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Running as a challenger? Gli spot elettorali televisivi e la seconda campagna presidenziale di Barack Obama Marco Morini (Università degli Studi di Padova) VERSIONE PROVVISORIA Come Bill Clinton e George W. Bush, anche Barack Obama ha conquistato un secondo mandato presidenziale. L’impresa è stata a suo modo storica: non accadeva dal 1820 che tre presidenti consecutivi fossero rieletti. Ma né Clinton né Bush jr. erano riusciti a vincere entrambe le elezioni con più del 50% del voto popolare. Tuttavia, Obama passerà alla storia come l’unico presidente americano, dopo Woodrow Wilson nel 1916, a essere stato rieletto con un numero di voti popolari e di grandi elettori inferiore a quelli ottenuti nel primo successo elettorale. Obama è anche l’unico senatore eletto presidente ad aver centrato la rielezione. Prima di lui anche Warren Harding e John Kennedy furono eletti presidenti, ma entrambi morirono durante il loro primo mandato. Sebbene Obama abbia realizzato numerosi spot “positivi”, atti a evidenziare i successi dei suoi primi quattro anni di presidenza, la campagna democratica del 2012 è stata caratterizzata da una massiccia produzione di spot di propaganda negativa, una tattica che solitamente è adottata dagli sfidanti e non dai presidenti uscenti. Il suo messaggio più ricorrente è stato infatti quello di descrivere l’avversario repubblicano Mitt Romney come uno spietato multimilionario le cui politiche avrebbero favorito i ricchi a scapito della classe media. L’ipotesi di questa ricerca è che gli spot elettorali del rieletto presidente rivelino forti analogie con quelli realizzati per la campagna del 2008 e che in entrambi i casi Obama abbia voluto proporsi come “sfidante”, con un imponente utilizzo del negative campaigning. 1. Lo spot elettorale nella politica americana. La definizione di spot elettorale è un concetto in costante evoluzione. Nel 1981, Kaid (2004) sostenne che la propaganda politica televisiva è “quel processo comunicativo attraverso il quale una fonte (un candidato o un partito) acquista l’opportunità di esporre spettatori a messaggi politici con l’idea di influenzarne le attitudini, le credenze e i comportamenti politici”. Tuttavia questa è una definizione che non sarebbe possibile applicare ad altri paesi occidentali per via di una diversa regolamentazione delle comunicazioni a carattere elettorale. Nel Regno Unito e in Italia, ad esempio, non è possibile per i candidati e i partiti acquistare liberamente spazi pubblicitari televisivi. In questo caso la legge assegna loro spazi gratuiti circoscritti. Un regolamento di questo tipo implica poi la possibilità di forme diverse da quelle dei canonici spot di 30 o 60 secondi, indebolendo quindi la definizione precedente. Inoltre la proliferazione di gruppi indipendenti o pseudo-indipendenti che producono i propri spot porta alla necessità di un’ulteriore ridefinizione del tema in oggetto. Perciò la definizione al momento più condivisa è quella per cui uno spot elettorale

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Running as a challenger? Gli spot elettorali televisivi e la seconda campagna presidenziale di Barack Obama Marco Morini (Università degli Studi di Padova)

VERSIONE PROVVISORIA

Come Bill Clinton e George W. Bush, anche Barack Obama ha conquistato un secondo mandato presidenziale. L’impresa è stata a suo modo storica: non accadeva dal 1820 che tre presidenti consecutivi fossero rieletti. Ma né Clinton né Bush jr. erano riusciti a vincere entrambe le elezioni con più del 50% del voto popolare. Tuttavia, Obama passerà alla storia come l’unico presidente americano, dopo Woodrow Wilson nel 1916, a essere stato rieletto con un numero di voti popolari e di grandi elettori inferiore a quelli ottenuti nel primo successo elettorale. Obama è anche l’unico senatore eletto presidente ad aver centrato la rielezione. Prima di lui anche Warren Harding e John Kennedy furono eletti presidenti, ma entrambi morirono durante il loro primo mandato. Sebbene Obama abbia realizzato numerosi spot “positivi”, atti a evidenziare i successi dei suoi primi quattro anni di presidenza, la campagna democratica del 2012 è stata caratterizzata da una massiccia produzione di spot di propaganda negativa, una tattica che solitamente è adottata dagli sfidanti e non dai presidenti uscenti. Il suo messaggio più ricorrente è stato infatti quello di descrivere l’avversario repubblicano Mitt Romney come uno spietato multimilionario le cui politiche avrebbero favorito i ricchi a scapito della classe media. L’ipotesi di questa ricerca è che gli spot elettorali del rieletto presidente rivelino forti analogie con quelli realizzati per la campagna del 2008 e che in entrambi i casi Obama abbia voluto proporsi come “sfidante”, con un imponente utilizzo del negative campaigning.

1. Lo spot elettorale nella politica americana.

La definizione di spot elettorale è un concetto in costante evoluzione. Nel 1981, Kaid (2004)

sostenne che la propaganda politica televisiva è “quel processo comunicativo attraverso il quale una

fonte (un candidato o un partito) acquista l’opportunità di esporre spettatori a messaggi politici con

l’idea di influenzarne le attitudini, le credenze e i comportamenti politici”. Tuttavia questa è una

definizione che non sarebbe possibile applicare ad altri paesi occidentali per via di una diversa

regolamentazione delle comunicazioni a carattere elettorale. Nel Regno Unito e in Italia, ad

esempio, non è possibile per i candidati e i partiti acquistare liberamente spazi pubblicitari

televisivi. In questo caso la legge assegna loro spazi gratuiti circoscritti. Un regolamento di questo

tipo implica poi la possibilità di forme diverse da quelle dei canonici spot di 30 o 60 secondi,

indebolendo quindi la definizione precedente. Inoltre la proliferazione di gruppi indipendenti o

pseudo-indipendenti che producono i propri spot porta alla necessità di un’ulteriore ridefinizione del

tema in oggetto. Perciò la definizione al momento più condivisa è quella per cui uno spot elettorale

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è un messaggio politico il cui stile e contenuto sia sotto il totale controllo del suo produttore e che

sia trasmesso attraverso l’utilizzo di un mezzo di comunicazione di massa (Kaid, 2004, p. 156).

E’ evidente come anche gli spot elettorali via internet rientrino in questa definizione: i video

possono essere visti da milioni di persone, lo sponsor ha il controllo sul contenuto del messaggio e

talvolta pure il controllo del contesto in cui è trasmesso (può essere il suo sito personale o altri siti

che lui decide di scegliere). E’ importante poi enfatizzare come la definizione di Kaid non dia

alcuna specifica istruzione sul formato e la lunghezza del messaggio. Finchè il committente

mantiene il controllo del contenuto del messaggio, esso va considerato spot elettorale, senza

distinzioni di mezzo (stampa, audio-video o digitale) o lunghezza.

Negli Stati Uniti gli spot elettorali non devono sottostare ad alcuna regolazione specifica.

Questo aspetto, che spesso sorprende numerosi osservatori, è in realtà una delle spiegazioni al

grande utilizzo che di essi si fa. Sebbene varie rilevazioni abbiano evidenziato come molti

americani credano che vi siano autorità preposte al controllo dell’autenticità dei contenuti degli spot

(Iab, 2006), essi possono invece veicolare qualsiasi tipo di messaggio, anche il più calunnioso. Non

esiste alcuna regolazione a livello federale, per il timore di confliggere con il primo emendamento

costituzionale che garantisce la libertà di espressione. Nel corso degli anni, in sede congressuale,

sono stati discussi vari tentativi di regolamentazione in materia, ma nessuno è mai arrivato a

compimento. Esistono però alcuni singoli stati che hanno legiferato sulla questione. In Ohio, ad

esempio, dalla metà degli anni ottanta è in vigore un dettagliato codice che punisce le false

dichiarazioni e i falsi endorsement in campagna elettorale (Johnson e Kaye, 2004). Tuttavia, stante

anche la difficoltà di accertare il contenuto informativo dei messaggi e l’ambiguità a livello legale

di distinguere tra ciò che viene presentato come “fatto” e quelle che possono essere “legittime

opinioni”, la Corte Suprema, nella sentenza Gertz vs Robert Welch Inc. del 1974, ribadì l’assoluta

libertà di espressione.

Gli spot televisivi, nelle campagne elettorali americane, sono il principale strumento di

comunicazione tra i candidati e gli elettori (Kaid e Johnston, 2001). Non appena il mezzo televisivo

si è diffuso in tutto il Paese, la politica si è accorta della sua potenza e della possibilità di

raggiungere, anche nelle più remote aree d’America, ogni elettore all’interno della propria

abitazione. Riesce difficile ora immaginare gli aspiranti presidenti battersi per la poltrona più

ambita, in un Paese così esteso, unicamente attraverso comizi, pagine sui giornali e messaggi radio.

Ma fu così fino all’immediato secondo dopoguerra e il primo a utilizzare gli spot fu Dwight

Eisenhower nella campagna presidenziale del 1952, su suggerimento del suo consigliere Rosser

Reeves che notò come essi fossero “brevi, sul punto e difficili da evitare”, soprattutto se paragonati

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ad altre forme di comunicazione politica come la pubblicazione di libri sul candidato e i comizi

pubblici. (Atkin, Bowen, Nayman e Sheinkopf, 1973, p. 209).

La televisione offriva ai candidati un modo efficiente per raggiungere i propri sostenitori, gli

indecisi e gli elettori della parte avversa. Sin dalla campagna del 1952, gli spot televisivi a

contenuto politico sono cresciuti di numero e di sofisticatezza a ogni tornata elettorale, di pari passo

con il costo complessivo delle campagne stesse, di cui rappresentano la più significativa voce di

spesa. Nel corso degli anni si è poi imposto il formato standard di 30 secondi, mentre non era raro

nelle prime elezioni del dopoguerra imbattersi in contenuti molto più lunghi, anche di 30 minuti

(Papper, Holmes e Popovich, 2006).

2. La teoria. Approccio funzionale e spot positivi.

Gli spot elettorali sono usati dalla comunicazione politica per una varietà di ragioni,

semplici e complesse. Da un lato i candidati meno noti utilizzano gli spot televisivi per farsi

conoscere presso l’elettorato. West (1994), ad esempio, sostiene che gli spot televisivi abbiano

un’influenza sul grado di notorietà del candidato superiore alle news televisive o ai giornali.

Dall’altro lato, i candidati più famosi ricorrono ai messaggi commerciali per informare il proprio

elettorato su specifiche tematiche, per esprimere le proprie qualità personali, per enfatizzare la

propria vicinanza a determinati gruppi elettorali, attaccare i propri avversari o difendersi e replicare

e infine stimolare donazioni, volontari e creare entusiasmo attorno alla propria campagna.

(Martinelli e Chaffee, 1995). Sono molti i ricercatori che sostengono come gli spot elettorali siano,

per gli elettori, la fonte principale d’informazione sui candidati (Atkin e Heald, 1976).

Coloro che producono gli spot raggiungono i propri scopi informativi e persuasivi attraverso

un accurato lavoro di realizzazione dello spot stesso. Kaid e Johnston (2001) spiegano come nulla

sia lasciato al caso durante la creazione di questi video e come ogni aspetto, verbale o non verbale,

sia minuziosamente selezionato onde costruire quella “realtà” che serve alla definizione stessa del

candidato. Per essere efficaci, i contenuti dello spot devono intercettare gli istinti degli spettatori,

attivare le credenze primitive, l’identificazione partitica, le esperienze di vita e ogni stimolazione

ideologica che possa influenzare il processo di scelta elettorale. Alcuni studiosi arrivano perfino ad

avanzare un’ipotesi di priming1 al riguardo (West, 2005).

L’approccio funzionale è indicato per investigare i messaggi di tipo politico poiché essi

rispondono ad un unico fine: quello di vincere le elezioni. Per questo le campagne elettorali sono

1 Si ha un fenomeno di priming quando uno stimolo precedente influenza la risposta ad uno stimolo successivo, anche se non vi è una correlazione diretta tra i due stimoli. Il priming sfrutta il meccanismo automatico, non ragionato, dell'attivazione degli schemi mentali: lo stimolo sensoriale (parola, suono, immagine, odore).

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strumentali (funzionali) per natura. Certo, esisteranno sempre candidature di bandiera, di

testimonianza o mosse dalla semplice volontà di far conoscere determinate ragioni. Ma le campagne

minimamente rilevanti sono tutte finalizzate alla vittoria, parziale o finale che sia.

Il primo assioma della teoria funzionalista è il seguente: “Il voto è un atto comparativo e gli

elettori si trovano di fronte a una scelta semplice, a una domanda ovvia: a chi dovrei dare il voto?”

