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State of the World 2011 - Nutrire il Pianeta

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State of the World 2011 -Nutrire il Pianeta, a cura del Worldwatch Institute.

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STATE OF THE WORLD 2011 NUTRIRE IL PIANETA

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QUESTO VOLUME È RACCOMANDATO

DA WWF ITALIA

Edizione italiana a cura di Gianfranco Bologna

NUTRIRE IL PIANETA

STATE OF THE WORLD 2011

Worldwatch Institute

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Worldwatch InstituteSTATE OF THE WORLD 2011nutrire il pianetarapporto sul progresso verso una società sostenibileDanielle Nierenberg e Brian Halweil (direttori del progetto), Royce Gloria Androa,Charles Benbrook, Marie-Ange Binagwaho, Louise E. Buck, Roland Bunch, Marshall Burke, Christopher Flavin, Dianne Forte, Samuel Fromartz, Hans R. Herren,Mario Herrero, Marcia Ishii-Eiteman, Nancy Karanja, Anna Lappé, Brigid Letty,David Lobell, Saidou Magagi, Serena Milano, Anuradha Mittal, Mary Njenga,Qureish Noordin, Sandra L. Postel, Chris Reij, Andrew Rice, Sara J. Scherr, Alexandra Spieldoch, Tristram Stuart, Abdou Tenkouano, Ann Waters-Bayer, Linda Starke (curatrice)

Edizione italiana a cura di Gianfranco Bologna

traduzione: Erminio Cella, Franco Lombini, Michelle Nebiolo, Mario Tadiellorealizzazione editoriale: Edizioni Ambiente srl – www.edizioniambiente.itcoordinamento redazionale: Diego Tavazzi

titolo originale2011 State of the WorldInnovations that Nourish the Planet Copyright © 2011 Worldwatch InstituteAll rights reserved

progetto grafico: GrafCo3 Milano impaginazione: Roberto Gurdo

© 2011 Edizioni Ambiente via Natale Battaglia 10, 20127 Milanotel. 02.45487277, fax 02.45487333

ISBN 978-88-96238-97-4

Finito di stampare nel mese di febbraio 2011presso Genesi Gruppo Editoriale – Città di Castello (Pg)Stampato in Italia – Printed in Italy

Questo libro è stampato su carta riciclata 100%

I siti di Edizioni Ambientewww.edizioniambiente.itwww.nextville.itwww.reteambiente.itwww.verdenero.it

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sommario

prefazione 9Carlo Petrini

il futuro, una rivoluzione in tre paradigmi: 13nuova ecoscienza, società sufficiente, bene comuneAndrea Segrè

nutrire un’umanità di 9 miliardi: la sfida di un’economia sostenibile 19Gianfranco Bologna

introduzione 41Olivier De Schutter

premessa 47Christopher Flavin

state of the world: un anno in rassegna 53A cura di Kelsey Russell e Lisa Mastny

1. percorrere una nuova strada per sconfiggere la fame 61Brian Halweil e Danielle NierenbergDai campi. Misurare i successi dello sviluppo agricolo 79

2. far diventare l’ecoagricoltura una pratica convenzionale 83Louise E. Buck e Sara J. ScherrDai campi. Innovazioni nella risicoltura in Madagascar 99

3. il potenziale economico e nutrizionale degli ortaggi 103Abdou TenkouanoDai campi. Sviluppare innovazioni nella coltivazione scolastica 119Dai campi. Il fondo One Acre dà priorità agli agricoltori 122

4. aumentare il raccolto goccia a goccia 125Sandra L. PostelDai campi. La raccolta dell’acqua piovana 142

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5. gli agricoltori al primo posto per ricerca e sviluppo 145Brigid Letty, Qureish Noordin, Saidou Magagi e Ann Waters-BayerDai campi. Commercio di cereali in Zambia 157

6. la crisi della fertilità del suolo in africa e la carestia imminente 159Roland BunchDai campi. Nuove varietà di manioca a Zanzibar 176

7. proteggere la biodiversità dei cibi locali 181Serena MilanoDai campi. Le minacce alle risorse genetiche animali in Kenya 197Dai campi. I vantaggi dei forni solari in Senegal 199

8. affrontare il cambiamento climatico 201e sviluppare maggiore resilienza

un approccio agnostico all’adattamento climatico 203David Lobell e Marshall Burkeinvestire negli alberi per mitigare il cambiamento climatico 207Chris Reijla crisi climatica nel piatto 220Anna LappéDai campi. La rivoluzione sempreverde in Africa 227

9. perdite post-raccolto: un settore trascurato 231Tristram StuartDai campi. Trasformare l’offerta del giorno in un’opportunità per il futuro 247

10. sfamare le città 249Nancy Karanja e Mary NjengaDai campi. Favorire la sicurezza dell’irrigazione 263con acque reflue in Africa occidentale Dai campi. La risposta dell’agricoltura al richiamo della natura 267

11. valorizzare le conoscenze e le capacità 269 delle donne in agricolturaDianne Forte, Royce Gloria Androa e Marie-Ange BinagwahoDai campi. Il teatro aiuta le donne agricoltrici 285Dai campi. Qual è la tecnologia giusta? 289

12. investire in territorio africano: crisi e opportunità 291Andrew RiceDai campi. Un miglior stoccaggio del cibo 304

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13. i collegamenti mancanti: andare oltre la produzione 309Samuel FromartzDai campi. L’impegno delle chiese oltre l’alleviare la fame 327

14. migliorare la produzione di cibo di origine animale 331Mario Herrero, con Susan McMillan, Nancy Johnson, Polly Ericksen, Alan Duncan, Delia Grace e Philip K. ThorntonDai campi. L’allevamento su piccola scala in Ruanda 346

15. una road map per la nutrizione del pianeta 349

innovazioni nella comprensione dei sistemi complessi 350Hans R. Herreninnovazioni nella valutazione dei progetti di sviluppo agricolo 356Charles Benbrookinnovazioni nelle istituzioni per sostenere l’umanità e il pianeta 363Marcia Ishii-Eitemaninnovazioni nell’amministrazione 368Anuradha Mittalinnovazioni nella riforma delle politiche 376Alexandra Spieldoch

note 383

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prefazioneCarlo Petrini

Per molto tempo i mondi dell’ecologia, dell’economia alternativa, di chiunque abbia a cuore un futuro migliore per la Terra e per l’umanità si sono dovuti cimentare con impegno nella pratica della denuncia. Era assolutamente necessario scuotere le coscienze prima che fosse troppo tar-di. Sono sicuro che gli operatori, soprattutto quelli della prima ora, le-gati ad associazioni e movimenti attivi in questi campi delicati e impor-tanti ne converranno: per anni abbiamo fatto la figura delle Cassandre, portatori di profezie non piacevoli, puntualmente inascoltati. Nei mi-gliori dei casi passavamo per inguaribili pessimisti. Tuttavia, negli ultimi anni la situazione mondiale si è fatta molto più pro-blematica e tante di quelle profezie cominciano a manifestarsi con sem-pre più chiarezza nella vita quotidiana di molte persone. Accade mentre esse lavorano, viaggiano, s’informano, mangiano o danno un semplice sguardo a ciò che accade intorno a sé, intorno alla propria casa. Bisogne-rebbe essere ciechi per non accorgersene. Ci sono le grandi crisi globali, ben note, e tante piccole battaglie quotidiane che cittadini e contadini di tutto il globo si trovano a dover affrontare per garantire a sé e alle pro-prie famiglie un livello di benessere almeno accettabile. Gli stessi media danno molto più risalto ai temi dell’ecologia, della povertà, dell’agricol-tura, del cibo: riempiono comunque le pagine dei giornali e gli schermi televisivi, anche se non sempre sono trattati con il dovuto grado di pro-fondità o secondo nuove prospettive.Insomma, finalmente le coscienze si stanno svegliando e sempre più per-sone maturano la consapevolezza che è giunto il tempo di trovare nuovi

