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Anna Petruzzella QUANDO ERO BAMBINA

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Anna Petruzzella

QUANDO ERO BAMBINA

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A mio fratello

I ricordi sono frammenti di vita, custoditi dalla memoria del tempo

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PREMESSA

Queste pagine nascono sul computer, in uno scambio di messaggi di posta elettronica con mio nipote Antonio, e sono la risposta ad una sua precisa richiesta.Alla seguente lettera è allegato il primo capitolo.

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PRIMA LETTERA

Caro Antonio,prima di narrarti gli avvenimenti del periodo di Guerra* , come io li ho vissuti nella mia verdissima età, desidero descriverti l’ambiente famigliare e, nei limiti dei miei ricordi, anche un po’ l’ambiente esterno, del periodo di poco precedente quello dell’evento bellico.Mi auguro di non annoiarti troppo!

Zia Anna

3 marzo 1998

* In questa e nelle pagine seguenti, mi sono presa la licenza di scrivere alcune parole con l’ iniziale maiuscola, perché allora o anche oggi, queste parole sono per me importanti, nel bene o nel male.

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PRIMA PRIMA P A R T E P A R T E

ATMOSFERA

L’atmosfera è il ricordo più vivo della mia prima infanzia.Era un’atmosfera serena e gioiosa. La nostra era una grande famiglia.La piccola Anna viveva in una famiglia per lei “perfetta”: padre, madre, un fratello e una sorella maggiori, non tanto piccoli da essere gelosi dell’ultima arrivata, ma ancora tanto giovani da farla divertire e giocare con allegria. Che cosa può desiderare di più, una bimba sensibile ed affettuosa, nata sotto il segno del Cancro? E non è tutto, perché questa famiglia “perfetta” diventava una grande ed ancor più bella famiglia tutte le domeniche e tutti i giorni festivi segnati in rosso sul calendario ( allora li distinguevo soltanto per il colore…), e non solo le feste comandate, perché c’erano anche i compleanni, gli onomastici, ed altre varie occasioni; insomma, ad occhio e croce, metà dell’anno in corso. Di questa “grande famiglia” facevano parte i nonni, la zia Maria, lo zio Raffaele, i cuginetti Roccuccio e Vitino; così io li chiamavo, allora.Non puoi immaginare come io mi trovassi bene, tra tutti loro! E come poteva essere altrimenti? Avevano per me i nomignoli più affettuosi: per la mia mamma ero la Coccola (questo nome è già tutto un programma…); per il mio papà, l’Angelicchio (traduzione dal dialetto molfettese: Angeluccio); per mio fratello, Ricciolina; per mia sorella, Patatina; per lo zio Raffaele ero Pupa e per la zia Maria semplicemente Bella; e, detto da lei, era veramente un complimento, perché lei era

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veramente bella (e sapeva di esserlo). Scherzando, diceva che io assomigliavo più a lei che alla mia mamma; che avrei dovuto essere sua figlia, invece di quei due maschietti birichini che si ritrovava, e tutto per via degli occhi azzurri, non considerando che, se la mamma gli occhi li aveva scuri, il papà, invece, li aveva chiari, anzi, più precisamente aveva chiaro il suo unico occhio, non bendato, dopo la Prima Guerra Mondiale… Infine, per il nonno, sia io che Vitino (per il colore chiaro della pelle) eravamo la Svizzera, mentre Roccuccio era l’Abissinia. GIORNO DI FESTA

Ecco la cronaca di una Domenica qualsiasi di quel tempo lontano.Mattino. Tanto sole. In tutta la casa si spande l’odore del sugo speciale che preparava la mamma, un sugo che doveva cuocere a fuoco lento per molte ore; lei, la mamma, sta terminando di stirare la “camicia buona” del papà; lui, il papà, sta cercando di lavarsi in quello stanzino lungo e stretto, che possiamo chiamare, solo eufemisticamente, bagno. Ma la vasca allora non c’era, e bisognava mettere l’acqua calda in una grossa conca; il lavabo, invece, c’era, ma assomigliava di più ad una piccola acquasantiera che ad un vero lavabo, come oggi noi l’intendiamo.Sul poggiolo, Lita sta passando il “bianchetto” sulle scarpe bianche, e questo rito si ripete, nella bella stagione, tutte le domeniche, prima di uscire con le amiche per andare alla Messa.La piccola Anna sta terminando la sua ciotola di caffellatte. La ciotola è di alluminio leggero, con il bordo arrotondato . E com’era buono, quel caffellatte ! Non riuscirà a ritrovare mai più quel sapore, in nessuna tazza dei tempi futuri…Poi, alzata da tavola, ancora un’occhiata alla bandiera arrotolata su una lunga asta appoggiata alla parete della saletta d’ingresso. Quella bandiera è per lei di grande fascino e non riesce proprio

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a capire perché, la sera prima, portandola a casa, il papà abbia annunciato, in una sorta di brontolio: - Lucia, domani c’è il corteo!Anna vorrebbe vederla aperta quella bandiera, con quei bei colori! Ma non osa nemmeno toccarla, per non disobbedire a papà. E si dirige decisa nella camera di Nico, dove troverà modo di divertirsi senza sgridate.La stanza è illuminata dalla chiara luce del mattino, poiché la mamma è già passata a dare la sveglia al più dormiglione della famiglia. Anna si avvicina al grande letto, una piazza e mezzo, a quel letto che per lei è il più bello di tutta la casa: le testate sono di lamiera decorata, e nei disegni si intravedono una sorta di pietre preziose dai colori cangianti; e poi che divertimento, su quel letto ! Che libertà, in quella stanza! Lì si può giocare senza tema di rovinare qualcosa, lì non vi sono i gingilli di vetro rosa, gli specchi e i bei mobili lustrati a cera della camera dei genitori., dove c’è anche il suo lettino, ma dove si entra soltanto per andare a dormire. La bimba si avvicina con circospezione al letto: Nico dorme o finge di dormire? Sembra proprio russare… ancora un passo … una manina sulla fronte….e …- Uh!...Uh!…Presa! La piccola si divincola strillando, fingendosi spaventata, ma è tutto un gioco: gli strilli, il solletico, il cuscino che vola sul letto…e, infine: - Nico, alzati! Stamattina non vado con Lita, a Messa! Hai promesso che mi porti con te!- Vedremo…Non so nemmeno se ci vado, a Messa!- No, vedremo! Hai promesso alla mamma che vai a Messa e

mi porti con te!Quando Anna esce dalla camera del fratello, la bandiera non c’è più, nella saletta, segno che papà è uscito. Ma la mamma sta riponendo la camicia stirata, nell’armadio con lo specchio grande.- Mammina, perché papà non ha messo la camicia bella?- La metterà nel pomeriggio. Stamattina ha messo la divisa.

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- Quel vestito tutto nero?- Sì, quello…- e sospira.Anna, improvvisamente, ricorda qualcosa:- Mammina, perché papà brontolava, ieri sera, quando ha

messo la bandiera appoggiata alla parete? Non gli piace la Bandiera?

Per la piccola ciò era impossibile. Era troppo bella! Qualche tempo prima, il papà l’aveva accontentata e aveva srotolato il drappo, che era apparso in tutto il suo splendore: i colori erano gli stessi della piccola bandiera che avevano in casa e, talora, veniva messa sul poggiolo; ma in quella grande, i colori, bianco, rosso e verde, erano più vividi e al centro c’era quel bel disegno con la corona e, poi, dall’asta scendevano due lunghi nastri blu con le scritte in oro. Anna non sapeva ancora leggere ma conosceva il significato di quei segni; si riferivano ad una parola un po’difficile che spesso sentiva nominare dal padre : “L’Associazione”. E, come più tardi comprese, si trattava dell’

“Associazione degli Ex-Combattenti,Mutilati e grandi Invalidi di Guerra”

A quella domanda improvvisa, la mamma sembra un po’ imbarazzata, ma poi risponde con la verità:- A papà la bandiera piace, ma non gli piace portarla.- Perché, è pesante?- No, papà è forte! Non gli piace mettersi in mostra… non gli

piace che tutti lo guardino…Ora vieni qui, che ti vesto.Anna non ha capito molto bene la spiegazione della mamma, ma, ormai, è tutta presa dal suo vestitino di organza celeste e dal gran fiocco sui riccioli biondi.Sulla soglia già la sta aspettando suo fratello, e minaccia di andare via da solo…Due episodi allietarono la piccola Anna in quella limpida mattina di primavera.

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Appena in strada si ode il suono della Banda. Sui marciapiedi si sono formate due ali di folla in fermento. Il chiacchierio delle ragazze nei vivaci vestiti a fiori; i bimbi che battono le mani; i giovani, con i capelli lucidi di brillantina, che si protendono, per scorgere per primi che cosa succede in fondo alla strada; i fiocchi che spuntano, come corolle di seta colorata, tra i boccoli e sulle trecce bionde e brune delle bambine che si pavoneggiano nella vestina nuova; e, poi, le coppie a braccetto; gli uomini che rimangono un po’ indietro, a conversare tra loro; il pianto stizzoso di qualche piccolino nella carrozzella, che la mamma inutilmente cerca di calmare e che, poi, il papà prenderà in braccio….Ma, ecco: il suono della Banda si fa sempre più vicino…in fondo alla strada spunta il Corteo.Davanti a tutti, un uomo dalla barba incolta, spettinato, con un soprabito dal colore indefinibile, si sta sbracciando a destra e a manca, per fare largo: è Cirillo, lo scemo del paese, tanto ingombrante quanto innocuo. Lui è sempre il primo, nei cortei, processioni e funerali…I vigili, ormai, hanno rinunciato ad usare la forza con lui: in fondo non fa male a nessuno, la popolazione si è abituata alla sua presenza e i più gli vogliono anche bene, come ad un bambino indifeso. Cirillo ha solo un nemico, con il quale si contende sempre il primo posto: è Chicchi. Mingherlino, vestito sempre in ordine, e occhiali che gli conferiscono un’aria da dottorino, ma la testa vuota, come quella di Cirillo. Le loro liti sono uno spasso per tutto il paese.I sonatori della Banda avanzano impettiti nelle loro divise, tutto uno sfolgorio di bottoni dorati, e la loro musica fa venire voglia di marciare, cantare, battere il tempo con le mani. Dietro, altri uomini, con divise più cupe, e le bandiere vivaci. Infine, dopo qualche istante… - Ecco papà! Nico, quello è papà!- Sì, è papà. Ma tu sta brava, non chiamarlo e non fare chiasso.Anna sta brava. Ma a quell’uomo con la Bandiera dalle scritte dorate, a quell’uomo che avanza a passo di marcia, alto e slanciato, il volto serio, un occhio coperto da una benda nera; a

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quell’uomo, che è il “suo papà” , nel suo cuore, la piccola Anna grida:- Papà, sei il più bel papà !Più tardi, all’uscita dalla chiesa, Nico incontra un suo amico. Mentre i due giovani chiacchierano tra loro, la bambina si sofferma a guardare le bancherelle: non sono molte, come alla Fiera di San Giuseppe, e vendono solo pochi dolciumi e qualche giocattolino. - C’è qualcosa che ti piace? La compriamo.- No…no..Anna è riluttante ad esprimere il suo desiderio al fratello. Sa che lui chiede sempre i “citti” alla mamma e dice che le sue tasche sono sempre “al verde” (lei, veramente, non riusciva bene a capire quale legame ci fosse tra la mancanza di “citti” e il colore delle tasche, specialmente che poi verdi non erano…le aveva guardate !).- Ti piace, quella? - Beh…sì…ma…Nico infila una mano in tasca e tira fuori tutti i suoi “citti”, poi anche il suo amico infila una mano in tasca e, poco dopo, la bambina stringe tra le manine una paperina di celluloide, con il becco giallo e le piume quasi iridescenti .E il bello doveva ancora venire, a casa. Le campane del mezzogiorno hanno già suonato da più di mezz’ora e in cucina c’è un gran movimento. Lita ha apparecchiato la tavola, papà è già tornato, la mamma sta grattugiando il formaggio e dice a Nico che, entro pochi minuti, il lavandino d e v e rimanere libero perché si d e v e scolare la pasta! Nico e Anna, infatti, stanno proprio dove non dovrebbero essere, in quell’ora. La vaschetta del lavandino è colma d’acqua e…la bambina sta guardando con gli occhi sgranati la sua paperina, che sembra nuotare da sola: infatti, nessuno la tocca . La magia è dovuta ad uno dei piccoli artifizi nei quali suo fratello è sempre stato bravo:

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uno spillino infilato nel becco, una calamita tenuta a debita distanza, e… la paperina prende vita.Più tardi, nel pomeriggio, il bel gioco verrà ripetuto a beneficio dei cuginetti.Sono arrivati presto, con la Zia Maria, e Nico, prima di uscire, allestisce per loro il gioco magico…Anche la Zia rimane affascinata. Roccuccio cerca di capire il trucco, mentre Vitino rimane letteralmente a bocca aperta e, forse caso unico nella storia dei pomeriggi domenicali dell’allora bimbo di tre anni, si dimentica di chiedere alla mamma di aprire subito il pacchetto della merenda, appena entrato, cioè circa alle ore quattordici e trenta. Vitino, a quel tempo lontano, sembrava avere un interesse particolare soltanto per mangiare e dormire. A metà pomeriggio avrebbe gustato con buon appetito la seconda merenda preparata dalla zia Lucia per i tre bambini: pane, burro e zucchero. A sera, quando tutta la famiglia, zii, nonni e cugini si sarebbero riuniti per consumare insieme la cena, mentre nella cucina si spandeva un buon odore di pastasciutta riscaldata mescolato a quello di una frittata calda appena tolta dalla padella, lui, dopo aver fatto onore per primo al suo piatto, quasi subito sarebbe crollato con il capo sul tavolo, i capelli rossi tutti arruffati .Nel lungo pomeriggio della tarda primavera, i tre cuginetti hanno giocato a lungo sul poggiolo. Giochi inventati con poche piccole cose e tanta fantasia. Lita, di ritorno da una passeggiata con le amiche, si siede tra loro su un panchetto e racconta ancora una volta la favola delle Tre Gallinelle, e tre testoline, una bionda, una nera e una rossa, per un poco stanno immobili, i visi paffuti, lo sguardo incantato. A poco a poco, la casa si riempie di suoni, di voci…La nonna è arrivata, dopo il Vespro, e racconta a Lucia e a Maria del nuovo Predicatore Francescano; il nonno se ne sta sul poggiolo a fumare la pipa e, ogni tanto, con un gesto abituale, si arriccia i lunghi baffi bianchi. Ha già dato “la settimana” ai tre nipotin: a ciascuno una moneta da un soldo, da mettere nel salvadanaio. I due cognati, Antonio e Raffaele, sono tornati dalla partita di

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scopone, e ancora il primo sta sgridando il secondo perché non ricorda mai le carte già uscite… Tutte le volte è la stessa storia… Per fortuna che, comunque, hanno vinto. I bambini se ne sono accorti subito, perché dalle tasche dello zio Antonio sono uscite tante caramelle; lui, infatti, gioca soltanto per vincere caramelle, ma se perde, sembra si sia giocato una fortuna!Nico arriva per ultimo. La porta finestra è ancora aperta e, dalla strada, da una vicina Sala da Ballo, arrivano le prime note di una canzonetta in voga:

“Tiptiptip tintin e tiptiptop tonton..”

A TEMPO DI MUSICA

Nei miei ricordi, anche in quelli più lontani, sempre mi par di sentire per ogni evento, oserei dire quasi per ogni azione, l’accompagnamento di una “musica sua propria”: un canto romantico, un’allegra marcetta, e l’opera alla radio, e la canzone dell’organino, e il coro dall’osteria.Nella culla, per addormentarmi, la mamma, mi cantava “La Serenata di Silvestri”, ed ancor oggi, mi sembra di udire la sua voce calda e vibrante:

“Nell’alta notte brillano le stelle…”

Piccolissima, papà mi metteva a cavalluccio su una gamba, ed io, andando su e giù, ridevo al suo:

“A cavallo , a cavallo, con il re del Portogallo…”

Mia sorella Lita mi teneva sulle ginocchia e con lei c’era proprio da divertirsi con le sue canzoncine, anche se non capivo bene il senso delle parole, mi piacevano quei suoni, quei ritmi… da “Faccetta Nera” ( che, non so perché, immaginavo si riferisse a me. Forse per via di “faccetta”…) a “Mirella,

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Mirella, Mirella, di tutti sei più bella…” (e, naturalmente, anche qui pensavo che si riferisse a me…); ma quella che mi piaceva più di tutte faceva, più o meno, così:

“A sedici anni, quando fumaila prima volta, mi ubriacai.

Cimbabaracimba, Cimbabaracimba…Opaupaupaupa, Opaupaupaupa….

Son fumator! ”

Per la piccola Anna non c’erano soltanto quelle “sue” canzoni, ma tutto, intorno a lei, sembrava svolgersi a tempo di musica.Il mattino, mentre sfaccendava per la casa, Lita canterellava tutte le ultime canzonette ascoltate alla radio. Nella bella stagione, sovente dalla strada arrivava il suono di una fisarmonica o di un organino e si diffondeva così l’ultimo motivetto in voga; e una ragazzina, o un vecchietto, distribuiva ai passanti foglietti colorati con il testo della canzone, o con il Pianeta della Fortuna; qualche soldo cadeva nel piattino, e un tintinnio si udiva qua e là: qualche moneta caduta sull’asfalto, lanciata, generosamente, da una finestra spalancata.Anna, la testolina infilata tra le colonnine del poggiolo, aspetta il lancio di un soldino.- Sta attenta, Lita, - si raccomanda la mamma - che non vada a finire qui sotto, nel giardino!- Lo lancio lontano…sta tranquilla!Ecco, un piccolo suono metallico….La bambina batte le mani.. -“Grazie, grazie!” - fa eco una voce, dalla strada.Papà, quando tornava stanco dal lavoro, brontolava se la radio era accesa: per lui, i cantanti “moderni” facevano soltanto “rumore”; ed era sempre una discussione, con i figli, specialmente con Lita. A lui piaceva qualcosa che, allora, la piccola Anna proprio non riusciva a capire: l’Opera. E questo nome, spesso era legato ad un altro: Beniamino Gigli.

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Una sera, mentre alla radio si sentiva Gigli, che cantava “Ridi, pagliaccio!..”, la piccola Anna piangeva calde lacrime.Aveva disturbato il papà mentre ascoltava il suo cantante preferito… e aveva preso da lui l’unica sculacciata della sua vita! La mamma aveva la voce più bella, sonora e limpida come una mattinata piena di sole. E, nei ricordi, proprio questa immagine, più di ogni altra, è rimasta vivida, e sempre rivive. La cucina inondata di luce, Lei che sfaccenda tra i fornelli, e canta. Nel pomeriggio, Lita andava dalla sarta, ma quando rimaneva a casa, ancora si occupava di cucito. Con l’aiuto della mamma, rimodernava i suoi vestiti, tagliava, ricuciva, li trasformava, e poi sembravano nuovi. Ci sapeva fare con ago e filo. La testa bruna china sul suo lavoro, cantava le ultime canzonette ascoltate alla radio, cantava in sordina, con voce dolce.Nelle sere d’estate, dalle finestre spalancate di una vecchia osteria, arrivavano le voci un po’ impastate dei cantori improvvisati: cori in dialetto, senza musica, antichi. E, sovente, qualche bicchiere di Barbera in più non guastava, anzi, sembrava aiutarli…Anche durante la giornata, dalla strada arrivavano altri suoni. Il garzone del fornaio, cantando a squarciagola, si annunciava alla bottega di commestibili. Arrivava in bicicletta, e, con la grande cesta di pane fresco, portava anche l’ultimo motivetto in voga. Oppure, era il giovanotto che scendeva dalle colline, con il suo carro di verdure, a fischiettare allegramente. E la piccola Anna, dal poggiolo, si diverte a guardare.Quei suoni si perdono, si confondono nei ricordi di un tempo lontano.Vive, nella memoria, rimangono le “nostre serate” di canti e musica. Il nonno suona la chitarra, lo zio Raffaele il violino, la mamma canta un’aria romantica, struggente:

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“Di quel sogno d’or, scolpito nel mio cuore, il ricordo ancor…”, oppure interpreta con brio un’allegra canzone che piace tanto alla piccola Anna e ai suoi cuginetti:

“Quando torna Maggio coi suoi vaghi fioriquando i vecchi amori tornano a fiorir

tutti al mio villaggio, sopra il verde pianovengono da lontano per vedere me!…”

E qui veniva il bello. Grandi e piccini, gli zii, papà, Lita, e persino Nico, che sovente stonava…e noi bambini, tutti a fare in coro il Ritornello:

“Per questa mia bontà così procacetrallallà

nessuno mi fa stare un’ora in pacetrallallà

tutti dicono cosìLa più bella è la Mimì

la più bella del villaggiotrallallà!”

E poi, il nonno e lo zio suonavano anche valzer, polke, mazurche…e noi tutti a ballare, grandi e piccini.Così trascorrevano le belle serate, a casa nostra o a casa dei nonni.

LA CASA DEI NONNI

Sempre ricorre, nei miei sogni, la Casa dei Nonni.Per ognuno di noi, c’è un luogo e un tempo che più di tutti ci ricorda l’infanzia. Per me, è la Casa dei Nonni, a Primavera.A maggio, quando la sera è più chiara, e l’aria sa di fiori, la piccola Anna saltava di gioia al suono di tre energici squilli di campanello: era la nonna, di ritorno dal Mese Mariano. Dalla sua abitazione, alla Parrocchia, per fare una visitina, “la calata”, attraversava in lunghezza tutto il paese. Sovente, sulla

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strada del ritorno, teneva per mano una bimba chiacchierina e felice. Che sensazione meravigliosa svegliarsi nel lettone che profumava di bucato e di spigo!La nonna usava, per la prima colazione, una vecchia spiritiera. Ed ancor oggi mi sembra di sentire il sottile odore dell’alcol che si mescola a quello intenso del caffellatte caldo, e non mi disturba, anzi, mi fa venire una gran voglia di quel caffellatte; o, forse, è soltanto nostalgia di quei giorni.La grande cucina aveva un pavimento a piastrelle esagonali bianche e rosse, sulle quali noi bambini inventavamo molti giochi; le pareti erano ricoperte, a metà altezza, da un vivace linoleum, e la zia Maria vi infilava nel bordo tutte le fotografie e le cartoline che riceveva dai suoi parenti lontani. Di fronte alla porta c’era la finestra, alla quale, in ginocchio su una sedia impagliata, mi piaceva tanto affacciarmi e guardar giù le galline che razzolavano nel cortiletto; oltre il muro di cinta, più in alto, si apriva un grande spiazzo, con montagnole di vari materiali, appartenenti alla fabbrica di refrattari; più lontano, verso le colline, il treno. Quando passava, a qualsiasi ora, Roccuccio e Vitino non si accontentavano di stare in ginocchio sulla sedia, vi salivano in piedi, e, con quanta voce avevano in gola, gridavano:“Ciao, nonni di Bariii! Ciao, nonni di Bariii!…”Ed io a gridare con loro. E mi chiedevo, però, come facevano “i Nonni di Bari”, che sicuramente arrivavano e ripartivano con il treno, a trovarsi sempre sul treno. I cuginetti non se lo chiedevano ma, quando io avevo cinque anni, il maggiore ne aveva quattro e il minore soltanto due…Un lungo tavolo occupava in lunghezza quasi tutta la parete sinistra, e i posti a sedere per noi bambini erano proprio quelli vicino alla parete. Spesso, noi salivamo in piedi sulle sedie, per guardare le cartoline illustrate infilate nel linoleum alle nostre spalle, ma non si dovevano togliere di lì… e i due birichini prendevano non poche sgridate dalla loro mamma. E se piangevano, strillavano, si bisticciavano, come sovente accadeva, e venivano, così, sorpresi dal babbo, alle sgridate si

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aggiungevano le sculacciate. Lo zio Raffaele, in quei momenti diventava severo. Mi sembra ancora di vederlo: elegante, nel suo camice bianco, pettine nel taschino, lo sguardo insolitamente corrucciato. Non ammetteva che strepiti e capricci giungessero nella Sala da Parrucchiere, a disturbare i clienti. L’altro lato lungo della cucina era occupato dal lavandino e dai fornelli. A quel tempo, la nonna e la zia Maria non avevano ancora i fornelli a gas e accendevano il fuoco a carbone, per preparare pranzo e cena. Mentre la giovane zia, poco più di vent’anni, si lamentava per quel sistema antiquato, la nonna, invece, si metteva all’opera con solerzia. Poneva sul fornello un oggetto strano, simile ad un grande imbuto nero, chiamato “il diavolo”, e, china presso lo sportellino aperto, sventolava energicamente una sorta di grosso ventaglio formato da penne di gallina. Poco dopo, toglieva “il diavolo”, e nel fornello appariva subito un bel fuoco di carboni ardenti. Tutte queste operazioni affascinavano la piccola Anna. I cibi preparati su quel fornello erano per lei sempre buoni. E mangiava tutto con gusto, anche ciò che rifiutava a casa sua. Forse, questo era il motivo per cui la mamma la lasciava volentieri allontanarsi da sotto la sua ala protettrice. Anna mangiava tutti i piatti preparati dalla nonna, anche il pesce e le verdure.Tra la cucina e la bottega, dove lavoravano il nonno e lo zio, c’era una grande sala, con pochi mobili. Un tavolo allungabile, un buffet con lo specchio, parecchie sedie, una cassapanca con sopra bei cuscini colorati e ricamati, e, tra questi, troneggiava una ballerina dalla larga gonna rosa che terminava a cuscino. Lì noi bambini avevamo molto spazio per giocare…però non dovevamo fare troppo chiasso e dovevamo dimenticarci della cassapanca.Sicuramente, il giorno più bello per i nostri giochi era il lunedì. In quel giorno della settimana, la bottega era chiusa e noi potevamo sederci a turno sulle poltrone girevoli e…girare. Ci divertivamo un mondo ma, naturalmente, anche lì si doveva stare attenti a non combinare guai…

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La bottega e tutti i locali dell’appartamento erano situati a piano terra, ma, dalla parte opposta alla strada, la costruzione scendeva ad un piano più basso: lì erano situate le cantine che si aprivano sui cortili.

La piccola Anna ammirava molto Roccuccio, che, da solo, si avventurava giù per una scala, con i gradini scuri e ripidi, e pochissimo illuminata; in fondo, l’andito prendeva luce da una grande lunetta su un vecchio portoncino verde, dal quale si accedeva al cortile dei vicini. A destra della scala c’era una robusta porta, che, sotto la pittura verde, in più punti mostrava il suo legno grezzo. In cucina, appesa ad un gancio, c’era una grossa chiave, che serviva ad aprire quella porta. Quando la nonna metteva quella chiave nella capace tasca del grembiule, subito la bambina chiedeva:- Nonna, posso venire con te a vedere se le “pirepire” hanno fatto le uova?- Certo, vieni. Quando torniamo, te ne do subito uno bello fresco.- Ma…a me non piace, bere l’uovo!- E…sbattuto con lo zucchero?- Oh! Allora sì…ma non mi fa venire i vermi? La mamma dice che il dolce…- Sta tranquilla! Non ti succede niente. Con me stai sempre bene, vero?- Sì, sì!Felice, la bimba già saltella dietro di lei. Non sarebbe mai andata giù, da sola. Aveva paura della scala buia e ripida, e temeva anche di fare un brutto incontro: Banderuola. Costui, era un vecchio mendicante, vestito di stracci, barba e capelli incolti, cappellaccio, e bastone che levava, con un gesto tanto minaccioso quanto innocuo, contro i monelli che lo disturbavano… Qualche volta, Banderuola si riparava proprio in fondo alla scala e vi trascorreva la notte. Non aveva mai fatto male ad alcuno, ma la zia Maria aveva

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usato questo poveretto dall’aspetto malconcio come Spauracchio per i suoi due figlioletti, che… se la ridevano tranquillamente, mentre tutta la paura ce l’aveva la cuginetta Anna.Attaccata alla nonna, la bambina oltrepassava la soglia della cantina sempre con circospezione. La stanza era fiocamente illuminata da una lampadina appesa ad un cordoncino e, al minimo soffio d’aria , oscillando, mandava qua e là ombre paurose. La bambina provava sempre una sensazione strana, tra il timore e l’attrazione, in quel vecchio locale polveroso; stringeva la mano della nonna mentre passava tra sedie spagliate, casse di bottiglie dai verdi riflessi, legna accatastata, paracqua, bastoni, ragnatele… per arrivare al pollaio.- Co…co…co…Le galline si avvicinano subito alla rete, sbattendo le loro tozze ali, e qualche piuma bianca, o rossa, subito volteggia qua e là.Anna batte le mani:- Quante! Quante uova ci sono, nel nido!- Poi le prendiamo. Ora devo pulire il pollaio, cambiare l’acqua, preparare il pastone. Prima, però, le facciamo uscire… E la nonna toglie un paletto da uno sportello inserito nella porta che dà sul cortile.- Co…co…co… – si spingono l’un l’altra.Anche loro escono.La nonna, con una mano tiene su le cocche del grembiule, con l’altra sparge, con gesto largo e regolare, grossi chicchi di colore arancione:- Piree… piree… piree…- Piree… piree… piree…- ripete la bambina.Ed è tutto un co…co… ed un allegro zampettare, qua e là; becchi gialli e crestine rosse si muovono ritmicamente, come in una danza.Di fronte alla casa dei nonni, oltre la strada, c’era uno slargo con il Dazio, capolinea dei tramway, che lì facevano un giro completo intorno alla piccola costruzione, prima di ripartire. I tranvieri che avevano finito il loro turno, spesso si fermavano

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nella bottega, per i capelli, la barba, o semplicemente per scambiare due chiacchiere. Erano tutti amici dello zio e ancor più del nonno, con il quale volentieri andavano a bere un bicchiere nella vicina osteria.L’oste si chiamava Giorgio ed era grande amico del nonno e della musica. A sera, sotto la pergola, i gotti e una bottiglia di Barbera sul tavolino di ferro, si riunivano i sonatori: il nonno con la chitarra, qualcuno con la fisarmonica, lo zio con il violino, un altro con il mandolino. E non mancavano mai anche i canterini.Quanta allegria si diffondeva da quella pergola! I passanti, i vicini, si fermavano sul marciapiede, ad ascoltare. Noi bambini, seduti o in piedi sul muretto, accompagnati dalla zia e dalla nonna: la prima veniva volentieri anche per prendere una boccata d’aria e scambiare due chiacchiere con le vicine più giovani; l’altra, soprattutto per controllare il nonno e… il Barbera. Lei subito si allarmava e incominciava a brontolare, se si accorgeva che il sonatore di mandolino era un certo Losito. Costui, di corporatura tozza, aveva una grossa pancia, il volto che sembrava una luna piena, il naso sempre rosso, alzava spesso il gomito e… spingeva gli amici ad imitarlo. Aveva, però, una qualità molto apprezzata dal nonno: sapeva trarre il meglio dal suo mandolino. Sonava con maestria, e con il cuore.Quando all’osteria c’era Losito, quella sera il nonno rientrava tardi. Il giorno dopo aveva disturbi allo stomaco e la nonna risolveva il problema preparandogli, per pranzo e cena, il pancotto.Dove oggi ci sono posteggi e traffico intenso di macchine, là erano orti e prati. La zia Maria, qualche volta, nel pomeriggio, ci accompagnava oltre il Dazio, laggiù, dove noi piccoli potevamo giocare tranquilli nel verde.Talora andavo con la nonna in una vicina frazione, poche case e una cappella. Per me era sempre una bella passeggiata. Noi camminavamo sul marciapiede dalla parte degli orti, dei piccoli giardini in fiore.

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A maggio, il giorno di S. Rita, la nonna mi conduceva con lei a Messa, nella Cappelletta. Per me era la Festa delle Rose. In quel modesto, sacro luogo, rose bianche e rosse, piccole e grandi. Rose dappertutto: sull’altare, in ogni nicchia, tra le mani dei fedeli…Un profumo intenso, indimenticabile.Il 22 Maggio 1940 andai con la nonna alla Festa delle Rose per l’ultima volta.A Ottobre s’iniziava, per me, la scuola elementare .Un piccolo terremoto nelle dolci abitudini della mia infanzia. Un terremoto ancora più grande, per tutti, sarebbe avvenuto prima, in Giugno:

“la G u e r r a”.

GIUGNO 1940

Verso la fine della primavera, una domenica sera, tra papà e lo zio Raffaele si sviluppò un’accesa discussione. Non era la prima volta, anzi, era sempre la stessa storia.La piccola Anna non capiva quasi nulla di quello che veniva detto. Alcune parole, sempre le stesse, venivano ripetute da uno e dall’altro, e l’unica cosa che a lei sembrava chiara era che, alla fine, ognuno rimaneva con la propria opinione . Anche quando i toni erano pacati, quei discorsi proprio non le piacevano. Una sensazione di noia o di timore che si porterà dentro anche negli anni futuri, una repulsione per le discussioni politiche in famiglia o tra amici. A quell’età cercava rifugio nel gioco. Ma, qualche brano di quei discorsi, a lei arrivava ugualmente. - Tu eri socialista! Come hai potuto dimenticare Salvemini? – incalzava lo zio Raffaele (“socialista” e “Salvemini” facevano parte delle solite parole ripetute) .- Non ho dimenticato Salvemini, che ho ammirato e ammirerò sempre per la sua cultura e la sua dirittura morale. Ormai, però, c’è il Fascismo… L’Associazione dei Mutilati… Ormai tutte le Associazioni sono… E poi non tutto è male, molte cose buone sono state fatte….

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- Ecco! Tutte le Associazioni sono state costrette… Dov’è la libertà? Anch’io sarei costretto a prendere la tessera… In due famiglie non si vive con la sola bottega. Dovrei andare a lavorare in fabbrica, ma senza tessera… lo sai anche tu…

Le donne chiacchieravano tra di loro e cercavano di non immischiarsi… ma in quei momenti erano sempre un po’ tese, specialmente quella sera perché più volte si ripeteva un’altra parola.- Quello ci porta alla guerra…alla guerra! Con le sue belle alleanze…I bambini, con l’aiuto di Lita, stavano facendo i castelli con le carte da gioco. Ad un tratto Anna fu distratta da una frase: - E perché, per passare a Danzica, ci vogliono sacchetti d’oro?La piccola Anna non aveva capito nulla, ma, per lungo tempo, nella sua mente era rimasta l’immagine che lei stessa aveva creato quella sera: un luogo con un nome strano, Danzica, una sorta di ponte, sul quale la gente passava con sacchetti d’oro in mano, come quelli dei tesori nelle fiabe.Forse, proprio per questa immagine fiabesca, qualche giorno dopo, non provò nemmeno lontanamente una sensazione di paura… ma batteva le mani e saltava, per un avvenimento straordinario, e straordinario sicuramente era, ma non come lo vedeva lei . Dagli strilloni per strada e, in casa, dalla radio, si udiva ripetere la stessa parola: G U E R R A !