(Benoit, 2003). Si tratta quindi di una decisione tra due o più candidati (o partiti) e sottintende un

giudizio comparativo. In sostanza la scelta dell’elettore è quale candidato appaia preferibile all’altro

o agli altri, sulla base di ciò che è più importante per l’elettore stesso. La parola “appaia” è usata per

sottolineare come la preferenza sia una percezione individuale del votante che si forma attorno a

molteplici fattori.

Non è certo fuor di logica pensare come elettori di uno stesso candidato possano aver

formato la propria opinione sulla base di ragionamenti molto distanti tra loro. Chi per ideologia, chi

per simpatia personale verso quel candidato, chi per interesse, chi perché convinto da determinate

linee programmatiche. Sono infinite le ragioni che stanno alla base del comportamento elettorale del

votante. Esse poi si possono compiere anche in condizioni di precaria o nulla informazione (Lupia e

McCubbins, 1998). Ma dal punto di vista dell’obiettivo del candidato, essere eletto, questo

comporta un’unica strategia: persuadere un numero sufficiente di elettori che egli/ella sia il miglior

candidato in corsa. Inoltre, l’idea che il voto sia una scelta tra candidati in competizione tra loro è

diventata ancor più importante a causa del contemporaneo declino dell’influenza dei partiti

(Wattenberg, 1998). Nelle elezioni dell’immediato secondo dopoguerra, ad esempio, il candidato

veniva solitamente scelto alla convention finale, le primarie si svolgevano solo in numero limitato

di stati e poteva perfino capitare che i notabili di partito scegliessero un candidato uscito sconfitto

dalla competizione intrapartitica.2 (Patterson, 1993). Dagli anni novanta, le primarie si tengono in

tutti gli stati, oltre che a Portorico e nel distretto di Columbia, e sono minuziosamente

regolamentate da un preciso calendario. La loro crescente rilevanza ha quindi gradualmente

cambiato la politica americana, dando sempre maggior importanza ai candidati e ai loro consulenti

politici.

Il secondo principio della teoria funzionalista suona così: “ogni candidato deve sapersi

distinguere dagli altri”. Assodato che il voto è un atto comparativo, appare logicamente conseguente

che i candidati debbano differenziarsi l’uno dall’altro. Semplicemente perché altrimenti gli elettori

non sarebbero in grado di compiere una scelta. E’ evidente quindi come i candidati debbano

2 Il riferimento in questo caso è alla campagna democratica del 1952. Estes Kefauver, senatore del Tennesse vinse dodici primarie, perdendo in soli tre stati da candidati nati o eletti nello stato. Si presentò alla convention forte di oltre tre milioni di voti. Tuttavia, il partito scelse il governatore dell’Illinois Adlai Stevenson che nella sua corsa aveva conquistato la miseria di 78000 voti.

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sviluppare una campagna elettorale tesa a mostrare le proprie caratteristiche distintive. A titolo

esemplificativo si veda la classica strategia del proporsi come “candidato che unisce”, che vedremo

utilizzata con successo da Barack Obama nel 2008, così come da George W. Bush nella campagna

del 2000: “I’ve..been called a uniter not a divider..” (Sono una figura che unisce, non un uomo che

divide). Lo stesso Obama, specie durante la serrata lotta con Hillary Clinton per assicurarsi la

nomination democratica nel 2008, ha più volte fatto appello al suo “dire sempre la verità agli

elettori”, frase che suona identica a quel “I will always tell the truth” dichiarato da John McCain

nella sua sfortunata campagna del 2000. Ma anche qui sono molte le possibili tattiche, dal

sottolineare il proprio bagaglio esperienziale al condurre una campagna fondata sui valori, ad

evidenziare un passato che magari nulla ha a che fare con la politica attiva, fino a puntare su un

forte piano programmatico.

Come hanno evidenziato alcuni politologi (Benoit 1999; Patterson, 1993) non è sulle issues

che i candidati tendono a differenziarsi, anzi, in questo caso, essi mostrano un’inclinazione

all’omologazione, nell’intento di cercar di intercettare gli umori dell’opinione pubblica.

Riprendendo parte dell’elaborazione concettuale della teoria economica della democrazia di Downs

(1957) si può affermare che “molti modelli spaziali dimostrano come l’orientamento dell’opinione

pubblica su certe issues abbia un’importante influenza sulle posizioni che i candidati assumono”.

Nell’analisi proposta da Benoit, si fa un confronto tra due candidati apparentemente opposti tra loro,

Nixon e Humphrey, avversari alle presidenziali del 1968, concludendo tuttavia come su molte

questioni avessero la stessa posizione. Questo perché, ed è un punto implicito, in campagne

elettorali fortemente incentrate sul candidato è spesso necessario “nascondere” i reali piani

programmatici che si ha intenzione di adottare. Sarebbe ovunque suicida, per un candidato, proporre

aumenti delle tasse, seppur giustificati. Così come, nel caso americano, battersi contro il secondo

emendamento, cioè quello di poter possedere armi liberamente. Essendoci un’ampia maggioranza a

sostegno della difesa di questo diritto, appare naturale come perfino un candidato dal profilo

apparentemente liberal come Barack Obama abbia realizzato spot televisivi a sostegno del diritto di

possesso di armi e della difesa personale (sia nel 2008 che nel 2012). La differenziazione maggiore

si ha quindi sulle qualità personali e sulle caratteristiche biografiche del candidato. Secondo

Kamber (1997) è infatti “indispensabile per un candidato instaurare un legame empatetico diretto

con gli elettori, da costruirsi facendosi percepire come simile a loro per abitudini, comportamenti e

caratteristiche morali”.

Il terzo pilastro della teoria funzionalista del discorso politico è che gli spot televisivi sono

lo strumento ideale per permettere la distinzione tra i candidati. Sebbene i cittadini possano

informarsi sui candidati attraverso i normali canali d’informazione, giornali, telegiornali, notiziari

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radio o il web, non è detto che essi siano lo strumento ideale per formarsi un’opinione. Soprattutto

ci si chiede se l’informazione ”neutra” sia il mezzo ideale per conoscere le posizioni

programmatiche dei candidati. Sul punto infatti gli studiosi sono divisi. Patterson e McLure (1976),

nelle loro rilevazioni sulla campagna del 1972 affermano come “le persone più esposte agli spot

elettorali televisivi sono più informate sulle singole posizioni dei candidati sulle varie issues a

dispetto di coloro che hanno visto pochi spot e si informano prevalentemente tramite le news

tradizionali”. D’altro canto, Capizs (2006) sostiene come la maggioranza delle informazioni di

contenuto politico riportate dagli organi d’informazione siano prevalentemente parziali e talvolta

perfino distorsive e che quindi ciò possa confondere o male indirizzare il votante. Quel che è certo è

che i newsmedia rappresentano strumenti mediati e fuori dal controllo del contenuto da parte del

candidato. Gli spot elettorali sono l’unica opzione nella totale disponibilità del candidato. A questo

proposito Benoit (2003) aggiunge come anche i dibattiti presidenziali siano una buona possibilità

per differenziarsi dagli altri candidati, ma vi siano talmente tante variabili in gioco, che in realtà non

si sia mai in pieno controllo degli effetti possibili e che spesso essi rilascino ambiguità di fondo,

talora controproducenti.

Come abbiamo anticipato in precedenza, la necessità della distinzione si incrocia con il

dover distinguersi in senso positivo. Per citare un esempio già proposto, il candidato che si

dichiarasse favorevole a raddoppiare le tasse per tutti i cittadini, sicuramente si distinguerebbe dagli

altri, ma andrebbe incontro a sconfitta elettorale certa. Occorre quindi distinguersi in una maniera

che venga positivamente percepita dall’elettorato. Popkin (1994) spiega come sin dall’inizio della

campagna, i candidati si ritrovino ad avere gran parte degli elettori già posizionati su sponde

opposte, con ognuno di essi convinto che il “pacchetto” offerto dallo schieramento avversario sia

meno desiderabile di quello proposto dal proprio. Oltre a questi vi è una porzione di votanti

registrata come indipendente ed una quota di non partecipanti al voto che negli Stati Uniti si

mantiene costantemente superiore ad un terzo dell’intero elettorato.

Può sembrare banale ma va tenuto conto di come un candidato non abbia la necessità di

persuadere ogni elettore, ma quella di cercare di raggiungere il traguardo della maggioranza-più-

uno dei grandi elettori. Questo è importante perché alcune posizioni politiche risultano come

naturalmente dicotomiche, attraendo elettori ma respingendone altri. Questo accresce la lotta

politica, ma riduce il guadagno netto in termini di voti, compattando schieramenti preesistenti.

Nell’infuocata campagna del 2000, ad esempio, Bush e Gore presero posizioni esattamente opposte

sul tema dei voucher alle scuole private. Bush li sosteneva, mentre il candidato democratico li

avversava. In questo caso essi quindi polarizzarono l’elettorato sensibile all’argomento, ottenendo

tuttavia una vantaggio netto di voti assai marginale. Inoltre, il caratteristico sistema del collegio

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elettorale3 indirizza quasi sempre i candidati a concentrare la propria campagna e quindi i propri

messaggi solo negli gli stati contendibili, tralasciando quelli che vengono considerati già assegnati

in partenza. Si tratta di una strategia che permette di risparmiare tempo e denaro e che vale anche

per le primarie dei due partiti.

Nel 1960, Richard Nixon decise di fare campagna in ogni stato e perse le elezioni, un errore

che non replicò nella vincente campagna di otto anni dopo. Le campagne degli ultimi venti anni si

sono tutte concentrate unicamente sugli stati contendibili, i cosiddetti battleground states: Bill

Clinton nel 1992 impiegò tutte le sue risorse in soli nove stati in bilico; Bush e Gore nel 2000 si

affrontarono in 23 stati considerati contendibili; Bush e Kerry nel 2004 fecero campagna in 18 stati.

Barack Obama, nella campagna 2008, grazie all’enorme budget a disposizione è riuscito a

raggiungere tutti gli stati, magari anche solo con uno o due spot televisivi mirati. McCain, invece,

che poteva contare solo sui fondi federali, ha scelto di concentrarsi su 19 stati giudicati contendibili.

E’ evidente quindi come sia di fondamentale importanza la scelta dei territori nei quali essere

presenti e l’accuratezza dei sondaggi effettuati per stabilire quali siano gli stati effettivamente

contendibili. Matthew Dowd, responsabile della campagna di George W. Bush nel 2000, spiega con

chiarezza la strategia: “La scelta cruciale è quella degli stati. L’obiettivo è solo quello di

raggiungere la maggioranza nel collegio elettorale. Dal dicembre del 1999 non abbiamo più fatto

sondaggi nazionali” (Jamieson e Waldman, 2001, p.45).

Per muovere elettori da un fronte all’altro, per convincere gli indecisi e per trascinare al voto

gli scarsamente interessati, i candidati hanno a disposizione tre macro-categorie del discorso

politico.4 La strategia più tradizionale, e comune alle campagne elettorali di tutto il mondo, è quella

di diffondere messaggi di propaganda positiva (acclaims), tendenti a esaltare le qualità del

candidato. Esse possono fondarsi sulle caratteristiche personali, valoriali o esperienziali del

candidato: “I will always tell the truth..no matter what” (Dirò sempre la verità, non importa quale

sia) (McCain, 2000), “An experienced leader to bring America back” (Un leader esperto per

risollevare l’America) (Reagan, 1980). Oppure su precisi indirizzi programmatici: “I want

everybody who pay taxes to have their tax rates cut” (Voglio che tutti coloro che pagano le tasse

beneficino di tagli fiscali) (George W.Bush, 2000). Ogni candidato intende quindi di mettere in luce

i propri punti di forza, puntando ad attrarre elettori sulle tematiche che più gli risultano affini.

Gli spot televisivi positivi sono definiti come messaggi che sono “prevalentemente focalizzati

sull’avvaloramento del candidato che paga e realizza lo spot” (Kaid, 1996, p. 136). Johnson-Cartee

3 A un candidato presidenziale servono 270 grandi elettori per essere eletto (su un totale di 568), essi vengono assegnati stato per stato secondo il sistema “winner-takes-all”. Solo Nebraska e Maine assegnano i propri grandi elettori a seconda della maggioranza ottenuta in ciascun distretto elettorale interno allo stato stesso. 4 Usiamo il termine ‘discorso politico’ poiché le tre strategie non si riferiscono soltanto agli spot televisivi, ma all’intero spettro comunicativo di un candidato in campagna elettorale: Interviste, dibattiti, comizi.

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e Copeland (1997a) argomentano come la propaganda positiva sia utilizzata dalle campagne

moderne non soltanto per persuadere elettori, ma soprattutto per ottenere tre specifici obiettivi.

