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Esperienze di sostegno ai caregiver familiari A cura del Settore Residenze Anziani di CADIAI Quaderni CADIAI 11 Spazi per condividere Marie Christine Melon, Sabrina Stinziani

Quaderni CADIAI - Lavoriamo per la sostenibilità · Gli operatori che lavorano con persone affette da demenza ... delle indicazioni presenti nel Manuale per i familiari: “Non so

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Esperienze di sostegno ai caregiver familiari

A cura del Settore Residenze Anziani di CADIAI

Quaderni CADIAI

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Spazi per condividere

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Marie Christine Melon, Sabrina Stinziani

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Indice

Premessa ................................................................................................................................................................... 5

Introduzione .......................................................................................................................................................... 7

Anche gli operatori sociali hanno una mamma (… e un papà) ....... 7

La fatica di farsi ascoltare ............................................................................................................... 10

Il processo di accettazione della malattia ............................................................... 11

La relazione di aiuto .............................................................................................................................. 21

L’ascolto attivo ............................................................................................................................................. 23

L’ascolto come competenza sociale ............................................................................... 23

L’ascolto empatico nella relazione d’aiuto ........................................................... 25

Cosa si intende per ascolto attivo? .................................................................................. 28

Il counseling psicologico al consultorio ................................................................. 35

Spazi di condivisione in residenza .................................................................................. 43

L’Alzheimer Café ......................................................................................................................................... 59

Il Caffè San Biagio .................................................................................................................................... 61

Il contesto ............................................................................................................................................................. 63

Breve descrizione del servizio ................................................................................................. 64

Perché un Alzheimer Café a San Biagio di Casalecchio? .................... 65

Obiettivi del progetto ............................................................................................................................. 67

Costruzione e descrizione del progetto ...................................................................... 67

Valutazione dell’esperienza ......................................................................................................... 73

Risultati attesi ............................................................................................................................................. 73

Risultati ottenuti ...................................................................................................................................... 73

2

3

A Simona Onofri

e Olimpia Tramontano

4

55

Premessa

“... e un’altra cosa che fa impazzire dell’Alzheimer è che nessuno più vuole veramente parlare con noi.

Forse ci temono, non sono sicuro che sia proprio questo, ma possiamo assicurare tutti:

certamente l’Alzheimer non è contagioso.”

Abbiamo pensato a questo collage di riflessioni, immagini, re-

soconti e citazioni per dare conto di un lento e paziente lavoro

che le residenze per anziani stanno conducendo da diversi anni,

sicuramente gli ultimi dieci, forse qualcuno di più.

Un lavoro che nel tempo ha dato i suoi frutti, ma che conosce an-

cora stalli e cedimenti improvvisi e frustranti. Un lavoro che non

è mai finito, perché l’utenza che cambia richiede aggiustamenti

continui, rispetto ai quali non sempre ci sentiamo preparati.

L’obiettivo immediato di questo lavoro è migliorare la qualità del

servizio che rendiamo all’anziano residente migliorando la qua-

lità del nostro rapporto con il suo caregiver familiare. L’obiettivo

di lunga durata è trasformare l’immagine e la natura stessa delle

residenze per anziani.

Ci sarà sempre più bisogno di luoghi a cui delegare la cura, per-

ché l’età media avanza e le gravi patologie sono sempre più cura-

bili. Sconfiggiamo la morte, ma dobbiamo ancora imparare molto

sul miglioramento della qualità della vita residua.

Ci sarà sempre più bisogno di luoghi dove imparare ad affrontare

problemi di cura che la cultura familiare e la cultura tradizionale

non si sono mai trovate ad affrontare, di cui non hanno potuto

lasciarci in eredità modelli efficaci.

Ci sarà sempre più bisogno di luoghi dove condividere la fatica,

apprendere il coping, sentirsi accolti e trovare ascolto, perché

l’esterno è sempre più trascurante, più incompetente, più sordo.

6

Le citazioni che abbiamo disseminato nel testo - perché ci

sembrava importante mantenere vivo anche il punto di vista

del malato - sono tratte dal libro Visione parziale. Un diario

dell’Alzheimer, di Cary Smith Henderson, Professore universita-

rio di Storia, edito da Federazione Alzheimer Italia1.

Le foto sono state scattate, in vari momenti e in vari anni, dal

personale che lavora nelle residenze.

1 Via T. Marino 7, 20121 Milano, Tel. 02 809767 - Fax 02 875781 email: [email protected]

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Introduzione

Anche gli operatori sociali hanno una mamma (... e un papà)

“... ridere è una cosa bellissima, il sense of humour è la cosa più preziosa e importante per chi ha l’Alzheimer.”

Lavorare con gli anziani malati di demenza richiede necessaria-

mente di sapersi occupare anche dei membri della loro famiglia.

Ogni essere umano porta con sé ricordi, sensazioni, atteggia-

menti, modi di reagire che derivano certamente dalla sua sto-

ria personale, ma anche dalla sua storia familiare e dallo stile

relazionale della sua famiglia. Indipendentemente dalla nostra

consapevolezza, questi sentimenti influenzano a diversi livelli il

nostro agire e la relazione che stabiliamo con il malato e con i

suoi caregiver familiari. Imparare a riconoscere questa eredità,

nelle sue valenze positive come in quelle negative, può avere

effetti benefici sul nostro modo di lavorare e anche sulla nostra

vita privata. Ci troviamo di fronte, a volte, a comportamenti emo-

tivamente difficili da gestire, come il vagabondaggio, l’aggressi-

vità, le condotte sessuali incongrue. I malati di cui ci occupiamo

col tempo regrediscono a un livello infantile e hanno bisogno di

assistenza totale per nutrirsi, muoversi, vestirsi e mantenere un

decoro. Questa somma di esigenze può mettere a dura prova la

nostra pazienza, la nostra fermezza, le sicurezze che ci danno

stabilità, può farci dubitare dell’utilità del nostro lavoro e della

nostra competenza.

Gli operatori che lavorano con persone affette da demenza speri-

mentano spesso sentimenti di tristezza, frustrazione, impotenza

e paura di essere un giorno vittime della stessa malattia2.

2 Cfr. B. Genevay e R. Katz, Le emozioni degli operatori nella relazione di aiuto. Il controtransfert nel lavoro con gli anziani, edizioni Erikson, 2000

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Hanno a che fare con i vissuti relativi al loro personale invecchia-

mento e hanno vissuti riguardanti i loro genitori o altre persone

significative, che possono avere la stessa età degli anziani di cui

si occupano e magari problemi simili. Se vogliamo garantire una

buona qualità al nostro intervento, dobbiamo affrontare questi

sentimenti e dobbiamo, per esempio, riconoscere che i nostri

pregiudizi3 contribuiscono a determinare l’opinione che abbia-

mo dei familiari degli anziani dementi che assistiamo e il tipo di

relazione che stabiliamo con loro.

Gli operatori sociali manifestano con una certa frequenza atteg-

giamenti da ‘figlio ideale’, tendono a vedere l’anziano in una luce

ciecamente positiva e si mettono in competizione con i figli adul-

ti, che spesso hanno nei confronti del malato sentimenti ambi-

valenti. L’operatore si assume la difesa dell’anziano e si sente

gratificato nel comportarsi come il figlio perfetto di un genitore

perfetto, lasciando ai veri figli il ruolo dei bambini cattivi e rifiu-

tanti. In altre situazioni, l’operatore può travalicare i limiti di una

relazione d’aiuto professionale proponendosi come sostituto del

familiare o lasciandosi coinvolgere in triangoli relazionali da fa-

miglie che vivono al loro interno grossi conflitti. Diversi operatori

riferiscono di incontrare difficoltà maggiori quando la famiglia

del malato assomiglia molto alla loro famiglia, perché il rischio

di invischiamento emotivo risulta più elevato. Avendo a che fa-

re con intere famiglie e non con singoli individui l’elaborazione

delle emozioni diventa più complessa, ci si trova a dover fare i

conti con la rabbia, la frustrazione, l’impazienza, l’irritazione, la

tristezza e il senso di impotenza di un intero gruppo. Ma anche

con l’empatia, l’ammirazione, la soddisfazione e altri sentimenti

positivi testimoniati contemporaneamente da n-individui.

3 Tutti ne abbiamo e ci condizionano abbondantemente. Non possiamo eliminarli, ma dobbiamo sempre ricordare di averli e saperli riconoscere quando si manifestano e ostacolano la nostra capacità di elaborazione.

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Quando i familiari sono alla continua ricerca di una medicina mi-

racolosa, di un intervento magico, di un esperto salvifico, quan-

do hanno la tendenza a delegare e a investire qualsiasi oggetto

esterno di responsabilità che non si sentono in grado di assu-

mersi, l’operatore sociale può avvertire sulle sue spalle un cari-

co eccessivo, ma può sentirsi anche molto gratificato dal tipo di

potere che gli viene conferito ed essere tentato di raccogliere la

delega. Per la sua tutela professionale e per il bene dell’anziano,

però, deve invece imparare a sostenere il familiare nel recupero

del controllo sulla propria vita e su quella del congiunto, aiutan-

dolo a riconoscere e a rinforzare le sue capacità di gestione della

situazione di crisi.

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La fatica di farsi ascoltare

“... qualche volta mi sento maledettamente inutile e provo un senso di vergogna per non essere in grado di fare le cose ed essere così ottuso.”

Il familiare che assiste per 24 ore al giorno un malato da cui sta

lentamente e progressivamente perdendo il contatto affronta il

suo duro lavoro spesso da solo.

è inevitabile che provi sentimenti di impotenza, incapacità, rab-

bia, disperazione, negazione della malattia. Questi sentimenti

possono caratterizzare, di riflesso, anche il lavoro dell’operatore

che ad un certo punto del percorso lo affiancherà.

è possibile che questo migliori la qualità empatica della loro re-

lazione, ma è più facile che ostacoli il processo di aiuto.

L’identificazione con il caregiver può diminuire l’obiettività pro-

fessionale dell’operatore che se ne occupa e limitarne la capaci-

tà di giudizio. Possiamo essere indotti a fornire consigli, ricerca-

re servizi, offrire assistenza al di là dei limiti del nostro statuto

professionale, perché ci sentiamo disperati e frustrati se non

riusciamo a rispondere a una richiesta di aiuto con una ricetta

immediatamente efficace. Oppure, al contrario, possiamo tenta-

re di “scaricare” il problema per evitare di affrontare la nostra

sensazione di impotenza.

Possiamo convincerci, per esempio, che il familiare o il malato

hanno bisogno di un tipo di intervento diverso o di una particola-

re competenza che noi non siamo in grado di offrire, o possiamo

decidere che il familiare oppone troppe resistenze e non si lascia

aiutare. In realtà siamo noi a non saper raccogliere la sua richie-

sta di aiuto. Adottando un atteggiamento rigido o falsamente

dimesso, stiamo in realtà cercando di sfuggire un vissuto di ina-

deguatezza e di incapacità.

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Possiamo decidere di negare questi sentimenti o possiamo sce-

gliere di usarli. Se riusciamo a comprendere che il familiare che

abbiamo di fronte si sente inadeguato e incapace quanto noi,

allora possiamo trovare una terreno comune su cui fondare un

lavoro condiviso.

Il processo di accettazione della malattia 4

“... mia moglie sta facendo di tutto per rendermi le cose più sopportabili, per tenermi occupato e farmi

sentire bene, lo apprezzo veramente tanto.”

