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TERRY BROOKS GLI ELFI DI CINTRA (Genesis of Shannara The Elves of Cintra, 2007) Per Laurie, mia sorella, con ammirazione e amore, sempre 1 Nella fortezza, Logan Tom aveva lasciato i piani sotterranei più bassi e ormai era giunto alla rampa di scale che saliva alle mura quando, all'im- provviso, esplosero acutissime le grida di gente sconvolta ed eccitata. Lo- gan era ancora dentro e non riusciva a capire cosa fosse successo fuori, ma subito raddoppiò i suoi sforzi per salire. Gettando al vento la prudenza e nonostante il rischio di essere scoperto, si lanciò di corsa. "Se è troppo tardi..." si diceva. "Se hanno già buttato dalle mura Falco e Tessa..." "Se... se... se!" Quelle parole gli bruciavano nella mente come carboni ardenti. Non po- teva essere troppo tardi. Non dopo aver fatto tanta strada ed essere arrivato così vicino. Non avrebbe mai dovuto abbandonare Falco nella fortezza. Avrebbe dovuto trovare il modo di liberarlo, finché ne aveva la possibilità. Pensare di poterlo salvare all'ultimo istante era una stupidaggine. Qualun- que persona di buon senso l'avrebbe capito! Correva a più non posso, puntando innanzi a sé il bastone nero, la mente al massimo della concentrazione. Oltrepassò decine di abitanti della for- tezza che correvano verso di lui, ma nessuno cercò di fermarlo, anche se molti si voltarono a guardarlo. Forse gli lessero negli occhi che sbarrargli la strada sarebbe stata una pessima idea. Nella misura in cui lo sguardo ri- fletteva le sue emozioni e gli occhi duri e furenti erano lo specchio dei suoi pensieri, impossibile pensare di ostacolare il Cavaliere del Verbo. In breve tempo Logan giunse in cima alla rampa e uscì all'aperto. Davanti a lui si stendevano la gradinata e il campo di gioco. I sedili degli spettatori erano stati strappati già da molto tempo per fare spazio alle abitazioni. Il Cavaliere si trovò in mezzo a un ammasso di ca- supole a un piano, fatte di mattoni e assi di legno assemblati senza molta perizia a formare stanze, baracche accatastate da un livello al successivo. Non le degnò di molta attenzione mentre si infilava a tutta velocità nei var-

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TERRY BROOKS GLI ELFI DI CINTRA

(Genesis of Shannara The Elves of Cintra, 2007)

Per Laurie, mia sorella, con ammirazione e amore, sempre

1

Nella fortezza, Logan Tom aveva lasciato i piani sotterranei più bassi e

ormai era giunto alla rampa di scale che saliva alle mura quando, all'im-provviso, esplosero acutissime le grida di gente sconvolta ed eccitata. Lo-gan era ancora dentro e non riusciva a capire cosa fosse successo fuori, ma subito raddoppiò i suoi sforzi per salire. Gettando al vento la prudenza e nonostante il rischio di essere scoperto, si lanciò di corsa.

"Se è troppo tardi..." si diceva. "Se hanno già buttato dalle mura Falco e Tessa..." "Se... se... se!" Quelle parole gli bruciavano nella mente come carboni ardenti. Non po-

teva essere troppo tardi. Non dopo aver fatto tanta strada ed essere arrivato così vicino. Non avrebbe mai dovuto abbandonare Falco nella fortezza. Avrebbe dovuto trovare il modo di liberarlo, finché ne aveva la possibilità. Pensare di poterlo salvare all'ultimo istante era una stupidaggine. Qualun-que persona di buon senso l'avrebbe capito!

Correva a più non posso, puntando innanzi a sé il bastone nero, la mente al massimo della concentrazione. Oltrepassò decine di abitanti della for-tezza che correvano verso di lui, ma nessuno cercò di fermarlo, anche se molti si voltarono a guardarlo. Forse gli lessero negli occhi che sbarrargli la strada sarebbe stata una pessima idea. Nella misura in cui lo sguardo ri-fletteva le sue emozioni e gli occhi duri e furenti erano lo specchio dei suoi pensieri, impossibile pensare di ostacolare il Cavaliere del Verbo. In breve tempo Logan giunse in cima alla rampa e uscì all'aperto. Davanti a lui si stendevano la gradinata e il campo di gioco.

I sedili degli spettatori erano stati strappati già da molto tempo per fare spazio alle abitazioni. Il Cavaliere si trovò in mezzo a un ammasso di ca-supole a un piano, fatte di mattoni e assi di legno assemblati senza molta perizia a formare stanze, baracche accatastate da un livello al successivo. Non le degnò di molta attenzione mentre si infilava a tutta velocità nei var-

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chi lasciati liberi per il passaggio e proseguiva in direzione della cima. Ma doveva essere successo qualcosa di imprevisto. Coloro che si erano

raccolti sulle mura per assistere all'esecuzione di Falco e Tessa si precipi-tavano giù dai passaggi con la stessa fretta con cui Logan saliva. Costretto a fermarsi per non essere risucchiato dalla folla, il Cavaliere cercò di dare un senso alle farneticazioni dei fuggitivi.

«... mai visto niente di simile. Opera dei demoni, se mai ce n'è stata una. Hai visto che luce...»

«... brillava come un lampo al magnesio...» «... e a terra non c'era traccia di quei due. Poi è tornato il buio e non sono

più riuscito a vedere in fondo alla...» Logan s'infilò in uno stretto corridoio che separava due edifici e attese

che la gente si fosse allontanata. Qualunque cosa fosse accaduta, ormai era finita. Ma cos'era successo?

Afferrò per un braccio un ragazzo che gli passava vicino, strappandolo via dallo sciame di persone che si allontanavano dalle mura. Accostò la faccia alla sua.

«Cosa sta succedendo? Perché scappate tutti?» Il ragazzo lo fissò per un momento, ma lesse sul suo volto qualcosa che

lo spaventò ancora più di quello che aveva visto sulle mura. Cercò di par-lare e non ci riuscì. Poi, con uno strattone, liberò il braccio e si tuffò di nuovo nella massa della folla in tumulto.

Logan si allontanò dalle vie principali e riprese a salire passando tra un edificio e l'altro, lungo un percorso più tortuoso. Camminava in fretta, con tutta la velocità che gli era permessa, aggirando gli ostacoli o scaraventan-doli di lato. Secchi, scope, pentole e altri arnesi da cucina volavano da tutte le parti, suscitando le proteste e le grida di rabbia dei proprietari. In un al-tro momento e in una situazione diversa, il Cavaliere del Verbo avrebbe prestato più attenzione. Ma la maggior parte degli abitanti della fortezza si stava allontanando caoticamente dalle mura o lottava per arrivare prima degli altri alle porte principali, ansiosa di vedere cos'era successo.

"Non a Falco " pregava Logan tra sé. "Non a Tessa." Giunse in cima, dove c'erano poche baracche lontane tra loro a causa del

vento gelido, che rendeva difficile la vita a chi decideva di stabilirsi lassù. Gli odori della folla lasciarono il posto a quello di pesce marcio e alghe putrefatte che giungeva dalla baia. L'oscurità della sera diveniva sempre più fitta perché i fuochi e le lampade elettriche erano tutti più in giù. Lassù sulle mura, le poche lampade erano puntate verso l'esterno, in direzione

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delle porte e degli accessi alle mura. Logan si lasciò alle spalle il labirinto di casupole e viuzze. Vedendo che

il grosso della folla si era ormai allontanato, prese a costeggiare il muro più alto, diretto a un passaggio che portava all'esterno, dove si apriva un terrazzo in origine riservato ai venditori di bibite e di oggetti ricordo.

Anche lì c'era qualche edificio, le stesse baracche costruite in quattro e quattr'otto, ma erano adibite a magazzino e non ad abitazione. Sulle mura rimaneva ancora qualcuno che si sporgeva a guardare di sotto. Logan scel-se una giovane donna che gli voltava la schiena e continuava a fissare qualcosa ai piedi delle mura.

«Dove sono il ragazzo e la ragazza?» le chiese, quando le fu vicino. La giovane si voltò e lo fissò con stupore. Non doveva avere più di una

quindicina d'anni, forse meno, e sulla sua faccia lentigginosa si scorgeva una smorfia, come se avesse appena inghiottito qualcosa di amaro.

«Come?» chiese. «Il ragazzo e la ragazza» ripeté Logan. «Cosa gli è accaduto?» La giovane ebbe un istante di esitazione. «Non hai visto?» «Non ero qui. Dimmi cos'è successo.» «Be', accidenti, cosa non è successo! Incredibile! Li hanno gettati giù...

le guardie li hanno spinti fuori, tutt'e due insieme, sai. Sono caduti nel vuo-to come due... come due spaventapasseri o due sacchi di sabbia. Poi è ve-nuta una luce, improvvisa. Una luce abbagliante. È venuta fuori da non so dove, dal niente, e se li è inghiottiti. Quando la luce è scomparsa, erano scomparsi anche loro.»

Si guardò alle spalle e abbassò gli occhi sul pavimento coperto di rifiuti, come per assicurarsi che fosse ancora al suo posto.

«Non ho mai visto niente di simile. Nessuno riesce a capire cos'è succes-so.» Tornò a guardare Logan. «Uno diceva che è la magia dei demoni! Lo credi anche tu?»

Logan non sapeva cosa pensare. «No» rispose. «La luce proveniva da uno di loro? Magari dal ragazzo?»

Lei scosse la testa. I lunghi capelli castano chiaro erano agitati dal vento che si era levato con la sera. Si allontanò una ciocca dagli occhi. «No, non veniva da nessuna parte. Si è accesa nell'aria, li ha circondati e basta. Poi non si riusciva più a vederli. Tutti sono impazziti! Ma è stato qualcosa di meraviglioso!»

Logan impiegò un momento per riflettere su quelle parole. La spiegazio-ne più logica era che la magia di Falco, la magia primordiale del Variante,

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si era rivelata in una maniera inattesa. Se però la ragazzina aveva ragione, se non era stata la magia di Falco a manifestarsi in modi sconosciuti, do-veva essere una magia che veniva dall'esterno. Ma da dove poteva giunge-re un prodigio del genere? Falco e Tessa erano stati portati in salvo o erano soltanto caduti dalla padella nella brace? Sapeva di non poter trovare la ri-sposta lassù sulle mura.

«Ma, signore, io ti conosco?» gli chiese all'improvviso la giovane. Lui scosse la testa. «No.» «Eppure, mi sembra di averti già visto.» Lui si sporse a guardare le macerie ai piedi delle mura. Laggiù non si

scorgeva nulla, neppure i Divoratori. Qualunque cosa fosse successa, ave-va mandato a monte i loro piani di succhiare la somma di magia e di forza vitale che si sarebbe dispersa con la morte di Falco. "Tutti quei Divoratori" pensò. "Spariti in un batter d'occhio."

La ragazza si era appoggiata alla ringhiera, accanto a lui, e studiava la sua faccia. Doveva averlo visto quando era entrato nella fortezza quel po-meriggio. Presto si sarebbe ricordata di lui. Meglio andarsene.

All'improvviso lo sguardo della giovane corse lontano, al di là degli edi-fici della città.

«Guarda» esclamò. «Le vedi tutte quelle luci nella baia? Sembrano un milione di piccoli fuochi o qualcosa del genere.»

Logan guardò nella direzione indicata dalla ragazza, ma scorse qualcosa che lei non poteva vedere. I Divoratori ammassati lungo il porto, un'orda ribollente di corpi scuri e lisci, che si contorcevano e si dimenavano nello sforzo di avvicinarsi a ciò che giungeva dal mare, qualunque cosa fosse. Guardò con attenzione le luci. Erano centinaia, e a tutta prima non riuscì capire di che cosa si trattasse. Poi, quando l'eco dei tamburi giunse fino a lui, un brivido gli corse lungo la schiena.

Quasi nello stesso momento vicino a loro, dall'alto delle mura, si levò il suono di un corno. Veniva da qualche punto soprelevato, da una torre di guardia. Un suono lungo, lamentoso, che in ogni lingua significa pericolo. Qualcun altro aveva scorto le luci e, come Logan, ne aveva compreso il si-gnificato.

Si staccò dalla ragazza. «Devo andare. Grazie dell'aiuto.» «Oh, non è niente. Ma non eri tu che...» Logan si girò verso di lei, interrompendola. Parlò d'impulso, una reazio-

ne irrefrenabile che nasceva dalla frustrazione e dallo scoraggiamento Era stanco di veder la gente morire.

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«Cerca i tuoi genitori e i tuoi fratelli e sorelle, tutte le persone che ti vo-gliono bene e portale via di qui. Dillo a tutti coloro che incontri. Quelle lu-ci appartengono a navi che trasportano un esercito. Assedierà questa for-tezza e alla fine riuscirà a distruggerla.»

La ragazza fece per dire qualcosa, ma lui la afferrò per le spalle e la ten-ne ferma.

«No, ascolta me» esclamò. «So quello che dico. Ho già visto quell'eser-cito e so cosa è in grado di fare. Devi lasciare subito questa fortezza, anche se dovessi essere la sola a farlo. Lo so che non vorresti, ma devi andare vi-a. Ricorda quello che ti ho detto. Se rimarrai qui, ti uccideranno.»

La lasciò e la ragazza lo fissò a occhi sbarrati, il viso paralizzato dallo shock e dall'incredulità. Logan non aveva tempo da dedicarle, per lei non poteva fare altro. Doveva scegliere se credergli o no. Probabilmente no. Gli abitanti delle fortezze non davano mai ascolto ai suoi avvertimenti. Pensavano che i loro rifugi fossero i luoghi più sicuri del mondo. Pensava-no che vivere fuori, all'aperto, fosse molto più pericoloso. Nessun abitante delle fortezze capiva mai la minaccia dei demoni. Almeno, finché non era troppo tardi. Per questo finivano per essere spazzati via. Per questo la raz-za umana veniva progressivamente cancellata.

Con stupore si accorse che la ragazza lo aveva seguito, gli aveva afferra-to il braccio e lo costringeva a girarsi.

«Non parli seriamente, vero?» gli chiese. «Di quello che succederà, vo-glio dire. Niente di quello che hai detto è la verità, ammettilo.»

Logan la fissò per alcuni istanti. «Come ti chiami?» «Melke» rispose lei, con una nota di incertezza nella voce. «Bene, allora ascoltami con attenzione, Melke. Tutto quello che ho detto

è la verità. Quelle navi sono piene di pazzi feroci. Una volta erano umani. Uomini e donne come gli abitanti di questa fortezza. Ma hanno rinunciato alla loro umanità per servire i demoni che vogliono distruggere tutti noi. Uccidono gli uomini o li chiudono in campi di schiavitù. L'hanno già fatto dappertutto, in tutto il paese. E lo faranno anche qui. I tuoi capi pensano di poter resistere all'attacco, si credono al sicuro, qui, dentro le mura. Anche le altre fortezze pensavano la stessa cosa, ma presto o tardi sono state pre-se. E questa farà la fine delle altre.»

«Non ho genitori o fratelli o sorelle» rispose la ragazza. Si passò una mano tra i capelli. I suoi occhi erano terrorizzati. «Non ho nessuno. Non so cosa fare. Dove posso fuggire?»

Logan si pentì di aver parlato. Era riuscito soltanto a farla morire di pau-

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ra. Inoltre, era una sola vita. Che differenza poteva fare, la salvezza di una sola vita, nella tragedia che stava per compiersi? E poi, anche se l'avverti-mento fosse andato a buon segno e la ragazza fosse fuggita, che importan-za poteva avere? Sarebbe morta nella campagna invece che nella città, niente di più. S'infuriò con se stesso. Ecco il suo problema. Cercare di sal-vare gente come lei. Anche adesso sprecava tempo, invece di portare a termine il suo compito, invece di concentrarsi sull'obiettivo che doveva raggiungere prima di ogni altro: trovare il Variante.

Le lanciò un'occhiata e scosse la testa. «Qualunque posto va bene, pur-ché sia lontano dalla città. Va' nella campagna. Cerca altri disposti a venire con te. Più siete, meglio è.»

Le voltò bruscamente le spalle e iniziò a scendere per uscire dalla for-tezza prima che qualcuno lo riconoscesse. Se avessero scoperto la sua i-dentità, le cose si sarebbero enormemente complicate.

«Signore!» lo chiamava ancora la ragazza, dietro di lui. La ignorò. Adesso si muoveva più in fretta, quasi di corsa, per allonta-

narsi dalle mura. Raggiunse la rampa di scale e scese i gradini a due per volta. La folla era scomparsa, ma la si sentiva rumoreggiare davanti alle porte, al livello inferiore. Le persone giravano in tondo, disorientate, men-tre il corno, dalla torre di guardia, continuava a lanciare il suo richiamo. Le squadre di difensori si stavano già schierando nella piazza d'armi in fondo al campo sportivo. I soldati imbracciavano le armi e allacciavano giubbotti antiproiettile e cinture di munizioni.

Quei soldati erano bene addestrati e bene organizzati. Intendevano uscire dalla fortezza per affrontare la minaccia. Avrebbero cercato di fermare gli invasori sui moli del porto, per impedire lo sbarco. Non ci sarebbero riu-sciti, e a quel punto si sarebbero ritirati lungo le strade, fino alla loro for-tezza, dove si sentivano al sicuro. Ma dentro le mura non avrebbero trova-to la salvezza, bensì la condanna.

La cosa non lo riguardava. I combattimenti al porto e lungo le strade e-rano destinati a durare tutta la notte e l'indomani mattina lui contava di es-sere lontano.

Cercò, in mezzo alla folla di abitanti della fortezza che aveva davanti, il percorso meno rischioso. Intendeva tornare nei sotterranei e uscire dalla vecchia stazione della metropolitana. Pantera lo aspettava là, e insieme a-vrebbero raggiunto gli altri Spettri e deciso dove andare, per allontanarsi dalla fortezza e da quanto stava per accadere.

"Ma come diavolo farò" si chiese "a scoprire cos'è successo a Falco?"

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Lasciò le gradinate e raggiunse l'interno dell'edificio, ma solo per imbat-tersi subito in una squadra di difensori diretta all'uscita.

«Altolà» ordinò uno degli uomini, e puntò il fucile contro Logan. Pante-ra sedeva in mezzo alle macerie, ai margini di Pioneer Square, e attendeva con impazienza il ritorno di Logan. Da quando il Cavaliere era entrato nel-la fortezza erano successe un sacco di brutte cose, in gran parte misteriose per lui.

Il giovane aveva svolto il suo compito, si era recato davanti alle porte per fornire la diversione richiesta di cui il Cavaliere del Verbo aveva biso-gno. Aveva fatto un buon lavoro gridando alle guardie, chiedendo di libe-rare Falco, di permettergli di parlargli, di dargli del cibo. Si era comportato come un ragazzo di strada mezzo matto e doveva essere riuscito a convin-cere le sentinelle perché gli uomini sulle mura avevano riso di lui.

Dopo aver gridato per almeno il doppio del tempo necessario a Logan per arrivare alla vecchia stazione della metropolitana che dava accesso al-l'interno della fortezza, era indietreggiato fino a raggiungere il punto con-venuto per ricongiungersi con Logan alla fine della missione, aveva cerca-to un nascondiglio e vi era rimasto.

Per molto tempo non era successo niente. Poi aveva visto vicino alle porte una luce accecante e aveva udito le grida della gente che stava in ci-ma alle mura, ma non era riuscito a capirne il significato. Per qualche mo-mento si era chiesto se non gli convenisse cambiare posizione, portandosi più vicino a quella parte di mura, per vedere cos'era accaduto. Ma temeva che se il Cavaliere fosse tornato con Falco e non l'avesse trovato, se ne sa-rebbe andato lasciandolo lì. Perciò era rimasto al suo posto, frustrato e con i nervi a fior di pelle. Il cielo si era fatto sempre più scuro finché non era rimasta che una pallida luce grigiastra all'orizzonte e le lampade della for-tezza si erano accese. Altro tempo era passato e la preoccupazione di Pan-tera era aumentata sempre più.

Poi, da un varco tra gli edifici della città, aveva scorto le luci sull'acqua. Le aveva osservate, ma non era riuscito a determinare né quante fossero né da dove scaturissero. Parevano in movimento, davano l'impressione di av-vicinarsi. "Navi, probabilmente" si disse. Ma che ci facevano nella baia, di notte, e chi c'era a bordo?

Quando il suono del corno era giunto fino a lui dall'alto delle mura, la confusione di Pantera era aumentata. Aveva già udito altre volte quel suo-no, sapeva che era un segnale d'allarme: "Guai in vista, la fortezza e i suoi abitanti sono minacciati". Ma il corno suonava per avvertire delle luci sul

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mare o perché Logan Tom era stato scoperto? Era l'allarme generale per dare la caccia al Cavaliere del Verbo che aveva salvato Falco?

«Maledizione!» borbottò. Tornò ad appiattirsi nel suo nascondiglio e a tenere d'occhio i passaggi

tra la fortezza e la piazza, cercando di scorgere qualche movimento in mezzo alle macerie. Non vide nulla. Provò di nuovo la forte tentazione di avvicinarsi per scoprire cos'era successo. L'attesa non era mai stata il suo forte. Lo faceva sentire vulnerabile.

Poi ci fu un movimento, ma dalla strada dietro di lui. Da uno degli edifi-ci in rovina uscivano alcune forme scure. Le vide con la coda dell'occhio e si sentì gelare. Forse la loro uscita era la risposta al clamore e al movimen-to che giungevano dalla fortezza, impossibile dirlo. Ma qualcosa doveva averle attirate all'aperto. Ne contò almeno una dozzina. Qualunque fosse la loro natura, erano pur sempre troppe per lui.

Poi, man mano che uscivano dall'ombra dell'edificio, Pantera le riconob-be.

Rana. Non riusciva a distinguere i lineamenti a causa del buio, ma era impos-

sibile non riconoscere i movimenti anomali, scattanti, con cui camminava-no. Carnivori, mostri usciti in cerca di preda. Pantera rimase perfettamente immobile e si augurò che andassero da qualche altra parte.

Ma quando si suddivisero in gruppi più piccoli, due si diressero verso di lui.

«Perché sei ancora qui?» chiese l'uomo della fortezza a Logan. Parlò in

tono aspro, senza abbassare l'arma. «La legge la sai. Tutti gli uomini in grado di difendersi devono avere già raggiunto le loro unità. E tu mi sem-bri perfettamente in grado di impugnare le armi.»

Logan aveva due scelte. Poteva mentire sui motivi che l'avevano portato nella fortezza e augurarsi di essere creduto dagli uomini che l'avevano fermato. Oppure dire la verità, nella speranza che lo lasciassero passare. Ormai lo stavano fissando tutti, e in gran parte puntavano le armi contro di lui. Era una situazione pericolosa, tutti erano nervosi a causa del suono del corno e per il presentimento che stesse per succedere qualcosa di grave. Un presentimento sempre più forte.

«Non appartengo a nessuna unità» rispose. «Non vivo qui. Sono sola-mente di passaggio. Mi hanno invitato ad assistere all'esecuzione dei due ragazzi.»

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«Invitato ad assistere?» L'uomo che aveva parlato per primo lo studiò con attenzione. «Invitato da chi?»

Logan non riusciva a ricordare il nome del comandante della fortezza. Si strinse nelle spalle. «Dai vostri capi.»

«Ehi, ma non eri tu, davanti alla porta, oggi pomeriggio, che volevi ve-dere il ragazzo?» chiese un altro.

Logan strinse i denti. «L'ho conosciuto molto tempo fa. Ero amico della sua famiglia. Gli ho portato un messaggio dei genitori.»

Nessuno fece commenti, ma il Cavaliere del Verbo capì che non gli cre-devano. Lo capì dall'espressione dei loro visi. Anzi, quello che stava per dire avrebbe peggiorato le cose. Ma non aveva scelta. Non poteva permet-tere che lo facessero prigioniero.

«Sono un Cavaliere del Verbo» spiegò. «Sono venuto per la ragione che vi ho detto, che mi crediate o no. In ogni caso, il mio posto non è qui, ma fuori, nelle strade. La vostra fortezza è in pericolo. Nella baia è arrivata una forza d'invasione. Invece di rimanere qui, dovremmo essere tutti sui moli per cercare di fermarla.»

«Non insegnarci il nostro mestiere!» gli rispose con rabbia l'uomo che aveva parlato per primo. «Non dobbiamo rispondere a te!»

«Abbassate le armi, per favore» replicò Logan con calma. Varie persone si erano fermate nell'udire la discussione tra Logan e il

capo pattuglia. Cominciavano a temere che ci fosse qualche nuova minac-cia. In pochi momenti il corridoio rischiava di riempirsi e di non lasciare spazio per una fuga precipitosa. E il Cavaliere già sapeva di dover correre, se voleva mettersi in salvo.

«Se conosci il ragazzo, magari sai cos'è successo sulle mura» disse ora il capo del gruppo, senza abbassare la canna puntata contro lo stomaco di Logan. «Faresti bene a raccontare tutto al nostro comandante, così potrà decidere cosa fare di te.»

Il bastone nero scottava sotto le dita di Logan, che lo stringeva a due mani, lo sollevava davanti a sé. Uno scudo che niente poteva infrangere. Sentiva già la magia scorrere nel suo corpo, calda e liquida come il sangue. Le rune intagliate sulla dura superficie del legno cominciavano a brillare debolmente.

«Non ho tempo per queste cose» disse al capo del gruppo. «Lasciatemi passare.»

Tutte le armi erano puntate contro di lui. Si udì nettamente lo scatto del-la sicura che veniva tolta, il rumore di metallo che strisciava sul metallo

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quando il proiettile entrò in canna. "Che idiozia" si disse Logan, pensando non soltanto a quegli uomini, ma anche a se stesso.

Sollevò di scatto il braccio. Oltre a fermare i proiettili sparati contro di lui, la magia colpì gli uomini che lo attaccavano e li spinse indietro, rove-sciandoli a terra in una massa disordinata e senza fiato. Poi Logan si voltò e si allontanò di corsa, in mezzo a una folla che si disperdeva davanti a lui. Rinunciò all'idea di uscire dalle porte e tornò verso i passaggi sotterranei da cui era arrivato.

Qualcuno cercò ancora di fermarlo, ma Logan lo respinse senza difficol-tà, senza rallentare minimamente la corsa. Raggiunse la protezione della rampa di scale che portava ai sotterranei e si precipitò giù per gli scalini.

In pochi istanti arrivò ai livelli sotterranei e si lanciò lungo i corridoi che portavano alla galleria della metropolitana. Sentiva alle spalle urla e im-precazioni, il trambusto degli uomini che organizzavano l'inseguimento. Dalle scale giungevano i passi di persone che lo inseguivano. Rimpiangeva di non essere riuscito a dare un'occhiata alla zona davanti alle porte per controllare se vi fosse qualche traccia di Falco e Tessa. Ma ormai non era più possibile. Inoltre, sapeva in cuor suo che quanto era accaduto non la-sciava alcuna traccia. La magia di quel livello, e ormai non aveva dubbi sulla natura magica dell'accaduto, riusciva a cancellare perfettamente le tracce del proprio passaggio.

Giunto all'ingresso del tunnel della metropolitana, si affrettò a imboccar-lo. Rallentò a causa dell'oscurità e usò il bagliore delle rune incise sul ba-stone per orientarsi. Il buio era intenso, ma non totale, e i suoi occhi si abi-tuarono in fretta. Percorse le gallerie con tutta la rapidità di cui era capace, ma perse tempo ad accertarsi di non sbagliare percorso. Intanto, notò che nessuno lo inseguiva. "Hanno lasciato perdere la caccia" pensò "perché hanno problemi più importanti. Per esempio, trovare il modo di rimanere vivi..."

Alla fine della galleria, giunto alla porta da cui si arrivava alla fermata degli autobus, si fermò e tese l'orecchio alla ricerca di rumori, per assicu-rarsi che nessuno fosse in agguato. Poi sgusciò all'esterno, salendo gli sca-lini fino a un livello da cui poteva guardarsi attorno. Voleva osservare quello che stava succedendo.

Tutt'intorno alla fortezza, gli spazi aperti erano gremiti di persone che continuavano ad affluire dalle porte per poi incamminarsi lungo le strade che portavano ai lungomare. Tutti erano armati e indossavano spessi giub-botti antiproiettile. Un paio di vecchi trasporti da attacco Scorpion romba-

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vano dietro di loro e con i loro cannoni di grosso calibro indicavano la strada. Logan non ne aveva più visti dai giorni con Michael, e credeva che non ne fosse rimasto nemmeno uno. Sparavano sia obici perforanti sia gra-nate a frantumazione ed erano in grado di eliminare con un solo colpo una delle navi che si avvicinavano.

"Ma per poter fare qualche differenza" disse tra sé "di colpi ne occorre-rebbe un casino."

In mare, nelle acque aperte della baia, il rullo dei tamburi di guerra non era cessato. Nella notte, quel suono era una pulsazione costante.

Osservò per un momento l'attività, tutti gli uomini che si allontanavano da lui, poi uscì dalla stazione e attraversò il terreno coperto di macerie fino a raggiungere il punto dove Pantera avrebbe dovuto aspettarlo. Il bastone nero pulsava debolmente nella sua mano e il calore della magia gli scorre-va ancora nel corpo. Sentiva nello stesso tempo caldo e freddo, una rispo-sta al marasma di emozioni che lottavano dentro di lui. Almeno non era stato costretto a uccidere nessuno. Si augurò che per una volta gli abitanti delle fortezze ascoltassero i suoi avvertimenti sui demoni e gli ex uomini. Se lo augurò, anche se non era un suo problema ed era già dura, per lui, cercare e distruggere i campi di schiavitù. Non c'era bisogno di aggiunger-vi, a complicare le cose, la constatazione della facilità con cui le persone che liberava potevano essere rimpiazzate dagli abitanti delle fortezze. Uo-mini, donne e bambini, carne fresca da macellare per la macchina di ster-minio agli ordini del Vuoto.

Odiava anche il solo pensiero di tutto ciò. Il mondo era impazzito, i suoi abitanti si erano trasformati in vittime. Ma forse Falco, un Variante gene-rato dalla magia primordiale, poteva cambiare le cose.

Arrivò al limite di Pioneer Square, dove si aspettava di vedere Pantera, ma del giovane non c'era traccia. Lo chiamò a bassa voce, anche se era dif-ficile che gli abitanti della fortezza lo sentissero, neppure se si fosse messo a gridare. Tuttavia, preferì non rinunciare alla cautela.

Non ebbe risposta. Si guardò attorno e non scorse alcun movimento. Rimase fermo là, in mezzo alla strada vuota, senza sapere cosa fare.

2

Passero attraversò a tutta velocità il tetto del loro edificio per raggiunge-

re il più in fretta possibile le scale e scendere in strada. Non appena aveva capito cos'erano le luci nella baia, si era resa conto del pericolo che corre-

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vano. Gli invasori avrebbero impiegato del tempo per raggiungere la riva, ma

non appena sbarcati si sarebbero messi alla ricerca di chi era rimasto isola-to come lei. L'aveva sentito raccontare da sua madre e ne aveva visto le conseguenze. I cacciatori di uomini erano mostri impazziti, bestie con zan-ne e artigli, coperti di pelo. Predatori. I bambini di strada erano tra le loro vittime preferite. Doveva avvertire gli altri Spettri.

Ma proprio quando era arrivata alle scale e si accingeva a scendere, sentì dei passi che salivano. Passi pesanti, rumorosi, che non facevano alcun tentativo di celare la loro presenza. Si fermò all'istante e tese l'orecchio. Non erano i passi degli Spettri o del Cavaliere del Verbo.

"E neppure di qualcosa di umano" si affrettò ad aggiungere. Indietreggiò per allontanarsi dall'apertura e serrò le mani sulla sottile

sbarra di metallo del suo pungolo. Poi udì giungere dal buio sottostante delle voci profonde e gutturali, così forti da coprire persino il suono pesan-te dei passi, e si immobilizzò.

"Rana!" imprecò tra sé. Con la mente in tumulto, si chiese cosa fare. Non voleva essere costretta

a farsi strada con la forza in mezzo ai rana, che erano lenti e non molto in-telligenti, ma straordinariamente forti. Se le avessero messo le mani addos-so, per lei era finita.

Guardò le scale buie e fece un altro passo indietro. Non sapeva decidere se fosse meglio scendere di un piano per cercare un nascondiglio o rimane-re dove si trovava. Se avesse avuto fortuna, prima o poi se ne sarebbero andati, ma se fossero saliti fino in cima, sarebbe stata nei guai.

Si guardò attorno, in fretta. Il tetto era aperto e piatto, a parte l'alloggia-mento di alcuni meccanismi e i pezzi di metallo abbandonati per terra quando avevano costruito il loro serbatoio di acqua piovana. Non offriva alcun rifugio. Disperata, tornò a guardare le scale. Non c'era altra via di fuga.

O c'era? Corse fino al lato che dava sul vicolo, sul fianco dell'edificio, e guardò

in basso. Una scaletta antincendio era fissata al cemento tramite alcuni grossi bulloni, due sottili strisce di metallo quasi invisibili al buio.

Passero osservò per un momento la scaletta, poi alzò lo sguardo sulle acque della baia, dove le luci della flotta d'invasione si avvicinavano. I tamburi continuavano a rullare, scandendo il loro ritmo incessante, per an-nunciare minacciosamente agli abitanti della città la sorte che era in serbo

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per loro. Spostò lo sguardo. Le porte della fortezza erano spalancate e le squadre

di difensori si dirigevano al porto. Presto si sarebbe combattuta una batta-glia. E una volta iniziato lo scontro, era meglio che gli Spettri si trovassero lontani.

Si passò una mano nei capelli color della paglia e respirò a fondo. Odia-va le altezze, ma non c'era niente di peggio che un incontro con i rana. Si avvolse sulla spalla la cinghia del pungolo, salì sul cornicione, afferrò la ringhiera ricurva e cominciò a scendere.

Avrebbe voluto chiudere gli occhi, ma si limitò a tenere lo sguardo fisso sulla parete e dedicò tutta la sua attenzione alla ricerca di un appoggio si-curo per il piede, man mano che scendeva. La discesa era agevolata dal bu-io, che nello stretto canalone del vicolo era quasi completo.

Laggiù, tra i due edifici, non arrivavano né le luci della fortezza né quel-le delle navi. Passero si tranquillizzò pensando a sua madre così abituata a combattere, e a quante fughe di quel genere avesse orchestrato quando lei era piccola. Gliene aveva parlato e lei stessa in qualche occasione vi aveva preso parte, verso la fine. Si era meravigliata per la calma che la madre riusciva a conservare in quei momenti convulsi. Da quegli episodi aveva imparato che era necessario mantenere il controllo, che il peggior pericolo era quello che scaturiva dall'indecisione.

Continuò a ripeterselo mentre scendeva lungo la facciata laterale dell'e-dificio, come una mosca su una parete buia, e cercò di non pensare a quel-lo che avrebbe provato se avesse perso la presa e fosse precipitata.

La discesa fu più breve di quanto si aspettava. I suoi piedi toccarono il suolo prima che si accorgesse di essere arrivata. Si allontanò dalla scaletta, si tolse di spalla il pungolo e si guardò attorno, con circospezione.

Non si riusciva a vedere niente e non si udivano rumori. Il vicolo era vuoto. Percorrendolo rapidamente, Passero arrivò sulla strada e scrutò nel-la notte. Adesso si trovava dietro l'angolo dell'edificio. La strada scendeva da Pioneer Square al porto. Dappertutto le ombre sembravano muoversi in risposta ai fuochi e ai tamburi. Lanciò una rapida occhiata al tetto e non vide nulla.

Risalì la strada in direzione della piazza, per cercare gli altri Spettri e avvertirli del pericolo. Non era sicura di quello che dovevano fare finché il Cavaliere del Verbo non fosse tornato insieme a Falco, ma almeno si pote-vano preparare a far fronte alla nuova minaccia.

Con il peggiore linguaggio che aveva appreso nei suoi tredici anni di

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bambina di strada, imprecò contro i rana che l'avevano costretta ad affron-tare la discesa dalla scaletta. Era infuriata per il ritardo. E poi, cosa ci face-vano quei rana nel loro palazzo?

I rana conoscevano le regole. In precedenza non erano mai sconfinati, non avevano mai osato. Dovevano aver visto gli Spettri allontanarsi ed e-rano arrivati alla conclusione che l'edificio era libero. Era un buon rifugio, sicuro e facile da difendere, e i rana avevano deciso di trasferirvisi non ap-pena avevano visto che gli Spettri se n'erano andati.

Ma potevano aspettare un giorno o due, no? Arrivò in fondo alla strada, dove si entrava nella piazza. Si muoveva con

cautela e scrutava con attenzione nel buio. Se c'erano dei rana dentro l'edi-ficio, probabilmente ce n'erano anche fuori. Ma la piazza sembrava deser-ta.

Si avviò verso nord e imboccò la First Avenue, nella direzione in cui si erano diretti gli altri, quando si sentì chiamare.

«Passero! Aspetta!» Si voltò subito nell'udire la voce di Pantera, lo guardò mentre attraversa-

va in fretta la strada deserta, girando attorno alle cataste di macerie. Il ra-gazzo teneva sotto il braccio il pungolo e anche da quella distanza si senti-va che respirava a fatica. Doveva avere fatto di corsa tutta la strada dalla fortezza alla piazza. Per indurlo a fuggire in quel modo, doveva essergli successo qualcosa. Qualcosa di brutto.

Passero stava per chiederglielo, quando vide le forme scure che lo inse-guivano agitando le braccia. Erano ancora lontane, ma non lo mollavano. Altri rana.

«Maledetti rana!» sbottò il ragazzo, incollerito. «Mi hanno inseguito fin dalla stazio...»

Lei sussurrò, per avvertirlo: «Abbassa la voce, gatto da salotto! Dentro ce ne sono altri!».

Troppo tardi. Dal portone dell'edificio uscirono alcune figure robuste, che subito guardarono nella loro direzione. Forme tozze, dagli occhi pene-tranti, dalle unghie che ormai da tempo si erano trasformate in artigli, dai denti appuntiti come quelli degli animali feroci.

Passero rimproverò Pantera con durezza: «Adesso ci hai fatto scoprire, chiacchierone! Muoviamoci!».

Attraversarono di corsa la piazza. C'erano rana da tutt'e due le parti della strada, sempre più vicini. I fuochi e i tamburi non sembravano produrre al-cun effetto su di loro. Avevano altre preoccupazioni, e Passero sapeva che

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in gran parte riguardavano il cibo. «Dov'è Falco?» chiese, mentre correvano verso gli edifici davanti a loro.

«Perché sei tornato da solo?» «Non so niente di Falco. E neppure del Cavaliere o quello che è. Mi ha

lasciato nella piazza, mi ha detto di aspettare il suo ritorno. Lui non è ve-nuto, ma sono arrivati quei rana e io sono dovuto scappare. Ce n'è dapper-tutto. Hai visto quei fuochi sull'acqua?»

Lei lanciò un'occhiata al suo viso dalla pelle scura. «Li ho visti dal tetto. Barche cariche di invasori. Se sono quelli che penso, siamo nei guai. Mia madre me ne ha parlato. Ex uomini, li chiamava. Distruggono tutto, am-mazzano chiunque, tranne i pochi che chiudono nei campi di schiavitù. Dobbiamo avvertire gli altri e fuggire.»

«Non sarò io a oppormi.» Pantera rallentò all'improvviso e le afferrò il braccio. «Oh-oh.»

Un paio di rana erano usciti dall'edificio che avevano davanti e sbarra-vano loro la strada.

«Che gli è preso a questi mostri?» chiese Pantera, infuriato. «Per setti-mane non se ne vede nemmeno uno e poi, all'improvviso, ne trovi dapper-tutto! Da dove sbucano?»

Passero si girò per un istante, a guardare quelli che arrivavano. In pochi minuti li avrebbero raggiunti.

«Dobbiamo liberarci di questi due» disse. «Tu pensa a quello di sinistra, e cerca di non fare stupidaggini.»

Senza attendere risposta, si gettò contro quello di destra. Teneva la mano sul pulsante del pungolo e aveva regolato la scarica al massimo. Piantò la punta dell'arma nella gamba della creatura, che grugnì e cominciò a sussul-tare in modo incontrollato.

Passero non indietreggiò, non staccò il pungolo dalla gamba. Sapeva che se gli avesse dato la possibilità di muoversi, se lo sarebbe trovato addosso all'istante. Alla sua sinistra vide con la coda dell'occhio Pantera avvicinarsi all'altro rana e colpirlo alla gola con tanta violenza da forargli la pelle spessa.

Il rana ferito da Pantera boccheggiò e cercò di estrarre il bastone morta-le, ma il ragazzo si servì della propria forza per farlo indietreggiare e cade-re sulle ginocchia.

In pochi secondi, entrambi i rana si contorcevano a terra. Passero afferrò per il braccio il compagno e lo spinse verso il vicolo.

«Piantala di guardarli!» lo rimproverò. «Corri!»

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Con il pungolo ben stretto nella mano, scomparvero nel buio. Logan Tom si soffermò ancora qualche istante a scrutare in mezzo alle

macerie dove aveva detto a Pantera di aspettarlo, poi rinunciò. Non sapeva cosa gli fosse successo, ma non poteva perdere tempo a scoprirlo. Doveva tornare dagli altri, e si augurò che il ragazzo li raggiungesse per conto pro-prio. Forse qualcosa l'aveva spaventato. Non sembrava da lui, ma non si può mai dire. In ogni caso, non c'era.

A meno che non fosse lì, ma non potesse rispondere. Logan non voleva pensare a una simile eventualità, ma non poteva nep-

pure escluderla. Gli dispiaceva pensare di aver mancato la promessa e di averlo lasciato lì nella piazza a farsi uccidere, invece di portarlo con sé.

Per anni era vissuto nel rimpianto di non poter fare nulla per i bambini dei campi di schiavitù e adesso non voleva aggiungere un altro nome alla lista. Curioso. Conosceva Pantera da meno di ventiquattr'ore, ma gli pare-va di conoscerlo da sempre. Gli piaceva quel ragazzo cupo e sarcastico, gli piacevano la sua aggressività e la sua disponibilità ad accettare qualunque situazione. Forse gli piaceva perché ammirava la resistenza, nei bambini di strada.

O forse perché gli ricordava se stesso? Si avviò lungo la strada che portava a Pioneer Square, inseguito dal suo-

no dei tamburi che giungeva dalla baia e dalla marcia dei difensori che si dirigevano al porto. Odiava quella ulteriore responsabilità di doversi pren-dere cura degli Spettri, di doverli scortare per tutto il viaggio verso la loro nuova destinazione. Perdendo il Variante, aveva già mancato gravemente al proprio compito di proteggerlo. Non che fosse facile proteggere qualcu-no che era stato inghiottito da un lampo improvviso e adesso si trovava chissà dove.

Ma doversi occupare della famiglia del Variante... Si interruppe a quel punto delle sue riflessioni, accorgendosi delle parole

che aveva pensato. Doversi occupare della famiglia di Falco, un gruppo di bambini di stra-

da, prendersi cura di loro, era irritante. Limitava la sua libertà di movimen-to. Che doveva fare di quei bambini e del vecchio e di quel cane mentre studiava il modo di rintracciare il ragazzo?

Si accorse che prima di incontrarlo non aveva mai pensato al Variante come a un ragazzo. Anche se quella creatura era entrata nel mondo come bambino all'epoca di John Ross e Nest Freemark, anche se non era mai sta-

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to visto in altra forma dopo quei primi momenti, Logan non aveva mai pensato a lui come a un ragazzo. Anzi, non si era mai soffermato a pensare al Variante.

Quando Due Orsi gli aveva chiesto di cercarlo, aveva visto la missione come un modo per sfuggire al ruolo che aveva svolto per tanti anni. Attac-care i campi, uccidere i difensori, liberare i prigionieri e - ebbe un attimo di esitazione prima di continuare con quel filo di pensieri - distruggere gli esperimenti che, prima o poi, erano destinati a diventare demoni.

I bambini dei campi di schiavitù. Si era illuso di potersi lasciare alle spalle tutto ciò. Aveva creduto di es-

sersene liberato. Non avrebbe mai immaginato di finire legato a un gruppo di bambini di strada.

Ma si era sbagliato ancora una volta. Come in tante altre occasioni. Raggiunse l'ombra degli edifici e il canyon buio di Pioneer Square im-

ponendosi di non voltarsi indietro. Gufo udì il rullo dei tamburi e guardò dietro si sé e dietro Fiume che

spingeva la carrozzella. Sulla macchia scura delle acque della baia si scor-gevano centinaia di puntini luminosi, che si stendevano fino all'orizzonte.

«Fammi vedere» ordinò alla bambina dai capelli neri. Fiume girò la sedia a rotelle. Anche gli altri Spettri si accorsero di quan-

to stava succedendo e si fermarono a guardare con lei. Orso bloccò il pe-sante carretto, carico delle loro masserizie, e Fiamma, che camminava in testa al gruppo, tornò indietro di alcuni passi. Aggiusta e Gesso posarono a terra la barella del Meteorologo e si massaggiarono la schiena e le braccia doloranti.

«Per un vecchio, pesa in modo incredibile» brontolò Gesso. Gufo non gli badò. Tutta la sua attenzione si concentrava sulle luci.

"Torce" pensò. Più di quante ne potesse contare. Probabilmente erano ac-cese sul ponte di altrettanti scafi, e questo significava che una flotta enor-me si avvicinava alla città. In qualsiasi caso, quella vista non prometteva niente di buono.

Scoiattolo, che le dormiva tra le braccia, si mosse e sollevò la testa dalla sua spalla.

«Siamo arrivati, mamma?» domandò. «Non ancora» gli sussurrò lei. Il bambino tirò su con il naso e si stropicciò gli occhi. «Cos'è quel rumo-

re?»

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«Non preoccuparti.» Gli accarezzò i capelli fini. «Torna a dormire.» Chi si preoccupava era lei. Ormai, il bambino avrebbe dovuto riprender-

si, avrebbe dovuto vincere la malattia. Ma non riusciva a scrollarsela di dosso; nonostante le cure e le medicine continuava a indebolirsi.

Quando si erano allontanati in direzione dell'autostrada, Scoiattolo era riuscito a camminare soltanto per tre isolati. Poi aveva detto di essere stan-co e si era fatto prendere in braccio. A lei non dava fastidio tenerlo, pesava quanto l'animaletto da cui aveva preso il nome.

Gufo abbassò gli occhi sulla sua faccia e notò che era sempre più palli-da. Rimpianse di non potersi consultare con Tessa. Di malattie e cure, Tes-sa ne sapeva più di chiunque altro.

Fiamma si portò accanto a lei. Aveva l'espressione tesa e preoccupata. «Dobbiamo scappare» disse. «È un attacco» aggiunse Orso. Con la sua grossa mole impediva al car-

retto di scivolare lungo la discesa. «Quelli sono tamburi di guerra. Un si-mile numero di barche significa che è una forza d'invasione. Forse arriva dal Sud.»

«È la "cosa" che viene a ucciderci» si affrettò a dire Fiamma. Nel guar-dare le luci, rabbrividì e si strinse con le braccia. «È la "cosa" della mia vi-sione.»

Gufo la prese per un braccio e la costrinse a girarsi per impedirle di fis-sare le luci.

«Guarda me, Fiamma» le disse piano. Attese che la bambina smettesse di tremare. «Ce la fai?»

Fiamma annuì. «Non mi volterò più indietro.» «Bene.» Gufo fissò gli altri, a uno a uno. «Qualunque cosa sia, Fiamma

ha ragione. Dobbiamo allontanarci il più possibile. Qualcuno ha visto Pas-sero o Pantera?»

Nessuno li aveva visti. Gesso e Aggiusta discutevano su chi dovesse sta-re davanti, per reggere la barella. Fiume li raggiunse, spinse via Gesso con irritazione e la prese lei.

«Gufo dice che dobbiamo andarcene. Aggiusta, prendi l'altra parte.» Guardò con rabbia Gesso. «Per un po', tu puoi spingere la sedia, visto che sei tanto stanco.»

Si misero di nuovo in cammino, continuando a risalire la collina per al-lontanarsi dalla baia. Dopo aver seguito la First Avenue fino alla statua dell'Uomo con il Martello, si erano diretti verso la salita che portava allo svincolo per l'autostrada.

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Il Cavaliere del Verbo aveva detto che là avrebbero trovato il suo veico-lo e che avrebbero dovuto aspettarlo. Gufo sperava che si sbrigasse. L'as-senza di Passero e Pantera cominciava a preoccuparla. Era già abbastanza doloroso perdere Falco e forse Tessa, l'idea di perdere anche gli altri era insopportabile. Gli Spettri erano una famiglia e lei, come madre della fa-miglia, non si sentiva tranquilla finché il gruppo non era insieme.

«Gesso, sei davvero troppo stanco per continuare?» gli chiese a bassa voce, in modo che gli altri non potessero sentire. Si girò verso di lui. «Hai bisogno di riposare? Forse Fiamma può prendere il tuo posto per qualche minuto, se hai bisogno di una pausa.»

«Non sono stanco» rispose il ragazzo, rifiutandosi di ammetterlo. Studiò Fiume, poi distolse lo sguardo. «Posso fare tutto quello che fanno gli altri e anche meglio. Soprattutto meglio di lei.»

"Anche se sono in fuga e in pericolo, continuano a litigare come bambi-ni" pensò Gufo. E aggiunse tra sé: "Perché sono bambini". Però si amava-no ed erano disposti a fare qualunque cosa gli uni per gli altri. Non era così in tutte le famiglie, qualunque fosse la loro natura e il loro ambiente? O era questo a fare di loro una famiglia?

Continuarono a salire sulla collina in direzione dell'autostrada, seguendo il marciapiedi e destreggiandosi tra pile di macerie e veicoli abbandonati. Da entrambi i lati, gli edifici bui e vuoti formavano due alte pareti che li coprivano di ombre e di silenzio.

Un vento gelido si insinuava in quei canyon di cemento e pietra. Dalla baia giungevano raffiche improvvise, cariche di umidità, che portavano fi-no a loro l'odore di pece delle torce. I tamburi rullavano senza sosta, un suono profondo, minaccioso.

«Io non ho paura» mormorò Scoiattolo, appoggiato alla spalla di Gufo. Lei lo abbracciò stretto. «Certo. Lo so.» Giunsero allo svincolo dell'autostrada, una rampa circolare di cemento,

lunga e in discesa, disseminata di auto e camion, tutti arrugginiti, alcuni ancora interi, altri a pezzi.

Gufo si guardò attorno, alla ricerca del veicolo di Logan Tom, un Li-ghtning S-150 AV. Non aveva idea del suo aspetto, ma immaginava che fosse diverso da tutti gli altri. Tuttavia non riuscì a individuarlo, tutti que-gli oggetti le parevano simili, solo rottami e rifiuti.

«Eccolo laggiù» esclamò Aggiusta. Era uno dei due che reggevano la barella, perciò non poteva indicarlo

con la mano. Si limitò a un cenno della testa e nessuno capì a che cosa si

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riferisse. Gufo guardò nella direzione indicata, ma non vide nulla di parti-colare.

«Dietro il semiarticolato, vicino alla catasta» continuò Aggiusta. «Non vedi le ruote grosse? Quello è un Lightning AV.»

Gufo era disposta a credergli sulla parola, anche se non vedeva nulla. Aggiusta aveva una vasta conoscenza dei veicoli usati dai loro antenati prima che quasi tutto ciò che si muoveva su ruote avesse cessato di fun-zionare. La fonte di quelle conoscenze era un mistero, dato che leggeva pochissimo e si limitava a guardare le foto delle vecchie riviste, ma forse dipendeva dalla sua predisposizione per la meccanica.

Guardò con diffidenza gli automezzi abbandonati, raccolti in ammassi arrugginiti lungo la rampa e, a perdita d'occhio, lungo l'intera autostrada. Si chiese come fosse stato quell'ultimo giorno, quando i proprietari se n'e-rano semplicemente andati. Si chiese cosa fosse successo a quella gente, tanti anni prima, quando la città aveva iniziato a cambiare.

Soprattutto, pensava con preoccupazione a che cosa poteva nascondersi là in mezzo. Un mucchio di creature sceglieva come rifugio i veicoli ab-bandonati, e in genere era meglio non stuzzicarle.

Ma non avevano scelta. Non potevano fermarsi lontano dal punto dove Logan Tom aveva dato loro appuntamento. A meno che non fossero mi-nacciati, ma per il momento l'unico pericolo veniva dalle barche ancora lontane nella baia.

«Guidaci tu, Aggiusta» gli disse, cercando di non lasciar trapelare la ri-luttanza. «Ma rimanete tutti insieme e fate attenzione a quei rottami, per-ché qualcuno potrebbe usarli come nascondiglio. Fiamma! Avvertici subi-to se noti qualcosa di strano.»

Si avviarono lungo la rampa: erano una strana, piccola processione. Ag-giusta e Fiume, davanti a tutti, trasportavano la barella con il Meteorologo, li seguiva Fiamma, poi Orso con il pesante carretto e di retroguardia Ges-so, che spingeva la sedia a rotelle con Gufo e Scoiattolo.

Sul gruppo giungeva un debole alone di luce, proveniente sia dalla for-tezza lontana, di cui si scorgevano le mura, sia dalle torce che ormai si av-vicinavano ai moli della baia. I tamburi rullavano ossessivi e già si udiva-no le urla e le grida caratteristiche di un combattimento. E colpi di armi da fuoco.

I pensieri di Gufo corsero a coloro che mancavano. Si augurò che Passe-ro fosse ormai lontana dalla città. Era stato un errore permetterle di salire sul tetto per quell'ultimo controllo, avrebbe dovuto ordinarle di seguire gli

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altri. Si chiese anche di Pantera e Logan Tom, e di Falco e Tessa. Troppi mancavano, troppe le possibilità di farsi male in mezzo a quello che acca-deva adesso in città.

"Tutto è cambiato" si disse, senza sapere con precisione dov'era nata l'i-dea. Ma il pensiero si rifiutò di lasciarla. "Dopo questa notte, niente sarà più come prima."

Ripensò alla loro casa, a quanto era comoda e accogliente. Ricordò di quando faceva da mangiare per gli altri nella minuscola cucina fatta con pezzi di recupero. E di quando raccontava le storie del ragazzo e dei suoi compagni.

Rivide il gruppo seduto ad ascoltarla, attento ed estasiato. Risentì le loro voci e le loro risate. Ripensò a quando rimboccava le coperte a Scoiattolo e a Fiamma, e alla loro faccia serena e assonnata mentre li copriva. Le torna-rono in mente i momenti di tranquillità che aveva condiviso con Falco, quando nessuno dei due parlava e ciascuno già conosceva il pensiero dell'altro, senza bisogno di parole.

No, ormai tutto era cambiato. Li guardò, uno dopo l'altro. Adesso poteva solo sperare che riuscissero a rimanere insieme e al sicuro... La sua rifles-sione si arrestò di colpo. Aveva la sensazione che qualcosa non andasse.

Contò subito i compagni, sicura di aver commesso un errore, di aver sbagliato a contare.

Ma non si era sbagliata. Cheney era scomparso. Il grosso cane che, al-meno così le pareva, fino a poco prima era accanto a loro, adesso non si vedeva più.

Dov'era finito? Stava per chiederlo, ma si fermò. Dall'ombra delle carcasse delle auto,

davanti a lei, uscivano alla luce alcune forme scure, che strisciavano fuori dai rottami.

Non solo alcune, ma decine.

3 Il tempo, il loro inesorabile compagno, era fermo oppure era fuggito

lungo la scia delle loro orme sul selciato cittadino. Fuggito come un altro bambino spaventato.

Pantera era in testa, quando raggiunsero l'incrocio alla fine del vicolo. Si poteva andare soltanto a sinistra o a destra. Era stata Passero a indicare la strada e adesso il ragazzo si fermò, incerto sulla direzione da prendere.

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«A sinistra!» ordinò lei quando lo raggiunse. Era senza fiato. Lui non aveva voglia di discutere. Si limitò a eseguire l'ordine. Notò

comunque che la bambina cominciava a essere stanca, sia perché aveva e-saurito tutte le forze nello scontro con i rana, sia perché aveva raggiunto il limite del suo fisico. Era più giovane di lui e aveva una resistenza inferio-re. Ma non l'avrebbe mai ammesso. Non davanti a lui e probabilmente neppure ad altri.

"Questa Passero, con la sua madre guerriera morta e la sua eredità di in-transigenza!" ironizzò tra sé Pantera. "Che maledette idiozie."

Tuttavia rallentò un poco, quanto bastava perché la bambina lo raggiun-gesse. Non si guardò alle spalle, non lasciò trapelare di aver notato la sua stanchezza. Si limitò a diminuire l'andatura per lasciare che si avvicinasse.

"Di' quel che vuoi, ma questa bambina è una dura" sorrise. Lei lo faceva sempre arrabbiare con i suoi commenti, ma era uno Spettro e nessuno Spettro ne aveva mai abbandonato un altro. Quindi, anche se lei lo punzec-chiava sempre, Pantera non intendeva lasciarla indietro.

Arrivati in fondo al vicolo, svoltarono in una strada traboccante di una folla in fuga, proveniente dal porto e dai suoi magazzini, forse anche dalla piazza. C'erano ragno, lucertola, rana e altri che Pantera non aveva mai in-contrato nei suoi pochi anni di vita, forme scure e sgraziate, tutti ammassa-ti per salire sulle alture e sfuggire alla battaglia che si combatteva dietro di loro.

«Devono essersela vista ben brutta, laggiù, perché succeda una cosa del genere» commentò, mentre afferrava per un braccio Passero che stava qua-si per finire in mezzo al mucchio di mostri.

Pantera non aveva mai visto niente di simile. Di solito, quelle creature, i loro strani vicini, si evitavano accuratamente tra loro. Alcuni, come i lucer-tola e i rana, erano nemici naturali e lottavano per il cibo e il territorio, ma non in quel momento. In quel momento, il loro unico pensiero, a quanto pareva, era di allontanarsi da un nemico comune.

«Cosa facciamo?» chiese alla bambina. Senza parlare, Passero tornò nel vicolo. Indietreggiarono insieme nel

passaggio buio, fino a raggiungere una doppia porta rivestita di metallo. Pantera non domandò alla bambina che intenzioni aveva. Passero non

agiva mai senza una ragione. Salì alcuni scalini, fino alla porta, e tirò una maniglia.

Con un cigolio, il battente si aprì, ma solo di pochi centimetri. Passero diede un altro strattone, con tutte le sue forze, ma la porta non si mosse. In-

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tanto, dal vicolo sopraggiungevano alcune figure scure che si erano stacca-te dalla massa e venivano a curiosare.

Pantera salì in fretta gli scalini. «Provo io» disse, costringendo la bam-bina a spostarsi. Tirò la porta recalcitrante e riuscì a smuoverla di qualche altro centimetro. La ruggine aveva fatto bene il suo lavoro.

«Cosa c'è qui dietro?» chiese alla bambina. «Un albergo» rispose lei, spingendolo via per fargli capire che non ap-

prezzava quell'atteggiamento di superiorità. «C'è una galleria che porta ad altre case, più in alto. Se riusciamo a entrare possiamo sbarazzarci di rutti quei mostri.»

«È un "se" piuttosto impegnativo» commentò lui, riprendendo a tirare la maniglia. «Non c'è un'altra strada?»

Con stupore di Pantera, la ragazzina rise. «Che ti piglia, gatto da salot-to?» lo sfidò. «Il micetto Pantera è finito dalla parte sbagliata della porta e non riesce a entrare?»

Lui strinse le labbra e con un brontolio tirò di nuovo la porta, con tutte le sue forze, e questa volta la aprì. «Io entro dappertutto!» esclamò.

Scivolarono all'interno prima che gli inseguitori li raggiungessero e im-boccarono un breve corridoio che li condusse a una scala che portava in basso. Passero, che faceva strada, accese la lampada a carica solare per fa-re un po' di luce.

Poco dopo, giunsero a un corridoio ampio e molto lungo. Per un certo tratto il passaggio proseguiva senza interruzioni, poi se ne apriva un altro. Passero scelse la direzione senza esitare, voltando a sinistra e, dopo qual-che passo, a destra. Pantera la seguì senza fare commenti. Teneva il dito sul pulsante del pungolo e controllava con attenzione tutti gli angoli bui davanti a cui passavano.

Dietro di loro si sentirono di nuovo i rana, che li seguivano strascicando i piedi.

"Stupidi mostri" pensò con rabbia il giovane. "Non hanno neppure il buon senso di fuggire!"

Controllò quanta carica gli rimaneva sul pungolo. Meno della metà. Do-vevano affrettarsi a uscire.

Accelerarono e raggiunsero una rampa di scale molto larga. Salirono in fretta e si trovarono in uno spazio aperto, una sorta di antica area commer-ciale, piena di negozi in rovina. In fondo c'era una scala mobile, bloccata sulle guide, con gli scalini metallici resi opachi dal tempo e dal disuso, si-mile a un lungo serpente coperto di scaglie. Era così lunga che non si ve-

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deva la fine. «Dobbiamo salire fin lassù?» si lamentò Pantera. «La strada è su in cima, e dirimpetto all'uscita c'è l'autostrada.» Lo prese

per un braccio. «Dai, gatto da salotto. Andiamo dove dobbiamo andare e facciamola finita.»

Si avviò di corsa su per gli scalini, senza lasciare scelta al ragazzo. O rimanere sotto a guardare, o seguirla.

Il giovane decise per la seconda alternativa e si affrettò a salire, a due gradini la volta. Si udiva il rumore dei suoi stivali contro il metallo e un paio di volte il suo pungolo batté contro il fianco della scala. "Troppo chiasso" pensò. Ma i rana non si sentivano più. Forse il rumore non aveva più importanza.

Guardò gli scalini davanti a sé e si chiese come funzionassero le scale mobili, nei tempi in cui funzionavano ancora. Come facevano quegli scali-ni a piegarsi e a spianarsi e poi riprendere la forma di prima? Aggiusta do-veva saperlo. Pantera scosse la testa. Doveva essere un bello spettacolo, un tempo.

Giunti in cima alla scala, attraversarono uno spazio aperto, dirigendosi verso una serie di porte a vetri che davano sull'atrio di un altro hotel. L'ambiente era buio, ma in fondo si scorgevano una parete con ampie fine-stre e una porta a doppio battente, decorata con eleganza, in quel momento chiusa. L'atrio era pieno di vecchia mobilia, ma i divani erano squarciati e i mobili rovesciati. Accanto ai mobili c'erano vasi di piante finte, grigie e polverose, che sembravano scheletri dalle braccia rinsecchite. Qualche piccola porzione di metallo brillava ancora sulle ringhiere e sulle maniglie, ma anche lì la ruggine stava vincendo la battaglia.

Il giovane era entrato nell'atrio e si dirigeva verso la porta quando Passe-ro lo prese per un braccio. «Pantera» gli sussurrò.

Il modo in cui l'aveva pronunciato era inconfondibile. Un avvertimento. Pantera guardò nella direzione da lei indicata, una balconata che circonda-va l'intero atrio.

Decine di rana guardavano verso il basso. «Non riesco a crederci» mormorò il giovane. I rana cominciarono a muoversi lungo la ringhiera. Le loro strane facce

contorte erano invisibili nella penombra, i loro corpi si sporgevano nel vuoto. Per il momento non ce n'era ancora nessuno nell'atrio, ma Pantera guardò in tutti gli angoli, sollevando il pungolo in previsione dell'inevitabi-le attacco.

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«Dobbiamo raggiungere la porta» mormorò Passero. «Dobbiamo usci-re.»

In questo aveva ragione, anche se il resto delle sue supposizioni era sba-gliato, come avrebbero visto poco dopo. Pantera si avviò verso la porta e riprese a guardarsi attorno.

Sopra di loro, i rana erano arrivati alla scala e scendevano, i loro grugniti e i loro brontolii erano chiaramente distinguibili. Troppi, nel caso avessero deciso di attaccare. Pantera lo sapeva. E se avessero intrappolato lui e Pas-sero in quell'atrio...

Non terminò il pensiero. Aspettò altri due secondi, per valutare le loro possibilità, poi gridò: «Corri!».

Si lanciarono verso la porta e quasi subito davanti a loro, come uscito dal nulla, comparve un rana. Pantera cacciò il pungolo nella pancia del mostro e gli assestò una scarica che lo mandò a terra, dove continuò a con-torcersi e a sussultare. Altri comparvero attorno a loro, emergendo dall'o-scurità dove si erano nascosti, così tanti che Pantera si demoralizzò total-mente. Odiava i rana. Aveva visto cos'erano capaci di fare e non voleva morire in quel modo.

Lanciò un grido di sfida, un modo per farsi coraggio, e, seguito da Pas-sero, si catapultò verso l'uscita che dava sulla strada. I rana erano troppo lenti per ostacolarli. I due giovani arrivarono alla porta e Pantera spinse con forza contro la maniglia.

