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L’Occhio del Cielo Il suo respiro era il vibrare di una foglia nell’aria. Era immobile da ore, schiacciato come un sasso all’ombra del tronco nero. Il minimo rumore, nel silenzio assoluto del bosco morto, sarebbe stato il fragore di un’esplosione. L’alito della vita era sempre più raro, tra quelle piante rinsecchite e asfittiche. La canna del fucile, avvolta nella iuta di un vecchio sacco, lo cercava annusando l’aria come un segugio infernale. Ma le braccia che reggevano l’arma erano spossate. Erano ore che Geronimo attendeva. Sapeva che era solo questione di tempo, prima che il suo bersaglio spuntasse dal groviglio di rovi in cui si era infilato per sfuggirgli. Anche lui stava solo aspettando, immobile tra le spine ed i rami ritorti. Il più paziente sarebbe stato il vincitore. E Geronimo aveva imparato che per vivere doveva essere molto paziente. Finalmente dall’intreccio di rovi si levò un leggero fruscio. L’altro aveva deciso che il tempo di uscire dal nascondiglio era giunto. Si sbagliava e sarebbe stato il suo ultimo errore. Attraverso l’aria lattiginosa una sagoma scura spuntò dalle sterpaglie. Anche attraverso la bruma, Geronimo vide gli occhi della preda luccicare come due monete dal fondo di un pozzo. Fermò il fiato e tirò il grilletto. Un guaito stupito si sovrappose al colpo sordo del fucile. Poi il bosco morente tornò silenzioso come un cimitero. Geronimo corse verso il bersaglio abbattuto. Lo aveva colpito alla testa. Aveva sempre un’ottima mira. Come temeva, il cane era scheletrico. Tra le costole e la pelle non c‘era quasi niente, le zampe erano rami secchi, fatte solo di ossa e nervi. Ma erano settimane che Geronimo non mangiava proteine e non poteva certo permettersi di rinunciare a quella misera carne. Sfilò il coltello dalla cintura ed iniziò a spellare il cane, levandogli via la pelliccia grigia con la precisione e la rapidità che veniva dall’esperienza. Infilò la carcassa nuda del cane in un sacco che legò allo zaino e fece per rimettersi in marcia, quando il rumore di un motore che ronzava in lontananza lo bloccò. Il rumore non poteva che venire dall’unica strada percorribile che attraversava i resti del bosco. Geronimo si mise a correre dalla parte opposta a quella da dove si alzava il suono del motore. La carrozzabile disegnava un’ampia U, se si sbrigava avrebbe potuto tagliare la strada al veicolo in arrivo. Attraversò correndo il tappeto di foglie putride, schivando i tronchi marci degli alberi ammalati, le orecchie tese al ronzio dell’auto che si faceva sempre più vicino. Ad un tratto il vecchio nastro d’asfalto sgangherato fu sotto di lui, a meno di due metri dalla suola dei suoi scarponi. Saltò dall’argine senza pensare a quel faceva ed atterrò in mezzo alla strada, faticando per non perdere l’equilibrio e ruzzolare a terra. Una forma scura avanzava lentamente, sferragliando e tagliando la bruma con la luce pallida di due occhi gialli, squadrati. Puntava dritto nella sua direzione. Geronimo si piazzò a gambe larghe nel centro della strada ed esplose due colpi di avvertimento davanti all’auto in avvicinamento, per farla fermare. Il veicolo inchiodò immediatamente. Un finestrino si aprì e ne uscì un avambraccio lungo e secco come un ramo, che terminava in un palmo aperto in segno di pace.

si avvicinò all’auto. · L’Occhio del Cielo Il suo respiro era il vibrare di una foglia nell’aria. Era immobile da ore, schiacciato come un sasso all’ombra del tronco nero

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Page 1: si avvicinò all’auto. · L’Occhio del Cielo Il suo respiro era il vibrare di una foglia nell’aria. Era immobile da ore, schiacciato come un sasso all’ombra del tronco nero

L’Occhio del Cielo

Il suo respiro era il vibrare di una foglia nell’aria. Era immobile da ore, schiacciato come un

sasso all’ombra del tronco nero. Il minimo rumore, nel silenzio assoluto del bosco morto, sarebbe

stato il fragore di un’esplosione. L’alito della vita era sempre più raro, tra quelle piante rinsecchite e

asfittiche. La canna del fucile, avvolta nella iuta di un vecchio sacco, lo cercava annusando l’aria

come un segugio infernale. Ma le braccia che reggevano l’arma erano spossate. Erano ore che

Geronimo attendeva. Sapeva che era solo questione di tempo, prima che il suo bersaglio spuntasse

dal groviglio di rovi in cui si era infilato per sfuggirgli. Anche lui stava solo aspettando, immobile

tra le spine ed i rami ritorti. Il più paziente sarebbe stato il vincitore. E Geronimo aveva imparato

che per vivere doveva essere molto paziente.

Finalmente dall’intreccio di rovi si levò un leggero fruscio. L’altro aveva deciso che il tempo di

uscire dal nascondiglio era giunto. Si sbagliava e sarebbe stato il suo ultimo errore. Attraverso

l’aria lattiginosa una sagoma scura spuntò dalle sterpaglie. Anche attraverso la bruma, Geronimo

vide gli occhi della preda luccicare come due monete dal fondo di un pozzo.

Fermò il fiato e tirò il grilletto. Un guaito stupito si sovrappose al colpo sordo del fucile. Poi il

bosco morente tornò silenzioso come un cimitero. Geronimo corse verso il bersaglio abbattuto. Lo

aveva colpito alla testa. Aveva sempre un’ottima mira. Come temeva, il cane era scheletrico. Tra le

costole e la pelle non c‘era quasi niente, le zampe erano rami secchi, fatte solo di ossa e nervi. Ma

erano settimane che Geronimo non mangiava proteine e non poteva certo permettersi di rinunciare a

quella misera carne. Sfilò il coltello dalla cintura ed iniziò a spellare il cane, levandogli via la

pelliccia grigia con la precisione e la rapidità che veniva dall’esperienza.

Infilò la carcassa nuda del cane in un sacco che legò allo zaino e fece per rimettersi in marcia,

quando il rumore di un motore che ronzava in lontananza lo bloccò. Il rumore non poteva che venire

dall’unica strada percorribile che attraversava i resti del bosco. Geronimo si mise a correre dalla

parte opposta a quella da dove si alzava il suono del motore. La carrozzabile disegnava un’ampia U,

se si sbrigava avrebbe potuto tagliare la strada al veicolo in arrivo. Attraversò correndo il tappeto di

foglie putride, schivando i tronchi marci degli alberi ammalati, le orecchie tese al ronzio dell’auto

che si faceva sempre più vicino. Ad un tratto il vecchio nastro d’asfalto sgangherato fu sotto di lui,

a meno di due metri dalla suola dei suoi scarponi.

Saltò dall’argine senza pensare a quel faceva ed atterrò in mezzo alla strada, faticando per non

perdere l’equilibrio e ruzzolare a terra. Una forma scura avanzava lentamente, sferragliando e

tagliando la bruma con la luce pallida di due occhi gialli, squadrati. Puntava dritto nella sua

direzione.

Geronimo si piazzò a gambe larghe nel centro della strada ed esplose due colpi di avvertimento

davanti all’auto in avvicinamento, per farla fermare.

Il veicolo inchiodò immediatamente. Un finestrino si aprì e ne uscì un avambraccio lungo e secco

come un ramo, che terminava in un palmo aperto in segno di pace.

Page 2: si avvicinò all’auto. · L’Occhio del Cielo Il suo respiro era il vibrare di una foglia nell’aria. Era immobile da ore, schiacciato come un sasso all’ombra del tronco nero

Tenendo il fucile puntato davanti a sé Geronimo si avvicinò all’auto. Era un grosso fuoristrada,

messo insieme con i pezzi di almeno una mezza dozzina di auto diverse. Una macchina di tutto

rispetto. Cercò di guardare nell’abitacolo ma il velo di polvere umida che oscurava il parabrezza

non glielo permise. Gridò all’avambraccio di scendere lentamente dall’auto.

La portiera dell’auto si aprì stridendo. Il proprietario dell’avambraccio era un uomo di una

sessantina d’anni, con la testa glabra e la barba grigia. Sopra i vestiti portava la casacca nera con lo

stemma dei Sapienti: un compasso rosso inscritto dentro un cerchio. Dal lato opposto dell’auto uscì

una giovane donna, con i capelli cortissimi e gli occhi verdi come fondi di bottiglia. Anche lei

aveva la casacca nera dei Sapienti, ma il compasso era ancora giallo, il colore degli Apprendisti.

Geronimo abbassò immediatamente il fucile, spaventato da quello che aveva appena fatto. Sparare

verso dei Sapienti poteva avere conseguenze spiacevoli.

- Perché ci hai sparato addosso ? – chiese il Sapiente.

- Mi dispiace. E’ la procedura per fermare un’auto di estranei pericolosi in avvicinamento – rispose

Geronimo.

- Non sarebbe meglio vedere prima se a bordo ci sono, gli estranei pericolosi ? – disse dura la

giovane Apprendista.

- Mi hanno insegnato che prima si spara più tardi si muore. Comunque non vi ho sparato addosso,

ho tirato due metri davanti all’auto.…

La donna girò intorno all’auto e puntò il dito verso la griglia sul muso - Ci hai bucato il radiatore,

imbecille.

Da un foro quasi invisibile si alzava il vapore bollente e si mischiava alla bruma che li avvolgeva.

- Si vede che ho sbagliato. Di solito non succede – Geronimo era avvampato per l’insulto. Un uomo

che per mestiere gira armato non è abituato a sentirsi dare dell’imbecille da una ragazza disarmata.

Anche se la ragazza è un Apprendista ed è piuttosto bella.

- Ormai è fatta – disse il Sapiente - Speriamo che questo incidente non ci faccia perdere troppo

tempo. Adesso è tardi, tra poco farà buio. Domattina la ripareremo.

- Vuoi dormire qui ? – chiese la ragazza.

- Sì – rispose il Sapiente – dormiremo nell’auto.

- Non mi piace dormire nel mezzo di un bosco morto. Si possono fare brutti incontri.

- Non dovete preoccuparvi – intervenne Geronimo – resterò con voi. Non vi succederà niente.

Il Sapiente e l’Apprendista guardarono Geronimo. Era poco più che un ragazzino, con gli occhi

enormi per l’eccessiva magrezza ed i capelli sporchi di terra ritti in testa come piume. Nonostante il

fucile automatico a tracolla, la tuta mimetica insudiciata ed il pugnale alla cintura, sembrava essere

il primo ad avere bisogno di essere protetto.

- Io mi chiamo Nina. Lui è Marcus – disse l’Apprendista, come se parlasse al bosco.

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Nina tolse dall’auto una borsa, ne estrasse delle gallette scure e qualcosa che sembrava carne secca.

Geronimo si offrì di arrostire il cane appena ucciso, ma quando Marcus vide l’animale scuoiato lo

tolse dalle mani di Geronimo e lo gettò via. La carcassa del cane scomparve dentro un groviglio di

rovi polverosi. Geronimo guardò sbalordito il Sapiente.

- Queste bestie sono tutte malate, non è il caso di mangiarle.

Mangiarono appoggiati al fuoristrada, veloci ed in silenzio. Mentre masticavano le gallette e la

carne secca, i tronchi marci degli alberi sparivano uno dopo l’altro affondando nell’oscurità che si

infittiva intorno a loro. Dopo che ebbero mangiato entrarono nell’auto e si prepararono al sonno.

Geronimo si offrì di fare il primo turno di guardia, ma Marcus decise che sarebbe stato del tutto

inutile. La bruma aveva lasciato il posto ad una nebbia impenetrabile, che aveva raschiato via ogni

traccia del mondo. Se qualcuno o qualcosa li avesse trovati perfino sotto a quel sudario umido e

grigio, nessuno di loro avrebbe potuto vederlo arrivare prima che fosse troppo tardi.

Marcus e Geronimo si sistemarono sui sedili anteriori, Nina si sdraiò su quello posteriore. Marcus si

addormentò subito. Nina invece si arrotolò una sigaretta con qualcosa che assomigliava al tabacco e

se l’accese. Dal finestrino, mezzo abbassato per lasciare uscire il fumo invisibile, entrò nell’auto

l’umido della notte; portava con sé il fiato cattivo del bosco fradicio, che marciva in silenzio da

anni.

- Da dove venite ? – chiese Geronimo alla ragazza.

- Veniamo dalla Torre delle Stelle – rispose Nina espirando il fumo dolciastro.

