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Comet Editor Press Anno I – n. 1 Gennaio/Aprile 2013 RIVISTA CULTURALE QUADRIMESTRALE ISSN 2282-5177 e 3,00

RIVISTA CULTURALE QUADRIMESTRALE - sfogliami.it N. 01.pdf · 1 Intervista di Fabio Fazio a Roberto Calasso nel corso del programma Che tempo che fa, Novembre 2009. 2 Calasso R., Le

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Comet Editor PressAnno I – n. 1

Gennaio/Aprile 2013

RIVISTA CULTURALE QUADRIMESTRALE

ISSN 2282-5177ee 3,00

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PPaaggiinnaa 22

AAddZZ__YY[[ Confluenze RIVISTA CULTURALE QUADRIMESTRALE

EDITORIALE - Salutem plurimam dicit… Pag. 3

di Fabrizio Perri

UN ARTISTA ALLA VOLTA - SILVANO RIZZUTO - pittore Pag. 4

a cura della Redazione

LETTERATURA - Il tempo senza Tempo del Mito Pag. 5

di Flavio Nimpo

ANTROPOLOGIA - Scatole magiche e fabbriche di sogni Pag. 9

Radio, cinema e televisione nella Calabria del secondo dopoguerra

di Giovanni Sole

LINGUISTICA - La minoranza albanese in Italia: dalle origini al varo della legge 482/’99 Pag. 19

di Fiorella De Rosa

STORIA & MICROSTORIA - Restaurazione e repressione all’origine dello Stato Unitario Pag. 25

di Fabrizio Perri

STORIA & MICROSTORIA - La storia del dramma della guerra nel Savuto Pag. 27

letta dalla narrativa di Ezio Arcuri

di Antonio D’Elia

ARTE/MUSICA - Rivelazione del soggetto individuale, del soggetto collettivo e della tradizione Pag. 30

della musica della Taranta

di Eugenio Maria Gallo

ARTE/PITTURA - Il Palpito dell’esistenza Pag. 33

Una lettura antropologico-esistenziale della pittura di Assunta Mollo

di Divina Lappano

EVENTI CULTURALI - Il mito come mezzo di trasmissione di emozioni e valori etici Pag. 37

di Maria Lucia Gallo

“I LUOGHI CHE ABBIAMO CONOSCIUTO…” - Un’antica normanna Pag. 38

di Flavio Nimpo

Formato 15x21 - Pagine 96 - ISBN 978-88-904820-7-6 - ee 10,00

VINCENZO RIZZUTO

Fiori di pietra

Comet Editor Press

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Poesia

I Fiori di pietra di Vincenzo Rizzu-to sono, al di là di aggregazioni cristal-line, materia umana e poetica che ci ri-corda di essere carne e sangue, cuore espirito, isole ed arcipelaghi nel maredella Vita, accomunati dallo stesso mi-stero cosmico, che ci avvolge e nelquale molti si lasciano rischiarare dal-la luce della fede.

Il poeta, «solo in questa immensità digalassie» nel buio e nella quiete dellanotte, «compagni discreti della sua in-sonnia», « ritrova le radici di questo vi-vere ineffabile», sente parlare «del so-gno amaro e caro/ della vita/ del sognodove l’immenso/ si lascia attraversa-re…».

Flavio Nimpo

NotturnoNelle notti di profonda quiete,fugge il mio io,e rincorre le luci di tutto il firmamento,ascolta il gracidare dei ranocchi,i grilli che fanno eco all’usignolo.

La luna che mi segue silenziosa,alta nel cielo irradia la sua luce,illumina gli amanti, la campagna,mentre una civetta dall’oscuro fondofa sentire il suo pianto lamentoso.

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PPaaggiinnaa 33

==ZZ__jjeehh__WWbb[[Confluenze RIVISTA CULTURALE QUADRIMESTRALE

Salutem plurimam dicit…“Confluenze”, il nome che abbiamo voluto dare alla rivista, è il ten-

tativo di dar vita ad un contenitore nel quale far confluire appunto ipiù svariati contributi ed arricchire così il grande fiume del sapere;con la speranza di favorire stimoli intellettuali, curiosità e passioneper la conoscenza e la ricerca.

Dar vita ad una rivista culturale è iniziativa ardua e temeraria intempi in cui alcuni temi sembrano passare in secondo piano rispettoad esigenze materiali sempre più impellenti e a prese di posizione chenon lasciano dubbi su come i nostri governanti hanno trattato la cul-tura.

Del resto la vulgata secondo la quale “di cultura non si vive” ha se-gnato il pressappochismo di una classe dirigente che ha marginalizza-to la cultura abbandonandola a se stessa e all’opera di alcuni volente-rosi. Lo dimostrano i tagli lineari, perché considerati spesa improdut-tiva, ai ministeri preposti.

Eppure il valore e la funzione determinante della cultura è sancitoin maniera inequivocabile dalla nostra Carta Costituzionale in alme-no due passaggi. Direttamente nell’articolo 9 dei Principi Fondamen-tali, dove si dice che: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultu-ra e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimoniostorico e artistico della Nazione”, intendendo con ciò sottolineare chela cultura è uno dei concetti base del nostro Ordinamento. Indiretta-mente nell’ articolo 33 dove si afferma che: “ L’arte e la scienza sonolibere e libero ne è l’insegnamento”. Se ad arte e scienza sostituiamo iltermine cultura è evidente la funzione di tutela della libertà assegnataalla cultura dal testo dell’articolo.

Di cultura si può vivere e lo dimostra l’immensa ricchezza cheviene dal nostro passato e sulla quale spesso siamo seduti senza saper-lo.

Un patrimonio che attira milioni di appassionati e visitatori cheogni giorno riempiono le nostre città, i nostri siti archeologici e pae-saggistici, i nostri musei.

Non possiamo però chiudere gli occhi davanti ad un’aberrante ten-denza a dissipare i luoghi, i costrutti architettonici e allo smarrimen-to dell’identità ad essi collegata; una tendenza che è frutto di unafraintesa modernità causa, insieme ad altre, della graduale cancellazio-ne dell’esistente e con esso della memoria.

Siamo convinti che la crisi morale e materiale della nostra societàdipenda anche dalla crescente emarginazione della cultura e dalla ri-cerca del profitto ad ogni costo, ma anche dall’ ignoranza e dall’incon-sapevolezza. Una crisi materiale quando invece proprio dalla conver-genza tra cultura e ricerca, può nascere l’innovazione e una nuovaprospettiva per le prossime generazioni.

Fabrizio Perri

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Confluenze RIVISTA CULTURALE QUADRIMESTRALE

Scorcio Rogliano - P. Nicolettiolio su tela cm. 35x50

Scorcio Santo Stefano di Rogliano - ex Lanificio Laraolio su tela cm. 35x50

Scorcio Marzi - Vico Scoppaturoolio su tela cm. 35x50

Silvano RizzutoSilvano Rizzuto, sensibile e colto artista, è nato a Roglia-no (Cosenza) il 21 giugno 1955. È autodidatta e la suaarte pittorica è apprezzata in tutto il circondario e oltre.Il suo studio è in via Discesa Ricciulli n. 7 a Rogliano.

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Amo la vita è il racconto di una storia, cherende l’autore, Giacomo Guglielmelli, capacedi narrare lo straordinario calato nella quoti-dianità del protagonista del suo libro, nonpersonaggio fittizio, bensì uomo reale, propo-sto in tutta la sua paradigmatica magnanimi-tà.

Cristian Filice rievoca l’identità dell’eroecalato nel suo fiero agire e patire, insegnando,al contempo, che « si impara attraverso il do-lore », secondo il messaggio del poeta tragicoEschilo, e si può ricordare agli altri che occor-re apprendere l’arte del vivere come esperien-za meravigliosa, pronta a tradursi in dono persé e per gli altri, soprattutto quando la Vitasceglie per noi, proponendoci l’impervio cam-mino del sacrificio.

In questo caso la dura prova della sofferen-za può restituire senso ai propri giorni, se la sirende pianta prodiga di semi fecondi per tan-ta umanità, che, pur sentendosi fragile foglia,si stringe nel tepore della condivisione.

Flavio Nimpo

Giacomo Guglielmelli

Amo la vitaStoria di un malato di SLA

Comet Editor Presse

Formato 15x21 - Pagine 160ISBN 978-88-906029-7-9

ee 10,00

Tu che m’attrai

Tu che m’attrai,vita che pur finisce,mostrando il bello

di questa primavera!

Alberi i cui colorisono di rosa intenso,

foglie minuteche si fanno largo

tra rami ancora secchi,erbe tenaci

ai bordi delle strade,veloci uccelli

che sfrecciano nel cielo.

E anch’io vorreiin me poter sentire

questo muoversi intenso,questa voglia d’uscire

e respirare il sole.

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DD[[jjjj[[hhWWjjkkhhWWConfluenze RIVISTA CULTURALE QUADRIMESTRALE

Eschilo è un vate che insegna agli uominiuna parola di fede e di bene; e il mito

è la forma palese di cui il pensiero si veste(Carlo Del Grande)

Inomi di autorevoli esperti, studiosi e saggisti si leganoalla definizione del concetto e dell’essenza del Mito:ognuno si è espresso col proprio tratto originale, au-

tentico, efficace ed icastico.Ciascuno ha lasciato un contributo paragonabile ad

una pietra miliare, delineando i tratti di questa realtàatemporale, universale, misterica, in modo scientifico, cri-tico, rigoroso, ma, al contempo, suggestivo e fascinoso.

K. Kerényi, R. Graves, M. Eliade, R. Calasso, G. Sissa,J. P. Vernant, P. Vidal-Naquet, D. Del Corno sono solo al-cuni fra i nomi illustri di quanti hanno scritto del Mito,rivelando, ogni volta, il suo tempo senza Tempo.

Non saranno di certo le mie considerazioni ad arricchi-re questo inestimabile patrimonio, ma, se queste possono ri-tenersi un simbolico contributo a che si ricordi e si rispettil’opera di chi ha saputo restituire alla sua sacralità il mu~qov,il racconto di verità eterne, allora sono ben lieto di esprime-re il mio punto di vista con umiltà e sincero entusiasmo.

Alcuni mesi fa, in occasione di un’intervista televisiva,Roberto Calasso, intento a commentare identità e trattidel Mito, mi ha, ancora una volta, emozionato con il suo

eloquio pacato, colto e, nello stesso tempo, capace di arri-vare a chiunque.

Egli, in sintesi, diceva: Il Mito esiste da sempre, non è in-ventato da uomo, è inesauribile, è sacro, perché è espressionedel numen1.

Le sue parole sono state l’ennesima folgorazione e, sul-le ali del ricordo, sono ritornato con la mente e col cuorealla lettura del suo impareggiabile libro Le nozze di Cadmoe Armonia2: saghe, genealogie, stirpi di dei ed eroi sono ri-apparse in tutto il loro splendore e la loro universalità, de-positarie di verità e valori validi per l’uomo di ogni tempo.

Non a caso R. Calasso, come ideale eìv e ¢rgon del suosaggio, cita Salustio che, nell’opera Degli dei e del mondo,scrive: «Queste cose non avvennero mai, ma sono sem-pre»3.

Inevitabile è stato, poi, rievocare il pensiero di altret-tanto illustri esperti e studiosi: «Conoscere i miti significaapprendere il segreto dell’origine delle cose»4, ha scrittoM. Eliade; secondo il giudizio di F. Jesi, «la mitologia co-me forma di conoscenza del reale può ancora essere unaguaritrice e ripristinare un vincolo profondo con la real-tà»5; D. Del Corno, dal canto suo, afferma che «il mito èun sistema “aperto” (…) e la sua ricezione diventa rivela-zione delle valenze simboliche in esso potenzialmente con-tenute»6.

Il noto studioso, nel suo pregevole saggio I narcisi diColono7, precisa che il tempo del Mito è“chiuso”, poiché «uno iato invalicabile se-para dall’inizio del tempo storico»8 che,invece, è “aperto”, «in quanto la sua pro-gressione rettilinea presuppone necessaria-mente un futuro»9. Al contrario il tempomitico «non si misura lungo una progres-sione rettilinea, ma si coagula nell’evento,che è la forma assoluta del mito»10.

Questo comporta, come spiega DelCorno, che la tragedia trova solo nell’uni-verso del Mito la dimensione assoluta deltempo, quale «condizione primaria per lariattualizzazione dell’evento nel presentedella mimesi teatrale, poiché, a sua volta,questo è assoluto, immune dalla continui-tà del tempo nell’esperienza reale»11.

FLAVIO NIMPO*

Il tempo senza Tempo del Mito

1 Intervista di Fabio Fazio a Roberto Calasso nel corso del programma Che tempo che fa, Novembre 2009.2 Calasso R., Le nozze di Cadmo e Armonia, Adelphi, Milano, 1988.3 Salustio, Degli dei e del mondo, in Calasso R., I quarantanove gradini, Adelphi, Milano, 1991. 4 Eliade M., Mito e realtà, Borla, Roma 1993. 5 Jesi F., in Mitidieri M., Nel mondo del mito, Klipper, Cosenza 2006, p. 5.6 Del Corno D., in Mitidieri M., op. cit., p. 5.7 Del Corno D., I narcisi di Colono, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1998.8 Del Corno D., op. cit., p.10.9 Ibidem.10 Del Corno D., op. cit. p.11.11 Del Corno D., op. cit. p.12.

Antigone ed Emone di Raffaele Crovara

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DD[[jjjj[[hhWWjjkkhhWW Confluenze RIVISTA CULTURALE QUADRIMESTRALE

Non si puònegare la paradig-matica efficacia ditali tesi, a cui ag-giungo quella diMimma Mitidie-ri, amica e colle-ga, che ho il privi-legio di conosce-re, ormai, da alcu-ni anni e continuaa suscitare in meammirazione perla sua sensibilitàumana e cultura-le.

Nella prefazione della sua opera Nel mondo del Mito12,ella scrive: «Il mito è una forma simbolica del pensieroche, mediante il racconto di un evento, guida a rifletteresull’esistenza e sull’esperienza dell’uomo, precorrendo ciòche scopriamo nel nostro vivere quotidiano»13.

Da anni questi incisivi “profili” continuano a confer-marmi che il Mito va accolto come dimensione imprescin-dibile dell’esperienza umana, leggibile, interpretabile, rivi-sitabile per ambiti, aspetti, direzioni molteplici ed inesau-ribili.

In quanto espressione dell’umano in chiave individua-le e collettiva, esso è riconducibile ad una visione univer-sale, travalica le barriere temporali, per assurgere… al “persempre”, al cosiddetto “attimo eterno”, proponendosi co-me entità attuale, perenne, non scalfita dal Tempo.

La sedimentazione e la stratificazione di letture, che sisono succedute nel corso degli anni, hanno favorito unprocesso di introiezione e di riflessione tali da sollecitareuna mia personalissima rielaborazione, accettabile o “di-storta” che sia, secondo la quale mi piace pensare che Mi-to sia «passione e ragione», realtà paradigmatica, archetipi-ca, remota ed arcana, tanto più suggestiva e fascinosaquanto più avvolta nell’aura sacra del mistero cosmico incui l’umanità trascorre il suo tempo limitato. Mito è, an-cora, incomparabile specchio dell’essere umano e del suoagire e patire; è racconto ed implicita considerazione del-l’universale in chiave assoluta ed irrazionale; è verità re-condita, avviluppata nei suoi veli sacri, in segni e simboli,che rimandano alla sua natura polisemica, ermetica, “reli-giosa”.

Non è importante che esso abbia avuto un’origine oesista da sempre: conta il fatto che sia senza tempo, im-mortale e sempreverde come il sacro alloro di Delfi o glisvettanti pini ed abeti di montagna. Il Tempo non può li-mitare il suo corso inarrestabile: ciò che è universale è perl’uomo di ieri, di oggi, di domani e così è garantita la suaattualità.

Il Mito è seme, radice, monito, parola dal sapore ora-colare, enigma da svelare, ciclo perfetto, perenne rivelazio-ne, continua scoperta, anelito incessante, vibrante tensio-ne, disvelamento del limite tra finito ed infinito, dal cadu-co all’eterno.

Alla luce di queste personalissime considerazioni, damolto tempo, ormai, tento di ampliare l’orizzonte delleconoscenze sull’argomento e puntualmente quanto ap-prendo non finisce mai di suscitare in me sorpresa e stu-pore, a conferma delle illimitate risorse del Mito, che, co-me scrive Calasso nel capitolo Il terrore delle favole, trattodall’opera I quarantanove gradini14, «cela una lunga sto-ria»15 e fa spalancare «il vortice stesso della storia»16.

In modo mirabile l’autore ricorda, ancora una volta, iltrattato di Salustio Degli dei e del mondo, in cui si legge:«Poiché il mondo stesso lo si può chiamare mito, in quan-to corpi e cose vi appaiono, mentre le anime e gli spiriti visi nascondono»17.

Calasso commenta: «Occorreva giungere alla fine dellapaganità, a questo oscuro trattatello neoplatonico, perchédel mito ci fosse offerta una definizione così abbagliantenella sua semplicità da vanificarne ogni altra. Dunque,quando guardiamo attorno a noi lo spettacolo del mondoci troviamo dentro a un mito»18.

Egli, poi, precisando che le storie mitiche, anche quan-do giungono frammentate, risultano familiari e diverse datutte le altre, aggiunge: «Quelle storie sono un paesaggio,sono il nostro paesaggio, ostili e invitanti simulacri chenessuno ha inventato, che continuiamo ad incontrare, cheaspettano da noi soltanto di essere riconosciuti»19.

Il Mito si traduce per Calasso in «una sequenza di simu-lacri che aiutano a riconoscere i “simulacri”» ed è « ingenuopretendere di interpretare il mito, quando è il mito stessoche già ci interpreta»20. Nella suddetta opera l’autore fapresente che esso agisce su di noi come il simulacro ligneodella Artemis Taurica e, a tal proposito, egli scrive: «Orestelo aveva rubato al santuario. Viaggiò a lungo tenendolostretto tra le mani, per tutto il tempo in cui sentì incombe-re la follia sulla sua testa. Poi un giorno pensò che avrebbeprovato a vivere da solo e nascose la statua in un folto dicanne, non lontano dall’Europa. Lì il simulacro giacqueper anni. Un giorno due giovani Spartani di sangue reale,Astrabaco e Alopeco, lo scoprirono per caso, muovendo lecanne. Eretta, fasciata di giunchi, la statua li fissava. I dueSpartani furonoallora colti da fol-lia, perché non sa-pevano ciò che ve-devano»21.

Calasso con-clude: «Questo èil potere del simu-lacro, che guarisce

12 Mitidieri M., op. cit.13 Mitidieri M., op. cit., p. 5.14 Calasso R., I quarantanove gradini, op. cit., p. 488.15 Ibidem.16 Ibidem.17 Calasso R., op. cit., p. 496.18 Ibidem.19 Ibidem.20 Ibidem.21 Ibidem.

Nuovo Prometeo di Massimo Ruffolo

Il risveglio della Natura di Mario Montalto

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DD[[jjjj[[hhWWjjkkhhWWConfluenze RIVISTA CULTURALE QUADRIMESTRALE

soltanto chi lo co-nosce. Per gli altriè una malattia.Così il mito: lapotenza che pro-voca il terrore èanche l’unica chepuò guarirlo, co-me avvenne conOreste. Ma sol-tanto se viene ri-conosciuta per ciòche è»22.

Questa folgo-rante interpreta-

zione induce a considerare lo straordinario potere ed il fa-scino carismatico del Mito, esaltati dalla sacralità e dall’a-temporalità che lo contraddistinguono.

La sua natura e la sua incomparabile essenza l’hannoinesorabilmente reso patrimonio identificativo dell’uomoed, in quanto tale, si riscontra in molteplici forme espres-sive in qualità di paradigmatica chiave interpretativa. Fratutte, per una personale predilezione, pongo in rilievo latragedia il cui mondo, come afferma L. Barbero, «non puòche essere il Mito»23; questo, infatti, è patrimonio religio-so e culturale, è storia di avi, a cui ciclicamente non si puòche ritornare, spiega l’autore nel suo testo di Storia dellaLetteratura greca.

La tragedia ci insegna che il Mito si traduce in ricerca,indagine, riflessione, scandaglio della condizione umana(alle prese con interrogativi cosmici tra passioni, timori ederrori) attraverso il dibattimento. Se in Eschilo esso costi-tuisce non solo la materia drammatica, ma anche e soprat-tutto il veicolo di trasmissione di valori religiosi ed etico-sociali, la messa in scena di temi e problematiche degni dipresa di coscienza collettiva, in Sofocle, invece, pur rima-nendo ancora “storia sacra”, alcuni suoi aspetti risultano alpoeta stesso imperscrutabili e sconcertanti tanto da acco-glierli, accettarli e rispettarli come un absurdum. In Euri-pide, infine, come efficacemente scrive F. Montanari, ilMito è considerato «non più come paradigma dell’esisten-za umana, ma come tramite di riflessione sulla condizionedell’uomo e sulla sua contraddittorietà»24, alla luce dellacrisi che investe l’individuo e la polis a più livelli.

Non sorprende, allora, come ricorda C. Del Grande,che, secondo un’affermazione risalente ad Aristotele,«Eschilo avrebbe messo in scena eroi, al di sopra degli uo-mini; Sofocle avrebbe rappresentato gli uomini non comesono, ma quali dovrebbero essere; Euripide, infine, avreb-be rappresentato gli uomini quali realmente sono»25.

Tale suggestivo raffronto può trovare un suo emblema-tico riscontro nella figura di colei che reputo paradigmadell’immortalità del Mito ed incarnazione del pathos tragi-co: l’incomparabile Cassandra di Troia, figlia del re Priamoe sacerdotessa di Apollo.

Il suo destino di veggente mai creduta, ritenuta vittimadella follia, la rende personaggio senza tempo, icona del-

l’amaro sapore della verità, specchio non gradito alla co-scienza umana, quando l’uomo tenta inutilmente di sot-trarsi al giudizio ed al confronto con se stesso e con gli al-tri. Ella si traduce in un termine di paragone scomodo edinduce a pensare che spesso al danno si aggiunge la beffa,se si considera che la sua tragica sorte risale al rifiuto dellapassione amorosa del dio ed a nulla le è valsa la devozionesacerdotale. Cassandra è imperitura espressione degli inse-gnamenti racchiusi nel Mito, che la tramanda come vessil-lo contro la sopraffazione, l’ingiustizia e l’emarginazione,non certo quale simbolo di malaugurio ed immagine disgradita iettatrice.

Nell’accezione arcana, primitiva, sacra del Mito, secon-do una visione monumentale e regale, Eschilo propone ilpersonaggio della profetessa troiana tra fato e responsabi-lità umana, tra giustizia divina e punizione della trasgres-sione.

Cassandra è la delirante ma lucida veggente, che vatici-na, prima ancora di aver varcato la soglia del palazzo diAgamennone. Ella è l’indovina indesiderata, proprio per-ché degna di fede; la donna che paga il fio del suo rifiutoad Apollo; la sacerdotessa sola e priva di insegne e bendemantiche: profili di un unico, ineluttabile destino.

Se l’estasi mantica accompagna il profilo delirante e, alcontempo, lucido della figlia di Priamo anche nelle Troia-ne di Euripide, occorre, tuttavia, porre in rilievo che Cas-sandra è il personaggio ideale per il tragediografo, poichéquesti, rovesciando il pregiudizio, la comune opinione, lefalse verità e proponendo una visione razionale, che trava-lica i limiti imposti dalla tradizione, coglie nella sventura-ta veggente di Troia la voce della verità ritenuta dagli altridubitabile, perché espressa da chi è ritenuta pazza.

Con sottile ironia e, forse, con un sorriso arguto Euri-pide segue la sua formazione sofistica e rende la profetessaemblema del paradosso: il vero arriva come lama affilata alcuore ed alla mente degli uomini da colei che non può ave-re credibilità, in quanto rapita dal delirio.

La natura“paradossale” diCassandra si co-glie nella sentenzafinale26, in cui ilpoeta le fa depre-care la guerra, masubito dopo le faaggiungere che èopportuno morirecon valore, qualo-ra essa sia inevita-bile.

Tale conclu-sione è riconduci-bile ad una veg-gente non del mi-to troiano, madella storia diAtene alle prese

22 Ibidem.23 Barbero L., Civiltà della Grecia antica, Mursia, Milano, 1999, p. 321.24 Montanari F., Storia della letteratura greca, Laterza, Bari, 1998, p. 335.25 Del Grande C., Storia della letteratura greca, Loffredo, Napoli, 1962, p. 173.26 Euripide, Troiane, vv. 400-402.

Penelope di Rosellina Prete

Apollo e Dafne di Stefano Bottino

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DD[[jjjj[[hhWWjjkkhhWW Confluenze RIVISTA CULTURALE QUADRIMESTRALE

con la drammati-ca realtà socio-po-litica del suo tem-po.

Ciò a confer-ma della conce-zione tragica euri-pidea, volta ascandagliare l’ani-mo umano, a de-lineare profili dieroi del Mito a di-mensione d’uo-mo, per esprimer-ne pensieri e sen-timenti, ragionidel cuore e palpi-ti, sensazioni eturbamenti.

In effetti la suaCassandra non èquella eschilea: el-la, seppur invasa-ta, è profetessa ra-zionale e consape-vole; le sue paroledi verità la rendo-no “inaccettabile”

ed emarginata, poiché esse ribaltano morale e certezze co-muni e propongono un nuovo punto di vista, un nuovomodo di valutare e giudicare.

Cassandra è proposta dal poeta come veggente ispirata,ma anche delirante, proprio perché il suo dire stravolgel’ordine istituzionale, sconvolge e rovescia i valori della po-lis, facendola ritenere dall’opinione pubblica una folle chedeve essere emarginata ed isolata.

Il torto subito dalla principessa troiana è sottoposto aduna sorta di riscatto da parte di Euripide, che la rende in-carnazione della sua riflessione critica nei confronti dellaveggenza e della guerra, restituendole dignità e rispetto diessere umano alle prese con il patire dei vinti.

Simbolica la sua immagine, quando si spoglia dellebende sacre e del-le insegne di sa-cerdotessa, perandare incontro alsuo destino dimorte, ma anchedi riscatto dallaschiavitù e dal-l’orrore delle im-magini dei suoicari e della sua pa-tria martoriati daiGreci.

