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Rapsodia Anno 1 Numero 1 0

RAPSODIA N°1

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Rapsodia è una rivista letteraria indipendente che raccoglie opere di autori emergenti edite e non per farle confluire in un progetto di promozione artistica dei contenuti di ciascun elaborato. Rapsodia rifiuta uno schema fisso, mette insieme spunti sempre diversi tra loro per armonia e ritmo donando al tutto un sapore di laboratorio artistico e improvvisazione compositiva. Rapsodia si occupa di letteratura contemporanea. Oltre ai lavori degli autori emergenti saranno inseriti anche approfondimenti dedicati a noti autori contemporanei. Altri autori non contemporanei saranno trattati nella misura in cui il significato delle loro opere e della loro vita sia contestualizzabile nella contemporaneità. Rapsodia non ha un orientamento politico e una categorizzazione sociale, non appartiene a cricche o comitati d’affari. Rapsodia appartiene al pensiero libero ed è gratuita: non esistono rapsodi senza spettatori e Rapsodia non avrebbe significato senza i suoi lettori.

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Rapsodia Anno 1 Numero 1

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Rapsodia Anno 1 Numero 1

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COS’È RAPSODIA

Rapsodia è una rivista letteraria

indipendente che raccoglie opere di autori

emergenti edite e non per farle confluire

in un progetto di promozione artistica dei

contenuti di ciascun elaborato. Rapsodia

rifiuta uno schema fisso, mette insieme

spunti sempre diversi tra loro per armonia

e ritmo donando al tutto un sapore di

laboratorio artistico e improvvisazione

compositiva.

Rapsodia si occupa di letteratura

contemporanea. Oltre ai lavori degli

autori emergenti saranno inseriti anche

approfondimenti dedicati a noti autori

contemporanei. Altri autori non

contemporanei saranno trattati nella

misura in cui il significato delle loro

opere e della loro vita sia

contestualizzabile nella contemporaneità.

Rapsodia non ha un orientamento politico e

una categorizzazione sociale, non

appartiene a cricche o comitati

d’affari. Rapsodia appartiene al pensiero

libero ed è gratuita: non esistono rapsodi

senza spettatori e Rapsodia non avrebbe

significato senza i suoi lettori.

La redazione

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INDICE:

- ANDREA CORONA…………………………………………………p.3

- L’IMPRONUNCIABILE Q.…………………………………….p.7

- SALVATORE VALENTE………………………………………..p.9

- CLAUDIO LANDI…………………………………………….….p.13

- CRISTIAN MEZZO………………………………………………p.15

- MIRKO ZITO……………………………………….…………….p.17

- FRANCESCO VERRENGIA…………..……………………..p.19

- VINCENZA PORTMAN…………………………………………p.22

- DOMENICO ROTINO……………………………………………p.24

- MICHELA ZANARELLA……………………………………..p.25

- MARYLISA PIACENTE………………………………………p.27

- ALESSANDRO PEDRETTA…………….……………………p.28

- PALADINO SGHEMBO………………….…………………….p.32

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IL RISCHIO, IL VUOTO, LA MORTE.

Scrittura e creazione tra M. Blanchot e M. Foucault

di Andrea Corona

La ricerca di Maurice Blanchot (1907-2003) si è sviluppata

attraverso un elaborato discorso teorico sulla

letteratura e sulla scrittura; discorso che ha assunto

un’importanza sempre maggiore per l’orientamento delle

correnti letterarie e filosofiche della contemporaneità

francese ed europea. Blanchot concepiva la letteratura

come creazione del linguaggio, il quale ha un potere

‘negativo’ in quanto ‘annienta’ l’oggetto nominato (cfr. M.

Blanchot, La scrittura del disastro, Milano, SE 1990).

L’esperienza letteraria autentica si configura pertanto

come esperienza di morte, e l’esercizio spesso ‘insensato’

della scrittura diviene un’operazione ‘sensata’ solo in

quanto tentativo di stabilire un rapporto di libertà con

la morte (cfr. M. Blanchot, L’infinito intrattenimento.

Scritti sull’ «insensato gioco di scrivere», Torino,

Einaudi 1977).

A questo proposito, nel suo Il pensiero del fuori, Michel

Foucault (1926-1984) riconoscerà la «estrema difficoltà

di dare a questo pensiero un linguaggio che gli sia

fedele», giacché, quando uno scrittore porta il

linguaggio al limite, «esso non vede sorgere una

positività che lo contraddice, ma il vuoto nel quale si

cancella» (M. Foucault, Il pensiero del fuori, in Scritti

letterari, Milano, Feltrinelli 1996, p. 116). Affrontare

questo vuoto attraverso la scrittura era considerato

anche da Foucault il compito autentico dell’autore.

Ovvero: solo da tale compito poteva scaturire, per lo

scrittore, la libertà di «un ricominciamento, che è una

origine pura perché esso non ha che se stesso e il vuoto

come principio» (p. 117).

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In via analoga, in alcune pagine del suo attento studio

su Lautréamont e Sade, Blanchot affronterà la questione

del vuoto (cfr. T. Perlini, Maurice Blanchot. L’opera come

presenza-assenza, in M. Blanchot, Lautréamont e Sade,

Bari, Dedalo 1974). In particolare, il critico francese

parlerà di una ‘speciale saggezza’ che scaturisce dal

‘cerchio puro’ della scrittura e dal rapporto tra vuoto e

creazione. Secondo l’autore de Lo spazio letterario,

infatti, ogni opera davvero ‘potente’ è una irripetibile

composizione di forma e caos: «L’opera è il cerchio puro

in cui l’autore, mentre scrive, si espone pericolosamente

alla pressione che esige che egli scriva, ma anche se ne

difende» (M. Blanchot, Lo spazio letterario, Torino,

Einaudi 1975, p. 38). Dalla commistione di forma e caos

deriva inoltre la concezione secondo cui le opere

strappate al delirio, alla passione incontrollabile e al

sogno comunicano all’autore uno speciale genere di

saggezza; e la relazione fra sogno e saggezza non sarà

casuale. Per Blanchot come, ancora, per Foucault. Come si

legge ne Il sogno: «Nella notte più buia lo splendore del

sogno è più luminoso della luce del giorno, e l’intuizione

che porta con sé è la forma più alta di conoscenza» (M.