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paradigmi, d’inventarsi altri modi di fare, produrre e consumare; di ri-cominciare secondo modelli che non siano quelli dominanti che ci han-no condotto sin qui. Non tutti sanno esattamente come fare, in che di-rezione rivolgersi ma, come ha detto bene Edgar Morin, se “tutto deve ricominciare, tutto è già ricominciato”. Quando la necessità di trasforma-zioni importanti si fa sentire così forte e diffusa nella società civile (che è sempre in anticipo sulle istituzioni), allora se adottiamo uno sguardo più acuto non sarà difficile rendersi conto che in realtà si è già in piena fase di trasformazione. Credo che tutto ciò emerga bene se si cerca di fare un punto della situazione, come per esempio fa lo State of the World ogni an-no, e certamente sono cose che le “vecchie Cassandre” apprezzeranno nel loro lavoro di tutti i giorni, il quale deve confrontarsi sempre meno con la mera denuncia e sempre di più con la costruzione di alternative con-crete, l’emergere di nuovi paradigmi che iniziano davvero a funzionare.Me ne accorgo anch’io, che dal mio osservatorio dell’associazione in-ternazionale Slow Food percepisco un quadro molto eterogeneo e mol-to attivo, una rete sempre più fitta e numerosa che pone al centro delle proprie vite l’importanza del cibo, della cura dei territori e dell’ambien-te, e ne fa strumenti costruttivi. Il cibo, in particolare, è al tempo stes-so il cuore del problema e la sua soluzione. Se riusciremo a garantire che sia “buono” per il nostro piacere e gratificazione, rappresentativo delle nostre tradizioni locali e delle nostre diverse identità; “pulito” per l’am-biente nelle sue fasi di produzione, trasformazione, distribuzione e con-sumo, e infine “giusto” per chi lo coltiva e alleva, per chi lo elabora o deve comprarlo, allora la trasformazione sarà davvero epocale. Parlo di trasformazione e non di rivoluzione: la rivoluzione quasi sempre tende a cancellare il passato, anche in maniera violenta, e difficilmente ha me-moria, “butta via il bambino con l’acqua sporca”. Se invece parliamo di cibo, ma anche di energie rinnovabili, di un approccio sistemico o più ecologico, di forme di economia che reintroducano il concetto del do-no, della gratuità e diano valore a culture ed elementi immateriali, non si può non guardare con attenzione al passato. Le rivoluzioni che abbia-mo vissuto o stiamo vivendo (dall’industriale all’informatica, da quella “verde” a quella biotecnologica) tendono a cancellare un passato che in-

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prefazione 11

vece è ricco di spunti per il futuro: nelle campagne di tutto il mondo il sole e il vento restano l’energia più importante, e il cibo della tradizione, le tecniche agricole rispettose dell’ambiente, la reciprocità e il senso di comunità sono elementi strutturali che pongono le loro radici in qual-cosa che per troppo tempo abbiamo voluto cancellare nel nome del pro-gresso o della crescita economica. Invece è da lì che bisogna ricomincia-re: “Un orizzonte spazio-temporale in cui ritrovare i ritmi del passato, i quali si ricombinano in pratiche che dialogano con il presente. Uno spa-zio in cui si può individuare nella tradizione un percorso comune per ri-costruire un futuro di umanità. Un nuovo modello di sostenibilità, che protegge e patrimonializza tanto la biodiversità quanto la nostra etnodi-versità”. È l’orizzonte delle nostre comunità, anche urbane, e si staglia soprattutto intorno alle nostre scelte alimentari.Da questo punto di vista con Slow Food abbiamo costituito la rete di Terra Madre: oltre 2.000 comunità del cibo presenti in 153 stati del mondo che lavorano per un cibo “buono, pulito e giusto”, nel solco delle loro tradi-zioni e nel rispetto totale del pianeta. Le comunità si riuniscono ogni due anni a Torino (dal 2004) portando i loro rappresentanti: semplici con-tadini, pescatori, indigeni, giovani e anziani. Sono però una rete perma-nente, costantemente in contatto, attiva localmente, che lancia messaggi globali fortissimi. Sono un immenso laboratorio di nuovi paradigmi e di grandi motori di trasformazione. La loro diversità – le loro identità che s’incontrano, scambiano, si arricchiscono e si affermano nel confronto – rappresenta una garanzia per un cibo migliore, per un mondo migliore. Ogni volta che ne incontro i rappresentanti la sensazione che sia finito il tempo della denuncia, del pessimismo, si fa sempre più forte. È vero, tutto è ricominciato. È un po’ come ai tempi della caduta dell’impero romano: mentre Roma continuava a legiferare, nei territori nascevano le pievi, comunità democratiche che in autonomia si davano le loro rego-le e rappresentarono la nascita di un nuovo paradigma per il futuro dei popoli europei. Sempre dall’osservatorio di Terra Madre, in particolare, vedo che l’Africa è in prima linea, che ci sono le forze più entusiaste e creative, che meglio coniugano il passato al futuro e dunque rappresen-tano la nostra più grande speranza.

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La dimensione locale, quella della comunità, in questo quadro è impre-scindibile, perché è quella che ci garantisce i risultati, il controllo, il rap-porto con gli altri, con la biodiversità che ci circonda e con la terra che calpestiamo; il bello e il buono che da essa sanno nascere con l’aiuto dell’uomo. Se è finito il tempo di essere pessimisti è anche finito il tem-po di fare rinunce: i nuovi modelli che si propongono e che emergono in tutto il mondo sono tutt’altro che mortificanti. Ci parlano di piace-re e di piena riconquista della capacità di relazionarsi, di apprezzare ciò che vale per il suo valore e non per il suo prezzo. Fare le pievi del terzo millennio è piacevole e ci riconcilia, oltre che con la Terra, anche con il resto dell’umanità. Il cibo è di nuovo paradigmatico: se è locale, fresco e di stagione, anche se povero sarà sicuramente molto piacevole. Ma se è locale, fresco e di stagione sarà anche sostenibile per l’ambiente, favo-rirà le agricolture locali e i contadini, accorcerà la distanza fra produzio-ne e consumo e ne ridurrà i passaggi di mano che spesso riescono a ge-nerare grandi ingiustizie.Il piacere di favorire la trasformazione è la vera novità di questo secolo, che genera un inedito ottimismo e funziona concretamente, perché non stiamo facendo altro che lavorare per la nostra felicità e per quella delle generazioni che verranno dopo di noi. Forse non ne siamo ancora pie-namente consapevoli, ma a prescindere dal nostro campo d’azione, stia-mo lavorando tutti per il diritto universale al bello e al buono. Resta molto nello “stato del mondo” che non ci piace e ci intristisce, ma se tutto deve ricominciare proviamo anche a guardare a ciò che è già ri-cominciato: non soltanto ci servirà da modello di lavoro, ma ci renderà finalmente degli inguaribili ottimisti.

Carlo PetriniPresidente e fondatore di Slow Food

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il futuro, una rivoluzione in tre paradigmi: nuova ecoscienza, società sufficiente, bene comuneAndrea Segrè*

il presente, dicotomie agroalimentari

Strano mondo, il nostro: almeno dal punto di vista agricolo e alimenta-re. Ricco e nello stesso tempo povero di tanti, troppi elementi dicotomi-ci, spesso contraddittori se non paradossali. Un mondo, un sistema quel-lo agroalimentare, che non funziona; squilibrato, sotto diversi profili. Da una parte sappiamo che, almeno potenzialmente, la produzione agricola mondiale potrebbe nutrire abbondantemente il doppio del-la popolazione attuale del pianeta. Dall’altra emerge che quasi la me-tà del cibo nella lunga filiera agroalimentare mondiale si perde, viene sprecata: fosse possibile recuperarla basterebbe per nutrire tre miliar-di di individui. Da una parte il mondo conta un miliardo di affamati fra denutriti e sotto-nutriti, dall’altra gli obesi hanno ormai raggiunto numeri assai simili: due miliardi di persone risultano dunque malnutrite, mangiano troppo o trop-po poco con conseguenti, gravi, problemi dal punto di vista economico, sociale, sanitario. Sicurezza e insicurezza alimentare convivono e talvolta si incrociano pericolosamente nei quattro angoli del pianeta ribaltando le tradizionali prospettive: i sottonutriti aumentano nei paesi cosiddetti ric-chi, gli ipernutriti crescono anche nei paesi poveri. E in mezzo, lungo la

* Professore ordinario di Politica agraria internazionale e comparata, preside della Fa-coltà di Agraria, fondatore e presidente di Last Minute Market, spin off accademico, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna.

