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STORIA E CRITICA DEL CINEMA
Cinema. Generi tecniche autori (di Roberto Campari)
Gli aspetti narrativi del cinema. L’immagine in movimento fu un obiettivo verso il quale tesero molte delle ricerche fotografiche nel
XIX secolo. Questi risultati furono raggiunti prima in America, con il Kinetoscope di Edison (1893), e poi in Francia, grazie al Cinématographe inventato dai fratelli Lumière nel 1895, in cui fu offerta per la prima volta la visione ad un pubblico pagante durante il periodo natalizio, la sera del 28 dicembre a Parigi (considerata storicamente la data di nascita del cinema). Il primo “autore” del cinema, il francese Georges Méliès (18611938), puntò sull’aspetto del fantastico in opposizione al “realismo”. Tra i suoi film troviamo titoli quali La sparizione di una signora (L’escamotage d’une dame, 1896), Cenerentola (Cendrillon, 1899), Barbablù (Barbe Blu, 1901), L’uomo con la testa di gomma (L’homme à la Tête de cautchouc, 1901), Viaggio nella luna (Le voyage dans la lune, 1902).
Di solito tutto parte da un’idea che si chiama “soggetto”: può trattarsi di un piccolo riassunto di poche pagine, oppure un romanzo. Spesso, prima di trasformarsi in vera e propria sceneggiatura, il soggetto passa attraverso fasi quali il “trattamento” e la “scaletta”. Nella sceneggiatura definitiva sono ordinate una per tutte le scene del film. La sceneggiatura si modellò sugli intrecci della grande narrativa ottocentesca. Il cinema del celebre regista americano David W. Griffith (18751948), desume da scrittori del secolo XIX il modo di raccontare le storie. Il film si trova sempre a dover contrarre il materiale narrativo del romanzo dal quale deriva: per esempio, Il gattopardo (1963) di Luchino Visconti (19061976) segue molto da vicino, nella sceneggiatura, il romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa da cui è tratto, ma presenta alcune modifiche indispensabili. Nella sceneggiatura vi sono differenti tipologie di motivazioni: la motivazione “compositiva” si riferisce a un dato oggetto che assumerà importanza ai fini della narrazione; con un tipo di inquadratura, che si chiama “dettaglio”, l’oggetto è ripreso a tutto campo (spesso presente nelle opere di Alfred Hitchcock, 18991980) la motivazione “realistica” assicura ad ogni racconto un margine di credibilità.
Si possono distinguere tre casi: un racconto a focalizzazione zero, il narratore è onnisciente, un racconto a focalizzazione interna, il narratore coincide con un personaggio, un racconto a focalizzazione esterna, il narratore non conosce pensieri e sentimenti dei personaggi. Parlando di cinema, si usa il termine ocularizzazione, che può essere zero, quando l’immagine è data direttamente, e può essere interna, quando si identifica con l’occhio di un personaggio. Si parla di “ocularizzazione interna primaria”, in cui l’immagine “in soggettiva” ha in sé delle deformazioni che appartengono alla visione particolare del personaggio, e “ocularizzazione interna secondaria”, quando la visione soggettiva si presenta meno evidente. Sul rapporto tra le informazione in possesso dei personaggi e dello spettatore, si basa la distinzione tra “suspence” e “sorpresa”.
“Interni” ed “esterni” delimitano diversi momenti di lavorazione: i primi, di solito, si realizzano nei teatri di posa, i secondi sono girati in luoghi aperti. Nei film la rappresentazione di uno spazio tende sempre ad assumere un significato.
Il tempo del film è sempre presente, perché tale è la caratteristica del tempo del “discorso”, mentre diverso è il tempo della “storia”. Si possono distinguere 3 categorie: ordine, durata e frequenza. L’ordine, è quella in cui lo spettatore accetta le sfasature tra “storia” e “racconto” (flashback – flashforward). Il sovvertimento dell’ordine è un problema di “intreccio”; nella “fabula” esso e rispettato. La durata è la categoria in cui si esprime la sfasatura tra tempo della “storia” e tempo del “discorso”: gli avvenimenti narrati dalla “storia” possono svolgersi in ore, giorni, mesi, anni, secoli. Solo in rari casi il cinema rispetta i circa novanta minuti che costituiscono la durata media di un film. Si possono distinguere 5 differenti tipi di sequenze: pausa, il tempo del racconto è di una certa entità, mentre quello della storia è pari a zero; estensione, il tempo del racconto è superiore a quello della storia (immagine rallentata); scena, tempo della storia e tempo del racconto coincidono; sommario, comprende tutti i casi in cui il tempo della storia è superiore a quello del racconto; ellisse, a una durata del tempo della storia non corrisponde alcuna durata per quanto concerne il tempo del racconto (passare del tempo). Talvolta, il ricorso all’ellissi può essere accostato all’uso del “fuori
campo”, tecnica attraverso cui il regista sceglie di non far vedere allo spettatore direttamente qualcosa. La frequenza indica il rapporto tra il numero di volte in cui un fatto compare nel racconto e quello in cui si presume sia accaduto nella storia: racconto singolativo (il fatto appare nel racconto tante volte quante è accaduto nella storia); racconto ripetitivo (il fatto, avvenuto una sola volta, è raccontato più volte); racconto iterativo (appare una sola volta nel racconto ciò che nella storia accade molte volte).
I generi cinematografici.Essendo un elemento della cultura di massa, la narrazione filmica presentò fin dalle origini la
tendenza a organizzarsi in “generi”. Ebbe una certa importanza anche il fumetto, che del cinema è stranamente gemello (anche la sua data di nascita è ritenuta convenzionalmente il 1895). I momenti storici e le condizioni culturali hanno segnato la fortuna di certi generi, oppure la loro scomparsa.
Il melodramma filmico non ha alcuna relazione con l’omonima forma musicale, e tratta quasi sempre di amori contrastati, presentando principalmente personaggi femminili. Regista di melodrammi filmici fu D.W.Griffith con il Giglio infranto (Broken Blossoms, 1919); Settimo cielo (Seventh Heaven, 1927) di Frank Borzage (18931962), fu un grande successo premiato con i primi Oscar; Sogno di prigioniero (Peter Ibbetson, 1935) di Henry Hathaway (18981985); Il ponte di Waterloo (Waterloo Bridge, 1940) di Mervyn Le Roy (19001987); Casablanca (1942) di Michael Curtiz (18881962); I figli di nessuno (1951) di Raffaello Matarazzo (19061966); La voce nella tempesta (Wuthering Heights, 1939) di William Wyler; Love Story (1970) di Arthur Hiller (1923); Il dottor Zivago (Doctor Zhivago, 1966) di David Lean (19081981); Via col vento (Gone With the Wind, 1939) di Victor Fleming (18831949); Lettera di una sconosciuta (1948) di Max Ophuls; Adele H., una storia d’amore (L’historie d’Adèle H., 1975) di François Truffaut; Margherita Gauthier (Camille, 1936) di George Cukor (18991983); Storia dell’ultimo crisantemo (Zangliku Monogatari, 1939) di Kenji Mizoguchi (18981956).
La commedia rappresenta, in un certo senso, l’opposto del melodramma, proponendosi di narrare il percorso che conduce i protagonisti alla felicità, contrariamente alle “impossibilità” del melodramma. La commedia cosiddetta “brillante” è accostabile a fiabe famose, come Cenerentola. In questo genere trionfa solitamente la donna. Maschio e femmina (Male and Female, 1919) di Cecil B. De Mille (18811959); Accadde una notte (It Happened One Night, 1934) di Frank Capra; Scandalo a Filadelfia (Philadelphia Story, 1940) di Cukor; Ventesimo secolo (Twentieth Century, 1934) e Susanna (Bringing Up Baby, 1938) di Howard Hawks; Lady Eva (Lady Eve, 1941) di Preston Sturges (18981959); La Segretaria privata (1931) di Goffredo Alessandrini (19041978); Darò un milione (1935) di Mario Camerini (18951981); Sabrina (1954) e L’appartamento (The Apartment, 1960) di Billy Wilder (1906); Il ventaglio di Lady Windermere (Lady Windermere’s Fan, 1925), Vogliamo vivere (To Be or Not To Be, 1942) e Il cielo può attendere (Heaven Can Wait, 1943) di Ernst Lubitsch; Sotto i tetti di Parigi (Sous les toits de Paris, 1930), Il silenzio è d’oro (Le silente est d’or, 1947), Un cappello di paglia di Firenze (Un chapeau de paille d’Italie, 1927), Il fantasma galante (The Ghost Goes West, 1935) e Accadde domani (It Happened Tomorrow, 1944) di René Clair (18981981); si parlò di “Neorealismo rosa” per film come Due soldi di speranza di Renato Castellani (19131985) e Pane, amore e fantasia (1953) di Luigi Comencini (1916); I soliti ignoti (1958) e La grande guerra (1959) di Mario Monicelli (1915); Una vita difficile (1961) e Il sorpasso (1962) di Dino Risi (1917); Divorzio all’italiana (1962) di Pietro Germi (19141974); Peccato che sia una canaglia (1954) di Alessandro Blasetti (19001987); Ieri, oggi e domani (1963) e Matrimonio all’italiana (1964) di Vittorio De Sica.
Il film musicale appare soprattutto un fenomeno americano. Le origini del genere si collocano all’epoca della comparsa del sonoro (1927). Il musical è essenzialmente evasione in un mondo colorato di sogno, serenità e gioia. Se la commedia è contrapponibile al melodramma, il musical si apparenta alla commedia. Si può suddividere il musical in diverse tipologie: “fiabesco” (amoroso), “spettacolo” (commedia cantata), “folklore” (nostalgico). A questo genere si possono normalmente ascrivere i lungometraggi “cartoon” di Walt Disney, come Biancaneve e i sette nani (Snow White and the Seven Dwarfs, 1937); Quarantaduesima strada (42nd Street, 1933) di Lloyd Bacon; Un giorno a New York (On the Town, 1949) e Cantando sotto la pioggia (Singing in the Rain, 1952) di Stanley Donen (1924) e Gene Kelly; Incontriamoci a Saint Louis (Meet Me in Saint Louis, 1944), Un
americano a Parigi (An American in Paris, 1951) e Spettacolo di varietà (The Band Wagon, 1953) di Vincente Minnelli (19101986); La vedova allegra (The Merry Widow, 1934) di Lubitsch; Alta società (High Society, 1956) di Charles Walters (19111982); Amami stanotte (Love Me Tonight, 1932) e La bella di Mosca (Silk Stockings, 1957) di Rouben Maomoulian (18981987); È nata una stella (A star Is Born, 1954) di Cukor; Alleluia (Hallelujah, 1929) di King Vidor (18941982); Show Boat (1951) di George Sidney (1911); Sette spose per sette fratelli (Seven Brides for Seven Brothers, 1954) di Donen; Don Giovanni (1979) di Joseph Losey (19191984); Scarpette rosse (The Red Shoes, 1948) di Michael Powell ed Emeric Pressburger; Les Parapluies de Cherbourg (1963) e Josephine (Les Demoiselles de Rochefort, 1966) di Jacques Demy (19311990).
Il genere avventura comprende film di pirati, film storici, di esplorazioni archeologiche… Sotto il profilo strutturale si modella sul tema del viaggio. I dieci comandamenti (The Ten Commandaments, 1956) di De Mille; La leggenda di Robin Hood (The Adventures of Robin Hood, 1938) e Lo sparviero del mare (The Sea Hawk, 1940) di Curtiz; il romanzo di Robert Louis Stevenson, L’isola del tesoro, ha avuto almeno 4 versioni filmiche; Il cigno nero (The Black Swan, 1942) di Henry King; La tragedia del Bounty (1935) di Frank Lloyd; I lancieri del Bengala (The Lives of a Bengal Lancer, 1935) di Hathaway; Gunga Din (1939) di Gorge Stevens (19051975); Le quattro piume (The Four Feathers, 1939) di Zoltan Korda; I sette samurai (Shichinin no Samurai, 1954) e Dersu Uzala (1975) di Akira Kurosawa; Moby Dick (1956) di John Huston; Avventurieri dell’aria (Only Angels Have Wings, 1939) di Hawks; Guerre Stellari (Star Wars, 1977) di George Lucas (1945); I tre moschettieri (1948) e Scaramouche (1952) di Sidney.
Il western è un genere tipico del cinema americano. Nasce come rappresentazione mitica di un evento storico: la progressiva conquista dei territori dell’Ovest e il graduale consolidarsi degli Stati Uniti. La grande rapina al treno (The Great Train Robbery, 1903) di Edwin S. Porter (18701941); Balla coi lupi (Dances With Wolves, 1990) di Kevin Kostner; Il cavallo d’acciaio (The Iron Horse, 1924), Ombre rosse (Stagecoach, 1939), Il massacro di Fort Apache (Fort Apache, 1948), I cavalieri del NordOvest (She Wore a Yellow Ribbon, 1949), Sfida infernale (My Darling Clementine, 1946), La carovana dei Mormoni (Wagonmaster, 1950) e L’uomo che uccise Liberty Valance (The Man Who Shot Liberty Valance, 1962) di John Ford; Notte senza fine (Pursued, 1947) di Raoul Walsh (18891981); Il fiume rosso (Red River, 1948), Il grande cielo (The Big Sky, 1952) e Un dollaro d’onore (Rio Bravo, 1959) di Hawks; Là dove scende il fiume (Bend of the River, 1952) e L’uomo di Laramie (The Man from Laramie, 1955) di Anthony Mann (19061967); Il cavaliere della valle solitaria (Shane, 1952) di Stevens; Sfida nell’Alta Sierra (Ride the High Country, 1962) e Il mucchio selvaggio (The Wild Bunch, 1969) di Sam Peckinpah; Per un pugno di dollari (1964) e C’era una volta il West (1968) di Sergio Leone (19291989); Il piccolo grande uomo (Little Big Man, 1970) di Arthur Penn (1922); I compari (Mc Cabe and Mrs. Miller, 1971) di Robert Altman (1925).
Il film di guerra ha forti affinità con l’avventuroso, e i personaggi sono prevalentemente maschili. Charlot soldato (Shoulder Arms, 1918) di Charlie Chaplin (18891977); Per la patria (J’accuse, 1919) di Abel Gance (18891981); La grande parata (The Big Parade, 1925) di King Vidor (18941981); Gloria (What Price Glory, 1926) e Obiettivo Burma (Objective Burma!, 1945) di Raoul Walsh; Ali (Wings, 1927), I forzati della gloria (The Story of G.I. Joe, 1945) e Bastogne (Battleground, 1949) di William Wellman (18961975); Westfront 1918 di Georg Wilhem Pabst (18851967); All’ovest niente di nuovo (All Quiet on the Western Front) e Salerno ora X (A Walk in the Sun, 1945) di Lewis Milestone (18951980); La grande illusione (La grande illusion, 1937); Lo squadrone bianco (1936) di Augusto Genina (18921957); Luciano Serra pilota (1938) di Goffredo Alessandrini (19041978); Roberto Rossellini (19061977) esordì nel lungometraggio con tre film propagandistici; Arcipelago in fiamme (Air Force, 1943) di Hawks; I sacrificati (They Were Expendable, 1945) di Ford; La storia del dottor Wassel (The Story of Dr. Wassel, 1944) di De Mille; Il giorno più lungo (The Longest Day) di Darryl Zanuck; Orizzonti di gloria (Paths of Glory, 1957) e Full Metal Jacket (1987) di Stanley Kubrick; Apocalypse Now (1979) di Francis Ford Coppola (1939); Salvate il soldato Ryan (Saving Private Ryan, 1998) di Steven Spielberg (1947); La sottile linea rossa (The Thin Red Line, 1998) di Terence Malick (1945).