- La Torre delle Stelle ! Dicono che da lì si vede tutto l’universo…

- Non è vero. C’è solo un telescopio. Si vedono il cielo e moltissime stelle, ma nessuno può vedere

tutto l’universo.

- Cos’è un telescopio ? – domandò Geronimo.

- E’ come un grande cannocchiale. Un cannocchiale enorme, con cui si può guardare lontano nel

cielo.

- Fino alle stelle ?

- Sì, fino alle stelle.

Geronimo stette in silenzio per qualche minuto. Nina poteva sentire il rumore dei suoi pensieri

corrergli sotto i capelli arruffati.

- Deve essere meraviglioso essere dei Sapienti. Un cannocchiale che vede le stelle ! Solo dei maghi

possono far funzionare un oggetto simile.

- Non siamo dei maghi. Cerchiamo solo di salvare qualcosa di quello che c’era prima che arrivasse

l’Occhio del Cielo. Ma siamo uomini e donne come tutti gli altri.

- Ma nessuno è rispettato come voi.

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- Tutti fingono rispetto perché hanno bisogno di noi. Per far funzionare le macchine, per aggiustarle

quando si spaccano. Per curarsi quando sono malati. Per ricordare a sé stessi cos’erano gli uomini

una volta. Ma dentro o ci temono o ci disprezzano. Spesso entrambe le cose.

Geronimo tacque a lungo. Lui non disprezzava i Sapienti, ma non poteva negare di averne timore.

Erano rimasti gli unici, ormai, che ricordavano i segreti del passato, dell’Età dell’Oro che esisteva

prima che arrivasse l’Occhio. E tra quei segreti ve ne erano di spaventosi. Ma senza i Sapienti

sarebbero tornati all’età della pietra. Perfino il fucile che Geronimo portava con sé aveva bisogno

delle conoscenze dei Sapienti, per poter essere riparato quando qualche pezzo troppo vecchio si

rompeva. Quel poco che ancora funzionava si sarebbe fermato per sempre, senza di loro. Eppure

molti li disprezzavano perché vedevano nei Sapienti dei negromanti che approfittavano della

sciagura di un’umanità sofferente con il potere delle loro conoscenze arcane. I Sapienti avevano

sempre la pancia piena in un mondo che moriva di fame. Sarebbe bastato questo a renderli odiosi ai

più.

- Guardate anche l’Occhio, con quel tele… con quella cosa che scruta il cielo ? – domandò

Geronimo quando ebbe accantonato quei pensieri cupi.

- Telescopio. Si chiama telescopio. Sì, guardiamo anche l’Occhio. Ma non c’è molto da vedere più

di quello che puoi vedere anche tu. L’Occhio è l’Occhio: una gigantesca sfera che galleggia nel

cielo. Non c’è altro che si possa vedere, per quanto lo si guardi da vicino.

Marcus si mosse nel sonno e borbottò qualcosa di incomprensibile, forse il riflesso di un sogno

tenebroso. Nina e Geronimo si zittirono di colpo, come scolaretti sorpresi a chiacchierare da una

maestra severa. La ragazza lanciò il mozzicone fuori dall’abitacolo, facendo scattare le dite lunghe e

magre; alzò il finestrino e ripiegò il capo sulla spalla, come un uccello che si appresti a dormire.

Geronimo incrociò le braccia come una rudimentale coperta ed entrambi scivolarono in fretta in un

sonno pesante e senza sogni.

Quando Nina e Geronimo riaprirono gli occhi, svegliati dal rumore di un oggetto metallico che

colpiva il terreno, la nebbia si era alzata, restituendo al bosco una flebile luce giallognola. Marcus

non era più accanto a loro, stava già lavorando da un po’ al radiatore bucato. Aveva preso dal

bagagliaio una pasta metallica e gommosa, e con quella stava finendo di sistemare il foro del

proiettile.

Nina scaldò qualcosa di scuro che assomigliava a caffè con un piccolo fornello a gas; mangiarono

altre gallette, inzuppandole nel liquido torbido.

Quando ebbero finito e fu chiaro che era giunto il momento di riprendere il viaggio, Marcus e Nina

guardarono contemporaneamente Geronimo. Nonostante l’evidenza della domanda racchiusa nel

loro sguardo, Geronimo rimase in silenzio, distogliendo gli occhi da quelli dei due Sapienti.

- Che cosa intendi fare, dunque ? – domandò Marcus, toccandosi la barba.

- Potreste darmi un passaggio, se non vi dispiace – disse infine Geronimo.

- Non devi tornare dai tuoi compagni ? – chiese Nina.

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- Il mio Capitano mi ha mandato in ricognizione. Devo farmi un’idea di come vanno le cose da

queste parti e tornare a riferire.

- Chi è il tuo Capitano ? – chiese Marcus.

- E’ il comandante delle Milizia dell’Agro. Dovrò tornare là tra un po’ di tempo, per riunirmi al

Capitano ed ai miei compagni – disse Geronimo dopo qualche istante di silenzio.

- Non sai nemmeno dove andiamo – disse Marcus.

- E dove andate ?

- Andiamo a Roma. Sei sicuro di voler venire con noi ? – chiese Marcus.

- A Roma ? Ma non c’è più niente laggiù, a parte il Papa. Se ne sono andati tutti quando…

- Noi non siamo in cerca di luoghi affollati – ribatté secco Marcus – abbiamo i nostri motivi per

andarci. Ma forse preferisci tornare nell’Agro, dal tuo Capitano.

- No. Roma va benissimo. Mi lascerete fuori della città.

Ripresero il viaggio sotto il sole smunto del mattino. Marcus guidava, mentre Nina ogni tanto

controllava una vecchia cartina stradale sul punto di andare polverizzarsi. Geronimo sedeva sul

sedile posteriore e stava in silenzio, rimuginando pensieri vagabondi.

Usciti dal bosco moribondo presero una strada che saliva per le colline. L’asfalto non c’era quasi

più e quel che ne restava doveva avere più d’un secolo. Dovettero rallentare l’andatura, marciando

quasi a passo d’uomo.

- Cosa andate a fare a Roma ? – chiese d’un tratto Geronimo, che aveva ruminato dentro di sé quella

domanda da quando erano partiti, senza trovare il coraggio di farla.

Prima che qualcuno gli rispondesse Marcus fermò l’auto. Lui e Nina scesero e si diressero verso

uno strapiombo che costeggiava la strada. Geronimo li seguì allarmato, imbracciando il fucile. I due

Sapienti erano fermi al bordo dello strapiombo e guardavano verso l’alto. Geronimo seguì il loro

sguardo e sobbalzò. Attraverso uno squarcio delle nubi grasse e grigie che si raggrumavano nel

cielo, l’Occhio spuntava gigantesco. Bianco e leggermente luminescente, avrebbe potuto essere

scambiato per la Luna, se non fosse stato immediatamente evidente che era molto più vicino agli

uomini di quanto lo fosse mai stato il satellite della Terra.

- Erano molti mesi che non vedevo l’Occhio passare sopra di noi – esclamò Geronimo.

- E’ vero. Ma eravamo quasi certi che stesse arrivando – disse Nina distrattamente, senza distogliere

lo sguardo dalla sfera sospesa nel cielo.

- Come facevate a sapere che sarebbe passato di qui ? Nessuno può sapere cosa farà l’Occhio –

Geronimo si fece più vicino a Nina, che continuava a guardare in alto.

- Abbiamo fatto dei calcoli. Non eravamo sicuri, ma c’erano buone possibilità. Abbiamo avuto

ragione.

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Una nube larga e bruna scivolò sull’Occhio e lo celò di nuovo alla loro vista. I tre aspettarono

qualche istante, con le facce sempre levate al cielo. Ma l’Occhio restò nascosto dentro il cielo

sudicio.

Risalirono sull’auto e ripartirono senza dire una parola.

Percorsero molti chilometri senza incrociare niente di vivente, né uomo né animale. Faceva

eccezione solo l’erba asfittica e opaca, che ricopriva in rade chiazze il terreno come lanugine.

- Sei sicuro di voler venire con noi fino a Roma ? – Domandò Marcus a Geronimo, dopo che

ebbero imboccato un bivio oltre il quale la strada si allargava ed iniziava ad essere puntellata di

rottami abbandonati ai bordi della carreggiata. Erano carcasse abbandonate da decenni, i cui colori

avevano in gran parte ceduto il passo ad una ruggine vendicativa.

- Sì.

- Non hai nessun altro posto dove andare, vero ? – disse Marcus.

- No. Non è vero che mi hanno mandato in ricognizione. Sono scappato. Ho disertato, per dirla

giusta – sputò fuori Geronimo.

- Lo avevo capito. Perché sei scappato ?

- Non so spiegarlo bene. Io sono bravo con il fucile ed il coltello, meno con le parole. Non ce la

facevo più a stare con loro. Le cose erano cambiate, rispetto a prima.

- Le cose cambiano in continuazione – disse Marcus – forse sei solo cambiato tu.

- Non so se sono cambiato io. So che una volta il mio Capitano per me era un padre, gli altri soldati

la mia famiglia. Non avrei mai pensato di poterli abbandonare.

- Conosco la Milizia dell’Agro. Il suo capitano è un uomo famoso.

- E’ il più grande soldato che sia mai esistito. E’ diventato un eroe combattendo nelle guerre del

Decennio Nero.

- Come ti sei unito alla Milizia ?

- Il Capitano mi prese con sé quando avevo sei o sette anni. Raccoglieva tutti i bambini che non

avevano più nessuno. A quindici anni mi diede un fucile e divenni un soldato della Milizia

dell’Agro. Proteggevamo le persone. Tenevamo lontani gli Adoratori dell’Occhio e le bande di

razziatori dai villaggi dell’Agro. In cambio la gente ci nutriva, ci dava rifugio. Ci amavano.

- E poi cosa è successo ?

- Il Capitano diventò strano. Era continuamente triste e si curava sempre meno della disciplina.

Molti dei miei compagni cominciarono a fare di testa loro. Iniziarono ad uccidere sempre più

spesso senza alcun motivo. Il Capitano li lasciava fare. Si misero a stuprare ed a rubare. Una

mattina mi sono svegliato per primo e me ne sono andato. Però da soli è molto più dura, e per i

disertori c’è la morte. Una morte molto brutta.

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- Nessuno può farcela da solo in un mondo come questo – disse Nina – Finirai per diventare un

assassino di viandanti, od a mangiare la corteccia degli alberi, con i crampi della fame che ti

tolgono la ragione. Se non puoi tornare dai tuoi nell’Agro, cerca di unirti ad altri.

- E a chi potrei unirmi ? Nei villaggi ormai c’è solo miseria, e fuori da essi solo fanatici e banditi.

– Per il momento starai con noi - disse Marcus - un uomo che sa usare bene le armi potrebbe

servici, in questo viaggio.

- Grazie. Sarebbe un onore lavorare per la Confraternita dei Sapienti – Geronimolo disse con

l’entusiasmo di un ragazzino.

- Questo si vedrà. Per adesso diciamo solo che farai da guardia del corpo a me e Nina.

La strada li portò attraverso un villaggio che a prima vista pareva abbandonato da tempo. Le

baracche erano fatte con ogni materiale che l’uomo avesse conosciuto ed impiegato negli ultimi

duemila anni. Tutti i tipi di legno, pietra, metallo o plastica utilizzati dagli uomini prima del crollo

della civiltà avevano trovato uno spazio da riempire nelle pareti e nei tetti di quelle catapecchie

malferme. Ognuna di quelle costruzioni pareva reggersi per scommessa, sul punto di cadere sotto il

primo soffio di vento. Un tanfo pestilenziale, di sporco e rifiuti umani, si levò dalle baracche e si

infilò nella vettura. I tre passeggeri si tapparono istintivamente il naso. Cautamente, degli scheletri

ricoperti di stracci si affacciarono angosciati alle porte delle baracche, richiamati dal rumore

dell’auto. I veicoli a motore erano sempre più rari e di solito portavano guai. Un piccolo maiale

macilento, incrostato di fango secco, attraversò di corsa la strada e quasi finì sotto le ruote del

fuoristrada.

- Questa gente è sul punto di morire di fame – disse Geronimo, mentre guardava i fantasmi cenciosi

osservali di rimando, con un misto di paura e rassegnazione negli occhi.

- Non cresce quasi più niente nei campi – disse Marcus – ogni anno che passa i raccolti sono più

miseri. E’ solo questione di tempo, presto il cibo finirà…

- Il mio Capitano diceva che la terra è malata.