PAURA ED AVVENTURA

In quei primi giorni di guerra, per la piccola Anna, una parola acquistò nuovi significati: paura. Paura non era più soltanto la scala buia che scendeva giù, alla cantina dei nonni; paura non era più l’incontro con l’innocuo Banderuola… Paura, ormai, si collegava al suono acuto di una sirena e ad una nuova parola: allarme!Ben presto, a Genova, allarme fu seguito da bombardamento.Rumori terribili, mai uditi prima, spaventarono molto la bambina. E, forse ancor più, l’aria diversa che si respirava in

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famiglia. La mamma era la più preoccupata di tutti: non cantava. Il volto teso tradiva in ogni gesto una profonda agitazione. Papà era più serio e taciturno del solito, ma, dopo quel primo bombardamento, prese subito la sua decisione.Dovevamo partire.In casa ci fu subito un gran trambusto. La mamma, aiutata da Lita, riempì in fretta e furia alcune valigie e… in una bella mattina di sole, la piccola Anna si ritrovò in stazione, ad attendere con la famiglia “il treno dei nonni di Bari ”. La bambina aveva dimenticato tutte le paure, era felice: finalmente sarebbe salita sul treno. Il suo primo viaggio. Una bella avventura!Invece di lì a poco avrebbe provato il primo dolore della sua vita. Già era un poco in ansia perché non vedeva suo fratello, ma lui era sempre in ritardo… sicuramente sarebbe arrivato da un momento all’altro. Nico non comparve, ma arrivò il treno. Il papà le accompagnò nello scompartimento, sistemò le valigie sulla reticella, abbracciò tutte tre e... subito ridiscese. Il treno si mise in moto.Affacciata al finestrino, la bambina allora comprese che lui non sarebbe partito con loro. Il papà era rimasto lì, sulla pensilina, a salutare. Il treno si allontanava, la sua figura diventava sempre più piccola. Una manina faceva ciao, ciao…e un cuore di bimba provò una fitta dolorosa, mai provata prima. Di quel primo lungo viaggio, un giorno e una notte, il ricordo è molto vago; anche lo scendere e salire dal treno per almeno una coincidenza. Ricordo soltanto i sedili di legno, il chiacchierio che si udiva venire dagli altri scompartimenti, al quale si mescolava, a tratti, un coro lontano di soldati, il buon odore dei panini con la frittata che la mamma aveva tirato fuori da un borsone, e… i finestrini: quello dello scompartimento e quello del corridoio.Lita, seguita dalla sorellina, si spostava dall’uno all’altro.La mamma le rimproverava blandamente per quei continui passaggi, e poi, rivolgendosi a qualche viaggiatore che occupava lo stesso scompartimento, si scusava:

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- Sa, la novità del treno… il loro primo viaggio. Per fortuna che non è affollato! Durante la Prima Guerra Mondiale, invece, io mi trovavo… E la mamma incominciava a raccontare, ed il suo volto stanco si ravvivava, nel ricordo degli anni della sua giovinezza.- Lita, lo so che è il treno che cammina, ma non sembra proprio che siano le casette e gli alberi a venirci incontro?- Sì, sembra. Oh, guarda quei bambini che salutano dal prato…- Come io con i cuginetti, dalla casa dei nonni!- Ora vieni, andiamo di là, a vedere il mare.- Quante barchette colorate, vicino alla riva! Ma, guarda, laggiù c’è una barca grande, grigia…- Non è una barca, è una nave.La sera, le luci di una stazione importante. Un frastuono confuso, fischi, rumori di ferraglia, stridii, richiami e saluti, le voci dei facchini, e poi l’avvicinarsi di un carrello, Lita che si sporge dal finestrino, e, poco dopo, nello scompartimento si sparge l’odore di caffellatte… ma non si può bere subito, dai bicchieri di carta, bisogna stare attenti a non scottarsi, a non rovesciare il liquido… Quante raccomandazioni fa, la mamma! E chi si ricorda se era buono o cattivo, quel caffellatte? Ma l’odore sì, era buono. Qualcosa di confortevole.Poco dopo, allungata sulle ginocchia della mamma e della sorella, la piccola Anna si addormentò. E dormì tutta la notte.

IL SOLE DEL SUD

Ancora assonnata, la piccola Anna stava nel corridoio, seduta su una valigia ad aspettare la fermata del treno.- Mamma, stiamo arrivando a Bari?- No, ma la prossima fermata è la nostra. Noi scendiamo prima, nel paese dove è nato papà. Appena uscita dalla stazione, ho il ricordo un po’ confuso di baci e abbracci di zii e cugini sconosciuti. Vivida nella mia

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mente è, invece, la prima impressione provata guardandomi attorno nella cittadina meridionale.Il sole emanava una luce diversa da quella cui ero abituata nelle belle mattinate estive. Allora pensai che era una luce più bianca, ora direi che aveva quasi una dimensione particolare, una sua tangibilità…. e tutto era immerso in quel bagno di luce: i muri delle case basse, il selciato davanti alla stazione, la terra battuta di una vecchia strada, il verde brillante degli oleandri in fiore, lo scintillare di una fontanella.Grande meraviglia provai nell’osservare la vita che si svolgeva fuori, sull’uscio di casa: molte abitazioni erano a pianoterra, e, davanti alla porta, sedevano le donne, a sferruzzare, a sgranare legumi; qualche ragazza cuciva, qualche bimbo stava seduto tranquillamente sul vasino.Come in un flash, vedo ancora una vecchietta vestita di scuro, con un fazzoletto in testa, annodato dietro la nuca: davanti all’uscio, in terra, aveva steso un grande telo, e sopra stava allargando dei frutti o dei legumi, forse mandorle, forse fave…E di quel breve soggiorno ho proprio soltanto dei flash.La figura fine, fragile e bella della vecchia zia Margherita. Era la sorella maggiore del papà, ma a me sembrava di aver trovato un’altra nonna. Stavo volentieri con lei. La sua casa, due stanze con annesso salone, cioè la bottega da barbiere, mi ricordava in parte proprio la casa dei nonni di Genova, ma soltanto un poco. Il salone, dove lavorava il cugino Minguccio, era sempre aperto, fino a tarda sera, ma lì dentro noi non entravamo mai; c’erano sempre uomini, tanti uomini: a farsi radere, a chiacchierare, e, la sera, a giocare a carte, a suonare la chitarra e a cantare. E, se per certi aspetti tutto questo si avvicinava all’ambiente, alla vita della casa dei nonni, tuttavia c’era qualcosa di molto diverso, che io, allora, non avrei saputo definire, ma che sentivo… Forse, il tutto si può esprimere, molto semplicemente, con: “erano cose da uomini, soltanto da uomini! ” Le donne, i bambini, non prendevano parte in nessun modo, come spettatori, a quei canti e a quei suoni, era esclusivamente un’atmosfera maschile.

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Quando veniva aperta la porta comunicante, dal salone usciva l’odore dei saponi mescolato al fumo dei tabacchi forti, e poteva udirsi il tossicchiare che s’intercalava ad una voce rauca, o ad uno scoppio di risa che s’inframmezzava alla voce alta e giovanile di chi, forse, raccontava le sue avventure… spezzoni di discorsi in dialetto, per me incomprensibile.Da quella porta c’era spesso l’andirivieni di due ragazzini, che andavano a prendere l’acqua alla fontana, per la bottega e per la casa: erano i due giovanissimi apprendisti del mestiere, ma a me sembrava che fossero soltanto dei portatori d’acqua. Mi incuriosivano molto. Andavano, ridendo e spintonandosi, con le quartare vuote (così chiamavano quelle anfore di una decina di litri ), e, ancora ridendo e pasticciando sulla soglia, ritornavano con le quartare piene. E sempre la zia Margherita li sgridava per l’acqua versata.Era un’acqua particolarmente buona, fresca. Subito ne veniva riempita una brocca, coperta con un candido telino ricamato e posta al centro del tavolo. In famiglia era in uso bere direttamente da quella brocca, ma io mi rifiutai decisamente, e, come già tanti anni prima per la mia mamma, nella casa dei propri nonni, ebbi il privilegio di bere sempre per prima, in un mio bicchiere personale.Sicuramente, la zia Margherita lo considerava un capriccio, ma voleva troppo bene a quella nipotina venuta da lontano. E così, ancora una volta, la piccola Anna fu accontentata e coccolata.Noi mangiavamo e stavamo tutto il giorno dalla zia Margherita, ma non la notte, poiché lei non aveva una camera in cui ospitarci. La sera andavamo a dormire dai cugini Minguccio e Cicetta, che si erano sposati da poco tempo. Era un appartamento al primo o secondo piano. Ricordo soltanto che, entrando, si sentiva un odore di cera e di mobili nuovi. Il sole del mattino filtrava dalle persiane chiuse. Non mi rammento di aver visto le finestre spalancate. E vagamente ricordo che venivano aperte soltanto di sera; credo che la cugina Cicetta abbia pregato la mamma di non fare entrare troppo sole, che poteva rovinare il mobilio.

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Nei brandelli di memoria, non riesco a rivedere la piccola Anna in quel appartamento. Unico è il ricordo del ballatoio, prospiciente un cortile interno. Lì, al mattino, appena vestita, andavo ad aspettare la mamma e Lita, che si preparavano per ritornare dalla zia Margherita.Da una porta a fianco, usciva spesso una bambina, di massimo dieci anni, che era sempre indaffarata a strizzare stracci bagnati, stendere panni, battere tappeti…Di lei mi è rimasto impresso un vestitino, sempre lo stesso, a quadretti bianchi e rossi, e un dolce sorriso con il quale rivolgeva a me parole incomprensibili ma che arrivavano comunque al mio cuore.Quella bambina già lavorava.Era la servetta della vicina, una signora di cui non ricordo nulla, soltanto che lei era molto cortese con noi, ma io da lei non volli mai accettare una carezza. E’ strano, ma non ricordo nulla del viaggio di ritorno.Quel soggiorno in Puglia era durato soltanto qualche mese, perché io mi rivedo a casa, a Genova, in attesa, gioiosa e timorosa ad un tempo, dell’imminente apertura delle scuole.

A SCUOLA

Il mio primo ricordo. Mi trovo tra le prime di una lunga fila di bambine, quasi tutte più alte di me, e sto guardando con ansia due figure vestite di nero: una è di costituzione robusta, un volto rotondo, ma gli occhi, i gesti, la voce, tutto in lei esprime una sorta di durezza che mi intimorisce; l’altra è magra, alta, ossuta, con un volto che oggi definirei “cavallino”, ma illuminato da uno sguardo e da un sorriso dolcissimo. Le due maestre ci chiamano ad una ad una per dividerci in due classi. Io non so quale criterio usassero per questa divisione, ma ricordo soltanto la preghiera che, guardando la maestra spilungona, recitavo nel mio cuore:- Scegli me! Scegli me, ti prego!

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La mia preghiera fu esaudita. E con la mia prima, cara maestra, e con la scuola in generale, s’instaurò un rapporto bellissimo, che durerà quasi ininterrottamente per tutto il periodo scolastico. Quel primo approccio con lo studio fu entusiasmante : è stato per me un amore a prima vista, che si è rafforzato con gli anni.La mia cara e dolce maestra Giulietta, con il gioco, con il sorriso, con una “sua magia” tutta particolare, ha saputo instillare in me il piacere di apprendere, di imparare cose nuove.Era una bella persona, bella dentro. Non l’ho mai dimenticata. Dopo molti anni, superato l’esame di abilitazione magistrale, andai a trovarla: insegnava ancora, nella stessa scuola della mia infanzia. Anche la classe, le scolarette chiassose sembravano le stesse. E, pure lei non sembrava cambiata molto. Forse il volto un po’ più stanco, un po’ più pallido, che subito si accese per la commozione, quando, donandole un mazzo di rose, le dissi:- Grazie, Maestra! Non l’ho mai dimenticata.E sicuramente, al di fuori della mia famiglia, è stata la prima persona importante della mia vita.Quei primi giorni di scuola trascorsero in un baleno.Ero felice. A casa raccontavo tutto, per filo e per segno, che cosa aveva detto o fatto la “mia maestra”. Lo raccontavo alla mamma. E alla sera al papà, non cambiando mai nemmeno una parola. Il pomeriggio, dopo aver fatto i compiti, mettevo in fila le sedie: su ognuna di esse distribuivo alcuni foglietti. Immaginavo d’insegnare alle mie compagne, che dovevano scrivere su quei foglietti, sui quali, naturalmente, scrivevo io.Che cosa scrivevo? Aste! E poi, grande conquista, vocali; e, infine, le altre lettere dell’alfabeto. Sempre con la matita.I guai, per me, e per il povero piano di legno naturale del tavolo della cucina, incominciarono con l’uso di penna, pennino e… inchiostro.Quante macchie, pagine strappate e pianti. E pazienza da parte di Lita, che sapeva consolarmi e invogliarmi a riscrivere la

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pagina macchiata. E poi c’erano le bottigliette d’inchiostro, rovesciate completamente. E non so come facesse la mamma a togliere quelle brutte macchie dal tavolo! Il problema delle bottigliette che, prima o poi, immancabilmente, facevo cadere, lo risolse, una volta per tutte, papà: mi portò un bel calamaio di vetro pesante, a base quadrata, stabile.I giorni trascorrevano tranquilli. Di quei primi mesi d’autunno non ricordo nulla che si riferisca alla guerra. Forse non ci furono, a Genova, fatti di grande rilievo, pericolosi bombardamenti, oppure tutta la mia attenzione era per la scuola o, più probabilmente, entrambi i motivi.Ma, verso la fine di novembre, un avvenimento nuovo doveva scombussolare la mia vita e quella di tutta la famiglia.

QUANDO GIOCARE STANCA

Tutto incominciò un brutto giorno, con forti accessi di tosse accompagnati da un urlo ansimante che spaventava tanto la piccola Anna. Si parlò subito di “tosse asinina”, nome che non tranquillizzò affatto la bambina; comunque, lo stesso effetto avrebbe suscitato anche il nome più scientifico di “pertosse”. Per lei, che non aveva mai sofferto nemmeno una “bronchitella”, come subivano qualche volta i cuginetti, quella tosse soffocante, che la rimescolava tutta dentro, era qualcosa di sconvolgente, e si rifiutava di accettarla. Non voleva tossire. Premeva tutte due le manine sulla bocca, sino a diventare quasi paonazza ed a soffocare sul serio. A nulla servivano le preghiere della mamma, le arrabbiature del papà, i rimproveri del medico di famiglia.- Devi tossire! Togli le manine! Così non va! Ti farai venire una brutta malattia! Eppure, sei una bambina intelligente!… Evidentemente, purtroppo, l’intelligenza in certi casi non serve, specialmente quando va a cozzare contro la paura. E quella paura, la “paura del vomito”, che le rimarrà per tutta la vita, era fortissima.

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Ogni volta era peggio. Gli accessi di tosse erano sempre più frequenti, e tutto si concludeva con una debilitante sudata.Naturalmente, niente scuola, ma la piccola nemmeno provava a giocare “alla scuola”.

Anna si stancava subito. Non faceva nemmeno il suo gioco preferito con “la famiglia degli ombrelli”. Per lei, infatti, i paracqua erano personaggi ai quali aveva dato un nome: erano i personaggi di una famiglia che lei faceva agire e vivere sulla scena di un suo mondo fantastico. Il suo preferito era un piccolo parasole a fiori, che per lei era il bimbo di quella famiglia.Ormai, tutto la stancava: le bamboline di celluloide, e persino la bambola che amava di più. Era una bambola di pezza, che la mamma aveva confezionata per lei, disegnando gli occhi, il naso e la bocca sulla faccia di tela, coprendo la testa con un fazzoletto da contadinella, e ricoprendo il corpo di stracci con una vestina di lana rosa, appartenuta alla bimba quando era poco più che neonata.Se ne stava tutto il giorno vicino alla stufa, seduta su un panchetto; una sedia con sopra una asse era diventata il “suo tavolino”. Normalmente, quell’asse aveva diverse funzioni: quella propria di allargare il tavolo della sala, oppure, appoggiata sulle spalliere di due sedie, veniva usata per stirare. Sul “suo tavolino”, la piccola Anna si dedicava ai giochi che la stancavano meno, a quei giochi non troppo movimentati, che da sempre erano, comunque, i suoi preferiti.Con un mazzo di carte poteva costruire fragili castelli, ma ancor più amava giocare ai “personaggi”, come con gli ombrelli, così aveva creato le “famiglie” per ogni seme, e quella a lei più cara era la “famiglia di Cuori ”.Un altro gioco era quello inventato da Nico bambino per la sorellina Lita (gioco che alcuni anni dopo si poteva comprare in cartoleria, un gioco che io definirei “Barbie ante litteram”, una Barbie di carta). Nico aveva disegnato una bambolina in sottoveste, sulla quale si potevano applicare i vestitini che creava la piccola Lita. Ma la piccola Anna non sapeva né

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disegnare né, tanto meno, creare nuovi vestiti, per cui il gioco diventava piuttosto monotono e tutto consisteva nell’usare il materiale preparato da sua sorella. E si divertiva soltanto se quest’ultima giocava con lei. Lita, specialmente in quei giorni, cercava di accontentarla il più possibile. Anche con altri giochi, quelli della sua infanzia, inventati da lei o dal fratellino.- Lita, giochiamo con le “signorine”?- Sì, ora ti do il Figurino, tu incomincia a scegliere, poi vengo

io a ritagliare…E Anna sceglieva una bella signorina con vestito vaporoso, Lita avrebbe poi scelto la sua signorina, e queste, ritagliate, sarebbero state i personaggi principali. Le pagine del vecchio figurino diventavano i negozi dove le due signorine andavano a comprare i vestiti…- Mi piace questo. Lo compro!- Ha scelto bene, Signorina! E’ un bellissimo abito da sera.Poi, un accesso di tosse fortissimo… mandava letteralmente all’aria le figurine di carta e tutto il gioco.Poco dopo, sudata, accesa in volto, gli occhi lacrimanti, la bambina non ha più voglia di giocare.Nemmeno con il suo gioco preferito. E’ una casetta che Nico ha ricavato da una scatola da scarpe: ha diversi piani e le persiane verdi che si possono aprire e chiudere, con gli sportelli da tirare su e giù a piacere.Per la piccola Anna è un gioco entusiasmante, con il quale può dare libero sfogo alla sua fantasia.Da un vecchio libro illustrato sono stati ritagliati vari personaggi: mamme, papà, bambini, nonni, ragazzi… Le massaie chiacchierano da una finestra all’altra, le signorine si affacciano per guardare i giovanotti che passano sulla via, una bambina aspetta alla finestra l’arrivo del suo papà, una nonna chiama a gran voce i nipotini che giocano vicino al portone…Un bel gioco. Ogni volta nuovo, diverso.

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La piccola Anna è sempre più stanca. La tosse imperversa. Arriva la febbre ed un dolore sordo, continuo, nella parte alta della schiena. Il cantuccio vicino alla stufa viene abbandonato.

A QUEI TEMPI NON C‘ERA

In verità, la penicillina era già stata scoperta; ma fu sperimentata per la prima volta, su un uomo, un poliziotto londinese, soltanto nel 1941. Anche oggi la polmonite è una malattia grave, ma allora, alla fine del 1940, credo che lo fosse ancora di più.Così, la “brutta malattia” arrivò davvero. Anche se la mamma ne era convinta, non credo si sia sviluppata perché avevo impedito alla tosse il suo libero sfogo.Nel lettone della mamma i giorni erano lunghi, le notti agitate. Dovevo dormire appoggiata a due o tre guanciali, semiseduta, poiché, se mi sdraiavo, la tosse non mi dava tregua. Accanto a me, dormiva, si fa per dire, la mamma, che cercava di aiutarmi in tutti i modi. Mi metteva una mano sulla fronte, asciugava il sudore, e soprattutto mi teneva sempre ben coperta. Io, tra la febbre alta e i mattoni caldi, che avevano trasformato la mia parte di letto in una sorta di forno, tendevo continuamente a scoprirmi. Papà dormiva nell’altra stanza, al posto di Lita, e lei nella nostra al posto mio.E questo era stato soltanto il più piccolo dei cambiamenti nella nostra famiglia. Il cambiamento più grande era nell’atmosfera.La mamma non cantava più e aveva sempre gli occhi rossi; sul comò aveva messo un quadretto di S.Antonio, davanti al quale, ogni giorno, accendeva un lumino e a lungo pregava . E le sue preghiere diventavano sempre tanto più lunghe, quanto più si faceva serio il volto del medico che ogni giorno veniva a visitarmi. Io non riuscivo a comprendere bene tutto quello che

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stava succedendo, ma qualche parola ero riuscita ad afferrarla dal parlottare tra loro degli adulti: “va di sette in sette”, “polmonite doppia”, “ospedale”…Papà, quando tornava dal lavoro, veniva subito a trovarmi, poi si sedeva in un angolo vicino all’armadio, con la faccia nell’ombra, silenzioso, finché qualcuno veniva a chiamarlo per la cena.Devo essere sincera, in quei giorni, la compagnia dei miei genitori era gradita, ma, con loro mi sentivo “più malata”. Erano troppo preoccupati, e non riuscivano a nasconderlo.Preferivo la nonna, che veniva a trovarmi ogni giorno, e mi raccontava delle pirepire, e mi faceva ridere anche quando doveva farmi la peretta, che tanto detestavo… Mi piaceva stare con Lita, che mi rallegrava con la sua vivacità. Nico non si fermava mai troppo a lungo, ma nelle sue brevi visite riusciva sempre a divertirmi.Un’amica di famiglia, Maria di Terlizzi, veniva sovente a trovarmi, e, in quel suo italiano semidialettale, mi raccontava delle belle e lunghe storie, che riuscivano, per un po’, a distrarmi da ogni malanno.Un pomeriggio, la mamma spalancò la finestra, lasciando entrare il sole e l’aria pungente di una bella giornata di fine dicembre; non mi fece mettere sotto le coperte come le altre volte, quando arieggiava la camera, al contrario:- Sta seduta e ben coperta!- Perché?- Ascolta…- Ciao, Anna! Ciao, Anna! Guarisci presto! Augurii!…Roccuccio e Vitino mi salutavano dalla strada. E si sgolavano, come quando, al passaggio del treno, gridavano:- Ciao, nonni di Bari!Il loro saluto mi fece sorridere. Poi, quando la finestra fu richiusa, mi sentii stringere la gola da un nodo, e subito fui squassata da un forte accesso di tosse. Era la vigilia di Natale.

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UN NATALE DIVERSO

Il Natale 1940 fu diverso, non soltanto per me che stavo affrontando la mia battaglia personale, ma credo anche per gli

altri: era il primo Natale della Seconda Guerra Mondiale.In quei giorni, a me arrivava soltanto una debole eco della Guerra, sia per la mia verde età, sia perché, ripeto, io dovevo lottare contro un mio personale Nemico.Dei discorsi degli adulti, qualche frase mi era rimasta impressa, specialmente una parola: la tessera. E avevo capito che il disagio maggiore consisteva nel fare la spesa. Gli alimenti erano scarsi, tutto o quasi era, appunto, condizionato da quella tessera.Con l’egoismo proprio dei bambini, a me non interessava molto, poiché non avevo appetito e tutto il cibo mi sembrava cattivo.Ricordo con piacere soltanto un cestello d’uva che mi aveva mandato la nostra fruttivendola. Quell’uva era dolce e dissetante ad un tempo. Forse, è proprio per quel grato ricordo che, ancor oggi, l’uva è il mio frutto preferito.Anche Luisa, un’amica di mia sorella, mi aveva portato un dono gradito. Un pacchetto di frufru (Wafer) al cioccolato, ma la mamma non me ne fece assaggiare nemmeno uno, per via dei vermi, che potevano aggravare la mia situazione. Non so che relazione possa esserci tra i frufru e i vermi. Di certo, questi ultimi furono lo spauracchio persecutorio della mia infanzia. Quel pomeriggio di Vigilia, ormai, era per me uguale a tutti gli altri. Quando rimanevo da sola, la camera sembrava più grande e le ore più lunghe. E così, tra il sonno e la veglia, fantasticavo sulle decorazioni del soffitto e sui disegni della tappezzeria. Questa era formata da tanti rettangolini, tutti uguali; in ogni rettangolino c’era un alberello carico di frutti rossi che spiccavano su un bel prato verde. Ed io sognavo di sdraiarmi in quel prato, libera, a respirare l’aria tiepida di primavera.Invece, era la Vigilia di Natale.

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E allora il prato verde si confondeva con le scene natalizie. Era trascorso soltanto un anno, eppure…come sembrava lontano, quel tempo.In sala ci sono “le grandi manovre”: gli uomini stanno spostando mobiletti, sistemando sedie e sgabelli, allungando il tavolo; in cucina, le donne sono indaffarate ad ultimare la preparazione del buon Pranzo di Natale; Lita si appresta ad apparecchiare con una candida tovaglia di fiandra e i piatti con il bordo dorato.I bambini, sempre tra i piedi, ad intralciare il lavoro degli adulti, continuano, imperterriti, a giocare con i doni che ha portato Gesù Bambino. Anna ninna una bambolina bionda vestita di celeste, in una culla dello stesso colore. I cuginetti fanno girare i loro trenini a molla, ognuno il suo, su due cerchi formati da binari.Ad un tratto, un tonfo ed un pianto. Vitino è caduto ed ha battuto la testa. La sua è una testa del tutto normale, ma non si sa perché, sembra che gli pesi, e quando cade, e gli capita spesso, batte sempre con la testa.La zia Maria toglie le ultime frittole ripiene dalla padella, ed accorre con acqua fredda e una moneta, per cercare di evitare, almeno in parte, il sorgere dell’inevitabile bernoccolo. Poi, per calmare il piccolo, che continua a piangere, cerca il piatto con le frittelle vuote, quelle che ha preparato per sé stessa, ché non ama quelle ripiene: una frittella farà da toccasana per il pianto di Vitino... Ma, nel trambusto, non si trova più il piatto.- Dov’è finito? Eppure, lo avevo appoggiato lì…- E’ questo, per caso?- Ma… è vuoto… Dove sono le frittelle? Le mie frittelle?- Ah! Erano le tue? Non lo sapevamo. Erano molto buone!Papà e Nico, porgendo il piatto vuoto, non riescono a trattenere il riso. E, alla fine, tutto termina in una risata generale. E ride anche Vitino, con il viso rigato dai lacrimoni.Era trascorso soltanto un anno; eppure, come sembrava lontano, quel tempo.

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C’era la Guerra. Scarseggiavano i viveri. E, costretta a letto, non avrei potuto godere né di un lauto pranzo, di cui non sentivo comunque bisogno, né dell’allegra compagnia dei cuginetti e di tutti gli altri cari, di cui, invece, sentivo tanto la mancanza. E non potevo nemmeno aspettare i doni da Gesù Bambino. Ed ero stata io stessa causa del mio danno. Infatti, avevo tanto insistito per conoscere la verità, che la mamma, forse anche tenendo conto delle diverse condizioni in cui, con la guerra, si veniva a trovare la nostra famiglia, pensò bene di dirmela tutta, quella verità: Gesù Bambino non portava i doni ai bambini, né cattivi né buoni.La mia delusione fu grande. Era così bello credere al Piccolo Gesù che scendeva dalle Stelle per far felici tanti altri piccoli sulla Terra.Perché avevo insistito? Ancor oggi, che quasi mi piacerebbe credere nelle fiabe, mi chiedo il perché della mia insistenza a voler sapere. In quella Vigilia del 1940, col calar della sera, era scesa sul mio cuore anche una grande malinconia. Febbricitante, sconsolata, me ne stavo smarrita nel mio lettone, quando, improvvisamente, qualcosa cambiò.

GIUSEPPINA E…

La mamma fu la prima ad entrare nella camera semibuia, rischiarata, fiocamente, da un abat-jour sul comodino. Accese la luce del lampadario centrale e, subito, accanto alla piccola Anna, pose Giuseppina.- E’ tua! Te la regalo.Per qualche attimo, la bimba rimase ferma e muta, bloccata dallo stupore, poi strinse al suo cuore Giuseppina.- Oh, mamma…Grazie! Grazie!Era Giuseppina una meravigliosa, grande bambola, come la piccola Anna non aveva mai posseduto. Seduta sul divano, in un vaporoso vestito di seta celeste, sui riccioli biondi un cappellino pure celeste, poteva essere soltanto

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ammirata. Non si poteva prendere in braccio, e nemmeno accarezzare, per non rovinarla, e dare un forte dispiacere alla mamma. E per questo motivo, sia pure a malincuore, la piccola Anna aveva sempre accettato quel divieto.La bellissima bambola era più vecchia di Anna.Prima che lei nascesse, in un lontano 19 Marzo, era stata vinta alla lotteria. Era la Festa del Paese. Per tutto il giorno, grida degli imbonitori, musichette allegre dalle giostre, richiami dei venditori dalle bancherelle, le ultime canzonette dei suonatori ambulanti, su foglietti colorati, offerti ai passanti per pochi centesimi, unitamente al Pianeta o alla Fortuna con i numeri da giocare al Lotto, l’odore delle frittelle che si spandeva nell’aria, mescolato a quello dolce dello zucchero filato e dei croccanti. E la folla che si pigiava nelle vie, per tutto vedere e sentire. Le ragazze già con i vestiti di primavera, i bimbi con i palloncini rossi, gialli, blu…E poi, qua e là, uno scoppio, o uno strappo, e alto si levava, nel cielo, il sogno colorato, seguito dal pianto di un piccolino che guardava sconsolato all’insù. Verso sera, quando ormai le strade stavano per svuotarsi, i clamori andavano attenuandosi, e già qualche venditore incominciava a riporre la sua merce, la mamma, vestita di tutto punto con guanti e cappellino, si decise ad uscire. Tutti, in famiglia, erano ritornati a casa, stanchi e frastornati.- Ma dove vai a quest’ora? Stanno già tutti per chiudere…- La Lotteria, c’è ancora?- Sì, ma…- Vado per vincere una bambola!E così fu. Con un solo numero, al primo colpo.E quella bellissima bambola, fu considerata, dalla vincitrice, come una sorta di portafortuna, che doveva rimanere inalterata nel tempo, intoccabile.E fu chiamata Giuseppina.Ed ora, Giuseppina era lì, stretta al cuore della piccola Anna.Poi vennero gli altri. Uno scampanellio e un po’ di trambusto nella stanza accanto ne annunciarono l’arrivo.

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- Guardate che cosa mi ha regalato la mam…La bambina rimane a bocca aperta.Pacchi e pacchetti vengono depositati sul letto, accanto a lei.Confusa, con le manine tremanti, tra carte e nastri di tanti bei colori, non sa che cosa fare.Viene aiutata ad aprire la prima scatola, il dono del papà. E’ una cameretta per la bambola, completa di tutti i mobili di un pallido azzurro: lettino, armadio, comò, toilette e poltroncina. Nella scatola di Nico: una sala da pranzo con tutti i mobili, dal buffet, al tavolo, alle sedie di legno, color noce, che sembrano una piccola copia di quelle vere, più grandi. E poi c’è il dono di Lita: una macchinina per cucire, con la quale, girando a mano una piccola ruota, si può cucire per davvero. Infine ancora un dono di Nico: un libro.In quel primo anno di guerra, che ormai si faceva sempre più sentire, specialmente sul piano economico, oggi mi chiedo come avessero potuto i miei cari comprarmi quei costosi doni. Grande era il loro affetto, e forse… anche la paura inconfessata che, quello, potesse essere il mio ultimo Natale!Allora, la piccola Anna non si poneva tali quesiti.Era felice, soltanto felice. Tanti bellissimi giocattoli non li aveva mai posseduti, nemmeno forse desiderati. A porre un freno ai suoi desideri, in questo senso, esisteva anche un motivo particolare: la Signora Dorotea.

LA SIGNORA DOROTEA

La piccola Anna si era sempre accontentata dei suoi giochi. I veri giocattoli non erano molti. Qualche bambolina di celluloide; un secchiello e una paletta per giocare, con i cuginetti, nel cortile dei nonni; una pallina con le stelle azzurre; un piccolo pianoforte, ereditato da sua sorella; una trottola di latta colorata; la paperina regalatale da suo fratello; la culla celeste, ultimo dono di Gesù Bambino, e un marinaretto di

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gomma, il suo primo giocattolo, al quale era particolarmente affezionata.La bambina giocava quasi sempre da sola, e , in mancanza di compagni e di veri giocattoli, suppliva con la sua fantasia. Si divertiva con gli oggetti più diversi. Inventava giochi, non soltanto con ombrelli, carte, figurine, ma anche con le mollette per stendere, le immaginette sacre con le quali faceva l’altarino, le cartoline illustrate con le belle signorine tra le rose, i bambini che giocano nei prati fioriti… E, quando tutto era predisposto sulle sedie o sul tavolo della cucina, e sul più bello la mamma le chiedeva di riporre ogni cosa, perché aveva bisogno proprio di quelle sedie e di quel tavolo, magari perché era ora di cena… allora la bimba si lamentava:- Ma… proprio adesso… non posso mai giocare…- Proprio adesso, sta per arrivare il papà…- E, io… dove mi metto? Non ho un posto mio…A questo punto entrava in ballo la Signora Dorotea.- Vuoi andare dalla Signora Dorotea? Lo sai che a lei piacerebbe tanto una bambina come te. A casa sua c’è una stanza piena di giocattoli e in quella stanza potresti fare tanti e tanti giochi…

- Non voglio andare dalla Signora Dorotea!… Non voglio!…In un battibaleno, la piccola Anna rimette a posto tutti i giochi.La mamma, con una psicologia tutta sua, non mi aveva mai raccontato di Babau o di Lupo Cattivo, ma soltanto della Signora Dorotea, che di spaventoso non aveva proprio nulla. Eppure, ancor più del povero Banderuola, io avevo paura della bella, buona e ricca Signora Dorotea.Una stanza piena di giocattoli per me non aveva nessuna attrattiva, al contrario mi preoccupava. E, quando mi capitò di vederne una proprio simile a quella descritta dalla mamma, la mia preoccupazione fu veramente grande.L’episodio accadde nei primi giorni di scuola.Una mia compagna, di nome Carla, figlia di un ricco industriale, accompagnata, ogni giorno, dalla domestica, sin sulla porta dell’aula, faceva capricci e pianti a non finire, prima di entrare.

