In essa si gettarono le basi della « British Commonwealth of Nations » secondo la quale l'Impero divenne una lega di libere nazioni, aventi personalità internazionale e quindi con asso-luta e reciproca indipendenza. Qualche cosa più di un'alleanza, come è noto, in quanto il Re d'Inghil-terra è anche Re dei dominions, oltre che Imperatore delle Indie. Si tratta di nazioni unite nella persona del monarca, nazioni che hanno evidenti motivi po-litici di solidarietà, ma la cui cementazione avrebbe dovuto derivare anche da una vicendevole assistenza economica. Questa assistenza si credette di trovarla negli accordi stipulati ad Ottawa, nell'ottobre del 1932, tra il Governo della Gran Bretagna e quelli dei Dominions (escluso lo Stato Libero d'Irlanda), del-l'India britannica e della Rhodesia meridionale.

Con gli accordi di Ottawa, in riassunto, si è deter-minata la seguente situazione:

1) L'Impero britannico ha oggi un fronte unico rispetto al resto del mondo, da cui è diviso con dazi generali che tendono a divenire sempre più alti: ma

questo fronte unico rispetto all'estero, non porta con sè il libero scambio all'interno;

2) l'Inghilterra mantiene la franchigia su molte merci coloniali, mentre assoggetta a dazi similari provenienti da altri paesi, determinando così una preferenza di quelle rispetto a queste, preferenza che aumenterà nella misura, e sarà fissata nel tempo; o che non potrà variare senza il consenso delle colonie:

3) le colonie aumentano la preferenza a favore delle merci la cui produzione è naturale nel paese;

4) le colonie si consentiranno reciprocamente il regime preferenziale.

Inutile dire che il regime preferenziale fra le varie parti dell'Impero si risolve in un regime differen-ziale per i paesi che ne sono esclusi.

La « preferenza » nell'Impero britannico non poteva essere adottata che dopo aver portato la barriera doganale inglese all'altezza della prote-zione doganale delle Indie britanniche e dei Do- nions inclusi nell'accordo di Ottawa (Canadá, Nuova Zelanda, Australia, Unione Sud-Africana). • Nel 1932 il Parlamento inglese votò dei diritti doga-nali dal 10 al 30 % sui prodotti importati, dopo aver già colpito precedentemente certe merci coi dazi di salvaguardia del 1921 (industrie-chiave, 33 %). Il coefficiente doganale passò dal 17 °/0 nel 1931, al 30 °/0 nel 1934. L a preferenza si compone di una serie di brecce aperte a vantaggio dei membri del-l'Impero, nelle muraglie doganali reciproche. Così l'Inghilterra ha accordato la franchigia doganale a circa il 41 % dei prodotti importati dai Dominions, mentre il resto è soggetto a diritti inferiori a quelli che colpiscono i prodotti esteri; alcune derrate, come la carne, sono ammesse alla franchigia, ma nei limiti

dei contingenti. I Dominions dovettero conciliare la preoccupazione di tutelare la loro industrializza-zione, fortemente spinta dopo la guerra, con gli in-teressi dell'esportazione britannica, del pari come l'Inghilterra, pur accettando largamente i prodotti agricoli dei Dominions, ha voluto dare più posto alla sua agricoltura nell'approvvigionamento alimentare del paese.

La riuscita commerciale della politica imperiale ingTese supera di molto l'aspettativa degli accordi di Ottawa. E ' infatti la svalutazione della lira sterlina, che ha favorito le esportazioni britanniche, non solo verso i Dominions, ma anche verso l'estero. Poiché durante quattro anni i prezzi inglesi rimasero sta-zionari, non ostante la « correzione » del corso della sterlina, si sarebbe potuto pensare che inversamente le importazioni di merci imperiali in Inghilterra ne sarebbero state ostacolate. Non fu così giacché i Do-minions svalutarono la loro valuta poco dopo che l'Inghilterra aveva « lasciato cadere » la sua sterlina; d'altronde il mercato inglese è tanto importante per l'Impero, che anche condizioni avverse non possono deprimerlo sotto un minimo vitale.

5. - Riassumendo, anche tenendo presente le con-clusioni a cui siamo pervenuti nel precedente Cap. II, § 4, il problema moderno degli « sbocchi » presenta tre soluzioni che possono verificarsi separate e con-comitanti :

1) alimentare delle correnti di traffico con l'estero limitatamente ad alcune materie prime e pro-dotti manufatti;

2) riservare il mercato interno alla produzione

nazionale, attraverso protezioni, proibizioni e contin-gentamenti;

3) ripiegare gli scambi internazionali sulle pre-ferenze imperiali.

La vecchia formula di G. B. Say non ha quindi più valore. Nell'epoca che viviamo la ripresa normale delle relazioni commerciali tra i popoli è diventata una questione che sorpassa di molto i semplici fatti economici; è un problema politico che non può essere risolto con dei ragionamenti fondati sull'esperienza; mette in giuoco delle ideologie diventate essenziali per la vita dei popoli.

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8 - B A T T I S T A : Premessa all'economia nuova.