Foucault, Il sogno, Milano, Raffaello Cortina 2003, p. 67).

Tesi principale di Foucault è che il sogno sia nascita

del mondo e origine stessa dell’esistenza: in virtù di ciò,

il sogno non deve essere analizzato come un sintomo

psichico, bensì come una chiave per risolvere tanto

l’enigma universale dell’essere quanto l’enigma

particolare del proprio essere: «Nel sogno l’anima, libera

dal corpo, si tuffa nel kosmos, si immerge in esso e si

fonde al suo movimento in una sorta di unione acquatica»

(p. 41). In particolare, nel sogno si trova «tutta l’odissea

della libertà umana, che rivela quanto vi è di più

individuale in un individuo […]: nulla più dei vostri

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sogni è vostra opera» (p. 45). Similmente, Blanchot

afferma che il sogno è un «pericoloso appello» a un

«presentimento dell’altro» e a un «doppio che è ancora

qualcuno» (M. Blanchot, Lo spazio letterario, pp. 234-235);

aggiungendo che solo esplorando l’inconscio e l’impensato

lo scrittore trova «una parte di sé, e soprattutto la sua

verità, la sua verità solitaria» che si avvolge a spirale

«in una immobilità fredda da cui non può distogliersi,

ma accanto alla quale non può stare» (p. 39).

Come è noto, in Blanchot le ripetizioni e i ritorni sono

tanto paralizzanti quanto necessari; ma se questi sono

«il canto delle sirene della morte stessa» (p. 38), lo

scrittore è, sostanzialmente, una figura che non può fare

a meno di subire il fascino della morte, allorché

«l’attira ciò che lo mette assolutamente alla prova, un

rischio nel quale tutto è rischiato, un rischio essenziale

dove l’essere è in gioco, dove il nulla sparisce, dove si

gioca il diritto e il potere di morire» (p. 88).

È a questo punto utile ricordare l’interesse di Foucault

per quello che rimane con tutta probabilità il più famoso

studio clinico di Ludwig Binswanger, ovvero il caso di

Ellen West, una paziente affetta da mania suicida. In un

commento relativo a questo caso, Foucault scriverà:

«La West era imprigionata tra il desiderio di volare, di

fluttuare nell’esultanza eterea, e la paura ossessiva di

essere intrappolata nel pantano che la opprimeva e la

paralizzava. Volare verso la morte, quello spazio elevato

e lontano di luce, significava porre termine alla vita,

ma anche scorgere una esistenza totalmente libera»

(M. Foucault, Il sogno, p. 67).

Si ritorna a Blanchot, dunque, e lo si fa procedendo di

pari passo con la strada che, compiendo un circolo, va in

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direzione dell’esito del suo discorso. Secondo Blanchot,

se l’opera che nasce da una sfida con la morte ha successo,

l’autore sopravvissuto sperimenterà una «miracolosa

elevazione alla grazia» (M. Blanchot, Lo spazio

letterario, p. 39). Ecco allora che, per una manovra

inesplicabile, lo scrittore si ritroverà all’improvviso

all’interno del cerchio; mentre il vuoto, che «forma

quella parte di lui dalla quale ormai si sente libero e

dalla quale l’opera ha contribuito a liberarlo» (p. 40),

sarà ormai contenuto nell’opera stessa. Il circolo che

parte dalla scrittura e che per mezzo dell’opera

letteraria libera dalla morte è ormai compiuto.

Andrea Corona

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ZUPPA POST-MODERNA

rigiro il cucchiaio in questa

zuppa postmoderna, roba d’abitudine

c’è dentro Kafka, nichilismo e

speziata solitudine

la scruto con sospetto tra il

clangore della gente

che mi passa intransigente sulle ossa

con le suole, con i piedi

che inciampa e si dimena

dissanguando marciapiedi

inseguendo quel che vedi, non miraggi

– “il poeta mente

scrivendo che si vive trucidando

le emozioni

ciò che si sente

e il musicista e le canzoni… niente!

e così pure il pittore

certamente più concreto mi risulta

l’inventore

della tv millecolori, botulino

tette e culi debordanti

perché al mondo ciò che conta è

frequentare gli importanti

cenacoli sontuosi, spettacoli di classe

altro che arrivista

non c’è spazio per messia stinchidisanto e

cervelli non in lista”;

rigiro il cucchiaio nella

zuppa postmoderna, pare un poco insipida

c’è dentro Marx, imperialcapitalismo

e una certa salsa livida

ma assaggiarla non si può

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ci si scotta lingua e dita

di sicuro è un brutto affare

il sale grosso della vita

e rimane un vuoto nello stomaco

una cosmica voragine

che si riempie e si svuota al

faccendare con le pagine

di un libro che sfogliamo invano

senza nulla ricavarne

ciò che sapremo, sapevamo:

- – Cosa siamo?! un inutile ed informe

accumulo di carne.

L’impronunciabile Q.