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La maestra usava tutta la sua pazienza e, vedendo che la bambina mi aveva preso in simpatia, l’aveva messa vicino a me. Di questa amicizia, per la verità piuttosto unilaterale, aveva parlato anche con i famigliari della scolaretta ricalcitrante. Il padre pensò che per la sua piccola fosse bene rafforzare questo legame, anche fuori della scuola.Fu così che, un pomeriggio di ottobre, assieme a Lita, per la prima volta, mi ritrovai seduta in una bella automobile. Alla guida c’era il padre di Carla. In pochi minuti arrivammo a destinazione. In periferia, su una collinetta, sorgeva una grande casa tutta bianca, con finestre e decorazioni in legno naturale, circondata da un rigoglioso giardino. Qui, mi aspettava Carla, tutta contenta e sorridente, come non lo era mai a scuola.Lita fu accompagnata al primo piano, mentre io fui lasciata assieme alla mia amichetta.- Giochiamo?- Oh! Sì, sì! – accondiscende, subito, Anna, con vero

entusiasmo. E già si prepara ad esplorare quel meraviglioso mondo verde, dagli splendidi colori e con gli intensi profumi di primo autunno. Anzi, rimpiange di aver lasciato secchiello e paletta a casa dei nonni. Ma, Carla già la conduce in tutt’altra direzione.

- Non qui. Andiamo dentro, dove ci sono i miei giochi.Entrano in uno stanzone che prende luce da una finestra in alto. Subito, alla bambina sembra completamente vuoto, ma poi, la domestica, chiamata da Carla, si avvicina a quelle che sembravano nude pareti e, come per magia, appaiono quali sono veramente: grandi armadi a muro, con scansie colme di giocattoli.Anna è letteralmente strabiliata da quella visione. Animali di peluche di tutti i tipi e misure, orsi alti quanto un bambino; automobiline con i pedali; bambole con i capelli neri o biondi, vestite elegantemente nei colori più belli, ed alcune tanto grandi da non potersi quasi prendere in braccio; biciclette

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con le rotelle ai lati; cavalli a dondolo dalle smaglianti rifiniture…- Carla, non farmi tirare giù tutto! – dice la giovane domestica dal volto pacioso e simpatico – Decidi con che cosa vuoi giocare!- Ma è lei che non si decide! Quale gioco ti piace di più? –

chiede la piccola ospite, con una gentilezza che mai Anna si sarebbe aspettata, dalla capricciosa scolaretta Carla.

- Non so… Quello che vuoi tu… Anna, prima ammutolita dallo stupore, poi, titubante, ripete:- Quello che vuoi tu…E guarda con ansia la porta rimasta spalancata sull’incanto del giardino. E pensa a quello che vorrebbe lei! Tornarsene subito a casa, dalla sua mamma. Ma non si può. Ricorda tutte le raccomandazioni che le sono state impartite sul modo di ben comportarsi. E rimane lì, impacciata, ad accarezzare una bambola che non osa prendere in braccio o il muso intelligente del cavallo a dondolo, sul quale non osa salire.Finalmente, arriva l’ora della merenda.Anna non ha per nulla voglia di mangiare, ma desidera tanto salire al piano superiore, per rivedere sua sorella. Ci sarà ancora? E se Lita non ci fosse… e se quella fosse proprio la casa della Signora Dorotea? Certo, la Signora Dorotea non ha bambini… per questo vorrebbe la piccola Anna… ma lì c’è già una bambina, Carla…Quali terribili dubbi per una bimba di sei anni che gli adulti dicono intelligente, ma che ha una immaginazione forse troppo fervida. E così, talora può confondere la fantasia con la realtà.Nel salotto, seduta in una comoda poltrona, Lita sta conversando con la padrona di casa. Accanto alla mamma, semisdraiato sul divano, un bambino sta sfogliando un grande libro tutto illustrato: Pinocchio. Il bambino si chiama Riccardo, ha circa quattro anni, è il fratellino di Carla. La mamma di Carla è una signora molto gentile, che cerca di mettere subito a proprio agio la piccola Anna davanti ad un basso tavolino, apparecchiato per il tè, ed una ricca merenda per

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i bambini, pane burro e marmellata, biscotti di varie forme e pasticcini per tutti i gusti.La mamma di Carla è proprio una signora molto fine e cordiale ad un tempo, molto simpatica: non può essere la Signora Dorotea!Finalmente, Anna tira un sospiro di sollievo. E si guarda attorno con tranquillità. Per la bambina è un ambiente straordinario, come non ne aveva mai visto prima. Alle pareti sono appesi molti quadri, di varie dimensioni, con le cornici dorate , e sono paesaggi, fiori, bambini, dame di un tempo passato, e sono tanto diversi da quelli di casa sua.Infatti, gli unici quadri a lei ben presenti, sono situati in sala da pranzo: in alto, sopra il divano, dove siede la bambola Giuseppina. Ci sono due grandi fotografie incorniciate, la mamma ed il papà giovani ( e la mamma si riconosce subito, ma il papà, senza benda sull’occhio, alla bimba è sembrato sempre un perfetto sconosciuto…); più in basso, una cornice rettangolare stretta e lunga racchiude un Vapore con le ciminiere che fumano; ai lati, appesi con una catenella dorata, due quadri con il fondo rosso, nel cui centro è rappresentato un monumento, emblema di città, di cui, fin da piccolissima, ha imparato i nomi: Milano e Torino.Lì, invece, nel salotto di Carla, le meraviglie non sono soltanto alle pareti. Il pavimento è ricoperto da soffici tappeti. Oltre al divano, ci sono poltrone nelle quali si sprofonda; sui ripiani dei mobili ci sono lampade decorate, e ninnoli vari: damine di ceramica, frutta e animaletti di vetro colorato, o di gesso, tanto belli da sembrare veri.Il suo sguardo si sofferma più volte su cagnolino ricciuto marrone, con gli occhi dolci ed intelligenti.Più tardi, a casa, la piccola Anna racconta alla mamma tutte le meraviglie di quel pomeriggio straordinario, e tiene stretto tra le sue manine, il dono ricevuto da quella signora tanto gentile. E’ un cagnolino di gesso, color marrone, ruvido al tatto, con gli occhi neri che sembrano guardare dolcemente, con intelligenza.

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Anna non ritornerà mai più in quella casa dove era stata così benevolmente accolta.Perché? Stava troppo bene nel suo ambiente, tra i suoi giochi, vicino alla sua mamma. E non per paura…Ormai aveva capito che, di là dalle sicure pareti domestiche, non c’era qualcuno pronto a rapirla, e forse non era mai esistita, la Signora Dorotea.

LA NONNA DELLA FOTOGRAFIA

I giorni di quel gennaio sembravano tutti uguali alla piccola Anna. Sempre più stanca, dopo notti insonni con la febbre alta, trascorreva le giornate in una sorta di dormiveglia. Non tentava nemmeno di giocare un poco con i bei regali di Natale. Sul letto teneva soltanto il libro, il suo primo libro, che verrà poi conservato con particolare affetto. A quel tempo, nei momenti migliori, lo sfogliava per guardare le illustrazioni. Talora, Lita si sedeva accanto al letto e leggeva ad alta voce qualche pagina della meravigliosa storia de “ I Figli di Fata Campagnola”.Lita vestiva sempre più pesantemente, poiché quella camera, con due pareti esterne, diventava ogni giorno più fredda. L’appartamento era riscaldato soltanto in cucina, dalla stufa. E quella camera era la più distante dalla cucina.Una sera, papà portò un oggetto che risvegliò la curiosità della piccola Anna: una stufetta elettrica.La stufetta emanava un po’ di calore e tutti ne furono contenti, eccetto la mamma, che aveva sempre un malcelato timore per tutto quello che concerneva l’elettricità. E quella volta non ebbe torto.Il vecchio impianto non era adatto a reggere il carico della stufetta. Un corto circuito: in alcuni punti si sprigionò del fumo, e la tappezzeria rimase un po’ bruciacchiata. E la mamma, spaventata, accese un altro lumino a Sant’Antonio, per aver salvato casa e famiglia dall’incendio…

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In Febbraio, la mamma rivolgeva sempre più lunghe e fervide preghiere a Sant’Antonio, a Santa Rita, e a tutti gli altri Santi della sua devozione; papà, la sera si sedeva sempre nel suo angolo vicino all’armadio, ma più di una volta, invano, Lita venne a chiamarlo per la cena.Fu proprio in quel periodo che feci quel sogno.Una notte, nel groviglio faticoso del mio dormire, in cui mi sembrava di scrivere pagine e pagine a penna, con pennini spuntati, gocciolanti d’inchiostro, un sogno si sviluppò molto nitido.Il mattino seguente, la piccola Anna così raccontò:- Mamma, vuoi sentire il mio sogno?- Ti ricordi che cosa hai sognato?- Sì, molto bene! Entravo in una grande stanza. In fondo c’era

una finestra molto luminosa. Con le spalle alla finestra, stava seduta una donna che mi guardava sorridente ed a braccia aperte mi diceva: “Vieni! Vieni!…” Io volevo andare, ma non riuscivo a camminare, le gambe non si muovevano…Poi, mi sono svegliata.

- Ma chi era quella donna? Non è una persona che conosci…- Veramente… a me sembrava di conoscerla… era uguale alla nonna della fotografia…A quel punto la mamma non riuscì a nascondere la sua angoscia e, con una scusa, si allontanò precipitosamente dalla stanza.La piccola Anna rimase stupita e mortificata. Lei era così contenta di raccontare il suo sogno, e non riusciva proprio a capire perché la mamma fosse diventata così triste.Ora io posso capirlo. La nonna della fotografia era quella paterna, da me mai conosciuta di persona, perché già morta da alcuni anni.Il sogno, che dalla piccola Anna era stato considerato bello, comunque tale si dimostrò.Infatti il momento più critico della malattia fu superato proprio quella notte.

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Ed io sono rimasta della convinzione che i nonni, in vita o in sogno, possono portati soltanto bene. Anche se ti sorridono dall’altro mondo e ti chiamano a braccia aperte.

INTERMEZZO

E’ proprio vero. Soltanto gli avvenimenti più salienti, nel bene e nel male, sono quelli che rimangono più vividi nella memoria. Quando la vita segue un ritmo normale, i ricordi si affievoliscono.E così, di quella primavera 1941, ben poco è rimasto impresso nella mia memoria. L’impressione più viva è proprio quella di aver ritrovato la gioia di vivere. Anche in tenera età, sia pure un po’ nebulosamente, si può provare la gioia di essere finalmente uscita da una galleria scura e piena di insidie.In casa era ritornata di nuovo un’atmosfera serena, nonostante la guerra.Io non ricordo se in quel periodo ci furono bombardamenti in Liguria, ma una precauzione obbligatoria era stata presa, in tal senso: l’oscuramento. Da tutte le finestre, di tutte le case, di notte non doveva filtrare la più pallida luce. Rivedo ancora le nostre belle persiane verdi, abbruttite dalla carta pressata nelle scanalature; e le strade buie, nelle notti senza luna; e le stanze, che, a luce spenta, sembravano dei pozzi neri, paurosi. Allora, io non sarei mai entrata da sola in una stanza senza luce, ed ancor oggi, entro malvolentieri in un locale al buio, anche a casa mia.E qualche altro segno della guerra affiora alla mia memoria, perché anche allora non era sfuggito all’attenzione di una bambina, sia pure presa da tutt’altri pensieri. Rivedo papà che ascolta sempre più serio ed attento il bollettino alla radio, nel più assoluto silenzio da parte degli altri componenti la famiglia, io compresa. Guai a fare rumore! Il

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divieto era valido anche per me, sebbene, specialmente durante la mia convalescenza, molte cose mi fossero concesse.E rivedo pure la mamma che aveva un’aria sempre più preoccupata quando Lita ritornava con la spesa. C’era sempre qualcosa in meno sulla tavola e qualcosa in più sul conto.La mia unica preoccupazione, invece, era quella di fare i compiti. Lita andava tutti i giorni a scuola, con i miei quaderni, dove la maestra correggeva i vecchi e assegnava i nuovi compiti. Ed io, seduta, ancora una volta, al tavolo della cucina, scrivevo, non con pennini spuntati, come negli incubi notturni della mia malattia, ma sempre faticosamente Le pagine da riempire con quella mia grafia zampettante mi sembravano sempre tanto lunghe. Mi mancava l’esercizio. E così pure era per la lettura, era molto stentata e per me faticosa. Questo cattivo approccio segnò negativamente, per un bel po’ di tempo, quella che poi divenne la mia attività preferita: leggere. Con l’aritmetica era tutto un altro discorso. I numeri mi hanno sempre divertito, anche allora.Arrivò Giugno. Era trascorso il primo anno di Guerra.Arrivò anche la mia prima pagella. E a quel tempo, quest’ultima, più di qualsiasi altro avvenimento, occupava i miei pensieri. Dal mese di Novembre, non avevo più messo piede a scuola. Il Direttore, come più tardi venni a sapere, decisamente voleva bocciarmi, per la lunga assenza, anche se giustificata. La mia maestra, ancor più decisamente, si oppose. Si accordarono per l’insufficienza in tutte le materie importanti e fui rimandata a Settembre.L’estate non fu per me un periodo di vacanza. Dovevo prepararmi per gli esami di riparazione e, pertanto, andavo a prendere lezioni private da una maestra. Con me, alla stesse lezioni, veniva una bambina che abitava nel palazzo di fronte al nostro. Nadia era molto bella, grandi occhi scuri e lunghi capelli neri. Io ero contenta di avere una compagna in quelle ore estive di studio.La maestra non aveva la stessa dolcezza della mia indimenticabile Signorina Giulietta, ma era sicuramente brava,

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nel suo lavoro, e ci preparò con cura per l’esame, che fu superato da entrambe.Era una signora sposata ed aveva un figlio di quattro o cinque anni più grande di noi. Ella aveva sovente un’aria preoccupata, e non so se per la guerra o per quel ragazzino che, indubbiamente, era piuttosto turbolento. Qualche volta, per breve tempo, la maestra si assentava e lasciava il figlio ad assisterci nello svolgimento dei nostri compiti. E forse, più che per aiutare noi, pensava che potesse essere utile responsabilizzare lui.A dire il vero, Camillo, così si chiamava, con noi era sempre molto gentile. Diceva che eravamo proprio belle, tutte e due, una nera ed una bionda. Questi complimenti, probabilmente, ci facevano piacere, sicuramente ci distraevano dal nostro lavoro, ma nulla più. Un giorno, però, durante l’assenza della madre, ci venne vicino con le forbici in mano e, con prepotenza, disse:- O mi date una ciocca di capelli o mi date un bacio! E guai a voi, se lo dite alla mamma!Noi non volevamo dare nessuna delle due cose, proprio per il modo con cui ci era stato chiesto, ma prese così alla sprovvista e, sicuramente, anche un po’ spaventate, comprendemmo subito che in certi casi è meglio cedere che resistere. Nadia si lasciò tagliare una ciocca di capelli. Io invece no. Quelle forbici non mi piacevano, ed un danno, sia pure piccolo, da quelle me ne sarebbe venuto. Un bacio, sia pure dato malvolentieri, non mi avrebbe tolto niente. Tornata a casa, raccontai quello che ci era capitato. La mia scelta subì commenti vari, tra il serio ed il faceto, da parte di tutti i membri della famiglia. Quel bacio passò alla storia famigliare.Io cominciai a preoccuparmi, avendo l’impressione di aver fatto una cosa sbagliata. E, qualche tempo dopo, aumentò in me la preoccupazione di incontrare ancora Camillo. Piccole e sciocche apprensioni di bimba!Purtroppo, il destino di quel ragazzo non fu davvero felice. Giovanissimo, verso la fine della guerra, volle partecipare ai

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tragici avvenimenti di quel tempo, e si mise proprio dalla parte dei prepotenti, dalla parte sbagliata. Non lo rividi mai più.

UN LIBRO

In classe seconda non rimasi assente tutto l’anno, come in prima, ma fui contagiata da quasi tutte le malattie infantili; per cui, i periodi di frequenza scolastica si alternavano con quelli di quarantena.Ritrovarmi ancora nella mia classe e con la mia maestra fu, comunque, per me, una grande gioia.Del secondo anno di scuola elementare, il mio ricordo più vivo si riferisce al libro di lettura.A ripensarci oggi, quel libro era tutto un programma: indottrinamento politico che veniva somministrato fin dalla più tenera età. Eppure era un bel libro, perché, nonostante il grave difetto di cui sopra, assolveva benissimo alla sua funzione: invogliava a leggere. Ed anch’io, sebbene allora stentassi ancora molto nella lettura, incominciai ad amarla.Dopo molti anni, io, maestra, mi sono ritrovata a visionare numerosissimi testi scolastici, e, pur mettendoci il massimo impegno, non sono mai riuscita a scegliere per i miei alunni un libro che fosse, per loro, attraente quanto quel vecchio libro lo era per me. In tempi di libertà e democrazia, non esiste più la costrizione del testo unico. I libri hanno una bella veste tipografica, illustrazioni che educano al buon gusto, brani e poesie, anche di valore, sovente con fini scopertamente didascalici che dovrebbero aiutare a pensare, a fare scoperte nella lingua e nel mondo circostante; tuttavia manca quella storia che avvince, che tiene legato il piccolo lettore dalla prima all’ultima pagina. Per esperienza personale, e con grande rincrescimento, ho dovuto

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constatare che, difficilmente, oggi, un bambino di seconda elementare si appassiona al suo bel libro di lettura.Il mio libro di seconda, era sicuramente più brutto come veste, come illustrazioni, con letture di scarso valore letterario. Erano pagine infarcite di retorica, educative a senso unico, ma… invogliavano a leggere. C’era una storia, un racconto, un filo conduttore, che poi è sempre alla base della lettura, di quella lettura che spinge ad arrivare fin in fondo, all’ultima pagina di un libro.Rivedo ancora la prima pagina di quel vecchio testo elementare.Lì viene presentata la famiglia di Nino e Ninetta, due gemelli che frequentano la seconda classe ( così ogni maschietto ed ogni femminuccia possono ritrovarsi nei due personaggi principali…) La famiglia dei due scolaretti è La Famiglia Fascista. Numerosa come doveva essere la famiglia esemplare di quel tempo, e ogni membro è debitamente presentato con adeguato abito. A scalare: dai genitori in divisa fascista, al figlio maggiore avanguardista, alla figlia maggiore giovane italiana, al ragazzo balilla, alla ragazzina piccola italiana, ed ai due più piccoli, i gemelli, figli della lupa. Intorno a questi personaggi ce ne sono altri secondari: compagni di scuola, parenti, vicini, maestri, ed altri ancora, figure di secondo piano. E tutti si muovono in un contesto ben preciso, che riflette la vita di quel tempo.Gli episodi si svolgono durante un anno scolastico di due bimbi di seconda elementare. Sono storie semplici, che, scopertamente, mirano a guidare su una strada segnata, il piccolo lettore, ma hanno il pregio di renderlo partecipe, vicino a Nino e Ninetta.Sono trascorsi tanti anni, eppure qualcuna di quelle storie è ancora impressa nella memoria.

IL POSTO SUL TRAM .

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Era una pagina con fine educativo, valido anche oggi.Un ragazzo, mi sembra fosse proprio il fratello dei gemelli, agile, sale sul tram e trova subito posto, ma dopo la prima fermata lo cede ad una donna con un bimbo in braccio. Poco dopo scorge un altro posto libero e si siede. Ma, ecco che sale un vecchio… il ragazzo ancora cede il posto. E decide di rimanere in piedi.

FESTA DI COMPLEANNO .

In classe quinta, quel giorno c’è fermento, tra le bambine. Una di queste ha invitato le amiche, per il pomeriggio del giovedì seguente, ad un piccolo ricevimento nella sua bella villa, per festeggiare il proprio Compleanno. Anche la sorella di Nino e Ninetta è stata invitata ed è molto felice per l’avvenimento. Tornando a casa con un gruppo di compagne, si accorge che una di queste, la più timida, non partecipa alla loro allegria.- Perché sei così triste? Anche tu sei stata invitata…- Sì, ma…non posso venire… Perché…- con un filo di voce - non ho un vestito adatto… sotto il grembiule non si vedono, ma i miei vestiti sono troppo vecchi! Le bambine, subito rimangono un po’ sconcertate, ma la più vispa di loro trova la soluzione.- Non ricordate? Giovedì pomeriggio, prima di recarci alla festa, dobbiamo andare in palestra, per le prove degli esercizi ginnici, e avremo tutte lo stesso abito. Così abbigliate andremo dalla nostra amica: tutte vestite uguali, con la nostra camicetta bianca e la gonna nera di Piccole Italiane!Seguiva una poesia sulle Rondinelle, bianche e nere.Così allora si risolvevano i problemi per l’uguaglianza!

LA RADIO .

In questo episodio, i personaggi principali erano proprio Nino e Ninetta. Ed a me naturalmente piaceva moltissimo. Avevo soltanto sette anni.

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I due scolaretti, miei coetanei, tutte le mattine si recavano a scuola e, nella loro cartella, oltre all’occorrente scolastico, portavano anche una buona merenda da consumare a ricreazione. Quasi sempre, la loro mamma la preparava in casa: pane con marmellata, o con miele, o con burro e zucchero. E soltanto qualche volta dava loro i soldi per comperare una tavoletta di cioccolato ciascuno. I due bambini erano sempre contenti della loro merenda. Dopo qualche tempo, però, incominciarono a rifiutare la merenda casalinga, e sempre più insistentemente chiedevano i soldi per il cioccolato.La mamma, pensando fosse un capriccio passeggero, qualche volta li accontentò. Poi, un giorno, vista la loro insistenza, li sgridò severamente, accusandoli di golosità. A questo punto, i piccoli scoppiarono in un pianto dirotto. E, tra le lacrime, confessarono il loro segreto.- Non siamo golosi..! Volevamo… - I soldi, li abbiamo messi da parte… - Volevamo mettere tanti soldi da parte per…- Comperare una radio per te!La mamma abbraccia i due bambini.Poi, Ninetta spiega:- Noi abbiamo la radio a scuola, papà al dopolavoro. Soltanto tu non hai la radio!La mamma, commossa, spiega, a sua volta, ai due figlioletti, che i loro piccoli risparmi non sarebbero mai stati sufficienti per comperare una radio. E poi, non possono rinunciare alla merenda, perché devono crescere sani e forti.La storia, però, non finisce qui. Un bel giorno, un fattorino porterà un pacco inaspettato: una bella radio per la mamma.Nino e Ninetta non si erano dati per vinti. E, in linea con quei tempi, avevano risolto il problema... scrivendo una lettera al Duce. E il Duce aveva esaudito il desiderio di due bravi Figli della Lupa!

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LA LANA .

Un ultimo racconto, che, di là dalla retorica, è rimasto sempre caro al mio cuore, per una sua particolare poesia.Nella scuola di Nino e Ninetta si faceva la raccolta della lana. Con questa lana, debitamente filata, le madrine di guerra avrebbero, poi, confezionato maglie, calze, caldi indumenti da inviare ai valorosi soldati.La mamma di Nino e Ninetta, come tante altre mamme, aprì un cuscino e diede un pugno di lana a ciascun bambino, per la raccolta scolastica.I due scolaretti si avviarono felici a scuola. Felice non era una compagna di Ninetta.Abitava in campagna, ed ogni mattina doveva percorrere un lungo tratto di strada, per raggiungere la scuola. La bambina era, però, sempre allegra, un cuor contento, e canterellava lungo il percorso, e sovente, per abbreviarlo, passava sui sentierini, attraverso i prati.Quella mattina, però, sconsolata, metteva un piede dietro l’altro. Non saltava, non rincorreva le farfalle, non raccoglieva violette per la maestra, non cantava. Pensava soltanto che lei, forse unica nella sua classe, forse unica nella sua scuola, non aveva un pugnetto di lana da portare per la raccolta! A casa sua non avevano lana. I materassi erano di paglia, i cuscini di piume .Ad un tratto, un belato attrasse la sua attenzione. In fondo al prato, rasente il bosco, proprio vicino ai rovi, stavano passando alcune pecorelle. E, proprio dove a settembre andava raccogliere le more, sembrava ora fosse fiorito qualche ramo di biancospino. Ma no, quelli non erano bianchi fiori! Erano candidi bioccoli che si erano staccati dal vello delle pecore che erano passate vicino ai rovi. Quella mattina, la scolaretta che veniva dalla campagna, ebbe un elogio particolare dalla maestra. Era stata lei a portare la quantità maggiore di lana per i valorosi soldati.Qualche tempo dopo, nella sala del nostro Cinema Teatro, venne allestito uno spettacolo per beneficenza. Erano invitati

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tutti, grandi e piccini. Non si doveva pagare il biglietto. Bastava portare un po’ di lana, che veniva raccolta in larghi sacchi all’ingresso. In quella sala cinematografica c’ero stata soltanto due volte, con il mio papà, a vedere due film: “Bianca Neve e i Sette Nani” e “Zoccoletti Olandesi”. Il primo, il bellissimo Cartone Animato di Walt Disney , il secondo, interpretato dalla piccola Shirley Temple.Non avevo mai assistito ad uno spettacolo teatrale. Così, quella domenica pomeriggio, ero veramente felice di andare anch’io, con Lita e le sue amiche, a teatro.Anch’io lasciai cadere nel sacco il mio pugnetto di lana che la mamma aveva tolto da un cuscino. E per un attimo pensai che sarebbe stato più bello, se fossero stati i candidi bioccoli, dono di una pecorella su un ramo di rovo.

VENT‘ANNI

Nell’autunno 1941, oltre al mio ritorno a scuola, ci fu un altro avvenimento molto importante.Il 28 ottobre, mio fratello compiva vent’anni.E quel giorno doveva anche adempiersi la promessa, una sorta di voto, che la mamma fece quando lui era ancora in fasce.Che cosa era accaduto, nei suoi primi mesi di vita? A lui, proprio nulla. Ma un accadimento drammatico si era verificato.A questo punto, bisogna fare un passo indietro, al 1918, quando, nel febbraio di quell’ultimo anno della Prima Guerra Mondiale, papà era stato gravemente ferito alla testa. Dopo un urgente e pericoloso intervento chirurgico, non solo aveva perduto irrimediabilmente l’occhio destro, ma anche subito più lesioni dovute alle schegge. E molte di queste, prudentemente, per la delicata posizione, non erano state rimosse.Dopo qualche tempo, quei corpi estranei si fecero sentire, scatenando un’improvvisa quanto impressionante crisi epilettica.

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Lo spavento della mamma fu grande. Dovette subito interrompere l’allattamento del piccolo Nico, perché il latte non era più bianco, ma aveva preso un sospetto colore verdognolo.Papà aveva dovuto subire un’altra difficile e più accurata operazione, molte schegge furono tolte, ma sette lasciate, per non ledere parti delicate del cervello. Quelle sette schegge non ebbero più nessuna conseguenza, ma furono ugualmente una costante preoccupazione per la mamma. Fu allora che ella fece la promessa, e, per un filo logico tutto suo, quella promessa fu legata al piccolo Nico: “ Se tutto va bene, quando compirà vent’anni…”.Così, la sera del 28 ottobre 1941, in casa si respirava un’aria particolare, quella delle grandi occasioni, di festa e di attesa. Il lampadario centrale splendeva in tutta la sua luce; sul tavolo, bottiglie e bicchieri predisposti per un brindisi; parecchie sedie, prese dalla cucina, erano state aggiunte a quelle della sala. Sicuramente si attendeva Nico. Era lui il festeggiato. Ma… tutte quelle sedie?Arrivò Nico. E arrivarono anche dieci persone mai viste prima dalla piccola Anna. Erano donne e uomini, vecchi, alcuni poveramente ma decorosamente vestiti, altri erano un po’ simili al ben noto “Banderuola”.A tutti venne riservata buona accoglienza. A tutti, Nico, un po’ imbarazzato ma sorridente, con gentilezza, fece dono di una busta contenente eguale somma di denaro.Loro ringraziavano e sorridevano. I loro volti rugosi presero vita, s’illuminarono in quel sorriso. Erano felici.Qualcuno, forse, avrebbe speso tutta all’osteria. Ma che importa? Erano felici.In quel momento compresi che, quando la vecchiaia è unita all’indigenza, anche i soldi possono fare la felicità.Ricordo che, proprio quella sera di festa, nel mio piccolo cuore di bimba sentii come una spina, incominciai a comprendere qualcosa di più della realtà della vita. E nelle mie scelte future, sociali, politiche, di pensiero, mi sono sentita sempre vicina ai più deboli. E una particolare tenerezza ho sempre provato per

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gli animaletti indifesi, per i bambini molto piccoli, per i vecchi molto vecchi.Torniamo a quella sera di tanti anni fa.Quanto c’era nelle buste?Era l’epoca della canzone: “Se potessi avere mille lire al mese…”. Qualunque fosse la somma, equamente divisa, doveva essere sicuramente abbastanza alta per il nostro modesto bilancio familiare. E la mamma aveva fatto grandi sacrifici per mettere da parte quel denaro.Così era, la mamma. Con le sue preghiere, le grazie chieste e ricevute, i lumini accesi, le novene e le tredicine, i suoi “patti segreti” con i Santi, e il suo rapporto particolare con Sant’Antonio….A quel tempo, proprio vicino ai vent’anni di Nico, non so se prima o dopo il compleanno, rivedo la mamma pregare con fervore davanti al quadretto di Sant’Antonio.In quei giorni, si parlava sempre più spesso di “una visita medica”.Perché, Nico, che andava ogni giorno a lavorare, aveva “un appetito da lupo”, come si diceva sempre in famiglia, e sembrava godere ottima salute, doveva andare dal dottore?Questa domanda si era posta subito la piccola Anna, poiché ormai lei ben sapeva che cosa vuol dire essere ammalati. Le venne spiegato il significato di quella particolare visita medica. Si tranquillizzò. Nico non era ammalato.Ed arrivò il giorno della visita.La mamma aspettava con ansia il ritorno di Nico.E lui tornò, mogio mogio. Come un cane bastonato. La mamma aveva già le lacrime agli occhi:- Ti hanno preso!- No, rivedibile!- Ma, allora, perché quella faccia? Sant’Antonio mi ha fatto la grazia! E lei non sapeva se piangere o ridere, per la gioia.E lui ripeteva: “Rivedibile! ”

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Anna non capiva bene il significato di quella parola, ma dal tono con il quale la pronunciava suo fratello, sembrava proprio una brutta parola, un grave insulto, un’offesa, qualcosa di cui vergognarsi.E, chissà… forse, per un giovane di vent’anni, in quel tempo, la mancanza di qualche centimetro alla misura regolamentare del torace, poteva essere vissuta proprio come una grande menomazione.In quel tempo. Quando si cantava: “Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza…” E un giovane, per essere tale, doveva essere bello, soprattutto forte, vigoroso, e…servire la Patria.Tali i canoni della gioventù di quell’epoca.E si sa, ogni epoca ha i suoi giovani e i suoi canoni.

S E C O N D A P A R T ES E C O N D A P A R T E

UN VIAGGIO MEMORABILE

Un anno dopo, inizio autunno 1942.Improvvisa ed importante riunione di famiglia, al gran completo: nonni e zii, tutti nella nostra cucina.Non era la sera di un Giorno di Festa, ma noi bambini eravamo in fermento, in attesa, come alla Vigilia di Natale.Quella sera, nella conversazione degli adulti, le parole più frequenti erano: guerra, bombardamenti, pericolo… ma, a queste se ne mescolavano altre molto più interessanti per noi bambini: treno, viaggio, tutti insieme…Per noi, quella sera era la vigilia di una grande avventura.Papà era il più deciso:- Voi donne, con i bambini, dovete mettervi al sicuro!

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Lo zio Raffaele era il più convincente:- Noi uomini sapremo cavarcela benissimo. Partite tranquille!La mamma era molto combattuta, in un mare di se e di ma:- E se, al mattino, Nico non si sveglia e arriva tardi al lavoro?- Non ti preoccupare, a lui ci penso io!Il tono del papà non ammetteva repliche, ma non tranquillizzava affatto il diretto interessato, che protestava:- Quando è necessario, mi sveglio anche da solo!E tutti sapevano che ci sarebbero volute le cannonate.La zia Maria era visibilmente contenta di condurre al sicuro i figlioletti ed anche di riabbracciare i suoi genitori e tutta la sua famiglia.Anche Lita parlava poco, ma sembrava veramente desiderosa di partire. I suoi grandi occhi neri forse già sorridevano ad un sogno segreto, e, con il pensiero, correva incontro ad un giovane cugino, conosciuto qualche anno prima.La nonna era la più ricalcitrante:- Perché devo partire anch’io? Non ho bambini. Io sto dove sta

lui.E guardava il marito, come se, proprio lui, fosse l’unico suo bambino.Il nonno si arricciava i baffi, con un gesto abituale:- Non ti preoccupare! Non vado da Giorgio! Lascio perdere

Losito! Avrò altro da fare…- e aggiungeva, tra il serio e il faceto - Devo pensare a loro!