La porta era chiusa. Senza esitare, prese Passero per un braccio e la trascinò verso la più lar-

ga delle finestre. Fece scorrere con forza il pungolo sul telaio per eliminare le schegge di vetro e spinse fuori la bambina, poi a sua volta saltò attraver-so l'apertura, senza perdere tempo a guardare il mostro che già gli soffiava sul collo. Gli artigli lo afferrarono per il vestito e lo rallentarono senza pe-rò riuscire a fermarlo. Con una torsione si liberò e cadde sul cemento del marciapiedi.

In un attimo fu in piedi e si preparò a fuggire. Ma altri rana erano com-parsi davanti a loro, forse erano usciti dall'hotel o venivano dall'altra parte della strada. O, per quel che ne sapeva lui, potevano essere caduti dal cielo, chi poteva dirlo? Con un nuovo grido di sfida, si lanciò all'attacco. Che al-tro poteva fare? Passero era al suo fianco, la faccia pallida per la concen-trazione, il pungolo che girava come una mazza mentre l'elettricità scocca-va dalla sua punta per straziare i mostri.

Lottarono come bestie feroci, ma entrambi sapevano che non sarebbe

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bastato. "Ragno!" Fu il primo pensiero di Gufo. Un'intera comunità di quei mostri, che vi-

veva nei gusci arrugginiti delle vecchie auto. Era una strana scelta, come rifugio. I ragno preferivano le cantine o i tunnel, con decine di ingressi e di uscite. Timidi e inclini a nascondersi, in genere si tenevano a distanza da-gli altri abitanti della città. Di solito non costituivano una minaccia per nessuno.

Ma Gufo rabbrividiva. I ragno le facevano venire la pelle d'oca per il lo-ro modo di muoversi, piegati sulle quattro zampe, con le braccia e le gam-be difficili da distinguere, il corpo coperto di peli, gli arti lunghi e sottili, sproporzionati e contorti, e le facce piatte, quasi prive di lineamenti.

Erano deformi come tutti gli altri, le diceva la ragione, mutanti nati dalla distruzione dei mondo, umani trasformati in qualcosa di nuovo e diverso. Ma visceralmente non riusciva ad accettarli.

Mentre osservava il gruppo venire all'aperto - e ai suoi occhi erano sol-tanto un mucchio di forme scure, prive di connotati nella luce incerta - cer-cò di pensare a quello che dovevano fare gli Spettri. Potevano tornare in-dietro per rifugiarsi negli edifici all'inizio della rampa che portava all'auto-strada, e aspettare lì che tornasse Logan Tom. Oppure proseguire e farsi strada in mezzo ai ragno, fino al punto dov'era parcheggiato il veicolo del Cavaliere del Verbo. Se gli Spettri si fossero tenuti accanto al ciglio della rampa e non avessero compiuto atti apertamente ostili, forse non sarebbe successo niente. Forse sarebbero riusciti a spiegare le loro intenzioni...

Si sentì gelare. La prima forma scura era uscita alla luce che giungeva dalla fortezza e dalle stelle che si affacciavano dagli squarci tra le nuvole. E quando la testa uscì dall'ombra, vide che non erano affatto ragno. Erano bambini di strada.

Ma erano anche altro. Nonostante fossero riconoscibili come esseri umani, era evidente che i

veleni che ammorbavano l'ambiente li avevano contaminati. Avevano la faccia deforme, la pelle bruciata e coperta di ulcere. Ad alcuni mancavano gli occhi, il naso, le orecchie. Altri avanzavano in un modo che faceva pensare che non potessero muoversi come i normali esseri umani. Alcuni erano privi di capelli, altri così pelosi da poter essere confusi con i ragno.

Portavano stracci che a malapena coprivano i loro corpi mutilati. Gufo non aveva mai visto bambini come quelli, tutti contorti e deformi. Si chie-

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se come potessero vivere a così poca distanza da loro senza che gli Spettri se ne fossero mai accorti.

Poi capì che quei bambini non erano nati laggiù, ma erano giunti da qualche altra parte. Erano nomadi. Per questo vivevano nell'autostrada, dentro i veicoli abbandonati, anziché in un edificio dove potevano essere più al sicuro.

«Cosa sono, Gufo?» chiese Gesso, dietro di lei. Era preoccupato. «Bambini» rispose. «Come voi. Però hanno avuto una vita molto più dif-

ficile.» Guardò gli altri Spettri. «Non fate nulla di minaccioso contro di lo-ro. State vicino a me e fate come vi dico.»

Nonostante l'ordine, Orso stava già impugnando la clava che costituiva la sua arma preferita per il combattimento corpo a corpo. Un bastone pe-sante e nodoso che era in grado di spezzare un cranio con un solo colpo. Gli altri parevano incerti, si guardavano l'un l'altro e poi tornavano a fissa-re le forme in avvicinamento.

In braccio a Gufo, Scoiattolo si agitava leggermente, inquieto nel sonno. Lei si chiese se doveva affidarlo a uno degli altri, poi decise di tenerlo. Con lei era più al sicuro.

«Fiamma?» chiamò Gufo. «Riesci a sentire qualcosa?» La bambina dagli istinti preternaturali si voltò. «Non ne sono sicura.

Non riesco a capire se vogliono farci del male o no.» Gufo esitò per un istante, poi disse: «Portami davanti a tutti, Gesso». Il ragazzo spinse avanti la sedia a rotelle, ma Gufo percepì nettamente la

sua riluttanza. Gesso arrivò fino a Orso e al suo carro, fino ad Aggiusta e Fiamma con la barella, e lì si fermò. Di fronte a loro, lo strano gruppo di ragazzi di strada continuava a farsi avanti. La donna abbracciò più stretta-mente Scoiattolo e gli accarezzò i capelli fini.

«Chi siete?» gridò. L'avanzata cessò all'istante. Per un attimo nessuno parlò, poi rispose una

voce forte: «Chi siete voi?». «Noi siamo gli Spettri» rispose lei, e proseguì con la loro litania di pre-

sentazione: «Infestiamo le rovine del mondo distrutto dai nostri genitori. Questa città è la nostra casa, noi abitiamo vicino alla baia. Ma adesso è sbarcata una forza d'invasione che vuole attaccare una delle fortezze e noi ce ne stiamo andando». S'interruppe e concluse: «Dovreste andarvene an-che voi».

«Ce lo dicono tutti» rispose colui che aveva parlato. Il tono era di una profonda amarezza. Adesso Gufo poté vederlo, una figura alta, nelle prime

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file. «Forse siete come gli altri, che ci dicono bugie per costringerci ad an-dar via.»

«Non so di altri, ma io vi ho detto la verità. Qui siamo tutti in pericolo. E voi dovreste allontanarvi. Se volete rimanere, però, lasciateci almeno pas-sare. Dobbiamo proseguire lungo questa rampa e aspettare che la nostra guida ci raggiunga.»

Il ragazzo che aveva parlato venne avanti e si fermò davanti a lei. Era un adolescente magro e coperto di stracci, con cicatrici dappertutto. La parte destra della sua faccia era così malconcia da avere l'aspetto di cera fusa. Posava la mano sull'impugnatura di una strana arma nera che portava infi-lata nella cintura, una pistola di un tipo che Gufo non aveva mai visto.

«Non ti credo» disse il ragazzo. «Forse vi conviene cambiare strada e tornare indietro.»

Coloro che lo accompagnavano ripresero ad avanzare. Gufo li osservò, valutando l'ipotesi di uno scontro. Era un gruppo molto numeroso, anche se in gran parte sembravano mutilati.

Attorno a lei, gli Spettri erano tesi. Orso si era allontanato dal carretto. Fiume e Aggiusta avevano posato la barella del Meteorologo e avevano impugnato i pungoli. Anche Gesso si era accostato a Gufo con aria protet-tiva. Se lei non avesse trovato il modo di calmare le acque, presto la situa-zione sarebbe stata fuori controllo.

Era in momenti come quelli che Gufo rimpiangeva di essere confinata in una sedia a rotelle e di non potersi muovere come tutti gli altri.

«Non siamo venuti a cercare guai» disse al ragazzo. «Forse dovreste pensare a come rischia di finire questa discussione.»

«Forse dovreste darci quello che avete nel carretto» rispose lui. «A quel punto potremmo lasciarvi andare.»

Estrasse la pistola che portava nella cintura e la puntò contro Gufo. «Pantera!» gridò Passero, la voce resa acuta dalla disperazione. Dal punto dove combatteva la sua battaglia, il giovane lanciò una rapida

occhiata verso di lei. Uno dei rana l'aveva afferrata da dietro e la teneva inchiodata contro un palo della luce. Lei cercava di colpire all'indietro, con la punta del pungolo, ma il mostro si difendeva con una mano e intanto la strangolava con l'altra.

In pochi istanti Pantera fu al suo fianco, dopo essersi liberato dei due che lo attaccavano. Dal pungolo scoccò una scintilla quando sfiorò la superfi-cie metallica di un vecchio bidone dell'immondizia. Il robusto bastone finì

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contro la tempia del rana, che indietreggiò, barcollando, e lasciò la presa. Pantera afferrò per un braccio Passero e la spinse dietro di sé, cercando di raggiungere uno spazio libero per correre via, mentre altri rana uscivano dall'oscurità.

La lotta continuò lungo la strada dove sfociava il vicolo, fino a raggiun-gere il gruppo dei mostri che giungevano dal porto. Improvvisamente i due giovani si trovarono nel bel mezzo dell'esodo. Tutt'attorno a loro c'erano ragno e lucertola, altri rana e anche bambini di strada.

Tutti gridavano e minacciavano e grugnivano, e Pantera non capiva con-tro chi doveva combattere, adesso. Passero si aggrappava a lui come a u-n'ancora di salvataggio. Aveva perso il pungolo e la sua faccia sporca di sangue era pallida come quella di Gesso. Pantera non l'aveva mai vista spaventata, ma adesso dava proprio quell'impressione.

«Tieniti forte!» le gridò, in mezzo al clamore della folla. Impiegò la sua forza e il suo peso per aprirsi un varco verso l'altra parte

della salita, e intanto cercò un angolo dove fermarsi a riprendere fiato. Non riusciva più a capire se qualcuno, uomo o mostro, li stava ancora inse-guendo.

Un gruppo di lucertola stava facendo a pezzi una manciata di rana che aveva attraversato il suo cammino e che scioccamente aveva deciso di at-taccare, mentre gli altri si erano affrettati a sparire. Con stupore, Pantera ebbe l'impressione di vedere Logan Tom in mezzo a un gruppo di bambini di strada, ma il Cavaliere scomparve quasi subito.

Pantera non riuscì a vedere altro. Continuò a lottare per farsi strada in mezzo alla folla, con Passero che si teneva stretta a lui. Infine riuscirono a portarsi dall'altra parte della fiumana e a rifugiarsi in un portone.

«Maledette zucche vuote! Imbecilli senza cervello!» imprecò Pantera. «Sai chi ho visto? Quell'uomo, il Cavaliere o come si chiama, era là in mezzo.»

«Lascia perdere. I rana ci stanno ancora inseguendo!» esclamò Passero. Lui guardò il punto da lei indicato e intanto si ripulì la faccia scura dalla

polvere e dal sudore. Un gruppetto di rana si faceva strada in mezzo alla folla, lo sguardo fisso sui due fuggitivi.

«Maledizione!» imprecò. Passero gli prese un braccio e lo condusse lungo il marciapiede fino a un

altro vicolo. Liberatisi dalla folla, ora potevano correre senza ostacoli. Ar-rivati in fondo, trovarono un varco che portava dentro un edificio e comin-ciarono a farsi strada in un labirinto di corridoi, passando in mezzo a pile

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di scatoloni marci e di immondizia di tutti i tipi. Era lei a dare il passo, cor-rendo come se avesse il diavolo alle calcagna e senza badare alla fatica.

«Non così in fretta!» ansimò Pantera quando cominciò sentire la stan-chezza. Era lui il più affaticato, adesso. «Più piano, Passero!»

«Un paio di isolati, poi raggiungeremo l'autostrada» rispose lei senza gi-rarsi. «Vieni!»

Uscirono dalla casa e sbucarono su una strada laterale, a un centinaio di metri dalla folla che continuava a salire verso le alture. Pantera respirò di sollievo, ma il fiato gli si mozzò quando vide dei rana. Uscivano dalla folla come topi da una chiazza di oscurità, gli occhi scintillanti, le zanne e gli artigli pronti.

Il giovane diede un'occhiata all'indicatore del pungolo. La carica era quasi finita. Guardò la sua compagna. Potevano fuggire, ma solo nella di-rezione da cui erano arrivati. Per raggiungere i loro compagni dovevano trovare il modo di superare quei rana.

Incrociò lo sguardo con quello di Passero. «Sono stufa di venire inseguita» disse lei, come se gli avesse letto nel

pensiero, come se sapesse cosa voleva udire Pantera. Senza fare parola, si girarono verso i mostri che li attaccavano. Poi, all'improvviso, un torrente di fuoco bianco scaturì dalla notte, dietro

di loro, e si abbatté sui rana per poi dilagare con fragore per l'intera lar-ghezza della strada.

Pantera non si era sbagliato. Logan Tom li aveva trovati. Gufo fissò la canna corta e nera dell'arma puntata contro di lei e cercò di

mantenersi calma. Aveva notato il filo che usciva dal calcio dell'arma, e adesso vide che era collegato a una batteria di celle solari fissata alla cintu-ra. Una sorta di storditore, una variante del bastone-pungolo. Dava una scossa alla vittima quando si premeva il grilletto. O forse una scarica mor-tale. In ogni caso, lei non voleva conoscerne il funzionamento sperimen-tandolo di persona.

Attorno a lei, gli altri Spettri si erano immobilizzati, nessuno voleva cor-rere il rischio di fare un gesto che spingesse il ragazzo con la pistola a farle del male. Ma non sarebbero rimasti fermi per molto tempo.

Gufo respirò a fondo e chiese: «Come ti chiami?». Il ragazzo la guardò con ira. «Che t'importa?» «Dimmelo. Lo voglio sapere.» «Non hai bisogno di sapere il mio nome.» Pareva a disagio. La sua fac-

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cia sfigurata divenne ancora più cupa. «Allora, ci date il carretto o no?» «Io sono Gufo» rispose lei senza dare retta alla sua domanda. «Sono la

madre degli Spettri. Il mio compito è proteggerli. Come tu hai il compito di proteggere coloro che viaggiano con te. A volte qualcuno ce lo rende difficile. A volte ci fanno sentire sciocchi e deboli e persino incapaci.»

E continuò: «Per esempio, quando ci minacciano di morte perché non ci trovano di loro gradimento. È successo anche a voi, non è vero? Ti riferivi a questo, quando hai detto che tutti vi dicono di allontanarvi».

Attese che il ragazzo rispondesse, ma lui si limitò a fissarla, senza ab-bassare l'arma.

«Digli di non puntare quell'arnese contro di te» le bisbigliò Gesso, dietro di lei.

«Il fatto è» continuò Gufo, tenendo lo sguardo fisso in quello del ragaz-zo «che voi volete fare a noi quello che altri hanno fatto a voi. Vi compor-tate come loro, ci dite che dobbiamo fare una cosa che non vogliamo fare. Volete derubarci e ordinarci di tornare indietro. Perché lo fate?»

Anche ora il ragazzo tacque. Ma Gufo vedeva confusione e collera spec-chiarsi nel suo unico occhio.

«Non capisci che non siete meglio di quegli altri che non vi piacciono, se vi comportate così?»

«Sta' zitta!» gridò all'improvviso il ragazzo. Tutti tesero i muscoli. Orso fece qualche passo avanti, per frapporsi tra il

carretto con le loro proprietà e i bambini di strada che volevano appro-priarsene. Non disse niente, ma la stessa Gufo notò la sua espressione mi-nacciosa. Alcuni dei bambini di strada lo guardarono con timore.

«Cosa pensi che faremo?» chiese al ragazzo con la pistola. «Ti aspetti che rimaniamo qui fermi e che ci lasciamo rubare tutto quello che abbia-mo?»

«Tutti ci rubano quello che abbiamo» ribatté lui, furibondo. «Tutti ci chiamano mostri! Noi non siamo mostri!»

«Allora non comportatevi come...» «Non dirmi quello che devo fare!» Alla sinistra di Gufo ci fu un movimento improvviso e il ragazzo puntò

la pistola in quella direzione. Gufo alzò la mano perché si fermasse e disse: «No!».

Con un sobbalzo il ragazzo tornò a puntare l'arma contro di lei, con la stessa velocità con cui l'aveva spostata prima. Vide il braccio alzato e lo prese per una minaccia. Si spaventò.

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Poi le sparò.

4 Fu soprattutto la rapidità del cambiamento a rimanere scolpita nella

mente di Falco. Stava cadendo dall'alto delle mura, le mani dei carcerieri l'avevano spin-

to nel vuoto per quel lungo salto e il cuore gli balzava in gola mentre si sforzava invano di trovare un appiglio. In quel momento, il suo destino era solo un'onda nera di certezze di morte che gli attraversava tutto il corpo stringendogli lo stomaco in una morsa.

Aveva visto il terreno ai piedi delle mura, coperto di macerie, e anche al-la debole luce del tramonto aveva scorto gli spigoli taglienti dei mattoni e dei pezzi di cemento.

Aveva visto Tessa precipitare a poca distanza, agitare le braccia e scal-ciare, ma quel corpo snello era fuori della sua portata, anche se appena ap-pena... Avrebbe voluto chiudere gli occhi per eliminare quelle immagini, per sfuggire a quanto stava succedendo, ma non c'era riuscito.

Ed ecco che tutt'a un tratto era immerso nella luce. Un chiarore abba-gliante lo avvolgeva come una coperta soffice. Non era in piedi o seduto, ma steso sul dorso. I suoi muscoli erano paralizzati, sembravano di piom-bo, e la sua mente vagava in luoghi lontani privi di identità.

Non cadeva più, non sentiva più nulla. Tessa era scomparsa. La fortezza, i carcerieri, la città e il tramonto, l'intero mondo erano spariti.

Non si rese conto di quanto tempo rimase chiuso in quel bozzolo perché perse ogni senso del tempo. I suoi pensieri erano lenti e vuoti come la lu-minosità che lo circondava. Non riusciva a pensare. Desiderava solo cro-giolarsi nel piacere di quella luce e nella speranza di essere in qualche mo-do sfuggito alla morte, una speranza a cui si concedeva di dare il benvenu-to.

Si aspettava che succedesse qualcosa, che la luce si aprisse per rivelargli il suo destino, che il mondo tornasse ad accoglierlo, ma alla fine dovette cedere al sonno, chiuse gli occhi e si addormentò.

Quando si svegliò, la luce era scomparsa. Era adagiato su una distesa di erba dal colore così vivido da far male agli

occhi quando la fissò. Il sole splendeva in un cielo talmente luminoso da dare l'impressione di non avere mai fine. Era in mezzo a un giardino con un'indescrivibile molteplicità di colori, forme e profumi. Batté gli occhi,

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incredulo, e si rizzò su un gomito per guardarsi attorno. Dovunque si trovasse, fu il suo primo pensiero, non era a Seattle o in

qualche altro luogo noto. Aveva visto riproduzioni di giardini nei libri di Gufo e ascoltato le descrizioni che lei ne dava agli Spettri. Aveva anche provato a raffigurarseli nella mente, aveva immaginato che uscissero dalla pagina del libro dove erano chiusi.

Ma non aveva mai fantasticato su niente di simile. Eppure... Guardò in lontananza, fin dove i giardini scomparivano alla vista, e vide

solo un interminabile tappeto di piante e cespugli, di fiori e di erba dai co-lori così intensi da abbagliare sullo sfondo dell'orizzonte.

Eppure... ogni cosa gli sembrava assai familiare. Aggrottò la fronte, confuso, e si mise a sedere per osservare meglio e

capire cosa provava. Adesso aveva la mente limpida, i muscoli scattanti e riposati. Il sonno era scomparso, dissolto assieme alla luce.

Aveva l'impressione di aver dormito a lungo, ma non capiva come fosse potuto succedere. Tutto era cambiato in modo così totale da non permet-tergli di capire. Era una magia, pensò all'improvviso, ma non riusciva a immaginare da dove scaturisse.

Non da lui, di questo era certo. E neppure da Logan Tom, il Cavaliere del Verbo. La sua confusione esplose in un accavallarsi di domande: "Perché sono

ancora vivo? Chi mi ha salvato dalla caduta dalle mura? Come sono arriva-to qui?".

Poi gli venne in mente Tessa. Si guardò attorno per cercarla, colto al-l'improvviso dalla paura e dalla disperazione.

«Sta ancora dormendo» disse qualcuno, dietro di lui. Colui che aveva parlato gli era così vicino ed era sopraggiunto così in si-

lenzio che Falco trasalì. Ancora prima di rendersi conto di quello che face-va si voltò, pronto a difendersi. Respirando a fatica, le braccia tese a fargli da scudo, guardò in faccia il vecchio che si era portato alle sue spalle.

Il nuovo venuto non si mosse. «Non devi aver paura di me» disse. Era vecchissimo secondo qualunque metro di misura, esile come un fu-

scello e curvo per l'età, avvolto in una veste bianca che lasciava indovinare soltanto la forma delle ossa quasi prive di carne. La barba era folta e bian-ca, ma i capelli erano sottili come fili di fumo e si scorgevano vaste aree di cuoio capelluto coperto di macchie di vecchiaia. Il volto era magro, le guance scavate e la fronte coperta di rughe.

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Ma tutti quei particolari scomparvero dalla mente di Falco quando fissò gli occhi del vecchio, limpidi e azzurri, colmi di gentilezza e compassione. Guardando quegli occhi, al ragazzo venne voglia di piangere per la com-mozione. Era come vedere il riflesso di tutto ciò che di buono e giusto esi-steva al mondo, riunito in una sola immagine perfetta, serena, luminosa.

«Chi sei?» chiese al vecchio. «Uno che ti conosce da prima che nascessi» rispose l'altro, sorridendo

come se avere Falco davanti a sé fosse la visione più gradita. «Qualcuno che ricorda quanto è stato importante quel momento.»

I suoi occhi non si staccavano dalla faccia del ragazzo. Riprese: «Quello che conta non è chi sono io, ma chi sei tu. Qui e ora, in questo tempo e in questo luogo, nel mondo del presente. La sai la risposta?».

Falco gli rivolse lentamente un cenno d'assenso. «Credo di saperla. Me ne ha parlato il Cavaliere del Verbo quando ero chiuso in cella nella for-tezza. Ha detto che sono un Variante e che possiedo una magia. Ho visto qualche immagine legata alle sue parole in una visione che ho avuto quan-do ho toccato il mio amu... le ossa della mano di mia madre, ha detto il Cavaliere.»

Ebbe un attimo di esitazione. «Ma non so ancora se credergli» concluse. Il vecchio annuì. «Ti ha detto la verità. Almeno, la parte di verità che lui

conosce. Spetta a me dirti il resto. Facciamo due passi.» S'incamminò, e Falco lo seguì con naturalezza. Insieme si avviarono

lungo i sentieri e i viottoli erbosi che attraversavano i giardini. Passarono in mezzo ad aiuole traboccanti di fiori e cespugli profumati, sotto pergole coperte di piante rampicanti.

Per qualche tempo vagarono senza scopo, senza una destinazione preci-sa, camminando per il piacere di camminare, prima in una direzione e poi in un'altra, senza mai avvicinarsi alla fine di quel giardino, ammesso che ce l'avesse, e senza neppure scorgerla.

Camminarono a lungo. Il vecchio si muoveva adagio, ma con decisione. Falco gli stava accanto e cercava di raccogliere le idee, di dare voce a tutte le domande che si agitavano nella sua testa. Polline e minuscoli semi dan-zavano nell'aria attorno a lui e brillavano di un chiarore particolare. Udiva il ronzio degli insetti e vedeva i lampi di colore degli uccelli e delle farfal-le. Non riusciva a smettere di guardarsi attorno.

«Sei stato tu a portarmi qui?» chiese infine. Il vecchio annuì. «Sì, sono stato io.»

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«Hai portato anche Tessa? Sta bene? Non è ferita?» «Dormirà finché non avremo finito.» Falco trascinò sulla ghiaia del sentiero la punta di un piede e guardò i

segni lasciati dalla scarpa da ginnastica, per accertarsi che non fosse un so-gno.

«Non capisco niente di tutto questo» disse infine. Il vecchio stava osservando il paesaggio davanti a loro, ma ora si voltò

verso di lui. «Già. Suppongo che tu non possa capirlo. Ogni cosa deve sembrarti

molto strana. Tanti fatti sono successi nelle scorse settimane. Tanti altri ne accadranno nelle prossime. Tu sei già diverso da quello che eri, ma non quanto lo sarai in futuro.»

Con un ampio gesto indicò i giardini. «È qui che sei stato concepito, giovanotto. Nell'aria della sera una piccola, imprevista concentrazione di magia della terra e dell'acqua ti ha portato in vita. Una magia primordiale che si manifesta solo poche volte nel corso dei secoli. L'avevo già visto ac-cadere altre volte, ma mai così. La lucentezza della concentrazione era molto superiore al normale, e la sua creazione veloce e sicura. Una neces-sità così frenetica e improvvisa che mi ha colto veramente di sorpresa. E perché questo succeda, ti assicuro, occorre qualcosa di davvero speciale. Io esisto da molto tempo.»

Falco non ne dubitava. Il vecchio dava l'impressione di andare in pezzi da un momento all'altro o di essere portato via dal vento.

«Quanti anni hai?» gli chiese. «Ero già qui all'inizio di tutto.» Falco si sentì rabbrividire. Aveva capito d'istinto che cosa voleva dire il

vecchio, ma nello stesso tempo lo giudicava impossibile. «Come sai che la magia che si riuniva ero io?» chiese in tono brusco.

«Voglio dire, all'epoca non ero ancora io. Era solo... solo qualcosa che succedeva nell'aria.»

«Oh, eri tu. Impossibile sbagliarsi. All'epoca non eri un ragazzo, solo la possibilità di divenire qualcosa di meraviglioso. Ho visto il potenziale del-la magia che era destinata a formarti e l'ho trasferita nel mondo, in un tem-po e in un luogo dove potevi essere aiutato durante le necessarie trasfor-mazioni.»

Il vecchio continuò: «Io non sapevo quale potesse essere il mutamento che dovevi portare nel mondo, sapevo solo che sarebbe stato qualcosa di speciale, di potente e significativo. Un altro Cavaliere del Verbo ti ha tro-

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vato e raccolto e ti ha portato da tua madre. Hai trovato il tuo scopo quan-do sei stato con lei, ti sei fuso con il suo corpo e sei divenuto il figlio che lei ha dato alla luce. Tua madre ti ha preso dentro di sé, ti ha messo al mondo, ti ha allevato e poi ti ha ridato a me».

Falco lo fissò stupefatto, poi disse la prima cosa che gli venne in mente: «Non ricordo niente di tutto questo. Non ci credo».

Il vecchio annuì. «Certo. Ti ho tolto quei ricordi.» «Mi hai tolto...» Falco non riuscì a terminare. «Perché l'hai fatto?» «All'epoca non ne avevi bisogno. Per te, non era il momento giusto di

averli.» Il vecchio continuava a camminare, senza rallentare il passo e senza ac-

celerare. Passeggiava tra i fiori nella luce del sole come se il suo tempo e quello di Falco avessero perso importanza.

«Riprendiamo dall'inizio» suggerì il vecchio. «Così capirai.» Falco incrociò le braccia sul petto, pronto a controbattere ogni sua paro-

la. Non sapeva chi fosse quel vecchio, né perché l'avesse portato in quei giardini, ma quando cominci a credere che una persona può rubarti i ricor-di o che un bambino può nascere da un seme di magia, è meglio fare qual-che passo indietro.

Attese che iniziasse, ma il vecchio proseguiva in silenzio. Anche se era impaziente, Falco conosceva l'importanza di guadagnare tempo quando si è in svantaggio, come lui in quel momento, perciò si limitò ad attendere e non fece commenti.

Alla fine arrivarono a una fontana di pietra accanto a un laghetto, cir-condata da vecchie panche di legno, e si sedettero l'uno di fianco all'altro, davanti alle lunghe ghirlande di fiori viola dei rampicanti che pendevano dai tralicci come un susseguirsi di cascate.

«Glicini» disse dolcemente il vecchio indicando i fiori. Falco annuì, senza fare commenti, e aspettò. Si augurava che la faccenda

finisse presto. Era ansioso di vedere Tessa per assicurarsi che stesse bene, e impaziente di tornare tra gli Spettri, sempre che il vecchio glielo permet-tesse. Non poteva esserne certo. In quel momento non poteva essere certo di niente.

«Prima mi hai chiesto chi sono» continuò il vecchio, senza guardarlo, gli occhi persi nella distanza. «Non ho veramente un nome, ma gli Elfi, all'e-poca di Faerie, mi chiamavano "il Re del fiume Argento" e quel nome con-tinua ad accompagnarmi. Come te, anche se hai ancora dei dubbi sulle tue origini, sono una creatura di Faerie nata dalla magia del Verbo. E noi se-

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diamo nei Giardini della Vita, che sono affidati alle mie cure. Ogni vita i-nizia qui» spiegò. «Poi, una volta concepita, raggiunge il mondo per svol-gere la sua parte. È quello che è successo anche a te. Tu eri magia primor-diale, generata in questi giardini e poi passata nel mondo degli uomini. Un Cavaliere del Verbo chiamato John Ross ti ha trovato prima che tu fossi pienamente formato e quando hai preso l'aspetto di un bambino ti ha porta-to da Nest Freemark, che è divenuta tua madre. Lei non conosceva il tuo scopo, ma anche lei possedeva la magia, un'eredità della sua famiglia, una famiglia molto speciale. Ti ha tenuto con sé per tutto il tempo necessario dopo averti dato alla luce, ma alla fine fu indispensabile toglierti a lei e portarti qui.»

Falco scosse la testa. «Io ricordo la costa dell'Oregon. Nuotavo nell'oce-ano, ero disteso sulla sabbia, abitavo laggiù con la mia famiglia. Non ri-cordo niente di quello che mi dici.»

«Perché dovevi venirne a conoscenza soltanto ora. Ti ho dato quei ricor-di in modo che non sapessi chi sei finché non fosse giunto il momento.» Il vecchio sorrise. «So che è difficile accettarlo. Ma adesso riavrai i tuoi ri-cordi e ti aiuteranno a capire. Devi avere pazienza finché non saranno tor-nati.»

Studiò per un momento Falco, poi scosse la testa. «Dovrei essere più bravo in queste cose, ma non ho molto allenamento. Io mi occupo soprat-tutto di questi giardini e lascio che gli affari degli uomini e delle altre crea-ture prendano il corso decretato dal destino.»

Fece una pausa, poi continuò: «Ma il vecchio mondo sta finendo e il nuovo richiede il mio intervento. Perciò, anche adesso, dovrò fare del mio meglio. Logan Tom ha iniziato l'opera, ma dovrò essere io a portarla a termine».

Si voltò verso Falco. «Ecco quanto devi sapere. Hai dei nemici potenti, uno in particolare. Ti daranno la caccia, senza sosta. Te la danno fin dal giorno in cui sei giunto nel mondo degli uomini. Poi, per molto tempo, ti hanno creduto morto. Nest Freemark ti ha salvato e nascosto a loro: eri il suo figlio che doveva ancora nascere, una vita che non potevano scoprire mentre cresceva dentro di lei. Dopo la tua nascita il pericolo è aumentato, e tu non sapevi chi sei. Non immaginavi di possedere la magia. La magia non si era ancora manifestata. Ma io sapevo che presto o tardi l'avrebbe fatto, e una volta che si fosse rivelata, i tuoi nemici sarebbero venuti a cer-carti.»

Incrociò le mani sul grembo, mani ossute, bianche e fragili come ossa

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insepolte. «Ma c'era una seconda e forse più importante ragione» proseguì. «Il de-

stino della razza umana nella guerra contro i demoni non si era ancora de-ciso. Il Verbo e il Vuoto si equilibravano, nel mondo. Finché l'equilibrio non si fosse spezzato - e neanche allora, perché dovevo aspettare la certez-za - tu non dovevi correre rischi inutili. Occorreva attendere il tuo momen-to, attendere che la tua particolare magia divenisse necessaria. Per queste ragioni ti ho tolto a Nest Freemark e ti ho portato qui, perché tu vivessi in questo giardino finché l'equilibrio non si fosse non soltanto spostato, ma definitivamente rotto e la fine fosse certa. Poi ti ho rimandato nel mondo umano per seguire il tuo destino. Adesso hai uno scopo, e si tratta della salvezza della razza umana.»

Falco stava quasi per ridere, ma l'espressione sulla faccia del vecchio glielo impedì. Cercò di dire qualcosa, ma non riuscì a trovare le parole giuste.

«Tu sei il ragazzo che condurrà nella terra promessa i suoi compagni» gli disse il Re del fiume Argento. «La tua visione è il tuo destino. Sono stato io a inviartela quando hai lasciato la mia sorveglianza e sei tornato nel mondo. Quella visione è reale, è una premonizione di ciò che dovrai compiere. La tua piccola famiglia che abita nelle rovine della città, coloro che hai lasciato quando sei venuto qui, sono il seme di una famiglia molto più grande. Li guiderai fino a un rifugio che li proteggerà finché la follia non si sarà spenta. La distruzione non è ancora finita, la devastazione non è ancora completa. Ci vorrà del tempo. E altro ce ne vorrà perché il mondo guarisca. E mentre questo tempo passa, alcune persone dovranno essere protette e tenute al sicuro in modo che non tutta la gente del Verbo muoia.»

Falco prima annuì, poi scosse la testa per dirgli di no. «Non ci credo» disse. «Non penso di poter fare quello che, secondo te, dovrei fare. Credo nella mia visione, ma è una visione molto limitata. Riguarda solo me e gli Spettri. La mia famiglia. Non... a quante persone pensi?»

«Parecchie migliaia, forse» rispose il Re del fiume Argento. «Umani, el-fi e altri. Un amalgama di coloro che lottano per sopravvivere ai demoni e agli ex uomini e a tutti coloro che servono il Vuoto.»

Falco rimase a bocca aperta. "Elfi?" si chiese. Poi protestò: «Come posso fare una cosa simile? Dici che posseggo la

magia, e magari è vero. Penso di avere aiutato Cheney a guarire quando è stato ferito da un centopiedi gigante. Ma non sarà sufficiente per il compi-

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to che, a quanto dici, dovrò svolgere. Guarire è una cosa, lottare contro demoni e tutto il resto per portare fino a un posto sicuro qualche migliaio di persone è ben diverso. Guardami! Non sono niente di speciale. Non so-no in grado di salvare tutta quella gente. Riesco a malapena a provvedere alla mia attuale famiglia composta di nove ragazzi, un cane e un vecchio!».

Più parlava, più si ostinava. E più si ostinava, più era spaventato. Davan-ti all'enormità della richiesta del Re del fiume Argento - no, non era una ri-chiesta, era un ordine - si sentiva schiacciare.

Cercò di aggiungere qualche parola, ma dovette rinunciare. Irritato, con un misto di collera e di disperazione, si alzò in piedi e guardò lontano.

«Non credo di poterlo fare, tutto qui» disse infine. «Non saprei neppure da dove cominciare.»

Attese che il vecchio gli rispondesse. Non sentendo alcuna replica, si gi-rò verso di lui.

Il vecchio era sparito. Falco cercò il Re del fiume Argento in quei giardini di cui non conosce-

va nulla, neppure se avevano un inizio o una fine. Quando la ricerca si ri-velò inutile, cercò Tessa. Prese una direzione qualsiasi, perché l'una valeva l'altra e muoversi era meglio che stare seduto, fare qualcosa era meglio che non far niente.

Quando cominciò a sentire la stanchezza, rallentò e infine fu costretto a fermarsi. Si guardò attorno stupefatto. Ogni cosa sembrava identica al luo-go da cui era partito. La fontana e il laghetto, il glicine che pendeva dai tra-licci come una cascata viola. Pareva che niente fosse cambiato, che lui non si fosse mosso.

"Forse è proprio questo il messaggio del Re del fiume Argento" conclu-se. "Qualunque cosa io faccia, nulla cambierà e non arriverò da nessuna parte."

Era assetato. Dopo qualche istante di riflessione assaggiò l'acqua della fontana. Aveva un sapore dolce e pulito.

Si dissetò. "Il vecchio" pensò "non mi avrebbe portato così lontano per poi farmi bere acqua velenosa."

Placata la sete, rifletté per qualche tempo su quanto aveva ascoltato e si disse che, dopotutto, forse era vero. Be', quasi, ma non certo la parte su lui che doveva salvare tutte quelle persone conducendole in qualche luogo si-curo, una terra promessa, un rifugio dai danni causati dalla distruzione del mondo. Non credeva di poter fare una cosa simile.

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Tuttavia, forse, credeva al resto, anche se non avrebbe saputo spiegare perché. In parte sapeva di avere in sé qualcosa di diverso, in parte c'era il suo sogno di un luogo dove andare con gli Spettri, e in parte quello che provava per il vecchio, il Re del fiume Argento. Ripeté il nome dentro di sé.

Nonostante i dubbi, comunque, non riusciva a credere che il vecchio gli avesse mentito. No. Persino le parti più strane e improbabili suonavano ve-re.

Tornò a sedere sulla panca di legno e a chiedersi cosa fare. Cercò di pen-sare a qualcosa che non fosse la situazione contingente, di scordare tutto per qualche momento, ma non ci riuscì. Diceva a se stesso che doveva ral-legrarsi di essere ancora vivo, dato che in base a qualsiasi ragionamento sarebbe dovuto morire. Il vecchio l'aveva salvato e portato in quei giardini per un motivo. Non per capriccio, ma perché giudicava indispensabile la sua presenza.

Non poteva negare l'accaduto, nonostante i dubbi. E non poteva trascura-re neppure il compito di condurre la gente in un luogo dove la distruzione del mondo non la toccasse.

Pareva quasi che esistesse un posto del genere e che il vecchio condivi-desse la visione di Falco.

Si rammentò all'improvviso di non aver chiesto dov'era quel luogo, quel-la terra promessa, e nemmeno il modo di arrivarci. Ammesso e non con-cesso che dovesse veramente condurvi qualcuno, anche i soli Spettri...

«La visione riguardava i soli Spettri, all'inizio, perché in quel momento era sufficiente» disse il vecchio, che adesso sedeva di nuovo accanto a lui sulla panca. «Ma già allora riguardava anche altri. A un mondo che rico-mincia occorre ben più di qualche bambino.»

Il Re del fiume Argento si era materializzato dal nulla e senza alcun ru-more. Falco trasalì dentro di sé, ma riuscì a restare impassibile.

«Non so cosa occorre a un mondo che ricomincia» rispose. E aggiunse: «Dov'eri?».

«Un po' qui e un po' là. Ho pensato che preferissi rimanere solo per qualche tempo, per riflettere su quello che ti ho detto. A volte è utile. Quanto a ciò che sai, giovanotto, tu sai più di quanto credi perché sei intri-so di magia primordiale. Grazie a essa, il tuo intuito e la tua innata com-prensione sono assai forti. A renderti così imprevedibile sono il modo in cui ti sei formato e le vicende che hai vissuto. Per questo ti trovi qui. Ti sei formato qui, sei andato via e adesso sei tornato. È per questo che i tuoi

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nemici hanno tanta paura di te.» Falco scosse la testa. «Paura di me? Nessuno ha paura di me.» Guardò il

vecchio negli occhi. «Continui a dire che sono fatto di magia primordiale. Cosa significa? Sono reale? Sono umano, almeno?»

«Tu sei umano come ogni altro ragazzo della tua età. Sei umano come la ragazza che ami.» Il vecchio sorrise. «Ma sei qualcosa di più, è ovvio. La magia ti colloca in un'altra categoria. Questo significa che mentre sei uma-no, sei anche una creatura di Faerie. Tu vai al di là del mondo presente e dei suoi abitanti. Le tue origini sono molto antiche e risalgono all'inizio del mondo. Sei carne e sangue e ossa, e sei mortale e un giorno morirai anche tu come qualsiasi essere umano. Ma la tua vita si muove su un binario di-verso, e hai la capacità di fare cose che nessun altro saprebbe compiere.»

«"Cose"? Che genere di cose?» «Nessuno lo sa. Neppure io, benché ti abbia visto nascere. Quello che fa-

rai e come lo farai è una scoperta che devi fare da solo. Le tue visioni ti parlano del tuo destino, ma solo prendendo la strada che ti conduce a quel destino saprai come realizzarlo.»

«Andando nel posto dove le persone che guiderò saranno al sicuro? Stando a vedere quello che succederà durante il percorso?»

«Proprio così, giovanotto» «Devo limitarmi a fare come dici e a sperare per il meglio?» «Devi fidarti di quello che sei e di come sei. Devi fidarti della visione

che ti è stata inviata. Finora ci hai creduto, no?» «Per me e la mia famiglia. Non per migliaia di persone che non conosco

neppure!» Il vecchio studiò la sua espressione. «Perché dev'essere più difficile cre-

dere a una cosa invece che all'altra? È davvero tanto stravagante pensare che guiderai migliaia di persone invece di una manciata? I pericoli sono gli stessi, il viaggio lo stesso, identica la destinazione. Si dice che il numero dia sicurezza. Forse il numero potrà alleggerire la tua fatica. Non sarai così solo.»

«Ma avrò la responsabilità di un sacco di persone!» «Chiediti questo: quali sarebbero le loro possibilità senza di te? Se credi

a quanto ti ho detto, sai già cosa succederà. Il vecchio mondo sta finendo e uno nuovo deve cominciare. La maggior parte dell'umanità non è destinata a sopravvivere fino a quel giorno. Ma alcuni sopravviveranno e alcuni di loro verranno con te.»

Falco scosse la testa e chiuse gli occhi per non arrendersi a quanto pro-

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vava dentro di sé. «Verranno con me... dove?» «Dove mi troverai ad aspettarti.» Falco spalancò gli occhi. «Come? Qui, in questi giardini? Devo portarle

qui, tutte quelle migliaia di persone?» Il volto coperto di rughe non cambiò espressione, gli occhi rimasero fissi

in quelli di Falco. «Dovrai cercarmi e mi troverai. E saprai come fare. Por-terai con te coloro che si affideranno alla tua guida.»

Falco continuò a fissarlo. «Be', perché non l'hai fatto tu?» chiese. «Per-ché c'è bisogno di me?»

«Vorrei anch'io che fosse così facile. Ma i miei poteri sono limitati. Non è molto difficile portare una o due persone, come ho fatto con te e la ra-gazza, ma è infinitamente più difficile portarne centinaia, impossibile por-tarne migliaia. Dovranno viaggiare a piedi. Dovranno essere guidate. E questo compito spetta a te.»

«Perché non hai iniziato prima? Prima che tutto fosse distrutto? Avresti potuto salvarne tanti! Guarda quanti sono già morti!»

Il Re del fiume Argento lo fissò con intensità, poi scosse la testa. «Sai già la risposta alle tue domande, vero?»

Falco esitò qualche istante prima di parlare. «Perché, per portarli qui» disse infine «dovevi avere la certezza che il

mondo era destinato a finire. Non potevi agire prima di allora. E quella certezza, quando l'hai raggiunta, è stata il motivo per cui mi hai rimandato nel mondo. È così?»

Il vecchio annuì. «È stato in quel momento che il tuo destino si è deciso. Ti ho rimandato nel mondo con i nuovi ricordi che ti avevo dato e ho la-sciato che costruissi la tua vita mentre aspettavo il momento di riportarti di nuovo qui e dirti tutto. Se la tua vita non avesse corso un così grave perico-lo, ti avrei lasciato là ancora per qualche tempo, prima di parlarti come ti parlo adesso. Ma è stato impossibile.»

Falco appoggiò le mani sulle ginocchia, raddrizzò la schiena e sollevò la testa per posare gli occhi sui giardini e riflettere su ciò che lo aspettava. Ma a preoccuparlo, soprattutto, c'era quello che era nascosto nel suo passa-to, i ricordi che gli erano stati sottratti. Li rivoleva indietro. Voleva cono-scere la verità che lo riguardava.

«Quanto tempo dovrà passare prima del mio ritorno?» «Poco. Nel tuo mondo saranno trascorse alcune settimane, ma il tempo

non ha molto significato qui nei Giardini. Avrai l'impressione che il tempo non sia passato.»

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"Alcune settimane." Falco pensò agli Spettri, si chiese come potessero andare avanti senza di lui. «Come saprò quello che devo fare?»

«Lo saprai.» «Come troverò la strada per tornare qui? E dove siamo, tra l'altro?» «In nessun luogo che tu possa leggere su una carta geografica. Ma trove-

rai ugualmente la strada. Il cuore ti dirà dove andare.» Tutto suonava così assurdo che Falco stava quasi per ridere, ma il Re del

fiume Argento, dal tono della voce, dava l'impressione di non avere alcun dubbio. Falco lo guardò, ma tenne la bocca chiusa.

«Hai ancora dei dubbi?» chiese il vecchio. «La tua fiducia in me è superiore alla mia» rispose. Il Re del fiume Argento scosse la testa. «Potrebbe sembrare come dici,

ma forse la tua fede in te stesso è superiore a quello che credi.» Falco non intendeva aprire una discussione su un simile argomento.

«Posso vedere Tessa, ora?» Il vecchio si alzò e tese il braccio. «È lungo quel sentiero, a breve di-

stanza da noi. Adesso dorme. Forse avrai voglia di riposare anche tu.» Falco fece per avviarsi, poi si fermò e si girò verso di lui. «Se faccio

come hai detto, potrò portare chiunque desidero?» Il vecchio annuì. «Il Cavaliere del Verbo, Logan Tom, mi proteggerà?» «Fino alla morte.» Le parole rimasero sospese nell'aria, dure e certe. Falco comprese. Lo-

gan Tom sarebbe stato il primo a morire, ma la sua morte poteva non esse-re sufficiente a salvarlo. Attese un istante, poi si avviò di nuovo. Questa volta non si guardò alle spalle.

Il Re del fiume Argento lo osservò mentre si allontanava. Il ragazzo a-

vrebbe trovato la sua innamorata a meno di un centinaio di passi, così pro-fondamente addormentata che non sarebbe riuscito a svegliarla, nonostante ogni tentativo. Alla fine, sopraffatto a sua volta dalla stanchezza, si sareb-be disteso accanto a lei e si sarebbe addormentato. Il cane che aveva scelto di accompagnare il ragazzo sarebbe stato assieme a loro nel momento del risveglio e i tre si sarebbero ritrovati nel loro mondo. E il loro viaggio sa-rebbe iniziato.

Un viaggio dalle conseguenze assai più complesse e durature di quanto pensava Falco.

Il Re del fiume Argento lo guardò finché non fu quasi scomparso. C'era-

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no molte cose che non gli aveva detto, molte che aveva tenuto segrete, ma dire tutto avrebbe posto sulle spalle del ragazzo un fardello troppo pesante, e già quello che doveva portare era sufficiente.

In ogni cosa c'è un elemento di rischio, di incertezza. Anche nei Giardini era così. In ogni caso Falco avrebbe capito d'istinto i particolari, senza bi-sogno di dirglieli.

Il ragazzo era scomparso dalla sua vista. Il Re del fiume Argento si al-lontanò.

«Sei figlio mio quanto di chiunque altro» disse a bassa voce. «La mia ul-tima speranza. La più forte.»

E nella luce dorata dei Giardini si poteva ancora credere che bastasse sperare.

5

Con un leggero crepitio, la pistola impugnata dal ragazzo sfigurato sca-

gliò un paio di filamenti metallici sottilissimi. Gufo riuscì a malapena a di-stinguerli nella penombra. Colse solo il luccichio del metallo che raggiun-geva il bersaglio. Accadde così in fretta che, ancor prima di accorgersi di cosa stava succedendo, tutto era già finito. Gufo aveva ancora la mano al-zata per fermare il gesto impulsivo del ragazzo e stava dicendo: «No!» quando i fili trovarono il bersaglio, la carica esplose dalla batteria solare e fu troppo tardi.

Ma non per Gufo. La scarica aveva lei come bersaglio, l'arma era punta-ta direttamente contro il suo petto, e invece fu Scoiattolo a venire colpito. Raggomitolato nel suo grembo, le fece involontariamente da scudo contro lo sparo.

Forse il ragazzo sfigurato non l'aveva neppure notato, perché la sua vista era compromessa dalle deformazioni del viso. O forse non gli importava. Che avesse agito senza riflettere e a causa della paura e della confusione era un dato di fatto. Forse non si era nemmeno reso conto di quello che stava facendo.

In ogni caso, i due fili scagliati dalla pistola colpirono Scoiattolo e la scarica elettrica lo attraversò. Gufo sentì il piccolo respirare con affanno e il suo corpicino sussultare. L'istante successivo, i fili rientrarono nella can-na della pistola mentre Scoiattolo si afflosciava per non muoversi più.

Orso era già passato all'azione e si era lanciato contro il ragazzo dalla pi-stola ruggendo di collera e sollevando il pesante bastone. Era un'immagine

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terribile, perché Orso era alto e robusto, e quando era infuriato, come in quel momento, pareva capace di abbattere un muro di pietre.

Il ragazzo con la pistola si era avvicinato a Gufo prima di sparare perché la sua arma era imprecisa a una distanza superiore ai quattro o cinque me-tri. Adesso si girò verso l'assalitore nel tentativo di difendersi. Ma avvici-nandosi a Gufo si era anche avvicinato agli altri Spettri, e in un attimo Or-so gli fu sopra.

Il ragazzo ebbe ancora il tempo di puntare l'arma e di sparare di nuovo, ma la pistola fece cilecca e per lui non ci fu una seconda occasione. Il ba-stone di Orso gli calò sulla testa con un tonfo sordo, perfettamente udibile. Il ragazzo crollò a terra come un sasso, la pistola gli sfuggì di mano e roto-lò via, nel buio.

Orso ruggiva ancora, alla ricerca di nuovi bersagli, e ne avrebbe avuti parecchi tra cui scegliere se i compagni del ragazzo avessero voluto lo scontro. Ma quando videro cadere il loro capo, si voltarono e fuggirono con tutta la velocità che avevano nelle gambe, svanirono nel labirinto di veicoli abbandonati, si sparpagliarono lungo la rampa e in breve furono in-ghiottiti dal buio fino all'ultimo.

Gufo sedeva sulla sedia a rotelle e li guardava, incapace di fare un gesto. Scoiattolo aveva ricevuto la maggior parte della scarica, ma era stata colpi-ta di riflesso anche lei, che ne aveva assorbito il resto. La scossa non era stata sufficiente a farle perdere i sensi, ma l'aveva traumatizzata, le aveva attraversato il corpo, paralizzandola per qualche istante. La scarica era sta-ta così forte da far compiere un balzo persino a Gesso, che aveva una mano appoggiata sull'impugnatura metallica della sedia a rotelle.

Fiume e Fiamma corsero accanto a Gufo, con un'espressione di panico sui giovani visi. Tutt'e due presero subito a parlarle, a chiederle se era a posto, a implorarla di dire qualcosa. Le toccarono le guance e le massag-giarono le mani. Non si accorsero che Scoiattolo, il quale sembrava solo addormentato, era quello più gravemente ferito, e Gufo non riusciva a par-lare. Fece un tentativo, ma le parole le uscirono dalle labbra sotto forma di suoni inarticolati.

«Non me!» riuscì infine a dire, ansimando per lo sforzo. «Ha colpito Scoiattolo!»

Immediatamente, tutti rivolsero l'attenzione al bambino, lo sollevarono dalle braccia di Gufo e lo deposero sul terreno. Fiume si chinò, accostò la testa al suo petto, l'orecchio alla sua bocca, gli sentì il polso. Lo tastò dap-pertutto divenendo sempre più pallida.

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«Non respira!» Cercò di rianimarlo con la respirazione forzata, premendogli il petto e

soffiandogli aria nei polmoni, bocca a bocca, nel tentativo di fargli ripren-dere i sensi. Era una tecnica che le aveva insegnato Gufo, che a sua volta l'aveva appresa da uno dei suoi libri.

Aggiusta arrivò di corsa con una coperta, ma Fiume gli fece segno che non ce n'era bisogno. Gesso era in ginocchio accanto a lei e la incitava a continuare, assicurandole che sarebbe riuscita a salvarlo, che si poteva an-cora salvare. Orso si aggirava nel buio, ancora infuriato, stringendo nel pugno il pesante bastone, la faccia contorta dall'ira. Il ragazzo sfigurato era immobile nella posizione in cui era caduto e Gufo non capiva se fosse morto o vivo.

«Respira, Scoiattolo, respira!» continuava a ripetere Gesso. Fiamma sta-va accanto a Gufo e teneva una mano sulle sue.

Gufo sentì la pressione e le strinse la mano. L'effetto dello storditore era quasi scomparso. Il suo corpo riacquistava via via sensibilità.

«È stato un incidente» sussurrò a Fiamma. Poi, quando la bambina la fissò, con uno sguardo colmo di dubbio e di

orrore, Gufo annuì per dare maggiore forza alle sue parole. «Non ne aveva realmente l'intenzione» aggiunse. Osservò Fiume che proseguiva nei tentativi di rianimazione e nello stes-

so tempo ascoltava i rumori della battaglia che si combatteva sui moli del porto. I suoni erano più forti e frenetici: il fuoco delle armi, le scariche del-l'artiglieria pesante, il fischio dei proiettili, le grida dei combattenti... Il cie-lo, dietro gli edifici della città, era illuminato dalle fiamme che si levavano dalle navi colpite e dai vecchi magazzini del porto. Il fumo, o almeno il suo odore, arrivava fino a dove si trovavano loro. Si vedevano i suoi pen-nacchi agitarsi al chiarore degli incendi e delle stelle.

Aggiusta si portò accanto a Gufo e le sistemò la coperta sulle ginocchia. Così facendo posò lo sguardo su Scoiattolo. «Non funziona» disse piano. «Fiume non riesce a farlo respirare.»

Anche se qualcun altro lo udì, nessuno fece commenti; tutti erano rac-colti attorno a Fiume e Scoiattolo, la guardavano ammutoliti mentre conti-nuava a praticargli la respirazione e pregavano in silenzio che succedesse un miracolo.

I minuti passarono, Fiume continuò gli sforzi. Un respiro, poi una decina di pressioni con entrambi i palmi contro il petto del bambino, un'altra re-spirazione, un'altra decina di pressioni, senza stancarsi. Aveva l'espressio-

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ne decisa e un'insistenza quasi fanatica nei movimenti. Intendeva riportare in vita Scoiattolo, intendeva trovare il modo di farlo respirare.

Alla fine, Gufo disse: «Basta così, Fiume». Poi, vedendo che la bambina la ignorava, ripeté l'ordine, questa volta più

seccamente. Fiume la guardò incredula e Gufo le disse: «È morto, cara, lascialo». Quelle parole rimasero sospese nell'aria della notte, sullo sfondo della

battaglia che si svolgeva nella baia e della rampa d'accesso all'autostrada, coperta di rottami di auto e di corpi sparsi. Parole già sussurrate altre volte, per altre perdite, che evocavano il pensiero della morte di Topo e di Airo-ne. Gli Spettri erano riuniti nella penombra della sera e ricordavano, e i ri-cordi li facevano sentire vuoti e impotenti. Avevano gli occhi pieni di la-crime. Alcuni di loro piangevano.

Erano ancora immobili, paralizzati dall'evento, dallo sgomento e dall'in-decisione, e fissavano il corpo senza vita di Scoiattolo quando la figura la-cera di Pantera comparve in cima alla rampa, accompagnata da Passero e dal profilo cupo e spettrale del Cavaliere del Verbo.

Logan Tom aveva qualche conoscenza di pronto soccorso e di ferite da

armi da fuoco e cercò di rianimare Scoiattolo, pur nella consapevolezza di quanto fosse improbabile riuscire a fare qualcosa. I suoi sforzi risultarono vani come quelli di Fiume. Il trauma della scarica elettrica dello storditore aveva fermato il cuore del bambino, un organo già indebolito dalla malat-tia e forse anche dalla genetica. Probabilmente nessuno sarebbe riuscito a salvarlo, disse, ma già mentre lo diceva sapeva che nessuno lo ascoltava.

Passero era distrutta. Era stata lei a occuparsi di Scoiattolo più di ogni altro, era stata la sua infermiera e compagna nelle settimane della malattia. Adesso non riusciva ad accettare la sua scomparsa. Rifiutò le cure per le sue ferite e, senza badare alla stanchezza che le giungeva fino alle ossa, si inginocchiò accanto al bambino, lo avvolse nella coperta che Gufo le por-geva e lo tenne in braccio mentre gli altri ascoltavano Pantera e Logan Tom, i quali raccontavano cos'era successo nella fortezza.

«È scomparso a mezz'aria?» esclamò Gufo, quando Logan le ebbe spie-gato perché Falco non era con loro. «Anche Tessa? Sono svaniti?»

«Così mi hanno detto quelli che hanno visto.» Logan Tom percepì distintamente la loro incredulità e si strinse nelle

spalle. «Non si può mai dire» aggiunse. «Ma sembra chiaro che c'è stato un in-

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tervento soprannaturale per sottrarli alla fortezza e a chi voleva far loro del male. Questo significa che sono salvi, in un modo o nell'altro.»

«O prigionieri di quei demoni di cui ci hai parlato» intervenne Pantera. «Non puoi saperlo.»

«No, ma posso fare una ragionevole supposizione. I demoni non hanno il potere di impadronirsi degli umani mentre sono sotto gli occhi di tutti. Sono in grado di rintracciarli e ucciderli con mezzi fisici, ma non di portar-li via con la magia. No, qui si tratta di qualche altra entità.»

«Che razza di entità?» insistette Pantera. Logan Tom scosse la testa. «Bene, ma come li troveremo?» volle sapere Gesso. Anche lui era impa-

ziente e arrabbiato, quasi come Pantera. «E cosa faremo adesso?» «Per prima cosa, dobbiamo allontanarci da qui» disse Gufo. «Qui non

siamo più al sicuro, neppure per un altro minuto.» «Non dirlo a me» mormorò Pantera, che si era avvicinato a Passero. Al-

zò il braccio per accarezzarle con dolcezza i capelli. «Sei forte, uccellino» le disse. «Sei una dura.» Logan Tom lanciò un'occhiata alla città e vide i fuochi e i lampi degli

spari. Gli invasori erano riusciti a sbarcare una testa di ponte sul molo e adesso gli occupanti delle navi sciamavano a terra, a torme.

Migliaia di Divoratori, attirati dallo spargimento di sangue, si diffonde-vano in silenzio mentre gli ex uomini impegnavano in combattimenti cor-po a corpo i soldati della fortezza. I difensori erano coraggiosi e lottavano duramente per non cedere terreno. La battaglia era destinata a infuriare per il resto della notte. Sarebbe durata finché i difensori non fossero stati ri-cacciati dentro le mura. Fatto questo, gli ex uomini si sarebbero messi alla ricerca degli sbandati. E a quel punto sarebbe stato meglio trovarsi quanto più lontano possibile.

«Dobbiamo andare» disse il Cavaliere del Verbo, d'accordo con Gufo. Si guardò alle spalle, in direzione dei cavalcavia che stavano diventando un fiume di sfollati, mutanti, bambini di strada e altri in fuga dal porto. I fug-giaschi avevano evitato l'accesso dell'autostrada perché non volevano la-sciare la città, ma solo trovare un riparo nell'entroterra per poi tornare una volta che gli assalitori si fossero allontanati. Fino a quel momento nessuno di loro aveva imboccato la rampa dove si trovavano gli Spettri.

Una situazione che poteva mutare da un momento all'altro. «Prendete tutto quello che pensate di dover tenere» suggerì Logan Tom.

«Portate tutto al Lightning e legate il carretto al gancio posteriore. Mettete

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sul tetto il vecchio con la sua barella, fissatelo con delle cinghie. Per il momento potrà viaggiare così.»

"Ed è meglio che stia fuori, all'aperto, con la sua malattia. Meglio per tutti noi" pensò, ma non lo disse.

Lanciò un'occhiata a Passero, che continuava a tenere in braccio il corpo di Scoiattolo.

«Porteremo il bambino con noi dentro il veicolo dove sarà al sicuro, fin-ché non troveremo un posto dove seppellirlo» disse. «Tu puoi stargli vici-no.»

Gli Spettri cominciarono a radunare le loro cose. Erano tristi e avviliti, e nessuno aveva voglia di parlare. Orso si avvicinò a Passero, le tolse dalle braccia il corpo di Scoiattolo, le ordinò di non piangere e di seguirlo. Ag-giusta e Gesso presero la barella del Meteorologo e Fiume si mise dietro la sedia di Gufo e la spinse accanto al gruppo.

Fu Pantera a chiedere: «E lui?». Indicò il ragazzo sfigurato. Che era ancora a terra, nel punto dove Orso

l'aveva colpito con il bastone. Visto che nessuno si muoveva, fu Logan Tom a raggiungerlo e a controllargli polso e respiro. «È solo tramortito, non è morto.»

«Lascialo perdere» brontolò Orso, fermandosi quanto bastava a dargli un'occhiata e poi tirando dritto con Scoiattolo tra le braccia.

Logan guardò gli altri, con espressione interrogativa. «Puoi svegliarlo?» gli chiese Gufo. «Ce la fai a rimetterlo in piedi?» Logan esaminò il punto dove il bastone di Orso lo aveva colpito e dove

si scorgeva un livido violaceo, sulla tempia sinistra. «Credo che si sveglie-rà da solo.»

«Ma cosa accadrà se lo lasciamo qui?» insistette lei. Logan diede un'occhiata alla folla sul cavalcavia, poi ai fuochi sui moli.

Scosse la testa. «Probabilmente non ce la farà.» «Lascialo perdere» ripeté Orso. Questa volta gridò. «Lascialo» confermò Pantera. Anche gli altri gli fecero eco, tranne Fiamma, che disse piano, senza par-

lare a nessuno in particolare: «Scoiattolo non sarebbe d'accordo». Gufo guardò la bambina e annuì. «No, non sarebbe d'accordo. Porteremo

il ragazzo con noi.» «Che maledetta idiozia!» le gridò Pantera. Orso brontolò qualcosa a

mezza voce, poi girò la schiena. Gli altri rivolsero a Gufo un'occhiata di disapprovazione, ma nessuno fece commenti.

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Logan attese qualche istante, poi sollevò il ragazzo sfigurato e si avviò verso l'autostrada dietro Orso.

Secondo il Cavaliere del Verbo, prendere con loro il ragazzo era un erro-re, ma non spettava a lui dirlo, almeno per il momento. Forse più tardi. Sa-peva come funzionavano quelle cose. A volte si fa quello che si deve fare, non quello che si vuole. A volte si fa una cosa solo perché è giusto farla, anche se sai che in seguito ti pentirai di averla fatta. Aveva imparato quella lezione durante il periodo trascorso con Michael. Di conseguenza aveva accumulato una dose di rimorsi sufficiente fino alla fine dei suoi giorni, ma quello che aveva fatto, l'aveva fatto perché era necessario.

Adesso doveva badare a un gruppo di bambini di strada perché non era riuscito a salvare il loro capo. Non perché ne avessero bisogno o perché gli era stato ordinato di farlo, ma perché gli sembrava la cosa giusta.

Eppure continuava a chiedersi, mentre guardava il gruppo di giovani straccioni affidato a lui, se fare le cose giuste avesse davvero un senso.

Viaggiarono per il resto della notte, con Logan alla guida del Lightning,

il Meteorologo e il ragazzo sfigurato legati sul tetto, Passero e Scoiattolo nel retro, Gufo sul sedile del passeggero e, agganciato dietro l'auto, il car-retto con le masserizie degli Spettri.

Gli altri avevano proseguito camminando o seduti sui larghi parafanghi, facendo dei turni quando uno di loro aveva bisogno di riposo. Pantera e Orso erano andati sempre a piedi ed erano saliti sull'auto soltanto quando Gufo aveva ordinato loro di riposarsi, perché non volevano mostrare alcun segno di debolezza.

Logan faceva procedere l'auto molto lentamente e nessuno incontrò dif-ficoltà a seguirla, neppure Fiamma. Per ora, la velocità non aveva impor-tanza. E neppure la destinazione, per il momento; ottima cosa, perché nes-suno di loro, compreso Logan Tom, o forse soprattutto lui, sapeva dove dovessero andare.

Presto, comunque, avrebbero dovuto scegliere una meta, ma per quella notte era sufficiente mantenere un'andatura regolare che li allontanasse dalla città e li portasse in qualche punto della campagna circostante, lonta-no dagli ex uomini e dalla loro follia.

Viaggiarono verso sud, la direzione della corsia a cui portava la rampa d'accesso. La scelta migliore, a giudizio di Logan. Era arrivato in città da nordest, e non aveva alcuna intenzione di trovarsi di nuovo su quei passi montani. Forse per il rischio di un altro incontro con gli spettri dei morti o

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forse per la sua avversione a tornare sui propri passi, dato che i suoi nemici speravano sempre che lo facesse.

Non aveva ancora idea di come cercare i due Spettri mancanti, Falco e Tessa, ma preferiva provare a cercarli in qualche luogo diverso da quelli dove era già stato.