Aumentare la popolarità del candidato presso l’elettorato. Associare la figura del candidato a

specifici argomenti, a determinate immagini o valori, a gruppi o persone particolari. Attivare cioè

un processo di familiarizzazione e di associazione fisica e valoriale a narrazioni già conosciute

dall’elettore. Enfatizzare la somiglianza del candidato agli elettori (p.162). “Farlo percepire come

l’amico o il vicino di casa che tutti vorrebbero avere” (Capizs, 2006). Tuttavia, John Geer (2006),

nella sua poderosa analisi di 40 anni di spot elettorali, ha messo in luce come i messaggi di

propaganda positiva, che sono meno costretti alla giustificazione del proprio contenuto risultino in

realtà più menzogneri degli attacchi di negative campaigning che, essendo considerati arma più

affilata, sono chiamati ad una maggiore accuratezza informativa. La tecnica opposta alla

propaganda positiva è infatti quella di attaccare o criticare l’avversario/i. Mettere in luce le carenze

personali o programmatiche del competitor dovrebbe ridurne la desiderabilità agli occhi

dell’elettore. Sarebbe strano se risultasse che centinaia di candidati avessero speso milioni di dollari

per realizzare spot elettorali senza ricavarne effetti sull’elettorato. Sono numerosi gli studi che

evidenziano l’importanza di questo strumento sul comportamento elettorale del votante. Gli effetti

dell’elettorato possono essere raggruppati in tre categorie: effetti sul livello di conoscenza

dell’elettore; effetti sulla percezione del candidato da parte dell’elettore; effetti sulle preferenze di

voto.

L’elettore americano viene tradizionalmente considerato come non molto informato. Ci sono

studi che mostrano come molti cittadini non sappiano menzionare il nome del proprio deputato, dei

candidati in corsa per l’elezione e le problematiche oggetto della campagna elettorale. Le prime

pionieristiche ricerche sugli spot politici televisivi mostrarono come gli spot riescano a comunicare

efficacemente informazioni all’elettore, superando il problema dell’esposizione selettiva.

Confermando quindi la potenza dello strumento a disposizione, capace di recapitare il proprio

messaggio a tutti gli spettatori, non soltanto a quelli che già supportavano il candidato o il partito

(Atkin, Bowen, Nayman e Sheinkopf, 1973). Ricerche successive osservarono poi come gli spot

garantissero la riconoscibilità del nome del candidato. West (1994) rilevò, nel suo studio sulla

campagna senatoriale della California del 1992, come i video elettorali fossero un miglior veicolo

informativo dei notiziari televisivi e della stampa. Che gli elettori imparino di più sulle proposte del

candidato dagli spot che dalle news e dai dibattiti è rilevato da più parti (Patterson e McLure 1976,

Bowen, 1994). Anche le caratteristiche dell’elettore possono giocare un ruolo importante. Sebbene

gli studi in questo ambito non abbondino, si può riscontrare come gli elettori con un minor grado di

conoscenza e gli indecisi siano maggiormente sensibili agli spot politici (Bowen, 1994).

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Anche la teoria dell’agenda-setting ha contribuito a far comprendere gli effetti cognitivi

degli spot politici. Il contenuto degli spot concernenti issues produce effetti sulla salienza

dell’argomento in questione per l’elettore, e influenza l’agenda mediatica dei notiziari e degli

approfondimenti televisivi d’informazione. Uno degli effetti più confermati dalle varie ricerche

condotte sul tema è quello relativo alla percezione del candidato da parte dell’elettore. West (1993),

ad esempio, analizzando comportamenti di voto e caratteristiche degli elettori nelle elezioni dal

1972 al 1992 ha riscontrato significativi impatti sulla valutazione del candidato. Nello specifico, gli

spot programmatici sembrano avere una miglior influenza sullo spettatore degli spot sulle

caratteristiche personali dei candidati e che i video di propaganda negativa sembrano produrre

talvolta effetti negativi sia sull’attaccato che sull’attaccante. Per quel che riguarda il comportamento

elettorale vero e proprio, vi sono molte ricerche che mostrano come gli spot televisivi abbiano

orientato l’elettore verso un candidato piuttosto che un altro o ancor più abbiano influenzato gli

indecisi e gli astenuti tendenziali (Bowen, 1994). Anche qui sembra giocare un ruolo importante la

conoscenza e la cultura dell’elettore, oltreché l’attivismo politico pregresso (West, 1994).

Gli spot elettorali sembrano quindi conservare tutta la loro potenza e anche studi più recenti

lo confermano. L’apertura di un secondo canale, poi, ha permesso di allargare ulteriormente la

platea a disposizione. Attraverso internet, l’elettore può ricercare un numero infinito di informazioni

sul candidato e sui suoi piani per il Paese. Questo a tutto vantaggio dell’elettorato informato, che

può approfondire ogni argomento a sua discrezione. I cittadini disinteressati, invece, conteranno

ancora e unicamente sugli spot televisivi (Howard, 2006).

3. La propaganda negativa.

Il negative campaigning è una caratteristica peculiare delle campagne elettorali americane.

Un unicum raramente riscontrabile altrove. Le sue origini sono un tutt’uno con le prime campagne

elettorali della fine del XVIII secolo e le cronache di quegli anni riportano manovre calunniose che

farebbero impallidire le moderne polemiche sul ricorso al mudslinging.5

Gli spot televisivi sono il veicolo principale per la propaganda negativa e la prima campagna

elettorale che vide il ricorso al mezzo televisivo, quella del 1952 tra Eisenhower e Stevenson, fu una

delle più negative di sempre. Ben il 66% di tutti gli spot prodotti in quella campagna erano negativi.

Tuttavia, l’ammontare generale di propaganda negativa varia significativamente da una campagna

5 Le prime campagne elettorali, che videro battersi molti dei Padri Fondatori, furono caratterizzate da eccessi di propaganda negativa. Il riferimento alle ‘polemiche odierne’ è invece relativo all’attacco portato dal gruppo pseudo indipendente “Swift Boat Veterans for Truth” contro John Kerry nel 2004 sui suoi trascorsi militari e dalla campagna virale via internet del 2008 condotta contro Barack Obama che asseriva come il candidato afroamericano fosse musulmano.

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all’altra, dal minimo del 10% del 1960 fino al 68% della corsa presidenziale del 1992 (Kaid e

Johnston, 2001).

I critici sono nel giusto quando condannano il crescente uso dei messaggi negativi nelle

elezioni recenti. Gli spot negativi rappresentavano poco più di un terzo (il 38%) di tutti gli spot

realizzati tra il 1952 e il 1996, ma dal 1992 le campagne stanno producendo più spot negativi che

spot positivi. I candidati sfidanti, ad esempio, sono più orientati ad usare spot d’attacco al fine di

compensare budget inferiori (Johnson-Cartee e Copeland, 1997) e di accrescere la propria copertura

informativa da parte di stampa e telegiornali (Lau e Pomper, 2002). Il numero di spot negativi varia

non solo da elezione a elezione, ma anche durante una stessa corsa presidenziale. Per esempio, la

campagna 2004 di George W. Bush toccò picchi di spot negativi contro Kerry in luglio (100%

negativi), in ottobre (90% negativi) e in aprile (80%), mentre in mesi come settembre o marzo (15%

e 35% rispettivamente di negative campaigning) il Presidente uscente preferì diffondere messaggi

positivi. Nel mese di giugno, infine, la campagna di Bush non fece trasmettere alcuno spot di

propaganda negativa (West, 2005, p. 38).

Un elemento comune a tutte le strategie citate è quello che i candidati che iniziano l’attacco

tendono a dissociarsi dal messaggio e a lasciare a “surrogati” il compito di perpetrare e diffondere il

messaggio negativo. Nella loro ricerca, Kaid e Johnston (2001) riscontrarono come solo nel 17% di

tutti gli spot di negative campaigning dal 1952 al 1996 sono contenute rappresentazioni video o

audio dei candidati responsabili degli attacchi.

L’eccezionalità americana in materia è dovuta ad una serie di fattori: un sistema elettorale

maggioritario uninominale a tutti i livelli, un sistema di primarie ormai diffuso in tutti gli stati

dell’Unione, una salda tradizione di pubblicità comparativa a livello commerciale, un elettore medio

sostanzialmente depoliticizzato,6 un latente puritanesimo, una generale perdita d’importanza dei

partiti ed una contestuale crescente personalizzazione della politica (Polsby, 1983).

Gli spot di negative campaigning vengono definiti tali quando “implicitamente o

esplicitamente ritraggono l’avversario in una posizione inferiore” (Johnson-Cartee e Copeland,

1997a, p. 20). Il dibattito in letteratura si può riassumere attraverso le due posizioni teoriche

principali: da un lato vi sono i sostenitori della cosiddetta ipotesi della demobilitazione, dall’altro i

fautori del valore democratizzante della propaganda negativa. Alcuni commentatori osservano come

la propaganda negativa avveleni il dibattito politico poiché presenta argomenti che sono “ridicoli,

irrilevanti e irresponsabili”, trascinando la discussione al livello dei tabloid scandalistici. (Kamber,

1997). Si tratta di riflessioni molto comuni. Il titolo di un famoso volume di Kathleen Hall Jamieson

6 L’ISI test, test di educazione civica che viene somministrato ogni anno a diverse fasce di elettori, mostra un elettorato con gravi lacune nella conoscenza di aspetti centrali della vita pubblica. Questo potrebbe significare un sostanziale disinteresse per gli aspetti più profondi connessi alla scelta di voto.

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(1992) rappresenta bene un certo diffuso malessere: Dirty Politics: Deception, Distraction and

Democracy, dove si sottolinea l’associazione tra negative advertising e inganno. Secondo Bartels

(2008, 1) anche l’opinione pubblica condivide questo disgusto: “la percezione del processo

elettorale da parte del cittadino è caratterizzata dal cinismo e dall’insoddisfazione per la natura e i

toni delle campagne elettorali contemporanee”. In sostanza, quindi disincentiva l’elettore a

impegnarsi politicamente. (Ansolabehere e Iyengar, 1995) Come ha osservato Lynn Sanders, (1997,

348), infatti, la deliberazione richiede civiltà e mutuo rispetto tra i partecipanti. Alla base di queste

teorie vi è l’assunto che l’elettore sia disattento e facilmente manipolabile, soggiogato dalle

emozioni e vulnerabile alla demagogia (Brader, 2006).

La discriminante essenziale tra le due scuole di pensiero è su come vada inteso il

comportamento politico dell’elettore. Alcuni studiosi sostengono che un elettore scarsamente

informato compia comunque scelte razionali sulle issues a cui è interessato (Lupia e McCubbins,

1998). Altri aggiungono che “emozioni e ragione interagiscono producendo un’attenta e riflessiva

cittadinanza” e che lo scambio di “colpi bassi” tra i candidati permetta ai votanti di soppesare

adeguatamente bonus e malus di ciascuna figura e che in generale la lotta politica stimoli

l’interesse degli elettori (Geer, 2006). Si tratta qui della cosiddetta ipotesi democratizzante, che

vede nella propaganda negativa un’occasione di allargamento del dibattito e l’avvio di discussioni

su temi altrimenti marginalizzati. Perché appellarsi alla necessità di discussioni civili e moderate?

La democrazia impone che si sappia tutto di tutti, che i candidati siano trasparenti e giudicabili

avendo a disposizione ogni dettaglio della loro vita privata e pubblica (Riker, 1996). A supporto di

questo approccio vi è inoltre il dato che emerge da alcune ricerche che hanno analizzato le

campagne elettorali americane nel corso degli anni: i messaggi di propaganda positiva sono

tendenzialmente più falsi di quelli negativi, perché hanno meno necessità di giustificare il proprio

contenuto (Geer e Geer, 2003). Ad esempio, il messaggio “Huckabee è un ottimo amministratore

perché da governatore dell’Arkansas ha abbassato le tasse, mantenendo il pareggio di bilancio”

seppur neutro, risulta ben più menzognero dell’ipotetico “Huckabee è un buon padre di famiglia a

differenza di Giuliani che è un adultero, pluridivorziato con discutibili amicizie omosessuali”.

Spesso, infatti, l’utilizzo di particolari tematiche, solitamente di carattere privato, confonde

l’osservatore, incapace poi di identificare la reale autenticità del messaggio in sé. Il disaccordo sugli

effetti delle campagne negative è legato al fatto che non sempre gli studiosi hanno proposto una

definizione univoca del concetto e dei suoi limiti. Spesso si identifica la propaganda negativa con la

sua deriva estrema: il cosiddetto mudslinging, quando, cioè, la comunicazione valica il limite della

veridicità del contenuto e diventa calunnia.