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filiera agroalimentare mondiale, si spreca una quantità di cibo che se re-cuperata permetterebbe di sfamare due terzi della popolazione mondiale, e che invece ha un impatto ambientale, economico e sociale devastante.Da una parte osserviamo, soprattutto nelle economie industrializzate, un livello tanto elevato quanto inutile di cementificazione e conseguen-te perdita di superficie agricola utilizzabile. Dall’altra assistiamo all’ac-caparramento delle terre più fertili nei paesi in via di sviluppo, il cosid-detto land grabbing, da parte degli stessi paesi in via di cementificazio-ne: come fosse una compensazione stile protocollo di Kyoto, mentre in realtà si tratta di una pericolosa e allarmante forma di neocolonialismo agricolo e alimentare. Da una parte il progredire della desertificazione altera le produzioni in alcune parti del mondo, dall’altra le alluvioni devastano altre produzioni agricole: sono gli stessi segnali – evidentemente – dei cambiamenti cli-matici in corso e dei relativi effetti sulle produzioni e sui mercati agro-alimentari.Da una parte si registra l’estrema volatilità dei prezzi alimentari che con-tinuano a salire e scendere con relativi impatti sui produttori, colpendo soprattutto le fasce più vulnerabili di contadini nelle aree agricole e rura-li dei paesi in via di sviluppo (ma non solo). Dall’altra questa altalena si trasmette con particolare violenza sulle fasce più deboli delle popolazioni nelle aree urbane, peggiorando ulteriormente una situazione già grave di crisi che si traduce in devastanti sconvolgimenti sociali: quanto è succes-so nei paesi della riva Nord del Mediterraneo durante le principali crisi dei prezzi nel 2007/2008 e nel 2010/2011 rende evidente la questione.Insomma – ma potremmo andare avanti evidenziando altre dicotomie come per esempio quella relativa alla competizione fra colture alimenta-ri e colture energetiche, oltre a quelle più generali relative alle disugua-glianze di reddito, l’esclusione e l’ingiustizia sociale... – è del tutto evi-dente, come emerge con chiarezza anche dalla lettura dell’edizione 2011 dello State of the World, che il nostro futuro dipende sempre di più dal-la risoluzione, dalla composizione potremmo dire, delle “dicotomie” che caratterizzano il malfunzionamento del sistema agroalimentare globale e più in generale di quello economico.

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il futuro, una rivoluzione in tre paradigmi 15

Una via di uscita non è facile da immaginare, se non con un radicale cambiamento sistemico e culturale.

il futuro, una rivoluzione in tre paradigmi

Impresa non facile, evidentemente. Che però deve partire da un altret-tanto radicale cambiamento del nostro modo di pensare la scienza e di usare le risorse naturali. Dalla scienza dipendono la ricerca e le innova-zioni, dalle risorse e dal loro uso (in termini di produzione e consumo) sostenibile il futuro dell’umanità, e in definitiva il nostro bene. Ed è pro-prio su questi tre termini – scienza, risorse, bene – che si gioca la visio-ne stessa del nostro futuro. Tre termini che diventano altrettanti para-digmi, che di seguito cerco di sintetizzare.

il paradigma dell’ecoscienzaIl punto di partenza è il paradigma di una nuova scienza, anzi un’e-co-scienza: ovvero di una casa, un ambiente della scienza e della ragione che si ponga la coscienza del limite, della responsabilità e della consapevolez-za per studiare e applicare i suoi modelli al fine di migliorare la nostra vi-ta, il nostro mondo, la nostra società. Una vera e propria rivoluzione che coinvolga consumatori, imprese, istituzioni e politica. Ma che faccia un buon uso – intelligente e trasparente nella definizione ecologica di que-ste aggettivazioni – della ricerca e dell’innovazione tecnologica. La ricer-ca scientifica non deve avere delle limitazioni, perché l’aumento della co-noscenza è un valore. Ma occorre responsabilità, sempre, in ogni ambito.La scienza e la ricerca scientifica sono un valore da salvaguardare, non un valore assoluto. Poiché interferisce con altri valori etici, economi-ci, politici, sociali, più che mai la ricerca deve essere responsabile, così come l’innovazione è indispensabile. Ciò vale tanto per le biotecnolo-gie agrarie e le modificazioni genetiche quanto per la selezione assistita dei marcatori fino alle più piccole innovazioni tecnologiche. Dobbia-mo imparare dai fallimenti della cosiddetta Rivoluzione Verde: questo rapporto dimostra che ciò è possibile, a condizione tuttavia che si cam-

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bi il paradigma scientifico e ciò che ne deriva dal punto di vista econo-mico e sociale.

il paradigma del limite e della società sufficientePer arrivare al secondo paradigma, nella coscienza del limite dobbiamo includere le risorse e anche i consumi. Se le prime sono limitate, lo de-vono essere anche i secondi. Dobbiamo riprendere il “nulla di troppo” (medén ágan) della morale classica basata sulla misura e sulla conseguen-te condanna della violazione dei limiti.Quella attuale, spesso definita dei consumi, è una società sazia dal pun-to di vista alimentare (anche se soltanto per alcune classi sociali e in cer-ti Paesi) e ingorda di beni materiali. In questo contesto, il consumo ri-sente delle dinamiche omologanti della globalizzazione, è avvertito come esigenza e declinato come una tendenza (moda). Di fatto, si è instaurato un modello tipicamente occidentale in cui il consumo – perpetrato co-me accumulo di beni, spesso inutili – diviene il motore dell’economia e allo stesso tempo il centro delle relazioni socio-culturali. In questo mo-dello si realizza un’errata relazione di dominio fra il soggetto dominan-te (consumatore) e l’oggetto dominato (bene, anche se naturale e non riproducibile).Del resto il verbo consumare, con cui si indica un’attività comune dell’uo-mo, eredita dal latino due accezioni differenti: portare a compimento (da consummare) e ridurre al nulla, distruggere (da consùmere). È evidente che in rapporto alle risorse naturali e non riproducibili come suolo, acqua, aria è la seconda accezione che caratterizza meglio l’azione del consuma-tore odierno. Questi, dunque, tende a comportarsi come un distrutto-re di risorse, contrastando in parte il pensiero di Stuart Mill secondo cui l’homo oeconomicus utilizza al meglio (quindi razionalmente) ciò che pos-siede (le risorse) per la sua soddisfazione. Tuttavia, distruggere ciò che è indispensabile e non riproducibile non è un atteggiamento così raziona-le, in particolare se riferito all’ecosistema.Le risorse che domandiamo non sono tutte impiegate per le necessità, ma spesso per bisogni inventati dal marketing o da tendenze sociali vota-te all’accumulo di beni tanto superflui quanto ecologicamente dannosi.

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il futuro, una rivoluzione in tre paradigmi 17

Allora il principio, molto intuitivo, da applicare è quello della sufficien-za: arrivare a una società dove abbastanza non è mai troppo, dove più non è necessariamente uguale a meglio, dove anzi si può fare di più con meno e, se necessario, anche meno con meno. Una società dove trovare nei consumi e dunque nella produzione un nuovo equilibro: fra quan-tità, che deve diminuire, e qualità che deve invece aumentare. In altre parole il consumatore – cioè noi tutti – deve riprendere la sua sovrani-tà con consapevolezza e responsabilità, applicando i principi dell’intel-ligenza ecologica.

il paradigma della relazione civile e del bene comuneSi tratta inoltre, per arrivare al terzo paradigma, di essere capaci di so-stituire, quando è necessario, il denaro (mercato) con l’atto del donare, e non soltanto perché si tratta di un anagramma: il dono porta alla rela-zione e alla reciprocità. Il mercato fallisce: lo spreco è il più classico dei fallimenti del mercato; tutti noi ricordiamo, per esempio, la distruzio-ne delle eccedenze agricole derivanti dall’applicazione della Politica agri-cola comunitaria, pratica che seppure sotto altre forme continua. Attra-verso il dono si può recuperare e valorizzare ciò che altrimenti verrebbe gettato via accumulandosi nei rifiuti e producendo esternalità negative. Dobbiamo cioè includere nei nostri modi di essere e di agire il valore di legame, superando così il valore d’uso e il valore di scambio delle merci. Fare posto al principio di gratuità dentro l’economia. L’homo oeconomi-cus diventa animal civile, così come deve essere l’economia. Passare dal-le merci ai beni e alle relazioni.Dobbiamo così pensare e agire – e questa è un’altra sfida difficile – in termini di bene comune.Le risorse non sempre devono essere impiegate nei processi produttivi secondo le leggi del libero mercato, per produrre profitto. Suolo, acqua, aria – risorse dalle quali derivano il cibo di cui ci nutriamo e la nostra salute – non possono essere assoggettati alle leggi del liberismo, come se fossero una qualsiasi materia prima da lavorare. Sono elementi basila-ri per la vita e l’equilibrio del pianeta. Occorre una rivoluzione innanzi-tutto culturale per far percepire il suolo, il paesaggio, l’acqua, l’aria co-