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L’ENNESIMA MAIALATA DI UNA DONNA SPOSATA

Quasi tutte noi adulte avevamo sempre respinto ogni pensiero sui

giovani. "Ma scherzi? Io? Ma quando mai? Potrebbe essere mio figlio!"

In realtà, la maggior parte delle volte, il giovane in questione

avrebbe potuto essere nostro figlio solo se fossimo state ragazze

madri. Certo era che tutte noi eravamo veramente madri, anche se i

nostri figli erano molto più piccoli dei giovani in discussione. E

molte di noi erano anche ancora mogli. In ogni caso, penso che quasi

sempre fossimo sincere quando respingevamo i pensieri impuri sui

ventenni. Forse è troppo banale dire che il destino è imprevedibile,

quindi mi limiterò a dire di non fidarsi mai di ciò che finora non

è mai stato. Avevo tutte le attenzioni che può avere una donna

formosa di 39 anni che si affaccia dal balcone di un secondo piano

in veste da camera. Avevo anche un marito prestigioso e un figlio

abbastanza piccolo da darmi ancora soddisfazioni affettive. Ma mio

marito aveva un nipote che si affacciava ai vent'anni come io mi

affacciavo da quel balcone. E per il sul fisico curato, ma non

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esagerato, quel nipote era spesso oggetto delle discussioni con le

mie amiche. A nessuna di noi è mai piaciuto il classico palestrato

sempre concentrato sul fisico, che magari ha perso anche i capelli

per l'assunzione di sostanze particolari perché per lui "il pettorale

è più importante del capello". A tutte noi piacciono i pettorali, ma

a nessuna di noi piace competere con il proprio uomo su chi ha il

seno più grande. Proprio per questo piaceva a tutte quel suo petto

sodo ma che non necessitava di un reggiseno, e soprattutto quel suo

addome piatto e ben definito sul quale quello che più spiccava era

la linea degli addominali obliqui che sembrava quasi una freccia

di direzione obbligatoria verso quel vaso di Pandora che tutte

speravano non fosse mai stato aperto, perché, nonostante i pensieri

impuri, persisteva in noi quella vocazione di educatrici che avevamo

acquisito con la maternità. Ma mentre quasi tutte, chi prima chi

dopo, sembravano cedere a quel desiderio, io ne ero semplicemente

disgustata; in questo caso non si trattava solo di un mio potenziale

figlio avuto precocemente, ma anche di un parente acquisito. La mia

coerenza dovette fare i conti col fatto che, mentre io mi affacciavo

provocante dal secondo piano, lui guardava la scena da una posizione

privilegiata al primo piano, dove abitava. Così me lo trovavo in

casa nei momenti più impensati, con la scusa di voler giocare col

mio bambino. Una volta fu anche complice involontario di una

perversione coniugale tra me e mio marito, quando fui costretta ad

accoglierlo, affacciata alla finestra che dava sull'ingresso, mentre

il mio uomo mi prendeva da dietro. "Scusa S, il bimbo dorme e io sono

di fretta, sto per uscire." dissi ansimando. "Ottimo, zia, fammi

entrare che lo guardo io mentre non ci sei." "No! Non preoccuparti,

c'è tuo zio che dorme con lui." "Va bene, allora ripasso." Non si

fermava mai quando c'era anche lo zio, non avrebbe potuto fare il

cretino. Era testardo. Sapeva benissimo, glielo confessai io stessa,

che avrebbe potuto avere ognuna delle mie amiche. E invece

continuava a fare il cretino con me. Fortunatamente era sempre

fermato dal fatto che suo zio potesse tornare da un momento

all'altro. Le mie difese, però, subirono un doppio attacco in un

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periodo durante il quale mio marito, uomo prestigioso, non riuscì a

sottrarsi agli agenti e, il giorno dopo, "mio nipote" nel consolarmi

buttò lì il fatto che sarei stata perfetta con un seno più grande e

un sedere e delle cosce più fini. "Non mi hai mai vista nuda!" mi

difesi istintivamente. "La tua amica F invece sarebbe proprio da

impalare." fu la sua infame risposta. Da quel momento scattò in me

qualcosa di inspiegabile. Continuavo a parlarne male durante le

conversazioni con le amiche, ma cominciavo a provocarlo in privato.

"S, puoi salire a giocare col bimbo ché devo fare la spesa?" e appena

si trovava in salotto mi vedeva in reggiseno e minigonna di jeans.

"Sarebbe troppo irrispettoso nei confronti di tuo zio se uscissi

così?" gli chiedevo mentre facevo una giravolta con pantaloni

stretti chiari e perizoma nero. "Ma veramente il mio seno è troppo

piccolo?" gli dicevo mentre mi sbottonavo la camicetta. La mia gonna

larga mi fu complice nel dargli il colpo di grazia. Mentre ero stesa

sul divano a guardare uomini e donne, mio figlio mi chiese di poter

guardare dragon ball. Fu un attimo e il mio piede indirizzò il

telecomando dove volevo, tra le caviglie, senza che lui potesse

accorgersene. "S, ti dispiace girare? Il telecomando è qui, sul

divano." Un altro attimo. E mentre lui prendeva il telecomando

allargai le gambe e tirai su la gonna, piegando le ginocchia quel

tanto che bastava da invogliarlo a sedersi su quel piccolo angolo

di divano rimasto libero, dopo aver cambiato canale per distrarre

mio figlio che sedeva sulla poltrona alle mie spalle. Si ritrovò tra

la tv e le mie gambe aperte. Capii subito che preferiva il secondo

spettacolo perché, senza mai chiudere gli occhi, si accese una

sigaretta, per la prima volta senza chiedere il permesso e senza

preoccuparsi del bambino, suo cugino. Neanche io mi preoccupai del

bambino, mio figlio, intento a guardare la tv, e infilai la mano

sinistra nell'elastico della gonna. Lui guardava visibilmente

eccitato, lo si capiva da come fumava avidamente quella sigaretta.