E guardava figlio, genero e nipote, come se realmente avessero bisogno di tutte le sue cure.Qualche giorno dopo, nonna, mamma, zia Maria, Lita e noi bambini, eravamo in un soffocante scompartimento di un treno diretto verso il Sud.Io ricordavo il primo viaggio, quando con Lita mi divertivo a passare da un finestrino all’altro, e mi sarebbe tanto piaciuto giocare così con i miei cuginetti; ma non era possibile, tutto era diverso. Era difficile già soltanto muoversi, stipati in quel limitato spazio, impediti da valigie e pacchi, non tutti nostri, ma

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situati tra i nostri piedi. Non tutti nostri, ma di viaggiatori più sfortunati di noi.Noi eravamo veramente fortunati per aver trovato posto in uno scompartimento. La nostra, però, non era fortuna, piuttosto previdenza. Papà aveva organizzato il nostro viaggio, allungando il percorso, con un’unica coincidenza, indietro, a Nord, a Milano. Qui nasceva il treno che ci avrebbe condotto direttamente in Puglia.Per i viaggiatori che non erano saliti a Milano, la situazione era diventata via via più difficile. La maggior parte di loro stava in piedi, nel corridoio, o seduti sulle valigie, pigiati come sardine. Ad ogni stazione salivano altri viaggiatori e sembrava che nessuno mai scendesse.La zia Maria stava sgridando Vitino, poiché, in quel limitato spazio, poco agevole per qualsiasi azione, lui volgeva un continuo interesse per il borsone delle vettovaglie: tira giù, apri, richiudi, rimetti su… quando lui, tranquillamente, pronunciò la frase tanto temuta:- Mamma, devo fare la pipì.- Ecco, lo sapevo io! Hai voluto subito un panino, l’acqua, un

altro panino, il caffellatte …Siamo soltanto all’inizio del viaggio e tu devi già andare…

- Mamma, mi scappa! – insiste, imperterrito, Vitino.La zia Maria si alza con un sospiro, e si prepara alla difficile impresa.- Lita, vieni anche tu?- Sì, zia. E’ meglio andare tutti nello stesso tempo. Venite

anche voi, Anna, Roccuccio!- Vengo anch’io – dice la nonna.- E tu, mamma?- No; io, per ora, non ne ho bisogno. Anche se avesse avuto un bisogno impellente, non si sarebbe mossa. Non avrebbe mai lasciato incustoditi i colli. Anna aveva sentito nominare questa parola fin dalla sera prima della partenza, e subito non aveva capito che si riferiva a valigie, borse, borsoni, pacchi, tutti sistemati nella saletta

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d’ingresso, già pronti per la partenza dell’indomani. Da quel momento, questa parola l’aveva sentita ripetere più volte dalla mamma, che aveva contato e ricontato i colli, in casa, alla stazione di Genova, a quella di Milano, sul treno. Evidentemente era sua grande preoccupazione che qualcuno ne andasse smarrito o peggio venisse rubato. Forse, in lei era rimasto indelebile il ricordo di una brutta esperienza, avvenuta durante la Prima Guerra Mondiale, quando, profuga da Fiume, durante il viaggio le fu rubato tutto il corredo ricamato con le sue mani.In fila indiana, Lita in testa, seguita da zia Maria, noi bambini e nonna in coda, ci apprestiamo a guadagnare a palmo a palmo la distanza che ci separa dalla toilette. E’ un pigia pigia incredibile. Le persone sedute sui bagagli cercano di alzarsi, quelle in piedi s’incollano alle pareti, e quelli seduti o sdraiati sul pavimento non si muovono: bisogna scavalcarli. Lita e la zia si scusano con tutti, noi bambini, in fondo, ci divertiamo e vediamo soltanto il lato buffo della situazione, la nonna, invece, brontola:- Lo dicevo io! Avevo ragione a voler rimanere a casa! Finalmente, arriviamo alla meta. Quasi. Il gabinetto è occupato da alcuni soldati che dormono saporitamente: uno seduto sulla coppa, due, appoggiati agli zaini, sul pavimento.Lita e la zia sono veramente imbarazzate, ma qualcuno viene in loro aiuto. I giovani militari sono svegliati, e loro, assonnati, con voce impastata mormorano qualche scusa, si alzano e cercano di spostarsi in un altro limitato spazio già completamente occupato.Per ritornare allo scompartimento, è necessario superare gli stessi ostacoli dell’andata. E la situazione diventa veramente critica, quando, a metà percorso, incontriamo un gruppetto che sta movendosi nella direzione opposta. Sfiniti, raggiungiamo i nostri posti.Il peggio doveva ancora avvenire. Nella notte, la mamma fu colpita da una forma preoccupante di dissenteria. Accompagnata da Lita, ella dovette percorrere

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numerose volte, nelle due direzioni, quel corridoio! Non so quali fossero i pensieri, o i commenti, più o meno espliciti, degli sfortunati viaggiatori che, impropriamente, lo occupavano.Per la mamma fu sicuramente una delle più brutte notti della sua vita. Nei momenti di tregua, la sentivo pregare con fervore i suoi Santi preferiti, affinché l’aiutassero ad arrivare a vedere la luce del mattino e la fine del viaggio. Insieme con Sant’Antonio, era invocata anche la Santa dell’Impossibile, Santa Rita.In quella notte mi accorsi che mia sorella non era più la ragazzina che giocava con me alle Signorine, ma lei stessa era diventata una signorina, una giovane donna, capace di affrontare gli imprevisti di un viaggio e, credo, anche quelli della vita.

TRA ZII E CUGINI

Alla stazione di Molfetta, Anna guardava il treno, ormai semivuoto, che si allontanava verso Bari.Affacciati ai finestrini, la zia e i cuginetti si sbracciavano in un ultimo saluto.- Ciao… ciao!… – lei ricambiava con un pizzico di malinconia

nel cuore. Sulla pensilina, già altri parenti l’accoglievano in affettuoso abbraccio. Quanti zii e cugini avrebbe incontrato quel giorno! Ed ancor più numerosi nei giorni futuri.A otto anni, non ci chiediamo quali siano i diversi gradi di parentela, quali siano i vincoli, più o meno stretti, dell’uno o dell’altro, né cerchiamo di addentrarci nell’intreccio, spesso intricato, in cui gli uni sono legati agli altri. A quell’età, tutti i parenti giovani sono cugini, gli altri sono zii. Negli episodi più importanti di quella nostra permanenza a Molfetta, furono quasi sempre presenti zii e cugini.Del soggiorno precedente, Anna ricordava bene la zia Margherita e i cugini Cicetta e Minguccio. Purtroppo, la prima non c’era più ed aveva raggiunto la Nonna della Fotografia; i

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secondi, invece, erano venuti alla stazione assieme ad un giovane cugino, Tonino, fratello di Cicetta. Di lui, Anna aveva un vago ricordo, ma, sicuramente, più vivido ricordo ne aveva sua sorella Lita.Ancora una volta, Cicetta e Minguccio si erano organizzati per ospitarci nel modo migliore possibile.La nostra futura dimora era poco distante dalla Stazione. Era molto diversa dalla vecchia casa della zia Margherita ed anche da quella precedente dei cugini.Cicetta e Minguccio abitavano al secondo piano di una costruzione, a quel tempo nuova; al primo piano abitava la zia Sabina, con Tonino. Questo appartamento era stato messo a nostra completa disposizione, con quello squisito senso dell’ospitalità che è insito nelle antiche genti del Meridione. Mamma e figlio si trasferirono a tempo indeterminato presso Cicetta e Minguccio.Ad Anna piacque subito la nuova casa. Poggiolo e finestre guardavano sulla strada, ma la parte più interessante era il cortile, ampio e luminoso, sul quale si aprivano le porte degli appartamenti. I ballatoi, sia del primo che del secondo piano, erano simili a terrazzini che correvano lungo tutto il perimetro interno.Era divertente giocare su questi ballatoi, fare la spola tra quello superiore e quello inferiore e saltellare sulle scale che mettevano in comunicazione l’appartamento dei cugini con quello della nostra cara ospite, zia Sabina. Io la ricordo come la vidi il primo giorno. Era una donna minuta, capelli neri, lisci tirati indietro e raccolti in una piccola crocchia; vestita di scuro, si moveva quasi senza far rumore, e sembrava si scusasse per la sua presenza; timida e dolce, parlava a bassa voce, in un dialetto malamente italianizzato. Eppure, nella sua semplicità, aveva una dote che tanto mi affascinava.Zia Sabina sapeva raccontare. Lunghe, lunghissime storie, che non aveva mai letto, perché non sapeva leggere. Le aveva apprese oralmente, come si usava nel tempo antico.

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Io stavo ad ascoltarla, incantata. Anche la stessa storia, più volte.Più tardi, in quelle narrazioni, in forma semidialettale, i cui personaggi avevano nomi familiari nella nostra lingua, riconobbi alcuni tra i racconti più famosi della letteratura mondiale, come “Le Mille e una Notte”. In particolare, ricordo che nella fiaba “La Lampada di Aladino”, il ragazzo si chiamava Antonio ed il Mago era un Compare cattivo.Cicetta e Minguccio, erano semplici e gioviali. Con loro presi subito molta confidenza. Con loro era facile ridere e scherzare. Il primo a dare il benvenuto alle “genovesi” fu lo zio Vito, e molto frequenti furono, in seguito, le sue visite.Quel primo giorno, Anna aveva raccontato tutte le peripezie del lungo viaggio. E lui si era divertito un mondo. Più volte, nelle visite successive, aveva chiesto alla bambina di ripetere quel racconto. E lei non si faceva certo pregare; anzi, a sua volta, si divertiva a rifare quella cronaca, sempre precisa, senza cambiare mai una parola. Lo zio rideva come un bambino, in particolare per l’episodio del gabinetto occupato dai soldati addormentati.Anche lo zio Vito parlava in una forma semidialettale, eppure era un piacere ascoltarlo. I suoi racconti, di vita vera, erano sempre molto vivaci, pittoreschi. Anna non si stancava mai al suo narrare. Interessanti erano le avventure in terra lontana, l’Argentina, dove, da giovane, era andato a lavorare; ma bella e vivida era anche la descrizione del suo piccolo podere dove ancora lavorava: ogni zolla di quella grassa terra era stata coltivata, e ad ogni stagione era tutta una gioia di profumi e colori, dal rosso intenso dei pomodori succosi, che si mangiano anche senza sale e senza olio, al verde brillante dei fichi che piangono lacrime di zucchero.Alcuni episodi erano divertenti, originali. In particolare, ad Anna piaceva quello dell’occhio e dello zucchero. Un giorno zio Vito tornò dalla campagna con un occhio tutto gonfio ed arrossato. La zia Marietta si prodigò con tutte le cure empiriche del caso, cioè risciacqui ed impacchi di vario genere,

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tenendo in buon conto anche tutti i consigli di vicine e comari. Tutto fu inutile. L’occhio era sempre più arrossato, gonfio e dolorante.A mali estremi, estremi rimedi. La zia Marietta pensava che ormai fosse giunto il momento di rivolgersi al dottore. Ma di questo parere non era il marito.Con un cartoncino, zio Vito fece una specie d’imbuto, lo riempì di zucchero e lo pose sull’occhio tumefatto, cercando, con le dita, di aprire il più possibile le palpebre. A questo punto, chiese a zia Marietta di eseguire un’azione alla quale ella si opponeva decisamente.- Soffia! Soffia! Tu non ci pensare… Soffia! E la moglie, infine, cedette e soffiò.L’occhio si riempì di zucchero ed incominciò a lacrimare come una fontanella, inarrestabile. La zia Marietta, pur non essendo una donna particolarmente impressionabile, in quell’occasione era veramente spaventata.La copiosa lacrimazione alfine cessò. E l’occhio terso, limpido, ritornò bello e sano più di prima.La mamma, ascoltando questo racconto, era più impressionata della zia Marietta, che l’aveva vissuto. Arrivato al lieto finale, gli domandò:- Ma come ti è venuta una simile idea?- In Argentina, il veterinario aveva curato in questo modo l’occhio di un nostro cavallo. Allora io mi son detto: “Se va bene per il cavallo, va bene anche per me.” E così è stato. E così era questo zio, fratello di papà, tanto diverso da lui nel fisico e nel carattere. Tarchiato, il volto cotto dal sole, privo di ogni conoscenza libresca, ma solo ricco di esperienza. Originale, imprevedibile, avventuroso, spericolato, quanto papà era metodico, preciso, sempre affidabile e previdente.Zio Vito aveva un volto rugoso, ma un cuore di fanciullo, e, forse proprio per questo, ha sempre occupato un posto speciale nel mio cuore.

PAESE CHE VAI…

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In quel tempo, molto diversi erano usi e abitudini a Molfetta, cittadina del Sud. La nonna, benché avesse trascorso i primi sedici anni della sua vita nella Puglia, tuttavia incontrava grande difficoltà a riadattarsi alle usanze della sua terra di origine.La mamma, nata a Bari, ma vissuta sempre nel Nord, dall’infanzia alla giovinezza a Fiume, e poi in Liguria, aveva tuttavia maggior spirito di adattamento.Lita non si poneva il problema. Stava vivendo forse la più bella stagione della vita. Aveva incontrato l’amore.Anna, curiosa, con un piedino sempre avanti, era tutta tesa a scoprire nuovi mondi, nelle persone e nelle cose che la circondavano. Eppure, i ricordi dei suoi verdissimi anni già serbava in uno scrigno segreto; gemme preziose, adagiate nelle delicate trame della memoria, avvolte nella nebbiolina azzurra della lontananza. E, se apri quello scrigno, anche solo un poco, il mondo assopito nei veli del sogno, ritorna a vivere, con i colori e i profumi di un tempo passato, con la potente magia della parola. Talora, come saetta improvvisa in un cielo sereno, o come un’onda lenta e dolce, ti afferra la nostalgia. Forse, un po’ ti fa male. Sono momenti, e passano. Così era allora, così sarà poi, sempre, per Anna.L’appartamento della zia Sabina non era molto grande, e seppur dotato di acqua corrente e di un minuscolo gabinetto, sicuramente richiedeva, da parte dei nuovi occupanti, un buon spirito di adattamento, e per il dormire e per tutte le faccende domestiche.La nonna rimpiangeva soprattutto il letto di casa sua, che era più soffice, più basso e più maneggevole. Lei era abituata a rivoltare sovente morbidi materassi di lana; manovra impossibile con un pesantissimo, alto, rigido blocco di crine.La mamma, invece, si era abituata a tutto. A quasi tutto. Anche alla mancanza della cucina a gas.In quella casa c’era uno strano marchingegno, che aveva molto incuriosito Anna, da lei mai visto prima e mai più rivisto dopo.

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Era il cosiddetto fuoco a vapore. Il fornello era situato in una specie di nicchia. Alimentato dal carbone, era di facile accensione e mantenimento. La sua caratteristica principale consisteva in una sorta di serranda scorrevole che veniva chiusa come una tapparella. Il fuoco prendeva bene e senza ripensamenti. Niente fumo.Zia Sabina, velatamente, a misura della sua espansività, faceva trapelare il suo giusto orgoglio per questa confortevole novità di una casa, per quel tempo e quel luogo, moderna.C’era soltanto un’usanza, che la mamma non riusciva proprio ad accettare. A dire il vero non credo che fosse proprio un’usanza locale (almeno non in quei termini), ma piuttosto un’abitudine entrata in uso per “il buon cuore” e la disponibilità senza riserva di zia Sabina. Esternamente, nella toppa della porta d’ingresso, che si apriva direttamente in cucina, veniva lasciata la chiave.Le vicine bussavano e, contemporaneamente, entravano a qualsiasi ora del giorno.- Buon giorno! Permesso… Uno sguardo alla parete dove erano appesi coperchi, pentole, padelle e recipienti vari.- Prendo questo…Più tardi lo riporto. E più tardi, aprendo ancora con la chiave, la vicina di turno riportava l’oggetto, e magari, senza invito a sedersi, tranquillamente si accomodava per fare due chiacchiere.La mamma che aveva, fortissimo, il senso del privato, non riuscì a sopportare questa abitudine. Con delicatezza, pregò la zia di togliere la chiave dalla toppa.Le vicine, pur dovendo bussare ed attendere che la porta fosse aperta, continuarono comunque a venire, facendosi imprestare ogni attrezzo della cucina, e non solo, ma anche barattoli vari, e sale, pomodori, limoni, alloro, cipolle, aglio, origano… e i più svariati oggetti, compresi ago e filo.Cara zia Sabina, tutti si approfittavano di te. Così pensavo già allora, anche se ero soltanto una bambina che iniziava a frequentare la terza elementare.

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I primi giorni di scuola furono, per Anna, l’ostacolo più duro da superare.La classe era oltremodo numerosa. Le compagne parlavano tra loro un dialetto stretto, di cui Anna non riusciva a capire una parola. La maestra era una donna grossa e paciosa a vedersi, ma molto severa in realtà. Aveva una bacchetta, che non serviva solo per segnare monti e fiumi sulla cartina d’Italia, ma anche per punire le scolarette indisciplinate o quelle che commettevano errori più o meno volontari.Un brutto giorno, Anna, tornando dalle lezioni a capo chino, non volle spiccicare una parola con sua sorella.Grosse lacrime bruciavano negli occhi, i palmi delle manine arrossati, un fuoco cupo, sconosciuto, bruciava nel suo cuore.- Non voglio più andare a scuola! – dichiarò subito, alla

mamma.- Perché? Che cosa ti è successo? Proprio tu…- La maestra mi ha dato dieci bacchettate sulle mani perché non riuscivo a trovare i nomi sulla cartina! La mamma seppe consolare la sua piccola sdegnata, offesa per un trattamento che sentiva oltremodo ingiusto.L’indomani, Anna fu accompagnata a scuola, non da Lita, ma dalla mamma. La maestra trovò soltanto parole di elogio per la nuova scolaretta, soprattutto per la buona condotta, e trovò anche parole di scuse per il proprio comportamento, severo e del tutto normale per le altre bambine, che, a suo dire, non facevano caso alle bacchettate né, tanto meno, ai rimproveri.L’episodio non ebbe più a ripetersi. Anche perché quella maestra venne ben presto sostituita da una giovane e gentile signorina. Elisa si chiamava. Era buona, comprensiva e simpatica.Per molti anni le inviai, da Genova, gli auguri per Pasqua e per Natale.

LE ORE E I GIORNI

Laggiù la vita scorreva con un ritmo diverso, più lento.

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Lo svolgimento del lavoro, l’ora dei pasti, ogni azione sembrava protrarsi nel tempo, tranquillamente. La siesta del pomeriggio era consuetudine per tutti, o, almeno, così sembrava. Nelle prime ore pomeridiane le strade erano deserte. I negozi aprivano molto tardi.La mamma aveva preso l’abitudine di andare a comperare verso sera. Anna l’accompagnava volentieri, specialmente alla bottega dell’ortolano. Al banco una giovane bruna, dai grandi occhi neri e il sorriso simpatico. Su mensole lungo le pareti laterali e sul pavimento in ordine sparso, in cassette e cestini, erano disposti i buoni prodotti della terra, coltivati dal padre della bella signorina. L’odore delle verdure fresche, il verde dominante, il giallo nei sui caldi toni, il rosso nelle sue vivaci sfumature, il profumo intenso dei frutti, erano tutto un piacere per gli occhi, un invito ad assaporare. La signorina donava sempre qualche delizioso frutto di stagione alla bambina, e lei, per quel dono gentile, aspettava pazientemente la fine della spesa. A volte, Anna e la mamma uscivano dalla bottega anche alle dieci di sera. A quell’ora, se il tempo era bello, nelle strade c’era un gran movimento, il passeggio.Cicetta con Lita, Tonino, e spesso anche Anna, a quell’ora erano fuori a passeggio, andavano al salone ad aspettare Minguccio. Terminato il lavoro, tutti insieme ritornavano a casa per la cena. Non mancavano mai sulla tavola l’insalata di pomodori, conditi con olio dal sapore deciso, poco sale, e origano dal profumo intenso.- Mamma, come sono buoni!- E’ vero! Ne vuoi ancora?- Sì, mi piacciono tanto! Anna non dimenticò mai il gusto speciale di quei pomodori.A Genova, da alcuni mesi, Anna mangiava di malavoglia.Il tesseramento alimentare, sempre più restrittivo. Il costo sempre più caro di ciò che si poteva comperare liberamente, aveva ridotto moltissimo le possibilità, da parte della mamma, di preparare piatti gustosi.

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Pastasciutta e risotti erano quasi completamente sconditi, e senza formaggio. La razione del grana veniva lasciata tutta a Lita, perché, senza quella spruzzata bianca e profumata, non riusciva a mandar giù né pasta né riso. Quando si era imposta di fare ciò, il tentativo era stato un vero fallimento: fortissime coliche per molte ore.Le minestre erano sempre più lunghe, brodaglie nelle quali navigavano pochi ortaggi che sembravano capitati lì per caso.Tutto era scarso. Pane scuro, che era davvero un lontanissimo parente di quello integrale che oggi fa bella mostra nelle panetterie.A Molfetta, Anna aveva ritrovato l’appetito.Sicuramente, la tessera alimentare era in uso anche là. Ma si notava poco. Tutto ciò che era carente, veniva ampiamente sostituito da altri prodotti ortofrutticoli, abbondanti e di basso costo.Olive nere e verdi, piccole, grandi, raggrinzite dal sale, immerse nella salamoia, conservate nel coccio o nel vetro, nei più svariati modi, erano un piacere per gli occhi e per il palato. Una delizia, per me insuperabile, era la pricoprac. Rivedo il cucchiaio di legno che si cala lentamente in un grande vaso ricco di colori: peperoni rossi, verdi, gialli, tagliati a quadrucci, stipati nell’olio e profumati dalle erbe. Rivedo il cucchiaio che risale e versa il contenuto nel piatto. Al solo ricordo mi viene l’acquolina in bocca.Nell’attesa del tardo pasto serale, mentre la nonna e la zia Sabina recitavano il Rosario intero, con quindici misteri, gaudiosi, dolorosi e gloriosi, seguiti da lunghissime litanie, io mangiavo un piattino colmo di lupini, gialli, polposi, e con un gusto mai più ritrovato nei cartocci, comprati alle fiere, negli anni futuri.Il pane era anche là razionato, scuro e…immangiabile. Aveva tutti i difetti dell’altro e, ancor peggio, era gommoso.Credo di averlo assaggiato, solo una volta. La zia Marietta mi regalava sempre delle generose forme di pane bianco, fatto in casa.

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- Zia, che buon odore ha questo pane! E’ ancora caldo.- Sì, è appena arrivato dal forno.In quel tempo, nella cittadina pugliese, numerosi erano i locali adibiti a forno. Era frequente, allora, girare l’angolo di una via e sentire subito la fragranza calda ed invadente di un forno; oppure incrociare alcuni ragazzini, in genere in coppia, una lunga asse sul capo, con sopra pani e focacce.Per Anna, il Forno era un luogo dal fascino arcano. Il locale, subito poteva sembrare l’antro oscuro della Strega Cattiva. Su un lato, fascine di legna accatastate, sull’altro lato, la nera carbonella; sul fondo, quasi rasente il pavimento, un grande fuoco, alimentato dal mago di turno. L’uomo dalla lunga pala, sposta, gira, sistema, tutt’intorno al fuoco, la cenere, i tegami di patate e cipolle, le focacce con i pomodori, i cocci con i legumi. E’ tutto un miscuglio di odori: alloro, fagioli, origano, ceci, legna, cipolle, fave, aglio si mescolano e si spandono nell’aria calda, che sa di buono, di antico.In quei primi mesi nel Sud, grande era la differenza con gli ultimi tempi nel Nord.Non solo niente allarmi e bombardamenti, e lo scorrere di una vita tranquilla, ma anche il ritrovato piacere di sedersi a tavola.La Guerra sembrava veramente lontana.

PAPA’ RACCONTAVA

Ogni quindici giorni, arrivava da Genova un rettangolo di carta rosa che aveva il potere di spianare una ruga che, sempre verso la fine della quindicina, appariva sulla fronte della mamma.Papà era sollecito, non solo nell’inviare il vaglia per il nostro sostentamento, ma anche nello scrivere lunghe lettere.- E’ arrivata posta… una lettera di papà!- Aprila e leggila tu…piano, però, non ti mangiare le parole!E noi tutti intorno a Lita, ad ascoltare.La lettera incominciava sempre con “Cara Lucia”, e poi , proprio rivolto a lei, seguiva un rimprovero. Sempre lo stesso. La mamma era in ritardo nelle risposte. Perché?

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Io penso che in parte fosse dovuto a quel ritmo di vita, al quale anche lei si stava abituando, per cui, quello che non si riesce a fare oggi, si può rimandare a domani; in parte perché non aveva molta dimestichezza con la penna. Lei amava parlare, e sapeva raccontare con dovizia di particolari come pochi altri, ma trovava faticoso scrivere, specialmente all’inizio. Poi, si lasciava trascinare dal flusso delle parole, e la sua diventava una lunga cronaca particolareggiata.Papà era un uomo di poche parole, mirava sempre all’essenziale, ma anche lui, seppur lo facesse di rado, sapeva narrare.La piccola Anna gli chiedeva sovente di raccontare una lunghissima fiaba che iniziava così: “Chi fa male riceve male, chi fa bene riceve bene…” Più grandicella, ascoltava con grande interesse episodi della Prima Guerra Mondiale, quando lui era al fronte. Erano storie di acqua, vento, freddo, fame… e di topi più grossi dei gatti; e di poveri capi di biancheria buttati alle fiamme perché infestati dalle cimici. Storie di varia umanità, di tradimenti e generosità; di amore per i cavalli, di resistenza dei muli e degli uomini.- Papà, mi racconti di quella volta che arrivasti primo sulla

collina?- Eravamo stanchi, bagnati; avevamo camminato a lungo nel

fango e pensavamo fosse giunto il momento di riposare, almeno un poco, sull’umida terra. Ma il Tenente, rivolgendosi a noi come a dei cari fratelli, ci incoraggiò a continuare: prima dell’alba, dovevamo portare, con l’aiuto dei muli, tutti i pezzi dell’artiglieria sulla collina! E non si trattava di un solo viaggio, ma di andare su e giù numerose volte. Molti miei compagni facevano lunghe soste, all’andata e al ritorno. Io, sempre con lo stesso passo, senza fermarmi, terminai per primo la lunga fatica notturna. L’elogio del Tenente e un grande boccale di birra furono il premio. Anche agli altri compagni, al termine, fu offerta la birra. E credo che mai come allora noi provammo piacere nel dissetarci con quella bevanda.

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- Papà, e quando avevi insegnato ai tuoi compagni a salire a cavallo?

- Quello accadde prima.- Ma era davvero tanto difficile?- Eh, sì! Per alcuni, sì! C’era un compagno che saliva da una

parte e ricadeva dall’altra, oppure …si ritrovava con la testa dalla parte della coda!

E Anna rideva. A lei piaceva tanto anche l’episodio della polenta.In verità, l’inizio di questo episodio non è molto edificante.Un alto ufficiale aveva dato ordine al Tenente di dirigersi in una direzione completamente sbagliata. Dopo giorni di marcia forzata, terminate tutte le provviste, il Tenente aveva capito di essere stato vittima di un tradimento. Poteva e sapeva guidare i suoi uomini nella giusta direzione, ma loro erano troppo stanchi ed affamati.Erano giunti in un villaggio abbandonato da uomini e animali. In una cascina sperduta, però, razzolavano ancora delle galline. Dentro trovarono un sacco di farina gialla. Un grido di esultanza si levò compatto da quei poveri soldati.Alcuni commilitoni bergamaschi ritornarono subito in forze, e , adocchiato un grande paiolo, si presero l’incarico di ben usare il contenuto del sacco. Altri si diedero da fare con i polli, e altri ancora ad accendere il fuoco. Ma era il Tenente a dirigere le varie fasi delle operazioni, e la sequenza da seguire nel pasto. Prima, a ciascuno, fu riempita una gavetta di brodo, da bere a piccoli sorsi, poi ricevettero la loro razione di carne e di polenta fumante.Anna pensava spesso al suo papà, ai suoi racconti e ai suoi silenzi, al suo sguardo affettuoso e senza parole. E quando arrivava la lettera da Genova, lei, felice, ascoltava Lita che leggeva ad alta voce.“…Cara Lucia, qui va tutto bene. La sera, noi mangiamo tutti insieme. Nico ed io andiamo a casa solo per dormire. Tuo padre si occupa della spesa e fa degli ottimi rammendi alle calze. Raffaele prepara la cena, lava e stira. A noi hanno

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lasciato poche incombenze: Nico ed io ci alterniamo a lavare i piatti. L’altra sera è accaduto che…” E seguiva il racconto di qualche episodio buffo. Papà non ci inviava mai cattive notizie. Soltanto qualche cenno allo svolgimento degli avvenimenti bellici. Infine, anche volendo, poco avrebbe potuto dire, per lettera, poiché la posta era soggetta alla c e n s u r a.

IL VOCABOLARIO DI LATINO

Tonino veniva tutti i giorni, più volte al giorno, a trovarci: più esattamente, veniva a trovare Lita.Arrivava sempre con i libri sotto il braccio. Tonino studiava privatamente, per ricuperare gli anni perduti a fare il garzone nel Salone di Minguccio. Al ragazzo non piaceva quel mestiere, e, dopo la morte del padre, la zia Sabina aveva accondisceso a fargli continuare gli studi.Anna era incuriosita da un grosso volume che più frequentemente lui portava. - Tonino, perché quel libro è metà bianco e metà rosso?- Perché così è più facile trovare le parole.- Come nell’enciclopedia?Anna ricordava due pesantissimi volumi, nei quali, Nico e papà cercavano le parole difficili.- No, questa non è un’enciclopedia. E’ il vocabolario di latino:

in una metà ci sono le parole in italiano con le parole corrispondenti in latino, nell’altra metà viceversa.

- Ma il latino è una lingua come il francese? (Da Nico aveva sentito nominare spesso il francese).

- No, è una lingua che non si usa più, una lingua morta.Tonino, sicuro di aver soddisfatto la curiosità della bambina, già volge il suo interesse in altra direzione; Anna, invece, si sta chiedendo perché mai si debba studiare una lingua che non si usa più. E quale popolo aveva usato quella lingua? Apre la bocca per fare un’altra domanda, ma poi tace. Tonino e Lita stanno parlando tra loro a bassa voce.

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Più tardi, chiederà a sua sorella.- Il latino? E’ la lingua che parlavano gli antichi Romani.

Quest’anno studierai la loro storia…- Ma, già un po’ la conosco, la storia di Roma. E’ quella con le

belle illustrazioni?- Sì, quella.Ora, il latino acquista subito un’altra importanza Le due sorelle ripensano entrambe a tante sere d’inverno, quando si divertivano a sfogliare La Storia d’Italia. La piccola Anna non sapeva ancora leggere, ma era affascinata dalle figure.A suo tempo, papà aveva comperato i numerosi fascicoli. La raccolta di questa Storia Illustrata era stata molto apprezzata da tutta la famiglia. Anna, fin da piccola, conosceva la Leggenda di Romolo e Remo allevati dalla Lupa. Lita, al tempo delle elementari, era orgogliosa di portare a scuola, di volta in volta, il fascicolo con l’argomento che veniva trattato, quel giorno, dalla maestra. Alla mamma piaceva tanto l’illustrazione che rappresentava Cornelia con i due figlioletti, mentre dice, alle altre matrone: “Ecco i miei gioielli! ”“La Storia d’Italia”, “L’Enciclopedia Sonzogno”, “I Miserabili”, “I tre Moschettieri”, erano allora i gioielli della nostra biblioteca familiare, di cui faceva parte anche una gemma preziosa, l’opera che, con una sorta di fascino pauroso, più di ogni altra attirava la piccola Anna: “La Divina Commedia”, illustrata da Gustave Doré.

GIRA E RIGIRA

In autunno inoltrato, molte giornate erano ancora belle, non faceva freddo, era piacevole andare a passeggio.Lita e Tonino sarebbero andati volentieri un po’ in giro da soli. Cicetta, però, aveva fatto chiaramente capire che non stava bene. Per la gente! Allora, la mamma mandava con loro anche Anna.La bambina si annoiava. I due giovani, a braccetto, parlavano sempre fitto fitto tra di loro; a lei Lita dava la mano

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distrattamente. E lei si sentiva trascurata. Perché doveva andare con loro? Sicuramente avrebbero fatto a meno della sua presenza, specialmente Tonino. E lui glielo dimostrò, ma in un modo molto simpatico.Un bel viale, tra due lunghe file di oleandri, dalla casa portava direttamente alla Villa, i giardini pubblici. Già da lontano si udivano gli allegri suoni di una musichetta: era arrivata una piccola giostra.Tonino aveva scoperto che ad Anna piaceva molto quel divertimento.- Vuoi fare un giro?- Sì, mi piacerebbe…E alla fine del giro:- Vuoi farne un altro?- Sì, sì!E così, un giro dopo l’altro, Anna si divertiva un mondo, mentre il suo futuro cognato, finalmente poteva stringersi più vicino alla fidanzata, al calar delle prime ombre dell’imminente sera.

IN VISITA

A me sarebbe piaciuto andare a passeggio con la nonna, come quando, piccola chiacchierina, nelle sere di maggio mi conduceva a casa sua; ma la nonna, fin dall’inizio del nostro soggiorno nella cittadina meridionale, aveva sempre da brontolare per qualcosa, e parlava sempre più insistentemente di voler tornare a Genova. E non aveva voglia di uscire. Preferiva stare con la zia Sabina a recitare le preghiere della sera. Se io rimanevo con loro a rispondere “Ora pro nobis”, ad interminabile litanie, poi, la zia Sabina mi raccontava qualcuna di quelle storie che tanto mi piacevano.La mamma, invece, sentiva il dovere di fare visita ai parenti più anziani. I parenti erano molti, e le visite anche. Volentieri io andavo con lei.Riflessi dorati sui bianchi muri, sulle porte di legno, qua e là sverniciate, sul consunto selciato. Nel tramonto del tardo

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novembre, camminano nella vecchia strada la mamma e la bambina.- Dove andiamo?- A trovare una zia che ti piacerà.- Come si chiama?- Il nome veramente non lo so. Tanti anni fa, papà me l’ha

presentata come la Zia Minore. E qui tutti la chiamano così, ma io le ho dato un altro nome, e così l’ho sempre ricordata. Per me è la Zia del Bel Sant’Antonio.

