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Laboratorio di storia contemporanea Istituto per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea della provincia di Vicenza «Ettore Gallo» - Istrevi No. QM/2012/01 I quaderni del Laboratorio di storia contemporanea sono scaricabili all’indirizzo: www.istrevi.it Per contatti: [email protected] Istituto per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea della provincia di Vicenza «Ettore Gallo» c/o Museo del Risorgimento e della Resistenza Villa Guiccioli Viale X Giugno 115, I-36100 Vicenza Quaderni su guerre e memoria del ‘900 Responsabile di collana Marco Mondini [email protected] La Strada degli eroi: sacralizzazione della violenza guerriera, fondazione istituzionale e memoria storica. MASSIMILIANO MARANGON Comune di Schio The Road of Heroes: Sacralization of Warlike Violence, Institutional Foundation and Historical Memory. The paper explores the constitutive symbolic nexus of State power in the modern Italian society. This is culturally institutionalized, and is declined in the historical monumental cult of the dead of the Great War, in the continuous and ritual recalling to the collective memory of the violent (and "festive") sacrifice of those (young) dead; and in the cyclical refoundation and re-actualization of the national State itself. The "Road of Heroes" on the Mount Pasubio is thus not only one of many existing works on the mountains of northeastern Italy: it is also the metaphor of the "Path of the Warrior" that, with the needed caveats, can be found as a cultural essential theme also in many other modern societies. This same metaphor re-emerges up to now in public rhetoric, eg. in the ritual celebrations at the Pasubio Charnel, and is still very sensitive to the political and cultural climate in the medium and in the short term. Parole Chiave Grande Guerra, Europa, memoria storica, nation building, rituali, antropologia culturale. Massimiliano Marangon e-mail: [email protected] M. Marangon, n.1954, dirigente, dottore di ricerca in Antropologia culturale, ha tenuto corsi e seminari presso diverse Facoltà dell’Università di Padova, è stato per cinque anni docente a contratto c/o l’Università di Roma “La Sapienza”; si occupa di antropologia storica e generale, in particolare di politiche dell’identità ed ha pubblicato una quarantina di saggi e articoli ed un libro. I quaderni del Laboratorio di storia contemporanea sono pubblicati a cura dell’Istrevi e intendono promuovere la circolazione di studi ancora preliminari e incompleti sulla storia contemporanea vicentina e italiana, per suscitare commenti critici e suggerimenti. Si richiede di tener conto della natura provvisoria dei lavori per citazioni e per ogni altro uso.

Quaderni su guerre e memoria del ‘900 - ISTREVIdemografica e formazioni sociali complesse sono richiamati e discussi anche da Ted C. Lewellen, Antropologia politica , Bologna, Il

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  • Laboratorio di storia contemporanea

    Istituto per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea della provincia di Vicenza «Ettore Gallo» - Istrevi

    No. QM/2012/01

    I quaderni del Laboratorio di storia contemporanea

    sono scaricabili all’indirizzo: www.istrevi.it

    Per contatti: [email protected]

    Istituto per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea della provincia di Vicenza «Ettore Gallo»

    c/o Museo del Risorgimento e della Resistenza – Villa Guiccioli

    Viale X Giugno 115, I-36100 Vicenza

    Quaderni su guerre e memoria del ‘900

    Responsabile di collana Marco Mondini – [email protected]

    La Strada degli eroi: sacralizzazione della violenza guerriera,

    fondazione istituzionale e memoria storica.

    MASSIMILIANO MARANGON

    Comune di Schio

    The Road of Heroes: Sacralization of Warlike Violence, Institutional Foundation and Historical

    Memory.

    The paper explores the constitutive symbolic nexus of State power in the modern Italian society. This

    is culturally institutionalized, and is declined in the historical monumental cult of the dead of the

    Great War, in the continuous and ritual recalling to the collective memory of the violent (and

    "festive") sacrifice of those (young) dead; and in the cyclical refoundation and re-actualization of the

    national State itself. The "Road of Heroes" on the Mount Pasubio is thus not only one of many

    existing works on the mountains of northeastern Italy: it is also the metaphor of the "Path of the

    Warrior" that, with the needed caveats, can be found as a cultural essential theme also in many other

    modern societies. This same metaphor re-emerges up to now in public rhetoric, eg. in the ritual

    celebrations at the Pasubio Charnel, and is still very sensitive to the political and cultural climate in

    the medium and in the short term.

    Parole Chiave

    Grande Guerra, Europa, memoria storica, nation building, rituali, antropologia culturale.

    Massimiliano Marangon

    e-mail: [email protected]

    M. Marangon, n.1954, dirigente, dottore di ricerca in Antropologia culturale, ha tenuto corsi e seminari presso diverse Facoltà dell’Università di Padova, è stato per cinque anni docente a contratto c/o l’Università di Roma “La

    Sapienza”; si occupa di antropologia storica e generale, in particolare di politiche dell’identità ed ha pubblicato

    una quarantina di saggi e articoli ed un libro.

    I quaderni del Laboratorio di storia contemporanea sono pubblicati a cura dell’Istrevi e intendono

    promuovere la circolazione di studi ancora preliminari e incompleti sulla storia contemporanea

    vicentina e italiana, per suscitare commenti critici e suggerimenti. Si richiede di tener conto della

    natura provvisoria dei lavori per citazioni e per ogni altro uso.

    mailto:[email protected]

  • 2

    La Strada degli eroi: sacralizzazione della violenza guerriera,

    fondazione istituzionale e memoria storica.

    1. Delimitare il problema

    Questo contributo* intende attirare l'attenzione, con una prospettiva di

    antropologia storica e riferimenti interdisciplinari anche molto più

    diversificati, su un vero e proprio nesso costitutivo del potere statuale

    esistente nella società italiana, come in genere in quelle euroccidentali già

    coinvolte nel primo conflitto mondiale. Tale ganglio, culturalmente

    istituzionalizzato, si articola in almeno tre campi d'indagine ai quali farò

    riferimento, e cioè:

    1) nello storico culto monumentale dei caduti, in particolare

    giovani, della Grande Guerra, operato negli anni postbellici e

    segnatamente durante il regime fascista;

    2) nella continua riproposizione rituale, alla memoria collettiva

    successiva, del violento sacrificio dei morti in quella festa tragica

    (che si cumula significativamente alle celebrazioni dei più recenti

    caduti della Resistenza ed anche dei "caduti di tutte le guerre");

    3) nella rifondazione e successiva ri-attualizzazione simbolica

    delle istituzioni statali contemporanee e della stessa nazione che

    contestualmente è stata ed è ancora oggi operata attraverso questo

    processo di vera e propria sacralizzazione cerimoniale della violenza

    data e subita in guerra (e nelle operazioni militari in genere).

    * Dedicato a Mario Isnenghi, come festschrift personale.

  • 3

    2. La festa sanguinaria: teorie sulla guerra e narrazioni 1918

    Occorre subito fare alcuni essenziali riferimenti teorici preliminari.

    Secondo la fortunata tesi del filosofo-antropologo René Girard1,

    all'origine di ogni mitologia e ritualità, e addirittura della stessa cultura

    umana, starebbe una "violenza fondatrice" che comporta implicitamente la

    catalizzazione della comunità contro un capro espiatorio, scelto ovunque

    come vittima sacrificale. Del resto già la riflessione socio-antropologica

    classica di epoca durkheimiana aveva portato, con l’importante studio di

    Hubert e Mauss, ad accentuare l’importanza del sacrificio nel sistema delle

    pratiche religiose antiche e primitive2: ed inoltre, già anni prima di Girard,

    l’opera singolare del sociologo Gaston Bouthoul3, ripresa in Italia e

    grandemente ampliata da Franco Fornari4, aveva evidenziato -

    nell’interpretazione essenzialmente psicoanalitica di quest’ultimo - come la

    guerra, considerata in via del tutto generale, ed in una prospettiva certo a-

    storica (ma non, a mio avviso, necessariamente anti-storica), non fosse che

    una sorta di festoso sacrificio5: e precisamente un sacrificio di massa delle

    giovani generazioni, gradito alle divinità; un sacrificio che, più

    riduttivamente, in termini demografici, si configura, in ultima analisi, come

    un vero e proprio “infanticidio differito collettivo”. Detto per inciso, sulla

    connotazione festosa della guerra come uccisione sacrificale (anche

    moderna, il che è meno acquisito che non ad es. per la guerra “sportiva”

    dell’epoca cavalleresca, così come descritta ad esempio da Cardini6) ci

    sarebbero forse molte cose da rilevare: a cominciare ad esempio dall’ironia

    1 René Girard, La violenza e il sacro, Milano, Adelphi, 1980 (orig.1972). 2 Henry Hubert e Marcel Mauss, Essai sur la nature et la fonction du sacrifice, in

    «L’Année Sociologique», II (1897-1898), pp. 29-138. Cfr. anche i capp. VI e VII, intitolati

    L’omicidio, la caccia, la guerra e L’omicidio e il sacrificio del libro di Georges Bataille,

    L’erotismo, Milano, Es, 1991 (orig. 1957), nonché Id, La guerra e la filosofia del sacro, in

    R. Caillois, L’uomo e il sacro. Con tre appendici sul sesso, il gioco, la guerra nei loro

    rapporti con il sacro (a cura di Ugo M. Olivieri), Torino, Bollati-Boringhieri, 2001 (trad.

    della 2° ed.,1950, orig. 1939), pp. 179-91 (recensione al libro di Caillois, orig. 1951). 3 Gaston Bouthoul, Le guerre - Elementi di Polemologia, Milano, Longanesi & C.,

    1961 (I° ed. orig. 1951). 4 In: Franco Fornari, Psicoanalisi della guerra, Milano, Feltrinelli, 1970 (I° ed.