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me beni comuni. Beni cioè di cui la comunità si avvantaggia senza ac-corgersi del loro valore (economico), almeno finché non si esauriscono.Pensiamo all’ozono. Non ha, almeno finora, un prezzo di mercato ep-pure ha un valore inestimabile. Non ci si chiede, infatti, quanto coste-rebbe porre rimedio ai danni causati da una più spinta riduzione dello strato d’ozono. Parliamo di cambiamenti climatici e quindi di stravolgi-menti nei sistemi agricoli, di desertificazione di alcuni territori e inonda-zioni di altri. Allo stesso modo, il suolo è un bene comune e va percepi-to come tale, perché è necessario e insostituibile per soddisfare i bisogni vitali dell’uomo. Lo stesso vale, ancor di più di questi tempi, per l’acqua quando – proprio ora – se ne postula la privatizzazione.Per ottenere un effettivo cambio di direzione (e anche di marcia), è ne-cessario modificare l’attuale rapporto di dominio fra soggetto dominan-te (consumatore) e oggetto dominato (risorse naturali non riproducibi-li). Occorre far capire al dominante che perpetrare un atteggiamento in-sostenibile, nuoce innanzitutto a se stesso. Sarebbe questa l’intelligenza ecologica, che alla nostra specie difetta per la verità.Ciò è possibile nella misura in cui si riesca a trasmettere al soggetto-con-sumatore la percezione del suo legame con l’oggetto-risorsa. In fondo l’u-no è l’altro e viceversa: fanno parte di un unico eco-sistema.L’auspicio dunque è che si riesca a trasformare la percezione delle risor-se naturali appunto da risorse (economiche) a diritti (che per definizio-ne sono inalienabili) dell’uomo e del pianeta. Un bene comune, che poi in definitiva non è altro che la ragion d’essere della formazione e conser-vazione di un corpo sociale. O, come sosteneva nel 1946 Jacques Ma-ritain, “è la buona vita umana della moltitudine, di una moltitudine di persone; è la loro comunione nel vivere bene; è dunque comune al tutto e alle parti”. Un bene comune che porta con sé le fondamenta e gli stessi semi della democrazia, della libertà, della legalità, dell’uguaglianza. An-che per l’agricoltura e per il cibo, anzi proprio partendo da qui.

Andrea Segrè

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9. perdite post-raccolto: un settore trascurato Tristram Stuart

Quasi ogni insetto, fungo, uccello o roditore su questo pianeta non vede l’ora di mettere le zampe su ciò che abbiamo coltivato, e noi cerchiamo di impedirglielo sin dalla prima volta che abbiamo pensato di immagaz-zinare del cibo, oltre 10 millenni fa. Oggi i paesi ricchi si godono il lusso di scegliere tra numerose tecnologie di conservazione e tecniche avanzate studiate per ridurre al minimo il rischio di perdere il raccolto una volta che è stato portato via dal campo. Il settore agroindustriale ha a disposi-zione un arsenale di metodi per evitare che il cibo vada a male prima di raggiungere il mercato: ci sono frigoriferi, stabilimenti per la pastoriz-zazione e la liofilizzazione, attrezzature per l’essiccamento, magazzini a temperatura controllata, infrastrutture per il trasporto, sostanze chimi-che che inibiscono la germogliazione e specie vegetali studiate in labora-torio per rimandare le date di scadenza, senza dimenticare le competen-

tristram stuart è uno storico e un attivista in campo alimentare. Questo capitolo è basato sul suo libro Sprechi (Bruno Mondadori, 2009).

Una donna di un villaggio in Zimbabwe prende la sua razione di mais giornaliera da un magazzino comune. © IFAD/Horst Wagner

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ze tecniche sviluppate nel corso dei decenni grazie al sostegno di gover-ni, università e di alcune tra le più grandi aziende al mondo.L’ironia sta nel fatto che tutto questo ha contribuito all’abbondanza pan-tagruelica che ha nutrito una cultura in cui ormai è accettato, se non ad-dirittura considerato del tutto normale, un livello di spreco incredibil-mente smaccato. Oggi lo spreco rappresenta un corollario, triste e nien-te affatto necessario, delle opulente scorte alimentari dei paesi ricchi. Le fattorie buttano via la frutta che non ha un’estetica “perfetta”, i pesche-recci che cercano gamberi scartano i pesci, le fabbriche che confeziona-no tramezzini gettano tra i rifiuti le croste di pane, i supermercati fanno ordini in eccesso per apparire sempre ben forniti e noi stessi acquistiamo o cuciniamo troppo: sono tutti esempi di una dissennata negligenza nei confronti del cibo. Ciononostante, non possiamo dimenticare che i mo-derni sistemi di distribuzione del cibo hanno consentito progressi enor-mi nell’evitare le perdite post-raccolto accidentali che un tempo pote-vano verificarsi tra il campo e il banco del mercato. In condizioni mete-orologiche ottimali, infatti, nei paesi più avanzati i raccolti di cereali di base come il frumento possono far registrare perdite dello 0,07% appena.1

Nei paesi più poveri, invece, le tecniche di stoccaggio degli alimenti ri-mangono terribilmente inadeguate e sono la causa di sprechi incredi-

bili, proprio dove la fame è più diffusa. Queste nazioni soffrono ancora a causa di molti problemi logistici che l’Occidente ha risol-to decenni, se non secoli, fa. La natura saccheggia i magazzini di agricoltori e commercianti, cau-sando loro perdite significative: è un problema da affrontare con la massima urgenza, dato che la sicurezza alimentare globale sta emergendo come una questione critica a livello internazionale.La Rivoluzione Verde degli anni

Una donna raccoglie fette di mango essiccato al sole in Guinea.©IFAD/Roberto Faidutti

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Sessanta e Settanta ha introdotto nel mondo agricolo nuove piante ibri-de, macchinari, pesticidi, fertilizzanti e altre sostanze chimiche che hanno permesso di aumentare notevolmente i raccolti. Le multinazionali occi-dentali si sono arricchite con l’esportazione di soluzioni agricole hi-tech. Pochi però hanno pensato a migliorare aspetti più semplici come l’im-magazzinamento dei cereali, le attrezzature per essiccare, le cassette del-la frutta, i frigoriferi o le altre tecnologie post-raccolto. Sono opportunità meno allettanti in termini di guadagni per le grandi società, ma potreb-bero incrementare molto la disponibilità di cibo nel mondo. In alcuni ca-si le costose varietà ad alta resa della Rivoluzione Verde hanno addirittu-ra peggiorato la situazione, perché hanno preso il posto di varietà tradi-zionali più adatte agli ambienti dove erano coltivate e immagazzinate, e perché erano in grado di sopravvivere fino alla stagione della semina suc-cessiva (nel caso del mais, per esempio, grazie a un tasso di umidità infe-riore nei chicchi e a foglie più spesse che resistevano a roditori, insetti e muffe). Oggi scienziati, cooperanti e agricoltori sono consapevoli del fat-to che non è sufficiente coltivare i campi: è necessario stoccare, conserva-re e trasportare i raccolti con metodi più efficienti.2

montagne infinite di sprechi

L’indifferenza per le perdite post-raccolto è una delle stranezze dell’agri-coltura mondiale. Nel 1981 la U.N. Food and Agriculture Organization (FAO) sosteneva che ridurre tali perdite “è importante non solo per via dell’obbligo morale di evitare gli sprechi, ma anche perché [...] permet-te di mantenere un certo livello di quantità e qualità del cibo con mino-ri risorse ed esercitando minori pressioni sull’ambiente rispetto all’au-mento della produzione”. La Conferenza mondiale sull’alimentazione del 1974 definì la riduzione delle perdite post-raccolto una priorità per favorire lo sviluppo, e l’anno successivo una risoluzione delle Nazioni Unite impose un taglio del 50% entro dieci anni. Ciononostante, que-sta parte del processo di sviluppo rimane ampiamente trascurata, e rice-ve finanziamenti insufficienti.3

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Gli aiuti internazionali dedicati al settore agricolo nei paesi in via di svi-luppo sono crollati dal 20% dei fondi per lo sviluppo distribuiti nei primi anni Ottanta fino al 3-4% registrato nel 2007. Inoltre, solo il 5% degli in-vestimenti in ricerca e sviluppo destinati all’agricoltura va a favore della ri-duzione delle perdite post-raccolto. Come ha dichiarato la FAO, “è sconcer-tante che si passi tanto tempo a coltivare una pianta, e si spenda così tanto denaro per irrigare, fertilizzare e implementare altre misure di protezione delle coltivazioni per poi buttare tutto una settimana dopo il raccolto”.4