- Perché?- Tra poco lo capirai.Due gradini per arrivare ad una porta, metà legno e metà vetro. La mamma bussa. Una mano minuta, rugosa, scosta lentamente una deliziosa tendina di filo. La porta viene subito spalancata.Ad accogliere le visitatrici, sulla soglia, appare una linda vecchietta: vestito scuro con colletto bianco ricamato, capelli ancora neri, ben pettinati, raccolti a crocchia sulla nuca, occhi piccoli, intelligenti, e un sorriso aperto.Scesi alcuni gradini, si accede direttamente ad un locale adibito a molteplici usi.Quando ripenso a quella stanza, ricordo la mia prima impressione: odore di cose antiche, ben conservate. Canfora, sapone, spigo, era il miscuglio predominante. Non un granello di polvere, tutto lindo, delicato, come colei che vi abitava. Ricami e pizzi ovunque, centrini di varie forme, coprisedie, cuscini, tendine. Semplici mobili in un ambiente non molto spazioso: un tavolo rotondo, alcune sedie, una poltroncina, una credenza. Il pezzo forte di quell’arredamento era costituito da un cassettone intarsiato. Sopra, ingiallite dal tempo, alcune fotografie su cartoncino rigido, al centro una grande campana di vetro: nella campana una statua di Sant’Antonio. Il volto del Santo era stato finemente modellato, secondo i migliori canoni delle immagini sacre, accentuando la delicatezza dei lineamenti e la purezza dello sguardo.

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Incantata davanti al cassettone, comprendevo in quel momento perché la mamma aveva soprannominato la padrona di casa “ la Zia del Bel Sant’Antonio”.Io, però, l’avrei anche chiamata “ la Zia dei ricami, rosoli e bonbon”. Infatti, ogni volta che apriva le antine della credenza, sulle mensole, adornate con preziosi merletti, apparivano, in bell’ordine: eleganti bottiglie dal collo lungo, anfore iridescenti, vasetti di vetro scuro, scatole di porcellana, tonde e ovali, con i coperchi decorati da roselline o fiorellini azzurri. Ogni contenitore racchiudeva una delizia.Noi andavamo sovente a far visita a questa zia. E ogni volta, in piccoli bicchieri dal bordo dorato, versava per lei e per la mamma, un rosolio, ora ambrato, ora di liquido smeraldo, oppure due tonde ciliegine immerse in spirito color rubino. E per me? Sollevati i coperchi di porcellana decorata, nelle bomboniere apparivano chicche di vario colore e gusto: confetti rosa, bianchi o celesti, mentine piccole e grandi, caramelle e torroncini. E poi, scoperchiata una scatola rotonda di latta, decorata con le damine nel bosco fiorito, apparivano dei dolcetti deliziosi, fatti in casa, con le mandorle.Odore di anice, limoncello e maraschino, zucchero, miele e cannella, si diffondeva in quell’aria che sapeva di antico. Poche volte, negli anni a venire, ho ritrovato un’atmosfera come quella, che mi portava lontano, in un tempo in cui non ero ancora nata.Mi piacevano le visite frequenti alla Zia del Bel Sant’Antonio, e non soltanto perché mi coccolava con chicche e dolcetti.Lei mi parlava del mio papà, di quando lui era bambino. E non lo chiamava Antonio, ma con il nomignolo: Ruruccio.Era strano pensare al papà, uomo alto, serio, pensoso, come ad un piccolino di nome Ruruccio!Eppure, anche lui era stato bambino, aveva giocato con i suoi cuginetti, aveva combinato le sue marachelle. Mi raccontava la zia, che un bel giorno di fine estate, Ruruccio e il suo fratello minore, Bartolomeo, andavano con tutta la famiglia a vendemmiare.

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I due bambini dovevano camminare davanti al fratello maggiore, Ilarione, e alla di lui fidanzata. I piccoli forse si annoiavano, come io con Lita e Tonino, o forse, proprio per amor di gioco, non trovarono miglior passatempo che prendere due bastoncini e farli scorrere nella strada assolata di campagna. In breve tempo, i due giovani fidanzati furono ricoperti, dalla testa ai piedi, di sottile polvere bianca.Ilarione era il più paziente dei fratelli, ma, in quell’occasione, ai due birichini non rimase che correre a perdifiato nel caldo sole del settembre pugliese.

SAN NICOLA

Si avvicinava il Natale.Anna si sorprendeva a pensare sempre più spesso a Genova, agli anni della sua primissima infanzia.Come sembrava lontano quel tempo! Quando, per la ricorrenza natalizia, si riunivano tutti nella casa dei nonni, la festa era ancora più bella, e per i bambini durava anche quindici giorni. La piccola Anna trascorreva assieme ai cuginetti alcuni giorni prima del Natale e tutti quelli seguenti, almeno fino alla Befana. E che bei giorni erano, quelli!La nonna, aiutata dalla zia Maria, passava molto tempo ad impastare. I bambini stavano sempre tra i piedi, e, per acquietarli, veniva loro promessa un po’ di pasta da mettere a cuocere sulla piastra della stufa.La piccola Anna voleva essere sicura che la nonna preparasse tre piccoli tondi, il Pianeta, la Sorte e la Fortuna, da mescolare alle orecchiette, per divertirsi a scoprire in quali piatti sarebbero andati a finire, nel giorno della Festa. Un denso sugo, cotto a fuoco lento nella creta e abbondante formaggio grana avrebbero condito quelle orecchiette, piatto importante del pranzo di Natale.Per i bambini, la nonna preparava anche piccole focacce salate da mangiare appena sfornate; e poi tanti dolci: quelli con mandorle e cannella, e i taralli sodi, aromatizzati col finocchio,

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da intingere nel vino bianco, o quelli più morbidi, con la glassa bianca, e quelli dolcissimi, fatti con ritagli di pasta , fritti e ricoperti di sciroppo a base di miele caramellato.Anna rivedeva la nonna, con le mani nella farina che lavorano rapide ed esperte, la sua vestaglia a fiorellini, il grembiule bianco, il fazzoletto, a quadri bianchi sul fondo blu, legato dietro la nuca, il volto accaldato per la fatica e la vicinanza della stufa rovente.

Anna ripensa a quei giorni felici. E sente tanta nostalgia per la nonna lontana. Infatti, come aveva in mente fin dall’inizio, lei era ritornata a Genova.Anna apre il vecchio armadio della zia Sabina. Abbandonato sul fondo, c’è un collo di pelliccia di colore indefinibile, tra il bruno e il rossiccio: l’ha dimenticato la nonna. Lo metteva sempre, nelle giornate rigide d’inverno, sul suo cappotto blu.Anna stringe il pellicciotto al cuore, mentre un nodo le stringe la gola. Non vuole piangere.La bambina sale di corsa le scale e bussa alla porta dei cugini. Cicetta viene ad aprire, ma non la invita ad entrare:- Non puoi venire. Tonino sta studiando il latino e non vuole

essere disturbato.- Ma io non vado da lui. Voglio stare con te.La cugina Cicetta, sulla soglia, un po’ imbarazzata ma con gli occhi ridenti, accondiscende:- Va bene. Prima, però, va dalla zia Sabina e dille che ti dia un

po’ di “trattiin”.- Che cos’è?- Tu chiedilo, lei sa che cos’è.La bambina ridiscende di corsa le scale e chiede alla zia quello strano ingrediente di cui ha bisogno Cicetta. E la zia capisce subito di che cosa si tratta e si mette di buona lena a cercarlo, ma non riesce a trovarlo. - L’hai forse imprestato a qualcuno?- No, no! Vedrai che ora lo trovo…Ma perché, anche a lei, ridono gli occhi?

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Poco dopo, scende Tonino a chiamare la bambina.- Cicetta voleva…- Vieni ! Non ne ha più bisogno.Perplessa, Anna segue il cugino. E la zia Sabina va con loro.Nella sala ci sono anche la mamma e Lita, che erano uscite insieme qualche tempo prima.Sul tavolo, ricoperto da una bianca tovaglia ricamata, fanno bella mostra alcuni piatti con i dolci preferiti dalla bambina, quelli scuri dal buon profumo di cannella, quelli morbidi di pasta reale, le mentine grandi come un soldo, di tutti i colori, e monete di cioccolato, ricoperto con carta dorata. Inoltre, c’è una bella scatola di cartone rosso: dentro, c’è il gioco dell’Oca, illustrato con le avventure di Pinocchio.Anna, sempre chiacchierina, rimane letteralmente senza parole davanti a tanti bei dono inaspettati. Non capisce. Tutti sorridono per la sua confusione.Cicetta spiega:- Oggi è il 6 dicembre. Qui, San Nicola porta i doni ai bambini.Anna comprende che i suoi cari parenti hanno rappresentato per lei San Nicola. Ringrazia tutti, abbracciandoli con effusione. E’ felice.Poi, le ritorna improvvisa una domanda:- Cicetta, e..quel..- Trattiin?- Sì, quello! Non ti serve più?- No…ormai…- Ma che cosa…Lita interrompe, ridendo:- Sciocchina! Non hai ancora capito? Non è un ingrediente!Riprende Cicetta, anche lei ridendo:- E’ un modo di dire, per far capire a qualcuno, vicina, parente

o amica, che deve trattenere un bambino!-

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PER LE VIE DELLA CITTA’

Durante le passeggiate, la mamma mi indicava i luoghi della sua primissima infanzia, e quelli dove era vissuto il papà.

-Vedi quel bel palazzo? Lì, da piccolo, abitava papà, insieme con lo zio Bartolomeo.- Soltanto loro due? E gli altri zii?- Vivevano in un’altra casa, assieme alla nonna Ippolita.- E perché papà e suo fratello abitavano in quel bel palazzo?- Perché loro avevano due mamme.- Due… mamme?- Sì, la nonna Ippolita e mamà, che li aveva allattati entrambi. Lei aveva tanto latte perché erano morti, appena nati, due suoi bambini. La nonna Ippolita, invece, non aveva latte. Così, mamà diventò per loro la seconda mamma.Era una famiglia molto ricca: lui era notaio, lei era stata la giovane domestica di quella casa, di cui, poi, era diventata la signora. Voleva molto bene ai due bambini. E li volle sempre a casa sua, anche quando non avevano più bisogno del suo latte, anche quando ebbe due bambine sue, nate sane e belle.- Allora, papà non vedeva mai la sua mamma, i suoi fratelli…- Oh, no! Lui andava sempre a trovare la sua famiglia. E, tra i suoi numerosi fratelli e sorelle, si divertiva di più; erano giovani, allegri, e sempre affamati. A papà piaceva consumare con loro un pasto frugale, nel grande piatto comune, magari rubando il boccone più buono ai fratelli maggiori.Lo zio Bartolomeo continuò ad abitare nel palazzo fino all’età del militare. Papà, invece, a quattordici anni volle rendersi indipendente, cercando un lavoro, anche per aiutare la sua mamma, che, da tanti anni vedova, era costretta a lavorare, per lunghe ore, al telaio.- La nonna ricamava?- No. Era un grande telaio. Tesseva la tela per i corredi. Un giorno, quando, sempre più stanca, lei ancora lavorava, non più per necessità ma per accontentare le giovani nipoti, zio Vito, a

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suo modo, trovò una soluzione definitiva: ruppe il telaio in tanti pezzi. - E la nonna?- Si rassegnò. E così anche i parenti, un po’ egoisti.Anna rimane silenziosa. Pensa che le sarebbe piaciuto conoscere la nonna della fotografia, in vita, davanti ad un antico, grande telaio.La mamma interrompe il corso dei suoi freschi pensieri.- E sai chi abitava proprio dietro quel palazzo? Io! Quando ero piccolissima. Poi, ci siamo trasferiti a Fiume, ma, da ragazza, ogni estate venivo a trovare i miei nonni.- E… tu e papà, da piccoli, vi siete conosciuti? Giocavate insieme?- No! Sarebbe stato impossibile conoscersi, e tanto meno giocare insieme. - Lui viveva in quel bel palazzo a due piani, dove c'era la domestica, e dove mangiavano carne due volte alla settimana. Lui giocava in casa, e soltanto con il suo fratellino e le due sorelle di latte; possedeva i suoi giochi, e anche una bella collezione di statuine, di cui andava molto fiero. Nei giorni delle grandi Processioni, metteva le sue statuine in bella mostra, sul davanzale della finestra, e pianse molto, quando, sbattendo uno strofinaccio, la domestica fece cadere giù la sua statuina preferita, San Corrado, patrono del Paese. Io, invece, da piccolina vivevo, provvisoriamente, con la mia famiglia, nella casa dei nonni, proprio dietro il palazzo, in un quartiere chiamato Le Camere Nuove.Era un appartamento a pian terreno, poco spazioso, senz’acqua corrente, e l’acqua del pozzo comune era razionata: il coperchio era fissato con un lucchetto e veniva aperto soltanto una volta al giorno, nell’ora del tramonto.Si mangiava carne soltanto a Natale e a Pasqua. Io giocavo sui gradini della soglia con una bambolina di pezza, assieme alle mie amichette, tenendo sempre d’occhio il piccolo Raffaele; all’ora della merenda, la nostra nonna poteva darci soltanto una fetta di pane asciutto, e, siccome il mio fratellino si lamentava

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sempre e piangeva perché per lui quel pane era poco, io gli davo volentieri parte del mio.Ancora una volta Anna rimane in silenzio, assorta in pensieri forse troppo grandi, per lei, difficili da accettare. Allora, anche in tempo di pace, un bambino può piangere perché il pane è poco? A lei sembra proprio di vederlo quel bambino piangente perché ha fame! E poi un’altra immagine l’ha fortemente impressionata: il pozzo dell’acqua chiuso con il lucchetto.Infine, domanda:- Mamma, perché le abitazioni delle Camere Nuove erano così povere? Non era, dunque, un quartiere nuovo?- Non lo era affatto. Il nome Camere Nuove si riferiva al tempo in cui era nato, ed era nuovo, rispetto alla Città Vecchia.La mamma non sarebbe mai andata, da sola, nella Città Vecchia. Soltanto a nominarla, a lei venivano i brividi, ed in seguito anche a me.Strani episodi ho sentito raccontare, in riferimento a questo vecchissimo quartiere. Fatti di sangue, di stregoneria e di mistero.Una volta, insieme con altri parenti, siamo andati proprio nella Città Vecchia, a trovare una zia. Lei era una cara delicata vecchietta, che abitava in una stradina chiamata: Via della Morte.Quella via, come le altre, era molto stretta. Ai due lati, i muri delle case, trasudanti lividi umori, sembravano toccarsi, puntellati da annose travi di legno.La Via della Morte era illuminata da una luce artificiale che, sinistramente, si rifletteva sul fondo stradale viscido, tutto bagnato. Era sera? Era piovuto da poco? O il sole, lì, non arrivava mai?A ripensarci, oggi io non riesco a trovare, nemmeno nei più stretti carruggi genovesi, quell’ambiente; e non per l’angusto spazio, ma per l’atmosfera. Quella che si può soltanto immaginare nei vecchi quartieri di Londra, descritti da Dickens. Atmosfera reale, o era soltanto “sentita” in quel modo da una bambina facilmente impressionabile?

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- Mamma, quando è stata costruita, la Città Vecchia?- Tanti anni fa, ma non so quanti. Stasera lo chiederemo a Tonino.Anche Tonino non lo sa.- Tanti e tanti anni fa! Ma ancora prima vi erano degli abitanti.- E dove vivevano, se non c’erano le case?- Nelle grotte.- Allora, erano Uomini Primitivi?- Così si dice. Così sembra. Non si sa, di preciso. Comunque, qui c’è una zona, il Pulo, dove ci sono decine di grotte, piccole e grandi, comunicanti tra loro. - E tu, le hai viste da vicino? – domanda Lita- Sicuro! Come tutti gli altri ragazzi.- Sì, anche papà, da ragazzo, ci andava, - aggiunge la mamma - ma pare che siano piuttosto pericolose…- Ci sono gli animali feroci? - domanda Anna, sgranando gli occhi, già pronta a spaventarsi. - Sì, i pipistrelli.- risponde Tonino, ridendo. - No, sono pericolose, perché è facile smarrirsi in quegli antri bui, e non trovare più l’uscita. - Ma allora è davvero pericoloso! E tu, perché ci sei andato? - si preoccupa Lita.Tonino ha ormai calamitato tutta l’attenzione del piccolo pubblico femminile.- Per spirito d’avventura, come tutti. Io ci stavo attento. Una volta, però, un mio amico…Una lunga storia di sparizione, ricerche a lume di torce, ritrovamento finale. Lo ascoltano con il fiato sospeso.E lui a caricare la dose:- Tuttavia, si narra che, laggiù, qualcuno sia proprio sparito e mai più ritrovato. Entrato e mai più uscito.E la mamma: - Sì, anche papà lo raccontava…Quella notte, Anna sogna tanti buchi neri che si aprono e si chiudono, grida disperate d’aiuto, flebili lamenti, pallide luci

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che si muovono nelle tenebre, nugoli di pipistrelli che sbattono le loro piccole vele nere.Si sveglia sudata e ansante, nel lettone, vicino alla sua mamma.

LA ZIA DEL MARE

Graziella, la mia cugina preferita, aveva un paio d’anni meno di Lita, non era fidanzata, le piaceva stare con me ed io con lei. Veniva sovente a trovarci, assieme a Maria, sua amica e futura cognata. Io mi divertivo molto ad andare a passeggio con loro, perché erano sempre pronte a ridere e scherzare.Un pomeriggio, ci sorprese un improvviso acquazzone, e noi abbiamo, sì, affrettato il passo in cerca di riparo, ma intanto ci siamo messe a cantare:

“…le gocce cadono, ma che fase ci bagniamo un po’…

la…la…la…la…la…la…la…la…la…la…”

Un’altra volta io mi lamentavo perché mi faceva male un piede, c’era qualcosa che mi dava fastidio sotto il tallone, sicuramente un rattoppo nei calzettoni, e volevo fermarmi, ma Graziella, per distrarmi, mi fece cantare assieme a lei:

“…ho un sassolino nella scarpa…ahi!che mi fa tanto, tanto male…ahi!…”

Ed io ridevo, ridevo… come, per un nonnulla, soltanto i bambini sanno ridere. Graziella era l’ultima nata della numerosa famiglia di zio Giuseppe e zia Lucrezia, “La Zia del Mare”, come la mamma aveva sempre chiamato la sua più giovane zia.Le visite alla Zia del Mare, dove sovente trascorrevamo le serate della domenica, erano per me una vera festa.Il percorso dalla casa della zia Sabina alla nostra meta non era breve. Nel ricordo, mi sembra che si dovesse attraversare in

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lunghezza tutta la cittadina. Passavamo in quei luoghi dove erano vissuti da piccoli i miei genitori.Ricordo, in particolare, una piazza che la mamma mi indicava come “In mezzo al Borgo”. Lì c’era un locale, forse un dopolavoro, dove, col bel tempo, seduti fuori, presso la soglia, si radunava un gruppo di uomini anziani: in testa la coppola, camicia a quadri sotto i panciotti e le giacche scure; da sigari, pipe e sigarette fatte a mano, diffondevano intorno fumi di forte tabacco. Chiacchieravano ad alta voce della pioggia, del sole, del raccolto che non andava mai bene; oppure ascoltavano in silenzio le ultime notizie di guerra, che, qualcuno più giovane, leggeva ad alta voce nel giornale.Prima di arrivare alla casa di Graziella, già da lontano si sentiva l’odore del mare.I miei ricordi qui si fanno un po’ confusi. Attraverso sprazzi fumosi, rivedo uno stradone polveroso, che so arrivava fino all’antico Santuario della Madonna dei Martiri. Da un lato la grande distesa di acqua azzurra, dall’altro lato una serie di vicoli paralleli.Il ricordo visivo è nebbioso, ma vivido: è il sentore di salmastro che giungeva alle nari. Ai due lati di Vico Ottavo, si aprivano varie abitazioni a piano terra. In mezzo alla via, giocavano liberamente i bambini, rincorrendosi, saltando la corda e cantilenando gli antichi girotondi dialettali; sedute sulle soglie di casa, le donne sono intente a sgranare legumi, mondare verdure, o a sferruzzare, chiacchierando tra loro, uno sguardo al gioco dei più piccini.Dietro i vetri di una porta, a carpire l’ultima luce del giorno, sta a fare la calza la Zia del Mare. Le sue abili mani, si muovono rapidamente coi ferri, e le calze di chiara lana grezza crescono a vista d’occhio. E lei quasi non guarda il lavoro, e non avrebbe bisogno di quella poca luce.Occhi chiari, dolce sorriso remissivo, il volto segnato dal tempo e dalla fatica, zia Lucrezia aveva accolto con rassegnazione tutto quello che le aveva portato la vita. Numerosi figli, un buon

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marito, dedito alla famiglia, bravo lavoratore, ma forse troppo severo ed esigente.L’accoglienza, nella casa della Zia del Mare, è sempre stata per noi la più semplice, sincera, affettuosa.Anna era coccolata da tutti. Da Rosaria, la figlia maggiore, già sposata con Ignazio, un uomo grande e grosso dal cuore di bimbo; dal figlio maggiore, Nicolino, calzolaio di rara bravura, un po’ claudicante ma con il volto gentile da icona medioevale, sposato con la bella Annina; dagli altri figli maschi, robusti giovanotti che, tornando dal lavoro, portavano addosso odore di bottega artigiana, legno, ferro, oppure il buon odore del mare.Anche lo zio Giuseppe, che, con i figli era stato burbero e severo, trattava la bambina come una principessina. La chiamava “bionda ricciolina” e la voleva sempre seduta accanto, quando tutti facevano cerchio intorno al grande braciere.Era bello, d’inverno, trascorrere la domenica pomeriggio, ed anche la sera, nella vecchia casa della Zia del Mare.Il locale, al quale si accedeva direttamente dalla strada, era grande ed aveva diverse funzioni. In un angolo vi era il fornello per cucinare, vicino ad una parete un letto matrimoniale, un cassettone con sacre immagini e vecchie fotografie; la parte centrale era occupata da sedie, da un tavolo allungabile e, d’inverno, da un grande braciere di rame che poggiava su un largo anello di legno, sul quale si potevano mettere i piedi e scaldarsi. Nella parete di fondo, nascosto da una tenda, si apriva l’accesso ad un altro locale, con letto, cassapanca, armadio e cassettone.Con Graziella, mi piaceva andare in questa stanza, dove era situato l’oggetto che per me era croce e delizia: una scala a pioli. Quella scala portava ad un soppalco, con altri letti e comodini, e, di lassù, si poteva vedere la stanza principale dove si riuniva la famiglia.A me piaceva stare sul soppalco e guardare tutti dall’alto: mi sembrava di essere a teatro. Eppure, avevo paura, e ce l’ho ancora, a salire sulla scala a pioli.

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Tutte le volte, con Graziella era la stessa storia.- Vuoi venire sul tavolato? - Sì, ma… ho paura…- Tu sali! E io ti sto dietro.- Ho paura di cadere…- Non puoi cadere, ti tengo io.- No! No! Ho paura!- Allora ti prendo in braccio.- Ma sono pesante…- Non sarai diventata tanto più pesante in una settimana… Su, vieni!E così, Graziella mi portava in braccio. Io chiudevo gli occhi e li tenevo chiusi, finche non ero sul tavolato. Lì ero felice. Mi sembrava di essere sul mio palcoscenico personale. Di giù mi battevano le mani.Poi, Rosaria si raccomandava:- Graziella, ora sta attenta a scendere, con la bambina! E’ pronta la cena.Attorno alla tavola, sempre in tanti a mangiare il buon pesce pescato da Ciccillo e i suoi fratelli, oppure gustose uova a ciambotto, che, in un sughetto di pomodori e cipolle, sotto un bianco manto, nascondevano un delizioso cuore dorato.Lo zio, senza un motivo apparente, usciva con una sua frase preferita:

“Ah, povero Giuseppe, venduto dai suoi fratelli! ” - Zio, perché dici così? Sei stato venduto?- Non io, Ricciolina, ma Giuseppe, nella Storia Sacra.E così, Anna apprendeva dallo zio, per la prima volta, tutta la Storia di Giacobbe e dei suoi dodici figli; dei sogni del Faraone, sette vacche grasse e sette magre, e di Giuseppe, diventato viceré del misterioso Egitto.Lo zio raccontava e la bambina ascoltava con vivo interesse, una storia con lieto finale tra le più belle dell’Antico Testamento.

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A PRIMAVERA

A primavera, Anna, con sempre più nostalgia, andava con il pensiero a Genova. - Mamma, perché non torniamo a casa?- Papà ci chiede di restare, almeno fino al termine dell’anno scolastico.Papà aveva ragione, ma Anna sospirava. Giugno era ancora lontano.Papà inviava puntualmente due vaglia al mese, ma anche nel Sud il costo della vita aumentava di giorno in giorno. Anna si era accorta che sempre più spesso le capitava di avere appetito, ma, nello stipo a muro che fungeva da dispensa, le provviste diventavano sempre più scarse, anche la frutta e la verdura.

In quel tempo, andavamo spesso a trovare Cecilia, una cugina della mamma. Abitava un po’ lontano dal centro cittadino, in una casetta indipendente.Dopo la passeggiata, un po’ accaldate per il primo sole del meriggio primaverile, era bello riposare sotto la pergola. Cecilia ci offriva sciroppo di amarena o di menta, allungato con l’acqua fresca di una caraffa che aveva appena riempita alla fontanella.Le due cugine, entrambe appassionate di cucito, ricordavano gli anni lontani, quando, poco più che bambine, quasi contemporaneamente e in luoghi diversi, i rispettivi padri avevano fatto loro il meraviglioso regalo di una macchina Singer.Anna, con Maria, la figlioletta quattordicenne, e una sua compagna della scuola media, andavano a cogliere violette e pratoline; poi, un profumato mazzolino veniva offerto a Lita, la signorina. Ma Lita si univa alle più giovani, per andare nell’orto a cogliere le lattughe. Si andava poi a lavarle alla fontanella. Di forma allungata, avevano foglie tenere e fragranti; saporite, ottime da mangiare senza condimento e senza sale.

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Ne mangiavamo tante, perché erano buone, fresche e… avevamo fame.Verso sera , arrivava il figlio maggiore, Mimì.Allora, questo nome mi faceva sorridere, e non mi sembrava adatto ad un giovane di robusta corporatura e già un po’ stempiato.Mimì era simpatico, aveva una buona cultura, e sapeva rispondere alle numerose domande che sempre affollavano la mia mente di bambina.Un giorno mi regalò un libro che ancor oggi conservo e mi è caro.E’ un vecchio libro per ragazzi. Il filo conduttore è semplice. Un padre, ogni sera, se il figlioletto è stato buono e diligente, gli racconta una storia.Il libro è, appunto, una raccolta di storie vere, aneddoti e leggende, che hanno in comune uno scoperto fine morale ed educativo.In particolare mi sono rimasti impressi alcuni episodi.

IL GIOVANE E IL LEONE

Un giovane trovò nel deserto un leone distrutto dal dolore per un dente cariato. Il giovane, coraggiosamente, riuscì a strappare il dente dalla bocca dolorante del leone. E la belva gli fu riconoscente: quando, nell’arena del circo, si trovò di fronte il suo benefattore, non lo aggredì. Così, il giovane coraggioso e sensibile ebbe salva la vita.

ALESSANDRO MAGNO

Il grande condottiero macedone, temeva di diventare troppo superbo per le sue continue imprese vittoriose. Allora, diede ordine ad un suo fedele servitore di svegliarlo ogni mattina con le seguenti parole: “Ricordati che devi morire!”

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ALI’

Alì era un piccolo cane randagio, raccolto, per pietà, da un mercante, lungo la strada che spesso percorreva con il barroccio carico di merce preziosa.Su quella stessa strada, un brutto giorno, i briganti assalirono il mercante, lo derubarono del carico prezioso, e, dopo averlo colpito più volte con un randello, credendolo morto, lo buttarono in un profondo crepaccio. E laggiù rimase per tre giorni tra la vita e la morte. Il piccolo Alì non si mosse dal ciglio della strada e, senza né bere né mangiare, rimase a guaire e a vigilare sul suo padrone ferito. Finalmente, passarono alcuni mercanti. Richiamati dai guaiti del piccolo cane, portarono soccorso al malcapitato loro amico, che fu salvato da sicura morte.Alì e il mercante vissero sempre insieme, inseparabili amici. Anna, a quel tempo, aveva paura dei cani, ma già li amava, e pensava che un giorno le sarebbe piaciuto avere un cane di nome Alì.

PASQUA

Da alcuni giorni, Anna, di ritorno da scuola, sosta sempre davanti alla vetrina di una pasticceria.Uova di cioccolato, fasciate soltanto nel cellofan trasparente, mostrano meravigliosi decori di zucchero: fiorellini primaverili rosa e azzurri, e gialli pulcini che escono pigolanti dal bianco guscio. Agnelli di varia grandezza, tutti belli: piccole sculture di marzapane.L’attenzione della bambina è attirata, soprattutto, da un grosso libro di cioccolato. Sta lì, aperto sempre alla stessa pagina: parole di augurio, scritte con zucchero bianco in una cornice di pesco in fiore, zucchero rosa che sembra sbocciare in vere corolle.Il libro è l’ambito premio di una lotteria. L’estrazione avverrà il Sabato Santo.

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Anna sa che la mamma non potrà comperare l’uovo di cioccolato con decoro a vista, senza carta dorata. Quel tipo di Uova Pasquali che saranno sempre le sue preferite, anche negli anni futuri. La bambina prega la mamma di comperare almeno un biglietto della lotteria. Chissà potrebbe essere fortunata come per la bambola Giuseppina!Quell’anno la mamma non è così fortunata, né abbastanza ricca per comperare anche un piccolo uovo di cioccolato. Il denaro serve per i generi di prima necessità.Anna è rassegnata. Ormai, anche nella solare cittadina meridionale i disagi della Guerra si fanno sentire sempre più. E non soltanto i disagi.Laggiù, il tempo che precede la Pasqua era veramente speciale.Per le vie cittadine si vedevano passare Processioni straordinarie. Una, in particolare, mi è rimasta impressa. Avveniva il venerdì pomeriggio precedente la Settimana Santa.Era una Processione lunghissima, e, ad uguale distanza, l’una dall’altra, erano rappresentate le Stazioni della Via Crucis, con statue, portate a spalla, che, a me bambina, sembravano enormi, da Cristo alla Colonna, alla Flagellazione, a Maria addolorata.Le chiese, addobbate per i Sepolcri, erano riccamente adornate: tante candele di varia misura, grandi ceri decorati, artistiche composizioni floreali, numerosi piatti con il grano e l’orzo pallido, germinato nel cotone bagnato, tenuto al buio per molti giorni, umili segni della devozione popolare.In particolare, ricordo la Chiesa di San Domenico. Tra due alte colonne, mi sembra di color verde traslucido, si sviluppava tutta un’armonia di luci e fiori.La sera del Venerdì Santo, c’era la processione dell’Addolorata.La banda sonava, come soltanto le bande meridionali sanno sonare, una toccante marcia funebre. Tutto era buio, perché anche nel Sud vigeva l’oscuramento.Per un attimo, si spalanca la porta di una chiesa (credo che fosse la vecchia Chiesa del Purgatorio)e, contro la splendente spalliera interna, formata da decine e decine di candele accese,

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si staglia la scura statua della Madonna con il Cristo morto tra le braccia.E’ un attimo. La folla tace. La banda, con sapienti colpi ai tamburi, segna il tempo lento della marcia. Improvviso, un grido di donna. Soltanto un grido, disperato, che si smorza in singhiozzi.Una madre piange. E’ la Guerra! La Guerra che non fa distinzioni tra Nord e Sud. La Guerra, con le sue vittime innocenti. La Guerra! Il dolore che non fa differenze nel cuore disperato di una madre. Sono passati tanti anni, ma il brivido freddo che provai allora, ancora oggi mi pervade tutta, quando ripenso alla sera di quel lontano Venerdì Santo.Un ricordo piacevole, invece, si riferisce proprio al giorno di Pasqua.Quella mattina, Anna si sveglia al festoso suono delle campane. Sul tavolo della cucina non trova la solita tazza con il latte e il caffè d’orzo., ma un piatto ricoperto da una salvietta ricamata. Nell’aria si sente un delicato profumo di dolci. Tolta la salvietta, appare una specie di cestino di pasta morbida dorata: dentro, due uova mostrano il loro cuore di sole; il tutto adorno con nastri di bianco zucchero e granelli multicolori.- E’ la scarcedda! Il dono che qui preparano per i bambini - spiega la mamma.Anna, stupita e felice, scorge la zia Sabina che la guarda sorridendo. Allora, va subito ad abbracciarla con il cuore gonfio di gioia.La zia ha pensato a lei e le ha preparato la sorpresa di Pasqua.

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T E R Z A P A R T E T E R Z A P A R T E

ARRIVI E PARTENZE

La mamma sta lì, con la lettera in mano e le lacrime agli occhi.All’ultima visita, Nico è stato dichiarato abile al servizio militare. Forse è aumentata la misura del suo torace, forse è aumentato il bisogno di avere nuove reclute nell’esercito.La mamma non si dà pace.- Non possiamo rimanere ancora qui. Lui ha bisogno di me. Che cosa volete che ne sappiano gli uomini di tutto quello che occorre mettere nella valigia! Ma come facciamo… Anna… la scuola…E Lita:- Io penso che Nico sappia benissimo cavarsela da solo, non parte mica per l’America! E poi, è probabile che un soldato possa portare soltanto una valigetta.- Non lo so… Non lo so… ma io sono preoccupata. Ah, povero figlio mio! Chissà se ti rivedrò ancora!- Mamma, ne parli come se fosse morto! Non parlare in questo modo! Porta male!Anna, che fino a quel momento è rimasta zitta, con il visino teso e l’ansia negli occhi, rafforza le parole della sorella:- Lita ha ragione: Non dire più così! Fai piangere anche me!La mamma tace, sconsolata.Allora, Lita, con piglio deciso, soggiunge:- Per farti stare tranquilla, vado io a Genova. Mi occupo di tutto quello che c’è da fare, e non ritorno qui finché lui non è partito.- Da sola?- Da sola. Non mi mangia mica il lupo, sul treno!