Alla streguadegli altri perso-naggi euripidei,ella è interprete

dell’umana condizione tra fragilità ed autonoma realizza-zione del proprio destino in una dimensione di profondopathos.

Eppure, sebbene non sia più, per Euripide, eroina delMito, di questo Cassandra custodisce la sua essenza più ar-cana e profonda: la trasmissio-ne di verità e valori capaci disuperare la barriera del tempo,ricorrendo alla sua natura asso-luta ed atemporale…

Da quel tempo senza Tem-po, paradigmatico e dotato disacralità, sembra di udire anco-ra le parole accorate e struggen-ti dell’antica profetessa diTroia, secondo la suggestivaproposta interpretativa dellascrittrice Cristha Wolf, conte-nuta nel romanzo Cassandra,dedicato alla figura dell’inegua-gliabile veggente: «Io resto. Ildolore ci ricorderà di noi. Gra-zie ad esso, dopo, se ci rincon-treremo, e qualora un Dopoesista, potremo riconoscerci»27.

Come scolpita nella pietra,quest’accorata testimonianzapalesa, in modo efficace, l’in-tramontabile attualità “assolu-ta” dell’universo mitico nellacentralità istantanea dell’even-to.

Allora il Mito “accade” «co-me se ogni volta accadesse perla prima volta»28, traducendosiin icastico “attimo eterno”…

* Docente di Lettere ClassicheLiceo Classico “B. Telesio” - Cosenzae.mail: [email protected]

27 Wolf C., Cassandra, Edizioni e/o, Roma, 1990.28 Del Corno D., I narcisi di Colono, op. cit., p.12.

Alcione e Ceice di Annamaria Mirabelli

Sublimazione di Aldo Toscano

Aurora di Massimo Nimpo

Cassandra di Luigia Granata

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Agli inizi degli anni cinquanta in Calabria si sentiva-no ancora gli effetti della guerra e, soprattutto nel-le zone dell’entroterra, c’erano grande miseria e

tensioni sociali. La riforma agraria, avviata dal governo do-po le occupazioni delle terre, aveva sortito modesti risulta-ti e creato delusioni e malumori. A causa della mancanzadi lavoro, molti giovani emigrarono al Nord e all’estero.

Nel resto d’Italia si era avviato, intanto, un forte pro-cesso di trasformazione economica e sociale caratterizzatoda una rapida industrializzazione e un conseguente spopo-lamento delle campagne. L’accrescimento dei consumi e lacircolazione di merci stimolavano una nuova cultura dimassa. Erano anni difficili e, tuttavia, i calabresi nutrivanograndi speranze.

Lo strumento che manteneva il contatto con il mondoera la radio. Da molto tempo suoni, rumori e voci prove-nienti da quella scatola di legno proponevano realtà ed es-seri sconosciuti così che la radio rivestiva un ruolo impor-tante nelle comunità1. Durante il fascismo aveva amplifi-cato le parole del Duce e pubblicizzato iniziative del regi-me come la battaglia del grano. Poiché gli apparecchi radionon erano alla portata di tutti, nei paesi si organizzavanopunti d’ascolto. Solo in seguito la Rai calabrese si fece pro-motrice di diverse iniziative per incoraggiare la diffusionedella radio in ogni famiglia. Alcuni anziani cosentini ricor-dano i premi “Antenna d’oro” e “Antenna d’argento” per icommercianti che addobbavano le vetrine più belle sul te-ma della radio2. Ambito era anche il premio “Palma d’ar-gento”, un concorso che coinvolgeva tutti i comuni dellaregione: l’edizione del 1961, vinta da Roggiano Gravina,aveva registrato la spedizione di ben 250 mila cartoline3.Nello stesso anno la sede regionale Rai organizzava alcunemanifestazioni all’interno della trasmissione “Primaveraradiofonica calabrese”; tra queste importante è stata l’ante-prima dello spettacolo dedicato ai calabresi emigrati inGermania. Un giornale cittadino ci informa che, nel cine-ma-teatro Citrigno, attori, cantanti e musicisti famosi, di-retti da Gianni Agus e Norma Cappagli, si esibirono da-vanti ad un pubblico “signorile ed eletto” in cui spiccava-no signore che sfoggiavano “elegantissime toilettes”4.

Il pubblico di radioascoltatori aumentò considerevol-mente con l’arrivo dei transistor che favorì la produzionedi apparecchi radio sempre più leggeri, piccoli, trasporta-bili ed economici. Risolti anche i problemi di ricezione del

segnale, la radio era ormai presente nelle maggior partedelle case. In ogni momento della giornata, poveri e ricchi,analfabeti e colti, giovani e vecchi, girando semplicemen-te una manopola d’osso e azionandone un’altra per sinto-nizzare i programmi, entravano come per incanto in unarealtà eterea. Le trasmissioni più amate dalle donne eranoi radiodrammi (adattamenti di grandi classici della lettera-tura), mentre gli uomini ascoltavano i giornali radio, fre-quenti nel corso della giornata e, durante la domenica, lecronache sportive dedicate soprattutto a calcio e ciclismo.

La radio si insinuava nelle case, informava, tenevacompagnia e faceva sognare. Sembrava parlare al singoloascoltatore rivolgendosi a tutti; appariva come oggettoinoffensivo, ma scandiva la vita della popolazione grazie aiprogrammi a getto continuo. Decideva ciò che era utile oinutile, di moda o antiquato, giusto o ingiusto. Un generemusicale trasmesso più volte, cancellava melodie prece-denti; un prodotto consigliato con insistenza in alcunepubblicità, si affermava a scapito degli altri. Qualcuno haparagonato la radio ad una grande madre che orienta la vi-ta dei figli, servendosi per tale scopo della parola e del suo-no, le forme più antiche con cui gli esseri umani hannoespresso i sentimenti.

Negli anni cinquanta si assiste anche al grande succes-so del cinema. Già durante il fascismo i calabresi andava-no in massa a vedere i film che si proiettavano nelle piaz-ze: gli operatori dell’Istituto Luce arrivavano con un ca-mioncino, sistemavano un telone bianco sulla facciata di

GIOVANNI SOLE*

Scatole magiche e fabbriche di sogniRadio, cinema e televisione nella Calabria del secondo dopoguerra

1 Cfr. Evelina Tarroni, Ragazzi radio e televisione, Bologna, Malipiero, 1960; Rudolf Arnheim, La radio. L’arte dell’ascolto, Roma,Editori Riuniti, 1987; Furio Colombo, Radio e televisione, Firenze, Guaraldi, 1977; Jaques Lacan, Radiofonia e televisione, Tori-no, Einaudi, 1982; Franco Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia: un secolo di costume, società e politica, Vene-zia, Marsilio, 1992; Arturo Gismondi, La radiotelevisione in Italia, Roma, Editori Riuniti, 1958; Rai, Indagini sull’ascolto della ra-dio, Torino, Eri, 1961; Id., Ricerche nel settore della radio, Torino, ERI, 1963.

2 La premiazione dei vincitori del concorso “La Radio in Calabria”, riservato ai commercianti di Cosenza ed indetto dalla Sede Calabre-se della Rai-Televisione, in “Cronaca di Calabria”, Cosenza, 23 aprile 1961.

3 “Cronaca di Calabria”, Cosenza, 23 luglio 1961.4 Cosenza per lo spettacolo organizzato dalla Rai-Radiotelevisione per i lavoratori in Germania, in “Cronaca di Calabria”, 30 giugno

1961.

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una casa e proiettavano pellicole di propaganda del regimee del Duce. Nel dopoguerra, le sale cinematografiche era-no sempre affollate e molti spettatori, a volte costretti adassistere in piedi, visionavamo le pellicole anche due o trevolte. I più apprezzati erano i film americani, comici o sul-le gesta di eroi come Tarzan, Ursus, Ercole e Sansone.

Nell’inverno del 1949, a San Giovanni in Fiore, fu gi-rato “Il lupo della Sila”. Per diversi giorni i paesani ebberooccasione di vedere attrici e attori celebri e, di sera, di as-sistere alla proiezione dei “giornalieri”. La sala cinemato-grafica era sempre affollata di comparse che avevano par-tecipato alle scene. La simpatia dei sangiovannesi era rivol-ta all’attore francese Jacques Sernas, riservando ad AmedeoNazzari, forse a causa del ruolo di padre-padrone che rico-priva nel film, un atteggiamento freddo. L’ammirazionedei giovani era, comunque, rivolta alla bellissima SilvanaMangano, la star reduce dallo straordinario successo di“Riso amaro”5.

La trama de “Il Lupo della Sila” è semplice ma effica-ce. Orsola e Pietro (Vittorio Gassman) si amano appassio-natamente, ma Rocco (Amedeo Nazzari) si oppone allenozze della sorella. In paese un uomo è ucciso e Pietro èarrestato perché ritenuto l’assassino. Si proclama innocen-te ma, per non compromettere Orsola, non dice che quel-la sera era con la donna. La madre di Pietro va da Orsolae le chiede di raccontare la verità per scagionare il figlio,ma l’odioso Rocco l’allontana brutalmente. Pietro, con-dannato per l’omicidio, dopo qualche tempo evade dalcarcere e si rifugia dalla madre e dalla sorellina Rosalia. Icarabinieri, però, circondano la casa e, in un conflitto afuoco, lo uccidono. La madre muore di dolore e la picco-la cresce in un collegio di Cosenza. Rosalia (Silvana Man-gano), ormai adulta, tornando alla casa paterna, è sorpre-sa da una bufera di neve ed è salvata da Rocco, che, igno-randone l’identità, la porta con sè. Rosalia, assunta daRocco, per vendetta fa in modo che si innamorino di leisia lui che il figlio Salvatore (Jaques Sernas). Rocco chiedea Rosalia di sposarlo e la donna acconsente ma, alla vigiliadelle nozze, fugge con Salvatore, ritornato da poco in pae-se. Rocco, in preda all’odio e al desiderio di vendetta, rag-giunge i due ma, prima di uccidere il figlio, è ucciso dallasorella che lo aveva seguito.

Il film, diretto da Coletti, su soggetto di Steno e Mo-nicelli, è una vicenda fumettistica, degna di un romanzod’appendice. La pellicola vorrebbe avere impronta realistae sensibilità etnografica, ma in realtà propone i classici ste-reotipi sui calabresi e tradizioni popolari inventate (comela gara del taglio degli alberi e il cantastorie sangiovanneseche, durante la festa del paese, narra la triste storia di Pie-tro). Le immagini scorrono comunque con ritmo serrato,denso di avvenimenti e in un bianco e nero molto contra-stato che drammatizza personaggi e paesaggio. “Il lupodella Sila” è un cupo melodramma che richiama i temi delcalabrese passionale, geloso, violento e vendicativo. RoccoBarra appare come un uomo egoista, autoritario e disuma-no: impedisce alla sorella di scagionare l’amante ingiusta-mente accusato di omicidio e, per lavare l’onta, non esitaa sparare allo stesso figlio. Anche Rosalia è una donna checova vendetta per la terribile fine del fratello Pietro e del-

la madre e, per realizzarla, aizza il padre contro il figlio,utilizzando fascino e bellezza. Vendetta compie anche Or-sola uccidendo l’odiato fratello, che, provocando la mortedel suo amato, aveva distrutto la sua vita. L’unica figurapositiva del film è quella di Salvatore (interpretata non acaso da un francese), il quale ha lasciato il paese per vive-re in una lontana città del Nord, dove è diventato un uo-mo civile e moderno.

Il lungometraggio ebbe un discreto successo e ciò spin-se, l’anno seguente, Ponti e De Laurentis a produrre “Il bri-gante Musolino”. Dalla Sila si passa in Aspromonte, ma itemi che caratterizzano la nuova pellicola sono gli stessidella precedente. Giuseppe Musolino (Amedeo Nazzari),giovane carbonaio calabrese, è amato e riamato dalla bellaMara (Silvana Mangano), ma il padre della ragazza vorreb-be che Mara sposasse il boss locale don Pietro. Musolino hauna violenta lite con don Pietro e lo stesso giorno, mentreil paese è in festa, il boss viene ucciso con un colpo di fuci-le. Musolino, estraneo al delitto, viene comunque arrestatoe, durante il processo, per non compromettere l’onore diMara, non dice che nel momento dell’omicidio era con lei.Il medico del paese e Marco, addetto alla teleferica, ricatta-ti da un mafioso (l’autore del delitto), testimoniano controil giovane carbonaio. Il sagrestano Rocco lo incastra conuna falsa prova e a niente serve che Mara, irrompendo intribunale, dica ai giudici che il suo amato è innocente.

Musolino, condannato a ventuno anni di carcere, eva-de e, tornato in paese, uccide il sagrestano Rocco. Insegui-to dai carabinieri e ferito, si rifugia sui monti aiutato da unpastore e da Mara che lo raggiunge. Il carbonaio, spintodal suo spirito di vendetta, uccide Marco che inutilmentechiede pietà. Incontra poi il medico alcolizzato, ma gli ri-sparmia la vita perché questo si recava da una partoriente.Braccato dai sicari del mafioso, Musolino sfugge ad un ag-guato e decide di scappare all’estero con Mara che è incin-ta. Prima di partire i due vanno a confessarsi al santuariodi Polsi, ma il sacerdote nega loro la benedizione. All’usci-ta dalla chiesa, la donna è uccisa dall’assassino di don Pie-tro. Dopo una lotta corpo a corpo, l’uomo viene ammaz-zato da Musolino a colpi di pietra. Stanco e provato daitroppi delitti e dal dolore per la morte della compagna, ilfiero carbonaio si costituisce ai carabinieri.

Anche “Il brigante Musolino” è un melodramma a tin-te forti. Il protagonista personifica i caratteri stereotipatidel calabrese: forte, spietato, violento, vendicatore e san-guinario. Uscito dal carcere, insegue come una bestia infe-rocita le prede, appare improvvisamente e uccide in modoplateale. Il sacrestano Rocco, ad esempio, viene freddatodurante una processione mentre porta un pesante crocefis-so. Musolino, prima di far fuoco, si fa il segno della crocee, pur sapendo di non poter ottenere il perdono, ringraziaDio. Il film, diretto da Camerini, è la storia ampiamenteromanzata del famoso brigante. I delitti del freddo vendi-catore e del giustiziere romantico si susseguono nonostan-te l’autore sia inseguito da carabinieri e mafiosi. Lo scena-rio sociale è completamente assente e il brigante si pone aldi fuori della sua comunità, vittima di stato, mafia e chie-sa. “Calabresella” viene cantata sia al matrimonio che du-rante la vendemmia.

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5 Giovanni Sole-Rossella Belcastro, Sulle bombole del gas a guardare la TV. La televisione in un paese calabrese alla fine degli anni cin-quanta, Rende, Università della Calabria, Centro Editoriale e Librario, 2004, p.11.

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“Il lupo della Sila” e “Il brigante Musolino” fornisconoun’immagine totalmente negativa dei calabresi: genitoriche per interesse sacrificano le figlie, gente che tradisce perpaura e interesse, giovani irruenti, passionali e facili all’ira,pronti a prendere il fucile per qualsiasi controversia e perdifendere l’onore della famiglia. Insomma, i soliti modelliusati per definire Calabria e calabresi: terra selvaggia, abi-tata da gente selvaggia6.

Non tutti i cineasti condivisero le scelte del grande ci-nema. Negli anni cinquanta, molti sono stati i cortome-traggi e i documentari sulla realtà economica, sociale e cul-turale della regione7. I calabresi e la Calabria si prestavanobene a tradursi in forme artistiche e alla sperimentazionecinematografica. Pescatori che cacciavano il pescespadacon tecniche millenarie in un mare azzurro e trasparente,fedeli che si flagellavano con pezzi di vetro spargendo san-gue lungo i vicoli dei paesi, donne che raccoglievano oliveai piedi di alberi secolari avvolti dalla nebbia d’inverno,erano soggetti e luoghi ideali per girare un film. I contadi-ni, segnati dalla fatica e ammantati con panni consumatidal tempo, apparivano più interessanti di attori del cine-ma dalle facce regolari e vestiti con abiti inamidati prove-nienti da atelier. I paesi e le case abbarbicati su luoghi asprie inospitali, le campagne arse dal sole, le montagne coper-te da boschi impenetrabilierano più avvincenti deipaesaggi freddi e irreali co-struiti negli “studios” diCinecittà.

I registi erano affasci-nati da quella regione cheai loro occhi appariva co-me un luogo mitico, dovela natura era incontamina-ta e dove gli uomini aveva-no ancora passioni primiti-ve. Il paesaggio rude dellaCalabria e le ritualità arcai-che dei suoi abitanti sti-molavano la loro creativitàdi registi, ma avrebbero fi-nito per catturare anche l’attenzione del grande pubblico,solitamente poco attento verso il cinema corto. I cineastierano attratti da questa terra leggendaria e spesso elimina-vano ogni riferimento al reale che potesse inquinare il “pa-thos” della pellicola. A volte ricostruivano interi rituali conattori di strada per renderli più spettacolari e drammatici.Lo stesso De Seta, il più bravo e originale tra i documen-taristi, nel cortometraggio “I dimenticati”, per riprenderela festa dell’albero ad Alessandria del Carretto, chiese aipaesani di ricostruire alcuni momenti del rito. Per realiz-zare il documentario “Lu tempu di li pisci spata”, girò sce-ne in posti diversi ed effettuò, in fase di post produzione,la ricostruzione dei vari momenti della caccia8.

I cineasti filmavano la Calabria che avevano già in

mente. Puntavano su immagini suggestive che suscitasseromeraviglia e catturassero l’attenzione degli spettatori, ac-compagnavano le sequenze con voci declamatorie, utiliz-zavano colonne sonore per drammatizzare le scene, dava-no al montaggio un senso di ansioso reportage, eliminava-no tutto ciò che era ritenuto scarsamente cinematografico(interviste, dialetti e musiche popolari in presa diretta).Erano particolarmente attenti alle inquadrature e alla curadella fotografia. Le immagini dovevano “parlare da sole”,in un fotogramma o in una sequenza dovevano essere rap-presentati cultura, passioni e lavoro di un popolo. Così,spesso, finivano per creare un’atmosfera onirica, fatta divolti e gesti antichi, sguardi immobili, luoghi irreali e sel-vaggi, immagini belle sul piano filmico ma inventate eastoriche. Essi stessi, del resto, hanno riconosciuto di nonessere interessati ad uno sguardo neutrale, ma di volereesaltare soprattutto le capacità di costruzione della cine-presa9.

I registi del “cinema corto” documentavano il reale, maal tempo stesso ne offrivano una visione lirica, cinemato-grafica nel senso classico. Esigenze estetiche li spingevanoa vedere solo la parte arcaica della Calabria e ad ignorarequella che si stava trasformando per effetto della moder-nizzazione. Preoccupazioni stilistiche li spingevano a di-

sinteressarsi dei forticambiamenti che si verifi-cavano nelle campagne acausa della crisi dell’econo-mia tradizionale, a non te-nere conto del fatto che lalogica del profitto stesseannullando le diversitàculturali, a sottovalutare ilsenso di sradicamento eangoscia presenti in larghistrati della popolazione, anon vedere che la culturadei calabresi stava facendopropri i valori del capitali-smo10.

Essi avevano, comun-que, il merito di rifiutare trionfalismo, conformismo ed et-nocentrismo con cui i registi del grande cinema avevano ri-preso e riprendevano la Calabria. Nelle pellicole non si ve-dono più volti felici di contadini che mietono il grano, mavisi scavati dalla fatica e dal sole; non più campagne riden-ti e fertili, ma terre spaccate dall’arsura e allagate dai fiu-mi; non più paesi pittoreschi abbarbicati su incantevolipaesaggi, ma centri urbani fatiscenti e abbandonati all’in-curia del tempo. Contadini, pescatori, pastori e artigiani,nei film appartengono ad un mondo millenario dove l’a-gire quotidiano è fatto di gesti uguali e ripetitivi, genteanonima che lavora silenziosamente nella lotta per l’esi-stenza in una natura straordinariamente bella, ma spessoaspra e violenta, amara e ingrata.

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6 Cfr. Giovanni Scarfò, La Calabria nel cinema, Cosenza, Periferia, 1990.7 Cfr. Giovanni Sole, Trentacinque millimetri di terra. La Calabria nel cinema etnografico, Cosenza - Rende, Centro di Documen-

tazione Demoantropologica dell’Università della Calabria - Associazione Culturale “Il Gabbiano”. Laboratorio di Cinema, 1992. 8 Cfr. Giovanni Sole, La Calabria nel cinema documentario degli anni cinquanta, in G. Masi (a cura di), Tra Calabria e Mezzogior-

no. Scritti storici in memoria di Tobia Cornacchioli, Cosenza, Pellegrini , 2007, pp. 379-388.9 Ibidem. 10 Ibidem.

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Nei cortometraggi i registi riconoscevano alle classisubalterne una dignità culturale che veniva denigrata daun vecchio meridionalismo e ignorata da un modernismoimperante. Scarsamente attratti dalla religione del progres-so, si schieravano con la gente povera del Sud che pagavapiù di ogni altro il processo di modernizzazione. Propone-vano una lettura etica ed umanista della Calabria e dei ca-labresi, una visione che si contrapponeva a quella di intel-lettuali e politici che pensavano ad una rinascita della re-gione attraverso la distruzione della mentalità arcaica e re-triva dei suoi abitanti.

Alcuni film suscitarono proteste e indignazione. Gior-nalisti e intellettuali calabresi rimproverarono loro di ave-re rappresentato una regione che avevano in mente. LaCalabria non costituiva un mondo a parte, non era unaterra immobile culturalmente, non stava al di fuori deiprocessi di trasformazione. Non era una terra semplice incui gli uomini si accontentavano di mangiare e dormire,dove vigeva la logica della sopravvivenza, dove non c’era-no momenti in cui il superfluo vinceva sul necessario, do-ve c’era una cultura collettiva fissata nel tempo a cui tuttisi omologavano, dove si era elaborato un proprio ordinemitico, estetico e rituale.

Miceli scriveva che, dopo aver visto il documentario“Calabria segreta” di Vincenzo Nasso, prodotto dalla Rai,era rimasto molto deluso e amareggiato. Si trattava di unfilm di “pessimo gusto”, che rivelava una spaventosa igno-ranza della regione. Il regista “supercivile”, con duelli fero-ci e balenio di coltelli, presentava i calabresi come barbari,ignorando che la Calabria non era stata patria del banditi-smo e che il popolo era buono e laborioso, semplice e one-sto, amante della famiglia, della casa e della patria11. An-che la “Baronessa scalza” criticava su un giornale cosenti-no il cortometraggio definendolo una produzione cinema-tografica “nauseante” per aver presentato i calabresi comeferoci e primitivi12.

Si avvertiva una forte insofferenza nei confronti di unaparte dell’opinione pubblica italiana che tendeva a presen-tare la Calabria come una terra arretrata. In occasione dialcune dichiarazioni di Pier Paolo Pasolini sui calabresi,molti insorsero con commenti durissimi. Un giornalistascriveva che avrebbe voluto “sputare” sul volto dello scrit-tore il più profondo rancore e risentimento per le “espres-sioni bassissime” da lui rivolte ai calabresi. La sua “sfaccia-taggine” era odiosa e, più che una risposta polemica,avrebbe meritato quattro poderosi calci “con le scarpechiodate” di quei robusti boscaioli della Sila che “stillava-no sudore e sangue per la quotidiana lotta di un tozzo dipane nerissimo”. Il popolo calabrese era il più educato e ilpiù generoso dei popoli, ma guai a chi avesse cercato dicalpestargli i calli!13. Un altro periodico pubblicava la let-tera aperta di un “romagnolo” che accusava Pasolini diavere usato nei confronti della Calabria le solite frasi “tritee ritrite” di chi è prevenuto. Gli abitanti della regione era-

no sani e belli e, le donne erano abbronzate, efebiche, bel-le e affascinanti, non esili e brutte!14.

Nello stesso anno, un episodio suscitò un vivace dibat-tito sul “carattere” dei calabresi. Il 25 giugno 1959, a Ca-strovillari, in occasione del “Rally del cinema” (gara auto-mobilistica definita “Mille miglia delle stelle”), il marche-se Gerini, con a bordo Anita Ekberg, durante una sostapresso un distributore di benzina, infastidito dalla follache faceva ressa per ammirare da vicino la “Venere dighiaccio”, ripartiva a forte velocità travolgendo venti per-sone. Secondo la stampa nazionale, il marchese, impauri-to dai giovinastri che avevano perso letteralmente la testaper la diva svedese, partì con la Lancia Flaminia cercandodi farsi largo tra la folla e mettersi in salvo. In una corri-spondenza di “Paese sera” si legge che, in ogni paesino del-la Calabria, folle di giovani assalivano puntualmente lemacchine del rally prendendo gli equipaggi a pacche, piz-zicotti e sganassoni: si trattava di gente analfabeta e igno-rante. Un pastorello scambiava la bionda Eleonora Ruffoper la Madonna, ricredendosi quando la bella donna, conla scusa del caldo, sollevava le gonne ad altezze vertigino-se!15. In realtà, secondo alcuni giornali locali, i giovani ave-vano mostrato solo un eccessivo entusiasmo per la Ekberge qualcuno di loro aveva sputato e urlato contro il Gerinidopo che questi li aveva insultati con gesti volgari e paro-le offensive. I castrovillaresi non erano selvaggi assatanatima gente civile e ospitale: ragazze in costumi tradizionaliavevano accolto gli equipaggi con fiori e sorrisi e l’ammi-nistrazione comunale aveva offerto un pranzo a base dipollo arrosto e ottimo vino16.