C O N C L U S I O N I

i. - Oltre un secolo fa G. B. Romagnosi definì l'economia politica come « l'ordine sociale delle ricchezze ». Oggi non potremmo dir meglio per rap-presentare lo stadio attuale dell'evoluzione econo-mica e del ricorrente pensiero scientifico, che si rias-sumono nell'economia nuova.

Nel mondo v'è ormai un ordine negli schemi del diritto, negli istituti politici e sociali; v'è un ordine, anche e sopratutto, nella più vitale e dinamica fun-zione umana, quella economica, da cui dipende la distribuzione delle ricchezze.

E tale ordine è sociale in quanto sì è accertata la necessità e la convenienza che le azioni degli in-dividui non debbano ostacolare quelle poste in es-sere dallo Stato per raggiungere fini d'interesse col-lettivo, cioè sociale, tanto nei rapporti economici al-l'interno delle nazioni, quanto in quelli esterni.

Sulla mancata identificazione dei fini individuali con quelli sociali della collettività, s'imposta, come è noto, il contrasto tra la scienza economica e la realtà economica.

Partendo da tale contrasto il Pareto, dopo aver illuminato con la sua mente elevata l'economia teo-rica, l'ha ripudiata come scienza che vuol avere una portata pratica poiché ha osservato che, mentre la

economia politica studia le scelte, cioè le azioni umane razionalmente dirette ad assicurare un massi-mo di soddisfazioni od un minimo di sacrifìci — azio-ni che egli chiama logiche — trascura lo studio delle azioni che chiama non logiche, di quelle azioni cioè che non uniscono logicamente i mezzi al fine e nelle quali quindi il risultato non corrisponde al fine, sia perchè il fine ne diverge, sia perchè un fine manca.

Di qui il contrapposto, che egli faceva, fra teoria economica e sociologia. La economia teorica studia le scelte che intervengono in modo da assicurare certe soddisfazioni con un minimo di sacrificio determi-nato; la sociologia studia la condotta effettiva degli uomini e dei Governi determinata sia da azioni lo-giche che da azioni non logiche.

Ciò non vuol dire però, a parer nostro, che le azioni non logiche non siano economiche: si può invece sostenere che la scienza economica così come finora è stata tradizionalmente concepita, è insuffi-ciente a considerarle.

L'esercizio delle azioni non logiche ha causato il superamento dei due capisaldi dell'economia clas-sica: « lasciar fare » e « costi comparati ». Se ne può concludere quindi un superamento totalitario del-l'economia classica.

A l posto di tali due capisaldi, altri ne sono sorti : l'interventismo statale, e l'autarchia economica. E , in termini più scientifici, si è verificata la sostitu-zione della utilità individuale con l'utilità sociale nelle premesse dell'economia, da cui in via del tutto generale possono farsi discendere due ordini di utilità

sociale: utilità sociale nei rapporti interni di una na-zione, e utilità sociale nei rapporti esterni.

L'economia nuova si basa su tali due ordini di manifestazioni.

2. - L'economia nuova è soltanto una realtà eco-nomica o può essere considerata, al punto in cui sia-mo, anche come una nuova scienza economica?

Noi riteniamo che i fatti accertati sono sufficienti per risalire alla formulazione di alcune considera-zioni di carattere scientifico, quindi universale, sui fenomeni economico-sociali dei tempi moderni.

Naturalmente il punto d'osservazione non può che essere del tutto diverso da quello in cui si po-nevano gli economisti classici.

Abbiamo detto poc'anzi che anche le azioni non logiche possono essere considerate come economiche.

Infatti, se la scienza economica viene considerata nel senso più comprensivo della teoria che studia le scelte degli uomini dirette ad assicurarsi il bilancio più favorevole tra soddisfazioni e sacrifici, è evidente che tutte le azioni razionali degli uomini, quindi an-che quelle dette non logiche, rientrano nel campo dell'economia.

E ' questo il punto in cui ci poniamo. Il movente delle azioni razionali degli uomini è spesso il rag-giungimento di un fine non economico, ma politico, morale, religioso, ecc.. Compito della nuova scienza economica è unicamente la ricerca della soluzione economicamente più conveniente, per raggiungere un fine, sia questo economico o meno.

C

E ciò perchè quando si formula un giudizio in-tegrale su un provvedimento tendente a raggiungere un fine d'interesse collettivo, non si può parlare di utilità pura e semplice, parola a cui si può essere portati a dare uno stretto significato economico, ma di utilità e opportunità politico-economica, di costo politico-economico, oppure, più comprensivamente, di utilità sociale.

Utilità, opportunità e costo politico-economico che sono differenziati dai loro omonimi unicamente economici.