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Lita andò a Genova, ma Nico, prima di partire per il servizio militare, venne a riabbracciare mamma e sorellina.I pochi giorni della sua permanenza vennero occupati a salutare zii e cugini. La casa della Zia del Mare fu quella più frequentata.Così, al momento della partenza, trepida per lui anche un giovane cuore di ragazza innamorata. Lita non ritornò a Molfetta, ma fummo noi a ripartire in fretta e furia, senza attendere la chiusura dell’anno scolastico. Anche la zia Maria con i bambini ritornava a Genova.Io non so per quale motivo fosse stata decisa l’urgenza della partenza. Forse c’era nell’aria il presagio che gravi eventi stavano per accadere, nel nostro Paese.A giugno, Tonino aveva superato alcuni esami, e per altri doveva presentasi a settembre. Era sua ferma intenzione di trasferirsi, poi, definitivamente, a Genova, sperando, come tutti, che la guerra fosse agli sgoccioli.In attesa, fece un lungo viaggio per un breve soggiorno.Così, all’inizio dell’estate, arrivò Tonino e portò la pagella di Anna.Il volto compunto:- Mi dispiace, - le dice, con il tono del più profondo rammarico - ma sei stata bocciata!- Bocciata? Ma…ma…- Non è vero! Non fare questi scherzi! - lo rimprovera Lita - Non vedi che la bambina ha già le lacrime agli occhi?Anna afferra la pagella. Si accorge subito che non ci sono voti in rosso. Anzi, Lodevole in tutte le materie, è stata promossa alla quarta elementare!Manifesta la sua gioia abbracciando tutti, in particolare la mamma. E’ contenta di vedere finalmente, dopo tanti giorni, il suo bel sorriso illuminarle il volto.Poi, rivolgendosi a Tonino:- Oggi è proprio un lieto giorno per me! Tu mi hai portato la promozione e… guarda che cosa mi ha mandato Nico!

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E dalla tasca del suo grembiule a quadretti bianchi e blu, tira fuori un cartoncino: è una fotografia di Nico, a mezzo busto, in divisa militare.- Guarda dietro! – soggiunge, subito, la bambina.Tonino volta la fotografia. Sul retro c’è scritto: “Alla mia cara sorellina Anna”.- Vedi, - dice lei, trionfante - nella lettera c’era un’altra fotografia, per tutta la famiglia, ma questa è soltanto per me!Anna ha gli occhi lucidi per la gioia e la commozione.E non solo la bambina di ieri, ma anche la donna di oggi.

ESTATE 1943

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Nell’estate 1943 accaddero tali avvenimenti da sconvolgere la vita di tutti, grandi e piccini.Quando partì per gli esami di settembre, Tonino non immaginava che sarebbero passati alcuni anni, prima di realizzare i suoi progetti in terra ligure.Anna, felice per la promozione in classe quarta, non immaginava che mai più avrebbe frequentato un corso regolare, nella scuola elementare.Il 25 luglio, il nostro Paese fu sconvolto da una tempesta politica che scalzò dal potere la Dittatura Fascista e diede sfogo ad episodi di violenza, come succede sempre nelle grandi o piccole rivoluzioni; soprattutto, ebbe un ampio riflesso, anzi, una svolta tutta particolare, nei rapporti tra le diverse potenze belligeranti.Non è qui mia intenzione, e non sarebbe qui il luogo, di fare una spassionata disamina dei fatti politici di quel tempo. Ricorderò soltanto ciò che più ha colpito la sensibilità di una bambina di nove anni.

Papà sta seduto in un angolo della cucina, pallido e taciturno.- Antonio, sei preoccupato? A te non può succedere nulla. Non hai mai fatto male a una mosca!- si accalora la mamma.Papà non risponde. Non è preoccupato per sé stesso. Se dovessero esserci rappresaglie per tutti coloro che hanno partecipato, in obbligata divisa fascista, alle pubbliche manifestazioni, come i cortei degli Ex-Combattenti, allora quasi tutti gli italiani in età adulta sarebbero colpiti.No, il volto pallido ad altro si riferisce. Papà tace, ripiegato su sé stesso, in una sorta di smarrimento.Era il crollo di quei valori, nei quali sicuramente aveva creduto, che si potrebbero riassumere in “Amor di Patria”.Papà, che era stato ferito durante la ritirata di Caporetto, mal nascondeva la sua commozione ascoltando la “Leggenda del Piave”. Per lui, per la mamma, come per altri della loro generazione, volevano ancora dire qualcosa le parole: “…non passa lo straniero..!”

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Un vecchio mondo crollava e nulla sarebbe stato più come prima. L’Italia non era quella grande nazione che qualcuno aveva fatto credere. Ora, per lui, tutto era chiaro. E forse, pur non volendolo accettare, nemmeno con sé stesso, già l’aveva compreso da molto tempo.Anna guarda il papà così silenzioso, così abbattuto. E sente una strana sensazione, come una trafittura nel suo cuore di bambina. Negli ultimi tempi, la mamma è triste, e Anna la vede spesso piangente davanti al quadretto di Sant’Antonio e, a sua volta, partecipa a quella tristezza; ma ciò che legge nel volto pallido del papà è qualcosa di diverso, che le provoca una diversa, dolorosa emozione. Allora, Anna non può comprendere, ma ciò che la colpisce così profondamente è la delusione dipinta sul caro volto di un uomo idealista, che vede crollare i propri ideali perché erano sbagliati.

Di quegli ultimi giorni di luglio, mi è rimasto particolarmente impresso un altro episodio, per me sconvolgente.Il cosiddetto “furor di popolo” non è mai una cosa bella da vedere. A torto o a ragione si arriva sempre agli estremismi, alla manifestazione irrazionale di una rabbia a lungo repressa, se non allo sfogo di istinti distruttivi, che non mi pare giusto chiamare bestiali per rispetto agli animali.Per giorni, nelle vie del mio paese, si vedevano grandi falò, ma non erano i divertenti falò che, la notte di San Giovanni Battista, con cassette usate della verdura e con ogni sorta di vecchio ciarpame, i ragazzi del quartiere accendevano sul greto del torrente.No, non erano quelli! Proprio nel bel mezzo di una strada o di una piazza, si buttavano giù dalla finestra tutti i mobili di un appartamento incriminato, cioè abitato da qualcuno che, in un lontano 28 ottobre, si era macchiato di piccoli o grandi crimini.“Vendetta! Tremenda vendetta! ” - sembrano gridare i distruttori, anche se dalle loro gole non esce nessun suono. Poi, a tutto il mobilio fracassato viene appiccato il: “fuoco purificatore”.

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Di fronte a questi roghi, combattuta tra lo smarrimento e la curiosità, Anna chiede: - Mamma, posso andare a vedere?- Non c’è nulla di bello, da vedere… E poi, è pericoloso.- Nina, la figlia della portinaia, è venuta a chiamarmi…Staremo giù, brave, e non ci allontaneremo dalla nostra strada.

- E prometti di non avvicinarti, se c’è qualche fuoco?- Sì, staremo distanti.Anna mantiene la promessa.Proprio sull’angolo, dove la strada termina e s’incontra con un più largo viale, i distruttori si stanno accanendo su una bella cartolibreria.Tutto il contenuto del negozio viene tolto dagli scaffali, dal banco, dalle vetrine, e viene buttato in mezzo alla via: quaderni, cartoline, buste, risme di carta, protocolli, fogli da disegno, album, penne, pennini, matite, colori, astucci, libri…. Tutto, a breve, sarebbe servito per alimentare le fiamme, e poi sarebbe diventato cenere.Nina, con altri bambini, prima che il fuoco venga appiccato, si slancia sul mucchio e ne ritorna con le braccia cariche dei più svariati oggetti. Anna obbedisce alla mamma. Non deve avvicinarsi, non deve prendere nulla. Ma come dimenticare quel rogo? Lì bruciavano le cose che, più di tutte le altre, l’attirano, quasi con una sorta di magnetismo, già allora, ed ancor più in seguito.Tutto quel meraviglioso mondo cartaceo, le matite, le penne e… i libri. Vedere bruciare i libri!Ripensando al dolore che provai allora, nell’assistere ai libri in fiamme, oggi mi chiedo:- Che cosa avrei provato se avessi dovuto assistere all’incendio della Biblioteca di Alessandria?Soltanto il pensiero di quell’antico misfatto mi fa star male. Veramente male.

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CUORE DI MAMMA

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Un giorno di settembre. Un giorno come tanti altri, dopo lo sbandamento dell’esercito italiano. Soldati che abbandonano le divise in quelle famiglie che li accolgono come figli, e regalano loro i vestiti dei propri figli.E questi ultimi, a loro volta, saranno accolti da altre famiglie?Torneranno al calore delle proprie case? O sono ormai dispersi, combattenti sui lontani fronti di una guerra sempre più assurda?Le donne sperano sempre, le mamme sanno donare, hanno cuore per tutti i giovani smarriti: in ognuno vedono un figlio.L’otto settembre, Nico era ancora, credo, in fase di addestramento, a Firenze. Di lui nessuna notizia.Un giorno di settembre come gli altri. Non per la mamma.Di buon mattino, sbriga con rinnovata energia le faccende domestiche. Poi, si prepara per uscire.Anna la guarda, sorpresa:- Mamma, dove vai?- A comperare.- Non ci va Lita? - No, oggi devo andare io. Devo cercare qualcosa, devo comperare qualcosa in più e di più buono, delle solite miserie che ci danno con la tessera…In quel momento sopraggiunge Lita. Ha una calza in mano, e l’aria assorta e alquanto sconsolata.- Ho cercato di fermare la smagliatura con il sapone, ma si è aperta ancora di più!… Ora, mentre scendo per andare a comperare, la lascio giù da Vittoria, la fruttivendola. Ho sentito dire che fa un buon lavoro di riparazione a poco prezzo. Che cosa ne dici, mamma?- Vado io a comperare!Lita si accorge soltanto in quel momento che la mamma è pronta per uscire.- Perché? Che cosa è successo?- Oggi arriva Nico.- Hai avuto notizie? Chi te l’ha detto?- Nessuno. Lo so!

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- Oh, mamma, ti prego, non fare così! Sicuramente lui verrà… ma non si sa quando…E Anna:- E, poi, tu… noi tutti ci rimaniamo male, se non arriva oggi…Anna vuole bene alla mamma, vuole bene a Nico, vuole bene a tutti e… non vuole soffrire.La mamma, imperterrita:- Devo andare. Non fatemi perdere tempo! Devo andare!Le due sorelle si guardano, sconfitte. Lita ha ora un’aria molto più sconsolata di prima: la smagliatura della calza non ha più una grande importanza.Qualche ora più tardi. Tre forti scampanellate. Lita va ad aprire, ansiosa. Non è la mamma, ma il nonno. Sul suo volto è dipinta una preoccupazione che non gli è affatto abituale. E chiede, un po’ balbettando ( il nonno quando è nervoso diventa balbuziente):- E’ in ca…casa la ma…mamma?- No. Veramente… è uscita per…- Lo so. Me l’ha de…detto Ezio, il bo…botte…tegaio!- Calmati, nonno, che cosa è successo?Lita fa sedere il nonno e gli fa bere un bicchiere d’acqua.Anna non resiste a tutti questi preamboli:- Nonno, ma che cosa è successo alla mamma?- Figlie mie, non lo so. Credo che vostra madre stia per diventare pazza…- Ma perché?- Sapete che cosa mi ha raccontato, Ezio? Lei gli ha domandato se aveva visto passare Nico… Lui ha risposto che non l’aveva visto. Poi, quando gli ha chiesto se poteva venderle qualcosa in più del solito pane, lui è stato ben felice di passarle un bel pacco di polenta proprio il giorno che era arrivato il figlio. Però, quando ha compreso che Nico non era ancora arrivato, e che di lui, in verità, non si avevano notizie… allora, Ezio si è preoccupato. Vedendomi passare, me lo ha riferito.Il nonno termina il suo discorso, esclamando:- Ah, figlia mia! Figlia mia!

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Poi tace, scotendo desolatamente il capo.In quel momento si ode un noto fischio nelle scale. Lita e Anna corrono insieme a spalancare la porta.Sull’ultima rampa, maglietta e calzoni leggeri, scarpe di tela, un asciugamani sotto il braccio, in perfetta tenuta da “bagnante”, Nico sta salendo i gradini, a due per volta.Non fanno in tempo ad abbracciarsi. Dal fondo delle scale, sollevando a fatica una pesante borsa della spesa, sta chiamando la mamma.

TRA DUE FUOCHI

In autunno ha inizio il nuovo anno scolastico, ma la mamma s’impone, decisa:

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- Con questi chiari di luna, la mia bambina non va a scuola! La voglio a casa, con me!

Con la frase “chiari di luna”, lei esprimeva tutta la precarietà in cui, ormai, si svolgeva la vita nell’Italia in generale, nel Nord in particolare.La situazione peggiorava ogni giorno. Bombardamenti dai nemici di ieri e futuri alleati; occupazione dagli alleati di ieri diventati nemici.Tra due fuochi si sta male. Come, precedentemente, ho dichiarato, non ho intenzione, né qui è il luogo, di fare un esame approfondito sui vari gradi di responsabilità per la deplorevole situazione in cui venimmo a trovarci. La popolazione, come forse sempre succede, non aveva nulla deciso e dovette tutto subire.Ogni giorno aumentavano le difficoltà e i pericoli. Era quello il tempo di guerra che non si può proprio dimenticare.Le sirene per preallarmi e allarmi sonavano sempre più spesso. I seggiolini pieghevoli erano sempre pronti nella saletta d’ingresso, assieme alle borse, i pochi soldi, gli ultimi ori rimasti, qualche prezioso ricordo di famiglia, un po’ di pane nero e qualche misero companatico. Le corse in rifugio e in galleria si facevano sempre più frequenti.Papà insisteva affinché, anche in sua assenza, noi andassimo in galleria. - E’ più distante - diceva - ma è più sicura.La galleria era situata sotto un monte che noi potevamo vedere bene da casa nostra, ma l’apertura si trovava dalla parte opposta; comunque, la distanza non era eccessiva.Papà aveva ragione per quanto concerneva la sicurezza, ma il luogo era veramente poco accogliente.E’ notte. Suona il preallarme.- Anna , presto, alzati!- Mamma, ho sonno. Non possiamo…- Svelta, Anna! Lo sai che papà vuole essere tra i primi!

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Anna, imbronciata, lascia il bel calduccio del letto. E’ già semivestita. Da parecchie notti va a dormire così, quasi pronta per la corsa in galleria.Papà già attende sulla porta, con i seggiolini sotto il braccio. In strada la prende per mano e, seguito dagli altri, si avvia a rapidi passi.- Fate presto! Bisogna arrivare prima che ci sia ressa all’entrata.

La mamma ha un brivido. Ripensa ai ripetuti incidenti avvenuti a Genova, alla galleria delle Grazie. La gente… Era talmente accalcata, da provocare morti e feriti.

- Papà, perché andiamo sempre in fondo? Non possiamo fermarci qui, dove c’è più caldo e più asciutto?- Non è una buona idea: tra poco, qui l’aria diventerà pesante. Laggiù si respira meglio.Anche in questo papà ha ragione. E’ vero, laggiù si respira meglio, ma è così deprimente. E’ più buio, più freddo e, dalle pareti grezze, l’acqua scivola giù a rivoletti.Sono seduti sui seggiolini malfermi sul terreno disuguale. La bambina appoggia la testa, con i riccioli tutti arruffati, sulle ginocchia di Lita. E quasi subito si addormenta. La sorella, invece, cerca di calmare i morsi della fame notturna, sgranocchiando una melina rinsecchita, tanto asciutta e dura, che sicuramente non ha nemmeno la più lontana parentela con il pomo rubato da Eva nel Paradiso Terrestre.Anche di giorno suona spesso la sirena. Se non c’è preallarme, bisogna correre subito nel vicino rifugio: è situato nei fondi di un grande palazzo a quattro portoni. E’ molto ampio e può offrire asilo anche ai numerosi abitanti dei palazzi circostanti. E’ anche abbastanza confortevole. Vi sono panche di legno lungo le pareti e in doppia fila al centro.Càpitano giorni in cui bisogna trascorrere molte ore, in questo rifugio. Allora, alcune donne si portano il lavoro a maglia; le ragazze formano gruppo per chiacchierare tra loro, ed anche i bambini si organizzano, per qualche gioco.

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- Mamma, posso andare lì, dove ci sono Nina, Merina e Marisa, che giocano alle cartine, con quei bambini?- Sì, però al cessato allarme, torna subito qui. Sai che lasciamo uscire prima gli altri, così non ci troviamo nella confusione.Anna, che aveva avuto per compagni di gioco soltanto i suoi cuginetti, nel rifugio conosce altri bambini. Giocano al telefono, con le cartine, con le figurine, e a raccontare fiabe.Ormai si stava abituando al rifugio, e quasi le piaceva, perché lì si ritrovava con i piccoli amici. All’allarme, per fortuna, non seguiva sempre un bombardamento vicino a noi. Ed è proprio per questo che si cominciava a fare l’abitudine al rifugio.

Un bombardamento, però, mi è rimasto particolarmente impresso, anche se non so collocarlo in una data precisa.Avvenne tra le dodici e le tredici, mentre i più stavano a tavola a consumare un misero pasto domenicale. Improvvisamente, senza preallarme, anzi, mentre incominciava a sonare l’allarme, si udirono boati paurosi, e poi la contraerea che rispondeva rabbiosamente, in ritardo. Il cessato allarme trovò noi, cioè gli abitanti del nostro paese, attoniti per l’improvviso attacco, e gli abitanti del paese vicino, quelli che frequentavano la nostra stessa galleria, terribilmente sconvolti. Alcuni palazzi erano crollati sotto le bombe.Nico andò a vedere che cosa era successo. Ritornò pallido in volto e con poca voglia di raccontare. E, benché io penso che nulla o quasi ascoltai, tuttavia mi ritorna in mente l’immagine di una bimba morta sotto le macerie, una bimba che aveva in una mano un cucchiaio e, nell’altra, una bambolina.

Un altro episodio che mi spaventò, forse oltre il reale pericolo, avvenne di sera. In cucina, papà, Nico e Mario, il figlio della nostra vicina di porta, stavano giocando a carte. La mamma e la signora Antonietta parlavano sul solito tema: la difficoltà sempre maggiore di mettere qualcosa in pentola. Lita stava trasformando un vecchio vestito in una gonna nuova. Anna

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giocava con “la famiglia delle mollette”, che, di giorno, servivano per stendere la biancheria.Repentino, il suono prolungato dell’allarme. Subito, gli spari della contraerea. Tutti si precipitano alla porta, scendono di corsa le scale per ripararsi almeno nel piccolo rifugio situato nei fondi. Non c’è tempo per recarsi nel rifugio del grande palazzo.Anna, attraverso le finestre delle scale, vede qualcosa che la spaventa tremendamente. E’ presa dal panico. Trema tutta, piange, strilla. Mario, che se la trova vicino, la prende in braccio per calmarla, ma lei continua a tremare. E trema ancora, anche quando si ritroverà nel piccolo soffocante rifugio, seduta tra papà e mamma. Quella sera, vicino a noi non ci fu nessun bombardamento, ma la notte, più nera dell’inchiostro, improvvisamente, era sta illuminata a giorno da luci di diversi colori abbaglianti: i “Bengala”.Non li dimenticherò mai.

L’ACQUA E IL PANE

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Quando in cucina si faceva silenzio, si poteva udire un piccolo rumore a ritmo lentissimo, lassù, nella nicchia dove era situato il recipiente dell’acqua, vuoto o quasi vuoto.Il gocciolio, anche lento, era comunque un buon segno, poiché sovente non si udiva affatto.L’acqua per bere, andavamo a prenderla ad una fontanella poco distante da casa nostra. Il luogo si chiamava “Acqua Marcia”, ma non ho mai capito il perché di quel nome. Infatti, quell’acqua era fresca, buona e… poca. Cioè ne sgorgava in continuazione, ma con un getto molto sottile.Alla fontanella si formava sempre una lunghissima fila di persone. Lita con due bottiglioni, io con una bottiglia, dovevamo aspettare con pazienza il nostro turno.Alcuni prendevano l’attesa con filosofia e coglievano l’occasione per scambiare due chiacchiere con vicini e amici, altri s’innervosivano e trovavano sempre motivo per causare liti e portare scompiglio. Non volevano stare in coda e tentavano di passare davanti agli altri, o trovavano da ridire sulle dimensioni dei recipienti altrui, o intendevano riempire damigiane e grandi secchi, dove il buon senso e la buona educazione consigliavano di riempire soltanto bottiglie e fiaschi.L’altra acqua, per gli usi domestici, andavamo a prenderla dalla grande cisterna situata in fondo al nostro caseggiato, in una sorta di cortile interno, che cortile non era e che noi chiamavamo “il vuoto”.I piani alti avevano più acqua, quelli bassi meno. Noi del secondo piano, dovevamo spesso rifornirci d’acqua nel vuoto.

Lita, con due grandi secchi, si avvia alla porta.- Vengo anch’io, con il secchiello del latte?- Vieni! Sono soltanto due litri, ma può servire.Anna sta scendendo la prima rampa, quando si apre l’uscio della signora Antonietta e sulla soglia appare la nipotina Mariangela, una bambina che non ha ancora sei anni: capelli neri, guance rosee e paffute, sulla bocca il riso sempre pronto.

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- Aspettami, vengo giù anch’io!E fa tintinnare il suo secchiello. E’ almeno il doppio di quello di Anna.Le due bambine scendono insieme le scale, allegramente.Poco dopo, Mariangela risale, più allegra di prima, con il suo secchiello pieno quasi fino all’orlo; Anna, invece, arriva sul pianerottolo a grande fatica, con il suo secchiello, di cui ha perduto almeno un terzo del contenuto.- Ma come fai a non reggere nemmeno due litri? – la sgrida Lita – Guarda Mariangela, che è più piccola di te!Mariangela, ridendo, scompare dietro l’uscio di zia Antonietta.Anna, mortificata, porta in cucina il suo misero apporto d’acqua. E vorrebbe ancora versarne qualche goccia di quella salata, qualche lacrimuccia che sta per spuntare nei suoi occhi, mentre mormora tra sé:- Possibile che nessuno si accorga che Mariangela è, sì, più piccola di me, ma ha i polsi belli rotondi e le braccia robuste, che sono il doppio delle mie?

Una sera, Nico è giù nel vuoto a riempire una damigiana, Anna è lì con il suo solito secchiello; molti altri inquilini, specialmente uomini, a quell’ora sono lì per aiutare le donne a prendere una riserva d’acqua più abbondante.Nico si accorge che gli occorre un imbuto e manda Anna a prenderlo. Mentre si avvia, la bambina scorge Lita che si affaccia alla finestra della scala. Allora, la chiama.Poi, Anna, che ha sempre parlato in italiano, e ancora oggi non sa spiccicare due parole in dialetto genovese, quella sera, con quanta voce ha in gola, grida:- Nico ha bisogno del tortaiolo!Una fragorosa risata, dal vuoto e dalle scale, accoglie questa curiosa espressione dialettale italianizzata.Io, in quel momento, non ho nemmeno capito perché tutti ridevano. Credevo che imbuto fosse in fiumano, perché, sovente, la mamma frammischiava all’italiano qualche parola

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di quel dialetto, mentre per me, la parola tortaiolo faceva parte proprio del fior fiore della nostra madrelingua.

La fame si faceva sentire sempre di più. Io quasi non me ne rendevo conto, ma, sempre più spesso, durante la giornata mi capitava di sentirmi improvvisamente stanca; allora, cullata dal gocciolio dell’acqua nel recipiente semivuoto, rannicchiata su due sedie, mi addormentavo in un sonno senza sogni.La mamma era la più preoccupata. Non mandava più Lita a comperare, ma preferiva recarsi di persona. Prima della Guerra, lei usciva soltanto vestita di tutto punto, elegante nella sua semplicità, una vera “signora anni venti e trenta”.Negli anni quaranta lei abbandonò guanti e cappellino. Andava al mercato con una grossa borsa, sperando di poterla riempire con frutta e verdura a buon prezzo, comperando qualche cassetta all’ingrosso, sia pure di ultima scelta.Un giorno, ritorna a casa con una bella sorpresa.- Guardate che cosa ho qui!La mamma spalanca la borsa e… si sprigiona un buon odore di forno.Lita e Anna subito rimangono senza parole. La borsa è piena di pane fino all’orlo.Poi, un diluvio di domande.- Ma come hai fatto?- Chi te l’ha dato?- Dove l’hai preso?La mamma sprizza gioia da tutti pori. E’ un po’ affannata. Si siede e incomincia a raccontare:- Ero in coda, nella panetteria. Prima di me, una donna aveva una tessera quasi completa di bollini. Chiaramente il panettiere, la conosceva e, per nulla meravigliato, incomincia a pesare tutto il pane che le spettava.Qualche cliente, incuriosito, le chiede come mai la tessera era quasi completa.

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“Abito lontano – e fa cenno al monte alle nostre spalle – così non posso venire tutti i giorni.”Uscita la donna con la sua borsa piena, dentro di me sento una voce, forse Sant’Antonio, che mi dice: “ Seguila! ” Ed io l’ho seguita.“ Scusi signora, mi scusi tanto, se mi permetto d’importunarla. Ero vicino a lei nel negozio…”“ Sì, l’ho vista.” E la giovane e robusta contadina mi guarda con un sorriso incoraggiante.“ Mi scusi ancora…Voi siete tanti in famiglia? Lo mangiate tutto quel pane?”“ Noi siamo tanti, ma veramente il pane ce lo facciamo in casa… soltanto che mi dispiace non prendere questo e lasciarlo lì…”“ Ma… allora… potrebbe vendermene un poco? glielo pagherei di più...”“No, no, signora. Se lei vuole, glielo vendo tutto, ma allo stesso prezzo che l’ho pagato io!”La voce di Sant'Antonio, o quella del cuore di una mamma, riuscì ad ottenere una borsa piena di pane scuro, pane di guerra, che ormai mi sembrava più buono del bianco pane che a Molfetta mi donava la zia Marietta.

TU SCENDI DALLE STELLE

Anna apre la finestra e respira l’aria frizzante del mattino.Domani è Natale, e si sente.Finalmente, di nuovo a Genova, tutti insieme, a casa dei nonni.Sicuramente, non sarà un Natale come quelli di prima della Guerra. Non è arrivato, dai nonni di Bari, il bel cesto con il delizioso contenuto salato e dolce, del quale, generosamente, la zia Maria ci faceva partecipi. Non ci saranno le buone olive, lustre d’olio,

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che, messe sotto sale in un recipiente di creta, ogni giorno la mamma faceva saltare per rigirarle, e a fine dicembre erano pronte: tutte grinzose, diventavano antipasto nei giorni di festa e saporito companatico negli altri giorni. Non ci saranno le arance, con le foglioline di colore verde brillante ancora attaccate, turgide di succo rubato al sole, e la buccia dorata che noi bambini riducevamo a pezzetti per giocare a tombola e le mamme mettevano sulla stufa per profumare l’ambiente: così l’aria sapeva proprio di Natale.Non ci sarebbe stato nemmeno il ricco pandolce che, un tempo, il giorno della Vigilia, ogni bottegaio donava ai propri clienti. Questo sarebbe stato un Natale più povero, un Natale di Guerra, ma sempre un Natale da trascorrere tutti insieme, nella Casa dei Nonni.

La Vigilia. E ancora una volta Anna ha dormito nel lettone, tra le vecchie lenzuola che sanno di spigo.In cucina, i cuginetti sono già intorno alla nonna, che sta impastando.- Oh, che bello! Fai le orecchiette?- Sì, e anche le focaccine per voi.- Nonna, ma chi te l’ha dato quel sacchetto di farina?- Lo ha comperato lo zio Raffaele, alla borsa nera.Anna non è più la bimba che avrebbe pensato ad una borsa di colore scuro; ormai sa che cos’è la borsa nera. Tutto ciò che si compera alla borsa nera non è corretto, e costa moltissimo, e questo secondo punto, in realtà, è l’unico che conti, quello che impedisce di avere provviste nella dispensa.E’ la Vigilia. Tutto è bello e buono. E ben venga anche la borsa nera.La zia Maria sta mondando una piccola montagna di verdure. E’ aiutata da sua nipote Giovanna, che è venuta con lei da Bari.Anna domanda:- Zia, le prepari per stasera?- Sì, e le mangeremo insieme con le frittole, però vuote.- Perché, a te piacciono così?

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- No, perché costa troppo riempirle. A te non piacciono, vuote?- Sì, sì! Mi piacciono anche vuote!- E per domani, preparerò un buon sugo con le polpette. La tua mamma porterà una bella torta dolce.- E lo zucchero?- Ci mette fichi a pezzetti e soltanto poco zucchero.Vitino:- Mamma, è vero che, poi, tu… ci fai quella cosa buona con le uova?- Certo, ma volevo fare una sorpresa… con te non si può mai…Interviene Roccuccio:- Abbiamo sentito che ne parlavi con la nonna. Avete messo da parte le uova di Cocca e Rosina per…- Per impastare e per fare la crema! Ecco, ora l’abbiamo detto!

- Zia, la crema! E’ proprio una bella sorpresa! Non mi ricordo più quando l’ho mangiata l’ultima volta.La nonna si volta a guardare la stufa:- Maria, il fuoco sta andando giù!Giovanna si asciuga le mani per prendere la legna.Infine, la zia esorta:- Bambini, ora lasciateci lavorare! Oggi pomeriggio vengono zia Lucia e Lita. E noi saremo ancora qui con le verdure…I bambini sono di nuovo intorno alla nonna.- E’ vero che la mamma e Lita dormiranno qui?- Sicuro. Con i letti ci arrangeremo. Per qualche notte…- Che bello! Sono contenta per la mamma: Con l’oscuramento, è troppo buio di notte, quando non c’è la luna o è nuvolo.- Ed è una fortuna! – conclude, aspra, la nonna – Così, quelli non ci vengono a disturbare.A quel tempo, di notte, il cielo sereno era la nostra grande preoccupazione.

La sera, tutti riuniti come una volta. Si gioca a Tombola.- Undici! I topi! – scandisce la mamma.- Quattordici! L’ubriaco.

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- Ambo! – grida Anna.- La solita fortunata! – si lamenta Roccuccio.- E’ uscito il tredici?- Raffaele, siamo appena all’inizio e già chiedi che cosa è uscito?- brontola papà.Anna, intanto, intasca i soldini della vincita.Il gioco riprende. E tutti a segnare i numeri con i quadratini che Nico ha ritagliato da un cartoncino. Domani, però, ci saranno anche le bucce delle arance. E nella cucina si sentirà ancora quell’odore che sa di Natale.Suona la mezzanotte. Vitino è pronto, con il Bambinello tra le mani. Anna e Roccuccio lo seguono con una candela accesa, tutti gli altri dietro. Si fa il giro della sala cantando “Tu scendi dalle stelle…” Vitino si dirige in un angolo, dove la zia Maria ha allestito un piccolo presepe. Il Bambinello viene messo nella Capanna, sulla paglia.Rivedendo, nel ricordo, questa scena, mi viene spontaneo di fare l’accostamento con una famosissima commedia, dove, però, si ride amaro.Per fortuna, noi stavamo vivendo soltanto quel dramma a carattere generale che si chiama Guerra, ma, a differenza della famiglia del teatro napoletano, nessun dramma famigliare ci affliggeva.La nostra famiglia, in armonia e con semplicità di cuore, viveva il suo Natale.

Il giorno dopo traccorre in perfetta letizia. Sembra di non essere più in Guerra.Dopo un buon pranzetto, ancora la tombola e i giochi con le carte.La sera, lo zio e il nonno suonano le vecchie canzoni, e la mamma canta, ancora una volta: “ Quando torna maggio…” E noi, ancora una volta, a fare, in coro: “ Trallallà…trallallà…” In conclusione della nostra festa, si balla, come sempre, la Quadriglia.

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Il nonno suona la chitarra e, contemporaneamente, comanda le figure, con accento francese tutto suo:- Changez les dames!… La promenade!…E noi bambini ci divertiamo un mondo. Il mio cavaliere è sempre Roccuccio. E come si ride, passando a braccetto sotto la galleria di braccia alzate!Al passamano c’è sempre qualcuno che pasticcia, e il ballo finisce in una risata generale.

UNA BORSA DI PATATE

Le Feste di Natale sono passate da qualche mese, e già sembrano un ricordo lontano, poiché la realtà di tutti i giorni è molto diversa.Nella cucina fa capolino il pallido sole di un pomeriggio invernale.Anna sta aiutando la mamma a togliere pagliuzze e altre piccole impurità dagli ultimi ceci rimasti in fondo ad un sacchetto.- Mamma, dov’è Lita? – chiede, ad un tratto, la bambina.- Da un’amica, con Giovanna, per imparare a confezionare le scarpe con la corda.- Con la corda?- Sì, le scarpe per l’estate. Sopra si mette la tela e sotto viene applicata una suola di corda intrecciata. Sembra che Giovanna abbia già imparato un po’ questo lavoro. Ora, anche Lita vorrebbe…- Lita, però, sa cucire!- Sì, ma, in questo momento, nessuno pensa ai vesti nuovi ed anche a rimodernare quelli vecchi. Invece, le scarpe sono più necessarie…A proposito, metti le tue per uscire, copriti bene, e va giù, da Vittoria. Mi servirebbe qualche foglia di alloro. Intanto, chiedi se sono arrivate le patate.- Prendo la borsa della spesa?

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- Per un rametto di alloro?- E se ci fossero le patate?- Me lo vieni a dire, e scendo io.- E non posso portarle?- Impossibile. Vittoria me ne ha promesso una buona quantità.- Va bene. Allora prendo la borsa e, se sono arrivate, te ne porto su qualche chilo.- D’accordo! A Vittoria, di’ che poi passo io, per pagare e per prendere la rimanenza.Anna entra nel negozio, ma non vede nessuno dietro il banco. Saluta ad alta voce:- Buongiorno!Dal retro risponde una voce femminile:- Buongiorno, piccola! Vieni pure avanti e dimmi che cosa ti serve.Anna gira dietro il banco e scosta una tenda a fiori un po’ sbiadita. In una sorta di sgabuzzino, la signorina Vittoria è seduta ad un tavolino, illuminato da una piccola lampada che concentra tutta la sua luce su un bicchierino. La giovane donna è intenta a lavorare, con una specie di ago-uncinetto, su quel bicchierino, che è ricoperto da una calza sottile.Vittoria non alza il capo dal suo delicato lavoro. Per rimettere a posto una calza smagliata ci vuole pazienza, perizia e… pazienza.- Dimmi, cara, che cosa ti serve?- Un rametto di alloro. E, poi, la mamma vorrebbe sapere se sono arrivate le patate.Finalmente si alza, va alla vetrina, e prende un bel ramo carico di verdi foglie.- Ecco l’alloro. Va bene?Anna guarda la vetrina che ora è pressoché spoglia.- Sì, grazie. E le patate sono arrivate?- Proprio un’ora fa.- Allora, me le può vendere? Poi, a pagare, passa la mamma. - Quanti chili ne vuoi?- Tutti quelli che mi può dare.