L’anno seguente, il 12 maggio 1960, Anita Ekberg, lacelebre diva “dai capelli biondo-cenere e dalla pelle madre-perlacea” che “camminava quasi sempre a piedi nudi e usa-va il reggiseno solo quando andava a cavallo”, giunse inCalabria per testimoniare al processo contro Gerini.Quando scese dalla macchina davanti al Tribunale di Ca-strovillari una folla di gente, in attesa da ore, l’accolse conun forte applauso. L’attrice svedese, vestita sobriamente edelegantemente nella sua princesse nera con stola di visoneselvaggio scuro, fu circondata da decine di fotografi e gior-nalisti17. In aula, alla richiesta del Presidente della Corte didichiarare la sua età, rispose che quella non era una do-manda da rivolgere a una donna e, nella deposizione, sca-gionò il marchese dichiarando che i giovani erano diven-tati così invadenti da sedersi sul cofano della Flaminia.Disse, inoltre, che alla sua camicetta non mancava alcunbottone e che quel giorno era, anzi, vestita come una col-legiale: gonna e camiciola a maniche lunghe. Durante ilprocesso, il presidente della corte fu costretto a far sgom-berare l’aula per il clima concitato. La deposizione dellaEkberg fu persino oggetto di una interrogazione dell’on.Migliori al Ministro di Grazia e Giustizia nella quale sichiedeva se, come attestato anche da foto comparse sugiornali e rotocalchi, l’attrice si fosse presentata con abiti e

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11 Giuseppe Miceli, La Televisione e “Calabria Segreta”, in “Corriere della Calabria”, Cosenza, 17 marzo 1957. 12 “Giornale di Calabria”, Cosenza, 22 marzo 1957.13 Jos, A Pier Paolo Pasolini perché si maceri nel tormento di avere offeso i calabresi, Cosenza, “Corriere della Calabria”, 16 settembre 1959.14 Libero Fabbri, Lettera aperta di un romagnolo al sig. Pier Paolo Pasolini, in “Cronaca di Calabria”, 4 ottobre 1959.15 Guido Lombardi, Gli incidenti all’arrivo della Ekberg, in “La Vedetta”, Castrovillari, 13 luglio 1959.16 Ibidem. Cfr. Andrea Barbato, Boccaccesca. Federico Fellini (e gli italiani) hanno fatto di Anita Ekberg un personaggio: ma ora lei ne

è stanca, in “L’Espresso”, 11 giugno 1961.17 Anita Ekberg a Castrovillari depone nel processo Gerini, in “La Vedetta”, Castrovillari, 7 maggio 1960.

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pose contrastanti col decoro delle aule giudiziarie (gambeaccavallate, decoltè a vista e braccia scoperte)18.

La radio e il cinema avevano occupato un posto impor-tante nella vita dei calabresi ma, verso la fine degli annicinquanta, fu la televisione a sconvolgere il loro modo divivere e pensare. Molti emigrati che ritornavano nei paesil’avevano vista nelle città dove lavoravano e ne parlavanocon grande entusiasmo. I primi apparecchi televisivi inCalabria furono acquistati da famiglie benestanti e, per at-trarre i clienti, da esercenti pubblici. In quegli anni un te-levisore costava dalle 150 alle 200 mila lire e il salario me-dio di un bracciante si aggirava intorno alle 20 mila lire almese. Nel 1957, 27 su 34 milioni di italiani adulti che vi-vevano nelle zone servite dalla Tv, la guardavano, ma soloil 4% aveva in casa un apparecchio; il 12% era ospite daparenti o amici, il 75% guardava i programmi in bar, cir-coli, dopolavori, sedi di partiti e sindacati19.

Gli apparecchi televisivi erano un sogno e molti paesa-ni ricordano che si fermavano davanti alle vetrine dei nego-zi dove erano esposti per guardare sullo schermo il segnalevideo. Secondo Arnheim, lapopolarità della Tv risiede es-senzialmente nel suo conno-tarsi quale mezzo di trasportodella mente. Essa esplora di-mensioni spazio-temporaliche sono precluse sia al cine-ma che alla radio, riuscendo acelebrare il matrimonio tra idue mezzi di comunicazione.Grazie alla dominanza delfattore ottico, il mezzo televi-sivo privilegia più i fatti che iconcetti, propone materialeillustrato più che esperienzeintellettuali, si rivela comemezzo di insegnamento piùche come insegnamento20.

Ciò che spingeva molticalabresi ad amare la televisione era anche il suo carattereludico21. La gente povera non frequentava il cinema e ilteatro e si incantava di fronte a tutto ciò che veniva mostra-to dalla Tv: riuscivano a riposare dopo dure fatiche e di-menticavano le preoccupazioni di ogni giorno. Telequiz co-me “Lascia o raddoppia” e “Il Musichiere” erano preferitiagli altri programmi: riproponevano un’atmosfera di festi-vità che, seppur fittizia, appagava il loro immaginario inquanto favoriva un processo di identificazione tra spettato-re e giocatore. Anche nei paesi più isolati c’era voglia diprotagonismo diffuso, desiderio di farsi conoscere, bisognodi partecipare. I telespettatori, a differenza di quanto acca-

deva con la radio e il cinema, avevano la sensazione di en-trare nel piccolo schermo, dialogare con i personaggi del vi-deo, interagire col mondo dello spettacolo, diventare an-ch’essi attori, collaborare alla creazione dell’evento. I con-correnti del “popolo” che vincevano grosse somme in dana-ro rappresentavano, inoltre, un elemento di riscatto socia-le: rispondendo ad alcune domande avevano la possibilitàdi cambiare la propria esistenza22.

Quando Lya Celebre, nel 1959, fu chiamata a Romaper partecipare a “Il Musichiere”, a Cosenza vi fu un gran-de entusiasmo. La stessa maestra in una lettera scrisse chela notizia si diffuse in un batter d’occhio “da via Piave al-le Paparelle e da Portapiana a Penebianco”. La Celebre nonvinse la gara ma, in città, diventò per qualche tempo unacelebrità. In una lettera ad un giornale dichiarò di aver vis-suto un’esperienza straordinaria: aveva sorvolato la capita-le a bordo di un moderno aereo, ricevuto dalle mani diMario Riva i due gettoni e il musichiere e vissuto per al-cuni giorni in quel mondo meraviglioso di cameraman,luci, giraffe e telecamere23.

La Tv era un prodottodella modernità e della tec-nologia più avanzata ma, percerti versi, riproponeva unsistema mitico, simbolico erituale già in parte conosciu-to. Sullo schermo la realtàera trasposta in una dimen-sione spettacolare, una fun-zione che sino a quel mo-mento era stata assolta da al-cune rappresentazioni popo-lari. Le immagini televisive,come osserva Cazeneuve, invirtù del loro potere di sug-gestione e fascinazione, sonoin grado di penetrare nellavita degli uomini con la stes-sa semplicità di alcuni appa-

rati magico-rituali presenti nelle comunità24. Il televiso-re stesso, in fondo, era un apparecchio magico. Nessunoriusciva a spiegare in maniera convincente perché sul ve-tro di quella scatola di legno, che conteneva una serie dimarchingegni a loro volta collegati con un filo ad un biz-zarro albero metallico, si potessero vedere luoghi e perso-ne distanti anche migliaia di chilometri. Varie personemi hanno raccontato che c’era chi, vedendo per la primavolta le immagini, andava dietro all’apparecchio per ve-dere se ci fosse nascosto qualcuno; altri lo scuotevano perverificare la caduta eventuale di uomini o cose, altri, in-fine, rispondevano al saluto dell’annunciatrice o parlava-

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18 Ancora la Ekberg e la sua deposizione a Castrovillari, in “La Vedetta”, Castrovillari, 7 ottobre 1960. 19 Fabrizio Dentice - Gianni Corbi, Tv, ormai gli italiani si divertono e si annoiano insieme. Il telespettatore e il cittadino qualunque

sono ormai la stessa persona, in “L’Espresso”, 30 giugno 1957.20 Rudolf Arnheim, La radio. L’arte dell’ascolto, Roma, Editori Riuniti, 1987, pp. 162-168.21 Cfr. Jean Cazeneuve, L’uomo telespettatore: la Tv come fenomeno sociale, Roma, Armando, 1976, p. 83.22 Cfr. Giandomenico Crapis, La parola imprevista: intellettuali, cultura e società all’avvento della televisione in Italia, Roma, Lavoro,

1999; Furio Colombo, Televisione: la realtà come spettacolo, Milano, Bompiani, 1974; Aldo Grasso, Storia della televisione. La TVitaliana dalle origini, Milano, Garzanti, 1998.

23 Lydia Celebre, Al “Musichiere”, in “Corriere della Calabria”, Cosenza, 11 maggio 1959. 24 Cfr. Jean Cazeneuve, op. cit.; Id., I poteri della televisione, Roma, Armando, 1972; Id., Sociologia della radiotelevisione, Messina,

s.e., 1975.

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no con i personaggi dei programmi televisivi. La Tv, sostituendo alla realtà oggettiva una realtà fitti-

zia, conferiva la stessa illusione del potere magico. I tele-spettatori, partecipando ad un mondo in cui tutto diveni-va possibile, senza perdere il contatto con la realtà, abban-donavano la loro condizione umana, entravano in un mon-do irreale e divenivano essi stessi maghi. Guardando sulloschermo trasmissioni che si alternavano una dopo l’altra,vivevano una realtà che nel quotidiano sarebbe stata impos-sibile. Ballerine, cantanti, attori e presentatori, tutti coloroche popolavano il mondo incantato della Tv, apparivanocome divinità che facevano da tramite tra la difficile realtàdello spettatore e quella meravigliosa della televisione.

L’identità collettiva, sottoposta all’influenza del mezzotelevisivo, stava comunque subendo forti lacerazioni. I ri-ti, che in passato avevano rappresentato eventi in cui la co-munità si riconosceva nella fedeltà unica ad un sistemasimbolico e culturale persuasivo dell’intera esistenza, sta-vano subendo contraccolpi. Il mondo culturale che sino aquel momento aveva resistito tenacemente per paura del-l’irruzione del nuovo che rompesse gli equilibri, si stavasgretolando. La struttura etnocentrica che aveva sempredifeso il paese dal mondo esterno, con la televisione si sta-va indebolendo; i meccanismi attraverso cui il sapere ap-preso si trasmetteva da un individuo all’altro, da una gene-razione a quella successiva, si stavano definitivamente in-crinando25.

Calvino scriveva che la memoria visiva di un individuoè limitata al suo patrimonio di immagini dirette ed a unridotto repertorio di immagini riflesse dalla cultura. Lapossibilità di dar forma a miti personali nasce dal modo incui i frammenti di questa memoria si combinano fra loroin accostamenti inattesi e suggestivi. Con la televisione ilpubblico è bombardato da una tale quantità di immaginida non saper più distinguere tra esperienza diretta e ciòche ha visto per pochi secondi sullo schermo. La memoriaè ricoperta da strati di frantumi di immagini come un de-posito di spazzatura dove è sempre difficile che una figuratra tante riesca ad acquistare rilievo26.

Baudrillard aggiunge che la televisione riesce a realizza-re i sogni e dar loro corporeità, ma il suo mondo virtualesi sostituisce alla realtà mostrando una dimensione senzasoggetto e oggetto. Lo spettatore si immerge dentro loschermo e interagisce con esso, ma perde la distanza dellosguardo e il suo senso critico. La televisione uccide la ca-pacità dell’uomo di costruire un mondo simbolico, diproiettare scene diverse dalla realtà. Ciò che è immagina-to, fantasticato, sognato perde il proprio carattere d’imma-gine, fantasia e sogno. Nel mondo della Tv il soggetto per-de la sua ombra poiché diventa trasparente e, perdendol’ombra, perde la sua storia e la sua profondità. L’illusionediventa qualcosa di più corposo della realtà e si finisce perperdere lo stimolo del cambiamento, dell’invenzione e del-

la trasformazione. La televisione indebolisce o fa smarrireil principio di realtà poiché diventa impossibile distingue-re fra ciò che è vero e ciò che è falso: macchina virtualemostra essenzialmente lo spettacolo del pensiero piuttostoche il pensiero stesso27.

Negli anni in cui si affermava la televisione, non si per-cepivano i cambiamenti che questa avrebbe provocato nel-la vita dei calabresi e, tuttavia, c’era già chi mostrava unacerta contrarietà. Qualcuno sosteneva che gli apparecchitelevisivi sprigionassero “raggi radioattivi” e “onde sonore”pericolose per la vista (non a caso i rivenditori consigliava-no di guardare lo schermo da una certa distanza e di por-vi sopra una fonte luminosa) e per l’udito. Altri attribui-vano loro la responsabilità di tante bronchiti, poiché glispettatori, specialmente i bambini, guardavano i program-mi seduti sul pavimento e in locali poco riscaldati28.

L’ostilità nei confronti della Tv era comunque dettatasoprattutto da ragioni politiche e morali. Molti militantidella sinistra calabrese consideravano la Rai al servizio deipartiti di destra, soprattutto della Democrazia Cristiana. Aparte alcuni programmi di carattere culturale e di informa-zione, il resto aveva lo scopo di addormentare le coscienzee distrarre il pubblico dai problemi della quotidianità. An-che numerosi cattolici osteggiarono la televisione, preoc-cupati che il piccolo schermo potesse veicolare una cultu-ra consumistica e libertina, in contrasto con i valori cristia-ni. Nelle parrocchie si guardavano solo telequiz, avveni-menti sportivi, manifestazioni canore e programmi di va-rietà e gli stessi parroci si fecero promotori di proteste con-tro il carattere licenzioso di trasmissioni in cui le gemelleKessler ballavano il “Dadaumpa” con le gambe scoperte, oMina indossava vestiti con audaci scollature. L’arcivescovoCalcara di Cosenza, invitato dai dirigenti Rai all’inaugura-zione della sede regionale, ricordava ai presenti che ognicosa aveva principio da Dio, che S. Gabriele, protettoredella Rai, “trasvolava” gli spazi con una velocità infinita-mente più rapida delle onde radio e che, mentre la televi-sione annunciava gioie e dolori, l’arcangelo caro alla Ver-gine annunciava solo cose buone29.

C’era tuttavia chi sosteneva che la Tv proponesse idea-li e valori troppo conservatori. Ad esempio, la “Baronessascalza”, curatrice della rubrica “Schermi e teleschermi”,trovava ridicolo il balletto “La belle époque” trasmesso intelevisione nel 1957. Le danzatrici indossavano gonne emutandoni lunghi e facevano inchini e mossette in mododa apparire più delle collegiali che ballerine del celebre lo-cale parigino30. Sempre l’acuta e ironica giornalista cosen-tina, criticava alcuni programmi televisivi dedicati ai bam-bini come “C’era una volta”, in cui Laura Solari narravanoiosissime e banali favolette e quelli in cui l’attore CinoTortorella, pagliaccescamente travestito da mago, presen-tava un ridicolo e anacronistico programma di indovinellia premio31.

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25 Cfr. Giovanni Sole, Belli e brutti. Apollineo e dionisiaco ad Alessandria del Carretto, Rende, Centro Editoriale e Librario, Univer-sità della Calabria, 1998.

26 Italo Calvino, Lezioni americane, Milano, 1988, pp.91-92).27 Cfr. Jean Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà, Milano, Raffaello Cortina, 1996; Angela Ferraro - Ga-

briele Montagano, La scena immateriale. Linguaggi elettronici e mondi virtuali, Ancona, Costa e Nolan, 2000.28 Giandomenico Crapis, op. cit., p. 30.29 La nuova sede della Rai-Tv della Calabria, in “Cronaca di Calabria”, Cosenza, 20 dicembre 1958.30 “Giornale di Calabria”, Cosenza 29 marzo 1957.31 Ivi, Cosenza, 8 marzo 1957.

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I controlli dei dirigenti Rai sulla programmazione tele-visiva erano attenti e severi. Esisteva un codice di autodisci-plina che serviva ad orientare rigidamente il contenuto del-le trasmissioni. Sullo schermo, ad esempio, non potevanoessere mostrati sesso, adulterio, lusso eccessivo e oggetti su-perflui. Una cultura liberale “americana” era sì presente neiprogrammi, ma corretta e adattata alla mentalità italianadel tempo: competitività, abilità individuale e scalata alsuccesso, ma anche speranza nella fortuna, arte di arran-giarsi e vanità esibizionistica. Questa censura, secondo al-cuni, finì per svilire le potenzialità della televisione e dareun’immagine del paese che non corrispondeva alla realtà.

La sede Rai di Cosenza fu inaugurata l’11 dicembre1958 alla presenza di autorità politiche e religiose. Lastampa riportò l’avveninento usando toni epici. In ungiornale locale si legge che, dal comune più grande a quel-lo più piccolo, dall’estremo confine settentrionale all’estre-ma punta meridionale, da Roseto Capo Spulico a Praia aMare, da Vibo Valentia a Cirò, dal mare cristallino allamontagna innevata, dalla casa agiata del professionista aquella dell’agricoltore, tutti applaudivano alla nascita del-la sede regionale Rai-Radio-televisione32. Un periodicosocialista, commentandol’avvenimento, scriveva chese i servizi Rai fossero statiimprontati sullo stesso stiledell’inaugurazione della se-de, i calabresi avrebbero fat-to bene a “staccare le tra-smissioni” a meno che nonamassero sentire bollettiniparrocchiali e stucchevoli,cronache elogiative dei diri-genti democristiani!33.

Enrico Mascilli Miglio-rini, responsabile della Rairegionale, in una conferen-za del 1961 sull’attività del-l’Ente, affermava che l’obiettivo della radio e della televi-sione calabrese era uno solo: mostrare al mondo la bellez-za della Calabria e la nobiltà d’animo dei suoi abitanti34.Un programma decisamente modesto, che fu seguito conestrema puntigliosità. Molti anziani cosentini ricordanouna puntata della fortunata trasmissione “Ventiquattresi-ma ora” del 1959, organizzata dalla Rai per esaltare il “sa-cro culto dei calabresi nei confronti della famiglia”. Dopodiciassette anni di lontananza, la Tv riuniva “miracolosa-mente” figli, nipoti e parenti del ferroviere pensionatoFrancesco di Gennaro sparsi in Italia. Lo storico abbraccioavveniva sul palcoscenico del cinema Citrigno, sotto laguida del presentatore Silvio Gigli al cospetto di una follacommossa che applaudiva con grande convinzione. La

manifestazione era collegata con un cinema di Roma do-ve, riuniti attorno a Mario Riva, si erano dati appunta-mento centinaia di calabresi residenti nella capitale35.

I partiti della sinistra attaccavano continuamente la Raiattribuendole la responsabilità di addormentare le coscien-ze, ma alcuni militanti comunisti ricordano che le sezionidel partito compravano l’apparecchio televisivo, e gli iscrit-ti, dopo aver guardato i programmi, lasciavano un contri-buto per pagare le spese dell’energia elettrica. Ricordanoche quando venivano trasmessi i telequiz, non si organizza-vano riunioni perché sarebbero andate puntualmente de-serte. La televisione riscontrava un grande successo in unaregione povera come la Calabria ed era considerata non acaso il “cinema dei poveri” poiché la sua semplicità e im-mediatezza sembrava conformarsi alla cultura popolare.

I calabresi avevano atteggiamenti duplici: desideravanorimanere vincolati al passato, ma volevano proiettarsi ver-so il futuro; nutrivano sentimenti di colpa per la trasgres-sione dei codici tradizionali, ma avvertivano il bisogno diconoscere ed assimilare nuove mentalità. La gente era con-sapevole che il mondo antico stava crollando sotto i colpi

della modernizzazione, mala volontà di cambiamentoera troppo forte: lo sguardo,al contrario di quanto acca-duto in passato, era rivoltoin avanti piuttosto che in-dietro36. Alcuni raccontanoche in quegli anni le mas-saie scambiavano con gliambulanti napoletani,utensili e mobili antichicon oggetti in plastica: di-sfarsi delle cose vecchie,probabilmente, era come ri-muovere un trascorso chericordava soprattutto mise-ria e amarezze.

Alcuni programmi offri-vano ai calabresi la possibilità di sentirsi parte del grandeprocesso di modernizzazione che investiva la società italia-na e rispondevano al bisogno di democrazia e uguaglianzasbandierato da tutti ma mortificato nella vita quotidiana.Nelle piccole comunità, le differenze sociali continuavanoad essere rimarcate nella vita come nella morte. A SanGiovanni in Fiore, la famiglia “Fatigatu”, che aveva in con-cessione il servizio dei trasporti funebri, aveva acquistato aTaranto tre carrozze per classi sociali diverse. La prima,trainata da due o quattro cavalli e decorata con fregi di va-ria natura, trasportava i defunti delle famiglie ricche, la se-conda, trainata da due cavalli, le “glorielle” (salme deibambini), e la terza, infine, trainata da un solo cavallo, ipoveri37. Con la Tv le differenze sociali, geografiche e cul-

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32 Saluto alla R.A.I., in “Cronaca di Calabria”, Cosenza, 11 dicembre 1958.33 La Rai-Tv a Cosenza, in “La Parola Socialista”, Cosenza, 23 dicembre 1958. Cfr. Pino Nano, Quarant’anni di Rai in Calabria,

vol. I, Cosenza, EMI-Memoria, 2000, pp. 19-62.34 Enrico Mascilli Migliorini, Radio e televisione nella regione calabrese, in, “Cronaca di Calabria”, Cosenza, 1 febbraio 1961.35 L’esaltazione della Calabria attraverso la Rai, in “Cronaca di Calabria”, Cosenza, 15 marzo 1959. 36 Cfr. Giovanni Sole, La società dei santi. Una setta religiosa calabrese dell’Ottocento, Rende, Centro Editoriale e Librario, 2003; Id.,

Lingue di fuoco, miracoli e Apocalisse. I pentecostali calabresi nel ventennio fascista, in “Daedalus”, n. 16, Soveria Mannelli, Rubbet-tino, 2002, pp. 71-104.

37 Giovanni Sole - Rossella Belcastro, op. cit., p.11.

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turali si appiattivano: i poveri entravano in contatto con iricchi, gli analfabeti con i colti, i meridionali con i setten-trionali.

Tra la fine degli anni cinquanta e i primi anni sessanta,ogni perplessità nei confronti della televisione era svanita,e anche le persone più ostili o incredule, ne erano conqui-state. Durante il fascismo, molte associazioni dopolavori-ste avevano incoraggiato la fruizione di massa di avveni-menti culturali; nell’immediato dopoguerra, tornava pre-dominante e claustrofobica la dimensione familiare e pri-vata. Con la televisione i calabresi ritrovavano, finalmente,il piacere di stare insieme e di allargare i propri orizzonti.Famiglie intere non trascorrevano più le serate in casa, mauscivano per riunirsi in bar, parrocchie, sedi dei partiti enelle abitazioni di chi possedeva televisioni, per assistere atelequiz e programmi di intrattenimento. Guardare la te-levisione era un’occasione di svago e di socializzazione an-che al di là del contenuto dei programmi.

La semplicità e l’immediatezza delle immagini televisi-ve sembravano conformarsi alla mentalità di gran partedella popolazione. A differenza della radio e del cinema, latelevisione riusciva ad essere contemporaneamente più co-se: proponeva un universo dove la realtà si convertiva inmagia e la magia in realtà. Uomini, oggetti e animali sul-lo schermo non mostravano la realtà, piuttosto copie con-formi di essa. Come osserva Cazeneuve, i telespettatori, infondo, percepivano questa distorsione del reale, ma, simi-li ai personaggi del mito della caverna di Platone, finivanoper amare quel teatrino d’ombre, anche perchè in tal mo-do evitavano la dura quotidianità, filtrandola e converten-dola in spettacolo38. Lévi-Strauss distingue due differenticulture: quelle antiche e antropofagiche che divorano equelle moderne antropoemiche, che rigettano. SecondoBaudrillard per mezzo della televisione avveniva una sinte-si: gli spettatori da una parte erano disposti a recepire mo-delli simbolici, dall’altra tendevano a respingerli39.

Col passare del tempo, il televisore entrò in tutte le ca-se. Possedere un apparecchio televisivo costituiva motivodi orgoglio e prestigio sociale. All’acquirente, in segno diaugurio, amici e parenti portavano la stimanza, di solitouna bottiglia di liquore, un pacco di zucchero o di caffè.La padrona di casa, prima delle trasmissioni, preparava ilcaffè e offriva dolci fatti in casa. Parenti e amici, ammassa-ti in piccole stanze, guardavano le immagini sullo schermocome irretiti da una sorta di magia. Tutti ricordano conmeraviglia che regnava il silenzio più assoluto, nonostantele case fossero piene di gente, tanto era forte l’attenzioneche quell’oggetto riusciva a catalizzare attorno a sé.

Il televisiore era considerato parte integrante dell’arre-damento della casa ed era posizionato nel luogo più bello e

spazioso. Le donne, addirittura, confezionavano un appo-sito “vestito” che serviva per proteggerlo da urti e da polve-re. I primi televisori erano enormi scatole di legno con pul-santi d’osso, che, azionati, producevano gran rumore. Inseguito furono realizzati modelli più stilizzati, come il Pho-nola, oggi esposto al museo di New York, sogno di ogni fa-miglia. Le persone scambiavano fra loro informazioni sullecaratteristiche dei televisori e le fabbriche produttrici avvia-vano campagne pubblicitarie con messaggi di varia natura.Ad esempio la Westinghouse, per reclamizzare il suo appa-recchio molto apprezzato e consigliato dai tecnici, ricorda-va di aver costruito il reattore atomico che aveva permessoal Nautilus di completare il viaggio di ottomila miglia alPolo Nord senza rifornimenti di carburante!

Alla diffusione degli apparecchi televisivi contribuì so-prattutto il miglioramento dei centri di trasmissione. Al31 dicembre 1956, data di inizio delle trasmissioni, la Ca-labria disponeva solo dei centri di Monte Scuro e Gamba-rie e di un ripetitore automatico a Catanzaro, sul MonteTiriolo. A causa della conformità orografica della regione,in alcune zone la ricezione radiofonica e televisiva era dif-ficile e fu migliorata solo agli inizi degli anni sessanta gra-zie alla costruzione di nuovi impianti40.

Un altro fattore che favorì la diffusione dei televisori,fu la vendita a rate. Col sistema delle rate, il rapporto trauomini e oggetti era sconvolto: se in passato era l’uomo adimporre il proprio ritmo agli oggetti, ora gli oggetti co-minciavano ad imporre il loro ritmo agli uomini. Con larateizzazione, beni non alla portata di tutti o ottenibili co-me coronamento di un lungo sforzo economico, si pote-vano possedere senza l’accumulo della somma necessariaall’acquisto41. Le rate favorivano le vendite, ma circolavaanche più danaro, grazie soprattutto alle rimesse degliemigranti.