L'utilità sociale può essere differenziata dalla utilità individuale per i seguenti principali aspetti:

A) Visione ultra-individuale, statale, nazionale che si prolunga nel tempo, si allarga nello spazio a tutta la vita della Nazione e dello Stato, e che sopra-tutto riunisce, nella sua valutazione, in unità i sin-goli individui e le singole generazioni, sì che può darsi che il costo ricada su un individuo o su una generazione, e la utilità favorisca altri individui o altra generazione. E ' tipica in tal senso la politica protezionista : grava i consumatori, favorisce i produt-tori, spesso l'efficacia di un provvedimento protettivo non si esaurisce in una generazione, sì che non di rado tutta la generazione presente è sacrificata alle generazioni future. Il nesso dunque che unisce nel suo raffronto il costo all'utilità è un nesso di unità etico-politico-nazionale, non individuale. La legge che tale unità stabilisce non è economica, ma supereco-nomica, etica, politica, giuridica.

Non si tratta soltanto di sdoppiare il calcolo della utilità su unità individuali diverse riunite nella su-periore unità nazionale. Si tratta anche di usare cri-

teri di valutazione non economici, ma etici, poli-tici, ecc., che agli economici sono accompagnati, su-gli economici devono spesso prevalere e questa loro stessa ragione di prevalenza traggono non da una impossibile, nella diversa natura, valutazione econo-mica, ma da una superiore valutazione economico-politica.

B) Per ogni atto economico si presuppone un dato costo ed una conseguente utilità; e si parla quindi di una necessaria premessa della produzione o di una qualità essenziale per il consumo. Nel cam-po della utilità sociale si tratta invece di raffrontare tutte le conseguenze dirette e indirette positive di esso, raffronto che per pura ragione di metodo sarà opportuno fare prima fra gli effetti economici, poi fra gli extraeconomici, ma che dovrà poi essere in modo decisivo fatto fra tutti gli effetti positivi e tutti gli effetti negativi gerarchicamente valutari in fun-zione della utilità sociale.

Queste valutazioni dei fini sociali dell'economia nuova permettono di colmare lo jato tra realtà e scienza economica, considerando lo Stato — germi- natore unitamente all'individuo della utilità sociale — fra le premesse della nuova scienza economica.

3. - La teoria classica sostiene, com'è noto, che l'automatismo delle forze individuali conduce alle posizioni di equilibrio, ossia a quelle che realizzano il massimo di utilità collettiva, solo che si lascino li-bere: e la politica economica invoca l'azione dello Stato proprio per correggere le conseguenze dell'auto-

matismo delle forze individuali lasciate libere. Ma non è allora più logico assumere lo Stato non già come il postumo correttore degli errori individuali, ma come quella realtà che, nella dottrina, deve essere assunta quale necessario fattore d'integrazioni della condotta economica individuale per renderla razio-, naie? In sostanza l'errore economico è una forma del comportamento dell'individuo dinamico in una società organizzata, è una divergenza tra gli interessi e fra le utilità individuali e le utilità sociali. E ciò perchè la società non è risolvibile nella somma degli individui che la compongono, cosicché la sua utilità non è tutta risolvibile nella somma delle utilità indi-viduali. E , dato che lo Stato è l'espressione necessaria della società organizzata, la divergenza fra i due tipi di utilità si presenta come inevitabile, non foss'altro come abbiamo visto più sopra a causa della diversa lunghezza del tempo a cui si riferisce il calcolo di utilità. L'atto economico individuale acquista, dun-que, la sua piena logicità dall'eliminazione di questa divergenza. Lo Stato, dunque, è un fattore necessario della logicità degli atti economici individuali.

Ed è per questo che abbiamo sostenuto essere le azioni razionali dell'uomo tutte logiche e quindi com-prensibili nella scienza economica.

Soltanto assumendo lo Stato fra le premesse del sistema economico si può costruire, secondo una lo-gica esigenza di pensiero, una teoria dell'equilibrio economico compiuta in se stessa, ossia capace di ri-solvere internamente ogni conflitto. Tale teoria non è solo scientificamente possibile, ma è anche l'unica teoria economica scientificamente perfetta (Vito) che

possa formularsi in base alla realtà storica e contem-poranea, e di cui l'economia corporativa è la più ra-zionale espressione nel mondo moderno.

Le esigenze del pensiero, le indicazioni della so-ciologia, quelle della realtà economica convergono tutte verso questa mèta alla quale ci porta, d'altro lato, la stessa evoluzione del pensiero economico moderno.

I N D I C E

PAG.

Prefazione . . . 7

P A R T E P R I M A

L A F I N E D E L « LASCIAR F A R E »

Cap. I - Individualismo e libertà economica 13

» II - L'intervento dello Stato nella evoluzione delle dot-trine economiche . . . . . . . 25

» III - Ragioni e l'orme dell'intervento dello Stato - 3 5

P A R T E SECONDA

SUPERAMENTO D E L L A TEORIA DEI COSTI COMPARATI

Cap. I - L'industrializzazione dei Paesi agricoli . 51

» II - Autarchia e commercio estero . . . 67

» III - Il problema moderno degli « sbocchi » . 93

Conclusioni 1 17

Finito di s lampani i l IO Apri le 1940-XVIII presso la S.A.E.T. |Ar l i GrallcliB Trinacrio|

Roma • Via Cresconzio. 2 - TelBlono 30-803

PREZZO DEL PRESENTE VOLUME L. 1 2