L'indice spostò di poco il bordo sinistro delle nere mutandine. Il

medio cominciò a percorrere avanti e indietro, come una navetta, il

solco che divideva le grandi labbra per una decina di volte, prima

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di fermarsi sul clitoride. Lui era ipnotizzato da quel movimento,

sembrava quasi che lo seguisse con la testa, oltre che con gli occhi,

dipendeva ormai totalmente dal dito medio della mia mano sinistra.

Con quel dito cominciai a masturbarmi, mentre lui prendeva dalla

tasca destra il suo cellulare, probabilmente per filmarmi. Sciocca

abitudine adolescente, per usare il cellulare non si accorse che

poteva tranquillamente metterci la mano, forse anche la testa,

prima che se ne accorgesse mio figlio. In ogni modo nascondeva

malamente una grossa erezione nei suoi rossi calzoncini, troppo

estivi per lasciargli abbastanza intimità. Il fatto che lui fosse

eccitato per lo spettacolo che mettevo in scena apposta per lui mi

eccitava ancora di più e, prima che potessi fermarmi, finii in un

orgasmo che pretendeva quel medio zelante interamente infilato

nella passera, dalla quale ne uscì completamente bagnato, tanto da

costringermi a decidere di andare a lavarmi dopo averlo golosamente

annusato. Mentre notavo che la sua mano destra aveva ormai lasciato

il cellulare per massaggiare quella splendida protuberanza che

aveva tra le gambe, mi si avvicinò mio figlio, svegliato dal suo

incantesimo dalla sigla di chiusura del suo cartone preferito, che

mi disse sottovoce "ma S sta guardando la tua farfallina?" e che

liquidai rispondendo arrabbiata "ma se sotto la gonna ho i

pantaloncini, cosa dici? Sta' zitto e corri a fare i compiti!". E

mentre lui si accomodava sul tavolo della cucina col suo bel

sussidiario, io andavo controvoglia a lavarmi le mani, venendo

interrotta all'improvviso da un colpo di pube sul sedere. Alzai lo

sguardo e vidi, riflesso nello specchio, S dietro di me, coi

calzoncini abbassati. Mi si avvicinò all'orecchio e sussurrò, con la

sua voce profonda, "forse è veramente il caso di vederti nuda."

Salvatore Valente

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NON C’È VERSO

Risveglio unto sotto la cappa urbana

l’umido scivola ovunque

su edifici e su teste

come spiritosanto

s’insinua tra le pareti

e in tutto ciò che vedi

tu sei parte di questo

parte del tutto

mentre ti scopri a scolare

nella melma unticcia

a remarci dentro con braccia disossate

consacrando idoli

fino all’ultimo altare

fino a quando l’aria lurida

formi un tappo alle narici

e ti soffochi

una volta fusa al tuo respiro

-divenuta respiro-

cementificati polmoni e tutto il resto

è l’alba che si scopre tenebra

in questo affanno quotidiano

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il cielo suda grigio

e il puzzo di carcassa non viene dalle fogne

dopotutto sai che nel profondo di ogni mattino

- quando il sole schianta su persiane arancioni

e penetra geometrico tra i buchi

su pareti-scolapasta -

c’è spazio per una certa solitudine.

Claudio Landi

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STASERA VORREI SCRIVERE MA NON HO LA PENNA

Stasera vorrei scrivere, ma non ho la penna. Ah! Ma se

l'avessi, ne avrei dette di cose! Ma la penna, eh, quella non

c'è. A che serve la penna? È il demiurgo? Il passaggio dal

mondo delle idee a quello reale? Il Gesù Cristo dello

spirito? Ah! La penna, segna il confine, delimita i limiti,

disegna volti e culi e fiche...

Se con la penna metti una croce qui o lì, magari diventi

medico, o ti danno la patente. Sì! Ma ci vuole la penna. A

parlare, eh, quello siam bravi tutti, ma la penna, o la sai

usare, oppure no.

Basta, pensa un po', che con la penna scrivi su un foglio

”Avv. Giorgio Lo Becco” e quello improvvisamente, può

parlate di te per te, con un giudice, e tu non puoi. Così

però, hai usato male la penna. Con la penna metti Nome e

Cognome e hai investito 200.000 euro in mattoni e cemento

e sperma fresco per lenzuola nuove. Con la penna, solo con

la penna! Eh, anche stavolta, hai usato male la penna. Con

la penna puoi scrivere ad un amico, ah, così sì che la usi

bene la penna, peccato che lui si scopi tua moglie durante

le vacanze, e così, anche stavolta, hai usato male la penna.

Sulla carta d'identità, con una penna, hai firmato per

questa Repubblica. Cazzo! Anche stavolta, inevitabilmente,

hai usato male la penna. Anni fa, vinsi una corsa. Era

tutto umido lì dentro. Agguerriti, tutti. Non è che

sapessimo bene dove stessimo andando, ma si voleva vincere.