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Con l’affermazione del web le opportunità di lanciare attacchi si sono moltiplicate,

riducendo l'esigenza di budget pubblicitari considerevoli. Internet è il mezzo ideale per attuare

campagne denigratorie che avvengono “sotto traccia”, offrendo così ai candidati due vantaggi: in

primo luogo, gli attacchi possono rimanere anonimi, consentendo ai loro promotori di sfuggire alle

responsabilità politiche a cui dovrebbero far fronte se fossero smascherati come gli artefici di

accuse particolarmente gravi; in secondo luogo, le offese si possono diffondere verso gruppi più o

meno selezionati di elettori e leader di opinione senza che gli avversari ne vengano a conoscenza,

almeno nella prima fase, consentendo così alle calunnie di sedimentarsi nelle coscienze di una parte

della cittadinanza prima che le loro vittime abbiano il tempo e la possibilità di rispondere.

Niccolò Machiavelli sosteneva che le calunnie anonime, diffondendosi senza confronto

pubblico, non permettono il diritto di replica e dunque falsano il dibattito democratico.7 D’altra

parte la Corte Suprema statunitense ha stabilito il diritto di proferire discorsi anonimi. Al riguardo,

fa giurisprudenza la sentenza McIntyre vs Commissione Elettorale dell’Ohio del 1995:

La protezione dei contenuti anonimi è vitale per la democrazia. Consentire ai dissenzienti di proteggere la loro

identità li rende più liberi e sicuri di esprimere critiche e opinioni minoritarie … L’anonimato è uno scudo che

protegge dalla tirannia della maggioranza … Questo dice la Costituzione nel Primo Emendamento: proteggere

gli individui impopolari dalle rappresaglie di una società intollerante.

Alle origini stesse della democrazia americana vi sono numerosi attacchi calunniosi tra le

personalità politiche dell’epoca. I padri fondatori, però, non disponevano della televisione né di

internet e le campagne denigratorie si risolvevano nella cerchia ristretta di élite che potevano

verificare l’informazione; in questo contesto, anche gli attacchi più pericolosi potevano essere

ribattuti e circoscritti. Nell'ultimo decennio, le campagne anonime di calunnie hanno rivestito un

ruolo centrale nelle elezioni presidenziali. Nel 2000, le accuse, condotte attraverso telefonate

automatiche (robocalls) e catene di email, secondo cui un bambino che John McCain aveva adottato

dal Bangladesh fosse invece nato da una sua relazione extraconiugale contribuirono alla sua

sconfitta contro George W. Bush nelle decisive primarie repubblicane della South Carolina. Le

sfide presidenziali del 2004 e del 2008 hanno visto la realizzazione di due campagne calunniose,

organizzate in ambienti conservatori contro candidati democratici: gli attacchi denigratori del

gruppo indipendente Swift Boat Veterans for Truth contro John Kerry nel 2004 e le dicerie sulla

presunta religione musulmana di Barack Obama nel 2008.

7 L'argomento è trattato nel settimo capitolo dei Discorsi (2000).

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La propaganda negativa può essere diretta contro le policies proposte dall’avversario o

contro il character, cioè le caratteristiche personali stesse dell’avversario politico. E’ evidente come

in quest’ultimo caso si tratti della tipologia di attacco più violenta e che talvolta essa si possa

ritorcere contro l’emittente generando una sorta di solidarietà morale con la vittima dell’attacco

personale. La ricerca di Benoit e McHale (2003) evidenzia come i vincitori delle elezioni degli

ultimi 50 anni tendenzialmente attacchino di più sulle politiche che sulla persona, rispetto a coloro

che sono usciti perdenti dallo scontro elettorale.

Oltre a realizzare propaganda positiva e negativa, talvolta ci si deve difendere dagli attacchi

dell’avversario/i. La difesa è importante non soltanto per la circostanza in essere ma deve essere

tempistica e appropriata onde poter prevenire danni futuri e ristabilire il profilo danneggiato del

candidato. Si tratta di un aspetto spesso sottovalutato dai candidati. E’ capitato infatti più volte che i

politici sotto attacco evitassero di rispondere, per non dare dignità all’attacco subito e non creare

ulteriore pubblicità e notiziabilità attorno alla questione e quindi sottolineare eventuali debolezze.

Inoltre, rispondere ad un attacco toglie tempo e denaro alla campagna e ad altri messaggi che si

vorrebbero comunicare. Tuttavia, alcuni noti esempi recenti mostrano come sia essenziale

rispondere tempisticamente agli attacchi subiti. Nel 2004, John Kerry sottovalutò la campagna

denigratoria orchestrata dal gruppo Swift Boat Veterans for Truth sui suoi trascorsi militari. Tardò a

rispondere, e gli attacchi, che mescolavano abilmente verità e finzione, finirono per

comprometterne l’elezione, spostando alcuni decisivi pacchetti di voti. Quattro anni dopo, Barack

Obama, di fronte alle accuse di essere musulmano, reagì con prontezza, formando una squadra di

collaboratori dedita a cacciare e a confutare tutti gli attacchi, veri o falsi che fossero, diretti contro

di lui. A novembre 2008, la percentuale di coloro che credevano nella supposta fede islamica di

Obama era ridotta a numeri fisiologici.

Aldilà dei casi specifici è comunque elaborabile una regola generale: se l’attacco appartiene

alla categoria del mudslinging, cioè è falso, conviene difendersi e contrattaccare fino a smascherare

l’attacco fraudolento. Se invece la propaganda negativa poggia su basi reali è forse preferibile non

rispondere, dal momento che si andrebbe a creare ulteriore interesse intorno alla questione in

oggetto, che rappresenta pur sempre una debolezza del candidato. In uno studio condotto da Benoit

(2007) sulle campagne presidenziali dal dopoguerra al 2000 si evidenzia come i candidati abbiano

principalmente prediletto la propaganda propositiva, quindi quella negativa e da ultima, i messaggi

difensivi.

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4. I temi della campagna presidenziale 2008.

La campagna presidenziale 2008 ha superato ogni record rispetto alle precedenti in quanto a

raccolta fondi e spesa individuale dei candidati. La campagna di McCain ha raccolto circa 238

milioni di dollari, mentre quella di Obama una cifra di quasi tre volte superiore, avendo a

disposizione fondi per 659,7 milioni di dollari (Pew, 2008). Va inoltre sottolineato come McCain

abbia potuto contare su un budget inferiore perfino a quello raccolto da Hillary Clinton per le

primarie democratiche e quindi si sia presentato alla competizione presidenziale in una situazione di

netta inferiorità, solo in parte colmata dagli spot realizzati direttamente dal partito repubblicano o

dai gruppi filoconservatori.

Per quanto riguarda gli spot elettorali televisivi, McCain ha speso 135,5 milioni di dollari,

Obama quasi il doppio, cioè 236 milioni di dollari. Secondo Craig Smith (Jones, 2005), manager

della campagna di Joe Lieberman nella campagna per le primarie democratiche del 2004, “di regola

il 75% dei fondi della campagna viene usato per la comunicazione a pagamento: lettere postali, spot

televisivi e radiofonici, banner pubblicitari su internet”. Va da sé che la campagna di Obama, grazie

al budget a disposizione, ha potuto destinare risorse colossali verso ogni tipo di comunicazione,

senza infrangere la tradizionale suddivisione della “torta” dei fondi.

Sul piano retorico, gran parte della campagna è stata fatta di attacchi di propaganda negativa.

Molti degli spot sono serviti soltanto a lanciare accuse e a screditare il rivale su uno specifico tema

e non a proporre chiare linee programmatiche. In questo senso è stato maestro Obama, che in

termini vaghi fa cenno ai propri piani, ma si serve di ogni singola issue per accostare il suo rivale a

George W. Bush, ai “lobbisti di Washington” e dipingendolo come lontano dai bisogni e dalle

difficoltà della classe media. Proprio il costante riferimento alla classe media appare come una delle

idee più azzeccate della campagna 2008 di Obama. Lo staff del candidato democratico ha infatti

saputo utilizzare al meglio la crescente situazione di difficoltà economica per intercettare gli umori

e le paure delle classi lavoratrici a cui ha proposto tagli fiscali mirati. Proprio sul tema delle tasse,

che alla fine è stato anche in queste presidenziali il più dibattuto, McCain ha invece diffuso un

messaggio più generico, finendo con l’essere accusato di favorire le multinazionali e i più ricchi.

D’altro canto, l’impopolarità di Bush ha costretto McCain a impostare una campagna di rottura, da

sfidante, confidando sul suo riconosciuto pedigree di “cane sciolto” repubblicano. Anch’egli quindi,

seppur con maggior circospezione, ha cercato di impostare un discorso basato sul “cambiamento”

corroborato dal suo fattore esperienziale. Tuttavia, con l’acuirsi della crisi economica, tra i due

messaggi di cambiamento non c’è stata vera competizione e gli elettori hanno preferito il candidato

genuinamente più nuovo. Inoltre, il ricorso di McCain alla retorica del change, avvenuta negli

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ultimi due mesi di campagna, ha in parte disorientato l’elettorato, uso a tutto un altro tipo di

messaggio e, complice la discutibile scelta di Sarah Palin come contraltare “giovane” nel ticket

repubblicano, non ha giovato al candidato.

McCain ha costantemente attaccato l’inesperienza dell’avversario, contando sulla propria

eroica storia personale e sulla presenza pluridecennale in Senato. Ma la guerra in Iraq e le tematiche

di sicurezza nazionale e di lotta al terrorismo sono finite in secondo piano rispetto alle montanti

problematiche economiche; pertanto il candidato repubblicano non ha potuto monetizzare quelle

issues sulle quali godeva della fiducia degli elettori. Su molte altre questioni ha cercato di

difendersi, finendo però soverchiato dalle disponiblità economiche e dal fuoco di fila rappresentato

dagli onnipresenti spot di Obama.

Dai dati riassuntivi emerge una campagna repubblicana sostanzialmente tradizionale, che ha

posto molta attenzione al tema delle tasse e della spesa pubblica (unica issue sulla quale McCain ha

investito nettamente di più rispetto a Obama), confidando nella retorica antistatalista e antifiscale

che spesso in passato aveva premiato candidati repubblicani. McCain e Palin hanno poi cercato di

mostrarsi come riformatori, come original mavericks, contando sulle proprie eterodosse storie

personali. Tuttavia, è apparso subito chiaro come il loro fosse un messaggio “di rimessa”, al traino

dell’originale narrazione del cambiamento, incarnata, anche fisicamente da Barack Obama. La

campagna di McCain si è dimostrata ondivaga anche nel metodo degli attacchi di propaganda

negativa contro Obama. Dalla fine di luglio e per tutto agosto, gli spot di McCain si sono focalizzati

sul messaggio “Obama celebrità”, cercando di ridicolizzare la figura del candidato democratico,

indicandolo come incapace di autorevolezza e competenza di governo e tacciandolo quindi di essere

una sorta di “moda passeggera” (in quel periodo gli spot si aprivano con una folla che inneggiava a

Obama e con le parole “è la più grande celebrità del Pianeta”). Da settembre in poi, invece,

celebrity Obama ha lasciato spazio allo slogan “Chi è Barack Obama?”, volutamente dietrologico e

che in un qualche modo voleva legare il candidato democratico alle innumerevoli insinuazioni

circolanti soprattutto in internet (Obama è musulmano, i legami con l’ex terrorista Ayers etc..).

Obama invece, al di là del dominio generale su ogni tema trattato, ha saputo fare leva su

classici temi democratici come la sanità e la formazione scolastica, particolarmente sentiti in un

momento di profonda contrazione economica, collegandoli sapientemente, appunto, a temi

economici. Va segnalata poi l’importanza rivestita da argomenti come le politiche energetiche e il

costo della benzina, comunque interconnessi e sempre compresi nel macro-tema economico. Qui i

candidati si sono cimentati proponendo sostanzialmente le stesse cose, ma anche in questo caso, la

disponibilità economica di Obama ha annichilito a colpi di spot l’avversario.

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Il candidato democratico ha attaccato il rivale su ogni tema. McCain, non avendo le risorse

economiche per rispondere ha finito per essere afflitto dalla propaganda dell’avversario, facilitata

dalla scelta di Sarah Palin alla vicepresidenza, figura politica che è stata bersaglio di frequenti

attacchi. La scelta della governatrice dell’Alaska ha dato un’iniziale forte spinta a McCain, che nei

sondaggi di inizio e metà settembre era riuscito a scavalcare Obama. L’opzione Palin aveva

galvanizzato l’ala più conservatrice del partito che fino a quel momento si sentiva

sottorappresentata da un candidato moderato come McCain. Inoltre, la coraggiosa scelta di una

donna giovane e poco nota al grande pubblico aveva suscitato interesse e curiosità sia nell’elettorato

femminile che nell’opinione pubblica generale. Ma le scadenti performance televisive della Palin,

gli spot di attacco di Obama e dei gruppi fiancheggiatori alle sue capacità e alla sua cultura e

l’ondivaga reazione di McCain al momento di difficoltà economica (che inconsapevolmente è finita

con l’avvalorare gli spot di Obama in cui McCain ripeteva “i fondamenti della nostra economia

sono solidi”) hanno permesso a Obama di tornare a condurre nei sondaggi e infine di vincere le

elezioni con ampio margine. La campagna di Obama si è contraddistinta per un tasso di propaganda

negativa superiore a quella dell’avversario (Figura 1).