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- Io ti posso riempire la borsa, ma…Vittoria guarda perplessa il visino pallido, quasi perduto nei lunghi capelli biondi, e un corpo che s’indovina minuto, gracile, sotto lo striminzito cappottino verde.- Se me la riempie, la mamma sarà contenta.- Potrei dartene qualche chilo, e metto da parte…- Sarei più contenta se mi riempisse la borsa - insiste la bambina.- Guarda che, piena, diventa pesante… io ti accompagnerei volentieri su, ma non posso lasciare il negozio… posso aiutarti ad attraversare la strada, ma poi…- Benissimo! La ringrazio molto.La fruttivendola accompagna Anna fino al portone, dove la lascia con il suo prezioso carico.- Grazie, signorina Vittoria!- Ma ce la farai? Quasi, quasi, faccio un salto su…- No, no, grazie! Salgo pian pianino.Un ultimo sguardo a quella bambina, che le è sempre stata simpatica perché è gentile, e la chiama sempre “signorina Vittoria”, e la fa sentire un po’ più importante ed anche più bella, lei che proprio bella non è.Mentre la giovane donna, con le spalle già leggermente curve, riattraversa la strada, Anna, a sua volta, la guarda con simpatia e gratitudine. E ricorda ancora quel cestello di buona uva che le inviò a Natale, durante la sua lunga malattia.Poi, piano, trascina la borsa lungo tutto il portone. E, un gradino alla volta, rampa dopo rampa, la trasporta sino al primo piano; ancora la trascina lungo il pianerottolo e, gradino dopo gradino, arriva dietro l’uscio di casa.E’ rossa in volto, tutta accaldata, ma felice. Finalmente è arrivato il giorno della rivincita. Nessuno dirà più che non sa reggere nemmeno un secchiello con due litri d’acqua! E, soprattutto, la mamma sarà tanto contenta per tutte quelle patate.La mamma, però, non risponde alle sue scampanellate. La bambina, con una mano tiene strette le due maniglie della borsa,

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con l’altra continua a suonare il campanello, insistentemente. Poi, sempre più stanca e affaticata, incomincia a chiamare a gran voce:- Mamma! Mamma!Infine, dà calci furiosi nella porta.Quando, finalmente, la porta viene spalancata, il disastro ormai è avvenuto.La mamma si trova davanti una bambina con le guance in fiamme, grondante sudore e soffocata da un pianto dirotto.- Figlia mia, che cosa ti è successo?Nemmeno il volto spaventato della mamma riesce a farle uscire subito le parole. Un nodo le stringe la gola. Attraverso le lacrime di rabbia e di dolore, indica un torrentello di patate che stanno rotolando sulle scale o addirittura zampillando dal pianerottolo in fondo al portone.Un attimo prima che la mamma aprisse la porta, le maniglie si erano staccate, la borsa aveva aperto la sua capace bocca, e ne erano uscite rapidamente le preziose pepite di terra.La mamma, contrariamente alla sua tendenza a drammatizzare, ridimensiona l’accaduto:- Non ti preoccupare, le patate non soffrono, le raccogliamo tutte.E così fecero.- Ma perché non hai aperto subito la porta? – chiede, più tardi, la bambina.- Ero sul poggiolo, preoccupata perché non arrivavi… E ho preso anche freddo…Tu, invece, sei sudata…Ti può venire di nuovo la polmonite!E con queste parole ritorna la drammaticità della mamma.Non mi venne di nuovo la polmonite, ma un malanno meno grave sì. Per alcuni giorni dovetti rimanere a letto, con la febbre alta. Però io ero contenta, perché in casa tutti mi coccolavano, come quando ero la piccola Anna.

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PRIMA COMUNIONE

La vita continua.A ripensarci, sembra quasi impossibile. Nonostante tutte le vicissitudini, con gli episodi, gravi o gravissimi, che accadono in un tempo anomalo, di continua crisi, come è il Tempo di Guerra, sulla grande scena, lo spettacolo della vita continua, e gli esseri umani continuano a recitare la loro parte .I giovani si innamorano, i vecchi brontolano, gli amici s’incontrano, i bambini giocano.In primavera, i bambini italiani si preparano per la Prima Comunione. Anche Anna lo sta facendo.

- Mamma, la devi lasciare andare, al catechismo. Ha quasi dieci anni. E’ piccola, è minuta.Va bene. Non sfigurerà vicino agli altri, che sono tutti intorno ai sette anni; ma, se aspettiamo ancora un po’…- Lita, ci sono i bombardamenti! Non va nemmeno a scuola…- Quella è stata una tua idea. Dopo tutto, si tratta soltanto di due pomeriggi alla settimana. Posso accompagnarla io.La mamma si arrese. Si trattava di ricevere Gesù . Non volle essere lei a ritardare più a lungo quel momento.Anna ce la mise tutta. Studiava le risposte alle domande del catechismo, finché non erano precise. E per lei era veramente uno sforzo, poiché non le piaceva studiare a memoria. E imparò anche tutte le preghiere, in italiano e in latino.Il curato era molto simpatico e dopo ogni lezione, con uno spettacolino, cercava d’invogliare i bambini Usava una Lanterna Magica e, tramite quella, proiettava le illustrazioni di un giornalino: le avventure di Giraffino, Giraffone, e tutta una famiglia di Giraffe.Ai bambini piacevano, quelle storie.Ad Anna piacevano anche gli episodi di Storia Sacra, che il Curato sapeva raccontare così bene.

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La bambina si ricordava l’episodio di “Giuseppe venduto dai fratelli ” che , a Molfetta, aveva ascoltato per la prima volta dallo zio Giuseppe, seduta vicino al braciere; non conosceva soltanto quello, ma anche altri personaggi della Bibbia. Qualche tempo prima, alcune persone molto convincenti, che giravano di casa in casa, erano riuscite a vendere un libro alla mamma.Nel titolo era chiaro il programma: “ La Storia più bella raccontata ai fanciulli”.La mamma l’aveva comperato per Anna, ma poi si era pentita.- Antonio, forse è un libro all’indice…Avrò fatto male a comprarlo… Sarà meglio che mi vada a confessare!- Lucia, non dire sciocchezze! La bambina piange e vuole il suo libro. E ha ragione. Perché non dovresti darglielo? E’ un libro di Storia Sacra.- Sì, ma forse non è della nostra religione…- Lucia, ti ripeto di non dire sciocchezze! Non hai visto che sono tutti episodi tratti dall’Antico e Nuovo Testamento?Anna ebbe il suo libro: I personaggi erano presentati in ordine alfabetico da Adamo a Zaccheo. Anna ha sempre amato quel libro, indipendentemente dal fattore religioso. Pagine ricche di storie, raccontate bene, con simpatiche illustrazioni, da Giona rimasto tre giorni nel ventre della balena, a Noè e l’Arca con tutti gli animali, sino all’ultima pagina: Gesù che ritorna sulla Terra, nuovo Paradiso Terrestre, dove le pecore pascolano vicino al leone. Ad Anna sono sempre piaciute le storie che finiscono bene.Il giorno della Prima Comunione si avvicinava. Anna era stata presa da una specie di crisi mistica. In chiesa, si soffermava sempre a pregare davanti ad una statua della madonna vestita di bianco, con una fascia azzurra intorno alla vita, con le braccia aperte, quasi volesse accogliere in sé tutti i poveri figli sperduti nel mondo.

Quella non fu l’unica mia crisi mistica, ma fu l’unica in cui mi sembrava di avere veramente un’altra mamma in cielo, e, per

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quei brevi momenti, mi ero staccata un poco dalla mia mamma terrena, alla quale fui sempre attaccatissima, per tutta la sua vita e... oltre.

Con il giorno della Prima Comunione, si fece pressante anche un altro problema che riguardava Anna, ma che a lei non interessava molto: il vestito.La mamma e Lita ne parlavano sempre più spesso.- Peccato che non abbia più il mio! - si rammarica Lita - Avremmo potuto adattarlo a lei.- Lo so. Allora, io lo regalai. Erano altri tempi…- Io posso confezionarlo, ma la stoffa ci vuole. E ce ne vuole tanta…Anna solleva la testa dal libretto della dottrina, dove sta studiando l’Atto di Dolore da recitare alla prima Confessione.- Mamma, ha detto il curato che basta un semplice abitino bianco: Gesù è nell’Ostia, non nel vestito.- Eh, sì, dice bene lui, anch’io la penso così… ma come si fa… con tutte le altre…Anna ritorna a studiare l’Atto di Dolore, ma poi s’interrompe di nuovo, perché, per la prima volta, ode una parola che, negli anni futuri, sentirà usare molto frequentemente.- Ho deciso, - dice la mamma - vado dalla signora Carletta, qui, nel vicino palazzo rosso. So che vende biancheria e stoffe a rate. Al giorno d’oggi, con i bombardamenti, è difficile trovare venditori che ti fanno le rate…La signora Carletta le fa perché vende in casa… si arrangia così… e in qualche modo deve attirare i clienti.La mamma andò dalla signora Carletta e ritornò con molti metri di una bellissima stoffa bianca che sembrava fatta di trine. Lita ne ricavò un semplicissimo vestito, perché la bellezza stava già tutta nella stoffa. Anche Anna mise un po’ da parte i suoi buoni propositi di avvicinarsi a Gesù con intenti soltanto spirituali, e finì per entusiasmarsi per quel bel dono della sorella e della mamma.

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Quel bianco vestito fu trasformato, più tardi, in un abito da passeggio, e, a vent’anni, Anna ne portava ancora un lembo, sotto forma di una graziosa camicetta.

Anna era molto contenta, anzi, forse ancora di più, per un altro vestito che la mamma aveva comperato dalla signora Carletta. Di ritorno dalla chiesa, tolto quello della cerimonia, lo avrebbe indossato per il resto della giornata. Con quello avrebbe potuto giocare, anche sul poggiolo, con i cuginetti. Era un semplicissimo vestito di tela stampata, fondo celeste e piccoli fiori bianchi.Quel giorno, il vestito celeste non sarà affatto indossato, e per gravi accadimenti.

Il chiaro mattino di giugno incomincia bene. Anna, nel lungo abito bianco, sembra ancora più minuta. I lunghi capelli biondi, pettinati con cura da Lita, scendono a boccoli sulle spalle e incorniciano il volto che sembra ancora più pallido e sparuto, ma lo sguardo è luminoso, ridente, di una bambina felice.In sala, su un tavolino, fanno bella mostra i piccoli ma graditi regali: i guanti bianchi, dono della zia Maria; il libretto delle preghiere, con il Sacro Cuore in rilievo, dono della nonna; una Madonnina con una piccola acquasantiera, dono di Giovanna; una borsetta, un servizio per il cucito, doni delle amiche di Lita; un libro, dono della maestra che abita al terzo piano, la signorina Giuseppina.In chiesa, Anna, tutta compunta, non pensa più ai vestiti, ai regali, ma soltanto a Gesù.Se veramente esiste il Paradiso, in quel momento Anna ci sarebbe andata per direttissima, senza passare dal purgatorio. Ci sono tempi in cui il cuore può essere veramente puro e l’animo innocente. Sono momenti rari, che difficilmente si ripetono.Appena usciti dalla chiesa, ormai vicini a casa, suona l’allarme. Bisogna correre al Rifugio.

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- La zi…- così la zia Maria chiamava affettuosamente la cognata, come se fosse anche lei una nipotina, al pari dei suoi figlioletti - la zi, mi dai la chiave? Io vado su…- Maria, che cosa vuoi fare? - Vado a finire di cuocere il sugo per la pastasciutta. Non abbiamo molto, ma almeno quello deve essere buono. E poi apparecchio la tavola.- Ma… l’allarme…- La zi, non ti preoccupare, tra poco sonerà il cessato allarme.La previsione della zia Maria non si avvera. Passano molte ore prima di poter lasciare il rifugio.Anna se ne sta lì, nel suo vestito bianco, seduta sulla panca, quasi senza muoversi, per timore di sporcarsi.Gli altri bambini, maschietti e femminucce, la guardano con ammirazione. Lei è soltanto molto stanca. Al cessato allarme, finalmente a casa, trova una bella tavola apparecchiata, ma ormai non ha nemmeno più appetito. E’ tardi. Non indossa nemmeno il suo bel vestito celeste, ma soltanto un vecchio grembiulino. Dopo la tensione del mattino e la stanchezza del pomeriggio, prova soltanto uno sfinimento e volentieri se ne andrebbe subito a letto.Intanto, arrivano gravi notizie dal centro cittadino. Ancora una volta, Genova è stata duramente colpita. E, nel mio ricordo, rimane come il peggiore bombardamento del 1944. Il giorno dopo, dal poggiolo, guardando giù, nel giardino sottostante, Anna è incuriosita da una discussione tra Merina e Pino, uno dei bambini più vivaci del Rifugio. Lui è seduto, a gambe penzoloni, sul muretto, dove era stata divelta la cancellata per donare il ferro alla Patria.Pino insisteva per avere una rosa, l’unica sbocciata, e Merina replicava che non poteva dargliela: la mamma l’avrebbe sgridata. E lui insisteva. E Merina rifiutava.- E poi, che cosa te ne fai, tu, di una rosa?- Lo so io!Pino non ottenne la rosa.

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Dopo qualche giorno, al Rifugio, la Nina si avvicina ad Anna con l’aria di volerle confidare un gran segreto.- Ho saputo… ma tu fa’ finta di niente…- Ma se non hai detto niente, che cosa…- Te lo dico adesso. Pino voleva una rosa da Merina.- Questo lo so. L’ho visto.- E sai anche perché la voleva?- No. Anzi, mi ha incuriosito.- Voleva la rosa per donarla a te.- A me?Anna è talmente stupita, che non trova parole da aggiungere. E’ la Nina a concludere:- Sì, a te. Si è innamorato, quando ti ha visto il giorno della Prima Comunione.

La tonaca non fa il monaco ma, forse, un lungo e bianco vestito può trasformare una povera bambina, stanca e affamata, nella bella principessina della fiaba.

DA GIUGNO A GENNAIO

Nella vita di Nico ci fu un momento in cui la mamma s’impose con la forza della sua debolezza.Il mese di giugno del 1944 segnò una svolta per molti giovani liguri.I tedeschi attuarono una grande retata in numerose fabbriche genovesi, e centinaia di operai vennero mandati in Germania. Per fortuna, non colpirono la fabbrica dove lavorava Nico ma, sicuramente, in quella lui non poteva più tornare.Una sera, il dialogo tra madre e figlio stava toccando i toni della tragedia greca.- Mamma, devo decidere, non posso più rimanere qui. Io me ne vado in montagna, con Ezio, il figlio della signora Clara.- Nico, figlio mio, se tu te ne vai sui monti, io ne morirò. Come potrei vivere senza avere tue notizie, mentre tu stai al freddo, in mezzo a tutti i pericoli?

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- Io cercherò di farti avere spesso mie notizie, e verrò tutte le volte che mi sarà possibile.La mamma scoppia in lacrime.- Quando verrai, mi troverai morta!Papà, mal sopportava i toni esageratamente tragici della mamma, ma sapeva che la vita dei partigiani era realmente pericolosa. Non si pronunciava. Anche Lita taceva. Anna era spaventata dal quadro a tinte fosche dipinto dalla mamma, ma sapeva che non doveva intervenire in una questione così delicata.E Nico:- Ma qui è pericoloso! Lo sai che per loro sono un disertore e, se mi trovano, corro un pericolo ancora più grande? Nella migliore delle ipotesi mi obbligano ad arruolarmi, oppure mi mandano in Germania, o, peggio, mi fucilano.Anna si spaventa sempre più e già vede suo fratello nelle situazioni più orribili.Sicuramente, anche la mamma era molto spaventata dalle prospettive illustrate da Nico; tuttavia, non si dava per vinta, e già stava cercando una soluzione al dilemma.- Tu potrai rimanere qui, ma non in questa casa, dove possono venire a cercati. Troveremo una sistemazione. Provvisoriamente, potrai andare dai nonni. Per qualche tempo, Nico abitò nella Casa dei Nonni.Non ricordo per quanti mesi, sicuramente fino a tutto dicembre e ai primi giorni di gennaio.Quell’anno, infatti, il Natale fu più povero del precedente, ma il Presepe della zia Maria più ricco e più bello.Era stato allestito con l’aiuto di Nico, che aveva aggiunto i pastorelli da lui modellati con la creta e colorati, e alcune casette, pure costruite da lui con il cartoncino. Tra il musco, un piccolo lago formato da un vecchio specchietto.Il tutto poggiava su una mensola triangolare, appositamente adattata all’angolo vicino alla finestra della cucina. Questo presepe, non molto grande, ma veramente originale, sembrava

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incastonato in un Albero di Natale. Dal retro, si levava un robusto ramo di pino, che si apriva in alto, a formare una cupola verde. Questo ramo, non so come ma, sicuramente, era stato ben fissato nell’angolo.Infatti, la zia Maria, con vivaci nastri colorati, aveva appeso ai rametti, piccoli mandarini, alcuni frutti secchi (castagne, fichi, noci…), qualche raro pezzetto di torrone o altri dolcetti: tutti avvolti in carta velina o in preziosa stagnola, a suo tempo raccolta e conservata. Nico aveva attaccato un numero ad ogni regalino.La domenica dopo l’Epifania, noi bambini, e non soltanto noi, ci siamo divertiti con la lotteria.Con le ballottine della tombola, si tiravano a sorte i regalini.Anna infila la mano nel sacchetto:- Dodici! A me la liquirizia!Roccuccio: - Sei! Una castagna!E Nico:- No! Non è sei, ma nove. Vedi? qui sotto c’è una lineetta.- Bene! Nove è il torroncino!- Tocca a te, Vitino.- E questo, che numero è?- Questo è sei, la castagna.- Voglio pescare di nuovo! Voglio anch’io il torroncino!- No! Ora tocca a Giovanna!- Sta buono, Vitino! Se pesco un dolcetto, lo do a te!Così, grandi e piccini si divertono e, a poco a poco, l’albero viene spogliato.

UN PICCOLO SALTO NEL FUTURO

Anna aveva molto ammirato quel presepe del 1944, ma soltanto dopo la guerra ottenne, finalmente, il “suo presepe”.

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- Non vi chiedo tante statuine, soltanto qualcuna. Se ognuno di voi mi compera una statuina, io posso farlo.Il conto non era proprio preciso, perché in casa gli adulti erano soltanto cinque: mamma, papà, Nico, Lita e Tonino, che, però, mettevano da parte tutti i loro risparmi per sposarsi. Ma Anna sperava. E non invano. La mamma comperò la Sacra Famiglia, Lita il bue e l’asinello, papà i tre Re Magi adoranti, Tonino un pastorello con la pecorella, vicino ad uno steccato, e una donnina che lava nella tinozza.- Nico, tu che cosa mi comperi?- Ma…non lo so…La sera seguente.- Nico, tu non hai comperato ancora niente! Natale si avvicina…Se non hai i soldi, perché non modelli qualche statuina con la creta, come quelle del presepe della zia Maria?- Vedremo…Passano i giorni. Anna è proprio mortificata: dovrà decidersi ad allestire il presepe senza il contributo di suo fratello.E’ sabato sera. L’ultimo prima di Natale.- Domani - si ripromette, prima di addormentarsi - mi dedicherò al presepe. Lo preparerò nella saletta, sulla cassa-baule… il coperchio è piatto, lì va bene. Sì, domani… domani… - sono le ultime parole, impastate di sonno, che mormora tra sé la bambina.Il mattino seguente si alza presto e sta per entrare in cucina, quando… Di colpo, a undici anni ormai compiuti, lei ritorna ad essere la piccola Anna, che guarda incantata la paperina che si muove da sola nella vaschetta del lavandino.Sulla cassa, nell’angolo della saletta, era stato allestito un meraviglioso presepe.Alte rocce screziate, dalle quali scendeva un torrente che terminava in un laghetto che sembrava vero (la statuina della lavandaia era stata posta lì), in distanza, i tre Re Magi sul dorso dei cammelli, numerosi pastori, casette sparse qua e là; il fondale con i monti lontani: tutto dava l’idea di un paesaggio

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reale. A completare, il cielo blu con le stelle, trasparenti punti luminosi, e la falce di luna, intagliata, traslucida, illuminata dal retro, creavano un’atmosfera magica.Un tavolo rovesciato a gambe in su, come struttura portante; carta da pacchi, colori, tanto spirito creativo e ore di lavoro notturno di un fratello affettuoso, erano riusciti, ancora una volta, a stupirmi gioiosamente, come nella mia prima infanzia.Negli anni futuri ho avuto occasione di ammirare molti presepi, artistici, con le figure in movimento, tutti molto belli, ma nessuno è riuscito a suscitare in me la stessa emozione di quel presepe allestito da Nico, per la sua sorellina.Il più bello anche nel ricordo.

L’APPARTAMENTO DEL IV PIANO

Un giorno, la mamma era venuta a sapere dalla signora Pina, del IV piano, che lei aveva le chiavi dell’appartamento dei suoi vicini, rimasto provvisoriamente disabitato. Gli inquilini si erano trasferiti in un’altra città. Esisteva la possibilità di entrare in subaffitto in quell’appartamento. E, ben presto, la mamma ne ottenne le chiavi.Nel gennaio 1945, Nico si trasferì nell’appartamento al IV piano. Era esattamente come il nostro, ma con una camera in più.In quell’appartamento, per alcuni mesi, lui visse “agli arresti domiciliari”, naturalmente per libera scelta personale e… in segreto.A dire la verità, la scelta non era stata proprio personale, poiché la mamma l’aveva spinto in quella direzione, ed io penso che ci siano stati momenti in cui lui ne abbia anche sofferto, non sentendosi, come si suol dire, “né carne, né pesce”.Anche il segreto non era proprio tale. Molti, direi la maggior parte degli abitanti del quartiere, sapevano che lui era lì. Gli inquilini del nostro caseggiato ne erano tutti a conoscenza, perché, a volte, specialmente la sera, lui scendeva giù e non era

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difficile incontrarlo per le scale. Inoltre, sovente si affacciava alla finestra, o, peggio, usciva sul poggiolo.Un giorno, Ezio, il bottegaio, trovandosi da solo nel negozio con la mamma, abbassando la voce, le consigliò:- Signora, dica a suo figlio di essere più prudente, si fa vedere troppo!- E’ vero! Grazie!- Sa com’è… non tutti la pensano allo stesso modo…Ezio aveva ragione. In quel triste periodo, l’Italia del Nord, non solo era divisa dal Sud, ma subiva anche un’altra più grave scissione, dovuta ad un modo diverso di considerare la drammatica situazione in cui venivamo a trovarci.I militi della Repubblica di Salò consideravano i partigiani come ribelli; per questi ultimi gli altri erano le brigate nere.A quel tempo, due erano le espressioni che più mi spaventavano: i tedeschi e le brigate nere. E ad esse erano collegate altre espressioni non meno spaventose: rappresaglie, retate, invio forzato in Germania, torture, fucilazioni.La bambina Anna cercava di scacciare l’orribile pensiero che suo fratello potesse cadere nelle loro mani.- E se prendessero me? - si chiedeva angosciata, qualche volta - Che cosa potrei fare se mi chiedessero di tradire Nico? Io non resisterei alle torture! Era un pensiero terribile! Seguito da un altro pensiero infantile e fantasioso. E tra sé e sé mormorava:- Devo procurarmi un veleno, da tenere sempre con me. E usarlo subito, nel caso fosse necessario!Anna non riuscì mai a procurarsi il fatale veleno, né si presentò la temuta occasione in cui avrebbe dovuto usarlo.Per fortuna, questi pensieri non erano troppo frequenti e Anna cercò di cogliere tutto il bello e il buono di quello straordinario periodo, in cui Nico abitava al IV Piano.

MIO FRATELLO

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Sono circa le nove del mattino. In cucina, Anna sta raccogliendo le ultime briciole di pane scuro, termina di bere la sua scodella di latte e caffè d’orzo, subito si alza e si avvia alla porta.- Mamma, vado su.- A mezzogiorno, vieni a prendere la minestra per Nico, e non tardare, che fredda non è buona!- Sì, mamma. E Anna già corre su per le scale, mormorando, tra sé:- Quella minestra non è buona nemmeno calda…Tutte le mattine si svolge la stessa scena, e, più o meno simile, anche il pomeriggio.Ormai, Anna trascorre le sue giornate su, al quarto piano.Apre la porta con la chiave. Nico è intento a disegnare su un foglio di cartoncino che copre quasi completamente il tavolo.- Hai terminato?- Ancora un ultimo ritocco al Traguardo. E tu, hai portato i dadi?- Si, me li ha dati Lita. Erano assieme al gessetto, nella sua scatola del cucito.- Bene. Ora scegliamo i cavalli. Tre per ciascuno.Nico mette sulla pista sei cavallini, con i rispettivi fantini, da lui disegnati e ritagliati nel cartoncino, con una linguetta sotto che funge da piedistallo, per cui si mantengono ben stabili sul nastro di partenza. - Allora, tiriamo a sorte?- No! Nico, te l’ho detto ieri: io voglio Aquila bianca, gli altri due come vengono, a caso.- E va bene. Allora, io, come preferito, scelgo Morello.La corsa ha inizio su una bella pista, così ben disegnata e colorata da sembrare vera. Ci sono anche i cartellini per gli svantaggi e quelli per i vantaggi. Tutto viene affidato ai dadi.- Nico, perché la sorte favorisce sempre il mio Aquila Bianca o il tuo Morello?- Non lo so… forse li spingiamo con il pensiero!

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Nico ride per questa sua sortita, ma Anna sta lì, con i dadi in mano e, per qualche attimo, dimentica che tocca a lei tirare. Sta riflettendo per la prima volta sulla forza del pensiero.In quel periodo di volontaria, forzata reclusione di mio fratello, io trascorsi con lui tanto tempo, come non era mai accaduto prima e non accadrà mai più in seguito.Quegli ultimi mesi di Guerra sono indimenticabili. I più brutti, per gli orribili episodi che, sempre con maggiore frequenza, si verificavano. Le notizie che giungevano da ogni parte erano sempre più gravi; gli editti che apparivano sui muri avevano un tono sempre più minaccioso. In quei giorni, l’ansia e la paura, talora improvvisamente, stringevano in una morsa tenace il mio cuore di bambina. Tuttavia, devo riconoscere che quello fu uno dei periodi più esaltanti della mia infanzia.Con Nico, io giocavo e imparavo. La mia mente si apriva al vasto mondo della conoscenza. Ed io incominciavo a chiedermi il perché delle cose, incominciavo a volgere lo sguardo verso più ampi orizzonti. Uscivo, così, dal piccolo mondo infantile, ma soltanto su un piano mentale, perché non mi fu tolto né il piacere del gioco né la poesia della vita. La mia anima riusciva ancora ad incantarsi per la bellezza delle piccole cose, e a meravigliarsi per le piccole magie.Allora, la mente desiderava sempre più dissetarsi alle fonti del sapere, ma il cuore non era molto diverso da quello della piccola Anna. E… chissà, forse non soltanto allora.Con Nico, aprire un Atlante Geografico non era noioso come cercare i nomi sulla Cartina d’Italia (deprimente ricordo della mia terza elementare). No! Con lui voleva dire iniziare un entusiasmante viaggio alla scoperta del mondo.E le pagine astronomiche dell’Atlante? Un mondo ancora più affascinante. E, con il nasino in su, non si sta a guardare il cielo solo per paura di aerei bombardieri, ma anche per ammirare le stelle.Fin da piccolo, Nico amava inventare e sapeva costruire i giochini per la sorellina Lita, minore soltanto di due anni.

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In quei mesi, io ebbi modo di conoscere meglio l’inventiva e la capacità manuale di mio fratello.

Una mattina, Anna trova Nico ad armeggiare con una scatola e una lampadina.- Che cosa stai facendo?- Vedrai! Ora va giù a prendere le cartoline illustrate.- Quelle con cui giocavo io, l’altro giorno?- Non so se ci giocavi tu! Va a prenderle e basta. E, da Lita, fatti dare un telo bianco, un lenzuolino… insomma, quello che trova. Poco dopo, Anna ritorna con un pacchetto di cartoline e un pezzo di vecchio lenzuolo.Nico ha costruito una “Lanterna Magica”.- Oh! E’ uguale a quella che usava il curato per le storie di Giraffino e Giraffone.Incominciano le proiezioni.- Ti piace?- Molto. Ma quella è Molfetta… Come si distinguono bene le barchette sul mare! Com’è bella! Ora non distruggerla, per costruire un’altra cosa, come sei solito fare tu!- Può darsi. Domani costruirò un caleidoscopio.- No! Non rovinare la Lanterna Magica! Non voglio il cale… insomma, quella cosa lì.- Il caleidoscopio? - Quello! Non lo voglio!- Ma, se non sai nemmeno che cos’è…- Non m’importa. Voglio tenere la Lanterna Magica. Domenica voglio farla vedere a Roccuccio e Vitino.- Non la tocco, la Lanterna non mi serve. Devo formare un tubo con il cartone. Piuttosto, guarda se Lita ti può procurare qualche specchietto…L’indomani.- Devi guardare con un occhio e chiudere l’altro.- Come faccio? Non ci riesco a tenere un occhio aperto e uno chiuso!- E allora mettici sopra una mano, per chiuderlo!

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- Oh! Che meraviglia! Che bel disegno!- Ora giralo!- E’ bellissimo! Un altro disegno!- Ogni volta che lo muovi, si forma un nuovo disegno.- E i disegni, da che cosa sono formati?- Dai pezzetti di cartoncino colorati. Gli specchi li riflettono e creano le diverse composizioni.- Non distruggerlo, non rovinarlo, perché voglio farlo vedere a…-…a Roccuccio e Vitino.Anna raccomanda sempre al fratello di non rovinare ciò che ha costruito, perché lui ha due difetti, che si possono ridurre ad uno solo.Qualche volta non è completamente soddisfatto della sua opera e, tentando di migliorarla, fa tanti cambiamenti che, alla fine, si stanca, e non termina più il lavoro, abbandonandolo incompiuto. Non di rado, invece, lavora alacremente finché tutte le difficoltà sono superate e, ormai giunto quasi al termine, sicuro della riuscita, si ferma e, ancora una volta, abbandona l’opera incompiuta.Un esempio: Il Teatrino.Nico aveva costruito un grande teatro di legno, con il suo palco, le quinte, e i fondali, uno più bello dell’altro. Ricordo una bellissima veduta di Venezia sotto la luna. Lita aveva anche preparato il sipario e i vestiti per le marionette.Sul frontale, a grandi lettere si leggeva TEATRO ANNA e, sotto, la riproduzione, fatta a mano, di una fotografia della piccola Anna: occhi grandi, un po’ stupiti, in un visetto tondo, incorniciato dai riccioli biondi e, sulla sommità del capo, un largo fiocco di organza bianca.Anna trovava meraviglioso il suo teatrino, ma non ebbe mai il piacere di vederlo in funzione.Nico costruì marionette perfette, con le teste intercambiabili, braccia e gambe snodate, ma erano soltanto due e mezzo: Arlecchino, Colombina, e la testa di Pantalone.

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Nel TEATRO ANNA non fu mai rappresentata nessuna commedia. E nessun dramma. L’unico dramma fu quello di non essere mai usato.

Un giorno, Nico iniziò a lavorare a quello che a me è sembrato il gioiello della sua manualità e creatività.- Nico, che cosa stai copiando, dall’Enciclopedia?- Un Alfiere.- Un Alfiere?- Sì, non sai che cos’è?- Sì, più o meno…c’era negli eserciti di una volta…- Ecco!- Ma che cosa te ne fai?- E’ un pezzo degli Scacchi. E’ un gioco come la dama, ma molto più bello. Poi, te lo spiego. Ora non mi disturbare, perché i pezzi sono tanti e il disegno è soltanto l’inizio del lavoro.Anna non immaginava quanto sarebbe stato lungo e complesso, quel lavoro.Pensava al Gioco della Dama, che Nico aveva già realizzato qualche tempo prima. Una scacchiera di legno, con i quadretti bianchi e neri, e le pedine ricavate da un vecchio manico di scopa tagliato a fettine. Le pedine nere passate con l’inchiostro di china.La realizzazione degli Scacchi fu molto più laboriosa. Tutti i pezzi furono disegnati, riportati su legno compensato, ritagliati e incuneati in piccoli piedistalli; tutti i neri passati con inchiostro di china. Infine, per contenerli, Nico fece anche una bella scatola di legno con coperchio scorrevole.Finalmente, Nico spiegò il gioco alla sorella. Per Anna fu facile imparare tutti i movimenti, ma la facilità si fermava lì. Tuttavia, la bambina voleva sempre giocare con gli Scacchi. E perdeva sempre, o quasi.- Oh! Di nuovo ho perduto la Regina! Non ho visto il Cavallo. Non posso rifare la mossa?- No, non puoi!- Ma io, senza Regina, non voglio giocare…

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- Dovevi pensarci prima! Non devi pensare soltanto a quello che vuoi realizzare tu, ma anche alle possibili mosse degli altri.Qualche volta, raramente, Anna vinceva. E allora erano grida di trionfo e salti di gioia.In quei mesi, aiutata dal fratello, Anna fece progressi anche negli studi scolastici.Imparò a risolvere i problemi di aritmetica e ad amare la lettura.Si sperava in un’imminente fine della Guerra. Se il lieto evento si fosse verificato, la bambina si sarebbe presentata privatamente agli esami di classe quarta, (come poi avvenne).Nico incominciò a prepararla per quell’eventuale esame.Lui le spiegò come affrontare la soluzione dei problemi.- Quando sei in difficoltà, sostituisci i numeri alti con quelli più semplici, entro la decina, così comprendi subito quali operazioni devi eseguire.- E’ vero! Così è facile.(Questo piccolo stratagemma funziona e, un giorno, la maestra Anna lo spiegherà, con profitto, ai suoi scolari.)Le maggiori difficoltà, comunque, Anna non le trovava nell’aritmetica, ma nella lettura. Si stancava presto, perché l’esercizio era stato nullo in prima, minimo in seconda, sempre a causa di malattie, e scarso anche in terza, a Molfetta.Anna, però, amava ascoltare, dagli altri, la lettura ad alta voce.- Oggi iniziamo un nuovo libro. - Che cos’è? - “Cuore”, di Edmondo De Amicis. - E poi… non lo lasci mica a metà? - No! No!E, invece, qualche giorno dopo, Nico, di proposito, quando arriva nel bel mezzo del racconto “ Dagli Appennini alle Ande”, si interrompe e non va più avanti. E nemmeno il giorno seguente. Con scuse diverse, la lettura non viene più ripresa. Così, Anna, che vuole sapere se Marco riuscirà, infine, a ritrovare la sua mamma, deve decidersi a leggere da sé, il libro.

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Questa storia si ripete più volte, finché Anna non impara a leggere, e ad amare la lettura. E questo sarà un grande amore per tutti i suoi giorni futuri.

IL CORAGGIO

In sala da pranzo, sul tavolo di noce, Anna aveva sempre visto due oggetti: un bel vaso decorato, fragile, da non toccare, e un grande libro azzurro che poteva sfogliare, ma dopo aver lavato bene le manine.Fin da piccola, aveva imparato a trovare subito la pagina che a lei interessava; come un segnalibro, da quella pagina passava un bel cordoncino azzurro.- Papà! - e, con il ditino, indicava la sua fotografia.- Sì, è papà - confermava Lita.Nell’Albo d’Oro, sotto la fotografia di papà, era scritta la motivazione della sua medaglia al valor militare, che recitava, all’incirca, così:

“…compiendo valorosamente il suo dovere in difesa della Patria, ferito gravemente, non emetteva un lamento…”

Papà non si era lanciato in spericolate azioni eroiche, aveva semplicemente compiuto il suo dovere e non si era lamentato.Potrei dire che in queste due espressioni si possono riassumere i tratti essenziali del suo carattere.Compiere il proprio dovere, la dirittura morale, la forza interiore, sono i valori che hanno regolato la sua vita.Papà fu valoroso, sul campo di battaglia della Prima Guerra Mondiale. Ma dimostrò ancor più coraggio e forza nell’affrontare le difficoltà della vita nel periodo più critico della Seconda Guerra Mondiale.Una rigida sera di febbraio. Nella cucina, un forte odore di cavolo. La famiglia a tavola, davanti ad un piatto di minestra fumante, e nell’essere fumante sta la sua unica qualità.- Mamma, perché non la metti nel piatto, la tua minestra?

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- Mangio nella pentola perché è più calda. Antonio, ne vuoi ancora un po’?- Ma tu, ne hai abbastanza?- Sì, ne ho tanta…Lita, passami il piatto di papà.Lo riempie quasi completamente. Papà vuota il secondo piatto con un appetito, in lui, eccezionale. La mamma mangia lentamente, anzi finge di mangiare: in realtà, sta grattando il fondo della pentola. Praticamente, ha rinunciato alla sua cena. Non per i figli, ma per il marito. Perché?Papà aveva faticato tutto il giorno in un lavoro pesantissimo, non adatto a lui, e al quale non era abituato.Lo scatolificio nel quale, per molti anni, aveva svolto un lavoro sedentario e con mansioni di responsabilità (controllo d’entrata e di uscita merci), aveva chiuso i battenti; e così pure la ditta consorella che lavorava i prodotti da inscatolare.Ai licenziati era stato proposto un unico lavoro. Trasportare, con un carretto tirato a mano, casse di bottiglie contenenti una sorta di condimento per l’insalata, (essenzialmente, qualche goccia d’olio in un litro d’aceto). Queste casse dovevano essere consegnate ai diversi negozi sparsi per la città. Papà e tre impiegati più giovani di lui avevano accettato.Le strade di Genova sono tutte un saliscendi. La fatica era tanta. Uno per volta, i compagni di papà abbandonarono quel lavoro, che richiedeva forza fisica e, soprattutto, grande forza di volontà. Papà rimase da solo, a tirare il carretto.E non è tutto.Dopo cena, ognuno cerca un buon posto vicino alla stufa.Per un attimo, la mamma apre la portafinestra e la richiude subito.- Antonio, incomincia a nevicare… non potresti per stasera…- No! No! Anzi, mi affretto.E va subito ad indossare il vecchio cappotto di panno scuro. Sempre quello, da molti anni; infila i guanti di lana e, intanto, controlla il contenuto di una tasca: un grosso mazzo di chiavi.- Papà - lo prega Anna - devi proprio andare? E’ una così brutta serata… Lo stabilimento è fermo. Chi vuoi che venga, a rubare?

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- C’è lo stagno. Lo stagno è prezioso. E, quando si riaprirà lo stabilimento… Comunque, certamente non verrà nessuno. Ho il mio lettino e potrò dormire tranquillamente. E poi ci sono i due cani lupo che mi fanno compagnia e buona guardia.Anna abbraccia il suo papà e lo guarda andar via. E ha voglia di piangere, come quel giorno lontano, piccolina, dal treno che si allontanava verso il Sud, lo salutava, mentre lui rimaneva da solo sulla pensilina.Papà, grande Invalido di Guerra, con una pensione che ogni giorno diventava sempre più inadeguata ai bisogni reali, in teoria, avrebbe dovuto limitarsi ad un lavoro leggero; in pratica, nel periodo più critico dovette accettare, per un misero ma utilissimo compenso, due lavori per nulla adatti a lui.. E lui li accettò, con umiltà e coraggio. Il vero coraggio. Lo fece per noi.Un grande poeta latino era di umili origini: era figlio di un liberto. Un giorno, disse pressappoco così: “Se dovessi nascere cento volte, per cento volte non vorrei altro padre di quello che ho”.Ed anch’io la penso così!

DOMANI ANDIAMO

La nonna si è ammalata. Ha disturbi allo stomaco e all’intestino.- Lucia, tua madre non mangia più, e non vuole nemmeno più cucinare… io non so che cosa fare! - dice il nonno, in tono sconsolato, allargando le braccia.- Papà, venite qui. Potete dormire su, da Nico. Mi prendo cura io, della mamma. Ha bisogno di qualcuno che le faccia trovare il piatto pronto. Vedrai che, a poco a poco, si riprenderà.I nonni, provvisoriamente, vennero ad abitare da noi.E le affettuose cure della mamma ebbero la meglio sulla strana malattia della nonna.In realtà, non si trattava di una vera malattia. La forte tempra di una donna che aveva affrontato, sempre con coraggio, tutte le traversie della vita, stava per cedere di fronte ai disagi di quella

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guerra che sembrava non dovesse mai finire. Abituata ai suoi semplici ma buoni piatti, che tanto piacevano alla piccola Anna, negli ultimi tempi, aveva ceduto forchetta e cucchiaio, di fronte alla degradazione di un cibo che ogni giorno diventava peggiore. A poco a poco, grazie alle minestrine della figlia, preparate con pochi ingredienti e condite con… tanto amore, la nonna si ristabilì.In quel tempo, nell’appartamento al quarto piano, un altro inquilino aveva trovato, provvisoriamente, rifugio: Mario, il figlio della signora Antonietta.Mario era un bel giovane, alto, robusto e… estremamente pauroso.Dopo una serata trascorsa in famiglia, Nico sale nel suo rifugio e, in cucina, trova l’amico ancora alzato, che lo aspetta con aria di mistero e preoccupazione.- Che cosa ti è successo? E’ venuto qualcuno?- No… Sì, tuo nonno.- Ma viene tutte le sere, lui dorme qui.- Lo so, ma stasera ha portato un animale e l’ha messo nell’ingresso, nell’angolo vicino alla nostra camera… Non si muove… Io…- Che cosa? Un animale? Nico accende la luce nell’ingresso e… scoppia in una fragorosa risata.Nell’angolo c’è l’oggetto misterioso: un fagotto, chiuso in una sorta di sacco di tela nera.- E quello sarebbe un animale? - chiede, ancora ridendo, a Mario, che, alle sue spalle, sta lì a guardare, ancora un po’ titubante.- Non vedi? Quella è una piccola damigiana. Domani è lunedì. La bottega è chiusa, e il nonno va prendere l’acqua di mare.- Sì, ora, a guardare bene, si vede che ha la forma di una damigiana, ma tutta così fasciata… E poi, lui ha parlato, con quel fagotto! Io l’ho visto mentre lo deponeva lì. Gli ha detto: “Domani andiamo!”

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E Nico scoppia nuovamente a ridere.- Non lo sai? Spesso, il nonno pensa ad alta voce.L’indomani, nella nostra cucina, per molte ore, il piano della stufa sarà occupato da un largo tegame di creta colmo d’acqua marina, che, piano piano, evaporerà. Poi, sul fondo compariranno i preziosi bianchi cristalli di sale.

VINO E SANGUE

Qualche giorno prima, tra i nonni e gli zii era stato deciso il cambio delle parti. Era stata una decisione tempestiva, dopo che due tedeschi semiubriachi volevano passare dalla sala da barba all’appartamento privato.- Belle! Belle! - dicevano, in uno strascicato italiano.

Per caso, avevano intravisto Giovanna, bionda ragazza non ancora ventenne, e zia Maria, giovane e bella donna non ancora trentenne.- Capisci, - riferiva, preoccupato, zio Raffaele a sua sorella - a stento, con le belle maniere, sono riuscito a convincerli ad andare via.- Noi solo parlare…- Sì, - rispondevo io, sorridendo - domani, domani…- e, intanto, li indirizzavo verso l’uscita. - Ma… non possono rimanere lì! - si agitava la mamma.- Certo! - confermava la nonna - Voi potete venire qui. Noi possiamo ritornare a casa. Tanto… io sono vecchia… e nessuno mi tocca! - Ma noi siamo in cinque…- Non ti preoccupare, ci arrangeremo!E così, avvenne il provvisorio cambio di dimora.In cucina, il nostro tavolo viene sostituito con uno più lungo, portato dalla casa dei nonni.La prima sera, attorno a quel tavolo c’era quasi un’aria di festa, sicuramente così la sentivano Anna e i cuginetti.

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La cena sta per iniziare più tardi del solito, quando lo zio Raffaele propone:- Questa sera ci vorrebbe proprio un po’ di vino.- L’osteria qui sotto, oggi è chiusa. - osserva la mamma.- Sì, è vero, – conferma Lita – ma quella in via Nazionale, vicino alla scaletta, è aperta. Io potrei fare un salto e… - Tra poco scatta il coprifuoco - fa notare Nico.- Per l’amor del Cielo! - si preoccupa la mamma.- Zia Lucia, vado anch’io con Lita, e ci sbrighiamo - soggiunge Giovanna.Un attimo dopo, con i soldi di Zio Raffaele in tasca e un fiasco che, da un po’ di tempo, ha scordato il colore del vino, le due ragazze scendono rapidamente le scale.I bambini, con i cucchiai richiamano l’attenzione sui piatti ancora vuoti, quando tre rapidi suoni di campanello, sovrastano ogni altro rumore.- Hanno fatto davvero presto - si rallegra la mamma, andando ad aprire. Ma, un secondo dopo, il suo grido di spavento fa zittire di colpo tutta la compagnia.- Figlie mie! Siete ferite?!- No! No!Le due ragazze entrano, pallide e ansimanti. Il fiasco è vuoto e sporco di sangue.- Che cosa vi è successo?- Vi hanno aggredite?- Due ragazze sole…- Nel buio… lo dicevo, io…E’ un coro di voci che si sovrappongono. La mamma si è accasciata su una sedia, più pallida delle ragazze, che, finalmente, riescono a spiegare l’accaduto.Lita racconta:- E’ una serata particolarmente buia, questo è vero. Io, però, conosco bene la strada, e in quattro passi siamo arrivati alla scaletta. Là, tutto si è svolto in pochi attimi, ma certo sarà difficile da dimenticare. Improvvisamente, abbiamo sentito un lamento. Giovanna ha fatto un balzo indietro.

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- Sì, zia Maria! Che spavento! Era proprio dalla mia parte…- Io sono scivolata e ho toccato il gradino con il fiasco, che, per fortuna, non si è rotto… Ancora un lamento. Subito ci siamo tirate indietro e, nello stesso tempo, abbiamo sentito un fruscio provenire dalla scaletta; dietro l’oscillare di una debole luce, due figure nere si avvicinavano a noi: erano due suore con una piccola torcia in mano. Si sono bloccate lì, mentre si sentiva il terzo lamento. Stavano per chiedere che cosa succede, quando, contemporaneamente, alla fioca luce della pila, abbiamo visto che, in una pozza di sangue, c’era un giovane soldato tedesco agonizzante.- Zia, che spavento! - ripete Giovanna.- Sì, abbiamo preso una grande paura ma, nello stesso tempo, lui faceva anche una grande pena. Alla scarsa luce della torcia, i suoi occhi opachi sembravano implorare aiuto e pietà. La suora più anziana ci ha subito detto: “ Ragazze, via di qui, svelte, tornate a casa!”. L’altra suora si è chinata sul ferito con un piccolo crocifisso in mano.

I PULCINI

Nel Rifugio, Lita era diventata amica di due sorelle che abitavano in un vicino caseggiato. La più giovane parlava spesso dei suoi pulcini.Anna aveva un vivo desiderio di vederli.- Quando andiamo dalla Signorina dei Pulcini?- Uno di questi giorni.Finalmente, un bel pomeriggio, Lita e la sorella salgono le ripide scale di una vecchia costruzione.- Venite, venite! - le accoglie, calorosamente, la signorina. E le conduce in cucina.Nella nicchia, sotto i fornelli, c’è la chioccia con i suoi pulcini.Anna s’incanta a guardare quei morbidi piumini che escono pigolando da sotto le ali della mamma; e saltellano, e si arrampicano, e ricadono l’uno sull’altro.La signorina chiede:

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- Ne vorresti qualcuno, da portare a casa?- A me piacerebbe tanto, ma… ma la mamma non sarebbe sicuramente d’accordo. Non abbiamo posto.- Veramente, anche noi abbiamo lo stesso posto…- Lo chiederemo alla mamma - conclude Lita, per non prolungare oltre la discussione.- Certo - dice, sorridendo, la signorina - e se acconsente, li vieni a prendere. Te ne regalo due.A casa. - Mamma, ti prego! I pulcini, poi diventano galline e fanno le uova.- Appunto, diventano galline e hanno bisogno di spazio.- Noi abbiamo anche il poggiolo! La signora del terzo piano, nel palazzo di fronte, ha le galline sul poggiolo.- I pulcini, non sempre diventano galline.Anna riuscì a convincere la mamma. E qualche giorno dopo, in una scatola da scarpe bucata, porta a casa due pulcini che non diventeranno mai galline.Anna ama i suoi pulcini. Li tiene al caldo, in un canestro, in un vecchio scialletto di lana. Tuttavia, ben presto un pulcino incomincia a star male, non mangia. Anna lo porta su, da Nico.- Questo pulcino mi sembra proprio ammalato. Forse ha freddo…- L’ho messo nella lana…- Vuoi lasciarlo qui, stanotte? Forse è più tranquillo. Per dargli calore, metterò nel cestino una piccola lampadina accesa,.Il mattino dopo, appena alzata, la bambina sale subito a vedere come sta il suo pulcino. Ma… nel cestino non c’è più.- E’ morto! Era inutile che tu lo vedessi così…Anna scoppia in lacrime. Il suo è un dolore tanto più grande, quanto più piccolo e indifeso era lui.Quante volte, in avvenire, proverà lo stesso struggente dolore per i piccoli amici a due o quattro zampe!Nico cerca di consolarla:

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Era tanto ammalato, soffriva…Sai, io penso che esista un Paradiso anche per gli animali!Anna si asciuga le lacrime. Quelle parole riescono a rasserenarla un po’. Sono forse le uniche parole che, in quel momento, aveva bisogno di sentirsi dire. Non le ha mai dimenticate.Anna si dedica con amorevole cura all’altro pulcino, che non diventerà mai una gallina. Aveva incominciato a fare coccodè, ma, poi, incominciò a cantare chicchirichí. Insomma, era un gallo-gallina, più gallo che gallina. Era bello, di pelo rosso, molto aggressivo con tutti, eccetto con Anna.- Caro! Caro! - lo chiamava la bambina. E lui, come la più docile delle gallinelle, subito allargava le ali e si accoccolava per farsi accarezzare. Al mattino, Anna lo portava nella gabbia sul poggiolo; alla sera, nella gabbia vicino al lavello. Solo lei poteva prenderlo in braccio, chiunque altro ne avrebbe guadagnato soltanto furiose beccate.Un mattino freddo e piovoso, il gallo era ancora nella sua gabbia in cucina.Nico, rimasto senza sigarette e senza tabacco, era sceso per compiere una difficile operazione. Tirati fuori dall’armadio i vestiti che, da molto tempo, non indossava, ne rovescia le tasche, per raccogliere le briciole di tabacco. Finalmente, si siede al tavolo, mette il tabacco in una cartina e si predispone per confezionare una bella sigaretta.Ma… proprio in quel momento, Giovanna, passando vicino alla gabbia, fa saltare, involontariamente, il gancetto di chiusura, e il gallo esce, menando beccate a destra e a manca.Giovanna ha in mano soltanto uno strofinaccio e, battendo di qua e di là, lo usa come una spada, nella sua personale lotta con il galletto. I bambini erano seduti vicino a Nico, e subito scostano bruscamente le sedie: i due maschietti per scappare e salvarsi dalle eventuali beccate, la bambina per calmare il suo amato pennuto.

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- Caro! …Caro! - In breve, lo rimette nella gabbia.Una tempesta terribile, però, si scatena sui tre bambini, Giovanna e il galletto. Nico sta sgridando tutti con quanta voce ha in gola.Nel trambusto, il tabacco, raccolto con tanta pazienza, è saltato in aria e non n’è rimasta nemmeno la più piccola briciola.

IL PARTIGIANO

Al quarto piano, in cucina, Nico sta leggendo un libro, in attesa che le donne abbiano terminato i preparativi per la notte. Aspetta. Quando passeranno l’ultima volta dalla camera di mezzo, la sua, anche lui andrà a coricarsi.Anna, prima di scendere al secondo piano, va a salutare Giovanna, che, in camicia da notte, sta arrotolando le ciocche di capelli, ad una ad una, nei bigodini di carta velina. La bambina osserva la testa bionda, per metà già coperta da quella sorta di farfalline bianche, e chiede:- Perché li metti? Non hai già i tuoi capelli ondulati?- Sì, ma così diventano più belli e…Non riesce a terminare la frase, perché la zia Maria, in camicia, tutta affannata, entra e chiude subito la porta del gabinetto, dove in tre si incomincia a stare veramente stretti.- Giovanna!…Giovanna! Dietro al letto di Nico, ho visto spuntare due piedi… Giovanna… in quella stanza c’è un uomo morto!Anna va a chiamare il fratello. E lui, tranquillamente, spiega:- Non vi preoccupate, è un mio amico! Mi ha chiesto di dormire qui, per questa notte. Mi sono dimenticato di avvisarvi.Forse non voleva avvisarle, pensando che non se ne sarebbero accorte.Zia e nipote, ancora sospettose, girando al largo dal letto di Nico, si ritirano nella loro camera. Anna, curiosa, pian pianino va a vedere dietro il letto.Sì, è proprio lui! In terra, sopra un materasso, completamente vestito e profondamente addormentato (o così faceva finta di

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essere, per non mettere in imbarazzo le donne), c’era Ezio, il figlio della signora Clara, che abitava sopra, al quinto e ultimo piano.- Nico, perché Ezio dorme qui?- E’ venuto a trovare la sua nonna, che sta molto male; ma era troppo pericoloso dormire a casa sua.Forse era anche molto pericoloso dormire lì. Infatti, non solo era completamente vestito, ma anche armato. In quel momento, Anna non pensava al pericolo, perché era contenta che, sia pure per una sola notte, avesse scelto quel rifugio.Quel giovane, bello, forte, coraggioso, che rischiava la vita per abbracciare, forse per l’ultima volta, la sua nonna, per Anna era l’eroe. Era il suo eroe. Oggi, osservando le ragazzine che si innamorano, anzi che credono d’innamorarsi, di attori o cantanti, ripenso a quel tempo lontano, quando la bambina Anna si avvicinava agli undici anni.Se a quell’età, ci si può, idealmente, innamorare di qualcuno, allora, lei era sicuramente innamorata di Ezio, il Partigiano.

APRILE 1945

Alla sera, era diventata una consuetudine, pericolosa, forse, ma irrinunciabile. - Zitti, zitti! Sta per incominciare!Tutti a tendere l’orecchio, stretti attorno alla radio, aperta a bassissimo volume.I caratteristici colpi ritmati, con i quali si iniziavano le trasmissioni di Radio Londra, erano conosciuti da tutti. Era il segreto di Pulcinella. Tutti ascoltavano Radio Londra, ma nessuno doveva saperlo.Forse, però, pochi, come la mamma, pretendevano di comprendere anche i messaggi cifrati. Papà non sapeva se ridere o sgridarla, per questa sua pretesa.

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Una sera di Aprile, la mamma, dopo aver ascoltato attentamente questi messaggi, esclama:- Finalmente! Ormai la Guerra sta per finire, anzi, è proprio agli sgoccioli! Noi ridevamo di questa sua uscita, però, in cuor nostro, speravamo che avesse ragione.E così fu.L’indomani mattina, di buon’ora, va in chiesa, e ritorna con aria misteriosa e raggiante:- C’è una grande novità! Si mormora… ma è quasi sicuro… ne parlano tutti…- Ma di che cosa? Si può sapere? - domanda Lita.- Insomma, i Partigiani stanno scendendo in città e i Tedeschi si ritirano!Gli avvenimenti che si susseguirono rappresentano l’ultimo atto della Resistenza, e ormai fanno parte della Grande Storia.Della piccola storia privata , vividi affiorano alcuni ricordi.Quando Nico uscì per la prima volta, dopo i lunghi mesi di clausura, vedendolo tra la folla che si riversava festosa nella strada, per la prima volta, mi accorsi del pallore del suo viso. Anni dopo, leggendo un famoso romanzo, compresi perfettamente perché il volto colorito del marinaio Edmondo, dopo lunghi anni di prigionia, era diventato il pallido volto del Conte di Montecristo.Il giorno definitivo della Liberazione è arrivato. La mamma, con piglio gioioso e deciso, si avvicina a Lita, che, affacciata alla finestra, sta guardando lo spettacolo della gente in festa.- Tu, stammi a sentire, non perdere tempo alla finestra. Ora ti devi confezionare qualcosa di nuovo, da indossare!- Qualcosa di nuovo?- Sì, quando finì la Prima Guerra Mondiale, io mi sono fatta subito una bella camicetta, per uscire a festeggiare con le mie amiche.- E dove la prendo la stoffa… e poi, così di premura…

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- Non occorre molto. Non hai quel grande foulard di seta rossa, quasi nuovo?- Quello con qualche pallino più scuro sparso qua e là?- Sì, quello! Non mi sembra che tu ne abbia un altro…- E…che cosa ci faccio, con un foulard?- Una bella camicetta! Va a prenderlo!Lita è un po’ incerta, perplessa, ma la mamma, invece, ha già appoggiato sul tavolo un vecchio giornale e, senza usare la matita, con le forbici taglia il modello della camicetta.- Ecco, vedi, - e mette la carta sulla seta - tu tagli qui per lo scollo, poi incroci sul davanti, fai due cuciture a macchina, e ben presto potrai indossare la tua bella camicetta.Ora Lita si entusiasma e si mette subito al lavoro.La mamma non era mai andata a scuola di taglio, ma era creativa, con una dote innata per l’eleganza e per il mestiere di sarta. Quel giorno d’aprile, da un vecchio foulard, aveva ricavato per la figlia un semplice e grazioso modellino.Io me la ricordo, Lita, con la camicetta di seta rossa, spruzzata di pallini scuri qua e là. Quel colore vivo metteva in risalto il suo incarnato di bruna, i suoi capelli neri, i suoi occhi grandi e profondi.Non ricordo quanti giorni trascorsero tra la Liberazione e l’arrivo degli Alleati.Anna stava lì, sul marciapiede, a guardare le camionette che passavano una dietro l’altra, cariche di soldati stranieri che cantavano, sorridevano alla folla, e gettavano pacchetti di sigarette ai giovani, tavolette di cioccolato, pacchi di biscotti e caramelle ai bambini, che accorrevano festanti.Anna non toccava nulla, e non perché l’aveva promesso alla mamma. Avrebbe dovuto essere felice, come il giorno della Liberazione, ma non era la stessa cosa. Forse era un sentimento sciocco, ma sentiva un nodo alla gola, e una strana malinconia opprimeva il suo giovane cuore.- In fondo, - diceva a sé stessa - quelli sono i Vincitori.

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Oggi, soffermandomi a riflettere su quel modo di sentire della bambina Anna, mi chiedo il perché di quella sensazione, che era anche contraria al comportamento di coloro che le stavano attorno.Non so trovare una risposta. Forse, per qualche attimo, si risvegliava un assopito orgoglio di razza italica, tante volte oppressa dagli uni e dagli altri.Anna era soltanto una bambina, e presto dimenticherà quella strana, indecifrabile sensazione. Un altro sentimento prenderà il sopravvento. Aveva paura dei soldati Neri. Non li aveva mai visti prima. La impressionava quel colore della pelle, così scuro, quei tratti somatici, così diversi. Erano numerosi sulle camionette, più sorridenti e generosi degli altri.Gli Alleati si installarono in un campo militare, poco distante dall’abitazione dei nonni.Lo zio Raffaele andò subito ad offrire la sua opera di parrucchiere, e fu molto apprezzato, e per la sua perizia nel taglio dei capelli, e per la sua abituale cortesia.Accolto bene dai soldati semplici e dai graduati, ritornava a casa carico di ogni ben di Dio.Anna, così gracile e mal nutrita, trovava tutte le sere una buona cena presso gli zii.Il primo piatto era quasi sempre una minestra, ricca di verdure e legumi, con uno strano sapore dolciastro, tanto diverso dal nostro minestrone genovese. Ma la bambina si abituò anche alla minestra dolce.A metà pomeriggio si recava alla Casa dei Nonni; dopo cena, Lita, a passeggio con le sue amiche, veniva a prenderla.Sono circa le quattro pomeridiane, Anna, a passo svelto, sta percorrendo l’ultimo tratto di marciapiede prima di arrivare alla bottega del nonno. Improvvisamente, si accorge che un soldato, dal volto nerissimo, le sta venendo incontro con un pacco di biscotti in mano. Istintivamente, la bambina cerca di fare un giro largo. Il soldato tende il braccio per donarle i biscotti, e sorride. I loro

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sguardi s’incrociano. E’ un attimo. Lei sta per allontanarsi, ma scorge un’ombra di tristezza calare nello sguardo di lui. E’ un attimo. Anna si avvicina e prende il pacco dalla mano generosa. Il sorriso illumina di nuovo gli occhi dolcissimi del giovane negro.Anna è commossa. In quel momento, ha finalmente compreso che non esiste diversità per il colore della pelle, e conta soltanto la bellezza dell’anima, il cuore.

GIOIA DI VIVERE

Il periodo che seguì il 25 Aprile fu segnato dall’esplosione più potente che si possa immaginare: scoppiò la …VITA!Sicuramente c’era chi piangeva, nel silenzio della propria casa. Il dolore privato, però, non era visibile: vissuto tra le pareti domestiche, o davanti ad una fredda lapide, o ai piedi di un altare, ancora nell’attesa e nella speranza. La voglia di vivere a pieno la vita, invece, era un fatto pubblico. La gente manifestava dappertutto la propria allegria.Amici s’incontravano e parlavano a voce alta, dandosi pacche sulle spalle, scherzando e ridendo. Sembrava che tutti si conoscessero, e da un marciapiede all’altro si facevano larghi cenni di saluto. Nei negozi, anche se le mensole e le vetrine erano ancora spoglie, si respirava, comunque, un’aria diversa, e si pregustava già il ritorno all’abbondanza e alla bontà di prodotti a lungo tempo mancati o scarsi, e tanto desiderati. E già, in quell’ultimo scorcio di aprile, giungeva qualche segnale in tal senso.Ricordo un carro, stracolmo di carciofi, che si era fermato proprio in mezzo alla via sotto casa. Un robusto contadino e il suo giovane figlio, in piedi in mezzo ad una sorta di montagna verde, richiamavano a gran voce l’attenzione della gente, sulla freschezza e la convenienza del loro prodotto.- Lita, presto, ecco la borsa, corri giù, prima che vada via! - Sta tranquilla, mamma, non vedi quanta gente sta intorno al carro, per comperare?

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Infatti, Lita deve aspettare il suo turno, ma ritorna con una borsa piena di carciofi.E quella sera fu una cena veramente speciale.Anche negli anni futuri, a me sono sempre piaciuti i carciofi, ammanniti nei più svariati modi, crudi e cotti; mai, però, li ho trovati così gustosi come quelli dell’Aprile 1945.Una particolare condizione non mi fece godere in completa spensieratezza il periodo straordinario che fu la Primavera di quell’anno. A giugno, dovevo presentarmi per gli esami di quarta elementare.Mi preparava la maestra del terzo piano. Tutte le mattine andavo a lezione da lei, durante il pomeriggio, invece, facevo i compiti e studiavo. La sera, però, ero libera di godere anch’io la festa che si svolgeva con canti e balli.I tetti erano illuminati da lampioncini di tanti colori, e ogni terrazzo si trasformava in balera. Ragazze, giovani, bambini, donne e uomini di tutte le età, ballavano al suono di orchestrine improvvisate, o di grammofoni che avevano sempre bisogno del volontario di turno, per girare la manovella.Le amicizie e gli amori nati nei rifugi si consolidavano al ritmo di allegre canzoni:

“…Rosamunda, Rosamunda,che magnifica serata…”

oppure:

“…Rosabella dimmi sì…sì…sìio per moglie voglio te…te…tedon Giacinto già lo sa..sa..sa

che sposar ci dovrà…”

Quelle serate furono uno spettacolo indimenticabile.

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Poi, venne l’Estate. Io avevo superato l’esame di quarta, ma dovevo ancora studiare: in tre mesi dovevo completare tutto il programma di quinta e quello dell’esame d’ammissione alla Prima Media.Fu, comunque, una magnifica Estate.Nei giorni festivi si andava in campagna. Nelle osterie dei paesini sparsi sulle nostre ridenti colline, bastava una fisarmonica, per dare inizio ad una festa improvvisata. Anche noi andavamo spesso in campagna, con nonni, zii e cugini. La mamma preparava un’abbondante parmigiana con melanzane e zucchine, e una grande torta con i fichi (lo zucchero era ancora scarso). Anche la zia Maria portava focacce salate e dolci.Quando si aprivano le borse e si mettevano i tegami sul rustico tavolo, subito si sprigionavano deliziosi odori che mettevano appetito. Piatti e bicchieri li avrebbe forniti l’oste, unitamente ai prodotti della casa: una fresca insalata, appena colta dall’orto, con uova sode. Anche le uova erano freschissime: poco prima, la moglie era ritornata dal pollaio, con il cestello pieno. E non mancavano le bottiglie da litro, a bocca larga, colme di vino rosso, e le bottigliette di gazzosa, per noi bambini.Una sera, vicino a noi c’era una tavolata di giovani che, dopo cena, iniziarono a cantare. Non le canzonette in voga, ma i canti della montagna e quelli dei Partigiani. Ben presto, anche altre voci, da altri tavoli, si unirono. Anche noi partecipammo al coro.Ricordo Vitino e Roccuccio che, con quanta voce avevano in gola, cantavano:

“ …Siamo i ribelli della montagna,viviam di stenti e di patimenti,

ma quella fede che ci accompagna…”

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Io, invece, sentivo poco la mia voce, perché le mie stonature avrebbero rovinato il coro… Ma ascoltavo. E la mia canzone preferita era:

“…Fischia il vento, urla la bufera,scarpe rotte, eppur bisogna andar…Nella notte ci guidano le stelle…”

Passò anche l’Estate. Io superai l’esame di ammissione alla Prima Media. Si era chiusa una stagione della mia vita, e un’altra stava incominciando. E, guardandomi attorno, in generale, anche per gli altri si chiudeva un ciclo e se ne apriva un altro. S’iniziava, così, la Ricostruzione.La Bella Stagione del 1945 era finita, per sempre. Rimarrà soltanto nel ricordo.Mai più sentirò, intorno a me, tanta Gioia di Vivere.

F I N E

CONCLUSIONE

ULTIMA LETTERA

Caro Antonio,prima di chiudere, definitivamente, queste pagine, desidero precisare che sono nate tutte dai miei ricordi; quindi, potrebbe esserci qualche sfasamento nei tempi, anticipazioni o ritardi, ma gli episodi sono tutti realmente accaduti, come reali sono i luoghi e i personaggi. Nessun riferimento è puramente casuale. Zia Anna

28 ottobre 1999

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RINGRAZIAMENTI

Ringrazio mio nipote Antonio, che mi ha chiesto di raccontare, del Tempo di Guerra, i miei ricordi di bambina.Ringrazio Lalli, mio marito, che, con pazienza, ha saputo accettare le mie lunghe assenze dal quotidiano, e inoltre ha creato e realizzato un’originale copertina, a me particolarmente cara.Ringrazio mio nipote Daniele, che, generosamente, mi ha offerto il mezzo e la sua sollecita assistenza; poiché, senza il computer, queste pagine non sarebbero mai nate.Ringrazio la gentile Beatrice, che dalla sua lunghissima esperienza di vita sa trarre freschi pensieri e delicata poesia, e Maria, che sa dipingere con le parole, e tutti gli altri amici che mi hanno incoraggiato a scrivere. Ringrazio mio nipote Sergio, per aver curato la veste definitiva del mio lavoro, e ancor più per avermi gratificato, nell’antica forma della pergamena, con un pensiero che corrisponde profondamente al mio modo di sentire e di pensare. Ringrazio mio fratello, che, la mia opera già terminata, ha saputo simpaticamente completare con care vecchie foto.E ringrazio, anche se non più presenti in questa dimensione spazio-temporale, tutti coloro che hanno saputo raccontarmi una storia, quando ero bambina.

Un famoso scrittore, di un suo famoso romanzo, dice:

“…è un libro fatto di altri libri…”

Ed io, liberamente parafrasando, potrei dire che queste semplici pagine di ricordi sono:

“ … una storia fatta di altre storie…”

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Anna Petruzzellagenuensis domina

invenit scripsit et impressit in Janua

Septem dies mensis noni Anno Domini MM

Opera pubblicata su leggistorie su autorizzazione scritta dell'autrice stessa.Il testo originale è reperibile presso la Biblioteca Berio di Genova e nell'archivio dei diari a Pieve Santo Spirito