    1966). 5 Ibid., pp. 28-41. 6 Franco Cardini, Quell'antica festa crudele. Guerra e cultura della guerra dall'età

    feudale alla grande rivoluzione, Milano, Il Saggiatore, 1987 (I° ed orig. 1982).

  • 4

    ossimorica del linguaggio comune sull’omicidio in generale, per cui ancora

    si usa dire metaforicamente, nell’italiano popolare corrente, “fare la festa”; e

    si potrebbe continuare: ma su questo argomento è bene lasciare la parola

    all’analisi folgorante, e forse splendidamente definitiva, di Roger Caillois, il

    quale ha da tempo finemente evidenziato l’intimo rapporto che lega questa

    forma organizzata e di massa del sacrificio umano, che è la guerra moderna,

    al parossismo effervescente e fondativo, tipico della rottura del tempo

    ordinario, che si ingenera nella pausa festiva7. E ricordiamo solo qui, per

    chiudere con una fonte documentaria indiretta questa indispensabile

    sottolineatura, e non fosse altro per avvicinarci per un attimo ai luoghi ed

    all’epoca che hanno inizialmente stimolato la nostra riflessione, che nel cap.

    XIV° del romanzo-racconto hemingwaiano Di là dal fiume e tra gli alberi vi

    è un momento in cui uno dei due protagonisti, il colonnello Richard

    Cantwell dice all’altro, Renata: “…Sono un ragazzo del basso Piave e un

    ragazzo del Grappa appena arrivato dal Pertica. Sono anche un ragazzo del

    Pasubio, se sai quel che significa. E’ stato peggio vivere lì che combattere in

    qualsiasi altro posto (…) era insopportabile”. “Ma tu sei rimasto”. “Certo”

    disse il colonnello. “Sono sempre l’ultimo a lasciare la festa, voglio dire la

    fiesta…”8.

    Se, con Caillois possiamo così connotare la guerra come “…tempo del

    sacrificio, ma anche della rottura di ogni regola, del rischio mortale, ma

    7 Roger Caillois, L’uomo e il sacro, Torino, Bollati-Boringhieri, 2001, pp. 157-74

    (app. 3°, Guerra e sacro, orig.te apparsa nella II° ed. del 1950, cfr. pref. 1949). 8 Ernest Hemingway, Di là dal fiume e tra gli alberi, Milano, Mondadori, 1973

    (orig. 1950), p. 211, corsivo dell’A.; cfr. anche A.S.G.e S., Hemingway a Schio «uno dei

    più bei posti della terra», Schio, Menin, 2008, p. 122-23 e nn.; qui al solo fine di avvallare

    l’importanza, come fonte storica – autobiografica - indiretta, del passo del romanzo citato

    (ma le conseguenze di questa notazione ricadono prima di tutto sulla genesi di Addio alle

    armi) faccio presente che, a mio avviso, non si è abbastanza sottolineato, fino ad oggi, che

    l’allora giovanissimo scrittore americano ebbe proprio sul Pasubio la sua prima e

    determinante esperienza della realtà tragica della guerra, vissuta nel 1918 tra il fronte e la

    retrovia di Schio come ambulanziere dell’American Red Cross; e questo, in modo

    documentato, non senza qualche molto giocoso e giovanile entusiasmo; mentre è stato già

    notato che l’autore di Addio alle armi (edito nel 1929) sarà appunto, con autobiografismo

    trasposto e generico, il tenente americano Frederic Henry, inquadrato come ambulanziere

    nell’esercito italiano di stanza a Gorizia: per Hemingway- Henry, la conseguita maturità e i

    fantasmi della guerra vissuta sui vari fronti italiani avevano smussato subito però la

    connotazione festiva del grande massacro, da cui la progressiva spirale di scanzonata

    amarezza tragica di A Farewell to Arms e la forma ironica e metaforica della citazione qui

    sopra, tratta invece dal successivo e meno noto romanzo del 1950.

  • 5

    santificante (…)” ed assumere che essa “…ha tutti i titoli per occupare il

    posto della festa nel mondo moderno” per cui, paradossalmente, nelle

    società interessate “da questo sacro ci si aspetta l’estasi più possente, la

    giovinezza e l’immortalità”9, in termini più psicoanalitici ed etnologici -

    nella lettura data da Fornari all’interessante tesi «polemologica» di Bouthoul

    – che è però piuttosto di evidente derivazione durkheimiana e malthusiana -

    si dovrebbe anche parlare della guerra come di uno spostamento rituale,

    all'esterno della comunità sociale locale, dell'aggressività edipica dei

    giovani, prima stimolata, all'interno del gruppo etnico, dalla violenza

    iniziatica dei padri; ed anche come di una vera e propria "elaborazione

    paranoica del lutto"10

    . In tale processo psichico, che pare difficile

    9 Cito qui estratti di una frase di Caillois che può essere una sintesi provocatoria di

    molti aspetti sviluppati nel presente scritto. Cfr. op.cit., p. 171. 10 Bouthoul, op. cit., pp. 53-5, 60-6, 70. La tesi di Bouthoul, detto per inciso, si

    presterebbe bene ad essere aggiornata e testata antropologicamente alla luce dei principi

    enunciati dal materialismo culturale: storicizzando l'analisi, resterebbe comunque da vedere

    se tale tesi può anche interpretare adeguatamente le recenti guerre più o meno "umanitarie"

    e “preventive”, ad altissima intensità tecnologica. Sui gravi difetti delle teorie etologiche e

    sociobiologiche che vedono la guerra primitiva come mezzo diretto ed efficace nel medio-

    lungo periodo per ridurre la sovrappopolazione e come fattore di selezione bio-culturale

    cfr., del padre moderno dell’antropologia materialistico-culturale Marvin Harris, La nostra

    specie, Milano, Rizzoli, 1991 (orig. 1989), capp. 58 ssgg., part. cap. 61, pp. 222-6 (che

    sintetizza studi compiuti dall’A. già negli anni ‘70); e Alexander Alland jr., L’imperativo

    umano. La biologia e le scienze sociali, Milano, Bompiani, 1974, (orig. 1972), cap. 6, Sulla

    guerra, part. pp 157-63: ciò che chiaramente si deduce dalle nutrite e documentate

    argomentazioni di questi antropologi è che, nel modello esplicativo complesso che spiega

    deterministicamente, in chiave ecologico-culturale e neo-evoluzionistica, la guerra arcaica e

    preindustriale, vi è semmai un nesso inscindibile tra quest’ultima e lo sviluppo di una

    mentalità machista - per pressioni tecno-ambientali venutesi a creare - con selezione

    culturale di giovani avviati a divenire guerrieri; i vantaggi demografici globali per le

    popolazioni interessate derivano perciò piuttosto dagli effetti negativi di un sistema

    educativo fortemente maschilista sul tasso di popolazione femminile che riesce a

    raggiungere l’età riproduttiva; questo ed altri essenziali temi collegati ai rapporti tra crescita

    demografica e formazioni sociali complesse sono richiamati e discussi anche da Ted C.

    Lewellen, Antropologia politica, Bologna, Il Mulino, 1987 (orig. 1983), cap. 3°,

    L’evoluzione dello stato, part. par. 4., p. 80-3; Lewellen, tenendo presenti anche gli studi di

    Harris ed altri precedenti autori (E. Boserup, M. Harner), tende molto argomentatamente a

    ridimensionare, anche se non ad eliminare, l’importanza primaria della pressione

    demografica nella genesi delle forme statuali di organizzazione politica. Per una

    ricognizione interdisciplinare recente fatta anche su Le radici della guerra da un grande

    biologo ed ecologo, v. Paul Ehrlich, Le nature umane. Geni, culture e prospettive, Torino,

    Codice edizioni, 2005 (orig. 2000), part. pp. 259 ssgg., 333 ssgg. (con notevole attenzione

    anche ai fatti microevolutivi della storia delle società e mondiale). Ehrlich fa un notevole

    uso di dati antropologici derivati dalle ricerche delle scuole neo-evoluzionistica, ecologico-

    culturale e della prospettiva materialistico-culturale che le ha in qualche modo sintetizzate,

    come del resto fa Diamond (ma cfr. sotto, n. 39). Segnalo, al momento di pubblicare, anche

    l'interessante approccio storico-evoluzionistico generale di Ian Morris, The Evolution of

    War, apparso recentemente in «Cliodynamics: The Journal of Theoretical and Mathematical

  • 6

    considerare esclusivamente in relazione alle generazioni più giovani, (e che

    perciò andrebbe allora certamente articolato, nell’analisi storiografica e

    sociologica, in riferimento alle dinamiche di età, classiste e di ceto che

    operarono, ed operano, nel coinvolgimento dei diversi strati sociali), vi è

    tuttavia – in generale - una coincidenza istituzionalizzata tra il delitto e la

    virtù: per cui i propri morti-dei vengono propiziati, in particolare grazie al

    meccanismo sociale della “vendetta del sangue”, proiettando cioè

    inautenticamente su un nemico esterno le parti negative del sé ed i sensi di

    colpa derivanti anche dalla morte, spesso attribuita - tra i “primitivi” -

    all'effetto di sortilegi di alcuni dei membri del gruppo (quest'ultima tesi è

    accreditata nel libro di Fornari, fra l'altro, da fatti etnologici riportati già da

    Strehlow e ripresi da Geza Roheim: così tra alcuni aborigeni australiani "lo

    scopo delle guerre come spedizioni di vendetta (...) è quello di dare agli

    abitanti di un altro villaggio la stessa ragione di lutto che essi hanno

    avuto"11

    ).

    È però l’aspetto della festosa violenza iniziatica dei padri (e più dello

    Stato-padre, che non dei genitori biologici) quello che ci sembra

    maggiormente suscitare l’interesse ed essere più adeguato alle nostre

    vicende, date le dinamiche psichiche e socio-demografiche che vennero in

    gioco, in Europa, tra il 1914 ed il 1918: “volevamo venir via dai banchi di

    scuola, dimostrare di essere già dei veri uomini ed esser utili alla Patria”

    scrisse nel suo diario il non ancora diciottenne Karl Mayr, un giovane

    austriaco tirolese arruolatosi volontario, col permesso dei genitori, nel 1915;

    e, sull’altro fronte, così esordiva maternamente la personificata e mitologica

    Primavera giuliana “…Oh ragazzi, ragazzi miei / con quei fieri cipigli di

    veterani, / grandi più dei vostri babbi, / guerrieri di vent’anni…”, e invitava

    i giovani italiani in trincea a prepararsi per la festa tragica, “la Sagra di

    History», 3 (1), 2012, irows_cliodynamics_12167 escholarship.org/uc/item/8jr9v920; l’A.

    vi compie un'analisi storica e macrosociologica di lungo periodo su scala planetaria,

    individuando anche, sulla base di alcuni indicatori che gli sembrano significativamente

    critici, delle prospettive relative al dialettico rapporto guerra/pace nel complesso scenario

    mondiale contemporaneo. 11 La citazione - estratta dal classico lavoro di Strehlow sugli aborigeni australiani -

    si trova a p. 70 del libro di Fornari, dove vi sono anche i rif.ti bibliografici ad alcuni articoli

    di Geza Roheim comparsi sul «Journal of Criminal Psychopathology», nel 1943-44.

    http://escholarship.org/uc/item/8jr9v920

  • 7

    Santa Gorizia”; e così poi i “sottotenentini, / ragazzi imberbi e gioviali”

    cadevano, nelle “giornate malinconiche della Val d’Isonzo”, “colpiti mentre

    correvano / davanti al plotone all’assalto, / come se si trattasse / davvero di

    scherzare / con l’eternità”12

    .

    3. Un sacrificio fondativo

    Alla luce della combinazione critica di queste teorie in una più ampia

    prospettiva di antropologia storica che tenga presente lo scenario del

    complesso e dinamico intrecciarsi dei vari modi di produzione nelle diverse

    società europee nell’ultimo secolo, proponiamo qui che in esse, dal primo

    dopoguerra, dagli anni cioé, segnati, a livello europeo e mondiale,

    dall'«apogeo del nazionalismo»13

    sia allora possibile rintracciare quanto

    segue: che il meccanismo del sacrificio fondativo non tanto di un astratto

    "sacro" o della astratta "cultura" in sé (cfr. Girard), quanto piuttosto delle

    concrete, singole e storiche, istituzioni statali, abbia trovato una sua

    compiuta realizzazione nella memoria organizzata dei "caduti per la Patria",

    cioé, propriamente, nel ricordo rituale dei figli della comunità sociale

    sacrificati in una guerra che viene concepita come attività violenta,

    legittimamente organizzata, funzionale alla stessa esistenza dello stato

    nazionale. Si opporrà forse che non occorre tirare in ballo un così esteso

    corpus di riferimenti teorici per descrivere l’importanza –

    storiograficamente già nota - dei monumenti ai caduti della Grande Guerra:

    12 Corsivi miei, M.M..Cfr. la prima citazione dal diario di Mayr in Michael Wachtler,

    La pace fra noi, s.l., Athesia Touristik, 2004, pp. 21-22. Le altre citazioni sono appunto dal

    celebre poemetto epico La Sagra di Santa Gorizia - del poeta-soldato Vittorio Locchi -

    pubblicato postumo nel 1917 (a Milano, per i tipi de l'Eroica: un’opera che resta assai

    notevole sia come fonte, variamente utilizzabile, sia per molti suoi passaggi lirici). I versi

    qui riportati sono alle p. 34 e 31-33 dell’edizione goriziana del 1990 (Federazione

    provinciale dell’A.N.C.R. per la cura di A. Torrelli; pubblicata, assieme ad un interessante

    corredo aggiuntivo, presso la locale Tipografia sociale); la personificazione della stagione

    della rinascita che diviene una bellicosa deità genitoriale nell’allegoria di Vittorio Locchi fa

    venire alla mente subito il par. “La guerra, potenza di rigenerazione” di Roger Caillois,

    op.cit., p. 166: “…La mitologia della guerra consente l’accostamento (…) se ne fa una

    specie di dea della fecondità tragica”: ma se qui l’uso rilevato è quello di naturalizzare,

    divinizzandolo, un evento umano, nella poesia del Locchi accade l’inverso (un evento

    naturale viene “umanizzato” – meglio sarebbe dire “dis-umanizzato”), peraltro con effetti

    retorici tragicamente analoghi. 13 Per usare la definizione di E. J. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismo, Torino,

    Einaudi, 1991 (orig. 1990), cap. V°.

  • 8

    ma, nella specificità di una prospettiva – com’è quella antropologica – che

    ha a lungo mantenuto un’ambizione nomotetica, senza peraltro mai –

    nemmeno nei suoi esiti estremi (uno per tutti: Claude Lévi-Strauss) –

    ignorare completamente la specificità particolare dei singoli eventi e delle

    stesse strutture storiche entro cui essi accadono, questa serie di richiami ci

    pare doverosa, e capace di arricchire – con alcuni apporti specifici delle

    scienze umane, e sinanche naturali – la sinergica riflessione interpretativa

    delle discipline storico-sociali. Tanto più che in anni più recenti

    l’antropologia culturale (come è accaduto anche per altri ambiti scientifici)

    si è imbevuta di correnti postmodernistiche che, se non altro, hanno posto

    molto l’accento sulla struttura e sulle retoriche proprie tanto del discorso

    dell’indagatore dei fatti simbolici, quanto dei fatti stessi che egli si trova ad

    interpretare: e pertanto ci sembra il caso, senza perdere la connessione

    felicemente stabilita – una buona volta – con la antica consapevolezza

    interpretativa della tradizione storiografica italiana (e non solo), di

    riequilibrare un po’il tiro, riportando l’approfondimento anche su un piano

    più teorico e non solo descrittivo. Anche perché, a ben vedere, se il discorso

    sta in piedi, ne seguono forse delle importanti conseguenze pratiche.

    Corollario logico di questo assunto è infatti la successiva convinzione

    politica, niente affatto scontata, che tutto l’apparato cerimoniale che ruota

    tutt’oggi intorno al ricordo della prima guerra mondiale non possa certo

    essere guardato con la sufficienza politica con cui talora lo si è liquidato, in

    tempi non troppo passati, come vuota retorica militarista; ma che semmai

    esso vada costantemente ripensato ed attualizzato, anche se in modo

    radicalmente diverso, sotto il profilo valoriale. Se vi è in esso infatti una

    ratio fondativa degli stati – nazione (pure con tutte le loro intrinseche e

    generative contraddizioni di classe, che, aggiornate ed attualizzate, ne

    costituiscono tuttavia la forma fondamentale, o, per meglio esemplificare, le

    fondamenta vuote entro cui si rassoda, nel tempo, la gittata simbolica delle

    ideologie e delle pratiche che garantiscono la presa del cemento sociale) ciò

    significa in altri termini che tale apparato celebrativo ha a che fare – in

  • 9

    quanto “fatto” identitario e culturale di lungo periodo14

    , sancito e

    interpretato ritualmente, con i fondamenti stessi della nostra complessa

    contemporaneità sociale – e tanto più ora che esso sembrerebbe dover essere

    superato in qualche modo dalla contraddittoria, ma via via sempre più

    stretta, unificazione europea. Così ad es. è stato nella festa francese per

    ricordare la fine della Grande Guerra (11 novembre 2008), dato che il Capo

    della République per antonomasia ha comunque dovuto celebrare – sia pure

    assieme anche a rappresentanti tedeschi ed in chiave originalmente

    europeistica (i giovani cadetti dell’accademia militare che cantano l’Inno

    alla Gioia…) – quella che in Italia resta più tradizionalmente - al di là della

    mutata denominazione ufficiale – “la festa della Vittoria”. Ed ha ritenuto di

    farlo a Verdun, assieme agli ex-alleati di un tempo, suscitando

    significativamente – per la scelta del luogo nella specifica occasione - la

    disapprovazione della Cancelleria germanica: la cui massima

    rappresentante, di conseguenza, non ha partecipato alla cerimonia, inviando

    invece a presenziarvi, come hanno sottolineato molte agenzie di stampa, il

    presidente del Senato tedesco15

    . Questo tanto per evidenziare anche taluni

    dei perduranti confini simbolici delle politiche nazionali entro il nuovo

    campo europeo.