All’avvento della televisione, tra la gente prevaleva lacuriosità per l’innovazione tecnologica, la qualità dell’im-magine ed il modello del mobile. Si vedeva la Tv insiemead altre persone (prevalentemente al di fuori del nucleo fa-miliare), con le quali si condivideva la visione del mondoe l’organizzazione del tempo libero. La televisione era unostrumento di intrattenimento comunitario, rafforzava ilsentimento di gruppo, allargava gli orizzonti verso i pro-blemi sociali, veicolava informazioni su altri mondi, scar-dinava alcuni valori tradizionali, realizzava l’unificazioneculturale e cambiava il volto linguistico del paese.

Il diffondersi degli apparecchi televisivi finì per rin-chiudere le famiglie all’interno dello spazio domestico.Persero importanza o scomparvero i gruppi di ascolto neilocali pubblici e nelle sedi politiche che avevano caratteriz-zato l’esordio della televisione42. Ogni famiglia aveva il

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38 Jean Cazeneuve, L’uomo telespettatore, cit., pp. 104-105; Cfr. Gian Paolo Caprettini, La scatola parlante, Roma, Editori Riuniti,1996.

39 Cfr. Jean Baudrillard, Il delitto perfetto: la televisione ha ucciso la realtà?, Milano, Cortina, 1996.40 Enrico Mascilli Migliorini, Radio e televisione nella regione calabrese, in “Cronaca di Calabria”, Cosenza, 1 febbraio 1961. Cfr. Ar-

turo Arturo Gismondi, Il mondo con le antenne, Roma, Editori Riuniti, 1964; Rai, Dieci anni di televisione in Italia (1954-1963),Roma, Eri, 1964; Id., Il pubblico della televisione nelle varie regioni italiane con particolare riguardo al Sud, Torino, ERI, 1958; Id.,Indagine statistica sui non possessori di televisore, Torino, ERI, 1970; Enrico Menduni, La più amata dagli italiani, Bologna, il Mu-lino, 1996.

41 Jean Baudrillard, Il sistema degli oggetti, Milano, Bompiani, 2003, pp. 199-208; Id., Il sogno della merce, Milano, Lupetti,1987.

42 Cfr. Francesco Casetti (a cura di), L’ospite fisso: televisione e mass media nelle famiglie italiane, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1995;Lidia De Rita, I contadini e la televisione. Studio sull’influenza degli spettacoli televisivi in un gruppo di contadini lucani, Bologna,il Mulino, 1964; Marino Rivolsi, La realtà televisiva. Come la tv ha cambiato gli italiani, Roma - Bari, Laterza, 1998.

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proprio apparecchio e i programmi Rai sempre più detta-vano i ritmi della giornata e del tempo libero. Le donne se-guivano assiduamente gli sceneggiati, eredi diretti dei fo-toromanzi, ancora diffusi e apprezzati dal pubblico fem-minile43. Gli anziani amavano soprattutto trasmissioni co-me quelle di padre Mariano, del professore Cutolo e delmaestro Alberto Manzi44. I bambini si ritrovavano ognipomeriggio per guardare la Tv dei ragazzi, telefilm ameri-cani come Rin Tin Tin, cane lupo simpatico e intelligen-te, amico di Rusty, un bambino rimasto orfano ed accoltodal settimo cavalleggeri di stanza a Fort Apache45.

La trasmissione che conquistava vecchi e bambini, uo-mini e donne, era il Carosello46. I ricordi di coloro che hointervistato sono molto vaghi sui programmi televisivi, maquando si parlava di Carosello, sui volti leggevo una sortadi contentezza e tutti sorprendentemente ricordavano conprecisione prodotti pubblicizzati, musiche, attori e battu-te47. Molti nomi delle marche apparivano strane e bizzar-re (“Flavina Extra”, “Osva”, “Macleens”, “Gibbs Souple”,“Brylcreem”, “Binaca”, “Rhodiatoce”, “Grey”, “Riello”,“Rilux”, “Spic e Span”, “Manetti e Roberts”, “L’Oreal”,“Max Factor”, “Camay”, “Supertrim”), ma dovevano esse-re straordinariamente efficaci se, a distanza di circa cin-quant’anni, la gente ne conserva il ricordo.

Alcuni prodotti re-clamizzati in televisioneerano accompagnati daconcorsi a premi. Adesempio, numerosi cala-bresi, concorrevano al“Gran Premio Nestlè”:inviando alla ditta le eti-chette del cioccolato serie“Rosso” e “Oro”, oppurei sigilli delle scatole dicioccolatini, si partecipa-va periodicamente all’e-strazione di un uovo d’o-ro da mezzo chilo! Famo-so e particolarmente se-guito era anche il concorso a premi dell’“Idrolitina”. I telespettato-ri potevano vincere anche un milione di lire spedendo alla ditta iltagliando con la scritta “Idrolitina” che si trovava sulla scatola delprodotto. Le estrazioni erano quindicinali e, per Capodanno e Fer-ragosto, erano in palio premi da cinque milioni di lire.

Con la diffusione dei televisori e la copertura del segna-le nell’intero territorio, la televisione stava cambiando i

modi di vita e le abitudini dei calabresi molto più di quan-to non avessero fatto la radio e il cinema. Appena nata eraancora scarsamente consapevole delle proprie potenzialità,ma ben presto fu chiaro che nessuno dei media esistentiaveva la stessa capacità di offrire contemporaneamente piùcose. Il cinema è favola, racconto, storia, la televisione èrealtà presente evocata attraverso il testo e le immagini. Lafrase: “l’ha detto la televisione”, veniva usata dalla genteper avvalorare la veridicità di alcune affermazioni. La Tv siimpone al pubblico, diventa un punto di riferimento na-zionale, propone nuovi codici linguistici, insegna compor-tamenti più liberi, forma un diverso tipo di italiano.

Fin dalle prime trasmissioni, appariva chiaro che la Tvera un mezzo di comunicazione dotato di grande forza epervasività: non strumento in mano agli uomini, ma uo-mini ridotti a suo strumento. Gli spettatori diventavanosemplici clienti che valevano non per quello che erano maper quello che consumavano. La televisione delineava unavisione del mondo in cui la merce avrebbe assunto un va-lore assoluto, in cui gli oggetti proposti dalla pubblicitàsarebbero divenuti centrali nei desideri e nell’immagina-rio.

Gli anziani rammentano bene che essa aveva una gran-de forza di persuasione. Alcuni suoi programmi produce-

vano cambiamentiprofondi nella vitaquotidiana. Brillanti-na, creme di bellezza,dentifrici, lame dabarba, lozioni per ca-pelli, rasoi elettrici,saponi, shampoo epomate, mutavano ilmodo con cui uominie donne curavano lapropria persona; am-morbidenti, appretti,candeggianti, cere,detersivi, lucidi esmacchiatori erano

ben visibili nelle case e, insieme a loro, anche oggetti co-me caffettiere, registratori, televisori, giradischi, frullatori,radio, lavatrici, aspira polveri, lucidatrici, frigoriferi e mac-chine per cucire. Biscotti, burro, carne in scatola, latte inpolvere, panettoni, dadi per brodo, salumi, formaggi,omogeneizzati, pasta, gelati, acque minerali, succhi difrutta e liquori modificavano la dieta alimentare48.

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43 Cfr. Anna Bravo, Il fotoromanzo, Bologna, Il Mulino, 2003; Giuseppe Gargiulo, Cultura popolare e cultura di massa nel fotoroman-zo rosa, Messina- Firenze, 1977; Maria Teresa Anelli - Paola Gabbrielli - Marta Morgravi - Roberto Piperno, Fotoromanzo: fasci-no e pregiudizio. Storia, documenti e immagini di un grande fenomeno popolare (1946-1978), Roma, Savelli, 1979; Raffaele De Ber-ti, Dallo schermo alla carta: romanzi, fotoromanzi, rotocalchi cinematografici. Il film e i suoi paratesti, Milano, Vita e Pensiero, 2000.

44 Cfr. Walter Veltroni, I programmi che hanno cambiato l’Italia. Quarant’anni di televisione, Milano, Feltrinelli, 1992; Furio Colom-bo, La nascita della telvisione, in Italia moderna. Immagini e storia di un’identità nazionale, Milano, Electa, 1983, pp. 485-504.

45 Cfr. Marina D’Amato, I teleroi: i personaggi, le storie, i miti della tv dei ragazzi, Roma, Ed. Riuniti, 1996; Id., Lo schermo incan-tato: la tv dei ragazzi in Italia, Roma, Ed. Riuniti, 1993; Convegno nazionale di studio sulla televisione per ragazzi, Atti del con-vegno nazionale di studio sulla televisione per ragazzi, Milano, Giuffrè, 1955.

46 Cfr. Marco Giusti, Il grande libro di Carosello. E adesso tutti a nanna…, Milano, Sperling & Kupfer, 1996; Piero Dorfles, Caro-sello, Bologna, Il Mulino, 1998; Paola Ambrosino - Dario Cimorelli - Marco Giusti (a cura di), Carosello 1957-1977: non è veroche tutto fa brodo, Cinisello Balsamo, Silvana, 1996; Laura Ballio - Adriano Zanacchi, Carosello story: la via italiana alla pubbli-cità televisiva, Torino, Eri, 1987.

47 Cfr. Giovanni Sole - Rossella Belcastro, op. cit.48 Francesco Alberoni (a cura di), Pubblicità e televisione, Roma, Eri, 1968; Lesile Ernest Gill, Psicologia della pubblicità, Firenze,

Giunti - Barbèra, 1960; Walter Taplin, La pubblicità, Milano, Feltrinelli, 1961.

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La sera di Natale sulle tavole, insieme a turdilli, scalillee chinulille c’erano panettoni Motta o Alemagna; il giornodi Pasqua, insieme a cuculi e biscottielli, c’erano colombepasquali e uova di cioccolato Perugina. Nella dispensa siconservavano scatolette di carne Simmenthal o Manzotine biscotti Plasmon o Pavesini che ai bambini “davano for-za per l’intera mattinata”. In cucina era utilizzata la mar-garina “Foglia d’oro” perché “leggera come una foglia” epersino l’olio Dante, pubblicizzato da Peppino De Filip-po, interprete di un cuoco sopraffino e un po’ tonto, chesvelava il segreto dei suoi piatti prelibati: il magico olio.

Preceduti dal suono di trombe e mandolini, gli sketchdel Carosello duravano un paio di minuti, erano piccolifilm girati da noti registi e interpretati da attori famosi.Quelle celebri scenette in bianco e nero aiutavano a di-menticare i duri anni della guerra e condensavano in unamanciata di secondi i sogni e le speranze della povera gen-te. Spettacolo nello spettacolo, televisione nella televisio-ne, Carosello era un vero e proprio palcoscenico di diviche, per due minuti, diventavano persone tra le tante e lacui sacralità si stemperava nella dimensione di ogni gior-no. Guardando i mondi irreali e reali proposti quotidiana-mente dai programmi televisivi, i calabresi dimenticavanoil drammatico passato e la dura realtà in cui vivevano, epensavano di poter realizzare desideri irrangiungibili conun po’ di fortuna e sacrifici. La Tv, infatti, non rivelava so-lo un mondo nuovo, ma induceva a credere che quel mon-do fosse possibile.

Agli inizi degli anni sessanta la televisione si era impo-sta nella vita dei calabresi. Anni fa ho girato un lungome-traggio sui mutamenti culturali provocati dalla televisionein un paese del cosentino. Alla fine degli anni cinquanta,a Laino la gente si riunisce per giocare, discutere e diver-tirsi. Amedeo, macchinista delle ferrovie, nonostante l’av-versione della moglie Ida e dell’amico Armando, compraun televisore. Da quel giorno la sua casa diventa meta divisitatori e i programmi trasmessi influenzano la vita dellagente e cambiano il modo di vivere. Passano due anni e itetti delle case sono ormai pieni di antenne. Le famiglie,compresa quella di Armando, sono chiuse in casa e cena-no davanti al televisore. Le persone, incantate dalle imma-gini dello schermo, non parlano tra loro e non si guarda-no. Nelle vie restano un professore che racconta le sue fol-

lie agli amici, un vecchio malarico e la fata che lo ha tra-sformato in lucertola49.

Negli anni sessanta alcuni intellettuali rilevavano che latelevisione aveva svolto un’opera di omogeneizzazione cheinvestiva vari strati sociali e realtà regionali, costruendonuovi modelli di vita e travolgendo antichi comportamen-ti. Oltre al pericolo pericolo di omologazione delle cultu-re c’era quello dell’affermarsi dei miti del successo e delprofitto tipici del capitalismo consumistico. Pasolini diràche la televisione stava operando un genocidio culturale.L’intero paese, storicamente differenziato, attraverso unaviolenta mutazione antropologica, era stato omologatoverso il modello dell’uomo che consuma. La televisionenon si limitava a riprodurre i fatti ma li determinava, gior-no per giorno creava un pubblico unificato al quale pro-porre modelli d’informazione e di comportamento stan-dardizzati. Nel 1962, Saviane, commentando la trasmis-sione “Campanile sera”, nata da “Lascia o raddoppia”, scri-veva che si trattava della “più imbecille” delle rubriche te-levisive. Il presentatore Mike Bongiorno e i dirigenti Raiche la mandavano in onda, consideravano gli spettatoricome scemi, ma gli italiani si sarebbero presto svegliati dal“sopore televisivo”50.

Le preoccupazioni di Saviane erano giuste ma nonhanno predetto il futuro. La televisione negli anni seguen-ti crescerà fortemente e, perdendo quegli elementi pedago-gici ed educativi, diventerà una vera e propria industria deldivertimento. Ancora oggi, dopo cinquant’anni, si discuteappassionatamente sul carattere della televisione. Molti la-mentano il fatto che il livello qualitativo sia sceso perchéle stazioni televisive, soprattutto quelle private, per proble-mi di audience, producono programmi sempre più scaden-ti e sensazionali. Altri, pur riconoscendone le negatività,ricordano che la Tv resta, comunque, uno strumento de-mocratico. Popper sostiene che se la televisione è una tre-menda forza per il male, può essere una tremenda forzaper il bene51. Si discute appassionatamente ma, nel frat-tempo, altri mezzi di comunicazione di massa come Inter-net insidiano la fascinazione e il potere della televisione.

* Docente di Storia delle Tradizioni Popolari e Antropologia Culturale e Visiva - UniCale.mail: [email protected]

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49 Giovanni Sole, Fate e Transistors, Lungometraggio, Digitale, 70’, Bianco e nero, Centro Radiotelevisivo, Università della Calabria,Arcavacata di Rende, 2003.

50 Sergio Saviane, Facce da boom e spaghetti di cartone. Una trasmissione tenuta in vita dalla scarsità di programmi estivi in “L’Espres-so”, 12 agosto 1962.

51 Cfr. Karl R. Popper, Cattiva maestra televisione, (a cura di G. Bosetti), Venezia, Marsilio, 2002; Francesca Anania, Davanti alloschermo. Storia del pubblico televisivo, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1997.

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Confluenze RIVISTA CULTURALE QUADRIMESTRALE DD__dd]]kk__iijj__YYWW

1. La minoranza albanese in Italia: breve profilo storicoL’arcipelago linguistico rappresentato dalla minoranza

linguistica storica albanese comprende attualmente cin-quanta comunità, distribuite in sette regioni del Meridio-ne d’Italia: Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Puglia,Calabria e Sicilia.

La nascita degli insediamenti delle comunità italo-al-banesi in Italia coincide con l’inizio delle ondate migrato-rie di gruppi consistenti di albanesi verso i territori italia-ni, in seguito all’occupazione turca della Penisola Balcani-ca, avvenuta nel XV secolo1. Tale emigrazione si compì avarie ondate, di varie dimensioni, e durò, con interruzio-ni, circa tre secoli, dalla metà del XV secolo fino alla me-tà del XVIII, in particolare fino al 1744, anno di fonda-zione di Villa Badessa in Abruzzo. Ondate migratorie, sierano verificate già nei i secoli XIII e XIV2, con stanzia-menti in Puglia, Calabria e Sicilia, nei feudi che Scander-beg e gli altri condottieri albanesi avevano ottenuto dal redi Napoli, Alfonso I d’Aragona, in cambio dell’aiuto mili-tare prestatogli durante le lotte contro i baroni locali. Tut-tavia, la maggior parte delle colonie albanesi furono fon-date dopo il 1468, anno della morte dell’eroe nazionaleGiorgio Castriota Scanderbeg.

Gli albanesi in Italia ripopolarono quasi un centinaiodi comunità, la maggior parte delle quali concentrate inCalabria (cfr. ALTIMARI 1994: 10). Alle colonie costitui-te dagli immigrati albanesi venne data piena autonomiaamministrativa. Tuttavia la costituzione di comunità alba-nesi in senso proprio non avvenne in modo netto e defini-tivo, ma fu piuttosto il risultato di un lungo, tormentato ecomplesso processo, che ha riguardato passaggi di elemen-ti albanesi senza stanziamenti, l’assorbimento di insedia-menti albanesi minoritari in comunità italiane e la fusionesul suolo italiano tra albanesi di diversa provenienza e traalbanesi e italiani, con spostamenti da un centro albaneseall’altro (cfr. GAMBARARA 1994: 34-35). Solo tra la fi-ne del 1500 e gli inizi del 1600 si assiste alla costituzionedi vere e proprie comunità albanesi col loro rito religioso,

le loro feste, i loro costumi e la loro lingua. Dunque, la minoranza albanese, consapevole della di-

versità di origine e di cultura, all’interno del contesto ita-liano, ha visto delinearsi, col trascorrere dei secoli, unapropria identità culturale.

Il ricostituirsi di comunità culturali autonome fu mol-to lento e faticoso e solo la presenza di una élite nel setto-re ecclesiastico e in quello civile permise il consolidarsi dirapporti sociali e culturali con le autorità e le popolazioniitaliane (cfr. FAMIGLIETTI 1979: 48).

Il rito greco-bizantino che essa professava, rappresenta-va un elemento di distinzione e di affermazione della pro-pria identità3. La diatriba che oppose i fedeli di rito latinoa quelli di rito greco-bizantino e le lunghe controversiesulla preminenza del rito romano su quello greco-bizanti-no spinsero gli albanesi a difendere i valori della propriatradizione culturale e religiosa e l’indipendenza della chie-sa italo-greca da quella latina, contrastando le accuse di ve-scovi e sacerdoti di rito romano circa la presunta apparte-nenza degli Albanesi alla Chiesa scismatica d’Oriente4.

Nel corso di più di cinque secoli le comunità arbëres-he, che si erano formate sulla base di piccoli insediamentiisolati, hanno continuato a vivere mantenendo inalterati ipropri “confini culturali”: la lingua, l’organizzazione socia-le, il rito religioso. Contrariamente a quanto temuto, oggile comunità non si sono dissolte, ma rifondate, attraversoun processo di mutamento che ha portato consapevol-mente ad una nuova forma di identità: la volontà di autoidentificarsi all’interno della società contemporanea (cfr.BOLOGNARI 2003: 18).

2. La situazione linguistica delle comunità arbëresheLa varietà dialettale arbëreshe, seppur influenzata dal-

l’italiano e dai suoi dialetti, dal punto di vista linguistico,malgrado le differenze esistenti tra le diverse parlate si pre-senta come unità nella diversità dei dialetti dell’albanese.La varietà dialettale arbëreshe costituisce, dunque, un dia-letto a sé stante, che non è uguale a nessuno dei dialetti

FIORELLA DE ROSA*

La minoranza albanese in Italia:dalle origini al varo della legge 482/’99

1 «Le onde dello Jonio – scrive Antonio Scura ne Gli Albanesi in Italia – trassero i profughi ai lidi aperti d’Italia e su questi colli uber-tosi e aprichi, […] i miseri trovarono stanza duratura alle loro peregrinazioni e tregue ai loro mali. Forti ed intraprendenti, trassero conl’aratro dal seno fecondo della terra ospitale il loro sostentamento e vissero e prosperarono nella vita rigida ed austera dei patriarchi».Cfr. ÇABEJ (1964: 313)

2 «Per Venezia elementi albanesi sono attestati già in pieno medioevo, formando colà col tempo una colonia propria, raggruppata più tar-di anche in varie corporazioni». Cfr. ÇABEJ (1994: 85).

3 «Per ciò che riguarda il rito religioso, gli albanesi emigrati in Italia seguivano il rito bizantino nella lingua greca – da ciò derivò unacerta confusione che si è fatta in passato tra greci e albanesi a proposito degli abitanti di queste comunità. In parte essi erano già in co-munione con la chiesa cattolica; gli altri, una volta in Italia, vi si assoggettarono, continuando a rimanere tenacemente attaccati allapropria identità religiosa bizantina». Cfr. ALTIMARI (1994: 11).

4 «La lotta per la difesa del rito greco-bizantino non rivestì un carattere solo ed esclusivamente religioso, ma rappresentò nella storia dellecomunità arbëreshe, un momento significativo di resistenza all’assimilazione, che veniva dal potere e dai gruppi dominanti (feudatarilaici ed ecclesiastici) dell’ambiente italiano circostante, in cui dette comunità erano inserite. Molte comunità albanesi – specie nel Mo-lise, in Puglia e, in parte, in Basilicata e in Calabria – furono però alla fine costrette o per mancanza di sacerdoti o per i metodi coer-citivi dei vescovi latini o dei baroni locali, ad abbandonare il rito religioso originario e a sottomettersi alla chiesa latina. Ma la mag-gior parte di esse riuscì a resistere a queste pressioni e a mantenere, assieme alla lingua, il rito greco, importante strumento di autoiden-tificazione di queste comunità». Cfr. ALTIMARI (1994: 11)

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della patria d’origine. Infatti, se da un lato nei suoi ele-menti strutturali l’albanese d’Italia, così come l’albanese diGrecia, appartiene al tosco meridionale, presentando ca-ratteristiche comuni con i dialetti albanesi del sud (Labë-ria e Ciamuria), dall’altro, per alcuni tratti conservativi,presenta delle caratteristiche comuni con la lingua del XVI- XVIII secolo, degli antichi scrittori dell’Albania del nord(cfr. ALTIMARI 1994: 22-23).

Secondo Çabej, i primi profughi albanesi, dal punto divista etnodialettale, formavano delle unità compatte digruppi omogenei, provenienti da un luogo o da una regio-ne comune, successivamente, il comune pericolo, la guer-ra, aveva raccolto e unito, elementi eterogenei, provenien-ti da regioni diverse, spingendoli a seguire un destino co-mune in terra italiana (cfr. ÇABEJ 1994: 85-92). Nellamaggior parte le colonie popolate erano formate da abi-tanti provenienti da un’unica regione albanese, parlantiperciò un dialetto più o meno unitario, a cui si aggiunse-ro col tempo nuovi elementi provenienti dall’Albania edalla Grecia o coloni italiani dei paesi vicini.

Accanto alle spartizioni e alle ramificazioni delle unitàdialettali originarie, la convivenza con l’ambiente roman-zo ha inevitabilmente dato luogo, nel corso di secoli, a in-fluenze reciproche. In alcuni casi, l’influsso dell’italiano edei suoi dialetti, si è adattato alla struttura fonetica e mor-fologica dell’albanese, rimanendo l’albanese e l’italiano,nella coscienza del parlante, due sistemi linguistici a séstanti; in certe parlate, invece, l’italiano è penetrato anchenella struttura fonologica e grammaticale, contribuendoalla scomparsa dell’elemento albanese.

La parlata italo-albanese è caratterizzata da una parti-colare musicalità molto simile all’intonazione del toscomeridionale. Essa concorda con buona parte delle parlate

del tosco del Sud-ovest nella palatalizzazione della vocale y> i (es. sy “occhio” che passa a si), nella riduzione del grup-po consonantico xv > v (es. xverk > xerk “nuca”) e nell’as-similazione frequente del gruppo -tn- (es. ju flini “voi par-late” per ju flitni; vrini “uccidere” per vritni).

Si riscontrano, inoltre, alcune affinità di pronuncia conqualche parlata dell’Acroceraunia e dei dialetti della pro-vincia di CZ e di Piana degli Albanesi, ad es., la pronun-cia, della vocale media -ë- come -o-, nei dialetti della pro-vincia di CZ.

Il trattamento delle liquide -l- e -ll- e dei gruppi origi-nari kl, gl, lk, lg, varia secondo i dialetti. Nei dialetti dellavalle del fiume Crati si registra il passaggio della liquida -l- alla semivocale -j- dopo le labiali p,b,f,v, in casi comepjot “pieno”, bjej “compro, fjamur “bandiera”, ecc.

Nella struttura morfologica dell’italo-albanese si regi-strano alcune proprietà conservatrici. Come nel sistemanominale il mantenimento del neutro, che ha condotto al-la formazione secondaria di alcuni neutri. Un tratto arcai-co si conserva, anche nella forma dell’ablativo plurale -shit(diershit “dalle porte”), dove l’italo-albanese coincide conil ghego antico e con certi dialetti del tosco meridionale.

Nei numerali ordinali è caratteristico lo sviluppo ulte-riore del sistema vigesimale, dopo njëzet “venti”, e dizet“quaranta”, abbiamo anche trezet “sessanta”, trezetëdhjet“settanta” accanto a shtatëdhjet e katëzet “ottanta”.

Nel sistema verbale è notevole la diffusione analogicadella desinenza -ta, plurale -tim dell’aoristo, a spese dellepiù generali desinenze -va, -a . Si riscontra una concordan-za con i parlanti di Grecia, dell’Acroceraunia, della Labë-ria e Ciamuria, in generale con il tosco del Sud-ovest. Es.laj-ta “lavai”, pij-ta “bevvi”, shkruaj-ta “scrissi”, erthtim“venimmo”.

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LE RAGIONI DELLA MEMORIA, LE RADICI DEL FUTURO

Attraverso la Fondazione Universitaria“Francesco Solano”, istituita all’interno delnostro Ateneo nel dicembre del 2008, maoperativa con i suoi organi di amministrazio-ne dal 2011, l’Università della Calabria ha in-teso rendere omaggio significativamente al-l’opera didattica e scientifica del compiantoprof. papas Francesco Solano (1914-1999),figura insigne dell’albanologia italiana dellaseconda metà del secolo XX, ma anche perme indimenticato maestro e guida nei mieistudi universitari.