Il fatto che spesso siano stati pubblicati dati sullo spreco basati su stime non aggiornate, e che gli studi rigorosi realizzati sul tema siano davvero pochi, evidenzia ancora di più quanto sia stata scarsa l’attenzione per que-sto tema in passato. Inoltre, i dati a disposizione non sono sempre affida-bili, perché è alto il rischio che vengano manipolati, accentuando le per-dite per attirare maggiori donazioni oppure minimizzandole per evitare imbarazzi ai politici. Comunque, secondo le stime ufficiali, nel 1993 la Cina ha perso il 15% dei propri raccolti cerealicoli, e quasi l’11% del ri-so del paese è andato distrutto perché i contadini lo hanno immagazzina-to in edifici inadatti. Cifre simili si riscontrano in Vietnam, dove si perde in media tra il 10 e il 25% del riso, con picchi tra il 40 e l’80% in caso di condizioni particolarmente svantaggiose. In tutta l’Asia le perdite di riso post-raccolto arrivano in media al 13%, mentre il Brasile e il Bangladesh registrano tassi rispettivamente del 22 e del 20% (si veda anche il box 9.1).5

Vaclav Smil ha calcolato che, ipotizzando che tutti i paesi a basso reddito perdano il 15% circa dei propri raccolti cerealicoli, le perdite complessi-ve ammonterebbero a 150 milioni di tonnellate l’anno, ovvero sei volte la quantità di cereali che, secondo la FAO, sarebbe sufficiente a sfama-re tutto il Terzo Mondo. Secondo gli esperti sarebbe possibile limitare le perdite post-raccolto di cereali e tuberi nei paesi in via di sviluppo ad appena il 4% della produzione.6

Quando i cereali vengono conservati in condizioni inadeguate, anche la parte che rimane commestibile sarà meno nutriente: la tiamina, il caro-tene e gli aminoacidi come la lisina possono ridursi anche del 40%. Per-tanto le statistiche sulle perdite alimentari sottovalutano le perdite in ter-mini nutrizionali.7

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Dal 2008 ci sono più esemplari di Homo sapiens che vivono in città che in campagna. Pertanto il cibo deve essere trasportato più lontano per ar-rivare dalle fattorie fino alla tavola di ogni famiglia. Lo stesso agricolto-re che prima vendeva solo nel proprio villaggio, oggi deve far viaggiare i propri prodotti su un camion per centinaia, se non migliaia, di chilome-tri, circostanza che richiede tecnologie e competenze con cui non sempre ha familiarità. In molti paesi il commercio è stato liberalizzato di recen-te, in parte in seguito alle pressioni della World Bank, e di conseguen-za lo stoccaggio dei cereali, che era di competenza dello stato, è passato nelle mani di privati che spesso non hanno né le capacità né la motiva-zione necessarie per mantenere alta la qualità del prodotto. Per risolvere buona parte di questi problemi sarebbe sufficiente un po’ di formazione.Assicurarsi che le città, in rapida crescita e sempre più densamente abi-tate, abbiano cibo di qualità in abbondanza è fondamentale se vogliamo evitare che scoppino disordini ovunque. La storia ci offre molti esempi di come la scarsità di cibo in contesti urbani possa innescare vere e pro-prie rivoluzioni: è quel che è successo a Parigi nel 1789, in numerose cit-tà europee nel 1848, e poi in Russia nel 1917. In tempi più recenti ba-sti pensare ai disordini del 2008 in Burkina Faso, Camerun, Costa d’A-vorio, Egitto, Haiti, Indonesia, Madagascar e Senegal.

box 9.1lo spreco di cibo in asia

Nello Sri Lanka vanno perse ogni anno 270.000 tonnellate di frutta e verdu-ra, pari al 40-60% della produzione totale, per un valore di circa 9 miliardi di rupie singalesi (100 milioni di dollari). Solo nel mercato ortofrutticolo principa-le dell’antica capitale, Colombo – dove migliaia di persone seguono una dieta poco sana perché non possono permettersi di acquistare abbastanza alimen-ti freschi – vengono scartate circa 11 tonnellate di frutta e verdura al giorno. Secondo lo Sri Lankan Institute of Post-Harvest Technology tre quarti delle perdite post-raccolto si potrebbero evitare grazie ad azioni piuttosto semplici. Oggi buona parte degli abbondanti raccolti di frutta del paese viene buttata in sacchi di plastica e trasportata lungo strade sconnesse per chilometri, sotto il sole cocente, fino al mercato. Così, spesso, tutto ciò per cui ha lavorato tanto

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l’agricoltore si riduce a una massa informe, dolce e appiccicosa. Per risolvere il problema basterebbe disporre la frutta con più cura in cassette riutilizzabili di plastica o di legno, come quelle utilizzate nei paesi più ricchi.Anche la formazione potrebbe dare risultati significativi. Si potrebbe per esem-pio insegnare agli agricoltori qual è il momento migliore per la raccolta e qual è il punto esatto dove staccare il picciolo dal ramo perché la frutta si conservi più a lungo. Nei mercati si potrebbe implementare un sistema di raffreddamento elementare, niente più che un po’ d’ombra e d’acqua. Questi piccoli accorgi-menti potrebbero fare una differenza enorme. Negli ultimi anni vari progetti sono riusciti a ridurre i livelli di spreco nello Sri Lanka dal 30 al 6%, facendo aumentare i redditi degli agricoltori fino a 23.000 rupie (256 dollari) per ettaro. Nonostante questi ottimi risultati, però, i fondi messi a disposizione per questo tipo di iniziative sono sempre scarsi: persino il governo, che offre sussidi per l’utilizzo di cassette di plastica riutilizzabili, può permettersi solo una piccola parte degli interventi che sarebbero necessari.Pakistan e India presentano gli stessi problemi ma su una scala molto più ampia. L’India è il terzo produttore di frutta e verdura al mondo: sono indiani il 41% dei mango, il 30% dei cavolfiori, il 23% delle banane e il 36% dei piselli presenti sul mercato globale. Il paese è anche il terzo produttore di cereali al mondo, con 204 milioni di tonnellate di output l’anno, e munge più vacche di qualsiasi altra nazione al mondo, arrivando a 90 miliardi di litri di latte l’anno. Eppure l’India detiene solo l’1-1,5% del mercato alimentare globale e lavora solo il 2% circa della frutta e della verdura che coltiva (contro il 60-70% dei paesi industrializzati). Si stima che il 35-40% dei raccolti finisca tra i rifiuti. Nel 2008 P.K. Mishra, del Dipartimento dell’agricoltura indiano, ha calcolato un tasso ancora superiore, pari al 72% di spreco sulla produzione totale.Per capire dove stia il problema è sufficiente vedere qual è il metodo usato abitualmente per raccogliere i mango nel sud dell’Asia: si usano un bastone e un sacco, con il risultato che molti frutti cadono a terra. Sarebbe meglio usare una lama o un gancio per staccare i mango dal ramo, perché ogni ammac-catura, anche quando non è subito visibile, rappresenta un indebolimento dei sistemi di difesa del frutto e apre la porta a insetti, muffe e batteri. Si calcola che solo in Pakistan si rovinino così mango per circa un miliardo di rupie pachistane, e che con tecniche di raccolta più attente si potrebbero dimezzare le perdite.Fonte: vedi la nota 5.

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lo spreco di cibo in africa

Nell’Africa subsahariana – dove i bambini malnutriti sono aumentati di ol-tre il 75% negli ultimi 30 anni, arrivando a 12,9 milioni – mancano anche le più rudimentali misure di prevenzione contro le perdite post-raccolto. Uno studio del 2009 ha rivelato la portata dei danni ai raccolti cerealico-li dello Zambia, dove l’alimento più importante è il mais, da cui proven-gono il 68% delle calorie assimilate dalla popolazione e il 76% dei redditi dei piccoli proprietari terrieri. Anche se la scarsità di mais ha contribuito alla malnutrizione cronica e alla fame che oggi attanagliano il paese, finora le risorse messe a disposizione per la realizzazione di infrastrutture adatte a proteggere i raccolti dal calore e dall’umidità sono state molto limitate.8

Secondo lo studio, il 96% dei campioni di mais analizzati presentava fu-monisine.* Un quinto dei campioni, inoltre, superava (anche di 10 volte) il livel-lo di sicurezza di aflatossine, micotossine prodotte dai funghi del gene-re Aspergillus che sono cancerogene e inibiscono la crescita nei bambini e nei capi di bestiame. Il dato sconvolgente è che in molti paesi africani il 98% della popolazione ha nel sangue livelli di aflatossine superiori a quelli consentiti per legge nell’Unione Europea e negli Stati Uniti, quasi esclusivamente a causa del consumo di alimenti ammuffiti.9

Inoltre, in tutti i campioni sono stati trovati specie di curculionidi** e al-tri insetti che si nutrono di mais e diventano a loro volta vettori di fun-ghi nocivi. Persino nei magazzini gestiti dallo stato sono state riscontrate micotossine in eccesso rispetto ai livelli di sicurezza imposti dal governo. Il problema sta nella mancanza di infrastrutture in cui i cereali possano essere immagazzinati al riparo da umidità e infestazioni.10

Nello studio si legge che “quasi tutti i magazzini degli agricoltori sono in cattive condizioni, che favoriscono infestazioni e contaminazioni da parte

* Le fumonisine sono micotossine, sostanze chimiche tossiche prodotte da alcune spe-cie di funghi. Sono responsabili di fenomeni di avvelenamento ed altre patologie. So-no note oltre 300 micotossine, ndC.** Insetti coleotteri della famiglia curculionidi, parassiti di diverse specie di piante, ndC.