Il tema primario di poliziesco e noir è l’impossibilità che alla fine il piano criminale abbia successo. I film polizieschi possono essere di tipo “enigma” (il crimine è già avvenuto quando il film
comincia), “nero” (il crimine avviene nel corso del film), “suspence” (il crimine è già avvenuto è si ripete nel corso del film). Il sospetto (Suspicion, 1941), Io ti salverò (Spellbound, 1945), Il caso Paradine (The Paradine Case, 1947), L’altro uomo (o Delitto per delitto, Strangers on a Train, 1951), Il delitto perfetto (Dial M for Murder, 1954), La finestra sul cortile (Rear Window, 1954), Psycho (1960) e Marnie (1964) di Alfred Hitchcock; Vertigine (Laura, 1944) e Anatomia di un omicidio (Anatomy of a Murder, 1959) di Otto Preminger (19061986); Il mistero del falco (The Maltese Falcon, 1941) di Huston; Il grande sonno (The Big Sleep, 1946) di Hawks; Il lungo addio (The Long Goodbye, 1973) di Altman; Dietro la porta chiusa (Secret Beyond the Door, 1948); Il corvo (Le courbeau, 1943) e Legittima difesa (Quai des Orfèvres, 1947) di HenriGeorges Clouzot (19071977); A doppia mandata (A’ double tour, 1959) e Grazie per la cioccolata (Merci pour le chocolat, 2000) di Claude Chabrol (1930); Un maledetto imbroglio (1960) di Germi; A ciascuno il suo (1967) di Elio Petri (19291982); Il giorno della civetta (1968) di Damiano Damiani (1922); L’avventura (1960) e Blow Up (1966) di Michelangelo Antonioni.
Il film gangster si sviluppa subito dopo la grande crisi del 1929. Piccolo Cesare (Little Caesar, 1930) di Le Roy; Nemico pubblico (The Public Enemy, 1931) di Wellman; Scarface (Scarface, Shame of a Nation, 1932) di Hawks; I gangster (The Killers, 1946) di Robert Siodmak (19001973); Giungla d’asfalto (The Asphalt Jungle, 1950) di Huston; Rapina a mano armata (The Killing, 1956) di Kubrick; Il grande caldo (The Big Heat, 1953) di Fritz Lang; Gangster Story (Bonnie and Clyde, 1967) di Penn; Il clan dei Barker (Bloody Mama, 1969) di Roger Corman (1926); Gang (Thieves Like Us, 1974) di Altman; Il padrino (The Godfather, 1971 e 1974) di Coppola; Lo spione (Le doulos, 1962), Frank Costello faccia d’angelo (Le Samurai, 1967) e I senza nome (Le cercle rouge, 1970) di JeanPierre Melville (19171973); in Giappone corrisponde il genere “yacuza” come L’angelo ubriaco (1948) di Kurosawa e HanaBi (1997) di Takeshi Kitano (1947).
Il genere fantastico comprende il “cartoon” e l’“horror”. Requisito necessario di questo genere è il surreale. Astronavi, alieni e altri pianeti ne sono il materiale narrativo più comune. Lo squalo (Jaws, 1975), Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters of the Third Kind, 1977), ET (1982) e Jurassic Park (1993) di Spielberg; Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, 1968) di Kubrick; Godzilla (1954) di Ishiro Honda (19111993); Il ladro di Bagdad (The Thief of Bagdad, 1924) di Walsh: I tre porcellini (Three Little Pigs, 1933), Bambi (1942), Cenerentola (Cinderella, 1950), Le avventure di Peter Pan (Peter Pan, 1953), La bella addormentata nel bosco (Sleeping Beauty, 1959) e Aladdin (1992) “cartoon” Disney; L’usignolo dell’imperatore (1949) e Antiche leggende ceche (1953) di Jiri Trnka (19101969); Il mago di Oz (The Wizard of Oz, 1939) di Victor Fleming; Il carretto fantasma (Korkarlen, 1921) di Victor Sjostrom (18791960); Il Vampiro (Vampyr, 1932) di Carl Theodor Dreyer (18891968); Il gabinetto del dottor Caligari (Das Kabinett des Dr. Caligari, 1920) di Robert Wiene; Nosferatu il vampiro (Nosferatu. Eine Symphonie des Grauens, 1922) di Friedrich Wilhelm Murnau (18891931); Dracula (1930) di Tod Browning (18821962); Frankenstein (1931) di James Whale; Il bacio della pantera (The Cat People, 1942) di Jacques Tourneur; Shining (The Shining, 1980) di Kubrick; Dracula di Bram Stoker (Bram Stoker’s Dracula, 1992) di Coppola; La vita è meravigliosa (It’s a Wonderful Life, 1946) di Capra; Il ritratto di Jennie (Portrait of Jennie, 1949) di William Dieterle (18931972); Il fantasma e la signora Muir (The Gost and Mrs. Muir, 1947) di Joseph L. Mankiewicz.
Cenni di storia del cinema.Per un certo periodo il cinema fu considerato un “fenomeno da baraccone”. Negli anni ’10 il
linguaggio cinematografico si consolidò cominciando a parlare del cinema come di un fatto culturale. Verso il 1920 sorse in Francia il movimento “impressionista” che coinvolse le avanguardie. Il cinema italiano era assai fiorente grazie a una serie di film sull’antica Roma, come Quo Vadis? (1912) di Enrico Guazzoni (18761949) e Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone (18821959). Con lo scoppio della I guerra mondiale, le cinematografie europee videro ridursi i loro mercati, cosa che favorì l’egemonia industriale del cinema americano. Hollywood diventa l’indiscussa capitale della produzione cinematografica grazie a Charles Chaplin che, emigrato dall’Inghilterra, esordisce nel 1914. Dal punto di vista artistico, le cinematografie europee ebbero un importante sviluppo nel primo dopoguerra con il cinema surrealista: Luis Buñuel (19001983) con Un chien andalou (1929); René Clair con Entr’acte (1924) e Un cappello di paglia di Firenze (Un chapeau de paille d’Italie, 1927).
Si sviluppò anche una scuola realista il cui principale rappresentate fu Jean Renoir. Nella Germania uscita sconfitta dalla guerra sorse un cinema espressionista: Robert Wiene con Il Gabinetto del dottor Caligari (1920); Friedrich W. Murnau con Nosferatu (1922) e L’ultimo uomo (1924); Fritz Lang con I Nibelunghi (192324) e Metropolis (1926). Nel Nord Europa si affermano Victor Sjostrom (I proscritti, 191718; Il carretto fantasma, 1920), Mauritz Stiller (Il tesoro di Arne, 1919; La leggenda di Gosta Berling, 1924) e Carl Theodor Dreyer (18891968) con La passione di Giovanna d’Arco (La passion de Jeanne d’Arc, 1928). A Hollywood hanno successo diversi registi: Chaplin con Il monello (The Kid, 1921), La febbre dell’oro (The Gold Rush, 1925) e Il circo (The Circus, 1928); Buster Keaton con Accidenti che ospitalità (Our Hospitality, 1923), Come vinsi la guerra (The general, 1926) e Il cameraman (The Cameraman, 1928); Eric von Stroheim (18851957) con Marcia nuziale (The Wedding March, 1926) e Rapacità (Greed, 1924); John Ford con Il cavallo d’acciaio (The Iron Horse, 1924); King Vidor (18941982) con La grande parata (1925). All’epoca del cinema muto si afferma il cinema sovietico: Serghei M. Ejzenstejn con La corazzata Potëmkin (Bronenosec Potëmkin, 1925) e Ottobre (1928); Vsevolod Pudovkin con La madre (Mat, 1926); Aleksandr Dovženko (18941956) con La terra (Zemlja, 1930).
Nel 1927 Il cantante di jazz (The Jazz Singer) è il primo lungometraggio prodotto dalla Warner che rappresenta una rivoluzione nel mondo del cinema sonoro: Luci della città (City Lights, 1931) e Tempi moderni (Modern Times, 1936) di Chaplin, in cui si aggiunsero le musiche; Il milione (Le million, 1931) di Clair, che realizza l’unione tra immagini, musica e suoni; M, il mostro di Düsseldorf (1931) di Lang. Grazie all’introduzione del sonoro nacquero una serie di nuovi generi (musical, commedia sofisticata, cartoons). In Germania: Gorge W. Pabst con Lulù (1929) e Opera da tre soldi (1931); Jospeph von Sternberg (18941969) con L’angelo azzurro (Der Blaue Engel, 1930). In Francia prosegue la linea naturalista di Renoir: Julien Duvivier (18961967) con Pépé le Moko (1937); Marcel Carné (19061996) con Il porto delle nebbie (Quai des brumes, 1938); Jean Vigo (19051934) con L’Atalante (1934). Nell’Italia fascista il cinema tornò a fiorire: Alessandro Blasetti (19001987) con 1860 (1934), La corona di ferro (1940) e Quattro passi fra le nuvole (1942); Mario Camerini (18951981) con Gli uomini, che mascalzoni! (1932) e Il signor Max (1937); Augusto Genina con Squadrone bianco (1937); Goffredo Alessandrini con Luciano Serra pilota (1938); Mario Soldati con Piccolo mondo antico (1941); Renato Castellani con Un colpo di pistola (1942); Luchino Visconti con Ossessione (1943); Vittorio De Sica con I bambini ci guardano (1943). Il secondo conflitto mondiale segnò tutte le cinematografie. Nella Francia occupata, Carné girò Les Enfants du Paradis (1945). Sull’altra sponda della Manica incominciavano ad evidenziarsi i film patriottici. In America il 1939 aveva segnato l’apice della produzione hollywoodiana: Victor Fleming con Via col vento (Gone with the Wind) e Il mago di Oz; Ford con Ombre rosse, Alba di gloria (Young Mr. Lincoln, 1939) e Furore (1940); William Wyler con La voce nella tempesta; Ernst Lubitsch con Ninotchka. A schierarsi contro Hitler fu Chaplin con Il grande dittatore (The Great Dictator, 1940), Wyler con La signora Miniver (Mrs. Miniver, 1942) e Michael Curtiz con Casablanca (1942). Nel 1941 Orson Welles esordisce a soli 26 anni con Quarto potere (Citizen Kane).
Il secondo dopoguerra si aprì nel segno del cinema italiano con la cultura neorealista: Roberto Rossellini (19061977), considerato il fondatore del neorealismo, con Roma, città aperta (1945), Paisà (1946) e Germania anno zero (1947); De Sica con Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette (1948); Visconti con La terra trema; Alberto Lattuada con Senza pietà (1948); Castellani con Sotto il sole di Roma (1948), Due soldi di speranza (1951) e Giulietta e Romeo (1954); Pietro Germi con In nome della legge (1949) e Il cammino della speranza (1950); Giuseppe De Santis con Caccia tragica (1947) e Riso amaro (1950). Con l’inizio degli anni ’50 il fenomeno neorealista andò esaurendosi: Rossellini con Stromboli, terra di Dio (1949), Francesco giullare di Dio (1951) e Viaggio in Italia (1953); De Sica con Miracolo a Milano (1951) e Umberto D (1952); Visconti con Bellissima (1951) e Senso (1954); Federico Fellini con Lo sceicco bianco (1952), Vitelloni (1953) e La strada (1954); Michelangelo Antonioni con Cronaca di un amore (1950). Il cinema americano ottenne nel dopoguerra grandi successi: Wyler con I migliori anni della nostra vita (The Best Year of Our Lives, 1946); Alfred Hitchcock con Notorius (1946) e La finestra sul cortile (Rear Window; 1954); Billy Wilder con La fiamma del peccato (Double Indemnity, 1944), Viale del tramonto (Sunset Boulevard,
1950), L’asso nella manica (Big Carnival, 1951) Sabrina (1954), Quando la moglie in vacanza (The Seven Year Itch, 1955), A qualcuno piace caldo (Some Like it Hot, 1959) e L’appartamento (The Apartment, 1960); Joseph L. Mankiewicz (19091993) con Il fantasma e la signora Muir (1947), Lettera a tre mogli (Letter to Three Wives, 1949) e Eva contro Eva (All About Eve, 1950); John Huston con Il tesoro della Sierra Madre (The Treasure of the Sierra Madre, 1948), Giungla d’asfalto (1950) e La regina d’Africa (The African Queen, 1952); Anthony Mann (19061967) con Là dove scende il fiume (1952), Lo sperone nudo (The Naked Spur, 1953), L’uomo di Laramie (1955) e Dove la terra scotta (Man of the West, 1958). Il musical puntò su diversi registi: Stanley Donen Gene Kelly con Singing in the Rain (1952); Charles Walters con Ti amavo senza saperlo (Easter Parade, 1948); Elia Kazan (1909) con Un tram chiamato desiderio (A Streetcar Named Destre, 1951), Fonte del porto (On the Waterfront, 1954), La valle dell’Eden (East of Eden, 1955) e La bambola di carne (Baby Doll, 1956). In Inghilterra: Laurence Olivier con Amleto (Hamlet, 1948); Welles con Macbeth (1948) e Otello (1952); David Lean con Grandi speranze (Great Expectations, 1946), Le avventure di Olivier Twist (Olivier Twist, 1948); Carol Reed con Il terzo uomo (The Third Man, 1949). In Francia: R. Bresson con Diario di un curato di campagna (Le journal d’un curé de campagne, 1950); René Clement con Giochi proibiti (Jeux interdits, 1952); Jacques Becker con Casco d’oro (Casque d’or, 1952); Jacques Tati con Le vacanze di monsieur Hulot (Les vacances de M. Hulot, 1952) e Mio zio (Mon oncle, 1958). In Giappone: nel 1950 trionfa alla mostra di Venezia Rashomon del giapponese Akira Kurosawa; Kenji Mizoguchi con I racconti della luna pallida di agosto (Ugetsu Monogatari, 1953); Yasujiro Ozu con Viaggio a Tokio (Tokyo Monogatari, 1953). In India: Renoir con Il fiume (The River, 1951); Satyajit Ray con Trilogia Apu (195559). In URSS: Ejzenstejn con Aleksandr Nevskji (1938); Kalatozov con Quando volano le cicogne (1957); Ciukrai con La ballata di un soldato (1959). Nei paesi nordici: Dreyer con Dies irae (Vredens Dag, 1943) e Ordet (1954); Ingmar Bergman (1918) con Il settimo sigillo (Det sjundle inseglet, 1956) e Il posto delle fragole (Smultronstallet, 1957). In questi anni Buñuel gira I figli della violenza (Los olividados, 1950), Nazarin (1958), Viridiana (1961), Simon del deserto (1965), La via lattea (La voie lactée, 1969), L’angelo sterminatore (El angel Exterminator, 1962) e Il fascino discreto della borghesia (Le charme discret de la Bourgeoisie, 1972). Negli anni ’60 nasce il “nuovo cinema”. “Nouvelle Vague” francese: François Truffaut con I quattrocento colpi (Les quatrecents coups, 1959); Alain Resnais con Hiroshima mon amour (1959); JeanLuc Godard con Fino all’ultimo respiro (A’bout de souffle, 1960); La cinese (La chinoise, 1967); La gaia scienza (Le gai savoir, 1968); Crepa padrone, tutto va bene (Tout va bien, 1972). Rinnova anche l’Est europeo come la Cecoslovacchia, dove sorse la “Nova vlnà” (Milos Forman), l’Ungheria (Miklòs Jancsò: I disperati di Sandor, 1965; L’armata a cavallo, 1967; Silenzio e grido, 1968), la Polonia (Andrzej Wajda: I dannati di Varsavia, 1967. Roman Polanski: Il coltello nell’acqua, 1962. Jerzy Skolimowski) e l’Unione Sovietica (Andrei Tarkovskij: L’infanzia di Ivan, 1962; Andrej Rubliov, 1966). In Brasile nasce il “cinema nôvo”: Glauber Rocha con Il dio nero e il diavolo biondo (Deus e o diabo na terra do sol, 1964). In Gran Bretagna il “free cinema” era già nato nel 1956: Tony Richardson con Tom Jones (1963); Joseph Losey con Il servo (The Servant, 1963), L’incidente (The Accident, 1967) e Messaggero d’amore (The GoBetween, 1971); Stanley Kubrick con Rapina a mano armata (1956), Orizzonti di gloria (1957) e Barry Lyndon (1975). In Giappone: Nagisa Oshima con Notte e nebbia del Giappone (1960) e L’impiccagione (1968). In Italia: Fellini con La dolce vita (1960), Otto e mezzo (1963), Satyricon (1969) e Casanova (1976); Visconti con Rocco e i suoi fratelli, Il gattopardo (1963); Antonioni con la “trilogia dei sentimenti” L’avventura La notte (1961) L’eclisse (1962), Deserto rosso (1964); Pier Paolo Pasolini con Accattone (1961); Ermanno Olmi con Il tempo si è fermato (1959) e Il posto (1961); Bernardo Bertolucci con Prima della rivoluzione (1964), Il conformista (1970) e Novecento (1976); Francesco Rosi con Salvatore Giuliano (1962), Le mani sulla città (1963), La caduta degli dei (1969) e Morte a Venezia (1971); Paolo e Vittorio Taviani con San Michele aveva un gallo (1973) e Allosanfan (1974); Marco Bellocchio con I pugni in tasca (1965); Ettore Scola con C’eravamo tanto amati (1974). Negli anni ’70 sorge in Nuovo Cinema Tedesco: Alexander Kluge con La ragazza senza storia (Abschied von western, 1966) e Artisti sotto la tenda del circo: perplessi (Die Artisten in del Zirkuskuppel: ratlos); Werner Herzog (1942) con Aguirre, furore di Dio (Aguirre, der Zorn Gottes, 1972) e L’enigma di Kaspar Hauser (Jeder fûr sich und Got gegen alle,
1974); Rainer Werner Fassbinder con Effi Briest (Fontane Effi Briest, 1974); Wim Wenders con Alice nelle città (Alice in den Städten, 1973) e Nel corso del tempo (Im Lauf der Zeit, 1975). Negli anni ’80 il Nuovo Cinema Tedesco andò progressivamente spegnendosi: Edgar Reitz con Heimat (1984) e Heimat 2, Cronaca di una giovinezza (Die zweite Heimat, 1992). Nel Nuovo Cinema Americano emersero numerosi autori: Robert Altman con MASH (1970) e Nashville (1975); Francis Ford Coppola con Il padrino (1972), Il padrino parte seconda (The Godfather Part II, 1974) e Apocalypse Now (1979); Martin Scorsese (1942) con Mean Streets (1973), Taxi Driver (1976) e New York, New York (1977); Steven Spielberg (1948) con Lo squalo (1975), Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) e I predatori dell’arca perduta (Raiders ot the Lost Ark, 1981); George Lucas con Guerre stellari (1977); Woody Allen esordì con Prendi i soldi e scappa (Take the Money and Run, 1969), Io e Annie (Annie Hall, 1977), Manhattan (1979) e Interiors (1979).
Negli anni ’80 e’90 il calo degli spettatori si verificò a causa del proliferarsi di televisioni private, videocassette, CD Rom e computer. A volte le opere migliori sono quelle concepite e prodotte per la televisione: Krzysztof Kieslowski con Decalogo (198789); R.W. Fassbinder con Berlin Alexanderplatz (1980); Wajda con L’uomo di marmo (1977) e L’uomo di ferro (1981); Tarkovskij con Stalker (1979) e Sacrificio (Offret, 1986). In questo periodo alcuni registi diressero i loro ultimi film: Bresson con Il diavolo probabilmente (Le diable probablement, 1978) e L’argent (1983); Lean con Il ponte sul fiume Kwai (The Bridge on the River Kwai, 1957), Lawrence d’Arabia (Lawrence of Arabia, 1962) e Passaggio in India (A Passage to India, 1984); Huston con The Dead – Gente di Dublino (The Dead, 1987); Kubrick con Eyes Wide Shut (1999); Kieslowski con la “trilogia sui colori” Film blu (1993), Film bianco (1994) e Film rosso (1994). Ancora in attività, invece, Eric Rohmer con La nobildonna e il duca (L’anglaise et le duc, 2001). Il cinema inglese attraversò in questi anni una fase di ripresa (“British Renaissance”): Peter Greenaway con I misteri del giardino di Compton House (The Draughtman’s Contract, 1982) e L’ultima tempesta (Prospero’s Books, 1991); Ken Loach con Riff Raff (1991) e Piovono pietre (Raining Stones, 1993); Terence Davies con Voci lontane, sempre presenti (Distant voices, Still Lives, 1988); Stephen Frears con My Beautiful Laundrette (1985); Terry Gilliam con Brazil (1985). In Italia:
Leone con C’era una volta il West (1968) e C’era una volta in America (Once Upon a Time in America, 1984); Fellini con Ginger e Fred (1985), Intervista (1987) e La voce della luna (1990); Ermanno Olmi con L’albero degli zoccoli (1978), La leggenda del santo bevitore (1988) e Il mestiere delle armi (2001); Bertolucci con L’ultimo imperatore (1987) e Il tè nel deserto (The Sheltering Sky, 1990); Nanni Moretti con Ecce bombo (1978), La messa è finita (1985), Caro diario (1993) e La stanza del figlio (2001); Gianni Amelio con Il ladro di bambini (1992) e Lamerica (1994). Nel resto d’Europa vennero alla ribalta diversi autori: Lars von Trier con Le onde del destino (Breaking the Weaves, 1996); Pedro Almodovar con Che ho fatto io per meritare questo? (¿Qué he hecho yo para merecer esto!, 1984), Donne sull’orlo di una crisi di nervi (Mujeres al borde de un ataque de nervios, 1988) e Tutto su mia madre (Todo sobre mi madre, 1999); Giuseppe Tornatore con Nuovo cinema Paradiso (1988) e La leggenda del pianista sull’oceano (1998). Basata prevalentemente sugli effetti speciali, l’industria cinematografica statunitense è riuscita a mantenere la sua egemonia commerciale: Allen con La rosa purpurea del Cairo (The Purple Rose of Cairo, 1985), Radio Days (1987), Crimini e misfatti (Crimes and Misdemeanors, 1989) e Harry a pezzi (Deconstructing Harry, 1997); Altman con I protagonisti (The Player, 1992) e America oggi (Short Cuts, 1993); Martin Scorsese con Fuori orario (After Hours, 1985), Quei bravi ragazzi (Goodfellas, 1990) e L’età dell’innocenza (The Age of Innocence, 1993); Spielberg con ET (1982), Jurassik Park (1993) e Schindler’s List (1993); Ridley Scott con Blade Runner (1982), Thelma & Louise (1991) e Il gladiatore (The Gladiator, 2000); Robert Zemekis con Ritorno al futuro (Back to the Future, 1985) e Forrest Gump (1994); Tim Burton con Batman (1989) e Edward mani di forbice (Edward Scissorhands, 1990); Quentin Tarantino con Pulp Fiction (1994); Emir Kusturica (1955) con Papà è in viaggio d’affari (1985) e Underground (1995). In oriente: Kurosawa con Kagemusha (1980) e Ran (1985); Oshima con Furyo (Merry Christmas Mr. Lawrence, 1983) e Tabù (Gohatto, 2000); Abbas Kiarostami (1940) con Dov’è la casa del mio amico? (1987), Sotto gli ulivi (1994) e Il vento ci porterà con sé (1999); Zhang Ymou con Sorgo rosso (1987) e Lanterne rosse (1991); Chen Kaige con La vita appesa a un filo (1991) e Addio, mia concubina (1993); Hou Xiaoxian con La città
dolente (1989); Tsai Ming Liang con Il fiume (1996), Il buco (The Hole, 1998); Tran Anh Hung con Il profumo della papaia verde (1993); Ang Lee con Mangiare bere, uomo donna (1994) e Ragione e sentimento (Sense and Sensibility, 1995); Wong KarWai con Happy Together (1997) e In the Mood for Love (2000).
I personaggi.Il personaggio del film di finzione raramente si vede mangiare e mai dormire, tranne nel caso in cui
il pasto assuma un significato allegorico o il sonno si trasformi in un discorso sul tempo. Il legame tra personaggio filmico e attore è all’origine del fenomeno del divismo: l’eventuale
successo ottenuto da un attore con un personaggio condizionerà la sua attività futura; questo fenomeno è chiamato “Star System”.
Si tratti di star o di attori sconosciuti, assumerà importanza assoluta il momento dell’entrata in scena, cioè della presentazione dell’attore allo spettatore, che deve sottolineare l’importanza del personaggio introdotto e favorirne la memorizzazione da parte del pubblico. Talvolta può essere il motivo musicale, associato a determinate immagini, a connotare la presenza del personaggio.
L’immagine.Perché l’immagine sia recepibile deve avere una sua durata e, pertanto, risultare composta da un
determinato numero di fotogrammi. Il termine “piano” ha significati diversi: con “piano fisso” si designa l’assenza di ogni movimento filmico; con “primo piano” un tipo di inquadratura in cui il soggetto ripreso è a breve distanza; con “pianosequenza” un tipo di ripresa in continuità.
Una scenografia realista ricostruisce la realtà; una scenografia impressionista è quella in cui la realtà è resa in termini soggettivi; nella scenografia espressionista, l’ambiente è schematizzato in funzione simbolica.
Una distinzione delle luci è tra illuminazione intradiegetica, in cui è indicata la fonte della luce (sole, lampada, candela), e extradiegetica, in cui le luci sono importanti ai fini della definizione figurativa dell’inquadratura e sono nascoste allo spettatore. In base al genere di luce è possibile distinguere tre tipi di cinema: classico (191760 circa: Fritz Lang, Hitchcock, Ford, Visconti, Mizoguchi), barocco (Josef von Sternberg, Orson Welles, Federico Fellini, Max Ophüls, Mannelli, Cukor) e moderno (Rossellini, Robert Bresson, Godard, Eric Rohmer, Wim Wenders, Fassbinder). Diverse forme d’illuminazione: frontale (ha la funzione di eliminare le ombre), laterale (tende a scolpire le figure per mezzo di un gran numero di ombre), posteriore (trasforma le figure in silhouettes), dal basso (ha la tendenza ad alterare i lineamenti), dall’alto (è usata raramente in scene teatrali). Il vero e proprio cinema a colori si diffuse dalla seconda metà degli anni ’30.
I modi di strutturare l’immagine di un film si rifà alla pittura del tempo in cui si ambienta la storia. Molto pittorici sono i film di Luchino Visconti.
Vari tipi di inquadratura: campo lungo (ampio spazio inquadrato), campo totale (tutto l’ambiente risulta visibile), campo lunghissimo (la ripresa è particolarmente ampia), campo medio (inquadratura più ravvicinata), figura intera (figura umana dalla testa ai piedi), piano americano (dalle ginocchia in su), mezza figura (a livello della vita), primo piano (spalle e testa), primissimo piano (solo il volto), dettaglio (una parte del corpo o un oggetto).
A seconda di come la cinepresa è collocata varia l’impressione che lo spettatore avrà dell’inquadratura: la ripresa dal basso mitizza un personaggio, mentre le angolazioni dall’alto connotano debolezza.
La soggettiva è quel tipo di inquadratura in cui lo sguardo della cinepresa si identifica con l’occhio di un personaggio.
I movimenti di macchina sono essenzialmente due: panoramica e carrellata (e zoom).Il montaggio.Una volta terminate le riprese del film, ci sono chilometri di pellicola che vanno organizzati
mediante la fase del montaggio. Vanno distinte una macrostruttura, che consiste nella strutturazione delle sequenze determinata dalla sceneggiatura, e una microstruttura, che riguarda l’analitica costruzione delle scene con i “raccordi” e gli “attacchi”.
Nel periodo del cinema classico si affermò la pratica di montaggio découpage classico, caratterizzato da una struttura lineare e cronologica che tende a far identificare lo spettatore con la realtà rappresentata. Fondamentale, per questa tipologia di montaggio, è il principio di continuità,
finalizzato a favorire l’impressione di realtà nello spettatore e la sua identificazione con i sentimenti dei personaggi, ricorrendo ai raccordi che possono essere di vario tipo: raccordo di sguardo, in un’inquadratura il personaggio guarda qualcosa fuori campo e questo qualcosa ci è mostrato dall’inquadratura successiva; raccordo sul movimento, il gesto iniziato da un personaggio in una determinata inquadratura è ripreso in quella successiva; raccordo sull’asse, una figura è avvicinata o allontanata rispetto a come la si vedeva nell’inquadratura precedente; raccordo sonoro, una battuta di dialogo, una musica o un rumore legano due diverse inquadrature. Nel sistema dello spazio a 180°, una scena di dialogo tra due persone è costruita sul campocontrocampo, ossia inquadrando alternativamente i personaggi. Il montaggio connotativo si oppone alle regole del découpage classico, e constata che l’accostamento di due inquadrature creano un senso. Il montaggio parallelo consiste nello scardinamento della consequenzialità della narrazione, nel seguire alternativamente due serie di fatti, mostrando come parallele due vicende che necessariamente vediamo in successione. La profondità di campo è un’immagine in cui tutti gli elementi sono a fuoco, sia quelli in primo piano sia quelli sullo sfondo. Il pianosequenza esprime la continuità del reale.
Il suono.La sonorizzazione costituisce la fase finale nella lavorazione del film, una fase che di solito è
abbastanza indipendente dalle altre. Suoni e musica possono essere diegetici, in cui è esplicitata la fonte del suono, o non diegetici, in cui la fonte non è indicata. Le immagini mentali (pensieri) non sono né diegetiche né extradiegetiche. Del tutto extradiegetica è la voce narrante.
Le forme del sonoro sono tre: parole, musica e rumori o effetti sonori. Tre tipi di parola filmica: parolateatro, che concerne i dialoghi; parolatesto, rappresentata dalla voce extradiegetica del narratore; parolaemanazione, volutamente incomprensibile è compiuta per effetti comici o per dare un senso di mistero.
Di norma, il lavoro del musicista incaricato di scrivere le musiche per il film incomincia nel momento in cui le riprese sono finite, così che egli può adeguare i suoi ritmi sonori a quelli visivi. Nella musica da film si ricorre spesso al leitmotiv, che consiste in un tema ricorrente collegato a personaggi. Alcuni autori si avvalgono di musiche preesistenti.
Gli effetti sonori mirano a ricostruire realisticamente i rumori tipici. L’unione dei suoni e delle immagini è basata sul principio del sincronismo.
Il sex appeal dell’inorganico (di Mario Perniola)
La nuova esperienza che s’impone al sentire contemporaneo ha il proprio fulcro nell’incontro tra filosofia e sessualità, che costituisce la chiave per intendere la cultura e l’arte attuali.
L’alleanza tra i sensi e le cose consente l’accesso ad una sessualità neutra che implica una sospensione del sentire. Sentirsi come una cosa che sente vuol dire emanciparsi da una concezione strumentale dell’eccitazione sessuale, che si compone di una prima parte meramente strumentale e propedeutica e di una seconda parte brevissima. La sessualità neutra ci apre un mondo in cui non hanno più importanza la differenza tra i sessi, la forma, l’apparenza sensibile, la bellezza, l’età, la razza.
Il gioco delle somiglianze e delle diversità ha retto il confronto tra Dio e l’uomo, e tra l’uomo e l’animale. Tanto nel divino quanto nell’animale pulsa il vivente, mentre nulla di simile c’è nella cosa. L’essere vivente sente, mentre l’essere inanimato non sente. Il sentire segna il confine tra la vita e la cosa: si può dire perciò che l’uomo è una cosa che sente (?).
Una cosa che sente sembra alcunché di differente rispetto ad una cosa che pensa e ad una cosa che si muove. Sono l’oggetto della riflessione di Cartesio la cosa che pensa (la mente) e la cosa che si muove (la macchina). Cartesio li chiama entrambi “cose” e considera l’io come una cosa che non solo pensa, ma anche sente, in virtù del fatto che è congiunto col corpo: una cosa pensante può anche non avere corpo, ma una cosa senziente deve averlo per forza. Chi sente perciò non è Dio, ma l’io, esso sente in quanto pensa, perché il sentire non è altro che pensare. Secondo Cartesio solo la mente è una cosa che pensa, non il corpo.
Il corpo è veste. Esso è fatto di moltissimi tipi di tessuto sovrapposti e intersecati tra loro. La sessualità neutra apre l’orizzonte senza tempo della cosa: ai corpi è donata la serena ed eterna semplicità di un mondo inorganico. Nella sessualità neutra l’eccesso filosofico e quello sessuale attingono nutrimento l’uno dall’altro. Questo connubio tra filosofia e sessualità ingloba il modo di essere dell’inorganico.
Qualcosa che presenti analogie con il sentire neutro di farsi cosa, lo troviamo nelle tossicomanie. Si tratta di considerare il filosofare come una pratica che crea una dipendenza simile a quella istituita dalle droghe. La tossicomania si confronta col mondo inanimato e opaco delle cose. Il connubio della filosofia con la sessualità nell’esperienza neutra del darsi come una cosa che sente e del prendere una cosa che sente, crea uno stato affine a quello provocato dalle droghe, perché incurante di tutto ciò che non sia il proprio proseguimento infinito e la propria ripetizione. La sessualità neutra instaura una dipendenza infinita perché sottratta ai ritmi e alle alternanze biologiche. L’incontro tra filosofia e sessualità genera un effetto simile a quello inorganico della dipendenza e del non poter fare a meno di qualcosa di fisico.
Per Kant l’uomo non deve disporre del proprio corpo a suo arbitrio, perché non ha possesso su di sé, non si appartiene, non è il proprietario delle sue facoltà sessuali. Il padrone legittimo dei miei organi, secondo Kant, non sono io, ma colui o colei che mi fa proprietario dei suoi. Questo può avvenire soltanto nel matrimonio, che si fonda sul diritto di disporre della persona nella sua totalità. La sessualità corre verso il matrimonio e la filosofia corre verso l’universalità: matrimonio e universalità come spacciatori di eccessi sessuali e filosofici cui non si può rinunciare.
Sarebbe tuttavia errato considerare la sessualità neutra come un rapporto reciproco di padronanza e di schiavitù, i cui partner si offrono l’uno all’altro alternativamente in un’offerta di assoluta e incondizionata sottomissione. La dimensione impersonale in cui la sessualità neutra ci immette ha poco a che fare con un’alternanza di ruoli di signoria e servitù; essa non introduce un rapporto di parità nel sadismo, perché il sadico rinuncia a costituire con altri un’unità del volere, ma punta tutto su se stesso e sul rafforzamento illimitato della propria sovranità. Anche il sex appeal dell’inorganico nasce da una sfida che si rivolge innanzi tutto a se stessi, ma non si addensa e raggruma nella formazione e nel consolidamento di un soggetto, inteso come sostituto di Dio, ma è il mondo delle cose che lo esige. La sessualità neutra delle cose che sentono è incompatibile con la mercificazione del sesso; la prostituzione dà generalmente troppo poco per suscitare un’eccitazione neutra. La cosa che sente non è una merce, la cosa che sente è simile semmai al denaro. I rapporti che il sadismo intrattiene con la politica non sono meno complessi di quelli che esso intrattiene con l’economia. Ma il privilegio di un rapporto di coappartenenza con la sessualità spetta in realtà solo alla filosofia, il cui potere non è sadico, né sanguinario. L’eccesso della sessualità filosofica nasce dalla trasformazione del soggetto in cosa senziente; non mette l’io al posto di Dio, perché il posto dell’uno e dell’altro è già preso dalla cosa.
La trasformazione del soggetto in una cosa che sente sembra far parte di un immaginario fantascientifico in cui l’organico e l’inorganico, l’antropologico e il tecnologico, il naturale e l’artificiale si sovrappongono e si confondono l’uno con l’altro. La sessualità neutra non è disumana, né inumana, ma postumana, nel senso che trova il suo punto di partenza nell’uomo nella sua spinta verso l’artificiale che lo ha costituito come tale separandolo dagli animali. La sessualità neutra può essere considerata una sessualità virtuale, un cybersex nel senso di un ingresso in un’altra dimensione. Fintanto che l’uomo resta un quasi animale o un quasi dio, il cyborg filosoficosessuale è invece una quasi cosa. L’essenziale è che non sono io, non sei tu, ma è la cosa filosoficosessuale il massimo dell’astrazione e il massimo della reificazione. Il cyborg filosoficosessuale presenta una socialità intrinseca che non dipende dall’intersoggettività, ma da un rapporto d’interfaccia che intercorre tra due quasi cose.
Nell’idea dell’uomo come cosa che sente, in quanto essere, non deve mai venire usato come mezzo. Per Kant il rispetto si riferisce soltanto alle persone e mai alle cose. Kant è autore della distinzione tra la cosa in se stessa e la cosa rispetto a noi. Al contrario di quanto ci si aspetterebbe, Kant fonda la propria dottrina morale sull’uomo considerato come essere in sé, cosa in sé, noumeno. La cosa in sé non ha nulla a che fare con l’oggetto, lo strumento, il mezzo. Il carattere noumenico, e non fenomenico, della vita morale tratta l’umanità sempre come fine, mai come semplice mezzo.
L’aspetto filosofico e quello fisico sono legati dalla completa sottomissione ad un’entità neutra, che là si prospetta come dovere e qua si manifesta come sex appeal dell’inorganico. Tra la legge morale e la sessualità neutra c’è una differenza che conferma paradossalmente la loro coappartenenza reciproca. È la sessualità che ci consente di porre la cosa oltre la persona, di farci cosa: per Kant invece la persona, in quanto essere ragionevole, è già cosa in sé. La morale kantiana è suscettibile di due sviluppi: l’uno verso l’interiorità, la spiritualità della persona, l’altro verso l’esteriorità, la coralità del sesso.
Se il sadismo apre un orizzonte di eccessi, il masochismo instaura una serie di limiti. Il rapporto masochistico è istituito da un libero accordo, da un patto, da un contratto, nel quale chi lo propone e lo formula s’impegna a darsi come schiavo a un partner, il quale in contraccambio è obbligato ad essere l’attore di scene e di cerimoniali sessuali implicanti l’umiliazione del soggetto. Ciò che assimila il masochismo alla sessualità neutra è la volontà di darsi in modo assoluto come una cosa che sente. Il pensiero masochistico nasce da un garantirsi che un rapporto sessuale possa ripetersi infinite volte. Il miglior modo per vincere la labilità del godimento e la sua incostanza è quello di darlo come già finito; è già in partenza sconfitto, sopraffatto, completamente sottomesso, disposto a provare il dolore in tutti i modi fisici e spirituali, ad essere frustato e avvilito; da ciò il masochista trae motivo di soddisfazione. A differenza del masochismo, che collega la dignità e lo splendore del comando alla bassezza e all’abiezione dell’assoggettamento, la sessualità neutra ha a che fare col mondo artificiale delle cose che sentono.
Colpisce nell’esperienza masochistica l’attenzione dedicata all’abbigliamento. Anche la sessualità neutra e impersonale della cosa che sente istituisce un rapporto con la veste. La vera opposizione non è tra anima e corpo, ma tra vita e veste. Nel sentire il corpo come un involucro e rivestimento dell’anima, generalmente ciò che interessa non è il primo, ma la seconda, e l’uno soltanto come protezione o tomba dell’altra. L’idea che il nostro corpo è la continuazione ed estensione dell’abito che indossiamo si deduce dall’osservazione del look contemporaneo (tatuaggi, ginnastica, diete, aerobica, body building, chirurgia plastica). La filosofia della cosa libera la sessualità dalla dipendenza dall’organico, e viceversa la sessualità neutra libera la filosofia dall’esangue spiritualismo vitalistico. Questa doppia emancipazione avviene sotto il segno del corpoveste, del look. Il sex appeal dell’inorganico si regge sulla filosofia, così come viceversa la filosofia viene spinta sul suo autonomo cammino dal sentire anonimo. La filosofia libera dalla sessualità organica naturale e scopre la virtualità sessuale del look, e viceversa il look libera la filosofia dallo spiritualismo sensualistico eticoestetico.
Quanto l’esperienza della cosa sia estranea al sensualismo percettivo nessuno lo mostra meglio di Hegel, per il quale la certezza sensibile è quanto di più astratto e universale esista. Il corpo che tengo serrato tra le mie braccia, dal momento in cui mi si dà come una cosa, cessa di essere un oggetto e diventa un non questo. La sua essenza è quello di essere mio. Il corpo in quanto cosa si annulla come corpo: trapassa in un non corpo. L’eccitazione del sex appeal dell’inorganico proviene dalla continua variabilità del punto sensibile. Con non questo non interessa la vivacità di quest’anima, né la bellezza di questo corpo, ma solo l’astratta universalità della cosa senziente.
Il feticismo è la categoria sotto la quale la cultura moderna nel corso degli ultimi due secoli ha pensato la sessualità neutra e impersonale della cosa che sente. Da un lato il feticcio è una caricatura del sex appeal dell’inorganico, dall’altro raccoglie in sé requisiti che illuminano il nocciolo di quel legame tra filosofia e sessualità che soltanto oggi è possibile cogliere pienamente e sviluppare. A differenza dell’idolo che è rappresentativo, il feticcio non raffigura e non riproduce alcunché, esso prescinde da qualsiasi legame con uno spirito o con una forma determinata. Il feticismo è quindi l’opposto dell’idolatria. Il feticcio segna il trionfo dell’artificiale che si offre effettualmente nella sua arbitrarietà opaca e indifferente, nel suo essere cosa senziente. Per Kant il feticismo si oppone non all’idolo, ma alla fede morale. Per Kant s’incontra un culto feticistico ogni qual volta l’essenza della religione è individuata in comandamenti statuari, in regole esteriori, in osservanze funzionali al raggiungimento di un certo scopo. Kant nega al feticismo ogni dignità filosofica. La parola “cosa”
deriva dal latino “causa”, che vuol dire ciò che provoca un effetto: il feticcio è una “causa in sé” separata dall’effetto. Dal punto di vista di Kant, l’autonomizzazione della causa è un’assurdità. La simbologia nelle scienze della religione e il totemismo nell’antropologia hanno nei primi decenni del ‘900 posto fine allo scandalo del feticismo; ma il feticcio è proprio la negazione di un simbolo o di un totem. Con Marx il feticcio costituisce un aspetto essenziale della merce e del denaro. La filosofia senza la sessualità svela l’arcano della merce, ma non è in grado di amarla in quanto tale e perciò declina in un sapere triste e malinconico; la sessualità senza la filosofia resta chiusa nelle contraddizioni del feticismo e quindi è incapace di passare dalla natura all’artificio, dall’orgasmo al sex appeal dell’inorganico. Nella riflessione antropologica e in quella economica sul feticcio è implicita l’idea che esso sia il surrogato, il sostituto, il doppio ingannevole di qualcosa di vero e di essenziale. Secondo Freud il feticismo sarebbe un dispositivo psichico che consente di negare la differenza sessuale, pur riconoscendola parzialmente: il feticismo presta alla donna un fallo impersonale, senza qualità, senza determinazioni. Il feticismo è il fenomeno che sembra più prossimo al sex appeal dell’inorganico. L’esclusività dell’amore feticistico non si regge sulla convalida di requisiti positivi, ma paradossalmente sulla smentita, sul diniego: lei o lui non è questo o quello, ma è non questo, né quello. L’amore feticistico non è l’unione con la fonte originaria, ma la dipendenza nei confronti del sostituto.
La musica costituisce un altro aspetto fondamentale del sentire impersonale dei nostri tempi. L’essenza della musica non è né il sentimento, né la vita, ma è il suono. Il filosofo Schelling ha definito la musica la forma d’arte inorganica per eccellenza. L’anima e il corpo, la voce e lo strumento sono subordinati alla musica. Tutta la musica ha per Schelling un significato cosmico. Il rapporto del suono con il sesso è condizionato dall’esistenza di una forza attrattiva non spirituale, né animale che li accomuna. Il sex appeal dell’inorganico agisce come una calamita: io mi sento attratto dal corpo della mia amante come un pezzo di ferro dal magnete. La filosofia e la musica sono una specie di continuità che consente agli amanti di essere sempre immersi nel campo magnetico dell’attrazione reciproca. Sessualità, musica e filosofia s’incontrano nel promuovere il passaggio da un orizzonte di scarsità, di precarietà e di rarità dell’esperienza, legato all’inesorabile scorrere del tempo, a un orizzonte di disponibilità, di fruibilità immediata, aperto dalla possibilità di accedere senza attese a un’offerta spaziale sempre virtualmente presente. La sessualità neutra, il rock progressivo e la filosofia del transito inducono a diffidare del tempo dello spirito e della vita, perché essi precipitano chi si affida loro nella morte. Il sex appeal dell’inorganico fa assegnamento sulla generosa e ospitale spazialità del mondo delle cose che infinitamente ci accolgono con disponibilità illimitata. Nella musica l’eccitazione è infinita in quanto è artificiale. Il rock progressivo, la sessualità inorganica e la filosofia della cosa s’incontrano nel nocciolo duro di un’esperienza comune che consiste nel trasferimento del sentire dall’uomo alle cose. La musica è il suono che scaturisce dal movimento di attrazione di corpi diventati cose.
Secondo Schelling ciò che tiene insieme il mondo inorganico è la coesione magnetica; per Hegel invece il magnetismo è una finzione che ostacola l’esperienza genuina della cosa. Lo statuto ontologico della cosa è definibile come un essere “anche”: Hegel ritiene che il mondo inorganico presenti una essenziale porosità, una specie di radicale vuotezza che si offre a un’infinita penetrazione. Un mondo poroso è una molteplicità di aperture: in esso il penetrante è a sua volta penetrato. Gli elementi si penetrano ma non si toccano. Nell’esperienza della porosità, l’accento va posto sull’aggiunta di nuovi elementi, in una parola sull’“anche”. Questa addizione è conforme all’eccitazione infinita del sex appeal dell’inorganico. Si ha l’impressione che l’incontro tra due cose senzienti non riesca ad avere una forma determinata e stabile e che proceda per aggiunte, per successive addizioni. Procedendo per estensione e non per esclusione, il mio rapporto sconfina sempre in qualcos’altro. La cosa è essenzialmente diversa dal frammento. Quest’ultimo ha una pretesa di organicità autonoma. Il sex appeal dell’inorganico non ha niente a che fare con l’amore romantico che si avvolge su se stesso in una spirale autoriflessiva e che si soddisfa nella pienezza della sua autosufficienza e del suo superamento: alla sessualità neutra della cosa che sente sottostà invece sempre un vuoto, un incavo, un foro che chiede di essere penetrato e posseduto. Il frammentario e il poroso sono l’uno il contrario dell’altro: il primo è esperienza dell’infinita attività dell’io autonomo e indipendente, il secondo non basta a se stesso e chiede di essere riempito
dall’attenzione, dalla cura e dall’aiuto altrui. Fin dai tempi dell’antica Roma, lo stoicismo (organicismo eticoestetico platonico) pensa che la realtà sia essenzialmente porosa. A differenza di Hegel, gli stoici ritengono che la porosità non implichi l’esistenza del vuoto: anzi, a loro avviso, nel cosmo il vuoto non esiste affatto. L’idea di porosità non rimanda alla constatazione dell’assenza di qualcosa di cui si sente la mancanza, ma al contrario garantisce la consistenza, la compattezza e la continuità della realtà. Gli stoici distinguevano la mescolanza sia dalla giustapposizione sia dalla fusione. La mescolanza di cui parlano gli stoici, non è né organica, né inorganica, ma indica uno stato in cui le cose sono compenetrate tra loro, conservando la propria natura. Esiste una sola cosa che sente e questa è l’universo: sotto questo aspetto il pensiero della cosa e la sessualità neutra sono una specie di “anche”.
La porosità è la caratteristica specifica del vampiro, la cui azione principale è appunto quella di assorbire, di succhiare, di bere il sangue delle sue vittime, appropriandosi della loro linfa vitale. La parola rumena nosferatu vuol dire “non spirato”. Questo stato che non è vita né morte, è appunto il sex appeal dell’inorganico. Edgar Allan Poe esplora il problema di che cosa si prova quando si accede ad un’esperienza limite, che va al di là del normale stato di coscienza. L’essenziale non è la paura, l’orrore, il raccapriccio, ma ciò che viene dopo questi sentimenti che, per l’estetica neutra, introduce nella dimensione del grottesco, in cui viene meno la differenza tra uomini e cose, tra il mondo organico e quello inorganico, tra il vivente e il non vivente. Rispetto all’estetica accademica, nell’estetica neutra trova spazio e riconoscimento tutta la sessualità cosiddetta perversa: sadismo, masochismo, feticismo e necrofilia formano un quadro impressionante che la filosofia ha finora preferito per lo più non guardare direttamente. Nell’immaginario popolare ottonovecentesco, il sex appeal dell’inorganico resta implicito e occulto nel vampirismo. Il bacio vampiresco trasforma la carne in cosa, l’organico in inorganico e desta un’eccitazione che è accresciuta dal pensiero di estendere la sessualità al di là della vita.
L’organicismo che ha imperversato nella riflessione sull’architettura fino agli anni ’60, è stato un vitalismo umanistico invischiato in pseudoopposizioni tra razionale e irrazionale, geometria e linea curva, composizione e spontaneità. Schelling, all’inizio dell’800, aveva considerato l’architettura come un’arte inorganica e l’aveva compresa insieme al bassorilievo e alla scultura sotto la comune nozione di plastica. Se l’architettura è plastica, significa che le sue forme non possono essere paragonate a forme intelligibili. La definizione dell’architettura come plastica dell’inorganico riduce l’importanza dell’artista avvicinandolo all’artigiano. L’opera architettonica non è diversa dai rivestimenti cornei di alcune specie animali. Schelling sostiene che nella maggior parte delle specie animali l’istinto artistico si manifesta come equivalente dell’istinto sessuale. L’architettura si collega con la sessualità con la poetica architettonica dell’Espressionismo, quando le mura della casa sono paragonate all’epidermide del corpo umano. L’architettura è, secondo Schelling, l’allegoria dell’organico nell’inorganico (una casa come una pianta e un paese come un bosco). La decostruzione è l’emancipazione della filosofia dall’edificazione: per edificare non c’è più bisogno della filosofia, così come per costruire non c’è più bisogno dell’architettura. Filosofia e architettura sono autonome, giacché i loro servizi non sono più richiesti. Fare architettura senza costruire e fare filosofia senza edificare significa trasformarle in avventure in cui si estende l’ambito del visibile e del pensabile. L’architettura rivolge la propria attenzione al paesaggio che s’impone come il vero protagonista dell’esperienza spaziale. La sessualità neutra dell’esperienza plastica può essere descritta come una dislocazione del sentire in un contesto geotipico: non è più l’uomo che sente il paesaggio, perché egli stesso fa parte di questo. Dell’architettura fanno parte anche i corpi umani allo stesso titolo delle case, dei boschi e delle montagne. L’architettura non può essere la metafora del corpo umano, perché il corpo stesso è già architettura. Il design computerizzato consente l’ingresso in una nuova dimensione chiamata cyberspace: nella misura in cui l’utente viene trasformato in un cibernauta che naviga nella realtà virtuale, egli impara a percepire il proprio corpo reale come una cosa senziente non essenzialmente diversa dai paesaggi quasi senzienti delle architetture elettroniche.
Dopo l’indeterminazione e la porosità, il terzo carattere dell’inorganico per Hegel emerge dal fatto che la cosa non ha un interno distinguibile dall’esterno, ma è “tutta d’un sol getto”. Il contrario della cosa è la vita. Hegel attribuisce al vivente la sensibilità, l’irritabilità e la riproduzione. La cosa non può accogliere e custodire dentro di sé qualcosa che proviene dall’esterno, sicché il suo sentire è privo di riflessione in qualcosa di più intimo; il sentire neutro e impersonale della cosa si contrappone al sentire soggettivo e autocosciente del vivente. L’irritabilità è in rapporto con l’ambiente, col quale il vivente combatte per mantenere se stesso; al contrario la sessualità neutra si regge sulla tendenza a stabilire e a mantenere stati d’equilibrio; invece di lotte per la vita e per la morte ci sono equilibri dinamici tra infinite entità interattive che correggono incessantemente gli scarti che potrebbero portare l’intero sistema al collasso. Con la riproduzione, la vita instaura la relazione tra un soggetto e un altro soggetto del suo genere (differenza dei sessi); nel mondo delle cose che sentono, la riproduzione è separata dalla generazione (essa può essere pensata piuttosto come replica, ingegneria genetica, clonazione).
Il sex appeal dell’inorganico è una sessualità senza desiderio. Il desiderio è connesso col vedere, col fare, con la contemplazione, con l’azione: ciò che gli manca è il sentire, perché in questo il desiderio si soddisfa e svanisce. La sessualità inorganica è simile ad una eccitazione appagata. Esiste nella tradizione occidentale un tipo di spiritualità per la quale l’assenza conta più del possesso. Il sex appeal dell’inorganico s’ispira a un tipo di sentire opposto al misticismo desiderante e s’iscrive in una tradizione che privilegia la presenza rispetto all’assenza, la disponibilità rispetto alla mancanza: non si desidera alcunché, si è contenti di ciò che si ha. Nemico del desiderio è stato lo stoicismo che considera la serenità e la consolazione come qualcosa di raggiungibile in qualsiasi condizione della vita. Il sex appeal dell’inorganico è più un dopo il desiderio che un senza desiderio. Per Satre c’è una stretta connessione tra il desiderio e il vedere, quasi che una sessualità pensata come desiderio implichi necessariamente un primato della vista su tutti gli altri sensi. Nell’analisi di Satre, un secondo aspetto del desiderio più significativo dello sguardo è far incarnare l’altro come carne e insieme rivelarsi all’altro come carne. Nel sex appeal dell’inorganico il desiderio appartiene al passato.
La tradizione estetica vede nell’opera d’arte in generale, specialmente nella pittura e nella scultura, un’entità caratterizzata da un’organizzazione interna simile a quella di un essere vivente. Dalla necessità di rimediare ai guasti del tempo nasce la problematica del restauro, che generalmente non ha dubbi sull’unità organica dell’opera d’arte da riparare. La collezione rappresenta un passo importante verso il sex appeal dell’inorganico, perché despiritualizza e devitalizza ciò che raccoglie, ma non rappresenta ancora l’ingresso nel territorio neutro e impersonale delle cose che sentono: l’oggetto di una collezione non ha una personalità organica, ma possiede un’identità il cui baricentro cade al suo esterno, nel paragone tra esso e gli altri pezzi. L’oggetto unico è anomalo per definizione e la collezione è una raccolta di anomalie disposte a scala. La libido del collezionismo è sospinta nell’idiogamia, cioè nella condizione di chi riesce ad essere eccitato da un unico corpo. Il collezionismo si collega alla fotografia: dinnanzi all’obiettivo della macchina fotografica la natura è davvero tutta d’un sol getto. Intense esperienze di inorganicità sessuale sono fornite oltre che dalla fotografia anche dal fumetto, in cui la sollecitazione verso un’altra immagine è d’obbligo, perché implica uno svolgimento temporale: è una specie di racconto, di storia che si sviluppa per immagini. Collezionismo, fotografia e fumetto anticipano e preparano il dissolvimento di ogni prospettiva organica, senza realizzarla compiutamente. Con l’installazione, l’opera si trasforma in cosa, in entità inorganica, e strabocca fuori di se acquisendo una eternità radicale ed estrema. Non si va più alle mostre per vedere e godere l’arte; nel mondo inorganico sono le cose senzienti che ci vedono e ci concupiscono.
Heidegger non cerca l’essere nello spirito (Hegel), o nella vita (Nietzsche), ma nella cosa: egli consente un’ascesi della sessualità, cioè l’ingresso in una sessualità impartecipe, sospesa e impersonale, altra e differente rispetto a quella naturale e vitalistica. La cosa per lui è intesa quasi come sinonimo di essere. È connesso all’essenza della cosa la coralità: la coralità della cosa non risiede nel fatto di essere un oggetto rappresentato, né nell’oggettività dell’oggetto, nel suo essere prima indipendentemente dal soggetto, ma cerca esperienzelimite che allargano insieme gli orizzonti del sentire e del sapere. La meditazione heideggeriana intorno alla cosa è intrinsecamente sessuale,
perché chi dice cosa dice fidatezza: porre la fiducia non nel divino, né nell’umano, ma nel modo di essere della cosa, sembra la novità introdotta da Heidegger nella filosofia. Ed è proprio su tale intuizione che si fonda il legame tra filosofia e sessualità, perché è impossibile darsi come una cosa senziente senza avere fiducia in chi ci accoglie. La meditazione heideggeriana non identifica l’uomo con la cosa: se le cose sono più prossime alla terra, prive di mondo e appartenenti all’ambiente di cui fanno parte, l’uomo invece ha un mondo. Sembra che l’essere abbia un legame più stretto con la cosa e con la terra che con l’uomo e con il mondo. Questi ultimi sono condizionati più dal nulla che dall’essere. Il sex appeal dell’inorganico è orientato da una convergenza, se non da una distinzione, tra uomo e cosa. Heidegger pensa la terra e il cielo, i divini e i mortali come compresi in un’unità originaria che definisce col termine quadratura. In questa nuova formulazione la cosa si emancipa dal rapporto di coappartenenza con la terra e acquista un nuovo significato più vasto e generale: essa riunisce e fa permanere in un rapporto di unione i 4 termini della quadratura. La cosa e il mondo si compenetrano, ma il loro rapporto non può essere mai, per Heidegger, una fusione. Sulla sua scorta risulta impossibile affermare che l’uomo è una cosa: se l’uomo riuscisse ad essere una cosa, finirebbe il suo dolore. Forse solo attraverso la sessualità si può giungere a superare questo dolore; forse solo nella sessualità l’uomo diventa una cosa. Il pensiero heideggeriano pone un ostacolo insormontabile al sex appeal dell’inorganico: l’abbandono delle cose e alle cose è intriso di rinuncia nella possibilità di accedere al lodo modo di essere più essenziale.
Dal presupposto che i sessi siano due, sono state elaborate due teorie intorno alla sessualità: femminile e maschile sarebbero due opposti complementari che si cercano e tendono a congiungersi, creando un’unità che è ontologicamente superiore alla loro divisione (sexus deriva da secare = tagliare, dividere); la seconda teoria sulla sessualità non mira a unificare i sessi, ma a riconoscere la loro dualità come qualcosa di essenziale e ineliminabile (biologicamente e psicologicamente). Il sex appeal dell’inorganico non si colloca né in una prospettiva armonizzante che considera essenziale l’unità, né in una prospettiva dualistica. A differenza di un’anima o di un corpo, la cosa che sente non si sazia: il suo sentire sessuale è infinito. La sessualità inorganica ha infiniti sessi. La divisibilità all’infinito è concomitante non a una spartizione e frammentazione del reale, ma proprio al contrario alla sua consistenza e contiguità: all’interno di noi c’è un numero infinito di sessi. Ciò che è primario ed essenziale non è la dicotomia tra maschile e femminile, ma la divisione in due parti divisibili all’infinito: l’eccitazione del sex appeal dell’inorganico è alimentata dall’astrazione e dall’analisi. Una cosa che sente non ha la dimensione e la forma di un oggetto, né di un corpo; essa è piuttosto pensabile come qualcosa di infinitesimale. Una sessualità neutra e inorganica è solidale con un’interruzione del desiderio oggettuale, con una eccitazione astratta che non si stanca di operare sul proprio corpo e sul corpo del proprio partner divisioni infinite. Il sex appeal dell’inorganico abolisce l’opposizione del dare e del prendere che ha senso solo nell’ambito della sessualità organica. Una cosa che sente dà e prende nello stesso tempo attraverso un unico atto.
Nella letteratura il ripudio dell’organicità e del vivente è avvenuto molto prima che nella musica, nell’architettura e nelle arti figurative. Un processo di neutralizzazione e di reificazione della parola, i cui inizi risalgono alla seconda metà del XIX secolo, è caratterizzato dall’opposizione tra un linguaggio strumentale, eteroreferenziale, subordinato a ciò che vuole comunicare, e un linguaggio autonomo e opaco, il cui aspetto essenziale è l’autoriferimento. Istituisce la letterarietà di un libro l’insieme dei dispositivi attraverso cui la scrittura rimanda a se stessa (metascrittura). Il problema riguarda il rapporto tra il linguaggio con la sessualità e la cosa. Si accede all’enigma del non si sa che cosa si sente, chi sente e perché sente, quando non si sa che cosa si scrive, chi scrive e perché scrive. L’incontro della filosofia con la sessualità passa attraverso la scrittura letteraria. La letteratura procede per esclusione ed è perciò un’opera organica lontana dal modo di essere delle cose. La metaletteratura procede per inclusione e quindi riproduce senza assimilare organicamente e riconduce alla sessualità inorganica. La metascrittura inclusiva si svela come una metasessualità senza soggetto né forma, nella quale il singolo corpo si risolve nel prolungamento del corpo altrui.
Centrale è, nelle osservazioni di Wittgenstein sulla psicologia, il cedere un’entità che resta immutata, ora come una cosa, ora come un’altra. Molte cose forniscono impressione di ambiguità (opere d’arte, brani musicali); gli stessi termini consentono infiniti giochi linguistici. La stranezza sta nel fatto che io vedo, sento, percepisco la stessa cosa in modo differente da quello in cui la sentivo, la
vedevo, la percepivo prima, senza che questo mutamento sia razionalmente comprensibile. Essa, infatti, resta questa cosa che è davanti a me. Ciò che interessa particolarmente Wittgenstein è la rapidità del processo attraverso cui vedo qualcosa sotto un nuovo aspetto. Il vedere qualcosa ora come una cosa, ora come un’altra, è un’esperienza marginale rispetto al sentire comune. Il pensare è un discorrere, come diceva Platone, o un sentire, come proponeva Wittgenstein. La ricerca wittgensteiniana, orientata verso un nuovo modo di sentire, si trova davanti a due teorie psicologiche che ostacolano l’accesso al nuovo mondo sensoriale ed emozionale: in base alla prima, il sentire è riconducibile a rappresentazioni e formazioni mentali; tramite la seconda, si riduce invece la rilevanza del sentire a ciò che è oggettivamente osservabile.
Wittgenstein rifiuta tanto l’una quanto l’altra, sia il primato dello spirito sia quello del corpo, e cerca di aprire al sentire un nuovo orizzonte, in cui sono superate le barriere tra organico e inorganico, tra uomini e cose, tra animato e apatico. Il dolore per lui diventa questa cosa. Non è rilevante sapere chi prova il dolore; questa cosa che è il dolore acquista un carattere autonomo, indipendente dall’attribuzione a un soggetto. La sessualità neutra e impersonale gioca un ruolo decisivo: essa è strettamente connessa con quel senso di estraneità e di innaturalezza che Wittgenstein attribuisce alla percezione di qualcosa come qualcosa e non nulla, di questa cosa come un’entità che sorprende. La sessualità può far vedere e sentire la cosa come cosa; suoni, spazi, oggetti e parole diventano questa cosa solo accessoriamente.
Separare la sessualità dal desiderio è difficile, ma liberarla dal piacere sembra quasi impossibile. Sul piacere gli antichi hanno detto tutto l’essenziale, a cominciare da Aristippo e dai suoi seguaci, i pirenaici, nel IV secolo a.C.. C’è una sola sicurezza nella vita: il fatto che sentiamo piacere o dolore. Il piacere non può essere l’oggetto di una scelta, perché ciò significherebbe riaffermare il primato della mente sul corpo. Con Egesia la massima intimità con se stessi si può trovare solo nella morte: il piacere è forse un cessare di essere forti, un abbandonarsi a non fare nulla. Dei piaceri della vita quello sessuale è il più ambiguo, perché implica relazioni con gli altri. La sessualità senza piacere può diventare un’esperienza filosofica, quella del sex appeal dell’inorganico. Per Platone, in primo luogo il vero piacere può provenire solo dalla vista e dall’udito, perché non sono socializzanti ma individuali e private, in secondo luogo il piacere vero è differente dai piaceri falsi, perché è stabile e puro (i piaceri falsi sono misti di piacere e di dolore). Per Aristotele il piacere non è movimento, come diceva Aristippo, ma attività; il movimento tende al raggiungimento di uno scopo che è al di là dell’azione; l’atto invece è adeguato a se stesso. Per Aristotele il mangiare, il bere e la sessualità forniscono piaceri più piccoli; essi sembrano erroneamente i più desiderabili, perché soddisfano i bisogni. Secondo Epicuro il compito della filosofia è quello di introdurre in un modo di essere e sentire che è quasi divino. Per lui il piacere è caratterizzato dalla quiete. Il piacere maschile e quello femminile non si incontrano mai, perché ognuno se ne sta murato nel proprio piacere.
Il sex appeal dell’inorganico è il contrario del piacere: non il dolore, ma una performance. Come il teatro tradizionale, che è imitazione dell’azione, ma a differenza della replica teatrale, la performance ambisce ad essere un evento unico da archiviare e conservare. La performance di una cosa senziente non è la prestazione competitiva di un soggetto nei confronti di altri, ma è superamento di se stessi e dei propri limiti. La performance della cosa, nel senso sessuologico, è perversa perché trae eccitazione da stimoli inadeguati.
L’audiovisione (di Michel Chion)
IL CONTRATTO AUDIOVISIVOProiezione del suono sull’immagineIl cinema è un’illusione audiovisiva. Con “valore aggiunto” si designa il valore espressivo e informativo di cui un suono arricchisce
un’immagine.Il suono nel cinema nella maggior parte dei casi è “vococentrista”: si tratta della voce come
supporto dell’espressione verbale, e cioè “verbocentrismo”.
Quando la musica esprime la partecipazione all’emozione della scena, si parla di musica empatica. Quando essa mostra al contrario indifferenza alla situazione, si chiama anempatica: l’effetto anempatico riguarda nella maggior parte dei casi la musica, ma può anche essere utilizzato con il rumore quando, dopo un evento qualunque, continua a svolgersi come se niente fosse. Musiche che non sono né empatiche né anempatiche hanno una semplice funzione di presenza.
In un’immagine cinematografica, dove comunemente molte cose si muovono e molte altre possono restare ferme, il suono implica un’azione. In un primo contatto con un messaggio audiovisivo, l’occhio è più abile spazialmente, l’orecchio temporalmente. Nel corso dell’audiovisione di un film sonoro, i movimenti visivi rapidi vengono aiutati da punteggiature sonore rapide che marcano percettivamente determinati momenti e imprimono nella memoria una traccia audiovisiva forte.
La percezione del tempo dell’immagine è influenzata dal suono. Il cinema muto non aveva uno scorrimento temporale fisso; il banco di montaggio dotato di un motore che controlla e regolarizza la velocità di scorrimento è comparso solo con l’avvento del sonoro. Il suono ha temporalizzato l’immagine non soltanto per effetto del valore aggiunto, ma anche imponendo una normalizzazione e una stabilizzazione della velocità di scorrimento del film. Il cinema sonoro può dunque essere definito “cronografico”. Tutti gli effetti di valore aggiunto operano in determinate condizioni estetiche e affettive.
Per lo spettatore, più che il realismo acustico, saranno innanzi tutto il criterio del sincronismo, e in secondo luogo il criterio della verosimiglianza globale a condurlo ad applicare un suono ad un evento o ad un fenomeno.
I tre ascoltiVi sono tre differenti disposizioni di ascolto finalizzate ad oggetti differenti.1. L’ascolto causale consiste nel servirsi del suono per informarsi sulla sua causa.2. L’ascolto semantico fa riferimento a un codice o a un linguaggio per interpretare un messaggio.
L’ascolto causale e l’ascolto semantico possono esercitarsi parallelamente e indipendentemente in una stessa catena sonora.
3. L’ascolto ridotto è rivolto alle qualità e alle forme proprie del suono indipendentemente dalla sua causa e dal suo senso, e implica la fissazione dei suoni, i quali accedono in tal modo a uno statuto di veri e propri oggetti. L’ascolto ridotto e la situazione acusmatica (in cui si sente il suono senza vederne la causa) hanno qualcosa in comune, perché l’acusmatico permette di rivelare il suono in tutte le sue dimensioni.
Per il cinema il suono è, più dell’immagine, un mezzo insidioso di manipolazione affettiva e semantica.
Linee e puntiVerso la fine degli anni ’20, con l’avvento sonoro, fu lanciata l’espressione di contrappunto per
designare la formula ideale di cinema sonoro: la costituzione di una voce sonora è percepita in orizzontale come coordinata alla catena visiva, ma individualizzata e tracciata da se stessa; al contrario, i rapporti armonici e verticali sono i rapporti tra un suono dato e ciò che accade contemporaneamente nell’immagine. Il contrappunto audiovisivo lo si incontra quando l’immagine segue la propria strada e il commento un’altra (dissonanza audiovisiva).
I suoni, come le immagini cinematografiche, si montano (missaggio). La colonna audio di un film è spesso formata da diversi strati realizzati e fissati indipendentemente. Il flusso del suono di un film si caratterizza per logica interna (concatenamento delle immagini e dei suoni continuamente e progressivamente) e logica esterna (effetti di discontinuità e di cesura). Il cinema d’azione moderno gioca molto con la logica esterna.
La funzione più diffusa del suono nel cinema è quella che consiste nell’unificare il flusso delle immagini, nel legarle a livello temporale, a livello spaziale e tramite la presenza eventuale di una musica orchestrale. Ogni personaggio chiave od ogni ideaforza del racconto sono dotati di un tema che li caratterizza e costituisce il loro angelo custode musicale. Si chiamano elementi di sfondo sonoro i suoni di sorgente puntuale e di comparsa intermittente, che contribuiscono a popolare e a creare lo spazio di un film con piccoli tocchi distinti e localizzati. Un movimento di macchina, un ritmo sonoro o l’evoluzione di uno degli attori mettono in moto nello spettatore un movimento di anticipazione (sequenza audiovisiva che prepara una rivelazione). L’impressione di silenzio in una
scena di film è il prodotto di un contrasto, che può essere associato all’idea di calma o creare l’impressione di un silenzio inquietante e annunciatore di sciagure.
La sincronizzazione è nel cinema un criterio predominante (il cinema è un’arte realista). Un punto di sincronizzazione è, in una catena audiovisiva, un momento saliente di incontro sincrono tra un momento sonoro e un momento visivo. Si chiamano cadenze evitate quando si sente la causa, mentre le conseguenze appaiono nell’immagine. I colpi sono quasi sistematicamente accompagnati da rumore. I film d’azione hanno la caratteristica di aggiungere l’uso del rallentatore e del fermo immagine. La sincresi (sincronismo + sintesi) è la saldatura che si produce tra un fenomeno sonoro e un fenomeno visivo quando questi accadono contemporaneamente. Per quanto riguarda la sincronizzazione labiale, mentre i sincronismi molto stretti assoggettano i suoni ai movimenti delle labbra, i sincronismi più larghi prendono in considerazione la totalità del corpo parlante, gestuale in particolare.
La scena audiovisivaIl quadro è un contenente che preesiste alle immagini. Per il suono non esiste né un quadro né un
contenente preesistente: è possibile sovrapporre simultaneamente i suoni, mentre l’immagine si situa una sola per volta. Quando i suoni vengono accoppiati a un’immagine cinematografica, si dispongono in rapporto al quadro visivo.
Con la manipolazione del Dolby si realizzano i compromessi tra localizzazione mentale e localizzazione reale del suono.
Acusmatico significa che si sente senza vedere la causa originaria del suono. Il contrario è l’ascolto visualizzato.
Il suono fuori campo nel cinema è il suono acusmatico rispetto a ciò che viene mostrato nel piano; si chiama al contrario suono in quello la cui sorgente appare nell’immagine e appartiene alla realtà che questa evoca; si chiama suono off quello la cui supposta sorgente è assente dall’immagine ed è non diegetica (voci di commento o di narrazione, musica). Si chiama suono d’ambiente il suono d’ambiente inglobante che avvolge una scena; si chiama suono interno quello che corrisponde all’interno tanto fisico che mentale di un personaggio; si chiamano suoni in onda i suoni presenti in una scena, ma trasmessi elettricamente (radio, telefono, amplificazione).
La musica da buca accompagna l’immagine da una posizione off, al di fuori del tempo e del luogo dell’azione. La musica da schermo proviene da una sorgente situata direttamente o indirettamente nel luogo e nel tempo dell’azione. I casi misti o ambigui sono possibili. La posizione della musica è di non essere soggetta a barriere di tempo e di spazio.
Il fuori campo attivo è costituito di suoni la cui sorgente è visualizzata. Il fuori campo passivo è quello in cui il suono crea un ambiente che avvolge l’immagine.
Il suono è suscettibile di creare un fuori campo a estensione variabile: l’estensione dell’ambiente non ha limiti.
La nozione di punto di ascolto può avere due sensi: senso spaziale (luogo di provenienza visivo del suono) e senso soggettivo (il personaggio sente ciò che ode lo spettatore).
Il reale e la resaIl suono in presa diretta è nella maggior parte dei casi scremato di determinate sostanze o arricchito
di altre.La definizione di una registrazione sonora è la sua finezza e la sua precisione nella resa dei dettagli.
Gli anni tra i ’20 e i ’40 conobbero la moda di una nozione oggi dimenticata: quella di fonogenia. Una voce era fonogenica come qualcuno ha fascino (fotogenia). Ciò che suona vero per lo spettatore e il suono vero sono due cose assai differenti. I codici del teatro, della televisione e del cinema hanno creato convenzioni molto forti determinate da una cura di resa più che da una letterale verità. I criteri di verosimiglianza sonora dipendono dalla competenza e dall’esperienza.
La nozione di resa si contrappone a quella di riproduzione: nel cinema il suono viene riconosciuto dallo spettatore come vero se rende la sensazioni associate a quella causa. I suoni contengono sempre un certo tasso di indizi sonori materializzanti, da zero a un’infinità, e la presenza di questi ultimi
esercita sempre un’influenza sulla percezione stessa della scena mostrata e sul suo senso. Gli indizi materializzanti sono quelli che rimandano alla materialità della sorgente. Il rafforzamento o l’eliminazione degli indizi materializzanti nei suoni possono assumere un senso metafisico. I rumori corporei dei cartoon restano leggeri; i versi animali sono rifatti in uno zoo, rielaborati e talvolta doppiati da umani.
L’audiovisione vuotaVi sono, nel contratto audiovisivo, un certo numero di relazioni di assenza e di vuoto che fanno
vibrare profondamente la nota audiovisiva.L’uomo invisibile, in questo senso, non è invisibile soltanto per il fatto di essere fuori campo, ma è
ritenuto essere nell’immagine anche quando non lo si vede.L’acusmetro è quel personaggio acusmatico la cui posizione rispetto allo schermo si colloca in
un’ambiguità. Possono essere descritti come acusmetri molti personaggi misteriosi e chiacchieroni nascosti (la madre in Psyco di Hitchcock; il robotcomputer in 2001: odissea nello spazio di Kubrick). All’acusmetro sono spesso attribuiti poteri (onniveggenza, onniscienza, onnipotenza, ubiquità), di cui è privato quando viene deacusmatizzato, cioè quando il volto da cui proviene la voce viene rivelato.
L’effetto di sospensione si dà quando un suono naturalmente implicato dalla situazione viene soppresso, creando un’impressione di vuoto e di mistero. Si crea allora un effetto di “rumore vuoto”.
Il suono e l’immagine non vanno confusi con l’orecchio e la vista: laddove l’occhio si lascia rapidamente superare quando l’immagine gli mostra uno spostamento ultrabreve, l’orecchio ha il tempo di riconoscere una serie complessa di tragitti sonori; effetti acustici di suoni riverberati e prolungati lasciano spesso una traccia non sonora ma visiva. Tutto ciò che in un film è spaziale, finirà per codificarsi in un’impressione visiva; e tutto ciò che è temporale si codificherà in un’impressione sonora. Il ritmo è un elemento che non è né sonoro né visivo.
Quando un fenomeno ritmico ci giunge attraverso una via sensoriale, esso viene decodificato ritmicamente. I sensi sono canali, vie di comunicazione.
AL DI LÀ DEI SUONI E DELLE IMMAGINIDegno del nome di sonoroUn film senza suono rimane un film; un film senza immagine non è un film. Il suono multipista
Dolby si è diffuso dalla metà degli anni ’70.I rumori nei film di una volta disturbavano la comprensione dei dialoghi. Si preferì dunque
sostituirli con sonorizzazioni stilizzate. L’avvento del Dolby permette di far sentire, contemporaneamente ai dialoghi, rumori ben definiti. “Supercampo” è il campo individuato dai suoni d’ambiente, di rumori, di musica, che circondano lo spazio visivo.
La diffusione del suono Dolby è trascurata da molti autori. I rumori hanno approfittato della definizione conferita loro dal Dolby per reinserire nei film un acuto sentimento della materialità delle cose e degli esseri.
Televisione, clip, videoCiò che segna la differenza tra cinema e televisione è la differente posizione occupata dal suono.Il tennis, per esempio, è il solo in cui i commentatori fanno sentire gli scambi senza dire una parola.La televisione è fondamentalmente una radio “illustrata” da immagini aggiunte (contrariamente al
cinema, una televisione muta è inconcepibile).Il clip è un qualunque cosa di visivo messo su una canzone.Verso un audiologovisivoCi sono tre modalità di presenza della parola nel cinema.La parolateatro, in cui il dialogo sentito ha una funzione drammatica, psicologica, informativa e
affettiva. Esso viene percepito parola per parola, offerto a una intelligibilità totale.La parolatesto (voce off e commenti) ha il potere di evocare l’immagine della cosa, del momento,
del luogo, dei personaggi. Essa sopprime la scena audiovisiva. Il narratore è un protagonista significativo, o un personaggio secondario ma testimone, o un narratoreromanziere esterno ma onniveggente.
La parolaemanazione non viene necessariamente sentita e compresa per intero. Tale effetto può essere legato al fatto che il dialogo non è del tutto intelligibile. La parola diventa una specie di
emanazione dei personaggi. I cineasti hanno cercato, agli inizi del sonoro, di relativizzare la parola, ossia tentare di inscriverla in una totalità visiva, ritmica, gestuale e sensoriale, in cui essa non rappresentasse l’elemento centrale. Alcuni tentativi di relativizzazione consistono nel creare situazioni (distanza, folla, muro) che facessero accettare l’assenza di voce, o accumulando, sovrapponendo e proliferando le parole, o utilizzando una lingua straniera, o sprofondando le voci, o annebbiandole, o decentrando tutti gli elementi dai dialoghi.
Introduzione a un’analisi audiovisivaPer osservare e analizzare la struttura suono/immagine di un film, si può fare ricorso al “metodo
delle mascherature”: visionare più volte una sequenza data, guardandola ora con un suono e immagine, ora mascherando l’immagine, ora tagliando il suono. Eliminare il suono originale e cambiare musica sulla stessa immagine, mette a nudo i fenomeni di valore aggiunto, di sincresi, di associazione suono/immagine.
Si chiama “consistenza” della colonna audio, il modo in cui i differenti elementi sonori (voce, musica, rumori) sono inseriti in una tessitura. Individuare i punti di sincronizzazione salienti e la loro ripartizione, definisce ciò che si chiama “fraseggio audiovisivo” della sequenza. Spesso è interessante comparare il suono e l’immagine su una stessa questione di rappresentazione: l’immagine può essere ricca di dettagli narrativi e il suono avaro di rumori, o viceversa (immagine vuota e suono abbondante). La comparazione figurativa può essere condensata in due formule complementari: che cosa vedo di ciò che sento? che cosa sento di ciò che vedo?
I rumori possono dividersi in “rumori durevoli” (che coprono l’insieme di una sequenza) e “rumori puntuali” (eventi isolati).
Marco Ferreri (di Alberto Scandola)
Marco Ferreri nasce a Milano l’11 maggio 1928 e muore a Parigi il 9 maggio 1997. Regie: El pisito (L’appartamentino), 1958; Los chicos (I ragazzi), 1959; El Cochecito (La
carrozzella), 1960; L’infedeltà coniugale Gli adulteri, 1961; L’ape regina, 1963; Il professore, 1964; La donna scimmia, 1964; L’uomo dei cinque palloni, 1965; Marcia nuziale, 1966; L’harem, 1967; Breakup (L’uomo dei palloni), 1968; Dillinger è morto, 1969; Il seme dell’uomo, 1969; L’udienza, 1971; La cagna (Liza), 1972; La grande bouffe (La grande abbuffata), 1973; Touche pas à femme blanche (Non toccare la donna bianca), 1974; L’ultima donna (La dernière femme), 1976; Ciao maschio (Bye Bye Monkey), 1978; Chiedo asilo, 1979; Storie di ordinaria follia (Tales of Ordinary Madness), 1981; Storia di Piera, 1983; Il futuro è donna, 1984; I love You, 1986; Come sono buoni i bianchi! (Los negros tambien comen / Y’a bon les blancs), 1988; La casa del sorriso, 1991; La carne, 1991; Diario di un vizio, 1991; Nitrate d’argent (Nitrato d’argento), 1996.
Regie televisive: Corrida!, 1966; Perché pagare per essere felici!!!, 1976; Yerma, 1978; Le banquet (Il banchetto di Platone), 1992; Faictz ce que voudras, 1994.
Ferreri era una delle personalità più solitarie e inafferrabili del cinema italiano postneorealista. Tra i miti neorealisti distrutti da Ferreri, la trasparenza dell’attore non professionista e lo splendore del vero. Quello di Ferreri è un sistema chiuso, dotato di regole precise e replicato per quarant’anni in una serie di variazioni sul tema, in grado di offrire un interessante spaccato sociologico dei mutamenti del nostro costume, e non solo del nostro. La ricetta è semplice: un uomo, una donna, un modello istituzionale da seguire, un corpo che si ribella. Non è l’attore che si deve adeguare al personaggio, ma viceversa. Ferreri non offre cose vere, ma mostra come sono veramente le cose. Ogni suo film è al contempo un racconto di fatti e un racconto fiabesco. Ferreri lascia che le (in)azioni durino proprio per documentare lo svuotamento del senso.
Il cinema moderno inaugura uno sguardo nuovo nei confronti del reale, aperto a quella dimensione dove il senso nasce dall’esperienza stessa del guardare, che corrisponde spesso a un’interrogazione metalinguistica. Quella di Ferreri è una materialità depurata, dove il qui è sempre e comunque un altrove. Quella di Ferreri è una scrittura ambigua, dove l’identificazione dello spettatore è attratta
tanto dai corpi quanto dagli oggetti. Egli è attratto dalla collisione tra l’immagine standardizzata della società dei consumi e quella, sporca e grezza, del corpo urbano.
Nel 1950 si lancia nella produzione di Cronaca di un amore (in cui esordisce Michelangelo Antonioni). L’incontro determinate di questi anni è con Riccardo Ghione.
Ferreri non inventa i luoghi ma gli spazi: tutto è dietro l’immagine, dentro lo spazio creato dalla propagazione del suono negli interni, in quella soglia tra la superficie dei corpi e il riflesso delle immagini proiettate su di loro.
Dopo alcuni insuccessi italiani cerca fortuna all’estero, trasferendosi in Spagna nel 1956, dove l’incontro con Rafael Azcona segna l’inizio di una collaborazione lunga quarant’anni e 15 film.
Nel 1958 adatta un romanzo breve ispirato a un fatto di cronaca accaduto a Barcellona: El pisito Rodolfo vorrebbe sposare Pedrita, ma il costo degli immobili a Madrid è troppo proibitivo; l’unica soluzione è aspettare la morte di donna Martina, locataria di un piccolo appartamento; stanca di aspettare, Pedrita convince il compagno a sposare l’anziana, perché solo il matrimonio potrebbe garantire il diritto alla locazione; alla fine donna Martina muore in modo buffo. Lo spazio è limitato a una galleria di ambienti ben noti al nomade cineasta, il tempo è compresso in una struttura narrativa organizzata in sketch. Il bizzarro traspare nell’investitura grottesca di anomalie, metafore di una diversità assunta a modello eversivo contro l’omologazione del regime franchista. El pisito è la storia di un amore nato morto. Il premio della critica ottenuto a Locarno non aiuta: scarso è il successo di pubblico di questa opera prima, emarginata dal cinema spagnolo e freddamente accolta in Italia.
Il secondo lungometraggio ottenne risultati peggiori rispetto al primo. Los chicos (1959), proiettato in Spagna nel 1963 e per trent’anni invisibile in Italia: quattro ragazzi della piccola borghesia passano il tempo tra i pomeriggi all’edicola e le serate al cinema; le giornate scorrono l’una uguale all’altra senza che nessuno dei quattro riesca a realizzare i propri desideri. Los chicos è la cronaca del vuoto quotidiano in cui affogano i sogni degli adolescenti contemporanei, indifferenti ai valori dei padri e per nulla inquieti del futuro che li aspetta.
El cochecito (1960) è un apologo aggressivo sull’ambiguità della nozione di normalità: l’ottantenne don Anselmo passa il suo tempo con gli amici invalidi e vuole avere una carrozzella a tutti i costi, anche se non è invalido; l’unica soluzione è avvelenare tutta la famiglia e rubare i soldi, ma viene raggiunto dalla polizia. I deformi di Ferreri non incutono né pietà né terrore, ma sono travolti da un forte istinto di regressione infantile. Come in El pisito, il reale non splende, anzi emana un cattivo odore.
Al rientro in Italia, nel 1960, oggetto di indagine sono ora i costumi sessuali delle donne italiane, ormai lanciate verso un’emancipazione sessuale. L’italiane e l’amore, 1962, è una raccolta di testimonianze tra il serio e il faceto delle donne. Tra le 11 voci del puzzle, quella di Ferreri, L’infedeltà coniugale Gli adulteri, è forse la più incompresa: in una famiglia della media borghesia, il marito consuma in ufficio un amplesso con la segretaria, mentre la moglie approfitta dell’uscita dei bambini per invitare l’amante.
Protagoniste dei primi due lungometraggi italiani, L’ape regina e La donna scimmia, le donne sono animali aggressivi e selvaggi.
L’ape regina incontra subito l’ostilità di una censura timorosa di ogni attentato alla morale cattolica: Alfonso, quarantenne di successo, sposa la vergine Regina che, dopo il matrimonio, si trasforma costringendo il marito al dovere coniugale fino all’esaurimento delle forze; alla fine Alfonso muore mentre in chiesa si celebra il battesimo dell’erede. La struttura traduce alla perfezione la dimensione piatta e claustrofobia degli ambienti, riconducibili all’idea di prigione.
Su di un rito simile al battesimo termina il secondo capitolo di questo primo trittico sul paradosso del matrimonio, La donna scimmia, girato tra Napoli e Parigi nell’estate del 1963, in cui i rapporti di forza s’invertono: l’imprenditore Antonio Focaccia (interpretato da Ugo Tognazzi) conosce in un ospizio Maria (interpretata da Annie Girardot), una ragazza ricoperta interamente di peli, e la utilizza come fenomeno da baraccone in uno spettacolo esotico; seguono il matrimonio e una gravidanza che causa la morte della moglie e del figlio, i quali saranno poi mostrati al pubblico. Questo film, ispirato alla storia vera di Julia Pastrana (donna gorilla morta di parto un secolo fa), è una satira amara sul sonno della società dello spettacolo. In Francia venne imposto un happyend assurdo quanto consolatorio: il figlio nasce sano, la donna perde la peluria e il marito mette la testa a
posto. Il finale di Ferreri prevede invece l’imbalsamazione dei corpi della donna e del figlio che verranno poi mostrati a una folla di curiosi paganti, ma non allo spettatore, costretto a guardare dall’alto il teatro ambulante della rappresentazione.
Nel maggio del 1964 dirige il secondo atto di Controsesso: Il professore un professore di italiano trascorre il tempo libero con la nonna e l’anziana governante; durante il compito in classe impone alle allieve di utilizzare per i bisogni corporali la sua comoda all’interno dell’aula, provocando le risate della classe e un pianto liberatorio del professore che si rifugia sotto il getto d’acqua di una fontana. L’uomo ha posto tra sé e il mondo della donna delle barriere; ai corpi in fiore delle alunne, che con mosse innocenti accendono le fantasie dell’uomo, si oppongono le carni avvizzite delle due anziane; la lettura freudiana del comportamento del professore è avvalorata dal disprezzo dimostrato nei confronti delle alunne, che ricambiano con la risata di scherno del finale.
Marcia nuziale, girato tra Roma, New York e Giannutri nell’inverno del 196566, è etichettata dalla critica come una “marcia indietro”: in “Prime nozze”, due coppie si preparano a celebrare il matrimonio dei rispettivi cagnolini; “Dovere coniugale” descrive la routine serale di una famiglia (mettere a letto il bambino, ossessioni igieniche della madre, solitudine del marito); in “Igiene coniugale”, una coppia organizza in dettaglio il rito del coito, quando i bambini sono lontani, per poi raccontarlo agli amici in una delle abituali discussioni sul sesso; con “La famiglia felice” i problemi di coppia sono risolti sostituendo il partner con una bambola gonfiabile. Con Prime nozze la congiunzione tra i due bassotti è un atto per purificare ogni bestialità (se l’uomo non può essere un animale, l’animale deve essere un uomo); con Dovere coniugale il dialogo tra i corpi si trasforma in un monologo da parte del maschio rifiutato e lasciato solo alle sue parole; salvare il matrimonio è l’obiettivo di Igiene coniugale; ne La famiglia felice, ambientato nel 1999 in una spiaggia isolata, la sostituzione dell’organico con l’inorganico, il cui obiettivo è sostituire il vuoto della carne con una carne più perfetta ma soprattutto muta, coinvolge la sfera del sesso ma anche il microcosmo della famiglia.
Nel gennaio 1964 gira a Milano L’uomo dei palloni, censurato dal produttore e ridotto a un episodio di 25’ col titolo L’uomo dei 5 palloni, inserito nel trittico Oggi, domani, dopodomani (1965). Fa seguito Breakup, forgiato integrando il materiale abbandonato del progetto originale con 3 nuove sequenze, girate a Roma nel 1967. Favola crudele sulla frattura tra la ragione e il caos, che scardina la routine protettiva di un industriale prigioniero di una regressione infantile, in cui un uomo è incapace di riempire, attraverso il feticcio dei palloncini, lo spazio che lo avvolge (metafora del vuoto come spazio vitale): imprenditore del cioccolato sperimenta una nuova trovata pubblicitaria per l’imminente Natale, e cioè allegare ai dolci un palloncino; divide il suo tempo tra la fidanzata e questi palloncini che cerca di gonfiare fino al limite; ogni volta, però, questi scoppiano, lasciando l’uomo nell’angoscia più assoluta; l’incapacità di calcolare la quantità d’aria necessaria a riempire il pallone equivale a un fallimento morale; alla fine resta solo col cane e si getta dal quinto piano.
Ne L’harem, terminato in 2 mesi tra Roma e Dubrovnik nel 1967, gli oggetti sessuali sono 4 volti del desiderio: architetto di successo è insoddisfatta della propria vita sessuale; rifiuta la proposta di matrimonio di un imprenditore; si concede alle voglie di un avvocato; nutre una passione per un avventuriero; l’amico omosessuale la accompagna in Jugoslavia dove è raggiunta dai 3 spasimanti cui si concede a turno; gli uomini si coalizzano contro la donna che finirà giù dalla scogliera. Da lolita a femme fatale, la protagonista sembra incapace di abitare il proprio corpo; L’harem privilegia il vuoto spaziale a quello temporale, e non a caso il vuoto è il destino riservato alla capricciosa sultana, gettata dalla rupe in solitudine.
Sfuggire a ciò che si è, è il sogno del protagonista di Dillinger è morto (con le musiche di Teo Usuelli): Roma, un ingegnere (interpretato da Michel Piccoli) che progetta maschere antigas, torna a casa e scopre per caso una vecchia pistola avvolta in un foglio di giornale dove si racconta la cattura e la morte di John Dillinger, gangster ucciso dalla polizia; dopo aver sedotto la cameriera il
protagonista sale dalla moglie e le spara nel sonno; alla fine fa le valige e fugge su un’imbarcazione diretta a Thaiti. Dillinger è morto (1969) canta la morte del Mito come via di fuga da un io che sente il proprio essere fuori di sé, imprigionato in un’assenza; la postura occlusa che manterrà il protagonista per tutto il racconto rappresenta l’isolamento; lo spazio claustrofobico, l’assenza di rumori, suoni e voci fuori campo, assimilano l’interno dell’appartamento alla camera a gas mostrata nel prologo; unica via di fuga è il mito; il gangster Dillinger riprodotto sul giornale è uno di quei “miti di oggi” che colmano il vuoto.
Nella seconda metà degli anni ’60 ritorna al documentario con due opere prodotte dalla televisione di stato: Corrida! (1966: ritratto storico della tauromachia dalle origini ai giorni nostri) e Perché pagare per essere felici!!! (1976: resoconto del raduno rock di Powr Ridge). Suddiviso in due puntate di 50 minuti ciascuna, Corrida! è più attento al destino dei toreri; al pari di quanto accade nel cinema di finzione, la morte è filmata come sospensione del tempo; la guerra di Spagna è riassunta in poche frasi, asciutte e scarne, composte di numeri e di nomi. Da un’arena all’altra, gli stadi canadesi di Powr Ridge, Toronto, Montréal e Winnipeg, in Perché pagare per essere felici!!!, ospitano cerimonie collettive di giovani; nel 1970 l’ondata hippy aveva ormai esaurito la sua carica rivoluzionaria, e quel che resta della controcultura è immortalato con un linguaggio irrispettoso delle regole del documentario; interessante è la ricerca di un dialogo tra musica e immagini; sulle parole si alternano quadri fin troppo simbolici di “libertà”; sono le immagini a dettare il ritmo e la durata della musica, come un’eco pronto a sovrapporre agli arpeggi di chitarra il rumore delle auto della polizia; Perché pagare per essere felici!!! è un documento su tutto ciò che è “attorno” alla musica; essere felici significa andare incontro al massacro.
Il seme dell’uomo (1969) mette in scena la relazione pericolosa tra l’uomo e l’immensamente grande: dopo un disastro nucleare, Cino e Dora sono inviati dai responsabili della sicurezza a procreare una nuova società; la coppia salterà in aria sulla riva di un mare indifferente. Il seme dell’uomo annienta entrambi i poli di quel microcosmo artificiale che è la coppia.
Deserta è anche l’isola del novello Robinson in La cagna, ambientato a New York nel 1972, dove dal pieno della metropoli si passa al vuoto di un’isola dalle rocce lunari: sull’isola dove si è ritirato in solitudine Giorgio, disegnatore di fumetti, arriva Liza; la donna uccide il cane dell’uomo e si sostituisce all’animale offrendosi come oggetto sessuale e schiava del suo padrone; Giorgio va a Parigi e poi riparte verso una meta sconosciuta. La cagna si offre come fenomenologia della noia che affligge l’ennesimo intellettuale al tramonto.
L’udienza nasce dalla lettura di Kafka, il cui Castello è il modello ideale per dipingere la piramide dell’esclusione, un microcosmo ossessivo dove il singolo cerca invano di accedere ai piani alti di una Ragione senza volto né voce: ex ufficiale in congedo, Amedeo scende a Roma per parlare con Paolo VI; l’affascinante prostituta Aiche si innamora del timido Amedeo, fino a decidere di tenere il figlio concepito per errore; l’uomo, prigioniero di un’ossessione per il papa, è internato in un convento di frati e obbligato a una ferrea disciplina; dopo essere uscito dall’ospedale psichiatrico, Amedeo ritorna nel Vaticano per morirvi; dopo di lui un altro visitatore chiede udienza al Santo Padre (tutto ricomincia). A Ferreri interessa cogliere l’inquietudine di un presente fatto di sospetti e attentati contro un sistema pronto a esplodere da un momento all’altro.
Ne La grande abbuffata (1973), il cibo rappresenta l’ultima speranza nascosta nella disperazione del vivere: quattro amici, il produttore televisivo Michel (Michel Piccoli), il ristoratore Ugo (Ugo Tognazzi), il giudice Philippe (Philippe Noiret) e il pilota Marcello (Marcello Mastroianni) si trovano in una villa a Parigi per un weekend gastronomico; non è chiaro il loro progetto, ma tutti lasciano direttive a familiari e colleghi come se non dovessero tornare più; ad un certo punto si sente l’esigenza di soddisfare gli appetiti sessuali, ma le tre prostitute invitate abbandonano la casa una dopo l’altra; Andrea (Andrea Ferreol), una maestra elementare, incarna il polo femminile del quartetto, assaggiando cibi e corpi a piacimento senza mai stancarsi; i protagonisti muoiono uno dopo l’altro (Marcello per congelamento, Michel per dissenteria, Ugo per ingozzamento e Philippe per diabete) e nel giardino gli animali si preparano a divorare le carni avanzate. Definito il film più ideologico di Ferreri, monumento dell’edonismo, specchio della verità come eccesso.
Non toccare la donna bianca (1974) lascia trasparire un senso di malinconia per il vuoto lasciato da una società putrefatta e non fecondata dagli ideali del ’68: chiamato a sedare la ribellione di un
gruppo di indiani che si oppongono alla costruzione della ferrovia, il Generale Custer sbarca a Parigi; i soldati americani si fanno massacrare. Troppo denso di rimandi polemici al presente, di quella cultura che si nutre dell’orrore senza intervenire sul campo.
In L’ultima donna (1976) lo spazio chiuso funge da isola in un deserto interiore dove la parola non riempie nessun vuoto: Giovanni, ingegnere in una raffineria a sud di Parigi, vive con Valeria, maestra d’asilo; abbandonato da Valeria, Giovanni si evira con un coltello da cucina. La donna di Ferreri resta una superficie impenetrabile. Ogni inquadratura è un’interrogazione sul rapporto tra corpo e spazio. L’ultima donna vive di corpi che si sfiorano, si toccano, si proteggono sotto le lenzuola o semplicemente giocano con i rumori prodotti dalle loro cavità.
Il dolore si tramuta in pianto anche nella casa angusta di Yerma (1978), adattamento televisivo del poema tragico scritto da Garcìa Lorca nel 1933: Spagna, 1934; sposata da due anni con Juan, contadino, Yerma vive il dramma di non riuscire ad avere figli; l’odio e la frustrazione trovano sfogo in un gesto omicida; Yerma, uccidendo il marito, ha ucciso anche suo figlio. Yerma, moglie fedele, combatte contro il proprio corpo, terra bruciata e sterile. Ferreri nel finale sostituisce al coro dei pellegrini gli echi dei caccia bombardieri. Fuori dalla finzione, l’apocalisse.
Il maschio si sta sbriciolando assieme alla società modellata a sua immagine. In Ciao maschio (1978), le dinamiche dell’alienazione cedono il passo alla riflessione sulla labilità del confine tra natura e cultura: Lafayette, tecnico delle luci al museo delle cere gestito da Flaxman, vive da solo in uno scantinato di Manhattan; la città è invasa da esseri in tuta e maschera antigas; di notte l’uomo presta servizio in un teatro underground, gestito da un gruppo di femministe che si divertono a violentarlo; tra queste Angelica resta gravida; Lafayette, però, ha una piccola scimmia che soddisfa l’istinto materno del giovane, fino a quando alcuni topi non la divorano nello scantinato; Lafayette fugge dandosi la morte assieme alle creature di cera del museo, dopo aver strangolato Flaxman, tra le fiamme della civiltà antica. Il futuro dell’umanità non è più nella verticalità fallica (fabbriche, grattacieli), ma nell’orizzontalità della natura. Il futuro è in un’atmosfera d’apocalisse mostrata ma non detta. La città di Ciao maschio sembra addormentata in una pace inquietante. Ciao maschio è un ibrido tra la fantascienza e il mélo (ragazza ingravidata e abbandonata). Tra le macerie della civiltà in rovina, la parola occupa un posto di rilievo: “l’inutilità della parola nel cinema ha detto Ferreri è l’esempio dell’inutilità della parola”. Figura di congedo: madre, figlia, grappolo d’uva. Al posto della parola il respiro del mare.
Il mare diventa richiamo ancestrale capace di placare l’angoscia con il ritmo delle onde. In Chiedo asilo (1979) il dualismo uomodonna, costruito secondo il consueto schema incontrogravidanzaabbandono, si colora di sfumature nuove: Roberto, maestro elementare di Bologna, ingravida Isabella, madre di una delle alunne; con Gianluigi, bambino autistico, Roberto si isola su una spiaggia della Sardegna; l’adulto e il bambino si immergono nel ventre del mare, mentre un vagito ci fa pensare che il piccolo sia nato. L’educazione di Roberto è basata più sullo sguardo che sulla parola, utilizzata solo per la comunicazione con il singolo. Il vagito simboleggia nel finale la morte come rinascita.
Storie di ordinaria follia (1981): Charles Serking, scrittore, è attratto da prostitute, ma anche da una donna obesa; il vizio dell’alcool lo rende incapace di adempiere ai suoi compiti; l’amore per Cass, la più bella tra le ragazze del quartiere, si risolve con l’unica consolazione di baciarne il cadavere nella bara; Serking affoga il dolore nell’ennesima bottiglia e abbraccia il seno di una ragazzina su di una spiaggia battuta dal vento. Si sente forte la solitudine nella metropoli. Storie di ordinaria follia resta un film da camera, girato all’interno di luoghi feticcio che ritornano ciclicamente quali tappe di una discesa agli inferi.
Storia di Piera (1983) e Il futuro è donna (1984) sono un dittico che inneggia alla creatura femminile come mito. Storia di Piera: anni ’40; Eugenia, donna d’indole ribelle, mette al mondo
Piera; da una parte un padre depresso, dall’altra una madre incapace di frenare le proprie pulsioni sessuali; Piera scopre le proprie tendenze omosessuali; il padre muore di solitudine nell’ospizio; Piera e la madre, durante una gita al mare, si stringono in un abbraccio dove il presente si fonde con il passato. Il film è pieno di tempi morti che si condensano sui personaggi, frammenti di vita familiare dove la storia sembra non avanzare. Ne Il futuro è donna la coppia di transizione è posta a confronto con ciò che essa ha esorcizzato, ovvero una maternità: Anna, moglie senza figli, conosce Malvina, giovane donna sola incinta; il marito di Anna, Gordon, durante un concerto muore travolto dalla folla impazzita; Anna assiste Malvina nel parto, in riva a un mare notturno, che poi affida il figlio ad Anna stessa. Il futuro è donna è la storia di due corpi che cercano invano di essere uno, soddisfacendo la fantasia di un maschio. In questione non è la superiorità della carne rispetto al feticcio, quanto il semplice esserci dei corpi, più volte rivendicato attraverso la parola, come se la percezione visiva non fosse in grado di distinguere tra reale e virtuale. L’allegoria è elementare: il mito si è fatto carne.
I love you (1986) è un melodramma sul conflitto tra l’organico e l’inorganico, dove l’amore si nutre di vista e udito: Michel sembra un ragazzo felice; dopo la rottura con Barbara, che lo abbandona perché desiderosa di un figlio, Michel inventa una sorta di rapporto sessuale con il portachiavi (a un fischio questo risponde con la frase “I love you”); a causa di un incidente il giovane perde la possibilità di fischiare; Michel corre con la sua moto verso il sole della felicità, dopo aver ridotto in mille pezzi il portachiavi. I love you è il tentativo di giungere con il suono laddove l’immagine aveva fallito; è la storia d’amore tra un corpo e una voce. La nuova frontiera dell’eros semiorganico è tutta in questo scambio audiovisivo. Dopo aver ridotto i corpi a oggetti, Ferreri lavora sulla materia “organica” della pellicola creando una sorta di “ultraimmagine”: televisione filmata, ovvero sguardo avente per oggetto un secondo sguardo. I love you appare come una commedia sulla vertigine dell’inautentico.
Due variazioni sul tema del cannibalismo in Come sono buoni i bianchi! (1988: satira sull’ipocrisia benpensante del buonismo occidentale di stampo cattolico) e in La carne (1991: viaggio nel limbo cerebrale della coppia impossibile). Come sono buoni i bianchi!: un gruppo di volontari europei giunge in Africa per portare aiuti umanitari; Nadia intraprende il viaggio sul camion di Michele; gli ostacoli per i benefattori sono molti; Michele e Nadia vengono drogati e divorati dai cannibali. Il destino di questa coppia è diventare ombre; le ceneri disperse al vento sono resti organici di una morte che appare inorganica. La carne: Paolo, dopo la separazione dalla moglie, incontra Francesca ossessionata dal sesso e fresca di aborto; il duetto si trasforma in trio dopo l’arrivo di Giovanna, che concede il suo corpo alle voglie del rinato Paolo; Francesca sente l’esigenza di partire, ma Paolo la fa a pezzi e ne divora la carne. Una galleria di corpi malati, un universo già regredito verso lo stadio primitivo del cannibalismo.
Un ritorno ai miti del passato avviene con Il banchetto di Platone (1992) e Faictz ce que vouldras (1994). Il banchetto di Platone: Atene, 416 a.C., per festeggiare la vittoria in un concorso tragico, Agatone organizza un banchetto; argomento della discussione notturna è l’amore. La parola filosofica, fonte del vero piacere, è messa in scena secondo lo schema della tragedia classica (prologo, parodo, episodi, esodo); la conoscenza, per Ferreri, è imprescindibile dai sensi. Faictz ce que vouldras: alle immagini notturne di un banchetto si alternano volti diurni di attori che recitano passi da “Gargantua et Pantagruel”, saga enciclopedica sulle avventure di due giganti dall’animo buono e dall’appetito vorace. Netta è la distanza tra l’entusiasmo carnevalesco della cultura popolare e la malinconia nera di Ferreri, per il quale il banchetto non è mai rito collettivo ma tragedia della solitudine; il pieno del racconto è bilanciato dal vuoto sonoro del banchetto contemporaneo.
Non poteva mancare la carne malata della vecchiaia in La casa del sorriso (1991): in un ospizio Adelina si innamora di Andrea; i due sono costretti a isolarsi; stanca di subire umiliazioni, Adelina parte verso il Sud. Ferreri non ha paura di guardare in faccia l’orrore della vecchiaia. La dialettica tra parola e immagine ruota attorno alla messa in scena degli interni.
Vampirizzato dalla scrittura, il corpo è un semplice fantasma in Diario di un vizio (1993): il quarantenne Benito lavora a Roma: dopo Luigia, la principale ossessione dell’uomo è il corpo, di cui documenta pulsioni e affezioni sulle pagine di un diario; improvvisamente, probabilmente a causa della malattia ai polmoni, Benito sparisce e, nella stanza vuota, un operaio trova il diario e
comincia la lettura. L’ultimo corpo maschile è un corpo scritto. La carne si è fatta lettera. La storia comincia dove normalmente finiva, ovvero dalla spiaggia, per concludersi senza un addio. Evidente è il tentativo di disarticolare il flusso cronologico del tempo con il diario, strumento atto a ordinare il caos. La morte non è più qualcosa da trascendere mediante l’eccesso, ma un processo di degenerazione organica fondato sullo svuotamento. La Roma di Ferreri non vive nemmeno negli sguardi di Benito, a cui la cinepresa concede rarissime soggettive. L’equilibrio tra immaginazione e realtà è infranto in alcune sequenze dove la parola contraddice l’immagine. Luigia è invece corpo muto. Il ritmo del racconto sembra seguire l’evoluzione della malattia del suo personaggio, facendosi nel finale serrato e rapido.
Nitrato d’argento (1996) è un’opera che porta al limite il processo di distruzione del racconto. Raccontare la trama di questo collage è quasi impossibile, in quanto le maglie narrative non sono intrecciate, ma semplicemente accostate, in modo da scivolare una sull’altra: da uno zapping televisivo escono immagini di sesso, morte e violenza, ma alla fine è l’amore che trionfa. Nitrato d’argento è una sinestesia lessicale, in quanto le pellicole infiammabili contenevano o il bromuro d’argento o il nitrato di cellulosa. Sorta di filminstallazione finalizzato a celebrare il cinema come rito collettivo. Ferreri ci mostra tanti spettatori di tutte le razze e le culture, poveri e ricchi, felici e disperati. È l’ultimo, disperato, tentativo di penetrare in una finzione sporca di reale.
Quella di Ferreri è un’esistenza artistica spesa a desacralizzare il sacro, a contestare il sistema dall’interno, a guardare negli occhi il male di vivere dell’uomo moderno. Il cinema di Marco Ferreri è finito senza corpi. Li abbiamo visti mangiare fino a scoppiare, ferirsi fino a sanguinare, soffiare dentro un pallone prima di infrangersi al suolo, giocare con il sesso per poi trovarsi con la pancia gonfia. Li abbiamo sentiti parlare con gli animali e comunicare il vuoto a partner muti, urlare la loro solitudine nei paesaggi deserti della periferia, sulle note nostalgiche di una melodia latina. Attratti non più da altri corpi, ma dai telecorpi. Sotto il mare dei finali, forse, c’è il nulla.