Inoltre sapeva che per compiere un qualsiasi viaggio avrebbero avuto bi-sogno di un rimorchio adatto a trasportare i bambini e le loro proprietà. Non aveva nulla in contrario a percorrere l'autostrada a passo di lumaca quella notte, ma in seguito occorreva trovare qualcosa che permettesse loro di viaggiare più in fretta, all'occorrenza, e il Lightning non poteva ospitarli tutti.

Queste e altre considerazioni passavano per la mente del Cavaliere del Verbo mentre guidava il veicolo lungo il nastro di cemento e si immergeva sempre più profondamente nell'oscurità, serpeggiando in mezzo a un intri-co di automezzi abbandonati, di mucchi di immondizia e di scheletri. Or-mai lontani, ma ancora visibili, i fuochi delle navi e dei difensori della for-tezza illuminavano di un chiarore giallastro il cielo notturno. Logan pensò alle persone che abitavano nella fortezza e che probabilmente vi sarebbero morte prima che l'attacco fosse finito. In particolare ripensò a Melke, con le sue lentiggini e lo sguardo atterrito. Si chiese se avesse accolto il suo suggerimento o se avesse preso la decisione più facile e fosse rimasta chiu-sa nella fortezza. Poi capì che forse preferiva non saperlo.

Una volta giunti a una distanza sufficiente, oltrepassato un enorme cam-po di volo, Logan lasciò l'autostrada e salì su una collinetta da cui poteva vedere il campo e, più lontano nella direzione da cui erano giunti, anche la città. Portò il Lightning all'interno di un boschetto, dove non l'avrebbero avvistato subito, fermò la vettura e scese. Nel retro teneva un paio di tende e di coperte, quanto bastava perché, utilizzando anche l'interno del veicolo, tutti potessero concedersi un po' di sonno.

Che i bambini avessero bisogno di riposo era un dato di fatto. Erano e-sausti. Logan si fece aiutare da loro per montare le tende e da Gufo per in-coraggiarli, poi ordinò a tutti di dormire. Gufo andò a dormire per ultima, dopo essersi occupata delle ferite del ragazzo sfigurato e avere insistito che Logan lo mettesse nell'abitacolo, insieme con il Meteorologo. Logan ac-consentì, ma gli ammanettò un polso a un anello, in fondo al veicolo.

Quando fu di nuovo solo, rimase di guardia, seduto al volante, e posi-zionò il veicolo in modo da osservare la strada da cui erano appena giunti. Non si aspettava un inseguimento, ma aveva imparato a non dare mai nulla

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per assodato, neppure il funzionamento del sistema d'allarme del Li-ghtning. Accompagnato dal respiro irregolare del Meteorologo che giun-geva a lui dal fondo del veicolo, alzò lo sguardo in direzione dell'oscurità e scivolò in un sonno leggero.

Vagava in qualche luogo indefinito fra il sogno e la realtà quando la Si-gnora gli fece visita.

Logan ne sente la presenza prima ancora di udirne la voce, e quella

presenza basta a farlo alzare e scendere sulla collinetta erbosa dove il Li-ghtning è parcheggiato.

Dorme male, quella notte, ha la mente agitata, i suoi pensieri sono cupi e pieni di brutti presentimenti. I ricordi delle occasioni perdute lo assilla-no come fantasmi e gli guastano il riposo. Si addormenta per qualche mi-nuto, di tanto in tanto, ma la battaglia che sta combattendo contro i suoi demoni personali è una battaglia perduta. Non gli danno requie. Soprat-tutto si illude di poter reggere alla loro sfida e alle accuse laceranti che gli sussurrano.

«Logan Tom» lo chiama la Signora, pronunciando il suo nome. "Eccomi" vorrebbe rispondere, ma la gola gli si chiude e non riesce a

dar voce alle parole. Sta camminando sull'erba alta e folta, assapora l'aria fresca della notte

e l'odore della corteccia bagnata e delle foglie secche. Alcuni Spettri rus-sano, Orso più forte degli altri, avvolti nelle coperte e tutti ammucchiati per riscaldarsi. Lancia un'occhiata al punto dove siede all'interno del Li-ghtning il ragazzo che ha ucciso Scoiattolo e che adesso è sveglio, anche se incatenato. Il ragazzo non guarda nella sua direzione, ma la cosa, ov-viamente, non ha importanza. Anche se si voltasse, non vedrebbe la Signo-ra. Lei si lascia scorgere solo quando vuole. E quella notte non vuole, se-condo Logan.

Avanza in mezzo all'erba, in direzione della sua voce, senza vederla, si-curo della sua presenza. Il bastone è posato sul sedile, all'interno del Li-ghtning, vicino al posto dove dorme. Lui non si muove mai senza il basto-ne, ma quella notte se n'è scordato. La voce della Signora non gliene ha lasciato il tempo. Tornando con il pensiero al giuramento di tenerlo sem-pre con sé, prova una fitta di rimpianto per avere mancato alla promessa. Ma non deve avere paura. Quando lei lo chiama, Logan sa di essere al si-curo.

«Sono qui» dice lei.

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La Signora compare davanti a lui, una presenza effimera, una radiosità incantevole. La veste le si muove attorno come il velo d'acqua di una ca-scata, raccogliendosi in una polla che si agita senza posa sotto i suoi pie-di, anche se lei rimane immobile. Scivola sull'erba, sospesa lievemente nell'aria, una bianca presenza eccetto le pozze scure dei suoi occhi. La ca-scata dei capelli le ricade oltre le spalle e ha i riflessi lucidi della seta mossa dal vento È la prima volta che compare a Logan Tom dopo averlo mandato a Hopewell per incontrarsi con Due Orsi. Come sempre, l'uomo rimane stupefatto dalla sua semplice esistenza e cade in ginocchio, senza accorgersene.

«Mio prode Cavaliere» sussurra lei. «Hai agito bene.» Logan non riesce a immaginare come possa dirlo, visto il pasticcio che

ha combinato. Ha l'impressione di aver mancato su tutti i fronti. Ma le lo-di della Signora gli fanno sperare di essersi sbagliato nel giudicare il ri-sultato dei suoi sforzi. Ancora una volta prova a parlare, e adesso riesce a pronunciare le parole, anche se debolmente, senza finire la frase: «Se lo dici tu...».

«Perché dubiti di me, Logan Tom?» chiede lei, interrompendo le sue proteste. «Non lo direi se così non fosse. Hai bene eseguito il compito che ti era stato affidato. Hai trovato il figlio della magia primordiale, gli hai dato le ossa della madre e l'hai aiutato a scoprire la verità su se stesso.»

La voce della Signora placa i suoi dubbi e cancella il suo sconforto. Gli fa quasi desiderare di credere a quello che gli ha detto.

«E il ragazzo?» sussurra Logan, parlando con sforzo perché ha di nuo-vo un nodo alla gola. «È al sicuro?»

Lei si sposta lievemente di lato, muovendosi leggera nell'aria come se scivolasse sul ghiaccio. La città è ancora debolmente illuminata dietro di lei, i suoi fuochi bruciano ancora nella notte. Logon vede quelle luci attra-verso la diafana luminosità del suo corpo, come se la Signora fosse acqua trasparente.

«Riposa tra le braccia di un altro servitore del Verbo, Logan. Raccoglie le forze per il viaggio che lo attende. Quando si sveglierà, verrà a nord per incontrarsi con te e con il resto di coloro che deve guidare. Tu devi andare a raggiungerlo.»

«Raggiungerlo dove?» chiede Logan, confuso. «Sulle rive del fiume Columbia. Andrà lassù per iniziare il suo viaggio.

Avrà molte persone con sé. E tutte avranno bisogno della tua protezione. Tu devi dargliela, mio prode Cavaliere, qualunque sia il costo per te.»

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"Qualunque sia il costo" pensa Logan. Immagina di avere sempre sapu-to il significato di quelle parole, il prezzo che potevano finire per chieder-gli. «Farò del mio meglio.»

«Un altro Cavaliere del Verbo verrà ad aiutarti, una donna. Verrà con gli elfi, accompagnati dalla magia del loro passato in Faerie, che diverrà la magia della futura umanità.»

"Elfi?" Logan teme di non avere udito bene. Impossibile che la parola sia quella. Gli elfi non esistono. La Signora ha detto qualcos'altro e lui ha capito male.

Sta per chiedere spiegazioni, ma lei alza la mano e lo interrompe. «Fa' attenzione a come ti muovi, Logan» gli dice, e la sua voce è bassa e cauta, come se temesse di essere udita da altri. «Ci sono molti pericoli in aggua-to. I demoni stanno arrivando. Danno la caccia al ragazzo. Lo distrugge-ranno, se potranno, anche senza capire la natura del pericolo che rappre-senta per loro. Lo temono e basta, per ragioni a cui non sanno dare una voce. È un Variante che ha scelto il Verbo e questo è sufficiente a convin-cerli che deve morire. Tu dovrai impedire che succeda.»

Abbassa leggermente le mani e s'interrompe per poi riprendere. «Non devi tradire la mia fiducia» gli dice. «Non devi mancare al tuo

impegno per il Verbo. Devi fare quello che è necessario per salvare il ra-gazzo e per aiutarlo a raggiungere la sua destinazione. Sii cauto! Ci sono pericoli conosciuti, ma i pericoli sconosciuti risulteranno i più minacciosi per te. Alcuni abitano nel mondo esterno, altri nel tuo stesso cuore. Guar-dati da questi, e con grande attenzione. Tienili a bada.»

La Signora comincia a sbiadire, a dissolversi nella notte. Logan cerca di fermarla, cerca di chiamarla. Ma ancora una volta la sua voce è priva di suono. Tenta allora di trattenerla con la pura forza della volontà, ma è come cercare di catturare la nebbia afferrandola con le mani. Niente di quello che potrebbe fare riuscirebbe a fermarla. Lei lo guarda con un viso privo di espressione, senza dare alcun segno di aver capito il suo bisogno. Forse non lo capisce o forse, semplicemente, non gli attribuisce importan-za. Gli ha assegnato un incarico, si aspetta che lui lo esegua.

«Tornerò da te un'altra volta, mio prode Cavaliere» gli promette. «A-desso riposa. Sarai al sicuro per questa notte e fino al tuo risveglio.»

Un attimo più tardi, la Signora è sparita e Logan è solo. Ha un istante di lucidità, capisce che è un sogno e che non si è mai allontanato dal Li-ghtning e dal suo sedile e che la presenza e la voce della Signora vengono dall'interno della sua stessa mente.

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Poi s'addormenta.

6 «Cosa credete di fare?» continuò la voce che li aveva sorpresi. Nella profondità dei sotterranei del palazzo dei Belloruus, circondati dal-

le Storie degli Elfi e da strati su strati di tenebra e di ombre, quella voce incorporea sembrò ai due giovani un'entità senza un'apparenza visibile. Né Kirisin né Erisha riuscivano a scorgere colui che aveva parlato, e nessuno dei due sapeva cosa dire o fare in risposta alla domanda.

«Avete perso la lingua?» ironizzò il nuovo venuto. «Culph!» esclamò infine Erisha, proprio mentre Kirisin cominciava a

temere di essere davvero in pericolo. «Non c'era bisogno di spaventarci in questo modo!»

L'anziano custode delle Storie raggiunse la zona illuminata, poi sedette per terra tra i due giovani elfi. Si portò le mani ai fianchi e piegò la schiena fino a sembrare un vecchio ceppo nodoso. Era un elfo di bassa statura e dall'aria appassita, di età indefinibile. Sulla faccia rugosa cresceva un ten-tativo di barba. Due immense orecchie erano la sua caratteristica più sa-liente.

«Tu non hai il permesso di venire qui, signorina» disse, puntando contro la giovane un dito lungo e artritico. «Figlia di re o no. E tu» continuò, indi-cando adesso Kirisin «non hai neppure il permesso di entrare nel palazzo!»

«L'ho invitato io!» ribatté Erisha. La paura le era passata; cominciava a seccarsi di venire apostrofata in quel modo da un vecchio che non era nemmeno di sangue nobile.

«Davvero?» ironizzò Culph. «L'hai invitato a fare un po' di lettura a lu-me di candela, è così?»

Anche alla debole luce della torcia, Kirisin vide che Erisha cominciava a perdere la calma.

«Le ho chiesto io di aiutarmi» si affrettò a rispondere, richiamando su di sé l'attenzione del vecchio. «Volevo sapere cosa dicono le Storie a proposi-to dell'Ellcrys.»

Il vecchio seduto in mezzo a loro passò lo sguardo dalla faccia dell'uno a quella dell'altra.

«Ah» disse. «Si tratta ancora di quella faccenda dell'albero che ha chie-sto ai Prescelti di usare la Pietra Magica, il Loden, per salvarlo?»

Nel dirlo il vecchio annuì tra sé. Kirisin, che era partito con l'intenzione

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di non rivelare troppo, si rammentò dell'inutilità di nascondere quell'in-formazione a Culph, dato che il re lo aveva incaricato di fare ricerche sul-l'argomento.

«So già tutto» concluse infatti il vecchio. Il giovane decise di correre il rischio. «Be', il re non vuole ammettere

che l'Ellcrys mi abbia parlato. Ma Erisha mi crede perché l'albero ha parla-to anche a lei. Così abbiamo deciso di cercare informazioni.»

«Ritenendo che il mio lavoro non bastasse, vero?» commentò Culph, in tono quasi di sfida. «Che può saperne un vecchio come me, vi sarete chie-sti. Probabilmente non è neppure in grado di trovare il libro giusto, avrete detto.»

«Non è quello che pensiamo» ribatté Erisha, interrompendo il battibec-co. «Volevamo solo cercare quello che ci serviva.»

Ebbe un attimo di esitazione. «La verità è che non sappiamo cos'hai tro-vato. Mio padre non vuole che me ne occupi, per ragioni che non intende rivelare. Ha insistito perché non facessi quello che mi ha chiesto l'albero. Non si è lasciato convincere. Perciò non posso essere certa che mi abbia detto la verità. O che mi abbia detto tutto quello che sa. Forse c'è dell'al-tro.»

Gli rivolse un'occhiata penetrante. «C'è dell'altro?» Culph si strinse nelle spalle. «Come posso saperlo? Non so cos'ha detto

a te. So soltanto quello che ho detto io a lui. Ma perché dovrei rivelartelo? Perché non dovrei limitarmi a svegliare tuo padre e consegnarti a lui? Così eviterei il problema.»

Erisha lo guardò con ira. «Non te lo consiglio.» Culph le rivolse un sorriso privo di allegria. «Potrei essere costretto a

pentirmene, vero? In realtà la cosa di cui dovrei pentirmi è non dire nulla e poi venire scoperto. Tuo padre non è molto portato a perdonare, in questo periodo.»

«E l'Ellcrys?» insistette Kirisin. «Se non l'aiutiamo, si rivolgerà a un al-tro dei Prescelti. Ha già detto chiaramente che si sente minacciata. Non pensi che abbiamo il dovere di fare qualcosa?»

Gli occhi acuti del vecchio si fissarono su di lui. «Io penso che potreste avere avuto delle allucinazioni, tutt'e due. Come potete essere certi di quel-lo che avete udito? Spostare l'Ellcrys servendosi di una Pietra Magica che nessuno ha più visto o sentito da secoli? Portare via il nostro principale ta-lismano perché si avvicina la fine del mondo? E io dovrei accettare la vo-stra parola senza discutere?»

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Kirisin esitò a rispondere. Il vecchio non aveva torto. «L'importante è che entrambi, io ed Erisha, abbiamo sentito le stesse cose dall'Ellcrys in due diverse occasioni. Gli umani continuano da anni a distruggere il mon-do, lo sappiamo anche noi. In tutto il Cintra le piante appassiscono e muoiono. Se metti piede fuori di questo palazzo, lo puoi vedere con i tuoi occhi. Lasciar perdere tutto come ha fatto il re è non solo sbagliato, ma an-che pericoloso. Come Prescelti abbiamo il dovere di scoprire la verità. Questa sera siamo venuti a cercarla.»

«Leggendo le Storie per vedere se citano il Loden o le Pietre Magiche Blu, sì, capisco.» Culph non sembrava convinto. «Ma anche se riusciste a trovarle, cosa fareste? Tentereste davvero di portare via l'albero?»

Kirisin respirò a fondo. «Non lo so. Almeno potremmo dire la nostra.» «E forse» aggiunse Erisha «mio padre cambierà idea, prima di allora.

Forse saranno cambiate altre cose.» «Come l'avvicinarsi della fine del mondo, quel tipo di cose.» Culph in-

spirò con il naso e, con la mano nodosa, sì grattò quel poco di barba che aveva. «Be', mi sembrate abbastanza sicuri tutt'e due del fatto vostro.»

«Altrimenti non saremmo venuti» rispose Erisha. «Già, non sareste qui, pensando a come reagirebbe tuo padre se scopris-

se cosa state facendo. Non vuole neppure discuterne con me, anche se po-trebbe venire a sapere qualcosa di interessante, se lo facesse.»

Il vecchio aggrottò la fronte coperta di rughe. «Non ti sembra diverso dal solito negli ultimi tempi? Meno disposto a ragionare, meno paziente in ge-nerale?»

Erisha annuì, con espressione triste. «Be', non è successo soltanto a me, allora.» Culph sospirò. «Suppongo

che condurvi da lui non servirebbe a molto. Anche se questo non è il vo-stro posto e anche se avete disobbedito agli ordini.» Rifletté per un po', e intanto studiò la loro espressione. «Siete riusciti a scoprire qualcosa fino-ra?»

Erisha scosse la testa. Kirisin chiese al vecchio, senza perdere tempo: «E tu?». «Può darsi.» Il vecchio attese un istante, prima di proseguire. Rifletté ancora sulla si-

tuazione. «E magari vorreste sapere cosa ho trovato» disse poi. Kirisin sentì il cuore balzargli in petto. «Ci piacerebbe saperlo. Ci piace-

rebbe molto.»

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Culph si dondolò sui talloni. «Allora ve lo dirò. Ma solo se promettete che quanto viene detto in questa stanza non ne uscirà mai. Perché se vi racconto quello che so e poi quelle informazioni arrivano all'orecchio del re, io mi troverò senza lavoro e forse anche in esilio, e nessuna delle due prospettive mi entusiasma. Corro un grosso rischio a parlare con voi. Per-ciò tutto rimarrà dentro queste mura. D'accordo?»

Kirisin lanciò un'occhiata a Erisha. Lei annuì, anche se a malincuore. «D'accordo.»

Si sedettero più comodamente sul pavimento di legno, accostandosi tra loro entro il piccolo cerchio di luce, come i membri di una congiura contro la notte. Kirisin riusciva a malapena a frenare l'ansia. Era l'aiuto di cui a-vevano disperatamente bisogno, ma che non si aspettavano di trovare. Era un po' sorpreso dal fatto che Culph fosse disposto a condividere con loro quello che sapeva, ma forse il senso di responsabilità del vecchio bibliote-cario nei confronti dell'Ellcrys era più forte della fedeltà verso il suo re.

«Cominciamo dall'inizio» disse Culph, congiungendo le mani davanti a sé come un insegnante che volesse richiamare l'attenzione degli allievi. «Le Pietre Magiche sono una magia molto antica, che risale al tempo di Faerie. Furono trovate dai Troll e donate agli Elfi per essere trasformate in talismani. E poiché sono stati gli Elfi a infondervi i loro incantesimi, solo gli Elfi le potevano usare.

«Ce n'erano diverse, di vario colore, e destinate a più scopi. Sono state create e foggiate a tre alla volta. L'unione di minerale e magia ha reso cia-scun gruppo differente dagli altri e sono occorsi anni per perfezionarle. Non ci è giunto alcun documento che descriva con esattezza i loro poteri, almeno nelle pagine delle Storie qui conservate.

«Tranne che per un gruppo. Le Pietre Blu, che erano destinate alla ricer-ca delle cose nascoste o perdute.»

«L'Ellcrys ha detto che dobbiamo servircene per trovare il Loden» inter-venne Erisha.

Culph le lanciò un'occhiata che suggeriva come interruzioni e commenti non fossero graditi.

«Tutte le Pietre Magiche» riprese «erano anche armi di difesa. Erano in-fuse di un potere che proteggeva chi le usava. Il loro potere dipendeva però dal proprietario, rispecchiava la somma delle sue virtù: cuore, forza e intel-ligenza. Le Pietre erano la più grande tra le magie degli Elfi e sono andate tutte perdute quando è scomparso il mondo di Faerie.»

Lanciò a Erisha un'altra occhiataccia, interrompendo quello che lei stava

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per dire. «Lascia parlare me, ragazzina.» Fece una smorfia. «Tutte perdute, dicevo, tranne quelle blu, ma nessuno le ha più viste da secoli e dove si trovino è un mistero.»

Il modo in cui pronunciò la frase rivelò a Kirisin che l'anziano bibliote-cario sapeva qualcosa di quel mistero, qualcosa che poteva condurli a rin-tracciare le Pietre. Ma tenne la bocca chiusa, perché era meglio lasciare che il vecchio raccontasse a modo suo quello che sapeva.

«Quanto al Loden» riprese Culph «ne sappiamo ancora meno. Era una pietra singola, foggiata per uno scopo particolare, uno scopo, per così dire, unico. Di tutte le Pietre Magiche, solo il Loden e la Pietra Nera erano con-siderate più importanti delle altre.

«Ma non sappiamo perché. Forse, come vi ha detto l'Ellcrys, il Loden deve servire a proteggerla. Forse può farle da scudo, come lei fa da scudo al Divieto, la barriera che le creature demoniache non possono oltrepassa-re. Sia come sia, non ne sappiamo nulla. Nelle Storie non c'è una descri-zione e non c'è una spiegazione di come usarla. E non se ne fa cenno nei punti dove ci si aspetterebbe di trovarne la descrizione.»

Fece una pausa e passò lo sguardo prima sull'uno e poi sull'altra, con gli occhi che gli brillavano per la soddisfazione.

«Qualcosa però c'è...» disse. Sorrideva, adesso, e il suo sorriso aveva qualcosa di inquietante. A quan-

to pareva, la contentezza non era una delle sue espressioni abituali e dove-va essergli costato caro, sorridere in quel momento. "Ma almeno rivela un interesse per il nostro tentativo" si disse Kirisin.

«Tutto quello che ho detto fino a questo momento è contenuto nelle Sto-rie, e sono certo che sareste riusciti a scoprirlo da soli.» Il vecchio aggrottò la fronte. «Anche se vi sarebbe occorsa più di una notte, senza dubbio. Io stesso ho impiegato due giorni a rileggere tutto, quando il re mi ha chiesto di controllare, e conosco le Storie per averle già lette più volte! Ma il fatto è che queste conoscenze non vi offrono nessun aiuto.»

S'interruppe ancora una volta, poi riprese: «Ma le Storie sono solo un pezzo delle nostre tradizioni, solo una piccola parte dei nostri documenti sul passato. Ci sono anche varie altre fonti. Libri che non fanno parte delle Storie propriamente dette. Libri che ci forniscono informazioni dimentica-te e rivelazioni impreviste. Anche quei libri sono custoditi in questa biblio-teca, ma non sono ben conosciuti e nessuno presta loro attenzione. In gran parte vengono aperti solo raramente».

Fissò i due ragazzi. «Ma alcuni non sono mai stati aperti da nessuna per-

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sona ancora in vita. Se non da me.» «Cos'hai scoperto?» chiese Erisha, impaziente. «Non così in fretta, ragazzina» ribatté il vecchio, alzando una mano e fa-

cendole il gesto di fermarsi. «Non ti hanno mai detto che la pazienza è una virtù?»

Ma Erisha non aveva alcun interesse a imparare quella virtù. Lo stesso Kirisin cominciava a perdere la calma, ormai. Erano ansiosi di sapere quel-lo che il vecchio bibliotecario aveva scoperto e non aveva ancora racconta-to. E aspettarne la rivelazione era una sorta di tortura.

«E in uno di quei libri c'era qualcosa?» si lasciò scappare il giovane. Culph gli rivolse un altro di quei suoi sorrisi inquietanti. «Qualcosa, cer-

to. Un riferimento molto interessante alle Pietre Blu che cercate. Diamo un'occhiata.»

Si alzò e scomparve per qualche minuto nell'ombra, poi fece ritorno con un libretto sottile e consumato, dalla rilegatura di cuoio screpolata e sbiadi-ta.

«Un diario» spiegò. «Uno dei tanti tenuti da vari memorialisti nel corso dei secoli. Sono conservati dentro alcuni bauli, in fondo alla stanza. Questo contiene la cronaca ufficiosa della vita e morte di una famiglia reale, scritta cinque secoli fa da un uomo che era il loro assistente personale.

«Lo chiamo "diario" perché si tratta dei ricordi confidenziali di quel-l'uomo, scritti per uso privato e non come cronaca ufficiale. L'ho trovato tempo fa, quando ho rimesso in ordine la biblioteca, ma all'epoca non me ne sono interessato più di tanto. Quando tuo padre, Erisha, mi ha parlato delle Pietre Magiche, la sua esistenza mi è tornata in mente. Dopo una lunga ricerca ho trovato quello che adesso vi leggerò.»

Tornò a sedere in mezzo a loro e aprì il libro con cura, proprio in corri-spondenza dell'ultima pagina.

«È scritto in una lingua arcaica, un vecchio dialetto elfico, e dovete per-donare la mia traduzione approssimativa. Ma il senso è questo.

«"Ho assistito alla sepoltura di Pancea Rolt Cruer quest'oggi stesso, re-gina della sua gente e madre di una famiglia che ha servito gli Elfi a lungo e bene. Con la sua morte io rassegno le dimissioni dalla mia carica e mi ri-tiro nell'Hibbling Auer, dove trascorrerò quanto mi resta da vivere." Poi c'è una frase che non riesco a capire bene.

«Prosegue il cronista: "Questo appunto sarà l'ultimo. Adesso lei riposa nelle profondità dell'Ashenell con le Pietre cucite nella veste, una decisio-ne presa molti anni fa, all'inizio del suo regno. Così aveva stabilito allora,

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pensando che l'antica magia aveva perso il suo scopo, che l'epoca di Faerie apparteneva ormai al passato e che il presente e probabilmente il futuro e-rano le età dell'uomo. La magia ha ceduto il posto alla scienza, il cui cam-mino è diverso dal nostro.

«"Era ferma convinzione della regina che oggi l'uso della magia può so-lo costituire un pericolo per la nostra gente e lei non vuole che ciò accada. Ma è una decisione a cui è giunta senza consultarsi e in segreto, e occorre che ne resti testimonianza per coloro che verranno dopo di noi".

«C'è un'altra frase poco chiara» disse Culph «poi termina: "Il mondo cambia e nessuno sa cosa ci serba il futuro, e con queste parole conclu-do".»

Il vecchio alzò la testa. Sul suo volto rugoso compariva un'espressione di attesa. «Sono le ultime parole. Non c'è altro. Ma ci riferisce dove sono le Pietre. Cucite nell'abito di una regina morta, sepolta in qualche parte del-l'Ashenell.»

«Nel cimitero dei nostri antenati!» esclamò Erisha, con grande eccita-zione. «Allora ci basta andare laggiù e scoprire la sua tomba!»

«Già, molto semplice, in apparenza» rispose Culph con una smorfia. «È quello che mi sono detto anch'io. Sono anche andato all'Ashenell per dare un'occhiata. In segreto, ovviamente, perché tuo padre non sapesse cosa fa-cevo. Ho trovato la tomba di famiglia dei sovrani Cruer, re e regine, ma nessuna delle sepolture portava il suo nome.»

Erisha guardò prima lui e poi Kirisin. «Come può essere?» Kirisin aggrottò la fronte e scosse la testa. Gli era tornato in mente un

particolare ancora più inquietante. «Non hai parlato del Loden. Ma il re ha fatto capire a Erisha che sapeva qualcosa su quella pietra, una cosa così al-larmante da vietare alla figlia di usarla per aiutare l'Ellcrys. Che cosa gli hai detto per farlo reagire in quel modo? Cos'hai scoperto?»

Culph esitò. Nei suoi occhi acuti era comparso un lampo di dubbio. «Quando abbiamo iniziato questa conversazione abbiamo fatto un patto. È tuttora valido? Qualunque cosa detta e ascoltata in questa stanza non uscirà di qui?»

Kirisin ed Erisha si scambiarono in fretta un'occhiata. «L'accordo era quello» confermò Kirisin.

«Allora vi dico che il re sa qualcosa che ignoro o che teme il peggio.» Sulla faccia rugosa di Culph comparve una smorfia. «Sul Loden io non ho trovato altro, solo quello che ho detto. Vaghe allusioni e commenti generi-ci quando si parla delle Pietre Magiche in generale. Non ho scoperto nulla,

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in nessun documento, che spiegasse qual era l'impiego del Loden. E non ho trovato nessun accenno al fatto che il Loden potesse essere pericoloso per chi lo usa. Né nelle Storie, né in diari o appunti personali. E neanche altrove.»

Scese tra loro il silenzio mentre i due ragazzi riflettevano su quell'infor-mazione imprevista. «Allora, perché ha proibito a Erisha anche solo di pensare di usarlo?» chiese poi Kirisin.

Culph scosse la testa e si strinse nelle spalle. «Dovreste chiederlo a lui. Quel consiglio non arriva da me o da qualcosa che possa avergli detto io. È una conclusione sua e io stesso mi chiedo da dove abbia origine.»

«Non capisco» disse Erisha, a bassa voce. Non capiva neppure Kirisin e ne era preoccupato. Una cosa era che Aris-

sen Belloruus volesse proteggere la figlia da un pericolo scoperto attraver-so la lettura delle Storie o l'esperienza personale. Ma era ben diverso in-ventarsi una minaccia basata solo su timori e dubbi privi di fondamento.

Eppure, come altrimenti spiegare il comportamento del re? Senza alcuna evidente conoscenza del modo in cui funzionava il Loden, senza alcuna storia che corroborasse il suo pensiero, aveva deciso che la Pietra Magica costituiva un pericolo per la figlia e di conseguenza le aveva proibito di usarla. Una simile reazione sarebbe già stata abbastanza discutibile se fos-se venuta da un padre, ma era infinitamente peggiore se giungeva da un re. Come sovrano, la sua primaria responsabilità andava ai suoi sudditi, a mantenere il loro benessere e la loro sicurezza. E il benessere degli Elfi di-pendeva soprattutto dalla salute dell'Ellcrys.

«Be' non ha importanza quello che pensa» disse Kirisin. «Noi sappiamo quello che dobbiamo fare, e lo faremo. Vero, Erisha?»

Mentre parlava la guardò negli occhi, per vedere la sua reazione. Voleva essere certo che non avesse cambiato idea e che intendesse ancora aiutarlo.

«Non hai bisogno di chiedermelo» ribatté lei, irritata. Lo fissò per un i-stante con aria di sfida, poi tornò a fissare Culph. «Penso che io e Kirisin dovremmo fare una visita all'Ashenell per dare un'occhiata di persona. Non so fino a che punto possa servire, ma non può far male. Forse due altre paia di occhi possono vedere qualcosa che è sfuggito a te. È possibile, no?»

Il vecchio si strinse nelle spalle. «Naturalmente, è possibile. Comunque io verrò con voi. Più tardi, oggi stesso, se riuscirete a rimanere svegli fino ad allora. All'alba mancano solo tre ore e voi non avete dormito. Ma non credo che abbiate bisogno di sonno come ne ho io. Diamoci appuntamento

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per mezzogiorno. Dopo quell'ora non ho nulla che mi trattenga qui. Il re non se ne accorgerà.»

«Non è necessario che tu rischi con noi» disse Kirisin. «L'aiuto che ci hai dato è più che sufficiente.»

Culph rise. «Un po' tardi per decidere di non rischiare con voi, non vi pare? Quanto devo ancora andare avanti per poter partecipare?»

Scosse la testa. Il suo viso coperto di rughe si fece improvvisamente se-rio.

«Ho già preso la mia decisione» disse. «Avrei potuto denunciarvi al re. Avrei potuto tacere quello che so delle Pietre, tenerlo per me. Ma credo che parliate con cognizione di causa. Non sareste arrivati fin qui se vi foste soltanto immaginati di sentir parlare l'Ellcrys. Non voglio essere costretto, una volta che sarà troppo tardi, a pentirmi di non avervi aiutato.»

Erisha sorrise. «Grazie, Culph. Per avere corso questo rischio.» Lui la guardò negli occhi. «Non ringraziarmi troppo in fretta, ragazzi-

na.» Sollevò la mano e indicò, nel buio, la porta del sotterraneo. «Adesso, andate a dormire. Almeno per qualche ora. Non sarà un compito facile, se dormirete in piedi.»

Kirisin ed Erisha non protestarono. Si avviarono verso l'uscita, ansiosi di veder sorgere il nuovo giorno.

I due ragazzi erano fermi nel buio della notte, fuori della porta da cui Ki-

risin era entrato nel palazzo dei Belloruus qualche ora prima e sussurrava-no tra loro, nascosti dietro alcuni grossi cespugli.

«Ci è stato d'aiuto assai più di quanto avrei creduto» diceva Erisha. «Conosco Culph da quando sono nata e non l'ho mai visto aiutare nessuno. Anzi, è raro che parli a qualcuno.»

«Forse ha capito che si tratta di qualcosa d'importante» rispose Kirisin. Si guardò attorno inquieto. Quel posto non gli piaceva. C'era il rischio che qualcuno si avvicinasse e li udisse. «Ha detto di aver fatto la sua scelta. Forse è quella la differenza.»

«Be' corre un grave rischio con mio padre. Se lo scoprisse lo mandereb-be in esilio. Non ci penserebbe due volte.»

«Tuo padre non scoprirà niente se non saremo noi a dirglielo.» Erisha gli diede un'occhiataccia. «Mio padre scopre sempre un mucchio

di cose che la gente non vuole fargli sapere. Ha orecchi dappertutto. Dob-biamo fare attenzione, Kirisin, non possiamo parlarne a nessuno, neppure agli altri Prescelti, la cosa deve rimanere tra me e te.»

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«In ogni caso, non mi crederebbero. Non mi hanno creduto quando ho raccontato dell'Ellcrys.»

Per qualche momento rimasero in silenzio, tendendo l'orecchio ai rumori della notte, scrutando nel buio. Kirisin sentì giungere da qualche punto nelle vicinanze il lamento di un gufo. Ascoltò il mormorio di un ruscello tra le rocce.

«C'è qualcosa che mi disturba» disse. La ragazza lo guardò. «Cosa intendi dire?» «Voglio dire che qualcosa non mi suona giusto, nel modo di agire di tuo

padre. Nel modo in cui l'Ellcrys ci ha detto quello che dobbiamo fare. In quello che dobbiamo fare. Nella mancanza di qualunque documento sulle Pietre Blu e sul Loden.»

Scosse la testa per la frustrazione di non riuscire a esprimersi meglio. «Non ti sembra strana l'assenza di qualunque testimonianza scritta, data l'importanza delle Pietre Magiche?»

Per qualche istante lei lo fissò senza rispondere, poi disse: «Forse c'era una volta, ma col tempo si è persa».

«Mi sembra una coincidenza un po' troppo grossa.» Kirisin si passò la mano nei capelli e si stropicciò gli occhi. «Ma sono troppo stanco per ave-re le idee chiare, in questo momento.»

«Anch'io» rispose lei, stringendogli il braccio. Scese di nuovo il silenzio, poi Kirisin le disse: «Voglio fartelo sapere,

sono orgoglioso di te per quello che hai fatto. C'è voluto molto coraggio. Potevi limitarti a fare quel che ti ha ordinato tuo padre».

Lei scosse la testa e tenne gli occhi bassi. «Sapevo di fare la cosa sba-gliata, quando ho obbedito a mio padre. Sapevo che l'Ellcrys mi aveva chiesto aiuto e che l'avevo abbandonata. Avevo bisogno che qualcuno me lo ricordasse.» Alzò lo sguardo. «C'è voluto molto più coraggio da parte tua per opporti a me e poi andare da mio padre, mentre tutti ti dicevano di non farlo. Il coraggioso sei tu.»

«Io non avevo molto da perdere.» «Forse ti sbagli.» Kirisin sorrise. «Sono lieto di essere dalla tua parte. Sono lieto che sia-

mo ritornati amici.» «Ci siamo divertiti, vero? Tante volte.» Erisha rise. «Ricordi quando ci

siamo nascosti nel palazzo e abbiamo fatto credere a tutti che ci eravamo persi nelle foreste? Abbiamo passato un brutto momento, quando ci hanno scoperti, ma anche quella parte è stata divertente.» Scosse la testa, con no-

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stalgia. «A volte rimpiango di non essere rimasta per sempre a quella età.» Lui si strinse nelle spalle. «Be', forse in cuor tuo lo puoi fare. Forse pos-

siamo farlo tutt'e due. E dovremmo provarci veramente. Potrebbe aiutarci in quello che dobbiamo fare per l'Ellcrys.»

«No» rispose lei, con aria cupa. «Penso che dobbiamo crescere.» Piegò la testa verso di lui e lo baciò su una guancia. «Buona notte, cugino. Ci ve-diamo tra qualche ora.» Scomparve all'interno dell'edificio.

Kirisin rimase fermo ancora per qualche momento, pensando a come le cose cambiano in fretta, alle volte. Poi scivolò a sua volta nell'ombra della notte e fece ritorno a casa.

7

Con le grida rabbiose del demone che le echeggiavano ancora nelle o-

recchie e la raggelante certezza che l'avversario era sulle sue tracce e a-vrebbe ripreso fin troppo presto l'inseguimento, Angela Perez continuò a lanciare nella notte la Mercury 5 in direzione nord.

Guidava a una velocità spericolata, spingendo al massimo l'ATV a batte-rie solari, senza curarsi del pericolo di uscire di strada o di andare a sbatte-re contro i rottami delle auto abbandonate o le macerie sparse sull'asfalto. Il suo unico scopo era mettere la maggiore distanza possibile tra lei e il nemico.

Un solo pensiero le faceva ritornello nella mente, assillandola con la sua terribile insistenza: "Quel demone è troppo forte per te".

Non le era mai capitato di pensare una cosa simile in precedenza, ma ci pensava adesso. Sapeva con una certezza paralizzante che se si fossero in-contrati di nuovo e lei fosse stata costretta ad accettare lo scontro, sarebbe rimasta uccisa.

Non riusciva a immaginare che genere di mostruosa trasformazione a-vesse subito il demone per assumere l'aspetto di una bestia invece di quello di una donna ma era consapevole che era più forte e pericoloso di lei e che non sarebbe stata in grado di sconfiggerlo.

«Angela, rallenta!» la supplicò Ailie, seduta sul sedile posteriore della Mercury e aggrappata a lei con tanta forza da piantarle le unghie nelle spalle. I graffi e le unghiate subite nella lotta con il demone pulsavano e bruciavano sotto la stretta del Tatterdemalion e Angela era ancora doloran-te per i colpi ricevuti. Ma neppure il dolore riusciva a penetrare la cortina di paura che la avvolgeva come una nebbia rossa.

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«Angela!» Questa volta sentì il grido del Tatterdemalion e si accorse di aver perso il

controllo, di rischiare una collisione, di correre verso la sua distruzione. Rallentò la velocità, lottando nello stesso tempo contro la macchina e le proprie emozioni, cercando di riprendere il controllo di se stessa.

"Que posa, Angelita?" si chiese. "Non ti è mai successo niente di simi-le."

La voce secca e irritata di Johnny le saettò nella mente. Un monito che non poteva ignorare. Strinse i denti, serrò ancor di più le mani sul manu-brio e fece appello a quella ferrea forza di volontà che l'aveva accompa-gnata in mezzo a tante terribili battaglie.

"Non essere così codarda!" Questa volta era la sua stessa voce, la sua sferzante ammonizione che si

univa a quella di Johnny. Si era lasciata andare. Si era lasciata travolgere dal panico a causa di semplici possibilità e non di valide ragioni. Era un ti-po di debolezza che riusciva a sopportare a fatica negli altri e niente affatto in se stessa.

Diresse la Mercury verso il ciglio della strada e la parcheggiò senza spe-gnere il motore. Poi respirò a fondo più volte per calmarsi, accorgendosi di quanto le battesse il cuore nel petto. Dietro di lei, sentì che Ailie tornava a sedere e che la stretta sulle sue spalle si allentava. Il dolore delle ferite tor-nò a colpirla come un'ondata improvvisa che la scosse con una violenza ta-le da farla sussultare.

«Mi dispiace» disse ad Ailie, senza guardarla. Spense il motore e, adesso che era sceso il silenzio, rimase seduta sul

sellino a riempirsi i polmoni dell'aria della notte, e sentì che pian piano l'intenso calore del suo corpo si abbassava e il turbine delle sue emozioni si dissolveva. L'autostrada alla sua sinistra era un nastro nero che si allun-gava a perdita d'occhio da nord a sud, completamente vuoto, anche dei re-litti che s'incontravano dappertutto. Ai due lati, la strada era chiusa da montagne e, alla scarsa luce che giungeva dalle stelle e da una falce di lu-na, la loro cima era un rilievo brullo sullo sfondo del cielo.

«Avevi ragione a essere spaventata» disse Ailie, in tono pacato. Angela serrò le labbra e mosse i muscoli delle spalle perché si rilassasse-

ro. «Avevo motivo di spaventarmi» rispose «ma non di farmi prendere dal

panico. Il panico porta alla distruzione e non sono così pazza da buttarmi per quella strada.» Il suo respiro accelerò. «Quel demone è riuscito a farmi

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perdere il controllo poco fa, ma non ci riuscirà una seconda volta. Te lo prometto.»

«Ti credo» rispose Ailie. Il Tatterdemalion smontò di sella e si portò davanti al veicolo per poterla

vedere in faccia. La creatura di Faerie era un ricciolo di velo bianco e di pelle candida che irradiava una lucentezza spettrale. I suoi occhi luminosi fissarono Angela.

«Io sono sempre spaventata» le disse. Lei la fissò. «Perché? Di cosa hai paura?» Lo sguardo del Tatterdemalion non si abbassò. «Di tutto.» Batté gli oc-

chi scuri. «Io ho paura di tutto, Angela. È una condizione dovuta al mio ti-po di esistenza. Vivo solo per breve tempo e so che le altre creature vivono molto più a lungo. Se non pensassi e non avessi termini di paragone, se magari fossi un insetto, la cosa non avrebbe importanza.

«Ma io penso e sono cosciente, e quindi riesco a capire quanto è prezio-so il mio tempo. Aggiungi il fatto di essere in continuo pericolo per quello che sono e per chi servo. I demoni odiano le creature come me. Perciò ho paura anche quando non voglio averne e anche quando non ce n'è ragio-ne.»

«Mi sembra una condizione sgradevole.» Angela si strinse nelle braccia. I Tatterdemalion avevano un'esistenza effimera, che in media non superava una trentina di giorni. Comparivano e svanivano in un battito di ciglia.

«A nessuno piace essere spaventato» commentò. «Neanche se si tratta di situazioni occasionali. Tanto meno costanti.»

Ailie annuì. «Ho imparato a convivere con la paura. Ho imparato a non vergognarmi e a non essere in collera con me stessa, ho imparato che alcu-ne cose sono semplicemente una caratteristica della nostra vita e che non ci si può fare nulla.»

Angela sporse le labbra. «Intendi dire che dovrei comportarmi come te, che non devo vergognarmi della mia paura, e neppure essere in collera? Che devo accettarla?»

Sulla faccia cupa di Ailie comparve un piccolo sorriso accattivante. «Almeno potresti pensarci.»

Angela le sorrise a sua volta. «Certamente, potrei, mia piccola coscien-za.»

Ailie tornò sedere dietro Angela. «Penso che faremmo meglio ad andar-cene. Gli elfi hanno bisogno di noi.»

Angela annuì. «Gli elfi.» Si passò una mano nei folti capelli neri. «Io

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stento ancora ad abituarmi all'idea. Ma suppongo che farei bene ad accet-tarla.»

Avviò di nuovo il motore e riportò la Mercury sulla strada in direzione nord. Il ronzio del motore sembrava un ruggito nel silenzio della notte e la carrozzeria, alla luce della luna, era un sottile e agile fuso d'argento.

Strette tra loro sul sedile imbottito, il Cavaliere del Verbo e il Tatterde-malion continuarono a dirigersi a nord verso il loro futuro.

Nel buio dietro di loro, ancora a molte miglia di distanza e senza inter-

rompere l'inseguimento, il demone, nel suo nuovo aspetto, correva a lunghi balzi nel centro della strada, come una macchina instancabile. La parte di lei che era stata Delloreen era stata spazzata via quasi del tutto dalla muta-zione fisica.

Un tempo aveva sembianze umane, ma adesso era completamente ani-male. La pelle si era trasformata in scaglie. Le dita delle mani e dei piedi erano munite di artigli. I capelli erano quasi del tutto spariti, ne rimaneva solo qualche ciuffo sulle orecchie appuntite. I lineamenti erano quelli di una bestia feroce, di un lupo. Non camminava più eretta, ma correva sulle quattro zampe e si era allungata, passando, dai suoi due metri iniziali, a più di tre. Aveva muscoli poderosi ed era spaventosa a vedersi.

Era divenuta qualcosa di completamente diverso e gioiva della trasfor-mazione. Non aveva mai prestato attenzione al proprio aspetto, non aveva mai badato all'apparenza o a come la vedevano coloro che incontrava. Sa-peva cos'era: un demone. Poter diventare più grossa, più forte e più feroce era la sola cosa importante. Divenire la più pericolosa delle creature del Vuoto il suo unico scopo.

Non si era dimenticata di Findo Gask, non l'aveva scordato del tutto, ma il vecchio non aveva più importanza per lei. Anche la sua insolenza e i ten-tativi di piegarla al suo volere non avevano più importanza. Il vecchio era il passato, non più di un vago ricordo che le parlava di frustrazione e di scontento. Una distrazione momentanea ormai quasi svanita dalla sua me-moria. Intenzioni e propositi si erano ridotti a un'unica preoccupazione: trovare e uccidere il Cavaliere del Verbo che per ben due volte le era sfug-gito. Non faceva progetti al di là di quello, dare la caccia al Cavaliere e di-struggerlo: solo questo contava. Poi avrebbe deciso cos'altro aveva impor-tanza per lei. Per il momento pensava solo all'inseguimento e alla soddi-sfazione che l'attendeva alla conclusione della caccia.

Mentre correva, la lingua, lunga e rossa, le penzolava fuori delle zanne.

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Il tonfo delle grosse zampe e il suono graffiante degli artigli affilati sull'a-sfalto scandivano il ritmo regolare della sua andatura. Persa nel movimen-to della sua forma nuova, di perfetta macchina di morte, nel flusso di adre-nalina generato dall'eccitazione della caccia, ansimava senza nascondere l'ansia e sognava di assaporare il sangue fresco del Cavaliere.

Angela e Ailie impiegarono il resto della notte e gran parte del mattino

per avanzare a nord lungo l'autostrada e poi a est nelle strade laterali che le avrebbero portate nel Cintra.

Per Angela erano tutti luoghi sconosciuti. Non si era mai spinta oltre la California meridionale. Ma Ailie, che in teoria ne avrebbe dovuto sapere ancora meno, pareva conoscere esattamente la loro destinazione. Angela vide alcune insegne, rivolte a viaggiatori ormai morti e defunti di un mon-do morto e defunto da altrettanto tempo, in cui si annunciava che erano en-trati nella Willamette National Forest.

Quando Angela chiese informazioni, Ailie rispose che non sapeva come gli umani chiamassero la loro destinazione. Conosceva solo il nome in el-fico. Aggiunse che, comunque, sentiva già la presenza degli elfi.

Angela si era alquanto ripresa. La paura era scomparsa e le era tornata la consueta forza di volontà. Il buio della notte e l'assalto degli oscuri terrori erano svaniti al levar del sole e con l'inizio del nuovo giorno. Non aveva ancora vinto completamente i timori, ma era riuscita metterli sotto control-lo, e se fossero riemersi sarebbe stata pronta ad affrontarli.

All'inizio, la foresta che stavano attraversando assomigliava a tutte quel-le che avevano incontrato durante il viaggio verso il Nord, con ampie zone malate o avvizzite, e piante dalle foglie grigie e la corteccia piena di mac-chie di parassiti e di muffa. Molti alberi erano già morti, e la loro forma scheletrica faceva pensare alle ossa accatastate di qualche gigantesco ani-male congelato nel tempo. Ma quando salirono sulle montagne e oltrepas-sarono i valichi, divenne evidente un cambiamento simile a quello che a-vevano già iniziato a scorgere il giorno prima.

Mentre nel Sud gli alberi erano radi e pressoché inesistenti, lì crescevano fitti e l'uno accanto all'altro. E mentre giù nel Sud le foglie e la corteccia erano malate, lì al Nord avevano un aspetto pulito e salubre. Il colore, che nelle altre foreste era sbiadito, lì era un bel verde profondo e vibrante. An-gela si guardò alle spalle per dare un'occhiata ad Ailie, ma il Tatterdema-lion si limitò a rivolgerle un sorriso enigmatico e a stringerle il braccio in modo rassicurante.

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Poco più tardi, Ailie le disse di lasciare la strada principale e di imbocca-re un sentiero sterrato che era poco più di una pista di animali. Lo percor-sero per alcune miglia, attraversando boschi di vecchi alberi così grossi che Angela si sentiva rimpicciolire dalla loro presenza. Di fianco alla pista, i ruscelli scorrevano dentro canali artificiali e l'acqua ne usciva con un suono cristallino prima di allontanarsi nel bosco. Una volta videro una ca-scata in lontananza. Un'altra volta scorsero un daino.

Alla fine, Ailie le disse di fermarsi. Angela lasciò il sentiero, si diresse in mezzo agli alberi e nascose il veicolo. Smontarono e osservarono la fo-resta, fresca e avvolta nella penombra. Angela sentiva scorrere un ruscello nelle vicinanze. Sentiva cantare gli uccelli. L'aria che respirava era fresca e pulita. Non poteva fare a meno di chiedersi se non fossero finite in un mondo completamente diverso.

«Cos'è capitato qui?» chiese a bassa voce. «Sembra che i veleni non ab-biano mai toccato questo luogo.»

«Ci pensano gli elfi» rispose la sua compagna. «Sono loro a mantenere pulita e vitale la foresta grazie alla loro abilità ed esperienza.»

«Ed è questa la nostra destinazione?» «Qui troveremo gli elfi.» «In che modo?» «A piedi.» Abbandonarono la Mercury dove l'avevano parcheggiata, lasciarono il

sentiero e s'incamminarono. Quasi immediatamente svanì ogni traccia dei luoghi che si erano lasciate alle spalle, si trovarono nel folto della foresta, in mezzo a macchie di ombra e di luce, e si fecero strada in mezzo ai ce-spugli e alle alte pianticelle che crescevano ai piedi dei tronchi.

Angela aveva l'impressione che nessuno fosse passato di lì da decenni. Il terreno non mostrava tracce di passi, non c'era indicazione della presenza di uomini o animali.

Ailie si portò davanti, per scegliere la strada in mezzo agli alberi, e seguì un sentiero che Angela non riusciva a vedere. Il Tatterdemalion pareva vo-lare attraverso l'erba e i cespugli, a malapena muoveva le foglie. Angela, invece si sentiva trattenere e graffiare a ogni passo e continuava a incespi-care. Inoltre le ferite del suo scontro con il demone continuavano a pulsare dolorosamente sotto i resti del suo vestito, stracciato dal mostro. A dire il vero, riusciva a malapena a tenere l'andatura del Tatterdemalion.

In ogni caso, mantennero un buon passo, e il tempo scivolò via, all'inter-no della foresta vasta e immutabile. Angela sapeva che se in quel momento

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fosse rimasta sola, non sarebbe mai riuscita a tornare alla stradina dove a-veva lasciato la Mercury, e probabilmente a uscire dalla foresta. Provava un leggero senso di claustrofobia. Gli alberi diventavano sempre più fitti, le ombre più profonde e la luce del sole si riduceva a un pallido riflesso.

Angela, che per tutta la sua giovane vita era sempre stata un animale cit-tadino, giudicava la foresta un luogo da brividi. Sembrava un edificio di un quartiere sovraffollato, pieno di nascondigli da cui poteva schizzare fuori, da un momento all'altro, qualche malintenzionato.

Proseguirono, inoltrandosi sempre più in profondità nei boschi, e Angela non riusciva più capire in che direzione si muovevano. Impossibile scorge-re il sole, tanto meno qualche altro punto che potesse servire per orientarsi. Le montagne erano del tutto scomparse.

Il solo conforto che Angela poteva trovare era la sicurezza con cui Ailie andava avanti, segno che almeno lei sapeva il fatto suo. Angela la seguiva obbediente e senza fare domande ovvie, lottando contro l'insidiosa sensa-zione di soffocare.

Il sole era ormai sceso al di là delle montagne e la foresta era ancora più buia, le ombre più dense, l'aria più gelida. Quando raggiunsero una radura, Ailie rallentò, si guardò attorno come se fiutasse l'aria alla ricerca di qual-che scia e infine si fermò.

«Li aspetteremo qui» la informò. Angela si guardò attorno, poco convinta. Da quello che poteva vedere,

attorno a loro non c'erano altro che alberi. La foresta pareva esattamente uguale in tutte le direzioni e il luogo scelto da Ailie era assolutamente i-dentico a ogni altro.

«Gli elfi?» chiese, per assicurarsi di avere capito. Ailie annuì. Aveva l'espressione calma, il respiro regolare. Il cammino

non dava l'impressione di averla affaticata. Angela scosse la testa. «Come possono sapere che siamo qui?» «Ci troveranno. Siamo sul loro sentiero. Sono già in arrivo.» Sedette per terra ed era così minuta e leggera, in mezzo all'erba alta, che

ad Angela parve una bambina piccola, nascosta dietro una tenda di sottili filamenti.

Il Cavaliere raggiunse i resti di un tronco caduto, cercò un tratto liscio e libero e si sedette a riposare. Aveva sete e avrebbe voluto bere, ma non vo-leva andare a cercare un ruscello da sola né disturbare l'attesa di Ailie. Diede un'occhiata ai propri vestiti e storse il naso. Sembrava uno straccio-ne di Los Angeles e probabilmente puzzava come uno di loro. Appoggiò a

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una spalla il bastone del suo ordine e con un pezzo di tela strappato dalla camicia cercò di ripulirsi della polvere.

Il tempo passò. Lentamente. Nella foresta continuava a regnare il silenzio. Gli unici suoni erano il

canto degli uccelli e il brusio del vento in mezzo ai rami degli alberi, co-perti di foglie. Gli elfi non si vedevano.

Angela si chiedeva quanto dovessero ancora aspettare prima di essere scoperti. Non era in grado di capire se la certezza di Ailie che presto sa-rebbe accaduto fosse giustificata. La foresta di Willamette era enorme. Le possibilità che qualcuno si imbattesse in loro le parevano molto remote.

Ma non intendeva fare domande. Che il Tatterdemalion avesse ragione o si fosse sbagliato, lei non poteva fare null'altro che aspettare. Era Ailie a sapere dove si trovavano gli elfi. Angela era solo la sua compagna di viag-gio.

Un viaggio a piedi, ricordò, e all'improvviso pensò a quanto sarebbe sta-to bello togliersi gli stivali e dare un po' di sollievo ai piedi doloranti.

«Gli elfi sono qui» le disse Ailie, a bassa voce. Non alzò la testa e non cambiò espressione. «Non fare niente, Angela. Aspetta che si mostrino.»

Angela non aveva alcuna intenzione di prendere iniziative. Aveva fatto un lungo viaggio, superando parecchie traversie, per vedere quelle creature ed era ansiosa di incontrarle. Rimase tranquilla a sedere, ascoltando i fru-scii della foresta, continuando a guardare davanti a sé senza fissare niente in particolare, aspettando che qualche movimento rivelasse la presenza de-gli elfi.

Ma non si accorse di nulla, quando tutt'a un tratto un elfo fece la sua comparsa; una ragazza non più vecchia di lei, del tutto diversa da come se li era immaginati. La ragazza era alta e aveva l'aria robusta, non certo fra-gile e minuta come il Tatterdemalion o come lei si era aspettata.

Fino a un attimo prima la foresta era immobile. L'istante successivo la donna era di fronte a lei, appena spostata di lato. I suoi lineamenti erano strani, ma non molto diversi da quelli degli uomini. Aveva la faccia sottile, le sopracciglia inclinate verso le tempie, le orecchie leggermente appuntite e la pelle chiara. I lunghi capelli biondi erano raccolti da un fazzoletto e indossava abiti larghi, di colore verde e marrone come gli alberi.

Portava un arco a tracolla e una faretra piena di frecce sulla schiena, e al-la cintura aveva due coltelli. Impugnava un giavellotto dall'aria insolita, corto e sottile, con un'impugnatura centrale fatta di corda e con punte di metallo, affilate come rasoi, a ciascuna delle estremità.

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Gli occhi azzurri dell'elfo passarono da Angela ad Ailie e poi di nuovo ad Angela.

«Un Cavaliere del Verbo e un Tatterdemalion» commentò, con un legge-ro sorriso. «Ditemi i vostri nomi.»

«Angela Perez» rispose lei, che stentava ancora a capacitarsi del fatto che gli elfi non erano come se li immaginava. «E lei è Ailie.»

L'elfo si avvicinò di alcuni passi. «Tu sei il primo del tuo ordine a venire qui, e penso che non l'avresti fatto senza una buona ragione. Noi non rive-liamo mai la nostra presenza agli uomini; non dovreste neppure sapere che esistiamo. Deve averti parlato di noi il Tatterdemalion.»

Angela annuì. «Proprio così. A tutta prima non ho creduto ad Ailie, ma riesce a essere molto convincente.»

«Avevo sentito dire che al mondo rimanevano ancora dei Tatterdema-lion. Gli anziani mi hanno descritto il loro aspetto. Ma finora non ne avevo mai visti.» Osservò con curiosità Ailie, per un momento, poi tornò a rivol-gersi alla donna «Tu invece porti il bastone nero del tuo ordine. Per chiun-que abbia sentito parlare dei Cavalieri del Verbo è inconfondibile. Io sono Simralin Belloruus. Come mi avete trovata?»

«Non siamo stati noi a trovarti. Sei tu che hai trovato noi» rispose Ange-la.

«Ma mi avete chiamata. Mi avete chiamata per nome. Vi ho sentito.» «Sono stata io» intervenne Ailie, che riuscì ad avere un'aria impacciata

senza bisogno di cambiare espressione. «Ti ho chiamata io.» Angela la fissò con stupore. «Non ti ho sentito chiamare nessuno.» Ailie scosse la testa. «Soltanto Simralin era in grado di sentirmi. E forse

gli elfi che viaggiano con lei.» Simralin alzò una mano per tranquillizzare Angela, che si guardava at-

torno allarmata. «Tutto a posto. Avevano l'ordine di rimanere nascosti fin-ché non ero sicura di voi. All'inizio non sapevo chi eravate.»

Cambiò posizione, senza staccare gli occhi da Angela. «Ma adesso che lo so» riprese «ditemi cosa siete venute a fare.»

Ailie si alzò. Una minuscola figura apparentemente priva di importanza, sullo sfondo degli immensi alberi della foresta.

«Ci ha mandati il Verbo» spiegò. «Il Verbo?» La ragazza elfo pronunciò la parola a bassa voce, come se il

suono stesso fosse sacro. «E perché il Verbo ci invia uno dei suoi Cavalieri e un Tatterdemalion?»

Ailie rivolse un'occhiata ad Angela e attese. Cedeva il posto a lei, lascia-

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va alla donna il compito di spiegare cosa le avesse condotte fin lì. Era qualcosa che riguardava non soltanto il loro rapporto, ma anche il rapporto che dovevano instaurare con gli elfi. Richiedeva che il Cavaliere del Verbo prendesse il comando.

«Siamo stati inviati per aiutare gli elfi a trovare un talismano perduto» spiegò Angela. «Una Pietra Magica chiamata Loden. Dovete usarla per trasferire l'Ellcrys dal Cintra a un altro luogo più sicuro. Il Verbo ritiene che corriate il pericolo di essere distrutti, rimanendo dove vi trovate. Il mondo esterno sta cambiando. Le cose stanno andando sempre peggio. Ma voi, allontanandovi, avete la possibilità di sopravvivere e io ho ricevuto l'ordine di aiutarvi.»

Simralin la fissò come se fosse scesa da un altro pianeta. Angela le resti-tuì lo sguardo senza abbassare gli occhi e attese la sua risposta. Cercò di non fissare le orecchie appuntite della ragazza e le sue sopracciglia inclina-te, la curva delle ossa del suo viso. Non aveva ancora accettato del tutto l'idea che ci fossero davvero gli elfi nel mondo.

«Ci devi portare ad Arborlon per parlare con il vostro re e con l'Alto Consiglio degli Elfi» aggiunse tranquillamente Ailie.

La ragazza la guardò. «Devo?» e s'interruppe per lanciare un fischio acu-to in direzione degli alberi che le circondavano.

Dalla foresta uscì una manciata di figure agili e con lineamenti simili a quelli di Simralin. Un paio biondi come lei, altri con i capelli più scuri.

Erano quattro, tre giovani uomini e un'altra ragazza. La ragazza era ma-gra e di bassa statura, i giovani di corporature diverse. Tutti erano vestiti come Simralin e portavano armi uguali alle sue.

«Ruslan, Que'rue, Tragen e Praxia» li presentò Simralin, indicandoli a uno a uno per finire con l'altra ragazza. «Siamo Cacciatori degli Elfi, cer-catori di piste assegnati alla Guardia Reale. Torniamo a casa dopo una missione di perlustrazione, a largo raggio, degli insediamenti umani a nord e a est. Manchiamo da cinque settimane, e mi perdonerete se mi chiedo come abbiate fatto a chiamarmi proprio ora, visto che siamo assenti da più di un mese.»

Ailie le rivolse un sorriso infantile e disse con modestia: «Mi sono limi-tata a chiamarti. Sono guidata da qualcosa di più che dai miei istinti».

Simralin scosse la testa. «Così sembra.» Guardò gli altri elfi. «Avete udito le parole del Cavaliere del Verbo sulle ragioni che la portano qui? E su una Pietra Magica che si chiama Loden?»

Gli elfi annuirono, anche se con qualche dubbio. Praxia commentò: «Il

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Verbo manda un umano ad aiutare gli Elfi?». «Un Cavaliere del Verbo» la corresse Tragen. Era alto e largo di spalle.

Aveva la faccia scura e l'espressione cupa. «Ha un bastone di potere, con le rune intagliate alla vecchia maniera di Faerie.»

«Può darsi.» Praxia non sembrava convinta. «Come facciamo a sapere se dice la verità? Dobbiamo accettare la sua parola? Dobbiamo lasciar entrare un umano nella nostra città unicamente in base ai suoi discorsi? Buttar via secoli di segretezza per un capriccio? La cosa non mi piace.» Guardò An-gela. «Perché non possiamo essere noi stessi a riferire al re il messaggio?»

«Il vostro re deve sentire le parole direttamente da me» rispose Angela, cercando di rimanere calma e di non lasciarsi trascinare in una discussione in cui avrebbe avuto la peggio.

«Ci saranno domande alle quali solo io e Ailie possiamo rispondere» aggiunse.

«Dovete lasciarla parlare al re e all'Alto Consiglio» ripeté Ailie. «Lo ri-chiede il Verbo.»

Gli elfi si scambiarono un'occhiata. «Sembrano molto sicure di quello che dicono» riprese Simralin. «E forse hanno le loro buone ragioni. Una creatura di Faerie che viaggia con un Cavaliere del Verbo... come potreb-bero averci trovato senza una guida divina? Sapeva come chiamarci in un momento in cui nessuno era al corrente della nostra presenza. Conosce le Pietre Magiche e Arborlon, il re e l'Alto Consiglio. Non sono informazioni di cui, in genere, diamo pubblicità.»

«Sa più di quello che dovrebbe sapere» ribatté Praxia, guardando con sospetto Angela. Scosse vigorosamente la testa e si voltò verso Simralin. «Penso che non dobbiamo correre rischi. Il pericolo è troppo grande. Dob-biamo prima chiedere al re se vuole incontrarle.»

Lanciò un'occhiata agli altri elfi, Ruslan e Que'rue, che fino a quel mo-mento non avevano parlato. Non dissero nulla nemmeno ora e si limitaro-no a scambiarsi un'occhiata e poi a guardare Simralin.

«Non so» disse Tragen. Era perplesso, come se il suggerimento di Praxia gli sembrasse sbagliato.

Fu Simralin ad esprimere a parole la sua perplessità. «Ailie è un mes-saggero del Verbo. Non le si può nascondere nulla. Come ha trovato noi, così, altrettanto facilmente, può trovare Arborlon, che noi lo si voglia o no.»

«Non sappiamo se è vero» si ostinò Praxia. «Forse possiamo saperlo» rispose Simralin. Rivolse un cenno al Tatter-

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demalion. «È così, Ailie?» «Mi è parso meglio entrare in città con una scorta» rispose la creatura

magica. Il suo viso infantile era aperto e franco. «Non vogliamo sembrare degli intrusi. Siamo qui in amicizia, per aiutare gli Elfi, non per causare guai.»

