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Suoni e Lettere Marco Svolacchia 1. Seconda articolazione del significante Non è necessario essere dei linguisti per rendersi conto che la caratteristica essenziale del linguaggio consiste nell’associazione di suoni e significati, quello che i fil o- sofi medievali designavano come la relazione tra signi- ficans e significatum, ‘significante’ e ‘significato’. Quello che è meno evidente per i non addetti ai lavori è quanto la caratterizzazione dei ‘suoni’ di una lingua sia compito tutt’altro che semplice e immediato. Molti si renderanno conto di un’interessante proprietà dell’ita- liano: la forma sonora di ognuna delle parole del lessico non è un insieme inanalizzabile, ma è composta da uni- tà ricorrenti e riconoscibili di suono; gli stessi, per ana- logia e in base all’esperienza di qualche altra lingua, as- sumeranno implicitamente che questa proprietà si ap- plichi ad ogni altra lingua umana (a parte quelle volte in cui si è tentati di dubitarne sentendo parlare una lingua incomprensibile ad una velocità che sembra inumana). Il nome che i linguisti danno a questa proprietà è ‘se- conda articolazione del linguaggio’. Probabilmente ai più mancherà la parola per riferirsi a queste unità di suono; molti saranno tentati di ricorrere al termine ‘let- tera’, più per necessità che per convinzione, in quanto si parla di suoni e non di scrittura. Per quanto riguarda noi, utilizzeremo per ora il termine ‘segmento di suo- no’, o, più semplicemente, ‘segmento’. Dato che il tema di questa discussione è la compren- sione dei meccanismi mentali che sottostanno all’alfabetizzazione e alla pratica del leggere/scrivere, e dato che la scrittura, qualsiasi tipo di scrittura ma in particolare quella alfabetica, presuppone un sistema di suoni, si rende necessario partire dallo studio dei seg- menti di suono. Già a questo punto, però, ci si imbatte in una diffi- coltà apparentemente spiazzante: là dove ci si attende- rebbe una sola disciplina specifica, ne troviamo due: ‘fonetica’ e ‘fonologia’. Qualsiasi tentativo serio di spiegare a questo punto della discussione le ragioni di questa bipartizione non raggiungerebbe molto proba- bilmente altro scopo che confondere il lettore. Questo per almeno un paio di ragioni: una è che le relazioni tra queste due discipline sono molto complesse, tanto da ri- sultare non del tutto chiare persino agli specialisti; l’altra è che vi sono aspetti connessi con lo studio del suono linguistico che, per essere afferrati, richiedono una notevole intuizione ed esperienza. Pertanto, la comprensione delle ragioni di questo dualismo e le dif- ferenze fondamentali tra fonetica e fonologia piuttosto che una premessa, saranno un risultato di questa di- scussione. Come si apprezzerà più tardi, questo scopo è direttamente connesso con la comprensione della feno- menologia della lettura/scrittura. Per il momento ci limiteremo a parlare di suoni, o meglio di segmenti di suono, in modo ingenuo, senza preoccuparci di approfondire la loro natura. Qui ci si imbatte, però, in una prima difficoltà: c’è una bella di f- ferenza tra ‘saper fare qualcosa’ e ‘sapere qualcosa’, ovvero, sapere come si fa a fare ciò che si fa. Questa è una tipica situazione in cui ci si imbatte in molte attività umane; p.e. (quasi) chiunque di noi è in grado di affer- rare un oggetto che si muove nello spazio, ma quanto a spiegare come facciamo è un altro discorso. Nessuno di noi ha idea, meglio: consapevolezza, della complessità della computazione che questa azione apparentemente semplice comporta. Ciò implica, tra l’altro, che in base alla sua direzione, a volte nemmeno lineare, dobbiamo calcolare la traiettoria dell’oggetto, più il momento in cui si troverà nel punto che noi scegliamo per intercet- tare lo stesso. Per la maggior parte dei fatti connessi al linguaggio ci si trova nella stessa situazione: sappiamo fare mera- viglie con la nostra lingua, ma non abbiamo la minima idea di cosa o come facciamo, in quanto si tratta di co- noscenza inconsapevole. In realtà, a seconda dei casi, come in parte vedremo poi, esistono livelli diversi di (in)consapevolezza. Per quanto riguarda le capacità fo- nologiche, che è quello che qui ci riguarda direttamente, ciò che si è appena detto si mostra in modo esemplare. Ci sembra scontato che si possa articolare e discrimina- re a velocità supersonica le sequenze di suono del lin- guaggio, ignorando l’incredibile specializzazione cere- brale e neuromuscolare che questa attività comporta per gli esseri umani, i soli in grado di realizzarla. Un bar- lume della realtà ci sovviene solo quando siamo esposti ad enunciati in una lingua che non conosciamo o perfi- no, in una certa misura, che conosciamo ma non come lingua madre: è esperienza comune che, a seconda dei casi, non si riesce nemmeno a delimitare i segmenti di suono, meno che mai ad identificarli con sicurezza. Si immagini soltanto ciò che la nostra mente deve fa- re quando è sottoposta ad un messaggio sonoro come in una normale conversazione: deve computare un’enorme massa di informazioni sonore che arrivano a grande ve- locità e in condizioni tutt’altro che ideali (non conver- siam1o normalmente in un laboratorio insonorizzato; il parlante spesso e volentieri ‘ipoarticola’, termine tecni- co per il più corrente ‘si mangia le parole’, ecc.). In re- altà, è molto più che questo: non è solo l’aspetto quanti- tativo che stupisce ma anche e soprattutto la complessi- tà delle informazioni. Oltre alle informazioni connesse col riconoscimento delle parole (i segmenti di suono) un ascoltatore deve decodificare tutti quei segnali paral- leli correlati alla durata, al ritmo, all’intonazione. Ora, tutti questi segnali sono spesso sovrapposti in modo as- solutamente intricato (p.e. un tono alto può essere un segnale tanto di accento, tanto di un elemento intonati- vo) e hanno per lo più un valore relativo (i.e. una sillaba è considerata accentata non perché sia associata ad un valore, di forza e/o durata e/o altezza, assoluto e defini- to ma perché in quel contesto è contrassegnata da un valore più alto rispetto ad un’altra sillaba). Non stupisce il fatto che non esistano macchine che possano compie- re questa analisi fonetica in modo automatico, anzi, un risultato del genere è ancora inconcepibile; piuttosto, è stupefacente come la nostra mente riesca non solo

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Suoni e Lettere Marco Svolacchia

1. Seconda articolazione del significante

Non è necessario essere dei linguisti per rendersi conto

che la caratteristica essenziale del linguaggio consiste

nell’associazione di suoni e significati, quello che i filo-

sofi medievali designavano come la relazione tra signi-

ficans e significatum, ‘significante’ e ‘significato’.

Quello che è meno evidente per i non addetti ai lavori è

quanto la caratterizzazione dei ‘suoni’ di una lingua sia

compito tutt’altro che semplice e immediato. Molti si

renderanno conto di un’interessante proprietà dell’ita-

liano: la forma sonora di ognuna delle parole del lessico

non è un insieme inanalizzabile, ma è composta da uni-

tà ricorrenti e riconoscibili di suono; gli stessi, per ana-

logia e in base all’esperienza di qualche altra lingua, as-

sumeranno implicitamente che questa proprietà si ap-

plichi ad ogni altra lingua umana (a parte quelle volte in

cui si è tentati di dubitarne sentendo parlare una lingua

incomprensibile ad una velocità che sembra inumana).

Il nome che i linguisti danno a questa proprietà è ‘se-

conda articolazione del linguaggio’. Probabilmente ai

più mancherà la parola per riferirsi a queste unità di

suono; molti saranno tentati di ricorrere al termine ‘let-

tera’, più per necessità che per convinzione, in quanto si

parla di suoni e non di scrittura. Per quanto riguarda

noi, utilizzeremo per ora il termine ‘segmento di suo-

no’, o, più semplicemente, ‘segmento’.

Dato che il tema di questa discussione è la compren-

sione dei meccanismi mentali che sottostanno

all’alfabetizzazione e alla pratica del leggere/scrivere, e

dato che la scrittura, qualsiasi tipo di scrittura ma in

particolare quella alfabetica, presuppone un sistema di

suoni, si rende necessario partire dallo studio dei seg-

menti di suono.

Già a questo punto, però, ci si imbatte in una diffi-

coltà apparentemente spiazzante: là dove ci si attende-

rebbe una sola disciplina specifica, ne troviamo due:

‘fonetica’ e ‘fonologia’. Qualsiasi tentativo serio di

spiegare a questo punto della discussione le ragioni di

questa bipartizione non raggiungerebbe molto proba-

bilmente altro scopo che confondere il lettore. Questo

per almeno un paio di ragioni: una è che le relazioni tra

queste due discipline sono molto complesse, tanto da ri-

sultare non del tutto chiare persino agli specialisti;

l’altra è che vi sono aspetti connessi con lo studio del

suono linguistico che, per essere afferrati, richiedono

una notevole intuizione ed esperienza. Pertanto, la

comprensione delle ragioni di questo dualismo e le dif-

ferenze fondamentali tra fonetica e fonologia piuttosto

che una premessa, saranno un risultato di questa di-

scussione. Come si apprezzerà più tardi, questo scopo è

direttamente connesso con la comprensione della feno-

menologia della lettura/scrittura.

Per il momento ci limiteremo a parlare di suoni, o

meglio di segmenti di suono, in modo ingenuo, senza

preoccuparci di approfondire la loro natura. Qui ci si

imbatte, però, in una prima difficoltà: c’è una bella dif-

ferenza tra ‘saper fare qualcosa’ e ‘sapere qualcosa’,

ovvero, sapere come si fa a fare ciò che si fa. Questa è

una tipica situazione in cui ci si imbatte in molte attività

umane; p.e. (quasi) chiunque di noi è in grado di affer-

rare un oggetto che si muove nello spazio, ma quanto a

spiegare come facciamo è un altro discorso. Nessuno di

noi ha idea, meglio: consapevolezza, della complessità

della computazione che questa azione apparentemente

semplice comporta. Ciò implica, tra l’altro, che in base

alla sua direzione, a volte nemmeno lineare, dobbiamo

calcolare la traiettoria dell’oggetto, più il momento in

cui si troverà nel punto che noi scegliamo per intercet-

tare lo stesso.

Per la maggior parte dei fatti connessi al linguaggio

ci si trova nella stessa situazione: sappiamo fare mera-

viglie con la nostra lingua, ma non abbiamo la minima

idea di cosa o come facciamo, in quanto si tratta di co-

noscenza inconsapevole. In realtà, a seconda dei casi,

come in parte vedremo poi, esistono livelli diversi di

(in)consapevolezza. Per quanto riguarda le capacità fo-

nologiche, che è quello che qui ci riguarda direttamente,

ciò che si è appena detto si mostra in modo esemplare.

Ci sembra scontato che si possa articolare e discrimina-

re a velocità supersonica le sequenze di suono del lin-

guaggio, ignorando l’incredibile specializzazione cere-

brale e neuromuscolare che questa attività comporta per

gli esseri umani, i soli in grado di realizzarla. Un bar-

lume della realtà ci sovviene solo quando siamo esposti

ad enunciati in una lingua che non conosciamo o perfi-

no, in una certa misura, che conosciamo ma non come

lingua madre: è esperienza comune che, a seconda dei

casi, non si riesce nemmeno a delimitare i segmenti di

suono, meno che mai ad identificarli con sicurezza.

Si immagini soltanto ciò che la nostra mente deve fa-

re quando è sottoposta ad un messaggio sonoro come in

una normale conversazione: deve computare un’enorme

massa di informazioni sonore che arrivano a grande ve-

locità e in condizioni tutt’altro che ideali (non conver-

siam1o normalmente in un laboratorio insonorizzato; il

parlante spesso e volentieri ‘ipoarticola’, termine tecni-

co per il più corrente ‘si mangia le parole’, ecc.). In re-

altà, è molto più che questo: non è solo l’aspetto quanti-

tativo che stupisce ma anche e soprattutto la complessi-

tà delle informazioni. Oltre alle informazioni connesse

col riconoscimento delle parole (i segmenti di suono)

un ascoltatore deve decodificare tutti quei segnali paral-

leli correlati alla durata, al ritmo, all’intonazione. Ora,

tutti questi segnali sono spesso sovrapposti in modo as-

solutamente intricato (p.e. un tono alto può essere un

segnale tanto di accento, tanto di un elemento intonati-

vo) e hanno per lo più un valore relativo (i.e. una sillaba

è considerata accentata non perché sia associata ad un

valore, di forza e/o durata e/o altezza, assoluto e defini-

to ma perché in quel contesto è contrassegnata da un

valore più alto rispetto ad un’altra sillaba). Non stupisce

il fatto che non esistano macchine che possano compie-

re questa analisi fonetica in modo automatico, anzi, un

risultato del genere è ancora inconcepibile; piuttosto, è

stupefacente come la nostra mente riesca non solo

2

nell’impresa ma anche con quella rapidità, facilità e

precisione che sappiamo.

Il problema, come si diceva, è che non abbiamo idea

di come facciamo e dei risultati di questa analisi. Ma

perché non ne abbiamo consapevolezza? Tutti i lingui-

sti, in genere, danno questo per scontato ma raramente

si prova ad affrontare una domanda del genere. Qua-

lunque sia l’eventuale risposta esatta, due sono gli in-

gredienti di base: uno è il concetto di apprendimento

inconscio, cioè spontaneo, l’altro è quello di innatezza,

relativo a ciò che non deve essere appreso, in quanto

patrimonio speciespecifico già presente alla nascita. Per

quel che riguarda la conoscenza dei suoni di una lingua

madre entrambi i fattori si presentano chiaramente. Il

fatto che si riesca molto più facilmente ad individuare i

segmenti di suono nella propria lingua che non in

un’altra dipende dall’apprendimento spontaneo e pre-

coce delle specificità di una particolare lingua, i.e. quali

segmenti di suono sono utilizzati, come si pronunciano,

come si combinano, ecc. Il fatto che si riesca, invece, ad

effettuare quel tipo di computazione in assoluto, a pre-

scindere dalla lingua specifica a cui si applica, e che si

possa apprendere la grammatica dei suoni di qualsiasi

lingua umana, in presenza di uno stimolo adeguato in

età adeguata (noi e solo noi della nostra specie), dipen-

de appunto da conoscenze innate. A questi due diversi

strati di capacità linguistica corrispondono anche, con

buona evidenza, livelli diversi di consapevolezza; per

quanto entrambi saperi inconsci è evidente che è molto

più facile avere accesso al tipo di informazioni linguo-

specifiche che non a quelle universali innate. In effetti

di questo tipo di capacità introspettiva, dai più chiamata

‘intuizione linguistica’, si fa abbondante ricorso nella

costruzione e convalidazione delle teorie fonologiche (e

linguistiche in generale). Ne faremo ampio uso anche

noi nel corso di questa discussione.

Tornando al problema che qui interessa, come si

debbano rappresentare le sequenze di suono

dell’italiano, è chiaro che in base a quanto appena detto

non è possibile trovare una risposta immediata, proprio

perché non abbiamo accesso diretto a queste informa-

zioni. Si dovrà procedere allora indirettamente, basan-

doci specialmente sulla nostra intuizione linguistica. In

realtà, chiunque di noi ha imparato a leggere/scrivere

l’italiano ha già appreso, per così dire, una teoria dei

segmenti dell’italiano, perché, si ricordi, in linea di

principio in un sistema alfabetico le lettere stanno per

segmenti di suono. Un buon punto di partenza per com-

prendere come è articolato l’italiano è perciò la sua or-

tografia, perché nel bene o nel male questa influenza la

nostra concezione della rappresentazione dei suoni.

2. Come la scrittura rappresenta i suoni

2.1. Il principio alfabetico

Procederemo ora ad un esame critico della scrittura

dell’italiano per capire quanto sia affidabile per i nostri

scopi. Si ricordi in cosa consiste “l’alfabeto perfetto”:

(1) PRINCIPIO ALFABETICO

Un alfabeto è un sistema di scrittura in cui i segni (le ‘lette-

re’) e i segmenti di suono sono in relazione di biunivocità.

Per semplicità la formulazione in (1) può essere distinta

in due parti:

(1a) ciascuna specifica lettera è in relazione con uno speci-

fico segmento;

(1b) ciascuno specifico segmento è in relazione con una

specifica lettera.

Si noti che (a) e (b) seguenti non sono equivalenti. A lo-

ro volta ciascuna delle due formulazioni contiene due

distinte proposizioni (in cui con ‘entità grafica’ si in-

tende qualsiasi lettera o combinazione di lettere, i.e. po-

ligrammi): (1ai) una lettera è in relazione con uno e un solo segmento;

(1aii) una specifica entità grafica è in relazione con un uni-

co specifico segmento;

(1bi) un segmento è in relazione con una e una sola lettera;

(1bii) un unico specifico segmento è in relazione con una

specifica entità grafica.

Per quanto l’insieme di queste formulazioni possa sem-

brare più complicato di quando non si desidererebbe,

esso esplicita l’idea intuitiva di alfabeto, un sistema il

più semplice e coerente possibile, parte nozione quanti-

tativa (un singolo segmento di suono deve essere rap-

presentato da una singola lettera), parte qualitativa (un

segmento di suono deve essere rappresentato sempre

nello stesso modo). È importante sottolineare che que-

ste caratteristiche non derivano da astratti requisiti logi-

ci aprioristici ma derivano da fedeltà ad una caratteristi-

ca fondamentale dei sistemi di suono delle lingue uma-

ne, la già menzionata seconda articolazione.

2.2. Principio alfabetico e ortografia italiana

Quello che segue è un piccolo brano, di seguito in tra-

scrizione ortografica, che sarà utilizzata estesamente nel

corso di questa discussione: (1) L’ho detto a mio figlio, questo libro che sta leggendo è

ignobile, il peggiore che abbia mai visto: solo sesso, violenza

e oscenità. Un giudizio troppo sbrigativo? Ma se l’ho già let-

to tre volte!

È facile rendersi conto che l’ortografia italiana, nono-

stante la communis opinio (‘l’italiano si legge come si

scrive’), è lontana dall’essere un alfabeto perfetto e se a

volte lo considera tale è solo in rapporto a sistemi orto-

grafici ben più incongrui, come quello francese o, ancor

di più, quello inglese, il probabile primatista mondiale

in questo campo. Vediamo in dettaglio quali sono le

violazioni dell’italiano riguardo al principio alfabetico.

2.2.1. Poligrammi

Una prima, evidente deviazione dal principio alfabetico

riguarda la proposizione (1bi) ed ha per soggetto i poli-

grammi, gruppi di lettere che rappresentano un unico

segmento. In italiano ci sono i seguenti tre digrammi,

i.e. gruppi di due lettere (le lettere sono sempre in cor-

sivo; la ragione per cui gl è seguito da i tra parentesi di-

venterà chiara più avanti):

3

sc, gn, gl(i)

Ma come facciamo a sapere che si tratta di digrammi e

non di gruppi di lettere che corrispondono a gruppi di

segmenti? La domanda è meno peregrina di quanto non

possa sembrare, in quanto, se non avessimo alcun ac-

cesso alle conoscenze fonologiche inconsce non sa-

remmo in grado di distanziarci dall’ortografia. Eviden-

temente, come la tradizione grammaticale italiana e

l’intuizione di molti parlanti nativi mostrano, siamo in

grado di renderci conto che il tratto di suono che queste

sequenze di lettere rappresentano è singolo. Vale a dire

che in forme come sci o gnomo le due lettere iniziali (o

le tre iniziali in glielo) corrispondono a livello segmen-

tale alla lettera iniziale di una forma come sì, piuttosto

che alle prime due lettere di una forma come psicologo.

Al contrario, intuiamo che la lettera iniziale di xilofono

corrisponde a livello segmentale alle due lettere iniziali

di psicologo e non alla lettera iniziale di libro. In questo

caso, una lettera ‘doppia’, si tratta di una violazione

della proposizione (1ai), parallela alla precedente.

Possiamo a questo punto emendare l’ortografia ita-

liana sostituendo ai poligrammi e alle lettere doppie ri-

spettivamente una lettera e due lettere, così da avvici-

narci alla rappresentazione mentale dei suoni

dell’italiano. Per questo utilizzeremo l’IPA, l’Alfabeto

Fonetico Internazionale. Pertanto avremo le seguenti

sostituzioni (dove le parentesi quadre indicano che si

tratta di segmenti di suono, non di scrittura):

sc > [ ] gn > [ ] gl(i) > [] x > [ks]

2.2.2. Lettere ‘mute’ e iperspecificazione

La violazione più eclatante di (1ai) è però rappresentata

dalle cosiddette “lettere mute”, in quanto non rappre-

sentano alcun segmento di suono. Sono di due tipi di-

versi; nel primo tipo rientrano quelle lettere che pur non

avendo un’identità fonetica individuale hanno contenu-

to fonetico. Parliamo in questi casi di lettere con fun-

zione ‘diacritica’ (= discriminante). Il caso più cono-

sciuto è quello di h, la ‘lettera muta’ per eccellenza; h

viene utilizzata come diacritico di suono dopo c/g se-

guite da vocali anteriori, i, e (p.e. chiesa, ghiro, boschi),

per indicare una lettura arretrata (“dura”, nella termino-

logia scolastica), contrariamente alla regola generale di

lettura di queste lettere in italiano, che prevede un valo-

re “morbido” (avanzato) prima di vocale avanzata. La

ragione è puramente storica, eredità di un fase antica

dell’italiano in cui le consonanti morbide erano solo

delle varianti prima di vocale morbida delle consonanti

dure, i.e. erano solo un modo diverso di pronunciare lo

stesso segmento di suono prima di vocale avanzata. Si

trattava, cioè, di una semplice alternanza prodotta da

assimilazione. Un riflesso di ciò è visibile in italiano

contemporaneo nell’alternanza che riguarda numerosi

temi (per lo più nominali e verbali), come gli esempi

seguenti mostrano: DURA MORBIDA

farmaco farmaci

psicologo psicologi

intrinseco intrinseci

raggiungo raggiungi

spingono spingiamo

conosco conosci

nascono nascita

In un italiano in cui le consonanti “dure” e quelle “mor-

bide” non sono più tra loro complementari si rende ne-

cessario potere indicare una lettura “dura” anche prima

di una vocale “morbida”. Questo è il caso, p.e., di for-

me come chiesa, ghiro, in cui, appunto, h indica che la

lettura di c/g è, contrariamente alla regola generale,

“dura”. Come mostrano gli ultimi due esempi, questo

uso di h riguarda anche il gruppo grafico sc, che merita

una menzione a parte perché, come si è già visto, prima

di vocale avanzata non corrisponde a due segmenti di-

stinti ma è un digramma col valore di [], anch’esso

suono avanzato.

Analogo è l’uso di i che qui chiameremo diacritica

per distinguerla dalla stessa quando sta per una vera vo-

cale, come p.e. in vino. Il fatto che i, a differenza di h,

possa avere valore fonetico è la ragione per cui essa non

viene tradizionalmente annoverata tra le lettere mute.

L’uso di i diacritica è illustrato di seguito:

arancio,

cialda

giacca,

giullare

sciame,

sciopero

aglio,

paglia

La funzione di i diacritica è speculare a quella di h: se-

gnala che, contrariamente alla regola generale, pur

comparendo le consonanti e il gruppo già visti prima di

vocale “dura” devono essere lette come “morbide”. Per

inciso, alla luce della regola generale che governa la let-

tura di queste lettere, la scelta di i come diacritico di let-

tura “morbida” è ben motivata. Alcune particolarità ag-

giuntive presenta gl(i).

Come dopo sc, il diacritico i serve a segnalare dopo

gl che si tratta di un digramma che rappresenta una

consonante“ morbida” invece che due consonanti di-

stinte, una delle quali “dura”. La differenza sta nel fatto

che non si tratta di un diacritico che si usa solo in de-

terminati contesti (davanti a vocali “dure”) ma che si

usa sempre per indicare la lettura “morbida”, indipen-

dentemente dal contesto; in altre parole, gl ha di per sé

il valore di [gl], non di [á]. Per questa ragione si consi-

dera tradizionalmente gli un trigramma.

Potrebbe sembrare completamente equivalente (e ir-

rilevante) se considerare i un diacritico di gl o l’ultima

lettera del trigramma gli; in realtà ci sono buone ragioni

per preferire la prima interpretazione. Il digramma gl è

parallelo a gn: g segnala in questi poligrammi che la let-

tera seguente deve essere letta come ‘palatale’ invece

che col valore normale, ‘alveolare’. Il digramma gl è

però ambiguo, perché può anche avere il valore del

gruppo consonantico [gl] (p.e. glicine); viceversa in ita-

liano non esiste [gn], pertanto gn non è ambiguo, ma

può solo avere il valore di [ ù]. È questa ambiguità del

digramma gl che rende necessario il diacritico i. È inte-

ressante notare che il gruppo grafico gli risulta ambiguo

per un lettore italiano: data una parola fittizia come

glidda, per molti può essere letto ambiguamente sia

4

come [gl]idda, sia [á]idda, sebbene il primo risulti pre-

ferenziale.

Un caso diverso dai precedenti è quello di h quando

è usato come diacritico lessicale, cioè senza alcun valo-

re fonetico ma con la funzione di discriminare tra forme

omografe (= scritte nello steso modo). Non indica per-

ciò nessuna particolare lettura ma serve al riconosci-

mento di determinate forme. Di fatto, la convenzione

interessa solo alcune forme del presente indicativo del

verbo avere:

ho hai ha hanno abbiamo, avevo; avrò, ecc.

o ai a anno Ø

Un altro uso di h, simile al precedente, è quello che si

trova nelle interiezioni, dove sembra essere un diacriti-

co di classe, a segnalare che si tratta di forme particola-

ri, non propriamente parte del lessico, come negli e-

sempi che seguono:

ah, ehi,

Una convenzione simile a quella di h diacritico lessicale

si incontra nei monosillabi, in relazione ai quali il segno

dell’accento viene utilizzato per distinguere coppie al-

trimenti omografe, come negli esempi seguenti: né là è sì

ne la e si

La norma è convenzionale in quanto la funzione prima-

ria del segno d’accento è quella di discriminare tra for-

me diverse, non di segnalare l’accento primario di paro-

la, che in italiano, come illustreremo più avanti, è se-

gnalato solo in casi eccezionali, comunque non sui mo-

nosillabi, per ovvi motivi. D’altra parte non è conven-

zionale la scelta di quale delle due forme sia associata

al segno dell’accento. Tutte le forme con accento grafi-

co sono effettivamente accentate fonologicamente,

mentre tutte le forme senza accento grafico sono effet-

tivamente atone, si tratta di ‘clitici’, forme senza auto-

nomia fonologica che vanno a formare gruppi ritmici

(‘parole fonologiche’) con parole adiacenti (precedenti

o seguenti, a seconda dei casi). In questo caso, quindi,

questa norma ortografica riflette una precisa intuizione

fonologica.

Pur rientrando nella rubrica delle lettere ‘mute’, una

funzione diversa è assolta dall’apostrofo. Esso segnale

che del materiale fonologico è stato eliso, cioè non vie-

ne pronunciato. Ciò che viene eliso può andare da una

vocale (a), a una sillaba (b): a b

l’ quest’ fa’ po’ be’

‘sto

lo questa fai poco bene questo

(Forme come be’ e ‘sto sono fortemente colloquiali; le

si incontra tipicamente solo nella trascrizione di dialo-

ghi). Se la norma è ben fondata dal punto di vista fono-

logico, vi è tuttavia qualche eccezione, fonte di ben noti

“errori ortografici”. La norma prescrive che le forme

brevi di uno e quale siano scritte come un e qual (in

forme come un amico, qual è), e non come *un’ e

*qual’. L’analisi che sottintende queste ortografie nor-

mative è che l’apostrofo non vada messo perché non ci

sarebbe elisione, essendo identiche alle forme base,

quelle che si usano prima di una forma cominciante per

consonante semplice: a b

1 qual buon vento qual è

2 un gatto un amico

L’analisi è però errata: l’uso di qual in contesti come in

(1a) è limitato a qualche espressione idiomatica che cri-

stallizza stadi precedenti di italiano; in italiano contem-

poraneo la forma base è quale (p.e. ‘Quale buon citta-

dino non lo farebbe?’, e non ‘*Qual buon cittadino non

lo farebbe?’). Sebbene meno evidente, lo stesso vale per

un, che in realtà deriva da uno, come gli esempi seguen-

ti mostrano: a b c d e

uno studio psicologo sciopero haiku e un solo

giorno

Le forme sopra mostrano che ogni qualvolta in cui la

parola seguente presenta delle particolarità la forma

dell’articolo è uno. In (a–c) si tratta di parole aventi un

elemento non sillabificato (= che non appartiene a nes-

suna sillaba); in (d) abbiamo una parola straniera che

inizia con determinate consonanti non italiane (natu-

ralmente si può utilizzare la forma elisa prima di queste

parole, ma solo se h iniziale non viene pronunciata, p.e.

uno handout o un handout, a seconda se [h] venga o

meno pronunciata); in (e) abbiamo l’articolo in quello

che verrebbe definito ‘uso pronominale’ (in realtà qui

semplicemente separato dalla forma che modifica, co-

me si vede cambiando l’ordine del congiunto: ‘un gior-

no e uno solo’). In conclusione l’elisione non ha luogo

ogni volta in cui o sorgerebbe un problema sillabico o

l’articolo è separato dalla forma che modifica, renden-

dosi impossibile la cliticizzazione. Abbiamo quindi un

caso in cui la norma ortografica va contro l’intuizione

del parlante.

Un ultimo caso di ‘lettere mute’ è quella di i che non

assolve nessuna funzione, né fonetica, né diacritica,

come negli esempi seguenti: a b c

1 cielo scienza ciliegie

2 celeste conoscenza ciliege

Tutte le forme in (1) condividono il fatto che i si trova

tra due lettere che rappresentano segmenti ‘morbidi’ (a-

vanzati). Che effettivamente i in queste forme non ab-

bia valore fonetico si può capire comparandole con le

corrispondenti in (2): celeste deriva da cielo ma non

presenta questa i; le ultime due sillaba di conoscenza

suonano esattamente come scienza pur avendo grafia

diversa; ciliegie suona esattamente come ciliege, sua

variante grafica. Si noti che i in queste forme non ha

nemmeno una funzione diacritica.

In alcuni casi la ragione della i muta è puramente fo-

nologica, dovuta all’‘assorbimento di [i]’ dopo una con-

sonante ‘morbida’, come si verifica tipicamente in al-

cune forme verbali, p.e. mangiamo, in cui i è muta, ri-

spetto a amiamo, dove i è pronunciata. Il parlante nati-

vo non è consapevole del fatto che non pronunci i in

5

questi contesti perché è fuorviato, per così dire, dalla

forma “ideale”, in quanto il suffisso in questione è –

iamo. In altri casi la ragione è solo storica, come nel ca-

so di scienza (da scire ‘sapere’). In altri, infine, come

nel caso di ciliegie, sembra dovuto a fraintendimento

delle convenzioni ortografiche.

Ragionando da un punto di vista molto generale sui

rapporti tra pronuncia e scrittura, gli usi delle cosiddette

‘lettere mute’ possono avere valenze molto diverse. Nel

caso di i e h diacritici fonetici, quando cioè identificano

segmenti di suono diversi, come in cialda e chiesa, essi

vengono ad assumere un ruolo di complemento della

lettera precedente, cioè in ultima analisi vengono a co-

stituire un digramma. Negli altri casi, invece, quelli in

cui delle lettere non hanno effettivamente nessuna va-

lenza fonetica, parliamo di iperspecificazione, il feno-

meno per cui la scrittura è in eccesso rispetto ai suoni

che rappresenta. Qui si tratta di un iperspecificazione

totale, perché riguarda segmenti interi. Un fenomeno

molto più interessante del precedente è

l’iperspecificazione parziale, che tratteremo più avanti.

2.2.3. Segmenti incoerentemente trascritti

Una classe diversa di idiosincrasie dell’ortografia ita-

liana deriva dalla violazione delle proposizioni (1a/bii),

quella che avevamo chiamata ‘parte qualitativa’ del

Principio Alfabetico, che è essenzialmente un requisito

di coerenza: ogni segmento di suono deve essere scritto

sempre nello stesso modo e ogni entità grafica deve

rappresentare un unico segmento. Una violazione di

(1bii) è rappresentata dalle entità grafiche seguenti: DURE MORBIDE

c – ch – q(u) g – gh c – ci g – gi

Ognuna delle entità grafiche nella stessa colonna rap-

presenta lo stesso segmento di suono, come è evidente a

qualsiasi parlante nativo di italiano. <q> presenta delle

idiosincrasie aggiuntive. La lettera q ricorre solo prima

di u non sillabica (i.e. quando u non fa sillaba, come in

quadro, che è scandita qua-dro, non *qu-a-dro). Non

ha nemmeno l’esclusiva di questo contesto: anche c può

ricorrere prima di u asillabica. L’utilizzazione di q o c

dipende fondamentalmente dall’etimologia. La ragione

della presenza nell’alfabeto italiano di q, che non ha al-

cuna specificità fonetica, deriva dal latino, lingua in cui

il digramma qu rappresentava un singolo segmento di

suono distinto [kw], che è arrivato in italiano come

[kw], i due segmenti distinti identici a quelli rappresen-

tati da cu. Inoltre q è l’unica lettera che non si raddop-

pia per segnalare una consonante lunga, ma viene af-

fiancata di norma da una c alla sua sinistra (p.e. acqua).

Nello spirito del compito che ci siamo preposti, ef-

fettueremo le seguenti sostituzioni, avvalendoci

dell’IPA dove necessario: DURE MORBIDE

k g t

La ragione per cui l’IPA utilizza simbolo composto (at-

tenzione, non un digramma!) per queste consonanti di-

venterà chiaro più avanti.

2.2.4. Lettere ambigue e ipospecificazione

Il problema inverso al precedente, una violazione di

(1aii), è rappresentato da quelle entità di suono che non

trascrivono un solo dato segmento di suono, risultando

quindi di lettura ambigua. L’esempio più notevole ri-

guarda le lettere e, o, che corrispondono ciascuna a due

distinti segmenti di suono, come gli esempi seguenti il-

lustrano: “APERTE” “CHIUSE”

terra posto tetto ponte

È fondamentale rendersi conto che non si tratta di ‘mo-

di diversi di pronunciare le stesse parole’, ma di diffe-

renze di suono fondamentali per il riconoscimento delle

parole. Al fine di rendere più chiara questa differenza

può essere utile ricorrere ad alcune coppie minime, una

tecnica utile a fare risaltare singole differenze di suono

che contano per il riconoscimento delle parole: “CHIUSE” “APERTE”

venti

pesca

legge

te

(numero)

(verbo)

(nome)

(pronome)

venti

pesca

legge

(< ‘vento’)

(nome)

(verbo)

(nome)

botte

colto

pose

fosse

(recipiente)

(agg.)

(verbo)

(verbo)

botte

colto

pose

fosse

(< ‘botta’)

(verbo)

(< ‘posa’)

(< ‘fossa’)

Nonostante l’importanza di questa distinzione di suono,

i parlanti italiani tendono ad esserne scarsamente con-

sapevoli. Vi sono diverse ragioni (alcune delle quali di-

venteranno più chiare più avanti) ma la principale sta

con tutta probabilità proprio nel fatto che essa non è in

genere riconosciuta dall’ortografia, che, come si ricor-

derà, fornisce l’input più immediato alla nostra consa-

pevolezza dei suoni della nostra lingua. Un caso in cui

la distinzione viene riconosciuta, ma solo per e aperta –

chiusa, è in fine di parola, dove la norma (peraltro non

tra le più seguite, nemmeno nella pubblicistica, e igno-

rata completamente nell'insegnamento scolastico) pre-

scrive di utilizzare l’accento acuto per la "chiusa" (é),

l’accento "grave" per l’aperta (è). Nell'IPA si utilizzano

i simboli [e, o] per le "chiuse" e [] per le aperte.

Le stesse caratteristiche si trovano anche per la lette-

ra z, che in italiano codifica due segmenti di suono di-

stinti, uno sordo e uno sonoro (rispettivamente [ts] e

[dz] in IPA). Ecco alcuni esempi, il primo dei quali è

una coppia minima: SORDO (ts) SONORO (dz)

razza ‘stirpe’ razza ‘pesce’

pazzo rozzo

canzone bronzo

Come si può vedere dagli esempi, ognuna delle forme

riportate può essere pronunciata solo con uno dei due

segmenti (p.e. *canzone, in cui z è [dz], sarebbe una

pronuncia inaccettabile). Per una trattazione più estesa

di [ts–dz] si veda più avanti.

Possiamo trarre una prima generalizzazione riguardo

alle violazioni appena discusse del principio alfabetico:

6

si tratti di casi in cui la rappresentazione scritta è in di-

fetto rispetto alla rappresentazione mentale sonora, in

quanto ignora alcune caratteristiche di suono di un certo

segmento. Parliamo in questo caso di ipospecificazione

grafica. Per esempio, z è ipospecificato rispetto alla so-

norità, perché non tiene conto di questa caratteristica di

suono che distingue due segmenti di suono diversi in i-

taliano. Le lettere e, o sono ipospecificate rispetto all'a-

pertura, perché possono rappresentare unicamente voca-

li di apertura media (i.e. né chiuse, come [i, u], né aper-

te, come [a]), ma ciò è insufficiente in italiano, che di-

stingue tra due serie diverse di vocali medie: medio-

chiuse e medioaperte (medioalte e mediobasse, come si

dice tra gli addetti ai lavori).

2.2.5. Segmenti “ciechi” e prosodia

Per concludere questa rassegna delle incongruenze della

scrittura rispetto ai segmenti di suoni che essa intende

rappresentare, rimane aperta un'altra possibilità in linea

di principio, quella di ipospecificazione estrema, in cui

un segmento di suono non abbia alcuna rappresentazio-

ne scritta; per analogia con il termine 'lettere mute' use-

remo in questo caso il termine 'segmenti ciechi'. Si veri-

fica questa eventualità in italiano? La risposta è no, non

si dà il caso di un segmento che venga pronunciato e

non riceva alcuna rappresentazione scritta. Tuttavia, se

invece dei segmenti consideriamo altri elementi di suo-

no, i cosiddetti soprasegmentali, allora la risposta non

può che essere affermativa. Con ‘soprasegmentali’ ci si

riferisce a quegli elementi si suono che hanno

un’estensione superiore al segmento: sillaba, durata,

accento e ritmo, intonazione. Un termine più tradizio-

nale ancora utilizzato per abbracciare tutti questi aspetti

è prosodia.

Di questi elementi solo la durata consonantica (del

tipo di penna, tappo) è coerentemente espressa

nell’ortografia italiana, tramite il raddoppiamento della

lettera. Ma su questo punto torneremo estesamente più

avanti.

La sillaba non trova normalmente alcuna realizza-

zione grafica; essa è però presente in potenza nella pra-

tica dell’andare a capo, cioè nella possibilità di spezza-

re le parole tra un rigo e il successivo, che si basa

sull’integrità sillabica: si può spezzare una parola ma

non una sillaba. Quindi la pratica dell’andare a capo si

basa sull’intuizione del parlante riguardo alla divisione

in sillabe. I bambini italiani non mostrano alcun pro-

blema ad apprendere le modalità l’andare a capo, né si

notano comportamenti devianti rispetto alla norma, ap-

punto perché non è convenzionale ma è fonologicamen-

te fondata. C’è però un’importante eccezione: la divi-

sione in sillabe dei nessi consonantici con S preconso-

nantica, la cosiddetta ‘s impura’.

Per questi nessi la norma ortografica prescrive che s

vada a capo, assumendo una divisione in sillabe del tipo

–sC (in cui C sta per qualsiasi tipo di consonante; p.e.

in una parola come pasta la divisione in sillabe grafica

è pa–sta). Tuttavia, il comportamento spontaneo dei

parlanti italiani si mostra divergente: i bambini che im-

parano a scrivere, una volta che hanno intuito il princi-

pio su cui si basa la possibilità dell’andare a capo, divi-

dono s dalla consonante seguente (p.e. *pas–ta;

l’asterisco prima di una forma indica che la stessa è er-

rata rispetto alla norma di riferimento). Questo compor-

tamento si osserva sporadicamente anche tra adulti. La

spiegazione di questa discordanza tra norma grafica e

comportamento sistematico dei parlanti è in questo caso

molto semplice: è la norma grafica che è fonologica-

mente infondata, in quanto la scansione sillabica è esat-

tamente quella implicata dalla divisione in sillaba dei

bambini che imparano a scrivere, [pas–ta] nell’esempio

precedente. Sappiamo questo con sicurezza per una se-

rie di ragioni (a parte l’intuizione di qualunque parlante

che non si lasci condizionare dalla scrittura)

Vi sono diverse ragioni, al di là dell’intuizione dei

parlanti, che dimostrano che i nessi con ‘s impura’ non

appartengono alla stessa sillaba (cioè –sC) ma a due sil-

labe diverse (cioè s–C; dove ‘C’ sta per qualsiasi con-

sonante), sia all’interno di parola (p.e. posto, sillabato

come [pOs–to], non come *[pO–sto]), sia tra parole in

date configurazioni (p.e. uno studente, sillabato come

[u–nos–tudente], non come *[uno–stu–dente]).

1. La vocale che precede la ‘s impura’ è breve anche se

accentata, p.e p[O]sta, non *p[O:]sta, cioè non si verifica

l’Allungamento Vocalico, segno che la ‘s impura’

chiude la sillaba (in italiano si ha Allungamento Vocali-

co in sillaba accentata, aperta (= che non termina in

consonante), non finale di parola: ‘l[i:]-bro, ‘c[a:]-sa;

se la sillaba è accentata ma chiusa, i.e. termina in

consonante, non si ha Allungamento Vocalico: ‘c[a]s-

sa; se la sillaba è accentata e aperta ma è finale di

parola non si ha Allungamento Vocalico: cit-‘t[a]).

2. I nessi con ‘s impura’ non permettono l’elisione della

vocale finale degli elementi prenominali (p.e. lo studio,

non *il studio; grande studioso, non *gran studioso,

ecc.). Ciò si spiega col fatto che l’elisione creerebbe

una sillaba illegittima: *ils–tu-dio, impronunciabile, in-

vece che los–tu-dio, perfettamente pronunciabile;

3. Viene inserita una protesi vocalica in alcune parole

che iniziano per ‘s impura’ (p.e. in [i]Spagna, in

[i]spirito, per [i]scritto). La protesi serve a sillabificare

‘s impura’, che non appartiene a nessuna sillaba (i.e. i–

nis–pagn–gna);

4. ‘s impura’ viene cancellata in forme come pe(r)–

spicace; supe(r)–stite; co(n)–statare; i(n)–stallare: se s

(quella sottolineata) facesse parte dell’attacco perché la

sonorante precedente si dovrebbe elidere, dato che una

sonorante può occupare la coda di sillaba? Se invece la

divisione in sillabe è pers–pi–ca–ce allora diventa chia-

ro perché [r] venga elisa: in italiano non possono ricor-

rere due consonanti in fine di sillaba, quindi una non

viene pronunciata.

5. s viene elisa in parole inizianti per ‘s impura’ dopo

un prefisso terminante in consonante:

7

ad– dis–

ombra ad+ombrare erba dis+erbare

destro ad+destrare sacro dis+sacrare

dritto ad+drizzare sperare dis+(s)perare

Nella tabella si trovano parole derivate tramite un pre-

fisso terminante in consonante, ad– nella colonna a si-

nistra, dis– nella colonna a destra. Nelle parole della co-

lonna a sinistra, con la sillaba iniziale normale, la con-

sonante iniziale del tema non viene mai elisa, nemmeno

quando esso comincia con due consonanti

(ad+drizzare); viceversa, nelle stesse condizioni la ‘s

impura’ viene elisa (in dis+(s)perare [s] iniziale del

tema, qui tra parentesi, non viene pronunciata). La ra-

gione del contrasto è che formazioni a sinistra non dan-

no luogo a problemi sillabici, perché ogni elemento

viene sillabificato (i.e. ad–driz–za–re), mentre in quelle

a destra ‘s impura’ non può essere sillabificata (non può

far parte né della sillaba a destra, né della sillaba a sini-

stra, già completa perché terminante in una consonante;

i.e. dis–s–pe–ra–re) e viene pertanto eliminata.

6. Un'altra prova proviene dalla pronuncia dei bambini

(2-5 anni circa), come i dati seguenti mostrano: ADULTI BAMBINI

a tor-ta tot-ta

b tre-no t-no

c i tre-ni i t-ni

d sport pt (*t)

e lo sport lo p-pt

I nessi consonantici vengono semplificati eliminando

una delle due consonanti adiacenti. Se la consonante e-

liminata è in coda di sillaba; la consonante seguente

prende il suo posto, cioè si allunga (allungamento di

compenso), come in (a); viceversa, se la consonante e-

liminata sta in attacco non c’è allungamento di compen-

so, e la consonante eliminata è quella più vicino al nu-

cleo, come in (b–c). A contrario, se una parola comincia

per ‘s impura’ allora il comportamento rispetto alla

semplificazione è opposto: è la ‘s impura’ che viene e-

liminata, pur essendo apparentemente più esterna ri-

spetto al nucleo della consonante seguente, (d), e dà al-

lungamento di compenso, (e), comportandosi così non

come una consonante in attacco di sillaba ma come una

consonante in coda di sillaba (cf. /r/ di tor-ta).

Nella teoria fonologica corrente elementi come ‘s

impura’ vengono analizzati come marginali, non facenti

parte della sillaba propriamente detta. Questi elementi

aggiuntivi vengono perciò chiamati extrasillabici e pos-

sono ricorrere solo ai limiti della parola (inizio o fine).

L’accento e il ritmo sono notati nell’ortografia ita-

liano solo eccezionalmente, per segnalare l’accento

sull’ultima sillaba (parole ‘tronche’), che è molto mar-

ginale nella regola di accentazione dell’italiano. Facol-

tativamente, si segnala l’accento anche su sillabe diver-

se dall’ultima, per disambiguare parole altrimenti omo-

grafe (p.e. prìncipi, per distinguerlo da princìpi; nòccio-

lo, per distinguerlo da nocciòlo). Ma si tratta di un uso

molto formale (limitato comunque alla carta stampata),

poco sistematico e, probabilmente, démodé.

Intonazione: è opinione comune che la punteg-

giatura sia la rappresentazione grafica dell’intonazione.

In realtà la relazione tra intonazione e punteggiatura è

molto indiretta e le corrispondenze solo approssimative.

Quello che emerge da questa breve discussione è un

contrasto tra i segmenti di suono e gli elementi sopra-

segmentali:

(a) I segmenti di suono sono sempre rappresentati gra-

ficamente in italiano (sporadicamente con ipospecifica-

zione, come abbiamo visto). Del resto questa è una si-

tuazione che si riscontra in generale nei sistemi grafici

del mondo: non si dà il caso (o, al massimo, è estrema-

mente raro) che un segmento di suono di una lingua non

trovi espressione in un sistema grafico di tipo fonetico.

Si incontrano casi di segmenti di suono che non tro-

vano alcuna rappresentazione scritta? La risposta è mol-

to probabilmente negativa se si considerano i sistemi

propriamente alfabetici. Esiste però una classe di siste-

mi grafici, tutti strettamente correlati, che forniscono

molta materia di discussione a questo riguardo. Si tratta

dei cosiddetti “alfabeti semitici”, che hanno un’enorme

importanza per almeno un paio di ragioni:

1. per ragioni storiche: uno di questi sistemi di scrittura

(tradizionalmente si parla del fenicio) è l’antenato di

tutti i sistemi alfabetici esistenti al mondo;

2. per ragioni culturali: questi sistemi di scrittura sono

usati per trascrivere lingue molto importanti dal punto

di vista culturale (vedi ebraico e arabo) o anche per dif-

fusione (vedi arabo). L’“alfabeto arabo”, in particolare,

in virtù della sua importanza culturale, soprattutto reli-

giosa, ha avuto un impatto enorme nella grafizzazione

di numerose lingue e nell’alfabetizzazione di molti po-

poli; di fatto la scrittura araba, insieme a quella greca e,

ancor più, quella latina, è a tutt’oggi uno dei sistemi

grafici maggiormente diffusi al mondo.

La peculiarità di questi sistemi grafici è che si tratta

di ‘scritture consonantiche’, vale a dire che registrano

solo consonanti; le vocali, invece, non trovano alcuna

rappresentazione grafica, in linea di principio. Così,

p.e., una parola araba come [akl] ‘cibo’ (in cui il sim-

bolo è una consonante) si scrive (da destra a sinistra)

nel modo seguente (è una scrittura corsiva, anche nei

testi a stampa):

أ ك ل

l k

Il suono vocalico, qui [a], non ha alcuna rappresenta-

zione grafica. Come logica conseguenza

dell’ipospecificazione grafica, la maggior parte delle

parole grafiche arabe sono ambigue, a volte estrema-

mente ambigue. Così la stessa parola grafica può tra-

scrivere anche [kala] ‘mangiò’, [ukila] ‘fu mangiato’,

ecc. Il recupero della specificazione vocalica avviene

fondamentalmente tramite il contesto linguistico (mor-

8

fologico, sintattico e semantico). Anche il contesto ex-

tralinguistico gioca a volte un ruolo nel processo.

L’esatta natura di questi sistemi di scrittura è ogget-

to di un vivace dibattito. Qualcuno li ritiene in fondo

scritture sillabiche, benché di un tipo speciale; altri li

considerano a sé stanti, una via di mezzo tra i sillabari e

gli alfabeti, tanto che per denominarli hanno coniato il

termine ‘abjad’ (in cui ‘j’ ha la lettura inglese), dai pri-

mi quattro caratteri dell’“alfabeto” arabo.

(b) Gli elementi soprasegmentali, al contrario, tendono

a essere scarsamente rappresentati graficamente, in ita-

liano, come in altri sistemi scrittori.

Questo contrasto è illuminante per comprendere la

natura dei sistemi di scrittura, siano essi fonetici o me-

no, alfabetici o altro: i sistemi di scrittura hanno come

scopo di essere solo strumenti con una finalità stretta-

mente pratica, quella del riconoscimento, non della

rappresentazione, dei messaggi linguistici. Pertanto,

più un elemento è prevedibile in base al contesto tanto

minori saranno le probabilità che esso trovi rappresen-

tazione scritta. Questo spiega il contrasto tra i segmenti

di suono, la cui predicibilità è generalmente scarsa, e i

soprasegmentali, largamente predicibili in quanto alta-

mente ridondanti.

2.2.6. Conclusioni: dalle lettere ai suoni

A conclusione di questa prima parte possiamo applicare

al nostro mini testo i risultati a cui siamo finora perve-

nuti in direzione della realtà sonora dell’italiano. Per-

tanto, a seguito degli emendamenti necessari esso appa-

rirà nella forma seguente:

(2) l detto a mio fio, kuesto libro ke sta leddndo

ibile, il peddore ke abbia mai visto: solo ssso, violntsa

e oenita. un duditsio trppo sbrigativo? ma se l da ltto

tre vlte!

In aggiunta a quanto già detto, si considerino le seguen-

ti osservazioni:

a. non viene osservata la differenza tra lettere minu-

scole e maiuscole, che è una differenza che non ha al-

cun contenuto fonetico;

b. vengono notati per semplicità solo i segmenti di

suono, astraendo dagli elementi soprasegmentali;

c. sono state mantenute alcune convenzioni come la

divisione in parole grafiche e la punteggiatura perché

rendono più agevole la lettura.

3. Cosa scriviamo quando scriviamo

3.1. Dai ‘segmenti di suono’ alla pronuncia

A questo punto possiamo interrogarci sulla esatta natura

del risultato a cui siamo pervenuti. In altre parole: che

cosa è esattamente la trascrizione in (2)? La domanda

può sembrare a prima vista oziosa, perché la risposta

sembra ovvia: (2) è una trascrizione di come in italiano

standard si pronuncia (si legge) il testo (1). Per quanto

possa sembrare controintuitivo, questa conclusione è si-

curamente sbagliata, ed è facile rendersene conto esa-

minando da vicino alcune parole del nostro mini testo.

3.1.1. Consonanti intrinsecamente doppie

La prima forma che considereremo è figlio. La trascri-

zione, [fio], non è una rappresentazione accurata. Una

rappresentazione più realistica è [fio] (in cui

l’elemento aggiuntivo è evidenziato in rosso). Il

segmento [] è “doppio”, o ‘lungo’; ciò significa che ha

durata doppia rispetto ad una consonante semplice, bre-

ve. È facile constatare questa proprietà, anche senza

strumenti di analisi acustica, tramite la comparazione

tra questa forma e altre simili:

Qualsiasi parlante nativo di italiano intuisce che figlio

non “rima” con filo, ma piuttosto con fillo (che questa

parola non esista in italiano non ha nessuna importan-

za). Chi desidera un esempio più realistico può conside-

rare una forma analoga: paglia non rima con pala ma

con palla; pigna rima con pinna, non con Pina, ecc. Lo

stesso fatto ricorre varie volte nel testo: ignobile

[ibile], oscenità [oenita], giudizio [dudittsio]. Si

tratta di un fenomeno perfettamente regolare in italiano,

che riguarda forme in cui ricorrono specifici segmenti

di suono, le consonanti intrinsecamente doppie.

È fondamentale sottolineare che non si tratta di

‘sfumature’; la lunghezza di queste consonanti è la stes-

sa delle consonanti doppie in forme come cassa (vs. ca-

sa), palla (vs. pala), ecc., di cui nessun italiano si so-

gnerebbe di dire che si tratta di ‘sfumature’.

3.1.2. Allungamento vocalico

La seconda forma che andiamo ad esaminare è libro.

Anche qui la trascrizione data, [libro], non registra la

nostra pronuncia effettiva, che è [li:bro], con una vocale

lunga (nella convenzione IPA i due punti dopo un seg-

mento indicano che lo stesso è lungo, ha durata doppia).

Nel nostro mini testo se ne incontrano molti esempi:

[peddo:re, sbrigati:vo], ecc.

Anche qui non si tratta di ‘sottigliezze fonetiche’: la

durata di queste vocali lunghe in italiano è perfettamen-

te comparabile a quella delle consonanti doppie già vi-

ste (p.e. cassa, palla). Anche in questo caso si tratta di

un fenomeno perfettamente regolare e prevedibile in i-

taliano, l'Allungamento Vocalico.

3.1.3. Raddoppiamento Sintattico

Un’altra forma che considereremo ora è l’ho detto, che

avevamo trascritto come [l detto]. Anche qui è abba-

stanza facile rendersi conto che (in italiano standard)

questa formazione viene pronunciata con un raddop-

piamento, sebbene non venga notato nell’ortografia. La

pronuncia reale è [lddetto], con la consonante iniziale

della seconda parola doppia. Nel testo ricorrono molti

esempi analoghi: [ammio, stalleddndo, trevvlte],

ecc. Sebbene la regola che governa questi raddoppia-

menti sia abbastanza variegata, anche questo fenomeno

figlio filo fillo

9

è assolutamente regolare e prevedibile, e va sotto il no-

me di Raddoppiamento Sintattico.

3.1.4. Arrotondamento

Un altro fatto di pronuncia che andiamo a considerare è

rappresentato nel nostro testo dall’esempio questo, pre-

cedentemente trascritto come [kuesto]; in realtà una

rappresentazione più realistica della nostra pronuncia

sarebbe [kwuest

wo], in cui il simbolo in apice indica che

la consonante precedente è arrotondata (un termine e-

quivalente è ‘labializzata’), cioè pronunciata con le lab-

bra sporgenti e arrotondate, come quando pronunciamo,

p.e., la vocale [u]. È possibile rendersene conto osser-

vando il movimento delle labbra mentre viene pronun-

ciata questa parola in modo più evidente per [kw] che

per [tw]. Tuttavia, mentre abbiamo qualche consapevo-

lezza del movimento delle labbra quando pronunciamo

suoni come [u], non ne abbiamo affatto quando pronun-

ciamo queste consonanti arrotondate.

Nel nostro mini testo compaiono numerosi casi di

consonante arrotondata: in tutti i casi, però, si può veri-

ficare che essi precedono una vocale arrotondata ([u, o,

]), cioè un segmento che viene pronunciato sempre

con questa caratteristica di suono. Per esempio, [kw] e

[tw] sono arrotondati perché precedono, rispettivamente,

[u] e [o]. Il fenomeno che produce queste caratteristiche

di suono è quindi l’Assimilazione, cioè l’adattamento di

un segmento di suono alle caratteristiche di un altro

segmento adiacente.

3.1.5. Vocali alte asillabiche

Forme come questo o violenza, già trascritte come

[kuesto] e [violntsa], esemplificano un altro aspetto

della pronuncia dell’italiano (e di moltissime altre lin-

gue, in verità): la pronuncia variabile delle vocali alte

(‘chiuse’) i e u. Le vocali alte, a seconda della posizione

che occupano nella sillaba, vengono pronunciate più o

meno lunghe, più o meno alte. In particolare, nelle for-

me che stiamo considerando esse hanno una pronuncia

“consonantica”, nel senso che sono ‘asillabiche’, cioè

non fanno sillaba. Così una forma come questo, pur in-

cludendo tre vocali, ha solo due sillabe: ques-to, non

*qu-es-to. Nell’IPA queste forme vengono trascritte

come, rispettivamente [kwesto] e [vjoltsa], in cui i

segmenti in causa sono evidenziati per comodità, e

vengono denominate semiconsonanti. Un'altra forma

del testo, mai, esemplifica un altro tipo di vocale asilla-

bica, che nell’IPA è trascritta come [maĭ] (o, per u

[flaŭto]), e che viene da qualcuno denominata

semiconsonante. Anche qui la caratteristica fondamen-

tale è che si tratta di una vocale che non fa sillaba (mai

è monosillabico, fla-uto è bisillabico).

3.1.6. N e S preconsonantici

L’ultimo aspetto che andiamo a considerare comprende

due casi per molti aspetti simili: S e N preconsonantici.

Questi due segmenti di suono hanno in comune la

caratteristica che hanno una pronuncia variabile prima

di un’altra consonante. Il testo ci offre qualche spunto.

In un giudizio la nasale è stata trascritta come [n]; in

realtà la reale pronuncia è qualcosa di molto vicino a

[], il suono corrispondente a gn ortografico. Questo

non significa però che N venga pronunciato così prima

di ogni consonante; al contrario, la sua pronuncia varia

in funzione della consonante seguente, come la tabella

seguente mostra: [ ] LESSEMA LUOGO D’ARTICOLAZIONE

iN– m possibile BILABIALE

fallibile LABIODENTALE

n tentato DENTALE

civile PALATOALVEOLARE

credibile VELARE

In altre parole, in coda di sillaba (in quanto una nasale

preconsonantica si trova necessariamente in coda di sil-

laba) N non ha una propria definizione di Luogo di Ar-

ticolazione (cioè l’articolatore attivato) ma lo riceve

dalla consonante seguente. Si tratta, cioè, di un feno-

meno analogo all’assimilazione.

Una situazione analoga, sebbene più semplice, è

quella di S preconsonantica. Una forma come sbriga-

tivo è stata trascritta come [sbrigativo]; non è però dif-

ficile rendersi conto che la reale pronuncia è piuttosto [

zbrigativo], in cui il simbolo IPA [z] sta per il corrispet-

tivo sonoro di [s], come quello che si sente in forme

come casa, pronunciata da molti parlanti italiani, specie

settentrionali.

Anche in questo caso non è che S si pronunci sempre

sonora prima di un’altra consonante, piuttosto essa si

accorda in sonorità alla consonante che segue, come la

tabella seguente evidenzia: [s] [z]

sparire

stonare

sconto

sbarra

sdentato

sgridare

smilzo

snaturato

slavata

sregolato

Il senso del fenomeno è che in italiano S preconsonan-

tica non ha una propria definizione di sonorità ma si ac-

corda con la consonante che segue. Come per N prece-

dente, si tratta di assimilazione, seppure di un tipo par-

ticolare.

3.1.7. Conclusioni: come pronunciamo l’italiano

A conclusione di questa discussione, i risultati a cui

siamo pervenuti riguardo alla pronuncia del nostro mini

testo italiano sono i seguenti (gli elementi di pronuncia

aggiuntivi rispetto alla trascrizione in (2) sono in rosso;

quelli diversi sono evidenziati in giallo; non si è tenuto

conto delle parole grafiche, ma grosso modo dei gruppi

ritmici):

(3) lwddett

wo ammiofiw

o, kwwest

wo l:ibr

wo

kestalleddn:dwo iw:bile, ilpeddo:re keabbja

maĭvis:two: s

wol

wo sss

wo, vjoln:tsa eoenita. ududittsjo

trwppozbrigati:vo? massell

wddallttow tre vvl:te!

10

3.1.2. Segmenti di suono, foni e fonemi

A questo punto si pone una domanda: se (3) rappresenta

come noi pronunciamo l’italiano (o, meglio, gli aspetti

più importanti della pronuncia dell’italiano) cosa rap-

presenta la trascrizione in (2)? Alla luce della discus-

sione sulla pronuncia dell’italiano si potrebbe essere

portati a dedurre che (2) sia una versione approssimati-

va di (3), in quanto non è né una rappresentazione gra-

fica dell’italiano, né fonetica, nel senso che non illustra

effettivamente i movimenti salienti del nostro apparato

fonatorio. Questa conclusione, però, sarebbe sbagliata.

In realtà, una rappresentazione come quella in (2) coin-

cide sostanzialmente con quella che la gran parte dei

linguisti definirebbe una ‘trascrizione fonematica’, vale

a dire che consiste nei cosiddetti ‘fonemi’. Si ricorderà

che all’inizio della nostra discussione avevamo accen-

nato alla bipartizione della scienza del suono linguistico

in due discipline, la fonetica e la fonologia. È venuto il

momento di spiegare in cosa consista la differenza. I

fonemi attengono alla fonologia, così come i foni atten-

gono alla fonetica. Quella in (3) è appunto una trascri-

zione fonetica, cioè in foni, che sono appunto elementi

di pronuncia. Ma cosa sono i fonemi? In prima appros-

simazione possiamo dire che sono unità di suono men-

tali. In quanto tali sono astrazioni, nel senso che non si

possono osservare fisicamente, come è invece possibile

per più concreti i foni, elaborati sulla base

dell’osservazione dei movimenti dell’apparato fonatorio

e delle emissioni acustiche. Nonostante ciò le prove

della loro esistenza mentale sono incontrovertibili. La

fonologia, quindi, si interessa dell’aspetto mentale del

suono linguistico, mentre la fonetica si interessa

dell’aspetto fisico, osservabile esternamente.

È importante rendersi conto che questa distinzione

non è solo disciplinare–metodologica; in realtà ci sono

ottime ragioni per ritenere che nella nostra mente ci

siano due componenti con funzioni distinte che corri-

spondono grosso modo alle due sottodiscipline. Ma

quali sono queste diverse funzioni? La risposta può

sembrare abbastanza evidente per il componente foneti-

co: si può pensare, magari un po’ semplificando, che si

occupi della pronuncia dei segmenti di suono, vale a di-

re che istruisce i vari articolatori dell’apparato fonatorio

riguardo ai movimenti da effettuare; in una parola della

fonazione. Ma perché un componente fonologico? Eb-

bene la risposta è che il componente fonologico ha la

funzione di interpretare linguisticamente i suoni lingui-

stici. L’interpretazione dei suoni linguistici consiste es-

senzialmente nel loro riconoscimento. Quando noi a-

scoltiamo un enunciato linguistico l’aspetto fondamen-

tale non è di ascoltare come i singoli segmenti di suono

siano effettivamente pronunciati ma semplicemente di

riconoscerli. Senza questo riconoscimento non sarebbe

possibile la comunicazione, in quanto non sarebbe pos-

sibile identificare gli elementi dotati di senso, morfemi,

parole e costituenti. Questa è la ragione per cui la fono-

logia, e non la fonetica, è direttamente correlata alla

grammatica e al lessico.

Tradotto in termini più analitici, la competenza di

base del componente fonologico (e quindi di una tra-

scrizione in fonemi, che simula la nostra rappresenta-

zione mentale fonologica) è quello della discriminazio-

ne dei segmenti di suono. Ciò significa che un parlante,

quando viene esposto ad un messaggio, deve identifica-

re le unità di suono con cui vengono costruite le parole

della sua lingua sulla base della sua conoscenza

dell’inventario dei fonemi della propria lingua. In altre

parole, non si tratta di un’operazione di ascolto passivo

e neutro, ma di un esercizio di identificazione. Ciò che

conta in questa operazione, quindi, non è di registrare

tutte le sottigliezze di suono, che pure siamo perfetta-

mente in grado di sentire, ma di astrarre solo quelle

proprietà di suono che servono per distinguere un fo-

nema da tutti gli altri, in breve i tratti distintivi.

Alla luce di quanto abbiamo appena detto la rappre-

sentazione (2) comincia ad avere senso. Si noterà che in

tutti i casi si tratta di segmenti di suono distintivi; per

meglio dire la rappresentazione (2) contiene (salvo al-

cune parziali eccezioni che verranno discusse più avan-

ti) solo proprietà di suono che sono potenzialmente in

grado di costruire parole diverse. Si può capire facil-

mente questo confrontando la trascrizione fonologica

con quella fonetica (ripetute qui di seguito per comodi-

tà):

(2) TRASCRIZIONE FONOLOGICA

l detto a mio fio, kuesto libro ke sta leddndo ibile,

il peddore ke abbia mai visto: solo ssso, violntsa e

oenita. un duditsio trppo sbrigativo? ma se l da ltto tre

vlte!

(3) TRASCRIZIONE FONETICA

lwddett

wo ammiofiw

o, kwwest

wo l:ibr

wo kestalleddn:d

wo

iw:bile, ilpedo:re keabbja maĭvis:two: s

wol

wo sss

wo,

vjoln:tsa eoenita. ududittsjo trwppozbrigati:vo?

massellwddalltto

w tre vvl:te!

Una delle differenze più evidenti tra le due trascrizioni

è che in (3) sono presenti molti casi di segmenti lunghi

(doppi) non registrati invece in (2), sebbene anche in

(2) compaiano segmenti lunghi. Allora la domanda è:

perché la trascrizione fonologica registra alcuni casi di

lunghezza e ne ignora altri? Si noti che ciò non dipende

da fattori fisici, nel senso che i casi di lunghezza regi-

strati nella trascrizione fonologica non differiscono in

nulla dagli altri. È forse un fatto arbitrario, magari lega-

to a corrispondenti arbitrarietà del nostro sistema orto-

grafico? La risposta è no, il diverso trattamento non è

affatto arbitrario ma obbedisce al criterio di distintività,

che, come si è detto, è fondamentale in fonologia. Così,

tutti i casi di segmenti doppi in (2) rientrano nella cate-

goria della lunghezza consonantica contrastiva che ca-

ratterizza un gran numero di morfemi grammaticali e,

soprattutto, lessicali dell’italiano. Ecco alcuni esempi di

coppie minime: cane – canne casa – cassa pala – palla vedremo –

vedremmo

11

La lunghezza che caratterizza queste forme è impreve-

dibile perché non può essere ricavata tramite

l’applicazione di una regola, infatti è lessicale, nel sen-

so che deve essere specificamente appresa per ogni

forma in cui compare. È da notare che la lunghezza

consonantica lessicale, pur non essendo rara in assoluto

tra le lingue del mondo, si trova unicamente in italiano

tra le lingue nazionali dell’Europa occidentale.

Viceversa, tutti casi di lunghezza registrati in (3)

ma non registrati in (2) rientrano nella rubrica della

lunghezza non contrastiva. Infatti, come si ricorderà, sia

la Lunghezza Consonantica Intrinseca sia l’Allunga-

mento Vocalico sia il Raddoppiamento Sintattico sono

automatismi governati da regole, come tali non sono in

grado di identificare parole diverse.

Le stesse considerazioni valgono per le altre proprie-

tà di suono considerate in (3) ma trascurate in (2), come

l’arrotondamento consonantico, che non è una proprie-

tà distintiva in italiano. Come si ricorderà, il fatto che

una consonante sia o meno arrotondata in italiano non è

una proprietà autonoma della stessa ma deriva dalla vo-

cale seguente; più precisamente una consonante sarà ar-

rotondata solo se nella stessa sillaba è presente una vo-

cale arrotondata.

3.2. Foni, fonemi e lettere

3.2.1. Scrittura e consapevolezza

A questo punto della nostra discussione siamo in grado

di tirare qualche conclusione. Abbiamo visto che vi so-

no due modi diversi per rappresentare i suoni del lin-

guaggio:

a. quello fonologico, che registra gli elementi di suono

distintivi, perché correlato con il riconoscimento dei fo-

nemi, gli elementi costitutivi della forma fonetica delle

parole;

b. quello fonetico, che registra tutti gli elementi di

suono apprezzabili, distintivi e non distintivi, perché

correlato alla pronuncia effettiva dei suoni linguistici.

Al posto di quello che avevamo chiamato generica-

mente ‘segmenti di suono’ ora distinguiamo tra foni e

fonemi. Abbiamo anche suggerito che questa biparti-

zione corrisponde a due componenti o modalità di fun-

zionamento diversi della nostra mente. Ora è il momen-

to di rendere conto di questa affermazione.

Una differenza fondamentale tra le due modalità ri-

guarda la consapevolezza. Come sarà evidente per chi-

unque abbia seguito fino qui questa discussione, mentre

i parlanti mostrano di avere qualche consapevolezza,

magari non immediata ma comunque solida, degli ele-

menti fonologici, non sembrano averne affatto degli a-

spetti fonetici. Non è perciò sorprendente che ciò che la

scrittura “legge”, il tipo di conoscenze su cui si basa, sia

la fonologia e non la fonetica. In effetti, questo è quasi

ovvio dal momento che, come si ricorderà, avevamo ri-

cavato la rappresentazione fonologica proprio

dall’ortografia, una volta emendata dalle sue idiosincra-

sie. Questo risultato, appunto, non è casuale ma è una

diretta conseguenza della derivazione della scrittura

dalla fonologia.

Vale però la pena di approfondire la relazione tra

consapevolezza e scrittura, che è meno ovvia di quanto

possa sembrare. Si è detto che la scrittura legge la fono-

logia perché è il livello di conoscenza dei suoni di cui si

ha maggiore consapevolezza (ovvero, forse, il solo li-

vello di conoscenza dei suoni di cui si abbia qualche

consapevolezza). Ma perché è necessaria la consapevo-

lezza per scrivere? In fondo, come si è visto, non si ha

bisogno di consapevolezza per pronunciare i suoni del

linguaggio. La risposta è che, cognitivamente parlando,

scrivere/leggere è un’operazione completamente diver-

sa dal parlare/ascoltare. Le principali differenze tra par-

lato e scritto sono presentate schematicamente di segui-

to:

a. Il parlato è naturale; lo scritto artificiale.

b. La scrittura è un successo di biologia applicata, par-

te scoperta (le parole non differiscono olisticamente,

ma per la disposizione di un piccolissimo inventario di

unità, i fonemi), parte invenzione (come codificare le

unità di suono con unità visive).

c. Il parlato è supportato da un modulo specializzato,

in forma di atteggiamenti articolatori astratti e in forma

di capacità percettiva. I due aspetti sono strettamente

coordinati. Non abbiamo invece alcuna specializzazione

per lo scritto.

Il parlato è precategoriale, precognitivo, come tale,

è al di sotto della soglia della consapevolezza e non

comporta consapevolezza fonologica; l’apprendimento

dello scritto comporta invece consapevolezza fonologi-

ca; in particolare, l’apprendimento di un sistema alfabe-

tico comporta crucialmente la consapevolezza dei fo-

nemi. È stato infatti evidenziato in diversi studi quanto

sia cruciale la consapevolezza fonologica, dei fonemi in

particolare, per l’apprendimento di un sistema alfabeti-

co.

Liberman, noto studioso di produzione e ricezione

del parlato, espone una tesi fondamentale sulla relazio-

ne tra parlato e scritto. Nelle sue parole, ‘legge-

re/scrivere è difficile perché parlare/ascoltare è facile’,

vale a dire che le difficoltà nell’apprendimento dello

scritto emergono dal confronto con l’apprendimento del

parlato, che si attua con una facilità sbalorditiva in

quanto l’apparato articolatorio–uditivo dell’uomo ha

un’innata relazione privilegiata col linguaggio, tale che

la vista e l’apparato motorio implicato nello scrivere

non hanno. Una conseguenza è che la scrittura, partico-

larmente un sistema alfabetico, si deve interfacciare con

conoscenze fonologiche di cui il parlante ha normal-

mente scarsa consapevolezza, proprio perché per parla-

re non serve consapevolezza fonologica. Pertanto, im-

parare a leggere/scrivere implica prendere consapevo-

lezza delle conoscenze fonologiche implicate,

un’operazione che è evidentemente possibile, ma né fa-

cile, né immediata; per qualcuno, poi, i bambini ‘disles-

sici’, difficilissima.

Queste tesi sono di immediato interesse per gli edu-

catori di qualunque ambito. Dal punto di vista applica-

12

tivo si è proposto che lo sviluppo della consapevolezza

fonologica, tramite esercizi, giochi fonologici o

quant’altro, faciliti l’alfabetizzazione.

Considerazioni simili sembrano valere anche per la

dislessia, o almeno per la cosiddetta ‘dislessia fonologi-

ca’, come viene denominata da alcuni specialisti, e per

alcuni tipi di deficit di percezione linguistica, che, pur

nelle loro differenze, sembrano entrambi derivare da

qualche tipo di deficit relativi al componente fonologi-

co. Non è intenzione di questa trattazione che il lettore

ricavi la falsa impressione che ‘il problema è compreso

e risolto’. Trattare la dislessia è un compito che va oltre

i nostri scopi e le nostre competenze. Del resto, il pro-

blema è troppo vasto e complesso perché persino uno

specialista ne possa rendicontare in breve. D’altra parte,

può essere di qualche utilità condividere poche rifles-

sioni:

► L’impressione che si ricava (almeno i ‘non ad-

detti ai lavori’) solo curiosando tra la sterminata biblio-

grafia e soprattutto tra l’oceanico numero di siti Internet

dedicati, è che le diverse opinioni riguardo alla dislessia

siano troppo radicalmente diverse per derivare solo da

diverse formazioni e scuole di pensiero. Sembra che ci

sia un problema terminologico-concettuale: non tutti gli

studiosi, e soprattutto educatori e operatori terapeutici

del settore, sembrano rendersi conto che la dislessia è

un epifenomeno, e che non è una specifica patologia,

nel senso medico del termine, più di quanto non lo sia il

mal di testa. Il termine si riferisce solo alla difficoltà di

apprendimento e utilizzazione della lettura/scrittura. Da

questo punto di vista appaiono poco sostanziali le in-

terminabili discussioni su ciò che veramente è dislessia.

È verosimile, quindi, che ci siano cause anche molto

diverse dietro il difficile rapporto tra alcune persone e

la lettura/scrittura, esattamente come ci possono essere

cause molto diverse che determinano un ‘mal di testa’.

Di conseguenza, non sarebbe fondato proporsi una teo-

ria olistica della dislessia. Il tipo a cui si riferiscono gli

studi menzionati (in particolare quello di Liberman) è

quella che alcuni chiamano ‘dislessia fonologica’, per

distinguerla da altri tipi di dislessia che presentano ca-

ratteristiche diverse, in particolare quel tipo di dislessia

che si incontra frequentemente nella letteratura e che

sembra correlata a disturbi psicologici di tipo compor-

tamentale. Quale sia l’incidenza della dislessia fonolo-

gica è difficile dirlo, ma sembra comunque molto rile-

vante, se non la più rilevante.

► Ci sono dei dati molto interessanti che sembrano

confermare questa direzione di ricerca. Come si ricava

da alcuni studi comparativi, l’incidenza della dislessia è

molto diversificata tra i diversi paesi. In particolare, è

massima nei paesi anglosassoni (negli Stati Uniti si cal-

cola intorno al 20%), scarsa in Italia (meno del 5%),

virtualmente assente in Giappone. Come si può rendere

conto di questi dati così sorprendenti? Non sembra ra-

gionevole attribuire queste notevoli differenze ad ana-

loghe differenze nelle condizioni affettive o, peggio, a

differenze endogene attinenti alla visione o al controllo

degli arti superiori. Il sistema scolastico giapponese è

sicuramente più severo e meno tollerante di quello ame-

ricano, ed imparare a leggere/scrivere il giapponese non

è certo più facile che imparare a leggere/scrivere

l’inglese. Ci sono però dei dati linguistici, tendenzial-

mente poco considerati in questo campo, che gettano

una diversa luce sul problema. È una coincidenza che

l’inglese utilizzi uno dei sistemi alfabetici peggiori al

mondo (nel senso, ovviamente, del Principio Alfabeti-

co), certo molto meno efficiente di quello italiano, e che

il giapponese utilizzi un sistema di scrittura non alfabe-

tico (che perciò non necessita di attivare la consapevo-

lezza dei fonemi, ma solo quella delle sillabe e delle pa-

role, ben più intuitive)?

Siamo ora in grado di riesaminare il rapporto tra suoni e

lettere; possiamo, quindi, riformulare in modo più accu-

rato il Principio Alfabetico:

(1i) PRINCIPIO ALFABETICO

Un alfabeto è un sistema di scrittura in cui lettere e fo-

nemi sono in relazione biunivoca.

4. Conclusioni

Al termine di questa discussione sulla relazione tra

scrittura, ortografia italiana in particolare, e suoni pos-

siamo tirare qualche conclusione. I risultati più impor-

tanti sembrano essere i seguenti:

1. Il componente che si occupa della codifica, memo-

rizzazione e decodifica dei suoni del linguaggio è arti-

colato in due sottocomponenti distinti, il componente

fonologico, che ha la funzione di identificare le unità

linguistiche, e il componente fonetico, che ha la funzio-

ne di realizzare concretamente le informazioni del

componente fonologico.

2. La scrittura si interfaccia con la fonologia, il com-

ponente a cui la coscienza dei parlanti riesce ad avere

accesso.

3. In un sistema alfabetico le lettere rappresentano in

linea di principio i fonemi, segmenti di suono caratte-

rizzati da tutte e solo le proprietà di suono distintive.

4. La scrittura non legge invece il componente foneti-

co, troppo al di sotto della soglia della consapevolezza.

5. L’apprendimento della lettura/scrittura è

un’operazione lenta e difficile perché implica un pro-

cesso di autoconsapevolizzazione del componente fono-

logico della propria lingua; l’apprendimento del parla-

re/ascoltare, invece, è rapido e indolore perché non ne-

cessita di alcuna consapevolezza.

6. I dati sulla distribuzione areale della dislessia sug-

geriscono che il grado di congruenza rispetto al Princi-

pio Alfabetico abbia conseguenze sulla facilità e proba-

bilità di successo dell’apprendimento di un sistema al-

fabetico da parte di un parlante, verosimilmente perché

influenza la capacità da parte di chi apprende di inter-

facciare efficacemente la scrittura con le informazioni

del componente fonologico, in altri termini, di com-

prendere ‘per cosa stanno le lettere’.

13

SISTEMI di SCRITTURA

Varia molto l'aspetto MATERIALE: — su che cosa si scrive;

— con che cosa si scrive;

— con quali segni.

Varia molto l'aspetto FORMALE: Quali unità lin-

guistiche rappresenta la scrittura? PAROLE, SILLABE,

PARTI DI SILLABA, FONEMI

SEMASIOGRAFIE

PITTOGRAFIE IDEOGRAFIE

geroglifico, proto-cuneiforme,

-cinese

cuneiforme, cinese, ieratico e

demotico

SEMASIOGRAFIE ESPANSE

TECNICA FUNZIONE APPLICAZIONE

METONIMIA estensione

iconica

lessemi semicon-

creti

OMONIMIA (TRANSFER FO-

NETICO) fonografia

(sillabica)

lessemi astratti

(funtori e formati-

vi)

REBUS/SCIARADA (COMPO-

SIZIONE) fonografia

(sillabica e-

stesa)

funtori e formativi

MONOCONSONANTISMO fonografia

“alfabetica”

nomi propri e stra-

nieri ACRONIMIA

1.1.1.FONOGRAFIE

SILLABOGRAFIE ALFABETI CONSONANTICI COMPLETI

lineare B, etiopico, che-

rokee

nordsemitici greco, latino

METONIMIA

a. RE BOCCA DIO-DIO 'Il re parla agli dei'

b. DIO OCCHIO UOMO-UOMO 'Dio guarda gli uomi-

ni'

REBUS/SCIARADA

OMONIMIA SEMPLICE

= (egli) porta

OMONIMIA COMPOSTA

B4 'before'; U2 'you too'; 4U 'for you'; NXS 'in e-

xcess'; EZ 'easy'; NC 'and see'; YRU 'why are you';

IM 'I am'; UR 'you are'; Q8 'Kuwait'; 2B 'to be';

CAN + KNEE + BALL 'cannibal'; SAND + WITCH

'sandwitch'

ALFABETI CONSONANTICI

lnbjh aá’irtj klj pjvdJndw s’lj

’e stw ’il m’estr’lj ’urlh e bjnkdJ ’il m’rj

m prlvj’e dl brgw tr’ilrbljr dj tjnj

v lsprw ‘odwr dj vjnj l’nmw ‘arlgr’r

PIRAMIDE D. CONSAPEVOLEZZA LINGUISTICA

Metodo di alfabetizzazione progressiva

di Gleitman & Rosin

a. X 'per'; – 'meno'; = 'uguale'; + 'più'

b. O3 'otre'; C6? 'Ci sei?'

c. RE + ALI = reali

d. PINO + OCCHIO = Pinocchio

14

E. FERREIRO – A. TEBEROSKY SCRITTURA SPONTANEA NEI BAMBINI

LIVELLO PRESILLABICO

a. Corrispondenza tra nome e segno (m per ‘mela’);

b. Quantità minima (3/4 segni);

c. Varietà interna dei segni (loa-ola);

d. Relazione iconica tra parola scritta e referente; (tre-

no ha più caratteri di formichina).

C A x D I L o

rondini L E ε

sole

LIVELLO SILLABICO

A B R

albero B L N

balena

LIVELLO SILLABICO-ALFABETICO

INTERMEDIO TRA SILLABICO E ALFABETICO

Valore instabile; migliore corrispondenza tra lettera e

fonema.

I S L A

isola I D O

nido

LIVELLO ALFABETICO

Corrispondenza biunivoca tra suoni e lettere; la scrittura

non è ortografica ma comprensibile.

M A N O T E L E F N O

Tipologia degli errori ortografici sistematici

ACCESSO FONOLOGICO1 CONVENZIONI

2 ORTOGRAFIE INNATURALI

3

DIALETTALISMI

E FORESTIERISMI4

ATTACCO MULTIPLO

RIPENDERE

TENO (treno)

CODA

GIROTODO

GIRAFA

IPERCORRETTISMI

?*

* Non sembrano ricorrere.

DIACRITICI

FONETICI

MACCINA (macchina)

GOSTRA (giostra)

LESSICALI

ANNO (hanno)

E (è), FÀ

POLIGRAMMI

DICESA (discesa)

ACCENTO POLISILLABI

CAFFE

PAROLA ORTOGRAFICA

DIPPIÙ

AVVOLTE (a volte)

LETTERE OMOFONE

CUANDO

IPERCORRETTISMI

HABBIAMO

IN SIEME

IPOSPECIFICAZIONE

INPORTANTE

i RIDONDANTE

CELO (cielo)

ELISIONE

UN’ALBERO

QUAL’È

CONSONANTE DOPPIA

NAZZIONE

IPERCORRETTISMI

FACCIE

POLZO

CUBBO

OGLIO

IPERCORRETTISMI

GILIO (giglio)

DANSA (danza)

BIBIA (bibbia)

1 Imperfetto accesso fonologico: spariscono in genere dopo qualche mese dall’inizio dell’alfabetizzazione. Se per-

mangono in modo sistematico in 2° elementare sono un indizio di difficoltà di apprendimento; se permangono dopo

qualche anno, sono un probabile sintomo di dislessia.

2 Imperfetto apprendimento delle convenzioni ortografiche, dalle più generali (p.e. diacritici fonetici e poligram-

mi) a quelle più specifiche (p.e. diacritici lessicali e lettere omofone). Se permane dopo il 1° ciclo è un segno di pro-

blemi di apprendimento. Non è correlato con la dislessia, sebbene le convenzioni ortografiche rendano più arduo a tut-

ti il compito di apprendere l’alfabetizzazione, per i dislessici a maggior ragione.

3 Convenzioni ortografiche controintuitive (sono in conflitto con la rappresentazione mentale del parlante). Possono

essere regolari (‘m’ prima di una consonante bilabiale, l’accento nei monosillabi ambigui) o lessicali (‘i’ ridondante,

‘z’ vs. ‘zz’).

4 Derivano dal fatto che la rappresentazione mentale del parlante non corrisponde in pieno all’italiano standard,

che sottintende l’ortografia italiana, a prescindere dal fatto che si tratti di influenze dialettali o straniere. I forestieri-

smi, però, sono in generale più invasivi e meno facili da isolare.