Arrivò primo un tipo atletico, occhio vispo, sveglio. Disse:

“Ragazzi, ho vinto io, tocca a me, è la mia opportunità”. Si

avviò verso la grande porta. Poi si fermò, ci ripensò e

disse: ”Ragazzi, lascio il biglietto a voi, lo faccio per puro

altruismo”. Io non sono mai stato un tipo furbo, figurarsi

agli albori. Nessuno lo voleva quel cazzo di biglietto. Poi

mi convinsero, mi fecero passare tra le mani una penna di

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argento, molto poco lavorata, che bella! La feci scorrere

tra le dita, e non pensai più lucidamente. Così mi fecero

firmare, e firmai per un metro e settanta circa, firmai per

calvizie incombenti alla maggiore età, firmai per una

estetica insignificante (anche quella filosofica), lingua

troppo mobile, occhi che ridono. Firmai per un carattere

stanco, firmai per la tristezza, la malinconia e le

perversioni, Firmai per le lacrime, per le delusioni

ingiustamente date, giustamente restituite. Firmai. E fu il

primo modo di usare male la penna.

Cristian Mezzo

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INGRANAGGIO

Ti guardi intorno, ripensi a tutte le tue situazioni, a tutti

i tuoi passi, a tutti i progetti, ai gruppi di cui hai fatto

parte, alle cose che hai aiutato a creare, a far nascere.

Vai nei tuoi luoghi di passione, in quelli di furore, in

quelli di rabbia, di gioia o di dolore, e cominci a pensare…

Pensi alle sfumature, ai dettagli, ai momenti che non credevi

fossero rimasti nella tua mente sbadata, ma sono lì per

colpirti, per spiegarti la verità più brutta e più forte, la

più struggente.

Non lo capisci subito, non perché non sia semplice, ma perché

non vorresti comprenderla, non vorresti che ti raggiungesse.

Ti ricordi di tutti quelli che ti hanno stimato, di quelli

che ti amano, di quelli che ti dicono di avere bisogno di te,

che ti dicono di dipendere da te; ma poi a cosa serve? A cosa

serve se il risultato è questo?

E allora cammini, anzi corri, per scappare da tutto, per

scappare da te, dalla verità che ti ha assalito, dal suo

significato.

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E cerchi di dimenticarlo, di rendere l’unica verità una

bugia, cerchi di crearti un’altra realtà, perché non può

essere così…

E vivi la tua vita, per quello che ti rimane, come se non

fosse così; t’illudi, ti lasci strappare da false idee e ideali,

solo perché cominci a credere di avere “ragione”, su te e sul

mondo...

E hai dimenticato, ormai l’hai lasciato alle tue spalle,

perché sei umano, un arrogante, stupido umano; ma dopo tutto

questo? Dopo tutte le esperienze, vecchie e nuove?

Allora sei vecchio, e con gli anni qualcosa ritorna, ma ormai

non ha più importanza, perché hai vissuto da stolto, quando

invece avevi capito.

Ti sei reso “come gli altri”, quando sapevi; e allora lo fai,

almeno nella morte diventi uomo, e non solo umano.

Sulla tua lapide si legge:

“Qui giace un uomo; un uomo che ha fatto parte di grandi

quadri, ma che sapeva di essere solo un ingranaggio della

macchina della vita: necessario, ma rimpiazzabile.”

Mirko Zito

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SUICIDIO

Ero solo io in quel momento, ero due persone

contemporaneamente, due antitesi contrastanti, due entità

che equilibravano l’ago di una bilancia sospesa nella più

angusta e buia porzione della mia anima; ero due, nella

complessità del singolo, il bianco e il nero, l’oro e l’argento,

ero due, ero due persone che si tenevano per mano e

camminavano sulla battigia, che di tanto in tanto si

prendevano una pausa per fare a pugni, per ammazzarsi a

suon di colpi proibiti, per difendere la propria entità e

sopraffare l’altra, per far tendere l’ago della bilancia

dalla propria parte. Ero due che lottavano e si amavano,

combattevano e copulavano, come in una grande orgia fatta

da sole due persone, come in una grande storia d’amore e come

la singola, unica e intensa nottata passata con una puttana.

Ero due. E loro ero io.

Camminavano seguendo il sentiero incostante delle onde del

mare, facendosi trasportare dal vento, camminavano da ore,

e non sapevano dove erano diretti; avevano oramai le scarpe

piene di sabbia, il viso bruciato dalla salsedine, i capelli

arruffati dal vento che sferza in riva al mare durante una

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fredda giornata di Gennaio. Non so più quantificare il tempo

trascorso dall’inizio di quel viaggio, si poteva quantificare

in ore, ma anche in giorni se non in mesi. Loro camminavano,

io ero loro, io camminavo solo sulla spiaggia, loro erano me,

loro due camminavano soli, anche se in compagnia, sulla riva

del mare. Il cielo minacciava pioggia, ma loro, io,

proseguivano, lontani dalla loro partenza e chissà,

lontanissimi dal loro arrivo, dal traguardo non prefissato

e sconosciuto.

Vorrei dare un nome a loro, ma mi è quasi impossibile

identificarli, non hanno volto, sono me, ma non li conosco,

sono entità che forse non hanno nemmeno fattezze umanoidi,

sono auree, sono angeli, sono demoni, sono loro, sono io. Li

chiamerò Bianco e Nero, come il giorno e la notte, come il

buio e la luce, come le tenebre e l’aurora.