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di insetti e muffe”. Di solito le strutture utilizzate per lo stoccaggio sono costruite con pali di legno e rametti intrecciati, o si riducono a semplici sacchetti di plastica tenuti in casa dagli agricoltori. Ambayeba Muimba Kankolongo, uno degli autori del rapporto, afferma che “fornire agli agri-coltori luoghi adatti dove tenere i cereali, e formarli perché siano più con-sapevoli del problema, può far migliorare molto la qualità dei cereali”.11

Non è necessario costruire costosi magazzini simili a quelli dell’Occiden-te per aiutare i piccoli proprietari terrieri a prevenire le cause dei dan-ni più gravi ai loro raccolti. Per ridurre il rischio di infestazioni si posso-no adottare pratiche semplici – ma spesso ignorate nelle piccole fattorie zambiane – come la fumigazione, la pulizia meccanica dei negozi e l’ap-plicazione di insetticidi chimici. Inoltre, visto che i diversi metodi tradi-zionali danno risultati molto diversi, si potrebbero ottenere dei miglio-ramenti notevoli già favorendo l’utilizzo di strutture di bambù o di sac-chi inseriti all’interno di contenitori secondari, come un barile di acciaio circondato di fango o mattoni.12

Nel suo rapporto National Agricultural Policy 2004-2015, il Ministero dell’agricoltura dello Zambia ha sottolineato il fatto che al momento le perdite post-raccolto del paese “compromettono la capacità del settore agricolo di esprimere appieno il proprio potenziale e pertanto incidono in maniera significativa sui livelli di povertà della nazione”. La speran-za è che “le perdite post-raccolto si riducano dal massimo attuale, pari al 30%, a meno del 10% entro il 2015”, obiettivo che sarebbe possibi-le raggiungere progettando e promuovendo “strutture per il trasporto, la lavorazione e lo stoccaggio adatte a minimizzare o prevenire le perdi-te soprattutto nelle realtà più piccole”.13

I miglioramenti sono lenti, ma il governo dello Zambia ha l’appoggio delle organizzazioni donatrici. Diverse agenzie tedesche hanno aiutato gli agricoltori a usare materiali locali per costruire magazzini migliori, che inibiscono o eliminano del tutto le muffe.Finora ci siamo concentrati sulle perdite di cereali perché sono questi ultimi a rappresentare la principale fonte di nutrimento per la maggior parte delle persone al mondo; tuttavia, altri alimenti più deperibili spes-so conoscono tassi di spreco molto superiori.14

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Nelle fattorie e nei mercati africani, per esempio, i latticini devono spesso essere buttati perché mancano le tecnologie basilari per la refrigerazione e la pastorizzazione. Nelle zone rurali dello Zambia il governo giappone-se, l’organizzazione umanitaria Care International e l’U.S. Agency for In-ternational Development (USAID), in collaborazione con imprese e sta-keholder locali, hanno fondato vari centri di raccolta del latte presso cui i piccoli allevatori possono portare il latte prodotto in eccesso, che vie-ne refrigerato e venduto ad aziende che lo lavorano. Si crea così un mec-canismo autosufficiente grazie al quale gli allevatori ottengono un red-dito più alto e la comunità ha a disposizione più latte di origine locale.15

Nel 2004 sono andati perduti 90 milioni di dollari di latte solo in Africa orientale e nel Vicino Oriente; in Uganda le perdite sono pari al 27% del-la produzione. Una formazione di base e qualche attrezzatura potrebbero aumentare i redditi e migliorare la dieta della popolazione locale, oltre a eliminare il bisogno di importare latticini dall’estero. Tra il 1998 e il 2001 l’importazione di latte e dei suoi derivati nei paesi in via di sviluppo ha registrato un aumento del 43% che, secondo la FAO, “non è necessario e si potrebbe ridurre semplicemente abbattendo le perdite post-raccolto”.16

In altre parti dell’Africa vari progetti hanno dimostrato che prevenire gli sprechi e il deperimento dei raccolti è efficace ed economico. In Guinea si è nettamente ridotta l’esposizione alle aflatossine di alcune comuni-tà che praticano agricoltura di sussistenza, grazie all’implementazione di una serie di procedure elementari per prevenire la crescita micotica nei depositi di arachidi, che rappresentano uno dei prodotti principali del-la regione. Prima di tutto gli agricoltori hanno imparato a selezionare le arachidi a mano, scartando quelle ammuffite o rovinate, e a essiccarle al sole su tappetini di fibre naturali invece che a terra, dove può esserci umidità. Inoltre, hanno imparato a capire quando l’essiccazione è com-pleta: scuotendo i frutti, bisogna sentire i semi muoversi liberamente nel baccello. Per lo stoccaggio, hanno iniziato a usare sacchi di iuta invece di quelli di plastica o di altri materiali sintetici, che possono trattenere l’umidità; infine hanno appoggiato questi sacchi su pallet di legno, in-vece che sui pavimenti di terra battuta dei magazzini, spruzzandovi sot-to un po’ di insetticida.17

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I risultati di questo programma, pubblicati su The Lancet, mostrano che i villaggi che hanno seguito queste semplici procedure dopo il raccol-to hanno dimezzato la propria esposizione alle aflatossine e decuplicato, rispetto ai villaggi di controllo dove gli agricoltori non hanno cambia-to abitudini, la percentuale degli individui nel cui sangue non sono sta-te trovate tracce di queste sostanze tossiche. Le procedure implementate sono costate in totale circa 50 dollari per agricoltore: è una somma ele-vata in un paese dove il reddito medio è pari a 1.100 dollari l’anno, ma quasi di sicuro si potrebbe ridurre e, comunque, andrebbe valutata te-nendo in considerazione i vantaggi sostanziali che permetterebbe di ot-tenere in termini di salute, nutrizione e reddito.18

risparmiare il cibo

Per proteggere gli alimenti immagazzinati i paesi occidentali usano va-ri conservanti tra cui l’acido propionico, l’acido sorbico, quello benzoi-co e, più di recente, antiossidanti come il propilparaben e il resveratro-lo.* Presto l’uso di queste sostanze potrebbe diffondersi anche nei pae-si in via di sviluppo ma, prima di ricorrere a moderni composti chimici che spesso sono costosi, di bassa qualità, e indisponibili nelle zone rurali, sarebbe opportuno promuovere l’utilizzo di alternative “naturali” a bas-so costo, già ampiamente disponibili. Per esempio, uno studio recente ha rivelato che una medicina tradizionale che viene estratta dalle radici essiccate della Securidaca longepedunculata è anche un efficace deterren-te contro gli insetti che attaccano i depositi di cereali; test di laborato-rio hanno dimostrato che, nelle dosi corrette, uccide il 100% degli in-setti adulti. Risultati del genere dovrebbero dare un segnale di speranza alle agenzie per lo sviluppo e ai governi nazionali che vogliono utilizza-

* Il propilparaben è una sostanza presente in diverse specie di piante e insetti prodotta artificialmente per scopi di conservante. Il resveratrolo è una delle fitoalessine, che so-no composti fungitossici prodotti naturalmente da diverse specie di piante per difen-dersi dagli agenti patogeni, quali batteri e funghi, ndC.