Ci fu qualche istante di silenzio, mentre gli elfi cercavano di valutare se le due sconosciute costituissero una minaccia. Era impossibile leggere qualcosa sulla faccia di Que'rue e di Ruslan. Tragen aveva un'espressione cupa, anche se pareva favorevole ad Angela, e Praxia non parlava, ma la sua aria incollerita lasciava trasparire il disappunto.

Solo Simralin, forse perché guidava il gruppo, pareva disposta a pronun-ciarsi.

«Nessun umano è mai entrato nella città di Arborlon in tutta la storia co-nosciuta. Se vi condurremo adesso infrangeremo tutte le regole che gli Elfi hanno accuratamente seguito finora. E non so come sarete accolte.»

Angela scosse la testa. «La ragione che ci ha spinte a venire rende tra-scurabile ogni preoccupazione sull'accoglienza che possiamo aspettarci. Ma se la cosa vi preoccupa tanto, mandate qualcuno a precedervi, o andate tutti e lasciateci sole. Noi troveremo la strada per Arborlon e il re.»

«Non sarebbe una prova di coraggio da parte nostra» disse Simralin. «Sarebbe una sciocchezza, e una seconda sciocchezza accettare la vostra proposta. Non possiamo tenervi fuori da Arborlon, ed è inutile fingere di esserne capaci. La cosa migliore che possiamo fare per tutti gli interessati è assicurarci che arriviate dove volete arrivare e diciate quello che dovete di-re.»

Guardò gli altri elfi, poi tornò a rivolgersi ad Angela e Ailie. «Forse c'è un modo per salvare la faccia a tutti. Siete disposte a fare una piccola con-cessione al protocollo?» Prese un fazzoletto dall'anello che portava alla cintura. «Vi copro gli occhi. Lo ritengo inutile, ma l'infrazione alle regole sembrerà meno grave se potremo dire di aver usato delle precauzioni.»

S'interruppe e sui suoi lineamenti decisi comparve un vago sorriso. «Al-lora, siete d'accordo?»

8

Kirisin si trascinò stanchissimo fino a casa mentre la luce del tramonto si

faceva sempre più debole e le ombre della sera formavano strati sempre più fitti attorno a lui. Percorse i sentieri tortuosi che giravano attorno alla

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città e portavano a casa sua perso nei suoi pensieri. L'oscurità della sera ri-specchiava la sua profonda delusione per avere sprecato inutilmente la giornata.

Prima di iniziare la ricerca era certo che avrebbero trovato qualcosa. Come d'accordo, aveva incontrato Erisha e il vecchio Culph all'entrata

del cimitero dell'Ashenell poco dopo mezzogiorno. Tutti erano eccitati e impazienti di dare inizio alla ricerca.

Ma l'Ashenell era lungo e largo, una foresta di lapidi e monumenti, di mausolei e cippi disadorni difficili da identificare. Il terreno stesso era ac-cidentato, collinoso e coperto di alberi, con i sepolcreti separati da burroni profondi e pareti scoscese che rendevano difficile determinarne la colloca-zione precisa. Cercare una tomba specifica senza alcun punto di riferimen-to sembrava impossibile.

In ogni caso, erano partiti con ottimismo quando avevano esaminato i sepolcreti più antichi, quelli dove era più probabile che fossero sepolti i membri della famiglia Cruer. Presto avevano individuato segnali facilmen-te riconoscibili, decine di tombe, e anche di semplici lapidi posate sul ter-reno, che riportavano il nome e le date di nascita e morte dei membri della casata. Stranamente, per una famiglia che aveva goduto di tanto prestigio e potere, non c'erano mausolei o tombe in cui si potesse entrare. Avevano fi-nito di esaminarle in poco più di un'ora e non avevano trovato nulla.

«A volte queste famiglie consegnavano alla terra i loro morti senza la-sciare alcun genere di indicazione» aveva osservato Culph. «Altre volte sceglievano di essere sepolti lontano dalla famiglia, non c'è modo di de-terminarlo. Dobbiamo insistere finché non avremo trovato quello che cer-chiamo.»

Così avevano continuato per il resto del pomeriggio, ispezionando il ci-mitero da un'estremità all'altra, esaminando ogni sepolcreto, entrando in tutte le tombe comuni e nei mausolei, e ripulendo della terra ogni pietra che poteva essere una lapide dei Cruer ricoperta dall'opera del tempo e del-la natura. Era un lavoro duro e faticoso e, quando era divenuto troppo buio per vedere chiaramente, tutt'e tre erano coperti di polvere e di sporcizia, accaldati e sudati, doloranti per lo sforzo.

«Per oggi dobbiamo smettere» aveva annunciato Culph, raddrizzando con una smorfia la schiena indolenzita. «Abbiamo controllato tutto il ter-reno che potevamo coprire. Riprenderemo la ricerca dopodomani. Possia-mo vederci a mezzogiorno. Forse saremo più fortunati, ma non ci scom-metterei.»

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A quel punto non l'avrebbe scommesso neppure Kirisin. Non avevano ancora cercato dappertutto, vaste parti dell'Ashenell rimanevano ancora i-nesplorate, ma ormai la principale preoccupazione di Kirisin era che Pan-cea Rolt Cruer, regina degli Elfi e madre di re, poteva avere deciso di ri-tornare alla terra senza lasciare testimonianza della sua sepoltura, come i-potizzato da Culph. In tal caso non le avrebbero mai trovate: né lei né le Pietre Magiche smarrite.

Si spazzolò la polvere dalle gambe e dalla camicia e si chiese che aspetto avesse agli occhi di qualcuno che passasse di lì. Piuttosto malconcio, pen-sò. Come se si fosse rotolato nella polvere e nelle foglie. Come se si fosse perso nella foresta.

Be', si era perso, in un certo senso. Si era perso a tal punto che stentava a credere di poter essere ritrovato. L'Ellcrys avrebbe fatto meglio a scegliere qualcun altro, per affidargli la propria sopravvivenza. Lui era riuscito solo a girare a vuoto nel cimitero e a sprecare la sua unica occasione di compie-re qualcosa d'importante.

Infuriato, frustrato e angosciato al tempo stesso, diede un calcio a una zolla di terra. "Il tempo corre" si disse. "E tempo da sprecare non ne ho."

Continuò a brontolare sottovoce e a rimproverarsi perché era troppo stu-pido e inutile, ma nello stesso tempo era consapevole che questo non gli serviva a nulla perché in realtà non era vero. Uscì dagli alberi davanti alla sua casa e si fermò di colpo.

Qualcuno sedeva sugli scalini della veranda, con la schiena appoggiata a uno dei pali e le braccia alle ginocchia. In una mano teneva un bicchiere di birra.

Non era né suo padre né sua madre, che erano andati per qualche giorno a trovare i nonni, in una piccola comunità a sud. Era un'altra persona, che assomigliava a...

Batté gli occhi per la sorpresa. Simralin! Era proprio lei! Lei lo guardò e agitò la mano. «Ciao, Piccolo K!» lo salutò, usando il

nomignolo con cui lo chiamava sempre. «Sim!» gridò felice, e corse ad abbracciare la sorella, saltando sugli sca-

lini e stringendola forte. «Sei tornata a casa!» «Calma, calma! Mi stai stritolando!» Mentre lo diceva, Simralin rise e lo abbracciò a sua volta. Era forte e

muscolosa e, nonostante le sue proteste, Kirisin avrebbe dovuto usare mol-ta forza per causarle qualche danno con un semplice abbraccio.

Il giovane la idolatrava nel modo in cui fratelli minori idolatrano sempre

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le sorelle più grandi: non c'era nessuna come lei e non ci sarebbe mai stata. Simralin aveva sei anni e tutta una vita di esperienze più del fratello, ma soprattutto, Kirisin la vedeva esattamente all'opposto di se stesso: alta, in-telligente, bellissima. Era un cercatore di piste di eccezionale bravura, a-mata e rispettata da tutti, e rappresentava per molti quel genere di amicizia che speri sempre di trovare e mantenere.

«Ho sentito la tua mancanza» le disse. «Bene. Mi sarebbe dispiaciuto il contrario.» Poi guardò i vestiti del fratello. «Dove diamine ti sei cacciato? A rotolar-

ti per terra? Sembri una marmotta! E puzzi allo stesso modo.» Lo allontanò da sé e lo fece salire sugli scalini. «Tieni» gli disse, por-

gendogli il bicchiere di birra. «Bevi e raccontami cos'hai fatto.» A Kirisin non passò neppure per la mente di tenerla all'oscuro. Lei era

Simralin e le confidava sempre tutto, anche cose che non avrebbe mai det-to ai genitori. Cominciò con quello che gli aveva detto l'Ellcrys, quando gli aveva chiesto di aiutarla.

Poi riferì del suo tentativo di avere aiuto dal re, la scoperta che gli aveva mentito, lo scontro con Erisha e il modo in cui la ragazza aveva cambiato idea. Terminò con gli inutili sforzi di quel giorno per trovare la tomba del-la regina Pancea Rolt Cruer.

Spiegò come lui ed Erisha avessero pensato di cercare nelle Storie degli Elfi qualche riferimento alle Pietre Magiche e come il vecchio Culph li a-vesse scoperti e avesse minacciato di denunciarli per poi divenire loro alle-ato.

Aggiunse anche la sua preoccupazione per il comportamento del re e per la sua assurda decisione di sacrificare l'Ellcrys per salvare la figlia.

Quando ebbe terminato, Simralin lo fissò per un momento, come se do-vesse prendere una decisione.

Poi disse: «È una strana storia, Piccolo K. Sei sicuro di quello che hai detto? Non lo stai abbellendo per me, vero?».

«No, naturalmente! Non lo farei mai!» esclamò indignato e irritato. «Perché me lo chiedi?»

«Calma, calma» lo tranquillizzò la ragazza, toccandogli la spalla. «L'ho detto perché le cose sono molto più strane di quello che credi. Ascolta quello che è successo a me.»

Gli raccontò del suo incontro con il Cavaliere del Verbo, Angela Perez, e il Tatterdemalion Ailie. Spiegò minuziosamente com'era successo, lo strano modo in cui si era sentita chiamare da Ailie, lo stupore quando le

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avevano trovate ad attenderli e come le avessero rivelato la ragione che le aveva portate nel Cintra e presso gli Elfi.

Infine gli riferì le parole di Angela a proposito del Loden, delle Pietre Magiche e della fine del mondo.

«Lo sapevo!» esclamò Kirisin, trionfante. «Non si trattava solo di me e di Erisha! L'Ellcrys sapeva davvero di essere in pericolo e che gli Elfi sono minacciati in qualche modo e che bisogna prendere provvedimenti! Non era solo la mia immaginazione!»

«Ma il re non la pensa così» osservò Simralin. Kirisin scosse la testa. «Non so quello che pensa. E neppure Erisha. Però

è a conoscenza di qualcosa che noi ignoriamo, altrimenti non si comporte-rebbe così. Non vuole neppure prendere in considerazione la possibilità che Erisha faccia quello che l'Ellcrys le ha chiesto e sono parecchi giorni che evita di incontrarmi. Questo significa che ha mentito!»

«Può darsi. Ma forse è solo una tua impressione. Non puoi sapere i mo-tivi che lo portano a ignorare i tuoi avvertimenti.»

Simralin scosse la testa, poi riprese: «È vero che la nostra famiglia ha un po' preso le distanze da Arissen Belloruus, da quando ha litigato con i no-stri genitori, ma lo conosco quanto basta per non crederlo capace di far qualcosa che rischi di danneggiare il nostro popolo. È fedele agli Elfi. Gli ho visto dare prova della sua dedizione, e non una volta soltanto. Se si comporta così, ci dev'essere dell'altro».

«Può darsi» ammise Kirisin «ma non so cosa sia e neppure come sco-prirlo. Forse potrebbe riuscirci Erisha, ma finora non ha avuto molto suc-cesso. Dice che suo padre sembra diverso. Anche il vecchio Culph trova qualcosa di diverso in lui.»

Simralin era tornata a sedere, con le ginocchia contro il petto e l'espres-sione cupa. Adesso erano avvolti nelle tenebre. La notte era scesa in fretta e quel che rimaneva del giorno era una macchia grigia sull'orizzonte, al di sopra degli alberi della foresta.

«Beviamo un po' di birra» suggerì lei. Andò in casa e fece ritorno con i bicchieri. Continuarono a sedere insie-

me nell'oscurità, centellinando la bevanda scura color dell'ambra, senza parlare.

«Mi ricordo di Erisha quando era piccola» disse infine Simralin. Rivolse una smorfia al fratello. «Ti seguiva dappertutto, come un cagnolino. Dice-va che eri tanto intelligente.» Gli sorrise. «Ho sempre pensato che potesse venirne fuori qualcosa. Soprattutto quando siete stati scelti tutt'e due dal-

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l'Ellcrys.» Fu la volta di Kirisin di fare una smorfia. «Be', almeno ha ripreso a par-

lare con me. Per vario tempo non ha fatto neppure quello.» «E adesso sembra che faccia molto di più. Va contro suo padre. Rischio-

so, per una giovane principessa.» Kirisin pensò a quelle parole. Era davvero rischioso. Ma non gli pareva

di avere capito con esattezza la natura del pericolo. Qualcosa di più di una minaccia di punizione per avere disobbedito, forse.

«Mi piace ancora di più, perché ha accettato di correre il rischio» disse. «Non mi aspettavo niente di diverso.» Kirisin le rivolse un sorrisino perfido. «Ma soprattutto mi piace perché

adesso è sudicia e puzzolente come me.» «A questo proposito, dovresti darti una ripulita.» Sciolse il fazzoletto

che le legava la coda di cavallo e si passò una mano nei lunghi capelli biondi. «Forse converrebbe anche a me. I nostri ospiti sono stati convocati davanti all'Alto Consiglio per esporre le loro richieste, e mi è stato chiesto di essere presente. Io ne avrei fatto a meno, ma non ho avuto scelta.»

«Temi di essere nei guai per aver portato un essere umano ad Arborlon, anche se l'hai fatto con tutte le precauzioni e per giusti motivi?»

Lei si strinse nelle spalle. «Può essere. Di sicuro, Praxia era abbastanza adirata per l'accaduto e l'ha fatto sapere a tutti coloro che erano nelle vici-nanze. E ci sono altri che non approveranno. Ma è stata la scelta giusta.»

«Il re potrebbe vederla diversamente.» «Potrebbe. Ma la decisione è ormai presa.» Kirisin sorrise. Era il suo modo per dire che non c'era altro da fare, per

cui era inutile parlarne ancora. Gli piaceva quell'atteggiamento pratico di Simralin una volta visto come stavano le cose. Non era il tipo di persona che recriminava sul passato.

«Allora, è fatta» rispose. «È fatta.» Per qualche istante scese il silenzio, poi Kirisin disse: «Pensavo a una

cosa. Non ti sembra strano che il messaggero del Verbo abbia chiamato te e l'Ellcrys abbia chiamato me per affidarci essenzialmente lo stesso incari-co? Per avvisare gli Elfi del pericolo che corrono e spiegare come forse possono evitarlo? Tu e io, fratello e sorella, tra tutte le altre scelte possibi-li? Sembra una coincidenza un po' troppo grossa».

«Non grossa, Piccolo K.» Simralin terminò la birra e si stiracchiò come un grosso gatto. «Enorme.»

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Kirisin aggrottò la fronte. «Tu pensi che tutto sia stato preordinato, ve-ro? Che il Tatterdemalion avesse l'ordine di condurre il Cavaliere del Ver-bo esattamente da te, forse proprio perché siamo fratello e sorella?»

«Come dici tu, Ailie poteva chiamare chiunque, nell'intera nazione degli Elfi. Ma non ha chiamato una persona qualsiasi, ha chiamato me. Sembra qualcosa di voluto.»

Si fissarono in silenzio per qualche istante. Infine Kirisin chiese: «Posso venire con te questa notte? Forse la mia presenza potrebbe essere utile per riferire all'Alto Consiglio che quanto dicono il Cavaliere del Verbo e il Tatterdemalion corrisponde a quanto l'Ellcrys ha detto a me ed Erisha».

Simralin scosse la testa. «Vorranno sapere perché non hai parlato prima e se dirai loro che l'hai fatto e hai informato il re, rischierai di diventare un membro della famiglia reale dei Belloruus decisamente poco gradito.»

«Sarò in buona compagnia» ribatté Kirisin, rivolgendole un'occhiata che stillava veleno.

Lei rise. «È bello essere di nuovo a casa, Piccolo K. Sentivo la tua man-canza. Va' a fare un bagno e a cambiarti. Poi vedremo se riusciremo a sco-prire dove ci porta tutto questo.»

Un'ora più tardi erano diretti agli edifici, situati accanto al palazzo reale,

che ospitavano le sale di riunione dell'Alto Consiglio degli Elfi. Ornai era notte, il chiarore del giorno era del tutto scomparso e nel cielo si mescola-vano nubi sparse e puntini luminosi di luce stellare.

Camminarono per i sentieri bui che giravano attorno alla città, evitando le strade più trafficate. Erano già in ritardo e volevano arrivare a destina-zione senza essere fermati. Nessuno dei due parlava, tenevano per sé le proprie riflessioni, ma ciascuno conosceva i pensieri dell'altro.

Kirisin guardò la sorella, poi abbassò lo sguardo su di sé. Si erano lavati e avevano indossato abiti puliti: pantaloni larghi, camicia senza bottoni e stivali soffici amati dalla maggior parte degli elfi. Si erano resi presentabili anche se non richiamavano certamente l'attenzione per la loro eleganza. Ma destare l'attenzione del re e del Consiglio era forse impossibile. Tutti conoscevano perfettamente la loro identità. Non erano certo degli stranieri.

Tuttavia Kirisin si sentiva come se lo fosse, almeno un poco. Si aggiustò l'ampia cintura. Gli anelli a cui appendeva le armi erano vuo-

ti e inutilizzati. Nessuno dei due portava armi, neppure un coltello. Se a-vessero avuto bisogno di difendersi, quella notte, non avrebbero potuto far-lo.

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In ogni caso, Kirisin rimpiangeva di non avere con sé neppure una lama. Non riusciva a spiegarsi uno strano presentimento, un'inquietudine che

non si decideva a lasciarlo ma che era presente a dispetto di tutto. Si diede dello sciocco per quelle preoccupazioni e cercò di allontanarle.

Quando arrivò alla costruzione che ospitava la sala del Consiglio, trova-rono alcune Guardie Reali davanti all'ingresso, armate e attente. L'edificio era una struttura grande, circolare, di tronchi cementati l'un l'altro con una terra speciale che cingevano un anello di vecchi abeti. Il tetto era alto, a cupola, e il pavimento di assi rimaneva sollevato rispetto al terreno. Attra-verso due grandi porte doppie si accedeva a un corridoio circolare che cor-reva intorno alle sale, ubicate nella parte centrale.

All'esterno, l'edificio non era molto diverso dalla foresta che lo circon-dava, ma l'interno, dove erano situate le sale, era ben levigato, lavorato e lucidato, un rifugio tranquillo e illuminato in modo riposante.

Le Guardie Reali riconobbero subito Simralin e le fecero cenno di pro-seguire nel corridoio. Kirisin la seguì, come se dovesse reggerle lo strasci-co. Oltrepassata la porta s'imbatterono in Tragen. La faccia del massiccio elfo era ancora più cupa del solito. Guardò Simralin con irritazione.

«Ci saresti stata più utile se fossi arrivata prima» le disse. Kirisin guardò dietro di lui e vide due figure sedute su una panca appog-

giata contro la parete interna, quasi perse nell'ombra dello spazio che oc-cupavano, tra due delle torce senza fumo che illuminavano il corridoio.

Una sembrava una bambina di pochi anni, ed era una creatura così eterea da dare l'impressione di poter essere portata via dal primo soffio di vento. Aveva capelli lunghi e tanto neri da sembrare blu, occhi scuri come due polle d'acqua sotto la luce della mezzanotte, pelle bianca come il gesso. Indossava una veste che le fluttuava addosso come il muschio intorno al ramo di un albero e che era più simile a un'estensione del suo corpo che a un vestito.

Il Tatterdemalion rivolse a Kirisin un'occhiata interrogativa, ma subito la sua espressione cambiò, come se avesse riconosciuto il giovane Prescelto. "E questo" pensò lui "non ha alcun senso, perché non mi ha mai visto pri-ma."

La seconda era una donna, più vecchia e più robusta, con la pelle ab-bronzata, i capelli neri, gli occhi duri. Accorgendosi di essere osservata, ri-volse a Kirisin uno sguardo di sfida. Stringeva con entrambe le mani un bastone nero, lucido e intagliato da cima a fondo di simboli che Kirisin non conosceva.

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Il giovane la fissò a sua volta; lei distolse lo sguardo. La sua espressione non era collerica come gli era parso. Piuttosto, pareva molto stanca.

«Che è successo?» Simralin stava chiedendo a Tragen. L'elfo brontolò, irritato. «Praxia non ha ancora imparato a farsi gli affari

suoi. Ha cercato di strappare il bastone al Cavaliere del Verbo. Io le avevo detto di non farlo, ma lei ha insistito che era un'arma e che non doveva es-sere portata alla presenza del re. Non era compito suo, ma sai anche tu co-m'è fatta. Il Cavaliere l'ha sbattuta fino in fondo al corridoio, contro la pa-rete. Ha preso un brutto colpo e non si è ancora rialzata».

«Praxia non cambia mai» commentò Simralin, scuotendo la testa. «Que'rue e Ruslan l'hanno portata fuori. Io sono rimasto perché qualcu-

no deve rimanere, ma non mi sono avvicinato alle nostre due ospiti. Anche le Guardie Reali se ne stanno in disparte finché qualcuno non dirà loro co-sa fare. Hai qualche idea?»

Simralin annuì. «Hai agito bene. Non dar loro fastidio. Sono ospiti, non prigioniere. I Cavalieri del Verbo ritengono che il bastone nero sia il sim-bolo del loro incarico. Non lo lasciano toccare da nessuno, per nessun mo-tivo. Probabilmente i bastoni sono armi, ma non credo che un Cavaliere e un Tatterdemalion siano venuti qui per uccidere qualcuno. Se ne avessero avuto l'intenzione, non avrebbero perso tempo a chiamarci. Anche Praxia l'avrebbe capito se si fosse fermata a rifletterci sopra.»

«Be', allora avvertimi quando la scopri a riflettere, riguardo a qualunque cosa» mormorò Tragen. Solo in quel momento parve accorgersi della pre-senza di Kirisin. «Buona sera, Piccolo K.»

Il giovane arrossì. Non si era mai accorto che il nomignolo con cui lo chiamava Simralin fosse ormai di dominio pubblico. Nel sentirlo usare da una persona che non era sua sorella gli pareva di essere tornato bambino.

Simralin lo condusse fino al punto dove sedevano il Cavaliere del Verbo e il Tatterdemalion e si fermò davanti a loro.

«Chiedo scusa per quello che è successo» disse ad Angela. «Praxia non avrebbe dovuto farlo.»

Angela la guardò per un istante, poi annuì. «Ho reagito con troppa vio-lenza. Sono io che dovrei scusarmi.»

Kirisin fece un passo avanti. «Mio fratello Kirisin» lo presentò lei. «A quanto mi dice, sa qualcosa sulle ragioni che vi hanno portato qui, da noi Elfi.»

Simralin lo prese per un braccio e lo fece fermare davanti a sé. «Forse dovrebbe dirvelo.»

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Ma prima che il ragazzo potesse rivolgere le domande che lo assillava-no, le porte della sala interna si aprirono e ne uscì Maurin Ortish, il capita-no della Guardia Reale, che si diresse verso di loro.

«Simralin» la salutò. Era un elfo alto e snello, di mezza età. Sul suo vol-to i lineamenti tipici degli elfi erano molto pronunciati. La voce era dolce in modo inaspettato. «Devi entrare ora, per favore, e porta con te i tuoi o-spiti.»

Zoppicava a causa di un incidente di qualche anno prima, che gli aveva lasciato una gamba più corta dell'altra. Ma era pur sempre una presenza autorevole, un'influenza pacificatrice ovunque andasse, e una persona tal-mente devota al suo incarico che non si era mai parlato di sostituirla, nep-pure dopo che l'incidente aveva ostacolato i suoi movimenti.

Diede un'occhiata a Kirisin. «Cosa ti porta qui, giovane Belloruus? Non dovresti essere a letto per alzarti presto e occuparti dei tuoi doveri di Pre-scelto?»

«Speravo di poter parlare anch'io davanti al Consiglio» rispose Kirisin. «Sono a conoscenza di alcuni dei motivi che hanno portato qui gli estra-nei.»

«È vero» confermò Simralin. «La sua presenza ci sarebbe d'aiuto.» «Può darsi» ammise Ortish, rivolgendo un sorriso a Kirisin. «Ma l'Alto

Consiglio ha chiesto che siano presenti solo Simralin e le sue ospiti. È una decisione inappellabile.»

«Il Consiglio deve sapere che...» cominciò Kirisin. Il capitano della Guardia Reale alzò la mano per farlo tacere. «È stato lo

stesso re a dare l'ordine. Nessuno di noi ha il potere di opporsi alla richie-sta. Forse, quando che il Consiglio avrà saputo quello che devono dire le ospiti di Simralin, ti chiederanno di parlare dopo di lei.»

"Lo stesso re" pensò Kirisin e si accorse di essere arrossito. Il re si assi-curava che lui non interferisse, che non comunicasse ad altri tutto quello che sapeva. Kirisin lo capì d'istinto, ne fu assolutamente certo.

«Pazienta, Piccolo K» gli disse la sorella. Rivolse un cenno al Cavaliere del Verbo e al Tatterdemalion e tutt'e tre

seguirono Maurin Ortish nella sala del Consiglio. Quando le porte si chiusero dietro di loro, un paio di guardie si portò da-

vanti ai battenti. Kirisin non si mosse. Era divorato dalla frustrazione e pensava che tutto l'accaduto era profondamente ingiusto, sbagliato. Prova-va il desiderio di fare irruzione della sala e insistere per parlare. Ma così facendo avrebbe perso ogni possibilità di convincere i membri del Consi-

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glio della verità delle sue parole. Simralin aveva ragione. Doveva essere paziente.

Ma fino a quando? Se lo stava ancora chiedendo quando le porte che davano sull'esterno si

spalancarono e comparve Erisha. «Ecco dov'eri!» lo sgridò, con irritazione. Si avvicinò a lui, in fretta e

con il fiato grosso, la faccia arrossata. Doveva essere arrivata di corsa. «Che ci fai qui? Aspettavo che venissi a prendermi!» continuò la giova-

ne. Kirisin era stupito della sua collera, ma la affrontò senza battere ciglio. «Pensavo che forse Simralin poteva portare anche me, per farmi parlare

all'Alto Consiglio» rispose il giovane. «Non c'è riuscita. Tuo padre si è as-sicurato che io rimanessi fuori.»

«Avrei potuti dirtelo, se ti fossi preoccupato di mettermi a conoscenza dei tuoi piani! Gli ho chiesto la stessa cosa qualche ora fa, quando gli ho sentito dire a Maurin Ortish di escludere tutti, tranne tua sorella e le due che ha portato con sé in città. Mi ha detto di non occuparmi di cose che non mi riguardano. Mi ha cacciata via come una mocciosa!» Prese per un braccio Kirisin. «Pensavo che venissi a palazzo, non qui. Seguimi!»

Kirisin si lasciò trascinare alla porta. «Dove andiamo?» chiese. Lei gli rivolse un'occhiata. «Fuori.» Con gli occhi, gli indicò le guardie. Non voleva farsi sentire da estranei. Quando furono a una certa distanza dall'edificio, Erisha smise di tirarlo e

aspettò che la raggiungesse. L'aria della notte era dolce e fredda e profu-mava dei gelsomini che fiorivano attorno all'edificio del Consiglio.

«Non staremo tranquilli a sedere perché lo vuole mio padre, qualunque cosa lui pensi!» Strinse i pugni e guardò Kirisin. «Cosa succede? Perché Simralin ha portato in città un umano? Ha perso il cervello? Mio padre è furioso!»

«Non dare la colpa a Simralin» rispose Kirisin. «Sa quello che fa. Il Tat-terdemalion, Ailie, già sapeva dov'è la città, perciò la cosa non fa alcuna differenza. E l'umano, Angela Perez, è un Cavaliere del Verbo. Non puoi tenere lontano le creature della magia. Se Simralin non le avesse accompa-gnate come chiedevano, sarebbero venute da sole, e allora sì che sarebbe stato un guaio!»

Per qualche istante, Erisha non disse niente e si limitò a camminare. «Lo credo anch'io. Ma perché sono qui? Come ci può riguardare il loro arri-vo?»

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Kirisin si guardò attorno, in fretta. «Il Cavaliere dice che gli Elfi sono minacciati dai demoni. Dice che dobbiamo lasciare il Cintra e rifugiarci in un luogo più sicuro, e che dobbiamo servirci del Loden per farlo. Tutto quello che l'Ellcrys ha detto a noi due, lei lo ha ripetuto!»

Attese la risposta, ma Erisha non rispose subito. «Perché mio padre si oppone a questa proposta?» chiese alla fine. Lo disse a bassa voce, come se parlasse con se stessa. Si passò distrattamente la mano nei capelli scuri e guardò Kirisin con preoccupazione. «Non capisco.»

Kirisin scosse la testa. «Non lo so. Penso ancora che ci nasconda qualco-sa. Secondo te, cosa dirà ai membri del Consiglio, quando il Cavaliere e il Tatterdemalion riferiranno il motivo della loro venuta?»

«Non lo so» rispose Erisha. Lo prese per un braccio, con forza, e lo spinse avanti. «Ma adesso andiamo a scoprirlo.»

9

Erisha lo trascinava camminando così in fretta che il giovane si trovò

praticamente a correre per non essere lasciato indietro. Non l'aveva mai vi-sta così decisa e non intendeva certo fare domande prima di avere un'idea della destinazione. La direzione, comunque, era quella del palazzo dei Bel-loruus, situato un centinaio di passi dietro la sala del Consiglio.

Le finestre del palazzo erano buie e sul terreno, tutt'intorno all'edificio, si scorgevano solo ombre, ma, a quanto pareva, Erisha intendeva andare proprio là.

Un membro della Guardia Reale si materializzò all'improvviso davanti a loro, li riconobbe, rivolse a Erisha un cenno della testa per farle educata-mente capire che poteva passare, poi svanì di nuovo.

«Che fai?» chiese Kirisin. «Hai lasciato che quella guardia mi vedesse! Dirà a tuo padre che sono entrato!»

«Glielo dirò io stessa!» ribatté lei. «Smettila di preoccuparti, Kirisin! Non devo giustificare a mio padre ogni cosa!»

Lui non rispose. Era un'Erisha diversa da quella che conosceva, anche da quella di quarantotto ore prima, non più dubbiosa e intimidita, non più co-stretta nel ruolo di figlia obbediente di suo padre. L'amica aveva invece trovato una forza e una decisione che dimostravano come fosse disposta a tutto per affermare la sua indipendenza. Era un cambiamento radicale, e Kirisin non sapeva ancora come interpretarlo.

La giovare lo condusse alla stessa porticina laterale da cui lo aveva fatto

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passare quando erano andati a cercare notizie delle Pietre Magiche nelle Storie degli Elfi. Senza rallentare, spalancò la porta e trascinò Kirisin die-tro di sé.

«L'hai trovato?» chiese qualcuno, in tono brusco. La domanda proveniva dall'oscurità al di là della porta e Kirisin sobbal-

zò. Era pronto a fuggire, ma riconobbe la voce di Culph. «Cercava di intrufolarsi nella sala del Consiglio con l'aiuto della sorella»

rispose Erisha. Andò avanti, sempre continuando a tirare Kirisin per un braccio. «Svelto! Abbiamo poco tempo.»

Attraversarono le varie stanze della casa senza usare alcuna luce. Kirisin seguì ciecamente la cugina. Riusciva a malapena a distinguere la forma curva di Culph, che faceva strada in mezzo al buio, una figura spettrale che brontolava tra sé.

«Culph era presente quando Maurin Ortish ha annunciato a mio padre l'arrivo del Cavaliere del Verbo e del Tatterdemalion» sussurrò Erisha. «Ha ascoltato tutto, compreso il motivo che li ha spinti a venire ad Arbor-lon. Allora ha approfittato dell'occasione per convincere mio padre che era ormai tempo di parlare al Consiglio a proposito dell'Ellcrys. Non ha fatto cenno di quello che sapeva di te, ma ha parlato a favore della mia richiesta. Mio padre si è rifiutato di sentire ragioni. Così Culph mi ha cercata. Mi ha detto che non ci lasciavano entrare nella sala del Consiglio, ma che c'è u-n'altra via.»

«Un'altra via?» Kirisin la guardò nella penombra. «Come sarebbe a di-re?»

«Una galleria sotterranea che collega il palazzo alla Sala del Consiglio» rispose Culph. «Esiste da secoli. In genere è usata dai re e dalle regine per arrivare nella sala senza essere visti.» Rise. «Ma permette di entrare anche a quelli che semplicemente, come noi, ne sono a conoscenza.»

«Il tunnel termina in corrispondenza di un porta segreta che si apre nella sala e che sembra una sezione del muro» continuò Erisha. «Ma accanto al-la porta c'è uno spioncino che permette di dare un'occhiata prima di entra-re, per vedere chi c'è. Lo spioncino è dietro la poltrona del re, un po' spo-stato alla sua sinistra. I consiglieri siedono attorno alla poltrona reale. Se riusciremo ad arrivare fin là senza essere fermati, potremo sentire tutto quello che dicono.»

Proseguirono nel buio fino alla sala riunioni in fondo all'edificio ed en-trarono in uno stanzino, accanto all'ingresso, con un'ampia nicchia sul fon-do. Culph, che precedeva ancora i due ragazzi, si accostò a una parete spo-

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glia, così lontana da essere a malapena visibile alla debole luce che filtrava dall'esterno attraverso due finestre alte e strette.

Il bibliotecario toccò qualche meccanismo nascosto e Kirisin sentì scat-tare una molla. Poi l'intera parete della nicchia ruotò su se stessa e si aprì nell'oscurità del tunnel. Il bibliotecario fece segno ai ragazzi di entrare e chiuse la porta dietro di loro.

Un momento dopo, il vecchio accese una torcia senza fumo. Scesero al-cuni scalini avvolti dal buio e, giunti in fondo alla scala, entrarono nel cu-nicolo. La torcia forniva una luce sufficiente per distinguere il percorso. Si prolungava nel buio con parecchie curve e la volta era sostenuta da tronchi e assi di legno. Il pavimento era di assi, ma le pareti e il soffitto erano in prevalenza di terra battuta e radici. La galleria sembrava molto antica, ma qualcuno aveva regolarmente tagliato le radici e spazzato via le ragnatele. Quando provò a toccare la parete, Kirisin incontrò una superficie dura, a-sciutta e liscia. L'aria sapeva di chiuso e di muffa, ma era respirabile. Gli fece venire in mente le cripte dell'Ashenell e provò il desiderio di andarse-ne.

Alla fine della galleria, una seconda fila di gradini si dirigeva verso l'al-to. Culph si voltò verso i ragazzi e si portò un dito alle labbra in segno d'avvertimento. Salirono in silenzio e quando raggiunsero la cima, in lon-tananza si poté distinguere una sottile lama di luce.

Culph spense la torcia senza fumo e tutti salirono nel buio gli ultimi sca-lini e si avvicinarono allo spiraglio illuminato. Si scorgeva debolmente il contorno di una porta. Da una parte, tagliata in orizzontale sulla parete, c'e-ra una piccola feritoia.

Quando arrivarono in fondo alla galleria, riuscirono a vedere i membri dell'Alto Consiglio seduti ai piedi di un palchetto che reggeva il trono del re. Della massiccia figura del sovrano si scorgevano solo la schiena e il braccio. Simralin era immobile davanti al palco e fissava il re e i consiglie-ri. Maurin Ortish si era collocato da una parte e la sua faccia scura era im-passibile, Angela Perez e Ailie aspettavano vicino all'ingresso accanto a un paio di guardie reali.

In quel momento, il re stava già parlando. «Quello che hai fatto non ha precedenti, Simralin» diceva Arissen Bello-

ruus. «Sai che gli estranei, e in particolare gli umani, non possono entrare nella nostra città. Mai. Conosci la ragione di questa legge, la nostra so-pravvivenza dipende in gran parte dalla possibilità di mantenere il segreto

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sulla nostra esistenza. Se non si fanno eccezioni non si corrono rischi.» Fece una pausa perché le sue parole facessero maggiore effetto, poi indi-

cò con un ampio gesto del braccio Angela e Ailie. «Ma non è mai successo che un Cavaliere del Verbo o un Tatterdemalion chiedessero di entrare. Le creature di Faerie e coloro che servono il Verbo godono fama di condivi-dere le nostre preoccupazioni per il benessere della terra.

«Non vengono da noi come nemici, ma come amici. Portarli qui, in que-sto caso, ti dev'essere parsa la scelta giusta. Le circostanze a volte ci co-stringono a fare eccezioni alla regola. Io tendo a ritenere che sia il nostro caso. La tua decisione è giudicata ragionevole, Simralin, e le tue azioni a-deguate.»

S'interruppe in attesa della risposta. I suoi occhi non si staccarono da quelli della giovane elfa.

«Grazie, signore» rispose lei. Lui le rivolse un cenno della testa. «Puoi lasciarci, Simralin. Attendi

fuori.» Angela, che osservava con attenzione, comprese subito, dalla sorpresa

che lesse sul viso liscio della cercatrice di piste, come non si fosse aspetta-ta quel congedo. Essendo stata invitata all'inizio, immaginava di poter ri-manere fino alla fine. Ma quel re degli Elfi, quell'Arissen Belloruus, era abituato a tenere ogni cosa sotto controllo, ad assicurarsi che coloro che gli stavano attorno non si adagiassero nella facile sicurezza della loro posizio-ne.

Angela l'aveva letto nella faccia dei membri del Consiglio, nei loro sguardi furtivi e nella loro inconfondibile deferenza. Quello era un re forte e ci teneva a farlo sapere a coloro che arrivavano davanti a lui. Congedan-do così bruscamente Simralin ne aveva dato adesso un chiaro esempio.

Lei s'inchinò senza fare parola e uscì dalla sala del Consiglio. Non si guardò alle spalle.

Il re rivolse adesso la sua attenzione ad Angela e Ailie. «Venite» ordinò loro, facendo segno di alzarsi e avvicinarsi. Angela, con Ailie al fianco, si diresse verso il re. Si era lavata e indossa-

va abiti puliti. I suoi erano così sporchi e stracciati che gli Elfi si erano li-mitati a buttarli via. Il Cavaliere aveva scoperto di apprezzare l'abbiglia-mento degli Elfi, che era morbido e ampio e le dava una rassicurante liber-tà di movimento. Le sue ferite, pulite, bendate e curate con i balsami degli Elfi, bruciavano assai meno di prima. Si sentiva stranamente nuova; adesso che era nella sala del Consiglio, le pareva di essere fisicamente rinata.

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Respirò a fondo e guardò il re e i consiglieri. Cercava ancora di non fis-sarli - le loro orecchie appuntite, le sopracciglia, i visi allungati - e di con-vincersi che erano semplicemente esseri umani un po' diversi da lei. Ma non poteva ignorare quello che le aveva riferito Ailie sulla loro storia, che risaliva a un'epoca popolata di mitiche creature fatate ormai scomparse, in cui gli esseri umani non esistevano ancora sulla terra.

E non poteva dimenticare gli avvertimenti che le aveva dato Ailie quella sera stessa, poche ore prima, su ciò che poteva aspettarsi dagli Elfi.

«Ricorda che a loro non sembrerai così strana come loro sembrano a te» le aveva detto il Tatterdemalion mentre erano ancora sole. «Hanno avuto occasione di studiare voi umani nel vostro ambiente, mentre voi siete sem-pre stati esclusi dal loro. Gli Elfi non amano gli umani e non si fidano di loro. Dicono che gli umani hanno rubato loro il mondo e poi l'hanno porta-to alla rovina. La tua condizione di Cavaliere del Verbo non riuscirà a far dimenticare del tutto le tue origini. Sfrutteranno a loro favore i tuoi dubbi su di loro. Cercheranno di costringerti alla difensiva. Tieni presenti le loro intenzioni.»

Lei le aveva bene in mente, ma era incerta sul modo migliore di trattare con gli Elfi. Se non altro, capiva la loro lingua. Ailie le aveva detto che gliel'avrebbe permesso la magia del Verbo, conferita a lei dal suo bastone. E, in questo, il Tatterdemalion le aveva detto il vero.

«Potete presentarvi ai membri dell'Alto Consiglio» ordinò il re. Angela aveva già comunicato i loro nomi a Simralin e a Maurin Ortish,

perciò il sovrano avrebbe potuto fare di persona le presentazioni. Ma Bel-loruus aveva un altro scopo. Voleva far capire loro che non era disposto a tollerare alcuna forma di opposizione ai suoi ordini.

Le stava mettendo alla prova, come faceva con tutti. "D'accordo" si disse Angela. Avrebbe fatto tutto quello che era necessa-

rio. «Sono Angela Perez» rispose, raddrizzando leggermente le spalle e fis-

sando negli occhi il re. «Sono un Cavaliere del Verbo. La mia compagna è un Tatterdemalion e si chiama Ailie.»

Arissen Belloruus si appoggiò comodamente alla spalliera della sedia, senza invitare le due ospiti ad accomodarsi a loro volta.

«Vi abbiamo concesso di entrare nella nostra città nonostante le leggi che lo vietano» dichiarò. «Lo sapete perché avete sentito quanto ho detto a Simralin. Ve l'abbiamo permesso perché siete quello che siete e perché siamo portati a credere che la vostra venuta ad Arborlon sia di grande im-

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portanza. Adesso è giunto il momento di assicurarci che è così.» Il re era un elfo alto e robusto con bei lineamenti e una voce chiara e au-

toritaria. E sapeva usare sia la voce sia la presenza per intimidire e rassicu-rare. Angela aveva visto quanto riusciva a essere efficace quando aveva costretto all'impotenza Simralin. Avrebbe tentato di fare la stessa cosa con lei. Ma Angela era una figlia della strada e aveva affrontato avversari assai peggiori di quelli incontrati dal re. Era più forte di lui.

«Siamo stati inviati qui dal Verbo» disse, rivolta al Consiglio e non al re. «Questa è la nostra principale garanzia, la più importante.»

«Il Verbo non ne ha parlato, a noi» si affrettò a dichiarare il re. «Il Verbo non parla mai, a noi» specificò un altro. Era curvo e aveva la

faccia da uccello rapace. Non sorrideva. «Forse non direttamente e non nel modo che vi aspettate» rispose Ange-

la. «Ma il Verbo vigila su di voi e si prende cura di voi. Per questo siamo state mandate come messaggeri. Gli Elfi corrono un grande pericolo. Il mondo, all'esterno del Cintra, sta cambiando. I demoni e i loro seguaci stanno vincendo la guerra contro la razza umana e cercano di distruggerla.

«Peggio ancora, vogliono distruggere il mondo. È necessario che voi prendiate delle precauzioni, se volete sopravvivere. Per farlo dovete lascia-re il Cintra e recarvi in un luogo sicuro, dove la distruzione del resto del mondo non metterà a rischio il futuro della vostra razza.»

«Lasciare il Cintra?» intervenne, incredulo, il membro del Consiglio che aveva parlato in precedenza. «Sulla base delle tue parole e niente più? Ri-dicolo!»

«Basta così, Basselin!» lo interruppe il re, impedendogli di continuare. Tornò a rivolgersi ad Angela: «Ci comprenderai, signora Cavaliere del

Verbo, se esitiamo a crederti. Gli umani sono coloro che hanno distrutto il mondo, comportandosi in modo sciocco in ogni occasione e senza porsi dei limiti. Sono stati i demoni a spingerli a queste azioni, ma sono stati gli umani a compierle. Noi siamo rimasti al sicuro non muovendoci da dove siamo, e adesso ci dici che dobbiamo andare via? E sai indicarci dove do-vremmo andare?».

«Questo non lo sappiamo» rispose Angela. Arissen Belloruus la guardò come avrebbe guardato un bambino diffici-

le. «Molto bene» disse. «Ci avete comunicato il vostro messaggio e avete

portato a termine il compito che vi ha condotto qui da noi. Adesso ne di-scuteremo e giungeremo a una decisione. Siete libere di uscire.»

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Angela scosse la testa. «C'è dell'altro. Perché possiate lasciare il Cintra, dovrete usare una pietra magica chiamata Loden. Siamo state inviate per aiutarvi a trovarla.»

Scese un silenzio carico di stupore. Avevano perso tutti la parola, com-preso il re, che dall'espressione pareva chiedersi se la discussione dovesse continuare.

«Non abbiano nessuna pietra magica chiamata Loden» disse infine. Poi, come se avesse compreso di essersi limitato a ripetere quello che

Angela aveva appena affermato, aggiunse: «Non possediamo Pietre Magi-che, di nessun tipo. Sono andate perdute da secoli, tutte. Non c'è modo di sapere quale sia stata la loro sorte».

«Forse c'è» disse all'improvviso Ailie. La sua voce suonò straordinaria-mente forte nella grande sala. «Forse uno di voi conosce già il modo.»

Forse tirava semplicemente a indovinare, o magari sapeva qualcosa che non aveva detto ad Angela. Ma dall'espressione del re, che tutt'a un tratto divenne cupa e incollerita, era chiaro che aveva colpito nel segno. Il re sa-peva qualcosa che non aveva confidato a nessuno dei presenti, e in quel momento tutti se ne resero conto.

«In origine» disse un membro del Consiglio, un elfo anziano, che non si rivolse al re ma ad Angela «la pietra magica chiamata Loden doveva pro-teggere l'Ellcrys nel momento del pericolo. La leggenda, almeno stando a quanto dicono i diari della mia famiglia, narra che la magia del Loden permette di incapsulare l'albero e di tenerlo al sicuro mentre lo si sposta.»

Adesso tutti fissavano il re. «Vecchie storie, risalenti a un tempo ancor più vecchio» intervenne A-

rissen Belloruus, con un'alzata di spalle. «Non possiamo basarci su quelle leggende, Ordanna Frae, e tu dovresti saperlo meglio di ogni altro.»

«Io so» rispose il consigliere, voltandosi verso di lui «che quelle storie vengono riportate da più di una sola fonte. Non dobbiamo trascurare la possibilità che rivelino una verità importante. Gran parte delle nostre co-noscenze ci viene sotto forma di storie e leggende raccolte in scritture pri-vate. E queste non sono necessariamente un'invenzione di colui che le ha stilate.»

«Comunque, sarebbe sciocco e avventato agire in base alle parole di questi messaggeri senza ulteriori prove» intervenne Basselin, sporgendosi in avanti. «Non abbiamo modo di mettere alla prova la fondatezza delle lo-ro affermazioni. Possiamo credere a quello che dicono, ma può anche esse-re che ci nascondano qualcosa.»

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Da alcuni dei consiglieri giunse un mormorio di approvazione. Il re tese improvvisamente la mano verso Angela.

«Hai detto che siete qui per aiutarci a trovare il Loden. Come pensi di fa-re? Sai dove potrebbe trovarsi? Il Verbo ti ha fornito informazioni che non conosciamo?»

Angela ebbe un attimo di esitazione e a rispondere fu Ailie: «Ciò che hai bisogno di sapere lo puoi scoprire tra la tua stessa gente, signore. Si può trovare chiedendo ai Prescelti».

Arissen Belloruus divenne ancora più rosso di prima e per un momento Angela si disse che Ailie si era spinta troppo avanti. Anche ora, si trattava di argomenti di cui il Tatterdemalion non le aveva parlato e lei non sapeva perché turbassero il re, ma chiaramente avevano ottenuto questo effetto.

«Il ragazzo che hai mandato via» continuò Ailie. «Kirisin. Lui sa.» Adesso tutti i consiglieri fissavano il re, le loro domande e le loro escla-

mazioni passavano dall'uno all'altro mentre cercavano di dare un senso a quanto avevano sentito.

Ma non erano state le parole del Tatterdemalion a causare quella reazio-ne, comprese Angela. Le parole, anche se sorprendenti, non erano partico-larmente offensive. Era invece qualcosa nel modo di pronunciarle, qualco-sa nella voce di Ailie, che aveva spezzato il muro di reticenza che teneva l'Alto Consiglio in soggezione del re e adesso permetteva ai consiglieri di fargli domande.

«Silenzio!» ruggì all'improvviso Arissen Belloruus, balzando in piedi. I consiglieri s'immobilizzarono e il re fece qualche passo in direzione di

Angela e Ailie, con un'espressione minacciosa sul volto dai lineamenti de-cisi.

«Kirisin Belloruus» disse «figlio di mio cugino e di sua moglie, fratello di Simralin, è un ragazzo a cui vogliono bene tutti, un amico di mia figlia e un Prescelto nel servizio dell'Ellcrys. Ha effettivamente parlato a me di tut-to questo, di una cosa che ho preferito non sottoporre al Consiglio.»

S'interruppe perché le sue parole avessero maggiore effetto. «E per un buon motivo. Crede di sapere qualcosa, ma non ha nessuna prova a soste-gno di quello che dice. È venuto a raccontarmi una storia simile alla vo-stra, messaggeri del Verbo. Mi ha detto che l'Ellcrys lo ha pregato di cer-care il Loden e di collocare l'albero al suo interno. Un'antica magia, a quanto pare. Magia che è andata persa da molto tempo. Ma nessun altro ha potuto udire la richiesta.

«Inoltre, l'Ellcrys non ha mai comunicato con nessuno, se non nel mo-

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mento in cui indicava i suoi Prescelti. Kirisin non sa spiegare perché abbia parlato proprio adesso e a lui. Lui è certo di aver sentito bene, ma non ha nessuna prova da offrirci. Io non gli ho creduto e neanche gli altri Prescelti gli hanno dato retta.»

Strinse i denti e scosse la testa, poi riprese: «Ma io sono il re e conosco il mio dovere. Gli ho detto che la sua sola parola, senza altre prove, non sa-rebbe stata sufficiente a persuadere l'Alto Consiglio a seguirlo. Gli ho detto che avrei fatto ricerche sulla questione.

«Culph, che da anni è il nostro storico, è stato incaricato di cercare nelle Storie degli Elfi la risposta alle domande poste da Kirisin. Non ha trovato niente. Si citavano a malapena le Pietre Magiche. Tutto quello che è magi-a, tutti i talismani che un tempo erano così importanti per il nostro popolo, appartengono ormai al passato.

«Lo sappiamo tutti. Nessuno di coloro che sono vissuti negli ultimi duemila anni ha mai visto una Pietra Magica. O, se l'ha vista, non lo ha raccontato a nessuno, perché non si è trovata alcuna documentazione scrit-ta dell'accaduto. La sola cosa che abbiamo sono diari privati, come quello che tiene il nostro ministro dei Lavori Pubblici.»

Indicò Ordanna Frae. «Alcune di quelle annotazioni sono accurate e altre no. Soltanto illazioni, soltanto sogni a occhi aperti. Per determinare quali siano attendibili, ci occorre la conferma delle nostre storie ufficiali».

Fece di nuovo una pausa. «E nel nostro caso, non ce ne sono.» «Signore» si affrettò a interromperlo Basselin «posso parlare?» Il re annuì. «Certo, primo ministro.» «Penso che abbiamo ascoltato abbastanza» disse l'elfo dalla faccia di ra-

pace. «Abbastanza supposizioni e fantasticherie in libertà. Questa storia di un pericolo per l'Ellcrys e la nazione degli Elfi sembra basarsi interamente su due fonti. Un ragazzino che ha a malapena l'età per conoscere il suo po-sto nella nostra comunità e questa umana e la sua compagna.

«Il ragazzo... be', è solo un ragazzo. La giovane donna e la sua piccola compagna ci sono sconosciute, non c'è nessuna prova concreta che con-fermi quello ci stanno dicendo. Ci si chiede di cambiare tutto il nostro mo-do di vivere, andare via dal Cintra, sradicare l'Ellcrys e fare chissà che al-tro. Quasi tutto sulla semplice parola di questa giovane donna, la parola di un umano. Un umano, signore. Quando sono proprio gli umani la causa di tanta distruzione e di tanto malessere.

«Trovo difficile credere che forse questa volta abbiano qualcosa di vali-do da offrirci. Sono scettico su tutto ciò che ho sentito. Sono contrario a

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prendere iniziative a proposito.» Tornò a sedere, con la faccia paonazza e incollerita. «E dovremmo op-

porci tutti» terminò, fissando Angela. Il re annuì. «Io sarei portato a concordare con il primo ministro» disse a

bassa voce. «Allora, non farete nulla?» insistette Angela. Il re la guardò con ira, poi si voltò, tornò al trono e sedette. Gesticolò

verso di lei, con disperazione. «Il mio primo ministro ha fatto un'osservazione significativa. Devo ac-

cettare, senza alcun tipo di prova, che voi abbiate detto il vero? Che non vi ingannate voi stesse in qualche modo? Che il pericolo da voi descritto esi-sta davvero? Non l'ho accettato quando mi ha parlato Kirisin. Adesso che siete giunte ad Arborlon, ammetto che c'è un nuovo motivo per chiederci se non avesse ragione. Ma cosa dobbiamo fare? In ogni caso, non abbiamo alcun modo per trovare il Loden.»

«Forse occorre un'ulteriore ricerca nelle vostre Storie» suggerì Angela. «Forse potrebbe essere utile parlare di nuovo con Kirisin. Quello che non si può negare è che il pericolo che si presenta agli Elfi non si potrà evitare semplicemente fingendo che non esista. Occorre fare qualcosa, signore.»

«Non è necessario, signora Cavaliere del Verbo, che mi insegni il mio dovere di re degli Elfi. Lo conosco assai meglio di te. Farò quello che do-vrò, quando sarà necessario farlo.»

La fissò per accertarsi che capisse, poi aggiunse: «Disporrò per una nuo-va e più approfondita ricerca nelle Storie degli Elfi e in ogni altro diario scritto in mio possesso, e se qualche membro del Consiglio può aiutare, magari attraverso una ricerca tra i suoi documenti di famiglia, sarà il ben-venuto. Ci ritroveremo tra due giorni per esaminare quanto avremo scoper-to».

«Signore» si affrettò a dire Angela «vorrei parlare personalmente con Kirisin. Confrontando quello che sappiamo, forse tra noi riusciremo a sco-prire qualcosa di utile.»

Il re esitò e nei suoi occhi si lesse la disapprovazione. Poi si strinse nelle spalle come se la cosa non avesse importanza.

«Va bene» disse «disporrò un incontro.» Una parte della prepotenza tanto visibile fino a poco prima era sparita

dalla faccia del sovrano, che sembrava preoccupato e incerto. Angela capi-va il bisogno di un leader di essere lui a stabilire le regole del gioco. E ca-piva come finisse per portare a un comportamento brusco e arrogante se

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non si stava attenti. Non lo condannava per il suo modo di fare, voleva so-lo capire cosa lo motivasse, e supponeva che fosse qualcosa di più della sua veste di re degli Elfi.

«Ti ringrazio, signore» gli rispose, con sincerità. Il re annuì. «Ti lascio una libertà di movimento che in genere sarei por-

tato a negare. Ma voglio che questa faccenda sia risolta. Se Kirisin ti può aiutare, allora voglio che tu scopra in che modo. Fa' ogni cosa che ti parrà giusto fare.»

Si alzò e rivolse un gesto ai membri dell'Alto Consiglio. «Basta discus-sioni per questa notte, la seduta è aggiornata.»

Mentre Angela e Ailie seguivano Maurin Ortish in direzione dell'uscita e

del corridoio che girava attorno alla sala, Angela sentì il re chiedere ai membri del Consiglio di rimanere ancora per qualche minuto, per riesami-nare quanto era stato detto.

Il Cavaliere del Verbo capì subito il significato di quelle parole. Il re a-veva deciso di attendere che fossero lontano per comunicare in privato al Consiglio le sue intenzioni. La irritava che si comportasse così, con tutto quello che c'era in ballo. Ma Ailie l'aveva avvertita che gli Elfi non si fida-vano degli umani, e per quanto fosse illustre il suo titolo di Cavaliere del Verbo, lei era innanzitutto un essere umano.

Se gli Elfi la giudicavano un pericolo per la loro sicurezza, anche se lei aveva proclamato il contrario, probabilmente avrebbero cercato il modo di escluderla.

E si chiedeva se fossero capaci di farle del male anche se non aveva fatto nulla per provocarli.

«Hai sentito? Vogliono lavorare dietro le nostre spalle» sussurrò ad Ai-lie, non appena furono fuori dall'edificio, nella fresca aria della notte. Or-tish era andato avanti, e aveva fatto cenno a Simralin, che aspettava nel-l'ombra, di riaccompagnarle nel loro alloggio.

«È molto peggio di quello che credi» le sussurrò il Tatterdemalion, sporgendosi verso Angela.

I suoi occhi erano due polle nere di profondità infinita, la sua voce era ancora più bassa del solito.

«Gli Elfi sono già a rischio» disse. Angela si immobilizzò per lo stupore. «Cosa intendi dire?» «Nella sala del Consiglio c'era un demone.» «Tu l'hai visto? Io non mi sono accorta di niente!»

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Ailie scosse la testa. «Non l'ho visto, ma ho fiutato il suo puzzo. Indossa un travestimento da elfo, perciò non so dire chi fosse dei presenti. A quan-to pare, ha abbastanza talento ed è abbastanza astuto per celare la sua pre-senza a un Cavaliere del Verbo, ma non può nascondersi a una creatura di Faerie.»

Il Tatterdemalion rabbrividì all'improvviso, come se l'ammissione la raggelasse fino al midollo. «Era nella sala. Era uno di loro.»

10

Kirisin seguì Erisha e Culph lungo la galleria che collegava la sala del

Consiglio al palazzo. Erano tutti e tre immersi nei loro pensieri e nessuno parlava, per vari buoni motivi. Non volevano rischiare di essere scoperti e avevano bisogno di riflettere su quanto avevano appena udito. Per parlarsi, aspettavano di essere al sicuro.

Kirisin pensava che le cose taciute erano importanti quanto quelle dette. Il padre di Erisha aveva evitato con cura di riferire come avesse scoraggia-to e rallentato i suoi tentativi di compiere quanto gli aveva chiesto l'Ellcrys. Era stato anche assai attento a non fare il minimo accenno al co-involgimento della figlia. Tutto questo non aveva senso per il ragazzo, a-desso che aveva l'occasione di ripensare al comportamento del re, e le cose che aveva sentito lo inquietavano profondamente.

Giunti al palazzo dei Belloruus, Kirisin salutò gli altri due, sgusciò fuori dalla solita porticina e si avviò verso casa. Era troppo pericoloso rimanere nei paraggi, adesso che il re stava per tornare. Non potevano permettersi di essere scoperti, con il rischio di mandare a monte il loro piano. Si era ac-cordato con Erisha per incontrarsi all'alba, quando entrambi si sarebbero alzati per svolgere il loro dovere quotidiano di Prescelti, e in quell'occasio-ne avrebbero avuto modo di parlare.

Nonostante l'appuntamento, però, Kirisin non riuscì a pensare ad altro mentre attraversava gli alberi diretto verso casa. L'arrivo del Cavaliere del Verbo e del Tatterdemalion era una prova sufficiente a confermare che l'Ellcrys non si sbagliava nel credere che lei e gli Elfi erano in pericolo. Se c'era una cosa di cui Kirisin era convinto, era la necessità di agire in fretta per venirle in aiuto.

Dunque, importantissima era adesso la ricerca delle Pietre Magiche scomparse. Qualche ora prima, avevano creduto di essere vicini alla meta - lui, Erisha e il vecchio Culph, quando avevano cercato fra le tombe dell'A-

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shenell - e adesso non riusciva a credere che fosse soltanto tempo sprecato. Occorreva un nuovo punto di partenza, forse una logica differente nell'af-frontare il problema. A quel punto, comunque, rinunciare era impensabile.

Rifletté di nuovo sulla reticenza del re e cercò di immaginarne la ragio-ne. Ad Arissen Belloruus stava succedendo qualcosa che nessuno di loro capiva, qualcosa che lo faceva agire in un modo diverso dal consueto. Che non si fidasse di Angela Perez non era una novità, dato che la maggior par-te degli Elfi diffidava degli esseri umani. Ma in quel caso la sua reazione sembrava del tutto irragionevole. Il fatto che il Tatterdemalion avesse rive-lato quanto era già a sua conoscenza, e in particolare ciò che sapeva di Ki-risin, era il solo motivo che l'aveva spinto a fare delle ammissioni.

Fino a quel momento, il re aveva tenuto per sé tutto ciò che gli aveva detto il ragazzo, non ne aveva parlato a nessun membro dell'Alto Consi-glio. Né, a quanto pareva, aveva preso alcun provvedimento.

Un soffio di vento gelido gli colpì il viso, rosso per l'eccitazione, e lo fe-ce rabbrividire. L'aria gelida era del tutto fuori stagione, un gelo che pare-va rispecchiare quello che Kirisin si sentiva nel cuore. Senza rendersene conto, si guardò attorno con circospezione. Quella città era la sua casa, la sola che avesse avuto. Vi aveva trascorso tutta la vita. Conosceva le vie e i sentieri, quasi tutte le famiglie e molti segreti. Non aveva altri posti dove andare che gli fossero altrettanto familiari.

Eppure, quella notte, Arborlon gli sembrava un luogo estraneo e inospi-tale, e lui si sentiva un intruso che non vi apparteneva e che poteva addirit-tura corrervi dei rischi.

Proseguì, curvando le spalle, guardando a destra e a sinistra nelle ombre, cercando nemici che sapeva non esserci, ma che il suo istinto temeva po-tessero comparire da un momento all'altro.

Quando arrivò a casa, vide che all'interno era ancora accesa una luce e Simralin era ferma in attesa sugli scalini. Non era sola. Angela Perez e il Tatterdemalion erano con lei.

Kirisin spostò una ciocca di capelli che gli era caduta sugli occhi, si pre-parò a quello che lo aspettava e raggiunse la sorella.

«Un po' tardi per ricevere visite, Sim» disse. «Più tardi di quanto credi» rispose lei, con espressione dura. «Ma hanno

da dirti qualcosa che devi ascoltare. Siediti con noi.» Kirisin fece come gli veniva detto e si accomodò su una vecchia sedia di

vimini dallo schienale alto, rivolto verso il Cavaliere del Verbo e il Tatter-demalion.

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Ricordava bene come la creatura di Faerie l'avesse osservato attentamen-te, alcune ore prima, e come gli avesse dato l'impressione di riconoscerlo anche se non si erano mai visti. Adesso, mentre Angela ripeteva tutto ciò che era successo nella sala del Consiglio, gli ritornò in mente quel partico-lare. Ailie doveva sapere che l'Ellcrys gli aveva parlato e gli aveva chiesto di aiutarla. Altrimenti non avrebbe potuto pronunciare il suo nome davanti al re.

Mentre Angela parlava, in gran parte ripetendo quanto Kirisin aveva già origliato dietro le pareti della sala, Kirisin la osservò attentamente. Aveva sentito raccontare da Simralin dei Cavalieri del Verbo, conosceva la loro opera e sapeva quanto fosse importante. Si era mentalmente raffigurato l'a-spetto dei Cavalieri, le loro caratteristiche fisiche, la forza che doveva irra-diare la loro presenza.

Invece Angela non era molto più vecchia di lui, aveva una faccia da bambina e non era affatto imponente. Era più un'adolescente che una don-na, più bambina che adulta. Impugnava con noncuranza il bastone nero del suo ordine, intagliato di rune da cima a fondo, ma la padronanza con cui lo teneva in mano era inconfondibile.

Kirisin la trovava strana, un'umana che sembrava meno umana di quanto avrebbe dovuto essere, un Cavaliere del Verbo troppo giovane per ricopri-re un simile incarico.

Quando Angela ebbe terminato, chiese a Kirisin di dire a sua volta quel-lo che sapeva. Il giovane le raccontò tutto, anche se avrebbe preferito non ammettere che si era nascosto dall'altra parte della parete con Erisha e il vecchio Culph quando Angela e Ailie erano davanti al re e all'Alto Consi-glio. Non perché preferisse tacere l'episodio al Cavaliere, ma perché non voleva far correre un rischio ai suoi due amici. Era un timore irrazionale, ma non poteva accantonarlo, fingendo che non esistesse.

In ogni caso, narrò ogni cosa alle due ospiti, compreso ciò che era suc-cesso quando l'Ellcrys gli aveva parlato nei giardini. Disse di essere andato dal re anche se gli altri Prescelti gli avevano raccomandato il contrario e che il re gli aveva mentito. Disse di aver poi affrontato Erisha per chiederle cosa nascondeva e di essersi accordato con lei per unire le loro forze. Rac-contò come il vecchio Culph l'avesse scoperto con Erisha negli archivi e avesse poi deciso di aiutarli.