- La terra, l’acqua, l’aria, sono tutte malate. E anche la luce. Anche di quella c’è ne sempre meno. Il

sole è quasi sempre offuscato, ormai – disse Marcus amaro.

- E’ per questo, vero, che gli Adoratori dell’Occhio uccidono la gente ? Per far tornare il sole e

guarire la terra… – domandò Geronimo.

- E’ anche per questo, ma non è solo per questo. Gli Adoratori dell’Occhio pensano che sacrificando

all’Occhio i miscredenti, lui li amerà e scenderà finalmente sulla Terra per loro. Più sangue offrono

all’Occhio, maggiore sarà la loro ricompensa quando l’Occhio verrà tra gli uomini.

- E quando succederà ?

- E chi può sapere se mai succederà ? Sono quasi quarant’anni che l’Occhio è arrivato, e da allora è

sempre rimasto lassù... Potrebbe restare lì un altro milione di anni o scendere domani. O potrebbe

aprirsi ed uscirne un angelo. O un demone sanguinario. Oppure potrebbe andarsene via così come è

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arrivato. L’unica cosa certa è che non c’è nessuna certezza, sull’Occhio. Da lui ognuno ha il diritto

di aspettarsi quello che vuole. Compresi gli Adoratori.

Si lasciarono alle spalle il villaggio con i suoi miserabili abitanti e dopo qualche chilometro si

immisero in quella che una volta si chiamava Autostrada. Per farlo, passarono sotto i Cancelli dei

Guardiani, dove un tempo stavano i gabellieri che riscuotevano il dazio che consentiva l’accesso al

nastro d’asfalto che univa tra loro le città. Quelle stesse città che oggi erano quasi tutte svuotate e

marcescenti e che nessuno più voleva raggiungere.

Un grande cartello verde con una scritta bianca, stinto e corroso dal tempo, indicava la direzione per

Roma. Geronimo non sapeva leggere bene, era diventato soldato che era ancora un bambino e sotto

le armi non c’era molto tempo per studiare, ma riconobbe immediatamente le lettere che formavano

il nome della Città Eterna. Quella patente di eternità adesso suonava come uno scherzo crudele.

Roma non si era dimostrata più immortale delle altre megalopoli che erano state erette dagli uomini

prima dell’Occhio e che ora si disfacevano come frutti marci. Geronimo ci era stato una volta, con il

suo Capitano, e quello che aveva visto lo aveva lasciato travolto da un penoso stupore. Non credeva

che gli uomini fossero in grado di costruire meraviglie come quelle che aveva visto laggiù. Ma

erano splendori morti, gusci vuoti circondati dai rottami e dalla spazzatura di un’era che lui non

aveva conosciuto e che non sarebbe tornata. Nessuno poteva più sopravvivere, nelle città svuotate di

tutto. O meglio quasi nessuno, perché il Papa ed i suoi fedelissimi non avevano mai abbandonato

l’enclave del Vaticano, a quanto ne sapeva lui.

- Il Papa c’è ancora ? – domandò Geronimo.

- Sì. Malgrado tutto, Roma è ancora la capitale del mondo cristiano. O almeno lo sarebbe se quel

mondo esistesse ancora.

L’ultimo Papa, Leone XIV, aveva scelto di rimanere a Roma, e lo aveva fatto nonostante tutto. Gli

ultimi cittadini dell’antica capitale del mondo erano gli uomini dalla fede più incrollabile che la

storia dell’uomo avesse mai conosciuto. Più di una volta Marcus aveva riflettuto su quanto forte

fosse la fede che rifiutava un dio palpabile ed invadente per uno impercettibile e sfuggente.

Dopo un’ora che percorrevano l’Autostrada Nina chiese a Marcus di fermarsi per poter urinare.

Avrebbero potuto semplicemente accostare l’auto lì dov’erano, ma preferirono imboccare la rampa

di una vecchia stazione di servizio. Spesso c’erano dei mercanti stradali che rifornivano i rari

viaggiatori di acqua e cibo, ed in qualche caso perfino di benzina. A Marcus non sarebbe spiaciuto

bere dell’acqua che non stagnasse da giorni dentro la plastica di una bottiglia.

L’edificio della stazione era senza vetri ed i muri erano segnati dalle strisce nere del fumo di un

incendio. Nella piazzola antistante, oltre ai rottami rugginosi di vecchie auto ed a cumuli di

immondizia vecchia di decenni, c’erano solo altri due veicoli in grado di marciare. Uno era il

furgone di un mercante stradale, ma di lui non c’era nessuna traccia.

Scesero dall’auto e Nina andò dietro la carcassa di una Mercedes bruciata per fare ciò che doveva.

Geronimo si rese conto che anche lui doveva svuotare la vescica; svoltò dietro il muro di cemento

annerito e si sbottonò i pantaloni. Quando ebbe finito avvertì una presenza dietro di sé prima

ancora di voltarsi.

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Un uomo ed una donna erano fermi alle sue spalle, ad un paio di metri da lui. L’uomo era alto e

grosso come un orso, e come un orso aveva la faccia irsuta, coperta di lungo pelo nero e sudicio. La

donna era secca e muscolosa, i capelli color topo raccolti in una grossa treccia. La faccia era

scarnificata da incomprensibili tatuaggi blu. Entrambi portavano al collo una massiccia catena da

cui pendeva un grossolano Occhio di metallo, rozzamente forgiato dalle mani di un fabbro

improvvisato.

I due Adoratori dell’Occhio guardavano Geronimo con un sorriso vacuo. Geronimo sapeva che non

era un segno di indulgenza, ma solo l’effetto delle droghe che gli Adoratori consumavano nei loro

riti orgiastici celebrati in onore del loro dio volante.

Geronimo calcolò le possibilità di salvezza e si rese conto immediatamente di quanto fossero scarse.

L’orso aveva in mano una roncola da contadino, mentre il braccio nerboruto della donna si

prolungava in una scure da pompiere. Il suo fucile, invece, era appoggiato al muro ed aveva la

sicura inserita; il coltello era rimasto sul sedile posteriore dell’auto. Se lo era tolto per stare seduto

più comodo. Idiota, pensò dentro di sé. Geronimo inspirò a fondo e si preparò all’attacco

imminente.

Il sorriso ebete dell’orso fu spazzato via dalla sorgente di sangue che eruttò dalla sua faccia villosa.

La donna ebbe il tempo di strabuzzare gli occhi, prima che nel suo collo rinsecchito si aprisse un

buco da cui zampillò un getto rosso.

Geronimo si voltò verso gli spari che lo avevano salvato; Nina aveva ancora il braccio teso, la canna

della pistola puntata verso lo spazio che un secondo prima era occupato dai due fantocci stesi a

terra.

- Meno male che dovevi essere tu a proteggerci – disse Nina infilandosi l’arma nella cintura, dietro

la schiena.

- Non sapevo che foste armati…

- Siamo Sapienti, ma in questo modo nemmeno noi possiamo fare a meno delle armi. Prendi il

fucile e togliamoci subito di qua.

- Come hai fatto a…

- Ho trovato il padrone del furgone. Il mercante stradale. Era nella Mercedes bruciata con la gola

tagliata di fresco.

Marcus arrivò di corsa verso di loro, anche lui impugnando una pistola. Gli riferirono in fretta

l’accaduto.

- Dobbiamo lasciare l’autostrada. Se c’erano questi due potrebbero esserne arrivati già altri.

- Erano anni che gli Adoratori dell’Occhio non si vedevano più da queste parti – disse Geronimo.

- Lo so, ma ne arriveranno altri. Molti altri – rispose Marcus.

- Ma perché stanno venendo qui ? Che cosa cercano ?

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- L’Occhio. Stanno seguendo l’Occhio. Salite in macchina adesso. – Saltarono tutti in auto e non

dissero altro fino a quando non ebbero infilato la prima rampa d’uscita e lasciato l’autostrada dietro

di loro.

- Come fanno a sapere dove sta andando l’Occhio ? – domandò Geronimo quando gli parve che

Marcus e Nina fossero meno tesi – io credevo che nessuno potesse prevedere il cammino

dell’Occhio del Cielo.

- Anche gli Adoratori, come noi, studiano gli spostamenti dell’Occhio. Ci sono dei Sapienti anche

tra di loro. E da qualche tempo l’Occhio si muove in un modo ben preciso. Si sposta nel cielo

seguendo un percorso che crediamo di avere compreso. Se le nostre previsioni sono giuste,

sappiamo anche dove sarà l’Occhio tra poco. E anche loro lo sanno.

- Allora stiamo andando a Roma perché l’Occhio si sta muovendo in quella direzione ?

- Sì, è’ così. Crediamo che l’Occhio si stia dirigendo lì. Ne siamo quasi certi.

- Ma perché volete raggiungerlo ? Tanto nessuno può salire abbastanza in alto da arrivare

all’Occhio.

Né Marcus né Nina risposero e Geronimo si rassegnò al loro silenzio. Buttò indietro la testa e

chiuse gli occhi. Vide ancora davanti a sé i due Adoratori, i loro sorrisi ottusi ed assassini. Si chiese

per quanto tempo li avrebbe ancora visti. Anche se era un soldato da sempre e la morte lo aveva già

sfiorato molte volte, pensò che sarebbe stato un tempo molto lungo. Fuggì da quei pensieri

rifugiandosi in un sonno lieve e precario, da cui uscì dopo una mezz’ora per colpa di uno scossone

più forte degli altri.

Avevano imboccato una strada sterrata che attraversava campi brulli e grigi, addormentati in

attesa di un raccolto che forse non sarebbe più arrivato. Incrociarono un carretto trainato da un asino

macilento. Geronimo tolse la sicura dal fucile e fece scivolare l’indice accanto al grilletto. Lo

allontanò solo quando vide che sul carretto c’era soltanto una donna senza età, con la faccia

butterata e la schiena incurvata come un manico d’ombrello. Dal carretto la donna li guardò senza

curiosità, con occhi resi torbidi dalla cataratta.

- Questo mondo diventa ogni giorno più triste – disse Geronimo quando il carretto e la donna

furono alle loro spalle – tutto sta cadendo a pezzi. Sono stanco di vivere in mezzo alla miseria.

Avrei voluto nascere prima dell’Occhio, nell’Età dell’Oro.

- Era l’Età dell’Oro solo perché è venuta prima di quest’ orrore. Ma non era un paradiso. – disse

Marcus – Non per tutti, almeno.

- Tu hai visto l’Età dell’Oro ? Non credevo fossi così vecchio.

- Sì, l’ho vista. E non sono poi così vecchio. Ho sessantacinque anni.

- Poche persone di quelle che vivono nei villaggi arrivano alla tua età. Io non ho mai conosciuto una

persona che abbia vissuto l’Età dell’Oro, prima di te. A parte il mio Capitano, ma lui non ne

parlava mai.

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- Perché furono uccise quasi tutte venticinque anni fa, quando Efrem il Pazzo fondò qui la Chiesa

del Nuovo Mondo Purificato. Ordinò che venissero uccisi tutti quelli nati prima dell’arrivo

dell’Occhio del Cielo. Diceva che l’Occhio era arrivato per punire i peccati degli uomini, e che se la

Terra fosse stata purificata dai peccatori, l’Occhio se ne sarebbe andato e sarebbe tornata l’Età

dell’Oro.

- Io non ero ancora nato, venticinque anni fa, ma ne ho sentito parlare. Efrem il Pazzo fu scuoiato

vivo ed i suoi seguaci uccisi o scacciati. Dicono che in segreto fosse anche lui un Adoratore

dell’Occhio.

- Non so se fosse o meno un Adoratore dell’Occhio, ma di certo la pensava più o meno come loro.

Secondo lui l’Occhio era un castigo per i peccati dell’Età dell’Oro. Dio, gli alieni, o qualsiasi cosa

lo abbia mandato qui, secondo lui e i suoi accoliti voleva dare un monito agli uomini dell’Età

dell’Oro. La civiltà corrotta doveva finire ed al suo posto sarebbe dovuto nascere un nuovo mondo.

Il nuovo mondo in effetti è arrivato, ma non è quello che si aspettavano.

- Come finì l’Età dell’Oro ? – chiese Geronimo– da bambini ci insegnavano che fu l’Occhio, a

gettare il mondo nel caos…

- Furono gli uomini, in verità, a scatenare il caos. L’Occhio se ne è sempre stato lassù, a girare

intorno alla Terra del tutto indifferente alla follia degli uomini.

- Tu ricordi quello che accadde, quando l’Occhio del Cielo arrivò ?