Lottavano, volevano sopraffare, volevano avere il

privilegio di stuprare la mia anima senza coinquilini,

volevano avere l’anteprima, non volevano un’anima sciupata

da un coabitante tanto opposto e tanto diverso, mi volevano

vergine, volevano avermi come una puttana personale che non

chiede il conto, mi bramavano, loro, bramavano se stessi, non

volevano essere la metà di me, volevano essere la totalità,

volevano colorare la mia anima con colori propri, non

volevano un’anima multicolore, ma pretendevano un’anima

piatta, scontata, nell’unicità di un solo colore, il Bianco o

il Nero. La lotta proseguiva, rimasero per ore, o giorni, a

lottare, io ero allo stesso tempo, ring e spettatore, coppa e

medaglia, telecronista e arbitro. La violenza dei colpi

risuonava in me, nella mia anima, nella mia mente, nel mio

cuore, se uno dei due sanguinava, io sanguinavo, erano due,

erano me. Da buon arbitro decisi di far parlare uno per

volta, di voler ascoltare come in un’arringa, le loro

motivazioni, democraticamente, ma non fu possibile. Nella

guerra la democrazia è solo una facciata colorata che

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nasconde un immenso mondo grigio fatto di utopia,

convinzioni e patriottismo, non c’è posto per la democrazia,

anzi, la guerra è antitesi del dialogo democratico, quante

guerre se no non si sarebbero combattute? Quante poche

parole sarebbero bastate per fermare tante carneficine. Ma

in guerra non esiste democrazia, esiste solo la voglia o la

necessità di vincere, di far valere le proprie idee a suon

di cadaveri che strisciano nel sangue dei loro avversari, di

corpi divisi in battaglia e che si ritrovano nelle fosse

uniti per l’eternità. Per Bianco e Nero non esiste la

democrazia, sono in guerra, e io sono in guerra con me stesso.

Le due entità sono eteree, non si tange la loro presenza, non

si mostrano, sono inafferrabili, ma lasciano impronte nette

nella sabbia che io calpesto, i loro colpi mi rimbombano nelle

viscere, le loro urla riecheggiano nel mio cranio, ci sono,

li sento, ma non li vedo, sono potenze astratte che si

tramutano in realtà nella grandezza delle loro azioni. Ci

sono, sono con me, sono me.

L’acqua salata mi è arrivata al petto oramai, e loro lottano

ancora, i miei vestiti zuppi si logorano, e loro

incessantemente sputano sangue, si ammazzano, e le onde mi

sbattono sul viso, guardo il cielo, forse per l’ultima volta

e ripenso a tutto, ripenso a me, a loro, per un istante lungo

non so quanto; mi ritrovo a galleggiare in mezzo al mare,

sotto di me un ignota oscurità mi aspetta, sotto di me la

vita marina che brama la mia morte, la morte nella vita; poi

una mano nera si adagia sul mio capo, e d’improvviso il bianco

venne sopraffatto da un’ombra oscura, la luce si spense

lentamente, il bianco scomparve, e il nero si adagiò su di

esso, come vernice che scivola su di una tela bianca.

Francesco Verrengia

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Rapsodia Anno 1 Numero 1

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ASTAR_TE

Ho bisogno di sfamare il mio amore

ho bisogno di cibarmi del tuo cuore

e così strappo ogni esitazione, ogni resistenza alla

perdizione

abbandonata e sedotta dalle tue parole

calde come una brace

distesa sui rami delle tue rime

mi spoglio di ogni pudore

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Rapsodia Anno 1 Numero 1

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canto, ballo, mi muovo al ritmo del tuo ardore

compongo un orgasmo di canzone

mi addormento cullandomi nell’estasi posseduta

quella in cui non mi hai mai avuta

mi incontri in fondo al nero mare

mi accarezzi nel tuo viaggio astrale

e io gemo, io vengo nei tuoi sogni.

Vivien Postiglione

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Rapsodia Anno 1 Numero 1

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INFERNO DI CALCARE

Oggi è giornata d'inferno,

lo scaldabagno collassa sul mio cuore,

il calcare invade le condutture del mio cervello

e la polvere copre i miei occhi anche questa mattina.

I fantasmi dei miei genitori bestemmiano

e fracassano mobili sui muri,

scosse telluriche emozionali,

cani legati a consumazioni sociali.

Mi si chiede di sposarmi, nemmeno per assenzio.

Gesù, perché fai di ogni cazzata una poesia.

Da quando ti sei munito

di cartucce di sperma e candeggina?

E' il gioco dell'amore

nella centrifuga della lavatrice.

Ci ha resi tutti pronti al risciacquo.

Ma non eravamo preparati per il calcare.

Domenico Rotino

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Rapsodia Anno 1 Numero 1

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NELL’ECO DI AVVOLTOI

Il tempo

è attraversato da secoli

crocefissi dal potere,

avvolto dall'odore

di un dolore che divora

il ruvido delle pelli

e la scia di rugiade.

Nell'eco di avvoltoi

in giri concentrici

l'aria si riempie d'affanno

di stagioni perse a scontare

i peccati del mondo.

Muoiono i sogni

ed il buio incendia

i pochi fiati superstiti.

Nel timore che una zolla

assorba tutte le colpe

ed il fradicio delle epoche

il silenzio è la tregua

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che come pioggia

consola dove non c'è scampo

agli artigli che dilaniano.

Michela Zanarella

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Rapsodia Anno 1 Numero 1

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MARYLISA PIACENTE

POESIA

I

Sudavo di corse terminate senza traguardo

Di corse prese per sbattere contro un muro di

parole

Se si fa una gara a chi perde, io vinco

Sapresti tu slegarmi da questo circolo di fallite

vittorie?

Dove in esposizione posso solo mostrare

mani vuote come trofei

e correvo veloce, ma male

spinta dalle mie mancanze

Insegnami a correre piano, ma bene

Dimmi che le corse non sono finite.

Che dopo te, ho ancora altro da perdere.

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Rapsodia Anno 1 Numero 1

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SQUAME

Non gli era mai successo. Una cosa tremenda.

Carlo sposta la mano davanti agli occhi per passarsela dietro la

nuca e con l’angolo dell’occhio, nell’ultimo momento in cui la sua

visuale può registrare l’estremità dell’arto, la sua mano assume

al suo sguardo un aspetto squamoso. Dita, torso, palmo, polso,

tutti ricoperti da queste squame poligonali come la pelle di un

serpente.