Fig. 1: Negative campaigning realizzato dai candidati. Ottenuto misurando la semplice menzione

negativa dell’avversario politico (Obama (100=92), McCain (100=84).

71.7359.75

0102030405060708090

100

Negative (%)

ObamaMcCain

Fonte: Nostra elaborazione.

La campagna 2008, pur essendosi caratterizzata per la voglia di cambiamento a fronte di un

Presidente uscente assai impopolare, ha visto repubblicani e democratici scontrarsi utilizzando i

temi a loro più tradizionalmente affini. Da un lato, quindi, lo stato minimo e l’attenzione al bilancio;

dall’altro l’educazione e l’estensione delle tutele sanitarie. Entrambi i candidati hanno poi fatto un

largo uso della retorica antifiscale, proponendo ciascuno ampi tagli delle tasse. Sebbene si

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prevedesse che la guerra in Iraq fosse la issue principale, ogni attenzione venne invece catalizzata

dalla questione economica, a causa della crisi finanziaria scoppiata proprio nel momento più

importante della campagna, subito dopo l’estate. Obama e McCain hanno calibrato la quasi totalità

dei loro messaggi sul problema economico, declinando in tal senso sia questioni affini come la

disoccupazione, la delocalizzazione delle imprese nei paesi emergenti e il prezzo della benzina, che

argomenti apparentemente lontani come l’energia pulita, le politiche ambientali e la riforma

sanitaria stessa. Su un piano retorico la campagna ha anche ricordato la corsa elettorale del 1960 tra

Kennedy e Nixon, dove il candidato democratico proponeva un’immagine di giovinezza e

cambiamento a fronte di un avversario che puntava sull’esperienza.

L’analisi sull’allocazione delle risorse per spot elettorale ha mostrato come l’immensa

capacità finanziaria a disposizione di Obama abbia permesso al candidato democratico di essere

presente su ogni issue, investendo quasi sempre su ciascuna di esse più soldi dell’avversario.

McCain ha prevalso quantitativamente solo sulle tematiche della corruzione, della spesa pubblica,

dell’energia e dell’immigrazione. D’altra parte lo svantaggio economico dei repubblicani era

notevole ed era quindi impossibile per McCain poter controbattere alla pari su ogni questione contro

la macchina di spot democratica.

Il fattore esperienziale, sul quale ha molto puntato il candidato repubblicano, non è stato di

grande aiuto. Obama, al Senato federale da appena quattro anni, ha potuto attaccare il rivale sul

voto favorevole dato nel 2003 all’intervento in Iraq; inoltre, la propaganda repubblicana aveva

fortemente caratterizzato il valore esperienziale in senso militare, onde appoggiarsi all’eroico

comportamento di McCain in Vietnam, pertanto il lungo curriculum politico del senatore

dell’Arizona non potè essere speso sulle questioni relative alla crisi economica. Anzi, Obama

attaccò il rivale proprio facendo leva su alcune dichiarazioni passate di McCain nelle quali

candidamente affermava di “capirne molto di politica estera, ma poco di economia”.

L’analisi individuale di ogni campagna ci ha poi consentito di mettere in luce uno dei dati

più sorprendenti, cioè che Obama ha fatto ricorso al negative campaigning in misura nettamente

superiore rispetto a McCain. La sorpresa deriva dalla percezione collettiva della candidatura di

Obama, alimentata dalla campagna stessa e legata alla retorica del cambiamento e degli appelli

all’unità bipartisan. La nostra spiegazione, supportata dalle ricerche di altri studiosi, si fonda sulla

convinzione della copertura mediatica favorevole che tutti i grandi network giornalistici hanno

riservato a Obama e sulla vastità semantica dei messaggi prodotti dalla sua campagna. McCain, a

corto di fondi, è sempre sembrato rincorrere l’avversario e il breve sorpasso nei sondaggi di fine

estate era dovuto all’effetto novità rappresentato dalla Palin, che ben presto si è però rivelata una

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scelta controproducente, a causa del profilo ideologico estremo della candidata e le pessime

performance televisive dove ha esibito gravi lacune culturali.

Entrambi i candidati hanno fatto ampio uso delle proprie storie biografiche. Obama

proponendosi come moderna incarnazione dell’American dream: un afroamericano figlio di un

povero immigrato che diventa Presidente. McCain ripetendo costantemente le immagini dei suoi

cinque anni di torture e prigionia in Vietnam, quando rifiutò di essere liberato per restare accanto ai

suoi commilitoni ancora sequestrati. Il candidato repubblicano si è anche servito della sua immagine

di maverick della politica americana, conquistata grazie all’attivismo dimostrato su alcune leggi

bipartisan, come quella sull’immigrazione. Come di consueto hanno poi esibito gli affetti familiari:

Obama la moglie e le figlie bambine, McCain l’anziana madre e la moglie impegnata in iniziative

benefiche. Molto frequenti anche i richiami ai valori della fede e della Patria, giudicate da sempre

caratteristiche essenziali di un candidato alla presidenza. Obama ha anche insistentemente attaccato

la vicinanza di McCain con Bush, avendo gioco facile nel ripescare spot di McCain per le primarie,

dove il candidato Repubblicano, per conquistare voti conservatori, aveva spesso mostrato continuità

con il Presidente uscente, salvo poi quasi “disconoscerlo” nel contesto presidenziale quando

l’obiettivo era la conquista dei voti moderati e indipendenti. Questo episodio, legato all’incoerenza

di McCain verso Bush, mette in luce la profonda discrepanza tra il contesto delle primarie e quello

presidenziale. Spesso, osservatori superficiali vedono le due corse elettorali come un’unica lunga

sfida verso la presidenza. In realtà dal punto di vista dell’analisi delle campagne elettorali, i due

momenti sono profondamenti distinti per strategie, immagini e anche per fini politici. I metodi di

voto per le primarie danno infatti grande potere alle frange più attive dell’elettorato, che spesso però

sono anche le più ideologizzate. Questo porta i candidati a competere per conquistare il voto dei

sostenitori più attivi e talvolta anche delle ali più estreme dei rispettivi partiti. Questo è stato

particolarmente evidente in campo repubblicano, con McCain che ha dapprima blandito i

conservatori e gli evangelici orfani di Bush, proponendosi come erede del Presidente uscente e di

popolarissime figure del passato come quella di Reagan, salvo poi impostare una campagna

presidenziale tutta giocata sul moderatismo e sul profilo maverick capace di superare le fratture

ideologiche presenti nel paese. Obama ha invece mantenuto un comportamento più lineare,

mantenendo ferma la barra sulla retorica del cambiamento, sulla necessità di “riunire il paese” e

inasprendo soltanto il negative campaigning.

Il candidato democratico ha astutamente creato messaggi specifici per ogni stato, talvolta

apportando solo minime ma decisive correzioni a “spot-clichè” generali ed è stato l’unico a parlare

in spagnolo all’elettorato ispanico, mentre tutti gli altri candidati analizzati si sono limitati a

narratori in lingua originale o a semplici traduzioni sovrascritte. Obama, grazie ai fondi a

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disposizione, ha potuto inoltre fare campagna in tutti e 50 gli stati, a differenza di McCain che si è

dovuto concentrare sui battleground states. L’analisi sull’allocazione delle risorse ha però mostrato

come anche Obama abbia in definitiva concentrato i suo sforzi su non più di 18-20 stati,

confermando quindi una delle regole della teoria funzionalista, esposte nella parte introduttiva, cioè

la pragmatica necessità di convincere un solo elettore più del necessario e non quindi di dover

persuadere l’intero elettorato, impresa improba, anti-economica e in fondo inutile.

Sebbene McCain abbia potuto beneficiare di tre mesi in più di campagna grazie al protrarsi

dell’estenuante battaglia intra-democratica e pur lodevolmente insistendo sul profilo esperienziale,

bipartisan e sulla sua storia di eroe di guerra, non è mai sembrato in grado di veicolare un proprio

messaggio forte, a fronte di un Obama che incarnava anche fisicamente il desiderio di cambiamento

e che ha saputo monetizzare i forti attacchi di propaganda negativa rivolti soprattutto sulla presunta

incompetenza economica di McCain. Questa situazione conferma un altro degli assiomi citati in

letteratura: la necessità di distinguersi dall’avversario per raggiungere la vittoria elettorale, onde

poter essere agevolmente “riconosciuti” dagli elettori.

5. La campagna del 2012. Temi e strategie principali.

Come nella più classica contrapposizione tra democratici e repubblicani, sono stati i temi economici

e fiscali ad aver avuto la maggiore rilevanza in campagna elettorale. Fin dall’inizio, i due candidati

hanno cercato di veicolare due visioni differenti di Stato e di società. Liberista e anti-statale

l’America che voleva Romney, più attenta al welfare quella proposta da Obama. Romney ha battuto

sul tasto della disoccupazione, che ancora pochi giorni prima del voto era di poco inferiore all’8%, e

su una radicale riforma del fisco. Il piano di Romney, la cui impostazione richiamava da vicino

quella dell’amministrazione Reagan, vedeva nell’invadenza del governo centrale il freno allo

sviluppo (Bon, 2012).

Richiamandosi al modello dell’amministrazione Clinton, Obama riteneva invece che per

risolvere la crisi produttiva ed occupazionale fosse necessario un efficace intervento dello stato

sull’economia. Nel piano del Presidente emergeva il principio secondo il quale lo strumento fiscale

dovesse essere usato per modificare il comportamento degli individui e delle imprese al fine di

costruire un tessuto sociale più omogeneo e resistente alle crisi economiche. Obama proponeva di

rafforzare la sua politica di tassazione e spesa federale, aggiungendo un innalzamento della

pressione fiscale sui contribuenti che guadagnano più di 250.000 dollari annui. A questo si

sarebbero aggiunti modesti tagli al bilancio federale, fra cui i principali avrebbero riguardato la

spesa per operazioni militari internazionali.

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Il candidato repubblicano non è mai riuscito a chiarire quale fosse il suo approccio generale

alle questioni di politica estera. Talvolta sembrava affine al realismo di Bush Sr. o di Eisenhower,

come dedotto dall’indicazione di Robert Zoellick a guidare il team di transizione in caso di vittoria;

ma in altre ancora, forse per non dispiacere l’ala neoconservatrice, Romney si esprimeva in termini

che riecheggiavano l’idealismo di George W. Bush, specie quello aggressivo e interventista del suo

primo mandato (Klein, 2012). Qualcosa è cambiato sul finire della campagna: Romney ha iniziato

ad attaccare violentemente il presidente uscente sulla morte dell’ambasciatore americano in Libia,

giudicando l’amministrazione Obama incapace di proteggere i suoi uomini. L’argomento era

particolarmente delicato poiché metteva in dubbio le qualità di “comandante in capo” del presidente

uscente. Obama è stato però abile e fortunato a farsi scudo delle dichiarazioni del Segretario di

Stato Hillary Clinton e dell’allora capo della Cia Petraeus che si assunsero in toto eventuali

responsabilità, certificando l’assoluta correttezza del presidente.

Al di là dei temi specifici, un ruolo importante nella campagna elettorale lo ha giocato

l’uragano Sandy, che si è abbattuto sulla costa orientale la settimana precedente il voto. Non si potrà

mai appurare l’influenza di questo evento sul comportamento di voto degli elettori. Ma è certo che,

avendo ottimamente reagito alla catastrofe, Obama non abbia subito danni di immagine. Anzi, la

catastrofe naturale ha consentito al presidente non solo di avere un ruolo di primo piano a livello

mediatico, ma anche di poter dimostrare le sue capacità di Commander in Chief. Inoltre, Obama ha

ottenuto l’aperto sostegno del sindaco di New York, il repubblicano indipendente Michael

Bloomberg e parole di stima dal governatore del New Jersey Chris Christie, anch’esso

repubblicano. Una gestione sbagliata del passaggio dell’uragano, dei soccorsi e del ritorno alla

normalità avrebbe potuto avere conseguenze devastanti sulla popolarità di Obama, con effetti simili

a quelli che la sciagurata gestione dell’uragano Katrina del 2005 ebbero sull’immagine di George

W. Bush.

Se la campagna elettorale del 2008 fu all’avanguardia nell’utilizzo di Facebook, Twitter e

YouTube - tre piattaforme che prima di allora nemmeno esistevano - quella del 2012, invece, in

assenza di nuovi simili innovativi strumenti di comunicazione e condivisione di massa, si è

caratterizzata per l’utilizzo sempre più sofisticato dei database contenenti i dati personali degli

elettori e per le strategie di microtargeting. Le banche dati di derivazione commerciale, incrociate

con le statistiche elettorali del 2008 e con gli elenchi delle registrazioni al voto di alcuni stati (quelli

dove è obbligatorio indicare l’affiliazione: democratica, repubblicana o indipendente) hanno

permesso di elaborare mappe degli elettori molto dettagliate. Le due campagne hanno saputo quasi

con precisione individuale le caratteristiche dei votanti. I loro gusti, le abitudini e lo “storico” del

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loro comportamento elettorale. Per i candidati gli obiettivi in gioco sono stati due: conquistare gli

elettori indecisi e stimolare la partecipazione di quelli tendenti all’astensione.