- Sì – disse Marcus dopo un lungo silenzio – mi ricordo tutto molto bene. Allora io avevo forse l’età

che adesso hai tu, studiavo all’Università…

- Cos’è l’Università ? – domandò Geronimo, interrompendo Marcus.

- Era una specie di scuola, una grande scuola dove si studiava per diventare qualcosa di simile a dei

Sapienti. In ogni città ce n’era una e molte persone potevano andarci. Io ero studente a Roma,

quando l’Occhio arrivò. Quel mattino mi svegliai nel pensionato studentesco e quando uscii dalla

mia stanza tutti stavano già correndo alla televisione. Tu non ne hai mai vista una, era uno schermo

su cui scorrevano le immagini. Corsi anch’io lì, e nello schermo della televisione vidi per la prima

volta l’Occhio del Cielo. Quasi mi si fermò il cuore, quando guardai quella sfera gigantesca arrivata

da un altro mondo. Era spuntato durante la notte sopra l’oceano atlantico e all’alba lo si poteva

vedere dalle coste di mezza Africa. Si muoveva lungo l’equatore, come una seconda luna, più

piccola e lenta, ma molto più vicina alla Terra. Tutti naturalmente pensammo subito che fosse

arrivato da un altro pianeta, viaggiando nello spazio, anche se i governi e gli astronomi di allora

negarono di aver visto l’Occhio avvicinarsi al sistema solare. Credo che mentissero. Mentivano per

giustificare il loro silenzio, ma io ho sempre creduto che lo avessero visto arrivare e abbiano

semplicemente taciuto. Forse i governi della Terra speravano che ci sarebbe solo passato vicino ed

avrebbe proseguito il suo viaggio nell’universo. Del resto, cosa avrebbero potuto raccontarci ?

L’Occhio era qualcosa che non si poteva spiegare agli uomini. Gli scienziati cercarono di studiarlo,

di comprenderne la natura, ma erano sforzi destinati al fallimento. Da fuori, l’Occhio è solo una

titanica sfera opalescente, e nessuno è mai riuscito ad avvicinarsi ad esso. Mandarono degli aerei,

ma niente poteva arrivare a meno di un chilometro dall’Occhio senza scomparire nel nulla. Fu

chiaro che l’Occhio non gradiva che l’uomo prendesse l’iniziativa. Se L’Occhio e l’umanità erano

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destinati a fare conoscenza, il modo ed il momento lo avrebbe deciso l’Occhio. Da allora stiamo

ancora aspettando.

- Aveste paura, quando l’Occhio apparve ?

- Molti ne furono terrorizzati. Avevamo convissuto per cent’anni con le storie di astronavi aliene

che all’improvviso arrivavano sulla terra per distruggerla, o per renderci tutti schiavi di mostri

orribili. Molte persone videro i peggiori incubi dell’uomo farsi realtà. Ci furono suicidi di massa e

isteria collettiva. Milioni di persone si diedero semplicemente alla fuga, come topi che scappano da

un incendio. Abbandonarono le loro case e intasarono qualsiasi strada fossero in grado di

raggiungere.

- Ma come potevano pensare di sfuggire dall’Occhio ?

- Non pensavano niente. Quello che si era scatenato era il panico di un formicaio dove una scimmia

ha infilato il suo ramo. La maggior parte delle persone non arrivò da nessuna parte, perché le strade

intasate divennero impraticabili, tanto che i fuggitivi finirono per abbandonare le auto e disperdersi

a piedi, tornando faticosamente da dove erano venuti. Oppure iniziarono una vita da vagabondi,

spargendosi per le campagne, dove si sentivano meno in pericolo che nelle città. In preda al terrore,

ignorarono i richiami dei governi a tornare alle loro case, a riprendere la loro vita. Fondarono

piccole comunità di persone impaurite, nascoste, in perenne attesa che il mondo venisse spazzato

via. Per loro il mondo si fermò in quel momento, paralizzato dalla paura. Ma non fu solo la paura, a

fermare il mondo. Altre persone infatti furono elettrizzate dell’arrivo dell’Occhio. Così come

milioni di persone furono prese dal terrore, milioni di altri individui pensarono che fossimo entrati

in contatto con una civiltà benevola, più evoluta dell’uomo anche eticamente, e che le pene

dell’umanità fossero finite. Infervorati da quella immotivata fiducia, iniziarono a radunarsi a

centinaia di migliaia, in ogni parte del mondo, in attesa che i superni si manifestassero agli uomini

per regalare loro il futuro radioso che ci spettava. Vivevano in uno stato di euforia, cantando,

ballando e invocando l’incontro con i nuovi dei. Molti si diedero ai riti orgiastici ed all’uso di

droghe in massa. Altri si limitarono a celebrare l’alba del paradiso in terra con canti e preghiere. Un

giorno qualcuno decise di celebrare un grande rito collettivo, che avrebbe dovuto persuadere i

superni a sciogliere gli indugi e scendere finalmente sulla Terra ad abbracciare l’umanità. Allora

l’Occhio non girovagava nel cielo come adesso, seguiva esattamente la linea dell’equatore, così si

decise che il rito si sarebbe celebrato nello stadio di Macapà, in Brasile. La linea dell’equatore

infatti lo attraversa a metà. Si misero in viaggio da tutte le parti del mondo, a milioni, con qualsiasi

mezzo, per raggiungere Macapà. Nessuno di quegli euforici invasati voleva perdere quello che

sarebbe stato il momento più importante di tutta la storia dell’umanità. Ma non c’erano abbastanza

mezzi di trasporto per consentire a tutta quella gente di spostarsi contemporaneamente. Si scatenò il

caos. Centinaia di migliaia di pellegrini semplicemente morirono di fame e di stenti lungo le strade

o sulle navi che avrebbero dovuti portarli a Macapà. Altri finirono in campi profughi a migliaia di

chilometri da casa, senza più nulla con sé e senza mezzi per ritornare indietro. Macapà ed i suoi

dintorni furono comunque invasi da milioni di uomini, donne e bambini che arrivarono in tempo

all’appuntamento. La città si trasformò in un gigantesco bivacco di gente stremata ed euforica.

Intorno alla città sorse uno sterminato accampamento che si estendeva per chilometri e chilometri in

tutte le direzioni. Decine di preti di tutte le religioni, vecchie e nuove, celebrarono per giorni i loro

riti dentro lo stadio di Macapà, in attesa che l’Occhio passasse esattamente sopra di loro e,

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finalmente, stabilisse l’anelato contatto con la razza umana. Morirono a migliaia, schiacciati dalla

folla tentando di entrare nello stadio che rigurgitava esseri umani, di sete e di caldo. Ma tutti

volevano essere lì ad incontrare i viaggiatori delle stelle.

- E poi cosa accadde ?

- Nulla. L’Occhio passò alto nel cielo sopra Macapà e continuò la sua strada, senza neppure

rallentare. E continuò a passarci per tutte le settimane ed i mesi che seguirono, cieco e sordo alle

invocazioni che venivano da Macapà e da tutto il resto del pianeta. In tutto il mondo l’euforia iniziò

a scemare, gli entusiasti cominciarono a sentirsi traditi dai loro fratelli astrali ed i grandi campi

dove per settimane avevano vissuto in perenni feste e celebrazioni diventarono squallide tendopoli,

piene di gente disperata ed affamata. Da quegli assembramenti di uomini e donne passati

bruscamente dall’estasi mistica alla delusione iniziarono a formarsi sette di ogni tipo. Nacquero

nuove religioni e quelle antiche si trasformarono. E da quel magma di spiritualità e frustrazione

spuntarono anche gli Adoratori dell’Occhio. Secondo loro, i superni non scendevano sulla terra

perché erano rimasti disgustati da quello che vi avevano visto. E si diedero il compito di purificare

il mondo con il sangue. Iniziarono ad organizzarsi segretamente, e quando la civiltà andò in

frantumi loro sbucarono fuori come un tumore maligno.

- Ma di cosa viveva, tutta questa gente ?

- Presto iniziò a vivere di saccheggi. O semplicemente smise di vivere. Per la paura o per l’euforia

avevano lasciato tutta la loro vita di prima, ed in pochi vi fecero ritorno. I governi dei paesi più

ricchi per un po’ li rifornirono dei beni di prima necessità, ma nel frattempo l’economia stava

andando a rotoli, dato che metà della gente ormai passava il tempo con il naso all’insù e l’altra metà

iniziava a darsi fare per scatenare le guerre che per quasi dieci anni hanno sconvolto il mondo.

Quindi alla fine furono lasciati a sé stessi; divennero branchi di cani randagi, e la gran parte di loro

morì nelle guerre del Decennio Nero.

- Ma perché scoppiarono quelle guerre ? Il Capitano ci combatté, ma quando glielo chiesi si limitò a

scuotere la testa, come chi è davanti ad una domanda più grande di lui.

- Anche prima che arrivasse l’Occhio, il mondo era un posto folle e pericoloso. Molti governi

iniziarono a sospettare che l’indifferenza dell’Occhio nei loro confronti significasse che i loro

nemici erano entrati segretamente in contatto con gli alieni, o con chiunque avesse mandato

l’Occhio, e che stessero tramando con loro per governare insieme il mondo. Non c’era niente che

dimostrasse che una cosa simile stesse accadendo, ma il silenzio dell’Occhio aveva scatenato

un’epidemia di paranoia. Ci fu una nazione che tentò perfino di distruggere l’Occhio, ma i missili

nucleari che gli puntarono contro esplosero nell’attimo stesso in cui tentarono di lanciarli. Morirono

a migliaia e da allora nessuno ci riprovò più. Ma l’invulnerabilità dell’Occhio non fece che

esasperare l’aggressività tra gli stati ed i popoli. Ci furono stati che furono costretti a proclamare la

guerra santa sotto la pressione di preti invasati che inneggiavano all’Occhio come ad un segno

divino, e altri che lo fecero nella speranza che una guerra li aiutasse a sedare l’isteria collettiva del

popolo. Per un motivo o per un altro, o per nessun motivo, alcune nazioni ne attaccarono altre, e

così accesero la miccia che fece esplodere il mondo per i dieci anni che seguirono.

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- Furono quelle guerre che cancellarono l’Età dell’Oro? Il Capitano mi parlava di bombe che

potevano distruggere città intere…

- Non furono le armi nucleari a spazzare via il vecchio mondo. Alcune di quelle bombe furono

lanciate, altre armi terribili furono usate, ed oggi se il cielo è grigio e la terra malata la colpa è di

quella guerra demenziale che nessuno avrebbe potuto vincere. Ma ciò che provocò il crollo dell’Età

dell’Oro fu la Guerra Digitale.

- Non ho mai sentito parlare di questa guerra. E’ una parola che non capisco.

- Non puoi capirla se non hai conosciuto il mondo di prima. A quel tempo gli uomini dipendevano

in tutto dalle macchine, soprattutto da macchine chiamate computer. I computer erano macchine

intelligenti, non nello stesso modo in cui lo sono gli uomini, ma sapevano fare cose che per noi

sono impossibili. Potevano pensare milioni di volte più velocemente di un cervello umano. Dentro

ogni cosa che funzionasse, agiva un minuscolo computer. I computer comandavano tutte le altre

macchine dell’uomo, muovevano tutto, ed erano tutti collegati tra loro in un’unica, grande rete.

Attraverso quella rete tutti gli uomini potevano comunicare tra di loro, in tempo reale. E anche le

macchine comunicavano tra loro, si davano istruzioni l’una con l’altra.

- Come con una radio ? – domandò Geronimo, con occhi bambini, grandi per la meraviglia.

- Più o meno. Ma attraverso i computer passavano tutte le informazioni che servivano agli uomini.

Tutto si faceva attraverso di loro e attraverso la rete che li univa, facendoli vivere. La Guerra

Digitale distrusse per sempre la Rete e trasformò le macchine dell’uomo in metallo morto. Così

tutto si fermò. Si fermarono le macchine e gli uomini tornarono ad essere soli.

- Bombardarono tutti i computer ?

- Non fu necessario. Sai cosa sono i virus ?

- Sono cose che minuscole che ti fanno ammalare, vero ? Come i germi, i batteri… – rispose

Geronimo, contento di essere all’altezza della domanda.