Diede una breve descrizione della loro ricerca della tomba nel cimitero dell'Ashenell, senza trovare la lapide di Pancea Rolt Cruer, dove potevano essere state nascoste le Pietre Magiche se le parole del suo confidente era-

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no vere. «Non abbiamo trovato nulla» concluse «neanche dopo aver cercato per

gran parte del pomeriggio. Ma tra due giorni intendiamo tornare là. Forse questa volta saremo più fortunati.»

«Allora, voi non potete lasciare Arborlon e il Cintra senza l'Ellcrys?» volle sapere Angela.

«Se ci allontanassimo, lasceremmo l'albero al suo destino. Non ha difese contro gli umani o i demoni e le loro armi. Verrebbe annientato nella di-struzione generale che ci hai annunciato.»

«In tal caso, i demoni intrappolati nel Divieto, quelli del vecchio mondo di Faerie, tornerebbero in libertà?»

«Se il Divieto s'interrompesse, succederebbe proprio questo.» «Si unirebbero ai demoni che sono già al lavoro per devastare quanto re-

sta del nostro mondo?» Kirisin annuì. «Non possiamo abbandonare l'Ellcrys. Dobbiamo trovare

le Pietre Magiche che permetteranno di salvarla.» Angela scosse la testa. «Non capisco perché ci debbano essere delle di-

scussioni a questo proposito. Non vedo perché il vostro re non si sia già messo alla ricerca delle Pietre Magiche, a tentare il possibile per trovarle. Non importa che sappia o meno dove cercarle, dovrebbe fare qualcosa.

«Che ragione può avere per non voler agire seguendo quello che gli ave-te detto, o in base a quello che gli chiediamo?»

Kirisin abbassò gli occhi e mosse oziosamente il piede sulle assi del por-ticato. «Io ed Erisha ce lo siamo già chiesti molte volte. Non abbiamo an-cora una risposta. Neppure Culph lo capisce.»

«Il re non è più lui, da qualche tempo» disse piano Simralin. «L'hai nota-to anche tu, Piccolo K. Tutti lo trovano diverso e nessuno si spiega le ra-gioni del cambiamento.»

«Be', dobbiamo scoprire il modo di convincerlo a fare la cosa giusta» in-sistette Kirisin. «Non importa che sia sempre lui o no, quello che conta è che è il re. Non può permettersi che i problemi personali interferiscano con il suo incarico. Il suo primo dovere è proteggere la sua gente e la sua città. Se lascia che succeda qualcosa all'Ellcrys mancherà ai suoi obblighi.»

Tutti tacquero per alcuni istanti, riflettendo sul comportamento del re. Infine Angela disse: «C'è un altro problema di cui devo informarvi». «Angela» la avvertì Ailie. Lei annuì. «Lo so. Corriamo un rischio mettendo al corrente altre perso-

ne. Ma abbiamo bisogno di alleati per scoprire chi è, Ailie.»

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Il Tatterdemalion tornò ad appoggiarsi alla parete della casa, presenza vaga e spettrale alla luce della luna. Pareva ancor più giovane di Kirisin e Angela, così piccola, delicata ed eterea.

«Allora diglielo» rispose. «Questa sera c'era un demone nella sala del Consiglio» spiegò Angela. Guardò prima il fratello e poi la sorella, poi di nuovo Kirisin. «Ailie ha

sentito la sua presenza, anche se io non l'ho avvertita. Gli Elfi sono stati contaminati.»

Simralin si sporse verso il Tatterdemalion. «Ne sei certa, Ailie?» La creatura di Faerie annuì. «Certo. Il suo puzzo era talmente forte da ri-

empire non solo la sala, ma anche il corridoio dove abbiamo aspettato la convocazione del re.»

«Chi è?» chiese Kirisin. Ailie scosse la testa. «Non posso esserne certa. Lo saprei se fossi sola

con il demone, ma in una stanza piena di persone non riesco a isolarlo. Il demone si è mimetizzato. È un cambiatore di forma nel vero senso della parola, in grado di assumere qualunque aspetto. Molti demoni hanno que-sta capacità, ma soltanto pochi riescono a trasformarsi completamente. Lui è uno di questi.»

Tutti tacquero per qualche istante. Infine, Kirisin chiese: «Potrebbe esse-re il re? So che tutti vorremo evitare di chiedercelo, ma è possibile?».

Angela annuì. «È possibile. E sarebbe molto grave. Abbiamo bisogno del suo appoggio se vogliamo convincere gli Elfi a lasciare il Cintra.»

«Ma non potrebbe essere Basselin?» suggerì Simralin. «Hai detto che ha insistito con forza perché gli altri ministri non dessero retta a quello che avete detto voi due. Ha affermato che Kirisin è un bambino e che non bi-sogna fidarsi degli umani. L'ha anche ripetuto. E, come primo ministro, è ascoltato dal re. Un demone sarebbe abbastanza astuto da convincere il re a non agire.»

Kirisin scosse ostinato la testa. «Ma è il re a comportarsi in modo strano, diverso dal solito. Se fosse un demone, la cosa si spiegherebbe, è stato lui ad adoperarsi più di ogni altro perché non si facesse nulla. Ha impedito a Erisha di parlare e poi ha cercato di fermare anche me. Ha fatto tutto quel-lo che era in suo potere per impedirci di aiutare l'Ellcrys. È il comporta-mento che ci si aspetta da un demone.»

«Forse.» L'esile forma di Ailie parve ondeggiare contro il muro, come uno spettro fatto di materia liquida. «Ma soprattutto, un demone farebbe il possibile per nascondere la propria identità e dirottare i sospetti su qualcun

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altro. Il re mi sembra una scelta troppo ovvia.» «Ovvia soltanto per noi» rispose Kirisin. «Solo perché sappiamo cosa

cercare. Nessun altro sospetta la presenza di un demone.» Scosse la testa. «Sei sicura riguardo al demone? Non potresti esserti sbagliata?

«Un demone che vive in mezzo a noi non sembra possibile. Da quanto tempo sarebbe qui? E, prima di tutto, perché è venuto?»

Angela appoggiò la schiena alla spalliera della sedia. «Un demone po-trebbe essere venuto qui per uno scopo diverso dalla distruzione del-l'Ellcrys. Potrebbe essere venuto semplicemente per sorvegliare gli Elfi. Potrebbe avere ucciso la persona di cui ha preso il posto e avere assunto il suo aspetto, per poi attendere di valutare il danno che è in grado di fare. Può darsi che viva in mezzo a voi da anni, decenni persino. I demoni sono astuti e insidiosi. Questo potrebbe cercare di distruggere l'Ellcrys, ma nello stesso tempo potrebbe avere anche un altro piano, più complesso.»

"Un altro piano" ripeté Kirisin, tra sé. Ma quale? Che cosa poteva fare, un demone, di peggio che distruggere l'Ellcrys e rimettere in libertà le cre-ature imprigionate nel Divieto? Non gli venne in mente nulla. La prospet-tiva era troppo spaventosa per lasciarsi mettere a fuoco.

«Cosa facciamo?» chiese agli altri. Simralin si spostò leggermente in avanti. La luce che giungeva dall'in-

terno illuminò il suo volto liscio. «Facciamo in modo che Ailie incontri separatamente Arissen Belloruus, prima, e poi Basselin, per controllare se uno di loro è il demone.»

«Sarebbe molto pericoloso» obiettò Angela. «Anche se fossi presente io, correrebbe un rischio. I demoni sono molto potenti.»

«Ma Simralin ha ragione» disse all'improvviso Ailie. «Dobbiamo sape-re.»

«Per me, la prima cosa da fare è rintracciare quelle Pietre Magiche» dis-se Kirisin. «Continuavo a pensare che oggi le avremmo trovate. Non riesco ancora a capire perché non ci siamo riusciti. Penso che ci sia sfuggito qualcosa, ma non so cosa.»

Per qualche momento nessuno parlò, poi Simralin chiese: «Chi cercava-te, ripetimelo».

«Pancea Rolt Cruer. È divenuta regina dopo la morte del marito, secoli fa. Ci sono dei Cruer nell'Ashenell, ma non c'è nessuna lapide con il suo nome.» Kirisin ebbe un istante di esitazione. «Che ne pensi, Sim?»

La sorella si strinse nelle spalle. «Be', tu dici che era una Cruer. Ma quello era il nome del marito. Forse non è sepolta con il nome da sposata.

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Qual era il suo nome di famiglia, prima del matrimonio?» Kirisin batté le palpebre. «Non lo so. Non ho pensato di guardare. Forse

abbiamo continuato a cercarla con il nome sbagliato.» Sollevò la testa, ec-citato. «Domani lo dirò a Erisha. Può chiederlo a Culph, che può trovare il nome nelle Storie. Una volta che lo sappiamo, possiamo fare un nuovo ten-tativo nell'Ashenell.»

«Penso che non dovete andare laggiù da soli» disse subito Angela. «Ai-lie non si sbaglia a proposito del demone. È qui, in mezzo agli Elfi, e ades-so sa anche di te. Se scopre quello che stai facendo, il cimitero non sarà più sicuro per te e per chi ti accompagna. Se tornate laggiù, è meglio che io venga con voi.»

Si alzò all'improvviso, si avvicinò a Kirisin e si piegò sulle ginocchia accanto a lui. «Kirisin. Ascoltami attentamente. Corri un grande pericolo. I demoni sono spietati e capaci di uccidere un ragazzo come te senza pen-sarci due volte. Madre de Dios! Dimmi una cosa. Gli Elfi hanno davvero perduto tutta la loro magia? Non ne conservate neppure un briciolo? Nep-pure voi che siete i Prescelti dell'Ellcrys? Non avete modo di proteggervi? Nessun incantesimo per aiutarvi?»

«La magia è andata persa da secoli» rispose Kirisin. «Gli Elfi hanno la capacità di nascondersi senza farsi trovare. Abbiamo poteri di guarigione. Sappiamo prenderci cura della terra e delle creature che vivono e crescono su di essa, ma non molto di più.» Scosse la testa. «Vorrei che ne possedes-simo ancora.»

Simralin si alzò e toccò Angela sulla spalla. «Per questa notte non pos-siamo fare di più. Devo riportarvi indietro, prima che qualcuno scopra la vostra assenza. Non devono pensare che state facendo qualcosa di diverso dall'aspettare la convocazione del re.»

Si raccolsero per qualche momento sul portico, alla scarsa luce lunare, e gli Elfi e il Cavaliere si strinsero i polsi.

«Sono lieto che siate venute» disse d'impulso Kirisin. La faccia di Angela era cupa per i cattivi presentimenti. «Fa' attenzione,

Kirisin. Cammina con passo leggero.» La bestia simile a un lupo che un tempo era Delloreen e che adesso era

qualcosa di completamente diverso, si aggirava ai confini della città degli Elfi e seguiva la scia della sua preda. Non pensava più alla sua identità e neppure al motivo per cui la cercava. Ricordava a malapena il proprio sco-po. Lei, in quel momento, pensava solo a soddisfare le sue necessità. L'u-

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nica cosa che importava era trovare e distruggere chi stava braccando. Aveva seguito la preda fino a quella città, una caccia lunga e difficile,

durante la quale aveva perso la scia parecchie volte. Ma aveva continuato a cercarla finché non l'aveva trovata, ogni volta, e l'inseguimento era rico-minciato. Aveva mangiato e bevuto quello che era riuscita a trovare lungo la strada, per non perdere le forze, ma non aveva dormito. Il sonno era un lusso inutile e lei non poteva rallentare per nessuna ragione al mondo.

Adesso era arrivata a quella città, a quel luogo abitato da creature che per istinto riconosceva come le sue vittime. Poteva ucciderle tutte, a pro-prio comodo, le avrebbero fornito giorni, settimane e forse mesi di gioia. Ma prima doveva trovare la creatura cui dava da tanto tempo la caccia, quella che doveva uccidere prima di poter riposare tranquilla. Non era una considerazione basata sulla ragione, ma sull'istinto e sulla fame. Agiva in base a una somma di esigenze demoniache e animali.

Adesso la preda era vicina, la traccia era fresca... ma all'improvviso ecco una scia nuova e diversa, inattesa e subito riconoscibile: l'odore di un altro demone, un altro della sua razza. Trovarlo lì, in un luogo così nascosto nel-le foreste e così lontano dalla popolazione umana, la sorprese. Eccitata dal-la scoperta e ansiosa di sapere cosa l'avesse portato fin là, cominciò a se-guire la nuova scia. Non riusciva a spiegare perché avesse tanta attrattiva su di lei, ma non poteva resistere. Per il momento si era dimenticata la ne-cessità di dare la caccia alla preda che aveva inseguito con tanto zelo e senza pensare ad altro. Adesso a prevalere era quella nuova ossessione.

Passò in silenzio in mezzo agli alberi, camminando a quattro zampe sui soffici cuscinetti, tenendosi a distanza dai sentieri e dalle piste battute per evitare le creature che vivevano in quel luogo. Non doveva attirare l'atten-zione su di sé, lo sapeva. La segretezza era fondamentale. Ne era ben con-sapevole, anche se faticava a squarciare i veli della sua diminuita facoltà di ragionare. La caccia era in gran parte reazione istintiva, era l'istinto a dirti cosa ti serviva.

Mentre si avvicinava a una casa situata in piena foresta, semisepolta nel terreno, percepì la presenza dell'altro demone. Il nuovo venuto si avvicina-va senza fretta, senza preoccuparsi di nascondere la sua presenza, con passi sicuri e decisi. Delloreen si fermò e attese, sollevando il muso nero per co-gliere l'odore dell'altro.

«Ma vedi un po' che bellezza!» disse una voce tranquillizzante, una pre-senza incorporea nel buio.

Il demone si portò alla luce, fissò con passione e interesse gli occhi gial-

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lastri di Delloreen, e un sorriso gli illuminò la faccia. Congiunse le mani in un segno inconfondibile di gioia.

«Ho visto pochissimi altri da quando sono qui» sussurrò. «Ma tu... vai al di là di tutte le mie più ardenti attese! Ma guardati, come sei bella! Tanta grazia e tanta forza!» La voce s'interruppe. «Ma cos'è questo? Hai cambia-to forma da poco, vero? Ci sono ancora tracce della tua forma umana, resi-dui visibili attraverso la nuova pelle che porti così bene. Ma solo tracce, e neppure tante. La tua origine è quasi del tutto scomparsa, eliminata con tutto il suo peso e la sua debolezza. Sì. Meglio essere quello che sei tu, an-ziché quello che sono io, intrappolato in una forma tanto disgustosa.»

Delloreen si sarebbe messa a fare le fusa, se ne fosse stata capace, ma si accontentò di un brontolio di gioia. L'altro demone aveva destato qualcosa dentro di lei, un bisogno che non aveva mai conosciuto, una lacuna mai colmata. Per questo l'aveva cercato, capì ora. Quel demone era una parte che a lei mancava. In modo incomprensibile, adesso che l'aveva trovato si sentiva completa.

«Tenera...» le sussurrò, tendendo le dita. Con stupore, Delloreen si ac-corse di strisciare il muso contro la sua mano. E con stupore si accorse di provare piacere a quel contatto.

«Da dove vieni?» La mano si ritrasse, senza intenzione di soffermarsi, e Delloreen sentì con dolore la mancanza di qualcosa. «Dai la caccia al Ca-valiere del Verbo e al Tatterdemalion, vero? Cos'hanno fatto per meritare una ricerca così assidua? Hai fatto molta strada, lo vedo. Li hai inseguiti. Hai combattuto contro il Cavaliere?»

Delloreen emise un uggiolio, un suono basso e aspro. «Ah, più di una volta, a quanto pare. Prima di essere come sei adesso,

quando non eri tanto magnifica. La tua trasformazione è troppo recente per risalire a più di qualche giorno fa, ma adesso sei molto più forte e questa volta, quando troverai il Cavaliere del Verbo...»

La voce s'interruppe, ma il sottinteso era inequivocabile. Delloreen lo vedeva nella propria mente, immaginava di straziare la carne della sua preda, di spezzarne le ossa tra i denti. Udiva il rumore delle ossa frantuma-te e le grida di terrore.

«Ma per ora» disse l'altro demone, interrompendo quel filo di pensieri «devi venire con me. Se ti vedono ti daranno la caccia e ti distruggeranno. Non sono in grado di farlo da soli, ma se si uniscono sono troppi. Io lo so. Sono nascosto qui da anni - una persona importante tra loro, ma assai più di quello che suppongono - e ho imparato a fare attenzione.»

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Il demone le posò una mano sulla testa, un gesto delicato e gentile che cessò troppo in fretta e lasciò il segno.

«Ci nasconderemo in attesa del momento giusto. Non ci vorrà molto, mia bellissima. Il Cavaliere del Verbo e la sua compagna di Faerie sono un pericolo che dobbiamo eliminare. I miei piani per gli Elfi e il loro amato albero e tutto il resto che a loro pare tanto importante si stanno realizzando come ho preventivato, coloro che intendono denunciarci saranno i nostri complici involontari. Entro un ciclo della luna li avremo cancellati tutti.»

Delloreen ringhiò piano per indicare il suo piacere e per comunicargli il suo desiderio.

«Sì, puoi uccidere il Cavaliere. Puoi ucciderli tutti, quando avrò finito di servirmene. Le uccisioni appartengono a te, sono il tuo campo e il tuo di-ritto. Le loro morti sono tue. Ma non adesso, non ancora. Dobbiamo atten-dere quando avranno cessato di esserci utili.»

La brezza della notte soffiò sul fianco coperto di scaglie di Delloreen, che si sentì fremere tutta. Per quel demone era disposta a pazientare, lei era un cacciatore, e tutti i cacciatori capiscono la pazienza. Se quel demone le avesse chiesto di aspettare, lei avrebbe aspettato.

Non capiva il fascino che esercitava su di lei, e perché fosse così ansiosa di fare quello che le chiedeva. Nelle sue mani c'era potere, più di quanto lei potesse percepirne. Superava quello del vecchio demone che si era lasciata alle spalle e di cui non ricordava più il nome, e neppure la faccia.

Il potere fisico, lei lo possedeva e spettava a lei impiegarlo, ma quel di-verso potere aveva uno strano fascino. Lei desiderava essere alla sua pre-senza, crogiolarsi alla sua luce.

«Vieni, adesso» le sussurrò l'altro demone. «Dormiamo, hai fatto un mucchio di strada e sei stanca. Il riposo ti renderà ancora più forte, ancora più formidabile. Ho un posto dove saremo al sicuro, dove potremo stare insieme.» La sfiorò ancora, questa volta più a lungo. «Ho molte cose da condividere con te, bella. Ti aspettavo da molto tempo.»

Delloreen non riusciva a capire cosa significasse, ma era abbastanza se-dotta da non curarsene. Era uno dei suoi, un demone, una creatura del Vuoto.

Lo seguì con gioia.

11 «Non m'interessa se l'hai giudicato troppo rischioso! Dovevi tornare in-

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dietro per venire a chiamarmi!» continuava a protestare Erisha. Aveva la faccia così vicina a quella di Kirisin da fargli sentire il suo respiro sul col-lo. «Quante volte devo ripeterlo?»

Erano inginocchiati l'uno accanto all'altra nei giardini e lavoravano su una bordura di castellana, una piantina dalle foglie verde pallido e dai fiori rosa brillante che teneva lontane le erbacce infestanti ed era molto resisten-te ai parassiti. Larghi bordi di quelle piante formavano un perimetro protet-tivo attorno all'Ellcrys, ma occorreva pulirle e sostituirle con regolarità.

Kirisin annuì, rassegnato. Erisha gliel'aveva ripetuto per tutta la mattina. «Ti ho detto che mi dispiace e mi dispiace davvero. Pensavo che fosse me-glio aspettare fino a oggi, la scorsa notte non si poteva fare altro.»

«Hai pensato soltanto a te!» Lui la guardò a lungo, con serietà. «Sai che non è vero.» Per un istante Erisha tacque, poi sospirò. «Hai ragione. Non è vero. Me

la prendo con te senza un buon motivo. Era meglio aspettare. Soltanto, o-dio essere lasciata all'oscuro.»

Kirisin la capiva. Anche lui odiava essere tenuto all'oscuro, cosa che succedeva assai più spesso di quanto gli piacesse, soprattutto perché, con il suo atteggiamento un po' scostante, non invitava al dialogo. Gli sarebbe piaciuto godere di più delle confidenze altrui, ma non faceva amicizia fa-cilmente. Se ne era sempre stato per conto suo, isolandosi di conseguenza dagli altri elfi.

«Quando verremo a sapere qualcosa da Culph, secondo te?» chiese per cambiare discorso.

Lei si strinse nelle spalle. «Doveva aspettare di rimanere solo, per con-trollare sugli elenchi delle genealogie, ma non aveva idea del momento a-datto. Deve farlo quando mio padre è occupato. Mio padre gli ha ordinato ulteriori ricerche sulle Pietre Magiche, e lui non può permettersi di essere sorpreso a fare dell'altro.»

Guardò Kirisin, con aria speranzosa. «Forse mio padre ha cambiato idea. Voglio dire, se ha chiesto a Culph di fare altre ricerche sulle Pietre Magi-che, forse ha deciso di aiutarci.»

Kirisin la pensava diversamente, ma le rivolse un cenno affermativo. «Forse.»

«Comunque, per il momento non possiamo fare altro che aspettare fin-ché Culph non avrà scoperto le informazioni che ci servono.»

Erisha era andata a cercare il vecchio quella mattina presto, poco dopo essersi incontrata con Kirisin all'alba e aver saputo i particolari di ciò che

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era successo dopo che lei era andata a letto. Lasciando agli altri Prescelti il compito di lavorare nel giardino, dopo i saluti era scomparsa, per tornare qualche tempo più tardi e sussurrare a Kirisin di aver parlato con Culph, il quale avrebbe fatto il possibile per scoprire il nome di Pancea prima di sposarsi.

Kirisin tornò a occuparsi della castellana, eliminando le piante secche e ripulendo da muffe e insetti quelle vive. Lavorava veloce e con sicurezza, non riteneva quel compito né noioso né difficile. Per un attimo pensò a quanto si trovava a proprio agio con le piante di ogni tipo, gli veniva pro-prio naturale prendersene cura. Era una dote di tutti gli Elfi, ma nel suo ca-so era qualcosa di più. Lui era convinto di sapere sempre con esattezza che cosa era necessario e come era meglio farlo. Gli pareva di capire cosa sen-tiva la pianta, quasi che arrivasse a una comunicazione senza dover usare le parole.

Che fosse un residuo dell'antica magia? Aveva forse ereditato un po' di ciò che gli Elfi avevano perso nel corso dei secoli? L'idea gli piaceva: trat-tenere in sé qualcosa del passato, che un tempo era tanto importante e a-desso poco più di un mito. Già altre volte si era domandato se le sue doti non fossero un retaggio di Faerie. Dopo che Angela lo aveva interrogato la notte precedente e aveva voluto sapere se, in quanto Prescelto, non posse-deva neppure un po' di magia, era tornato a chiedersi se non fosse davvero così.

Quel giorno il sole era caldo, l'aria tiepida e pervasa dell'odore dei fiori e delle conifere, e tutto questo pareva volerlo rassicurare sulla stabilità della sua vita e della sua casa. Ma Kirisin sapeva che erano messaggi fuorvianti e inattendibili, un trucco dei sensi che poteva essere spazzato via in un at-timo, se il corso delle cose non fosse cambiato presto.

«Com'è il Tatterdemalion?» gli chiese Erisha, a bassa voce e senza guar-darlo, mentre si occupava con attenzione della castellana e in apparenza non pensava ad altro.

Kirisin rifletté per un istante sulla domanda. «Effimera» rispose infine. «Sembra che da un momento all'altro possa essere spazzata via da un forte soffio di vento. Per gran parte del tempo puoi vedere attraverso di lei, co-me se fosse trasparente. Parla e si muove come noi, ma non credo che in lei ci sia la stessa sostanza che c'è in noi.» S'interruppe, poi aggiunse: «In lei c'è qualcosa di molto triste».

«Forse sente la mancanza della sua casa.» Erisha lo guardò. «E il Cava-liere? Mi sembra molto giovane.»

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«Ma è resistente» disse subito Kirisin. «Molto più forte di quello che sembra. Non vorrei essere costretto a lottare con lei. Sembra solo una ra-gazzina, ma è molto di più. Il bastone che porta è infuso della magia del Verbo. Quelle rune... non ho mai visto niente del genere.»

Erisha annuì. «Culph dice che i bastoni sono il simbolo del loro ordine. Nessuno sa da dove vengano, ma tutti i Cavalieri li portano sempre con sé, fino al giorno della morte. Gli ho chiesto che poteri hanno, ma Culph non lo sapeva. Dice che un Cavaliere del Verbo è molto potente, e non c'è qua-si nulla che possa resistergli.»

«Forse un demone.» Kirisin la fissò. «Forse alcuni dei mostri creati da loro.»

Erisha annuì, con espressione seria. «Forse, e spero di non doverlo sco-prire.»

Ripresero il lavoro e da allora in poi si scambiarono poche parole. Era ormai mezzogiorno e stavano mangiando quando comparve Culph, che fe-ce loro segno di allontanarsi dagli altri. Kirisin si accorse che Biat lo fissa-va intensamente mentre si alzava e si allontanava.

Ormai Biat lo teneva d'occhio di continuo, sospettando che dietro l'im-provvisa, evidente riconciliazione con Erisha, ci fosse qualcosa che non avevano comunicato a nessuno. Kirisin si era chiesto varie volte se avreb-be dovuto confidarsi con l'amico, ma non sapeva cosa dirgli e di conse-guenza era rimasto zitto.

«Ho trovato quello che cercate» disse loro il vecchio, quando furono lontano da orecchi indiscreti, nascosti in mezzo agli alberi della foresta. Era stanco e trafelato, aveva la barba e i capelli in disordine e la faccia lu-cida di sudore.

«Il suo cognome da ragazza era Gotrin. Una famiglia antichissima che occupa parecchi millenni negli elenchi delle genealogie. Ma si è estinta molto tempo fa. Un tempo erano più potenti dei Cruer. Nel periodo in cui le due famiglie coesistevano, hanno avuto numerosi re e regine. Pancea ha lasciato un'erede, ma nelle genealogie non se ne parla più dopo la morte della madre. Quella figlia era l'unica parente stretta sopravvissuta. Non ho trovato nulla sul rapporto tra Pancea e la famiglia del marito, ma potrebbe non averli considerati suoi pari e aver scelto di farsi seppellire con i Go-trin.»

Ansimava ancora quando terminò di parlare. Si lisciò la barba e si umet-tò le labbra. «Sono stato costretto a correre. Il re tornerà da un momento all'altro.» Rivolse ai due giovani un'occhiata interrogativa. «Cosa intendete

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fare?» «Tornare a cercare quella tomba» rispose Erisha. «Puoi aiutarci?» Il vecchio scosse la testa. «In questo momento non posso fare niente,

tranne quello che mi ordina tuo padre. Non so quando sarò libero. Non per un paio di giorni, temo. Dovrete fare a meno di me.»

Kirisin storse le labbra, contrariato, poi disse: «Mi spiace. Comunque, possiamo farci aiutare da mia sorella».

«Anche il Cavaliere del Verbo e il Tatterdemalion hanno promesso il lo-ro aiuto» aggiunse subito Erisha.

Culph aggrottò la fronte. «È un bel po' di gente. Così in tanti, è facile es-sere notati. Se dovesse succedere, il Cavaliere e la creatura di Faerie non possono passare per qualcosa di diverso da quello che sono, e questo met-terebbe fine a tutte le vostre ricerche.»

«Andremo di notte» disse Erisha. «Uno di noi monterà la guardia mentre gli altri si metteranno alla ricerca.»

Il vecchio scosse la testa. «Se ci andrete di notte, avrete bisogno di una luce per leggere le iscrizioni. Tanto varrebbe dare fuoco alla foresta e met-tersi a battere sul tamburo!»

«Non avremo bisogno di luce» disse Kirisin, interrompendoli. «La luna è quasi piena. A meno che non giungano delle nuvole, dovremmo avere luce a sufficienza. Ci basta trovare la zona del cimitero riservata ai Gotrin, poi sarà solo questione di cercare tra le iscrizioni delle lapidi.»

«A parole sembra facile» obiettò Culph «ma non lo sarà. Lo sai anche tu.»

Erisha lo guardò irritata. «Non mi pare che ci rimanga molta scelta, se vogliamo trovare le Pietre Magiche.»

Il vecchio bibliotecario scosse la testa. «Alcuni dei Gotrin praticavano le arti magiche, erano maghi e streghe potentissimi. Sono fatti che risalgono a molto tempo addietro, ma sono veri. Le rune che accompagnano il loro nome nelle genealogie indicano coloro che possedevano la magia.» Fissò Erisha negli occhi. «Pancea era una di loro. Era una strega.»

Erisha rimase in silenzio per un istante, poi si strinse nelle spalle. «Come hai detto tu, è passato moltissimo tempo. Adesso è morta, e la sua magia è morta con lei.»

Il vecchio la guardò con espressione di biasimo. «La magia, ragazzina, non invecchia e non svanisce. Si nasconde e attende.»

Per qualche istante, Kirisin ed Erisha lo fissarono a bocca aperta. «Vuoi dire che nelle tombe potremmo incontrare qualcosa di pericoloso?» chiese

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infine lei. «Può darsi. È meglio tenerlo presente. Dovrai tenere gli occhi bene aper-

ti, giovane Belloruus.» Lo fissò e per un momento Kirisin ebbe l'impres-sione che Culph gli volesse dire qualcosa di assai lontano dai discorsi di poco prima.

Poi il vecchio distolse lo sguardo. «Devo andare. Ricordate quello che ho detto. Tutt'e due. Fate attenzione.»

«È meglio che faccia attenzione tu!» ribatté Erisha, prendendogli un braccio per impedirgli di allontanarsi. «Ailie ha detto che c'era un demone nella sala del Consiglio, la scorsa notte. Uno degli Elfi!»

Culph la fissò per un istante. Poi scosse in fretta la testa. «Non è possibi-le. Un demone? Si dev'essere sbagliata.»

«Lei dice di no. Dice che se potesse controllarli a uno a uno, saprebbe chi è.» Lo fissò ancora un momento, adirata, poi gli lasciò il braccio e fece un passo indietro. «Potrebbe essere chiunque. Potrebbe essere mio padre.»

Quell'ultima ammissione le era costata molto. Kirisin glielo lesse in fac-cia. Culph dava l'impressione di voler rispondere, sul suo viso rugoso comparve una smorfia. Poi si limitò a fare un cenno della testa e a incam-minasi. «Magari sì, magari no. Il mondo è pieno di demoni di tutti i tipi. Meglio preoccuparsi di quelli che abbiamo davanti e lasciar perdere gli al-tri, tutti quanti.» Si allontanò. «Fatemi poi sapere cosa trovate.»

Scomparve in mezzo agli alberi, lasciando soli Kirisin ed Erisha. Mentre lo guardavano andar via, i due ragazzi si chiedevano se la loro decisione non era un errore di cui, in seguito, si sarebbero pentiti.

La mezzanotte sopraggiunse nell'oscurità della foresta come un fantasma

a caccia di vittime, una creatura silenziosa e guardinga, e la piccola com-pagnia di cospiratori le tenne dietro.

Simralin era in testa al gruppetto e si serviva delle sue doti di cercatore di piste per guidarli. Kirisin le stava accanto, rassicurato dalla sua forte presenza. Erisha era la terza della fila, poi venivano Angela e Ailie.

La luce della luna, non ostacolata da nubi o dalla foschia del sottobosco, illuminava il loro cammino e in poco tempo riuscirono ad attraversare la foresta del Cintra e ad allontanarsi da Arborlon senza bisogno di luce arti-ficiale, proprio come aveva sperato Kirisin.

Si erano dati appuntamento a casa di Kirisin e Simralin, la scelta più si-cura, adesso che i genitori erano assenti. Angela e Ailie erano venute da sole, allontanandosi senza difficoltà dalla loro abitazione e sfuggendo ai

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custodi invisibili. Erisha aveva incontrato qualche problema con le guardie di servizio at-

torno al palazzo reale e al suo interno, ma Culph le aveva indicato un altro passaggio segreto, che portava a una botola nel retro di un vecchio fienile, dietro il palazzo stesso. Avevano atteso fino a poco prima di mezzanotte, quando gran parte della città ormai dormiva, in modo da ridurre il rischio di essere visti mentre si dirigevano all'Ashenell.

«Nessuno parli finché non saremo arrivati» li aveva avvertiti Simralin. Poi aveva aggiunto, in modo da essere sentita solo dal fratello: «Mi au-

guro che tu sappia quello che fai, Piccolo K». Lui, naturalmente, non lo sapeva. Almeno, non del tutto. Dovevano en-

trare nell'Ashenell, trovare la sepoltura di famiglia dei Gotrin, cercare la lapide di Pancea Rolt e poi decidere se scavare subito per estrarre i suoi re-sti o aspettare la luce del giorno.

Come giungere a quell'ultima decisione, Kirisin non avrebbe saputo dir-lo. Sapeva solo che, in un modo o nell'altro, dovevano scoprire se la regina aveva portato con sé nella tomba le Pietre Magiche come diceva il diario del suo confidente.

Se però non avessero trovato la sua tomba, Kirisin non sapeva che fare. Il vento della notte che gli colpiva la faccia era gelido. Veniva dalle ci-

me dei monti, di tanto in tanto soffiava più forte, e portava con sé il freddo del permafrost, quel poco che restava, e della neve che resisteva ancora, qui e là.

Non ne rimaneva molta, di neve. Si era sciolta in seguito al cambiamen-to del clima e alla distruzione dell'ambiente. Una volta c'erano enormi ban-chine polari sulla cima e ai piedi del mondo. Ma continuavano a rimpicco-lire. I mari si erano alzati e i bassopiani e le coste erano invasi dalle acque ormai da anni. La pioggia era diminuita con le mutazioni climatiche, l'ero-sione aveva scavato nuovi canali che avevano modificato gran parte della linea costiera.

Migliaia di specie animali erano morte per la fame e l'incapacità di adat-tarsi a quei cambiamenti radicali. L'aveva detto nel modo migliore sua so-rella, al ritorno da una delle sue spedizioni.

«Il mondo non è più lo stesso, Piccolo K» gli aveva detto «e io non sono certa che possa tornare come quello di prima.»

Fino a quel momento, Kirisin non si era mai lasciato preoccupare dalla cosa, al sicuro nel rifugio del Cintra, celato agli umani e alle loro follie in quella piccola parte di mondo. Ma pensando adesso a dove potevano con-

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durlo le Pietre Magiche, una volta che le avesse portate alla luce, si chie-deva cos'avrebbe trovato.

Se accettava che sia l'Ellcrys sia Angela Perez avevano detto la verità e che le parole di Simralin corrispondevano alla realtà, com'era stato ridotto il mondo, se correva il rischio della distruzione?

«Piantala di perdere tempo!» gli sussurrò Erisha all'orecchio. Si accorse di essere rimasto indietro. Senza parlare, si affrettò a raggiun-

gere la sorella, arrossendo per la vergogna. Giunsero all'Ashenell senza incontrare nessuno. La luna era ormai bassa

nel cielo, ma non così bassa da non permettere di vedere chiaramente. Il cimitero era enorme, una successione di colline coperte di foreste. Non era recintato e non c'erano cancellate, ma il muro di alberi e l'elevazione del terreno costituivano una barriera naturale per coloro che rischiavano di ar-rivarvi per caso. I cespugli erano rimasti al loro posto, erano stati piantati piccoli alberi, le colline non erano state disturbate. Sottili ontani coperti di rampicanti, fatti crescere in modo da formare archi di fronde, corrisponde-vano agli ingressi orientali e occidentali. I sentieri che portavano all'inter-no del cimitero iniziavano di lì.

Kirisin e i suoi compagni raggiunsero la porta ovest, dove le ombre era-no più dense.

«Uno di noi deve rimanere qui di sentinella» disse Simralin a bassa vo-ce, facendo segno ai compagni di avvicinarsi. «Forse è meglio che resti io. Conosco quasi tutte le guardie e posso convincerle a non intervenire.»

Ma Ailie allungò la mano e le sfiorò un braccio, con dita simili a piume. «Meglio che rimanga io. Riesco a nascondermi a qualsiasi elfo, e in caso di pericolo posso venire più in fretta ad avvisarvi, e senza fare rumore.»

Gli altri quattro si scambiarono un'occhiata, poi Angela disse: «Ailie ha ragione. Meglio che rimanga lei».

Diedero un'occhiata attorno per assicurarsi di essere soli, poi, lasciando Ailie in un nascondiglio all'ombra degli alberi, entrarono nell'Ashenell. Ki-risin sì guardò ancora alle spalle e scorse la figura del Tatterdemalion, una debole macchia di luce tra gli alberi illuminati dalla luna, poi proseguì e non si voltò più indietro.

Erisha passò davanti ai compagni muovendosi veloce in mezzo ai gruppi di lapidi per dirigersi alla parte centrale del cimitero, la zona più antica. La luce lunare filtrava attraverso i rami degli alberi sotto forma di raggi sottili che foravano le ombre e trafiggevano il terreno. In alcuni punti la luce spa-riva del tutto, ma per lo più riuscivano a muoversi senza difficoltà. Gli uc-

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celli notturni lanciavano i loro isolati richiami nel silenzio pressoché totale e le ombre dei gufi che volavano da un albero all'altro sembravano altret-tanti spettri.

Kirisin cercava di vincere il senso di attesa che si accumulava dentro di lui onda dopo onda. Non aveva paura... almeno per ora. Ma la paura si na-scondeva appena sotto la pelle, una presenza che poteva affiorare in un i-stante. Era sulle spine, temeva per sé e per gli altri. Bisognava stare molto attenti, si disse, non dovevano commettere errori.

Dalla zona delle piccole tombe erano intanto passati a una foresta di se-polcreti, cripte e mausolei, sepolture fuori terra, tozze moli in mezzo agli alberi alti e secolari. Sulle massicce porte di pietra e sugli architravi appa-rivano rune profondamente incise e figure di animali sconosciuti.

Quelle tombe erano antiche, così antiche che alcune delle loro date si ri-ferivano a epoche che precedevano l'avvento dell'uomo. Parecchie scritte erano in elfico antico, altre in grafie completamente irriconoscibili.

Le tombe sembravano giganti di pietra, mostri addormentati in attesa del risveglio. Kirisin guardò la sorella, che sembrava non far caso ai sepolcri e aveva la faccia serena e i movimenti rilassati mentre camminava davanti a lui. Era sempre stata così, controllata, sicura di sé, doti che avevano sem-pre portato Kirisin a invidiarla.

Erisha aveva raggiunto una parte dell'Ashenell dominata da un enorme mausoleo di pietra, che faceva scomparire con la sua mole le cripte e i se-polcri che lo circondavano. I nomi sulle tombe erano incisi nelle stesse let-tere maiuscole: Gotrin.

I tre elfi e il Cavaliere si allargarono a ventaglio per coprire tutto il ter-reno possibile e continuarono a passare accanto alle lapidi per leggerne nomi e date, nella speranza di trovare accenni a Pancea Rolt Gotrin. Sol-tanto dopo avere esaminato tutte le tombe, quando stavano ricominciando, Kirisin, attratto dalla complessità delle sculture sul grande mausoleo, notò uno strano simbolo, isolato al centro di un pannello liscio, su un lato della costruzione.

Lo fissò per un momento, chiedendosi di cosa si trattasse. Stava per pro-seguire, ma volle dare un'ultima occhiata al fregio e improvvisamente lo riconobbe.

Il simbolo, a guardare con attenzione, era decifrabile. Era costituito da tre lettere, l'una sull'altra. Le lettere PRG, ossia le iniziali di Pancea Rolt Gotrin.

«Erisha!» chiamò.

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Sentendosi chiamare, la giovane corse a raggiungerlo, e quando Kirisin le mostrò il simbolo e le indicò le tre lettere, anche lei le riconobbe e an-nuì.

«Perché si trova qui?» gli chiese. Kirisin scosse la testa. «Non lo so.» Intanto anche Simralin e Angela li avevano raggiunti e Kirisin rivelò lo-

ro la sua scoperta. Simralin annuì e spiegò ad Angela la natura del simbolo. Il Cavaliere del

Verbo si passò una mano tra i capelli cortissimi e aggrottò la fronte. «È la sua tomba?» chiese.

«Non dice questo» rispose Simralin. «È un mausoleo di famiglia con i resti di decine di Gotrin di rango inferiore. Una regina dovrebbe avere una sua tomba, separata dalle altre.»

Tornarono ad allargarsi e controllarono di nuovo i sepolcri che si trova-vano nel raggio di una ventina di passi.

Non scoprirono riferimenti a Pancea. Quando fecero ritorno davanti al fregio, presero a parlare a bassa voce, con cautela, anche se la notte era il loro unico testimone mentre cercavano di risolvere il mistero.

«È un simbolo» suggerì Kirisin «ma potrebbe essere anche qualcosa d'altro.»

«Che specie di "altro"?» chiese la sorella, avvicinandosi per osservarlo meglio. «Sembra una normale incisione su pietra.»

«Forse lo è davvero, ma non ne sono sicuro...» Passò le mani sulla superficie, seguendo le lettere, poi iniziò a premerle

per vedere se c'era qualche pezzo mobile, provò a spingere i rilievi, a cer-care di ruotarli e di spostarli. Infine tornò a scuotere la testa.

«È qualcosa d'altro» ripeté, con un mormorio che era quasi una doman-da.

«Qualche altro significato, oltre a quello suggerito dalle lettere?» chiese Erisha. «Potrebbero voler dire un'altra cosa, e non solo l'iniziale del no-me?»

Kirisin era tornato a guardarsi attorno, studiava le altre tombe, i rami frondosi che le circondavano, il terreno coperto di rami, foglie e pezzi di corteccia. Che gli fosse sfuggito qualche particolare?

Poi si fece avanti Angela Perez. «Aspettate un momento. Dicevate che Pancea praticava la magia e probabilmente era una strega. Forse ha previ-sto proprio questo. Forse occorre la magia per evocare la magia.»

Appoggiò la punta del bastone contro il simbolo dei Gotrin e corrugò la

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fronte per la concentrazione. Le rune incise sul legno si accesero, divenne-ro intensamente luminose. Quasi in risposta, anche il simbolo reagì e iniziò a brillare.

Un attimo più tardi, un profondo scricchiolio ruppe il silenzio della not-te: il rumore della pietra che striscia sulla pietra. Un'intera sezione del sen-tiero, a pochi passi da loro, cominciò a muoversi. Una grossa lastra di pie-tra, nascosta sotto strati di terra e di sterpi, ruotò su se stessa e scomparve lasciando un foro nel terreno.

I quattro si portarono fino all'orlo dell'apertura e vi guardarono dentro. La cavità era nera come la pece, ma si vedeva l'inizio di una scala che por-tava verso il basso.

«Cosa facciamo, adesso?» chiese Simralin. Angela Perez scosse la testa. Le rune del suo bastone si erano spente. E-

risha fece per dire qualcosa, poi s'interruppe. Fu Kirisin a dire quello che gli altri non osavano suggerire. «Scendiamo» rispose. Alla porta occidentale del cimitero, nascosta nell'ombra degli alberi, Ai-

lie colse all'improvviso puzza di demone. L'odore era portato dal vento notturno, veniva da nord, dal sentiero che correva lungo il confine dell'A-shenell. Un istante più tardi, vide uscire dal buio una forma lunga e musco-losa, che superò con un balzo l'argine di terra e sparì senza far rumore al-l'interno del cimitero. Il Tatterdemalion la riconobbe subito. Era la creatura che li aveva seguiti fin dalla California, che aveva lottato due volte con Angela e per due volte era stata respinta.

E adesso eccola di nuovo. Ailie non si stupì di incontrarla. Era un abile cacciatore, una bestia fero-

ce che sarebbe riuscita a seguire le tracce di chiunque e di qualunque cosa. La stupiva piuttosto il momento della sua comparsa. Com'era riuscita tro-varli proprio ora, nel bel mezzo della notte?

In quell'arrivo c'era qualcosa di strano. Ailie vide la bestia scivolare in mezzo alle tombe, fiutare il terreno, voltare da una parte all'altra la grossa testa alla ricerca di nuove scie. Non si preoccupava di essere scoperta. I Tatterdemalion non lasciavano odore e lei era molto più veloce e sfuggente del demone. Poteva volar via dal suo nascondiglio in qualunque momento. Ma era incuriosita. La bestia simile a un lupo doveva avere in mente qual-che piano, ma i suoi vagabondaggi in mezzo alle tombe sembravano privi di qualunque scopo.

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Era ancora intenta a osservare, quando si accorse di una seconda presen-za, molto più forte e più vicina, che si avvicinava da dietro. Le bastò un momento per ricordare che c'era anche un altro demone, quello della Sala del Consiglio, quello travestito da elfo. Ebbe il tempo di un solo pensiero.

Scappa! Poi non ci fu più tempo per nulla. Delloreen raggiunse in silenzio il punto in cui i resti della creatura di Fa-

erie stavano già scomparendo, riassorbiti dalla terra che l'aveva creata con la sua magia, e lasciavano come unica traccia il sottile vestitino bianco che aveva indossato. Delloreen leccò il tessuto, sentì il sapore di cui era intriso, poi diede un'occhiata al punto dove il secondo demone si strofinava le ma-ni sull'erba del cimitero.

«Ricorda quello che ti ho detto» le rammentò, continuando a ripulirsi meticolosamente dei resti di Ailie. «Abbiamo un piano e dobbiamo rispet-tarlo. Uccidi solo quella persona. Le altre, lasciale per dopo. Te ne ricorde-rai?»

Delloreen spalancò la bocca e gli mostrò una lunga fila di zanne acumi-nate. Era in grado di ricordare tutto quello che bisognava ricordare.

Con la testa incassata tra le spalle, il corpo abbassato fin quasi a sfiorare il terreno, scivolò verso le ombre all'interno del cimitero e verso la sua preda inconsapevole.

12

Mentre Kirisin e le sue compagne scrutavano nel foro cieco messo allo

scoperto dall'apertura della lastra di pietra, due cose accaddero in rapida successione.

Quasi subito, le torce infilate negli anelli di ferro che si susseguivano a distanza regolare si accesero, rivelando come i gradini scendessero così in profondità nel sottosuolo da non permettere di distinguere la fine della sca-la.

Quando gli elfi e il Cavaliere cominciarono la lenta discesa, lasciandosi l'Ashenell alle spalle, la lastra di pietra tornò al suo posto, con un nuovo stridere di pietra su pietra che li bloccò sui loro passi. Non ebbero il tempo di tornare indietro, nessuna possibilità di fuga. La lastra chiuse di nuovo il foro nascondendo il cielo notturno, e i quattro visitatori si trovarono impri-gionati sottoterra.

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«Mi piace poco» disse Simralin. «Non si vuole che torniamo indietro» commentò Angela. «Questo sem-

bra chiaro.» Si scambiarono un'occhiata, poi, come di comune accordo e senza biso-

gno di parole, ripresero a muoversi. Inizialmente Kirisin era sceso per pri-mo, ma Simralin si affrettò a passargli davanti, con un'occhiata d'avverti-mento. "Se dovesse esserci qualche problema" pareva dirgli con quello sguardo "è meglio che me ne occupi io."

Kirisin trovava difficile discutere una simile decisione e lasciò passare la sorella mettendosi accanto a Erisha. Pensava che non avevano portato nemmeno un'arma con cui difendersi, o quasi.

«Meglio rimanere vicini» commentò Angela, dietro i due ragazzi. Kirisin le lanciò un'occhiata. Le rune del suo bastone si erano di nuovo

accese e pulsavano di una leggera luminescenza. Il Cavaliere del Verbo aveva un'espressione profondamente concentrata e scrutava intorno a loro mentre scendeva. I suoi passi non facevano alcun rumore nel silenzio pres-soché totale della tomba.

"Forse" pensò Kirisin "in compagnia del Cavaliere non abbiamo bisogno di altre difese."

Ascoltò il suono del suo stesso respiro, che gli parve il rumore più forte in tutto il pozzo delle scale. Cercò di respirare più piano, ma non ci riuscì. Il battito del cuore gli giungeva all'orecchio come una pulsazione profonda e accelerata, ma non riuscì a calmare neanche quella.

A mano a mano che scendevano, l'aria divenne via via più fredda e l'o-dore passò da quello del bosco nella stagione asciutta a quello della roccia umida e delle foglie fradice di pioggia. Da qualche punto ancora più in basso giungeva il suono di gocce d'acqua che cadevano. A Kirisin tornaro-no in mente le caverne che esplorava quando era più piccolo e le tombe durante i funerali sotto la pioggia.

La scala scese a lungo per terminare infine in uno stretto corridoio che dava accesso a quella che sembrava una successione di grotte naturali. Il percorso continuava a essere segnato da torce accese, piccoli punti di luce tremolante che venivano presto inghiottiti dal buio. I quattro continuavano a procedere con cautela, tendendo l'orecchio nel silenzio che circondava il debole fruscio del loro respiro e dei loro passi. Avevano tutti i sensi in al-lerta e la sensazione di attesa era sempre più forte.

C'era qualcosa in quel sotterraneo, qualcosa che li aspettava a partire dal momento in cui avevano preso la decisione di entrare. La domanda a cui

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non avevano ancora risposto, quella che alimentava i loro dubbi e le loro paure, era: si dimostrerà pericolosa?

All'improvviso, Simralin alzò la mano per indicare di fermarsi. «Aspet-tate.»

Tutti si arrestarono e tornarono a tendere l'orecchio. Dopo un istante riu-scirono a distinguere un suono, molto debole, che proveniva dalla grotta davanti a loro, come un sussurro o un lieve sibilo.

Kirisin non riuscì a riconoscerne l'origine. D'istinto, per motivi che non sarebbe riuscito a spiegare, sapeva che era un avvertimento, ma non sapeva da cosa lo volesse mettere in guardia.

Simralin rimase ferma ancora per qualche istante, si girò verso i compa-gni per assicurarsi che anch'essi avessero udito lo strano rumore, poi ripre-se il cammino. Dopo breve tempo il passaggio fece una brusca curva a si-nistra, per poi riprendere la direzione precedente, e cominciò ad allargarsi, verso l'alto e ai lati.

Comparvero le prime stalattiti, inizialmente sottili e poi abbastanza grandi da giganteggiare rispetto ai quattro visitatori, immense punte di lan-cia fatte di pietra, da cui stillava acqua. Un'acqua gelida, notò Kirisin quando una goccia gli scivolò sulla faccia. Alzò lo sguardo e vide una fo-resta di coni di pietra, così fitta da coprire il soffitto.

Il passaggio terminava in una caverna dominata da una polla d'acqua ne-ra che riempiva un'ampia depressione al centro. La superficie era immobile come se non fosse fatta di liquido, ma di vetro opaco. La grotta stessa era così vasta che le sue pareti scomparivano nel buio, invisibili, a parte le po-che zone dove i puntini luminosi delle torce lottavano coraggiosamente contro l'oscurità dominante.

Ma ad attirare lo sguardo di tutti non furono né la grotta né la polla al centro: furono le cripte e i sepolcri di pietra scolpita che coprivano il pa-vimento. I più vicini avevano iscrizioni che si potevano leggere al chiarore delle torce. Alcuni recavano la lettera G. Altri il nome Gotrin.

Kirisin li fissò a bocca aperta. Quanti ce n'erano? Decine e decine, pare-va. Forse più di cento.

«Sono tutti sepolti qui» disse, pronunciando ad alta voce il pensiero che gli si era affacciato alla mente senza riflettere. «Coloro che sono vissuti al-l'epoca di Pancea sono sepolti qui. Le tombe in superficie non appartengo-no a loro.»

Non avrebbe saputo dire da dove gli veniva quella certezza. Semplice-mente, lo sapeva. Proseguì, inoltrandosi nel giardino di pietre, nella sua

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mente conosceva la strada verso la tomba che cercava. Gli pareva che la tomba stessa lo chiamasse, come se avesse una voce che soltanto lui pote-va udire. E di fronte a quel richiamo non aveva la forza di fermarsi.

Gli altri lo seguirono, guardandosi l'un l'altro stupiti, ma lasciando che andasse dove voleva.

Kirisin arrivò fin quasi alla polla e si fermò davanti a un blocco triango-lare di pietra. Incisi in alto, sulla parte corta e liscia, c'erano i tre caratteri PRG.

All'improvviso, Kirisin si rese conto che i sussurri che aveva udito giun-gevano di lì. Ma adesso il timbro del suono era cambiato e non sembrava più incomprensibile, ora si poteva distinguere una voce.

«È qui» disse agli altri. Aveva appena pronunciato quelle parole che le torce intorno a loro co-

minciano a tremolare e ad abbassarsi e la polla d'acqua nera prese a vorti-care. L'aria, immobile fino a un istante prima, prese a soffiare con violen-za, un vento improvviso che scendeva dal soffitto e spazzava il pavimento della grotta.

Per un attimo fu una raffica molto intensa, che costrinse i quattro visita-tori a piegarsi in avanti e ad abbassare la testa. Kirisin si rifugiò dietro la tomba di Pancea, con una mano si tenne alla pietra gelida, con l'altra si ri-parò la faccia.

«Kirisin...» lo chiamò Erisha. «Perché i viventi vengono a me?» La voce era bassa e aspra come ghiaia che scricchiola, ed echeggiò nella

caverna sulla scia del vento che si allontanava. Poi il silenzio tornò a re-gnare come prima, profondo e immutabile.

Quando sollevò la testa, Kirisin vide davanti a sé l'ombra di una vecchia. Era in piedi sulla tomba di Pancea e lui capì in un istante che era la regi-

na. Era minuta e appassita, con le spalle curve come se avesse dovuto por-tare un grande peso e la faccia così rugosa che sembrava cuoio raggrinzito dal tempo e dall'uso. Ma gli occhi con cui lo fissava, acuti e attenti, e la mano dalle unghie simili ad artigli con cui stringeva un bastone smentiva-no l'apparente fragilità.

Kirisin non aveva mai visto un'Ombra. Aveva sentito parlare di loro, ma aveva sempre ritenuto che fossero il prodotto di un'immaginazione troppo fervida. Adesso deglutì. Da quel giorno in poi l'avrebbe pensata diversa-mente.

La luce delle torce aveva smesso di tremolare, adesso attraversava la

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forma trasparente della vecchia con lo sfarfallio di un raggio luminoso che passa attraverso un prisma e l'immagine ondeggiava e si posava come neb-bia.

«Perché i vivi sono qui? Non è questo il loro posto.» L'Ombra ripeté la domanda e la sua voce raschiò e si avvolse attorno alle

parole, a lungo. I suoi occhi cambiarono colore. Da neri presero un minac-cioso colore verde.

«Non avevamo scelta» rispose Kirisin, sapendo di non potersi esimere dal rispondere. «Cerchiamo le Pietre Magiche, e in un diario abbiamo letto che si potevano trovare nella tomba di Pancea Rolt Cruer.»

La vecchia lo guardò senza parlare, senza fare una mossa. Kirisin attese un momento, poi chiese: «Sei tu? Sei Pancea Rolt Cruer?». «Sono la "regina" Pancea Rolt Gotrin. Mostrami rispetto.» «Chiedo scusa, maestà» si affrettò a rispondere il ragazzo. Pensò a cosa poteva dire. «Sono un Prescelto. E anche lei lo è.» Indicò

Erisha. Spiegò poi: «L'Ellcrys ci ha incaricato di cercare le Pietre. Una lotta ter-

ribile si sta svolgendo in superficie, i demoni e i loro alleati lottano contro gli Elfi e gli uomini. E i demoni stanno vincendo. L'Ellcrys dice che è in pericolo e che dobbiamo portarla via. Dice che dobbiamo usare le Pietre Magiche per trovare il Loden e racchiuderla al suo interno.»

S'interruppe per un istante, quindi indicò Angela. «Lei è un Cavaliere del Verbo, inviata ad avvertirci che il nostro mondo sarà distrutto. Il Verbo dice che gli Elfi devono lasciare il Cintra. Per farlo, dobbiamo prendere l'Ellcrys con noi, perciò siamo venuti qui, alla ricerca di un posto dove ini-ziare.»

«Volete iniziare dai morti il vostro viaggio? E la cosa non vi pare stra-na?» ribatté l'Ombra. «I morti non hanno nulla da offrire ai vivi. I morti appartengono al passato e non al presente. I morti non hanno pretese di oc-cuparsi di quel che sarà o di quel che è. I morti cercano solo di conservare quello che gli appartiene.»

Tese una mano e la puntò contro di loro, uno dopo l'altro. Quando la di-resse contro di lui, Kirisin si sentì trafiggere da una stilettata di rabbia ge-lida, scagliata dal cuore nero dell'Ombra.

«Voi siete penetrati abusivamente in un luogo che non vi appartiene. Avete posato i piedi su un terreno sacro e l'avete contaminato. La vostra arroganza è offensiva.»

Sollevò le mani e le mosse a sinistra e a destra, irradiando dalle punte

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delle dita bagliori simili a raggi. I raggi si spezzarono e si posarono sulle tombe che li circondavano, e quando toccavano una cripta, la illuminavano come un lampo.

Poi l'aria stessa brillò e le Ombre dei Gotrin morti uscirono dai loro luo-ghi di riposo e si sollevarono nell'aria. Bianche trasparenze spettrali, i con-torni dei loro visi e dei loro corpi erano come i riflessi della luce sull'ar-gento vivo. Il brusio del loro risveglio era una cacofonia di sibili non di-versa da quella che aveva accolto Kirisin e le sue compagne.

A una a una, tutte le Ombre dei Gotrin fecero la loro comparsa, Ombre di tutte le forme e di tutte le dimensioni, fantasmi sfuggiti alla pietra che ospitava le loro spoglie mortali.

Kirisin indietreggiò. Sentiva la minaccia implicita nella loro presenza, gelida e cupa come la collera che Pancea aveva proiettato dal proprio cuo-re. I morti non li volevano laggiù. I morti non volevano che i vivi entrasse-ro nel loro rifugio privato ed erano pronti a rivelare in modo inequivocabi-le cosa pensavano della loro intrusione.

«Siamo venuti perché siamo stati costretti a farlo!» ripeté accorato. «Vo-lete che tutti i viventi muoiano come voi? Pensate che sia sbagliato cercare di salvarli?»

Le Ombre dei Gotrin continuarono a scivolare avanti, galleggiando nel-l'aria gelida della caverna, stringendo il cerchio. Simralin era accanto al fratello adesso, e anche Angela ed Erisha si erano avvicinate. Con la coda dell'occhio intravide il bastone nero di Angela. Le rune ardevano di fuoco bianco.

«Se non ci aiuterete, tutti gli Elfi morranno!» insistette Kirisin. «I morti non si curano dei vivi e dei loro problemi.» La regina si sollevò dalla lastra della sua tomba e scese sul pavimento.

Era una donna minuta, ma Kirisin sentiva distintamente il potere che si ir-radiava in fredde ondate dalla sua forma eterea.

«Allontanati da lei, Kirisin» gli ordinò la sorella. «Torna indietro subi-to!»

Poiché il giovane non si muoveva, lo afferrò per un braccio e lo tirò ver-so di sé. Ma l'ombra di Pancea Rolt Gotrin continuò ad avanzare, lenta e inesorabile, nel buio tra di loro.

«E la magia, allora?» chiese Kirisin, ormai alla disperazione. «La magia che hai cercato di salvare? Se gli Elfi morranno, anche la magia morrà!»

«La magia non può morire, la magia vive anche al di là della morte.» «No, se non rimarrà nessuno a usarla! Senza i viventi, non può né cre-

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scere né cambiare! Non può evolvere in nuove forme. Rimane statica e dormiente! E alla fine si indebolirà per mancanza d'uso e sparirà!»

Si rendeva a malapena conto di quello che diceva. Agiva d'istinto, nella speranza di veder reagire l'ombra. Non sapeva quali fossero le parole giu-ste. Sapeva solo di dover trovare il modo di arrivare a lei. Con sua sorpre-sa, Pancea smise di muoversi. Dietro di lei, anche le altre Ombre si arresta-rono. Le ondate di ghiaccio che si irradiavano dalle loro forme spettrali si abbassarono leggermente. Pancea Rolt Gotrin lo osservò con attenzione, una mano rinsecchita si alzò e lo indicò.

«Cosa faresti delle Pietre Magiche, se io dovessi liberarle e consegnarte-le? Come le useresti?»

«Le userei per trovare il Loden. Poi userei il Loden per salvare l'Ellcrys e gli Elfi.»

S'interruppe per un istante, poi riprese: «Farei il possibile per spingere gli Elfi a ritrovare la magia che hanno perso».

«Tu lo dici per placare la mia collera. Gli Elfi non ritroveranno mai la loro magia. Hanno dimenticato il suo scopo, hanno cambiato il loro modo di vivere e così facendo l'hanno perduta per sempre.»

«Il vecchio mondo è finito» intervenne Erisha. «In quello nuovo avranno ancora bisogno della magia. Se vorranno sopravvivere, saranno costretti a ricominciare da capo.»

«Se non rimarranno Elfi, se non rimarranno umani, se ci saranno solo i demoni e i loro alleati, a che servirà la magia?» aggiunse Kirisin. «La ma-gia ha bisogno della nostra gente che la usi, se deve servire a qualcosa. Non possiamo ritrovarla in qualche modo? Non può essere perduta per sempre.»

«La magia giace nelle profondità della terra, là dove è sempre stata. La magia è una forza elementare e gli Elfi ne avevano l'uso, prima di lasciare spazio agli umani. Non vedo come questo possa cambiare.»

Non era ancora convinta, ma adesso ascoltava, rifletteva sulle parole che Kirisin le diceva. Il ragazzo sentì rinascere la speranza. Forse c'era il modo di farle cambiare idea, dopotutto.

Proprio quando cominciava a illudersi che le Ombre a guardia di quelle tombe e dei loro segreti potessero condividere quello che tenevano nasco-sto, Pancea si mosse di nuovo verso di lui, tendendo la mano.

«Fatti toccare.» Kirisin fece istintivamente un passo indietro. Se fosse stato toccato da un

morto, da un'Ombra, cosa gli sarebbe successo? Un simile contatto era for-

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se sufficiente a sottrargli la vita? Non lo sapeva e non voleva essere co-stretto a scoprirlo.

Sollevò le mani. «Non voglio essere toccato.» «Sta' lontana da lui!» esclamò Simralin, facendosi scudo davanti al fra-

tello. L'Ombra si voltò verso di lei, il suo braccio si spostò leggermente. «Sciocca ragazza.» Le parole rimasero sospese nell'aria, come frammenti di ghiaccio, nel-

l'immobilità che fece seguito a quella frase. Poi le braccia di Pancea si al-zarono e Simralin venne spinta violentemente all'indietro, trascinando con sé anche Erisha e Angela, come foglie portate via da un forte vento. Tutt'e tre finirono a terra e non si mossero più.

Kirisin voleva voltarsi e fuggire, ma scoprì di non riuscire a muoversi. Preso dal panico, cercò di lottare contro i suoi legami invisibili, ma non servì a nulla.

«Lasciati toccare.» L'Ombra era sopra di lui, adesso. Kirisin dovette fare ricorso a tutta la

forza di volontà di cui disponeva, ma riuscì a tacere e a rimanere a testa al-ta. Visto che non poteva evitarlo, meglio fare il possibile per affrontarlo nel modo giusto.

«Ti prego» sussurrò. «Non farmi del male.» L'Ombra era ferma davanti a lui. Dalla faccia avvizzita e scavata lo

guardavano due occhi vuoti e privi di emozione, simili a due pietre bian-che.

«Se menti, lo saprò. Se mi inganni, lo saprò. Se non hai abbastanza co-raggio, lo saprò.»

La mano dell'Ombra si tese verso di lui, gli toccò il petto e penetrò nel suo torace. Kirisin sentì l'intrusione, un'ondata di gelo intensa e dolorosa. Rabbrividì, ma rimase immobile, e vide prima la mano, poi il polso e infi-ne l'avambraccio sparire dentro il suo corpo.

Il gelo si allargò, gli riempì il petto e lo stomaco, si estese alle braccia e infine alla testa. Era un gelo diverso dal solito, una sensazione che non a-veva mai sperimentato e non riusciva a paragonare a nulla di noto.

Aspettò la morte. Dentro di sé, sentì un cambiamento nell'intensità del freddo, che parve

corrispondere al lento muoversi del braccio dell'ombra nel suo petto. "Non ho paura" disse a se stesso, augurandosi che fosse vero. Infine, Pancea parlò.

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«Kirisin Belloruus. Tu non menti. Tu non vuoi ingannare. Tu non man-chi di cuore o di coraggio. Sei giovane, ma la tua parola è buona. Sento in te una ragione per tornare a credere. L'ho già sentito quando hai toccato il mio nome, scolpito sulla mia tomba di famiglia. E lo sento adesso.»