    14 La Grande Guerra è stata notoriamente a lungo connotata, in Italia, come l’ultima

    delle guerre del Risorgimento, quella territorialmente unificatrice par excellence – piuttosto

    che non come mero “primo” conflitto “mondiale”: l’interpretazione “locale”, perciò, ci

    riconduce qui ad inquadrarne perfettamente la memoria come ricordo (e mito) identitario,

    del genere appunto di quelli che, per i gruppi etnici, instaurano una “fedeltà demiurgica in

    rapporto agli eventi fondatori che li istituiscono nel tempo” secondo la felice espressione di

    Paul Ricoeur (in Lectures 2. La contrée des philosophes, Paris, Seuil, 1992, cit. s.i.p. da

    Philippe Poutignat e Jocelyne Streiff-Fenart, Teorie dell’etnicità, Milano, Mursia, 2000, p.

    135). Il primo a parlare di “mito della Grande Guerra” rilevandone gli aspetti

    specificamente italiani e pedagogico-risorgimentali, è stato Mario Isnenghi nel suo

    omonimo e ormai classico libro (Bari, Laterza, 1970; di Isnenghi si v. anche l’ampio saggio

    citato qui più sotto, in n. 20, part. nelle considerazioni finali, pp. 305-09). 15 Traggo le informazioni sulle celebrazioni del 90° in terra di Francia dalla

    testimonianza qualificata di spettatori della diretta televisiva francese; per l’assenza

    polemica alla festa della cancelliera tedesca Angela Merkel cfr. le principali agenzie di

    stampa on-line, alla data dell’11 nov.2008 e gg. ssgg., nonché il rif.to all’articolo di

    Martinotti che compare nella nota finale di questo scritto.

  • 10

    4. Monumenti agli Eroi e culto nazionale della Patria

    Occorrerà naturalmente dimostrare la tesi più sopra sommariamente

    enunciata con l'appoggio di altri dati, il più possibile adeguati, ed investigare

    questi particolari, e tuttora attuali, "riti e simboli del potere"16

    , tracciando

    anche eventualmente, in conclusione, e sia pur molto in breve, qualche

    riflessione problematica in senso applicativo17

    .

    In Italia, ad esempio, il culto dei caduti comincia a realizzarsi già a

    partire dall'epoca risorgimentale (con la costruzione di vari monumenti

    ossari, fra cui, per non citarne che uno, quello di Solferino); ma più ancora

    esso si sviluppa dall'epoca del compimento definitivo dell'unità dello stato

    nazionale, appunto negli anni finali e successivi alla Grande Guerra e

    soprattutto, in maniera pesantemente monumentale, nell'epoca fascista

    antecedente il secondo conflitto mondiale.

    Sono infatti di quegli anni le costruzioni e le dedicazioni, soprattutto

    nelle ex zone di confine già teatro di cruente battaglie - ma monumenti ai

    caduti sorgono nelle piazze di ogni paese, sull'intero territorio nazionale - di

    cimiteri militari e cippi, di statue di Madonne degli Alpini e di parchi della

    Vittoria, di cappelle votive e di monumenti ai vari singoli eroi; di “parchi

    delle rimembranze” e di "strade degli eroi", come quella che

    vertiginosamente s’arrampica sul Pasubio; ed anche, e soprattutto, dei

    grandi e piccoli sacrari militari18

    (nell'area veneta, fra gli altri: Pasubio

    1926, Schio 1930, Monte Grappa, Montello e Fagaré 1935, Asiago 1936,

    16 Il rif. è al titolo del libro dell'antropologo David I. Kertzer, Roma - Bari, Laterza,

    1989 (orig. 1988). 17 Seguirò, con ciò, l'esplicito invito fatto ai partecipanti dagli organizzatori del V

    Congresso Nazionale dell'AISEA (Roma, 11-13 novembre 1999), in cui era stata presentata

    la prima, scarna, versione di questo scritto, più volte in seguito ampliata, riveduta e

    aggiornata – ma mai fino ad ora pubblicata in nessuna forma, per vari motivi, anche non

    dipendenti dalla volontà dello scrivente. Ovviamente solo la versione attuale, che tuttavia

    non modifica il nucleo essenziale del discorso di allora è quella che, naturalmente, fa testo. 18 Cfr. i dati riportati nei vari opuscoli sui sacrari della 1° guerra mondiale editi dal

    Ministero della Difesa - Commissariato generale per le onoranze ai caduti in guerra,

    passim. Sugli aspetti storico-artistici e conservativi di questi monumenti visti in un’ottica di

    valorizzazione patrimoniale, v. ora i contributi di Chiara Rigoni, Cristina Franchini e

    Chiara Scardellato nella sontuosa opera pubblicata dalla Soprintendenza per i beni storici,

    artistici ed etnoantropologici per le provv. di Venezia, Belluno, Padova e Treviso in

    occasione del 90° anniversario della fine della Grande Guerra: AA.-VV., La memoria della

    prima guerra mondiale: il patrimonio storico-artistico tra tutela e valorizzazione, a cura di

    Anna Maria Spiazzi, Chiara Rigoni, Monica Pregnolato, con pref. di Mario Isnenghi,

    Vicenza, Terra ferma editore, 2008.

  • 11

    per non citare che esempi territorialmente vicini, ad alcuni dei quali faremo

    riferimento); e sono sempre di quegli anni anche le istituzioni di vere e

    proprie "zone sacre", dichiarate ufficialmente tali, nei luoghi dove più aspri

    furono i combattimenti e più elevato il numero dei morti; come anche, sul

    piano organizzativo-legislativo, fu quello lo stesso periodo in cui si ebbe

    l'istituzione della "Commissione Nazionale per le Onoranze ai Militari

    d'Italia e dei Paesi Alleati Morti in Guerra" (1919) e di un ufficio centrale

    apposito (1920), e poi di un Commissario di Governo addetto alla

    "sistemazione definitiva delle salme dei caduti in guerra" (1931); ed, infine,

    di un Commissario generale straordinario (1935) i cui poteri verranno

    ulteriormente ampliati dopo il secondo conflitto mondiale19

    .

    Come hanno già indicato gli studi di storici quali Mario Isnenghi ed

    altri 20

    , i grandi sacrari e le altre opere cimiterial-monumentali hanno

    costituito una forma storicamente determinata di anestetizzazione della

    morte in battaglia e di celebrazione della gloria dello stato nazionale

    italiano, che aveva ormai compiuto il suo pur contraddittorio processo di

    unificazione etnico-territoriale.

    19 Cfr., sotto quest'ultimo profilo Ministero della Difesa - Commissariato generale

    per le onoranze ai caduti in guerra, Relazione sull'attività del Commissariato generale per

    le onoranze ai caduti in guerra negli anni 1988-1997, Roma, 1998, pp. 1-3. 20 V. la sintesi data dallo stesso Isnenghi, La Grande Guerra, in Mario Isnenghi (a

    cura di), I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell'Italia unita, Roma - Bari, Laterza,

    1997, pp. 273-309, in particolare pp. 301-06. Il pioniere italiano di queste tematiche è stato

    forse Claudio Canal, col suo articolo La retorica della morte. I monumenti ai caduti nella

    Grande guerra, in « Rivista di Storia Contemporanea», 4 (1982), pp. 959-69. Cfr. anche

    l’organico tentativo di rassegna di Gian Marco Vidor, Riti e monumenti per i morti della

    Grande guerra, in «Studi Tanatologici-Thanatological Studies-Etudes Thanatologiques», 1

    (2005), pp. 139-159. E, da ultimo, cfr. la corposa ricerca audio visuale congiunta delle due

    università veneziane Il Veneto tra le due guerre 1918-1940, nel sito:

    circe.iuav.it/Venetotra2guerre/index.html: la cui sezione La memoria di pietra, presentata

    da Daniele Pisani e sviluppata da vari autori, è ricca di informazioni scientifiche,

    bibliografiche e di documentazione su tutta questa materia; l’Ossario pasubiano del colle

    Bellavista vi viene giustamente indicato (assieme a quello del Cimone di Tonezza) come un

    modello transizionale, “l’ultimo degli ossari” risorgimentali ed, al contempo, “il primo dei

    sacrari” del regime fascista.

    http://circe.iuav.it/Venetotra2guerre/index.html

  • 12

    5. Esempi: tra Pasubio e Asiago

    L’analisi della struttura architettonica e funzionale dei sacrari-ossari e

    dei cimiteri militari comporterebbe tuttavia una individualizzazione di

    ciascuno di essi che ne evidenzierebbe le peculiarità, legate a fatti e ad

    interpretazioni sia locali, sia nazionali: gli esempi, quasi contigui, dei citati

    ossari vicentini del Pasubio, di Schio e di Asiago (tra i primi ad essere

    edificati unificando e centralizzando alcuni dei 1840 cimiteri campali che

    costellavano l'arco dell'intero fronte bellico21

    ) mostrano così una varietà di

    soluzioni che, pure nella generale magniloquenza di fondo, rinvierebbero,

    come a variazioni sul tema, alla considerazione dell'importanza di vari

    fattori specifici che hanno agito nella loro particolare costruzione.

    Così, se è un isolato torrione piramidale a svettare in quota di fronte

    alle guglie dolomitiche dell'assai conteso massiccio del Pasubio22

    - quasi

    cima tra le cime di quelle che furono annoverate all'epoca tra le "montagne

    sante d'Italia, azzurre e bianche torri a guardia della Patria"23

    - diversa è

    invece l'ecologia del vicino sacrario di Schio. Là nell'alta pianura, alla base

    del combattuto monte Novegno, il primitivo cimitero militare,

    originariamente posto in una porzione del vecchio cimitero civile, è stato

    trasformato24

    in un chiostro che ne riecheggia un altro non lontano (attiguo

    ad una chiesa quattrocentesca); ed è stato poi via via integrato dal tessuto

    urbano. Mentre è invece un mastodontico e quadriportico arco romano a

    dominare, dalla sommità del colle Laiten, l'ondulata conca verde dove si

    adagiano il paese e le contrade sparse di Asiago, nel centro di

    quell'Altopiano dei Sette Comuni già grandemente insanguinato da

    21 Come si può evincere dal cap. XXIV, Fasti e monumenti della Vittoria di G. De

    Mori, Vicenza nella guerra 1915-1918, Vicenza, G. Rumor, 1931. Cfr. ora i dati

    catalografici riportati da Cristina Franchini in AA.-VV., La memoria..., cit., pp. 333-36. 22 Sul quale v. Ministero della Difesa - Commissariato generale..., Sacrari militari

    della 1° Guerra mondiale - Pasubio, Roma, 1998; e, per gli aspetti pittorici e progettuali di

    questo primo e, per certi versi, atipico sacrario, Chiara Rigoni, “Fra severe allegorie ed

    eloquenti stilizzazioni di alti pensieri”*: la decorazione di Tito Chini nell’Ossario del

    Monte Pasubio, in AA.-VV., La memoria..., cit., pp. 362-87. 23 La citazione è ancora dei versi di Vittorio Locchi, dall’edizione 1990, cit., de La

    Sagra di Santa Gorizia…, p. 41. 24 Cfr. Ministero della Difesa - Commissariato generale..., Relazione..., cit., p. 45, e,

    più approfonditamente, G. De Mori, Chiostro ossario dei caduti di guerra alla SS. Trinità

    di Schio, Schio, P. Marzari, 1930.

  • 13

    numerose e ripetute offensive e controffensive durante l’intero arco della

    Grande Guerra25

    Generalmente gli ossari allineano i caduti in loculi per la maggior

    parte tutti uguali nella dimensione e nella disposizione spaziale (scandita dal

    solo ordine alfabetico), e ciò secondo parametri che sembrano volti a sancire

    l’uguale dignità del “supremo sacrificio”, al di là di ogni differenza

    gerarchica (pur ricordata dal richiamo del grado sulle lapidi) e di ogni

    differenza sociale: tali differenze sono infatti ora appiattite e sfocate

    dall'esito, violento e totale, degli eventi. Sono però riuniti a gruppi i militi

    ignoti (i cui resti sono stati spesso confusi dai bombardamenti) mentre una

    particolare evidenza viene data ai morti che hanno compiuto particolari atti

    di valore26

    .

    Tra gli esempi qui considerati, significativa è a tale riguardo la

    struttura dell'ossario del Pasubio27

    : in esso i morti “per la Patria” sono

    collocati secondo un asse verticale che va dal noto all'ignoto (gli ignoti

    stanno, a gruppi, più in alto, più vicini all'apoteosi celeste, ma sono anche

    più inavvicinabili e quindi fatalmente ed ulteriormente più soggetti alla

    corrosione di una memoria sociale che già a priori non li può ri-conoscere);

    mentre, tra i caduti di cui è noto il nome - che stanno individualmente

    sepolti in una cripta ed in una galleria semi-sotterranee più alla portata dei

    visitatori e della loro capacità di memorizzare - si può constatare una

    gerarchizzazione orizzontale, sostanzialmente di merito: sono così inumati

    nella cripta al centro i resti di 70 decorati al V.M., assieme alla salma del

    25 Sull'ossario di Asiago cfr. Ministero della Difesa - Commissariato generale...,

    Sacrari militari della 1° Guerra mondiale - Asiago Pasubio, Roma, 1974, pp. 5-14; mi

    permetto inoltre di rimandare a quanto ho scritto nel libro Antenati e fantasmi

    sull'Altopiano. Un'identità etnica "cimbra" e le sue modulazioni antropologiche, Roma,

    EUROMA, 1996, pp. 69, 72. 26 Si allude qui solo ai sacrari ufficiali: un discorso a parte, molto interessante,

    riguarderebbe le forme monumentali più o meno subalterne che utilizzavano i residuati

    delle battaglie e che vennero spontaneamente costruite dai combattenti direttamente sul

    campo, come ad es. avvenne sul colle Sant'Elia presso Redipuglia (traggo queste notizie

    dalla bella comunicazione di Fred Licht al convegno “Retrovie - avanguardia 1918-2000 -

    dalle trincee all'Europa” tenutosi presso il Museo del Risorgimento di Vicenza il 22. 10.

    1999). Cfr. anche le brevi notizie date da A. Torrelli a margine de La Sagra di Santa

    Gorizia…, cit., pp. 74-76. 27 Cfr. i riff. della prec. nota 22 e ora, per una sintesi descrittiva della struttura

    architettonica dell’Ossario, nel cit. contributo di C. Rigoni a La memoria..., cit., le pp. 372-

    74.

  • 14

    loro ex comandante, mentre i semplici caduti non decorati giacciono nella

    galleria che dall'esterno contorna la cripta. È da notare che il merito

    particolare della virtù guerriera è ugualmente enfatizzato dalle lapidi poste a

    ricordo di 15 decorati di medaglia d'oro al V.M. che ritmano il passo lungo

    la c.d. ‘Strada degli Eroi’, che sale alla zona monumentale del Pasubio

    (dichiarata tale nel 1922 "a consacrazione nei secoli della gratitudine della

    Patria verso i figli che per la sua grandezza vi combatterono" 28

    ).

    6. L’utilità del dolore

    Come rammentava tuttavia, alla fine degli anni ‘90, l’allora

    Commissario Generale, il ricordo deve essere continuamente riattualizzato:

    “l’onorare non può prescindere dal ricordare (...) perché, in caso contrario,

    la mera ‘monumentalizzazione del ricordo’(...) potrebbe nel tempo

    trasformarsi (...) attenuando il testamento spirituale del patrimonio morale

    che voleva e doveva tramandare”. Tutt’oggi occorre insomma essere “attenti

    28 Ministero della Difesa - Commissariato generale..., Sacrari..., cit., p. 5; corsivo

    mio, M.M.; esplicito appena qui in nota, a questo riguardo, il gioco di parole del titolo di

    questo saggio, che – nel riferirsi alla vertiginosa strada militare qui sopra nominata -

    richiama metaforicamente anche il famoso codice d’onore dei Samurai (Bushidō = la Via

    del Guerriero); sui kamikaze nipponici, loro (presunti) eredi spirituali della II° guerra

    mondiale, segnalo il recente e approfondito studio, svolto, con largo uso di algoritmi e

    riferimenti alla disequazione hamiltoniana, da John Orbell e Tomonori Morikawa: i due co-

    autori in An Evolutionary Account of Suicide Attacks: The Kamikaze Case, apparso on-line

    sulla rivista «Political Psychology», Vol. xx, No. xx, 2011, icds.uoregon.edu/wp-

    content/uploads/2011/08/The_Kamikaze_Case.pdf discutono il problema dei volontari

    suicidi giapponesi (con molti altri appropriati riferimenti storico-comparativi) in una chiave

    psico-evoluzionistica e sociobiologizzante: xenofobia e solidarietà fraterna vi vengono

    individuati alla fine, più in generale, come probabili fattori cruciali cognitivamente capaci

    di motivare, all’interno di retoriche parentali allargate, il sacrificio volontario di sé; di cui si

    postula peraltro una funzionalità genetica originaria in particolari condizioni di minaccia

    estrema percepita per la sopravvivenza del proprio gruppo genetico-parentale, et ultra,

    verso il gruppo sociale di appartenenza. Sul rapporto tra la distorta (re)invenzione

    dell’ideologia nipponica della “bella morte” per i giovani kamikaze e le ideologie europee

    più reazionarie del secolo e mezzo precedente, v. Ian Buruma, Avishai Margalit,

    Occidentalismo. L’Occidente agli occhi dei suoi nemici, Roma, Gr. Edit. L’Espresso, 2007

    (orig. 2004), pp. 54-61. Per i massacri “sacrificali” di giovani nel primo conflitto mondiale,

    v. ivi p. 46, con cit. da Mosse, Le guerre mondiali: dalla tragedia al mito dei caduti, Roma-

    Bari, Laterza, 1990, p. 79; nonché, per le analogie con il culto della morte in alcuni ben

    delimitati settori del radicalismo islamico contemporanei ed in particolare tra i martiri neo-

    jihâdisti seguaci di Osama bin Laden, le pp. 62 ssgg., con i necessari distinguo (che

    vengono ancor meglio esplicitati, relativamente agli chahîd della recente rivoluzione

    tunisina ed alla loro siderale distanza dai precedenti, da Fethi Benslama nel suo illuminante

    libretto Soudain la Révolution! Géopsycanalyse d’un soulèvement, Tunis, Cérès éditions,

    2011, pp. 58 ssgg., part. 68-9 e passim).

    http://icds.uoregon.edu/wp-content/uploads/2011/08/The_Kamikaze_Case.pdfhttp://icds.uoregon.edu/wp-content/uploads/2011/08/The_Kamikaze_Case.pdf

  • 15

    a non disperdere l'utilità del dolore” (e qui si cita addirittura

    Sant'Agostino)29

    . Alla fase di fondazione definitiva dello stato nazionale

    territorialmente compiuto - attuatasi totalitaristicamente negli anni ‘20 e ‘30

    anche con l’erezione e l’inaugurazione di questi e molti altri sacri complessi

    monumentali da parte delle massime autorità, civili, militari e religiose30

    - è

    subentrato così un culto della memoria che è continuato poi, dopo la caduta

    del regime fascista, anche nell'Italia repubblicana, e che perdura tuttora.

    Ogni anno si svolgono infatti, nei sacrari, raduni di associazioni

    d'arma e cerimonie commemorative con discorsi ufficiali di autorità

    politiche locali e nazionali, alla presenza di reparti militari armati, ed anche

    di reduci (finché ve ne sono stati) e di gruppi di attuali rappresentanti delle

    diverse forze allora in campo: ed un complesso di simboli ri-fonda così

    continuamente, con la sua esibizione, la connessione tra quei morti di morte

    violenta e la saldezza e continuità dello stato nazionale, e delle sue

    componenti territoriali, anche alla luce delle vicende politiche più recenti.

    Sul colle di Bellavista, in faccia al Pasubio, si sono così potuti vedere,

    verso la fine del “secolo breve”, sia il gonfalone ufficiale della Provincia di

    Vicenza (che inquarta significativamente, nello scudo effigiato, le immagini

    dei quattro sacrari più noti delle montagne vicentine), sia le uniformi ed i

    labari dei discendenti dei kaiserjager austriaci, venuti europeisticamente in

    delegazione a celebrare il ricordo di quei fatti d'arme assieme ai loro attuali

    confratelli alpini. E le orazioni ufficiali di ministri, senatori e sindaci che, in

    diverse ricorrenze, ogni anno rinnovano la memoria pubblica,

    riattualizzando in vario modo il sacrificio degli eroi, riempiono gli archivi.

    Così ad esempio il senatore Giovanni Spagnolli il 7 luglio 1963 poteva

    citare l’epitaffio di Pericle di fronte al Pasubio e di fronte all'atomizzazione

    culturale che si profilava negli anni dell'espansione del consumismo; ed

    assimilava i caduti della Grande Guerra agli ateniesi antichi, “uomini di

    coraggio, di intuito pronto, di onesta condotta”: e invitava infine i suoi

    29 Ministero della Difesa - Commissariato generale..., Relazione..., cit., p. VII e V. 30 Cfr. i vari e per lo più retoricissimi interventi delle varie autorità nazionali e

    provinciali riportati ad es. nei due testi degli anni '30 sopracitati riguardanti il vicentino,

    passim.

  • 16

    contemporanei ad esaltare il sacrificio dei morti del Pasubio coll’operare in

    modo individuale, responsabile ed armonico, per una bontà di radice

    giovannea e una pace universale in cui trovassero “fondamento vero la

    giustizia, la libertà, la democrazia, il progresso”31

    . Sette anni dopo - in anni

    segnati dalle lotte operaie e studentesche - toccava invece al ministro

    Flaminio Piccoli di richiamare alle coscienze “il monito del Pasubio”, in un

    discorso che richiamava l'eredità spirituale di quei caduti come un valore

    che già aveva consentito la rigenerazione degli italiani dopo il buio della

    seconda guerra mondiale e che ora avrebbe permesso, nel “periodo difficile”

    che l'Italia stava allora attraversando, di “impedire che la faziosità di pochi

    rechi un ricupero di violenza ad un popolo che vuole ordine, pace, libertà e

    giustizia”32

    .

    Come si vede le diverse congiunture politiche ed economiche

    influenzano inevitabilmente la reviviscenza istituzionalizzata dei morti in

    guerra33

    : bisognerà così attendere gli anni novanta dello scorso secolo ed il

    riaccendersi della guerra in Europa per sentire nominare sul Pasubio parole

    che attribuiscano funzioni di pace agli eserciti34

    : secondo un concetto che

    va, in generale, ancora di moda, come hanno dimostrato i discorsi ufficiali

    delle più alte cariche dello stato italiano alle più recenti celebrazioni della

    “festa dell’Unità Nazionale e giornata delle Forze armate”, e questo anche

    nei primi giorni del novembre 2008 dedicati al novantesimo anniversario del

    I° conflitto mondiale; nella quale festa tuttavia si è continuato ancora a

    ribadire, in ogni caso, già col semplice pellegrinaggio ai vari sacrari e altari

    della patria, il valore fondativo e identitario del violento sacrificio dei

    31 Giovanni Spagnolli, Monte Pasubio, discorso pronunciato il 7 luglio 1963 al

    Sacello Ossario del Pasubio, s.d., s.l. (v. c/o Biblioteca civica di Schio), pp. 17, 20. 32 F. Piccoli, Il monito del Pasubio, discorso tenuto il 5 luglio 1970 al Sacello del

    Pasubio dall'on., Vicenza, Rumor, s.d. (ma 1971, per cura della Fondazione “3 novembre

    1918”), p. 7. 33 Come risulta evidente ad es., anche dalla lettura del discorso tenuto dal Sindaco di

    Rovereto al Sacello Ossario del Pasubio il giorno 5 luglio 1987, dattiloscritto (arch. Bibl.

    civ. Schio, fondo Dalla Ca’, b. 17), che peraltro ricorda anche il popolino neutralista e

    analfabeta divenuto guerriero per forza. 34 Discorso del Sindaco di Schio al Sacello del Pasubio del 4 luglio 1993,

    dattiloscritto (arch. Bibl. civ. Schio, ibidem).

  • 17

    (giovani) morti della Grande Guerra (e delle guerre dell’Italia unitaria

    precedenti e successive).

    7. Giovani, padri, nonni

    Anche in tempi recentissimi infine, il 24 giugno 2012, sul piazzale

    dell’ossario pasubiano35

    si è udita l’eco di tali concetti: infatti il sindaco di

    Vicenza Achille Variati – cui spettavano le funzioni di oratore ufficiale36

    richiamava la considerazione pubblica sia sui giovani combattenti della

    Grande Guerra, sia sui giovani militari - quelli presenti in picchetto od

    impegnati in missione di pace, sia infine sui giovani della società civile

    attuale, che sono sempre più cittadini cosmopoliti di un’Europa pacificata,

    se non ancora politicamente unita in modo adeguato ed economicamente

    solidale. E chi scrive ha potuto anche udire, per bocca del ministro

    Annamaria Cancellieri (già prefetto della provincia di Vicenza anni fa) un

    esplicito e testuale richiamo alla fondatività del legàto sacrificale lasciato

    alle giovani generazioni: il quale rimane eredità essenziale per l’esistenza

    unitaria stessa dello stato-nazione; che fu donata, nella sua intangibile

    pienezza, proprio dal sacrificio “dei nostri nonni” (di ogni regione d’Italia,

    come ha sottolineato il ministro): il tutto secondo una perfetta, quanto forse

    inconscia – ma proprio per questo ancora più efficace – coerenza narrativa.

    La rappresentante ufficiale del governo ha introdotto così infatti il registro

    parentale più affettuoso e scherzoso nella retorica della festa

    commemorativa, ovvero quello del rapporto tra nonni e nipoti37

    . E se

    l’asserito rapporto tra “nonni” e nipoti è da un lato ovviamente necessitato,

    quale metafora utilizzabile al di là dell’esperienza personale propria, dalla

    35 (note etnografiche raccolte dall’A. al momento dell’ultima revisione di questo

    testo; v. anche la cronaca dell’evento nell’ampio servizio di cronaca apparso sulle pp. del

    Giornale di Vicenza del successivo 25 giugno 2012, con citazioni dai discorsi delle autorità

    intervenute). 36 annualmente turnarie tra i quattro comuni di Vicenza, Schio, Valdagno e Rovereto,

    che gestiscono la cerimonia – promossa dalla Fondazione 3 Novembre 1918, secondo una

    logica di contiguità territoriale relativa e di complementarietà simbolica. 37 Tutti i corsivi sono sottolineature mie, M.M. Cfr. le citt. del ministro Annamaria

    Cancellieri a p. 10 del Giornale di Vicenza del 25 giugno 2012 cit., fra cui, estrapolata dal

    testo ed evidenziata in corpo maggiore: “Su questi monti sono state scritte pagine fondanti

    della nostra storia”.

  • 18

    molto aumentata distanza generazionale dei giovani d’oggi rispetto a quelli,

    ormai per loro lontanissimi, del luglio 1916, e non è quindi più realistico in

    alcuna misura, esso può anche essere forse letto come una fortissima

    immagine intergenerazionale e continuista, che tocca pedagogicamente le

    zone emozionali più profonde38: sono infatti i nonni (e non i severi padri)

    che, nello stereotipo culturale più consolidato, sono deputati primariamente

    a narrare le fiabe ai nipoti. E questa è, per così dire, una “fiaba essenziale”,

    la “fiaba” propriamente del sangue.

    8. Per una religione civile della Patria

    In conclusione dobbiamo onestamente chiederci, alla luce di tutti

    questi dati, se gli Stati-nazione contemporanei, ed in particolare lo Stato

    italiano (erede in ciò di quello totalitario uscito in fondo, per molti versi,

    proprio dalla Grande Guerra), di questo monopolio della violenza guerriera

    e della memoria sacralizzata dei corpi sacrificati dei figli della Patria

    possano permettersi realmente di fare a meno39

    : non rispondere

    38 Sul legame strutturale di lunghissimo periodo che legherebbe la “kin selection”, le

    varie forme di socializzazione, e le retoriche patriottiche di tipo “famigliare” nei complessi

    statuali più vari, segnalo due articoli, che non ho tuttavia potuto consultare, di Gary R.

    Johnson: In the name of the fatherland: An analysis of kin term usage in patriotic speech

    and literature, in «International Political Science Review»,. 1987, 8 (2), pp.165-74; e, Id.,

    The role of kin recognition mechanisms in patriotic socialization: Further reflections, in

    «Politics and the Life Sciences», 1989, 8, pp. 62–69. Circa il perdurare attuale, in generale,

    della connotazione filiale dei giovani morti in guerra v. le fondate argomentazioni del

    biologo Paul Ehrlich in Le nature umane, cit., p. 321: “Non servono gli impulsi ormonali

    per incitare alla violenza di massa. Il modello dell’uomo maturo che in perfetta sicurezza e

    secondo una pianificazione precisa manda ad ammazzare e a farsi ammazzare degli

    adolescenti emotivi continua anche nel XXI secolo. Si potrebbe ricordare che la radice della

    parola “fanteria” viene dal termine latino infans (“infante”)”. 39 Cfr. ad es., per l’analisi approfondita di queste tematiche in una guerra recente e

    geograficamente vicina, Lucia Rodeghiero, Riesumazioni e definizione del suolo nazionale

    nell’ex-Jugoslavia, in «Quaderni del CREAM», VI (2007), pp. 77-94 (in part. il par. finale

    su Corpi e nazione, alle pp. 86 ssgg.); ma le radici lunghe di quest’ambito di ricerca, molto

    più in generale dovrebbero comprendere anche dei riferimenti innanzitutto al classico

    saggio del 1951 Pro patria mori di Ernst H. Kantorowicz, ora in Id. I misteri dello Stato, a

    cura di Gianluca Solla, Genova-Milano, Marietti 1820, 2005, pp. 67-97; e tutta una serie di

    successivi contributi, fino alle domande poste da Francesco Caberlin, in Legittimazione

    della Grande Guerra e culto dei caduti. Il caso delle Università toscane, apparso nel 2010

    su questa stessa rivista on-line dell’I.S.T.R.E.V.I. (Laboratorio di Storia Contemporanea,

    «Quaderni su guerre e memoria del ‘900», 2010, 1,

    www.istrevi.it/lab/page/qe_map.php?p=17-LB-QM01-Caberlin ). Qui mi limito a citare il

    corposo saggio, interamente consultabile on-line, dei quattro co-autori (di diverse

    discipline) Oleg Smirnov, Holly Arrow, Doug Kennet, e John Orbell,, Heroism in Warfare,

    2006, «Hendricks Symposium--Department of Political Science», Paper 3,

    http://www.istrevi.it/lab/page/qe_map.php?p=17-LB-QM01-Caberlin

  • 19

    affermativamente tout court a questa domanda significherebbe allora forse

    obbligarsi comunque a ridiscutere a fondo non tanto e non solo dei casi

    isolati in cui riaffiora dal buio il culto della violenza guerriera come rito

    iniziatico, tollerato e talora incoraggiato dalle gerarchie militari (come i

    tragici episodi di “nonnismo” dell’estate 1999 – opera di altri “nonni” oggi

    ormai quasi dimenticati – forse potevano disvelare per l'ennesima volta); ma

    significherebbe anche interrogarsi sugli stessi modelli culturali che

    governano intimamente le nostre istituzioni pubbliche, sapendo tuttavia che

    essi hanno fondato simbolicamente, e contribuiscono annualmente a ri-

    fondare, le basi territoriali dello stato unitario nazionale in cui ci troviamo a

    vivere.

    Alla luce dei riferimenti teorici che ho ripreso all'inizio esiste infatti,

    probabilmente, un'inscindibile nesso tra le funzioni dei rituali iniziatici

    “camerateschi”che accadono in certe caserme e quelle dei rituali pubblici di

    commemorazione dei Caduti. I primi mi pare servano a legittimare le

    gerarchie e ad emarginare i “deboli” (o più semplicemente i giovani diversi

    ed i poco convinti a vario titolo) da gruppi che potenzialmente sono di

    combattenti che devono poter contare ciecamente uno sull'altro; i secondi,

    come abbiamo visto, servono ad unire le coscienze civiche religiosamente e

    civilmente, legittimando - nel nome del sacrificio degli antenati guerrieri - la

    liceità della violenza accettata e subìta in guerra40

    . Ciò, peraltro, secondo

    digitalcommons.unl.edu/politicalsciencehendricks/3: con complesse simulazioni

    matematiche e con riferimenti empirici molto variegati nel tempo e nello spazio, essi

    pervengono a dimostrare, in linea astrattamente teorica, la fitness altruistica

    tendenzialmente essenziale dell’eroismo bellico nella lotta per la sopravvivenza affrontata

    dalla specie umana durante la sua evoluzione (anche rispetto ad altre forme

    “comunitaristiche”, pure altruistiche, di solidarietà civile). 40 In questo senso, aggiornando l’originaria stesura di questo scritto, ho trovato

    conferma nelle argomentazioni ben documentate sulla Kameradschaft di P. Ehrlich, op. cit.,

    p. 260-1: “Gli uomini che combattono generalmente lo fanno non per i principi, ma per i

    loro compagni” (con rif.ti etologici e storico-comparativi); e nella congettura

    macroevolutiva dello stesso A.; per cui “le cerimonie pubbliche potrebbero essersi evolute

    come espediente per contribuire alla definizione dei gruppi e delle loro interrelazioni, così

    come per preparare psicologicamente i gruppi alla difesa territoriale …” (v. e cfr., ivi, pp.

    308-9); v. anche i cenni ai rapporti funzionali tra religione e patriottismo nelle società

    centralizzate e “cleptocratiche” nella fortunata sintesi interdisciplinare (che attinge a piene

    mani anche al materialismo culturale antropologico-culturale, peraltro senza riconoscerlo in

    modo adeguato) di un altro biologo, molto alla moda in questi ultimi anni, Jared Diamond,

    Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, Torino,

    Einaudi, 1998 (orig. 1997), pp. 219-23.; cfr. anche, per i soli aspetti di legittimazione

    http://digitalcommons.unl.edu/politicalsciencehendricks/3

  • 20

    una logica molto più generale e diffusa che, ad es. nei paesi germanici -

    stereotipo nel XX° secolo del militarismo organizzato europeo - è ben

    sintetizzata dalle ricorrenti performance ‘alla memoria’ dell’inno “Ich hatt’

    einen Kameraden“ (“Avevo un camerata”, un famoso lied militare

    ottocentesco su musica di origine folklorica, tradotto ed importato anche in

    altri eserciti europei, e tutt’ora usato41

    ).

    Non voglio confondere i problemi. Ma abbandonare modelli di

    comportamento eticamente riprovevoli come quelli espressi nel “nonnismo”

    (intendendo, per questo, ogni rito iniziatico informale violento che si tollera

    o incoraggia nell'ambiente militare) e non giustificarlo nemmeno

    equiparandolo alla goliardia, può essere anche la causa ed al tempo stesso

    l'effetto di un ripensamento critico dei nostri consolidati rituali pubblici di

    memoria bellica. Non per dimenticare quei morti rendendoci postumi

    “schernitori di carne umana” (secondo la connotazione di una famosa e

    bellissima canzone di quei combattenti, Gorizia); ma invece proprio per

    amore dei figli di ieri e di oggi e per ridare voce anche a quanti

    semplicemente subirono una sorte amara solo per dovere e costrizione:

    anch’essi erano cittadini di questo Stato e ad essi perciò è forse da tributare

    uguale rispetto, con una concezione più laica e meno sacrificale della loro

    vita e della nostra storia42

    . Tanto più che oggi, nei dettami della sua

    religiosa interna nelle società premoderne, il cap. 4., La religione nella politica del libro cit.

    di Lewellen, part. pp. 98-100; e, prima, e più dettagliatamente, l’ormai classico

    Antropologia politica di Georges Balandier, Milano, Etas Kompass, 1969 (orig. 1967), cap.

    5, Religione e potere. 41 Anche come titolo di significativo richiamo per i casi analizzati in questo saggio,

    v. sul n. 134 del gennaio 2012, p. 48 della rivista «ŐSK» – bollettino dell’associazione

    austriaca Schwarzes Kreuz, l’articolo di Ernest Murrer, “Ich hatt’ einen Kameraden“,

    dedicato proprio alla cronaca della traslazione nell’ossario del Pasubio del 1° settembre

    2011: si trattava dei resti di tre caduti austriaci, recentemente recuperati; assieme agli oltre

    5000 italiani riposano quindi ormai nel sacello-ossario anche circa 400 caduti austriaci. Le

    cerimonie nel tempo hanno sottolineato in chiave europeistica anche questa raggiunta

    pacificazione mortuaria, ospitando occasionalmente, come si è detto, delegazioni militari e

    reducistiche della Repubblica austriaca: sull’unico pennone vicino alla svettante torre del

    sacrario sventola però sempre solo la bandiera nazionale italiana, probabilmente secondo la

    disciplina militare delle forze armate italiane, che eccede, per espressa disposizione di

    legge, (v. D.p. r. n. 121 del 7 aprile 2000, art. 11) la normativa sull’esposizione delle

    bandiere, la quale imporrebbe ora in via generale la compresenza della bandiera europea

    accanto al tricolore: un ennesima prova simbolica del legame strutturale perdurante tra

    monopolio della forza e identità statuale esclusiva. 42 Significativo in questo senso mi pare il discorso citato nella prec. nota 33.

    Aggiungo che, nelle celebrazioni del 90° di cui si è già parlato, l’allora Presidente francese

  • 21

    Costituzione (oltre che della sua religione sociologicamente dominante e

    politicamente privilegiata) l’Italia repubblicana si vuole pacifica e

    internazionalmente pacifista, benché, su almeno uno dei grandi scenari

    mondiali su cui è impegnata, l’Afghanistan, il suo esercito sia ancora attivo

    in una guerra pacificatrice, di cui peraltro si comincia ad intravvedere il

    tramonto43

    . Nell’attuale presunto “conflitto di civiltà” che è stato di fatto

    combattuto negli ultimi anni con alcune parti del mondo islamico, ed anche

    più in generale in ogni tipo di conflitto attuale e futuro, occorre perciò agire

    seguendo l’unica “strada degli eroi” che è realisticamente data oggi al

    mondo intero, davanti alla risorgente possibilità di un’apocalisse nucleare:

    quella della diplomazia cooperativa e, ancora più, della costruzione di una

    “religione civile” internazionale: in ciò guidati da un ben determinato

    eroismo laico, che riconosca prudentemente in primo luogo le ragioni e le

    religioni di tutti (minoranze comprese) ed abbia la maturità per vedere

    l’opzione bellica non come un’entusiasmante avventura giovanile e

    identitaria, ma come un pericoloso orizzonte politico, consapevole che esso

    è certamente minaccioso e soprattutto per molti versi imprevedibile44

    . I

    rituali pubblici – civili e religiosi - della memoria bellica e quelli della

    cooptazione militare, in quanto meccanismi culturali, cioè cognitivi ed

    Sarkozy – a quanto si è appreso dalla stampa - ha clamorosamente ricordato i molti

    disertori, disubbidienti e ammutinati della Grande Guerra, “fucilati per l’esempio”

    dall’esercito francese, riscattandone di fatto l’umanità e la memoria secondo un modello già

    adottato – con legge riabilitativa dello Stato - in Gran Bretagna, ma che forse varrebbe la

    pena di generalizzare ovunque, e prima di tutto in Italia: v. Giampietro Martinotti, Grande

    Guerra, strappo di Sarkozy “Onore ai fucilati per diserzione”, in “La Repubblica”, a. 33,

    n. 269, 12 novembre 2008, p. 18. 43 Alludo a quanto già a suo tempo enunciato dal nuovo Presidente degli USA,

    Barack Hussein Obama, nel discorso pronunciato al Cairo il 4 giugno 2009. 44 V. le note e gli appunti sulla guerra e sulla paura atomica riportati nel grande libro

    postumo di Ernesto de Martino dedicato a La fine del mondo, Torino, Einaudi, 1977 (a cura

    di Clara Gallini), part. pp. 118, 475-8, 482-4, 639 e cfr. con le problematiche dell’attuale

    congiuntura mondiale descritte dal Nobel Amartya Sen in Identità e violenza, Bari, Laterza,

    2006 (orig. 2006). Sulle necessarie prospettive di una nuova storiografia europea “post-

    eroica” e definitivamente disgiunta dall’«arte monumentale» di nicciana derivazione v. il

    paragrafo, dedicato ai rapporti tra storia e memoria dei caduti, del recentissimo libro di

    Andreas Wirsching, Der preis der Freiheit. Geschichte Europas in unserer zeit, Munchen,

    C.H. Beck, 2012, pp. 337-84; con (v. n. 79, p. 381, 463) i relativi rimandi bibliografici agli

    scritti di Herfried Münkler, Die postheroische Gesellschaft und ihre jüngste

    Herausforderung, in Id., Der Wandel des Krieges. Von der Symmetrie zur Asymmetrie,

    Weilerswirst, 2006, pp. 310-54; e di Mannfred Hettling, Politischer Totenkult im

    internationalen Vergleich, in «Berliner Debatte initial» 20 (2009), pp. 104-16.

  • 22

    educativi capaci di determinare comportamenti concreti, dovrebbero perciò

    a mio avviso distaccarsi ancor più – e sia pur relativamente - dalle retoriche

    patriottiche e “tribali” più arcaiche (che necessariamente manterranno

    comunque una loro funzione di rassicurazione sociale, ma in ambiti via via

    internazionalmente più ampi) e dovrebbero invece ribadire sempre, in primo

    luogo, i valori di pace (variamente ispirati dal punto di vista filosofico e

    religioso45

    , ma in ogni caso chiaramente e non equivocamente indicati

    dall’art. 11, 1° comma della Costituzione italiana: la quale, fin dal 1947, ha

    prescritto nel penultimo dei suoi principi fondamentali, e sia pure con

    espressa riserva di legge, il ripudio della guerra anche come forma ordinaria

    di risoluzione dei conflitti internazionali46

    .

    45 In questo senso occorre cominciare a pensare di costruire un nuovo umanesimo

    interculturale, necessariamente più ampio di quello, euroccidentale e cristiano indicato da

    Girard nella sua ultima “apocalittica” opera, Portando Clausewitz all’estremo, Milano,

    Adelphi, 2008 (orig. 2007); e la riflessione propositiva di un grande teologo cattolico come

    Hans Küng, benché ovviamente centrata soprattutto sul dialogo interreligioso, ci conforta a

    tale riguardo (cfr. Id., L’intellettuale nell’Islam (a cura di Gerardo Cunico), Reggio Emilia,

    Edizioni Diabasis, 2005). In questo senso si può forse ripensare anche l’ethos demartiniano

    del trascendimento (sul quale ethos, v. , nell’op. cit. La fine…, p. 668 ssgg. – bbrr. 381-

    401). 46 Costituzione della Repubblica Italiana (1947), v. edizioni varie. Qui si è fatto rif.to

    a quella edita nel 2006 dalla UTET di Torino (con l’introduzione di Tullio De Mauro e una

    nota storica di Lucio Villari), p. 6.

  • 23

    9. Riferimenti bibliografici

    Nota dell’A.: i riferimenti a singoli documenti d’archivio non pubblicati a stampa sono dati

    solo nelle note a piè di pagina.

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    www.istrevi.it/lab/page/qe_map.php?p=17-LB-QM01-Caberlin

    R. Caillois, L’uomo e il sacro. Con tre appendici sul sesso, il gioco, la

    guerra nei loro rapporti con il sacro e La guerra e la filosofia del

    sacro di Georges Bataille (a cura di Ugo M. Olivieri), Torino, Bollati-

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