Esatto. Allora però c’erano anche virus creati dall’uomo, che facevano ammalare i computer. I

governi di molte nazioni ne avevano inventati di potentissimi, per infettare i computer dei loro

nemici. Quando scoppiò la guerra, centinaia di quei virus furono immessi nella Rete. La

contaminarono al punto che nessuno fu mai più in grado di ripulirla. I computer si ammalarono e

smisero di funzionare uno dopo l’altro, e così tutte le macchine dell’uomo che funzionavano grazie

ad essi. Senza più la Rete e senza più macchine l’economia crollò, i governi si dissolsero, i popoli si

dispersero. Continuarono solo le guerre del Decennio Nero, ma anche quelle, mano a mano che i

computer morivano, si trasformavano in qualcos’altro, perché neppure gli eserciti potevano più

funzionare come prima, senza i computer e senza la Rete. Le armate si dispersero in centinaia di

bande, ognuna delle quali controllava solo un piccolo pezzo di territorio. Presto nessuno seppe più

contro chi stesse combattendo né perché. Anche i missili nucleari non si levarono più in volo, e così

la Guerra Digitale impedì che fossimo tutti spazzati via. O almeno ha prolungato fino ad oggi

l’agonia dell’umanità.

Marcus si interruppe bruscamente. Frenò di colpo e innestò la retromarcia.

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- Cosa succede ? – domandò Geronimo

- Là avanti c’è qualcosa di grosso – rispose Marcus

Geronimo si sporse dal finestrino; più avanti, sopra le sterpaglie, qualcosa di enorme ondeggiava

sulla strada come un gigantesco grumo nero, muovendosi lentamente nella loro direzione.

Marcus fece quasi un centinaio di metri a marcia indietro, quindi si infilò in un abbozzo di sentiero

che finiva tra alti cespugli di rovi secchi. Scesero tutti e tre dall’auto e si assicurarono che il

fuoristrada non potesse essere visto dalla strada. Poi si acquattarono dietro ai rovi, le armi strette

nella mani sudate come la corona di un rosario. Per un tempo infinito non accadde nulla. Dopo

un’eternità il rumore di passi pesanti come colpi di maglio, accompagnato a quello di altri più

leggeri e strascicati, iniziò ad arrivare via via più nitido dalla strada. Insieme al rumore dei passi

giungeva alle loro orecchie il suono ronzante di una cantilena ossessiva. Videro passare davanti a

loro, uno dopo l’altro, una dozzina di individui laceri e sporchi, armati di asce, mazze e qualche

antico fucile da caccia. Avevano tutti il viso dipinto come grotteschi clown sanguinari. I capelli

erano raccolti in parrucche di fango, o impastati con qualcosa di grasso che li bloccava in corti

tentacoli ispidi. Scandivano in coro una nenia ritmica, le cui parole incomprensibili si ripetevano

continuamente, arrotolandosi su sé stesse. Un corpo scuro, mastodontico, coperto di polvere e fango

secco riempì il loro campo visivo. Ondeggiava come un barcone all’ormeggio, oscillando sulle

zampe larghe come tronchi d’albero. Su di un fianco dell’enorme bestia qualcuno aveva dipinto

con il sangue il grande Occhio simbolo degli Adoratori. Geronimo, che non aveva mai visto nulla

di simile, sussultò impaurito e istintivamente tolse la sicura al fucile. Nina gli strinse il braccio e gli

fece segno di restare zitto ed immobile. Sulla groppa del mostro era stato legato un baldacchino di

legno, e dentro il baldacchino c’era un vecchio dalla pelle nera, i capelli e la barba lunghissimi,

raccolti in trecce sudice. Il mostro passò e lasciò il posto ad una lunga fila di Adoratori dell’Occhio,

che lo seguivano salmodiando. Erano quasi tutti armati con qualsiasi cosa potesse svolgere il

compito di uccidere, ferire o mutilare.

Attesero a lungo dopo che l’ultimo cencioso assassino fu passato prima di parlare.

- Cos’era quell’incubo ? – domandò Geronimo con un filo di voce.

- Un elefante. – disse Nina - E’ un animale che vive in Africa, lontanissimo da qui. Come gli

abbiano messo le mani addosso e siano riusciti a farlo sopravvivere è un mistero.

- Forse vengono dall’Africa… - disse Geronimo.

- Un elefante è qualcosa che non si trova facilmente nemmeno in Africa. Però è anche possibile che

arrivino da laggiù. Comunque sia, non ha importanza ora – disse Marcus – ciò che importa è che

nemmeno questa strada è sicura. Probabilmente la stanno usando per raggiungere l’Autostrada e da

lì proseguire per Roma.

- Viaggeremo di notte. Gli Adoratori dell’Occhio non si muovono mai con il buio – disse Marcus.

- Con il buio però si muovono altre cose – intervenne Geronimo.

- Correremo il rischio. Per adesso ce ne resteremo qui. Tra questi rovi nessuno ci può vedere, dalla

strada. Stanotte ci rimetteremo in marcia.

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- Vedranno i fari della macchina… - disse Geronimo.

- Li abbasseremo in modo che facciano luce solo davanti a noi. Adesso cerchiamo di riposare un

po’, prima che scenda il buio.

Si sdraiarono sulle coperte che tolsero dall’auto, ma nessuno di loro aveva sonno. Nina decise che

avrebbe fatto un giro lì intorno, tenendosi alla larga dalla strada. Dopo un po’ Geronimo decise di

fare lo stesso. Era troppo nervoso per starsene sdraiato a guardare le nubi polverose passare inquiete

sopra la sua testa, come pensieri malinconici. Si incamminò tra le sterpaglie, fino a quando arrivò in

una radura occupata da una casa abbandonata. Probabilmente nessuno ci aveva più abitato dai tempi

in cui l’Occhio era apparso per la prima volta nel cielo. Le finestre erano sfondate ed il tetto di

coppi rossi era sventrato e per metà crollato. Fece il giro della casa e vide Nina, inginocchiata a

torso nudo vicino ad una specie di stagno circondato da canne fradicie. Nina stava bagnandosi le

braccia con l’acqua della vasca, strofinandole con le mani. La ragazza sentì Geronimo alle sue

spalle e si voltò. Lui fissò i suoi piccoli seni, il torace magro, segnato dalle costole che spingevano

sotto la pelle bianca. Pensò che Nina fosse la donna più bella che avesse mai visto.

- Cosa c’è, soldato, vuoi violentare anche me ? – disse Nina freddamente.

- No, certo che no – disse Geronimo arrossendo violentemente – io non…

- Non ne avrai bisogno, questa volta.

Lei gli si avvicinò e gli cinse la vita con le braccia. Il suo viso era a pochi centimetri da quello di

Geronimo e lui non poté fare a meno di pensare che l’ultima volta che aveva avuto una donna così

vicino lei urlava, mentre altri due soldati la tenevano ferma, bloccandola a terra e ridendo sguaiati.

Lui non avrebbe voluto farlo. Ma se non lo avesse fatto, i suoi compagni gli avrebbero dato del

frocio. Lo avrebbero picchiato e poi scacciato. Forse lo avrebbero ucciso. Lo aveva già visto

succedere altre volte. Tra uomini come loro si doveva condividere ogni cosa, anche i misfatti.

Soprattutto quelli. Allora si era fatto forza, aveva pressato il suo membro flaccido sul corpo della

donna fino a quando, con suo stesso disgusto, aveva sentito esplodere un’erezione infelice e

maligna. Aveva cercato di non pensare a quello che stava facendo; era come se ad essere violentati

fossero stati entrambi, lui che spingeva il suo sesso dentro la donna e la donna che lo subiva come

una lama nella carne. Poi però qualcosa di bestiale si era svegliato nei suoi lombi, una furia

primordiale si era impossessata del suo corpo, ed i colpi dei suoi fianchi si erano fatti sempre più

selvaggi e prepotenti, fino a quando tutta la ferocia che non sapeva di avere era esplosa in un gemito

di cui avrebbe provato vergogna per il resto della vita.

Quella sera era andato dal suo Capitano, gli aveva raccontato della sua vergona e gli aveva detto che

non voleva provarla più. Lei non deve più permettermelo, aveva detto all’uomo che guardava

distratto davanti a sé, in preda a pensieri ebbri, che giravano in tondo come pesci in una boccia di

vetro. Non è giusto, aveva detto ancora Geronimo al suo comandante padre, al demiurgo che lo

aveva raccolto quando era niente e ne aveva fatto un uomo che, adesso, di sentiva ancora meno di

quel niente che era stato. Il Capitano lo lasciò parlare e quand’ebbe finito lo guardò come se non lo

vedesse davvero. Geronimo capì che la disperazione aveva succhiato dal cuore del suo Capitano

tutto ciò che un tempo era stato vivo. Io non so più che cosa è giusto, figlio mio, gli disse il

Capitano. Questo mondo sta crepando e noi con lui, che importanza ha se i tuoi compagni ne

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accelerano la fine ? L’Occhio potrebbe salvarci tutti, se solo lo volesse. Eppure ci lascia qui a

soffrire, ad ucciderci gli uni con gli altri come cani rabbiosi. A marcire dentro e fuori, nella

putrefazione della vita. L’Occhio è indifferente e l’indifferenza è l’ingiustizia peggiore. Se anche gli

dei sono ingiusti, come possiamo opporci all’ingiustizia ?

Dopo qualche giorno Geronimo aveva messo nello zaino le sue poche cose e aveva lasciato le

baracche della caserma nel cuore della notte. Non sapeva cosa avrebbe fatto, ma sapeva esattamente

cosa non voleva più fare.

La lingua di Nina gli strappò quei pensieri aprendogli prepotentemente le labbra e accendendolo di

un calore sconosciuto. E allora il viso stravolto della donna che urlava sotto di lui, tenuta ferma da

uomini mutati in bestie, lasciò finalmente il posto agli occhi verdi di Nina, ai suoi seni piccoli e

rotondi che riempivano appena i palmi della sue mani, rese dure e callose dal mestiere delle armi.

Si presero in fretta, affamati l’uno dell’altra, prima di ritrovarsi sdraiati fianco a fianco e ricordarsi

che erano due sconosciuti che il caso aveva buttato l’uno addosso all’altra.

- Com’è la vita dei Sapienti ? – domandò Geronimo, per non pensare alla vergogna che

all’improvviso provava per il suo corpo troppo magro, per la sporcizia che aveva addosso, per tutte

le cose che non sapeva e non avrebbe mai saputo.

- E’ una buona vita, di questi tempi. Ma non durerà a lungo. Qualcuno di noi dice che siamo come i

monaci del medioevo, ma ho paura che questo medioevo sia destinato a non lasciare spazio a tempi

migliori…

- Cos’è il medioevo ?

- Il medioevo fu un periodo oscuro, molto prima dell’Età dell’Oro. Un tempo di guerre, miserie e

malattie. Non molto diverso da questo, se non fosse che allora gli dei dell’uomo erano tutti invisibili

anche se stavano in cielo. I monaci si chiusero nei monasteri e dentro di essi salvarono gran parte

del sapere del tempo passato, copiando a mano i libri degli antichi e custodendoli come tesori. I

Sapienti cercano di fare la stessa cosa, ma adesso è molto più difficile di allora.

- E’ perché sono morti i computer, vero ? – domandò Geronimo.

- Anche per quello, sì. Erano loro a ricordare la maggior parte delle cose per gli uomini. Noi

abbiamo ancora qualche computer, ma sono ben poca cosa rispetto a quelli dell’Età dell’Oro. Ma

non è stata solo la morte delle macchine, a renderci il compito così difficile. Neanche i monaci del

medioevo avevano i computer, ma nel loro cielo c’era un Dio potente e misericordioso, non una

palla di metallo gelido e muto.

- Marcus ti ha insegnato molte cose.

- Marcus è un uomo saggio, come io non sarò mai - disse Nina, rialzandosi. Si allacciò i pantaloni

di tela e si infilò nuovamente la pistola nella cintura, dietro la schiena. Si allontanò senza una

parola, lasciando Geronimo seduto sulla terra fredda e scura guardarla sparire tra i rovi.

Si ritrovarono al fuoristrada, dove Marcus li aspettava. La notte era vicina e con il crepuscolo la

consueta bruma aveva iniziato a rendere vaghi i contorni delle cose. Decisero di aspettare che il

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buio si facesse più fitto, prima di rimettersi per la strada. Restarono a lungo in silenzio, senza fare

nient’altro che aspettare l’oscurità, ognuno di loro appeso ai propri imperscrutabili pensieri come la

carne al gancio del macellaio.

Quando il buio fu sceso, Nina si mise al volante. Guidava lentamente, facendo girare il motore del

fuoristrada al minimo dei giri, in modo da far meno rumore. Scivolarono attraverso una notte di

petrolio, sospesi nel nero appiccicoso squarciato solo dai fari abbassati, due pozze di luce gialla che

illuminavano la polvere della strada. Diverse volte, in lontananza, scorsero le luci tremolanti dei

fuochi, ma la gente di quei falò non li vide o non volle vederli.

Alle prime luci dell’alba videro l’Occhio stagliarsi titanico nel cielo come una colossale perla. A

giudicare dalla posizione e dalla dimensione, l’Occhio pareva sospeso esattamente su Roma.

Quando riabbassarono lo sguardo, videro avanzare traballando verso di loro un vecchio camion

militare. Era sbucato da dietro una curva e non c’era il tempo di nascondersi; Geronimo imbracciò il

fucile e mise il colpo in canna.

Entrambi i veicoli accostarono al lato della strada; dalla cabina di guida del camion scesero due

uomini con addosso vecchi abiti militari. Altri si affacciarono dal cassone, sollevando il telone che

li riparava. Spuntarono musi di ragazzi, anneriti dalla polvere della strada.

I due uomini si avvicinarono al fuoristrada; cucita sulla manica della giacca c’era un triangolo di

stoffa con una testa di morto. La stessa che aveva anche Geronimo.

Geronimo li riconobbe immediatamente e loro riconobbero lui. Ma contrariamente a quanto si

aspettava i due uomini non misero mano alle armi. Continuarono ad avvicinarsi lentamente, vuoti di

qualsiasi emozione.

- Geronimo. Alla fine ci ritroviamo – disse il più anziano dei due, un nero con la testa rasata e la

faccia tormentata dalle cicatrici.

- Siete venuti a cercarmi ? – chiese Geronimo al nero.

- No – rispose il nero impassibile – non c’era motivo di cercarti. Non c’è più motivo di cercare

nessuno. L’Esercito dell’Agro non esiste più.

- Come è possibile ?

- Il Capitano è morto. Si è sparato in bocca con la sua pistola. Gli ufficiali più anziani hanno iniziato

a litigare per decidere chi doveva prendere il suo posto, ma senza il Capitano nessuno li ha seguiti.

Sono rimasti ad azzuffarsi come cani mentre ognuno se ne andava per la sua strada. E così

abbiamo fatto anche noi.

- Chi proteggerà i villaggi dell’Agro, se l’Esercito si è sbandato ? – chiese Geronimo– gli Adoratori

dell’Occhio si stanno muovendo in massa, puntano tutti verso Roma.

Il nero alzò le spalle in un gesto di noncuranza: - noi li abbiamo protetti per molti anni, come voleva

il Capitano. Adesso il Capitano e morto e non è più compito nostro aiutarli. Altri lo faranno.

- Non ci sono altri che possano farlo.

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- Allora lo faranno da sé.

- Non possono difendersi da soli. Sono contadini, non sono soldati.

- Allora moriranno. Non è più affar nostro.

- Dove state andando adesso ?

Alla domanda di Geronimo seguì di nuovo un’alzata di spalle. – Andiamo verso sud. Dicono tutti

che a sud la terra è ancora buona e che la gente vive meglio di qui.

- Non c’è niente di meglio a sud – intervenne Marcus – la terra è malata ovunque ed al sud la gente

muore di fame ancora più che qui.

Il nero alzò le spalle per la terza volta: - forse è come dici tu, Sapiente. Ma forse ti sbagli.

- Non mi sbaglio, credimi. C’erano altri Sapienti a sud, parlavamo con loro attraverso la radio. Le

cose andavano sempre peggio e due mesi fa hanno smesso di trasmettere.

- Vorrà dire che andremo ancora più a sud – replicò il nero, impassibile. - Geronimo, se vuoi tu puoi

venire con noi. Un tempo eravamo come fratelli.

- Sono un disertore. Chi diserta perde il diritto a dirsi fratello e merita la peggiore delle punizioni.

- Adesso siamo tutti disertori. Queste erano le regole che seguivamo quando c’era il Capitano. Ora

che non c’è più ognuno ha le sue, di regole.

- Devo accompagnare i Sapienti a Roma. Gliel’ho promesso.

- Come vuoi. Ma non mi sembra il momento migliore, per andare a Roma. L’Occhio è proprio sopra

la città e gli Adoratori sono già arrivati a migliaia. Ci sarà già battaglia.

Geronimo abbracciò il nero e l’altro soldato; restò a guardarli risalire sul camion e allontanarsi

verso sud. Dal cassone traballante qualcuno gli gridò qualcosa che poteva essere un saluto, un

insulto o tutte le due cose insieme.

- Se vanno a sud, nel giro di un mese saranno tutti morti. Non c’è più niente da mangiare, neanche

per uomini armati e pronti a prendersi quello che vogliono – disse Nina.

- Sono più fortunati di noi, allora – replicò Geronimo. – Noi saremo morti prima che faccia sera.

Quando ripartirono Geronimo si barricò in un bozzolo spinoso di silenzio. Quando Nina gli chiese

se andasse tutto bene disse di sì, ma dopo poco parlò di nuovo. – Non va tutto bene, invece. Se il

Capitano si è ammazzato, significa che le cose non vanno affatto bene.

- E’ la sua morte a renderti triste ? – domandò Nina – se è così, non capisco il perchè.

- Il Capitano è stato generoso con me. Lui mi ha fatto da padre.

-Ti ha solo messo un fucile in mano. Gli servivano soldati e ha trasformato in soldati dei bambini.

Non è quello che dovrebbe fare un padre.

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- E tuo padre invece cos’ha fatto per te ? – chiese Geronimo duro.

- A dieci anni mi ha portato alla Torre delle Stelle e mi ha lasciato dai Sapienti perché mi

istruissero. Da allora non l’ho più visto.

- Ti ha abbandonata. Il Capitano non lo ha mai fatto.

- No, ma ha fatto in modo che lo facessi tu.

Viaggiarono ancora un’ora prima di arrivare in vista della periferia di Roma. L’Occhio ormai

riempiva, con la sua mole titanica, metà del cielo davanti a loro. Discussero sull’opportunità di

nascondersi di nuovo, fino al calare del buio, ma nessuno di loro aveva la pazienza di passare

un’intera giornata ad aspettare la notte. Inoltre entrare in città col buio sarebbe stato perfino più

pericoloso che farlo con la luce del giorno. Decisero di entrare in città e proseguire con l’auto fino a

quando sarebbe stato possibile.

La periferia della città era un cimitero del passato. I palazzoni popolari erano disabitati da almeno

una trentina d’anni, da quando cioè la vita nelle città era diventata impossibile. Nessuno le riforniva

più di cibo, e non si potevano coltivare le piazza asfaltate. Guardando gli edifici cadenti, Geronimo

pensò a quanto fosse veloce la morte delle case vuote. Sono fatte di mattoni e cemento, eppure

quando la gente le abbandona appassiscono come fiori recisi.

Passarono accanto a torri i cui resti di intonaco squamato erano tormentati da eczemi e da grandi

piaghe che fiorivano come vegetali alieni. I muri delle case erano grigi e stinti, tranne che ai piani

più bassi, dove i colori arroganti dei graffiti sfidavano il passare del tempo. Sul fianco di un

palazzo qualcuno decenni prima aveva dipinto un enorme murales che raffigurava l’Occhio del

Cielo, circondato da uno sciame di stelle, che si apriva lasciando uscire creature a metà tra un

angelo ed un astronauta. Ai piedi dell’Occhio, bambini e bambine di tutti i colori danzavano

levando le mani al cielo.

Migliaia di carcasse arrugginite di vecchie auto giacevano abbandonate dovunque, tranne che al

centro delle strade. Attraversarono un ponte sul Tevere e dalle acque limacciose e torbide salì il

tanfo della vita in disfacimento.

Mentre guardava i tetti dei palazzi fatiscenti, Geronimo si accorse che l’Occhio si era fatto ancora

più gigantesco, immenso al punto di inghiottire tutto il cielo sopra la città. Geronimo non trovava il

coraggio di trasformare quel pensiero sacrilego in parole, ma sapeva bene che le dimensioni

dell’Occhio e la sua mole asfissiante che incombeva sopra di loro, potevano significare una sola

cosa: l’Occhio si era abbassato. Per quanto ne sapeva lui, non era mai accaduto prima di allora. Dal

giorno in cui era apparso sopra le teste incredule dell’umanità l’Occhio aveva sempre sorvolato la

Terra dalla stessa irraggiungibile altezza. Se l’Occhio stava davvero discendendo sulla Terra era

arrivata la fine di un’era. Cosa ci sarebbe stato dopo, se qualcosa sarebbe ancora stato, nessuno

poteva saperlo.

- L’Occhio si sta abbassando – riuscì finalmente a dire Geronimo in un soffio di sgomento.

- Sì. Scenderà ancora, probabilmente – disse Marcus tranquillo.

- Voi lo sapevate ? E’ per questo che siamo venuti qui, allora.

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- Non ne eravamo certi, ma lo ha già fatto in altre città, nei mesi scorsi. Parigi, Londra, Berlino. Lo

abbiamo saputo dai Sapienti che vivono vicino a quelle città. Ma nessuno di loro è riuscito ad

avvicinarsi all’Occhio fino ad ora. Londra èancora radioattiva. Parigi è stata data alle fiamme da

gente impazzita quando ha visto l’Occhio fermarsi sulla città. Berlino è popolata da bande di

cannibali che divorano chiunque gli capiti a tiro. Adesso l’Occhio ha scelto Roma, e noi siamo qui.

- Ma cosa farà l’Occhio, quando si sarà abbassato ancora di più sulla città ?

- E’ quello che scopriremo – rispose Marcus.

- Non avete paura di quello che l’Occhio potrebbe farci ?

- Cosa può farci di peggio di quello che ci ha già fatto ? – disse Nina, chiudendo la conversazione.

Attraversarono vie morte e piazze silenziose, ingombre di molti passati troncati da un futuro

impietoso, penetrando sempre più a fondo nel cuore spento della città. Davanti a loro comparvero le

pietre brune del Colosseo, che catturarono lo stupore di Geronimo.

- E’ enorme. Gli uomini dell’Età dell’Oro hanno costruito cose incredibili.

- Quel rudere ha più di duemila anni – disse Marcus –è stato fatto molto prima dell’Età dell’Oro.

Geronimo strabuzzò gli occhi : - pensavo che duemila anni fa gli uomini vivessero ancora nelle

caverne.

- Anche allora, c’era chi abitava nelle caverne e chi nei palazzi – disse Marcus mentre Geronimo

teneva gli occhi fissi sugli archi del circo.

- E dentro questo palazzo chi ci viveva ?

- Nessuno. Era un circo, un posto dove facevano spettacoli per la gente.

- Che tipo di spettacoli ?

- Facevano combattere gli schiavi gli uni contro gli altri, o li facevano divorare dalle bestie feroci.

- Non c’era bisogno di fare un palazzo come quello, per vedere morire le persone.

Marcus fermò l’auto: poco più avanti la strada era sbarrata da una muraglia di macerie e carcasse di

auto, impilate le une sulle altre.

- Siamo arrivati alla Barriera – disse Marcus.

- Che cos’è ? – chiese Geronimo.

- L’Esercito del Papa ha bloccatto tutte le strade che vanno verso la Città del Vaticano. E’ una

misura difensiva. Dobbiamo proseguire a piedi.

- Con gli Adoratori che convergono sulla città ?

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- Roma è grande. Finora non ne abbiamo incrociati, con un pò di fortuna non li incontreremo

neanche più avanti.

Nascosero il fuoristrada in una via laterale, dietro la carcassa di un vecchio autobus tenuto insieme

solo dalla ruggine, ed iniziarono a cercare un passaggio nel muro di macerie e rottami.

Attraverso il portone divelto di un palazzo sbucarono sotto un porticato interno che circondava un

grande cortile. Appena furono dentro, Geronimo fece lo segno di non parlare e li fece abbassare

dietro un muretto.

- Cosa c’è ? – domandò sussurrando Marcus.

- In mezzo al cortile – disse Geronimo con un filo di voce – ci sono due cadaveri freschi.

Marcus guardò meglio; tra i mucchi di immondizia e ciarpame, c’erano i corpi di due uomini, quasi

certamente Adoratori dell’Occhio.

- C’è un cecchino che sorveglia il passaggio – aggiunse Geronimo – voi state qui e non muovetemi

per nessuna ragione.

Prima che Marcus potesse parlare, Geronimo si era infilato in un portoncino scomparendo alla loro

vista. A Marcus parve di avere atteso per un tempo infinito, quando sentì il fragore di una finestra

che in frantumi e vide il corpo di un uomo precipitare con un tonfo sordo sul pavimento del cortile.