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re le risorse locali per promuovere le imprese rurali e sostenere allo stes-so tempo la sicurezza alimentare.19

L’alternativa più semplice in assoluto, però, riguarda il settore ortofrut-ticolo. La frutta e la verdura fresche – preziosi alimenti che, oltre a con-tenere micronutrienti di vitale importanza, danno sapore alla dieta pre-valentemente vegetariana di buona parte della popolazione povera del mondo – vengono sprecate persino dove ve n’è carenza. Nelle stalle degli agricoltori che patiscono la fame in Africa spesso si trovano interi muc-chi di manioca o igname, parte importante dell’alimentazione nel con-tinente, che marciscono perché i tuberi deperiscono facilmente se non vengono trasformati in prodotti più stabili come la farina.20

La patata dolce è il settimo alimento più coltivato al mondo ed è ricca di beta-carotene, precursore della vitamina A, ma anche di acqua, il che si-gnifica che tende per natura a essere più deperibile dei cereali. In condi-zioni ideali, nei paesi ricchi le patate dolci possono essere conservate anche per un anno, mentre nell’Africa subsahariana si possono registrare perdite sul raccolto fino al 79%. Tuttavia, progettando con cura i sistemi di stoc-caggio – adottando semplici misure, come la rimozione dei piccioli – il tasso di perdita si può ridurre al 52%. Una ricerca recente ha identificato il momento esatto in cui le patate sono mature al punto giusto per esse-re raccolte: a 105 giorni si ottiene il massimo in termini di produttività, potere nutritivo, conservazione e gradimento da parte dei consumatori. Spesso, come in questo caso, è possibile aumentare la disponibilità di cibo e ridurre gli sprechi semplicemente dedicando risorse alla formazione de-gli agricoltori, senza che ci sia bisogno di investimenti in infrastrutture.21

Cambiare i metodi di raccolta dei tuberi aiuta gli agricoltori africani a sfamare le loro famiglie e allo stesso tempo può rappresentare una nuo-va opportunità, vista la crescente domanda di frutta e verdura fresche da parte dei centri urbani. Spesso però i piccoli agricoltori non sono abi-tuati ai rigidi standard stabiliti dai rivenditori che si rivolgono al merca-to cittadino: anche in questo caso la formazione può essere un elemen-to fondamentale. Nelle fattorie africane spesso non ci sono infrastrutture dedicate allo stoccaggio, ma capanne di paglia dove le patate dolci vengono lasciate

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sul pavimento di terra battuta senza essere ripulite. A volte, soprattut-to se la porta della capanna viene aperta e chiusa più volte al giorno, le patate dolci possono essere esposte alla luce e quindi iniziare a diven-tare verdi e germogliare. Questi raccolti in parte rovinati vengono co-munque utilizzati dai piccoli agricoltori africani per il consumo dome-stico o venduti a livello locale a prezzi ridotti, ma non sono accettabili per un mercato più ampio: rappresentano una perdita rispetto al reddi-to potenziale che potevano generare. Stoccare i tuberi in celle frigorife-re, come fanno i grandi coltivatori di tutto il mondo, non è un’alterna-tiva adatta o accessibile per questi agricoltori; è possibile però lasciare le patate dolci nel campo più a lungo, raccogliendole in momenti succes-sivi invece che tutte insieme. Oltre a contribuire a soddisfare gli stan-dard di mercato, la cosiddetta “raccolta scalare” permette anche di di-stribuire il lavoro nel tempo.Una ricerca condotta in Sudafrica ha messo a confronto le perdite re-gistrate con un raccolto unico, stoccato nei magazzini degli agricoltori, con la raccolta scalare, lasciando le patate attaccate alla pianta fino a sei settimane dopo che avevano raggiunto il punto di maturazione. Nei casi migliori gli sprechi sono diminuiti dal 37% all’11% dell’output, con un miglioramento del 71%. Nel corso dell’anno, in media, la raccolta sca-lare ha permesso di salvare l’8% delle patate dolci totali.22

Le economie emergenti stanno investendo somme consistenti per creare un sistema di distribuzione basato sulla refrigerazione simile a quello dif-fuso in Occidente, nonostante per il suo funzionamento richieda molta energia elettrica. Il governo indiano ha messo a budget per il 2009-2010 incentivi e sussidi per la creazione di magazzini e celle frigorifere, ma i lobbisti del settore industriale fanno pressioni per ottenere ulteriori fi-nanziamenti, e sfruttano l’allarmismo per rafforzare le loro richieste. La Associated Chamber of Commerce and Industry, associazione che favo-risce il dialogo tra imprese e governo in India, sostiene che il paese de-ve incrementare di un terzo la capacità delle proprie infrastrutture refri-geranti per far spazio a 10 milioni di tonnellate di frutta e verdura e sal-vare il 40% dei raccolti ortofrutticoli che, secondo le sue stime, vanno sprecati ogni anno.23

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Esiste però un metodo di conservazione che ha bisogno di meno energia e che dunque è più adatto alla regione tropicale e subtropicale del mon-do: l’essiccazione, che sfrutta l’abbondante calore prodotto dal sole. In Africa occidentale un progetto innovativo ha sperimentato l’essiccazio-ne dei mango in essiccatori solari che riducono il tasso di umidità del-la frutta al 10% appena. Visto che i mango così disidratati mantengo-no intatto il proprio apporto di carotene per oltre sei mesi, gli organiz-zatori del progetto hanno calcolato che questo sistema potrebbe salvare 100.000 tonnellate di mango l’anno e aumentare la vitamina A presen-te nella dieta della popolazione di 27.000 volte.24

C’è un’organizzazione che si occupa di essiccare anche le banane che al-trimenti sarebbero scartate: A Taste of Freedom ha sviluppato un pro-dotto alimentare che si può mangiare come una caramella oppure sten-dere in strati sottili, utili per avvolgere altri cibi. Adatto all’esportazione o al mercato interno, questo prodotto unisce innovazione e familiarità e ha tutte le carte in regola per piacere ai consumatori e sostenere l’eco-nomia locale.25

Un altro metodo di conservazione che richiede poche risorse ed è dun-que più adatto al contesto dei paesi in via di sviluppo è la fermentazio-ne. In Africa si produce da sempre il kefir, una bevanda acidula e legger-mente alcolica, facendo fermentare il latte con un’associazione di batte-ri e lieviti: per alcuni produttori può essere un’alternativa più praticabile della pastorizzazione o della refrigerazione. Alcuni progetti recenti in Su-dafrica hanno tentato di migliorare la commercializzazione di questa be-vanda caratteristica.26

Anche se negli ultimi tempi le biotecnologie hanno attirato a sé una quota sproporzionata degli investimenti destinati all’agricoltura, a vol-te a scapito della realizzazione delle più basilari infrastrutture per la la-vorazione e lo stoccaggio post-raccolto, esse hanno molto da offrire alla conservazione alimentare. Per esempio, l’International Potato Center e gli scienziati della Bayer Crop Science, in Belgio, hanno dato vita a una partnership per rimediare al fatto che quasi tutte le piante geneticamen-te modificate disponibili oggi sul mercato sono state create per i grandi agricoltori e non per i contadini poveri, che praticano un’agricoltura di

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sussistenza. In Africa centrale e orientale, un ettaro di terra rende in me-dia 4,17 tonnellate di patate dolci: molto al di sotto delle 50 tonnellate che si potrebbero produrre in teoria. L’obiettivo della partnership dun-que è creare una varietà di patata dolce che riesca a resistere agli insetti e alle malattie, responsabili di buona parte (dal 50 al 100%) delle perdite post-raccolto. Questo tubero geneticamente modificato sarebbe una be-nedizione per gli agricoltori più poveri e potrebbe garantire la sicurezza alimentare di milioni di persone.27

aiutare gli agricoltori a nutrire il mondo

Anche se bisogna ammettere che alcuni dei tentativi per risolvere i pro-blemi degli agricoltori dei paesi in via di sviluppo sono falliti, non dob-biamo dimenticare che quelli progettati e implementati con cura sono riusciti a dare un volto nuovo alle società rurali. Le agenzie di micro-credito della Grameen Bank, per esempio, hanno aiutato gli abitanti di molti villaggi a investire in aziende agricole e hanno prestato denaro, a tassi d’interesse molto bassi, per la costruzione di infrastrutture adat-te a ridurre le perdite post-raccolto. In Madagascar il programma Gre-nier Commun Villageois ha aiutato 27.000 piccoli agricoltori a stocca-re correttamente 80.000 tonnellate di risone, aumentando del 50% il loro output finale. In Benin si è diffusa la pratica di conservare i fagio-li in contenitori ermetici, dove le larve degli insetti muoiono asfissiate, e di tenere in casa i tuberi di igname appendendoli a trampoli per non esporli a un’eccessiva umidità.28

Nelle campagne nigeriane buona parte della manioca coltivata anda-va persa durante le fasi di raccolta (14%), trasporto (9%) e lavorazione (23%). Negli anni Novanta, però, l’International Institute of Tropical Agriculture ha investito nella creazione di centri di lavorazione alimen-tare nei villaggi in Nigeria, con il risultato di dimezzare le perdite e di ri-durre del 70% il lavoro. In seguito alla crisi alimentare del 2008 il go-verno delle Filippine, uno dei paesi colpiti più duramente dall’aumen-to del prezzo del riso, ha annunciato che avrebbe investito nell’acquisto

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di macchinari per l’essiccazione al fine di ridurre le perdite dei risicoltori del Sud-est asiatico, perdite pari al 25-50% (in termini di valore econo-mico, considerando sia la carenza quantitativa sia il peggioramento qua-litativo). Nell’isola di Timor le Nazioni Unite hanno sostenuto i fabbri nella costruzione di centinaia di piccoli silos per conservare i raccolti e hanno offerto formazione ad agricoltori e capifamiglia.29

A metà degli anni Ottanta le Nazioni Unite hanno aiutato il 9% degli agricoltori pachistani residenti in aree non raggiunte dall’irrigazione a in-vestire nella costruzione di magazzini cerealicoli in metallo che, usati al posto di sacchi di iuta e costruzioni di fango, hanno permesso di ridur-re le perdite del 70% rispetto ai livelli registrati in precedenza. Allo stes-so tempo sono stati implementati progetti di derattizzazione che hanno condotto a un aumento della produzione compreso tra il 10 e il 20%. Tuttavia, ancora oggi buona parte degli agricoltori in Pakistan continua a usare metodi non ottimali per conservare i cereali, e rimane in balia di insetti, roditori e muffe.30

Per quanto sia terribile, in un certo senso è incoraggiante che ci siano milioni di tonnellate di cibo che vengono sprecate senza motivo a cau-sa dell’indifferenza nei paesi ricchi e delle perdite post-raccolto in quel-li poveri. Significa, infatti, che sarebbe relativamente facile rendere quel cibo disponibile. Come mostra la figura 9.1, se consideriamo gli alimen-ti che coltiviamo in termini di apporto calorico pro capite, ben 1.800 kcal si volatilizzano prima ancora di uscire dai campi, a causa delle per-dite post-raccolto e dell’utilizzo di parte dei cereali per l’alimentazione animale. Considerando anche quanto aggiungono o tolgono la lavora-zione, la distribuzione e la gestione domestica, si perdono nel comples-so 2.600 kcal, lasciandone per il consumo solo 2.000 pro capite. Se il mondo ha bisogno di far arrivare più cereali sul mercato globale, dun-que, si potrebbe cominciare a recuperare parte delle tonnellate che van-no a male nei paesi in via di sviluppo. Il Sud del mondo trarrebbe be-neficio dagli investimenti in tecnologie agricole e, nel frattempo, i paesi industrializzati potrebbero imparare a essere più parsimoniosi. Affron-tando gli sprechi su questi due versanti così diversi si contribuirebbe a migliorare la vita dei più poveri.31

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Per aumentare la quantità di cibo disponibile è più sostenibile ridurre gli sprechi che radere al suolo altre foreste vergini per espandere i terreni coltivabili, come si sta facendo oggi nella maggioranza dei casi. Le agen-zie di aiuto internazionali, i governi e i singoli benefattori, ma anche le grandi aziende alimentari e i consumatori di tutto il mondo, industria-lizzato o in via di sviluppo, possono produrre più cibo senza abbattere nemmeno un albero.

figura 9.1 – stima di perdite, conversioni e sprechi nell’industria alimentare globale

Fonte: Smil.

Disponibilità netta per

il consumo = 2.000 kcal

tavola

fattoria

industria alimentare

Raccolto commestibile totale = 4.600 kcal pro capite al giorno

Perdite post-raccolto,

-600 kcal

Perditee sprechi durante

lavorazione,distribuzione e nelle case

-800 kcal

Mangime animale,-1.700 kcal

Carne e latticini,+500 kcal

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Alla porte di Banjul, la capitale del Gambia, un gruppo di donne sul ciglio della strada offre ostriche ai passanti per 15 dalasi la scodella. È poco più di mezzo dollaro (55 centesimi) per circa 75 pezzetti di ostrica. Ormai da de-cenni le donne di questa zona raccolgono i molluschi nelle grandi paludi di mangrovie lì vicino; buona parte del raccolto proviene dal parco nazionale Tanbi Wetland Complex, una zona umida di interesse nazionale.1

Sebbene le mangrovie siano ancora rigogliose, si notano già i primi effet-ti dell’eccessiva pressione sulla popolazione delle ostriche: gli esemplari sono più piccoli e più difficili da trovare rispetto ad appena 10 anni fa. Ciono-nostante, le donne che cercano e raccolgono ostriche sono più numerose che mai: in un paese dove l’apporto proteico della dieta dipende in buona parte dai frutti di mare, questa attività permette di ottenere un piccolo reddito e di migliorare la sicurezza alimentare delle proprie famiglie.Nel 2007 un gruppo di raccoglitrici di ostriche ha fondato l’associazione TRY Women’s Oyster Harvesting Association. La TRY ha subito raccolto molte adesioni: partita con 14 donne, tutte dello stesso villaggio, l’organizzazione oggi conta oltre 500 membri di 15 comunità diverse nell’area metropolitana di Banjul. Una crescita del genere non è cosa da poco, anche perché le don-ne dell’associazione, pur appartenendo tutte alla minoranza etnica jola, so-no di gruppi diversi, ciascuno con la propria lingua e il proprio patrimonio culturale. Nell’ambito di TRY sono riuscite a mettere da parte le differenze per prendere decisioni e stabilire insieme i propri obiettivi.2

Nell’autunno del 2009 la TRY si è unita a Ba Nafaa, il progetto per la pesca sostenibile fondato dall’U.S. Agency for International Development (USAID), che l’ha aiutata a espandere la propria azione e a creare un pro-gramma di co-gestione sostenibile per la pesca delle ostriche, in modo da ri-spettare le esigenze dei raccoglitori e dei consumatori e quelle dell’ambiente.3

DAICAMPIDAI

CAMPI

Trasformare l’offerta del giorno in un’opportunità per il futuro

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Grazie alla collaborazione con Ba Nafaa le donne dell’associazione hanno deciso di adottare pratiche che si rivelano vincenti nel lungo periodo, anche se presentano maggiori difficoltà nell’immediato. Per esempio, anche se in passato le ostriche venivano raccolte durante tutta la stagione secca dell’an-no (escludendo solo i mesi da luglio a dicembre), nel 2010 la TRY ha deci-so di rimandare l’inizio della raccolta fino a marzo. Le donne hanno subi-to potuto notare i vantaggi di questa scelta, e hanno riscontrato un sensibile aumento delle dimensioni dei molluschi. Inoltre, tutte le comunità aderen-ti all’associazione hanno accettato di vietare la pesca per tutto l’anno in uno dei fiumi che attraversa il loro territorio, in modo da favorire la rigenera-zione delle ostriche.4

Le donne della TRY ora adottano tecniche che rispettano anche la salute del-le paludi. Per esempio hanno imparato che tagliare le radici delle mangrovie con il machete per raccogliere le ostriche che vi sono attaccate può compro-mettere la capacità dell’ecosistema di far crescere nuove generazioni di pesci e molluschi. Non solo: condividono quello che hanno imparato con i loro con-nazionali attraverso brevi spettacoli sulle tecniche di raccolta e, denuncian-do i casi di raccolta illegale di legna da ardere, aiutano la polizia forestale del dipartimento per la gestione dei parchi e della vita selvatica.5

Uno dei primi successi della TRY è stato quello di riuscire ad alzare il prez-zo di una scodella di ostriche da 10 a 15 dalasi. Tra gli obiettivi dell’asso-ciazione c’è quello di far aumentare molto di più il prezzo, aprendo nuovi mercati nei quartieri più ricchi, frequentati dai turisti. Sarebbe più facile se ci fosse un mercato fisso per le venditrici di ostriche, che oggi possono solo fer-mare i passanti per strada o partecipare ai mercati temporanei alla perife-ria di Banjul. Un giorno potrebbero iniziare a esportare verso gli Stati Uni-ti o l’Europa, dove spunterebbero prezzi abbastanza alti da ottenere un red-dito adeguato. Ma nel frattempo continueranno a offrire il proprio pescato dal ciglio della strada alle porte di Banjul, e a lavorare insieme per miglio-rare le proprie condizioni.

Christi ZaleskiProgetto per la pesca sostenibile in Gambia e Senegal

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