La sua forma pallida brillò e si avvicinò, fino a portare la sua faccia ru-gosa di spettro a poche dita da quella del ragazzo.

«Sei realmente Prescelto. Lo sei davvero. Hai la magia dentro di te, il tuo passato e il tuo futuro, possiedi il dono.»

Lentamente, ritirò il braccio dal suo corpo. Quando lo fece, il freddo si dissipò e scomparve. Gli occhi vuoti fissarono Kirisin.

«Ti darò quello che chiedi. Trova il Loden. Conduci gli Elfi alla salvez-za. Ma ricorda la tua promessa. Quando avrai compiuto quello che devi, li convincerai a cercare la loro magia e a servirsene di nuovo. Ritroverai le vecchie vie.»

Attese la risposta, e Kirisin annuì. «Lo prometto.» «Dovrai farlo da solo.» Kirisin esitò a rispondere. «Ho i miei amici ad aiutarmi. Erisha e Simra-

lin e Angela Perez, quelli che sono venuti con me.» Lei aprì e chiuse la bocca in quello che sembrava un urlo senza voce. Le

mani le ricaddero lungo i fianchi. «Dovrai farlo da solo.» L'Ombra scivolò indietro, verso la propria tomba. Quando si mosse, an-

che le altre ombre si ritirarono, decine di forme eteree che sparivano nel-l'oscurità. A una a una raggiunsero i loro giacigli di pietra e scomparvero.

Pancea restò sola, e per qualche momento ancora rimase di fronte a Kiri-sin, sussurrando: «Coraggioso ragazzo. Dovrai farlo da solo».

Poi sparì e il silenzio che scese, come la polvere trasportata da una folata di vento, parve assordante.

Kirisin rimase a lungo immobile. Quando ripensò all'accaduto, più tardi,

gli parve che fossero passate molte ore, ma in realtà erano stati solo pochi secondi. Pensava a quello che gli aveva detto l'Ombra, a come portare a termine quanto gli aveva chiesto.

Pancea era stata molto insistente, molto sicura di quello che diceva. A-veva escluso la possibilità che sua sorella, Erisha o Angela Perez potessero aiutarlo. Kirisin non ne capiva il motivo. Come potevano non prendere parte a quello che lui doveva fare?

Sentì il gelo della grotta entrare in lui, un freddo diverso dal tocco delle

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Ombre, una trafittura d'altro genere. Tornò a sentire l'odore della pietra e dell'acqua, dei minerali e del terreno, del buio e del chiuso, in un luogo dove i vivi non mettevano piede da secoli.

Adesso capiva quanto fosse stata grave la sua intrusione e quanto lui e le sue compagne fossero fuori posto laggiù.

Poi le sue compagne furono attorno a lui e lo circondarono, lo abbraccia-rono, lo chiamarono per nome e dispersero i suoi pensieri, trasformandoli in ricordi.

«Piccolo K» esclamò Simralin, posandogli sulla spalla una mano robu-sta. «Stai bene?»

Lui annuì e la guardò negli occhi. Simralin pareva decisamente scossa e preoccupata. Kirisin non l'aveva mai vista in quello stato e le sorrise per rassicurarla. Era in ansia per lui.

«E tu, Sim?» le chiese. «Ti ha sbattuto molto lontano.» Lei scosse la testa. «Non ricordo. Ho perso i sensi e quando li ho ripresi,

lei non c'era più... e neppure gli altri... e tu eri qui da solo.» Kirisin guardò Erisha e Angela, che gli rivolsero un cenno d'assenso. «Nessuno mi ha mai fatto niente del genere» disse il Cavaliere, con una

sfumatura di amarezza nelle parole. «E spero che nessuno me lo faccia mai più.»

«I morti degli Elfi hanno un grande potere» spiegò Simralin. «Special-mente se da vivi possedevano la magia. L'ho sempre sentito dire da mio padre. Pancea Rolt Gotrin era una strega. Ha portato con sé nella tomba una parte di quella magia.»

«Possiamo andarcene, adesso?» chiese Erisha, irritata, massaggiandosi le braccia indolenzite dal freddo. Sui suoi lineamenti si scorgeva una smor-fia di disgusto. «Dovremo cercare qualche altro modo, scoprire un'altra strada per recuperare le Pietre Magiche. Ma non questa notte. Non voglio più rimanere qui, per questa notte.»

Simralin le circondò le spalle con un braccio. «Non ti so dare torto. Sono ancora raggelata dall'incontro con quelle Ombre.» La sua stretta divenne più forte. «Ma siamo venuti a prendere le Pietre Magiche, e se ce ne an-diamo via senza averle...»

«Non è detto che ce ne dobbiamo andar via senza averle trovate» la in-terruppe Kirisin. Mise una mano sulla tasca della tunica e sentì che conte-neva un oggetto. Impiegò un istante ad aprire la tasca e poi ne trasse un sacchetto di cuoio.

Lo mostrò alle compagne. «Mi sono accorto adesso di averlo. L'ho senti-

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to contro la pelle. Guardate!» Sciolse la cordicella e rovesciò sul palmo della mano il contenuto. Tre

perfette gemme azzurre scintillavano alla debole luce delle torce, come tre fari luminosi contro l'oscurità.

«Le Pietre Magiche!» sussurrò Simralin. «Ha detto che me le avrebbe date. È l'accordo che ho stretto con lei,

promettendole di spingere gli Elfi a ritrovare la loro magia. Ha detto che si fidava di me e che avrei mantenuto la promessa.»

Angela fece un passo avanti e guardò le gemme. «Sei sicuro che siano loro?»

Kirisin scosse la testa. «Nessuna persona oggi vivente ha mai visto le Pietre Magiche, ma io lo so, sono queste. Le tre Pietre Blu per cercare, come hanno promesso i libri e l'Ellcrys.» Guardò le pietre e poi di nuovo Angela. «Abbiamo quello che ci occorre per trovare il Loden.»

Erano molto più ottimisti quando si avviarono verso il tunnel che porta-va alla scala e parlottavano a bassa voce, con eccitazione e ansia, di quello che contavano di fare.

Dato che avevano le Pietre Magiche, Erisha riteneva che dovessero por-tarle davanti all'Alto Consiglio e a suo padre per chiedere il permesso di cercare il Loden.

Angela era d'accordo. Meglio avere il sostegno e l'approvazione della comunità degli Elfi, e meglio ancora se avessero avuto qualcuno ad aiutarli nella ricerca. Adesso questo era possibile: con le Pietre Magiche come prova di quello che l'Ellcrys aveva chiesto a Kirisin ed Erisha, non si pote-va negare l'aiuto.

Ma Kirisin e la sorella non erano d'accordo. Nessuno dei due aveva mol-ta fiducia nella buona disposizione di Arissen Belloruus e si preoccupava-no della reazione del re alla loro scoperta. E se avesse chiesto di conse-gnargli le pietre per conto della nazione degli Elfi? Una volta che avessero rivelato di possederle, non avrebbero potuto impedire al re di impadronir-sene.

Arissen Belloruus aveva una personalità forte e tendeva a dominare. Se avesse deciso che le pietre dovevano essere sottoposte al controllo del tro-no, indipendentemente dal fatto che avesse ragione o no, neppure l'Alto Consiglio sarebbe riuscito a opporsi.

Ma c'era un problema ancora più preoccupante, un problema che nessu-no di loro voleva prendere in considerazione. E se il re era il demone che Ailie aveva scoperto nella sala del Consiglio? Impossibile che lasciasse lo-

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ro le Pietre Magiche. Stavano ancora riflettendo su quei particolari mentre risalivano le scale

verso la superficie. Per un momento Kirisin si chiese come sarebbero usciti se la pesante lastra fosse stata ancora al suo posto, poi si disse che se l'Ombra di Pancea aveva consegnato le Pietre Magiche, aveva certo lascia-to loro una via d'uscita per poterle usare.

E infatti, quando arrivarono in cima alle scale, videro la luce della luna illuminare gli scalini e l'odore degli alberi e della notte scese ad accoglier-li. Kirisin respirò a fondo quando rimise piede in superficie. Nell'Ashenell, il gelo della caverna di pietra lasciava il posto alla dolce brezza della fore-sta.

Alle loro spalle, la lastra di pietra scivolò al suo posto, chiudendo l'ac-cesso alle scale e al sepolcro. Quasi immediatamente, foglie e rami spinti da una breve raffica di vento la ricoprirono. In pochi secondi, ogni testi-monianza della sua presenza fu cancellata.

Kirisin, che era in testa al gruppo, si rivolse agli altri. «Diamoci appun-tamento per...»

Si arrestò a metà della frase, per fissare Angela Perez. Il Cavaliere del Verbo si era piegato sulle ginocchia e si guardava rapidamente attorno, in tutte le direzioni. Il giovane comprese subito cos'era successo. Un istante più tardi, Angela lanciò un grido.

«Demone!» Girò su se stessa, spazzando l'aria della notte con il suo bastone nero.

Kirisin capì che non sapeva ancora dove il demone si trovasse. Erisha e Simralin si erano appena voltate nell'udire il suo grido, quando la bestia uscì dalle ombre, come una valanga nera.

Lungo e sottile, con il corpo di un mostro a quattro zampe fuggito da un incubo, si catapultò in mezzo a loro. Simralin, che da un istante all'altro, come per magia, aveva in pugno due lunghi coltelli, si lanciò contro il de-mone quando le passò davanti.

Il mostro lanciò un urlo e girò la testa da una parte. Erisha venne scaglia-ta a terra, rotolò su se stessa, sollevò le braccia per il colpo e dalle labbra le uscì un rantolo. La bestia si lanciava adesso contro Kirisin, che si piegò sulle ginocchia, in posizione difensiva, e cercò disperatamente di impugna-re il coltello.

Poi, tra di loro comparve Angela, che sollevò il bastone e scagliò contro il demone la sua magia. La forza del colpo spinse di lato la bestia, cam-biando la sua traiettoria d'attacco di quel poco che bastava per mancare il

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ragazzo. La bestia cercò di rinnovare l'assalto, ma i suoi movimenti erano divenuti erratici, come se trascinasse delle catene. Barcollò, si raddrizzò e barcollò di nuovo.

Quando si girò ancora verso di lui e la luce della luna bagnò i suoi line-amenti feroci, Kirisin vide cos'era successo. Uno dei coltelli di Simralin era piantato fino all'impugnatura in un occhio. Sangue nero ne macchiava il manico.

Il demone lanciò un ultimo grido roco, aspro, raggelante, che li immobi-lizzò tutti. Poi sparì nella notte.

Angela inseguì il mostro, la faccia distorta dalla furia, ma si fermò subi-to. Era inutile. Il demone era sparito, e lei non sarebbe riuscita a raggiun-gerlo. Sul coltello rimasto in mano a Simralin si rifletté un raggio di luna mentre la donna lo infilava nel fodero.

«Per tutte le Ombre!» esclamò. Aveva la faccia pallida e tesa. «La mia lama avrebbe dovuto ucciderlo. Come può essere ancora vivo?»

Poi Kirisin vide Erisha. Era stesa sulla schiena e la macchia scura sul suo collo spiccava sulla pelle bianca. Il sangue schizzava da una ferita ter-ribile che le squarciava la gola. Cercava inutilmente di parlare e le sue ma-ni si tendevano verso il collo straziato.

Kirisin corse verso di lei, seguito subito da Angela e Simralin. Lo sguar-do di Erisha cercò gli occhi di Kirisin e lui lesse in quelli di lei la dispera-zione e il terrore, la consapevolezza di quello che le era successo. Poi il sangue finì di uscire, le mani ricaddero ai lati del collo, gli occhi non si mossero più.

«Erisha» sussurrò inorridito. Alle loro spalle, dalla direzione della porta da cui erano entrati, giunsero

alcune grida. Erano le guardie reali, avvertite della loro presenza. Kirisin sussultò. Come poteva essere? Come potevano essere arrivate così in fret-ta? Ebbe appena il tempo di capire che era impossibile, a meno che qual-cuno non avesse dato l'allarme.

Un attimo dopo, Simralin lo trascinava via. «Dobbiamo fuggire, Piccolo K» gli disse. Lui la guardò incredulo. «Ma non possiamo...» «Stanno arrivando!» gli gridò lei, infuriata, e praticamente lo spinse via.

«Non possiamo farci trovare! Scappa!» Angela si stava già allontanando, fuggendo dalle voci. Kirisin lanciò u-

n'ultima occhiata a Erisha, sentì scivolare via tutte le sue speranze, poi ini-ziò a correre.

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Angela Perez non aveva idea della direzione in cui fuggiva, sapeva solo

cosa lasciava dietro di sé. Erisha, distesa sul terreno, che si dissanguava circondata da uno stuolo di Divoratori attirati dall'odore e dal sapore della sua morte, ombre nere che i suoi compagni non potevano vedere.

Le grida delle sentinelle la spingevano a scappare, un chiaro segno di quanto fosse grave la situazione. Ancora stordita da quello che era succes-so tra le tombe dei Gotrin, ancora sommersa dalle inevitabili implicazioni di quello che significava, implicazioni che forse solo lei comprendeva, re-agiva più alle proprie emozioni che alla ragione.

Simralin la raggiunse, divorando facilmente con le lunghe gambe la di-stanza che le separava.

«Non sai dove stai andando!» la avvertì la cercatrice di piste, quando le fu accanto. «Segui me!»

L'Ashenell era immenso e ad Angela sembrava tutto uguale: gruppi di lapidi e di sepolcreti, di mausolei e di cripte, qualche monumento funebre in mezzo agli alberi e ai cespugli coperti di fiori, il tutto avvolto dalla geli-da luce bianca della luna che giungeva da un cielo cupo.

La donna Cavaliere sentiva il rumore dei propri passi e del proprio respi-ro e le grida degli inseguitori che svanivano via via in lontananza. Stringe-va in pugno il bastone nero della sua carica e soffriva in silenzio per la fru-strazione. A volte, neppure un Cavaliere del Verbo poteva fare molto.

«Angela!» Si voltò nell'udire il suo nome e vide che Kirisin faticava a tenerle die-

tro. Rallentò e rimase ad attenderlo. Anche Simralin, davanti a loro, si guardò alle spalle, vide cosa stava succedendo e si fermò.

Kirisin arrivò davanti a lei, stremato. «Aspetta» ansimò. «E Ailie?» Le mani e la tunica del ragazzo erano sporche di rosso. Il sangue di Eri-

sha, che era schizzato fino a lui quando aveva cercato invano di fermare l'emorragia. Aveva lo sguardo vacuo, atterrito, fissava le due donne senza veramente vederle, e batteva rapidamente le palpebre, come per abituarsi all'oscurità. Sembrava sull'orlo di un collasso. Il suo petto si alzava e si ab-bassava freneticamente, aveva la faccia sporca di terra e di sudore, il corpo tutt'ossa e tendini pareva sul punto di spezzarsi. Uno spaventapasseri dan-neggiato dalle intemperie, tolto dal suo palo e costretto a imparare a muo-versi nel mondo.

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«Cosa le è successo, Angela?» Appoggiò a terra un ginocchio e continuò ad ansimare. «Non possiamo abbandonare Ailie!»

Angela aveva gli occhi pieni di lacrime. Scosse la testa: la piccola Ailie, che si era autonominata la sua coscienza, la sua compagna e amica. Nel pensare al Tatterdemalion provò un dolore che, ne era certa, non sarebbe mai riuscita a dimenticare.

«È morta, Kirisin» disse. Simralin comparve accanto a lei. Guardò prima il Cavaliere e poi il fra-

tello, senza capire. «Morta?» chiedeva Kirisin. «Come puoi dirlo?» Era sconvolto. Angela fece una smorfia. «Se non fosse morta, ci avrebbe avvertiti. Quel

demone non sarebbe mai riuscito a sfuggire alla sua sorveglianza.» «Ma non possiamo esserne certi!» insisteva Kirisin. Da come lo diceva, Angela capì che aveva bisogno di aggrapparsi a

quella illusione. A credere di avere ragione, che Ailie fosse viva. Forse perché non c'erano più speranze per Erisha, e la perdita di tutt'e due sareb-be stata troppo dura da sopportare.

Ma Angela era una veterana della lotta nelle città, aveva perso altri a cui era affezionata quanto ad Ailie. Perdere Johnny l'aveva quasi distrutta, ma era riuscita a superare il dolore. Sarebbe sopravvissuta anche alla perdita di Ailie. Non poteva essere diverso. I vivi non potevano riportare indietro i morti. La sola cosa che potevano conservare era il loro ricordo.

Stava per dirlo a Kirisin, ma il giovane guardava dietro di sé. «Potresti essere in errore» diceva. «E se ti fossi sbagliata?»

Angela stava per obiettare che era impossibile, ma non disse nulla. E se si fosse sbagliata davvero? Se, nonostante quello che il suo cuore ormai sapeva, Ailie era ancora viva? Non le pareva possibile, ma già altre volte aveva preso degli abbagli.

Respirò a fondo. «Va bene. Torno indietro a dare un'occhiata.» «No» intervenne subito Simralin, portandosi davanti a lei. «Tu sei pro-

prio l'ultima a poter andare. Probabilmente ti stanno già dando la caccia. Vado io. Un cacciatore degli Elfi in più o in meno non desterà particolare attenzione.»

Si rivolse a Kirisin. «Accompagna Angela a casa nostra. Aspettate den-tro. Non accendete lampade. Non fate nulla per attirare l'attenzione. Se ve-dete qualcuno arrivare, allontanatevi. Nel caso non ci incontrassimo là, l'appuntamento è all'incrocio tra le due piste, a nord della Torre di roccia.»

Abbracciò rapida il fratello, gli sussurrò: «Fa' attenzione, Piccolo K» e

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corse via. Angela la guardò allontanarsi. Simralin non si era avviata nella direzione

da cui erano giunti, ma aveva girato a destra, scegliendo un percorso tortu-oso che le permetteva di uscire dall'Ashenell e di raggiungere dal di dietro la squadra dei ricercatori. Angela si augurò che le guardie non conoscesse-ro l'identità delle persone a cui stavano dando la caccia, altrimenti Simralin si sarebbe trovata nei guai.

Il ragazzo si voltò verso di lei. «Quel demone. Sapeva...» «Quei demoni» lo interruppe lei. «Ce n'erano due. Ma non parliamone

adesso. Ne parleremo quando saremo a casa tua.» Ripresero il cammino, con Kirisin in testa. Angela si teneva a pochi pas-

si da lui per difenderlo e fargli da scudo. Il giovane era ancora in pericolo, forse ancora più di lei. Angela stava cercando di capire cos'era successo tra le tombe dei Gotrin, perché i demoni avevano diretto il loro attacco su Eri-sha e non avevano cercato, invece, di uccidere lei. Era lei a rappresentare il maggior pericolo per loro, soprattutto adesso che Ailie era morta. Se Ailie era morta davvero.

Ma Angela ne era certa. Ne era certa esattamente come era certa che Johnny fosse morto quando non l'aveva visto tornare, quella notte di tanti anni prima.

In pochi minuti uscirono dall'Ashenell e raggiunsero una zona di piccole case e giardini, passando per i viottoli tortuosi che si aprivano in mezzo ai primi alberi della foresta. Non c'era alcun indizio che fosse successo qual-cosa di straordinario. Nelle abitazioni non si scorgeva alcuna luce, nessuno percorreva i sentieri. Una volta si sentì abbaiare un cane. Un'altra volta, un gufo passò in volo sopra di loro. Nient'altro si mosse. Almeno laggiù, gli Elfi dormivano ancora.

Quando giunsero alla casa di Kirisin, si fermarono per accertarsi che nessuno li attendesse nell'ombra, poi sgusciarono all'interno e chiusero la porta con il catenaccio. Kirisin accompagnò il Cavaliere nella cucina, si-tuata nel retro della casa, e senza fare domande le servì un bicchiere di bir-ra. Ne versò un altro per se stesso e tornò con lei fino a una stanza con una grande finestra sulla facciata, dove potevano sedere e parlare mentre sor-vegliavano l'accesso alla casa.

Kirisin cercò di iniziare il discorso, sforzandosi di trovare le parole. «Angela, non so...»

Lei lo prese per i polsi e li strinse. «Lasciati dire quello che so io, prima di parlare. Non è tutto, ma può es-

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sere un inizio.» Si piegò verso di lui e abbassò la voce. «C'erano due demoni che aspet-

tavano il nostro ritorno. Ho sentito la presenza di un demone quando siamo usciti dalla tomba, ma ero confusa perché non mi aspettavo di incontrarne e perché non riuscivo a capire dove si trovasse. Lo sentivo nello stesso tempo da sinistra e da destra.

«Quello che ci ha assalito era lo stesso che aveva seguito me e Ailie du-rante il viaggio che ci ha portate fino a voi. L'altro, quello che è rimasto nascosto, dev'essere il demone che Ailie ha scoperto nella Sala del Consi-glio. In qualche modo si sono incontrati e hanno saputo quello che face-vamo.»

Kirisin fece per dire qualcosa, ma Angela gli strinse di nuovo i polsi, questa volta più forte.

«Aspetta» gli disse. «Lasciami finire. Non dire niente.» Allentò la stretta ma continuò a tenerlo fermo. «Quei demoni ci aspettavano. Sapevano dove trovarci e attendevano che uscissimo. È stato un attacco accuratamente pianificato, Kirisin. Sapevano esattamente cosa stavamo facendo. Ci sono piombati addosso nello stesso istante in cui siamo usciti dal sotterraneo. L'uccisione di Erisha non è stata un incidente, lei era la vittima predestina-ta fin dall'inizio, era lei che doveva morire.»

Incrociò lo sguardo con il suo. «Me lo dice» spiegò «la rapidità con cui il mostro si è gettato su di lei e poi è fuggito, anche se aveva nell'occhio il coltello di tua sorella. Non ha avuto esitazioni nella scelta della vittima. Non ha mostrato interesse per altri, almeno, non prima di avere colpito E-risha.

«Quel demone mi ha inseguito per mille miglia, ha cercato due volte di uccidermi. È stata la sua ostinazione a portarlo fino al Cinta. Ma è succes-so qualcosa che ha spostato l'oggetto della sua attenzione. L'altro demone, quello che si traveste da elfo, in qualche modo è riuscito a far cambiare i-dea al mio inseguitore. Ha un piano diverso, molto più complesso, che non ha come obiettivo la mia morte. Quale piano potrebbe essere, secondo te?»

Gli rivolse un cenno della testa, per indicargli che adesso poteva parlare. Kirisin rifletté per un istante, poi disse: «Impedirci di trovare il Loden?».

«Allora perché non uccidervi tutt'e due? Perché uccidere soltanto Eri-sha? Sei stato tu a darti da fare prima che arrivassimo io e Ailie. E tu sem-bri il più deciso. Perché hanno attaccato Erisha invece di attaccare te?»

Kirisin la fissò. «Non lo so.» «Non lo so neanch'io, ma la cosa non mi piace. Erisha è morta e tu hai le

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Pietre Magiche. Puoi usarle per cercare il Loden e portare avanti il tuo progetto iniziale. L'attacco nel cimitero sembra quasi inutile.»

Vide la sua espressione e gli afferrò di nuovo il polso. «Ma non lo è sta-to. Non è stato inutile. C'era una ragione per farlo. Noi dobbiamo scoprire quale.»

Kirisin scosse la testa, incredulo. «Non capisco niente di tutto questo. Perché non limitarsi a rubare le Pietre Magiche, in modo che nessuno di noi potesse usarle?»

Nell'ombra ai margini degli alberi, di fronte alla facciata della casa, ci fu un movimento e Angela alzò una mano per fargli segno di tacere. Qualche istante più tardi, Simralin uscì dall'oscurità, attraversò di corsa il prato e raggiunse il porticato, per poi nascondersi all'ombra della tettoia. Kirisin raggiunse subito la porta, la aprì e fece entrare la sorella.

«Cos'hai scoperto?» le sussurrò, mentre raggiungevano Angela. Il Cavaliere del Verbo aveva già letto sulla faccia di Simralin la risposta.

La sorella di Kirisin guardò fuori della finestra, scrutando per qualche momento nella notte. Poi si accostò a loro. Anche con la faccia accanto a quella dei compagni, le sue parole erano pressoché impercettibili.

«Potrei essere stata seguita» sussurrò «dobbiamo andarcene.» Angela serrò la mano sul bastone e sentì che la magia rispondeva con u-

n'ondata di calore. «Cos'è successo?» chiese. Simralin continuò a scrutare in mezzo agli alberi. I suoi occhi acuti esa-

minarono ogni particolare. «Ailie è morta» spiegò. «Ho trovato un pezzo della sua veste, lacerato e

sporco di terra, vicino al punto dove l'abbiamo lasciata.» S'interruppe nel vedere il cambiamento nell'espressione di Angela. «Mi

dispiace. Ma c'è di peggio.» Guardò il fratello. «Sanno di te. Qualcuno ti ha visto mentre scappavi.» Kirisin si affrettò a scuotere la testa. «Non è possibile. Non c'era nessun

altro nel cimitero!» Guardò Angela. «Hai visto qualcuno?» Lei scosse la testa. «Chi ha detto di averci visto?» «Non sono riuscita a scoprirlo. Quando l'ho saputo, ho temuto che sa-

pessero anche di me. Sono dovuta tornare indietro in fretta per avvertirvi. Saranno qui da un momento all'altro.»

Kirisin si tirò lentamente indietro. «Non riesco a crederci.» Simralin guardò Angela. «Dobbiamo fuggire. Dobbiamo allontanarci. Se

dovessero scoprirci, preferisco non pensare a quello che potrebbe succede-

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re.» Angela annuì. «Hai ragione.» «Be', secondo me no» la interruppe subito Kirisin. «Non possiamo anda-

re da loro e spiegare l'accaduto? Non abbiamo fatto nulla di male!» Angela scosse la testa. «Ascolta. Se il padre di Erisha è il demone - no,

aspetta, lasciami finire - non perderà tempo ad ascoltarci. Si impadronirà delle Pietre Magiche e ci farà uccidere. Ma anche se il demone non è lui, lo è qualcuno che gli sta vicino. Il re subisce già l'influenza del demone, lo sappiamo dal suo rifiuto di prendere provvedimenti sulla base di quello che gli avete detto tu ed Erisha. Mi piacerebbe poter affermare che agirà in modo responsabile quando saprà quello che abbiamo da dirgli, ma il passa-to mi fa dubitare di questa possibilità.»

«Sono d'accordo» disse Simralin. «I demoni sanno chi siamo e quello che vogliamo fare. Faranno tutto il possibile per fermarci. Dobbiamo al-lontanarci. Manderò una persona fidata ad avvertire i nostri genitori in modo che stiano lontano da Arborlon finché questa cosa non sarà finita, così saranno abbastanza al sicuro. Siamo noi quelli che corrono davvero pericolo.»

Angela scosse la testa. «Non saprei dire. Tutto mi sembra sbagliato. Mi dà l'impressione di essere manipolati. I demoni ci sorprendono nell'Ashe-nell in un momento in cui nessuno sapeva della nostra presenza là. Un'uc-cisione elimina la sola di noi che sarebbe stata in grado di smascherarli. Una seconda uccisione non ha altro scopo che quello di far infuriare il re. Una persona sconosciuta riferisce che Kirisin è sul luogo, una persona che nessuno di noi ha visto. E adesso siamo costretti a fuggire. Sta succedendo qualcosa che non riesco a capire.»

«A me pare ovvio» rispose Simralin. Aveva ripreso a osservare la fore-sta. «Lo scopo è eliminarci tutti e impadronirsi delle Pietre Magiche.»

Era un'affermazione difficile da contestare, ma Angela non era convinta. Conosceva a sufficienza le macchinazioni e la doppiezza dei demoni per dubitare di tutto quello che poteva sembrare ovvio. I demoni non facevano mai nulla in modo diretto. Ogni cosa veniva condotta con l'astuzia e il sot-terfugio, mettendo l'avversario su una falsa pista e guidandolo nella dire-zione sbagliata. Il risultato finale era sempre qualcosa di diverso da ciò che si pensava. E lei non poteva fare a meno di credere che anche ora fosse co-sì.

Fece una smorfia per la frustrazione. «Chi altri sapeva della nostra in-tenzione di recarci nel cimitero? Chi, oltre a noi, era al corrente che era-

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vamo là? Qualcuno lo doveva sapere. E quel qualcuno ci ha tradito.» Kirisin e la sorella si scambiarono in fretta un'occhiata. «Il vecchio

Culph lo sapeva» disse il ragazzo, a bassa voce. «Io ed Erisha gliene ab-biamo parlato.»

«Ed era nella Sala del Consiglio, nascosto con voi dietro la parete, quan-do Ailie ha sentito la presenza di un demone» osservò Angela.

«Dietro la parete, non nella sala!» lo difese Kirisin. Continuò in fretta: «È stato lui ad aiutarci a scoprire il nome da ragazza di Pancea Rolt Cruer, in modo da permetterci di trovare la sua tomba. È stato lui ad aiutarci, con il diario e il nome della regina. Perché l'avrebbe fatto, se avesse avuto lo scopo di fermarci?».

Angela non si lasciò persuadere. Ormai era per metà convinta di avere scoperto il colpevole.

«Dove possiamo trovarlo?» chiese. «Abita in una piccola casa dietro il palazzo dei Belloruus» rispose Kiri-

sin. «Ma andando là ci infileremo proprio in mezzo alle guardie.» «Manderemo qualcuno a chiedere di lui.» Simralin girò su se stessa, al-

lontanando lo sguardo dalla finestra. «Qualcuno a cui non rivolgeranno domande.»

Angela scosse la testa. «Di chi ci possiamo fidare?» «Me ne occupo io.» Simralin si alzò in piedi. «In questo momento dob-

biamo solo pensare ad allontanarci di qui!» Impiegarono giusto il tempo occorrente per prendere le armi, un abito

pesante, coperte e cibo per due giorni, poi lasciarono la casa. In lontanan-za, dalla foresta giungevano voci e rumori di gente in movimento. Arbor-lon cominciava a destarsi, con l'impressione che fosse successo qualcosa di sgradevole. Nelle case si accendevano le luci, si levava un basso brusio di voci. Era facile pensare che i Cacciatori degli Elfi fossero già alla loro ri-cerca e avessero steso una grande rete su tutta la città per scoprire dov'era-no nascosti o che direzione avevano preso per la loro fuga. Dai discorsi della sorella, Kirisin sapeva che quella ricerca non sarebbe stata palese, ma si sarebbe affidata alla segretezza e alla sorpresa. Alcuni di quegli elfi era-no conoscenze di vecchia data. Altri erano amici. La maggior parte di loro non sapeva ancora la ragione della caccia, ma non appena l'avessero sapu-ta, la ricerca si sarebbe intensificata. Niente di personale; semplicemente, erano soldati e facevano quello che veniva loro ordinato. Per un soldato, gli ordini avevano la precedenza su tutto il resto.

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Infilò una mano in tasca e strinse le dita sull'oggetto che vi era contenu-to, il sacchetto delle Pietre Magiche. Faticava ancora ad accettare che le cose si fossero messe così male. Tutti i loro sforzi si erano indirizzati verso la ricerca delle pietre e Kirisin aveva pensato che, una volta recuperati i tre talismani, si sarebbe lasciato alle spalle la parte più difficile del suo compi-to. Sarebbe stato sufficiente usarle e andare a recuperare il Loden. Con le Pietre Magiche, aveva pensato, si sarebbe trovato a metà della strada.

Adesso, per la prima volta, capiva che il resto della missione sarebbe stato ancora più difficile. Non si trattava semplicemente di chiedere aiuto al re e all'Alto Consiglio per continuare la ricerca. Non sarebbe arrivato nessun aiuto da quella parte. Anzi, re e Consiglio avrebbero fatto del loro meglio per dare loro la caccia, se fossero fuggiti, come certamente avreb-bero fatto.

Fuggendo sarebbero apparsi colpevoli. Ma rimanendo ad Arborlon a-vrebbero messo fine a qualunque tentativo di aiutare l'Ellcrys. In qualsiasi caso, qualunque decisione prendessero, erano soli. E per molto tempo Ki-risin non avrebbe saputo se il rischio che avevano corso era giustificato.

Simralin era di nuovo in testa e si girò a dargli un'occhiata, forse per as-sicurarsi che tenesse il passo. Lui le rivolse un cenno d'assenso e non la-sciò trapelare i suoi pensieri. Non era il caso di dire nulla. I pensieri della sorella erano identici ai suoi. Data la sua esperienza, forse era già parecchi passi più avanti di lui.

Costeggiarono l'abitato passando per le piste meno frequentate, attenti a qualunque suono che rivelasse la presenza di coloro che li cercavano, e al-lontanandosi sempre dai luoghi dove vedevano movimenti sospetti. Di tan-to in tanto, Simralin abbandonava il sentiero e si nascondeva tra gli alberi. Una volta ordinò loro di piegarsi sulle ginocchia e di attendere. Ogni volta, Kirisin cercò la ragione di quelle precauzioni e non riuscì a trovarla. Ma non aveva certo intenzione di mettere in dubbio le decisioni della sorella. Simralin era di gran lunga il miglior cercatore di piste tra gli Elfi del Cin-tra. Una rara combinazione di esperienza e di istinto, di rapidità di pensiero e di nervi saldi. Tutti dicevano che era la migliore. Fino a quel momento, Kirisin ne era stato orgoglioso. Adesso le era anche riconoscente.

Sul sentiero dietro di lui, Angela Perez era una presenza silenziosa. Kiri-sin si voltò a guardarla una volta o due, ma lei si limitò a dargli un'occhia-ta, perché tutta la sua attenzione si rivolgeva agli alberi che la circondava-no. Aveva anche lei un'espressione da cercatore di piste, una profonda concentrazione e un'attenzione completa.

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Sembrava che Angela riuscisse a vedere e udire molto più di Kirisin. Come Simralin. Il giovane studiò per un istante il Cavaliere del Verbo. Era più vecchia di lui, ma quanto? Pochi anni, forse, non di più. Ma era molto più sicura di lui, molto più equilibrata.

Avrebbe voluto conoscerla meglio. Era un Cavaliere del Verbo, ma che cosa significavano quelle parole? Cos'aveva sopportato per ricevere quel titolo? A quanti nemici era sopravvissuta?

Raggiunsero un piccolo gruppo di case ai margini settentrionali della cit-tà, lontano dal centro e dalla folla, ma nei pressi delle caserme della Guar-dia Reale, dietro il palazzo dei Belloruus. Pareva pericolosamente vicino ai luoghi che i tre fuggiaschi avrebbero dovuto evitare.

Ma Simralin si diresse a una fitta macchia di cedri, circondati da cespu-gli ed erba alta, e indicò ai suoi compagni di nascondersi dietro quel ripa-ro. Poi lanciò un richiamo breve e acuto, simile a quello di un uccello, at-tese un momento e lo ripeté ancora.

Passarono alcuni minuti e infine si aprì la porta di una delle casette e ne uscì una figura vestita di scuro, che fece qualche passo, cautamente, in mezzo alle ombre, guardandosi intorno.

«Aspettate qui» sussurrò Simralin. Uscì dal nascondiglio e si avviò verso l'abitazione, alla debole luce delle

stelle. La figura uscita dalla casa si diresse verso di lei. Era un elfo, alto e robusto. Tese il braccio verso Simralin, con familiarità, ma lei si scostò e gli disse alcune parole che lo spinsero a guardare verso il punto dove Kiri-sin e Angela erano nascosti. La luce gli illuminò la faccia e rivelò i suoi li-neamenti.

«Chi è?» sussurrò Angela, parlando all'orecchio di Kirisin. «Tragen» rispose il giovane. «Sembra che tra loro ci sia qualcosa.» "Sembra davvero" pensò Kirisin, chiedendosi come avesse fatto a non

accorgersene. Li osservò mentre conversavano e poi Simralin fece cenno ad Angela e al fratello di uscire dal nascondiglio e unirsi a loro. Obbediro-no e Tragen, senza fare parola, li portò nell'isolamento della casa buia chiudendo la porta alle loro spalle.

«Piccolo K, tu hai davvero la capacità di cacciarti nei pasticci» disse in tono burbero, ma con un leggero sorriso sulle labbra.

«Sai qualcosa di quanto è successo?» gli chiese Simralin, riprendendo la loro precedente conversazione.

«Dormivo. Torno di servizio dopodomani... anzi, dovrei dire domani, vi-

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sta l'ora. È quasi l'alba.» L'alto elfo li guardò a uno a uno. «Cosa devo fa-re?»

Simralin glielo spiegò e Tragen ascoltò senza fare commenti, come del resto era sua abitudine. «Pensi di riuscirci?» terminò.

Lui annuì. «Rimanete al coperto fino al mio ritorno. Niente luci. Niente movimenti. Sbarrate la porta quando sarò fuori.»

Uscì di casa e si chiuse la porta alle spalle. Simralin gli diede un mo-mento per allontanarsi, casomai avesse qualche ultima raccomandazione, poi fece scivolare al suo posto la pesante sbarra. Al buio, tutti raggiunsero una finestra chiusa dagli scuri, che permetteva di osservare dalle fessure la zona attorno alla casa. Si piegarono sulle ginocchia, in attesa.

Dopo qualche momento di silenzio, Kirisin chiese: «Sei sicura di poterti fidare di Tragen?».

Simralin annuì senza parlare. «Non mi avevi mai detto niente di quello che provi per lui.» Sentì su di sé gli occhi della sorella mentre osservava dalla finestra, con

studiata indifferenza. «Non c'è stato il tempo» rispose Simralin. «È una cosa recente.» Lo toc-

cò sulla spalla per costringerlo a guardarla. «E poi, non sono ancora sicura di quello che provo.»

«Lui sembra piuttosto sicuro.» Kirisin s'interruppe per un momento, poi alzò le spalle. «Niente da dire, comunque. Tragen mi è sempre piaciuto.»

Simralin gli rivolse un bel sorriso. Era arrossita. «Be', allora non diciamo niente. Ma non correre troppo. Per adesso mi piace abbastanza, ma non so quanto durerà.»

Kirisin le sorrise a sua volta. Lanciò un'occhiata ad Angela per vedere la sua reazione, ma il Cavaliere del Verbo pareva non dare ascolto, sedeva lontano da loro, gli occhi fissi nel vuoto.

Il giovane fece per parlarle, poi si fermò. Quello che aveva preso per di-sinteresse era qualcosa di diverso. I suoi occhi avevano un'espressione ad-dolorata, un miscuglio di dolore e di rimorso. Kirisin glielo lesse chiara-mente nello sguardo e si stupì di riuscire a farlo. Forse il Cavaliere pensava ad Ailie, ma forse pensava anche a qualcun altro. Nella sua breve vita, pensò, Angela doveva aver perso assai di più che il Tatterdemalion. E tor-nò a chiedersi che nemici avesse incontrato prima di venire ad Arborlon dagli Elfi.

Tragen rimase assente per quasi un'ora. Quando ricomparve, il primo chiarore dell'alba filtrava tra gli alberi della foresta e le ombre comincia-

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vano a dileguarsi. Uscì dagli alberi in fretta, senza guardarsi intorno. Sim-ralin aprì la porta per farlo entrare.

«Culph è morto» annunciò il robusto cercatore di piste non appena la porta si fu richiusa. «L'ho trovato nella sua camera da letto, l'hanno fatto a pezzi. Il corpo era devastato, ma era lui, senza possibilità d'errore.»

Kirisin serrò gli occhi, con forza. "Siamo arrivati troppo tardi!" pensò. Si voltò verso Angela: «Te l'ho detto che non era lui! Te l'ho detto!».

«Smettila, Piccolo K» lo redarguì la sorella. «Angela ha solo espresso ad alta voce quello che anche gli altri pensavano. Che poteva essere lui, non che lo era davvero.» Scosse la testa, desolata. «Anch'io pensavo che fosse lui. Così, come possibile demone, torniamo ad avere solo il re.»

«O uno dei suoi ministri» aggiunse Angela. «O una qualunque delle per-sone presenti quando Ailie era nella Sala del Consiglio. Non possiamo es-serne sicuri.» Allungò il braccio e toccò Kirisin sulla spalla. «Mi dispiace per il tuo amico.»

«Avremmo dovuto metterlo in guardia» sussurrò il ragazzo, senza rivol-gersi a nessuno in particolare. «Avremmo dovuto fare qualcosa.»

«Non penso che avreste potuto fare molto» disse Tragen. «È stato ucciso ore fa, molto prima della figlia del re.» Guardò Simralin e scosse la testa. «Non so cosa stia succedendo, ma non mi piace. Quando troveranno il corpo del vecchio, le cose non potranno che peggiorare. Vi stanno cercan-do. Tutti. Stanno passando al setaccio la città, casa per casa. Dovete fuggi-re finché siete in tempo.»

Simralin s'infilò lo zaino sulle spalle. «Sembra che non abbiamo scelta. Andiamo.»

Si avvicinò a Tragen, gli sfiorò la guancia e lo baciò sulle labbra. Kirisin la guardò divertito.

«Ti devo chiedere un'altra cosa» continuò Simralin. «Devi andare a Briar Ruan e avvertire i miei genitori di non tornare, di rimanere là finché non avranno mie notizie. Mi fai questo favore?»

Tragen guardò in terra. «Pensavo di venire con voi.» Lei scosse la testa. «Finirebbero per dare la caccia anche a te come a noi.

Non posso permetterlo. Inoltre, mi farai un favore più grande avvisando i miei genitori. Forse avrò ancora bisogno del tuo aiuto prima che tutto que-sto sia finito, e qui mi serve qualcuno a cui rivolgermi.»

Tragen esitò un momento, poi annuì. «Va bene, Sim. Ma non è detto che mi piaccia.»

Lei lo baciò di nuovo, questa volta con più intensità e Kirisin guardò da

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un'altra parte. «Non devi fartelo piacere» gli disse. «È sufficiente che tu lo faccia.»

Aprì la porta, diede un'occhiata in giro, poi fece segno ad Angela e Kiri-sin di seguirla nella notte. Raggiunsero in fretta gli alberi della foresta, an-siosi di portarsi sotto la loro protezione e di confondersi con l'oscurità. In lontananza, verso sud in direzione della città, il brusio di coloro che li sta-vano cercando si era fatto più intenso. A oriente il cielo era già rischiarato dall'alba.

Kirisin rivolse un'occhiata al punto dove Tragen era fermo sulla soglia e li guardava. L'alto elfo gli rivolse un cenno di saluto, un po' a malincuore, e lui ricambiò il gesto.

Ma il ragazzo continuava a pensare a Culph, a Erisha, ad Ailie e alla sua convinzione sempre più insistente: che ciascuno dei suoi progetti - tutto quel che voleva fare per gli Elfi, per l'Ellcrys, per i suoi compagni, anche per se stesso - fosse destinato a finire male.

14

Guidati da Simralin, i fuggitivi lasciarono Arborlon, guardandosi alle

spalle a ogni svolta, scrutando tra gli alberi e ai lati delle piste sulle quali si allontanavano dalla città, attenti a ogni segno di inseguimento.

Per qualche tempo i segni si videro dappertutto, luci che si accendevano e si spegnevano negli edifici accanto a cui passavano, urla e grida nel si-lenzio dell'alba, voci lontane, ombre in mezzo agli alberi, e ogni volta i lo-ro dubbi e le loro paure salirono.

Erano inseguiti dagli Elfi e dai demoni, e il rischio di essere scoperti era altissimo. Anche quando i rumori diminuirono e le case iniziarono a dira-darsi, il timore di essere presi continuò ad accompagnarli come un'ombra.

Kirisin sentiva crescere dentro di sé la dilagante sensazione dell'inutilità dei loro sforzi. Era impossibile che nessuno li scoprisse, che tutti i tentativi di catturarli fallissero: si aspettava da un momento all'altro il suono o il movimento che avrebbe confermato quella certezza, e sapeva che lo aspet-tavano anche sua sorella e Angela.

Nessuno parlava. Nessuno guardava i compagni. Tutti gli occhi control-lavano la foresta, tutte le orecchie erano tese alla ricerca di rumori imper-cettibili. I cercatori di piste degli Elfi erano troppo abili e pieni di espe-rienza per lasciarsi ingannare, i demoni troppo decisi e spietati. Gli uni o gli altri li avrebbero trovati.

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Eppure, chissà come, nessuno li scoprì. In qualche modo riuscirono a la-sciarsi gli inseguitori alle spalle.

Dopo qualche tempo erano sulle montagne, diretti verso il cuore del Cin-tra. Gli alti passi montani erano difficili da attraversare, è per questo che Simralin ve li aveva condotti. Voleva rendere più difficoltosa la loro ricer-ca, scegliendo terreni in grado di nascondere ogni traccia del loro passag-gio.

Né Kirisin né Angela contestarono la sua decisione. Tutt'e due sapevano di doversi affidare a Simralin per allontanarsi sani e salvi, e che era lei a conoscerne il modo. Quel giorno, il loro unico obiettivo consisteva nel non farsi scoprire e nel mettere tra loro e gli inseguitori la maggiore distanza possibile.

Con il proseguire del cammino, Kirisin cominciò a sentirsi un po' me-glio. Anche se sapeva di essere ricercato, non c'era alcun indizio di un in-seguimento immediato. Forse gli Elfi e i demoni cercavano ancora di capi-re dove si erano nascosti.

Con un po' di fortuna, nessuno di loro si sarebbe accorto che avevano la-sciato la città. Entrambi i gruppi potevano immaginare che avessero trova-to un nascondiglio e che aspettassero lì la fine della tempesta. Qualunque cosa pensassero, davano l'impressione di non essere ancora sulle loro trac-ce.

Inoltre il movimento alleviava il dolore di quello che era successo nel-l'Ashenell. Rivedeva ancora davanti a sé la faccia di Erisha in quegli ultimi momenti - confusa, atterrita, sconvolta dalla consapevolezza di quello che le stava accadendo -, ma l'immediatezza della sua perdita si era allontanata e al suo posto era affiorata la decisione di far sì che quella morte non fosse stata inutile.

Non poteva riportare indietro la cugina e forse non sarebbe neppure riu-scito a ottenere giustizia per lei. Ma poteva portare a termine quello che avevano iniziato insieme: trovare il Loden e usarlo per aiutare l'Ellcrys e il popolo degli Elfi. Niente di quello che era successo, per quanto orribile, l'avrebbe indotto a ritirare la sua promessa all'albero o il suo impegno. A-veva perso tre persone a cui era affezionato e quelle morti suscitavano in lui uno strano senso di profanazione, ma la loro perdita era riuscita soltan-to a rendere più ferma la sua decisione.

Per tutta la mattina salirono sulle montagne, inerpicandosi finché non ebbero superato il primo passo e non si trovarono in mezzo alle vette più alte. L'aria era rarefatta e si faticava a respirare. Faceva anche freddo e Ki-

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risin rabbrividiva nel mantello da viaggio, che s'era avvolto strettamente sulle spalle. Attorno a lui, il cielo era di un azzurro luminoso e profondo, e il fulgore della luce lo costringeva a socchiudere gli occhi mentre cammi-nava. Sentiva la desolazione di quelle pietre e di quelle rocce che parevano chiudersi come un muro, ma non aveva paura.

Pensò più volte ai genitori, rimpiangendo di non avere avuto la possibili-tà di salutarli e di spiegare cosa stava facendo e la ragione per cui lo face-va. Pensava a come sarebbero stati più tranquilli se avesse potuto racconta-re cos'era accaduto. Si preoccupava che, non essendo riuscito ad avvertirli, potesse succedere loro qualcosa di male, che Arissen Belloruus trovasse il modo di far ricadere addosso a loro la colpa di quello che reputava un tra-dimento da parte sua.

E soprattutto pensava al re, che adesso, alla luce di quello che era acca-duto, sembrava essere davvero il demone che si era nascosto in mezzo a loro.

Quando a mezzogiorno si fermarono a consumare un breve spuntino, non riuscì più a trattenersi.

«Non vedo come qualcun altro, se non il padre di Erisha, possa essere responsabile di quanto è successo» disse senza preamboli.

Angela scosse la testa. «Non mi convince proprio perché è una possibili-tà così ovvia. Ailie aveva ragione. I demoni fanno tutto il possibile per al-lontanare da se stessi i sospetti, quando lavorano in segreto. È sempre stato il loro modo di agire fin dall'inizio della storia.»

Mangiarono un po' di pane e formaggio e bevvero un sorso di birra, se-duti su una roccia sotto una sporgenza che offriva un po' di riparo dal ven-to. Anche così, le loro parole venivano portate via non appena pronunciate e i tre fuggiaschi erano costretti a parlarsi quasi all'orecchio. Sopra di loro, alcune nubi vorticavano su se stesse, prese in qualche mulinello d'aria ge-nerato dalle cime, come grandi trottole sbrindellate.

Kirisin si portò una mano sugli occhi per proteggerli dal sole accecante. «Ma è stato il re a dire a Erisha di non dare seguito alla richiesta d'aiuto da parte dell'Ellcrys. È stato lui a ordinarmi di non fare nulla, di non dire nulla a nessuno finché non avessi ricevuto sue notizie, e poi le sue notizie non mi sono mai arrivate. È stato lui a mentirmi su quello che lui ed Erisha già sapevano. E anche quando tu e Ailie lo avete affrontato, ha cercato di met-tere in dubbio le vostre affermazioni, ha bloccato ogni tentativo di trovare le Pietre Magiche.»

«Inoltre, ha tratto vantaggio dalla morte di Ailie ed Erisha» aggiunse

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Simralin. Passò l'otre della birra a Kirisin, che bevve una lunga sorsata. «Presto o tardi sarebbe finito vicino ad Ailie, che lo avrebbe denunciato come demone. L'hai detto anche tu, Angela. E l'uccisione di Erisha gli ha offerto il pretesto per dare a noi la colpa dell'accaduto, costringendoci alla fuga. Adesso è libero di darci la caccia e di eliminarci, e nessuno farà nien-te per fermarlo.»

«Probabilmente Culph è stato ucciso perché aveva intuito la verità» con-tinuò Kirisin. «Stava ancora cercando nelle Storie, sperava di trovare qual-che altra informazione sulle Pietre Magiche. Forse il re l'ha scoperto in qualche luogo dove non doveva trovarsi.»

«Arissen Belloruus non è più lui, ormai da qualche tempo, ma ultima-mente è peggiorato.» Simralin si fece restituire l'otre dal fratello e lo passò ad Angela. «È sempre stato teso e collerico, ma nelle ultime settimane era molto nervoso. Tutti vedevano che c'era qualcosa che lo preoccupava.»

S'interruppe e attese la risposta del Cavaliere del Verbo. Angela si strin-se nelle spalle. Cambiò posizione sulla roccia, appoggiò a terra il cibo. «I demoni hanno la vita lunga. Questo è molto vecchio, probabilmente, ed è tra voi da molto tempo. È un cambiatore di forma, e certo ha assunto varie identità nel corso degli anni, mutando aspetto quando era necessario o gli conveniva farlo. E poteva essere un animale, una qualunque creatura vi-vente. Ma dovete ricordare una cosa. Quello che importa è il motivo per cui i demoni adottano un certo travestimento. Questo, in particolare, si è insinuato tra voi per controllare gli Elfi, per assicurarsi che non interferis-sero negli affari degli umani, per costringerli a rimanere nel loro rifugio del Cintra finché non giungerà il momento di eliminarli una volta per tut-te.»

I due elfi la guardarono a bocca aperta. «Cosa intendi per "eliminarli"?» chiese infine Kirisin. Angela scelse con cura le parole. «I demoni e i loro aiutanti hanno uno

scopo ben preciso. Cancellare la razza umana. Per farlo, usano molti si-stemi, ma qualunque sia il mezzo, il fine è ucciderci tutti. Poi, quando a-vranno finito con noi, cominceranno con gli Elfi. Per ora vi lasciano stare perché non rappresentate una minaccia immediata. Io non sapevo neppure della vostra esistenza prima che Ailie me ne parlasse. Voi siete soltanto un mito per gli umani e fate di rutto perché le cose restino così, soprattutto te-nendovi lontani dagli uomini e rimanendo nascosti. Questo fa esattamente il gioco dei demoni. Quando verranno a cercarvi, e verranno sicuramente, non resteranno umani che vi possano aiutare. Sarete abbandonati a voi

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stessi, sopraffatti e distrutti. Dal primo all'ultimo.» Kirisin aveva l'aria di chi ha ricevuto un pugno. «Vogliono ucciderci tut-

ti?» chiese. Angela annuì. «Il cammino del Vuoto è la distruzione.» «È la distruzione da cui ci metteva in guardia l'Ellcrys?» insistette il ra-

gazzo. Cercava di trarre un senso da quanto ascoltava, ma le implicazioni erano così spaventose da impedirglielo. «La fine del mondo predetta dal-l'albero?»

«Non saprei dirlo.» Angela riprese a mangiare. Aveva un'espressione calma, nonostante l'affermazione di poco prima. «La distruzione viene da un gran numero di cause e in un gran numero di modi, ed è difficile preve-dere la forma che prenderà quella che toccherà a noi. I Cavalieri del Verbo hanno lottato a lungo, e duramente, per fermare i demoni e i loro eserciti di ex uomini. Ma non siamo mai stati capaci di vedere abbastanza lontano, davanti a noi, da sapere cosa dobbiamo temere di più.» Diede un morso al pezzo di pane e lo masticò. «La forza che abbiamo è a malapena sufficien-te per tenere in vita coloro a cui i demoni danno la caccia.»

«E adesso danno la caccia a noi» osservò Simralin, a bassa voce. Angela Perez le rivolse un sorriso privo di allegria. «E adesso danno la

caccia a noi» ripeté. E subito la sua espressione cambiò bruscamente. Indi-cò il pendio della montagna. «Anzi ci danno la caccia proprio in questo momento.»

Kirisin si sentì raggelare mentre guardava nella direzione da lei indicata, un punto ancora lontano, nella fitta foresta dei pendii più bassi. Ma non vi-de nulla.

Simralin, però, si alzò subito in piedi. «C'è movimento» disse. «Hai buoni occhi, Angela. Dobbiamo allontanarci subito.»

Ripresero il cammino, proseguendo in mezzo alle cime e continuando a dirigersi verso est. Camminarono veloci e ben presto la lunga distesa della foresta scomparve alla vista, dietro di loro, quando cominciarono a scende-re lungo il versante orientale. Avevano davanti molte miglia di deserto. Un territorio arido e spoglio, con pochi alberi, una spianata di polvere mi-schiata a scorie vulcaniche. Se avessero dovuto ad attraversarlo, il viaggio sarebbe stato difficile. Non avrebbero trovato nulla da bere o da mangiare, nessun riparo.

Proseguirono finché il cielo davanti a loro non si oscurò e sulle monta-gne scese il crepuscolo. Le ombre si erano allungate e l'aria si era rinfre-scata fino a permettere loro di scorgere il proprio fiato. Erano vicino ai

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margini della catena montuosa, ma ancora in alto sui pendii e lontano dalla pianura deserta. Dietro di loro, sullo sfondo delle montagne, non si vedeva muoversi nulla. Simralin e Angela non avevano più accennato ai loro inse-guitori e fu infine Kirisin a tirar fuori l'argomento.

«Può darsi che abbiano preso un'altra strada o che si siano fermati in qualche valle per la notte» ipotizzò la sorella, quando Kirisin le chiese se correvano rischi. Simralin gli sorrise. «Non preoccuparti, Piccolo K. Non lascerò che ti succeda niente di male.»

Kirisin non apprezzò il tono. La sorella gli aveva parlato come a un bambino piccolo e incapace di badare a se stesso. Ma non fece commenti. Sim voleva soltanto assicurargli che non era solo. Si comportava da sorella maggiore.

Era ormai buio quando Simralin fece segno di fermarsi e poi continuò a scrutare i pendii dei monti dietro di loro, alla ricerca di movimento, di qualche segnale che indicasse l'inseguimento.

Kirisin si lasciò scivolare a sedere. Le gambe e la schiena gli dolevano, non aveva più forze. Si sentiva svuotato, fisicamente ed emotivamente. Pur essendo certo di potercela fare, era passato molto tempo dall'ultima volta che era stato costretto a compiere un simile sforzo, e ancor di più dall'ulti-ma volta che aveva dovuto affrontare un simile viaggio.

"Un viaggio" pensò "che è appena iniziato." Angela lo raggiunse e si piegò sulle ginocchia in modo da fissarlo in

faccia. «Penso che non possiamo proseguire oltre senza sapere qualcosa di più

sulla nostra meta.» Continuò a fissarlo. «Puoi farti rivelare dalle tue Pietre Magiche il luogo dov'è nascosto il Loden?»

Anche Simralin si girò verso di loro. «Ha ragione. Dobbiamo scoprire come funzionano. Hai qualche idea? Culph e le sue Storie ti hanno fornito qualche informazione che possa aiutarci?»

Kirisin scosse la testa, perplesso. Non ne sapeva nulla, naturalmente. Tutta la sua energia e la sua attenzione si erano rivolte alla ricerca delle Pietre. Mai aveva pensato a quello che avrebbe fatto una volta che le aves-se trovate.

«Posso provare» disse. Infilò la mano nella tasca e ne estrasse il sacchetto delle Pietre Magiche.

Sciolse il laccio e si versò sulla mano il contenuto. Era la prima volta che esaminava le pietre da quando ne era venuto in possesso. Tre gemme iden-tiche, tagliate in modo da avere la stessa dimensione e la stessa forma, che

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brillavano di un luminoso colore azzurro alla luce del crepuscolo. Mentre le sue due compagne lo osservavano da dietro le spalle, Kirisin, le studiò con attenzione, attratto dal loro colore intenso, dal loro aspetto quasi tra-sparente.

"Che fare?" si chiese. Continuò a tenerle sul palmo della mano, dove tut-ti e tre potevano ammirarle e valutarle. Ma anche a studiarle, la sua confu-sione non faceva che aumentare.

Guardò Angela e Simralin, poi serrò le pietre nel pugno. Cercò di strin-gerle, poi le fece rotolare tra le due palme, infine le agitò leggermente, te-nendole nella mano. Le pietre non diedero segno di vita.

Kirisin cercò di lanciarle sul terreno, come se fossero dadi, non successe niente. Le gettò in aria e le afferrò prima che cadessero, cercò di usarle una alla volta. Ancora niente.

«Non so che altro fare» si lamentò alla fine. «Continua a provare» lo invitò Simralin. «Non so niente di magia degli Elfi» osservò con calma Angela «ma con

la magia del Verbo, prima è necessario visualizzare quello che si vuol fa-re.»

Kirisin la fissò, chiedendosi come applicare quel metodo. «Vogliamo che le Pietre ci mostrino come trovare il Loden» intervenne

Simralin. Continuava a scrutare le montagne, che adesso, dopo il tramonto, erano buie.

«Forse ti basta immaginare che le Pietre Magiche ti mostrino la strada fino al luogo dov'è nascosto il Loden» suggerì Angela. «Forse non è im-portante sapere esattamente il suo aspetto. Ci devono essere un mucchio di cose che chi usa le pietre non ha mai visto prima.»

«Hai ragione» si affrettò a dire Simralin. «Sono pietre per cercare. Do-vrebbero essere capaci di trovare qualunque cosa a cui puoi dare un nome o un aspetto. Prova.»

«Ma come...» «Prova» ripeté Angela, con foga. «Non voglio spaventarti, Kirisin, ma

non abbiamo molto tempo. Ho appena scorto i nostri inseguitori superare il passo e avviarsi lungo il pendio.»

Kirisin guardò verso le montagne, automaticamente, e sentì un brivido corrergli lungo la schiena. Avrebbe voluto chiedere che aspetto avessero gli inseguitori, ma sapeva che da quella distanza era visibile solo un'ombra in movimento. Demoni o Cacciatori degli Elfi? Abbassò gli occhi sul pro-prio pugno e, per la frustrazione, si passò una mano nei capelli, rimpian-

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gendo di non avere la minima idea di quello che dovesse fare. Ma nessuno aveva usato le Pietre Magiche da migliaia di anni, quindi

era inutile aspettarsi qualche suggerimento. Qualcuno doveva scoprire di nuovo il modo, e pareva che dovesse trattarsi proprio di lui.

Rifletté ancora per un momento, aggrottando la fronte e stringendo in pugno le tre gemme. "Immagina quello che cerchi" si disse. "Poi dagli un nome." La cosa sembrava abbastanza semplice.

Tese la mano e chiuse gli occhi. Si concentrò su quello che chiedeva alle pietre. "Mostratemi dove è nascosto il Loden, mostratemi come trovarlo." S'immaginò di viaggiare con le sue due compagne in direzione di un'altra Pietra Magica, che brillava di una luce intensa e profonda come quella del-le pietre che aveva in mano, una gemma dalla forma altrettanto perfetta. Provò a darle un colore, poi un altro. Immaginò la foresta e le montagne aprirsi davanti a lui. Immaginò i veli del buio e della nebbia dissolversi al sole.

Serrò ancor più la mano. All'improvviso sentì qualcosa cambiare, una trasformazione a cui non

avrebbe saputo dare un nome. Poi sentì le due donne trasalire. Spalancò gli occhi. L'intero suo pugno era bagnato da una luce di un colore azzurro intenso.

Per lo stupore rischiò di lasciar cadere le pietre, ma riuscì fermarsi, dicen-dosi che il chiarore non bruciava, non gli faceva male, che quello che suc-cedeva era quanto si aspettavano.

Un istante più tardi, un dardo di luce gli esplose dal pugno e saettò via, verso l'oscurità del Nord, attraversando tutto quello che trovava sul cam-mino, alberi, montagne e terreno, esattamente come il ragazzo aveva im-maginato, sciogliendo tutti gli ostacoli per giungere fino a una distanza che Kirisin non era in grado di misurare.

Aveva l'impressione di cavalcare quella luce, di muoversi con essa e di guardare dalla sua punta in movimento. Dalla velocità della scia e dal ter-reno coperto, il percorso doveva essere molto lungo, una lontana corsa nel-la notte, fino a una montagna isolata che sorgeva magnifica e ammantata di neve sullo sfondo del cielo punteggiato di nuvole. La luce raggiunse il monte, lo illuminò per un istante, poi salì lungo le sue pendici, per un lun-go tratto, fino a entrare in caverne piene di stalattiti gocciolanti che lucci-cavano al debole chiarore delle fasce di fosforescenza sulle pareti. La luce si soffermò per qualche attimo su quell'immagine, lampeggiò come per sottolineare l'importanza della rivelazione, poi si spense.

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Kirisin era rimasto immobile per tutto il tempo, ma ora indietreggiò e per poco non cadde a terra, tanta era la sorpresa per quello di cui era appe-na stato testimone.

Simralin lo prese per un braccio e lo aiutò a sostenersi. «Non era poi tanto difficile, vero?» ansimò Kirisin. «Hai visto la montagna, Piccolo K?» chiese la sorella. Lui annuì. «L'ho vista. Una montagna con alcune grandi caverne. Molto

lontana, mi è parso.» Lei sorrise, condividendo la soddisfazione con lui. «Non tanto. Conosco

quella montagna. So dove si trova e come arrivarci.» «Allora forse potrebbe essere una buona idea metterci in cammino» sug-

gerì Angela, indicando con un cenno della testa l'oscurità del Cintra e colo-ro che li inseguivano.

Senza attendere la risposta dei compagni, il Cavaliere del Verbo s'infilò

sulle spalle lo zaino e si mise in cammino, verso il Nord. Kirisin ripose le Pietre nel loro sacchetto e poi lo infilò nella tasca. «Conosci quella montagna?» chiese a Simralin, portandosi accanto a lei

che si era mossa dietro Angela. La sorella lo guardò. «La conosci anche tu, anche se non l'hai mai vista.

È la montagna dove i nostri genitori volevano fondare la nuova comunità degli Elfi del Cintra prima che Arissen Belloruus rifiutasse l'idea.»

Sorrise radiosa al fratello e gli strinse con affetto la spalla. «È il Monte Syrring, quello che i nostri genitori chiamano Paradise.»

In cima al pendio sopra i tre fuggiaschi, perso nell'oscurità degli ultimi

alberi della foresta, il demone posò la mano su Delloreen per fermarla. Lei rispose all'istante, con un brivido di piacere che le correva lungo la schie-na.

Un tempo, se qualcuno l'avesse toccata, lei avrebbe risposto in maniera molto diversa. Ma il suo compagno conosceva un modo che le dava un tale piacere, anche con il minimo contatto delle sue dita munite di artigli, da farle desiderare che continuasse. Già aveva imparato di più, su quel piace-re, di quanto avrebbe mai creduto possibile sapere.

«Non avere troppa fretta, bellissima» le sussurrò il demone, con la sua voce roca e tranquillizzante. «Lasciamoli continuare ancora un poco, prima di seguirli. Lasciamoli stare.»

Lei non avrebbe voluto lasciarli stare. Non voleva perdere un solo istan-

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te, prima di inseguirli. Voleva raggiungerli e farli a pezzi, soprattutto l'elfa che le aveva fatto perdere un occhio. Il coltello l'aveva accecata: non sa-rebbe mai più stata in grado di vedere dalla parte destra. Un colpo di fortu-na, niente di più, ma era andata in quel modo e lei aveva perso la vista. La sua collera non si sarebbe spenta finché non avesse assaggiato il sangue dell'elfa.