Si spiaccicò mollemente sul selciato come un frutto rimasto troppo a lungo sulla pianta.

Geronimo apparve alla loro spalle meno di un minuto dopo. Era un soldato del Papa, disse.

Sorvegliano i passaggi nella Barriera. Dobbiamo stare attenti.

Passando attraverso il cortile interno superarono lo sbarramento e sbucarono di nuovo tra le strade

in rovina. Sopra la città l’Occhio continuava ad incombere sempre più opprimente. Con il passare

dei minuti, l’enorme sfera si faceva sempre più oscenamente grande. Si stava ancora abbassando,

anche se adesso la sua discesa era talmente lenta da essere quasi impercettibile. Guardandola,

Geronimo sentì l’aria sfuggirgli dai polmoni.

Arrivarono ad un altro ponte che attraversava il Tevere; anche questo era stato sbarrato, ma le

barricate erano state divelte da poco e sul lastricato erano sparsi uomini e donne diventati cadaveri

da poco tempo. Geronimo ispezionò i corpi, aiutandosi con la canna del fucile. La maggior parte

erano Adoratori dell’Occhio, abbattuti da armi da fuoco. Più oltre, dietro quel che restava della

barricata abbattuta, altri corpi giacevano a terra, circondati da fiori di sangue sbocciati sull’asfalto.

Portavano su una manica la croce ortodossa, cucito sul petto il simbolo del Vaticano con le chiavi

incrociate. Alcuni di loro, i più sfortunati, erano stati presi vivi dagli Adoratori, e pezzi dei loro arti

mutilati erano sparsi a terra come rami secchi portati dal vento d’autunno.

Attraversarono il ponte con lo stomaco chiuso e la schiena ghiacciata. Non appena furono dall’altra

parte del fiume, raffiche secche come colpi di tosse squarciarono il silenzio della città morta. I colpi

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delle armi automatiche arrivavano da dietro gli antichi edifici, dalla stessa direzione in cui un tempo

non lontano la cristianità aveva avuto il suo centro sovrano e indiscutibile. Miliardi di persone

avevano affidato le loro speranze alle parole dell’uomo che sedeva sul soglio di Pietro, e la loro

fiducia non era venuto meno neanche dopo che, attraverso qualche diabolica fessura, il fumo di

Satana era entrato nei palazzi vaticani. Ma questo accadeva prima che un dio misterioso si

affacciasse sulla Terra e facesse del Sommo Pontefice il sovrano irriso di un regno deserto, difeso

dalle poche centinaia di uomini la cui fede era così granitica, o così ottusa, da non crollare neppure

sotto lo sguardo distratto dell’Occhio.

- Gli Adoratori dell’Occhio ed i soldati del Papa stanno ancora combattendo. – Geronimo era

nervoso, ma era anche un soldato. Era l’unica cosa che fosse mai stato da quando aveva smesso di

essere un bambino, ed il rumore della battaglia gli pompava nelle vene una frenesia da drogato.

Nina e Marcus se ne accorsero vedendo la febbre che gli infuocava gli occhi.

- Forse è meglio se ci nascondiamo da qualche parte e aspettiamo che il peggio passi – disse Nina

senza convinzione.

L’Occhio ormai occupava tutto lo spazio sopra i palazzi che vedevano davanti a loro; era

vicinissimo, sospeso nell’aria opaca a poche centinaia di metri dalle loro teste confuse. Eppure

presto si sarebbe nuovamente alzato in quel cielo polveroso ed avrebbe ripreso il suo

imperscrutabile pellegrinaggio, diretto verso il guscio svuotato di un’altra antica città dell’uomo.

Se si fossero nascosti, se avessero atteso la fine della battaglia, non sarebbero mai più stati tanto

vicini all’Occhio. Nessuno rispose a Nina; lasciarono che le gambe decidessero la loro sorte.

Sotto il peso schiacciante dell’Occhio, che aveva ormai cancellato del tutto il cielo sopra di loro,

percorsero la lunga strada che un tempo si chiamava Via della Conciliazione, fino a quando

arrivarono al grande varco che si apriva nella selva di colonne introno alla piazza. Da qualche

minuto non sentivano più i rumori della battaglia e capirono subito il perché. Il grande spiazzo

ovale, perfettamente diviso in settori, era punteggiato di corpi inanimati ma era stato abbandonato

dai vivi.

L’Occhio era immobile sopra la piazza. Il suo punto più basso era allineato all’obelisco che si

ergeva nel centro dell’ovale, e distava dalla sua punta non più di qualche decina di metri. Nina,

Marcus e Geronimo furono presi di colpo da un terrore sconosciuto. Con la gigantesca sfera

opalescente che calpestava la piazza si sentirono all’improvviso formiche sotto la zampa di un

elefante. Ognuno di loro dovette lottare duramente con sé stesso per non fuggire da lì di corsa. Da

quando i suoi antenati erano scesi dalle piante e avevano iniziato a camminare eretti, l’uomo non

aveva mai avuto niente di così colossale e paurosamente alieno sopra di sé. La sfera rubava il cielo

agli uomini e li trasformava in insetti. La mente del primate reagiva all’inconoscibile con l’istinto di

sopravvivenza. E l’istinto gridava, prima di ogni cosa, di fuggire.

Tenendo gli occhi alzati verso la pancia bianca del titano Marcus si incamminò verso l’obelisco,

seguito a pochi passi da Geronimo e da Nina. Ai piedi del dito di pietra videro un uomo anziano,

vestito di bianco. Era inginocchiato e sembrava non essersi accorto di loro. Marcus gli si avvicinò e

lo guardò meglio. Il pallio con le sei croci nere di seta che aveva intorno al collo non lasciava alcun

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dubbio: genuflesso accanto all’obelisco c’era Papa Leone XIV, il primo ed unico Papa salito al

soglio di Pietro nella tormentata era dell’Occhio.

Il Papa teneva la testa bassa e diceva qualcosa, come se stesse pregando, ma era scosso da un

tremito continuo, tanto da sembrare in preda alle convulsioni. I capelli candidi erano scarmigliati,

come arruffati da una folata di vento arrivata dal nulla. Marcus si fece più vicino, fino a quando

riuscì a sentire le parole del Papa: “…Io guardavo, nelle visioni notturne, ed ecco venire sulle

nuvole del cielo uno simile a un figlio d'uomo; egli giunse fino al vegliardo e fu fatto avvicinare a

lui; gli furono dati dominio, gloria e regno, perché le genti di ogni popolo, nazione e lingua lo

servissero. Il suo dominio è un dominio eterno che non passerà, e il suo regno è un regno che non

sarà distrutto…”

Marcus si chinò e gli sfiorò una spalla. Il pontefice si scosse ed alzò verso Marcus due occhi azzurri

e disperati. Gli occhi di un bambino che ha smarrito la madre nella folla.

– Lui mi parla, ma io non capisco ! – disse angosciato – per quarant’anni ho atteso che

l’annunciatore celeste venisse finalmente a consegnarmi il suo messaggio per i figli dell’Uomo, e

adesso che accade, io non sono in grado di comprenderlo.

In che modo vi parla, chiese Marcus. Il Papa drizzò il dito in alto, verso un punto preciso del globo

che aveva preso il posto del cielo. Marcus vide che sulla superficie traslucida dell’Occhio si stava

formando in quell’istante una specie di ideogramma, composto da un cerchio e diverse aste

intersecate tra loro.

Leone attese tormentato che l’ideogramma prendesse forma, quindi piegò di nuovo il capo,

sconfitto. Non so leggere la lingua di Dio, disse sfinito.

Non sappiamo se sia la lingua di Dio, di Satana o solo quella di altri esseri viventi, disse Marcus. Il

Papa lo ignorò ed abbassò il capo, sul punto di scoppiare in lacrime. Poi sembrò riprendersi e

ricominciò a parlare, tenendo il capo rivolto verso il basso: …Dal trono uscivano lampi, voci e

tuoni; sette lampade accese ardevano davanti al trono, simbolo dei sette spiriti di Dio. Davanti al

trono vi era come un mare trasparente simile a cristallo. In mezzo al trono e intorno al trono vi

erano quattro esseri viventi pieni d'occhi davanti e di dietro…

L’ideogramma apparso sul ventre dell’Occhio lentamente si dissolse e fu sostituito da un altro

simbolo, questa volta più simile ad un quadrato con gli angoli smussati. Se davvero l’Occhio stesse

cercando di parlare con gli uomini nessuno di loro era in grado di saperlo. Forse quei segni

evanescenti non avevano alcun significato sulla Terra, o forse L’Occhio si stava solo esprimendo in

cinese, la lingua più parlata sul pianeta ma che nessuno di loro conosceva. Di nuovo il simbolo

cambiò, lasciando il posto ad una specie di sette rovesciato seguito da qualcosa che assomigliava

alla lettera “psi” dell’alfabeto greco.

Marcus si avvicinò al corpo di un soldato del Papa il cui sangue, sparso sul selciato, aveva formato

una grande chiazza vischiosa. Bagnando più volte la punta dello stivale nel liquido appiccicoso

disegnò sulle pietre della piazza lo stesso simbolo apparso sulla superficie dell’Occhio. Qualunque

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cosa l’Occhio volesse dire agli uomini, Marcus gliela ributtò in faccia. Agì d’istinto, non avrebbe

saputo dire il perché.

L’ideogramma evaporò dalla superficie biancastra della sfera, ed al suo posto comparve un cerchio

nero. Marcus ci mise quasi un minuto a capire che quel cerchio era in realtà un’apertura

perfettamente circolare. L’apertura si illuminò di una luce che veniva dall’interno del globo, e nello

stesso istante gli occhi di Leone XIV si incendiarono di una febbre mistica. Aprì le braccia e gridò

verso l’Occhio: “Dopo ciò ebbi una visione: una porta era aperta nel cielo. La voce che prima

avevo udito parlarmi come una tromba diceva: Sali quassù, ti mostrerò le cose che devono

accadere in seguito. Subito fui rapito in estasi. Ed ecco, c'era un trono nel cielo, e sul trono uno

stava seduto…”.

Qualcosa a forma di fuso, dello stesso colore opalescente dell’Occhio, uscì dal foro ed iniziò a

scendere lentamente verso la piazza. Il fuso cadeva con la grazia delicata di un fiocco di neve. Si

posò a poche decine di metri dall’obelisco e si aprì come un bocciolo, formando un grande fiore

bianco e luminescente.

Dio ci chiama a sé con i suoi angeli, gridò estasiato Leone XIV. Si alzò da terra e corse verso il

fiore, seguito da Marcus, Geronimo e Nina. Nella foga il Papa inciampò e cadde, ferendosi alla

gamba sinistra, ma parve non accorgersene nemmeno. Si rialzò e riprese a correre zoppicando,

mentre una chiazza rossa si allargava sulla veste bianca all’altezza del ginocchio.

Si misero tutti al centro del grande fiore sbocciato, attratti come falene dalla luce. L’Occhio li

aveva chiamati e non rispondergli sarebbe stato semplicemente inconcepibile. I petali si richiusero

intorno a loro, plasmando di nuovo un fuso perfetto. L’interno del fuso era illuminato da una luce

verdastra ed aliena, che veniva dalle pareti stesse e dava l’impressione di essere immersi nell’acqua

di un mare sconosciuto. Sentirono il fuso muoversi, salendo verso l’alto fino a fermarsi. Dopo un

lungo istante il fuso si aprì di nuovo, stendendo a terra i suoi petali artificiali.

Erano dentro un enorme spazio vuoto, racchiuso da pareti curve che riflettevano la stessa tenue luce

di mare straniero che li aveva avvolti nel fuso. Sotto ai loro piedi un pavimento simile a cristallo

brillava della stessa luce delle pareti che li circondavano. Leone lo colpì con le ginocchia e

ricominciò a pregare, ad un passo dal delirio: “Vidi pure come un mare di cristallo misto a fuoco e

coloro che avevano vinto la bestia e la sua immagine e il numero del suo nome, stavano ritti sul

mare di cristallo. Accompagnando il canto con le arpe divine, cantavano il cantico di Mosè, servo

di Dio, e il cantico dell'Agnello…”.

Nella stanza si aprì una grande porta circolare ed un creatura dall’aspetto delicato e sottile, alta il

doppio di un uomo, fece la sua apparizione sotto la luce marina della stanza.

Geronimo alzò il fucile; Marcus ne afferrò la canna e la spinse verso il basso.