4 I contenuti di questo paragrafo sono una rielaborazione delle indicazioni presenti nel Manuale per i familiari: “Non so cosa avrei fatto oggi senza di te”, a cura della Regione Emilia Romagna, seconda edizione aprile 2003, reperibile anche sul sito www.emiliaromagnasociale.it

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Il familiare di un malato di demenza si trova ad elaborare le varie

fasi del dolore conseguente all’evolvere della malattia facendo

leva sulle sue risorse personali e sulla su capacità di accettare la

separazione progressiva che la malattia comporta. Il manifestar-

si della demenza produce inoltre un ribaltamento delle strutture

e delle relazioni familiari che spesso dà luogo a importanti modi-

ficazioni comportamentali e affettive.

Il cammino lungo e difficile che il caregiver familiare deve affron-

tare è simile al processo di elaborazione di un lutto, perché il ma-

lato si trasforma, la persona ben conosciuta progressivamente si

ritira e lascia il posto a una persona diversa, che riconosciamo

con difficoltà e che non ci riconosce più.

Il processo di accettazione della malattia comprende diverse fasi:

- la negazione, cioè l’incapacità di accettare ciò che sta acca-

dendo, mentendo anche sull’evidenza dei fatti. In questa fase

spesso i familiari consultano diversi specialisti, si appoggiano

a diversi centri, sperimentano farmaci e terapie potenzialmen-

te miracolose, cercando una conferma alla loro idea di un erro-

re diagnostico. Possono accusare il malato di fingere per i più

vari scopi, oppure cercare di convincerlo che deve riprendere a

comportarsi come prima.

- l’iperattivismo, cioè la tendenza a sostituirsi al malato in ogni

minimo ambito della vita quotidiana, per diminuire l’impatto

e l’evidenza dei deficit e dei vuoti di competenza. Fanno per il

malato, pensano per il malato, rispondono al suo posto nelle

conversazioni, in modo tale che nessuno possa accorgersi del

cambiamento e che l’immagine sociale del congiunto si man-

tenga integra il più a lungo possibile. Oltre a risultare ecces-

sivamente faticosa, questa strategia comporta un alto rischio

di frustrazione, perché i risultati ottenuti non sono certamente

quelli attesi.

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- la rabbia, perché quando i tentativi di negare o di mascherare

i problemi non portano ad alcun risultato possono darsi situa-

zioni in cui la collera - rivolta verso il malato o anche verso se

stessi - esplode. Il familiare si arrabbia con il malato perché

non fa o non ricorda quello che gli si dice, perché ha comporta-

menti bizzarri o perché ripete mille volte la stessa cosa.

- il senso di colpa, che normalmente segue le espressioni di rab-

bia, ma si manifesta anche in momenti diversi della malattia,

per una bugia detta all’anziano, per un rimpianto, per una scel-

ta fatta al suo posto e culmina nelle fasi terminali, quando la de-

cisione per il ricovero residenziale diventa spesso inevitabile.

Come possiamo aiutare il familiare in questo faticoso cammi-

no? Legittimando i sentimenti ambivalenti: sapere che l’altro

non ci giudica per aver provato rabbia nei confronti del malato,

sapere che è umano perdere il controllo in situazioni di forte

stress, sentire accolti anche i propri cedimenti è già un buon

terreno su cui avviare una condivisione empatica. Aiutandolo

ad accettare aiuti esterni: potersi concedere qualche spazio al

di fuori delle mura domestiche, uscire anche per brevi momen-

ti dall’isolamento e dalla solitudine che la malattia comporta

come effetto collaterale per il caregiver, dona sollievo imme-

diato. Favorendo la narrazione dei vissuti emotivi: poter rac-

contare il proprio dolore a qualcuno di esterno alla famiglia,

a un professionista allenato all’ascolto, capace di accogliere

il disagio senza giudicarlo può agevolare il familiare nel rico-

noscimento e nell’elaborazione dei meccanismi psicologici e

comportamentali che aggravano il peso della cura.

- Aiutandolo a comprendere la malattia: si tende a dare per

scontato che ormai tutti sappiano che cos’è una demenza, ma

la maggior parte delle persone ne ha un’idea molto personale

e piuttosto confusa. In alcune situazioni complesse, aiutare il

familiare a comprendere che la malattia non è l’espiazione di

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colpe pregresse e non ha nulla a che fare con i comportamenti

passati del congiunto può modificare in senso molto positivo

la relazione che questi ha con il malato. In generale, comun-

que, chiarire l’origine (anche organica) di sintomi difficilmente

spiegabili o di comportamenti che feriscono il familiare può

favorire l’avvio del processo di accettazione della malattia.

“... i caregiver ci danno l’anima e penso che debbano

essere come tutti gli altri, prendersi i loro momenti, da trascorrere lontano da noi.”

Nel momento in cui si verifica un evento perturbante - una grave

malattia, un lutto, una perdita - nella famiglia si riorganizzano

ruoli e copioni relazionali. Nel caso di un genitore che si ammala

di demenza, i ruoli e i compiti familiari vengono spesso ribaltati

e chi prima era la persona accudita - un figlio, un marito - de-

ve imparare a trasformarsi nella persona che accudisce e che si

prende cura. Questo avviene molte volte in famiglie dove gli stru-

menti per reagire adeguatamente all’evento critico sono ridotti,

a causa all’età avanzata dei membri, del retroterra culturale o

della scarsa informazione sui problemi conseguenti alla malattia

dementigena.

Occorre anche tenere in considerazione il vissuto emotivo della

persona malata che, da normale, si sente piano piano cambiare,

sente di non essere più la persona di un tempo, di cui poteva in

ogni momento prevedere o spiegare i comportamenti.

“... mia moglie mi domanda spesso perché faccio le cose che faccio, e dico quello che dico.

Mi venga pure un accidente se lo so!”

Nella fase diagnostica o terapeutica di molte malattie si dimenti-

ca spesso la centralità del paziente: questo vale soprattutto nel

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17

caso del malato di Alzheimer. Persino a noi operatori apposita-

mente formati accade di porre una domanda direttamente all’an-

ziano per poi affidarci alla risposta del caregiver! La consapevo-

lezza del malato verso la sua malattia, invece, è un elemento che

non si deve assolutamente trascurare.

“... noi abbiamo una certa coscienza e sentimenti. Sappiamo molto di più di quello che

diamo l’impressione di sapere, dato che ci risulta così difficile esprimerlo.”

Quando l’anziano ha insight di malattia, cioè ha consapevolezza

di trasformarsi in un essere diverso che non riesce più a control-

lare il proprio mondo esterno e interno, tende a manifestare stati

d’ansia a volte anche molto accentuati e, in alcuni casi, quadri di

depressione reattiva.

“... tantissime volte non riesco a visualizzare la cosa, non riesco a ragionarci sopra… diventa frustrante, mi

arrabbio. Anche quando inciampo su qualcosa mi arrabbio. Penso che l’Alzheimer riguardi oltre

al cervello anche mani e piedi.”

La persona ammalata fatica ad accettare il cambiamento in ne-

gativo esattamente come il suo caregiver: questo impone a en-

trambi una faticosa elaborazione emotiva e cognitiva che, se ben

condotta, porterà a una doppia accettazione della malattia e a

una ristrutturazione degli atteggiamenti e dei comportamenti

destinata a durare nel tempo. Ogni individuo ha caratteristiche

di temperamento e di personalità proprie e irripetibili e una sto-

ria di vita unica: ciascun percorso di accettazione risulterà perciò

a sua volta unico e difficile da prevedere.

Nella nostra esperienza abbiamo incontrato famiglie e individui

che non hanno mai accettato fino in fondo la malattia, però tutti,

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prima o poi, hanno fatto qualche passo avanti in quella direzio-

ne. Ciascuno con i propri tempi, con fasi di progresso e fasi di

regressione, ma tutti con l’obiettivo di sopportare meglio e di

soffrire meno, di trovare una migliore qualità di vita per sé e per

il proprio congiunto malato.

“... in parole povere, siamo goffi, smemorati e naturalmente i nostri caregiver lo capiscono, e talvolta

penso che debba essere molto dura anche per loro...vogliamo che le cose vadano come prima, ed è proprio questo che non riusciamo a sopportare, di non riuscire

a essere quello che eravamo... fa male da morire.”

Il malato ha bisogno di sentirsi amato, rispettato e anche accu-

dito con tenerezza.

“... io cerco il più possibile di apparecchiare la tavola e sbrigare piccole faccende domestiche, e mia moglie

me lo lascia fare, grazie a Dio. Dobbiamo avere qualcosa che riusciamo a fare... per sentirci utili.”

La parola sentire è al centro della sua affettività. Il malato avver-

te gli stimoli, per molto tempo rimane in grado di assorbirli, ma

l’elaborazione consapevole gli viene progressivamente meno.

“... molte cose non le capisco, anche dopo che qualcuno me le ha dette esplicitamente. Se riuscissi

a farglielo capire in qualche modo e a dirglielo; sicuro, ho sentito, ma le conseguenze di quello

che ho sentito, quelle mi sfuggono.”

“... sento un gran formicolio nella testa.”

“... mi sento un anziano di serie B.”

“... amo il bello... la mia musica mi fa stare ancora bene.”

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Nelle fasi avanzate della malattia il tatto è alla base della perce-

zione che consente al malato di conoscere, valutare e memoriz-

zare ciò che è buono e ciò che è cattivo.

L’organo di percezione diventa la pelle, che ha una sua forma di

memoria: il nostro cervello registra e archivia le percezioni cor-

poree di tutta la nostra vita. Nel demente grave queste moda-

lità percettive diventano prevalenti: assumono quindi rilevanza

particolare la qualità delle cure fisiche prestate, i modi, i tempi

dell’accudimento.

Il lavoro con il malato grave è fatto essenzialmente di manovre

assistenziali, lavare e asciugare la persona completamente di-

pendente, cambiarla, vestirla, pettinarla, alzarla e adagiarla sul-

la carrozzina o sistemarla comodamente sul letto, imboccarla…

L’anziano sperimenta nuovamente le sensazioni della prima in-

fanzia, quando veniva lavato, profumato, cullato e nutrito dalla

madre e la sua esperienza del mondo avviene con le stesse mo-

dalità poco consapevoli del neonato.

La relazione simbiotica madre-bambino viene sostituita dalla re-

lazione materiale di cura anziano-caregiver, che in questa fase

assume un’importanza fondamentale per i malati, spesso sotto-

valutata dagli operatori di base, dai familiari o dalle persone che

direttamente si occupano del nursing di questi anziani.

Le manovre assistenziali vengono sovente praticate in modo

meccanico, senza alcuna partecipazione emotiva, senza empatia

e il corpo, che è l’ultima casa dell’anziano demente, viene igno-

rato nella sua globalità e suddiviso in porzioni di interesse limi-

tato alle singole attività.

Raramente una madre si accinge a nutrire il suo piccolo senza

prima essersi assicurata del suo benessere generale (è asciutto?

ha bisogno di essere cambiato? starà comodo in questa posizio-

ne? è nervoso, ha qualche piccolo dolore?), ma non sono pochi

i caregiver formali e informali che nella stessa situazione si pre-

20

occupano esclusivamente della quantità di cibo che l’anziano as-

sume. Immaginando empaticamente, a questo punto, di trovarsi

nei panni del malato e del suo caregiver, chiunque può rendersi

conto che sono davvero panni molto stretti e molto scomodi: chi

li indossa ha diritto a tutto l’aiuto possibile.