Rispetto agli anni precedenti hanno avuto minor rilevanza gli spot televisivi, che

tradizionalmente sono lo strumento di propaganda sul quale i candidati investono più soldi. Sebbene

anche stavolta i candidati abbiano realizzato centinaia di spot che sono stati trasmessi a tambur

battente, forse è mancata la tradizionale cassa di risonanza giornalistica che in passato, riprendendo

specifici spot elettorali, generava cortocircuiti informativi in grado di creare veri e propri casi

mediatici. Sono anche mancate significative campagne calunniose, che invece caratterizzarono le

elezioni del 2004 e del 2008. Nel primo caso John Kerry dovette difendersi dagli attacchi del

gruppo filo repubblicano Swift Boat Veterans for Truth, tesi a screditare il suo servizio militare

svolto in Vietnam. Nel secondo invece, Barack Obama fu vittima di un attacco anonimo e virale,

prevalentemente diffuso sui nuovi media, che voleva instillare negli elettori il dubbio che il

candidato democratico fosse musulmano (Morini e Vaccari, 2010).

Tuttavia, il clima è rimasto assai polarizzato visto che le prime analisi hanno mostrato come

quasi il 75% degli spot televisivi realizzati dai due candidati contenesse propaganda negativa

(Living Room Candidate, 2012). Un’altra differenza rispetto al 2008 è stata la minor intensità di

quei fenomeni bottom-up, che caratterizzarono la campagna elettorale di quattro anni fa. Forse a

causa dell’entusiasmo generato dalla novità Obama o della lunga e veemente sfida per le primarie

democratiche, la campagna del 2008 fu caratterizzata dalla massiccia produzione di video virali da

parte di gruppi indipendenti e singoli utenti della Rete. Grazie poi alla pubblicità orizzontale e alla

capacità di renderli virali attraverso YouTube e i social network, molti di questi video divennero

veri e propri fenomeni mediatici, ripresi infine anche dai media tradizionali (Morini, 2011). Casi

come quelli dell’Obama girl, per esempio, non si sono ripetuti nella campagna 2012, forse per il

minor appeal dei due candidati, o più probabilmente per una stagione delle primarie molto ridotta

rispetto al 2008 (allora non erano in lizza né il presidente né il vicepresidente uscenti e sia i

democratici che i repubblicani furono impegnati in lunghe e costose primarie).

Negli spot ufficiali, Romney ha cercato di dipingere come fallimentare la presidenza Obama,

citando ripetutamente l’alto tasso di disoccupazione, il deficit in aumento e la crescita dei prezzi dei

carburanti. Inoltre, il candidato repubblicano ha attaccato Obama in quanto “simbolo” della spesa

pubblica e del big government. Gli spot democratici hanno invece voluto ritrarre Romney come un

incoerente milionario che se eletto avrebbe favorito i ricchi e reso la vita ancor più difficile ai

poveri e alla classe media. Sebbene gli strateghi di Obama abbiano anche prodotto alcuni video in

cui si elencavano i successi ottenuti dall’amministrazione democratica durante il primo mandato, la

maggior parte degli spot di Obama è stata di attacco all’avversario. A seconda delle metodologie

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d’indagine, il tasso di propaganda negativa va dal 75 al 85 per cento del budget di spesa per Obama

e dal 75 al 91 per cento del budget di spesa per Romney (Usa.gov, 2012). Numeri che testimoniano

come la cifra retorica dello sfidante e del presidente uscente non sia stata molto differente. E, anzi,

come già capitato nell’edizione 2008, entrambi i contendenti abbiano cercato di proporsi come

“sfidanti”, con la differenza che, quest’anno, un presidente uscente c’era. La spesa specifica in spot

elettorali è stata simile: 492 milioni di dollari per Romney, 404 milioni per Obama (considerando

anche l’apporto dei rispettivi partiti e dei gruppi indipendenti direttamente riferibili ai due

candidati). Come già detto, gli spot elettorali si sono contraddistinti per non aver generato la

consueta battaglia mediatica, tuttavia, le cifre investite sono lì a testimoniare l’ulteriore aumento

della spesa in pubblicità televisiva. Sul piano retorico, il duello a colpi di spot si è espresso

principalmente in un interminabile crogiuolo di propaganda negativa, incentrata essenzialmente sui

temi economici. Romney ha tentato di associare Obama alle difficoltà dell’economia americana,

mentre il presidente uscente ha spesso utilizzato attacchi al character dell’avversario, nello

specifico alla sua carriera manageriale e al suo essere “ricco” (che implicitamente, nella strategia

comunicativa democratica, significava “essere lontano dai bisogni della classe media”). Gli spot

negativi realizzati da Obama in questa tornata elettorale sono stati assai simili a quelli ideati per

sconfiggere McCain quattro anni prima. Nonostante infatti Romney e McCain fossero rivali alle

primarie repubblicane del 2008, le loro campagne presidenziali sono state simili a livello di

contenuti. Entrambi hanno cercato di “smarcarsi” dall’ala conservatrice del loro partito, nell’intento

di intercettare il voto moderato. Hanno quindi tentato di crearsi un’immagine, più o meno veritiera,

– questo non importa – di indipendenti e di uomini lontani dalla “politica di Washington”. McCain

aveva poi il problema di far dimenticare gli otto anni di amministrazione Bush, che era fortemente

impopolare quando lasciò la presidenza. Contro di loro, Obama ha usato la stessa strategia: gli spot

democratici hanno infatti sempre cercato di togliere all’avversario quell’aura di moderatismo e di

indipendenza dal partito che si erano voluti costruire. L’altro schema d’attacco ha riguardato

l’appartenenza dei due candidati repubblicani all’elite economica del Paese. Obama è stato

instancabile nell’accusare i rivali “di essere talmente ricchi dall’essere lontani dalla realtà

economica degli americani”, “di non capire le esigenze della classe media”, e di avere accumulato

esorbitanti fortune. McCain peggiorerà la propria situazione collezionando gaffes clamorose (non

ricordando ad esempio il numero di case possedute), mentre Romney dovrà difendersi da accuse

relative all’aver pagato poche tasse e aver condotto discutibili operazioni finanziarie.

In assoluto però, l’aspetto più significativo della campagna elettorale 2012 è stato l’uso dei

dati degli elettori e la capacità di realizzare messaggi su misura per l’elettorato. Quel che è successo

ha infatti probabilmente aperto una nuova era nei rapporti tra democrazia, tecniche e tecnologie

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della comunicazione. Nella campagna elettorale che ha portato alla rielezione di Barack Obama

sono andati in onda numeri al posto di parole e una nuova e sofisticata capacità di utilizzarli per le

strategie elettorali. Con annessi problemi e pericoli sulla identificabilità degli elettori e sui possibili

usi tutt'altro che democratici della nuova frontiera della tecnodemocrazia.

Uno dei “segreti” della vittoria di Barack Obama è stato infatti la sua superiorità nell’uso

delle nuove tecnologie e nella capacità di identificare e raggiungere gli elettori indecisi degli stati in

bilico. La sofisticatezza raggiunta dalle tecniche di microtargeting è stata tale che lo staff di Obama

è riuscito a pianificare strategie specifiche per ogni singolo elettore indeciso residente in quegli

swing states su cui poi si è giocata l’elezione. Il team democratico ha speso oltre 100 milioni di

dollari in “investimenti tecnologici”. Come ha riferito al New York Times Jim Messina, capo dello

staff di Obama, gran parte di questi soldi sono stati utilizzati per acquistare “dati e banche dati,

ovunque” (Tufekci, 2012). Si è trattato principalmente di dati sensibili originariamente raccolti a

fini commerciali da grandi aziende e agenzie specializzate (tramite monitoraggio degli acquisti

personali, transazioni con carta di credito, programmi fedeltà etc) e acquistati sul mercato dagli

uomini di Obama. Questi dati sono poi stati “incrociati” con le statistiche elettorali del 2008 e del

2010 e con i dati fiscali individuali disponibili.

Con questa immensa mole di numeri, dall’inizio del 2012, la campagna democratica ha

effettuato oltre 66.000 simulazioni al computer al giorno ed è riuscita a mettere a punto un accurato

sistema di catalogazione degli elettori negli otto stati considerati in bilico dai sondaggi (Colorado,

Iowa, Florida, Nevada, New Hampshire, Ohio, Virginia, Wisconsin). In pratica è stato realizzato un

dossier per ciascuno di questi elettori indecisi. A ogni individuo sono stati associati quattro

parametri di valutazione, espressi in una scala da 1 a 100: il primo parametro era relativo al grado di

probabilità che quell’elettore votasse per Obama; il secondo alla possibilità che partecipasse

effettivamente al voto; gli altri due valori riguardavano il grado in cui poteva essere influenzato dai

sondaggi (terzo parametro) e dalle conversazioni interpersonali (quarto parametro).

L’analisi incrociata di questi quattro valori ha determinato le strategie d’azione della

campagna verso ogni singolo elettore. In base a questo, infatti, lo staff di Obama ha scelto quali

messaggi inviare, con che mezzo raggiungere l’elettore e se inviare volontari a domicilio per

persuaderlo di persona. In questo ambito la differenza con la campagna repubblicana è stata netta:

nonostante fosse molto ben finanziato, lo staff di Romney non ha organizzato alcuna attività di

questo tipo, ma ha preferito concentrarsi su gruppi specifici di elettori come i conservatori

evangelici, tradizionalmente vicini ai repubblicani ma spesso tendenti all’astensione. Una mancanza

forse decisiva: i quattro più importanti stati in bilico (Florida, Ohio, Virginia, Colorado) sono stati

tutti vinti da Obama con un margine inferiore ai 200'000 voti. Una circostanza che potrebbe

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suscitare qualche rimpianto in casa repubblicana: una campagna elettorale più accurata e meglio

“cucita” sui singoli elettori avrebbe potuto dare risultati ben diversi.

Come sempre accade, tra quattro anni queste tecniche saranno divenute la norma e nuove

strategie e altre invenzioni risulteranno decisive. Come è accaduto tra il 2008 e oggi: l’innovativo

uso di Twitter, YouTube e Facebook fu molto importante per creare entusiasmo attorno alla

candidatura del semi-sconosciuto Obama, garantirgli un efficace ritorno d’immagine e un costante

flusso di micro-donazioni spontanee. Appena quattro anni dopo però, le tattiche comunicative del

2008 sono diventate routine per entrambe le campagne. Un effetto probabile delle innovazioni del

2012 sarà quello di contribuire all’ennesimo incremento dei costi delle campagne elettorali: le

banche dati costano tanto, così come quegli algoritmi che sono essenziali per utilizzarle e che

spesso sono protetti da brevetto. Le attività di elaborazione dei dati necessitano poi di figure

altamente qualificate: ingegneri, matematici, programmatori, analisti. Tutte persone che per entrare

a far parte degli staff elettorali per qualche anno o pochi mesi devono essere convinte a lasciare il

lavoro o a prendersi lunghe aspettative. Non bastano volontari entusiasti, serviranno come il pane

professionisti ben pagati. Ma quello dei costi, e dunque dell'innalzamento delle barriere all'ingresso

della competizione elettorale, non è l'unico lato oscuro dell'era delle elezioni smart. C'è anche da

riflettere sulle conseguenze a lungo termine dell’uso di queste strategie di marketing elettorale la cui

materia prima, comunque la si giri, è l'elettore in persona. I suoi comportamenti, i suoi gusti, le sue

scelte. Tutto trasferito in dati, e dunque diventato “tracciabile”.

E' vero che, seppur in misura meno sofisticata, l’applicazione delle tecniche di vendita più

aggiornate alla politica avviene sin dagli anni ’60 (Davies, 2012). Ma con queste soluzioni si fa un

salto di qualità: arrivare a realizzare un “profilo” così preciso del singolo cittadino è forse qualcosa

che va oltre le normali strategie elettorali. Significa considerare l’elettore come un oggetto

manipolabile. Possiamo considerare queste operazioni come “tecniche normali in democrazia?”, è

la domanda di base. Alla quale ne seguono altre: come e per quanto tempo vengono conservati i

profili degli elettori? Quali i diritti del cittadino?