L’essere aveva quattro arti lunghi ed affilati, due occhi e qualcosa che poteva essere una bocca, e

nient’altro in comune con ciò che era umano. La grande testa assomigliava a quella di un axolotl, la

larva della salamandra messicana. Il suo corpo era biancastro e semitrasparente, tanto che attraverso

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la carne lattiginosa si intuivano le forme opache di indecifrabili organi interni. Gli occhi erano due

enormi globi neri. Se fossero stati occhi umani, sarebbero stati occhi tristi.

La creatura si mosse con grazia verso di loro, galleggiando sui lunghi arti inferiori. Sono contento

che siate venuti da me, finalmente, disse. Lo disse anche se non fu la creatura a parlare, perché il

suono della voce sembrava uscire dalle pareti.

- Sei tu che hai parlato ? – domandò Marcus.

- Sono stato io, attraverso la Sfera. Io non so parlare la vostra lingua e non potrei neppure emettere i

suoni con cui comunicate tra voi. La Sfera lo fa per me.

- La Sfera è questa… questa specie di astronave dentro cui siamo, immagino.

- La Sfera è solo la Sfera. Noi siamo dentro la Sfera.

- Quindi è sempre la Sfera, a tradurre per te ciò che diciamo.

- La Sfera mi dice ciò che voi dite, sì.

Leone XIV si fece avanti, fino ad un passo dall’alieno. Ogni traccia dell’estasi di cui era stato preda

fino ad un istante prima si era spenta come la fiamma di una candela per un colpo di vento. Adesso

gli occhi del Pontefice di Roma erano schegge di pietra taglienti. Si passò una mano sui capelli

bianchi e scarmigliati, gettandoli indietro. Fissando la faccia da salamandra gridò: - Da dove vieni,

tu ? E’ stato Dio o Satana, a mandarti sulla Terra ?

La creatura si ritrasse spaventata. Perché gridi, chiese al Papa, parlandogli attraverso la Sfera. Io

non so chi sia Dio, né chi sia Satana.

Leone guardò di nuovo l’alieno, deluso e incupito. Questa cosa non è un angelo e neppure un

demone, disse tristemente a sé stesso. Da dove vieni allora, domandò di nuovo. Da un altro pianeta

dell’universo, immagino.

Il volto diafano della creatura si contrasse in un’espressione sconosciuta. A tutti però parve che in

quella smorfia ci fosse il dolore più di ogni altra cosa.

- Io vengo dalla Sfera – disse infine la creatura – ma credo che la Sfera venga a sua volta da

quello che voi chiamate un pianeta.

- Come puoi crederlo senza saperlo ? – chiese Marcus.

- I miei ricordi non arrivano tanto lontano – sussurrò la creatura.

- E gli altri che sono con te ? – lo incalzò Marcus.

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- Io sono l’unico Viaggiatore. Non c’è mai più di un Viaggiatore, nelle Sfere.

- Ma la Sfera è enorme ! – esplose Geronimo, incredulo.

- Le macchine che la fanno viaggiare per l’universo occupano molto spazio. E poi contiene molte

cose di cui io non ricordo lo scopo. Ma non c’è mai più di un Viaggiatore per volta, nella Sfera.

- Perché sei venuto qui ? – chiese il Papa.

- La creatura tacque a lungo; gli arti superiori, che terminavano in un fascio di dita tentacolari, si

intrecciarono tra loro, tormentandosi vicendevolmente. La Sfera decide dove andare, disse infine il

Viaggiatore. Lei mi ha portato qui, come mi ha portato in centinaia di altri posti prima di qui. Non

so perché scelga di andare in un posto. La Sfera si sposta nello spazio interstellare scegliendo da sé

le sue mete.

- Quindi tu non puoi pilotare la Sfera ? – chiese Nina.

- Un tempo sapevo come farlo, ma è passato troppo tempo e ormai l’ho scordato. Ma non è

necessario, la Sfera non ha bisogno di un pilota. Del resto io non saprei scegliere la rotta meglio

della Sfera.

- Quanto tempo? – domandò Marcus.

- Cosa intendi ?

- Hai detto che è passato troppo tempo da quando sapevi pilotare la Sfera. Quanto tempo è passato ?

Molto, moltissimo tempo. Molti di quelli che voi chiamate anni. Ma non ricordo quanti.

Quanti ne ricordi ? – insistette Marcus.

- Ricordo gli anni che sono serviti per visitare centinaia di pianeti. Alcuni aridi come sassi, altri

avvolti dal gelo o roventi come lava. Centinaia di pianeti, migliaia di stelle, milioni di anni.

Raramente, il soffio della vita. Ancora più raro, il respiro inestimabile dell’intelligenza.

- Tu puoi vivere così a lungo ? Sei immortale ? – gridò Leone XIV, di nuovo interessato alla

creatura.

- Il mio corpo vive a lungo, ma periodicamente invecchia e muore. Quanto succede, la Sfera mi

trasferisce in un nuovo corpo. Ci sono centinaia di embrioni, nella Sfera, pronti a diventare nuove

case dove ospitare la mia mente. E molti ne sono già stati usati in passato. Io posso morire e

rinascere innumerevoli volte, fino a quando l’ultimo embrione congelato non sarà stato svegliato

per svolgere il suo unico compito, quello di ospitare la mia coscienza ed i miei ricordi. O almeno

così avrebbe dovuto essere, nel pensiero di coloro che crearono le Sfere e le inviarono ai quattro lati

dell’universo.

- E così invece non è stato ? – chiese Marcus.

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- Purtroppo qualcosa non ha funzionato come avrebbero voluto i Creatori della Sfere – disse la

creatura dopo qualche istante.

- Cosa non ha funzionato ? – chiesero all’unisono Marcus e Nina.

- Passando dal vecchio corpo morente a quello nuovo la mia mente ogni volta perdeva qualcosa. Le

nuove cellule nervose erano perfette, ma per qualche motivo i ricordi più vecchi tendevano a

svanire, a diventare via via più flebili e vaghi. Ormai ho scordato almeno la metà della mia

esistenza passata, non ricordo niente di ciò che c’era prima della Sfera e dell’inizio del Viaggio. Più

la mia vita si allunga e più il mio tempo mentale si accorcia. Ho un futuro illimitato, ma lo pago

perdendo il mio passato.

- In qualche modo non hai tenuto traccia di quello che ti è accaduto, del tuo passato prima della

Sfera ? – domandò Marcus ?

- La Sfera avrebbe dovuto farlo per me, ma non è successo…

- La Sfera, sempre la Sfera ! La Sfera parla per te, la Sfera ricorda per te ! la Sfera decide la rotta da

seguire, ma questa cosa è solo una macchina. “Come l’argilla è nelle mani del vasaio, così voi siete

nelle mie mani, casa d’Israele !” - strepitò Leone. - Quale è la volontà che muove la Sfera per

l’universo ?

- La creatura fluttuò sui sottili arti inferiori, arretrando dinanzi alla voce tonante del Papa. Quello

che mi domandi l’ho scordato da migliaia di anni, disse infine attraverso le pareti luminescenti che

li avvolgevano. Darei in cambio tutto il lunghissimo tempo che mi resta, per ricordarlo. Baratterei

volentieri l’eternità, per sapere chi sono e da dove vengo. Ma non mi è concesso.

- “Dio ha dato loro uno spirito di torpore, occhi per non vedere e orecchie per non udire”, replicò

Leone, sconsolato.

Nina si fece avanti, superando Marcus ed il Papa. Si fermò a meno di un metro dal Viaggiatore e ne

studiò il volto lattiginoso e trasparente, dentro il quale le palle nerissime degli occhi galleggiavano

come boe solitarie in un mare di gelatina. Tu conosci il male che ci ha fatto la Sfera, disse Nina.

Il Viaggiatore rispose all'istante, come se quelle parole fossero pronte da sempre per essere detta. La

Sfera non ha mai fatto nulla di male. La Sfera non fa mai del male a nessun essere vivente. Questa

era la volontà dei Creatori delle Sfere. Ogni forma di vita dell’universo deve essere protetta. La vita

che raggiunge la coscienza di sé lo dev’essere più di ogni altra.

- Tu sai che non è così. La Sfera ha distrutto tutto ciò che eravamo. Ha sconvolto per sempre

l’esistenza dell’umanità – disse Nina, facendo un altro passo verso il Viaggiatore.

- Ma la Sfera ha solo osservato. Fino ad ora non ha fatto altro che questo. Né la Sfera né io

abbiamo mai interferito con la vita degli uomini.

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- L’osservazione cambia la realtà – disse Nina – lo hai mai sentito, questo ?

- Non ricordo di averlo mai sentito… – disse l’essere, senza capire.

- Perché ci hai chiamato ? – chiese Nina.

- E’ stata la Sfera a chiamarvi. Quando la Sfera riconosce l’intelligenza, tenta sempre di chiamarla a

sé. E’ successo così poche volte, e ancor meno sono quelle che posso ricordare…

- Perché ha aspettato tanto ? – chiese Nina – Perché lo ha fatto dopo tutti questi anni in cui è stata a

guardarci in silenzio, mentre il nostro mondo marciva, mentre le nostre esistenze precipitavano

all’inferno ?

La creatura aprì gli arti superiori ed agitò le lunghe dita filiformi in un gesto di rassegnazione

assurdamente umano; quindi puntò verso il basso i globi neri degli occhi e lasciò che le sue parole

venissero precedute da un silenzio che in un uomo si sarebbe chiamato imbarazzo.

- La Sfera ha un concetto relativo del tempo. Ma la verità è che la Sfera, da un po’, agisce in

modo… stravagante.

- Cosa intendi dire ? – chiese Marcus.

- Credo che anche la Sfera abbia iniziato a scordare. Qualcosa in lei non funziona più come

dovrebbe. Le Sfere furono forgiate per viaggiare in eterno, ma non sono perfette come pensavano i

loro Creatori. Lentamente, lentissimamente, il tempo corrompe anche le loro gigantesche menti

artificiali. A volte la Sfera fa cose di cui non comprendo il senso.

- Allora perché non ci hai chiamato tu, se la Sfera non lo faceva ? – chiese Nina.

- Io sono solo un Viaggiatore. Avrei voluto chiamarvi più di qualsiasi altra cosa, ma non sapevo

come fare !

- Facci ritornare da dove siamo venuti – disse Leone – non c’è niente per i figli dell’uomo, dentro

questo guscio vuoto in cui ci hai portato. Perfino in Satana c’è qualcosa di divino, ma in te non c’è

traccia di Dio. Almeno l’uomo può decidere se temere il Signore o se ribellarsi a lui. Tu invece sei

solo un inconsapevole strumento di rovina, incapace perfino di scegliere il peccato. Sei un inferno

ghiacciato e deserto.

- Mi spiace, io credo di non capire. Ma vi prego, restate ancora un po’. E’ così bello avere qualcuno

con cui parlare. Sono solo da milioni di anni, il ricordo di chi ho incontrato è ormai quasi sparito del

tutto. Quando il mio corpo morirà e la Sfera me ne darà uno nuovo, anche quel poco che ora ricordo

si cancellerà e non mi resterete che voi.

- Parla con la Sfera se non sai con chi altri farlo – ringhiò Nina.

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- La Sfera non mi risponde più da molto tempo. Mi tiene in vita, si prende cura di me, eppure mi ha

abbandonato…

- Dobbiamo andarcene, adesso – disse Marcus.

Qualcosa che assomigliava alla delusione percorse il volto insondabile del Viaggiatore. Come

volete, disse tristemente. La Sfera vi riporterà a terra, così come vi ha portato qui. Ma vi prego di

ripensarci.

Si rimisero al centro del fuso aperto, tutti tranne Geronimo. Era rimasto immobile e non toglieva

gli occhi da quelli del Viaggiatore. Questi se ne accorse e parve felice.

- Tu vuoi restare con me ancora un po’, vero ? – chiese con la speranza infantile di un bambino.

No, rispose Geronimo mentre alzava il fucile e faceva esplodere l’enorme testa in una fontana di

melassa lattiginosa.

Il corpo del Viaggiatore si afflosciò all’istante, come una medusa tolta dall’acqua. La materia

cerebrale che aveva custodito la mente del Viaggiatore era sparsa sul pavimento. Formava una

melma appiccicosa, simile a latte cagliato.

La Sfera non parve farci caso.

Nessuno disse nulla, tranne Leone, che mormorò qualcosa in latino. Gli altri non lo compresero.

Geronimo raggiunse gli altri al centro del fiore. I petali si richiusero a fuso e la navicella li depose

di nuovo dolcemente al centro della Piazza, a pochi metri dell’Obelisco.

Aveva iniziato a piovere, ma loro quattro erano al riparo, sotto la mole colossale della Sfera.

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