A lui che per un quindicennio, dal 1975al 1990, ha avuto nella Facoltà di Lettere e Fi-losofia della nostra Università la responsabili-tà didattica degli insegnamenti di Lingua eletteratura albanese e di Dialetti albanesi dell’Italia meridiona-le – la prima del genere ad essere prevista nel panorama acca-demico non solo nazionale e inserita con saggia preveggenzanello Statuto fondativo dell’Università già nel 1968 – si deve laistituzione nel 1980 della cattedra di studi albanologici che hooggi l’onore di dirigere.

L’iniziativa è stata resa possibile grazie ad un atto di lungi-mirante liberalità della compianta sig.na Nina Solano (1920-2004), sorella dello studioso, che con lascito testamentario haimpegnato l’UNICAL ad istituire questa Fondazione al fine dionorare la memoria e l’impegno culturale e accademico del

compianto papas Solano.Rientrano tra le finalità della Fondazione:

la promozione della lingua e della cultura al-banese in Italia, lo sviluppo degli studi alba-nologici nel nostro Paese, il sostegno alle at-tività di cooperazione scientifica e didatticadell’UNICAL nei Balcani e il supporto a tut-te quelle iniziative volte a favorire gli inter-scambi culturali tra le comunità albanesi sto-riche di area italiana e quelle di area balcani-ca (Albania, Kosovo, Macedonia, Grecia eMontenegro).

(…)L’auspicio da noi tutti condiviso è che Res

Albanicae offra a tutti, in primis alla nostrares publica litterarum a cui è indirizzata, nuo-vi stimoli per gli studi e le ricerche di albano-logia e che ci apra nuove “finestre” con cui

poter ‘leggere’ e interpretare meglio la nostra cultura e la no-stra identità, insomma la complessità di un mondo, qual è ilmosaico albanese, che oggi solo qualche tardivo e inveteratonazionalista o qualche localista fuori dal tempo e dal… mon-do, continua a non cogliere e a non apprezzare nella sua ogget-tiva e ricca pluralità di espressioni. Ad essa, invece, guarda congrande attenzione la nostra rivista.

Dall’Editoriale di Francesco Altimari

Formato 17x24 - Pagine 208ISSN 2276-7173 - ee 10,00

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DD__dd]]kk__iijj__YYWWConfluenze RIVISTA CULTURALE QUADRIMESTRALE

La lingua albanese non possiede una forma verbalepropria per il futuro. Per esprimere una azione futura, siadopera come in molte altre lingue, il presente dell’indica-tivo, (in Buzuku troviamao spesso l’uso del presente con-giuntivo). Esso adopera due forme di futuro: il futuro deltipo habeo, formato mediante l’ausiliare kam, e il futurodel tipo volo, formato con do + il congiuntivo presente.Ambedue i tipi di futuro, è stato osservato, sono in uso neidialetti principali dell’albanese, nel ghego come nel tosco.Le differenze sono piuttosto di carattere funzionale, pre-dominando nel futuro con do të il concetto voluntativo, inquello con kam il concetto di necessità o di dovere. Dalpunto di vista della geografia dialettale è da aggiungereinoltre che il costrutto kam + infinito, prevale nel ghego,specialmente settentrionale, il futuro con do + congiunti-vo nel tosco e nel ghego meridionale.L’albanese d’Italia co-nosce ambedue i tipi di futuro, però con prevalenza chia-ra del tipo con kam seguito dal congiuntivo. La forma ge-nerale è dunque quella costruita mediante l’ausiliare kadella 3a persona singolare, che si è fuso con la particella tëdel congiuntivo, dando così origine alla particella invaria-bile kat, katë come esponente del futuro. La prevalenzanell’italo-albanese della forma kam, risente anche dell’in-flusso dell’italiano dialettale.

La situazione linguistica, all’interno delle comunità ita-lo-albanesi, è caratterizzata da un bilinguismo composito5.Nell’evoluzione dei due codici (italiano-albanese), la capa-cità linguistica di uno di essi aumenta a discapito della ca-pacità linguistica dell’altro, contrapponendosi così al bi-linguismo coordinato e paritario, in cui le due lingue si ri-trovano in una situazione paritaria, in riferimento alla lo-ro utilizzazione e funzione comunicativa nella comunità.Oltre all’italiano letterario, in posizione dominante, e al-l’albanese, in posizione subordinata, i parlanti di questecomunità presentano nel proprio repertorio linguisticoanche il dialetto italo-romanzo locale.

Queste tre varietà coesistono tra loro in combinazionidiverse di gradazione e di ruolo, e, spesso non si ha un usomonolingue assoluto di una delle tre varietà, ma si ricorrea diverse forme di commutazione di codice (code-mixinge/o code-switching). Molteplici sono, infatti, i casi che ma-nifestano un grado intenso di compresenza e frammistio-ne di codici nel discorso di uno stesso parlante (cfr. BER-RUTO 2007: 26-27).

Potremmo parlare, pertanto, di un contesto linguisticodiglossico (cfr. WEINRECH 1970: 83), poiché la scelta el’uso dei diversi codici linguistici da parte di ciascun par-lante, all’interno di questa realtà plurilingue, appaionochiaramente differenziati e condizionati da una netta di-stinzione degli ambiti in cui vengono adoperate le due lin-gue (diglossia italiano-albanese), rappresentando l’italianoil codice elevato (varietà linguistica “alta”, ingl. high), lin-gua di prestigio, l’unico codice scritto e l’unico codice ora-le per gli ambiti alti; l’albanese, il codice ristretto (varietàlinguistica bassa, ingl. low), usato nei rapporti di comuni-cazione spontanea, interpersonali ed orali, più diffuso nei

centri urbani. Mentre l’italiano occupa ogni dominio lin-guistico, l’arbëresh si è progressivamente ridotto a settorisempre più ristretti6.

In questo contesto, come ha evidenziato Francesco Al-timari (ALTIMARI 2002: 35-45), l’arbëresh rappresentaun “dialetto non coperto” ovvero un dialetto di cui i parlan-ti non conoscono la lingua letteraria ad esso linguistica-mente coordinata e che rimane senza il tetto protettivodell’albanese standard e perciò maggiormente esposto al-l’influenza della lingua ufficiale italiana. Non esiste, quin-di, una lingua arbëreshe letteraria comune tra gli Albanesid’Italia e tanto meno essa si può considerare come una va-riante linguistica autonoma all’interno della lingua albane-se (cfr. SOLANO 1994: 81).

Le differenze linguistiche presenti, ci permettono di so-stenere che esse non sono di per sé determinanti, né suffi-cienti per ipotizzare che la variante dialettale arbëreshe sipossa trasformare in una ‘lingua per elaborazione’ (Au-sbausprache, secondo la terminologia di Kloss). «Tale sfor-zo - come ha affermato Altimari (ALTIMARI 2002: 35-45) - risulterebbe inutile in quanto a efficacia comunicativa,dovendo imparare una lingua del tutto artificiale, costruita orestaurata a tavolino, non parlata in alcuna comunità e nonutilizzata in alcun contesto ufficiale». Possiamo dunqueconcludere che le parlate arbëreshe, nel passaggio dalla tra-dizione orale alla scrittura, hanno senz’altro bisogno diuna lingua tetto, ed essendo l’albanese standard il tettoomogenetico di riferimento, non si può prescindere dallasua esistenza in quanto tale. La lingua di minoranza deveintendersi quindi, come il codice verbale della comunitàminoritaria, noto anche in riferimento alla comunità na-zionale di origine e alla sua lingua comune e condivisa.(cfr. HASHORVA, DE ROSA 2011: 89-90)

3. La minoranza linguistica albanese: dall’Ottocento alvaro della legge nazionale 482/99 Norme in materiadi tutela delle minoranze linguistiche storiche.Se nei secoli passati, i conflitti e le persecuzioni aveva-

no riguardato soprattutto le minoranze religiose, nell’Ot-tocento le minoranze linguistiche cominciarono a essereconsiderate come un problema. Piuttosto che preoccupar-si della loro conservazione, si cercava al contrario di assi-milarle, per formare nazioni compatte per lingua e cultu-ra.

La preoccupazione di tutelare il patrimonio storico eculturale rappresentato dalla lingua minoritaria emerseprincipalmente nei circoli intellettuali ed ecclesiastici alba-nesi, minacciati dal centralismo nazionalista, tardando adiffondersi al di fuori delle popolazioni interessate. Predo-minò in effetti, per tutto l’Ottocento e ancora nella primametà del Novecento, il principio di nazionalità, che asso-ciava il concetto di stato sovrano a quello di una unità geo-grafica, etnica, linguistica e culturale. «Il nazionalismo,portato poi alle estreme conseguenze dalla dittatura fascista,favorì una crescente e progressiva italianizzazione nei costu-mi, nei valori e nella lingua, specie nei ceti medi ed intellet-

5 È opportuno precisare che il termine di bilinguismo composito che si contrappone al bilinguismo coordinato, nella letteraturasociolinguistica anglosassone corrisponde al bilinguismo sottrattivo che si contrappone al bilinguismo additivo.

6 Come ha osservato Francesco Solano, la discontinuità territoriale ha favorito una maggiore penetrazione dell’elemento italianonelle varietà dialettali albanesi e ha impedito la reciproca interferenza delle parlate, fattore riconosciuto di arricchimento lingui-stico, che continua a provocare, nello stesso tempo, il loro lento, ma progressivo impoverimento. Cfr. Relazione di Francesco So-lano a Palermo, in «Zjarri», anno VI, n. 1, San Demetrio Corone, 1974, pp. 3-9.

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tuali di queste comunità. […] In questo contesto, in cui ve-niva liquidata ogni forma istituzionale di difesa, finì conl’assumere un ruolo importante il rito greco-bizantino, che co-stituì l’unico strumento di affermazione di una identità cul-turale sempre più minacciata» (cfr. BRUNETTI 2005:150-151).

Vicende storiche varie e complesse hanno portato, nelcorso dei secoli, allo stanziamento sul territorio dello Sta-to italiano di comunità minoritarie, diverse per lingue, tra-dizioni culturali e condizioni sociali ed economiche. LoStato italiano, sin dall’epoca della sua Costituzione, nei ri-guardi delle minoranze storiche linguistiche si era orienta-to sui principi affermatisi con la rivoluzione francese, se-condo i quali esso doveva avere una sola lingua, quella del-la nazione; le altre lingue parlate sul territorio nazionaledovevano essere considerate uno strumento da utilizzarenei rapporti con i cittadini degli altri paesi per finalità diordine culturale oppure relegate all’uso quotidiano o fami-liare (cfr. MORELLI 2006: 6-7).

Il principio di nazionalità, che associava il concetto distato sovrano a quello di unità geografica, etnica, linguisti-ca e culturale, declassava di fatto le altre lingue minorita-rie, sia regionali che alloglotte, ad uno stato di marginaliz-zazione culturale e sociale. La lingua italiana era l’espres-sione della nuova nazione, lo strumento comunicativo uf-ficiale, il collante del processo di unificazione dell’Italia. Afronte di una popolazione ancora profondamente analfa-beta, l’uso dell’italiano in tutti i contesti ufficiali diventa-va indispensabile. Perciò i dialetti e ogni altra espressionedi diversità linguistica presente sul territorio nazionale ita-liano, venne contenuta, “cancellata” (cfr. ALTIMARI2007: 137).

L’albanese, espressione linguistica minoritaria, venneaccomunato alle parlate locali o regionali, diventando unalingua di bassa connotazione sociale.

Nel secondo decennio del Novecento, la tutela delleminoranze comincia ad assurgere alla dignità di dottrina

politica. Tuttavia è solo a partire dagli anni’ 60 che la sen-sibilità verso di esse si diffonde più largamente, sebbenetardi a tradursi in provvedimenti concreti. Cosicché le lin-gue minacciate, con poche eccezioni, continuano a subirela massiccia pressione delle grandi lingue nazionali (veden-do restringersi la loro area di diffusione), e fattori quali lascolarizzazione di massa, la maggiore mobilità della popo-lazione, la diffusione dei mass-media, compromettono learee linguistiche minoritarie più fragili.

Con la fine della dittatura fascista e l’avvento del siste-ma repubblicano, nonostante si affermi in Italia una co-scienza politica e civile più attenta alla difesa dei diritti edelle libertà democratiche dei cittadini e delle minoranzealloglotte, la minoranza albanese viene di fatto ignoratanel riconoscimento dei propri diritti. Sebbene l’art. 6 del-la Costituzione italiana «La Repubblica tutela con appositenorme le minoranze linguistiche», sancisca il riconoscimen-to e la protezione delle minoranze linguistiche, con la pos-sibilità di usare la lingua minoritaria nei rapporti con lestrutture pubbliche e nelle istituzioni scolastiche, quella‘politica d’indifferenza’ continua a persistere nei confrontidelle minoranze albanesi.

È soltanto alla fine del 1999, che si assiste ad una chia-ra ed aperta presa di posizione da parte dello Stato, nonper una raggiunta maturazione politica in materia, ma perlo ‘storico’ impegno di ricercatori e accademici (linguisti,pedagogisti, sociologi, antropologi culturali), adoperatisiaffinché il problema della tutela delle minoranze linguisti-che sfociasse nella formulazione di specifiche norme di tu-tela per le minoranze7. «Anche in Italia questa spinta havinto vecchi equilibrismi e resistenze – frutto di un malinte-so nazionalismo che aveva, per lungo tempo, impedito il pro-cesso di unità nella diversità che meglio avrebbe corrispostoalla società italiana – e alla fine del ’99, si è giunti all’appro-vazione della legge nazionale 482 recante Norme in mate-ria di tutela delle minoranze linguistiche storiche» (cfr.BRUNETTI 2005: 172).

7 Evidenziamo qui l’importanza dell’azione esercitata dal Consiglio d’Europa, che nell’affrontare il tema del pluralismo linguisti-co, in vista dell’espansione dell’Europa verso i Balcani, ha adottato due importanti documenti: la Carta Europea delle lingue re-gionali o minoritarie (deliberata dal Comitato dei Ministri il 23 giugno 1992, ma entrata in vigore, nei primi cinque stati che l’hanno ratificata, il 1 marzo 1998) e la Convenzione - quadro per la protezione delle minoranze nazionali approvata dal Comi-tato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 10 novembre 1994, ratificata dal Parlamento italiano con la Legge 28 agosto 1997, n.302 ed entrata in vigore il 1 marzo 1998.

Circa settanta anni fa, nell’aprile del1941, in conseguenza dell’occupazionedella Grecia e della Jugoslavia da parte del-le potenze dell’Asse e degli accordi diVienna, vennero ridisegnati i confini deglistati balcanici e ampliate le zone sotto ildiretto controllo dell’Italia che otteneva,tra le altre cose, il Kosovo e l’Epiro da po-ter riunificare all’Albania, già sotto il con-trollo della Casa regnante italiana dal1939. Per celebrare degnamente la vitto-ria, la Presidenza del Centro Studi perl’Albania progettò la pubblicazione diun’opera in due volumi dedicati rispetti-vamente al Kosovo e alla Ciameria. Cia-scuno dei volumi avrebbe dovuto racco-gliere lavori dei più autorevoli studiosi diproblemi albanologici riguardanti studi

storici, letterari, linguistici, etnografici escientifici. Titolo dell’opera sarebbe statoLe terre albanesi redente. Il volume dedi-cato al Kosovo venne pubblicato nel lugliodel 1942, quello dedicato alla Ciameria,che sarebbe dovuto uscire a breve distanzadi tempo dal primo, non vide mai la luce.

Oggi, attraverso i documenti custoditidall’archivio storico dell’Accademia deiLincei, è stato possibile ricostruire quelvolume e capire i motivi che indussero ilCentro Studi per l’Albania prima a orga-nizzare la pubblicazione e, successivamen-te, a rimandarla sine die.

Formato 17x24 - Pagine 208ISBN 978-90-6029-6-2

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DD__dd]]kk__iijj__YYWW Confluenze RIVISTA CULTURALE QUADRIMESTRALE

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La legge n. 482 del 1999 prende in considerazione tut-te le minoranze linguistiche storiche presenti in Italia, ri-ferendosi anche a quelle di esigua consistenza numerica, eafferma che la Repubblica, in attuazione dell’art. 6 dellaCostituzione, salvaguarda la lingua e la cultura delle popo-lazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene ecroate, nonché di quelle che parlano il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo.

L’aspetto più significativo dell’attivazione della tutelaconsiste nell’introduzione, all’interno del sistema scolasti-co educativo nei territori coinvolti, dell’insegnamento del-la lingua della minoranza protetta, a fianco della linguaitaliana.

Il varo della legge n. 482 ha rappresentato un impor-tante traguardo per il riconoscimento e la tutela della lin-gua e della cultura delle popolazioni albanesi presenti inItalia, in particolare ha determinato in esse l’inizio di unarinnovata fase linguistica, caratterizzata da un più ampio edinamico uso del codice minoritario, che viene ora a col-locarsi in un nuovo contesto giuridico di tutela, determi-nando un mutamento dello status comunicativo delle mi-noranze, anche in quei contesti storicamente ad esse pre-cluse come la scuola, la pubblica amministrazione e imass-media.

In ambito arbëresh, la normativa sulla scuola, previstadalla legge 482/99 ha rappresentato una grande opportu-nità per la formulazione di progetti tesi alla creazione direti tra scuole, all’interazione progettuale con il territorio,all’inserimento delle iniziative progettuali nel Piano del-l’Offerta Formativa, all’insegnamento della lingua albane-se, alla preparazione di materiali didattici destinati all’in-segnamento della lingua albanese nelle scuole dell’obbligo(materne ed elementari) delle comunità albanofone (cfr.MORELLI 2006: 18). Poiché la lingua, la cultura, le tra-dizioni arbëresh sono elementi ancora vivi nelle comunità,la scuola più che svolgere un ruolo di sensibilizzazione, èchiamata a valorizzare tali aspetti, «la valorizzazione e tute-la della lingua non può essere scorporata dagli altri aspettidella cultura d’appartenenza, ma deve essere protesa alla de-codificazione del vissuto dei ragazzi» (cfr. BLAIOTTA2006: 117, 122).

È importante che, nel processo di insegnamento-ap-prendimento, si costruiscano unità di apprendimento, cheutilizzino la lingua albanese accanto alla lingua italiana,inglese e francese (plurilinguismo), coinvolgendo i docen-ti delle aree disciplinari interessate. In tale contesto, il ri-corso all’uso del metodo CLIL (Content and Language In-tegrated Learning), sia nella scuola elementare che nellascuola media, si rivelerebbe anche un valido strumento perl’apprendimento delle lingue, in quanto può attivare nelcontempo una più stimolante acquisizione dei contenuti.La contemporaneità o compresenza dell’insegnante di ita-liano con l’esperto di lingua arbëresh e l’uso simultaneodelle due lingue, (passando dall’una all’altra lingua in mo-do spontaneo e senza forzature), favorirebbe il superamen-to dei limiti dei programmi disciplinari tradizionali. Unqualsiasi percorso CLIL, dunque, se opportunamentestrutturato e progettato, oltre ad essere conforme alle ini-ziative progettuali del Piano dell’Offerta Formativa ed es-sere un’utile via per gli insegnanti (fornendo loro indica-zioni pratiche ed esempi significativi), attiverebbe nei di-scenti processi cognitivi di ordine superiore, motivandoneefficacemente l’apprendimento.

«L’approvazione della legge nazionale n. 482/99 e diquelle regionali ha dato grande impulso a tutte le comunità,ha attuato un articolo fondamentale della nostra Costituzio-ne, riconoscendo sia che i diritti delle minoranze costituisco-no motivo d’interesse anche per la maggioranza, sia che l’usodella propria lingua e della propria cultura rappresenta unfondamentale diritto umano» (cfr. MORELLI 2006: 13).

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* Ricercatrice di Lingua e Letteratura Albanese - UniCale.mail: [email protected]

Confluenze RIVISTA CULTURALE QUADRIMESTRALE DD__dd]]kk__iijj__YYWW

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NN[[jjhh__ddWW DD__XXhhWWhh__WW Confluenze RIVISTA CULTURALE QUADRIMESTRALE

L’opera realizzata dall’Associazio-ne “Antonio Misasi” di Cosenza nelperseguimento dei suoi scopi si pro-pone di illustrare attraverso l’obietti-vo fotografico le località più suggesti-ve, ai turisti italiani e non devoti diSan Francesco di Paola.

Il lavoro svolto ha assorbito granparte del tempo libero dei soci, chegiorno dopo giorno hanno posiziona-to tutti i tasselli dell’opera che propo-niamo, che è patrimonio culturaledella nostra Regione e di tutti i Cri-stiani.

Nella realizzazione, fondamentalisono stati i suggerimenti di coloro cheabbiamo interpellato nelle segreteriedelle dodici Diocesi calabresi.

Con l’auspicio di essere statid’aiuto alle persone che conosconosolo il famosissimo Santuario di Pao-la, ci scusiamo per eventuali inesattez-ze e siamo aperti a tutti i suggerimen-ti dei molti che meglio di noi cono-scono la storia di San Francesco diPaola.

È una raccolta poetica, la cui essen-za è racchiusa in vibranti emozioni, inricordi ed evocazioni nostalgiche, insussurri e palpiti, in ragioni del cuoreed atmosfere oniriche, che si avvicenda-no volteggiando come delicati petali diun fiore, dal quale si staccano per l’im-provviso soffio del vento. Con lirica ri-flessione l’autrice racconta di sé e del-l’altro, ricorrendo alla variopinta tavo-

lozza del vivere quotidiano e proponen-do un “viaggio” suggestivo, volto a farcogliere l’approdo agognato: l’essenzia-le e l’amore, tesori inestimabili, apprez-zati nella lorocristallina genuinità.

Tratto dalla Prefazione a cura del Direttore di Collana

Flavio Nimpo

Sogno

Ho sognatoDi tenerti per mano

E insiemeAffrontare

Luce e tenebreOstacoli e pianure

Un idillio eraLa nostra vita

Mi destaiCon la paura

Di riaprire gli occhi

Ma il sognoNon era finitoPerché tu eri lìAccanto a mePer sempre

Con Gioacchino da Fiore moltihanno dovuto rapportarsi nella ricercateologica e trinitaria, nel simbolismo,nella profezia, nel biblico sogno di “cie-li e terra nuova”. Fu un predicatore di

speranza che è rimasto agganciato al-l’obbedienza della e nella Chiesa; cheha saputo distinguere la ricerca dallacontemplazione, che ha fatto sintesi didiverse esperienze del monachesimoorientale e occidentale di cui la Cala-bria, nella sua epoca, era ancora cullafeconda ed accogliente.

Ma non mancarono per lui incom-prensioni e persecuzioni che storica-mente hanno accompagnato la nascitae lo sviluppo di tanti Ordini religiosinella Chiesa…(…)

(…) In questo volume sono raccol-ti dati relativi all’Abate già conosciuti eassodati fra esperti ed appassionati, maanche alcuni inediti che sono emersinel lavoro decennale delle tre Commis-sioni costituite nella nostra Arcidiocesiper conoscere ed approfondire questameravigliosa figura della Chiesa Cosen-tina.

Tratto dall’Introduzione

FRANCESCA M. ELIA

Lo specchio dei miei anni

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Poesia

ENZO GABRIELI

Una fiammache brilla ancora

La fama sanctitatisdell’Abate Gioacchino

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Le Chiesededicate al Santonella Provincia di Cosenza

a cura dell’Associazione“Antonio Misasi”

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KKjjeehh__WW $$ EE__YYhheeiijjeehh__WWConfluenze RIVISTA CULTURALE QUADRIMESTRALE

I150 anni dell’Unità d’Italia ci hanno consegnato unquadro idilliaco dell’evento mentre sono passate sottosilenzio, almeno a livello istituzionale, le molteplici

contraddizioni di un passaggio storico che ha creato frat-ture sociali, politiche ed economiche con le quali ancoraoggi si stenta a fare i conti, mentre spesso ci si appiattiscesu facili luoghi comuni.

Il Circondario di Rogliano, per le sue peculiari caratte-ristiche storiche, costituisce un laboratorio importante percomprendere alcuni passaggi critici nella transizione versolo stato unitario.

Il contesto storico, è ormai noto e può essere fissato inalcune tappe fondamentali.

Il 31 agosto 1860, il giorno dopo la disfatta dell’eser-cito borbonico ad Agrifoglio, Giuseppe Garibaldi nominaDonato Morelli Governatore Generale della Calabria Ci-teriore. Lo stesso giorno Garibaldi, ospite dei Morelli aRogliano, detta i decreti con i quali abolisce la tassa sulmacinato, riduce il prezzo del sale e concede l’uso gratui-to di pascolo e semina nelle terre demaniali della Sila.

Il 5 settembre, prima che i decreti si consolidino fatti-vamente, lo stesso Morelli, forte della sua posizione di po-tere, da il via ad una vera e propria azione restauratrice chesi sviluppa lungo due direttrici: una legale e l’altra di re-pressione preventiva. Da una parte si affretta a rendere va-ni i decreti di Garibaldi; bisognava assolutamente salva-guardare gli “amici” che per anni avevano usurpato il de-manio silano e che vedevano come fumo negli occhi i de-creti. Non si poteva permettere a Garibaldi di riuscire ladove i Borboni avevano fallito quando nel 1838 cercaro-no di mettere argine alla legittimazione proprietaria delleusurpazioni, alienandosi con ciò le simpatie del ceto bene-stante e firmando cosi la loro condan-na politica. Furono quindi inevitabil-mente chiare e suonarono come pietratombale posta sulle speranze di massedi contadini, le prescrizioni del neo-governatore: “resta vietata ogni novitàdi fatto, anche sui pascoli, in attenzionedi nuovi regolamenti che saranno emes-si”.

Dall’altra Donato Morelli, l’8 set-tembre ordina di approntare “due com-pagnie di uomini fidatissimi per urgenteservizio di ordine pubblico”. Il 18 lecompagnie, agli ordini del Commissa-rio Domenico Parisio iniziano una ve-ra e propria azione di polizia “preven-tiva” in vari paesi fra i quali Santo Ste-fano e Mangone fino a Paterno, Tessa-no e Dipignano. L’obiettivo è, proba-bilmente, quello di tenere sotto pres-sione “preventiva” una popolazionesempre più insoddisfatta e amareggia-

ta dopo la disillusione seguita all’arrivo di Garibaldi. Delresto, Donato Morelli conosceva bene i pericoli che perso-ne come lui, che avevano fatto del trasformismo politicoun’arte e della difesa dei privilegi acquisiti una frontierainvalicabile, correvano da una ventata di ritorno reaziona-rio.

Il pretesto per tali azioni era che alcuni reazionari pro-gettavano di sobillare la popolazione spargendo o facendospargere voci allarmanti secondo le quali “il glorioso eserci-to d’Italia meridionale fosse stato interamente disfatto dallearmi borboniche”. Le perquisizioni naturalmente non por-tarono ad alcun risultato apprezzabile e al commissarioParisio, uomo di trascorsi politici che ne avevano forgiatoacume ed esperienza, non sfugge l’inutilità dell’azione re-pressiva. Si rende conto che se in quei paesi esistono de-boli focolai di reazione, si tratta per lo più di private ven-dette che si nascondono dietro presunti complotti. Baste-rebbe che i capi della Guardia Nazionale fossero più pron-ti a reprimere “le voci sedizione e ad assicurare i spargitori”, mentre i liberali, che dovrebbero favorire il consolida-mento del nuovo governo, pensano solo a regolare i loroaffari standosene in disparte e non vigilando abbastanza.

Il Commissario decide quindi di evitare irruzioni neipaesi di forze di polizia che sarebbero servite solo a terro-rizzare inutilmente gli abitanti, e di proseguire da solo ilviaggio di conoscenza sulla situazione dell’ordine pubbli-co nel circondario.

Domenico Parisio era un funzionario accorto e mode-rato. Fine osservatore e lucido analista della realtà sociopolitica del Circondario, egli non sottovalutava certo la si-tuazione, pur non lasciandosi sfuggire lo stato di malesse-re e la potenziale forza dirompente e destabilizzante a cui

FABRIZIO PERRI*

Restaurazione e repressioneall’origine dello Stato Unitario

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Confluenze RIVISTA CULTURALE QUADRIMESTRALE

la fragilità e le contraddizioni delle nuove istituzioni pote-va portare. Il Commissario non mancherà di far rilevare alGovernatore la sostanziale positività dell’atteggiamentodella gente verso il nuovo Governo mettendo in rilievol’importanza e l’utilità del suo viaggio per i paesi, che eraservito a dare fiducia e coraggio alla gente e a rafforzare illegame con le nuove istituzioni, facendo capire che “il go-verno ha forza, ha occhi ed energia”.

Tutto il suo acume, la sua conoscenza del territorio edelle genti che lo abitavano, Domenico Parisio lo dimo-strerà nel lungo e articolato Rapporto sullo spirito pubblicodella Provincia che il 31 ottobre 1860 farà recapitare pun-tualmente al Governatore Morelli. Relazione ricca dispunti, notazioni di malcostume e intuizioni quasi profe-tiche su un malessere sociale che di li a poco avrebbe co-stituito l’humus del brigan-taggio post-unitario.

“ Innanzitutto – scriveDomenico Parisio – parleròdegli arruolamenti e degliarruolatori i quali sono ora-mai addivenuti di peso allaprovincia e di carico allo sta-to senza nessun prò. Negli ul-timi due mesi scorsi alquantemigliara di volontari sonosiarruolati in Cosenza in Ro-gliano in Spezzano Albanesein Rossano in Acri in Pedace,insomma in molti punti ecerto è stato questo il lodevole in parte assai util fatto, pe-rochè ha mostrato come ibravi calabresi fosser davverovolenterosi e pronti a combattere per la causa nazionale e levalorose schiere del prode dittatore Garibaldi finirono ingros-sate di gente non meno valorose e che certo ha dato bella pro-va di coraggio. Ella non di tutti puosi dir lo stesso, che molti,i quali eran costati allo stato un danaro immenso, se ne sontornati e vanno tuttavia tornando alle proprie case”.

Perché tutto ciò? Si chiede il funzionario di polizia. Per quanto riguarda gli arruolatori, egli pone l’accento

sul fatto che alcuni di essi, non si sa da chi autorizzati,“vanno ancora circolando pei paesi rag-granellando qualche vagabondo, perse-guitando borbonici sbandati affin di in-corporarli nelle loro compagnie e, quelche è peggio, molestando e irritando lepopolazioni, e sopra ogni cosa spendendoa larga mano, senza controllo e senza al-cun vantaggio, il pubblico danaro”.

Il Commissario Parisio si domandail perché di questa mania di arruolaresempre nuovi volontari quando si sabenissimo che resteranno per qualchemese e poi diserteranno: “sarebbe tem-po che si fatti inconvenienti avessero fine… Sarebbe perciò salutare che si cessasseda un sistema di arruolamento che altrorisultato non da se non che disgusto edun gran quanto inutile dispendio. E sa-rebbe pure salutare che si cessasse dal

perseguitare i soldati appartenuti all’esercito borbonico, in-torno ai quali è necessità che io mi trattenga alquanto”.

A questo punto, l’acuta analisi di Domenico Parisio ar-riva al nocciolo della questione, affrontando i punti cru-ciali che la miopia dei nuovi governanti non riusciva op-pure non voleva vedere, o peggio ancora, incoraggiava, mache fu una delle cause della reazione brigantesca.

“Dalla violenza – continua Domenico Parisio – siccomeè inutile, ne nasce la reazione. Infatti tutti quei sbandati chedi ripigliar servizio non vogliono saperne, come appena so-spettano che si potesse andare in traccia, escono in campagnae minacciano di comporsi in bande. Di qui gravi allarmi nèpaesi, e nuove difficoltà e pericoli, a quali non si potrebbe op-portunamente provvedere stante le difficoltà dè tempi e i po-chi e incerti mezzi che le autorità si hanno.

E posto che si riuscisse adavere tutta questa gente av-versa ed ostinata, mi permet-terei domandare, sarebbe poibuono incorporarla nelle filadel glorioso esercito naziona-le? A me pare che sarebbeconsiglio più prudente la-sciarla quieta e …. tenerlad’occhio si ma non spingerlaa promuovere turbolenze”.

Un’analisi puntuale chenon lascia spazio ad alcunfraintendimento e prove-niente da fonte non sospet-ta.

L’effettiva pericolositàdi quelle manifestazioni didissenso più o meno orga-

nizzato che vi furono nel periodo compreso fra il famosoproclama in cui Garibaldi annunciava “al mondo” la resadell’esercito borbonico ad Agrifoglio e la proclamazionedell’Unità d’Italia nel marzo del 1861, nella maggior par-te dei casi erano sopravvalutate ad arte da un potere checercava faticosamente di legittimarsi con l’uso della forzae della repressione. Un potere che per nascondere la dife-sa di privilegi secolari spostava l’attenzione sulla vigilanzae la prevenzione di immaginari complotti il più delle vol-

te sostenuti da accuse blande e prive difondamento. Spesso le accuse nascon-devano altri e più reconditi motivi chetrovavano origine in private vendette erese di conti, trascinatesi negli anni,che aspettavano il momento storicoofferto dal cambio di regime, peresplodere in tutta la loro violenza. Inrealtà le apparenti motivazioni di ordi-ne pubblico che stavano alla base del-le azioni di polizia, erano spesso l’in-volucro entro il quale si consumavanodissidi, piccole faide paesane e soprat-tutto i grandi interessi di una classedominante che mirava salvaguardare ilpropri privilegi.

* Sociologoe-mail: [email protected]

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KKjjeehh__WW $$ EE__YYhheeiijjeehh__WWConfluenze RIVISTA CULTURALE QUADRIMESTRALE

Il romanzo di Ezio Arcuri: Voglio guardare il sole. Storiedi Resistenza nella valle del Savuto segna a nostro direuna tappa importante del percorso creativo dello scrit-

tore. Nell’opera che presentiamo, infatti, l’autore ri-siste-ma nel nunc, con perizia storiografica ed appassionantediegesi rievocativa, l’esistenza di persone, di gruppi, chehanno vissuto drammaticamente la tragedia della secondaguerra mondiale unitamente alla Resistenza (appunto disingoli e di comunità) e che non si sono piegati al malesgravato dall’insensata follia del totalitarismo-totalismo.

L’autore ci porge, dunque, nella fictio narrativa il reso-conto di vite incardinate le une alle altre dalla depravazio-ne della dittatura e dall’iniquo potere nazi-fascista auscul-tando, dall’osservatorio privilegiato della testimonianzache riceve, ciò che la memoria non può cancellare: i fatti.La scrittura stessa diventa il monito a non dimenticare eda incrementare la ricerca di senso dell’uomo. Il testatore, omeglio la testatrice, che nel racconto non ha un nome, maè indicata con il titolo accademico, os-sia la “Professoressa”, porge, dopo averattraversato una lunga esistenza, inquel nunc precedentemente citato, ciòche ha visto e ciò che ha combattuto.Significativamente l’irrequietezza in-tellettuale della donna, il suo rigoreetico ed estetico, l’ampia cultura dise-gnano anche l’intransigenza “caustica”,che non sopporta ignoranza e superfi-cialità e che non vuole premiare perfalso buonismo l’irridente progresso,avvertito a tratti come depauperazionedella civiltà. Un falso progresso, quin-di, verso il quale l’impegno soprattut-to culturale ma anche materiale di re-sistere, appunto, a qualsiasi dittaturacerca di non far deviare l’essere verso ilbrutale qualunquismo, padre di ognitirannia. Progresso che infine vienetollerato, anzi diventa, quando ben in-dirizzato, motivo di coesione tra scien-za-tecnica e bene dell’uomo.

L’azione incipitaria del racconto siapre, dunque, con la Professoressa inaperta polemica con il mondo di oggi(la figura del nipote, che non vuole ap-propriarsi delle carte che la Professo-ressa conserva, non per vanità antiqua-ria, ma come “supplemento” per la ve-rità, disegna i tratti di un mondo chenon avrebbe interesse per la libertà), el’osservanza estrema di una ratio, men-tale e formale, attinente, appunto, alrigore di comportamenti. I propri sen-titi e raggiunti nell’esemplarità di una

dottrina suggeritale dalla figura paterna (annientatore que-st’ultimo di perbenismi borghesi piccini), ratio che, tutta-via, portata alla estrema rigidità sfocia in una chiusura. Laquale non appartiene, invece, alla endemica acutezza dellaProfessoressa. Tutto ciò sin dall’inizio del romanzo è ribal-tato in e da un’altra figura femminile, Alina, giovane don-na polacca, emigrata in Italia per far “vivere bene” la figlio-letta lasciata nella disagiata patria: l’asse conoscitivo dell’a-nimo umano che lo scrittore è attento a cogliere nelle pie-ghe riposte e nei labirintici aggiramenti cerebrali di cia-scun “attore” focalizza nei drammi di ogni singolo perso-naggio, appunto, la parabola sempre complessa dell’esi-stenza.

Alla Professoressa viene affiancato diremmo il direttointestatario del racconto: il giovane “Professore”, nellaquale figura leggiamo il corrispettivo maschile della prota-gonista, ma non solo. Egli rappresenta il personaggio cheè incaricato di far scatenare la narratio con il domandare,

ANTONIO D’ELIA*

La storia del dramma della guerra nel Savutoletta dalla narrativa di Ezio Arcuri

Marzi - Il Ponte “Nuovo” sul fiume Savuto

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appunto, alla donna i tempi della guerra e gli accadimen-ti personali entro una formula narrativa tesa ad inglobareil valore cronachistico e la sapienzialità storiografica chel’analessi continuamente dibattuta nel romanzo (un primae un poi che si rincorrono) non riduce al semplice rendi-conto, ma concorre alla verifica del tessuto gnoseologicocome proiezione di alto valore ideologico. Dietro il giova-ne Professore l’indicazione diegetica dell’autore è “indica-tivo figurale” preciso.

Una esposizione, quella della Professoressa (che ella faprimariamente e quasi fino alla fine in sé stessa), collega ilterritorio della Valle del Savuto (luogo nel quale, per lagran parte del romanzo, si svolge l’azione primaria: da es-so l’opera abbraccia realtà che coinvolgono fatti di interinuclei familiari e persone singole: Adele ed Emanuele,ebrei polacchi internati tra Rogliano e Ferramonti; la sto-ria di Ernest Barnard, medico divenuto illustre docente aRoma) alle vicende di uomini e donne, per lo più lavora-tori della terra, ma anche artigiani-artisti, come nel caso diMastro Pietro e Mastro Franco (maestro e allievo: sarti aCosenza e fortemente legati al territorio gravitante tra Ro-gliano, Scigliano, Carpanzano e Marzi) con la propria di-gnità, che è sempre, quando sa paradossalmente imporsicon decoro ed intelligenza, appunto, libertà. La quale vie-ne, secondo la nostra analisi, dallo scrittore costantemen-te “coscientizzata” (una coscienza che si responsabilizza nelmentre si attua). Ed ecco un tratto a nostro dire decisivo

dell’opera, che vive nel rapporto dialettico ed affascinantetra ciò che il lavoro procura e ciò che ataviche e barbare as-suefazioni ritualistiche perpetuano non solo in ambitopaesano. Da qui un ampio squarcio della vita soprattuttodel Mezzogiorno, della Calabria, in specifico, e quindiparticolarmente della valle del Savuto in cui l’antico retag-gio feudale persiste alla fine degli anni trenta del Novecen-to contribuendo alla fortificazione dell’“ideologia” e delmovimento fascista in Italia, e non solo.

L’autore ci presenta i piccoli signorotti incrostati da bo-ria per un passato di pseudo-glorie appartenenti ad ante-

nati che hanno per lo più costruito sulla politica anticul-turale delle masse patrimoni e professioni a discapito, ap-punto, dei molti (una ripresa derivante da un filone narra-tivo di ambiente soprattutto siciliano della fine dell’Otto-cento e degli inizi nel Novecento, presente in molti autorimeridionali, ma non solo). Ma lo scrittore segnala anche ilrapporto tra il piccolo proprietario (in questo caso MastroPietro, emigrato in America e ritornato in Patria con unpo’ di soldi) e il suo colono: un mondo che ricalca il nuo-vo approccio proprietario-lavoratore (la cui struttura die-getica è presente ampiamente soprattutto nella nostra let-teratura meridionale). A ciò lo scrittore affianca l’umore ela volontà di molti personaggi di emergere con serietà e di-sciplina, ossia moralmente: persone cioè che aderiscono aitratti di una conoscenza che non deve piegarsi ad alcuno.Ecco il caso del già richiamato Pietro (con la sua storiapersonale di lutto per l’unico figlio tragicamente scompar-so, la partecipazione politica recepita e vissuta in modo sa-no: ampia visione del quadro generale europeo e mondia-le è dato al lettore) educato ai valori di un socialismo nonsemplicemente partitico, ma sempre attento al rapportouomo-io-società; come pure i tratti di un’etica profondagerminante dai genitori di Franco dediti all’educazione delfiglio nel rispetto della bellezza, che è sempre figlia del sa-crificio. Quello subìto anche a causa dell’ignoranza e dalsuddetto rito feudale, che nel rapporto “nobile”-“servito-re” incrementa la violenza e gestisce esistenze fatte da in-

contri delineati (comenel caso di Giuditta)dalla depravazione,sgravata sì dall’indigen-za, non solo materiale,ma soprattutto cultura-le, gestita da un liberti-naggio che vuole averenella soddisfazione deisensi l’unico scopo.

Indigenza ha nel ro-manzo una duplicefunzione: da un latoporta le menti ad eser-citarsi sempre più nellaed alla violenza, e, dal-l’altro, spinge l’io a ten-tare di comprendere, acosto della vita, il già ri-chiamato senso dell’es-serci. Queste due diret-trici si fronteggiano co-stantemente nel rac-conto mostrando l’in-teresse primario della

poetica narratologica. La quale vuole avere programmati-camente un valore paidetico; ma anche un’azione pedago-gico-didattica volta, appunto, ad abilitare la Storia allenuove generazioni attraverso l’uso di storie, e le nuove ge-nerazioni alla Storia. Questa procedura è presente in mol-ti autori contemporanei con affini scopi che rintracciamoanche nell’Arcuri: memoria, passato, presente, futuro.

Il richiamo, appunto, agli avvenimenti bellici, detta-gliatamente descritti, i quali occupano parte del romanzo,si intrecciano con le vicende del territorio (dati storici: ilbombardamento di Cosenza; figure importanti quale

Ferramonti - Una veduta del campo di concentramento

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quella di Pietro Mancini; l’attenzione data ai campi diconcentramento di Auschwitz, ma anche, se pur in moda-lità differenti, l’esperienza della dittatura comunista attra-verso la storia di Alina, e no solo; così come le figure diHitler, Mussolini, Stalin) è un costante ricavare dalla Sto-ria (che è drammaticamente intessuto da dialoghi delicatie spesso interrotti dalla brutalità del potere). Essa è tradot-ta dall’attestazione offertaci mediante la sagacia dello scrit-tore, che si sofferma nell’esperienza della Professoressa, sul-la sfida di decostruire l’ars oblivionis (nella quale rientranoi qualunquismi e i biechi trasformismi, come nel caso delpodestà di Scigliano) per incrementare l’ars memoriae (af-fidata alle carte della Professoressa). In senso tutto proble-matizzante: occorre sottolineare, infatti, come vengano ri-portate con gesto descrittivo pulito i tratti sani di molti,che, pur partecipando dell’i-deologia fascista, hanno mo-strato il senso della pietas.Una pietas dettata dall’umani-tà viva del soggetto e non dal-l’ideologia, ovviamente! Quel-la stessa che per una sedimen-tazione data anche dal rappor-to con una vita gravata unica-mente dal dovere (è la vitadella Professoressa, esistenza“svolta” a Milano, spazio incui “esercita” il suo lavoro diinsegnante e quello di resisten-te al fascismo) e da una educa-zione sbagliata (esempi didonne rigide come la madre odonne fattive come Giorgialegata nella figura letterariacon la Professoressa all’azioneresistenziale) permette l’attoliberatorio, che è il raccontostesso. Ossia racconto come possibilità, in questo casoestrema possibilità di salvezza anche da sé stessi. Secondouna raffinata-prestigiosa interpretazione critica che voglia-mo qui indicare e che vede nel Novecento un importante“sistemazione-innovazione” di questo concetto-pensieroletterario, tuttavia variamente abilitato-disabilitato.

Il riedificare a partire dall’ascolto segna in tutto il ro-manzo l’importanza dell’uomo oltre ogni pregiudizio, nonsolo politico, ma anche religioso (è il caso della Professo-ressa e dal rapporto di questa con la madre, di Mastro Pie-tro e della sua alta e profonda religione laica; ma è pure ilcaso del Decano di Scigliano, ieratico e classista, chiusoanche per paura del potere e, assieme, spinto in fine a da-re all’umanità la precedenza).

Un edificare nell’umanità, non fuori da essa è l’elemen-to poeto logico-narrativo che più di ogni altro ci convincedel romanzo e che Arcuri costantemente sottolinea anchenelle ampie pagine descrittive di una natura che dà e chetoglie (la campagna della Valle e i paesaggi derivati da al-tri resoconti riguardanti, la Polonia, la campagna inglese),ma che in ogni caso è dall’uomo gestita al fine di render-sela amica e partecipe del proprio (così il ritorno di Um-berto): il rapporto tensivo con la difficoltà di “potercela fa-re”. Un costruire, comune a tutti i personaggi, non solo intermini materiali, ma anche spirituali (l’amore nato nellabellezza della spontaneità dei cuori: Franco e Linda; l’in-

cremento di Franco dell’arte sartoriale trasmessagli dall’e-sempio di Mastro Pietro; il vivere “al meglio”, il sopravvi-vere con decoro alla detenzione nei campi di concentra-mento; il rapporto difficile tra gli stessi resistenti; la volon-tà di rompere con schemi logori, viziati dal plagio di unfalso rigorismo, come nel caso della stessa Professoressa).

La libertà, l’andare verso il sole è il proposito moraledell’intera testimonianza raccolta dal giovane Professore,il quale si fa garante di trasmettere ciò che ha studiato eciò che ha vissuto nel racconto della Professoressa. Dive-nendone assieme custode e testimone a sua volta. Non c’èrifiuto del progresso, esiste perplessità per non poterlo be-ne individuare. Il romanzo segue l’esempio di un’azioneletteraria volta a trasmettere per non dimenticare (è pre-sente anche una volontà di descrizione – tendente a non

uniformare gli avvenimenti, le ideologie e i trasformismisoprattutto politici – non revisionista, di cattivo liberti-naggio revisionista). L’opera ci fornisce diversi punti di ri-flessione, che, tuttavia, vanno a concentrarsi nell’amplia-mento di una scrittura che ha bisogno di narrare parten-do dal vero. Un modello questo che molto ha prodotto econtinua a produrre non solo in ambito nazionale, aven-do alle spalle grandi esempi narrativi costruiti su questastessa intentio (come precedentemente ricordato). Unprogetto narrativo, quello di Ezio Arcuri, garante, quindi,nella pulizia del proprio tessuto discorsivo lineare, dell’e-thos, appunto, che si attua quando si accoglie l’esperienza(Erfahrung), ossia quando non si separa anche nell’artel’uomo dalla vita. Quando si fa benefica resistenza. Resi-stenza che avviene, e quindi salva, sia come esperienzasingola che come esperienza collettiva. Così come il gio-vane Professore ha recepito dalle storie raccolte diremmodalla valle del Savuto, la quale diventa il palcoscenico-soggetto primario per il quale la narrazione si attua in vi-sta di una libertà che solo la purificazione (cioè il raccon-to, che è in sé libertà, testimonianza e Resistenza a untempo) può garantire.

* Dottore di Ricerca in “Scienze letterarie retorica e tecniche dell’interpretazione” - UniCale.mail: [email protected]

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Ferramonti - Una veduta del campo di concentramento

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Scriveva Schopenhauer (Il mondo come volontà e rappre-sentazione) che la musica propone l’essenza del mon-do in modo immediato, per intuizione, cosa che la fi-

losofia fa in modo mediato, per mezzo del concetto. “Intutta questa trattazione – sottolineava A. Schopenhauer –mi sforzai di chiarire che la musica esprime, in un linguag-gio altamente universale, con una materia specifica (sem-plici suoni) e con la più grande verità e determinazione,l’intima essenza, l’in sé del mondo; ciò che venne, secondola sua più limpida estrinsecazione, passato sotto il concettodi volontà”1. In questo senso, la musica viene a proporsicome una delle migliori forme, se non la più elevata, di co-noscenza. E la conoscenza, come coordinata del processo diapprendimento, si coniuga con la funzione di insegnamen-to, che soprattutto è sublime momento di educazione del-l’uomo alla consapevolezza. Musica ed insegnamento, per-tanto, si pongono sul medesimo piano, non certo nel sen-so che la musica possa essere semplicemente mezzo capacedi fornire competenze specifiche, quali quelle che riguarda-no il suo campo, ma soprattutto perché è e può essere me-todo pedagogico, anzi, essa stessa, sotto un certo aspetto, èe può essere pedagogia. Essa, in fondo, con la propria ar-monia, richiama l’armonia del cosmo e la comunica, un’ar-monia che è l’essenza stessa della vita e del comune viveredel cosmo e dell’uomo. Non è giusto, però, parlare di mu-sica come pedagogia, forse è meglio parlarne come educa-zione. Sì, perché l’educazione è il processo messo in atto datutti i fattori educativi, mentre la pedagogia ne costituisceil momento riflessivo2. E fra i fattori che concorrono all’e-ducazione, dal diritto alla religione, dall’ambiente naturalealla psicologia, un ruolo fondamentale può rivestirlo, e loriveste, anche la musica. In Grecia, precisamente nell’anti-ca Atene, la musica, grazie al proprio passo ritmico, era fat-ta proprio per l’educazione in quanto significava, sì, suonodi strumenti, ma soprattutto equilibrio. L’ideale ad Ateneera la calocagathìa, cioè l’armonia, la sintesi particolare dibello e buono, che si poteva raggiungere non semplicemen-te nel perfetto equilibrio fra mente e corpo (mens sana incorpore sano, scriveranno in seguito gli antichi romani), manella giusta sintonia fra bello (calòs) e buono (agathòs), do-ve il buono non è ancora ciò che si coniuga con il piano eti-

co, ma è qualcosa di pratico, una specie di virtù tecnica econcerne quella personale capacità dell’uomo che, oggi, siestrinseca nel dominio e nella padronanza di sé3. Ebbene,la musica, in quanto arte e sublime ed assoluta forma di co-noscenza, per gli antichi, era e costituiva un momento delprocesso educativo che, attraverso l’ascolto, sollecitava ilsentire, cioè la capacità di avvertire e di portare fuori ciòche è dentro. La musica, cioè, aveva ed ha un potere maieu-tico, che si svela nella capacità di far venire alla luce il me-glio di ciò che è dentro, l’essenza, l’identità, anzi ciò che co-stituisce la personalità di una persona, ma anche le radiciche sono patrimonio comune di una comunità, di un po-polo. La musica, allora, si fa essa stessa essenza dell’esseredell’uomo, di un popolo, di un mondo, di una cultura. Es-sa, secondo la filosofia e i filosofi, è possibilità aperta di co-gliere, per intuizione, una dimensione superiore; e questaintuizione può estrinsecarsi secondo la natura della cono-scenza o del sentimento4. Sempre secondo il pensiero filo-sofico, la musica è però anche una tecnica espressiva. Inquanto tale, scriveva il filosofo Aristotele, “non va pratica-ta per un unico tipo di beneficio che da essa può derivare,ma per usi molteplici, poiché può servire per l’educazione,per provocare la catarsi e in terzo luogo per il riposo, il sol-levamento dell’anima e la sospensione dalle fatiche. Da ciòrisulta che bisogna far uso di tutte le armonie, ma non ditutte allo stesso modo, impiegando per l’educazione quelleche hanno un maggiore contenuto morale”5. Torna grato,a questo punto, prendere in considerazione, nella prima ac-cezione del termine, la natura conoscitiva della musica e,nella seconda, l’aspetto dell’educazione. E allora la musicacosa consente di conoscere? Ebbene l’oggetto della musicaè la realtà suprema, divina o come armonia o come Princi-pio cosmico6. In questo secondo caso, la musica “è l’auto-rivelazione di questo principio nella forma del sentimen-to”7. Ma in che senso è motivo di educazione? Se la musi-ca è “rappresentazione del sentimento”, allora, attraverso ilsentimento, essa sollecita al “principio cosmico”. Si potreb-be ritenere che il discorso stia prendendo una piega meta-fisica. Eppure se ne può fare e dare anche una lettura diver-sa. In fondo il Principio cosmico lo si può anche spogliaredi ciò che induce a pensare all’Assoluto o solo e semplice-

EUGENIO MARIA GALLO*

Rivelazione del soggetto individuale, del soggetto collettivoe della tradizione nella musica della Taranta

1 Cfr. A. Schopenhauer, “Il mondo come volontà e rappresentazione” a cura di G. Riconda, U. Mursia & C. Milano 1969, p. 3072 Scriveva N. Abbagnano in merito al termine pedagogia; “Questo termine che in origine significò la pratica o la professione del-

l’educatore è passato poi a significare qualsiasi teoria dell’educazione; intendendosi per teoria non solo un’elaborazione ordinata egeneralizzata delle modalità e delle possibilità dell’educazione ma anche una riflessione occasionale o un presupposto qualsiasidella pratica educativa”, cfr N. Abbagnano, “Dizionario di filosofia” Unione Tipografico- Editrice Torinese, Torino 1964, p. 638 Giovanni Giraldi, per quanto concerne i concetti di educazione e di pedagogia sosteneva: “Alcuni hanno identificato le due disci-pline. Ma è necessario porre una distinzione ben chiara e restarvi fedeli. Prima viene l’educazione, poi la pedagogia…L’educazio-ne comprende tutti i fatti educativi, mentre la pedagogia è la riflessione su questi fatti”, cfr. G. Giraldi, “Storia della pedagogia”,Fondamenti filosofici, Basi scientifiche, Ordinamenti scolastici, Armando Editore Roma 1966, p. 5

3 Cfr. G. Giraldi op. cit. p. 564 Cfr. N. Abbagnano op. cit. p. 5845 Cfr. Aristotele, “Politica” VIII, 7, 1341 b 30 sgg. in N. Abbagnano op. cit. p. 5866 Cfr. N. Abbagnano op. cit. p. 585 7 Cfr. N. Abbagnano op. cit. p. 584

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Confluenze RIVISTA CULTURALE QUADRIMESTRALE

mente all’Assoluto. La musica, infatti, in quanto “bel gio-co di sensazioni”8, è anche possibilità di richiamare l’uomoad una dimensione di “Principio cosmico” che non è l’As-soluto o solo l’Assoluto, ma è l’essenza umana dell’essere, larealtà naturale in cui l’uomo si radica, da cui egli, in que-sto mondo, nasce e proviene e che sollecita un processo diidentificazione non di natura escatologica, ma umana egeografica. Ascoltando, ad esempio, un brano legato ad uncerto tipo di musica, con determinate espressioni di fughee ritorni, con un ben precisotipo di ritmo e di combina-zioni di suoni, si è indotti adaffermare che esso appartienead un determinato generemusicale e, immediatamente,il genere tipico richiama illuogo in cui esso si radica, iltempo cui appartiene e laparticolare comunità che loesprime. D’altro canto, lamusica è anche cultura e, inquanto cultura, esprime ciòche è necessario, se non fon-damentale, per la formazionedell’uomo. Ma è anche ciòche è la dimensione dell’e-sprimersi dell’uomo, cioè laciviltà. Essa, pertanto, costi-tuisce un aspetto fondamen-tale dell’educazione dell’uo-mo, e nel senso dell’anticoconcetto greco di paideia(educazione dell’uomo), enel senso di insieme degli ele-menti di vita di una società,di una comunità, di un po-polo. In questo secondo sen-so, essa riflette quella che è l’anima di un popolo, di ciò checostituisce le radici e le coordinate essenziali di una civiltàche si tramanda ed è da tramandare di generazione in ge-nerazione. La musica, in quanto cultura, esprime, pertan-to, le condizioni di fondo dell’identità di un popolo, l’ani-ma di una comunità che vi si riconosce e vi si identifica, maesprime altresì l’io di una persona. Si pensi al sirtaki, al fla-menco, al tango, al jazz. Si pensi alla taranta e alla tarantel-la, tanto per restare in tema e in sintonia con la nostra ter-ra. La tarantella “è stata adottata dalla musica pura – si leg-ge sull’enciclopedia Pomba – ed è divenuta una delle formepreferite per i movimenti di carattere brillante”9.

Ebbene, la musica della taranta e della tarantella rive-ste, per noi, un’importanza particolare, che si lega alla no-stra memoria umana e storica. Essa è l’anima della nostraterra e ci consente di collegarci, immediatamente, alle no-stre radici. In un tempo come il nostro che si pone, sem-pre più, domande di senso, la taranta e la tarantella po-

trebbero offrire, e secondo me la offrono, l’opportunità didare senso alla nostra stessa vita, poiché, nel restituirci al-le nostre radici, ci richiamano alla nostra identità di popo-lo, alla nostra civiltà, alla nostra personale memoria diesperienza e di vissuti, svolgendo, così, per noi, un fortemomento educativo. Spesso, il viaggio nella memoria èfatto solo di ricordi vaghi e di immagini sbiadite, di docu-menti interessanti e utili, ma forse un po’ freddi per i nonaddetti ai lavori. La musica, però, ha la capacità di ravvi-

varli e di restituirli in tutta laloro vitalità.

Così è per la taranta e per latarantella in cui vive il mondodelle nostre radici, un mondoche ci appartiene e che ha se-gnato la vita dei nostri avi, deinostri nonni, dei nostri genitorie anche di noi stessi. E di questomondo, in cui si pongono nonsolo le coordinate delle nostreradici e delle nostre origini,consolidate nel tempo, nella tra-dizione, nell’arte, nella storia,nella fede e nella religiosità, maanche il senso del nostro presen-te, la musica ripropone l’essenzae la fa rivivere nel suo folklore enella sua cultura, in una felicesintesi di “cultura dei più” o de-gli umili e di “cultura ufficiale”.Ed è questo che taranta e taran-tella offrono, costituendo unimportante momento educativosul piano del senso di sé e dell’i-dentità relativa al comune senti-re del popolo cui si appartiene.La musica della taranta e della

tarantella, con le sue note, produce una melodia che è sin-tesi osmotica di passato e presente, cioè di un presente incui continuano a scorrere le origini. “Nel corso di una me-lodia, – scrive Marius Schneider – se non sapessimo custo-dire con la memoria tutto ciò che fu detto dall’inizio, maicomprenderemmo il presente che perennemente camminain avanti. Per scoprire il senso di una melodia pur seguen-done la progressione nel Tempo bisogna anche udirla retro-spettivamente in ogni melodia, il passato penetra nel pre-sente e forma con esso un tutto. Esiste perciò una specie ditempo sonoro che va avanti e, contemporaneamente, untempo mentale che va indietro. Il Tempo che progredisce puòfar pensare ad un bastimento che naviga in direzione di unameta; il Tempo retroattivo, invece, fa pensare al rematoreche volta la schiena alla meta (al futuro), e tiene fisso losguardo, con fiducia, sul punto di partenza”10. E quel cheinsegna è la via delle origini e delle radici per dare senso edindicazioni di appartenenza alla propria vita; insegna la via

8 La “nozione” è di Kant, cfr. N. Abbagnano op. cit. p. 586 9 Cfr. Enciclopedia Pomba vol. II L- Z, Quarta Edizione Unione Tipografico- Editrice Torinese, Torino 1953 p. 109310 Cfr. M. Schneider “La nozione del tempo nella filosofia e nella mitologia vedica” in Aa. Vv., “Ecologia della musica: saggi sul

paesaggio sonoro” a cura di A. Colimberti, Donzelli, Roma 2004 (ID., “La nozione del tempo nella filosofia e nella mitologiavedica”, in “Eternità e storia: i valori permanenti del divenire storico, a cura dell’Istituto Accademico di Roma, Vallecchi, Firen-ze 1970, pp. 203- 214) pp. 35 sgg., in PP. De Giorgi “Il tarantismo come mito. Dagli errori di De Martino alla rivalutazionedel pensiero mitico”, Congedo Editore Galatina (Le) 2007, p. 40

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della “presenza”, la quale, secondo P.P. De Giorgi, “è la ne-cessità ontologica dell’uomo di percepire se stesso come va-lore, persona, individuo attivo all’interno del gruppo e delmondo, ma dal gruppo stesso separato, non confuso con ilmondo esterno e quindi non privo di libertà e capacità de-cisionale”11. La presenza, pertanto, come evidenzia lo stes-so De Giorgi, si fa compresenza. E, a buon diritto, comegiustamente evidenzia nel proprio saggio sul tarantismo ilDe Giorgi, P. Boumard afferma che l’educazione tesa a “co-struire dispoticamente una sola identità va completamenteripensata”12. Si tratta, cioè, di tener conto del fatto che l’i-dentità di una persona è sintesi di identità. “In senso oppo-sto all’etnocentrismo europeo di quasi tutto il Novecento edi De Martino, oggi – scrive il De Giorgi – il gioco delleidentità si ripresenta, su scala mondiale, nella riaffermazio-ne del valore della cultura etnica e tradizionale. Le identitàetniche vengono rifondate per contrastare il massificante eparalizzante fenomeno della globalizzazione e tutto quelloche viene percepito, in fin dei conti, come una riduzionedella propria personalità”13. E, quando parla delle identitàetniche, Pierpaolo De Giorgi afferma che esse sono impor-tanti per l’uomo, ma non possono essere assolute14. In me-rito, egli parla di identità aperta e sempre in costruzione.“Nel saggio Pizzica pizzica, la musica della rinascita ho mo-strato – egli scrive – come l’identità del Salento, arcaico,contemporaneo o tradizionale che sia, e quella di coloroche oggi si riappropriano della pizzica pizzica e della cultu-ra relativa, sia sempre un’identità aperta. L’identità è costan-temente in costruzione, ma ciò non significa che non sia unvalore importante. Essa fa riferimento all’inconscio, nelquale è depositata la memoria nascosta riferibile ai vissutipersonali e a quelli collettivi e tradizionali. Per tale fonda-mento insieme unitario e molteplice, l’identità in quantotale non può avere un valore assoluto e la sua funzione po-

sitiva dipende proprio dalla capacità di mantenersi apertaal dialogo e alle altre identità”15. Quanto affermato per lataranta e per il Salento vale anche per la nostra terra e perla tarantella, la cui musica, pertanto, insegna la via, perl’uomo, per raggiungere l’essenza della propria misura diessere che si coglie come identità con il proprio sé e con laciviltà del popolo cui appartiene (recupero del senso di ap-partenenza) e coglie le ragioni del proprio essere nel mon-do e nel tempo in cui vive e da cui proviene, della propriapersonale identità e della propria capacità e possibilità, co-me soggetto di storia e della propria storia, di avvertirsi, diproporsi e di esprimersi come persona con una propria in-dividuale identità, autonoma e libera dal tempo e dal mon-do in cui dimora e da cui discende.

Bibliografia

Enciclopedia Pomba, Vol. II Quarta Edizione, Unione Tipogra-fico – Editrice Torinese, Torino 1953

N. Abbagnano, “Dizionario di filosofia” Unione Tipografico –Editrice Torinese, Torino 1964

G. Giraldi, “Storia della pedagogia”, Fondamenti filosofici, Basiscientifiche, Ordinamenti scolastici. Armando Editore Ro-ma 1966

A. Schopenhauer, “Il mondo come volontà e rappresentazione”a cura di G. Riconda, U. Mursia & C. Milano 1969

PP. De Giorgi “Il tarantismo come mito. Dagli errori di DeMartino alla rivalutazione del pensiero mitico”, CongedoEditore Galatina (Le) 2007

M.C. Potenza – S. Scalabrella, “La mitologia classica”, EdizioniStudium Roma 1987

* Professore emerito di Lettere - Roglianoe.mail: [email protected]

11 Cfr. PP. De Giorgi op. cit. p. 3912 Cfr. PP. De Giorgi op. cit. p. 5013 Cfr. PP. De Giorgi op. cit. p. 53 14 Cfr. PP. De Giorgi op. cit. p. 5315 Cfr. PP. De Giorgi op. cit. p. 53

(…)Una ottima e intelligente scrittura esopica la quale, oltre ad avermi affascinato, mi

ha fatto riflettere a lungo. Questa capacità favolistica è assai notevole e imporrebbe unlungo discorso (o meglio riflessione) sull’importanza della riscoperta di una letteratu-ra morale (dico morale, non moralistica) che in qualche modo sembra voler ripropor-re la necessità e l’urgenza di un nuovo, aggiornato confronto con la letteratura fattadi idee, utopie, favole, miti, leggende, cronache che si fanno storia, e che sembranodirci: alt! Così non va! Dobbiamo ripensare tutto, dal lupo di Cappuccetto Rosso al-le sirene (non solo omeriche), alla mitizzazione della tecnologia e della globalizzazio-ne, alla mondializzazione che, mi pare ovvio, è ben misera cosa di fronte al problema(questo sì assai serio e doloroso, e forse anche nuovo) delle dimensioni standard di unloculo che non può contenere la sua predestinata bara!... Mi pare di avvertire, tra que-sti racconti e i precedenti, un forte legame di continuità e contiguità, ma al tempostesso un passo avanti sulla strada di una specie di enciclopedismo che qualche voltaha addirittura un piacevole gusto di neo-illuminismo… Quando parlo di scritturaesopica, penso anche al suo contrario, cioè al “dietro e dentro” le parole e i fatti (opensieri) che esse narrano. Quando penso alla scrittura morale, penso alla morale del-la scrittura: l’una il rovescio dell’altra e viceversa. E forse l’una nell’altra volutamentesi annullano a vicenda, lasciando nel lettore un doloroso e amaro retrogusto…

Luca Rosi

Ilario Principe

FALSITÀ

Comet Editor Press

Formato 14x20,5 - Pagine 188 - ISBN 978-88-904820-3-8 - ee 12,00

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Il messaggio dell’arte di Assunta Mollo sublima la vita earriva in modo distinto e chiaro. Non c’è bisogno diun’ermeneutica dell’esegesi. La vera arte è quella che ri-

esce a trasmettere emozioni, emozioni che turbano, emo-zioni empatiche senza mediazione, letture complicate e,spesso, fuorvianti, conducendo per quei sentieri che por-tano l’uomo a indagare se stesso, il senso della vita, dellamalattia e dei rapporti umani. Lungo questo cammino èfacile perdersi, così come è facile ritrovarsi, ed individuaredei compagni di viaggio a cui il “verbo” non serve, bastauno sguardo o un dipinto che tocca l’animo, senza biso-gno di “parole-rebus” che diventano pesanti, come maci-gni, ed incomprensibili, come punti di domanda senza ri-sposta.

Assunta Mollo, che insegna matematica presso il loca-le Istituto Tecnico Commerciale e per Geometri “S. Qua-simodo”, è il Presidente dell’Associazione ParkinsonianiItaliani che ha sede legale, unica per la Calabria, a Cosen-za. Al suo attivo ha numerose mostre ed il suo contributosi è espresso con impegno ed originalità anche in convegnidi carattere medico-scientifico, che, attraverso l’espressio-

ne dei suoi qua-dri e della sua te-stimonianza og-gettiva, hanno re-so visibile l’im-portanza dell’artenella cura e nelprocesso di inte-grazione e recu-pero dalla malat-tia.

È stata pro-prio la Malattiadi Parkinson checi ha fatto incon-trare, in occasio-ne della presenta-zione del librodell’attore argen-tino Javier Lom-bardo1 – anch’e-gli affetto dalMorbo di Parkin-

son – di cui mi sono occupata lo scorso anno. Dunque,per quanto il fardello della malattia possa pesare nella vitadi Assunta, sicuramente ha portato a lei nuovi amici, nuo-ve prospettive, nuove acquisizioni… Ha portato, prima fratutte, la pittura ed un universo che si è disvelato nella suaprepotente urgenza di prendere forma e colore: di esistereal di sopra di ogni dato esteriore.

La Malattia di Parkinson ha condotto Assunta, ormai

da più di dieci anni, verso la pittura, una pittura che è si ètrasformata nel linguaggio elettivo in cui far convergere ilsuo nuovo mondo di emozioni, le sue nuove scoperte, lesue paure e la bellezza del suo animo. Grazie a questo nuo-vo “sentire” la sua arte espressiva ha trovato un canale percomunicare sensazioni, emozioni, pensieri che da tempogiacevano nella profondità del suo animo e non trovavanoil sentiero della giusta condivisione.

La pittura è diventata specchio, uno specchio che ri-flette la sua anima e fa luce sulle sue emozioni segrete. Unospecchio che ha infranto il muro dell’isolamento ed haportato fuori l’universo inespresso del suo sentire e viveretra la gente che non sa, non conosce e non comprende ilmondo dietro cui la malattia l’aveva costretta e ci costrin-ge, anche da “sani”.

La pittura è diventata tela, tela le cui trame incontranoi colori, si fondono e si sublimano in figure, prendendoforma e dimensione in un’apoteosi di vita, unendosi nel-l’incarnarsi sotto le dita ed i pennelli di un individuo cheora sa e ora vede… Vede la realtà senza i veli dell’ignoran-za di spirito, che ci rende gretti affabulatori di sterili fin-zioni.

I miracoli avvengono ed è l’uomo che, spesso, è in gra-do di compierli. Assunta non si è fermata davanti al disa-gio della malattia, ripiegando su di sé e offendendo la suanatura d’individuo. Anzi, ha saputo cogliere il messaggiopiù alto che dava senso e rilievo a questa sua sofferenza edalla vita stessa. I suoi occhi hanno visto un panorama nuo-vo ed inedito, mai colto prima, nella condizione di benes-sere fisico.

“La paralisi agitante” – un bell’ossimoro – l’ha indottaa rallentare il passo e qui,per la prima volta nellasua vita, si è fermata a go-dere dell’orizzonte sconfi-nato che si apriva ai suoisensi increduli, sbigotti-ti… come quelli puri diun bimbo, che per la pri-ma volta osserva la voltaceleste e ne comprende ilprodigio ed il mistero. Ecosì, con la stessa enfasiche nel suo cuore trionfa,vuole condividere questabellezza infinita con il re-sto del mondo che tace,invece, e si ritira spessoverso le maglie dell’in-comprensione; di quel di-stacco che ferisce, chiu-dendosi dietro il sipario

DIVINA LAPPANO*

Il Palpito dell’EsistenzaUna lettura antropologico-esistenziale della pittura di Assunta Mollo

Le amazzoni,tecnica mista su tela, cm 100x100

1 Javier Lombardo, POèMI, Comet Editor Press, Marzi (Cs), 2012.Sodales,

tecnica mista su tela, cm 70x120

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lugubre dellacommiserazione,priva di ogni tipodi comunicazioneefficace e reale,privo del signifi-cato dell’essere edell’esistere.

Come nonpensare a Leopar-di?Sempre caro mi fuquest’ermo colle,e questa siepe, cheda tanta partedell’ultimo oriz-zonte il guardoesclude.Ma sedendo e mi-

rando, interminatispazi di là da quella, e sovrumanisilenzi, e profondissima quieteio nel pensier mi fingo, ove per pocoil cor non si spaura. E come il ventoodo stormir tra queste piante, io quelloinfinito silenzio a questa vocevo comparando: e mi sovvien l’eterno,e le morte stagioni, e la presentee viva, e il suon di lei. Così tra questa iimmensità s’annega il pensier mio:e il naufragar m’è dolce in questo mare2.

Come non rievocare Quasimodo?Ognuno sta solo sul cuor della terratrafitto da un raggio di sole: ed è subito sera3.

E come non sentire il fremito di Dante? Nel mezzo del cammin di nostra vitami ritrovai per una selva oscuraché la diritta via era smarrita.Ahi quanto a dir qual era è cosa duraesta selva selvaggia e aspra e forteche nel pensier rinova la paura!4

E ancora:tanto ch’i’ vidi de le cose belleche porta ‘l ciel, per un pertugio tondo.E quindi uscimmo a riveder le stelle5.

Zarathustra aggiunge: bisogna avere ancora un caos den-tro di sé per partorire una stella danzante6.

Ma in una notte fredda e senza stelle, in cui il silenziotrionfa ed incute timore, mentre lo spirito annichilisce inun piccolo essere che si sente impotente e indifeso, tornia-mo indietro nel tempo… Trentaduemila anni fa. Una not-te buia, una grotta in cui ripararsi ed il bisogno indifferi-bile di portare fuori di sé l’urlo dello spirito. Le Grotte diChauvet, la più antica testimonianza che l’uomo abbia la-sciato della voluttà di celebrare le proprie emozioni, sensa-zioni incontenibili che non potevano trovare espressionein nessun’altra forma di linguaggio. I pittogrammi chel’uomo del paleolitico superiore ha impresso sulle pareti diuna caverna nella Francia sud-orientale, quale messaggionella bottiglia per salvarsi dal naufragio della sua anima, eche miracolosamente sono giunte fino a noi, ci conferma-no l’archetipo della pittura, che è la prima forma di scrit-tura mai esistita. Una testimonianza che ci accompagnaverso i percorsi perscrutabili delle emozioni umane e, nel-lo specifico, verso il bisogno di comunicare e condividereil mondo interiore di immagini e suggestive rivelazioni chepopolano, dal paleolitico fino a noi, l’universo di AssuntaMollo.

Ebbene, in questa lunga e oscura notte dell’anima7, co-me il mistico Juan de la Cruz la definirebbe, nella notteoscura che narra il viaggio dell’anima verso il divino, nel-la notte, che diviene appuntamento ineludibile con quellavoce interiore, che trasfigura le avversità e gli ostacoli neimostri sovrumani del mondo sensibile, Assunta è lì con isuoi limiti, le sue paure, il suo mondo… E, come l’uomodi trentaduemila anni fa, suo parente prossimo, nel silen-zio combatte la sua battaglia di conoscenza, di sopravvi-venza e raccoglie la grande Chance di Giovanni della Cro-ce8, per fare di quel momento, unico ed esclusivo, creazio-ne artistica. Creazione che, attraverso la pittura, raggiungel’essenza di sé, si ricongiunge alla sfera interiore per tra-scendere e toccare il sacro, il divino, e, come ispirato daNietzsche, partorisce una stella danzante.

Proprio attraverso i pennelli, che a volte sono le suestesse mani, impotenti al fremito che la pervade e la scuo-te, l’artista ritrova se stessa e colloca nello spazio della telail suo tempo e traduce in colori quelle parole, che non tro-vano forma nella linguadi tutti i giorni. Il Chaos,di cui ci parla Esiodonella Teogonia9, diventaCosmos, che in greco si-gnifica appunto “ordi-ne”. La pittrice, come ildemiurgo platonico10,vivifica la materia e larende anima del cosmo.L’universo, che la pitturaè diventata, ordina l’esi-

2 Giacomo Leopardi, L’infinito, (1819).3 Salvatore Quasimodo, Ed è subito sera, (1930).4 Dante Alighieri, Inferno, Canto I, vv. 1-6, (1304-1321).5 Dante Alighieri, Inferno, Canto XXXIV, vv. 137-140. 6 Friedrich Wilhelm Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, (1883-

85).7 Juan de la Cruz, La notte oscura dell’anima, (1584).8 Ibidem.9 Esiodo, Teogonia, (700 a.C.).10 Platone, Timeo, (360 a.C.).

Donne,tecnica mista su legno, cm 90x80

Amicizia,acrilico su cartoncino, cm 70x100

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stenza e rappresenta ilsuo diario visivo, undiario di viaggio in cuinon esistono limiti, chesiano del pensiero o delcorpo, e comunica tan-to e meglio di quantomolti di noi, al sicurooltre la frontiera dellamalattia, sono in gradodi fare, perché Assunta,sebbene costretta neiconfini fisici del males-sere, NON È la sua ma-lattia. Assunta NON Èil Parkinson. Assunta ÈAssunta, straordinaria-mente e potentementese stessa.

La sua nuova consa-pevolezza risolve il pro-blema ontologico su cuil’uomo indaga dagli al-bori della storia e si ele-

va al di sopra delle comuni categorie concettuali poiché,come afferma Schopenhauer, mentre per l’uomo comune ilproprio patrimonio conoscitivo è la lanterna che illumina lastrada, per l’uomo geniale è il sole che rivela il mondo11. Co-sì avviene il miracolo: attraverso pennelli, colori e formeAssunta ritrova se stessa e la luce dell’universo, che non èpiù oscura tenebra, si divincola dalle pesanti catene cheimprigionano l’individuo, così come Platone ben descrivenel Mito della caverna12, liberando se stessa ed il suo mon-do da una schiavitù di pensiero e di azione. Qui il piaceredella pittura diventa gioia e catarsi: libertà… Assunta è fi-nalmente “libera” e “governa” se stessa ed il mondo circo-stante.

L’arte pittorica è diventata arte maieutica e Assunta dàalla luce se stessa, secondo l’insegnamento socratico. In talmodo l’emotività prende forma e si concretizza, conqui-stando la tela in un susseguirsi di cromie dai toni caleido-scopici, corporei e materiali quanto eterei e delicati. L’im-patto esteriore è spesso forte, la comunicazione diretta edimmediata. I tratti del suo pennello consacrano la visionedi un mondo interiore che brama, esulta, urla… “Palpita”.Vive prepotente il bisogno di esistere e affermare la pro-pria identità di individuo.

Gli occhi si riempiono di immagini, le immagini evo-cano sensazioni ed in esse pullulano i sentimenti, i ricordi,le suggestioni. La musica corale del suo animo sensibile as-sume dimensione e colore nell’inesauribile ispirazione delsuo ingegno di artista, che, al pari di un direttore d’orche-stra, armonizza e concilia la pittura per farne sinfonia visi-bile e condivisa su tela vergine. Qui si comprende bene co-

me il cuore esulti e come Beethoven, ormai sordo, potécomporre l’Inno alla Gioia13 e sconfinare nel tripudio diun sentire che oltrepassa orizzonti umani.