«Fa ancora male?» le chiese l'altro demone, a bassa voce. Una mano scese ad accarezzarle la testa coperta di scaglie, soffermando-

si vicino alla ferita, ma senza toccarla. "La mano che ha estratto la lama e fermato l'emorragia ed eliminato gran parte del dolore" pensò lei, vaga-mente, crogiolandosi nel contatto. La mano che le dava tutto quel piacere quando la toccava.

«Sei ansiosa di ucciderla, vero?» continuò il demone. «Ma non è ancora il momento. Tutto si svolge come da me voluto. Li abbiamo costretti a la-sciare la sicurezza del Cintra. Sono soli e lontani da qualunque aiuto. Li abbiamo costretti a muoversi seguendo le vie che noi avevamo tracciato per loro. Adesso ci basta essere pazienti. Quando sarà giunto il momento, potrai ucciderli tutti.»

Il brontolio di Delloreen era un misto tra un sibilo e il ronfare di un gatto che fa le fusa. Mostrò le zanne e ansimò piano.

«Andiamo in mezzo agli alberi» le disse il demone. «Ci prepareremo il giaciglio per la notte. Riposeremo e riprenderemo l'inseguimento quando tornerà la luce. La loro traccia sarà facile da seguire. Il loro odore è incon-fondibile. Ma noi ci terremo al sicuro, dietro di loro, in modo da non esse-re visti.»

Una proposta così Delloreen poteva accettarla. Sapeva che le loro prede non potevano sfuggirle. Quando lei si metteva in caccia, niente le poteva sfuggire, mai. Ma il desiderio di uccidere era forte, e lei sentiva fremere per l'inquietudine tutto il corpo coperto di scaglie.

Guardò negli occhi il compagno per fargli intendere chiaramente il suo bisogno. L'altro demone annuì.

«Va', allora. Fa' quello che devi. Ci sono altre prede per te, non solo i nostri piccoli elfi e il Cavaliere. Prendi altrove quello che ti occorre, ma per il momento non toccarli.» Si chinò a baciare Delloreen sulla punta del muso. «Va', ma torna presto.»

Con il sangue ribollente di attesa e il corpo teso dall'emozione della cac-cia, la belva simile a un lupo balzò via nella notte.

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15 Scoiattolo fu seppellito all'alba dalla sua famiglia. A quell'ora erano già tutti svegli, forse perché non erano più chiusi al si-

curo nella loro abitazione di Pioneer Square, forse perché prevedevano i ri-schi del viaggio che li attendeva. Era appena chiaro, il sole era poco più di un debole riflesso a oriente e la sua luce era offuscata da una densa cortina di fumo e di cenere provenienti dalla città e spinti a sud dal vento della notte.

Nell'oscurità, sullo sfondo buio del cielo, si vedeva ancora il bagliore dei fuochi che si spegnevano, nel porto e negli edifici vicini. A nord, tutto quello che rimaneva era una stella solitaria, un minuscolo punto di luce che pareva aver smarrito la strada.

Logan Tom si era alzato prima degli altri ed era immobile, tutto solo, sulla collinetta dove si erano accampati. Gufo lo raggiunse, sulla sua sedia a rotelle.

«Dobbiamo seppellire il bambino» le disse il Cavaliere del Verbo. «È pericoloso tenerlo ancora con noi.»

Gufo non aveva bisogno di altre spiegazioni. Troppe malattie, troppe possibilità di infezioni. Non c'era scelta, nonostante quello che provavano.

«Possiamo seppellirlo qui, sotto questo abete rosso» disse lei, indicando una pianta maestosa che la siccità e la malattia non avevano ancora privato della linfa e ucciso. «Gli sarebbe piaciuto riposare qui, credo. Ci aiuti a scavare la fossa?»

Logan posò per un attimo il bastone e prelevò dalla vettura un paio di badili, mentre gli altri sì stavano ancora destando e vestendo. Poi Orso si unì a lui - robusto, forte e silenzioso - e lavorarono insieme per scavare una fossa abbastanza profonda da tenere a distanza gli animali.

Aggiusta e Gesso li raggiunsero, ma non c'erano badili per loro e non poterono essere d'aiuto. Gesso recuperò una tavola di legno e si mise a scrivere qualcosa. Aggiusta e Passero rimasero a guardare. Pantera, invece, continuò a fissare il ragazzo dalla faccia rovinata, all'interno della vettura. Il ragazzo finse di non accorgersene, ma Logan lesse chiaramente la paura nella tensione del suo corpo, quando Pantera, impassibile, passò davanti alla fiancata.

Raggiunta una profondità di oltre un metro, Gufo chiamò gli altri. Orso andò a prendere il corpo di Scoiattolo, avvolto in una coperta, e lo portò fino a loro. Delicatamente, con l'aiuto di Passero e di Fiume, lo calò nella

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fossa e fece un passo indietro. Fiamma piangeva. Pantera continuava ad adocchiare il ragazzo nella vettura.

«Scoiattolo era un bravo bambino» dichiarò Gufo ad alta voce, guardan-do i compagni dall'altra parte della fossa. «Faceva quello che gli si diceva e non si lamentava quasi mai. Qualunque cosa lo incuriosiva e rivolgeva sempre domande a tutti. Non ha mai fatto male a nessuno. Penso che aves-se dieci anni, ma nessuno di noi conosce con precisione la sua età.»

Rifletté per un attimo. «Gli piacevano i libri, gli piaceva che glieli leg-gessimo.»

«Aspetta un momento» disse all'improvviso Passero. Si voltò e corse al carretto che conteneva le loro proprietà, frugò in mez-

zo alla confusione, poi tornò indietro. Quando la bambina li raggiunse, Logan vide che aveva in mano un libro

di fiabe. Passero scese nella tomba e lo posò sul petto di Scoiattolo. Quan-do risalì, aveva le guance lucide di lacrime.

«Era il suo preferito» disse, senza rivolgersi a nessuno in particolare. «Il suo posto è con lui.»

Alcuni lo confermarono a bassa voce. Gufo annuì. «Potrebbe avere bi-sogno di qualcosa da leggere nel viaggio. Anche se non sa leggere tutte le parole, le conosce a memoria. Sentiremo la sua mancanza.»

Passero alzò gli occhi verso il sole che sorgeva. In quella direzione il cielo aveva preso un colore grigio opaco, attraverso la cortina di nebbia e di fumo, e il mondo al di là di quel velo sembrava incredibilmente lontano.

«Lo rivoglio indietro» mormorò Fiamma. «Anch'io, cara.» Gufo si morse il labbro. «Ma forse è più felice dove si

trova adesso.» Si chinò a raccogliere una manciata di terra e la gettò nella tomba. Lo-

gan lo interpretò come segno che la cerimonia era finita e cominciò a get-tare palate di terra sul corpo del bambino. Orso continuò fissare la tomba a lungo, senza muoversi, ma alla fine anche lui cominciò a spalare la terra.

Gran parte degli Spettri si soffermò ancora per qualche istante, poi si al-lontanò. Gesso rimase finché non poté infilare nel suolo un'estremità della tavola su cui aveva continuato a scrivere. Sul legno si leggeva il nome di Scoiattolo.

Logan livellò le ultime palate di terra, quando vide che Pantera cercava di aprire la portiera dell'auto. La maniglia non si muoveva e lui la stratto-nava con furia. Il Cavaliere posò la pala, recuperò il bastone e raggiunse il ragazzo.

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«È chiusa a chiave» disse. Pantera si voltò verso di lui. «Come?» Logan indicò la portiera. «È chiusa a chiave. Non puoi aprirla.» «Allora aprila tu, signor Cavaliere o quello che dici di essere. Aprila!»

Strinse i pugni. La sua faccia scura bruciava di rabbia e dolore. «Aprila e lasciami per due minuti con quella spazzatura che c'è dentro e vedrai cosa so fare con questo!»

S'infilò la mano in tasca e ne tirò fuori un coltello a serramanico, dall'a-ria minacciosa, che si aprì con uno scatto secco facendo girare diversi dei presenti. La lama luccicò alla luce del sole appena sorto, lucida, sottile e mortale.

«Non ho alcuna intenzione di farlo» gli disse Logan. «Pantera!» gridò Gufo, pronunciando infuriata il nome del ragazzo e gi-

randosi verso di lui. «Metti via quell'arnese!» Lui non le diede ascolto. Continuò a guardare Logan. «Non metterti in

mezzo. Questa cosa non ti riguarda, non ti deve interessare. Questa cosa riguarda gli Spettri. Aprì la portiera!»

Logan scosse la testa. «No.» Per un istante ebbe la netta impressione che Pantera intendesse metterlo

alla prova. Il coltello si mosse di qualche centimetro, il ragazzo serrò ancor più strettamente il manico. Ma c'erano altri che gridavano contro di lui, a-desso. Orso gli era quasi sopra e Gufo gli stava dietro, con la faccia contor-ta dall'ira.

Pantera indietreggiò di scatto e si strinse nelle spalle. «Va bene. Fa' co-me ti pare. Non aprire. Ma non puoi continuare a tenerlo d'occhio per tutto il giorno. Presto o tardi farò quello che dovresti lasciarmi fare adesso.»

Chiuse la lama e s'infilò in tasca il coltello. «Be', cos'è successo?» chie-se, guardandosi attorno con aria stupita e mostrando le mani vuote a Gufo e Orso, che stavano calando su di lui. «Gli spiegavo solo una cosa. Volevo fargli vedere un temperino.»

Sorrise in modo disarmante e si allontanò fischiettando. Lanciò al ragaz-zo nella vettura un'ultima occhiataccia, mentre passava, ma solo Logan riuscì a sentire le parole.

Quando Pantera si fu allontanato, Orso si voltò dall'altra parte, ma Gufo si avvicinò a lui «Cos'è successo?» gli chiese. «Di cosa discutevate?»

Con la testa, Logan indicò il Lightning. «Quel ragazzo finirà per darci dei problemi, se continueremo a tenerlo con noi.»

Gufo guardò il prigioniero. «Non costituisce una minaccia per nessuno.

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Guardalo. Dev'essere terrorizzato.» Fece per aprire la portiera, ma Logan la fermò. «Non entrare» le disse.

«Ascolta. Non possiamo tenerlo con noi. Pantera lo odia. E probabilmente lo odia anche qualcun altro. Tu attiri solo guai su noi tutti.»

Gufo allontanò il braccio e girò su se stessa in modo da guardarlo in fac-cia. «Non intendeva uccidere Scoiattolo. Ho visto quello che è successo. È stato un incidente. Non possiamo continuare a dare a tutti la colpa delle cose negative, qualunque cosa...»

S'interruppe e scosse la testa. «Dobbiamo di nuovo imparare a perdona-re.» Poi indicò gli altri Spettri. «Quei ragazzi devono imparare.»

«Non discuto di quello che è successo o di come lo si deve affrontare. Dico solo che non possiamo portare con noi il ragazzo.»

Gufo distolse lo sguardo. «Non voglio lasciarlo andare finché non sarà in grado di badare a se stesso. Altrimenti sarebbe come ucciderlo.»

A Logan non piaceva l'idea, ma sapeva di non poter ottenere di più. «Va bene. Sarà per un'altra volta. Non parliamone più.»

Le gli rivolse un cenno d'assenso, senza replicare. Logan si piegò sulle ginocchia, vicino a lei, e abbassò la voce. «Devo

dirti una cosa. Questa notte ho avuto una visione, una sorta di sogno. La Signora mi ha parlato. Mi ha detto che Falco è al sicuro.»

Lei lo fissò, stupita. «Ne sei sicuro?» «Mi ha detto che è stato salvato dalla magia. Ha detto che verrà al Nord

per raggiungerci, ma che noi dobbiamo dirigerci a sud per trovarlo. Ha det-to che ci incontreremo sulle sponde del Columbia. Che cos'è, un fiume? È un nome che non ho mai sentito.»

Gufo annuì. «È a sud rispetto a noi. Non so la distanza esatta, non sono mai stata là. Ne ho solo letto nei libri.» S'interruppe, poi aggiunse: «Po-trebbe distare più di cento miglia».

Logan rifletté per un momento su quella cifra, diede un'occhiata al Li-ghtning e al carretto legato dietro di esso, poi guardò gli Spettri, accampati intorno. Quasi tutti attendevano che qualcuno dicesse loro cosa fare.

"Più di cento miglia" pensò. Non molte se avesse viaggiato da solo sulla vettura. Troppe, per un carretto e un gruppo di ragazzini che avrebbero do-vuto percorrerle a piedi.

«Dobbiamo trovare qualcosa che ci permetta di viaggiare più veloci» os-servò il Cavaliere del Verbo.

Fecero colazione e Logan divise tra tutti le loro scarse provviste, accor-

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gendosi subito che non ne avevano a sufficienza neppure per una settima-na. Troppe bocche da sfamare rispetto al viaggio che li aspettava. Doveva-no cercare di procurarsi cibo e acqua lungo la strada.

Mentre gli altri mangiavano, Gufo portava qualcosa al ragazzo legato dentro l'auto - Orso lo teneva d'occhio, attentamente - e Fiume versava qualche goccia d'acqua nella gola del Meteorologo, che era ancora per me-tà incosciente. Poi Logan controllò le cinghie del vecchio e le manette del ragazzo, che lo fissò con rancore. Controllò i carichi fissati alla carrozzeria dell'auto e sul carretto, informò Gufo e Fiamma che avrebbero viaggiato con lui e si preparò a partire.

«Suppongo che tu farai in auto tutto il viaggio, signor Cavaliere» ironiz-zò Pantera. «Noi a piedi, tu in macchina.»

«Pantera, smettila!» lo avvertì Gufo. «Al momento sono l'unico capace di guidare» gli rispose Logan. «Se

uno di voi imparasse, potrebbe aiutarmi. Ti interessa?» Pantera ebbe un attimo di esitazione, poi scosse la testa. «No, chiedevo

soltanto. Non voglio averci niente a che fare.» «Io sì invece!» intervenne subito Aggiusta. Logan annuì. «Bene, Aggiusta. Cominciamo subito le lezioni. Monta.»

Strizzò l'occhio a Gufo. «Andiamo.» Partirono verso metà mattina. La giornata era luminosa e il sole splende-

va, ma la foschia era superiore al solito. Una combinazione di fumo e ce-nere provenienti dal porto con il solito inquinamento dell'aria. Mentre scendevano dalla loro altura e si avviavano lungo lo svincolo che immette-va nell'autostrada, Logan sentiva il suono ininterrotto dei tamburi di guerra della forza d'invasione, inframmezzati ai colpi secchi e alle raffiche delle armi automatiche.

Dunque il combattimento proseguiva ancora lungo le strade. Una volta che fosse finito, nelle strade sarebbe tornata la calma, mentre i demoni e gli ex uomini avrebbero iniziato ad assediare la fortezza di Safeco Field. Poi, qualche giorno più tardi, sarebbe iniziata la vera follia.

Il suo pensiero corse alle persone condannate, intrappolate laggiù, ma non si soffermò a lungo sulla loro sorte. Non erano i primi e non sarebbero stati gli ultimi, lui non poteva salvarli tutti, per quanto si impegnasse nel farlo. Sarebbe stato fortunato se fosse riuscito a salvare i pochi che aveva potuto condurre con sé in quella fuga. Sarebbe stato fortunato se fosse riu-scito a salvare se stesso.

La loro avanzata fu lenta ma costante. Logan guidava la grossa macchi-

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na a passo di lumaca, in modo da non distanziare coloro che seguivano a piedi. Aggiusta sedeva accanto a lui e osservava i suoi movimenti, facen-dogli una domanda dopo l'altra e prestando estrema attenzione alle rispo-ste.

A un certo punto il ragazzo disse che si sentiva pronto a guidare, ma Lo-gan scosse la testa, meglio aspettare un giorno, dargli il tempo di ripensare a tutti i particolari. Aggiusta fece la faccia delusa, ma non protestò. Riprese a osservare Logan e poi cominciò a informarsi dell'armamento montato sul veicolo. Il Cavaliere esitò a rispondere, chiedendosi cosa dire, poi gli ac-cennò ai cannoni e ai lanciamissili, che in ogni caso erano chiusi a chiave, ma non fece parola dei laser e degli schermi.

Dietro di loro, Gufo continuava a parlare al ragazzo che aveva ucciso Scoiattolo, raccontandogli degli Spettri, chiedendogli di lui, cercando di farlo uscire dal mutismo. Ma non sembrava funzionare. Il ragazzo si tene-va lontano da lei, sul sedile posteriore, guardava fuori dal finestrino e ri-maneva zitto. Di tanto in tanto era costretto a volgere lo sguardo quando Pantera veniva a camminare accanto all'auto e lo fissava con un mezzo sor-riso sulla faccia scura. Logan leggeva la paura negli occhi del ragazzo; co-nosceva i progetti che Pantera aveva su di lui. Gufo cercava di distogliere Pantera dall'auto, ma anche quando si allontanava lo faceva solo per poco, poi tornava a camminare accanto al finestrino e al ragazzo, con la stessa espressione sulla faccia.

Continuarono anche nelle ore vicine al mezzogiorno, a un passo lento e privo di entusiasmo. Logan permise una sosta per mangiare, ma non inten-deva farne altre fino a sera. I ragazzi si divisero le bottiglie d'acqua che portavano legate sulla schiena e le barrette di concentrato che il Cavaliere aveva trovato in un magazzino dell'area di Chicago, alcuni mesi prima. Aveva uno scatolone di quelle barrette, ma essendo così tanti a dividersele, sarebbero finite in una settimana. Rimpianse di non aver pensato a procu-rarsi delle scorte prima di lasciare la città. Anche gli Spettri avevano porta-to pochi viveri, privilegiando scorte difficili da reperire come le tavolette per la potabilizzazione dell'acqua e le medicine, oltre ad abiti e coperte. Erano un gruppo alquanto scalcinato, pensò, ed era poco probabile che riu-scissero ad attrezzarsi meglio, almeno nell'immediato futuro.

Quando ripartirono, accanto a Logan si sedette Fiamma, la ragazzina da-gli occhi azzurri pieni di conoscenze segrete. Ricordò che aveva avuto premonizioni, che prevedeva il futuro e avvertiva dei pericoli. Vedeva cose nascoste agli altri. Era il loro cane guida nei luoghi oscuri.

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Logan ricordava che Fiamma l'aveva difeso davanti ai compagni. Una volta o due, si era accorto con la coda dell'occhio che la bambina lo osser-vava, ma aveva finto di non accorgersene. Fiamma lo stava ancora valu-tando, si chiedeva cosa provasse realmente per lui, fin dove fosse disposta a fidarsi. Lui era una parte del mondo esterno e per una ragazzina di dieci anni che aveva visto tanta oscurità e provato tanti dubbi e paure, c'erano molte cose a cui fare attenzione.

A un certo punto lei chiese: «Credi che presto rivedremo Falco?» Nel dirlo si girò per un attimo verso di lui.

«Non lo so» rispose Logan, alzando un sopracciglio. «Ma sarei più con-tento, se tornasse con noi.»

«Falco deve stare con noi.» Logan fece girare il Lightning attorno a un palo dell'elettricità caduto

sulla strada. «Gli Spettri sono una famiglia, vero?» Lei gli rivolse un cenno d'assenso con la testa. «Falco ci guiderà alla

Terra Promessa.» Questa volta non lo guardò. «Ma Gufo racconta la storia meglio di me.» Ebbe un attimo di esitazione. «Tu ci credi?»

Logan sorrise involontariamente, pensando a Due Orsi e alla Signora e al destino del Variante. «In effetti, ci credo» rispose.

Vide la bambina sorridere. Per qualche tempo lei non parlò. Era persa nei propri pensieri, lo sguardo fisso sul paesaggio grigio che si vedeva dal finestrino.

Poi chiese: «Eri un bambino di strada come noi, quando eri piccolo?». Adesso era tornata a guardarlo, lo fissava con interesse. «Appartenevi a un gruppo come gli Spettri?»

Logan scosse la testa. «Abitavo in una fortezza.» «E cosa ti è successo? Perché l'hai lasciata? Ti hanno costretto ad andar-

tene?» «La fortezza è stata sconfitta e la mia famiglia è stata uccisa. Io sono

fuggito con una banda di ribelli, uomini liberi che erano riusciti a salvare alcuni di noi. Il loro capo mi ha adottato.»

«E ti ricordi dei tuoi genitori?» «Un poco. Non molto bene, ormai.» «Io non ricordo niente dei miei.» Logan ci pensò sopra per un momento. «Forse è meglio così.» Lei inclinò leggermente la testa. «Perché dici questo?» «Perché i morti appartengono al passato.» Per molto tempo la bambina non disse nulla. Si limitò a fissarlo, con una

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grande concentrazione negli occhi azzurri. Poi rispose, a bassa voce: «Non credo che sia vero».

«No? Perché no?» «Perché erano nostri amici e hanno bisogno di qualcuno che li ricordi.

Non vuoi essere ricordato da qualcuno, quando sarai morto?» Era strano sentire quei discorsi da una bambina. Sembrava troppo adulta

per i suoi dieci anni. In ogni caso, parlare dei morti lo metteva a disagio. «Non sei d'accordo con me?» insistette la bambina. Lui le lanciò un'occhiata e si strinse nelle spalle. «Penso di esserlo, for-

se.» Fiamma piegò la testa verso di lui. «Io ne sono sicura. Non voglio che

tutti si dimentichino di me.» Si era quasi a metà del pomeriggio e il gruppo aveva coperto una ventina

di miglia. Avevano ormai superato da tempo il vasto campo di volo che si stendeva accanto l'autostrada a sud della città, quando oltrepassarono un imponente complesso industriale chiuso entro una spessa recinzione sor-montata da filo spinato.

La rete e il filo spinato fecero tornare in mente a Logan i campi di schia-vitù, ma gli edifici erano completamente diversi dalle baracche dei demoni e non c'era segno di vita in tutta l'area. Una stradina di servizio si staccava dall'autostrada, saliva su un'altura dove spuntava ancora una macchia di abeti rinsecchiti, tra pietre artisticamente disposte, e portava a una cancel-lata chiusa da una grossa catena. Sulla rete era fissata un'insegna, sbiadita e arrugginita, che diceva:

ORONIX EXPERIMENTAL Sistemi Robotici "Lavoriamo per il vostro futuro"

Logan le diede un'occhiata mentre le passava davanti, poi il suo sguardo

proseguì lungo la rete e si fermò improvvisamente su un'autorimessa. Fer-mò il Lightning, spense il motore e scese.

Gli Spettri che erano a piedi gli si avvicinarono. «Cosa succede?» chiese Pantera. «Hai deciso di lasciarmi guidare?»

«Prima non t'interessava.» Logan indicò il reticolato. «Li hai visti, quel-li?»

Indicò alcuni rimorchi piani, con gomme enormi, barre d'aggancio e sponde basse.

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«Uno di quelli potrebbe esserci utile» disse. «Bisogna entrare» osservò Aggiusta. Lanciò un'occhiata al cancello.

Chiuso da una grossa catena. «Scassinare il lucchetto. O magari tagliare la rete.»

Logan Tom tornò all'auto, spiegò a Gufo cosa intendeva fare, poi la sol-levò per farla uscire dal veicolo e sistemarla sulla sedia a rotelle; Fiamma si mise subito di guardia. Poi il Cavaliere aprì le manette del ragazzo sfigu-rato, che era sempre legato al sedile posteriore, e lo portò fino al carretto, dove lo incatenò a una ruota.

Mise Gesso di guardia al prigioniero e gli disse di assicurarsi che non gli succedesse niente mentre lui voltava la schiena: il ragazzo ne era respon-sabile.

Infine si portò sul retro dell'auto, dove c'erano i compartimenti di carico, aprì quello a sinistra, frugò all'interno e ne trasse un paio di grossi tronche-si e due mitragliette Parkhan Spray dalla brunitura nera. Portò il tutto da-vanti al Lightning, dove gli altri erano in attesa.

«Ehi, quelle sì che vanno bene contro i mutanti!» commentò Pantera, sgranando gli occhi nel vedere le Spray. «E tu sei capace di usarle senza dare l'addio a un piede?»

Logan si strinse nelle spalle. «La domanda è: le sai usare tu? Queste ar-mi non sono per me. Ho bisogno di qualcuno che mi accompagni, che mi copra le spalle.»

«Ehi, noi due, come l'altra volta» disse Pantera. «No, porta me» suggerì Passero, affrettandosi ad avvicinarsi. «Io so co-

me usarle, meglio del gatto da salotto.» Gli rivolse un sorriso ironico. «Ehi, io e lui abbiamo già lavorato insieme» ribatté Pantera. «Con te non

ha mai fatto niente, non sa niente di te. Tu sei solo un uccellino, tutto piu-me e pio-pio.»

Passero gli si avvicinò, pestando i piedi. «Chi ti ha salvato quell'inutile culetto da neonato, giù in Pioneer Square, Pantera Pisciasotto? Credi di es-sere sfuggito a quei rana grazie solo al tuo cervellino da gatto? Riesci ad arrivarci con la memoria, spero, fino a ieri notte?»

«Non sei stata tu a salvarmi, becco parlante! Sono stato io a salvare te! Hai avuto qualche grammo di...»

Logan stava perdendo la pazienza. Non aveva tempo per quei battibec-chi. «Venite con me tutt'e due» li interruppe, lanciando a ciascuno dei due una mitraglietta. Lo divertì l'esitazione con cui Pantera la prese. Passero invece afferrò al volo la sua, mise in posizione il calcio e tolse la sicura

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senza esitare. Poi mise di nuovo la sicura e rivolse un sorriso a Pantera. Logan diede il tronchese a Orso. «Fa' un foro abbastanza grande da la-

sciarci passare. Quando saremo dentro, allargalo in modo che si possa spingere fuori uno di quei rimorchi. Ti occorrerà un po' di tempo, ma non t'interrompere.»

Orso annuì e non fece commenti. Si diresse alla rete e iniziò a tagliarla. Logan si rivolse agli altri. «Rimanete qui. State insieme. Tenete gli occhi

aperti e che nessuno si allontani. Se c'è pericolo, entrate nel Lightning, tut-ti. Non sarà comodo, ma sarete al sicuro.»

Condusse Aggiusta al posto di guida, gli mostrò i pulsanti della sicurez-za e gli fece vedere come funzionavano. Quando ebbe terminato la spiega-zione e si fu fatto ripetere dal ragazzo le istruzioni, vide che Orso aveva fi-nito di tagliare la rete. Con Pantera e Passero al seguito, s'infilò nell'apertu-ra irregolare e si avviò sulla distesa di cemento che si stendeva tra lui e i rimorchi.

«State dietro di me e non allontanatevi» disse ai suoi due compagni, gi-randosi verso di loro. «Non sparatevi addosso.»

Non avrebbe saputo dire perché prendeva tante precauzioni. In fondo si trattava solo di un deposito vuoto. Ma lo preoccupava il fatto che nessuno avesse mai sfondato la rete per impadronirsi dei rimorchi. Era il tipo di ve-icolo che veniva utile un po' a tutti, comprese le fortezze. Eppure lì ce n'e-rano almeno dieci, intatti.

Impugnò più saldamente il bastone del suo Ordine e proseguì.

16 La distanza tra la rete e la zona dove i rimorchi erano allineati come ob-

bedienti animali da soma era inferiore a un centinaio di metri, ma a Logan Tom, nel percorrerla, parve assai più lunga. Gli edifici dietro quell'area e ai suoi lati erano strutture basse e tozze, prive di finestre e con pareti e tetti di lamiera metallica. Le porte, scorrevoli come quelle degli hangar, erano chiuse, ma non si scorgevano lucchetti o catene. Il cemento della pavimen-tazione era stranamente privo di macerie, una condizione che Logan non aveva visto in nessun'altra parte del paese.

E ancor più sospetto era l'aspetto lucido, pulito dei rimorchi, che non mostravano traccia di ruggine o di polvere e sembravano appena usciti dal-la fabbrica. Anche se il complesso era deserto, l'apparenza ancora nuova dei veicoli faceva pensare che qualcuno se ne prendesse cura.

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Logan si guardò attorno, inquieto. «Olà!» gridò. «C'è qualcuno?» Non comparve nessuno. Niente si mosse. Il Cavaliere si guardò alle spalle, nella direzione da cui era giunto. Gli

Spettri si erano allontanati dal Lightning e si affollavano lungo la rete, con la faccia premuta contro le maglie. Orso era il solo che non stesse a guar-dare, tutta la sua attenzione era dedicata ad allargare il varco da cui erano passati. Nel silenzio delle ultime ore della giornata, Logan sentiva lo scatto sordo del tronchese.

Era quasi arrivato al rimorchio, quando scorse il primo dei sensori. Par-zialmente incassati nella superficie del cemento, erano disposti strategica-mente lungo il perimetro dell'area ovale contrassegnata da strisce di verni-ce bianca nelle zone in cui i veicoli erano parcheggiati.

Nessuna luce usciva dall'alloggiamento dei sensori, nessun suono giun-geva dal loro interno. Logan fece segno a Pantera e Passero di fermarsi, indicò i sensori, fece qualche passo e si piegò sulle ginocchia per osservar-li meglio.

I sensori non avevano alcuna caratteristica particolare, né antenne, né obiettivi, né sporgenze di qualche tipo. Circondavano i veicoli, ma non e-rano collegati visibilmente tra loro o ad altro. Nulla indicava che fossero ancora in funzione.

Eppure, Logan aveva la netta impressione che lo fossero. Che fare? Le sue possibilità erano limitate. Non poteva disattivare i sensori senza

sapere qualcosa di più sulla loro natura. Di conseguenza rimanevano solo due alternative. Poteva controllare se erano attivi - sapendo che, in quel ca-so, le conseguenze potevano essere sgradevoli - o girare sui tacchi, tornare sui suoi passi, portarsi al di là della recinzione e lasciar perdere. E non po-teva fare a meno di pensare che se fosse stato solo non avrebbe avuto nes-sun problema. Lui era lì, a correre quei rischi, soltanto perché aveva preso con sé un gruppo di ragazzi che avevano bisogno di un veicolo.

Allontanò quel pensiero. In fin dei conti, neanche loro l'avevano chiesto. Diede un'altra occhiata all'intero complesso, cercando un indizio che gli

suggerisse cosa doveva fare, ma non trovò niente. Si guardò alle spalle e vide che Orso aveva terminato di tagliare la rete, che adesso l'apertura era sufficiente a lasciar passare un rimorchio. Quei mezzi erano grossi, ma fa-cili da muovere a spinta quando erano vuoti. Con l'aiuto di Pantera, non prevedeva di incontrare difficoltà a portarne via uno.

Bastava raggiungerli: passare in mezzo al perimetro di sensori, superare

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gli allarmi e affrontare quello che attendeva gli intrusi, qualunque cosa fosse.

Impugnò il bastone e sentì aumentare il calore della magia. Non aveva paura, ma preferiva muoversi con cautela. Non solo per se stesso, ma per i bambini che lo accompagnavano. I bambini erano sempre bambini, anche se erano cresciuti nella strada.

I veicoli erano davanti a lui, allineati in bell'ordine. Del resto, perché pensare di difendere seriamente un gruppo di semplici rimorchi? Non pos-sedevano un vero valore, niente che meritasse la potenza di fuoco a dispo-sizione delle fortezze.

Eppure nessuno li aveva toccati. Alla fine, prese la decisione. Si affrettò a girarsi e fece segno a Pantera e

Passero di indietreggiare. «Questo posto non mi piace. Torniamo indietro.» «Indietro?» Pantera lo guardò con stizza. Indicò i sensori. «Per colpa di

questi?» «L'hai sentito!» esclamò Passero, che si stava già allontanando. Pantera scosse la testa, disgustato, e si stava già voltando per seguirli,

quando scorse qualcosa che Logan non aveva notato, o di cui forse neppu-re immaginava l'esistenza, ma sufficiente a scatenare l'immediata reazione del ragazzo, che si voltò e sparò una lunga raffica, colpendo i rimorchi e distruggendo alcuni dei sensori più vicini.

"No!" pensò Logan, rivolgendo in fretta un'occhiata all'area circostante. Alcuni pannelli nascosti nella superficie piatta si stavano già spalancando e i sensori ancora intatti stavano rientrando nel terreno. Nelle pareti degli e-difici ai lati dell'area si aprirono, come bocche affamate, grandi porte che correvano su rulli d'acciaio. Dal buio all'interno delle costruzioni giunse un ronzio di motori e il minaccioso scatto di ingranaggi che si mettevano in movimento.

«Fuori di qui, subito!» gridò Logan ai suoi due giovani compagni. Ma Pantera non riusciva a muoversi, era paralizzato, forse sbalordito

dalla propria reazione, forse indeciso. Passero urlava. Da dietro la rete, gli altri Spettri gridavano, per lo spavento o per incoraggiare i compagni, im-possibile capirlo. Ma Pantera sembrava incapace di udirli, aveva gli occhi incollati sulle aperture che si stavano allargando nelle pareti degli edifici.

Un istante più tardi, un gruppo di macchine dalle zampe di metallo uscì alla luce del giorno, pesanti e tozze. Sembravano insetti mostruosi: il corpo era sorretto da una serie di arti meccanici, la testa punteggiata di sfere di

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vetro che brillavano e pulsavano, e dalle mascelle uscivano armi che sem-bravano mandibole. Ce n'erano cinque, tutte grandi abbastanza da far intui-re come fossero pronte a muovere guerra a qualunque assalitore, tranne forse le bombe nucleari, che cercasse di impadronirsi del complesso.

"Nessun mezzo vale una simile difesa" pensò Logan. "Una reazione co-me questa non ha niente a che fare con i rimorchi. Serve a proteggere qual-cosa di molto più importante, qualcosa che la Oronyx stava costruendo quando è giunta la fine." Gli operai umani erano scomparsi, ma le macchi-ne che avevano costruito per difendere il loro lavoro erano ancora presenti, programmate per respingere ogni invasione.

Corse da Pantera, lo afferrò per le spalle e lo voltò dall'altra parte. «Cor-ri!» gli gridò da pochi centimetri di distanza. E nello stesso tempo lo spin-se verso la rete.

Un attimo più tardi, il calore del laser cominciò ad arroventare il cemen-to della pavimentazione, sottili raggi rossi che saettavano davanti a lui. Si voltò e, impugnato con entrambe le mani il bastone, scagliò una vampata della bianca magia del Verbo contro il primo attaccante.

Il fuoco magico troncò gli arti su cui si reggeva e fece cadere la macchi-na sulla seguente; entrambe finirono a terra. A terra, ma non per molto. Presto si rialzarono e ripresero ad avanzare.

Logan si affrettò a correre verso la recinzione. Le macchine erano grosse e parevano molto pesanti, ma si muovevano veloci e senza fermarsi. Erano progettate per vincere nemici più potenti di lui.

Si guardò alle spalle e vide che Pantera e Passero si voltavano e punta-vano le armi contro i due giganti che si avvicinavano.

«No!» gridò. «Scappate!» Stavano perdendo tempo prezioso. La loro possibilità di sopravvivere

stava nel tornare al di là della rete e sperare che le macchine non fossero programmate per oltrepassare i confini del complesso. Le Parkhan erano armi formidabili, ma non abbastanza potenti da fermare quei mostri.

La sua stessa magia poteva non bastare. Logan la usò lo stesso, martellando le macchine simili a insetti. Le colpì

con lunghe scariche mirate alle articolazioni delle zampe storte. Ne abbatté una, azzoppandola a tal punto che non riuscì più a sollevarsi. Ma le altre continuavano ad avanzare e ormai gli erano quasi addosso. Il Cavaliere si voltò e corse via con tutta l'energia che aveva in corpo, scansando i colpi laser che cercavano di fermarlo. Le macchine non si concentravano su Pantera e Passero, che evidentemente non giudicavano pericolosi, ma pun-

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tavano su di lui. La magia lo proteggeva dalle scariche più forti, che car-bonizzavano tutto quello che lo circondava, ma Logan cominciava a inde-bolirsi per lo sforzo.

La rete era ancora lontana, troppo distante per arrivarci prima che le macchine lo raggiungessero. Un colpo davanti a lui gli fece volare in fac-cia schegge di cemento e Logan Tom finì a terra, in una confusione di gambe e di braccia, e il bastone gli volò via dalle mani.

Fuori della rete scoppiò il pandemonio. Tutti gli Spettri cominciarono a gridare contemporaneamente, gesticolando con foga, nel tentativo di essere d'aiuto ai tre compagni intrappolati all'interno, in una combinazione di pio desiderio e di urla assordanti. Tutti premevano la faccia contro le maglie della rete, le stringevano tra i pugni. Orso tentò addirittura di infilarsi nel varco che aveva aperto, finché il grido di Gufo non lo bloccò.

Per alcuni istanti tutti persero il controllo. Tutti, tranne Aggiusta. Aggiusta era sempre stato abilissimo nel trovare il modo di far funziona-

re le cose. Soprattutto le cose meccaniche. Macchine di tutti i tipi, grandi e piccole, intere o a pezzi, utili o inutili che fossero, da smontare o da rimon-tare, per lui erano tutte uguali. Se c'era una possibilità di farle funzionare, lui la voleva scoprire. Non sapeva spiegare perché le macchine lo appas-sionassero tanto, sapeva solo che non c'era mai stato un momento, per quanto ricordava, che lavorare sulle macchine non fosse stato il suo passa-tempo preferito.

Era il figlio di mezzo di una famiglia di cinque fratelli, due maggiori e due minori, con entrambi i genitori ancora vivi che si prendevano cura di loro. Lavoravano la terra in una fattoria sul confine orientale dello stato di Washington, un'attività di scarso reddito in una zona scarsamente popolata. La famiglia più vicina era a otto chilometri di distanza, la prima città a trenta. Raramente vedevano qualcuno, a parte gli Strayhorn, la famiglia che abitava sulla loro strada e da cui si recavano un paio di volte l'anno e che a sua volta veniva a trovarli altrettante.

Questo era lo stato delle cose quando Aggiusta, a soli quattro o cinque anni, aveva cominciato a interessarsi al funzionamento delle macchine. Poco più tardi, gli Strayhorn non erano più venuti a trovarli. Sua madre aveva detto che si erano trasferiti in città. Suo padre aveva cominciato a portare con sé un fucile, dovunque andasse.

Aggiusta, come figlio di mezzo, non aveva un suo posto o un ruolo chia-

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ro nella famiglia. I due fratelli maggiori lavoravano con il padre, i due più giovani erano troppo piccoli per fare qualcosa. Due gemelli di quattordici mesi. In ogni caso, non erano sopravvissuti a lungo. Avevano preso qual-cosa, probabilmente un'infezione, mentre dormivano insieme nello stesso letto o giocavano nello stesso recinto, e dopo una settimana erano morti.

Aggiusta non ricordava neppure il loro nome; non erano più reali per lui. Come molto di quello che si è perso, sembravano parte di un sogno.

Dopo la loro morte, i suoi genitori avevano cominciano a parlare di tra-sferirsi altrove, anche se non si sapeva esattamente dove si potesse stare meglio.

All'epoca, Aggiusta aveva sette anni, ed era così profondamente immer-so nel suo amore per le macchine, che sembrava diventare invisibile. Tutti cessarono di chiedersi cosa stesse facendo perché stava sempre facendo la stessa cosa.

Dato che era diventato il più giovane, riceveva delle attenzioni di cui i fratelli maggiori non godevano e per la maggior parte del tempo veniva la-sciato solo. Aggiusta era intelligente e già in grado di leggere i vecchi ma-nuali di riparazione dei vari tipi di macchine. Quando aveva nove anni, era già arrivato a una notevole comprensione dell'energia solare e aveva co-minciato a lavorare a un collettore in grado di alimentare il solo veicolo in loro possesso, che non si era più mosso da quando si erano guastati gli ac-cumulatori. Prestava attenzione, almeno parzialmente, a quello che succe-deva attorno a lui, ma in genere si concentrava sui suoi progetti.

E proprio mentre stava collaudando il collettore sulle collinette che cir-condano la casa, a una certa distanza dall'abitazione nel caso qualcosa do-vesse andare male, una delle milizie rinnegate che operava da schiavista aveva scoperto la sua famiglia, ne aveva vinto la resistenza e l'aveva porta-ta via.

Il ragazzo non se ne sarebbe accorto se non avesse visto il fumo degli edifici dati alle fiamme e non fosse sceso di corsa dall'altura, appena in tempo per vedere i camion sparire in lontananza.

Per qualche giorno, Aggiusta non aveva saputo cosa fare. Aveva pensato vagamente di mettersi alla ricerca dei genitori e dei fratelli, ma non aveva idea di come fare o neppure di dove cercarli. Era rimasto sulle colline a la-vorare sul collettore e la concentrazione richiesta da quello sforzo gli ave-va fornito la scusa per non pensare a quello che era successo alla sua fami-glia e che poteva accadere anche a lui.

Completamente immerso nel suo lavoro, l'aveva terminato e infine era

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caduto in un sonno profondo. Al risveglio si era messo in spalla il colletto-re e si era allontanato con l'intenzione di raggiungere la costa. Era stato scoperto da una piccola carovana di famiglie che avevano lasciato il centro del Midwest, bruciato dal sole e dalle radiazioni, per cercare un luogo mi-gliore.

La carovana avrebbe potuto abbandonarlo al suo destino e andarsene - non aveva bisogno di un'altra bocca da sfamare e nessun interesse a racco-gliere dispersi - se non fosse stato per il collettore. Impressionati dall'abili-tà di quel bambino di soli nove anni, avevano deciso di prenderlo con loro.

Quando erano arrivati a Seattle, il ragazzo era pronto ad andarsene per la sua strada e li aveva abbandonati di notte, scivolando via e allontanandosi tra gli edifici del porto. Si era nascosto in un garage abbandonato e lì Orso l'aveva trovato, alcune settimane più tardi, sudicio, stracciato e mezzo morto di fame, seduto davanti al suo collettore come se fosse un tempietto votivo, intento a leggere vecchi manuali che aveva scovato in mezzo ai ri-fiuti.

Orso non sapeva cosa farsene di quel bambino, ma l'aveva portato da Falco, che aveva riconosciuto immediatamente le sue capacità e l'aveva invitato a far parte della famiglia.

Ma Aggiusta si trovava di nuovo a essere il figlio di mezzo, anche nella sua nuova famiglia. Lo apprezzavano quando c'era bisogno delle sue capa-cità, ma per il resto del tempo nessuno badava a lui. Inoltre, c'era l'aggra-vante che gli altri occupavano già una posizione precisa nella scala gerar-chica: Falco il capo, Orso e Pantera i soldati, Gufo la voce della saggezza e della ragione, Fiamma la veggente, Passero quella selvaggia e imprevedi-bile, Fiume la misteriosa.

Aggiusta era solo un ragazzo come tanti, niente di speciale, né per le doti fisiche né per l'intelligenza. Gli altri erano forti, belli, intelligenti, e lui li invidiava tutti. Certo, era quello che sapeva riparare ogni cosa, ma non era una capacità che suscitasse molta emozione. Contribuiva a isolarlo anche la sua tendenza a distrarsi e a dimenticare quello che doveva fare. Spesso finiva per essere preso in giro. Il suo posto nella famiglia era importante, ma non si sentiva apprezzato per se stesso.

Tutto questo era cambiato con l'arrivo di Gesso, un ragazzo della sua età e con gli stessi problemi. Un ragazzo che a volte era ancora più goffo di lui. Avevano fatto subito amicizia e all'improvviso non aveva più avuto importanza il fatto che gli altri, a volte, non sapessero cosa fare di loro. Ciascuno apprezzava l'altro e insieme occupavano il solido terreno centrale

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della famiglia. Aggiusta con le sue macchine e Gesso con la sua arte erano molto diversi in superficie, ma molto simili nel loro intimo.

Però, in quella parte privata della sua mente, dove neppure Gesso aveva il permesso di leggere, Aggiusta sognava ancora di compiere qualcosa che spingesse gli altri a guardarlo con occhi diversi.

Qualcosa come il gesto di Passero, quando aveva affrontato e ucciso il centopiedì gigante, qualcosa di così emozionante e meraviglioso da co-stringere tutti a parlarne, per sempre.

Qualcosa di eroico e stupefacente. Almeno una volta. E adesso, alla Oronyx Experimental, Aggiusta ne aveva la possibilità. Mentre gli altri erano corsi freneticamente alla recinzione e si erano ag-

grappati alle maglie di ferro, Aggiusta non aveva perso la testa. Era corso al Lightning e aveva battuto sulla tastierina numerica il codice di sicurez-za. Aveva visto Logan Tom inserire quel codice e prestato attenzione alla sequenza di cifre. Per fortuna la memoria non l'aveva tradito e i blocchi si erano aperti.

Scivolato all'interno, aveva chiuso gli interruttori delle batterie e dato energia al veicolo. La vibrazione del motore gli pulsava nelle vene come un'iniezione di stimolante. Mentre voltava l'auto verso la breccia nella rete, sulla faccia gli comparve un largo sorriso.

Sapeva quello che doveva fare. Scorse la faccia pallida di Gesso, rimasto senza parole per lo stupore,

mentre attraversava il breve tratto di terreno fra l'autostrada e la recinzione. Il Lightning finì in un fossato e per poco il contraccolpo non gli strappò di mano il volante, mentre l'auto si piegava selvaggiamente da un lato. Per un momento, Aggiusta si disse che era tutto un errore, che lui non era capace di guidare quel veicolo. L'istante successivo era al di là della rete e si pre-cipitava verso il cuore della battaglia.

Logan Tom era caduto, disteso sul terreno, e il suo bastone era a qualche metro di distanza mentre i guardiani meccanici stavano per raggiungerlo. Passero e Pantera si erano voltati verso le macchine e facevano fuoco su di esse con le pesanti Parkhan Spray, nel disperato tentativo di fermarle. Ma era un tentativo inutile, le corazze di quei mostri erano troppo spesse.

Aggiusta guardò sul cruscotto i comandi delle armi, sotto lo schermo del pilota automatico, e scelse due pulsanti di un gruppo di quattro, tutti con una freccia rossa. Li premette mentre voltava l'auto in modo che i suoi a-

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mici non fossero sulla traiettoria, e riuscì a lanciare un paio di missili-dardo che colpirono una macchina. L'esplosione fu accompagnata da una luce accecante e da un'onda d'urto che scagliò a terra Pantera e Passero e fece tremare il veicolo. Due macchine non si mossero più, e le altre si di-ressero verso il Lightning. Aggiusta si affrettò a premere gli altri due pul-santi.

Questa volta non successe niente. Forse, due soli tubi erano carichi, pen-sò, pentendosi di non avere rivolto a Logan Tom più domande quando ne aveva avuto l'occasione. Il suo sorriso si allargò mentre il Lightning faceva una brusca svolta per evitare i laser. "Oh, al diavolo!" si disse. "Ormai è tardi."

Puntò dritto contro le macchine, mentre il loro fuoco colpiva il terreno vicino a lui e infine lo stesso Lightning. Anche se le braccia gli dolevano per lo sforzo, tenne saldamente il volante e accelerò. In pochi secondi fu sulle macchine e urtò con il fianco la più vicina, spezzandole alcune zampe di metallo e rendendola inoffensiva. Poi le oltrepassò e vide davanti a sé gli hangar da cui erano uscite.

Che ce ne fossero delle altre? In ogni caso, non era quello il suo obietti-vo. Sterzò per far tornare indietro il veicolo, gli pneumatici stridettero, e per un istante il ragazzo temette di avere perso del tutto il controllo.

Logan Tom, di nuovo in piedi, corse a recuperare il bastone, lo raccolse e si girò indietro con un unico, fluido movimento. Un fuoco azzurro scaturì dalla punta e rovesciò un'altra macchina. Gridò a Pantera e Passero di af-frettarsi.

Aggiusta si gettò contro la macchina rimanente, lanciando quelle che credeva cariche penetranti, proiettili che riuscivano a forare il cemento. Ma scagliò invece due rocchetti di filo incendiario, che avvolsero l'ultimo di-fensore in metri di filo corrosivo. In pochi istanti il fuoco penetrò nella co-razza e la macchina barcollò come un animale ubriaco.

Aggiusta raggiunse Logan Tom e frenò. Il Cavaliere del Verbo corse alla portiera destra e balzò nel veicolo.

«Va'!» ordinò bruscamente, mentre le sue mani volavano verso il quadro delle armi. Aggiusta obbedì all'ordine e l'auto, tra lo stridore degli pneuma-tici, ritornò verso il foro della rete. Pantera e Passero erano già in salvo e si erano riuniti agli Spettri, che si affollarono attorno a loro.

Aggiusta guidò il Lightning oltre il gruppo degli amici e lo fermò sul ci-glio dell'autostrada. Ansimava così forte che per qualche istante non riuscì a staccarsi dal sedile. Le sue mani continuavano a stringere il volante, il

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corpo tremava, gli occhi erano fissi in avanti. «Adesso puoi rilassarti» gli disse Logan Tom, e lo aiutò ad aprire le dita.

Fissò negli occhi il ragazzo. «Hai fatto un ottimo lavoro, Aggiusta.» Il ragazzo annuì, poi sorrise. «Grazie.» Logan gli rivolse un cenno con la testa. «Adesso puoi dare un'occhiata al

sedile posteriore.» Quando obbedì, il ragazzo si trovò a fissare la figura prona del Meteoro-

logo, ancora legato alla sua barella. Aggiusta respirò a fondo. Non aveva pensato alla presenza del vecchio.

Il Meteorologo aveva gli occhi spalancati e fissi. Non lo si vedeva respi-rare.

«Smonta e va con gli altri» gli ordinò Logan. La sua voce era stranamen-te calma. «Va', prima che arrivino. Presto!»

Aggiusta fece come gli diceva, con il cuore in gola, la bocca secca. Aprì la portiera e si allontanò. Si accorse che gli tremavano le ginocchia. Riuscì a fare solo una decina di passi, poi venne circondato dagli altri Spettri, che lo festeggiarono e gli batterono le mani sulla schiena per complimentarsi del suo audace salvataggio.

«È stato meraviglioso!» dichiarò Passero, con un grande sorriso. «C'è del ferro dentro di te, ometto» disse Pantera. «Ci vuole qualcosa di

robusto, dentro, per fare quello che hai fatto. Qualcosa di duro.» Solo Gufo pareva essersi accorta di quello che non andava. Logan incro-

ciò il suo sguardo mentre indugiava dietro gli altri e lei si portò con la se-dia a rotelle fino al Cavaliere. Con la coda dell'occhio, Aggiusta vide che la ragazza guardava dentro il veicolo; cercò di non fissare Gufo, ma non ci riuscì.

Logan Tom era curvo sul vecchio, accostava l'orecchio al suo petto, poi alla sua bocca. "Ti prego" pregava in silenzio Aggiusta. "Non lasciarlo morire."

«Ehi, giovane, sto parlando a te!» gli disse Pantera, dandogli una spinta scherzosa. «Il minimo che potresti fare è almeno prestare attenzione, quando una persona ti dice quanto sei grande. Ci hai salvato, sai? Maledet-ti scarafaggi! Ecco cosa sono, scarafaggi meccanici! E ci avrebbero presi, se non fosse stato per te.»

Aggiusta gli rivolse un sorriso imbarazzato. Pantera continuò a gridare per mostrare la sua euforia. Ma quando tornò a guardare il Lightning, Lo-gan Tom stava smontando per avvicinarsi a Gufo che piangeva, e Aggiusta sentì andare in cenere gli ultimi resti della sua gioia.

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17

Aggiusta era distrutto, disperato. Gufo glielo leggeva in faccia, mentre si

avvicinava agli Spettri che si stavano ancora congratulando con lui per il suo coraggioso salvataggio. Il ragazzo cercava di convincersi che il nonno di Fiume non era morto per colpa sua, ma non riusciva a crederci.

Gufo sapeva cosa gli passava per la testa. Se non avesse avuto tanta fret-ta, se avesse perso un istante a controllare, se non avesse avuto una guida così spericolata, se non si fosse distratto... Lei avrebbe voluto rassicurarlo, dirgli che non era colpa sua, ma prima che riuscisse a raggiungerlo, Logan li chiamò tutti.

«Attenzione! Allontanatevi dalla rete! Tornate qui all'auto! Subito!» Tutti lo guardarono stupiti, poi si girarono verso il punto indicato dal

Cavaliere. Decine di minuscole macchine erano emerse dal complesso, di tutte le

forme e dimensioni. Come un esercito di formiche, sciamarono sul corpo delle sorelle cadute. Da piccoli sportellini uscirono saldatori e pinze, e le macchine si misero al lavoro sui robot abbattuti, per riparare e sostituire le parti danneggiate, per rimetterle insieme, in modo lento ma sicuro.

Un'altra decina delle piccole macchine aveva raggiunto la rete e stava saldando le maglie tagliate da Orso. L'intera zona attorno ai rimorchi fer-veva di attività.

Pantera stava già puntando la suo Parkhan contro l'apertura quando Lo-gan lo fermò. «Lascia stare, Pantera! Non diamogli una ragione per uscire. Lasciamole fare quello che sono programmate per fare. Prendete tutto e andiamo via.»

Con riluttanza, Pantera si allontanò, mormorando qualcosa contro gli "scarafaggi".

Gli Spettri si affrettarono a raggiungere il Lightning e il carretto, e Lo-gan assegnò i posti. Mise Fiamma accanto a sé e sul sedile posteriore Fiu-me con il nonno. Si stava dirigendo verso Gufo quando la donna gli fece segno di allontanarsi e andò da Aggiusta.

«Mi spingi per un poco?» gli chiese. «Ho bisogno di stare fuori all'aria aperta.»

Logan incatenò al carretto il ragazzo deturpato dicendogli che poteva camminare per qualche ora; gli mise Orso accanto, di guardia, e ordinò a Pantera di stare alla larga. Partirono pochi minuti più tardi e continuarono

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a dirigersi a sud, lasciandosi alle spalle la Oronyx Experimental e le sue macchine. Erano tuttora privi del rimorchio di cui avevano bisogno, ma Logan disse loro di non preoccuparsi. Avrebbero trovato qualcosa per strada, assicurò. Qualcosa che non fosse così pericolosamente protetto.

Il pomeriggio finiva, il cielo scoloriva e le ombre si allungavano. Un ge-lo inconsueto pervadeva l'aria, abitualmente afosa e stagnante, ma Gufo non voleva chiedere ad Aggiusta di portarle un golf o una coperta perché aveva paura di perderlo. Voleva tenerlo accanto a sé finché non gli avesse detto quello che secondo lei c'era da dire.

Non gli parlò subito, però. Lasciò che la spingesse in silenzio, che la tensione sparisse. Si era ormai alla fine della giornata, aspettavano soltanto di trovare un posto adatto per accamparsi e trascorrere la notte.

«Hai mai letto di macchine come quelle in una delle tue riviste, Aggiu-sta?» gli chiese alla fine. «Non sapevo che esistessero cose di quel gene-re.»

Il ragazzo non rispose. Continuò a spingere la sedia a rotelle, senza acce-lerare e senza fermarsi. Forse non l'aveva sentita. Lanciò un'occhiata da-vanti a sé, a Orso e Gesso che camminavano vicino al carretto e al ragazzo incatenato. Ancora più avanti, il Lightning avanzava lentamente sull'auto-strada, come un grosso insetto nero. Pantera era davanti a tutti e procedeva da solo.

Gufo guardò a sinistra e a destra senza girare la testa. Passero cammina-va dietro di lei, alla sua sinistra, e si teneva a una distanza sufficiente a non interferire, ma abbastanza vicina da poter accorrere se veniva chiamata. "Tipico di Passero" pensò lei.

«Ho letto qualcosa» disse all'improvviso Aggiusta. «Costruivano dei computer capaci di pensare come gli uomini e programmati per svolgere una o due funzioni specifiche. Ma non ne avevo mai visti, prima d'ora.»

«Mi chiedo cos'altro ci fosse in quegli edifici» commentò Gufo. Tra loro scese di nuovo il silenzio, per alcuni minuti. Il solo rumore era

quello della ghiaia sotto le ruote della sedia a rotelle. Gufo guardò un falco che volava sopra di loro e le tornò in mente la ragione del loro viaggio ver-so sud. Pensò anche a come erano vissuti per tanti anni nella loro casa di Pioneer Square, quando avevano una casa e il mondo esterno non li aveva ancora raggiunti. Ne sentiva la mancanza.

«Mi dispiace per quello che è successo» disse all'improvviso Aggiusta. Pronunciò le parole così piano che Gufo quasi non lo sentì.

«Lo so.» Continuò a fissare davanti a sé. «Anche a me dispiace di non

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poter cambiare tutte le brutte cose che continuano a succedere.» «Non l'ho fatto apposta.» «Lo so.» «Non mi è neppure venuto in mente che potesse esserci.» Gufo sentì che

la sua voce si incrinava. «Perché non ho dato un'occhiata? Bastava solo che mi girassi, l'avrei visto.»

«Cercavi di fare qualcosa di coraggioso e pericoloso» rispose lei. «Cer-cavi di salvare i tuoi amici. Non avevi tempo di fermarti e di pensare ad al-tro.» Adesso si voltò verso di lui. «Se non avessi agito così in fretta, sareb-bero morti tutti. Gii altri non sapevano cosa fare, ma tu sì. Tu eri il solo.»

Aggiusta abbassò lo sguardo su di lei, ma subito lo distolse. «Avrei do-vuto guardare.»

«È facile dirlo adesso» commentò lei. «Adesso che tutto è tranquillo, pacifico e sicuro. Ma tu hai fatto il meglio che potevi nella foga del mo-mento. Credo che nessuno ti incolpi di quello che è successo al nonno di Fiume, neppure lei.»

«Tu non lo sai. Lei non vuole neppure parlarmi.» Gufo trasse un profondo respiro. «Lascia che ti dica una cosa, Aggiusta.

Una cosa vera. Il nonno di Fiume era molto malato. Aveva una malattia in-fettiva. Di un tipo che io non potevo curare, non avevo le medicine. Era una malattia che si portava dietro da tempo. Ce l'ha detto Fiume. Questa è stata solo l'ultima crisi. Finora non l'avevo detto a nessuno, ma era in punto di morte. Era sempre più debole, e io non potevo fare nulla, era già alla fi-ne.»

Aggiusta rimase in silenzio per molto tempo. Lei attese con pazienza. «Lo dici solo per farmi sentire meglio» commentò infine il ragazzo. «Certo, lo dico per farti sentire meglio» ammise lei. «Ma è vero.» Non lo era, ovviamente. Era una mezza bugia. Il nonno di Fiume poteva

migliorare, poteva guarire. Nessuno poteva averne la certezza. Lei, però, non ci credeva. Non aveva visto nulla che lo indicasse. D'altra parte, nes-suno poteva essere certo che gli scossoni dell'auto sotto la guida di Aggiu-sta avessero causato la morte del vecchio. Per quello che ne sapevano, po-teva già essere morto senza che nessuno se ne fosse accorto. Nel loro mondo la morte era così. Afferrava coloro che ti stavano vicino, come il vento che raccoglie le foglie secche, e non ti accorgevi subito della loro scomparsa.

«Ha dato segni di vita mentre guidavi?» chiese al ragazzo. «Non lo so.»

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«Hai sentito qualcosa?» Silenzio. Poi: «Mi pare di no». Lei lasciò che ci pensasse per un momento, poi disse: «Hai salvato tre

vite. Tre vite molto importanti. Se avessi perso quelle vite, forse saremmo morti tutti. Probabilmente non saremmo riusciti a terminare questo viag-gio, la ricerca di Falco e di Tessa, senza l'aiuto di quei tre».

Non disse altro e il ragazzo non fece commenti, continuarono a cammi-nare sull'autostrada, dietro il Lightning e il carretto, come pecore dirette al pascolo, mentre il sole svaniva all'orizzonte. Al crepuscolo arrivarono a un parco situato accanto alla carreggiata, dove potevano rifugiarsi tra gli albe-ri; c'erano anche una capanna e un focolare e alcune vecchie panche di le-gno. Non appena si furono fermati, Logan Tom cominciò a scavare una fossa in mezzo agli alberi. Orso e Pantera lo stavano aiutando quando si presentò Aggiusta, che chiese di poter dare una mano anche lui. Senza fare parola, Pantera lo fissò e gli passò il suo badile, poi si avvicinò a Gufo, che stava scaricando le provviste per la cena.

«Il vecchio sarebbe morto in qualunque caso» disse, senza preamboli. «Sì, noi due lo sappiamo, ma Aggiusta non ne è sicuro» rispose lei, al-

zando gli occhi dal suo lavoro. Passero, che la aiutava a scaricare, non li guardò.

«Non ha senso darsi la colpa come fa Aggiusta. Ha fatto quello che era necessario fare, altrimenti saremmo morti. Vero, Passero?»

«Diglielo tu, gatto da salotto» gli rispose la ragazzina. «Aggiusta non ha niente di cui pentirsi.» «Digli anche questo, allora.» Gufo sorrise al giovane. «Ha bisogno di sentirselo dire da tutti. Deve

sentirlo molte volte, così finirà per crederci.» Mezz'ora più tardi seppellirono il Meteorologo. L'oscurità era quasi

completa, un debole chiarore proveniente dalle nuvole che coprivano la lu-na forniva l'unica luce. Si raccolsero attorno alla fossa, in un gruppo serra-to, e a uno a uno lo ricordarono.

«Era uno strano vecchio» disse Orso parlando alla sua maniera, lenta e meticolosa. Spostò il peso da un piede all'altro, inquieto perché doveva fa-re un discorso. Ma Gufo aveva chiesto a tutti di dire qualche parola, e Gu-fo era la madre della famiglia. Orso si schiarì la gola. «Non sempre era fa-cile capirlo. Ma era gentile e non ha mai fatto niente contro di noi. Ci te-neva sempre d'occhio, anche quando noi non ce ne accorgevamo. Me l'ha detto Falco. Sentiremo la sua mancanza.»

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«Il Meteorologo ci avvertiva sempre dei pericoli» aggiunse Passero. «In questo era molto bravo, anche se non sempre lo capivamo. Se fosse stato un ragazzo, l'avremmo preso tra gli Spettri.»

«Dite quello che volete, sul vecchio» commentò Pantera, dopo averci pensato per un momento. «Dite quello che volete, ma ricordate che ci ha dato Fiume, e che lei è speciale.»

L'affermazione era così inattesa che per un momento nessuno fece commenti. Tutti rimasero immobili, nell'oscurità, a fissare Pantera.

«Come?» esclamò infine il ragazzo. La sua faccia era più cupa del solito. «Ho solo detto la verità!»

«Il Meteorologo era nostro amico» disse Gesso, e dopo un istante di at-tesa, si accorse di non saper dire altro. Si schiarì la gola, guardò gli altri e si strinse nelle spalle. «Era nostro amico» ripeté. «Lo è sempre stato.»

Adesso era il turno di Aggiusta. Il ragazzo guardò in terra, rigido e teso per l'emozione. Scosse la testa.

«Non so che dire» sussurrò. «Lo so io.» Fiume gli si avvicinò e gli mise un braccio sulla spalla. «Mio nonno era una brava persona e ha avuto una buona vita. Non è sta-

ta sempre facile per lui, ma in generale è vissuto bene. Gli piacevate tutti, me lo diceva sempre. E quando siete partiti l'avete preso con voi, anche se lui credeva che non l'avreste portato. E questo lo ha reso felice. Lo so.»

S'interruppe, ma continuò a tenere il braccio sulla spalla del ragazzo. «Se fosse qui, Aggiusta, ti direbbe che quanto gli è successo non è colpa tua. Non devi dare a te stesso la colpa della sua morte. Sei stato un buon amico per lui e lo sei per tutti noi; e nessuno di noi ha intenzione di ripen-sare all'accaduto. La cosa è andata com'è andata.»

Si chinò a baciarlo su una guancia, poi lo abbracciò e lo strinse a sé. Ag-giusta piangeva, ma Gufo, che, seduta sulla sedia a rotelle, studiava la sua faccia, sapeva che tutto era andato a posto.

Logan Tom non ne era altrettanto sicuro. Non era sicuro di Aggiusta, che secondo lui era rimasto segnato dall'e-

sperienza, ma soprattutto non era sicuro di come fosse destinata a finire la sua missione.

La previsione era di viaggiare in direzione sud, verso il fiume Columbia, e di trovare Tessa e Falco. Da quel momento in poi, tutto sarebbe andato nel modo migliore.

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L'intero programma, però, si basava su alcuni presupposti. Il primo era che riuscissero ad arrivare fin là sani e salvi, il secondo che sarebbe stato facile trovare Falco una volta arrivati. E che il viaggio stesso non compor-tasse un danno emotivo e psicologico così pesante da impedire loro, in se-guito, di guarire.