Nel 2008, una delle caratteristiche del successo di Obama fu la copertura mediatica

nettamente positiva che ricevette da stampa e televisione durante tutta la campagna elettorale.

Nell’analisi di Denton (2009) emergeva come non solo i grandi network liberal come Cnn e Msnbc

garantissero al candidato democratico cronache decisamente favorevoli, ma che perfino una

televisione dichiaratamente conservatrice come Fox News offrisse una copertura mediatica

“neutrale” ai due candidati. Quest’anno i dati del Pew Research Center (2012) mostrano una

situazione diversa: Obama avrebbe ricevuto un trattamento mediatico prevalentemente negativo,

eccezion fatta per la settimana successiva alla convention democratica e per l’ultima settimana

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prima del voto, dove le storie positive su Obama (29%) avrebbero superato quelle negative di 10

punti (19% le cronache negative).8 E’ quindi probabile che la buona gestione dell’uragano Sandy

abbia influenzato in maniera determinante televisioni e giornali e ciò potrebbe aver avuto un effetto

anche sul risultato elettorale.

A fronte di un Obama che avrebbe ricevuto un trattamento peggiore rispetto a quattro anni

prima, Mitt Romney non è certo stato il beniamino dei media tradizionali. L’ultima settimana di

Mitt Romney è stata “coperta” in modo nettamente negativo (33%), a fronte di un misero 16% di

cronache positive, un dato molto simile a quello sofferto dal candidato repubblicano nella penultima

settimana di campagna elettorale. Per quel che riguarda la presenza sui media dei due candidati,

anche qui emerge come l’uragano Sandy potrebbe essere stato un fattore decisivo: nell’ultima

settimana di campagna elettorale, Obama ha occupato l’80% dell’attenzione delle cronache

politiche rispetto al 62% dell’avversario. Questo nonostante il fatto nel mese di ottobre i due

candidati avessero avuto una presenza del tutto simile nelle storie che riguardavano la sfida

elettorale. Nel resto della campagna, invece, i candidati hanno ricevuto una copertura mediatica

paritaria in termini di presenza con Obama che ha potuto godere di un 9% in più frutto

probabilmente della sua presenza alla Casa Bianca (nel 2008 Obama e McCain pareggiarono a

quota 62%).

In generale, entrambi i candidati hanno ricevuto una copertura mediatica più negativa che

positiva, con punte di negatività maggiori associate ai social media. Le differenze con la campagna

del 2008 sono notevoli. Allora Obama ricevette una copertura positiva quasi doppia rispetto a quella

ottenuta nel 2012 (36% a 19%) e più positiva che negativa in termini assoluti (36% a 29%). McCain

ottenne anche un trattamento peggiore rispetto a quello riservato a Romney. Nel 2008, il 57% delle

storie associate a McCain erano caratterizzate negativamente, a fronte dell’appena 14% di cronache

positive. Insomma la copertura mediatica 2012 è apparsa meno schierata rispetto a quella del 2008 e

può essere suddivisa in tre periodi: nel primo, dalle convention al primo dibattito televisivo, Obama

ha beneficiato di un trattamento decisamente migliore rispetto all’avversario con un 20% di

cronache positive e un 24% di negative; a fronte di Romney che ha avuto appena il 4% di copertura

positiva contro il 52% di storie negative . Nel secondo, che va dal primo all’ultimo dibattito, è stato

Romney che ha potuto fregiarsi di una copertura mediatica migliore (23 a 23 per Romney, 12%

positivo e 37% negativo per Obama), mentre negli ultimi 10 giorni di campagna elettorale è stato di

nuovo il presidente uscente a godere di un miglior trattamento. E’ quindi evidente come la copertura

8 Si tratta di uno studio in cui le “storie” della campagna elettorale sono così definite quando almeno il 50% di esse è dedicato alla campagna elettorale. Queste sono state poi assegnate a uno dei due schieramenti quando i due candidati o i loro vice fossero stati presenti in almeno il 25% della cronaca.

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mediatica sia orientata dagli eventi che contraddistinguono la campagna e che nello specifico è stata

la performance dei candidati nei dibattiti televisivi a orientare il senso delle cronache giornalistiche.

Tab. 1: Copertura mediatica riservata ai due candidati. Stampa e TV Twitter Facebook Blogs Copertura mediatica

Positiva Mista Negativa Positiva Mista Negativa Pos Mista Neg Pos Mista Neg

Obama 19 51 30 25 31 45 24 22 53 19 37 44 Romney 15 47 38 16 25 58 23 15 62 18 36 46 Fonte: Pew Research Center for Excellence in Journalism (2012). La Tabella 1 mette in evidenza come il dibattito sui nuovi media sia stato molto più aspro rispetto a

quello avvenuto sulla stampa e sulla televisione. Gli utenti della Rete si sono dimostrati quindi

ancora una volta decisamente più “radicali” rispetto alle cronache giornalistiche mediate. Nello

specifico è sembrato essere Twitter il medium più caratterizzato da negative campaigning: qui gli

attacchi a Romney hanno superato di 42 punti le asserzioni positive e anche Obama ne è uscito con

un saldo negativo di 20 punti. Tra gli altri risultati proposti dallo studio citato, emerge come Msnbc

sia stata decisamente pro-Obama mentre Fox News abbia stavolta apertamente tifato per Romney e

che il candidato repubblicano alla vicepresidenza non abbia avuto lo stesso impatto mediatico di

Sarah Palin, poiché ha ricevuto una copertura mediatica tre volte inferiore (e sempre

prevalentemente negativa). Inoltre sia l’attenzione giornalistica che quella del web è stata più

concentrata su chi avesse vinto i dibattiti più che sui contenuti.

Ovviamente non è facile studiare i ridondanti flussi informativi presenti su Twitter,

Facebook e sui blog poiché sono soggetti ai frequenti cambiamenti d’umore degli utenti. Certo è

che la loro importanza come canali di approvvigionamento di informazioni politiche è in costante

aumento, così come esplicitato graficamente in Figura 2.

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Fig. 2: Mezzo principale di approvvigionamento di notizie politiche.

0

10

20

30

40

50

60

2000 2004 2008 2012 ott-12

TV localiTV via cavoTV nazionaliStampaWeb

Fonte: Pew Research Center for Excellence in Journalism (2012).

La Figura 3 mostra come il Web stia guadagnando posizioni anno dopo anno, a scapito

soprattutto della stampa e delle televisioni nazionali. La TV via cavo rimane comunque il mezzo

privilegiato di approvvigionamento di news politiche e il grafico relativo a ottobre 2012 mostra una

situazione piuttosto equilibrata, con il web ormai al livello delle TV locali e via cavo e già superiore

alle televisioni nazionali. E’interessante inoltre rilevare come la campagna presidenziale sia capace

di catalizzare le attenzioni dei cittadini americani: rispetto a gennaio 2012, molti più americani

dichiarano di “rifornirsi” di notizie politiche.

Il boom del Web dipende certamente dall’ormai capillare diffusione di tablet e smartphone,

strumenti che permettono una consultazione immediata di migliaia di fonti informative online.

Queste fonti sfuggono però spesso al “controllo” delle campagne e non sono mediate da

professionisti dell’informazione. Tuttavia, appare sufficientemente evidente come Obama abbia

ricevuto attenzioni più positive rispetto all’avversario. E questo nonostante entrambi i candidati

siano stati principalmente oggetto di critiche, a ulteriore testimonianza di come i nuovi media e i

social network in particolare scatenino gli istinti più partigiani delle opposte schiere di

simpatizzanti. E di come il web, per sua stessa natura, si presti a essere l’ambiente ideale per

attacchi di propaganda negativa di ogni tipo.

6. La raccolta fondi e le spese della campagna 2012. Come ormai accade ogni quattro anni, anche questa volta la campagna presidenziale ha battuto i

record di raccolta fondi e di spesa della precedente. I due candidati hanno raccolto

complessivamente oltre 1 miliardo di dollari. Cifra che raddoppia aggiungendo i contributi

provenienti dai rispettivi partiti. La campagna presidenziale del 2012 è perciò costata più di 2

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miliardi di dollari. Considerando l’intero ciclo elettorale, cioè tutte le corse per il Congresso, i

referendum e le elezioni dei governatori si stima che la campagna elettorale 2012 sia costata

complessivamente circa 6 miliardi di dollari.

Per quanto riguarda la sola contesa presidenziale sono stati trasmessi più di un milione di

spot televisivi, si è speso oltre un miliardo in pubblicità e la spesa per elettore è stata stimata in 42

dollari (nel 2008 fu di 18 dollari). Ovviamente nessuno dei due candidati si è avvalso del

finanziamento pubblico, che avrebbe limitato il budget a disposizione al di sotto dei 100 milioni di

dollari. Nel 2008 McCain vi ricorse perché pensava di non riuscire a raggiungere una cifra più

elevata con le donazioni private. Quest’anno, sia Obama che Romney non hanno avuto problemi a

superare abbondantemente la cifra stabilita dal finanziamento pubblico, che avrebbe inevitabilmente

ridotto le chances di elezione di chi vi avrebbe fatto ricorso.

Dall’analisi dei dati pubblicati dalla Federal Election Commission (2012) risulta come

Obama abbia ricevuto più donazioni di Romney (715'677'692 dollari a 446'135'997 dollari) ma che

quest’ultimo abbia beneficiato di maggiori trasferimenti economici dal partito (Romney ha ricevuto

378'828'234 dal partito repubblicano, Obama 285'801'769 da quello democratico). La sostanza non

cambia, il saldo finale per i due candidati è abbondantemente superiore al miliardo di dollari

ciascuno, con un lieve vantaggio per Romney.

Molto più interessante è chi abbia finanziato i due candidati. Obama ha ricevuto più “piccoli

contributi individuali” (donazioni inferiori a 200 dollari) rispetto all’avversario. Nello specifico, il

56% delle donazioni private ricevute dal presidente uscente sono state di taglio inferiore ai 200

dollari, il 33% è stato tra i 200 e i 2500 dollari, mentre appena 11 donazioni su 100 sono state

superiori a 2500 dollari. Per Romney i rapporti si invertono: il 23% delle donazioni ricevute sono

state inferiori a 200 dollari, il 35% tra 200 e 2500 dollari e ben il 42% delle donazioni spontanee è

composto da dazioni superiori a 2500 dollari.

La Tabella 2 mostra quale fosse l’affiliazione più ricorrente tra i donatori dei due candidati.

Attenzione però, non sono queste aziende o istituzioni ad aver fatto donazioni direttamente, ma i

loro dipendenti o affiliati e dal conteggio sono ovviamente esclusi i finanziamenti fatti ai cosiddetti

SuperPAC. Essenzialmente quindi la Tabella mostra quale sia il profilo del donatore “medio” di

Obama e quale di Romney.

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Tab. 2: Affiliazione fiscale più ricorrente dei singoli donatori di Obama e Romney. Candidato Obama Romney Affiliazione del donatore Cifra donata ($) Affiliazione del donatore Cifra donata ($) 1 University of California 1'092'906 Goldman Sachs 994'139 2 Microsoft 761'343 Bank of America 921'839 3 Google 737'055 Morgan Stanley 827'255 4 US Government 627'628 JPMorgan Chase & Co 792'147 5 Harvard University 602'992 Credit Suisse Group 618'941 Fonte: OpenSecrets.org (2012). Pur mostrando cifre limitate rispetto ai totali generali, la tabella 2 è sufficientemente esplicativa.

Dalla parte di Obama ci sono le università, Google, Microsoft e i dipendenti pubblici. Con Romney

le banche e l’alta finanza. E’ ovviamente riduttivo trarre delle conclusioni da questi dati. E’

indubbio però come questi confermino analisi e pregiudizi ben radicati, che non si limitano solo alla

sfida Obama-Romney, ma vanno ricondotti alle tradizionali basi elettorali di democratici e

repubblicani. Il partito del presidente uscente è preferito dai dipendenti pubblici, dai docenti e dalle

persone più istruite, mentre il candidato repubblicano appare come un’espressione dei ceti più

ricchi. Interessanti anche i dati riportati in Tabella 3, che confermano la diversità delle due

campagne: Obama ha ricevuto donazioni private anche da molte donne, a fronte di una campagna

repubblicana finanziata principalmente da uomini.

Tab. 3: Caratteristiche demografiche dei finanziatori dei due candidati. Candidato Obama Romney Donatore Percentuale sul

totale Numero di donatori

Totale donato ($)

Percentuale sul totale

Numero di donatori

Totale donato ($)

Uomini 55,8% 138'920 145'161'158 71,5% 160'996 214'617'157 Donne 44,2% 122'532 114'927'328 28,5% 62'036 85'559'595 Fonte: OpenSecrets.org (2012). Per quanto riguarda i SuperPAC,9 Obama ne aveva 15 schierati dalla sua parte, contro i 20 “vicini”

a Romney. Questo solo per quel che riguarda i maggiori comitati indipendenti, perché in assoluto i

SuperPAC attivi nella campagna presidenziale 2012 sono stati ben 266. La loro spesa complessiva è

9 I SuperPAC sono comitati elettorali indipendenti che partecipano attivamente alla campagna elettorale realizzando spot, organizzando eventi e altre forme di attività politica. Non possono ufficialmente coordinarsi con i candidati e i partiti, ma di fatto molti di questi sono evidentemente schierati. La sentenza della Corte Suprema Citizens United v. Fec del 2010 ha consentito anche ad aziende e sindacati di finanziare direttamente questi comitati, in virtù del principio del freedom of speech garantito costituzionalmente dal I emendamento costituzionale.

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stata superiore ai 550 milioni di dollari, con una significativa prevalenza di investimenti a favore del

candidato repubblicano. Secondo le statistiche della Fec, infatti, i comitati indipendenti hanno fatto

pubblicità elettorale contro Barack Obama per circa 291 milioni di dollari, a fronte dei “soli” 94

milioni di dollari spesi per attaccare Mitt Romney. L’attività di appoggio dei SuperPac ai candidati

è stata invece molto inferiore (25 milioni di dollari circa spesa a sostegno di Obama, 77 milioni

invece in appoggio a Romney).

Riguardo alle spese dei due candidati, l’allocazione degli investimenti è stata molto simile,

con qualche milione di dollari in più investito da Obama in spese amministrative e una percentuale

di budget più ampia destinata da Romney agli spot elettorali. Obama ha speso 333 milioni di

dollari per trasmettere 562'664 spot televisivi (l’85% dei quali con qualche riferimento negativo

al’avversario), Romney ha investito 147 milioni di dollari per trasmettere 223'584 spot (il 91% dei

quali negativi). Ma, come detto, accanto ai candidati erano presenti partiti e superPAC ed è

soprattutto grazie a questi che Romney è riuscito a superare Obama almeno nella spesa in pubblicità

televisiva. Basti pensare che comitati quali American Crossroads e Restore Our Future, di chiara

afferenza conservatrice, abbiano investito rispettivamente 128 e 77 milioni di dollari,

principalmente in spot di attacco a Obama.

Per quanto riguarda l’allocazione geografica di questi investimenti, la Tabella 11 mostra

come ovviamente siano stati i battleground states ad aver ricevuto il maggior afflusso di denaro

investito dalle due campagne elettorali. Interessante è anche verificare l’allocazione geografica

degli investimenti. A fronte di spese enormi sostenute da entrambi i candidati, va rilevato come

Romney abbia quasi sempre investito qualche milione in più di Obama a livello di singolo stato.

Essendo i totali di spesa poco dissimili, è evidente quindi come anche stavolta Obama abbia teso a

organizzare una campagna elettorale il più possibile nazionale, andando a trasmettere spot televisivi

anche in stati già vinti o già persi in partenza.

Tab. 4: Investimenti delle campagne elettorali suddivisi per stato. Stato Totale investito (milioni di $) Democratici (milioni di $) Repubblicani (milioni di $) Florida 173 78 95 Virginia 151 68 83 Ohio 150 72 78 North Carolina 97 40 57 Colorado 73 36 37 Iowa 57 27 30 Nevada 55 26 29 Wisconsin 39 13 27 New Hampshire 34 18 16 Michigan 33 8 24 Fonte: Nostra elaborazione su dati Fec (2012).

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Quello che invece ha sorpreso negativamente sono stati gli scarsi investimenti destinati alla

pubblicità online e al Web in generale. Sono ormai molti anni che gli esperti sostengono come il

Web sia destinato a sorpassare la televisione come medium principale delle campagne elettorali.

Come già anticipato nel capitolo precedente, anche quest’anno i due candidati sono stati ben

presenti sui nuovi media e il buzz creato da Twitter, Facebook e altri social network è stato enorme

e forse anche politicamente influente. Tuttavia, essendo questo flusso mediatico sostanzialmente

gratuito e generato dagli utenti, ancora non è facile per le aziende del settore digitale riuscire a

monetizzare le loro applicazioni e i loro prodotti.

Sebbene perciò il web sia sempre più utilizzato come mezzo d’approvvigionamento di

notizie e i fatturati della pubblicità online siano in costante crescita, anche quest’anno gli

investimenti dei due candidati in pubblicità online sono stati molto marginali. Obama ha speso 47

milioni di dollari (a fronte dei 16 investiti nel 2008), Mitt Romney ha invece speso appena 4,7

milioni (in lieve crescita rispetto ai 3,6 spesi da McCain quattro anni prima). Obama ha speso 10

volte più di Romney, ma si tratta di cifre che appaiono quasi ridicole se paragonate agli investimenti

in spot televisivi (OpenSecrets.org, 2012).

Conclusioni.

Nella campagna presidenziale del 2012 entrambi i candidati sono riusciti a costruire delle efficaci

macchine elettorali, che sono state molto abili nell’attività della raccolta fondi. Entrambe le

campagne potevano contare su circa un miliardo di dollari ciascuna e non hanno lesinato in spese in

pubblicità elettorale, in quella che è stata la più costosa campagna elettorale di sempre. I due

candidati hanno prevalentemente realizzato spot di attacco all’avversario, generando una spirale

negativa che ha finito per avviluppare entrambi in una copertura mediatica essenzialmente negativa.

Obama ha speso di più nell’arruolare volontari e nell’aprire sedi locali ma il suo vero vantaggio

competitivo è stato l’acquisto di svariate banche dati e l’incrocio di dati sensibili che ha permesso

allo staff democratico di mappare gli elettori degli stati in bilico e verificare quali fossero le

strategie migliori per persuaderli a votare per Obama. La superiorità nell’uso e nella combinazione

di dati personali e commerciali è stata totale: la campagna repubblicana nemmeno sapeva di queste

tecniche e ha preferito ricorrere alla propaganda tradizionale e calibrare messaggi specifici per

gruppi elettorali affini (come gli evangelici conservatori).

Seppur in crescita rispetto al 2008, le due campagne hanno investito relativamente poco

sull’online: sebbene i democratici abbiano speso dieci volte di più, i numeri rimangono piccoli. A

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testimonianza non di una irrilevanza politica – tutt’altro, il consumo di notizie e di promozione di

contenuti politici è in costante aumento – ma della difficoltà per gli operatori del settore di ottenere

profitti dal web.

La caratteristica forse più interessante è quella relativa alla sostanziale somiglianza, a livello

retorico, della sfida Obama-Romney con quella di Obama-McCain di quattro anni prima. I due

candidati repubblicani, pur provenendo da storie e retroterra culturali molto differenti, hanno

condotto campagne elettorali molto simili. Entrambi hanno cercato la via della “moderazione”,

presentandosi come “indipendenti” e “lontani” dal partito repubblicano centrale. Sia Romney che

McCain, inoltre, hanno tentato di bilanciare questa loro spinta “centrista” nominando un candidato

alla vicepresidenza che fosse beniamino dell’area più conservatrice e che bilanciasse in termini

anagrafici l’esperienza e la maturità del candidato alla presidenza: prima fu scelta Sarah Palin, poi

Paul Ryan. Sul piano contenutistico, entrambe le campagne repubblicane hanno pagato l’assenza di

una strategia specifica, patendo frequenti avvicendamenti all’interno dello staff organizzativo e

mancando di una lineare visione programmatica. Come McCain puntò sull’inesperienza di Obama e

sulla vacuità delle sue immaginifiche proposte, Romney ha incentrato quasi completamente la

propria potenza comunicativa sui temi economici, tentando di associare le perduranti difficoltà

economiche con i quattro anni di amministrazione Obama. Allo stesso tempo, l’ex governatore del

Massachusetts intendeva avvalorare il proprio profilo di manager di successo, capace di risollevare

le sorti di numerose aziende, del comitato olimpico di Salt Lake City del 2002 e, appunto, dello

stato del Massachusetts.

Chi per le elezioni del 2012 si attendeva un Obama sulla difensiva ha avuto torto. Il

presidente uscente ha attaccato l’avversario dall’inizio alla fine, in modo del tutto simile a quello

fatto quattro anni prima. La campagna televisiva di Obama è stata prevalentemente negativa, con

continui attacchi a Romney. Come successo con McCain, il presidente uscente ha insistito nel farsi

paladino dei più deboli e della classe media, accusando Romney di elitarismo e di essere talmente

ricco da non essere in grado di capire le necessità delle persone comuni. Obama, pur essendo alla

Casa Bianca da quattro anni ha realizzato spot elettorali come fosse lo sfidante, come fosse l’Obama

del 2008. La campagna sognatrice ed entusiasmante di quattro anni prima è stata logicamente

mitigata dai doveri e dal realismo di governo, ma le strategie di attacco sono rimaste le stesse.

Curiosamente, a differenza del 2008, quando la sfera religiosa di Obama fu al centro del dibattito e

della propaganda, nel 2012 gli stessi spunti polemici hanno avuto un eco molto minore, nonostante

la fede mormone di Romney si prestasse a questo tipo di attacchi. E’ probabile, tuttavia, che questi

fossero tenuti come “arma segreta”, nel caso di un innalzamento dei toni nei giorni finali di

campagna elettorale.

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Come ormai capita da molti anni, la campagna elettorale si è sviluppata prevalentemente

negli stati in bilico, essenziali per la vittoria finale, così come previsto dal caratteristico sistema del

Collegio Elettorale. La Florida è lo stato che ha attirato il maggior numero di investimenti in

pubblicità televisiva elettorale, forte dei suoi desideratissimi 29 Grandi Elettori. Come Romney ha

esclusivamente concentrato i suoi sforzi negli 8-10 swing states, Obama ha comunque destinato

risorse anche a territori “non contendibili”. Di fatto, gli spot elettorali di Obama hanno coperto

insistentemente l’intero territorio americano, mentre la propaganda repubblicana ha ignorato talune

aree date per già vinte o già perse in partenza. Le spiegazioni per la scelta di Obama - intrapresa già

nel 2008, in misura perfino maggiore – possono essere due. Da un lato, la volontà di “aiutare” altri

democratici in corse elettorali locali (nel novembre scorso si è votato anche per il rinnovo della

Camera, di un terzo del Senato e per molti governatori e per referendum a livello statale),

affiancando quindi la sua immagine a quella di politici locali. L’altra ipotesi, ovviamente non in

contrasto con la precedente, è quella relativa alla forza orizzontale della Rete e delle relazioni

interpersonali. Per esempio, Obama, facendo campagna anche in uno stato apparentemente perso

come il “rosso” Idaho, riesce comunque a far parlare di sé, delle sue proposte e dei suoi compagni

di partito. Il dibattito che ne scaturisce, sia a livello mediatico che interpersonale, fuoriesce dai

confini dello stato (Twitter, Facebook e Instantgram non hanno confini) e andrebbe in qualche

modo a influenzare anche elettori di altri stati, grazie appunto alla forza orizzontale della Rete.

Un ultimo dato, troppo spesso sottovalutato, è quello relativo alla copertura mediatica. Già

numerose ricerche misero in luce come nella campagna elettorale del 2008, a Obama fosse garantito

un trattamento nettamente più favorevole di quello che i media riservavano a McCain. Nel 2012, la

situazione è cambiata solo parzialmente: il contesto mediatico è stato più equilibrato ma il

presidente uscente ha goduto anche stavolta di una maggior copertura mediatica positiva. La novità

rispetto a quattro anni prima è la presenza di analisi relative ai sentimenti collettivi espressi dagli

utenti dei social media: anche qui la campagna di Obama sembra aver fatto meglio di quella del

rivale.

Romney ha fatto meglio di McCain, ha conquistato più Grandi Elettori, più stati e ha preso

un milione di voti in più del predecessore, pur in un’elezione che ha visto un’affluenza inferiore di

circa 2 milioni di voti alla precedente. Un calo della partecipazione che ha però danneggiato più

Obama del rivale: il presidente uscente ha infatti perso più di tre milioni di voti in quattro anni.

Romney è stato però ridicolizzato nel computo dei voti delle minoranze etniche. Data per scontata

la vittoria democratica tra i neri, i 44 punti di differenza tra lui e Obama nel voto ispanico sono stati

decisivi in Nevada, Colorado e Florida. I latinos erano delusi da Obama ma terrorizzati dall’idea di

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una presidenza Romney, caratterizzata da tagli al welfare e restrizione delle politiche

sull’immigrazione.

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