21

La relazione di aiuto

“... anche un caregiver può ammalarsi. Mia moglie, che non è mai malata, oggi non sta troppo bene... il che mi

fa sentire in balia di me stesso e mi trovo a disagio.”

Una relazione interpersonale è il risultato di una serie di atti, at-

teggiamenti, messaggi e scambi tra due persone che nel tempo,

progressivamente, costruiscono e fanno evolvere la loro perso-

nale immagine di questa relazione. Ciascun atto, atteggiamento,

messaggio, scambio ha contemporaneamente una valenza prati-

ca e una valenza simbolica.

Una relazione professionale di aiuto sembrerebbe, a prima vista,

una relazione assolutamente complementare, cioè una relazione

in cui uno dei partner emette un comportamento (una richiesta

d’aiuto) e l’interlocutore risponde con un comportamento diver-

so ma atteso (accoglimento della richiesta). E dunque una rela-

zione sbilanciata, in termini di potere, verso uno dei due poli: il

cliente che chiede, l’esperto che fornisce le risposte.

La relazione non si esaurisce, in realtà, in quest’unico tipo di

scambio. Al momento dell’avvio, per esempio, è spesso rovescia-

ta: l’esperto è teso a convincere il cliente che può fidarsi di lui,

che può trarre un beneficio dagli atti, atteggiamenti, messaggi e

scambi che saprà produrre, il cliente controlla lo sviluppo della

relazione in una posizione di cautela e di verifica.

Se la relazione attecchisce e si sviluppa, ci saranno momenti in

cui lo scambio è assolutamente equilibrato: al momento dell’av-

vio o del commiato, per esempio, quando entrambi si preoccu-

pano di testimoniare all’altro la reciproca stima o la (sincera)

valutazione positiva dell’esperienza trascorsa, ma anche in un

momento di scontro, quando entrambi si sentono ‘non capiti’

dall’altro.

22

Le difficoltà possono nascere quando il professionista si lascia

prendere dall’ansia di prestazione, in un momento in cui non è

in grado di trovare una soluzione immediata alle difficoltà e si

scontra, di conseguenza, con un senso di impotenza. Quando,

per esempio, il cliente si aspetta una ‘ricetta’, una soluzione

preconfezionata applicabile immediatamente. L’aspettativa del

cliente aggancia il bisogno dell’esperto di produrre risposte co-

munque e sempre efficaci, per dare un senso al suo ruolo e alla

sua scelta professionale.

Un altro passaggio critico è lo sviluppo di una dipendenza, quan-

do la persona che chiede aiuto delega completamente la com-

petenza della soluzione e colui che aiuta commette l’errore di

accettare questa delega per soddisfare il proprio bisogno di effi-

cienza e di efficacia.

L’unica realistica possibilità che l’operatore in situazione di aiu-

to ha davanti a sé è la rinuncia a presentarsi come colui che sa,

che detiene il potere della conoscenza e il segreto della soluzio-

ne del problema. L’aiuto vero è quello di offrirsi al cliente come

uno spazio, un luogo dove stare bene, un luogo dove tutto può

essere compreso, un luogo di accettazione e di accoglienza dove

l’unica fatica è quella di dare un significato al dolore, alla malat-

tia, alla vita come si presenta.

La relazione d’aiuto non deve essere una relazione codificata e

rigida, ma un sistema dove le parti comunicano e interagiscono

e hanno in comune la ricerca di una nuova organizzazione. Un

contenitore che non può essere sempre rassicurante, ma che sa

accettare il nuovo, l’imprevisto, la diversità.

23

L’ascolto attivo

“... può anche darsi che io non sappia sempre di cosa sto parlando, però accidenti, riesco ancora a parlare!”

Il lavoro di un operatore sociale risulta tanto più efficace se le

competenze tecniche si integrano con buone competenze rela-

zionali.

Gli operatori dei servizi alla persona hanno spesso, per indole

e per le esperienze maturate nel corso degli anni, un buon ba-

gaglio di competenze relazionali, però nella maggior parte dei

casi si affidano più all’istinto e alla spontaneità che all’appro-

fondimento e spesso difettano di un apparato tecnico specifico,

acquisito in seguito a una formazione mirata.

Quali competenze relazionali dovrebbe possedere un operatore

socio-sanitario?

- Buone capacità di osservazione e di riconoscimento del lin-

guaggio non verbale (contatto visivo, postura, elementi della

comunicazione paralinguistica).

- Capacità di decodifica dei messaggi e corretta impostazione

dei comportamenti verbali.

- Ascolto attivo e relative conoscenze su come strutturare un

comportamento empatico.

- Conoscenze di base sulla struttura psichica.

L’ascolto come competenza sociale

“... le parole si confondono facilmente fra loro e quando non trovo una parola provo

un senso di frustrazione.”

24

25

Come prima tappa di questo viaggio nella condivisione della

relazione di cura, ci soffermeremo sulle competenze richieste

dall’ascolto attivo, ovvero da quel comportamento relazionale

che considera l’ascolto come momento privilegiato per facilitare

la relazione con l’altro (in generale, e con l’altro in situazione di

bisogno in particolare) aiutandolo a esplorare gli aspetti psicolo-

gici della propria situazione, a esprimere i propri sentimenti e le

proprie emozioni, a riconoscere una condizione di difficoltà.

Nella vita di tutti giorni pretendiamo spesso che gli altri ci ascol-

tino, ma raramente sentiamo una naturale propensione ad ascol-

tare fino in fondo lo sfogo di un amico, la confidenza di un figlio,

la comunicazione di un collaboratore senza interrompere con la

classica esclamazione “ho già capito!”.

La maggior parte delle persone considerano l’ascolto un momen-

to frustrante e il prendere la parola come un’espressione di pote-

re, per cui assistiamo spesso a conversazioni in cui le persone ‘si

parlano sopra’, si interrompono continuamente, non si lasciano

reciprocamente spazio, con un risultato finale di estrema confu-

sione e inefficacia dello scambio verbale.

L’ascolto empatico, al contrario, è una modalità di interazione

che permette di cogliere altre numerose modulazioni di un mes-

saggio, assegnando alla comunicazione verbale una prospettiva

diversa.

L’ascolto empatico nella relazione d’aiuto

“... le persone con l’Alzheimer pensano, non come le persone normali, ma pensano.”

Ascoltare empaticamente significa saper mettere a tacere per

qualche istante le nostre premesse e le nostre aspettative, per

ascoltare con genuina curiosità quello che l’altro ha bisogno di

26

27

dire. Occorre saper reprimere l’abitudine alla valutazione e al

giudizio per offrire all’altro la nostra completa attenzione, per

cercare di entrare nel suo mondo, per riuscire ad adottare il suo

punto di vista senza pregiudizi.

Dal punto di vista della pragmatica della comunicazione bisogna

saper concedere il giusto spazio al nostro interlocutore, sotto-

lineando la nostra disponibilità all’attenzione con uno sguardo

attento, una postura composta, segni del capo, espressioni fac-

ciali, la capacità di rispetto dei turni di parola, l’abilità di riman-

dare in ogni momento, soprattutto attraverso canali non verbali,

un messaggio di conferma della relazione e di accoglienza dei

contenuti del discorso.

è facile che si verifichino blocchi della comunicazione, è natu-

rale per chiunque interrompere, dare giudizi, offrire consigli,

minacciare, accusare, svalutare, deridere, generalizzare, incal-

zare, imporre, interpretare, perché la nostra cultura ci ha formati

a questo. Crediamo spesso di essere buoni ascoltatori quando

proponiamo all’altro un buon consiglio e un ampio repertorio di

soluzioni personali.

Alcuni esempi di blocchi nella comunicazione:

interrompere “sì, sì, ho già capito, andiamo avanti...”

esprimere giudizi “malissimo! Hai fatto male, dovevi fare in un

altro modo, ...”

offrire consigli “se fossi in te... io al tuo posto farei...”

minacciare “se non la smetti di piangerti addosso, vedrai...”

svalutare “ma dai, non è così grave... Non sei l’unico ad avere

dei problemi al mondo...”

deridere “figurati, tra qualche giorno non ci penserai più”

generalizzare “tutti si comportano così...

In generale, non è grave”

28

incalzare “non può essere vero che tutti...! ma dai, raccontami

bene…”

imporre “adesso basta, devi smetterla!”

interpretare “adesso stai male, perché non te lo aspettavi...

Secondo me è solo un momento di passaggio...”

L’operatore socio-sanitario deve imparare a fare molta attenzio-

ne alla qualità della sua comunicazione perché, se anche spes-

so ne sottovalutiamo l’effetto, la comunicazione interpersonale,

verbale e non verbale è uno strumento fondamentale del lavoro

di cura.

Cosa si intende per ascolto attivo?

“... hai sempre la sensazione di essere incompleto e di aver fatto qualcosa di sbagliato.”

Quando una persona si esprime rivela inevitabilmente caratteri-

stiche della propria personalità attraverso un messaggio che si

articola su quattro piani5:

1. Il primo riguarda il contenuto, ovvero le informazioni, le noti-

zie, le opinioni che si riferiscono all’oggetto della comunica-

zione;

2. Il secondo consiste nell’appello, ovvero la dimensione psi-

cologica, l’implicito, e le richieste sottese al messaggio. In

pratica, è quello che la persona ci sta chiedendo al di là delle

parole;

3. Il terzo si riferisce all’autorappresentazione, ovvero al modo

in cui la persona si vede, si percepisce, rappresenta se stessa

in quello scambio comunicativo;

5 Il modello è tratto dall’Analisi Transazionale di Eric Berne.

29

4. Il quarto si riferisce al tipo di relazione che la persona sta

esprimendo, come si sta riferendo al suo interlocutore, come

si percepisce nell’interazione. Quest’aspetto rivela come chi

parla percepisce chi gli sta di fronte e come sta vivendo la si-

tuazione comunicativa (situazione fra pari, vittima-avvocato,

vendicatore-carnefice, etc.).

Per chi si occupa di persone in situazioni di difficoltà è fonda-

mentale saper riconoscere i fattori che entrano in gioco nella

comunicazione, saper individuare le variabili verbali e non ver-

bali, il grado di congruenza del messaggio, gli elementi che si

contraddicono, ma soprattutto l’immagine che l’altro ha di se

stesso, il ruolo che sta impersonando e come percepisce il suo

rapporto con noi.

All’interno di uno scambio comunicativo di tipo professionale vi

sono numerose possibilità di interventi inefficaci di risposta:

- l’atteggiamento di indagine, che sposta l’attenzione del clien-

te da quello che sta cercando di comunicare, orientando il suo

discorso in un’altra direzione;

- l’atteggiamento di decisione, che si manifesta nell’imporre

soluzioni, anche valide e di buon senso, che però scaturiscono

dall’esperienza di chi le propone e non dal repertorio di possi-

bilità di chi le chiede;

- l’atteggiamento di sostegno, che si traduce in espressioni

consolatorie, con le quali si cerca di dare conforto e sostegno

morale per rassicurare chi chiede;

- l’atteggiamento valutativo, che si esprime in giudizi gratuiti

che rappresentano solo i valori, il vissuto, le percezioni dell’ope-

ratore e trascurano invece di esplorare quelli del cliente;

30

31

- l’atteggiamento interpretativo, che viene spesso considerato

come una ricerca di soluzione del problema e quindi conside-

rato come un intervento efficace, ma che può essere avvertito

dal cliente come un rifiuto dell’ascolto o come l’esibizione di

un pregiudizio.

Un corretto atteggiamento d’ascolto deve essere orientato alla

comprensione degli stati d’animo del cliente, deve poter dare

luogo a una relazione che nella fase iniziale sarà flessibile, non

direttiva e aperta all’imprevisto.

Nella gamma delle forme corrette di risposta, si potrà scegliere

tra forme verbali non direttive e altre più attive, ma comunque

accoglienti.

Tra quelle non direttive troviamo:

- chiarire “mi scusi, forse non ho capito bene, può spiegarmi

meglio...”

- parafrasare “se ho capito bene, lei ha detto che...”

fra quelle più attive:

- l’esplorazione del discorso

- il confronto di alcune parti del messaggio.

Quando il messaggio del cliente è ambiguo, confuso, mette in-

sieme vari problemi di genere diverso, si può avviare una chiari-

ficazione, richiesta con frasi del tipo: “lei mi stai dicendo che...

ma anche che… mi può chiarire meglio il primo di questi pro-

blemi?”. L’obiettivo è quello di rendere esplicito il messaggio,

cercando di comprenderlo bene, evitando il rischio di perdere

punti essenziali.

Oppure si può ricorrere alla parafrasi, una riformulazione del

contenuto del messaggio che può servire a:

32

- restituire al cliente la comprensione della propria situazione;

- far capire all’altro la propria totale disponibilità ad assumere il

suo punto di vista;

- riassumere i principali punti critici quando la comunicazione è

stata molto ampia e articolata;

- rendere comprensibili contenuti confusi sul piano percettivo o

logico (esesmpio: quando dice ‘una palla al piede’ intende dire

che non può più dedicarsi ai fine settimana in montagna come

faceva prima?).

La parafrasi è molto utile per sintonizzarsi con il bisogno del

cliente, focalizzare i problemi e trovare un modo di comunicare

che sia il meno ambiguo possibile.

Tra i blocchi della comunicazione troviamo anche errori nella co-

municazione non verbale, che riguardano in modo particolare il

linguaggio del corpo (contatto visivo, postura, gestualità, distan-

za interpersonale, etc.).

33

34

35

Il counseling psicologico al consultorio 6

“... talvolta penso che chi soffre di Alzheimer farebbe bene a tenersi un cagnolino

che gli si affezioni, qualcuno con cui giocare e parlare. è simpatico parlare con un cane

che non può risponderti, così non fai errori.”

Spesso l’attività del consulente viene confusa con quella del

consigliere. Il senso comune tende a enfatizzare nel counseling

un aspetto di ‘saggezza’, correlato all’attività del ‘dispensare

consigli’, consigli che si danno per assennati e derivanti da una

solida competenza professionale. Il counseling professionale,

invece, consiste in un insieme di interventi rivolti a persone in

stato di disagio, all’interno di uno spazio definito da una rela-

zione di fiducia, con un caratteristico approccio alla cura di tipo

breve e focale, da cui è assolutamente e volutamente esclusa la

somministrazione di consigli.

Il consulente è una persona che sa utilizzare le proprie capacità

di accoglienza, ascolto, empatia per costruire una relazione effi-

cace, qui ed ora, con un’altra persona in situazione di bisogno.

Essere (e non fare) un consulente significa saper essere empati-

camente partecipi del mondo dell’altro, ma non necessariamen-

te condividerlo. Comporta la capacità di focalizzarsi sul vissuto

dell’altro, sulla sua richiesta, sul suo bisogno. Significa anche

affermare e promuovere l’altro, esprimendo e confermando fidu-

cia nelle sue capacità.

6 Sabrina Stinziani ha lavorato dal 2002 al 2006 come counselor presso il Consultorio per le Demenze dell’Azienda USL di Bologna, Distretto di Casalecchio di Reno e oggi svolge la stessa funzione presso il Consultorio per le Demenze del Distretto di Porretta Terme. La sua esperienza ci ha permesso di esplorare la costruzione di ‘spazi di condivisio-ne’anche nelle fasi di esordio della malattia dementigena.

36

Le doti di un buon consulente (counselor) sono la curiosità, la

capacità di comprensione empatica, l’accettazione della perso-

na che si ha di fronte e dei suoi valori, benché potenzialmente

diversi dai nostri. Queste qualità, che costituiscono parte del pa-

trimonio personale di ciascuno di noi, diventano abilità se ven-

gono allenate e sono ottime risorse nella relazione di aiuto. In

una relazione professionale d’aiuto siamo chiamati non tanto a

risolvere il problema dell’altro, quanto a offrire alla persona gli

strumenti (consapevolezza e potenziamento delle proprie risor-

se, conoscenza di sé, comprensione) per imparare ad affrontare

e tollerare il problema.

Quali solo i punti di forza di questa figura professionale di cui i

più ignorano l’esistenza?

La motivazione, perché chi si dedica a questa attività deve esse-

re mosso da un atteggiamento di tipo oblativo, un’attitudine a

occuparsi del benessere degli altri.

La formazione, che sicuramente deve fornire competenze di ba-

se sulle terapie, sulle tecniche di intervento, sulle patologie, ma

anche una buona preparazione psicologica sulle difficoltà del

malato, dei suoi familiari, degli altri operatori che concorrono

alla cura.

Ogni counselor vede molti malati, stabilisce rapporti di empatia

con la maggior parte di loro e spesso anche con i familiari. Alcuni

pazienti non li rivedrà mai più, altri ritorneranno (e allora gioisce

con loro e li aiuta a coltivare le speranze ancora praticabili), altri

invece li incontrerà sistematicamente e dolorosamente insieme

all’avanzare della loro malattia.

Durante gli incontri di counseling le parole hanno un significa-

to relativo, non è tanto quello che si dice o che non si dice ad

aiutare il malato o il suo caregiver, ma la disposizione d’animo

37

con cui l’operatore si presenta. Una seduta di counseling è una

transazione affettiva che può essere straordinariamente intensa

e che si avvale, spesso, di tecniche prevalentemente non verbali.

L’operatore motivato e ben formato è sufficientemente forte per

seguire i suoi assistiti e la loro famiglia (famiglia che, spesso, si

propone all’inizio come ‘famiglia malata’) nelle insidie del loro

personale percorso di cura e di accettazione della malattia.

Il counselor deve saper parlare di morte con tranquilla serenità e

condurre per mano familiari e malato nel cammino comune verso

questa inevitabile meta.

La relazione che si stabilisce con i familiari in momenti di vita

così significativi, consente poi all’operatore di offrire un valido

aiuto nel momento di elaborazione del lutto: rassicurazione su

ciò che è stato fatto, aiuto nell’elaborazione di eventuali sensi di

colpa, comprensione per gli stati d’animo che i familiari attraver-

sano, insieme a una calda condivisione del dolore che provano,

hanno un valore inestimabile per chi resta. Il modello di lavoro

che ho impiegato nella mia attività di counselor è un modello

multidimensionale, desunto dal bisogno emerso dal territorio. Si

articola su tre piani:

Pragmatico-operativo. Ha come finalità quella di sostenere i

caregiver nella cura e nell’assistenza quotidiana del paziente af-

fetto da demenza. Il counselor fornisce diverse chiavi di lettura

del problema e presenta diverse strategie operative che possono

essere sperimentate sul campo.

L’obiettivo ultimo di questo filone di lavoro è quello di poter co-

struire insieme ai caregiver e, dove possibile, anche con la col-

laborazione del paziente un piano ri-educativo personalizzato

(P.R.P). Più nello specifico, le tecniche che si possono utilizza-

te per costruire il piano ri-educativo personalizzato sono la te-

rapia delle 3R (ROT, rimotivazione, reminiscenza), la validation

38

39

therapy, il training di memoria, la terapia occupazionale, la tera-

pia comportamentale.

L’ausilio di altre discipline - come la musicoterapia, la terapia

corporea, le tecniche di rilassamento - può essere molto utile an-

che per riorganizzare l’ambiente in cui l’anziano demente vive.

Emotivo-relazionale. Ha come finalità la ricerca di un migliora-

mento nella percezione di sé da parte del caregiver e si attua nel

setting neutro e protetto del colloquio clinico, dove il familiare

ha la possibilità di esprimere le proprie emozioni e i propri vis-

suti: sensi di colpa, inadeguatezza, emozioni come la rabbia, la

paura, l’ansia, la tristezza.

Formativo-orientativo. Ha come finalità quella di spiegare al

caregiver che cos’è la demenza, quale può essere la prognosi e

il decorso della malattia, non da un punto di vista strettamente

sanitario, ma dal punto di vista neuropsicologico e psicologico.

Il counselor per esempio può illustrare al familiare quali sono i

meccanismi alla base di alcuni tipi di memo-

ria, per poi andarli a rinforzare con atti-

vità studiate appositamente, caso per

caso, di cui il familiare deve essere in

grado di apprezzare l’utilità terapeu-

tica per non viverle come un ulteriore

aggravio della cura.

Piano formativo- orientativo

Piano pragmatico-

operativo

Piano emotivo-

relazionale

40

Il percorso di lavoro insieme al familiare comincia con la raccolta

dei dati anamnestici e della storia personale.

Si analizzano i vissuti emotivi, gli agiti, le potenzialità del siste-

ma famiglia nel suo complesso.

Lo psicologo valuta insieme al caregiver le diverse risorse da

mettere in campo attraverso la tecnica del problem solving e,

parallelamente, sviluppa insieme al familiare un progetto perso-

nalizzato per il congiunto malato.

Si comincia anche a lavorare insieme sullo spinoso problema

dell’accettazione della malattia, portando alla luce esperienze

emotive che i familiari spesso ritengono riprovevoli, socialmente

inaccettabili e, dunque, da tacere, mentre si tratta, in realtà, di

sentimenti assolutamente naturali e umanamente comprensibili

(Perché proprio a me?!... Lo rivoglio come era prima, questo non

è mio padre!... Ho due figli piccoli e un lavoro che mi impegna e

che mi piace, come potrò trovare tempo ed energie anche per lei?

Era lei quella che doveva aiutarmi con i bambini…).

Quanto al grado di soddisfazione dei caregiver familiari per que-

sto tipo di attività di sostegno, il Consultorio per le Demenze del

Distretto di Casalecchio di Reno ha predisposto, al termine del

primo anno di attività7, una scheda di valutazione del servizio di

counseling, autocompilata e anonima.

7 L’attività del primo anno si è svolta dal 9 settembre 2002 all’8 settembre 2003, per un totale di 153 colloqui.I nuclei familiari che hanno avuto accesso al servizio provenivano da diversi Comuni del Distretto, per un totale di 48 nuclei presi in carico. I colloqui effettuati con ogni ca-regiver andavano da un minimo di 1 a un massimo di 8, con una una media di 3 colloqui a nucleo. L’avvio del servizio è avvenuto tramite una lettera informativa spedita alle famiglie. L’accesso in corso d’anno è avvenuto principalmente grazie all’attività della geriatra responsabile del Consultorio, dottoressa Antonella Tragnone, che ha informa-to le famiglie della concreta possibilità di accedere ad un servizio psicologico gratuito indirizzato ai caregiver. Il 65,67% dei caregiver che hanno usufruito del servizio erano donne, il 34,33% uomini. L’età variava dai 36 anni agli 86 anni, con una media di 63 anni. Rispetto al grado di parentela con il malato, chi ha richiesto il colloquio risultava essere: nel 49,18% dei casi il coniuge, nel 40,98% il figlio, nel 6,56% la nuora o il cognato e solo nel 3,28% dei casi l’assistente familiare.

41

La scheda è stata consegnata ai caregiver che avevano effettuato

un percorso base di consulenza di almeno 4 colloqui. Dall’ana-

lisi dei 16 questionari raccolti (i dati non pretendono di essere

statisticamente significativi, data l’esiguità del campione, ma

sono almeno indicativi di una tendenza) si rileva che i familiari

ritengono di aver ricevuto un servizio qualitativamente buono

nel 43,75% dei casi, ottimo nel 43,75% dei casi ed eccellente nel

12,5% dei casi.

Alla domanda n°1:

la psicologa ha capito i suoi problemi?

Il 93,75% risponde sì e il 6,25% risponde non saprei

Alla domanda n°2:

dopo gli incontri ha svolto con più facilità i suoi compiti di

assistenza?

L’81,25% risponde sì e il 18,75% risponde non saprei

Alla domanda n°3:

ha trovato delle risposte pratiche alle sue domande?

L’81,25% risponde sì, il 6,25% risponde non saprei,

il 6,25% risponde no, il 6,25% non risponde

Alla domanda n°4:

durante i colloqui, ha avuto la possibilità di parlare delle sue

emozioni e delle sue paure?

L’87,5% risponde sì, il 12,5% non risponde

Alla domanda n°5:

ora ritiene di avere le idee più chiare rispetto alla malattia del

suo famigliare?

L’81,25 % risponde sì, il 12,5% non risponde,

il 6,25% risponde non saprei

42

Alla domanda n°6:

pensa che i colloqui con la psicologa le sono stati utili?

Il 93,75% risponde sì, il 6,25% risponde non saprei

Alla domanda n°7:

pensa di aver ricevuto dei “buoni consigli”?

Il 93,75% risponde sì e il 6,25% risponde non saprei

43

Spazi di condivisione in residenza

“... qualche volta ci manca la sensazione di essere importanti, di essere necessari.”

I familiari che accedono alle residenze protette arrivano con il lo-

ro congiunto diverso tempo dopo che i sintomi più rilevanti della

malattia si sono sviluppati e hanno già messo a punto dinamiche

relazionali nuove rispetto a quelle precedenti l’insorgere della

malattia, con fatica e conseguente stress per tutto il nucleo fa-

miliare. Le risposte a un ulteriore evento critico non sono facili

da trovare. Spesso, in questa circostanza, il caregiver si sente

sconfitto o in colpa per aver ricoverato il congiunto malato, pro-

va sentimenti ambivalenti, difficili da esprimere e da contenere.

Non dimentichiamo che i familiari arrivano alle residenze portan-

dosi dietro la stanchezza di lunghi periodi, spesso anni, di cure

assidue prestate all’anziano all’interno delle mura domestiche,

molte volte senza altri aiuti.

Arrivano anche spaesati, perché le strutture sono per molti, an-

cora oggi, fenomeni ignoti. Si sa che non è un ospedale, si sa che

non è corretto chiamarle ‘ricovero’, ma nessuno informa adegua-

tamente le famiglie su cosa devono e su cosa possono aspettarsi

da questi servizi.

Capita così che all’inizio le persone si stupiscano nel vedere ac-

colte semplici richieste o nell’osservare che sappiamo ricordare

i gusti e le piccole abitudini dei loro congiunti, che impariamo

a capirli anche quando il linguaggio è molto compromesso, che

riusciamo a riattivare funzioni che sembravano irrimediabilmen-

te perdute. Capita però, nella stessa misura, che si lamentino

perché qualcuno nel nucleo urla di notte disturbando gli altri,

perché a tavola non tutti sono in grado di comportarsi in un mo-

do gradevole a vedersi, perché il personale lavora seguendo una

44

scala di priorità e non può essere sempre immediatamente di-

sponibile al primo richiamo.

Quando l’anziano ha subito un lungo ricovero ospedaliero, i

familiari possono mostrarsi diffidenti a causa delle esperienze

negative accumulate nei mesi dell’acuzia e fermamente decisi a

riprendere e mantenere il controllo della cura, di cui spesso ven-

gono spodestati durante la degenza ospedaliera. Oppure posso-

no apparire sperduti di fronte alle conseguenze dell’evento trau-

matico - perché non sempre il motivo del ricovero è una malattia

neurodegenerativa a lenta progressione - o al repentino evolvere

di una malattia che non riescono quasi mai ad accettare e capire

fino in fondo, molto preoccupati di spiegare e di dimostrare che

la loro è una scelta sofferta, non è un abbandono del malato.

Quasi tutti arrivano con aspettative più o meno magiche di cure

e miglioramenti in sindromi che ad oggi non perdonano, come

delegando ad altri ‘specialisti’ il recupero, il ripristino del malato

che con i loro soli mezzi hanno ‘fallito’.

Lacerati dalla sofferenza di dover delegare ciò che sentono come

un dovere assoluto e umiliati dalla - ragionevolissima e inevita-

bile, perché la malattia è ancora oggi più potente di chi tenta di

curarla - ammissione di impotenza. è questo un elemento che

ci distingue dagli altri servizi della rete: il ricorso alla residen-

za protetta genera senso di colpa nei familiari. Non accade con

i consultori per le demenze, con l’assistenza domiciliare, con i

centri diurni e nemmeno con l’hospice, che pure è una residen-

za, ma può sembrare un ospedale.

Sembra che nella nostra cultura riusciamo a delegare con tran-

quillità diversi tipi di cura - sicuramente le cure sanitarie, spesso

la cura personale e ambientale, buona parte dell’educazione -

ma non le cure primarie, la nutrizione, la protezione, la ricerca

del benessere, la salvaguardia dalla morte, se non ai medici e

all’ospedale.

45

46

Il rapporto con i familiari dei nostri anziani risente anche di nu-

merose altre condizioni che non si verificano mai (o raramente)

nella fruizione degli altri servizi:

a) la residenza non è mai la prima opzione di cura dei familiari,

solitamente è l’ultima tappa di un faticoso cammino;

b) l’anziano entra in residenza quando nessun altro servizio del-

la rete è più in grado di rispondere alle sue necessità: sulla

struttura si concentrano tutte le aspettative e le speranze re-

sidue dei familiari;

c) le residenze sono aperte al pubblico per dodici-tredici ore al

giorno e per tutti i giorni dell’anno;

d) l’acceso dei familiari è libero, senza vincoli di orario;

e) i punti di riferimento e i titolari di responsabilità del servizio

sono immediatamente evidenti e quotidianamente accessibi-

li: non possiamo eludere le richieste, le rimostranze, le con-

testazioni;

f) le strutture sono vissute, vi scorre una vita quotidiana che si

cerca di rendere il più possibile vicina a quella esterna e molti

dei familiari che vi accedono finiscono per entrare a far parte

di questa vita, perdendo a volte di vista il confine fra profes-

sionale e personale. Questo può accadere, specularmente,

anche agli operatori addetti all’assistenza.

Il nostro sforzo è quello di creare un ambiente il più possibile

accogliente e ‘domestico’. La struttura è una ‘casa’ abitata da

anziani non autosufficienti, ma è anche una comunità, dove cia-

scuno è costretto a fare i conti con le esigenze dell’altro. Nor-

malmente nessuno spazio comune è interdetto ai familiari degli

anziani residenti, però qualunque familiare viene invitato ad al-

lontanarsi momentaneamente dai luoghi in gli cui operatori pra-

ticano manovre assistenziali delicate sull’anziano congiunto, e

questa spesso è una limitazione mal tollerata.

è importante che ogni familiare continui a sentirsi partecipe del-

47

la vita del suo congiunto anche se questi risiede in Casa Protetta.

Il processo di coinvolgimento e di inclusione avviene nella quo-

tidianità, attraverso la condivisione di numerose attività legate

alla cura o alla socievolezza, attraverso la condivisione dei Piani

Assistenziali Individualizzati, ma anche - e soprattutto - attraver-

so una disponibilità costante all’ascolto attivo.

Con il tempo, anche il familiare più prevenuto o l’anziano più ar-

rabbiato per la propria condizione apprendono dall’esperienza

a dare fiducia agli operatori della struttura e questo diventa un

momento speciale per entrambi: ci si può fidare e, conseguente-

mente, affidare. Spesso chi ha fornito cure per anni si presenta a

sua volta ammalato, esaurito e ‘bruciato’ nell’intimo, ma non se

ne rende conto. Le necessità psicologiche del caregiver sono fre-

quentemente sottovalutate, ma sono tantissime e molto profon-

de, tali, se non gestite, da inficiare o bloccare il processo di presa

in carico dell’anziano. Proprio per questo è molto importante che

l’equipe e lo psicologo di struttura possano prendersi carico del-

la delega familiare e questo diviene possibile solo se il modello

operativo del servizio residenziale contempla, fra le sue priorità,

la presa in carico del caregiver familiare contemporaneamente e

necessariamente assieme alla presa in carico dell’anziano.

Nella nostra esperienza, i bisogni espressi dai familiari che acce-

dono in struttura sono aumentati col passare degli anni, in misu-

ra proporzionale allo sviluppo della consapevolezza nell’accesso

ai servizi. Rileviamo soprattutto bisogni di:

• rassicurazione

• conoscenza

• comprensione

• ascolto

• conferma

• condivisione

• sostegno

48

In almeno due di queste aree si potrebbe, crediamo, imparare

a lavorare meglio in senso preventivo, riducendo il disagio dei

caregiver quando l’anziano è ancora residente al domicilio o al

momento dell’impatto con le strutture ospedaliere.

Ci riferiamo, in particolare, al bisogno di sostegno - da intendersi

come sostegno psicologico oltre che come sostegno materiale.

Se davvero la rete dei servizi riuscisse ad accompagnare ade-

guatamente il malato e il suo familiare nel doloroso percorso

della malattia dementigena, probabilmente non arriverebbero

alle residenze figli o coniugi di malati ormai gravissimi che si

aspettano ancora il miracoloso recupero del linguaggio o della

marcia, o che si rifiutano di vedere l’evidente peggioramento del

congiunto.

E ci riferiamo, ancora di più, al bisogno di conoscenza, a tutt’oggi

drammaticamente insoddisfatto soprattutto nel rapporto con le

strutture ospedaliere.

La diffusione delle conoscenze sulle sindromi dementigene è

molto migliorata negli ultimi anni, almeno nelle regioni più sen-

sibili ai problemi sociali, anche se la capacità di penetrazione dei

canali attivati non è ancora sufficiente. Ma la popolazione di an-

ziani che entra in residenza non è costituita soltanto di persone

affette da demenze degenerative o da patologie cerebrovascola-

ri. E non è nemmeno costituita soltanto di anziani!

Una quota rilevante di ingressi riguarda dementi precoci, pazienti

psichiatrici compensati, disabili che compiuti i cinquant’anni di-

ventano istituzionalmente anziani. E sono in crescita gli ingressi

di gravi traumatizzati cranici, di persone anche piuttosto giovani

in coma vigile o con gravi esiti da coma prolungato, di persone

affette da sclerosi multiple o SLA già in fase avanzata, di malati

oncologici terminali. Le famiglie di queste persone sono reduci

da mesi di sofferenze tra reparti di Terapia Intensiva e reparti

riabilitativi.

49

50

Si trovano a fronteggiare l’improvviso rientro sul territorio di un

malato assolutamente non accudibile al domicilio, molto diverso

dalla persona che era prima dell’evento traumatico e, quasi sem-

pre, nessuno si è preso l’impegno di spiegare loro come e perché

il loro congiunto è cambiato e, soprattutto, come può evolvere

nel tempo.

Qualcuno, a volte, esprime il suo sconcerto, ma con sofferenza,

vergognandosene. “L’hanno rubato alla morte tirandolo per i

capelli - ci ha confidato recentemente un figlio molto presente e

molto legato al padre - me lo sono ritrovato così… 8 Nessuno ha

chiesto il mio parere e nessuno mi ha spiegato perché. E poi me

l’hanno dimesso dall’oggi al domani, senza preoccuparsi del

dopo. È ancora giovane, può tirare avanti così per anni… Mi ver-

gogno a dirlo, ma mi sono chiesto se questo è davvero il meglio

per lui”.

“... riesco a pensare una cosa alla volta, quando c’è troppa gente, mi sembra che ci sia una gran

confusione, ho bisogno di silenzio.”

Abbiamo imparato negli anni che la presa in carico di persone

in condizioni emotive così delicate si gioca sulla trasparenza e

sulla condivisione.

Normalmente questi familiari non vogliono rinunciare alle loro

prerogative di caregiver solo perché si avvalgono di una residen-

za protetta anziché di un’assistente domiciliare. E hanno, nella

maggior parte dei casi, un disperato bisogno di conoscere e di

capire.

8 Una tracheostomia con necessità di broncoaspirazione più volte al giorno e alla not-te, alimentazione tramite PEG, catetere vescicale a permanenza, paralisi dell’ippo-glosso con perdite di saliva abbondanti e continue, grave disartria, dolore diffuso e persistente, sofferenza emotiva evidente ed espressa, gravi disturbi comportamentali di tipo frontale in un quadro di consapevolezza e di capacità di ragionamento quasi nella norma.

51

Rispettiamo senza giudicare le rare situazioni di delega totale

che ci si presentano, perché conosciamo la fatica di questo la-

voro e sappiamo bene che si può arrivare a un punto in cui non

rimane più nulla da spendere. Cerchiamo di soddisfare come me-

glio possiamo il bisogno di coinvolgimento di chi vuole esserci.

Che a volte si esprime in telefonate quali: ‘L’aria è rinfrescata,

mettete un golfino alla mamma. Quello bordeaux, mi raccoman-

do!’, che regolarmente fanno infuriare gli operatori, perché di

solito hanno già fatto indossare alla ‘mamma’ un golfino, magari

non prorio quello bordeaux perché è in lavanderia, ma uno di pe-

so equivalente.

A una prima lettura chiunque vivrebbe una telefonata simile co-

me una palese squalifica. Ci vuole impegno, costanza e molta

formazione per far accettare ai gruppi di lavoro l’idea che questo

è solo un modo che le persone usano per riaffermare il proprio

coinvolgimento nella cura e per trovare un riconoscimento del

loro impegno: non dubitano affatto, in realtà, dell’attenzione del

personale assistenziale, ma hanno bisogno di farci sapere che

loro ci sono, che non dimenticano mai il congiunto.

Raccontata così è una storia quasi tenera, che muove la commo-

zione. Moltiplicata per un numero di anziani tra venti e sessanta,

per trecentossessantacinque giorni l’anno è un carico in più che

grava sulle spalle di operatori non sempre sufficientemente at-

trezzati a sopportarlo. Occuparsi anche di questi aspetti fa parte

della presa in carico del familiare all’interno delle strutture.

“... quando soffro urlo, perlomeno è un modo per alimentare le mie riflessioni:

un picnic a base di Alzheimer.”

Il nostro personale e quotidiano sforzo, come organizzazione,

consiste nel sensibilizzare (educare sarebbe una parola troppo

52

53

grossa, paragonata ai risultati che otteniamo) le persone che la-

vorano con noi alla neutralità.

Non dobbiamo scoprire perché la signora si comporta in questo

modo, non ci interessano le definizioni dei comportamenti cor-

retti che potrebbe adottare in alternativa. Possiamo usare con

garbo l’ironia, se serve ad allentare la tensione e ad alleviare

il peso. Ma dobbiamo sapere che la signora ha bisogno di fare

questo per suo padre (madre, fratello, sorella, zio, zia) e dob-

biamo imparare a trovare il modo di rendere il tutto più leggero,

meno faticoso per lei e per noi.

Nelle situazioni più critiche, quando ci rendiamo conto che la

fiducia complessiva nel sistema dei servizi è gravemente com-

promessa, cerchiamo di attivare una ‘presa in carico all’ingresso’

che coinvolga tutta l’équipe multidisciplinare - medici, parame-

dici, coordinatori di nucleo e di struttura, psicologo - con l’obiet-

tivo di spiegare molto chiaramente ai familiari le condizioni reali

dell’anziano, le possibilità evolutive compatibili con le patologie

esistenti, la natura e le caratteristiche cliniche di tali patologie, le

potenzialità e i limiti di intervento della struttura, le implicazioni

psicologiche prevedibili rispetto all’anziano e ai suoi familiari.

Nelle situazioni più ‘normali’ è previsto comunque all’ingresso

un momento di conoscenza reciproca, la trasmissione di informa-

zioni chiare sulle caratteristiche della struttura, sulle modalità di

intervento relative all’anziano, sull’organizzazione, sui referenti

specifici per le diverse problematiche (sanitarie, assistenziali,

amministrative, riabilitative, psicologiche, ecc.), in molti casi

sull’obiettivo del primo Piano Assistenziale Individualizzato. Una

o due volte l’anno i caregiver familiari vengono convocati per un

colloquio finalizzato alla conoscenza e alla condivisione del pia-

no assistenziale individualizzato del loro congiunto, ma possono

in ogni momento chiedere e ottenere colloqui di chiarimento o di

approfondimento con qualsiasi professionista del servizio.

54

Vengono anche informati del fatto che possono accedere alle

prestazioni dello psicologo interno tutte le volte che ne rilevano

la necessità, direttamente se è presente in servizio, con tempi

massimi di una settimana se momentaneamente assente.

Molti se ne avvalgono con frequenza, finisce per diventare un

piccolo rituale che si ripete con vantaggio reciproco.

Riceviamo richieste diversissime: dal familiare che vuole essere

rassicurato sulla qualità della sua scelta di cura, a quello che ha

bisogno di sentirsi riconfermare che persone così malate proprio

non possono essere accudite al domicilio.

Dal familiare che cerca di capire se rischia di sviluppare, a sua

volta, una demenza degenerativa, a quello che nega l’evidenza

della malattia e cerca una spiegazione psicodinamica ai disturbi

comportamentali del congiunto. C’è chi ha bisogno di racconta-

re un’infanzia infelice o una storia coniugale tormentata, c’è chi

soffre perché il genitore tratta affettuosamente noi e maltratta

lui (e anche viceversa. Molti familiari si scusano con noi per gli

insulti o gli scatti di aggressività dei loro parenti anziani, e fatica-

no a credere che non siamo offesi, li riconosciamo come sintomi

della malattia).

Ci chiedono di affiancarli in situazioni delicate, come per esem-

pio comunicare un lutto all’anziano residente, oppure di inse-

gnare loro ad affrontare un disturbo del comportamento che il

parente esprime e che li mette a disagio.

A volte ci raccontano le strategie che stanno sperimentando per

trattare al meglio l’anziano che hanno in cura senza trascurare il

resto della famiglia.

Altre volte hanno semplicemente bisogno di sentirsi dire che

sì, devono assolutamente prendersi quella piccola vacanza che

hanno progettato, la mamma non rischia di scompensarsi per la

momentanea assenza e, anzi, come esperti gliela prescriviamo

proprio quella vacanza, perché ne hanno davvero bisogno e al

55

56

rientro anche la mamma beneficerà delle loro rinnovate energie.

Sembra quasi incredibile, ma non è così raro che uno degli obiet-

tivi del sostegno, dopo l’inserimento in residenza protetta, sia

proprio aiutare il familiare a riprendersi spazi di vita che ormai

potrebbe tranquillamente concedersi, ma che non si sente in di-

ritto di riavere o che, deprivato da anni di assistenza intensiva,

non sa più come riempire.

Il cordone ombelicale che non si lascia recidere è un classico

ricorrente nelle nostre residenze per anziani: chi ha perso un

congiunto spesso rimane un frequentatore della struttura, occu-

pandosi di altri residenti con cui nel frattempo ha fatto amicizia,

tornando a trovare le assistenti di base che si sono occupate di

lui e del suo congiunto quando era ancora in vita, offrendosi co-

me volontario manutentore o per la cura del verde.

Chi decide invece di tagliare paga, a volte, conseguenze pesanti

e spesso trova il modo di raccontarcele.

Non è un merito e ci guardiamo bene dal vantarlo come tale. è

una conseguenza patologica del sistema della cura, che né noi,

né la rete integrata siamo stati in grado di prevenire o di lenire.

57

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L’Alzheimer Café 9

“... vorrei essere una persona in grado di aiutare qualcun altro a far capire dal punto di vista del malato cosa vuol dire avere l’Alzheimer o un’altra demenza.”

Dagli inizi degli anni novanta si sono sviluppate alcune esperien-

ze che hanno come obiettivo facilitare il supporto, l’accettazione

e l’adattamento delle persone con demenza e dei loro familiari;

tra queste possono essere annoverati il modello dell’Alzheimer

Café di Bere Miesen e quello dei meeting center di Rose-Marie

Dröes, che hanno costituito i punti di riferimento teorici delle

esperienze che si sono sviluppate negli ultimi anni in molti paesi

europei tra cui l’Italia e anche, nello specifico, nella provincia di

Bologna.

Il primo Alzheimer Cafè nasce a Leiden il 15 settembre del 1997:

non si tratta soltanto di “un luogo in cui stare insieme” in un

ambiente confortevole, ma è il frutto di una attenta combinazio-

ne e strutturazione di molteplici livelli di formazione e sostegno

offerto nel contesto di un ambiente a bassa soglia di accesso, in

presenza di operatori sanitari, di persone con demenza e dei loro

familiari ed amici. La differenza fondamentale di questa espe-

rienza rispetto al gruppo di supporto nella sua formulazione

classica sta nel fatto che le persone con demenza sono inclu-

se, anzi, sono il punto focale dei colloqui e delle discussioni del

Cafè, alla presenza di familiari, amici e altre persone.

9 Questo capitolo è integralmente mutuato dal pre-print di un documento derivato da una serie di incontri Provinciali e Regionali sul tema del Caffè Alzheimer. Il documento è stato curato dal Centro Studi Ri-Attivamente di San Pietro in Casale, con la collabo-razione e il sostegno dell’Associazione Ama-Amarcord, dell’Azienda USL di Bologna - Distretto Pianura Est, del Comune di San Pietro in Casale, della Parrocchia dei SS. Pietro e Paolo, della Società Futura SpA e dell’Università degli Studi di Bologna - Di-partimento di Psicologia. In corso di pubblicazione.

60

L’Alzheimer Cafè si propone di aiutare le persone con demen-

za e le loro famiglie ad emanciparsi, incoraggiandoli a rompere

l’isolamento emotivo e a ridurre o eliminare i tabù relativi alla

discussione della malattia.

Gli incontri sono a cadenza mensile, della durata di circa tre ore.

Ogni incontro si apre e si chiude con un momento di socializza-

zione informale. La parte centrale dell’incontro, invece, è costi-

tuita dall’intervento di un esperto o dalla presentazione di un

video sul tema specifico della giornata, a cui seguono un breve

intervallo ed una discussione nel corso della quale i partecipanti

possono fare domande e ricevere risposte.

In parallelo si sviluppa l’idea del Meeting Center della Dröes: la

finalità è supportare sia l’anziano sia il familiare mediante un

approccio sistematico. Sono previsti tre incontri settimanali nei

quali sono proposte attività per le persone malate (stimolazione

cognitiva, reminescenza, musicoterapia, attività psicomotoria),

incontri informativi e di supporto per i familiari, attività sociali

e ricreative per i malati e i familiari e anche un punto di ascolto.

Si tratta, inoltre, di un luogo aperto all’esterno: ad esempio può

accogliere anche bambini e studenti.

Essi possono essere considerati come i due poli di continuum

di azioni il cui scopo principale, come già osservato, è quello di

sostenere il processo di accettazione e di adattamento oltre che

favorire e mantenere l’inclusione e la partecipazione sociale del-

le persone malate e dei loro familiari. La progressiva diffusione

di questi modelli in realtà culturalmente diverse da quelle in cui

hanno avuto origine ha determinato degli adattamenti e delle

modifiche con l’istituzione di prassi particolari alcune volte ben

diverse da quelle dei modelli di partenza.

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10 Inaugurato nel giugno 2004, il Caffè San Biagio è il primo Alzheimer Cafè della provincia di Bologna

Il Caffè San Biagio10

“... vorrei che i malati di Alzheimer non continuassero a starsene sempre in disparte, ma dicessero accidenti, anche noi siamo persone, e vogliamo che ci rivolgano

la parola e ci rispettino come esseri umani.”

Se nel Nord Europa gli Alzheimer Café sono rivolti ai familiari, ma

anche ai malati in fase iniziale o lieve, consapevoli ancora della

patologia che li affligge, la realtà mediterranea - e in specifico

emiliana - è però diversa.

La malattia viene riconosciuta (e quindi diagnosticata) con mag-

giore ritardo rispetto al Nord Europa, benchè in anticipo - secon-

do le ultime, sorprendenti, stime - rispetto alla media europea e

l’anziano viene quasi sempre tenuto all’oscuro del problema. I

caregiver sono in prevalenza donne (73,8%) con famiglia e figli,

che, soprattutto nei casi di malattia grave, ospitano il malato in

casa (in media nel 65% dei casi, ma in oltre i 2/3 delle situazioni

di malattia severa). I caregiver prevalenti sono i figli (49,6% dei

casi), seguiti dai coniugi/partner (34,1%).

Era dunque difficile ipotizzare a San Biagio di Casalecchio un

modello di Caffè Alzheimer perfettamente aderente a quello

nord europeo. Basandoci sull’esperienza di alcuni incontri di

sostegno già organizzati presso i quartieri di Bologna, abbiamo

valutato che i familiari potenzialmente coinvolgibili avrebbero

difficilmente potuto partecipare ai momenti formali insieme ai

loro anziani, perché gli anziani in questione non sono consape-

voli della malattia o sono già in una fase moderata o severa che

non consente loro di condividere l’esperienza.

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Sapevamo però che per questi familiari sarebbe stato difficilissi-

mo liberare regolarmente del tempo per frequentare gli incontri

affidando l’anziano ad altri. Proprio per questo, nel progettare il

servizio è stata messa a bilancio la possibilità che un operatore

del Centro Diurno annesso alla residenza protetta si trattenesse

oltre il proprio orario e svolgesse attività con gli anziani presen-

ti, mentre i loro familiari si rilassavano e si confrontavano con

gli esperti in una stanza attigua. I momenti conviviali sono stati

invece pensati come condivisi.

Il contesto

“... ogni tanto l’Alzheimer ti rende sospettoso… a volte si ha paura di noi stessi, del caregiver e della

famiglia. Si ha l’impressione di essere canzonati, che nessuno ti voglia bene, ci si sente sminuiti,

presi in giro e ridicolizzati. Questa è una delle cose peggiori della malattia… è una forma di paranoia.”

Il Distretto di Casalecchio comprende nove comuni della fascia

montana a sud di Bologna: Casalecchio di Reno, Sasso Marco-

ni, Bazzano, Monteveglio, Zola Predosa, Savigno, Crespellano,

Castello di Serravalle, Monte San Pietro.

è il terzo distretto più vecchio della provincia, con un’incidenza

della popolazione anziana del 3,3% sulla popolazione totale. Ma

è anche un distretto in crescita: dal 1994 al 2004 la popolazione

è aumentata molto di più che nel resto della Provincia (9,4% vs

4,2%). Si registra un saldo ampiamente positivo delle nascite

e della migrazione e un forte aumento della popolazione stra-

niera residente, insieme a una sostanziale stabilità dei decessi.

Aumentano i giovani, ma aumentano anche gli anziani (+27,9%,

contro il +13% della provincia).

64

Aumentano in particolare i ‘grandi anziani’: +32,3%, contro un

aumento provinciale del 23,5%.

Il costo pro capite dell’Area Anziani è il più basso della provin-

cia11, ma il costo per l’assistenza ospedaliera agli anziani è fra

i più alti. Questo dato è suggestivo di un diffuso atteggiamen-

to della popolazione residente nell’utilizzo dei servizi sanitari e

conferma la necessità di ampliare l’offerta di servizi alternativi

rivolti agli anziani, in particolare di quelli a sostegno della do-

miciliarità.

Breve descrizione del servizio

“... quando prendo un granchio, mi metto sulla difensiva, perché mi vergogno

di quello che avrei dovuto sapere.”

‘Casa San Biagio’ è un servizio attivo dal gennaio 2002, che

CADIAI gestisce fin dall’apertura in convenzione con l’Azienda

USL di Bologna (ex BO-Sud), Distretto di Casalecchio di Reno.

Dispone attualmente di sessanta posti letto di Casa Protetta e di

un Centro Diurno Speciale Demenze da dieci posti.

La Casa Protetta accoglie anziani non autosufficienti, con gravi

limitazioni funzionali e/o cognitive, che non possono più essere

accuditi al domicilio. Il Centro Diurno, invece, rientra nella rete

dei servizi di sostegno alla domiciliarità.

Accoglie solo anziani con diagnosi di demenza o di deteriora-

mento cognitivo iniziale e due posti sono riservati al servizio di

fisiatria territoriale. Obiettivo del servizio è fornire un sostegno

alla famiglia nelle fasi iniziale e acuta della malattia, attivando

11 Politiche Sanitarie, vol.8, n.2, aprile-giugno 2007, pp. 89-94

65

programmi riabilitativi volti a rallentare il deterioramento cogni-

tivo e a ridurre l’impatto dei deficit, e sperimentando tecniche di

controllo non farmacologico del disturbo comportamentale.

Perché un Alzheimer Café a San Biagio di Casalecchio?

“... nell’Alzheimer si possono avere sbalzi d’umore incredibili, qualche volta mi sento al settimo cielo,

oggi mi sento completamente distrutto.”

Il progetto della Casa Protetta/Centro Diurno ‘San Biagio’ pre-

vede che i familiari degli anziani possano usufruire delle risorse

umane e degli spazi della struttura per interventi di counseling

psicologico e/o gerontologico, per la fruizione di programmi di

informazione e di aggiornamento, per l’eventuale frequentazio-

ne di gruppi di mutuo aiuto, autonomamente organizzati o con-

dotti, su richiesta, da personale del Centro.

Fin dall’avvio i familiari hanno usufruito di colloqui individuali

con la psicologa del servizio e di un confronto continuo con gli

operatori su problemi inerenti la gestione quotidiana dell’anzia-

no. Alcuni di loro accedevano regolarmente anche al servizio di

counseling attivo presso il Consultorio Anziani.

Sono state organizzate assemblee semestrali per approfondire

la conoscenza reciproca e discutere la programmazione delle at-

tività e momenti conviviali, come pranzi o gite.

L’entusiasmo con cui le famiglie hanno risposto a queste inizia-

tive lasciava trasparire un bisogno di ascolto, di orientamento,

di sostegno che andava ben oltre la semplice presa in carico

dell’anziano.

Il Progetto Caffè Alzheimer è nato dal desiderio di colmare, alme-

no in parte, questo bisogno.

66

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Obiettivi del progetto

“... non riesco sempre a ricordare la mia età, non ricordo in che mese siamo… in realtà per me,

non fa poi questa grande differenza.”

- Alleggerire il carico emotivo dei caregiver.

- Offrire un servizio di counseling diffuso per sostenere i familia-

ri nel loro impegno di cura.

- Contribuire alla diffusione delle conoscenze relative alla ma-

lattia dementigena e al superamento della condizione di isola-

mento in cui malati e familiari molto spesso si trovano.

- Sostituire, nel vissuto del familiare, l’immagine di un anziano ‘che

non sa più fare’ con quella di un anziano ‘che può ancora fare’.

- Favorire la costituzione di un gruppo di Auto Mutuo Aiuto com-

posto dai familiari coinvolti nel problema.

Costruzione e descrizione del progetto

“... se mia moglie deve uscire, divento molto ansioso, forse si è assentata solo per poco, ma a me pare un’eternità.”

Nella sua fase di avvio il Progetto Caffè Alzheimer si è avvalso

della collaborazione fra la psicologa del Centro Diurno12 - che

ben conosceva ospiti e familiari e poteva con maggiore facilità

individuare le situazioni di crisi reale o potenziale su cui interve-

nire - e la psicologa del Consultorio Anziani dell’Azienda USL13,

che forniva regolarmente un servizio di counseling a diversi

12 All’epoca Marie Christine Melon, che ha lavorato a San Biagio dal gennaio 2002 al gennaio 2009

13 All’epoca Sabrina Stinziani, che oggi ha sostituito Melon nella Casa Protetta/Centro Diurno ‘San Biagio’

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caregiver e che manteneva rapporti continui con le geriatre del

Consultorio.

è stata prevista una fase sperimentale di circa tre mesi - da giu-

gno a settembre 2004 - durante la quale sono stati coinvolti i soli

familiari del Centro Diurno e della Casa Protetta.

Gli incontri avevano una cadenza quindicinale e servivano anche

per monitorare il fabbisogno reale dei familiari, in modo tale da

poter organizzare un più ampio programma di interventi a partire

dall’autunno, allargando la richiesta di consulenze specialistiche

anche ad altre professionalità (fisioterapista, geriatra, fisiatra o

assistente sociale, per esempio). L’orario previsto era dalle 17

alle 19 e, come già detto, i familiari potevano usufruire di un al-

lungamento della copertura oraria del Centro Diurno proprio per

facilitare la partecipazione ai momenti di incontro, liberandoli

dall’ansia di dover “sistemare il nonno”.

La partecipazione agli incontri era (ed è) assolutamente gratuita.

La risposta dei familiari coinvolti è stata misurata con la som-

ministrazione di un questionario validato (il Caregiver Burden

Inventory, di Novak e Guest, 1989) e la raccolta dati su intervista

libera. I risultati di questa prima fase hanno portato a modifiche

sostanziali del progetto, perché:

- la risposta dei familiari che già afferivano alla struttura è stata

bassissima in termini numerici, anche se nettamente elevata in

termini di gradimento e di riduzione dello stress;

- l’orario da noi scelto tenendo conto dei tempi legati al lavoro

è risultato poco idoneo per un gruppo di donne stabilmente

occupate nella cura familiare o già pensionate;

- il nome scelto per il progetto aveva un impatto assolutamen-

te negativo sui possibili fruitori. Più di un familiare ha giu-

stificato la mancata adesione all’invito chiarendo che il pro-

prio congiunto ‘ha una demenza, ma non è un Alzheimer’.

69

14 La dottoressa Antonella Tragnone, che ancora oggi assicura la sua presenza ad ogni incontro del Caffè.

In un territorio pedemontano dell’anziana ed evoluta Emilia

Romagna la malattia di Alzheimer spaventa ancora molto di

più che a Copenhagen.

Il progetto è ripartito in autunno con un nuovo target - familiari di

anziani con demenza residenti sul territorio del Distretto di Casa-

lecchio e/o inseriti nel Progetto Cronos - e con un nuovo nome:

da Caffè Alzheimer a Caffè San Biagio.

è cambiato anche l’orario degli incontri, anticipato di un’ora per

consentire il rispetto del normale andamento della vita domesti-

ca dei partecipanti.

Ulteriori modifiche sono state prodotte nel tempo:

- nell’attività di diffusione sono stati coinvolti i Servizi Sociali

Anziani dei nove Comuni, che già svolgevano, autonomamente

o in collaborazione con il Distretto, attività di sensibilizzazio-

ne, aggiornamento e supporto rivolte ai familiari;

- tenuto conto delle problematiche emerse durante i primi in-

contri, il programma annuale è stato organizzato includendo la

presenza di esperti in grado di rispondere alle domande più fre-

quenti o ai dubbi più diffusamente espressi dai partecipanti;

- dall’autunno del 2005 la psicologa del Consultorio14 è stata so-

stituita dalla geriatra responsabile del Consultorio, che lavora

in coppia con la psicologa CADIAI in organico al servizio;

- dal 2006 gli incontri quindicinali sono stati organizzati intorno

a un tema portante - il senso del tempo, la memoria episodica,

la musica, la Resistenza e simili - su cui si intendevano far con-

fluire riflessioni, bisogni, curiosità dei partecipanti.

La variazione scaturiva dal fatto che, per la prima volta, al Caffè

San Biagio cominciavano ad affluire malati ancora sufficien-

temente competenti, accompagnati da un familiare, ma anche

anziani soli consapevoli di appartenere ad una fascia ‘a rischio’

70

e desiderosi di mantenersi efficienti ancora a lungo;

- sempre nel 2006 il Caffè San Biagio si è arricchito dell’apporto

di un piccolo gruppo di volontari, in parte imparentati con uno

dei malati, che da allora anima la Festa del rientro (a settembre)

e la Festa di Natale con musica dal vivo e contributi golosi;

- nel 2007 abbiamo pensato di modificare parzialmente la for-

mula degli incontri, considerando il fatto che la maggioranza

dei familiari che frequenta il Caffè San Biagio si occupa di ma-

lati già in fase moderata o severa, che difficilmente escono di

casa e che hanno perso buona parte delle autonomie psico-

motorie. Abbiamo programmato due percorsi paralleli, uno di

counseling per i familiari, l’altro di attività espressive e ludico-

motorie per gli anziani, condotte in palestra dall’animatrice e

dal fisioterapista della residenza.

L’obiettivo non era solo di occupare gli anziani e di stimolarne

le competenze residue, ma anche di sostituire, nel punto di vi-

sta dei familiari, l’immagine di un anziano che ‘non sa più fare’

con quella di un anziano ‘che può ancora fare’. I due percorsi

si intersecano all’inizio e alla fine di ogni incontro e si sovrap-

pongono in occasione delle due feste annuali.

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Valutazione dell’esperienza

“... ho una percezione del tempo molto diversa dagli altri, sono sempre in anticipo, è una specie di deformazione temporale, divento smanioso e

irrequieto, non riesco a controllarmi.”

Risultati attesi

Buon coinvolgimento dei familiari, soprattutto nella fase speri-

mentale, rivolta a persone conosciute e che avevano consolidato

un rapporto di scambio e di fiducia con la struttura. Discreto af-

flusso di familiari dal territorio (almeno una decina di persone a

incontro) e regolarità nella partecipazione agli incontri.

Orientamento dei familiari afferenti al progetto verso la fruizione

di altre risorse della rete.

Riduzione dello stress dei familiari coinvolti nel progetto e mi-

glioramento dell’attività di cura dell’anziano malato.

Costituzione, nel medio periodo, di un gruppo di Auto Mutuo

Aiuto, che si prevedeva di ospitare gratuitamente negli spazi di

‘Casa San Biagio’.

Risultati ottenuti

“... c’è qualcosa che mi fa sentire a mio agio con i malati di Alzheimer, ogni tanto ti senti solo, nessuno

di quelli che ti stanno accanto si rende conto veramente di quello che ti succede, anzi molto spesso

noi stessi non sappiamo cosa ci sta succedendo.”

I dati rilevati dai questionari e dalle interviste ci danno la misura

di una netta riduzione dello stress e della fatica della cura, ma

soprattutto del senso di isolamento dei familiari che frequenta-

no gli incontri con una certa regolarità.

74

Non siamo purtroppo in grado di fornire un’elaborazione stati-

stica dei dati, perché il campione su cui vengono raccolti è estre-

mamente eterogeneo e variabile anche nel corso di uno stesso

ciclo di incontri.

La quantità/qualità dell’affluenza è ancora oggi difficilmente

prevedibile per ogni singolo incontro. Si lavora sempre ‘a sog-

getto’. Può capitare di avere una quindicina di familiari, in buona

parte accompagnati dagli anziani che curano, ad un incontro e

un intimo gruppetto di tre o quattro familiari non accompagnati

all’incontro successivo.

Sicuramente gli incontri di apertura di ogni ciclo e le feste del

rientro e di Natale fanno registrare il massimo dell’afflusso. Nel

corso del 2009 abbiamo raccolto l’adesione di una trentina di

caregiver familiari - metà dei quali accompagnati dall’anziano

accudito, qualcuno anche dalla propria assistente familiare - ma

la frequenza media agli incontri non ha mai superato le dieci/

quindici presenze, con ampie soluzioni di continuità. Condividia-

mo questo tipo di problema con altre realtà simili cresciute in

questi anni a Bologna e provincia.

La partecipazione dei familiari che già afferiscono alla Casa

Protetta/Centro Diurno è quasi nulla.

Ci siamo spiegate questo dato con l’ipotesi - successivamente

verificata nel corso di colloqui individuali con i singoli familiari

- che il tipo di presa in carico offerto dalla struttura sia in grado

di soddisfare in misura sufficiente i bisogni delle famiglie degli

anziani utenti.

Non è forse un caso che il primo piccolo gruppo di partecipanti al

progetto fosse composto esclusivamente da familiari di anziani

con gravissimi disturbi del comportamento accolti solo da poco

presso il Centro Diurno. Una riprova ulteriore si ha nel fatto che

diversi assidui frequentanti smettono di partecipare agli incontri

quando il loro congiunto viene inserito al Centro Diurno e che

75

alcuni familiari di anziani in fase di dimissione dal Centro decido-

no di cominciare a frequentare il Caffè San Biagio. Sembrerebbe

proprio che queste due risorse siano mutualmente alternative.

La richiesta di accesso ad altri servizi forniti dalla rete in seguito

alla frequentazione del Caffè San Biagio è molto ampia, anche

perché un dato molto frequente in ingresso è la diffusa non co-

noscenza delle opportunità disponibili, nonostante l’impegno

divulgativo dei Comuni e del Distretto.

Diversi anziani vengono inseriti, stabilmente o ‘a spot’, presso il

Centro Diurno Speciale ‘San Biagio’. Alcuni usufruiscono di rico-

veri di sollievo nei posti disponibili sul territorio del Distretto di

Casalecchio o del distretto attiguo di Porretta Terme. Altri vengo-

no accolti nei Centri Diurni Comunali. Qualche famiglia ha iscritto

la propria assistente familiare ai corsi di formazione organizzati

dall’Azienda USL e dai Comuni del Distretto.

Un obiettivo clamorosamente mancato è invece quello della co-

stituzione di un gruppo di Auto Mutuo Aiuto (AMA). Abbiamo

riflettuto sul fatto che l’insuccesso può essere dovuto sia a va-

riabili di tipo culturale - i gruppi AMA sono un’espressione carat-

teristica delle culture scandinave e anglosassoni, non di quelle

latine, dove è molto più diffusa la tendenza a trattare i problemi

‘in privato’, all’interno della cerchia familiare - sia alla frammen-

tazione territoriale del Distretto. Ci siamo anche dette che si

trattava di un bisogno non rilevato, ma previsto da chi ha elabo-

rato il progetto. Abbiamo cercato per quattro anni di favorire la

costituzione di questo gruppo, abbiamo deciso di abbandonare

l’obiettivo perché al momento non sembra realistico.

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“... il mio consiglio per i caregiver è di… limitarsi a tenere sotto controllo la situazione.

Fate in modo che le cose siano facili da capire - senza passare al linguaggio infantile o cose del genere.

Non trattateci come bambini. Non spazientitevi quando dimentichiamo le cose -

perché spazientirsi fa parte dell’Alzheimer. Quasi sempre ce la prendiamo con noi stessi.”

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Collana “Quaderni CADIAI 11 - Spazi per condividere”.Tutti i diritti riservati. Ogni riproduzione del testo o di sue parti è severamente vietata.

La collana dei Quaderni CADIAI nasce nel 2004 dall’esigenza di raccogliere, valorizzare e

condividere la produzione culturale e le esperienze della cooperativa e dei suoi servizi.

Ogni Quaderno è dedicato ad una particolare esperienza sviluppata nell’ambito dei

servizi ed intende raccogliere e dare conto dell’impegno e della professionalità che

i soci e i dipendenti mettono nel proprio lavoro. Ciò vale soprattutto nel caso in cui

questo impegno si traduca in un intervento, in un’esperienza o in una documentazio-

ne particolarmente interessanti e di eccellenza, rispetto alla media delle attività dello

stesso genere.

La realizzazione di ogni Quaderno è corredata da una presentazione pubblica che co-

stituisce un’occasione formativa per i nostri operatori e per gli operatori delle altre

cooperative e associazioni eventualmente coinvolte o interessate.

Gli altri numeri dei Quaderni CADIAI

1 - Il Cibo... attrazione fatale? - Il Cibo, ovvero, il primo linguaggio dell’affetto

2 - Carta dei servizi per la prima infanzia di CADIAI

3 - La cura dell’ospite con deterioramento cognitivo - Dalla perdita delle capacità cognitive

e relazionali nell’invecchiamento alla demenza

4 - Compiti per la memoria - Un’esperienza di stimolazione cognitiva

5 - Il Castello dei Mostri - Attività espressive e intervento educativo in psichiatria dell’età evolutiva

6 - Le carezze che curano - Attività... e inattività con gli animali a Casa San Biagio

7 - Il Clown in R.S.A., la terapia del sorriso

8 - Il Pianeta di Nicola - Servizi residenziali per disabili: integrazione, innovazione, flessibilità come

pratica quotidiana

9 - Il Libro delle Passeggiate - Servizi semiresidenziali per disabili: luoghi privilegiati per

l’integrazione sociale.

10 - Fili di partecipazione - Incontri con le famiglie nei nidi d’infanzia

Interamente stampato su carta riciclata al 100%.Finito di stampare in ottobre 2009.

Esperienze di sostegno ai caregiver familiari

A cura del Settore Residenze Anziani di CADIAI

Quaderni CADIAI

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Spazi per condividere

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Marie Christine Melon, Sabrina Stinziani