I primi due presupposti comportavano una tale dose di ottimismo da af-fondare un barcone, ma il terzo era quello che lo preoccupava di più. Lo-gan sapeva qualcosa dei danni che si potevano patire, quando si viaggiava in quel mondo. Ne aveva subiti molti, nei vent'anni precedenti, e portava ancora le cicatrici dentro di sé. Gli Spettri avevano dovuto affrontare molti pericoli per arrivare al punto dov'erano e il legame familiare che si era in-staurato tra loro aveva contribuito a guarire le ferite. Ma erano ancora ra-gazzi; solo Gufo, Pantera e Orso potevano essere considerati adulti. E no-nostante il loro coraggio e la loro determinazione, erano carne da macello per ciò che stava tra loro e la loro destinazione.

Da cinque o sei anni gli Spettri non abbandonavano il loro rifugio nella città di Seattle. Non si erano mai allontanati dalla loro casa per più di po-chi chilometri. Adesso si erano lasciati alle spalle tutto quello che cono-scevano. Ricominciavano da zero, una piccola famiglia che prendeva una strada sconosciuta per raggiungere una destinazione ignota.

Sarebbero riusciti a terminare il viaggio, con nemici come i robot inset-toidi e i mutanti ad attenderli dietro ogni curva e in ogni angolo buio?

Che possibilità di sopravvivenza avevano? E sarebbero riusciti a farcela anche senza di lui?

Non erano domande oziose. Erano considerazioni che continuavano ad affacciarsi alla sua mente da quando avevano lasciato la città. Doveva sa-pere se erano in grado di proseguire da soli, perché prima o poi correvano il rischio di rimanerlo.

E perché, a dire il vero, Logan cominciava a pensare che fosse la solu-zione migliore: lasciarli.

Sembrava un'azione riprovevole, ma era la scelta più pratica. L'incarico che gli era stato dato dalla Signora tramite Due Orsi non era quello di sal-vare gli Spettri. Era di trovare e proteggere il Variante, che per caso era uno degli Spettri nella sua attuale trasformazione. Logan doveva dare al Variante la possibilità di salvare l'umanità dall'imminente distruzione, dar-gli la possibilità, aveva capito, di ripopolare e ricostruire il mondo. L'inca-rico non comprendeva gli altri Spettri in alcun modo, forma o figura.

Non che Logan non desiderasse aiutare quei ragazzi. Lui lo desiderava.

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Ma lo rallentavano troppo. Da solo poteva arrivare molto più in fretta nel luogo che doveva raggiungere. Poteva viaggiare più rapidamente e con maggior sicurezza.

Ogni decisione che lui prendeva era condizionata dalla loro presenza. Non era abituato a quel tipo di responsabilità. Era sempre vissuto da solo, dopo la morte di Michael, e aveva sviluppato abitudini e comportamenti che aumentavano le sue possibilità di sopravvivenza. Necessariamente, molte delle cose a cui aveva imparato ad affidarsi erano finite fuori bordo da quando si era assunto la responsabilità degli Spettri.

Abbandonarli sembrava un atto privo di cuore ed egoistico. Ma quello era un mondo dove a occuparsi troppo degli altri si rischiava di finire am-mazzati.

Lasciò cadere la questione, quella notte, dopo aver sepolto il Meteorolo-go ed essere andato a dormire, pensando che non era ancora pronto a pren-dere la decisione di andarsene, nonostante gli argomenti a favore e nono-stante i rischi che correva nel rimanere con loro. Semplicemente, ora non gli pareva giusto e per il momento preferiva lasciare le cose come stavano.

Ma l'indomani mattina, Aggiusta e Fiume avevano la febbre e mostrava-no gli stessi sintomi della malattia del Meteorologo.

«Non ho medicine sufficienti a curarli per più di qualche giorno» lo av-vertì in segreto Gufo. La sua faccia irregolare, la sua aria pratica, erano se-gnate dalla preoccupazione. «Abbiamo usato gran parte della riserva per il nonno di Fiume.»

Logan aveva appena finito di sistemare i due bambini nel retro del Li-ghtning, su due barelle, assumendosi l'incarico di farli distendere e di co-prirli per tenerli al caldo.

I due bambini erano rossi e tossivano, avevano la gola infiammata e do-lorante. I primi segni rivelatori delle macchie violacee cominciavano a scorgersi sul collo. Fiume stava peggio di Aggiusta, aveva il respiro roco e irregolare. Del resto, era stata vicina al nonno più a lungo del ragazzo. Lo-gan già pensava con preoccupazione al viaggio, chiuso in un abitacolo pie-no di germi che neppure una corrente d'aria proveniente dal finestrino era in grado di dissipare. Non temeva i demoni e gli ex uomini, ma da quando una malattia l'aveva quasi ucciso a sedici anni, aveva una maledetta paura delle epidemie.

Guardò in lontananza, oltre il gruppo di ragazzi che lo osservava, spin-gendosi al di là della distesa spoglia, con il suo paesaggio asciutto, inver-nale, e i suoi spazi vuoti, al di là di quello che poteva vedere, per cercare di

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scorgere ciò che riusciva solo a immaginare. Sarebbe stato facile lasciarli. E sarebbe stata la decisione più saggia.

Trovarono un vecchio carro da fieno dimenticato in un campo, poco do-po essersi messi in cammino, così gli Spettri abbandonarono il carretto per trasferire sul carro tutte le loro scorte e salirvi anch'essi. Il solo Pantera preferì continuare a piedi, davanti all'auto e di buon passo. Gufo viaggiò dentro il Lightning con Logan, per potersi occupare di Aggiusta e di Fiu-me, e disse che voleva correre anche lei il rischio, che era sopravvissuta per tutta la sua vita al contatto con l'epidemia. Logan ne fu impressionato. Non molti l'avrebbero fatto, se fossero stati nei suoi panni.

Quel giorno fecero molta più strada e così pure l'indomani, coprendo una distanza decisamente superiore e giungendo fino alla città più vicina. Lo-gan non ne conosceva il nome. Tutta la segnaletica era stata portata via dal tempo, ma Gufo gli mostrò una delle sue cartine sbrindellate e gli disse che si chiamava Tacoma.

Verso il tramonto erano alla periferia della città e trovarono un posto a-datto per la sosta, un campo protetto da un boschetto di abeti rinsecchiti. Nelle vicinanze c'erano alcuni edifici e qualche macchinario arrugginito, che contribuirono a nasconderli alle creature che la notte andavano in cerca di preda. Fiume e Aggiusta non erano migliorati, anzi, sembravano peggio-rare. Logan aveva già deciso di andare alla ricerca della medicina che ser-viva a Gufo per curarli.

«Scrivimi il nome» le chiese. «Descrivimi quello che cerco, specialmen-te la confezione. Prendo il Lightning e do un'occhiata in città, può darsi che abbia un po' di fortuna e riesca a trovare dei medicinali.»

Dubitava di avere successo, ma era inutile trasmettere alla donna quei dubbi. Gran parte del materiale utile era già stato da tempo cercato e porta-to via da altre persone. Le medicine, di qualsiasi tipo, erano rare, soprattut-to quelle che proteggevano dalle varie forme di epidemie o le curavano.

«Si chiama Cyclomopensia» gli disse Gufo, passandogli un pezzo di car-ta con il nome scritto in grafia ben leggibile. «Sono grosse compresse bianche con la scritta CYL-ONE su ciascuna.» Gli mise in mano un conte-nitore di plastica. «Questo è il tubetto di quelle che mi restano.»

Logan studiò per qualche istante il foglietto e il contenitore, poi se li in-filò in tasca. Chiamò a raccolta tutti gli Spettri.

«Ascoltatemi bene» disse. «Devo allontanarmi per questa notte e forse per l'intera giornata di domani, se voglio trovare la medicina che serve a Fiume e Aggiusta. E mi serve il Lightning per andarla a cercare. Dovete

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stare in guardia, mentre sarò lontano. Nessuno deve lasciare questo posto. Nessuno deve fare qualcosa che possa attirare l'attenzione. Qualcuno stia sempre di vedetta. Se dovete muovervi, mettete Fiume e Aggiusta sulle ba-relle e raggiungete la città. Abbandonate tutto il resto. Cercate il Lightning o me. Non saremo lontani l'uno dall'altro.»

Diede le Parkhan Spray a Passero e Pantera, poi consegnò a Orso una Tyson Flechette a canna corta, uguale a quella che portava suo padre il giorno della morte.

«Non usate queste armi a meno che non siate costretti a farlo. Se sparate, attirerete l'attenzione. La miglior cosa che potete fare è passare il più pos-sibile inosservati. Chiaro?»

Tutti gli rivolsero un cenno d'assenso, con grande serietà. «Sappiamo cosa fare» gli assicurò Pantera. «Non siamo stupidi.»

"Questo è ancora da vedere" pensò Logan, ricordando come fosse stato Pantera a causare l'incidente con le macchine dell'Oronyx Experimental.

Ma non aveva altre possibilità. Non poteva lasciarli lì disarmati. Doveva sperare che usassero giudizio e buon senso per quanto riguardava le ar-mi«Gufo» disse, per richiamare la sua attenzione. «Porto Fiume e Aggiusta dentro quel capannone.»

Indicò l'edificio in condizioni migliori. «Nessuno ci deve entrare, tranne te, e tu devi entrarci solo per dar loro le medicine o le bevande o quello che gli può essere utile, a tuo giudizio. Ma tutti gli altri si tengano fuori. Se questa malattia è infettiva, potremmo trovarci ad averla tutti.»

Lei gli rivolse un cenno d'assenso, senza parlare. Logan esitò, chieden-dosi cos'altro poteva dire, preoccupato all'improvviso che fosse tutto un er-rore e che li lasciasse lì a morire; erano solo bambini, si disse per quella che doveva essere la centesima volta dalla loro partenza da Seattle. Non possedevano le sue capacità di sopravvivenza. Non avevano la sua espe-rienza e il suo addestramento. Però... era inutile preoccuparsi per cose che non si potevano cambiare.

Con l'auto rimorchiò il carro da fieno fino all'edificio e lo mimetizzò die-tro le altre macchine, poi lo staccò dal Lightning. Nel complesso, sembra-va una vista come tante e nessuno se ne sarebbe accorto se non si fosse av-vicinato.

«Ricordatevi di quello che vi ho detto» disse loro, allontanandosi. «Fate attenzione, sarò di nuovo qui appena potrò.»

Ma già mentre riguadagnava la carreggiata, pensava di lasciarli per non fare più ritorno.

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Dopo essersi lasciato alle spalle gli Spettri e il loro accampamento, Lo-

gan Tom imboccò l'autostrada, nell'oscurità sempre più fitta del crepusco-lo, in direzione degli edifici bui di Tacoma.

La città si stendeva su una pianura pressoché ininterrotta, chiusa tra l'ac-qua da una parte e i monti dalla parte opposta. Il suo aspetto era familiare, le residenze in periferia, gli uffici in centro città, il tutto avvolto nell'om-bra, priva di luci e, in apparenza, priva anche di abitanti.

Ma c'erano degli abitanti, ovviamente, che forse vivevano in una fortez-za, forse nelle strade. E c'erano dei mutanti. C'erano i soliti vagabondi e i senza casa. E c'erano le creature che nessuno sarebbe neppure riuscito a immaginare, creature nate dai veleni e dalle epidemie, i mostri di quel mondo nuovo.

Come sempre, c'erano i Divoratori, in attesa. Logan scrutò le ombre mentre guidava in mezzo alle macerie e cercava

di avanzare sui tratti liberi della vecchia pavimentazione, disseminata di crepe e di erbacce. Cercava qualche movimento, qualche segnale di vita, e ne trovò pochi. Cani inselvatichiti e bambini di strada. Il chiarore delle lampade a energia solare che si intravedeva nei recessi degli edifici. I de-boli suoni delle poche presenze che rivelavano quanto fosse profondo il si-lenzio.

Di tanto in tanto passava accanto a qualche cadavere; alcuni erano lì da così tanto tempo da essersi ridotti a poche ossa e brandelli di vestito. Cercò di immaginare come fosse l'esistenza prima che iniziassero le guerre e si fosse persa la strada per tornare indietro, ma non ci riuscì. La sua mente scivolò ad altri tempi e ad altri luoghi. In tante altre città la situazione era identica, l'indomani della distruzione: solo i resti della follia e della dispe-razione. Così tante cose erano divenute inutili. Si guardò attorno, osservò il vuoto, la devastazione, e gli venne voglia di piangere. Ma ormai non ci riusciva più. Non per quello spettacolo. L'aveva visto troppe volte. Era l'e-redità della sua epoca, un mondo spopolato, una civiltà distrutta.

Davanti a lui, contro lo sfondo del cielo, si scorgeva un enorme edificio dal tetto a cupola, e nella penombra della sera si vedevano ancora le mas-sicce arcate di sostegno. Era un'arena sportiva, un residuo dell'epoca in cui c'era ancora ordine nel mondo. Adesso era nera e silenziosa, una costru-zione che aveva perso il suo posto e il suo scopo, il mausoleo di un'epoca

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dell'esistenza umana morta e scomparsa. Logan guidò l'auto in quella direzione. L'autostrada aveva una rampa che portava verso l'edificio a cupola, ma

grandi pile di rifiuti e di rottami di auto formavano una barriera che impe-diva il passaggio. Il Cavaliere si avvicinò ancora un poco e poi abbandonò il suo progetto di rimanere sulla carreggiata. Si portò sullo spazio aperto a fianco dell'autostrada e poi nei giardini delle case che sorgevano nelle vi-cinanze, ignorando le strade più piccole e scegliendo il terreno dei campi, dove era più facile il passaggio del veicolo. Il Lightning era progettato per superare ostacoli che avrebbero costretto qualunque altra auto a fermarsi.

Quando si fu spinto fin dove poteva, ormai a poca distanza dalla cupola e davanti ad altri edifici più bassi che erano chiaramente negozi e magaz-zini, Logan fermò l'auto e scese. Per qualche minuto continuò a guardarsi attorno e a tendere l'orecchio ai rumori, per cogliere l'atmosfera del luogo. Ma non c'era nulla che richiamasse la sua attenzione. Soddisfatto, attivò le chiusure di sicurezza e i sistemi di protezione del Lightning e, impugnato il bastone, si allontanò a piedi.

Camminò con passo leggero, senza fare rumore, come gli aveva insegna-to Michael. Una presenza quasi invisibile, una delle tante ombre della not-te. Le case ai lati erano strutture tozze e cupe, prive di esseri viventi. Una volta o due, un gatto gli attraversò la strada. Scorse un paio di bambini di strada che procedevano furtivi e che si abbassarono ancora di più quando si accorsero del suo arrivo.

Una volta gli parve di udire alcune voci, ma non riuscì a distinguere le parole o a individuarne l'origine. E una volta, come una visione, gli appar-ve una donna, o forse una ragazza, che scivolava fuori dalle tenebre ed en-trava nella luce, ma per un attimo. Logan intravide i capelli biondi, lunghi e fluenti, la figura snella, e poté solo immaginare che fosse bellissima. I li-neamenti del suo viso erano nascosti dietro la maschera nera della notte, ma il Cavaliere ne fu assolutamente certo, anche se rimase davanti a lui per un breve istante.

Quella vista gli diede un profondo, inesplicabile senso di perdita, unito a una tristezza che gli lasciò la gola chiusa e la bocca asciutta.

Non sapeva spiegarselo, non sapeva trovare una ragione. Aveva rinun-ciato a ogni compagnia dal giorno della morte di Michael e degli altri. A-veva gelosamente protetto la sua esistenza solitaria, aveva evitato con cura la compagnia degli altri. Era la sua natura di Cavaliere del Verbo. Era una delle regole della vita che aveva scelto. La presenza di altre persone finiva

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solo per complicare il suo lavoro, i legami erano una palla al piede. Come minacciavano di diventarlo gli Spettri. Eppure... Impiegò ancora qualche istante a cercare la figura della donna, scrutando

nelle ombre tra le case e rallentando involontariamente l'andatura. Il silen-zio che lo circondava divenne più profondo, la notte si chiuse su di lui. Non c'era più segno della ragazza, e il Cavaliere cominciò a pensare di es-sersela immaginata. Accelerò il passo e proseguì.

Logan aveva ventotto anni, se i suoi calcoli erano giusti. Si affidava so-prattutto al calendario che Michael aveva installato nel Lightning. Senza quell'apparecchio, avrebbe perso ogni nozione del trascorrere del tempo. Le stagioni erano indistinguibili, spesso si andava dall'una all'altra senza alcuna testimonianza del passaggio, gli orologi avevano ormai smesso di funzionare, a parte qualcuno, più ostinato degli altri, che Logan Tom tro-vava di tanto in tanto, e anche quelli, in genere, fornivano solo l'ora del giorno. La vita pareva avere un certo ordine, quando eri in grado di dire la tua età, quando potevi dire con una certa sicurezza che giorno era, il mese e l'anno. Dava l'impressione di essere più radicato nel mondo.

Ventotto anni e lontano da tutto. A parte il suo lavoro di Cavaliere del Verbo. E adesso anche da quello, forse. Adesso che gli avevano scaricato sulle spalle quei bambini di strada e i loro problemi. Sarebbe stato costret-to a lasciarli, lo sapeva. Una volta guariti e superato il rischio di essere raggiunti da demoni ed ex uomini. Al momento giusto.

Scosse la testa per la confusione. Il suo incarico, la sua missione, consi-steva nel trovare e portare aiuto ai prigionieri e ai derelitti. La sua vita era dedicata ad aiutare coloro che non erano forti come lui, che richiedevano di essere strappati alle forze del male e potevano essere salvati soltanto dai suoi speciali poteri.

Non era proprio la descrizione degli Spettri? E Logan non aveva il dove-re di aiutarli? Anche se c'era qualche differenza tra quei ragazzi e i prigio-nieri dei campi o le vittime delle creature del male che si aggiravano nella campagna.

Non avevano bisogno di lui come tanti altri. Anzi, non ne avevano affatto bisogno, a pensarci bene, se si mettevano

su un piatto della bilancia le loro necessità e sull'altro piatto quelle di tanti altri. Potevano fare a meno di lui.

O no? Tutt'a un tratto si accorse del gatto che procedeva sulla strada accanto a

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lui. Era comparso dal nulla, una bestia robusta e dal manto grigio a mac-chie nere, con una strana striscia bianca sul muso piatto, come se l'avessero colpito con un pennello intinto nella vernice. Il gatto aveva un'andatura particolare, che Logan non aveva mai visto in uno di quegli animali: cam-minava per gran parte del tempo al passo, ma di tanto in tanto saltava. O-gni volta non faceva più di due balzi, tuttavia quel particolare era sufficien-te a destare la sua attenzione. Mentre il gatto lo seguiva, tenendosi legger-mente discosto alla sua destra, Logan aveva notato con la coda dell'occhio quegli strani salti e sì era accorto della sua presenza.

Si fermò a fissare il gatto. Anche il gatto si fermò e sollevò la testa nella sua direzione.

«Va' via!» gli sussurrò. Il gatto batté gli occhi, come per la sorpresa, poi soffiò verso di lui. Logan esitò, si chiese se cacciarlo via, poi giunse alla conclusione che

non ne valeva la pena. Riprese a camminare. Un attimo più tardi, anche il gatto lo seguì. Logan accelerò il passo, e anche il gatto accelerò. Quando si fermò, l'animale si fermò a sua volta, tenendosi un po' indietro e fuori por-tata dal bastone nero. Non che Logan avesse intenzione di colpirlo, ma il gatto non poteva saperlo.

«Va' via, via di qui!» mormorò Logan. Proseguì, cercando di ignorare l'animale e rivolgendo la sua attenzione

al compito che lo attendeva. Davanti a lui si alzava la grande mole dell'a-rena, come un'enorme roccia nera sullo sfondo del cielo. Adesso era abba-stanza vicino da notare come le case residenziali che aveva incontrato in precedenza avevano lasciato il posto ai negozi e ai magazzini.

Cominciò a cercare quello che gli serviva, ma non vide nulla di utile. In gran parte dei negozi, porte e finestre erano state sfondate e le attrezzature e le merci erano state distrutte. Non diversa era la sorte dei magazzini. Se c'era ancora qualcosa, era rimasto soltanto perché l'avevano nascosto bene. Medicinali e articoli di pronto soccorso erano state le prime cose a scom-parire quando si erano diffuse le epidemie e la gente era stata colpita al-l'avvelenamento chimico, quando i governi erano crollati e si erano affac-ciati i demoni e gli ex uomini.

Pareva improbabile che rimanesse qualcosa, dopo tanti anni. Tutt'a un tratto, con una serie di balzi, il gatto si portò accanto a lui. Poi

emise un miagolio pieno di risentimento, che spinse Logan a immobiliz-zarsi per la sorpresa.

«Sss! Non fare così!» gli disse, e si guardò attorno, preoccupato. Nel

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raggio di cento metri, tutti dovevano averlo sentito! Il gatto lo guardò con attenzione, poi ripeté il suo verso, questa volta più

a lungo e ancora più forte. Miagolò per un tempo incredibilmente lungo, come se volesse stabilire un primato.

Logan lo minacciò con il bastone e il gatto sparì in un lampo di nero e grigio. Nel tempo di un battito del cuore non c'era più e Logan era rimasto solo.

«Meglio così» mormorò tra sé, indispettito. Proseguì da solo. L'incontro con il gatto l'aveva colpito più di quanto si

aspettasse, per ragioni che non avrebbe saputo dire. Probabilmente era do-vuto al bizzarro comportamento dell'animale, a come si era avvicinato a lui con tanta temerarietà, mentre molte creature, anche più grosse, avrebbero mantenuto le distanze. O forse provava una sorta di fratellanza con quella bestia, così distaccata e coraggiosa. O forse per il tono del suo miagolio, un suono che era riuscito a turbarlo. In ogni caso, era appena riuscito a to-gliersi dalla mente il gatto quando se lo ritrovò a pochi metri di distanza, che un po' camminava e un po' faceva quei suoi strani balzi.

Logan girò la testa per guardarlo, senza rallentare, e sorrise tra sé di fronte alla sua insistenza. Probabilmente pensava che avesse del cibo. E in effetti, si ricordò all'improvviso, aveva visto giusto. Aveva con sé un pezzo di razione militare, se l'era messa in tasca prima di partire. Probabilmente il gatto l'aveva annusata.

«Sei davvero furbo» commentò, voltandosi verso l'animale. S'infilò la mano in tasca, prese il pezzo di razione, ne staccò un angolino e lo gettò a terra. Il gatto osservò il dono che toccava il suolo e rotolava un paio di vol-te prima di fermarsi. Lo esaminò senza muoversi, poi guardò Logan con un'espressione da: "Scusa, ma cosa dovrei farne adesso?".

Logan scosse la testa. Gatti randagi. Imparavano presto a essere cauti, altrimenti finivano per morire. Non si fidavano di nessuno. E poi quel gat-to, in particolare, non sembrava neppure affamato. Anzi, era persino gras-so.

Si strinse nelle spalle. «Benissimo, non mangiarlo, allora. Il problema è tuo, non mio.»

«Non accetta mai cibo dagli estranei» disse qualcuno. Logan era stato colto di sorpresa troppe volte, in vita sua, per sobbalzare

nell'udire improvvisamente una voce, ma questa volta non se l'aspettava davvero. Si guardò attorno, ma non vide nessuno.

«Non ne accetta?» chiese.

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«Però le piaci. Altrimenti non ti avrebbe seguito. È molto schizzinosa.» Doveva essere un'adolescente, non ancora una donna, pensò Logan, dal

timbro della sua voce. Continuò a guardare e alla fine la vide staccarsi dal-l'albero a cui era appoggiata. Il Cavaliere non l'aveva notata perché sem-brava una parte del tronco, impossibile distinguerla da quello sfondo. E anche adesso la si scorgeva a malapena. Aveva un mantello sulle spalle e la testa infilata in un cappuccio, non si vedeva il viso. Guardava Logan e non si avvicinava.

«È tua, la gatta?» chiese. «Lei pensa di sì. Si chiama Coniglio. Io sono Catalya, o anche Cat, in

breve. E tu?» «Logan Tom.» Fece una pausa. «Tu ti chiami Cat, gatto, e il tuo gatto si

chiama Coniglio. E salta come un coniglio. È strano.» Per un momento lei lo guardò senza parlare. «Cosa cerchi?» Logan scosse la testa. «Rifornimenti.» La gatta si avvicinò alla donna e cominciò a strisciare il muso contro la

sua gamba, come se le prudesse. Catalya si chinò a grattarla dietro le orec-chie. I suoi lineamenti erano ancora nascosti dal cappuccio e dal mantello.

«Che genere di rifornimenti?» «Medici. Farmaci contro l'epidemia.» La donna non trasalì e non indietreggiò. Continuò a grattare le orecchie

del gatto come se quello che Logan le aveva detto avesse la stessa impor-tanza di una qualsiasi frase banale, un commento sul tempo.

«Perché te ne stai qui fuori tutta sola?» chiese Logan. «E chi ha detto che sono sola?» Una risposta immediata e piena di sicurezza, non una frase secca e sulla

difensiva. Logan vinse la prima reazione, quella di controllare l'oscurità che li circondava. Come non era riuscito a scoprire la presenza della don-na, poteva non riuscire a scoprire quella dei suoi compagni.

«Niente paura, non c'è nessuno» disse lei. «Sono in grado di badare a me stessa.»

Logan annuì e lasciò perdere il discorso. «Dentro quell'arena c'è una for-tezza? Pensavo di trovare qualcosa, là.»

Lei si raddrizzò, staccando le dita dal gatto. Ma, nel muoversi, non rive-lò neppure per un istante qualche particolare del viso e del corpo.

«Non ti conviene andarci. Là dentro, nessuno ti aiuterà.» «Mi sembri molto sicura delle tue parole...» «Certo. E sai perché? Sono nata in quella fortezza, i miei genitori e i

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miei fratelli e sorelle vi abitano. Tutti, eccetto mia sorella Evie che è morta quando avevo quattro anni. Gli altri sono ancora lì. Vivono sottoterra, nei locali dell'interrato. E durante la notte non è permessa nessuna luce, nessun movimento. In questo modo, nessuno sa della loro presenza.»

Logan la fissò senza capire. «Stupido vero? Se fai finta che nessuno possa trovarti, allora forse nes-

suno ti troverà. Ecco cos'è. Una finzione. Fingono un mucchio di cose. Forse è la sola cosa che impedisce loro di crollare.»

«Quanti anni hai?» le chiese Logan. «Diciotto. E tu?» «Ventotto. E da quanti anni hai lasciato la fortezza?» «Sei. Mi hanno buttata fuori quando ne avevo dodici.» Logan esitò per qualche istante, prima di continuare, e si chiese se rivol-

gerle la domanda. «Perché ti hanno scacciata?» «Mi sono ammalata.» Non diede altre spiegazioni. Logan continuò a osservarla, appoggiandosi

al bastone, e studiò il suo profilo per scoprire qualche indizio sui difetti della ragazza. La notte si strinse su di loro, come per nascondere il suo se-greto, così gelosamente custodito. Coniglio si alzò, si avvicinò a Logan e tornò a sedere, fuori portata, ma così vicino che nei suoi occhi si rifletteva la luce della luna.

«Perché ti occorre la medicina?» chiese la donna. «Ho con me due bambini malati. Ne hanno bisogno. Viaggiamo verso

sud.» «A sud non c'è niente» rispose lei. «Chilometri e chilometri come qui.

Epidemie, aria e acqua avvelenate, veleni chimici. E insetti... mucchi e mucchi di insetti.»

Logan ne aveva sentito parlare, ma non li aveva ancora incontrati. A quanto pareva, la rottura degli equilibri naturali e l'avvelenamento della terra e dell'acqua avevano portato a una rapida crescita di certe specie ani-mali. Il centopiedi gigante che aveva attaccato gli Spettri ne era un esem-pio. Ma in altri casi il risultato era stato diverso. Invece di un solo insetto gigante, la procreazione selvaggia aveva portato a migliaia e migliaia di forme più piccole, a orde che dove passavano divoravano ogni forma di vi-ta vegetale rimasta, spogliando la terra.

«Quanti anni hanno i tuoi bambini?» chiese all'improvviso la dorma. «Non sono i miei bambini. Io li sto solo aiutando. La più vecchia ne ha

forse venti. La più giovane dieci.»

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«Sono bambini di strada o delle fortezze?» «Un po' gli uni e un po' gli altri, credo.» «E tu?» «Cosa intendi dire?» «Eri un bambino di strada o delle fortezze?» «Delle fortezze, ma a otto anni sono rimasto orfano. Perché mi fai tante

domande?» «Vuoi che ti aiuti a trovare la medicina che cerchi?» Logan sospirò. «Voglio tutti gli aiuti che posso trovare.» «Allora dimmi quello che voglio sapere. Dove sono i tuoi bambini?» «Li ho lasciati fuori della città quando sono venuto a cercare le medici-

ne.» «È pericoloso girare da soli la notte. Non hai paura?» «Hai paura, tu?» «Io so come muovermi.» «E lo so anch'io. Ascolta, mi puoi aiutare a trovare quello che mi ser-

ve?» La ragazza fece un passo verso di lui. «Forse. E forse sono la sola che

possa aiutarti. La sola disposta a farlo. Nessuno della fortezza ti aiuterà. E nessuno delle strade. Solo io.»

Lui la guardò con durezza. «Uh-uh. Sei la sola. Ma perché dovresti aiu-tarmi? Perché la tua gatta mi ha preso in simpatia?»

«Perché ho bisogno di qualcosa da te.» Adesso Coniglio era venuta a strofinarsi contro la gamba di Logan, co-

me se fossero amici da sempre. Il Cavaliere non s'era neppure accorto che la gatta si avvicinava. Abbassò lo sguardo e spostò la gamba, facendo un passo indietro. L'animale lo guardò con due occhi che sembravano enormi.

Logan tornò a fissare la donna. «Di cosa hai bisogno?» «Ho bisogno che mi porti con te quando vai via.» Come se non ne avesse ancora a sufficienza, di ragazzini da accudire.

Come se non stesse già studiando il modo di abbandonare quelli che ave-va. La cosa gli parve incredibilmente buffa. Aveva voglia di ridere, anche se sapeva che per la ragazza era una faccenda estremamente seria. Ma di quello che pensava lei gli importava poco. Non intendeva portarla con sé e non l'avrebbe portata.

«Sai perché mi hanno cacciato via dalla fortezza?» chiese all'improvviso la ragazza. «I miei genitori e i miei fratelli e le mie sorelle e i miei amici e tutto il resto? Perché non si sono soffermati a ripensarci sopra, neppure

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una volta, anche se avevo solo dodici anni e non ero mai stata all'esterno, neppure in compagnia degli adulti? Perché l'hanno fatto, secondo te?»

Fece un passo verso di lui. «Avevano paura di te?» chiese Logan, tirando a indovinare. Non indie-

treggiò. Anche se non sapeva cosa stesse per succedere, non voleva dare segni di paura.

Lei si fermò a un paio di metri da lui. «Proprio così. Avevano paura di me. Di questo.»

Tirò indietro il cappuccio e sollevò la faccia, in modo che fosse illumi-nata dalla pallida luce della luna. Grandi zone della faccia e del collo erano coperte da macchie scure. Quando tese le braccia lasciando ricadere la pie-ga del mantello che le copriva, Logan vide gli stessi segni.

La ragazza si girò in modo che la luce, battendo sulla sua pelle con un angolo diverso, rivelasse meglio la forma e il colore delle macchie. La pel-le era ruvida e scagliosa come quella di un rettile.

Logan comprese subito. La ragazza si stava trasformando in un mutante lucertola.

«Hai paura dei mutanti, Logan?» gli chiese lei, facendo altri due passi, con aria di sfida, ma rimanendo a distanza di sicurezza.

«Io no, ma la gente delle fortezze li teme.» «Ne sono terrorizzati. Anche la mia stessa famiglia. Hanno pensato che

fossi contagiosa. Non potevano sapere se era vero, ma non hanno voluto correre il rischio. Che cosa conta la vita di una ragazzina, rispetto a tante altre? Più facile cacciare via me, che rischiare una diffusa epidemia di pel-le di lucertola.»

Il tono della sua voce era duro e amareggiato, ma continuava a fissare Logan e non cercava di nascondersi. Non c'erano lacrime nei suoi occhi. Il Cavaliere sì chiese quanto tempo le fosse stato necessario, per imparare a non piangere quando lo raccontava.

«Succede dappertutto» rispose. «L'ho visto ripetersi infinite volte. Nes-suno sa da cosa dipenda. Una conseguenza dell'esposizione a tanti veleni chimici. Qualcosa che è nell'aria, oppure nell'acqua, nel cibo. Come tante altre cose che hanno prodotto le mutazioni, le possibilità sono troppe per poterlo dire.»

Lei gli rivolse un cenno affermativo, senza parlare. «Come sei sopravissuta?» chiese Logan. «Sei stata allontanata dalla for-

tezza più di sei anni fa.» Lei sorrise. Il suo sorriso, sotto la macchia di pelle scagliosa che le co-

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priva la guancia sinistra, era molto grazioso. «Mi ha aiutato una famiglia di lucertola. Mi hanno accolto, dato da

mangiare e rivestito, e poi mi hanno allevato. Sapevano cosa significava cambiare, perché era successo a loro. Conoscevano altri che erano stati cacciati via come era successo a me, altri che avevano preso la malattia. Era gente della strada, quella famiglia, ma era gente che capiva.»

«E cosa gli è successo?» Lei ebbe un attimo di esitazione, poi si strinse nelle spalle. «Niente. Semplicemente, ho deciso di starmene per conto mio. Mi porti

con te, se ti aiuto?» «Tu procurami la medicina e io ti porto indietro con me, ma poi?» «Vengo con te e i bambini, dove siete diretti. Non ha importanza. Sem-

plicemente, non voglio più stare qui, voglio andarmene.» «Perché?» «Te l'ho detto, non voglio più...» Allora Logan le si avvicinò, tese una mano e passò due dita sulla mac-

chia ruvida che le copriva il mento. Negli occhi azzurri della ragazza com-parve un'espressione intimorita. I suoi capelli, vide ora Logan, erano di co-lore castano chiaro. Ma anche tra i capelli si vedevano le scaglie.

«Un po' conosco la tua malattia» le disse. «Ne ho visti tanti casi. Ho par-lato con gente che l'ha avuta. Copre la pelle e la assorbe, trasforma un u-mano in un mutante. Agisce in fretta. Ma questo non mi pare che sia suc-cesso, nel tuo caso. Tu hai questa malattia da sei anni, giusto?»

«Non succede nello stesso modo a tutti» rispose lei. Distolse lo sguardo, poi si chinò in fretta, per prendere in braccio Coniglio, e indietreggiò. «Se non vuoi che venga con te, hai solo da dirlo.»

«Io voglio sapere la verità» rispose Logan Tom. «Perché vivi qui fuori, per conto tuo?»

Lei stava per dirgli qualcosa, un'altra bugia, pensò Logan, ma s'interrup-pe. Sospirò e fece una smorfia.

«Ho smesso di cambiare» disse. «Qualcosa ha fermato la mutazione. Sa-pevo che la mia nuova famiglia, non appena scoperto che non ero destinata a diventare come loro, mi avrebbe cacciato. Anche loro. Così ho deciso di non aspettare e di andarmene.»

Logan fece un passo indietro, in modo da lasciarle un po' di spazio. Quella ragazza non apparteneva a nessun gruppo. Non era né mutante né umana; e nessuno ti voleva, se non eri come loro. Non in quel mondo. I lu-certola non erano diversi dagli altri. Capivano cosa significava cambiare,

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ma non arrivare a metà strada e fermarsi. Catalya non intendeva essere cacciata una seconda volta, dopo aver sofferto tanto la prima.

«Allora» chiese la ragazza «anche i tuoi ragazzi mi vorranno cacciare?» «Può darsi. Alcuni di loro. Non lo so, li conosco da pochi giorni.» «E tu? Questo lo sai.» Logan distolse lo sguardo, cercò di chiarirsi le idee. Per qualche ragione

gli tornò in mente Melke. Sarebbe stata davvero un grande impaccio, per lui, se l'avesse presa con sé? Pur sapendo così poco di lei. Pur sapendo che forse non sarebbe riuscito a salvarla. Coniglio, dalle braccia incrociate del-la ragazza, lo stava guardando. E aspettando.

«Io non caccio via nessuno» rispose il Cavaliere. Anche la ragazza aspettava. Di sentire la frase. «Va bene» concluse lui. «Affare fatto.» Si avviarono lungo le strade buie, la ragazza in testa e la gatta che cam-

minava accanto a lui e di tanto in tanto faceva un salto, come per mostrar-gli quanto fosse diventato strano il mondo. Intorno a loro regnava il silen-zio, le case erano buie, il cielo grande e vuoto.

«Perché porti quel bastone?» gli chiese la ragazza. «Prima o poi te lo racconterò. Come sai dove trovare le medicine per l'e-

pidemia?» «I lucertola ne hanno dei depositi, le usano come merce di scambio. Lo-

ro, in genere, non ne hanno bisogno. Il loro sistema immunitario non rea-gisce nello stesso modo di quello umano, perciò le medicine non gli servo-no. Che farmaco stai cercando?»

«Cyclomopensia.» Cercò nella tasca e prese il contenitore che Gufo gli aveva dato. Lo porse alla ragazza. «L'hai già vista?»

Lei la studiò con attenzione e poi la intascò. «Mi pare di conoscerla. Possiamo prenderne anche delle altre, potrebbero servire.»

Logan le diede un'occhiata, ma la ragazza guardava fisso davanti a sé e camminava precedendolo.

«E se i miei ragazzi non ti volessero?» le chiese Logan, dopo un mo-mento. «Probabilmente non riuscirei a fargli cambiare idea.»

«Qualcuno di loro mi accetterà, ne sono certa.» «Qualcuno sì.» Pensò a Gufo. Avrebbe fatto presto ad accogliere Cat

sotto la sua ala. E così Fiamma, probabilmente. Ma non era altrettanto si-curo degli altri.

«Sei preoccupato per me?»

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Logan rifletté per un istante. «Non lo so ancora.» Lei si abbassò all'improvviso e raccolse Coniglio, prendendola tra le

braccia. «Non ce n'è bisogno. Sono in grado di badare a me stessa.» Anche di questo Logan non era certo.

19 Orso vigilava in un punto dove non giungeva la luce della luna, a una

cinquantina di passi dall'edificio dove Gufo si prendeva cura di Fiume e Aggiusta. Era quasi mezzanotte, o forse era passata da poco, ma non era certo dell'ora. Si era preso l'incarico di fare il primo turno di guardia, dopo aver cenato. Aveva preso la pesante Tyson Flechette e si era appostato in quel nascondiglio, un luogo dove il buio era così fitto e profondo che nes-sun malintenzionato l'avrebbe visto, se non si fosse avvicinato a meno di quattro o cinque metri.

Almeno, era quello che si augurava. Se un predatore avesse avuto occhi abbastanza buoni da scorgerlo da una distanza superiore, si sarebbero tro-vati nei guai, ma l'esperienza insegnava che anche i predatori più pericolo-si, in quel mondo del dopo-apocalisse, non avevano la vista molto acuta. I veleni dell'aria o del cibo o dell'acqua avevano indebolito la visione un po' a tutti, con qualche eccezione come Falco e Cheney. Ma la vista dei mostri e dei mutanti non si era evoluta in proporzione ai loro desideri, alla loro a-stuzia e alla loro forza. Il loro udito, invece, era ottimo. Meglio non muo-versi molto, di notte, se uno di loro era in giro. Anche il loro fiuto era mol-to buono, in genere. Se si trattava di predatori a quattro zampe e non a due.

Orso lo sapeva perché si era preoccupato di scoprirlo. Già prima di en-trare negli Spettri, prima di sapere dove fosse Seattle o di doverci finire in futuro. Lo sapeva fin da quando aveva sei anni e doveva fare la guardia mentre il resto della famiglia faticava nei campi. A quei tempi si pensava che non tutta la terra fosse avvelenata e alcune zone, soprattutto in angoli remoti degli Stati Uniti, fossero ancora abbastanza fertili da produrre un raccolto. L'illusione era durata circa cinque anni, poi si era scoperto che chiedersi se l'inquinamento avesse colpito il paese intero o solo una parte era una domanda oziosa. Non c'era modo raccogliere quello che si era se-minato e non c'erano mercati dove venderlo. Potevi coltivare la terra, se ne avevi voglia, ma era probabile che il frutto del tuo lavoro finisse nelle boc-che sbagliate. Orso l'aveva appreso la prima volta che erano comparsi i razziatori, i quali si erano impossessati della parte del raccolto che erano

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riusciti a caricare e avevano bruciato tutto il resto. L'aveva appreso quando si erano portati via i suoi due zii, che non avevano più fatto ritorno. L'ave-va appreso quando gli avevano ucciso il cane. Aveva cercato di dire alla sua famiglia che il rischio era troppo fin da prima che comparissero i raz-ziatori, ma nessuno gli aveva dato retta. Non gliene davano mai. Orso era grosso e lento e dava l'impressione di essere un po' ottuso. Prima di ri-spondere a una domanda si prendeva il suo tempo e raramente parlava se non veniva interrogato. Camminava con un'andatura ciondolante e sem-brava sempre che non sapesse bene dove andava e cosa doveva fare. Era straordinariamente forte, ma la sua stessa forza sembrava preoccuparlo. Camminava facendo attenzione a dove metteva i piedi e dava risposte un po' vaghe. Rimuginava di continuo su tutto quello che succedeva. Vedeva la vita come al rallentatore.

I fratelli, ironicamente, dicevano che era in grado di fare qualunque co-sa, ma che quando finalmente si decideva a farla, tutti erano già andati a dormire.

A Orso non piaceva essere giudicato stupido. Non gli piaceva essere in-sultato e ridicolizzato. Del resto, a chi piace? Ma per poter cambiare quello stato di cose avrebbe dovuto spaccare le ossa a qualcuno, e di conseguenza aveva imparato a sopportare le prese in giro. I genitori avevano troppe cose di cui preoccuparsi per sprecare il loro tempo a badare a lui, tanto meno per proteggerlo. Di conseguenza si era abituato a fare di testa sua, nei po-chi modi che gli erano consentiti. E soprattutto a scegliersi incarichi che lo tenessero lontano dagli altri. Fare la guardia. Fare commissioni. Spostare oggetti pesanti, dato che solo lui, tra tutti i fratelli e cugini, era capace di farlo. A volte il padre lavorava con lui, a volte gli zii, e nessuno di loro lo derideva o lo insultava. Se non raramente. Ripensando a quei tempi, spesso si era chiesto se era davvero così. Forse la realtà era diversa, e lui se n'era dimenticato. Orso era tutt'altro che stupido, sotto la patina superficiale di lentezza nell'agire e nel rispondere. Era invece molto attento. Mentre gli altri cercavano di barcamenarsi come potevano in un mondo che odiavano e all'interno di una famiglia che pensava solo al lavoro ed escludeva tutto il resto, Orso passava il tempo ad assorbire e ricordare nozioni. Quando im-parava una cosa, non la scordava più.

Piccole cose. Grandi cose. Tutto quello che poteva imparare. In quel modo aveva imparato come si deve fare la guardia contro i pre-

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datori. In quel modo aveva imparato come rimanere sveglio senza addor-mentarsi nelle lente, torpide prime ore del mattino, quando il bisogno più urgente è quello di chiudere gli occhi. Perciò ora sapeva che qualunque co-sa pensassero di lui Pantera o Passero o gli altri, compreso lo stesso Falco, adesso aveva il compito di proteggerli tutti.

Diede un'occhiata in direzione dell'area dove la sua famiglia dormiva per terra, Fiamma e Passero nei sacchi a pelo, i ragazzi avvolti nelle coperte. Non c'era un fuoco, non c'era altra fonte di calore che il loro corpo. Ma l'a-ria della notte era tiepida e spirava solo un vento leggero. Dietro le forme addormentate, l'edificio dove Gufo si prendeva cura di Fiume e di Aggiu-sta era buio e immobile. Sulla linea nera dell'autostrada, a un centinaio di metri dal loro accampamento, nulla si muoveva.

Fece scorrere da un fianco all'altro il peso della Tyson Flechette con un movimento lento e meticoloso. Diede anche un'occhiata al punto dove dormiva, raggomitolato su se stesso, il ragazzo che aveva sparato a Scoiat-tolo. Era a ridosso della parete dell'edificio, una macchia scura nell'oscurità di mezzanotte. Quel ragazzo non gli piaceva e se Gufo gliel'avesse per-messo, avrebbe preferito consegnarlo a Pantera perché se ne sbarazzasse. Ma Gufo aveva proibito di fargli del male e incaricato Orso di fare in mo-do che non venisse molestato. Orso aveva preso molto seriamente quella responsabilità, come tutti i compiti che gli venivano assegnati da Falco e da Gufo. Che gli piacessero o meno. Semplicemente, doveva fare quello che, come sapeva, era giusto.

Orso era un soldato. Capiva quando si trattava di un ordine e obbediva. Non perché non fosse in grado di pensare in autonomia, ma perché cre-

deva nell'ordine. Credeva in "un posto per ciascuno e ciascuno al suo po-sto". Non capiva i ragazzi come Pantera, che facevano quello che gli pas-sava per la testa. In una famiglia sopravvivi se conosci il tuo posto e ti comporti in modo coerente e ordinato.

Fai quello che ti viene chiesto. Fai quello che è giusto fare. E quando arrivi al punto che le due cose non vanno più d'accordo, allora

è il momento di andartene. Orso l'aveva dovuto imparare a proprie spese. Orso aveva undici anni quando erano iniziati i furti. Dapprima non era

niente di importante, un arnese, un sacchetto di grano, qualche abito da bambino e cose simili.

Ogni tanto qualcosa scompariva, non tutto insieme, ma un po' alla volta.

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Orso non se ne preoccupava, ma il padre e gli zii la prendevano molto sul serio. Il furto era una colpa imperdonabile, nel mondo della sua infanzia. Troppe cose erano già sparite per poter accettare la mancanza di altre. I vecchi della famiglia ricordavano ancora com'era il mondo prima che tutto andasse in rovina o venisse distrutto. La perdita destava amarezza e risen-timento, rabbia per la sua inesplicabile follia. La colpa era facile darla, ma difficile porvi rimedio. E il senso di privazione era forte e pernicioso, e il furto ti ricordava quanto fosse facile veder svanire il poco che ti restava.

Il padre di Orso era convinto che il responsabile fosse uno dei figli, che forse attraversava una fase in cui era portato al furto. Li aveva interrogati tutti. In modo rigoroso. Il fratello, forse spaventato dalla severità dell'accu-sa, aveva indicato Orso. E, per motivi che lui non sarebbe mai riuscito a capire, il padre aveva creduto al fratello. Orso era stato condannato senza processo. Nessuno degli oggetti mancanti era stato ritrovato. Nessuno si era fatto avanti per dire di averlo visto mentre rubava, ma luì era diverso dagli altri, diffidente e circospetto, le ragioni del suo comportamento non erano mai chiare e questo era stato sufficiente. Non l'avevano punito, ma relegato in un angolo buio della loro esistenza e tenuto d'occhio.

Lui aveva accettato la situazione, esattamente come accettava ogni altra cosa. In modo stoico, paziente, con la tranquilla rassegnazione che per lui sarebbe sempre stato così. Ma oltre a questo, aveva pensato di dover risol-vere il mistero. Non gli piaceva che si pensasse a lui come a un ladro. Qualcun altro rubava, e lui intendeva scoprire di chi si trattava. Forse que-sto avrebbe convinto i famigliari che il loro comportamento nei suoi ri-guardi era sbagliato.

Aspettò che il furto si ripetesse. E si ripeté, anche se non subito. Si trat-tava di un'arma, una piccola pistola automatica. Un pezzo d'antiquariato, a dire il vero, in un'epoca in cui laser, Flechette e Spray erano la norma. Ma era pur sempre un furto e il padre di Orso non aveva perso tempo per agire. Prima aveva perquisito la stanza di Orso, poi l'aveva interrogato di nuovo.

Il ragazzo era sempre stato sotto gli occhi di tutti, era sempre stato trop-po visibile per essere colpevole, ma né il padre né i fratelli avevano dato peso al particolare. Neppure la madre, che pure continuava ad amarlo co-me le madri amano i figli che le deludono, aveva mosso un dito per lui. Ormai erano convinti che Orso fosse colpevole e nulla poteva cambiare quel pregiudizio. Punto sul vivo da quell'ingiustizia, lui aveva sentito au-mentare la distanza che lo separava dai familiari, ma tre sere più tardi ave-va colto il ladro sul fatto. Aveva cominciato a stare di guardia la notte,

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controllando l'esterno e l'interno della casa, piantonandola nel suo modo lento e paziente, deciso a dimostrare a tutti la propria innocenza. Il ladro stava cercando di rubare una scatola di vecchi attrezzi, quando Orso gli era piombato addosso senza che se l'aspettasse e l'aveva gettato a terra. Era un ragazzo non molto più vecchio di lui, ma assai meno robusto, sudicio e ve-stito di stracci, un mezzo animale. Aveva ammesso di essere il ladro e di aver rubato per aiutare la famiglia, un gruppetto di vagabondi che si erano insediati in una vecchia fattoria disabitata, a poca distanza da loro. Aveva supplicato Orso di lasciarlo libero, ma Orso aveva deciso.

Aveva portato il ragazzo da suo padre. Ecco il vero ladro, gli aveva an-nunciato, aspettandosi che il padre gli chiedesse scusa. Non gli importava nulla del ragazzo che aveva rubato, tranne il fatto che costituiva la prova della sua innocenza. Non si era mai spinto più in là, nel pensare alla sorte del colpevole. Era convinto che gli avrebbero dato qualche frustata e poi l'avrebbero liberato. Orso non era in collera e neppure cercava vendetta. Lui non ragionava in quel modo.

Ma suo padre sì. I furti non si potevano tollerare. Il ragazzo aveva sup-plicato e pianto, ma nessuno l'aveva ascoltato. Il padre di Orso e gli zii l'a-vevano portano fuori, dietro il piccolo gruppo di alberi che segnavano il confine della proprietà, e non l'avevano riportato indietro.

Orso aveva pensato che l'avessero liberato dopo averlo minacciato, ma da alcuni commenti e dalle occhiate che si erano scambiati aveva capito che non era così. Avevano ucciso il ragazzo per dare una concreta lezione alla sua famiglia e a tutti: ecco cosa succede ai ladri.

Orso era rimasto come stordito, quando se n'era reso conto. Non riusciva a credere che suo padre avesse fatto una cosa del genere. Gli altri membri della famiglia approvavano la decisione, anche sua madre. Nessuno di loro attribuiva importanza al fatto che si trattava solo di un ragazzo. Quando Orso aveva cercato di mettere in parole il suo pensiero, era stato zittito. Non capiva il loro tipo di vita, gli avevano detto. Non capiva cos'era ne-cessario fare se volevano sopravvivere.

A Orso tutti sembravano diventati degli estranei, degli sconosciuti. Era-no la sua famiglia, ma non li riconosceva più. Li vedeva con occhio diver-so e non gli piaceva. Aveva aspettato che gli giungesse la comprensione, ma non era arrivata. Così una notte, senza pensarci, senza sapere bene quello che faceva, ma limitandosi a farlo, se n'era andato. Si era preparato un piccolo zaino con cibo, acqua e qualche attrezzo, si era fissato alla cin-tola il coltello e lo storditore ed era partito. Si era diretto a ovest senza sa-

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pere dove stava andando: intendeva seguire il sole finché non fosse giunto alla costa. Non aveva idea di cosa lo attendava, solo di quello che si la-sciava alle spalle. Aveva dei brutti presentimenti, dei dubbi e delle paure, ma soprattutto sentiva una profonda delusione.

In ogni caso, sapeva come sarebbero andate a finire le cose, se si fosse fermato.

A dodici anni aveva valicato le montagne e messo piede per la prima volta a Seattle.

Con la coda dell'occhio, Orso scorse un movimento, un tenue passaggio

di ombra su ombra. Era quasi dietro di lui, presso l'edificio dove dormiva-no Gufo, Fiume e Aggiusta. Se non avesse guardato in quella direzione proprio in quel preciso momento, non si sarebbe accorto di niente. Rimase immobile, scrutando nel buio, in attesa che l'episodio si ripetesse, e, quan-do accadde di nuovo, non aveva più una sola origine, ma tante: era un inte-ro gruppo di ombre che uscivano dalla notte e prendevano forma umana. Però i loro movimenti erano sgraziati, a scatti, leggermente fuori sincroni-smo rispetto a quelli umani.

Orso sentì i capelli rizzarsi sulla nuca. Rana. Puntò verso quelle ombre la sua Tyson Flechette e nello stesso tempo

pensò al da farsi. I rana camminavano nel buio, provenienti dalla città, di-retti verso gli edifici isolati e i suoi compagni che dormivano. Contò in fretta le teste e nello stesso tempo cercò di essere certo di quello che vede-va. Ma era impossibile sbagliarsi. Ce n'erano almeno una dozzina. Troppi per essere qualcosa di diverso da un gruppo a caccia di preda.

Non aveva idea di che cosa li avesse attirati là né se sapessero che la sua famiglia si trovava sul loro percorso. Ma l'esito non poteva essere che uno. Entro pochi secondi si sarebbero imbattuti nelle forme addormentate. Tol-se la sicura alla Flechette e sollevò la canna corta e tozza, portandola in posizione orizzontale. Ma la sua famiglia era distesa sul terreno tra lui e i rana. Facendo fuoco, rischiava di colpirli. Il raggio della rosa di dardi della Flechette era troppo largo e variabile. E poi la distanza era troppa, l'arma non poteva colpire con precisione il bersaglio.

Per cinque secondi non si mosse, incerto sul da farsi. Poi scattò in piedi e si lanciò nell'oscurità, gridando in direzione dei rana

per richiamare la loro attenzione e attirarli dietro di sé, allontanandoli dalla sua famiglia addormentata. Il suo trucco ebbe successo. I rana si fermarono

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e poi si voltarono, quando lo videro. In pochi istanti erano al suo insegui-mento.

Orso non poteva sapere se qualcuno degli Spettri si fosse svegliato e si fosse accorto del suo problema. Non aveva il tempo di fermarsi a guardare, aveva solo il tempo per fuggire. E poi, la cosa non aveva importanza. Il suo primo dovere era proteggere i compagni. La propria salvezza era se-condaria e non poteva entrare nel bilancio.

Per Orso era sempre stato così. Corse rapidamente, per un breve tratto, percorrendo una distanza suffi-

ciente ad allontanarsi dalla sua famiglia. Era forte e robusto, ma non aveva molta resistenza. Quando si fermò e si girò, aveva già il fiato corto e la fronte coperta di sudore. Osservò i rana avanzare nella sua direzione, cion-dolando, più grossi e lenti di lui, ma molto più difficili da uccidere. Fece a pezzi i primi due da una distanza di cinquanta passi, poi si voltò e fece un altro tratto di corsa. A cento metri di distanza, si girò e sparò di nuovo. Abbatté un terzo rana, ma il colpo successivo mancò il bersaglio. Il rumore della detonazione sembrava quello del terremoto. Di una cosa poteva esse-re certo: chiunque dormiva ormai doveva essersi svegliato ed era in allar-me.

Sparò ancora una volta, abbattendo un altro rana, colpito alle gambe. Lo vide piombare a terra e vide gli altri inciampare sul suo corpo. I rana erano più di quanti gli erano sembrati inizialmente e non rinunciavano all'inse-guimento. Si voltò e riprese a correre, ma ormai cominciava a essere stan-co. Percorse altri cinquanta metri, arrivò all'autostrada, una linea nera che si allontanava nel buio, e la sua superficie di catrame era coperta di polve-re.

Dietro di sé, sentiva le grida dei rana. Continuavano a inseguirlo. Si voltò e sparò di nuovo, uccidendone un altro, poi l'arma s'inceppò. E-

sitò, poi si preparò mentalmente mentre gli altri mutanti si avvicinavano. Per lui era finita. Non come avrebbe voluto, ma per una buona causa, al-meno. Serrò i denti e gonfiò i muscoli delle spalle. Anche se la canna del-l'arma era rovente, la afferrò con entrambe le mani e la impugnò come una clava. I rana ringhiavano e sbavavano, la saliva colava dalle loro bocche sgraziate, il loro sguardo era folle, gli occhi frenetici in reazione al male che li divorava. Erano coperti di lesioni e di cicatrici irregolari e i suoni che emettevano erano versi di animali selvaggi. Orso non ne aveva mai af-frontati così tanti da solo. Mani munite di artigli neri e affilati cercarono di afferrarlo. Brandì la Flechette con tutta la forza di cui disponeva e gli at-

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taccanti più vicini crollarono addosso agli altri come bambole di stracci. Ma gli artigli gli strapparono gli abiti e la carne, lasciando graffi brucianti.

Orso indietreggiò e si preparò a reggere un altro attacco. Ma tutt'a un tratto la notte esplose in scie di fuoco rosso e Pantera e Pas-

sero uscirono dall'oscurità, urlando come diavoli e sparando lunghe raffi-che dalle loro Parkhan Spray. I rana ruppero la formazione e fuggirono da-vanti al nuovo assalto. Quelli che scomparvero nella notte erano solo una manciata.

La cacofonia di urla e grugniti destò Gufo dentro l'edificio. Dormiva ac-

canto a Fiume e ad Aggiusta, in modo da poter applicare loro sulla fronte una compressa fredda, per abbassare la febbre. Era distesa sul pavimento, accanto ai due ammalati, con la sedia a rotelle a un paio di metri di distan-za. A tutta prima si limitò a fissare la porta, per vedere cosa stava succe-dendo. Poi sentì il rombo dell'arma di Orso, si sollevò e si portò sulla sedia a rotelle, quando Gesso arrivò di corsa, con gli occhi sgranati e la faccia tonda pallida per lo spavento.

«Rana!» gridò, in quello che doveva essere un tentativo fallito di parlare a bassa voce. «Orso se li è tirati appresso e Pantera e Passero gli sono corsi dietro. Cosa facciamo?»

Lei raggiunse la porta e scrutò nella notte. I suoni della battaglia erano chiari: i colpi della Flechette e i versi bestiali dei mutanti. Ma non si scor-geva nulla.

«Dov'è Fiamma?» Si girò verso Gesso, che aprì la bocca senza parlare e scosse la testa. «Portami fuori!» esclamò.

Il ragazzo obbedì, spingendola verso la porta e poi nell'oscurità della notte. Gufo continuò a guardare in direzione della battaglia, poi fece scor-rere lo sguardo attorno, alla ricerca della bambina. Non ce n'era traccia. Un nodo di paura le attanagliò lo stomaco.

«Va' a cercarla! Non tornare senza di lei!» Gesso si allontanò di corsa e Gufo si portò fino ai sacchi a pelo e alle

coperte lasciate in terra dagli Spettri quando erano balzati in piedi, chia-mava Fiamma.

Non ebbe risposta. Raccolse uno dei pungoli elettrici caduti a causa del-l'agitazione e lo posò sui braccioli della sedia.

Poi le tornò in mente il ragazzo sfigurato. Girò la sedia e arrivò accanto al fianco della costruzione, dove Logan

l'aveva lasciato, incatenato a un anello di ferro. Le catene erano in terra,

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ancora attaccate all'anello, ma il ragazzo era sparito. In qualche modo, du-rante la notte, era riuscito a liberarsi ed era fuggito.

Che avesse costretto Fiamma a seguirlo? Gesso tornò, ansimante per la corsa. «Ho guardato dappertutto. Non rie-

sco a trovarla! Non c'è traccia di lei!» Non c'era ragione perché il ragazzo avesse portato via Fiamma quando

era fuggito, non aveva nulla da guadagnare. Eppure Gufo era convinta che l'avesse rapita.

20 «Non è molto lontano» disse a Logan Tom la ragazza chiamata Cat,

mentre proseguivano in mezzo agli edifici vuoti della città. Logan si augurava che fosse così. Camminavano da quasi un'ora e nulla

permetteva di intuire la loro destinazione. Un paio di volte gli era venuto in mente di chiederglielo, ma aveva rinunciato.

Cat pareva sapere con esattezza dove stava andando. Logan non aveva altra scelta che fidarsi di lei, se non voleva dover ricominciare la ricerca dall'inizio, un'idea che non lo attraeva affatto. Il tempo era prezioso per Fiume e per Aggiusta e doveva essere di ritorno con la medicina il più in fretta possibile. Cat sembrava la sua migliore opportunità.

«Hai paura che non sappia dove ti porto?» chiese all'improvviso la ra-gazza, come se gli avesse letto nella mente.

Voltò verso di lui la faccia coperta di macchie. Le aree di pelle mutante erano leggermente lucide alla luce della luna. Il Cavaliere fu di nuovo col-pito dalla bizzarria del suo aspetto.

«Ho paura di non fare in tempo, nient'altro» rispose. Lei annuì. «Già. Altrimenti non saresti stato così sciocco da venire in

città da solo e senz'armi.» La donna continuò a osservarlo. «O forse sei più protetto di quanto appari? Mi sembri abbastanza sicuro di te, hai armi che non fai vedere?»

Logan scosse la testa. «Solo il mio bastone.» «Allora il tuo bastone dev'essere davvero speciale.» «Ma tu, piuttosto?» chiese Logan. «Io?» «Non mi pare che porti armi neanche tu. Come fai se sei costretta a di-

fenderti?» Lei girò il viso dall'altra parte. «Mostro la mia faccia. Terrorizza i miei

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nemici, che corrono subito a nascondersi.» Lo disse in tono leggero, quasi con indifferenza. Ma era un'ammissione

che le costava, e non era la prima volta che diceva quelle parole. Forse a-veva già provato a ripeterle da sola, per giudicarne l'effetto. La sua tra-sformazione era tutt'altro che superficiale e lei non l'aveva ancora accetta-ta.

In ogni caso, era troppo sicura di sé per non disporre di qualche difesa dai predatori. Non sarebbe andata in giro di notte, in quel modo, se avesse dovuto contare soltanto su una gatta che saltava come un coniglio.

A proposito, non aveva più visto la gatta da parecchio tempo. Si guardò attorno, ma non c'era traccia dell'animale.

«Cos'è successo alla tua gatta?» chiese. «È andata avanti.» «Avanti dove?» «Dove andiamo noi, non è lontano.» Logan non insistette e continuò a camminare. Stava attento ai pericoli,

ma in sua compagnia, stranamente, non aveva alcun timore. Le strade che percorrevano, anche se piene di rottami e invase da erbacce e cespugli co-me ogni altra strada dell'America, erano deserte. Di tanto in tanto scorgeva qualche Divoratore che avanzava in mezzo alle ombre. Le loro forme sotti-li erano effimere come riflessi d'argento vivo mentre scivolavano dietro gli angoli delle strade e attorno agli alberi, in viaggio per destinazioni che sol-tanto loro conoscevano. Aveva visto solo di rado dei Divoratori da quando avevano lasciato Seattle, ma sapeva che erano sempre pronti a comparire e che aspettavano solo l'occasione di banchettare a spese delle emozioni de-gli uomini.

"Ecco l'eredità che gli uomini hanno lasciato al mondo: il prodotto dei loro impulsi più neri" pensò il Cavaliere del Verbo, chiedendosi se i Divo-ratori esistessero prima dell'umanità e se potessero sopravvivere una volta che questa si fosse estinta.

O la loro preda erano anche i sentimenti dei demoni e delle creature di Faerie?

E dei Cavalieri del Verbo? Ripensò al Variante e al suo scopo, salvare la razza umana: la sola pos-

sibilità rimasta agli uomini. E forse lui, Logan Tom, era l'unica opportunità rimasta al Variante, ma non poteva saperlo. La Signora l'aveva detto. O'o-lish Amaneh l'aveva detto. Ma quei due appartenevano a Faerie, e le crea-ture di Faerie non rivelavano mai a nessuno tutto quello che sapevano. A

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lui era stato comunicato solo quel poco che doveva sapere e niente di più. Così funzionavano quelle cose. Lui stesso l'aveva imparato all'epoca in cui attaccava i campi di schiavitù.

Stava ancora pensando alla natura e alla complessità del lavoro che lo at-tendeva quando scorse qualcosa avanzare al suo fianco. Un movimento lento e preciso, un corpo massiccio che si spostava lungo la parete di un edificio.

Erano in una zona di vecchi magazzini, vicino al tratto di mare che si spingeva a sud di Seattle. Logan lanciò un'occhiata alla sua compagna, ma lei non pareva averlo notato. Tornò a guardare il punto dove aveva scorto il movimento, ma non vide più niente.

Serrò il pugno sul bastone ed evocò la magia. Le rune cominciarono a brillare di una luce blu scura, pulsante. «Lo supponevo» commentò all'improvviso la ragazza, guardando verso

di lui. Logan trasalì nel sentirla parlare. «Come?» «Lo dicevo che il tuo bastone doveva essere speciale. Come fa ad accen-

dersi?» «Ha un suo tipo di forza» rispose lui, con indifferenza. «Come una fiamma?» «Più o meno.» «E puoi accenderlo quando vuoi?» «Sì. Hai visto qualcosa muoversi, un minuto fa?» Lei gli sorrise nell'oscurità. «Certo. E l'hai visto anche tu. È per questo

che hai fatto al tuo bastone quello che hai fatto. Io volevo vedere come an-dava a finire, altrimenti avrei detto qualcosa. