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Riassunto del libro di Paolo Grossi – “L’ordine giuridico medioevale” Capitoli I – II Premesse ordinative Il campo di osservazione del manuale è rappresentato dalla ricostruzione della mentalità giuridica medievale, in particolare nell’ottica del diritto privato, di quegli istituti (adozioni, tutele, vendite, locazioni,testamenti e donazioni) maggiormente espressivi di idealità, manifestazioni del corpo sociale meno condizionati da ingerenze autoritative nel mondo medievale. Per un’interpretazione dell’esperienza giuridica medievale. Il diritto medievale non può essere inteso come qualcosa di più tipicamente storico, né tanto meno come insieme di dati, fatti, nomi e personaggi, ma deve essere vissuto come totale attaccamento ai fatti della vita sociale ed espressione degli stessi . Pertanto tutte le determinazioni giuridiche del diritto medievale hanno rilevanza solo ed in quanto possono esserne piena e totale concretizzazione normativa. Continuità e discontinuità. Il fenomeno giuridico medievale deve essere vissuto come un’esperienza autonoma che caratterizza la vita medievale, allo scopo di valutare consapevolmente che quest’ultima non sia la prosecuzione del diritto romano, che utilizza pienamente solo allo scopo di ritrovare una base di validità e di legittimazione del proprio diritto, né tanto meno può essere considerato alla stregua di un’anticipazione della determinazioni dottrinali che fanno capo ad esperienze giuridiche di stampo moderno. La natura speculare del diritto medievale è totalmente vissuta entro i margini della sua esperienza che è sua soltanto e che non può essere riscontrata in alcuna altra realtà antecedente, né precedente. L’ordo iuris come interpretazione di un ordine sociale soggiacente. Il diritto medievale, nel rappresentare un’esperienza fondativa della società stessa, l’unico elemento di assoluta preminenza nella realtà del momento ha la possibilità di offrirsi agli occhi dello studioso come una realtà capace di ordinare il presente ed i fatti della società medievale stessa. Tale funzione gli è congeniale proprio perché il diritto è sostanzialmente interpretatio ossia viene in rilievo come una realtà che non può essere creata, ma deve assolutamente essere soltanto enunciata, esternata, concretizzata in norme giuridiche ; dunque il crisma giuridico esiste già in potenza nel tessuto della società medievale ed aspetta solo di essere esplicitato verso l’esterno. 1

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riassunti diritto comune (giurisprudenza)

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Riassunto del libro di Paolo Grossi – “L’ordine giuridico medioevale”

Capitoli I – II

Premesse ordinative

Il campo di osservazione del manuale è rappresentato dalla ricostruzione della mentalità giuridica medievale, in particolare nell’ottica del diritto privato, di quegli istituti (adozioni, tutele, vendite, locazioni,testamenti e donazioni) maggiormente espressivi di idealità, manifestazioni del corpo sociale meno condizionati da ingerenze autoritative nel mondo medievale.

Per un’interpretazione dell’esperienza giuridica medievale. Il diritto medievale non può essere inteso come qualcosa di più tipicamente storico, né tanto meno come insieme di dati, fatti, nomi e personaggi, ma deve essere vissuto come totale attaccamento ai fatti della vita sociale ed espressione degli stessi. Pertanto tutte le determinazioni giuridiche del diritto medievale hanno rilevanza solo ed in quanto possono esserne piena e totale concretizzazione normativa.

Continuità e discontinuità. Il fenomeno giuridico medievale deve essere vissuto come un’esperienza autonoma che caratterizza la vita medievale, allo scopo di valutare consapevolmente che quest’ultima non sia la prosecuzione del diritto romano, che utilizza pienamente solo allo scopo di ritrovare una base di validità e di legittimazione del proprio diritto, né tanto meno può essere considerato alla stregua di un’anticipazione della determinazioni dottrinali che fanno capo ad esperienze giuridiche di stampo moderno. La natura speculare del diritto medievale è totalmente vissuta entro i margini della sua esperienza che è sua soltanto e che non può essere riscontrata in alcuna altra realtà antecedente, né precedente.

L’ordo iuris come interpretazione di un ordine sociale soggiacente. Il diritto medievale, nel rappresentare un’esperienza fondativa della società stessa, l’unico elemento di assoluta preminenza nella realtà del momento ha la possibilità di offrirsi agli occhi dello studioso come una realtà capace di ordinare il presente ed i fatti della società medievale stessa. Tale funzione gli è congeniale proprio perché il diritto è sostanzialmente interpretatio ossia viene in rilievo come una realtà che non può essere creata, ma deve assolutamente essere soltanto enunciata, esternata, concretizzata in norme giuridiche; dunque il crisma giuridico esiste già in potenza nel tessuto della società medievale ed aspetta solo di essere esplicitato verso l’esterno.

La storicità del diritto. Una delle caratteristiche che assume il diritto medievale e che più di ogni altra lo caratterizzerò in tutto l’arco del suo sviluppo è quella della storicità del diritto.Storicità significa affermare che il diritto poggia essenzialmente sui fatti e sugli eventi che si verifica nella società medievale e che coinvolgono la sfera economica, sociale ed anche politica , il diritto è fortemente condizionato da questi fatti e ne diviene la massima espressione concreta.Questa situazione lascia emergere le caratteristiche di vitalità e carnalità che assume il diritto medievale, incapace di essere ridotto ad uno schema fisso, totalmente stabile e poco flessibile.È in questa prospettiva che quando si verifica la necessità di indagare lo strumento dell’esperienza giuridica: quando si parla di esperienza giuridica si vuole semplicemente indicare la modalità attraverso la quale il diritto medievale si intende, anche e soprattutto alla luce delle determinazioni di carattere storico e sociale che caratterizzano l’assetto societario della vita medievale.L’inclusione nello schema dell’esperienza giuridica risulta essere particolarmente utile per comprendere l’unitarietà e la compattezza di un diritto che deve essere studiato come manifestazione autonoma ed unica di una specifica realtà sociale, ma è altresì vero che proprio per la fortissima carica di vitalità che caratterizza il diritto medievale, lo stesso non può essere costretto in

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schemi rigidi e poco flessibili, ma deve sempre essere garantita una certa duttilità degli strumenti adeguati a riconoscerlo.

Unitarietà dell’esperienza giuridica medievale. Da un punto di vista strettamente storiografico la nascita del diritto medievale è da ricondursi al periodo che va dal V sec. d.C, momento in cui si realizza la crisi dell’Impero Romano d’Occidente e la caduta della solida esperienza giuridica romano-classica, al 1300/1400, momento in cui si apriranno sempre più folti i varchi per l’affermazione di canonizzazioni del diritto che sono molto vicine alle nostre più tipiche determinazioni giuridiche.Si è soliti, inoltre distinguere la realtà medievale in 2 momenti storici, uno attinente all’Alto Medioevo, l’altro attinente al Basso Medioevo. Sono sicuramente 2 momenti distinti dell’esperienza medievale, soprattutto perché vivono su assetti economici del tutto differenti: il primo fondato essenzialmente sull’agricoltura, il secondo, più tipicamente sui commerci, inoltre anche dal punto di vista giuridico i 2 momenti realizzano esperienze diverse: il primo assurgendo ad officina della prassi, il secondo sperimentano maggiori determinazioni dottrinali.Eppure i due momenti sono totalmente unificati poiché seppure con situazioni e in momenti diversi, realizzano entrambi una unica esperienza del diritto, quella medievale.

Molteplicità degli ordinamenti. Un’ulteriore caratteristica del diritto medievale è quella di essere intesa come ordine, ossia come realtà capace di strutturare, ed organizzare autonomamente il sociale, senza necessitare del supporto dello Stato. È fortemente suggestiva l’idea di un diritto che possa vivere e svilupparsi senza Stato e di fatto il diritto medievale sarà sempre privo di questa forte strutturazione politica, ciò comporta anche la possibilità per il diritto medievale di assumere ogni forma di ordinamento che ritenga più opportuno senza essere necessariamente legato alla conformazione giuridica dello Stato. Fautori della tesi della pluralità degli ordinamenti sono 2 autori del’ 700 illuministico: Santi Romano e Francesco Calasso. Entrambi sottolineano la necessità di recuperare una dimensione neutra al diritto medievale, ma allo stesso tempo mostrano difficoltà nel soppiantare totalmente la figura dello Stato, affermando come tra tutti gli ordinamenti esso si stagli con maggiore forza e vigore. È questa una conclusione prevedibile considerato il diverso periodo storico in cui vivono i due autori, considerate la diversa ideologia politica che li caratterizza.Il diritto medievale dev’essere in quest’ottica concepito come un pianeta giuridico separato e racchiuso, segnato da una discontinuità con il classico e il moderno, dunque da una sua compiutezza. La media aetas non deve dunque, essere percepita come un qualcosa di meramente transitorio, di non autonomo, di debole come momento storico. L’età del maturo diritto medievale coincide con il cd. diritto comune, gran parte dell’opera dei giuristi in quest’epoca si compie sul Corpus iuris giustinianeo, ma dev’essere smentita quella tendenza che concepisce il diritto comune come diritto romano ammodernato: il testo romano è spesso utilizzato come copertura autoritativa, come “vaso vuoto”, momento di validità di una costruzione giuridica che in realtà è autonoma e trova la sua fonte sostanziale nei nuovi assetti e eventi che caratterizzano la nuova era.Dato di partenza per l’effettiva analisi dell’epoca in esame è la concezione del diritto non come mero fatto autoritativo, non come insieme di comandi promananti dall’autorità munta di poteri di coazione, ma piuttosto concepito nella sua storicità, nel suo essere una dimensione stessa del vivere associato. Partendo da una simile concezione, che non separa il diritto dal complesso della realtà sociale e considerandolo dunque come privilegio esistenziale di ogni agglomerazione sociale, appare naturale rifarsi al pluralismo degli ordinamenti teorizzato dal Santi Romano: il diritto non è solo prodotto dall’entità statuale, ma da un fascio illimitato di strutture sociali. Il diritto è dunque percepito come forma vitale del corpo sociale nella storia. Strumento idoneo per la comprensione storica è quello dell’esperienza giuridica, cioè di quel peculiare modo di vivere il diritto nella storia, di percepirlo, concettualizzarlo, applicarlo in connessione a una determinata visione del mondo sociale, a determinati presupposti culturali. Per quanto attiene nello specifico l’esperienza giuridica medievale essa va dal 476 d.c., anno in cui cadde l’impero romano d’occidente al 1520.

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L’esperienza giuridica medievale è concepita qui come un continuum, contrariamente alla classica partizione dell’epoca medievale in alto e basso medioevo. La sottile distinzione è indicata con la divisione in due fasi: la prima età, la quale deve essere vista come officina della prassi e la seconda come laboratorio sapienziale; la prima età ha un volto agro forestale, è momento di colonizzazione e riconquista della terra, la seconda è tempo di città e commerci.

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Capitolo III

“La tipicità della nascente esperienza giuridica e i suoi strumenti interpretativi” (IV – XI sec.)

La tipicità dell’esperienza giuridica medievale e i suoi strumenti interpretativi

I secoli che vanno dal V al XI sono quelli deputati alla fondazione dell’esperienza giuridica medievale ed alla creazione di alcuni istituti giuridici di rilevanza tale da scavalcare il periodo iniziale di fondazione ed impregnare l’intero Medioevo. Tali istituti giuridici sono:

incompiutezza del potere politico; indifferenza del potere politico verso il diritto; autonomia del diritto rispetto al potere politico; pluralismo giuridico; fattualità e storicità del diritto;

accompagnate da 2 certezze fondamentali:

imperfezione del singolo e perfezione della comunità; diritto come ordine, ordine giuridico universale.

Questi atteggiamenti e certezze sono al centro non solo del momento di fondazione ma dell’intero medioevo. Atteggiamento specifico dell’alto medioevo è il naturalismo-primitivismo in dipendenza del vuoto di cultura giuridica. Si tratta di un convinto reicentrismo quasi a dimostrare che il primo medioevo ha forgiato durevolmente una coscienza giuridica e che questa coscienza è medievale senza limitazioni temporali, ma sarà un naturalismo rivissuto e reinterpretato in una trama sapienzale di altissima qualità speculativa. Il medioevo ha una sua compattezza, ma non è realtà immobile. L’esperienza giuridica, come ogni esperienza ha il suo momento formativo, la sua maturità, il suo declino. Le tappe sono soltanto 2: fondazione ed edificazione, momenti diversi nella realizzazione di un grande progetto unitario.

L’incompiutezza del potere politico e la sua relativa indifferenza verso il diritto. L’autonomia del diritto.

Il primo fatto di civiltà , il più incisivo, è rappresentato per lo storico del diritto dalla crisi e dal crollo dalle solida struttura statale romana, dal vuoto politico che a quella crisi e crollo è conseguito, dalle soluzioni politiche che a quel vuoto si sostituirono ma che né colmarono né vollero colmare.La tipicità del medioevo giuridico riposa innanzitutto su questo relativo vuoto, su quella che abbiamo qualificato come incompiutezza del potere politico medievale, intendendo per incompiutezza la carenza di ogni vocazione totalizzante del potere politico, la sua incapacità di porsi come fatto globale e assorbente di tutte le manifestazioni sociali, il suo realizzarsi nella vicenda storica medioevale, coprendo solo certe zone dei rapporti intersoggettivi e consentendo in altre e amplissime la possibilità di ingerenza di poteri concorrenti.In sostanza parlando in incompiutezza del potere politico si vuole indicare l’assoluta assenza del potere politico nella figura autoritativa dello Stato. A seguito del crollo dell’Impero Romano d’Occidente si realizza per il diritto medievale l’impossibilità di costituire nuovamente una realtà statuale. È innanzitutto importante sottolineare quale sia l’idea della figura dello Stato: esso doveva intendersi come una realtà autoritaria che si svolge su due fronti. Uno di carattere materiale, l’altro

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di carattere psicologico. Da un lato (carattere materiale) lo Stato doveva mostrare una forte volontà autoritaria in modo da porsi come realtà forte nei confronti dei sudditi.È proprio questa realtà statale che manca nel mondo medioevale, poiché si registra l’impossibilità della stessa di realizzare una dimensione unitaria del potere, una dimensione che possa assumere il carattere della globalità.Il medioevo politico ha la sua inaugurazione storica quando nel IV secolo inizia una profonda crisi dello Stato imperiale fino a Diocleziano. Si tratta di una crisi di effettività, di autorità e di credibilità dello Stato. Nel mondo post-diocleziano resta soltanto uno Stato crisalide, incapace di affermare la propria volontà, ma ancora più incapace di esprimere quella volontà unitaria costitutiva e intollerante di violazioni particolari, concorrenti che è tipica di ogni Stato,ossia resta un non- Stato, in altre parole lo Stato non c’è!! Lo Stato romano muore per iniziazione di un logoramento interno che è sia materiale che spirituale, per un vuoto di potere efficace e di un programma voluto.Quel vuoto non sarà che parzialmente colmato per tutto l’arco della vita storica del medioevo e quando col secolo XIV la vocazione a un potere politico compiuto allo Stato, che si avvertirà il fermento delle strutture politiche, quel momento sarà l’eclisse della civiltà politica medievale e l’inaugurazione dell’età nuova. Fra le varie organizzazione politiche che si contenderanno la giuda della società, nessuna si presenterà congiungendo in sé l’effettività del potere e la lucidità di un programma politico onnicomprensivo. Avremo le più diverse forme di regime signorie laiche, signorie ecclesiastiche, città libere, avremo esempi di tiranni muniti di tutta l’assolutezza di poteri umanamente pensabile od assetti oligarchici e democratici con determinati poteri di evidente origine patrizia, ma certamente non avremo mai la presenza di un organismo totalitario naturalmente teso a controllare, regolare, assorbire ogni rapporto intersoggettivo che si verifichi entro il suo definito oggetto territoriale. La civiltà medioevale non sentì l’esigenza di colmare il vuoto lasciato dal crollo dell’edificio statale romano la frantumazione dell’impero ha portato alla nascita di un incredibile particolarismo politico, economico giuridico. In questo scenario da un lato le nuove forze politiche e socialmente protagoniste del nuovo scenario politico non erano in grado di avviare un processo di ricostruzione statuale, dall’altro (carattere psicologico), la Chiesa Romana non poteva che sostenere il risorgere di un potere compiuto a favorire al massimo il particolarismo della società civile.Lo Stato e un certo modo di intendere il potere politico e i suoi compiti, è un programma che tende alla globalità, è la vocazione di fare coincidere l’oggetto del potere con la totalità dei rapporti sociali, è la vocazione a diventare un potere compiuto. È questo che manca all’organismo politico medioevale che è contrassegnato dalla sua incompiutezza, proprio sul piano della concezione del potere, della rarefazione dei suoi compiti, del mancato disinteresse per una larga zona del sociale.In questo contesto storico il diritto non è più monopolio del potere, ma espressione di realtà autonome (autonomia). Un carattere giuridico importante che caratterizza lo Stato è quello della Sovranità. Il mondo medioevale è fatto di ordinamenti la cui caratteristica è la relatività, si tratta di indipendenze relative in alcuni soggetti ma non in altri.

Il secondo istituto giuridico che assume rilevanza nel mondo medioevale è rappresentato dalla relativa indifferenza del potere politico per il diritto.Lo Stato moderno, ha sempre capito la rilevanza del diritto per il compimento dei suoi scopi totalitari e l’ha sempre collocato all’interno dei suoi programmi: se pure con manifestazioni differenti, ritroviamo uno stesso atteggiamento sia nello Stato romano, sia nello Stato liberale moderno dove il problema della produzione giuridica è sottratto ad enti diversi, riservato allo Stato stesso e risolto nell’unico canale obbligato della legge espressione della volontà esclusiva dello Stato.Diverso è l’atteggiamento del regime politico medievale che sembra ispirato a una relativa indifferenza per il giuridico. Il diritto medioevale, non è mai una espressione di una realtà che sia connessa alla realtà potestativa di un soggetto qualsiasi al potere. Il sovrano non ha mai manifestato

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la necessità di servirsi strumentalmente del diritto come oggetto necessario delle sue attenzioni, e strumento necessario al suo regime. L’attenzione del monarca, del signore, del comune medievale è rivolta prevalentemente a quella parte del giuridico che è naturalmente vincolata all’esercizio e alla conservazione del potere e che oggi identifichiamo nella nozione di diritto pubblico. Il diritto volgare è una realtà giuridica alternativa che corre parallela a quella ufficiale, che consta di istituti vecchi che si deformano e di istituti nuovi che si creano, con un libero attingimento dal grande serbatoio della vita quotidiana. La totale indifferenza del politico per il diritto, comporta un assoluta autonomia del diritto da questo, tanto che si può parlare di assoluta espressone della realtà sociale del mondi medioevale da parte del diritto, che senza essere condizionato da flussi di natura politica ha la possibilità concreta di esprimere la realtà sociale in tutte le sue determinazioni. L’autonomia va intesa come storicità autentica del diritto, capacità di interpretare il gioco delle linee propulsive presenti nella società, oppure come disincagliamento di forze specifiche e particolari. Nella sempre crescente impotenza del meccanismo statuale romano, si indebolisce di contro, tutto l’apparato costruttivo, e le forze prima contenute e represse riprendono valore. Dal IV° sec. in poi, gli storici individuarono una dimensione volgare del diritto; volgarità del diritto significa, extrastatualità, ricorso a forze alternative per colmare il vuoto lasciato dallo sfacelo politico. Il c.d. diritto volgare è una fonte alternativa, sono istituti vecchi che si deformano, e istituti nuovi che si creano con un grande attingimento al grande serbatoio della vita quotidiana.

Pluralismo del diritto medievale

Col fenomeno della volgarizzazione si è già varcato il confine della nuova esperienza. e si constata infatti il consolidamento della tolleranza da parte del regime politico verso altri processi di formazione del diritto, mentre l’esperienza giuridica riprende tutta la sua complessità.Complessità che sul piano socio culturale significa pluralità di valori e su un piano giuridico pluralità di tradizioni e di fonti di produzione all’interno di uno stesso ordinamento politico.Nel primo medioevo quando l’appartenenza ad una stirpe e il connesso mito del sangue rappresentavano valori indiscussi, il principio che circola non è la territorialità bensì la personalità del diritto, con il quale non si intende dire che ogni persona ha il suo diritto, ma più esattamente che ogni persona, all’interno dello stesso regime politico è portatrice di un diritto specifico e differenziato: il romano potrà utilizzare il proprio diritto allo stesso modo in cui il longobardo utilizzerà il proprio diritto. Nel secondo medioevo, medioevo (c.d. sapenziale), un’altra singolare convivenza ci segnalerà il marcato pluralismo di questa esperienza giuridica: nello stesso territorio avranno vigenza e applicazione sia i cd ius propria cioè le norme particolari consolidate in consuetudini o emanate localmente da monarchi e da città libere, sia lo ius comune, cioè il maestoso sistema giuridico universale elaborato sulla piattaforma romana e canonica da un ceto di giuristi. Il potere politico rispetta questa pluralità di tradizioni conviventi, scoprendo così l’atteggiamento generale di sostanziale indifferenza verso buona parte del giuridico. La produzione di questa è rimessa ad altre forze. I principi, i loro funzionari, i loro giudici contemplano questo pluralismo e gli danno credito col loro rispetto. La chiave interpretativa essenziale di tutto l’ordine giuridico medievale è che i detentori del potere costituiscono una fonte fra le molte chiamate alla edificazione di quell’ordine, senza dubbio non la sola e nemmeno la prevalente. Il problema delle fonti è risolto da una coralità di apporti che rispecchia fedelmente la coralità di forze di cui il diritto è specchio e forma compiuta.Di leggi cioè di atti autoritari generali e rigidi e destinati a tutti i sudditi o a una parte cospicua di essi, nemmeno il primo medioevo è scarso.

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I monarchi visigoti in Spagna e quelli longobardi in Italia costituiscono un regime stabile rispettivamente per l’intera penisola iberica e per buona parte dell’Italia centro settentrionale ( secoli VI-VIII), sono impegnati in una ripetuta attività legislativa.Ma a cosa servono queste leggi e qual è il loro contenuto? La più celebre e rilevante tra le normazioni della nostra penisola è il grosso Edictum Langobardorum elaborato da Rotari nel 643 con la assistenza e l’approvazione di notabili del Regno. L’attenzione prevalente del legislatore è rivolta al diritto penale e a quello di famigli costellati marginalmente da un ammasso di capitali sconnessi dedicati alle più disparate materie. Quella di Rotari è un’opera consolidativa di diverse consuetudini del popolo longobardo senza la pretesa di rinserrarvi la totalità dell’ordinamento, ma presupponendo al contrario che costumi e tradizioni emanati prevalentemente da fonti ben diverse emanate dal principe. Lo stesso discorso deve farsi per gli atti normativi dei monarchi franchi, i cd. Capitularia che appaiono numerosi a partire dalla fine del secolo VIII. Anche in essi l’opera del legislatore si concentra prevalentemente norme regolanti l’amministrazione dell’Imperium e dei regna e soprattutto i rapporti tra potere politico ed ecclesiastico.

Attualità e storici del diritto

Il terzo istituto giuridico di rilevanza nel diritto medioevale è la fattualità del diritto.La legge del principe si presenta come un canale minore per lo scorrimento dell’esperienza giuridica medioevale. Alla sua produzione contribuì in minima parte. Se validità significa rispondere a certi archetipi, se gli archetipi si sono dissolti col dissolversi dello Stato e della cultura precedenti, l’organizzazione giuridica dovrà riposare su altre fondazioni. Il fatto non diventerà diritto perché una volontà politica se ne appropria dopo aver constatato la sua coerenza a determinati valori per essa rilevanti. Il fatto è già diritto per un intrinseca forza nel momento in cui ha dimostrato la propria effettività, ossia la capacità trovata dentro di sé di incidere durevolmente sull’esperienza.Il diritto si colora per una sua decisa attualità, il che significa dire che non nasce dal fatto ma piuttosto che il fatto stesso ha qui una carica vitale da potersi proporre senza il concorso di interventi estranei ma alla sola condizione di dimostrarsi dotato di effettività, come fatto autenticamente normativo rilevando la innata capacità di essere fonte in senso formale. Il fatto è una entità della natura fisica e sociale che senza lasciare la propria qualità di fenomeno grezzo e primordiale è tuttavia già intrinsecamente diritto, ha in sé una potenzialità giuridica destinata a manifestarsi e a incidere sull’esperienza storica. Attualità del diritto vuol dire tentativo disperato di trovare saldezze al di là del convenzionale e dell’artificiale in un mondo semplice di fatti che l’operatore rispetta con assoluta umiltà. È un avvio all’insegna della discontinuità è nuova l’incandescenza dei fatti sociali ed economici ed è nuova la coscienza e il sentimento che si ha della natura cosmica. Con questi fatti nuovi con questa coscienza si misura la reale immagine del nuovo ordine.

E sua storicità

Per storicità si intende la fedele rappresentazione giuridica delle forze circolanti e operanti nella società, per cui il tessuto formale del diritto ne segue al contrario il corso mantenendosi in stretta aderenza ai bisogni e alle idealità via via emergenti nella vita associata.La storicità che può verificarsi solo nel momento in cui si dà rilevanza alla realtà sociale di carattere sociale, di carattere economico ed anche mediamente politico, realtà che riesce a condizionare il diritto che ne diviene totale espressione. In questa dimensione il diritto medioevale assume il carattere di vivacità e vitalità che lo rendono espressione del quotidiano e del particolare e dunque lo configura come dimensione assolutamente viva.

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Ne sono esempio la varietà dei contratti agrari che attraverso i loro contenuti esaltavano il richiamo alla vita quotidiana alle strutture concrete agli usi scritti nella terra.

Naturalismo e primitivismo nella fondazione della nuova esperienza ordinativa.

I secoli della fondazione medievale, dal V all’XI furono un epoca di cultura non circolante: in tale contesto possiamo constatare l’eccellenza gli studi che nascono e si sviluppano all’interno dei monasteri. Si tratta di centri chiusi. Si tratta dunque di una cultura fatta da pochi e per pochi.Il monastero, luogo d’elezione della dimensione culturale di questi secoli è per sua natura un’entità vocata alla introversione, rinserrata nel suo carattere di comunità separata e distinta, sensibile più a un ideale di comunicazione ed apertura metafisiche che sociali. Da un punto di vista teologico, filosofico e letterario si avverte e si esalta il contrasto fra uno scriptorium monasteriale e il vuoto che coinvolge la società nella sua globalità. Da un punto di vista giuridico, il vuoto culturale è totale, vi è carenza di intenti, di uomini, di scuole scientifiche e professionali, cioè scuole dove veniva insegnato un mestiere. La cultura giuridica nello specifico è pressoché assente. Alcuni storici amano fantasticare l’esistenza di scuole di diritto a Roma e Ravenna, continuatrici del messaggio scientifico antico.I secoli che vanno dal V al XI si presentano come officina della prassi, laboratorio operoso dove si modella il costume giuridico.Il vuoto di cultura giuridica di questi secoli è al pari dell’incompiutezza del potere politico, una circostanza di straordinario rilievo: senza condizionamenti culturali la prassi può lavorare alla costruzione con una straordinaria adesione ai fatti e alle strutture. Il diritto in questo vuoto riscopre la sua naturale vocazione a riposarsi sui dati strutturali, sui fenomeni nella loro naturalità e materialità, si tratterà dunque di una interpretazione del mondo fenomenico e sociale tendente a riprodurre fedelmente i dati della realtà esterna.L’effettività è la regola vincente di questa esperienza giuridica in formazione, perché l’effettività, nella sua assenza di riferimenti a una costruzione umana e alla sua gerarchia di valori artificiosi, fa capo ai fatti a quei fatti che trovano nella storia quotidiana la forza di staccarsi dagli altri, di durare di incidere perché l’effettività non ha bisogno di modelli da cui dipendere, quei modelli di cui la nascente realtà medievale è povera. Si parla dunque di naturalismo giuridico del primo medioevo per sottolineare l’incapacità del diritto di distaccarsi dai fatti.

In questo clima naturalistico che può ricevere maggiore comprensione il principio della personalità del diritto a spiegare l’affermarsi del principio concorrono, infatti, oltre a un sentimento orgogliosamente possessivo verso un patrimonio consuetudinario connesso alla vita storica di un ethnos anche precise influenze naturalistiche presenti soprattutto nella tradizione germanica: il diritto appare come patrimonio proprio specifico di un determinato ceppo etnico perché legato strettissimamente con i pretesi caratteri razziali differenziali di quel ceppo.Si è soliti inoltre far riferimento alla dicitura primitivismo protomedievale ad indicare quel particolare rapporto psicologico con la natura esterna che caratterizza l’uomo medievale: ossia quel rapporto intercorrente tra uomo e natura, un rapporto di proporzione tra il primo e il secondo, tale da configurare una forte ingerenza della natura sull’uomo, questi non è in grado di sovrastarle, dati della natura, né di alienarsi da questi o di superarli e per questo motivo ne è vittima, vittima di una natura incontrollabile, egli subisce la natura a tal punto da conformarvisi e immedesimarvisi, è un soggetto che non si limita a subire i dati dell’esperienza, ma è costituzionalmente incapaci di oggettivarsi di riflettere sulle cose distanziandosene. La natura è fonte primaria di vita in questo momento, ma è fonte anche di ataviche paure, che costringono l’uomo medioevale ad annullarsi in questa per ricevere protezione, e dunque a vivere come pertinenza della natura.Il rapporto uomo – natura si pone nel primo medioevo in modo singolare, e consci della crisi demografica provocata a sua volta dalla carestia.

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A ciò si aggiungono le incursioni e le guerre dal V e VI sec., e le epidemie ininterrotte della seconda metà del sec. V alla fine del VII sec. Tra queste ultime emergono la peste nera, le deportazioni di popolazioni rustiche al di la delle alpi, tali cause sono da mettere in relazione con l’aumento di territori incolti e con il ritorno di un tipo prevalente di agricoltura estensiva. Altissima è la percentuale delle terre non coltivate in rapporto alla sua superficie, invece, per quanto concerne i pochi territori coltivati, occorre segnalare un generale decadimento dell’agricoltura, ridimensionamento dell’attività allevatrice di bestie minute e pochi esigenti (es. il maiale), e con la istituzione del frumento con cereali minori, quali il miglio, la segale e il sorgo. È insomma un’economia agricola dominato dalla foresta. La foresta protomedievale, estesissima nell’Europa centro-settentrionale ma anche nelle plaghe mediterranee svolge un ruolo importante ospita tantissimi uomini che vivono in essa e grazie ad essa, al pari del campo coltivato è fonte primaria di vita, condizione di esistenza, rimedio contro la fame al pari più il raccolto è incerto e magro di un appezzamento di cereali. Ma la foresta non può non influenzare specialmente se la sua superficie è particolarmente estesa, l’organizzazione di quella regione per la quale rappresenta la fonte di sussistenza. L’ambiente protomedievale precarolingio (sec.V-VIII), è la cornice di una società che può essere qualificata come primitiva, nel paesaggio agrario prevalgono il bosco, il sodo la palude l’incolto, rudimentale l’agricoltura e con risultati insoddisfacenti sia per la quantità che per la qualità dei prodotti.

Il reicentrismo della nuova esperienza giuridica

Il medioevo nasce all’insegna di un marcato reicentrismo, da intendere come centralità della res, rilevanza che è affidata soprattutto ai fatti della vita della del sociale, e come tale deve essere intesa. Alla base del reicentrismo sta innanzitutto la considerazione della irrilevanza del singolo, della sua capacità ad erigersi correttamente come strumento del sociale, pertanto esso è da intendersi come pertinenza della terra, della cosa, ovvero inglobato nel gruppo intermedio e da questo assolutamente coadiuvato per la sua realizzazione della sua dimensione sociale.I gruppi intermedi ci si riferisce sono: la parrocchia, la cooperazione professionale, l’associazione politica, e così via, che fonderà prevalentemente l’edificio della società medioevale.La base stessa del diritto medioevale è pertanto consuetudinaria, vive sulle cose, e sulla reiterazione della stessa, sorretta dal convincimento in merito agli stessi soggetti agenti. La consuetudine è infatti la più oggettiva tra le fonti, nasca dal basso, ed è la voce stessa delle cose.Identificando e valorizzando gli usi, gli operatori protomedioevali, identificavano e valorizzando un messaggio scritto nelle cose, che sembravano emergere dalla natura stessa dei luoghi e con l’autorità grande e indiscussa della natura.

Fatti normativi fondamentali: terra, sangue, durata

Elementi fondamentali da considerare quanta poca rilevanza si comincia a dare, in questo periodo al singolo inteso come soggetto individuale sono essenzialmente tre: la terra, il sangue, e il tempo, i quali ci danno la misura di quanto sia divenuta fondante l’esperienza comunitaria, in cui è inserito il soggetto uomo.

La terra è da intendere come luogo privilegiato per lo sviluppo dell’uomo e per il suo stesso sostentamento, in quanto lo strumentalizza in vista di quel fine assorbente che è la produzione e la coltivazione. Essi non si affidano al singolo ma al gruppo familiare o sovra familiare e verticalmente alla catena generazionale di gruppi successivi perché soltanto il gruppo può avere buona riuscita nel tentativo di imporsi ad una realtà misteriosa.

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Riassunto del libro di Paolo Grossi – “L’ordine giuridico medioevale”

Il sangue è da intendersi come fattore che crea il legame tra l’uomo ed una particolare cultura sintomo della società nella quale vive creando così un insieme di tradizioni che non possono essere intese al di fuori dello stesso assetto societario.

Il tempo viene inteso come durata. Tre fenomeni colmi di normatività, può esprimersi solo nel continuum delle generazioni che annulla il singolo come punto di linea, può creare, modificare, o estinguere.

Terra, sangue durata sottolineano la irrilevanza del singolo, la sua imperfezione rispetto alla perfezione della comunità. Tre fenomeni colmi di normatività, tre forze primordiali che hanno il medesimo significato antropologico minimizzano il contributo dell’individuo, del soggetto singolo elevando a protagonista dell’esperienza la natura delle cose e il gruppo. La terra è una istituzione che attrae i singoli, li condizione, li strumentalizza al fine della produzione. Coltivazione e produzione non si affidano al singolo, ma al gruppo, familiare o sovrafamiliare, e verticalmente alla catena generazionale dei gruppi successivi perchè soltanto il gruppo può avere una buona riuscita nel tentativo di imporsi ad una realtà misteriosa e riottosa.Il sangue che nel singolo appare come liquido rosso acquista la funzione di segno e carattere se collegato al gruppo alla famiglia. Il tempo che come durata può esprimersi solo nel continuum delle generazioni che annulla il singolo, il tempo come memoria trova nella collettività la sua nicchia conveniente. terra, sangue durata sottolineano la irrilevanza del singolo, la sua imperfezione rispetto alla perfezione della comunità.

Certezze fondamentali: imperfezione del singolo e perfezione della comunità

Il mondo giuridico medioevale, non ha alcuna fiducia nel soggetto singolo, lo ritiene fioriero di imperfezione e di disuguaglianza, pertanto compreso nella realtà comunitaria che solo ne può esprimere e realizzare correttamente il miglioramento morale e sostanziale. Sono infatti di questo avviso teologi, e filosofi di una certa rilevanza come ad esempio:

S. AGOSTINO , il quale parla della necessità di vedere il soggetto inserito in una comunità, in modo tale da riuscire a raggiungere una dimensione ordinativa, e così da realizzare la perfezione del creato.

UGO GROZIO , afferma ugualmente la necessità di valutare l’inserimento del singolo all’interno di una comunità specifica, in modo tale che attraversando questa posa realizzarsi l’effusione della grazia divina, che è rivolta sia al singolo che al gruppo.

S. TOMMASO , il quale afferma la necessità di valutare l’inserimento del singolo all’interno del gruppo, che solo può porsi come realtà ordinante e perfetta, all’interno della dimensione del singolo, che è assolutamente imperfetta.

Alla luce di tutte queste determinazioni dottrinali, è facile pensare al singolo come necessariamente inserite all’interno di una determinata comunità. Una dimensione perfezionativa, ed intesa come tale, rispetto all’assoluta perfezione del singolo.

Il diritto come ordine giuridico

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Riassunto del libro di Paolo Grossi – “L’ordine giuridico medioevale”

Eppure sussiste un’ulteriore certezza giuridica da considerare, quella che vuole il diritto inteso come ordine universale. Il diritto inteso come ordine è una determinazione tipica del diritto medioevale, il quale non ritiene possibile pensare il diritto come alluvione di fatti malamente accostati l’uno sull’altro, ma deve considerare gli stessi come perfettamente capaci di trovare una propria collocazione precisa, una propria dimensione ordinativa.Alla luce di tutto questo, l’ordine è da intendersi come un insieme di elementi e strutture in grado di conferire omogeneità ad un coacervo di situazioni eterogenee.L’ordine di cui si parla è sicuramente di natura universale, poiché è capace di ordinare l’intera dimensione del sociale, ma allo stesso tempo presenta anche la necessità di divenire in tanti “ordines” particolari, espressione delle diverse dimensioni sociali in cui si organizzano gli uomini e li caratterizzano. Pertanto non si può disconoscere la rilevanza che viene data alla comunità ed agli uomini in quanto inseriti nelle comunità, unica realtà dove sia possibile riconoscerli e a realizzare le loro esigenze. In questo modo va a rilevarsi la stretta connessione tra due esigenze fondamentali esaminate, e dunque, tra la rilevanza attribuita alla comunità, ed il suolo nel determinare la dimensione ordinativa della società.

Riassunto CAP.IV°: “Le figure dell’esperienza”

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Riassunto del libro di Paolo Grossi – “L’ordine giuridico medioevale”

La consuetudine come costituzione

La dimensione giuridica della società medioevale è tutta impregnata di fattualità, dunque di aderenza ai fatti del reale di cui è chiara espressione. Da queste premesse è impossibile non pensare che la fonte primaria del diritto medievale sia assolutamente la consuetudine. La base strutturale da cui prende corpo l'insieme dei fatti concreti che sono fondativi della consuetudine, ossia i "mores" sono parte dell’ordine giuridico, costituiscono l'ordine giuridico ed hanno essi stessi la capacità di divenire e fondare l'ordine. Ma la dimensione più adeguata per comprendere la portata della consuetudine è sicuramente quella che attiene alla sua connessione simbiotica con la lex: la lex non è altro che la certificazione concreta della consuetudine, la sua capacità di normativizzarsi.In questo rapporto tra la consuetudine e la legge emerge la natura della consuetudine, sempre pronta a trasformarsi in una norma concreta; nonché quella della legge, sempre disponibile ad elasticizzarsi per contenere ogni determinazione che l'uso del tempo vuole sia inserita nella legge.E' chiaro che, predisposte tali premesse la consuetudine vada ad essere intesa come realizzante il momento fondativi di tutto il diritto medievale, e dunque viene ad essere percepita come una vera e propria "costituzione", poiché dalla stessa, quale unica e vera fonte lei diritto può unicamente pensarsi di dare vita alla realtà giuridica medievale. Questa stessa condizione la dimostra d'altra parte lo stesso ruolo che nella realtà giuridica medievale viene occupato dal principe il quale si preoccupa soprattutto di pronunciare il diritto, esternarlo, e dunque di concretizzarlo rispetto ad una dimensione primaria, che è e non può non essere di natura consuetudinaria.Una simile coscienza, ha la sua manifestazione esasperata nella voce dei monarchi carolingi, i capi di un’entità politica composita perché mosaico di etnie diverse e di diversi diritti.Funzione primaria del re carolingio è di garantire ad ogni popolo la libertà fondamentale di fruire della propria lex, e di mantenere un atteggiamento di pieno rispetto per le varie leges.I suoi capitolari, norma solitaria del monarca, non avranno la forza di per sé di incidere sul patrimonio costituzionale delle leges, a meno che non divengano espressione di un consesus omnium.

Principe, soggetti, cose nelle spire della consuetudine

L’ordine giuridico medioevale si baserà per tutto l’alto medioevo sulla consuetudine, intesa come fondamento costituzionale della società. Il paesaggio giuridico che i secoli protomediaoevali ci disegnano innanzi, vede al centro il principe, il cui compito è quello di governare secondo giustizia ed equità, ossia rispettando l’ordinato scorrimento della vita del diritto che si svolge in sostanziale autonomia con il potere politico, ma a d un livello diverso da quello del politico, per buona parte ad esso irrilevante e da esso indisponibile. Egli deve essere equo, giusto in corrispondenza alla natura delle cose, egli deve essere lettore rispettoso della grande realtà naturale, egli non crea diritto, ma lo dice. Si delinea in tal modo la sua precipua funzione di iurisdictio: di interprete di una dimensione preesistente e sovraordinata e che individua come prevalentemente interpretativa la sua potestà sul piano giuridico. Questo patrimonio giuridico ha il privilegio di nascere dal basso. Qui il diritto è assai più ordinamento che autorità, non è violenza sulle cose bensì la manifestazione più alta delle cose a strutturarsi in ordine. La giuridicità è una dimensione interna alle cose. È scritta nelle cose. L’equità è intesa (e sarà intesa ancor di più nel momento sapienziale del diritto) come il legame inscindibile con la natura. Il contenuto naturalistico dell’equità, che sia davvero autentica, il suo essere scritta nei fatti e non nelle volontà degli uomini e nemmeno dei principi. Il principe equo appare allora come colui che non crea il diritto ma lo dice (ius – dict), ed affiora così la nozione basilare di iuris dictio, basilare in quanto coglie il principe quale interprete di una

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Riassunto del libro di Paolo Grossi – “L’ordine giuridico medioevale”

dimensione preesistente e sovraordinata e che individua come prevalentemente interpretativa la sua potestà sul piano giuridico.Questo patrimonio giuridico ha il privilegio di nascere dal basso. Il reicentrismo medievale non può non generare quella mentalità diffusa che in altra occasione abbiamo chiamato attrazione del reale: la cosa subordina a sé , alle sue regole tutte le esistenze che le gravitano attorno, attrae a sé ogni situazione per via di un intensissimo magnetismo giuridico. Appare pertanto evidente che il diritto non possa non avere dimensione consuetudinaria, perché la consuetudine è per sua natura una normativa della cosa proviene cioè dalla cosa, fatto naturale tra i fatti naturali, è del reale che alligna, può dal reale proiettarsi in alto e diventare norma di una comunità umana, ma la sua origine resta fattuale, particolare, attiene alle strutture nasce dal basso.Il particolarismo giuridico del primo medioevo, con l’estrema frammentazione anche spaziale del diritto si giustifica in questo incontrollato rigoglio consuetudinario. Senza controlli dall’alto, ogni cosa tende ad esprimere la sua normativa e a differenziarsi e a particolarizzarsi.L’attrazione del reale coinvolge in pieno il diritto, si tratta di un magnetismo così forte da attrarre e condizionare tutti i soggetti che vengono a trovarsi nel raggio della sua orbita, incidendo massicciamente sul loro status. Un esempio è quello del mansus, unità agraria che non indica solo la terra dove si risiede stabilmente ma qualifica anche i soggetti, si tratta cioè di una forza irresistibile che traspone il fatto normativo “terra” allo status dei soggetti.Una conseguenza macroscopica è data dal fatto che in un mansus servilis in futuro potrà lavorare un ingenuus, un libero , ma le obbligazioni gravanti su di lui rimarranno comunque quelle delle generazioni di servi che occuparono originariamente il mansus.L’attrazione del reale e la identificazione della consuetudine come voce del reale porterà a dei trapassi semantici del termine usus e consuetudo significativi per lo storico: verranno a designare il cumulo delle prestazioni o i carichi di imposte dovuti dai residenti di una certa terra da lungo tempo e verranno a designare le libertà conquistate faticosamente ai signori dai popolani di una certa terra ormai consuetudinariamente acquisite e fungenti da limiti ai poteri del signore. Non si tratta di diritti essenziali della persona, si tratta del riconoscimento che in una certa terra si è venuto a maturare un certo uso favorevole, e il riconoscimento va agli homines terrae quasi per fare capire che quel che conta è ciò che è avvenuto durevolmente in una terra e che gli uomini residenti ne beneficiano in maniera del tutto riflessa.

Situazioni reali

Queste nuove conformazioni ideologiche del diritto sono fondamentali poiché incidono, anche pesantemente sulle concezioni giuridiche più disparate; un esempio lampante può essere individuato nella nuova dottrina riguardante le situazioni reali. Siamo ad una concezione che prende le mosse dalle precedenti determinazioni del diritto romano classico, il quale si costruiva individualisticamente sulla volontà del soggetto agente. Ciò è dimostrato dalla stessa tripartizione che i romano hanno adottato come schematizzazione del mondo reale: dominium, possessio, detentivo.Dove dominium, è sovranità individuale, è volontà potestativa esclusiva, cui lo stato dà il massimo rilievo, rispettando e tutelando indipendenza e libertà d’azione del dominus. Quest’ultimo è inteso come colui che esercita e mostra di possedere una forte volontà autoritaria sulla cosa, e dunque occupa una posizione che lo Stato non può fare a meno di tutelare. Allo stesso modo veniva data rilevanza alla 'possessio", che per quanto realizzante una semplice connessione del soggetto alla cosa, era però sorretta da una forte volontà appropriativa della cosa stessa. La possessio è una relazione di fatto tra soggetto e cosa, che trova la propria tipicità nella psicologia appropriativi che colora quel rapporto.

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La posizione che non veniva in alcun modo valutata era quella della "detentatio", poiché fondata esclusivamente su di un rapporto di fatto tra il soggetto e la cosa, che è pura familiarità, semplice uso, e che pertanto non comporta alcuna volontà autoritaria. Differente è la situazione presente nel diritto medievale, dove vengono in rilievo proprio tutte queste situazioni che fanno capo alla semplice detenzione della cosa. Essenzialmente ciò si verifica perché si registra una incapacità degli uomini medievali di concepire una qualsiasi realtà autoritativa, dunque di una certa rilevanza, ed invece si conferiva onore e gloria a tutte quelle situazioni para-proprietarie, che facevano capo alla semplice detenzione.La detenzione in sé considerata era assoluta espressione della vitalità dei rapporti tra uomo e natura, ed era sintomo di quanto la natura fosse condizionante per l'uomo. A lungo andare la tutela conferitagli arrivava a modificare la natura giuridica della detenzione, facendola assurgere a realtà tipicamente proprietaria, anche se di proprietà nel primo Medioevo è alquanto difficile parlare. Per quanto concerne il dominium, esso non consiste la principale figura protomedioevale, dove si incentra tutto il sistema. Il baricentro fondamentale di quest’ultimo è costituito da forme diverse, della proprietà, come ad esempio la GEWERE O VESTITURA. Non si smentisce il dominium dell’antico titolare catastale ma lo si devitalizza per dissanguamento lasciando che venga espropriato nei poteri imprenditoriali da chi proprietario non è mai gestore dell’impresa. la rivoluzione culturale c’è ma è nascosta, frutto non di un movimento o di un programma ma di un officina plurisecolare che sta operando sull’unico terreno della mentalità. È una mentalità nuova.

Assetti negoziali inter vivos

E' da rilevare inoltre che non sono soltanto le situazioni reali a risentire delle modificazioni dottrinali del diritto medievale; a fare i conti con una ideologia giuridica totalmente diversa dalla precedente di stampo romano classico sono anche i negozi inter vivos. La prima forma contrattuale che viene a cadere è quella dei contratti consensuali, poiché fonda la propria validità su un elemento quale il consenso che offre poche garanzie di stabilità per i contraenti: è per questo motivo che in questo momento si ricorre largamente all'utilizzo dei contratti di permuta, fondati sullo scambio di cosa con cosa; e dalla tendenza della compravendita a trasformarsi in un contratto reale ed ad avvicinarsi allo schema della permuta con l’unica differenza che nella prima la cosa commutata consiste in una somma di denaro questa comune realtà porta fonderli nella comune coscienza come è avvenuto in tardi glossatori del X e dell’XI secolo che sembrano sintetizzare il senso di tutto uno sviluppo storico. In buona sostanza la linea tendenziale che coinvolge tutta la pratica negoziale è quella dell’atipicità: il mondo giuridico trova i suoi strumenti congeniali di azione non in schemi rigidi esemplari su modelli precedenti ma su stampi duttili e mutevoli. Ma il diritto medievale sarà molto più attratto dalle convenzioni atipiche, in particolar modo dalla convenientia: la stessa vale pattuizione, vale generica convenzione, e si presenta come uno strumento normativo fortemente duttile, in grado di assumere ogni determinazione che gli usi del luogo e del tempo necessitano di vedere inseriti in patti di natura giuridica; è la sua forma a rilevare per le determinazioni del diritto e non certamente i suoi contenuti, che in un certo senso non possono che essere vincolati dalle determinazioni consuetudinarie. La convenienza non è una figura negoziale tipica, in cui l’elemento intenzionale si pone come fonte dell’efficacia obbligatoria del contratto, bensì un contenitore ampio ed elastico, disponibile ad inglobare le strutture obiettive più diverse ed in cui il consenso delle parti non assume una funzione determinante, proprio perché le convenientie traevano i loro contenuti da ciò che gli usi reclamavano e a cui le parti si rifacevano. La volontà delle parti non è completamente libera, ma è condizionata dall’invadenza degli usi. Accanto dunque agli schemi negoziali tradizionali (compravendita, permuta, donazione), si pone la “zona franca” delle convenientie.

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Contratti agrari

Una disciplina dove risulta assolutamente fondamentale capire come si sviluppa la nuova materia contrattuale è quella dei contratti agrari, soprattutto perché non si riscontra un precedente diritto agrario classico. Gli antichi romani per regolare tali assetti ricorrevano largamente alla figura contrattuale della "locazione di cose", strumento che garantiva il minimo delle possibilità per il conduttore, e manteneva intatta la posizione del locatore (quindi ancora una volta si favoriva la proprietà). Il diritto medievale non poteva che dissentire ad una simile pratichiamo da ricorrere in materia a strumenti di natura contrattuale atipica: si parla in questo frangente del libellum, strumento attraverso il quale si stabilisce la forma giuridica che il contratto deve possedere; e la precaria sottolineare l'atteggiamento di preghiera che il coltivatore assume nel richiedere la terra al padrone. Esiste un altro tipo di contratto dalla natura atipica, e dalla fisionomia del tutto peculiare: si parla della partionaria, attraverso la quale si conferisce al coltivatore che si è assunto l'onere di trasformare da erbacea in arborea una coltura, al termine della lunga durata contrattuale una parte del terreno, che verrà così distinto in una parte che rimarrà al concedente, ed in una nuova parte nelle mani di un nuovo padrone, il concessionario. Nessun accenno ad una causa, ma solo alla forma del contratto; la nuova mentalità percepiva con chiarezza che il problema delle concessioni fondiarie non poteva non avere non avere un fondamento nel tessuto consuetudinario. Alcune grandi linee tendenziali, la mentalità fissava come costanti l’obbligo del miglioramento, la lunga durata, l’efficacia reale. Libello, precaria, trovano negli usi, il loro fondamento, la loro legittimazione sociale e giuridica.

Capitolo V

“La presenza giuridica della Chiesa”15

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Una scelta per il diritto: La formazione del diritto canonico

Nel primo medioevo la presenza della chiesa nella società è molto forte soprattutto perché si presenta come una realtà unitaria in un mondo frammentato da mille particolarità.La sua presenza nel costume sociale è imponente, e poiché il diritto ne diviene assoluta espressione, risulta altrettanto evidente un’assoluta influenza della Chiesa nel tessuto giuridico.In realtà l’aspetto che qui si vuole indagare è quello che fa capo al come, quando e perché, nasce un autonomo diritto, che rappresenta lo strumento normativo tipico della Chiesa. Gli storici amano citare un passo famoso di Tertulliano secondo il quale la comunità dei cristiani è un corpus cioè una realtà organica unitaria grazie a tre elementi: la credenza nella stessa fede, la comune speranza di salvezza, l’unità disciplinare. Si avverte dunque l’esigenza di trasformare la comunione dei fedeli in una realtà unitaria, giuridicamente unitaria . Come lo stesso Tertulliano fa presente in molte sue opere, la Chiesa cattolica vive con molta consapevolezza la sua carica sia politica che giuridica, oltre che tipicamente religiosa, assumendo quale suo status una posizione di autonomia nei confronti dello status di diritto civile. La realtà cui fa capo la Chiesa, è una realtà che vive ad un livello diverso da quello dello Stato, che dunque si sviluppa in piena autonomia e che continua la sua attività parallelamente a quella dello Stato stesso. Per questo motivo la Chiesa percepisce se stessa, come un ordinamento autonomo del tutto originario, in quanto la sua legittimazione politica non le proviene dallo Stato della derivazione, ma direttamente dal Cristo, quale supremo legislatore. La società, ha fisiologicamente bisogno per vivere di ordinarsi, e ordinarsi significa emersione dal corpo sociale dalla dimensione della giuridicità. Se per ideologia religiosa cattolica, è nel sociale che si gioca il “sales aeter animarum”; il diritto compenetrato nel sociale, si colloca naturalmente in un orizzonte salvifico.Tanta consapevolezza giuridica, che induce la Chiesa a fare sua la considerazione della sua piena legittimità ad emanare autonomamente delle leggi, le proviene dalla tradizione romanistica, che le ha trasmesso profondo rispetto per il diritto, e la consapevolezza di quanto sia importante per lo svolgimento di tutte le finalità che la Chiesa voglia perseguire. Durante il primo millennio l’edificazione del diritto canonico, fa speculare delle stesse difficoltà della vita storica della Chiesa, dominata fondamentalmente da 2 preoccupazioni fondamentali:

all’interno, la minaccia di continue emersioni ereticali e perciò di lacerazioni esiziali del tessuto della comunità ecclesiale;

all’esterno, la minaccia di invadenze, talora pesantissime, da parte delle potestà laiche, in particolar modo quando si mascheravano sotto l’apparenza di protezione e difesa.In questo periodo di assestamento, il ruolo protagonistico, prima ancora che ai pontefici, è assegnato ai concili ecumenici e provinciali. In questo periodo, il teologo e il giuridico, si mescolano con una netta prevalenza del primo sul secondo con aspetti pubblicistici.

Si dovrà attendere il XII sec per vedere profilarsi una riflessione canonistica in tutta la sua autonomia di analisi giuridica e un diritto canonico che accanto ai grandi temi pubblicistici scende nel sociale e si preoccupa di istituti della vita quotidiana.

Originarietà e originalità del diritto canonico, l’immobilità del diritto divino e l’elasticità del diritto umano

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l’originalità e la peculiarità del diritto canonico sembrano essere testimoniate magistralmente in un libello risalente al XI sec. Si tratta di un trattato metodologico del canonista francese Ivo, vescovo di Chartres. Immerso totalmente nella lotta per le investiture, Ivo fa il suo il rigorismo di Gregorio VII al fine di fare ordine nello smisurato e farraginoso arsenale teologico giuridico accumulato nel millennio separando i testi apocrifi da quelli autentici, un tentativo volto ad armonizzare le discordantiae cioè le antinomie che la vita della società ecclesiale aveva accumulato. L’opera di Ivo Chatres si preoccupa di ripercorrere il cammino del diritto della Chiesa dalla nascita di Cristo ai concili. Si preoccupa inoltre di possibili errori e fraintendimenti del lettore ed intende fornire al lettore una guida per la corretta interpretazione di tutto il materiale. Solo così il lettore riuscirà a recuperare la sostanziale unità del diritto canonico. Ivo raccoglie meglio di ogni altro il messaggio divino corale,e il diritto canonico appare a Ivo quello che realmente è:uno strumento creato per l’homo viator, per l’uomo pellegrino sulla terra che procede con fatica sotto il fardello delle proprie fragilità. dunque la scelta per il diritto e la sua funzione strumentale poggiano su una analisi antropologica pastorale. Deve inoltre notarsi che se il diritto deve servire a questa creatura fragile, peccatrice, vittima delle circostanze più varie non può essere concepito come regola uguale per tutti.L’ uguaglianza giuridica dei moderni è eguaglianza dei soggetti concretamente disuguali, appare alla Chiesa come una mostruosità. Nei tribunali canonici di sempre sarebbe inconcepibile la scritta la legge è uguale per tutti, perché la legge canonica non può essere uguale per tutti, se tutti non sono concretamente uguali, ma essa deve tenere conto delle fragilità umane che ha di fronte, deve ordinarle adeguatamente sacrificando la logicità, la sistematicità e l’unitarietà formale, in una sola parola deve elasticizzarsi. Da qui nascono le discordantie, interpretabili come rifiuto di ogni rigorismo formalistico, esse sono dunque il naturale atteggiarsi di un diritto che per sua indole e natura è plasticissimo perché umanissimo.L’ordinamento giuridico medievale appare articolato in due livelli distinti: il primo, superiore, contraddistinto da una immutabilità assoluta, universale e perpetua, è un patrimonio intoccabile, resistente ad ogni divenire storico, il secondo, inferiore è plasticissimo e mobilissimo che malamente si presta ad essere tradotto in norme rigide e astratte.Il nesso fra diritto canonico e salvezza eterna è indefettibile, altrimenti la giuridicità nella Chiesa è aberrazione. Il diritto canonico appare articolato in 2 livelli distinti: il primo superiore contraddistinto da una immutabilità assoluta, universale e perpetua, è un patrimonio intoccabile persino dal Pontefice romano a da un concilio ecumenico resistente a ogni divenire storico.Il secondo e inferiore plasticissimo e mobilissimo. E’ la dicotomia fondamentale che Ivo raccoglie dalle fonti precedenti tra ius divinum e ius humanum, entrambi tesi alla salvezza eterna dei fedeli, il primo in relazione alla necessità, rilevato dalla generosità di Dio, composto da poche regole essenziali costituzionali (comandamenti) il secondo di utilità, escogitato dallo zelo pastorale, composto da un complesso di regole accumulatesi nella vita storica della chiesa dietro le cure pastorali della sacra gerarchia per agevolare ai fedele la strada della salvezza. Senza dubbio quest’ultimo è la più grande parte del diritto canonico ed è un materiale giuridico straordinariamente elastico.

Capitolo VI

“La maturità di un’esperienza giuridica e le sue tipicità espressive”17

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Tra XI e XII secolo: continuità e maturità dei tempi

Alla fine dell’XI secolo la situazione economica e sociale del Medioevo comincia a mutare fisionomia, realizzandosi una forte trasformazione in senso più moderno: ormai i campi sono tutti ridotti all'agricoltura, non esistono più realtà primordiali come le foreste; la popolazione è aumentata vertiginosamente; la vita si è spostata dalle campagne alle città.Questo mutamento ha comportato altresì la nascita di commerci e traffici economici, con una ricca circolazione della moneta, oltre alla nascita di un nuovo soggetto, votato ai viaggi, ai trasferimenti, agli scambi commerciali e culturali, ossia il mercante professionista, il quale si occupa si scambiare sui mercati, le merci presenti in eccesso, non più attraverso la permuta (come avveniva nei villaggi rudimentali protomedioevali), ma ponendosi come intermediario negli scambi. Anche l'ambiente culturale cambia fisionomia, realizzandosi la nascita delle scuole dialogica che abbandona il chiuso dei monasteri ed assurge alla realtà cittadina realizzando la crescita dì una dimensione anche dottrinale del diritto. Si ricordino a tal proposito, la scuola di Charter e il convento di S. Vittore. Da quanto detto, dunque, è evidente un vero e proprio balzo di qualità tra il primo e il secondo medioevo, che si concretizza in assetti sociali ed economici totalmente differenti, pur nel quadro di un obiettivo unitario da realizzare: la creazione di un un’unica esperienza giuridica medioevale. Ma il mutamento non si limita solo alla trasformazione sotto un profilo economico – sociale, ma anche spirituale, a cominciare dalla teologia (conoscenza delle cose divine) la quale i interroga sui grandi problemi dell’uomo e dei suoi rapporti con Dio e con la società.

I segni della continuità: il princeps – iudex e la produzione del diritto. Il potere politico come iurisdictio.

Eppure, nel passaggio evidente dal primo al secondo Medioevo esistono molti aspetti, specie del settore giuridico che ancora conservano una valenza di continuità tra il primo ed il secondo momento: tra questi sicuramente sono da citare il ruolo del principe e quello della legge diritto medievale. Riguardo al ruolo del principe, permane la figura del princeps – iudex.Egli continua a conservare una posizione marginale nell'ambito dei poteri giuridici della società medioevale; l’unico ruolo, che lo stesso riesce a conservare è quello relativo all'esercizio del potere di iurisdicito . Esso consiste in senso stretto, nella funzione di giudicare propria del giudice ordinario, ma soprattutto in qualcosa di più alto e complesso, e cioè nel potere di colui (persona fisica o giuridica), che ha la sua posizione di autonomia rispetto agli altri investiti, e di superiorità rispetto ai sudditi. Tale facoltà consente al principe di esternare il diritto, di concretizzarlo in forme giuridiche, attingendolo dalla realtà dei fatti concreti di cui il diritto è espressione.Il concetto di iurisdictio è qualcosa di estraneo alla produzione e creazione del diritto, si tratta di iuris dicere, di dire il diritto, ciò significa presupporlo già creato e formato, significa esplicitarlo, renderlo manifesto, ma non crearlo. L’estrema rarità e quindi la quasi irrilevanza degli interventi del legislativi, da parte dei principi nelle realtà monarchiche si vanno sempre più coagulando nell’area mediterranea. Si pensi ad esempio che in Portogallo la legge generale del principe è solo sporadica e si intensifica solo con Alfonso III. Pertanto il ruolo del principe è molto ridotto, quale conseguenza della sua indifferenza nei confronti del diritto, e si può sintetizzare nella seguente serie di atti da realizzare: cogliere i segni giuridici presenti nella realtà delle cose; una volta compresi ridurli in precetti; far sì che questi precetti vengano rispettati dai sudditi. Si pensi alla penisola italiana e alla struttura del Regno delle due Sicilie, dove nella prima metà del 1200, dove il principe promulga la liber constitutum regni.

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Il principe Federico II che è re del Regno delle due Sicilie, la cui azione è tutta tesa alla creazione di un soggetto politico forte autosufficiente. Tuttavia se esaminiamo unilateralmente il liber constitutum regni esso ci rivela le sue ambiguità e le sue contraddizioni a causa del suo carattere disorganico, soprattutto per ciò che concerne l’aspetto della vita giuridica quotidiana e a causa dei suoi interventi frammentari e della sua ambivalente ideologia politica. L’imperatore infatti sostiene di essere il grande giustiziere, colui che sottomette gli altri alla sua volontà.

I segni della continuità: la lex come rivelazione di un ordine giuridico preesistente. La consapevolezza della filosofia politica.

Per ciò che attiene alla funzione della lex (essa si tipicizza come atto d’imperio, cioè come manifestazione di volontà dell’investito del massimo potere politico; per cui ciò che conta è l’organo che la produce, perché è soprattutto quest’ultimo che conferisce ad una certa regola la qualità di legge); la stessa è ancora totalmente connessa, ai fatti della società di cui il diritto è espressione. Nel diritto medievale non è rilevante quale forma giuridica una norma assuma, ma quali siano i contenuti che essa esprime ed in base ai quale assurge alla categoria della legge; in particolare la legge, per essere qualificata tale non può essere espressione di qualsiasi contenuto giuridico, ma deve basarsi strettamente sulle determinazioni che emergono dalla natura delle cose, di cui è primaria espressione. Possono produrre leges, una pluralità di soggetti politici: il popolus (la pone in quanto legittimato a farlo e la obbedisce), la plebes, il senatus, il princeps (le conferisce l’autorità della sua sanzione in caso di violazione), la civitas, ed ogni altra comunità dotata di autonomia; si parlerà di lex scripta e non scripta relativizzando ulteriormente la nozione. I suoi redattori però non possono agire a loro piacimento, ma devono attingere a quel serbatoio sottostante e preesistente che è l’ordine giuridico, a un complesso di regole razionali conformi, congeniali alla natura, alla volontà di Iddio , unico e vero creatore di diritto, unico autentico legislatore. La nozione di legge come ordine, è un idea risalente nel tempo di Aristotele, Cicerone e ripresa da S.Agostino ossessionato dall’idea di un Dio ordinatore, di un cosmo ordinatissimo. L’ideario medievale è basato su una concezione del diritto come ordine, come piattaforma stabile della società. Isidoro, nella sua teoria delle leges, afferma che l’ordine giuridico è a 2 livelli. concentrici: quello divino e quello del diritto umano cui corrispondono la lex divina e la lex humana. La lex humana è l’espressione di una profonda platea di costumi, può essere scritta o non scritta, si può presentare come consuetudo o come costitutio, ma la sua qualità resta unitaria e non è incisa da questa diversità di manifestazione. La sostanza indefettibile della lex humana e la sua ragionevolezza, l’assumere il proprio contenuto da un insieme di regole oggettivamente scritte nelle natura delle cose, la lex non può che essere giusta, coerente alla natura e alla consuetudine della comunità, congeniale ai luoghi e ai tempi diversi. L ’idea madre di lex non è mera volontà o atto d’imperio, ma lettura delle regole ragionevoli scritte nella natura delle cose non lascerà più la filosofia politica del medioevo sapienziale, poco dopo Graziano, Giovanni di Salisbury e San Tommaso la qualificherà aequitatis interpres aequitas, è quel complesso ordinato e armonico di principi regole e istituti che al di là delle forme giuridiche si può rinvenire nelle stesse cose.Nella sua opera (De Legibus), S.Tommaso si preoccupa di sottolineare la necessaria dicotomia tra la caratteristica volontaria della legge, e quella più tipicamente razionale, fondata sui fatti.Secondo San Tommaso una qualsiasi legge, per essere classificata tale ha la necessità di essere espressa come principio razionale, poiché qualora fondasse esclusivamente sulla volontà del soggetto singolo la stessa diverrebbe assolutamente illegittima, dimostrazione di tale tesi basta considerare la caratteristica della legge divina, che fin quando rimane esclusiva espressione della grandezza divina allora si esprime come pura volontà; ma che non appena discende a regolare il creato. Allora assume immediatamente una base di razionalità e di fattualità. Sant’Alberto parla di legge come realtà soggettivamente complessa cui concorrono più soggetti: un soggetto

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determinante, il populus, lo scienziato giurista che dà alla lex forma tecnica e contenuti, il principe che è chiamato a conferire la sanzione della sua autorità.

I segni della continuità: la lex come rivelazione di un ordine giuridico preesistente. La consapevolezza della scienza giuridica.

La lex non è una volontà legata al potere politico, ma una regola precettiva che trova nella natura delle cose la sua fonte e la sua legittimazione, dalla natura deve essere tratta e ridotta in precetto formale. Alberico da Rosciate definisce la lex humana interpretes aequitatis, la lex non è dunque creazione, ma soltanto rivelazione, i suoi contenuti preesistono al legislatore e consistono in quel complesso ordinato e armonico di fatti, principi, regole, che Alberico chiama aequitas che è una dimensione della stessa natura delle cose la scienza giuridica è unanime nel cogliere la funzione più propria e delicata del principe in questa attività traduttiva: tradurre l’equità in forme giuridiche e cioè individuare i contenuti dell’equità, individuati che siano redigerli in precetti, una volta redatti imporli alla osservanza dei sudditi. Una costruzione coerente che ribadisce il punto da cui siamo partiti: l’identificazione del diritto in una realtà che sta più in la del potere politico, una realtà che la lex ha il compito di manifestare. In questa costruzione il diritto non può che costituire un vincolo insormontabile per il potere e per i suoi detentori. I giuristi non esitano a elaborare raffinate analisi dei testi romani del Corpus iuris dove si parlava di un principe le gibus solutus e il risultato è sempre quello di tentar di legare le mani al principe di vincolarlo al rispetto del diritto.

La civiltà tardo – medioevale e la sua dimensione sapienziale. Il ruolo primario della scienza nella società.

II vero mutamento però di questo periodo, che influenzerà fortemente tutte le determinazioni giuridiche successive è quello che fa capo alla nascita di una dimensione anche dottrinale e sapienziale del diritto, grazie alla rilevanza che viene conferita alla scienza. Essa viene intesa soprattutto nelle diverse funzioni che a, chiamata a svolgere:

innanzitutto ha la funzione di condurre alla verità, intesa come illuminazione, come conoscenza della divinità. Questo universo divino, fatto dì angeli e santi e la cui conoscenza è l'aspirazione massima dell'uomo medievale può essere compreso grazie all'ausilio di precetti conoscitivi forniti dalla scienza; essa per quanto si serva di strumenti altamente imperfetti può comunque realizzare il percorso conoscitivo verso le forme più tipiche della verità eterna;

in secondo luogo, la fine dell’XI secolo coincide per la storia della Chiesa con la c.d. “età gregoriana”, età di lotte contro le invadenze e contaminazioni laiche, ma età di riforme ecclesiali e scontro frontale contro abusi del clero, i quali andavano a compromettere l’unità della Chiesa.In tale contesto; il ruolo della scienza è quello di ricondurre ad una realtà unitaria tutte le spinte particolaristiche che nel corso del tempo sono state assunte dal diritto medievale.

la scienza riveste anche un ruolo ordinante: ciò è avvenuto in modo particolare durante l’età gregoriana, la quale aveva ormai dietro di sé un millennio di storia, durante i quali abbiamo avuto un accatastamento confuso di testi, nonché la sovrapposizione di testi contraddittori.

Nell’età gregoriana si profila un’esigenza di ordine, che si profila sotto due aspetti: distinguere all'interno del diritto ciò che è autentico, da ciò che è spurio , ed eliminare le antinomie che da sempre caratterizzano la materia del diritto. In questo contesto, il diritto potrà

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assumere una caratterizzazione più pregnante ed un ruolo più decisivo nell'economia societaria medievale.È questo il momento in cui la modernissima scuola di Charters, riscopre la natura cosmica come valore autonomo e la riscopre come unità armonica. La scienza ad ogni modo prenderà consapevolezza dell’importanza del proprio ruolo e si registrerà progressivamente uno spostamento generale di attenzione dal testo autorevole alla riflessione autorevole del testo. Dunque all’autorità dei doctores, uomini di scienza. La lex non è una volontà, non è legata al soggetto detentore, al potere politico, essa è una regola precettiva che trova nella natura la sua legittimazione. Trascorsi circa 200 anni, Alberico da Rosicate redisse il primo dizionario giuridico del medioevo. Lo scorrere dei 200 anni non ha scalfito la consapevolezza che la lex non è esecuzione ma soltanto rivelazione, che i suoi contenuti preesistono al legislatore e consistono in un complesso organico ed armonico di fatti e principi, regole che Alberico chiama aequitas.La scienza giuridica è unanime nel cogliere la funzione più propria e più delicata del principe in questa attività traduttiva: tradurre l’equità in forme giuridiche, e cioè individuare i contenuti dell’equità che siano redatti in precetti e che una volta redatti, imporli all’osservanza dei sudditi. L’identificazione del principe nella funzione di dire il diritto, lo identificava come legibus solutus, al fine di vincolarlo al rispetto del diritto.

Da quanto indicato dunque sembra non contestabile che la scienza abbia assunto un ruolo preponderante nell'assetto societario del secondo Medioevo, un ruolo che la società è pronta a riconoscergli e che la scienza è ben lieta di rivestire. Soprattutto essa si muove nell'ambito della problematizzazione: la scienza non assumerà mai determinazioni compiute, fisse ed imperturbabili, ma giungerà ad ogni conclusione dopo aver condotto un valido dibattito sulla materia, e dunque sempre dopo essersi posta degli interrogativi che coinvolgano la discettazione di tutte le soluzioni possibili da assumere.

Esperienza giuridica e scienza giuridica. L’esperienza affida alla scienza la propria edificazione.

Nella società medievale del XII secolo era assolutamente necessario intervenire con strumenti più puntuali per la regolazione di situazioni giuridiche nuove e più complesse delle precedenti.La struttura semplice della vecchia società medioevale si fa complessa: all’immobilità delle campagne si è aggiunto quello sempre più concreto delle città e dei traffici fra città, alla statica dei rapporti agrari si aggiunge la dinamicità dei commerci, compaiono soggetti professionali nuovi, mentre la prassi mercantile e quella marittima coniano strumenti economici nuovi.In un clima del genere è chiaro che la consuetudine non poteva più essere considerata lo strumento fondamentale di tali situazioni, ma era necessario ricorrere ad un espediente fatto si schemi rigidi, coadiuvato da una normazione stabile, scritta, rigida. Nella nuova società complessa la consuetudine può mantenere un ruolo insostituibile di stimolo, e lo dimostrano i nuovissimi diritti del commercio e della navigazione che si originano nella prassi, delle varie piazze mercantili e portuali.In una società complessa una fonte efficace è la legge concepita come volontà generale, astratta, rigida. È la scelta della complessa società moderna, in cui il diritto è quasi esclusivamente legislativo, in cui lo stato pretende di monopolizzare la produzione del giuridico e trova nel monismo legislativo la soluzione a tutti i propri problemi di organizzazione giuridica.A fronte del perdurante disinteresse del principe per il diritto, l’unico strumento che potesse realizzare un architettura di schemi ordinanti è la scienza! E questa divenne espressione del ruolo di interpretatio, così poco atteso dal principe, realizzando schemi ordinanti nei quali poter scorgere la determinazione giuridica dei nuovi assetti economici e sociali del mondo medievale. Non si tratto di espropriazione di poteri, ma di una doverosa supplenza. Tale supplenza fu costosa nonché fonte di antinomie.

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La “solitudine” della scienza giuridica medioevale, la ricerca di un momento di validità e la riscoperta delle fonti romane: “glossatori e commentatori”.

Ma quali sono questi problemi, queste antinomie? Nel mondo moderno, il problema è stato risolto attraverso la gerarchizzazione del sistema delle fonti, e intendo la legge come espressione della volontà suprema dello stato. Sotto altro profilo il puntualismo moderno, risolveva il problema della produzione giuridica: detentore del potere e produttore, venivano sostanzialmente a coincidere in un soggetto complesso a due dimensioni: quella produttiva e quella potestativa sovrana. In tale contesto la regola giuridica prodotta, non aveva problemi a trovare il proprio momento di indiscutibile validità nella volontà politica suprema, laddove per validità s’intende la corrispondenza ad un modello generale superiore ed autorevole. Nel diritto moderno, il diritto legislativo, creato dal potere, il momento di validità è forte in quanto poggia sul potere del soggetto produttore.Tutt’altro discorso si deve fare per il diritto medioevale, in cui la società è frazionata, il paesaggio politico si concreta nell’assenza dello Stato, nonché ad una generale supplenza della scienza.Autonomia e primato, sono garanzia di centralità, ma per la scienza sono anche garanzia di solitudine. La situazione che si delinea è esattamente opposta a quella del mondo moderno: qui titolare del potere politico e soggetto produttore sono disgiunti, né l’uno può avere appoggio o sostegno dall’altro. Qui il produttore è lasciato solo nel vuoto del potere che si delinea nel medioevo, ed è proprio in questo momento che si ha la riscoperta del diritto romano giustinianeo, anche se si tratta di una riscoperta relativa. Si riscoprì il digesto quale diritto romano autentico (filologicamente esatto), come strumento operativo. Le ragioni di tale riscoperta sono le seguenti:

1. la consuetudine fattuale e particolaristica non bastava più, occorrevano ampi schemi ordinanti, era necessario recuperare una tecnica più rigorosa ed un linguaggio più raffinato al diritto, il quale si trovava a disciplinare situazioni ben più complesse delle precedenti. La riscoperta era quindi nelle cose.

2. il diritto giustinianeo poteva essere il momento di validità che al discorso della scienza giuridica mancava, in quanto si trattava di un complesso normativo ammantato di sacralità e vulnerabilità.

3. sacralità, perché ne è promotore e promulgatore Giustiniano I, il quale ha volutamente impregnato la compilazione del suo ruolo di difensore della fede e vi ha lasciato ampie tracce della sua adesione al cristianesimo. Vulnerabilità, perché si tratta di un complesso normativo risalente ad un’antichità avvertita come remota e favolosa, e perciò ammantato di quella indiscutibile rispettabilità che il sedimentarsi dei secoli conferisce agli occhi dell’osservatore medioevale.Il corpus si presentava come auctoritas, era un deposito sapienziale e normativo corroborato da anni di vigenza e della totale approvazione popolare rispetto alla sua determinazione.Tutte queste motivazioni giustificarono l’operato di glossatori e commentatori, sempre curvi sui testi romani per ricavarne un’adeguata interpretazione alle proprie necessità giuridiche.I glossatori la cui operosità va da IRNERIO ad ACCURSIO, agli anni ’30 del secolo XIII e che si conclude con la consolidazione della GLOSSA MAGNA. I commentatori la cui vitalità dura fino alle soglie dell’umanesimo giuridico (1500). È da rilevare infine, che dalle prime glosse frammentarie, fino al sistema giuridico compiuto già da Accursio si rinviene nel patrimonio precedente tanti interventi particolari, i quali rappresentano un accumulo di ricchezza che è la naturale conseguenza dell’accumulo dei tempi.

La scienza giuridica tra “validità” ed “effettività”

Posto che: la nuova scienza è quella dei glossatori e commentatori, i quali riscorpono il corpus giustinianeo come momento di validità; la scienza scienza giuridica è chiamata ad ordinare

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giuridicamente la società del secolo XII ed a edificare una costruzione conveniente ai tempi; il corpus giustinianeo riflette una società completamente diversa da quella tardo medioevale.La vera problematica da affrontare per glossatori e commentatori era essenzialmente quella di maneggiare un testo di diritto romano che era vecchio di almeno sei secoli, e per questo inadatto ad organizzare la realtà presenterà era altresì vero che la riscoperta dei testi classici romani era necessaria per fondare quel momento di validità che tanto era sentito presso i glossatori: ecco dunque che gli stessi sono divisi tra due esigenze entrambe rilevanti e che tirano in due direzioni quanto meno antitetiche. La soluzione ad una simile problematica era essenzialmente da ritrovarsi nell'atteggiamento mentale che i glossatori dovevano utilizzare per dare concretezza al loro operato:bisognava fondarsi sui classici per trovare legittimità del proprio operato, ma allo stesso tempo è necessario maturare la consapevolezza di poter guardare oltre le determinazioni dei classici, con propri occhi, rielaborando il testo secondo le proprie esigenze.

La scienza giuridica medioevale come “interpretatio”

L’interpretatio fu la risposta attorno alla quale si snoda tutta l’attività giuridica di ricostruzione (di un diritto effettivo legato ai fatti). È l’attività basilare del mondo medioevale, il quale vede in Dio l’unico vero creatore del diritto. Tuttavia, a causa dell’assenza dello Stato, dell’inadeguatezzza della consuetudine a garantire da sola un adeguato sviluppo dell’ordine giuridico a causa del rapporto di vassallaggio la funzione interpretativa è onere e onore della scienza. La scientia iuris è per eccellenza interpretatio. Si noti tuttavia che l’interpretatio dei medioevali non è riducibile ad un processo meramente conoscitivo della norma, ma è un atto di volontà e di libertà dell’interprete.Tuttavia, anche se timidamente è proprio fra i glossatori che si fa strada una teoria affrancatrice dell’interpretatio. I soggetti legittimati all’interpretazione sono 4:

1. il PRINCIPE , la cui interpretatio è vincolante per la generalità dei sudditi, ed è scritta in un atto normativo;

2. la CONSUETUDINE , la cui interpretatio è vincolante per tutti i membri della comunità e non ha una consolidazione scritta;

3. il GIUDICE , la cui interpretatio è necessaria ma non generale in quanto vincola solo le parti di una controversia decisa,

4. il GIURISTA (MAESTRO) , la cui interpretatio non è vincolante ma solo probabile data l’autorità del soggetto che la conduce.

Compito dell’interpretazione non è solo quello di determinare un significato alla norma di diritto da applicare, ma soprattutto un compito informatore ed informativo, la giurisprudenza del testo sarà soprattutto creativa. I glossatori si pongono presto il problema dei nova negozia, ossia dei nuovi assetti economico – sociali che la prassi inventa secondo le esigenze che abbisognano di una veste giuridica. Se per ipotesi si verifichino casi pratici la cui determinazione è assente nel diritto del Corpus, la soluzione può essere duplice, o interviene il principe con un atto normativo oppure il giudice attraverso il sussidio dell’interpretatio. Ma la sottile erosione dei poteri del principe va ben oltre, si pensi ad esempio al fatto che se vi sono dubbi su un testo di legge, si dovrà verificare come quella sia stata intesa e solo se non si arrivi a certificare l’uso interpretativo si ricorre al principe se è disponibile in loco. Nella nuova configurazione giuridica, dei nuovi assetti economici, l’imperatore è stato esautorato e relegato a semplice supporto formale, anche se la sua presenza non è stata eliminata nell’evoluzione del diritto. In questo contesto, i glossatori cercano di adeguare le norme del corpus alle esigenze del diritto medioevale. Essi vogliono far rivivere i classici secondo le esperienze autonome e proprie del medioevo.

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La dimensione funzionale dell’”interpretatio”

Qual è l’operazione che faticosamente si delinea in modo sempre più marcato con il procedere della scuola e con l’irrobustirsi della consapevolezza dottrinale? Non vincolare l’interprete al testo, ma renderlo disponibile a quei nuovi contenuti che l’interprete attinge dall’esterno. L’aequitas è lo strumento che attraverso l’analogia consente una notevole libertà d’azione sia al giudice che al maestro. L’interprete aveva così la possibilità di porsi come mediatore tra il regio delle formalità e quello dei fatti, adattando al nuovo gli schemi tradizionali. È in questa chiave che vengono visti e utilizzati due strumenti tecnici risalenti ai romani: le c.d. regoale iuris e le c.d. actiones utilites. Le REGOLAE IURIS, sono criteri generali di giudizio cui lo scienziato del diritto perviene nel suo tentativo di disegnare schemi ordinanti di carattere universale, partendo sempre da un’analisi empirica dei singoli casi concreti.Le ACTIONES UTILITES, sono quelle invenzioni del diritto romano, mediante le quali il pretore, constatando analogie estendeva la tutela processuale al di là dei casi previsti dallo ius civile ; tale tema venne ripreso dai glossatori all’insegna della consuetudine, quale momento equitativo.Les actiones utilites, già nei glossatori non apparivano collegate all’aequitas, ma ancora legate ad una pretesa mens legis che fungeva da elemento legittimante. Solo in qualche spirito intraprendente le si legano spregiudicatamente alla interpretatio estensiva dei dottori. Dove la spregiudicatezza appare ormai totale e l’affrancazione raggiunta, i commentatori convalideranno unanimemente questa funzione creativa della iurisprudentia. Anche nella scuola dei commentatori, il lavoro del giurista resta formalmente esegetico, legato all’analisi del Corpus iuris.Ma il testo romano si riduce, quando ce né bisogno a semplice copertura formale. La scienza giuridica di glossatori e commentatori, vuole semplicemente rivivere quel testo secondo la propria mentalità e in nome delle proprie esigenze intende riviverlo per farne regola della propria vita attuale. Una delle notevoli e nuove costruzioni della scienza medioevale è la dottrina del dominio diviso, in base alla quale distinguiamo dominio diretto e dominio utile, contrapposti al dominium romanum. Il problema è come dare fondamento e validità a questa dottrina.Nella compilazione essi trovano un testo del giureconsulto Paolo, che riguarda gli ager vectigales, cioè quei fondi di enti pubblici che per motivi consistenti di politica agraria erano locati a condizioni più vantaggiose, che non quelle comuni locazioni fra privati, nell’insieme di questi vantaggi v’era anche una concessione di un’azione reale a tutela del conduttore.Il testo di Paolo ribadisce il dogma dell’unicità del dominio ed ha una conclusione che è all’opposto di quanto i medioevali compiranno con la teoria del dominio diviso. Per Paolo la proprietà è una sola che resta saldamente nelle mani del concedente; per il glossatore resta nelle mani del concedente il nuovo dominio diretto, ma non viene affatto escluso in capo al vectigalista il dominio utile.Il testo rimane a fondare formalmente il discorso sul piano della validità, ma viene completamente svuotato. Anche per quanto concerne le regolae iuris, possiamo dire che esse non hanno carattere normativo, non è da esse che si ricava il diritto.La glossa non accetta questa soluzione riduttiva, in quanto sostiene che la regola iuris in quanto coniata dallo scienziato, viene ad assumere quale atto di interpretatio carattere normativo.Per Bartolo la creatività della interpretatio altro non era che la affrancazione di un auctoritas pesante in nome della razionalità e dell’intervento incisivo dei giuristi. La dottrina come fonte interpretativa ha una sua indubbia centralità, perché è convinzione diffusa che il diritto è cosa da giuristi, con la conseguenza ovvia che i giuristi contano nella società, sono una presenza crescente nelle magistrature cittadine o alla corte dei nuovi monarchi. È da sottolineare l’importanza del consilium sapientis iudiciale, ossia il parere che il giudice, frequentemente un incolto, è spesso obbligato a richiedere che ha carattere vincolante per lui, e che viene a costituire la parte dispositiva di una sentenza.

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I segni della continuità: l’”aequitas” e la dimensione fattuale del diritto

Supponiamo che la lex è interpretazione dell’aequitas, il principe è interprete dell’aequitas, la interpretatio è la riduzione iniqua ad aequitas, la iurisdictio è instaurazione e conservazione dell’aequitas. Ma in che cosa consiste l’aequitas? L’equità è la dimensione ordinante del reale giuridico per la quale, tale sistematicità discende dal divino al fattuale (cose, natura delle cose), arrivando ad investire l’umano (volontà degli uomini), divenendo giustizia e manifestazione infime in un sistema di norme scritte o consuetudinarie, sulla quale è fondato o costruito.In questa visione tutto discende dall’alto, impregnando di sé l’universo storico e cosmico.È equitas Dio, la natura, la giustizia, e il diritto quando è inteso come ordine. L’aequitas nel medioevo altro non è che il proseguimento di quella concezione equitativa del diritto che permea di sé tutto il momento di fondazione. L’aequitas altro non è che uno dei segni fondamentali di continuità tra il primo e il secondo medioevo. Il significato essenziale di aequitas è racchiuso nel termine convenientia. Esso rappresenta armonia, ordine reciproco, somiglianza, uguaglianza sostanziale, tutto questo individuato nelle cose, dimensione e processo di cose. Quindi questa aequitas non è prodotto della mente umana è nelle cose e si proietta fra gli uomini. L’aequitas è il risultato della attualità del diritto. È opportuno precisare due cose, quando si parla di attualità ci si riferisce alla natura delle cose, cioè ad una realtà obiettiva di cose che reca in sé l’impronta di Dio.Quando si è fatto riferimento all’aequitas, come convenientia, ci si riferiva ad un’eguaglianza sostanziale; in ciò si distingue dal concetto moderno di eguaglianza intesa come formale, astratta: eguaglianza giuridica di soggetti di fatto diseguali e che restano tali malgrado l’affermazione di principio. Nel medioevo dell’aequitas, l’eguaglianza è sostanziale, non esiste il soggetto, ma i soggetti, e come tali vengono presi in considerazione dal diritto in tutta la loro storicità.L’aequitas deve essere intesa nella sua carnalità, nella sua attualità come eguaglianza di situazioni reali che coinvolgono gli uomini: questa può essere compresa solo se, quale strumento del diritto, viene colta nella natura delle cose e da questa tradotta in precetti formali. L’aequitas, pur essendo strumento del diritto e di chi voglia esercitarlo, non può mai provenire dalla volontà del singolo, ma sempre deve essere colta nei fatti, nella natura delle cose di cui è espressione ordinante.Questa sua dimensione ha spesso condotto ad una certa dilatazione del principio di validità, puntando sull’effettività, sulla reale vigenza della stessa, proprio perché strettamente tesi, tra la dimensione della validità e dell’effettività, si è giunti alla scissione dell’equità in 2 determinazioni:

1. AEQUITAS RUDIS attiene ancora tutta alla dimensione della validità, poiché la sua carica di vigenza non è ancora emersa del tutto;

2. AEQUITAS CONSTITUTA , è invece già tutta vigente, e dunque vige già nella piena effettività. Sarà quest’ultima realtà che emergerà con forza.

Tale istituzione è legata a due scuole spesso opposte, facenti capo ad allievi di IRNERIO, MARTINO, BULGARO. Mentre i primi, affidavano agli interpreti la traduzione in precetti di ogni tipo di equità, e quindi la possibilità illimitata di limitare i rigori del diritto formale in nome di ogni tipo di equità e di dargli prevalenza nell’applicazione; i secondi lasciavano al principe il compito di tradurre in norma l’aequitas rudis e davano in mano ai giudici e ai dottori, l’aequitas costituta, imponendo loro di preferirla al rigor iuris, ossia allo stretto diritto formale.

I segni della continuità: la consuetudine e la dimensione fattuale

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Con la rinascita delle città e quindi dei commerci, si assiste alla riscoperta di uno straordinario laboratorio consuetudinario, efficientissimo ed attivissimo.La consuetudine cittadina è per la singola civitas qualcosa di più di uno strumento di regolazione dei rapporti giuridici, è infatti, uno strumento politico perché segno di una relativa autonomia nell’ambito imperiale. La lotta antimperiale di nascenti comuni, nella seconda metà del XII secolo è innanzitutto una lotta per la una autonoma iurisdicstio, la cui normazione consuetudinaria diventava il simbolo più prestigioso e più grave. Nel medioevo sapienziale, la dimensione consuetudinaria, continua ad essere una delle ossature portanti dell’ordine giuridico, che testimonia una decisa e sentita evoluzione del diritto e che è pertanto inquadrabile come segno di continuità. Nel mondo giuridico del primo medioevo alla dimensione fattuale del diritto si è affiancata la scienza giuridica di glossatori e commentatori. La nuova scienza sarà sensibile al fenomeno consuetudinario, compiendo un rilevante sforzo, per dargli una piena valorizzazione sul piano delle fonti ed una perfezionata sistemazione teorica. Grazie alla propria sensibilità la scientia iuris riaffermerà la sua posizione protagonistica al centro dell’ordine giuridico. Si noti che la prima trattazione sistematizzante condotta sulla scorta dei nove libri del codice giusitinianeo mettono in luce alcuni elementi essenziali, ovvero:

1. il diritto consuetudinario non è ordinamento di qualità inferiore, è invece un modo di essere del giuridico, lo ius non scriptum, ha una pari dignità rispetto allo ius scriptum; infatti, se l’uno trova trae la sua origine nella volontà popolare quello che deriva dai fatti della vita quotidiana ripetuti e divenuti uso;

2. che le consuetudini, cioè un costume prolungato nel tempo sorretto dal consenso degli utenti, hanno dignità e valore di legge;

3. che la consuetudine interpreta egregiamente le leggi, ma ha anche la forza di abrogarle.

Il passo ulteriore da rilevare nel rispetto all’intuizione protomedioevale della consuetudine come fatto normativo è nella marcata insistenza sull’elemento del consenso, del tacitus consensus della comunità essenziale, e in una distinzione tra mores, usus, consuetudo, che è ormai comune nella scuola di commentatori e glossatori. La consuetudine è ius, nasce dai costumi sociali (mores) e dagli usi (usus), è indiscutibilmente il causatum di queste cause, ma è una situazione filtrata dalla psicologia adesiva dei membri di una comunità. Più delicato è il rapporto tra lex e consuetudo, delicato perché cimentava i maestri medioevali proprio sul terreno del contrasto tra momento di validità e di effettività. Nonostante vi siano aperti dissensi prevale la tesi dell’effettività, ossia l’esperienza prevale su forme e modelli. Secondo ACCURSIO, la consuetudine fonda il diritto, lo interpreta, lo modifica, anche se questo consiste in una lex romana.

I segni della continuità: dimensione fattuale del diritto e nuove figure giuridiche

Nel secondo medioevo, si assiste alla nascita di nuove figure giuridiche (c.d. nova negozia), negozia inter vivos caratterizzati da una certa atipicità, per la quale si rende necessario determinare esperienze giuridiche differenti dalle classiche. Scienza e prassi, dimostrano la loro stretta relazione, attraverso lo strumento del nuovo notariato bolognese, il quale vive a stretto contatto con la scienza, in quanto da essa assorbe cultura tecnica e rigorosa. Qualora, una volta che alle esigenze della prassi risponde la scienza, mediante la formulazione di alcuni formulari notarili, anche di una certa importanza:

1. il PRIMO è sicuramente quello di IRNERIO che con il suo FORMULARIUM (raccolta di schemi negoziali tecnicamente rigorosi, adatti ad un uso esclusivo dei notai); riesce a dividere la materia dei negozi giuridici in 4 schemi ordinanti: la compravendita, l’enfiteusi, la donazione, il

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testamento. In tale scenario medioevale, emerge l’importanza dell’enfiteusi perché come contratto di concessione fondiaria e specchio fedele del paesaggio agrario retrostante è il principale strumento di speculazione.

2. il SECONDO formulario, è di un autore ignoto , comprendente tutta la materia dei negozi fino alla locazione di cose, alla cui trattazione non si perviene.

3. il TERZO formulario, sarà redatto ad opera di IRNERIO da Perugina , il quale si preoccuperà di dividere tutta la materia in due branche attinenti alla materia del dominio diviso appena formulata: gli atti che trasferiscono il dominio diretto e gli atti che trasferiscono il dominio utile.

Sotto il profilo storico – giuridico, nei primi giuristi vi furono timori, inerzie e fedeltà alle leges, atteggiamenti che si devono giustificare alla luce della validità: è il caso di IRNERIO e del suo rifiuto di una consuetudine abrogatrice. Appena questo coro di voci assume la consapevolezza del proprio peso sociale e politico, assume sempre più nel suo approccio con le fonti giustinianee, il carattere di interpretatio, anziché di esegesi. Già nella seconda metà del XII secolo appiono le questiones de facto emergentes, a segnalare lo spostamento di attenzione verso le nuove figure della prassi. Nel 1215, l’opera di Roffredo testimonia come prassi giudiziaria notarile, consuetudini, statuti comunali, che costituiscono un oggetto non secondario delle culture dei teorici.

I segni della continuità: perfezione della comunità e imperfezione del singolo

Il medioevo, come è stato già detto è un dato caratterizzante, anche dal punto di vista giuridico, una civiltà plurale. Tale pluralismo va inteso sotto un duplice profilo: perché vengono individuati e divengono una realtà viva, una pluralità di ordinamenti, cioè di enti produttori di diritto; ma anche perché è sulla pluralità che poggia la sua costruzione. È questo secondo profilo che identifica la locuzione: perfezione della comunità e imperfezione del singolo. TOMMASO, interprete fedele della mentalità medioevale sostiene che la macrocomunità, come incarnazione della tota-moltitudo è una incarnazione più compiuta del bene comune in quanto ordine e armonia essenziale tra creature socialmente diverse. Ecco perché l’individualismo è un vizio completamente estraneo alla società medioevale sia nella sua dimensione filosofica, socio – politica e giuridica. FILOSOFICA (in quanto si profilavano nuove correnti che saranno alla base della riforma luterana, che segnalano la convinzione dell’autosufficienza del singolo e della sua capacità di dialogare da solo con Dio) SOCIO-POLITICA E GIURIDICA (essi puntano sulla comunità, rappresentano gli strumenti necessari perché un singolo debole e timido possa esprimersi in modo conveniente). Se la dimensione della validità del diritto porta ad esaltare l’imperatore, il vero protagonista è il popolus, inteso come comunità ordinante, universitas.La potestà normativa per eccellenza spetta ad esso, la lex è prima di tutto constitutio populi, legata al consensu della comunità. È il popolo che ha la funzione di esprimere la lex, di interpretarla, di diffonderla, ai singoli spetta solo l’osservanza della lex e della sua interpretazione.La praeceptio, cioè il potere di disciplinare con regole normative, non è più un insieme disordinato di uomini, ma solo della moltitudine che il diritto ha raccolto ad unità e che si presenta come autonomo. Il terreno di espressione e manifestazione dei singoli è un altro, ossia quello dei rapporti fra privati consistente in uno scambio di promesse.

Capitolo VII

“La presenza giuridica della Chiesa”

La consolidazione del diritto canonico classico: il Corpus Iuris Canonici27

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Negli ultimi decenni del XI sec è tutto un fiorire di quelli che gli storici del diritto chiamano collezioni canoniche,raccolte di testi autorevoli espressi e osservati nella lunga vita della comunità ecclesiale. Il XII sec pieno di novità vede una Chiesa uscita vincitrice della controversia con l’impero, desiderosa di definirsi come ordinamento giuridico, di produrre un diritto non più sfocato dalla teologia, ma di produrne piuttosto uno di pari qualità tecnica di quello civile, dotato dunque di forza espansiva , prezioso strumento di controllo della vita sociale.In questo clima prende forma, intorno al 1140, un ulteriore collezione, quella di Graziano conosciuta colintitolazione di Concordia discordantium canonum, armonizzazione di regole canoniche discordanti. Si tratta di una prima compiuta consolidazione del diritto della chiesa, la quale si distingue dal Decretum di Ivo. V’è un diritto canonico scarnito dai ridondanti e ingombranti tessuti teologici, ridotto a norma tecnica di societas iuridice perfecta,norma autonoma in tutte le sue singolarità. Con Graziano si avvia quell’itinerario continuo che condurrà al primo codice di diritto canonico del 1917. Dopo Graziano e grazie al suo Decretum si apre un momento di straordinaria vitalità speculativa, si comincia a costruire il diritto canonico classico, un complesso di analisi scientifiche, di interventi normativi, di attività di prassi in cui si esprime con piena maturità la coscienza delle originarietà e originalità dell’ordinamento religioso. Dopo Graziano vi è una presenza più attiva dell’autorità centrale della Chiesa ormai impegnata frontalmente in una costruzione giuridica. Il nuovo diritto canonico trova un canale privilegiato i scorrimento nell’attività normativa dei Pontefici. L’ epoca post-grazianea è epoca di decretali, il diritto canonico si ufficializza apparendo sempre più come ius decretalium, un diritto fatto di decretali, come tale sarà infatti sempre chiamato fino all’entrata in vigore del Codex del 1917. Con tale termine (Decretalus), si indica l’epistola, la lettera, del pontefice romano, la risposta papale circa un dubbio proposto alla Sede Apostolica. Si tratta di una fonte singolare e di grande interesse per la giustizia, attraverso la quale emerge con trasparenza l’inesistenza di una divisione dei poteri nella Chiesa: la decretale potrebbe sembrare un atto amministrativo, come una decisione di un caso concreto sottoposto all’attenzione del Papa, potrebbe sembrare una sentenza, come provvedimento destinato a esorbitare dalla singola fattispecie e a regolare casi analoghi, potrebbe sembrare una legge. Il Pontefice nella Chiesa, è sintesi di poteri, è plenitudo potestatis, la decretale è semplicemente l’atto che formalmente la esprime e la realizza, specchio cioè di un personaggio che è ornatore, giudice, e legislatore supremo della Chiesa i cui atti possono essere al tempo stesso atto amministrativo, legge e sentenza. Il numero di decretali si intensifica ancor più con Alessandro III e l’asse normativo portante si sposta sulla attività pontificia come fonte di diritto. cominciano a delinearsi nei primi del duecento i tentativi di raccolta di questo materiale normativo.L’avvio a questa tendenza è sancito dal pontefice Gregorio IX che commissiona tale raccolta a Raimondo di Penyafort con il compito di vagliare, riunire, sistemare in modo organico la massa di decretali che si erano accumulati fino a lui e che rappresentavano il volto del nuovo diritto canonico, dopo la svolta di Graziano nel suo sforzo di erigersi a norma tecnica di una Chiesa espansiva e dominativa. Ne scaturì la nota raccolta Decretalium Gregorii IX. Il materiale normativo in essa è ripartito in cinque libri secondo un ordine sistematico rispecchiante in buona parte il Corpus giustinianeo. A tal raccolta segue una prolifica attività sistematoria pontificia: il Liber Sextus di Bonifacio VIII, le Clementinae di Clemente V, le Extravagantes communes di Giovanni XXII. Tutto questo eterogeneo materiale confluirà nei primi del Cinquecento nel Corpus iuris canonici. Con la pubblicazione delle Clementinae si chiude lo sforzo della Chiesa medievale di darsi un corpo normativo nonché quella della diritto canonico classico.

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“Aequitas canonica”

L’equità è uno strumento ordinante che da strutturazione e qualificazione giuridica ai fatti della natura: questa almeno la sua specificazione nell’ambito civilistico. Potendo anche attribuire alla stessa anche una significanza più tipicamente religiosa ed ecclesiastica è possibile qualificarla come aequitas canonica. L’equità nel diritto canonico, viene ad intendere una modalità di applicazione del diritto, che rispetta, orinandoli secondo schemi giuridici ben precisi i fatti della società, relative alle umane fragilità degli uomini; insomma l’equità è un modo di attuazione del diritto canonico, imprescindibile per qualsiasi autorità ecclesiastica che voglia attuare le norme dello stesso. L’equità viene essenzialmente in rilievo per il rispetto di due principi fondamentali del diritto canonico:

la ratio peccati vitandi: quale necessità di evitare che vengano commessi peccati da parte dei fedeli;

il periculum animae : quale condizione peccaminosa nella quale possono venire a trovarsi i fedeli.

La necessità di impedire la verificazione di tali elementi del diritto canonico, conduce gli ecclesiastici ad utilizzarlo secondo un criterio di proporzionalità, di fatti verificatesi: per questo motivo, alcune situazioni di reato, commesse dal fedele saranno tollerate quando si possa ritenere che, a seguito della comissione della sanzione punitiva lo stesso possa sentirsi spinto alla realizzazione di altri reati.

All’estremo limite del sentiero equitativo dissimulatio e tollerantia canoniche

Innocenzo III parla di sentiero dell’equità, l’immagine del sentiero è felice perché sottolinea che la dimensione dell’equità canonica è un vasto territorio di manifestazioni differenti e sempre più intense. È al suo estremo limite che troviamo la dissimulatio e tolerantia. Gli strumenti attraverso i quali si rende possibile intervenire a difesa dell’equità canonica sono due: la dissimulatio e la tollerantia. Il criterio applicativo degli stessi è il seguente: un superior e ecclesiastico, omette di realizzare il suo intervento punitivo attraverso il reo per evitare la commissione da parte di questo di un illecito maggiore. Un esempio può essere ravvisato in un caso: Alessandro III, il grande giurista, interpellato dal vescovo di Exeter sul comportamento da seguire di fronte a taluni diaconi che avevano contratto matrimonio in contravvenzione della legge ecclesiastica sul celibato, rispondeva che occorresse in primo luogo indagare sulla qualità di vita di costoro prima delle unioni matrimoniali, se essi risultassero aver tenuto una vita castigata, tale da far presumere che obbligati a lasciare la compagna osserveranno la castità, dovranno allora essere a questo costretti (c.d. giusto punito); se al contrario la loro via precedente risultasse scostumata, tale da far presumere il rischio che senza compagna vi sarà una condotta maggiormente scandalosa si dovrà tenere un comportamento elusivo e tollerare tali unioni con l’unico scopo di evitare una situazione peccaminosa maggiore (c.d. peccatore tollerato).I due casi del “peccatore tollerato” e del “giusto punito”, rappresentano la sintesi e l’espressione della predicazione di Cristo sulla terra. Non si elide la norma, si elide l’applicazione rigorosa della norma. L’illecito resta e può trovare applicazione sanzionatoria severa in un caso vicino giungendo a una violazione apparentemente ripugnante della uguaglianza formale come nell’es. dei diaconi inglesi deciso da Alessandro III: i casti riceveranno un trattamento rigorista, mentre si opererà in modo lassista nei riguardi dei costumati. Certamente dissolutio e tollerantia sono comportamenti della sacra gerarchia, consentendo il permanere di un illecito nel tessuto sociale della Chiesa, rappresentano l’estremo limite a cui la visione equitativa può condurre in un ottica squisitamente canonica e l’estrema applicazione del principio di elasticità.

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Incidenze canonistiche: equità canonica, semplicità canonica e teoria del contratto

Il diritto canonico classico ebbe nello sviluppo dell’intera giuridicità occidentale una cospicua influenza, in particolare un influsso determinante sulla nascita e lo sviluppo del common law e della sua equity. In particolar modo a tal fine dev’essere sottolineato il ruolo del diritto canonico e l’influenza in particolare dell’equità canonica sulla teoria del contratto, in particolare sul tema problema dell’efficacia dei patti nudi.Secondo il diritto romano classico, pactum, significa “nudum”, quando questo difetti di alcuni requisiti rilevanti, senza i quali non può validamente trasferire alcunché, né può vedersi attribuita una qualche forma di tutela: chiaramente simili contratti sono da ritenersi del tutto invalidi, se non addirittura inesistenti. La Chiesa non si dimostra essere dello stesso parere: secondo il diritto canonico una qualsiasi pattuizione, in quanto basata sulla buona fede delle parti, e fondante un atteggiamento di reciproco affidamento tra i contraenti deve essere rispettato in quanto tale, anche se difetta di elementi che possono fondarlo giuridicamente.Qualora si contravvenisse ad un pactum nudum, si verrebbe meno al principio della buona fede, si deresponsabilizzerebbe la parte contraente rispetto all’adempimento delle altrui esigenze, emerse nell’accordo, seppur questo fondato solo sulla buona fede. L’utilizzazione del mancato ossequio delle forme e del violato obbligo di tipicità per vanificare l’impegno preso, contravviene al principio di buona fede e a quella della responsabilità contrassegnata come conseguenza dell’impegno.Entra in gioco il “periculum animae”, il rigore legalistico diviene “peccati entritivus”, scattano cioè i presupposti dell’equità canonica, formidabile forza eversiva dell’ordine formale, una forza ristabilizzatrice di un rilevante ordine sostanziale. Il rigorismo legalistico della rilevanza dei nudi patti, non può che essere abbandonato per tutelare il libero consenso, bensì per tutelare il rispetto della parola data, per rivendicare la responsabilità prima morale e poi giuridica dell’impegno preso in nome della buona fede, che deve restare regola indefettibile per ogni convenzione. Ogni pactum, dice Baldo, anche se munito di forme, è corroborato per il canonista dal suo contenuto di equità naturale. Questo basta per il diritto, che non ama distaccarsi dai sentieri equitativi, che una visione semplice e sostanziale mai formalistica degli strumenti giuridici.

Altra importantissime incidenza canonistica è quella che riguarda il concetto di persona giuridica, che viene indicata con il nome latino di “ficta”. La persona giuridica è un astrazione del diritto che non ha riscontri nella realtà sensibile, è svincolata dalla persona fisica percepibile concretamente, ma alla stessa vanno conferite tutta una serie di qualità giuridiche oltre a doveri della stessa natura: pertanto la persona giuridica risulta essere una creazione giuridica necessaria alla circolazione giuridica degli strumenti della società. La Chiesa è riuscita a pervenire alla sua formulazione, grazie all’abitualità rispetto a costruzioni probabili e problematiche, che la mettono continuamente in rapporto con l’esigenza di dare vita a forme canoniche oltre alla concretezza (si pensi alla costruzione di una Chiesa svincolata dalla carnalità delle persone che la compongono). Associazioni (cioè complessi di uomini) e fondazioni( cioè complessi di beni), hanno un corpo morale che idealmente si colloca accanto ai corpi fisici costituiti da persone e cose. Corpo morale è una terminologia successiva, assai frequente nella cultura giuridica moderna e ancor oggi corrente, ed è una terminologia che porta il segno dell’antica derivazione teologica. Ed è questa la strada per la quale il diritto canonico classico (Sinibaldo Fieschi), è arrivato alla creazione di persona ficta, che esiste solo nella costruzione del diritto, ma che in questa costruzione ha una sua perfetta esistenza svincolata dai canoni della fattualità.

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Capitolo VIII

“Pluralismo giuridico nel tardo medioevo: diritto comune e diritti particolari”

Le diversità nell’unità

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Grazie all’assenza del soggetto politico forte, la dimensione giuridica mantiene intatta la sua libertà d’azione poiché il suo vincolo sicuro è con il sociale, il suo carattere è di espressione fedele di una società, di una cultura, insomma una civiltà. Almeno fino a tutto il Duecento permane il sovrapporsi e il convivere, spesso con armonia e integrazione, tra diritto comune e diritti particolari.Questo dato caratterizza l’intero panorama europeo, con variazioni e diversificazioni seconda delle diverse situazioni politiche, che non smentiscono però l’essenzialità del fenomeno, nemmeno in Francia che sarà dal 300 in poi il laboratorio tipico di uno Stato autentico e in cui la monarchia comincia a prendere coscienza del suo ruolo nella produzione del diritto e senza impegnarsi ancora in una normazione propria e diretta. Si tratta di un particolarismo che ha più volti. L’espressione più diffusa è quella dell’uso a proiezione territoriale che comincia ad essere redatto parzialmente per iscritto fino a consolidarsi in un corpo normativo: è quel fenomeno che sbocca in una ricca fioritura normativa e ci riferiamo alla esuberanza di Statuti nella civiltà comunale dell’Italia centro settentrionale, e in questa sua espressione, il particolarismo è localismo giuridico. Ma vi è un’altra manifestazione particolaristica che trova il suo limite non in confinazioni spaziali ma nella qualità dei soggetti legittimati alla fruizione di certe regole giuridiche, è il caso del diritto feudale e del diritto commerciale.

Il diritto feudale è quell’insieme di consuetudini che si sono via via accumulate durante tutto il primo medioevo e che disciplinano quei rapporti tra signori e vassalli, fra superiori e inferiori, che è l’ordine feudale. Rapporti personali consistenti in fedeltà da parte del vassallo e in protezione da parte del signore.Un universo giuridico esclusivo che ha sviluppato regole sue tipiche e che ha propri tribunali per applicarle che sotto questo profilo può essere qualificato come manifestazione di particolarismo, anche se bisogna aggiungere che la dimensione universale del fenomeno feudale induce i maestri di diritto a inserire il tesoro consuetudinario feudale, i cd Liber feudorum, in appendice allo stesso Corpus iuris civilis.

Il diritto commerciale, tipica espressione giuridica del ceto dei mercanti, utilizzato esplicitamente per regolare la materia dei commerci (che interessava solo un certo gruppo di soggetti).Il diritto commerciale porta nel secondo medioevo, un’invenzione continua di strumenti nuovi (titoli di credito, società commerciali, contratti di assicurazione); è la semplificazione di vecchi strumenti di origine romanistica i quali sono stati adattati alle esigenze del commercio (rappresentanza, cessione dei crediti). E’ importante sottolineare che queste fioriture particolaristiche non si pongono in antagonismo con il diritto comune, piuttosto lo integrano, lo specificano, fino a contraddirlo con variazioni particolari, ma non arrivano mai a smentirlo.Esse dunque lo presuppongono e si collocano in una dimensione dialettica con questo immenso patrimonio che circola ovunque. Statuti comunali, consuetudini locali, diritto feudale, diritto mercantile si affermano e vivono entro il grande respiro del diritto comune, non sono pensabili se non entro il diritto comune. Si può dunque affermare che il particolarismo tardo medievale non è lacerazione, non è rottura del grande ordine giuridico unitario. E’ l’ordine complessivo che si sfaccetta, si complica in autonomie, si articola in una pluralità di ordinamenti conviventi. Contrassegno di un ordinamento giuridico è l’autonomia, che non ha niente di assoluto, che non significa indipendenza.Il significato del diritto comune

Volendo poi affrontare il discorso relativo al diritto comune, allora risulta necessario tenere ben presente tutte le caratteristiche che abbiamo detto essere tipiche del diritto medievale:

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si è parlato della sua fattualità, della circostanza che fosse strettamente connesso ai fatti della società, che lo ha reso espressione della natura delle cose e non della volontà potestativa di un soggetto al potere;

ma allo stesso tempo si è parlato della sua capacità di essere innovato, modificato, rielaborato rispetto agli schemi classici romani, assumendo una fisionomia propria ed inconfutabile.

Il diritto comune si incarna e si identifica nella interpretatio, il che vuol dire 2 cose: che ha una dimensione sostanzialmente scientifica, cioè è prodotto della scienza sotto il presidio di un testo autoritativo. Il diritto comune si scandisce e si combina sempre in due momenti inscindibili: quello della validità, rappresentato dal Corpus Iuris Civilis e dal Corpus Iuris Canonici; quello dell’effettività rappresentato dalla costruzione dottrinale. Non dimentichiamoci che l’interpretatio è dichiarazione, ma anche integrazione, correzione, modificazione del testo che essa ha due oggetti di fronte: il testo e i fatti e che essa è mediatrice tra questi e quello.Il diritto comune è assai poco esegesi in un complesso testuale è invece interpretatio.Il mondo storico del diritto comune non deve comunque essere inteso come la prosecuzione in terreno medievale dell’antico diritto romano perché il suo contenuto sono i fatti del tempo medievale che grazie ai tramiti della consuetudine e dell’equità divengono anche fonte formale. Ed è per questo che i glossatori e i commentatori sono poco dei romanisti e il diritto comune è assai poco diritto romano ammodernato. Il diritto comune è un grande fatto di civiltà medievale in questa dev’essere collocato e interpretato. Bisogna dunque respingere l’opinione fuorviante ed erronea del Calasso che insisteva sul carattere legislativo del diritto comune, pensarlo come complesso di leggi, parlare di del sistema del diritto comune come sistema legislativo ci sembra fuorviante ed erroneo. L’opinione di Bartolo non ha assolutamente carattere normativo. Ha invece carattere normativo l’interpretatio Bartoli, come congiunzione tra un testo interprativo ed una interpretazione dottrinale, fra momento di validità e di effettività. Entrambe le promesse svolte ci conducono alla conclusione che il diritto comune è tipicamente un'esperienza medievale, che può essere studiata e compresa solo in questo settore, solo in relazione a questa esperienza storica; ed è per questo motivo che non si può neppure pensare al diritto comune medievale come ad una prosecuzione del diritto comune di origine romana.

Il significato della relazione tra diritto comune e i diritti particolari

Tornando al rapporto tra diritto comune e diritti particolari va precisato che per comprendere il fenomeno della convivenza e della co-vigenza di questi in un unico ambito spaziale appare necessario rifarsi alla tesi romaniana della pluralità degli ordinamenti giuridico, la quale crediamo sia l’unico schema interpretativo che possa permettere un’efficace comprensione a condizione che si deponga ogni latente statalismo, si depuri il proprio sangue da quelle cospicue stille di positivismo giuridico che perennemente vi stazionano e si colga il sovrapporsi in uno stesso spazio di diritto comune, diritto feudale, diritto mercantile, diritto statuario deve dunque essere inteso come concorrenza di molteplici ordinamenti La premessa liberatoria è quella di un diritto senza Stato, di un diritto che vive ed opera al di là dei poteri politici e della loro coazione. Tale premessa libera gli ordinamenti da condizionamenti esterni ed estranei e li sorprende nella loro libertà d’azione in seno alla società, di fronte alla relativa indifferenza dei detentori del potere. Un esempio calzante è dato dal rapporto tra diritto comune e normazione statuaria comunale nell’Italia centro settentrionale nei secoli XII e XIII. Si devono porre 2 premesse chiarificatrici.Quando si parla di diritto statutario s’intende la somma delle normazioni particolari dei comuni, consolidazione di consuetudini locali abbastanza slegate l’una dall’altra, espressioni vivaci della vita giuridica locale. Fonti non deprezzabili ma di cui non si deve enfatizzare il rilievo e il cui

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contenuto giuridico è modesto e non perché gli statuti siano portatori di un sapere giuridico grossolano e rudimentale, quanto perchè al legislatore comunale il diritto interessa su un piano grezzamente strumentale: gli importa di fissare regole riguardanti l’apparato organizzativo del potere e il diritto penale, dedicando al diritto della vita quotidiana una scarsa attenzione.Si deve constatare la sproporzione fra l’attenzione dedicata a cose di nessun interesse per lo storico del diritto, (es l’imbrattamento delle pubbliche vie) e l’assai relativa attenzione per gli assetti negoziali vitali e diffusimi nella vita di ogni giorno. La realtà è che il legislatore statutario faceva il suo mestiere che era quello di organizzare la convivenza della società cittadina e non di confezionare un codice civile. Lo statuto non può essere inteso come un prodotto isolato ed astratto ma deve essere concepito in stretta dialettica con il diritto comune. Si tratta di una fonte dunque preziosa e fedele della prassi, ma parziale e limitata nel suo campo di osservazione giuridica.Il diritto comune è invece il diritto, lo ius, che serba in sè le soluzioni per ogni fattispecie, un linguaggio tecnico e gli schemi tecnici ordinanti capaci di formalizzare i fatti più particolari , si tratta insomma di un patrimonio di principi, nozioni, espedienti universali, poiché fondati sulla ragionevolezza, espressione di una civiltà giuridica collaudata da secoli e come tali universalmente presenti e vigenti in ogni tempo e in ogni luogo. I cittadini vivevano nella città immerse in una cultura giuridica comune a cui non era necessario aprire le porte per farla entrare, si trattava di un patrimonio dell’intera comunità civilizzata fondato sulla ragione. Poteva darsi che lo ius proprium integrasse lo ius comune, poteva darsi che apportasse variazioni particolari al tessuto giuridico universale, nel qual caso il diritto comune si restringeva facendo posto a un diritto locale più concreto e speciale anche se destinato a mutare rapidamente a seconda del mutare dei detentori del potere comunale. E il legislatore comunale tiene a sottolineare spesso la sua specialità della sua norma e ne sancisce la applicazione e impone ai giudici di attenervisi come regola prioritaria.Ma non si parli di gerarchia delle fonti. Una nozione simile è tutta moderna e presuppone la convinzione di un solo ordinamento valido, di un solo ente produttore di diritto, di una sola fonte di diritto identificata nella manifestazione di volontà dell’ente e rispetto alla quale ogni altra si pone come secondaria e condizionata. La gerarchia delle fonti presuppone una visione rigidamente monista dell’ordine giuridico la quale prospetta lo Stato come unico ente legittimato a produrre diritto. Siamo in un orizzonte che è l’opposto di quello medievale, l’opposto di una pluralità di ordinamenti, di una priorità del giuridico sul politico. La visione corretta dello scenario medievale di contro è quella di una realtà pluriordnamentale: molteplici ordinamenti concorrenti che non chiedono legittimazioni all’esterno ma che sostanzialmente si autolegittimano in quanto espressione spontanee delle più varie dimensioni del sociale, dimensioni che possono essere la comunità umana universale produttrice per ispirazione divina di regole razionali interpretate dalla leges e dalla scienza, le comunità territoriali particolari produttrici di norme locali, i soggetti dell’universo feudale, il ceto dei mercanti.Tutto questo è diritto. Non vi sono dunque giuridicità di grado superiore o inferiore, non v’è un ordinamento più valido: il diritto comune, universale, collaudato nei secolo, il diritto scientifico può cedere di fronte all’emersione locale. Non è una gerarchia delle fonti, è invece un gioco di rapporti fra ordinamenti che si comprimono nella relatività della vita giuridica.

Capitolo IX

“Le figure dell’esperienza”

Prassi e scienza nel loro ruolo ordinante: i “diritti reali”34

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Anche per la fase di edificazione dell’esperienza giuridica medievale è possibile procedere ad importanti considerazioni per ciò che concerne i diritti reali e gli assetti negoziali. Rispetto alla materia dei diritti reali, anche in questo momento siamo in una posizione che tende a privilegiare fortemente la detenzione, il rapporto con la cosa rispetto a quanto possa darsi rilevanza al diritto di proprietà strettamente inteso. L'importante per i giuristi del tempo è far si che nelle mani del proprietario originario venga a confluire una posizione giuridica altamente sterile. Per questo motivo, per dar voce a queste esigenze nasce, nell’ambito dottrinale dei glossatori e commentatori l'istituto del dominio diviso, attraverso il quale viene a scindersi l'originario diritto di proprietà tra due soggetti. E' tutta qui la rilevanza della creazione giuridica dei glossatori laddove i romani avevano sempre predicato l'assoluta preminenza dell'unico diritto di proprietà, i glossatori intervenivano declassando la volontà proprietaria del singolo, riducendola ad una "duplice proprietà". Secondo i giuristi medievali la cosa poteva essere scissa in due possibili "domini": al proprietario originario veniva lasciato il ed. dominio diretto sulla cosa, ossia veniva ad essere garantita la proprietà sul nucleo fondativi della cosa, quella parte rilevante della stessa che la rendeva perfettamente esistente nel reale (la "substantia rei"); al nuovo proprietario, colui che godeva della situazione reale di godimento veniva invece ad essere garantito il nuovo dominio utile, ossia la proprietà sulla corteccia esteriore del bene, che non era perpetuala che riusciva a produrre utilità economica, poiché sensibile ad ogni cambiamento di tale natura. Era ovvio che fosse il dominio utile a ricevere la maggiore tutela giuridica, in virtù del, collegamento che operava tra l'uomo e la cosa.

La realizzazione del “contratto di locazione di cose”

In epoca tardo medievale torna a fiorire anche la materia della locazione di cose, caduta in disuso durante l'epoca della fondazione. Recuperate ormai tutte le terre all’agricoltura, e consegnate ai contadini la stessa potette rinascere con una certa virulenza. I giuristi medievali erano soliti fare riferimento a due tipi di locazione: la classica "locatio ad brevum tempus",e la nuova "locatio ad longum tempus" (una locazione, non un contratto miglioratizio, e cioè cessione di una quantità di godimento attuale contro la prestazione di una quantità proporzionale di canone in denaro o in natura, con la particolarità di essere un contratto ad efficacia reale, traslativo cioè per tutta la durata di un dominio utile in capo al conduttore). Mentre rispetto alla prima non era difficile scorgere il supporto giuridico del mondo romano, alla seconda era necessario trovare un appiglio di validità, che sembrava del tutto inesistente per i glossatori era evidente quanto il tempo , il suo trascorrere senza soste fosse necessario per il mutamento giuridico delle situazioni para-proprietarie in proprietarie a tutti gli effetti ecco perché gli conferivano una preminenza assoluta.La nascita della locazione a lungo termine era vissuta come un contratto traslativo di diritti in capo ai contraenti come un qualsiasi altro contratto di locazione, in base al quale si riconosceva, per tutta la generalmente lunga durata del contratto il godimento del dominio utile in capo al conduttore.Il momento di validità rispetto al diritto romano era ravvisabile nella dottrina della servitù prediale, cui il diritto romano dava valore giuridico solo qualora fosse accompagnata da una lunga durata temporale. In questo momento altrettanta rilevanza assume la dottrina dei rapporti obbligatori.In questo ambito è da premettere che le connessioni tra il diritto romano e quello medievale sono molto più spiccate rispetto a quelle inerenti il campo dei diritti reali: di fatti molto del diritto romano in materia viene accettato nella giurisprudenza medievale.

Alcuni assetti negoziali tra vivi

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Per quanto riguarda invece i negozi inter vivos vanno sottolineati alcuni particolari atteggiamenti. L’obbligazione è un rapporto intersoggettivo, è il momento di fruizione tra due o più entità soggettive che caricano il rapporto stesso di valenze non solo economiche e giuridiche, ma anche morali.È l’accordo di due o più soggetti. Dietro il vinculum iuris e le sue fonti sono dunque ravvisabili forze economiche e morali che premono. E’ a partire da questa constatazione che la Chiesa pretende di occuparsi anche di questo ambito. Il terreno degli accordi umani e dei rapporti che ne derivano diventa dunque anche una porzione del diritto canonico e del diritto mercantile.La tendenza che si registra nel medioevo sapienziale circa i negozi inter vivos è una tendenza verso l’atipicità, un’atipicità che non è rispetto e tutela di libertà contrattuale ma aderenza a una massa consuetudinaria estremamente plastica, una tendenza continua rispetto la precedente fase.Se però nel primo medioevo organo produttore primario è il notaio, nel tardo medioevo fonte primaria è la scienza e forte è il modello di validità consegnato nella compilazione giustinianea.Il panorama dei rapporti obbligatori mostra tuttavia difficoltà e discrepanze, si tratta di una panorama diversificato: la Chiesa comincia assai presto a dare rilevanza ai patti nudi in nome della considerazione dei contraenti come possibili peccatori e dell’esigenza di eliminare la dimensione peccaminosa dell’atto, la prassi mercantile mira a strumenti semplici e funzionali, la scienza al contrario secondo l’Astuti, continua a sostenere le certezze del Corpus giustinianeo, ossia il controllo severo da parte dello Stato delle autonomia dei privati e negazione e di forza creativa alla libera volontà delle parti, o la volontà si inseriva nei tipi prefigurati dall’ordinamento statuale, tipi preesistenti al formarsi della volontà i cd. contractus e aveva piena rilevanza e tutela o ne restava svincolata senza alcuna efficacia obbligatoria ed era il regno dei pacta nuda.Una concezione personalissima della autonomia privata in base alla quale il soggetto poteva validamente pensare a provvedere unicamente ai propri specifici interessi, con la consapevolezza di escludere la possibilità del contratto a favore di terzo, di rendere estremamente difficoltoso il principio di una rappresentanza diretta o di una cessione del rapporto obbligatorio.In realtà vi sono elementi congeniali ma allo stesso tempo ostici agli interpreti,la loro mentalità non individualistica era congeniale l’idea che i contratti fossero qualcosa dato, una realtà oggettiva che le parti usavano senza alcuna potestà creativa nei loro traffici quotidiani, ostica al contrario l’idea di schemi rigidi, formali che la vita medievale aveva bisogno di superare variando e innovando secondo spinte propulsive delle consuetudini locali e generali. Da questo atteggiamento scaturisce l’archittetura contrattuale della dottrina del diritto comune, la quale è giustinianea formalmente rispettosa delle conclusioni segnate dal Corpus iuris : ancora con i commentatori trecenteschi il principio cardine sembra essere la romana contrapposizione tra contractus e pacta. Sembrano pertanto profilarsi due differenti soluzioni:

concepire la realtà delle umane convenzioni come territorio che ha quale figura unificante il pactum, il generico accordo, suddivisibile in due grandi categorie quella dei pacta nuda e quella dei pacta vestita, dove il vestimentum, la veste, rappresenta la causa, la funzione sociale che l’ordine giuridico riconosce a certi assetti negoziali. In questa visione la realtà convenzionale è ripensata come pactum ed è il pactum ad uscirne nobilitato, a ricevere una valutazione maggiormente positivo mal grado la distinzione romanistica fra patti nudi e vestiti. In secondo luogo si deve sottolineare il processo di logoramento che avviene attraverso l’ingigantirsi delle eccezioni, al principio della irrilevan0za del patto nudo e il moltiplicarsi dei vestimenta, delle vesti, delle cause.

operare una distinzione all’interno della struttura stessa di un contratto fra substantia e natura. Il significato di questa distinzione è racchiuso in un testo di Baldo. La sostanza è l’essenza prima per la quale una cosa è quella cosa, la natura è la virtù nativa grazie alla quale una cosa si manifesta come tale .la sostanza attiene all’essenza, la natura riguarda le qualità che differenziano una cosa dall’altra. Esse ineriscono entrambe alla struttura, appartengono all’ontologia di questo o quel

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istituto giuridico ma riposano a diversi livelli di profondità strutturale, la prima incide sulla quidditas, la seconda sulla qualitas, la prima si identifica con il nucleo senza il quale l’istituto non è, la seconda con quei tratti qualitativi che consentono all’istituto di esistere con alcuni caratteri e non altri. Baldo Parlava di quidditas circa la substantia e di qualitas circa la natura. La distinzione è tecnica, ma risente di un universo teologico-filosofico e riproduce la dialettica tra essenza e esistenza. Tale distinzione tende al concreto, vuole tuttavia essere operativa , mira al risultato del recupero pieno della struttura contrattuale al gioco delle forze storiche, la natura cui si fa riferimento, non è infatti rigida e immobile, è al contrario una elasticizzazione. il contratto vivendo nel sociale potrà vedere variata la sua natura nel tessuto socio-economico che varia.

Da ultimo particolare attenzione deve essere posta per due peculiari figure: la rappresentanza e il contratto a favore del terzo, entrambe accomunate dall’intervento di un soggetto per il compimento di negozi giuridici valevoli per altri. si tratta di una nuova esigenza della circolazione economica, che nasce dai fatti. Le maggiori difficoltà che riguardano l’affermarsi di queste è ravvisabile nel contrasto tra scienza del diritto civile e fondazioni formalistiche romane. Anche in questo caso la soluzione è raggiunta attraverso non la smentita del principio, ma una sua erosione indiretta. Per la rappresentanza lo strumento è la moltiplicazione delle deroghe specifiche fino ad arrivare alla modellazione di una limitazione di carattere generale del principio negativo sancito dal Corpus giustinianeo. Per il contratto a favore del terzo, la strada battuta è quella della interpretatio disinvolta dei testi romani. Se il testo romano presumeva la carenza di interesse dello stipulante in un simile assetto contrattuale, la Glossa aggiunge la validità della stipulazione in caso di interesse.

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