Come soggetto dei suoi quadri l’artista predilige l’uni-verso femminile, soprattutto quello delle donne che sof-frono, mettendo in evidenza la loro femminilità, una fem-minilità a volte ostentata, a volte mortificata ed in certi ca-si idealizzata. Un microcosmo di emozioni che animano lascena sociale del mondo contemporaneo, con le sue brut-ture, le sue effimere certezze, la confusione di valori, maanche la determinazione ad essere donna, sempre e co-munque, con la sua sensualità, a volte persino grottesca. Ilfemmineo che si modula nella fragilità di uno sguardo as-sente, nell’intensità di una sofferenza mal camuffata, diuna bocca che urla muta, nella forza dell’unione che lacomplicità e la solidarietà fra donne rende simili a guerrie-re: moderne amazzoni della storia.

La tecnica usata per la realizzazione dei quadri è quellamista, che vede accanto all’uso dei colori acrilici quello dimateriali plastici come lo stucco, la carta, la stoffa.

Oltre a lavori su tela, su legno e su carta, la pittrice harealizzato anche dipinti digitali. A questa forma espressivaricorre quando è impossibilitata fisicamente ad usare ilpennello.

Insomma, un universo da esplorare, attraverso il qualeesplorarsi, conoscersi e oltrepassare il limite – sia esso lamalattia, il ruolo familiare, la condizione sociale – per as-surgere alle vette più elevate dell’esperienza umana, in cuitutto diventa possibile, in cui tutto è magicamente reale econcreto, in cui la vita si trasforma in meraviglioso miste-ro: il mondo come volontà e rappresentazione14, così caro aSchopenhauer, per concludere con lui che l’unica originedell’arte è la conoscenza delle idee e il suo unico fine è la co-munione di tale conoscenza15.

Lì, sulla cima più alta della propria consapevolezza, sitocca il divino che è in ciascuno di noi e l’esistenza diven-ta sacra e inviolabile. Lì, in quel preciso punto, il pennelloinizia a Creare, lì l’astratto prende forma e colore, lì iniziala creazione della veraopera d’arte: la Creazio-ne dell’Io. Lì inizia il“governo” di sé e delmondo. Lì, per dirla conNietzsche16, “Assuntadiviene ciò che è”! Lasua arte è essenza erme-neutica, attività metafi-sica, arte maieutica checrea, produce e supera ilsensibile: volontà di po-tenza17 che dà rilievo al-l’autoaffermazione e al-

Dis-cinesie,acrilico su cartoncino, cm 70x100

11 Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, (1819).12 Platone, La Repubblica, libro VII, 514b-520°, (390-360 a.C.).13 Ludwig van Beethoven, Sinfonia n. 9 in Re minore Op. 125, (1824).14 Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, (1819).15 Ibidem.16 Sul concetto di “divenire ciò che si è” cfr. Friedrich Wilhelm Nietzsche, La gaia scienza,

(1882).17 Friedrich Wilhelm Nietzsche, La volontà di potenza, (postuma, 1893).

Canta che ti passa,acrilico su cartoncino, cm 70x100

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Confluenze RIVISTA CULTURALE QUADRIMESTRALE

l’autopotenziamento del-l’essere, in continua ascesiverso il superamento dellefrontiere e la forza espan-siva della vita.

La malattia, allora,può, secondo il principiodi Aristotele di causa-ef-fetto18, trasformarsi in ri-sorsa. Un’elaborazioneconcettuale di singolareimpatto etico e sociale,che porta alla rivalutazio-ne ed al recupero di valo-ri, il cui significato è benoltre un limite fisico.Concetto apparentemen-te semplice, ma di diffici-le comprensione, sia perchi vive la sofferenza inprima persona, sia percoloro che sono intornoed affrontano l’impoten-za e l’incapacità di rela-

zionarsi ad una persona nuova e sconosciuta, così come in-cisivamente sottolineano i versi di Javier Lombardo:

È come il bianco e il nerol’acqua e l’olionon ci mescoliamonon ci uniamonon ci capiamocosì ci sono loro sanie noi malatiun muro ci separaquello del doloreche ci nascondeci riempie di colpae di vergognaloro si affacciano discretici guardano con diffidenzacon compassione, con ribrezzoci lasciano un buongiornoe ci augurano di guariresi fermano appenaci sorridono, ci coccolanoci sopportano, ci curano con le medicinema ci vogliono lontanosiamo come la pestenoi li guardiamo con invidiacome fossero bambini all’asilo infantileperché continuano a giocare?non si sono accorti per casoche la vita è oscura

che in qualunque angoloti aspetta l’asciaper caderti addosso imperturbabileper tagliarti in dueper lasciarti cieco19.

È evidente che la collettività ha molto da imparare dacoloro che sono a contatto con il travaglio della malattia,con la morte e con la vita, nel senso pieno del termine. Giàduemilacinquecento anni fa Eschilo scriveva che la saggez-za si conquista attraverso la sofferenza20. Bisognerebbe,dunque, riportare un certo ordine nella visione, nota a po-chi, del grande privilegio di potersi abbeverare alla fonte dicoloro che sono andati al di là della mediocre percezionedel vivere un’esistenza “piccola” e “banale” e far sì che ilChaos diventi Cosmos.

Proprio perché, come asserisce Schopenhauer, solo laluce che uno accende a se stesso, risplende in seguito anche pergli altri21 è opportuno, attraverso il linguaggio di AssuntaMollo, i suoi quadri, i suoi volti, le espressioni ed i suoi co-lori, riuscire a trasferire l’idea che l’individuo nello stato dimalattia, avendo superato la soglia della comune dimen-sione quotidiana, sia portatore di un messaggio etico digrande spiritualità e comprensione dell’essenza delle cose edel mondo, da cui tutti potremmo apprendere per miglio-rare noi stessi e la società in cui viviamo.

L’arte, come traspare mirabilmente attraverso le ope-re di Assunta Mollo, è un grande veicolo di comunicazio-ne matetica, che elargisce una preziosa lezione di vita, di-gnità, eccellenza sul piano etico ed estetico. Pertanto, allaluce di una lettura antropologico-esistenziale sarebbe lu-singhiero, auspicare che, come suggerito da Nietzsche22,qualcosa possa nascere dal suo contrario e, quindi, la ve-rità dall’errore e la salute dalla malattia.

Se una vita felice è impossibile e il massimo che l’uomopuò raggiungere è la vita eroica23, come esorta Schopen-hauer… Se l’arte, come sostiene Gogol24, può elevarsi alconcetto di divino, che è bellezza suprema... E se, come af-ferma Dostoevskij, la Bellezza salverà il mondo25: AssuntaMollo è “Eroica”, è “Bella” ed è “Salva”.

* Presidente Associazione ÁntropôsServizi per la Cultura e i Beni Culturali - Cosenzae.mail: [email protected]

Maternità,acrilico su cartoncino, cm 70x100

18 Aristotele, La metafisica, (IV sec. a.C.).19 Javier Lombardo, op. cit., p. 21.20 Eschilo, Agamennone, vv. 176 ss. (458 a.C.).21 Arthur Schopenhauer, Parerga e Paralipomena, (1851).22 Friedrich Wilhelm Nietzsche, Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi (1878-79).23 Arthur Schopenhauer, Parerga e Paralipomena, (1851).24 Nikolaj Vasil’evic Gogol’, Il ritratto, (1833-42).25 Fëdor Michajlovic Dostoevskij, L’idiota, (1869).

Stand-by,tecnica mista su legno, cm 70x100

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Confluenze RIVISTA CULTURALE QUADRIMESTRALE

Nel corso dei secoli, fiumi di parole sono stati scrittidalla critica a proposito della funzione storico-sociale e re-ligiosa del mito. Il termine “mythos” (propriamente “paro-la”), indissolubilmente legato all’immagine della culturagreca , è stato variamente interpretato, divenendo simbo-lo ed emblema di quelle forme di ritualità sacra, che han-no da sempre caratterizzato l’operato dell’uomo che cercadi esplorare le verità inconoscibili della metafisica. Il mi-to, infatti, nasce dalla primigenia ed incontrollabile esi-genza dell’uomo di cercare le risposte a quelle domandesulle origini proprie e dell’universo. Esso è una sorta di ar-chetipo della filosofia in senso proprio, una commistionedi meditazioni sul senso della vita e di sacro timore reve-renziale verso l’inconoscibile. Nel mito si fondono leistanze caratteristiche dell’ethos della popolazione e la ra-dicata credenza nelle forze divine regolatrici del cosmos. Imiti a sfondo religioso sono in-nanzitutto la manifestazione dellaprimitiva necessità dell’uomo di“darsi un dio” e immaginarlo simi-le a sé, così da rispondere a quegliinterrogativi esistenziali sulla ge-nesi dell’universo. I protagonistidi questi racconti, però, non sonodegli statici burattini impiegatisemplicemente a spiegare l’originee le cause della vita, poiché veico-lano messaggi e valori solidali aquelli della cultura della società acui appartengono, seguono unpercorso che li rende consci dellapropria condizione (spesso negati-va), che li fa agire in una determi-nata maniera e li innalza a para-digma dell’intera umanità, talvoltaattraverso le loro sofferenze. E’ perquesto motivo che tuttora, dopopiù di due millenni, continuiamoad analizzare con attenzione que-ste labili testimonianze della reli-giosità classica, che non solo ciforniscono da sempre informazio-ni sulla cultura e sulla società incui furono generati, ma contengono in sé valori e princi-pi utili alla comprensione delle dinamiche della societàodierna. Il fine ultimo della mostra di quadri sul mito, te-nutasi presso il Liceo Classico “Bernardino Telesio” di Co-senza, è stato proprio questo: invogliare lo spettatore a ri-flettere, tramite l’osservazione dei fatti mitici, individual-mente sulla propria condizione personale e, più in genera-le, sulle problematiche della realtà contingente. Diversisono gli spunti che può offrire la visione di Saffo in pro-cinto di gettarsi dalla rupe, forse per raggiungere l’amatoFaone, oppure l’immagine degli strazianti cadaveri di An-tigone ed Emone, uniti anche nella morte, o ancora i con-torni imprecisati e sfuggenti delle figure di rapide e indo-mabili amazzoni, simboli di impeto incontrollato, quasiideali anticipatrici dell’emancipazione femminile. La mo-stra, dunque, ha inteso coinvolgere il pubblico attraversouna subitanea immersione nel mondo della mitologiaclassica, mediante le forme e i colori nati dal pennello di

alcuni fra i più noti artisti calabresi contemporanei (Stefa-no Bottino, Raffaele Crovara, Luigia Granata, MimmoLegato, Diego Minuti, Francesco Minuti, Annamaria Mi-rabelli, Assunta Mollo, Mario Montalto, Massimo Nim-po, Rosellina Prete, Massimo Ruffolo, Aldo Toscano) chehanno utilizzato i personaggi mitici come metafore di sen-timenti, comportamenti, azioni del prototipo della figuraumana. A ciascuno, osservando i loro quadri, è stato pos-sibile rivedersi, immedesimarsi nella vicenda di qualcunodi quei personaggi, rivivere le loro storie, percorrendo lesinuose linee pittoriche e immergendosi totalmente all’in-terno delle molteplici tonalità cromatiche proposte dagliartisti. Lo spettatore ha avuto modo di perdersi nellosguardo affascinante ed enigmatico di Narciso, è stato col-pito dalla decisa alterigia del cipiglio di Penelope, è statorapito dall’espressione di mesta consapevolezza della fiera

e fragile Cassandra. Ad ogni mo-do, la mostra, oltre ad offrire unpiacevole intrattenimento agli oc-chi degli spettatori, non ha trala-sciato un preciso intento didasca-lico-educativo, rivolto in partico-lar modo al senso critico dei piùgiovani: il mito è esempio e, inquanto tale, invita ad una socrati-ca conoscenza di se stessi, delmondo e della società. Attraversoquesti quadri, anche un giovanespettatore inesperto è stato in gra-do di comprendere il senso e lamorale della storia raccontata dal-le immagini, quasi come se fosse ilpersonaggio stesso a comunicare lapropria paradigmatica esperienza.Peraltro, l’accostamento dei colo-ri, la regolazione della luminositàcromatica, l’impostazione pittori-ca e tutte le tecniche dell’arte figu-rativa, sapientemente utilizzatedagli artisti, con il loro inevitabileforte impatto emotivo, hanno po-tuto colpire con immediatezza l’a-nimo di chi guarda, così da tra-

sportarlo all’interno della vicenda narrata dall’immagine,per suscitare in lui emozioni e sensazioni certamente indi-menticabili.

Infine, l’iter culturale attraverso i meandri sconfinatidella materia mitica si è concluso con un suggestivo ed in-teressante convegno, dal titolo L’essenza immortale del mi-to nella realtà contemporanea, tenutosi sempre presso il Li-ceo Classico “B. Telesio” e fortemente voluto dal Dirigen-te scolastico, Ing. Antonio Iaconianni dopo aver accoltofavorevolmente l’idea e la proposta della Prof.ssa DanielaFilice.

L’evento è stato presentato dal Prof. Flavio Nimpo edha coinvolto, in qualità di relatori, gli alunni della classeII D, Fulvio Calderaro e Tommaso Greco, gli ex alunniMatteo Leta, Piergiuseppe Pandolfo, il Dott. Nicola Po-steraro, i quali, con brillante maestria, hanno ripercorsotappe significative della mitologia greca, offrendo inter-pretazioni personali e accattivanti spunti di riflessione.

Il mito come mezzo di trasmissione di emozioni e valori eticidi Maria Lucia GALLO

Alunna della classe III A Liceo Classico “B.Telesio” di Cosenza

Saluti del Dirigente Scolastico Ing. Antonio Iaconianni

Interventi

Matteo Leta: Da Pindaro alla Madonna: la duplicità del mito(ex-alunno telesiano)

Tommaso Greco: Proteo e la paura di cambiare: la metamorfosi e l’isolamen-to dell’uomo moderno(alunno della classe II D)

Fulvio Calderaro: Antigone e le leggi “non scritte”: «Non per odiare, ma peramare nacqui» (Sofocle, Antigone, 523)(alunno della classe IID)

Piergiuseppe Pandolfo: Tereo, Procne e Filomela: un’interpretazione allegori-ca(ex-alunno telesiano)

Dott. Nicola Posteraro: Il Mito della bellezza tra classicismo ed estremizzazio-ne: dalla bellezza di Afrodite alla chirurgia estetica. Quando l’estetica diventaun diritto…(ex-alunno telesiano)

Coordina il Prof. Flavio Nimpo

Liceo Classico “B. Telesio” - Piazza XV Marzo - CosenzaVenerdì 3 Maggio 2013 ore 17:30

IIll LLiicceeoo CCllaassssiiccoo ““BBeerrnnaarrddiinnoo TTeelleessiioo””presenta

nella suggestiva cornice della mostra pittorica Perle Classiche

L’essenza immortale del mito nella realtà contemporanea

Page 38: RIVISTA CULTURALE QUADRIMESTRALE - sfogliami.it N. 01.pdf · 1 Intervista di Fabio Fazio a Roberto Calasso nel corso del programma Che tempo che fa, Novembre 2009. 2 Calasso R., Le

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Confluenze RIVISTA CULTURALE QUADRIMESTRALE

Un’antica normannadi FLAVIO NIMPO

Svettava austero e maestoso sul Pancrazio, il collepiù alto dell’antica Consentia, dal quale aveva assi-stito al passaggio di uomini ed epoche: Saraceni,

Normanni, Svevi.Era il castello, che il terremoto dell’anno del Signore

millecentottantaquattro aveva raso al suolo ed era statoricostruito per volontà dell’imperatore Federico II, in-torno all’anno milleduecentoquaranta, mostrando un as-setto architettonico tipicamente svevo soprattutto per ledue torri aggiunte lungo il lato meridionale. Erano, or-mai, scomparse le tracce della sua struttura saraceno-normanna, anche se, all’interno, la presenza dei vari sti-li si coglieva nelle sale e nel cortile, nei quali le vestigiadel passato erano incastonate in particolari archi, volte,pilastri.

Dalla sua motta, spianata e rimodellata nel lontanoVI secolo a. C. dai Brettii, il Castello dominava il centroabitato e la vallata, regalando dal suo interno una vedu-ta panoramica incantevole: la vita lungo il corso del Cra-ti e del Busento, i monti della Sila, i vari casali.

Sotto il cielo azzurro ed il baluginio dorato dei raggidel sole la poderosa costruzione normanno-sveva incute-va un timore reverenziale e pareva circondata da un alo-ne di mistero e leggenda.

Nell’apparente silenzio, che lo contornava, il manie-ro con tono grave e solenne raccontava la sua storia di se-coli, i suoi segreti, il suo ruolo nel territorio circostante.

Costanza, nobildonna appartenente ad un’antica fa-miglia di origine normanna, contemplava con i suoi oc-chi celesti l’opera architettonica, che si ergeva davanti alei, e non si stancava mai di avvolgerla nel suo sguardo,quasi a voler custodire per sempre nel suo cuore quel-l’immagine.

Da tanti anni l’anziana signora, incurante del suorango e dei pericoli, rifiutava la scorta armata delle suefedeli guardie e la compagnia delle ancelle, per dedicarele ore del primo pomeriggio al momento sacro dei ricor-di rivissuti durante la lunga passeggiata, che aveva duemete fisse: il Duomo ed il Castello.

Sebbene avanti negli anni, la donna aveva un passosicuro e spedito grazie al quale riusciva a percorrere illungo tragitto senza affanno. Prima di arrivare alla som-mità del Pancrazio, ella sentiva la voce della sua fede, chela induceva a salutare Nostro Signore nella Sua Casa, laCattedrale, edificata nel centro storico ed inaugurata iltrenta Gennaio milleduecentoventidue dallo stesso im-peratore, il quale aveva donato a quel luogo sacro unapreziosa Stauroteca.

Il cuore di Costanza ritrovava una grande pace, quan-do ella faceva ingresso nel Duomo. Il profumo d’incen-so, di cera e di fiori, nel silenzio mistico e nel riflesso do-rato della luce del sole, che filtrava dall’esterno ed illumi-nava la navata, riusciva ad infondere serenità nello spiri-to inquieto della distinta signora.

Per qualche minuto ella si raccoglieva in preghiera,poi accendeva delle candele, si beava della loro fiammel-la ed, infine, usciva a malincuore, per riprendere il suocammino fino al Castello.

La salita non la preoccupava, poiché, durante il tra-gitto, il passo cadenzato e tranquillo non l’affaticava e lasua mente era tutta rivolta alle immagini del suo passa-to, mentre gli occhi si riempivano della bellezza del pae-saggio e dei suoi diversi colori, secondo il ciclo delle sta-gioni.

Quando era in prossimità del maniero, Costanza si se-deva all’ombra di un albero frondoso e profumato, un ti-glio altissimo alle cui pendici c’era un pezzo di pietra ditufo, modellata dagli agenti atmosferici a tal punto da averassunto la foggia di un rudimentale sedile o sgabello.

Seduta su quel dono di Natura, l’anziana signora ri-volgeva lo sguardo verso la possente costruzione che do-minava la vallata. Il viso della donna mostrava i segni deltempo, ma era luminoso e vitale; le rughe, anziché appe-santirlo, lo rendevano più espressivo e nobile. Gli occhicerulei ed i capelli nivei, nella loro lucentezza, lasciavanointuire il biondo colore della giovinezza: tutto in lei, dalportamento ad ogni particolare somatico, rimandava al-la fierezza ed alla bellezza normanna.

Nella quiete del pomeriggio Costanza amava lasciar-si cullare dal soffio del vento, che carezzava o agitava lefronde del tiglio, provocando lo stormire delle foglie e,nel periodo della fioritura, lo spargimento del polline edei petali dei piccoli fiori capaci di diffondere una deli-cata fragranza, pronta a suscitare emozioni, ad evocare, asuggestionare il sensibile cuore della signora dai capellid’argento, che la gente del luogo chiamava la dolce nor-manna per il suo animo buono e malinconico, dedito al-la carità.

Allora le capitava spesso di chiudere gli occhi, di in-spirare profondamente e di espirare lentamente, lascian-dosi andare come se dovesse librarsi in volo da un mo-mento all’altro. Erano istanti indimenticabili, in cui ellasperava di alleggerire il peso del suo fardello interiore:una pena sorda ed insopprimibile, che non l’abbandona-va mai.

Quando riapriva gli occhi, le ricompariva davanti ilpossente maniero ed il cumulo dei ricordi ritornava, ab-battendosi su di lei come una cascata di pietre.

Tancredi era scomparso, ormai, da circa quarant’an-ni, ma niente era cambiato per lei, anche se tutto, inrealtà, da quel giorno si era modificato irrimediabilmen-te. Il fiero normanno, che aveva conquistato il suo cuo-re, aveva sacrificato il suo, trafitto da una freccia, per sot-trarla alle ragioni di casta e di stato. Era sbocciato unamore intenso ma breve come fiamma destinata ad estin-guersi rapidamente. Costanza l’aveva conosciuto in occa-sione di una cerimonia solenne celebrata in Cattedrale. Iloro occhi celesti erano sprofondati nei reciproci sguardiintensi, suscitando in quegli animi nobili e puri brividi esbigottimento del cuore.

Le era stato presentato come comandante del contin-gente militare scelto per la difesa del castello e la giova-ne Costanza era rimasta molto impressionata da quel-l’incontro con quell’uomo che l’aveva indotta, suo mal-grado, a provare una fitta di nostalgia per le sue originie per la terra dei suoi avi.

Entrambi, seppur a livello inconscio, avevano avver-tito con un certo turbamento il preludio di incogniteinevitabili.

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A distanza di tanti anni Costanza riprovò nel suo in-timo quello strano sentore…e sospirò.

Per alcuni istanti la vista delle torri la distolse dai suoipensieri: due si presentavano a pianta quadrata, le altredue più recenti a pianta ottagonale secondo le caratteri-stiche di molte costruzioni volute da Federico II.

Il simbolismo numerico, di derivazione mistica, si eramolto diffuso, in effetti, a quel tempo, suggestionandol’imperatore. Così il numero otto, legato all’idea di Eter-nità, aveva preso forma nei poligoni regolari di otto latidelle torri, la cui costruzione aveva previsto la presenzadi feritoie orientate in modo che il sole e la luna vi po-tessero far arrivare i loro raggi.

Lo spettacolo architettonico, che si ergeva davantiagli occhi ammirati della nobildonna, instillò nel suoanimo il desiderio di raggiungere quelle sommità e, da lì,l’infinito…

Una folata di vento la riscosse, facendola ritornare insé, e l’anziana donna non poté impedire all’onda dei ri-cordi d’infrangersi nuovamente sul suo petto.

I suoi occhi velati di lacrime fissarono l’ampio ingres-so del castello: proprio lì davanti si era consumata la tra-gedia che le aveva sottratto il suo amato.

Il fiero Tancredi aveva risposto alla sfida dell’arrogan-te Ruggiero, il pretendente, a cui Costanza si era oppo-sta, ferma e risoluta, contravvenendo alla volontà del-l’imperatore e della famiglia.

La sua reputazione era stata oltraggiata dal promessosposo ed il nobile normanno aveva inteso difenderla acosto della vita. E così fu…

Da quel giorno la giovane donna aveva vissuto comese corpo e spirito fossero stati separati da una frattura ir-reparabile e gli anni erano trascorsi, uno dopo l’altro, alpari di pallide ombre o di foglie che si staccano dal ra-mo, per adagiarsi sul manto erboso ingiallito.

Nella terra, bagnata dal sangue del suo amato, Co-stanza aveva deposto semi di rosa canina, i quali, attec-chiti e germogliati, erano diventati piante rampicantiodorose, che s’inerpicavano lungo le pareti esterne delmaniero, chiazzandolo di verde e di rosa.

La stagione propizia, ogni anno, le regalava uno spet-tacolo floreale, che inevitabilmente le stringeva il cuore,mentre le immagini del passato, miste al profumo delle

rose e del tiglio, sotto cui ella sedeva, le annebbiavano lamente e le velavano gli occhi lucenti di lacrime.

Da quel momento fatale i suoi giorni avevano rappre-sentato un continuo ritorno al passato, l’incessante dipa-narsi del filo dei ricordi al quale s’intrecciava quello so-gnante della visione di sé stessa accanto al suo Tancredi.La speranza di quell’unione era stata loro strappata ed aCostanza era rimasto soltanto un sentiero erto e solitarioche percorreva, da allora, come viandante smarrita, con-fusa, senza meta e provvista solamente della fede in Dio,a cui si aggrappava con tutte le sue forze, per poter arri-vare alla fine dei suoi giorni, sperando in una vita ultra-terrena di luce e serenità da condividere con i suoi caritra cui il suo amato, che immaginava avvolto in un’auradorata e sorridente con le braccia protese verso di lei, peraccoglierla ed abbracciarla.

Questo resta all’uomo di ogni tempo: Speranza edAmore…

Costanza sospirò, i suoi occhi si rivolsero al cielo e siaccorse che il sole volgeva al tramonto: era ora di rientra-re. A malincuore si alzò, poggiò la mano sul tronco deltiglio, come se volesse trarre dalla corteccia la forza perstaccarsi da quel luogo.

Rivolse un altro sguardo al possente maniero svevo-normanno tinteggiato dai riflessi purpurei del sole. Leimmagini del passato si dileguarono come nebbia al solee si racchiusero nel suo cuore.

La nobildonna si avviò, lasciandosi alle spalle la mae-stosa costruzione, che avrebbe continuato, nei secoli, aperpetuare la storia di uomini e genti dal colle Pancrazio,mostrandosi altero e solitario per tutta la vallata tinta delverde degli alberi e dell’azzurro cangiante del Crati e delBusento.

Della rosa canina e del tiglio di Costanza oggi non re-sta traccia, a differenza delle torri, che, nel tentativo diresistere al tempo ed alla precarietà delle cose, hanno la-sciato testimonianza del loro passaggio. Del loro anticosplendore, infatti, si rende vessillo una torre angolare re-sidua a pianta ottagonale, che col suo simbolico numerodi otto lati, legato al concetto di Eternità, pare quasi ri-mandare ad un messaggio di vita perenne per l’uomo: lostesso a cui anelò lo spirito della nobile e fiera Costanza,l’antica normanna del tempo che fu…

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ANNO I - N. 1Gennaio/Aprile 2013

DIRETTORE EDITORIALE

Cristina CAPUTO

DIRETTORE RESPONSABILE

Fabrizio PERRI

COMITATO SCIENTIFICO

Ezio ARCURIGiacomo GUGLIELMELLI

Divina LAPPANOFlavio NIMPO

Vincenzo RIZZUTO

ISSN 2282-5177

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