Carlo si siede su una poltrona e respira profondamente.

Deve essere il suo cervello che comincia a dare segni di

squilibro.

Deve essere quella sbronza di due giorni dietro, forse l’alcol fa

anche questi effetti, a scoppio ritardato: sono piccole sacche di

sostanze etanoliche che si accasciano dormienti in qualche parte

dell’ippocampo e poi di colpo si svegliano, scivolano nei tessuti

e ti aggrediscono lasciandoti in preda a deliri visivi.

Questa ipotesi non lo convince. E’ strana. Non è scientifica. Ma

la testa è quella protuberanza mistica che teniamo penzoloni sul

collo. E tutto può essere.

Sarà quell’affastellarsi continuo di problemi che fa sì che Carlo

cominci a registrare immagini sbagliate, che i suoi occhi

prendano abbagli. Ma era così vivido … Piccole turgide squame

angolose che come una scacchiera diagonale gli disegnavano la

mano. E’ stato per un secondo, con l’ultimo battito di ciglia e

con l’angolo dell’occhio mentre la sua mano si portava alla nuca:

a volte grattarsi la testa porta emorragie emozionali.

O sarà sua moglie quella puttana da cui si è lasciato da mesi ma

che ancora vede quasi ogni giorno, nel bar di fronte, sempre un

uomo di verso con cui cavalcare e sempre due paio di gambe che è

un colpo alla gola.

Okay. Respira. Carlo alza la mano e se la porge a dieci centimetri

dagli occhi. Comincia lentamente a spostarla verso destra, il

gomito immobile come un perno. Carlo segue con lo sguardo le sue

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cinque dita che si spostano e, mentre stanno per scomparire

dietro la sua testa, vede. Vede le squame e si accorge che sono

grigie e con sfumature verdastre, che fanno ribrezzo, che hanno

la stessa corposità di pezzi di corteccia unta e sembrano pulsare

di vita propria come elettrica e raccapricciante materia viva.

Carlo abbassa lo sguardo di scatto, si infila la mano tra le cosce,

stringe con forza insensata le palpebre. Non può essere. È ovvio

che non può essere.

Ci insegnano fin da bambini che non bisogna avere paura, che

siamo tosti, che dobbiamo farci valere, che i mostri non esistono,

che la vita è sacra, che la madonna si prega non la si bestemmia.

Ma questa mano ha le squame. E Carlo suda e stringe i denti e si

alza dalla poltrona. Va allo specchio nel suo piccolo bagno e si

fronteggia, preoccupato. Non è vero non è vero non è vero. E’ un

mantra dell’incoscienza.

La realtà può essere una religione – bisogna crederci,

continuamente, se no si sbanda.

Ci somministrano continuamente cose che non sono vere, come le

plastificate donne dello spettacolo o le ripetute ossessive

stagionali notizie da tg, ma non bisogna credere a delle piccole

squame pulsanti sulla tua mano.

La prospettiva che nulla è vero è come uccidere l’albatros di

Baudelaire, è come sputare sulla poesia, è come credere che non

ci sia speranza, è uccidere le certezze, è non bere più coca-cola.

Carlo quella mano la vede, ma la vede solo con l’angolo

dell’occhio, di sfuggita.

Quelle ritmiche e geometriche squame della sua mano sono veloci

input di una realtà sconosciuta, sono il grido di un abisso a cui

non ci si vuole affidare.

Carlo si guarda allo specchio e il suo volto è normale, solo

sudato più del solito e bianco certo, le rughe dell’angoscia sono

un semplice rimando a depressione, gastroenterite, ascessi non

curati, psicopatologie moderne, pazzia imminente, morte. Niente

di che, tutto consueto, intollerabilmente familiare. Le rughe e

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gli occhi incavati sono solo i segnali della vita che strozza, di

questo amplesso mal riuscito, di questa voglia di fuggire, di

questo immergersi sempre più a fondo nel buio, dentro, invece

che di scorgere la luce, fuori. Ma le squame, quelle, per un

infinitesimale secondo attraverso un’estremità dell’occhio,

quelle sono vere e palpabili, e in quell’attimo perdi la distanza

da una realtà storpiata e te ne regali una parimenti

allucinatoria ma in un certo senso più vera.

Ma Carlo non sopporta questo, l’inverosimile palesato è uno shock

che si distingue nettamente dall’inverosimile quotidiano di

un’esistenza che è una catena di falsi impulsi condizionanti. Va

bene la partita di calcio in tv e la tristezza di una pubblicità

su un lassativo, vanno bene tutti quei desideri indotti

inquartati tra auto sportive, succose labbra che ingoiano scroti,

ambiti cibi ultraproteici e sagomati vestiti in voga.

Ma le scaglie, quelle, sono insopportabili.

Carlo abbassa lo sguardo e non ci pensa neanche a cercare di

contemplare nuovamente la sua mano. E’ un’appendice del suo corpo

così odiosa, ora. E’ come se avesse vita propria, la sente che

respira, è una perfetta e aliena fetta di carne che non sente

più sua. Gli sembra di sentire l’irritante fiato della sua mano

mentre gli sospira parole che non si possono dire umane, ma

parole più nuove.

Carlo non ce la fa più, le lacrime gli colano da quegli occhi

infossati, esce dal bagno, corre in cucina, c’è un coltello, dov’è,

dove lo ha messo? Apre un cassetto, sposta un mobile

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con l’anca per la rabbia, ne apre un altro, si abbassa e scardina l’anta di un mobiletto. Non lo trova, dove lo ha messo? Rovista in un cassettone, sparge posate che rimbalzano in terra, estrae un trinciapollo, va bene, va bene anche quello. Quella mano, non la deve più vedere. Non si sopporta quel che non si capisce. Arretriamo dinanzi un oblio di conoscenza anche se la nostra comprensione si basa solo su quel che ci dicono e quel che ci mostrano, camuffandolo, sfregiandolo, trasfigurandolo. Carlo non può resistere a un altro sguardo alle sue squame, non può. Appoggia la mano sul ripiano della cucina, afferra questo attrezzo lucente, le lame come incurvate e lucenti forme geometriche di liberazione. Oggi non vuole vedere più, Carlo. Oggi ha visto troppo. E affonda.

Alessandro Pedretta

Illustrazione di Giacomo Clerici (facebook.com/LaTanaDiGrotesquer)

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PALADINO SGHEMBO

Riportiamo liberamente un testo estratto dallo spettacolo “Come

Erravamo (aspettando il ’68)” di Nicolino Pompa (in arte Paladino

Sghembo), poeta romano contemporaneo in attività che, gentilmente, ha

concesso a Rapsodia di utilizzare i suoi testi, e ai suoi lettori di

goderne. Degno di nota, riguardo la vita recente del poeta romano, un

documentario dal titolo “SMS – Save My Soul” di Piergiorgio Curzi (2012),

oltre ad altri brevi documentari-interviste presenti su YouTube come

“Paladino Sghembo” e “Frammenti di una notte insieme a un poeta”

entrambi a cura di Ricky Farina. (c.l.)

I

C’era na volta un ragazzotto che se sognava er sessantotto, queste

sono le parole e le musiche che quel ragazzotto scrisse mentre

sognava negli anni successivi al sessantatre, io devo chiedere

scusa a sto ragazzotto perché mortificai la sua vanità e glie

dicevo “ma sta bbono che te cerchi” eccetera… “se è robba bona

resisterà al tempo, sennò lascia che more…de fregnacce ne dicono

già tante…”

Il sogno di questo sessantotto cominciò in una taverna coi muri di

canne e una finestra a 80 lire che era il ritrovo alla fine del 63

dei massimi artisti viventi, quasi tutti intorno ai venti, qualcuno

già vecchio, sdentato ognuno poeticamente malato […].

Una chitarra al minuto cantava il verbo di Marx e qualche ricco,

irritato, affrettava il suo giro turistico attorno a quella

taverna e già non ne voleva più sapere dopo cinque prestiti

accordati nel giro di mezz’ora un’avanzata signora cercava il suo

uomo in quella sede di giustizia e se lo portava via nascondendolo

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sotto la gonna e da sotto la gonna facendo capolino il poeta

bambino così disse agli amici:

“voi che tenete qualche cosa da dire e che sapete dirla sorridendo

con un certo quale accento francese, voi che venite dal paese con

i vecchi ricordi legati alle pecore e con i più recenti a macchine

semoventi, e voi che siete tanti che dagli scantinati operai siete

saliti sui tetti, negli studi senza gabinetti, senza letti e sui

veloci cavalletti fissate le confidenze di un dio stellare e

mutevole secondo il numero dei mezzi litri, e voi poeti, tristi o

faceti, stanchi dei preti, che non potete più ammazzare la luna

perché l’hanno già fatto, che con poco soddisfatto desiderio

omicida fate dello spirito fuori posto sul fumo e sull’arrosto e

che cercate Cristo nei cestini dei rifiuti, negli studi incompiuti,

nell’ascesa dal nulla, nella strana fanciulla, nella favola bella,

che ieri rideva e che oggi non ride […] e voi gente perduta che se

ne sta seduta a fatturare un conto che vale mille lire un po’ per

cèlia, un po’ per non morire, e voi ragazze tristi che non avete

più l’idea della virtù, che aspettate invano il vostro partigiano

che vi si porti via da quella borghesia di tipi sedentari, nocivi

ai proletari, e stanche d’aspettare vi lascerete andare col primo

borghesuccio da lire trentamila seguendo la trafila di quelle

donne che, da Maddalena in poi, non si pentono più, non asciugan

Gesù con i lunghi capelli che non van più di moda, voi che fate la

coda negli studi di posa, voi che siete partiti e che non siete

tornati, voi ragazzi malati, innamorati, affamati, voi che non

potete più piangere perché tanti hanno pianto per motivi

indecenti, e voi che non tenete più parenti e in Via del Babuino

cercate una famiglia.”

Paladino Sghembo

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REDAZIONE

CLAUDIO LANDI: Direttore, Guru e Spammer ufficiale.

L’IMPRONUNCIABILE Q.: Tracannatore pluridecorato di

superalcolici e buona musica.

SALVATORE VALENTE “El Polémico”: Provocatore ufficiale,

pugile da bar e bevitore da ring.

ANDREA CORONA: Supervisore Ufficiale e Guardiano della

Rivoluzione.

LUCIO ADRIANO PANTANI: Ayatollah e Chirurgo estetico di

versi e strofe.

MIRKO ZITO: Latin Lover e bassista bastardo nonché

bevuto.

VIVIEN POSTIGLIONE: Musa Ispiratrice e sacerdotessa del

verso.

FRANCESCO VERRENGIA: Chitarra, tastiera, sorriso

smagliante e rima disarmante.

CRISTIAN MEZZO: poeta da sipario dal monologo magistrale,

ricercatore accurato di gadget da finto intellettuale.

In copertina illustrazione a cura di Cosmic Nuggets

(www.facebook.com/CosmicNuggets)

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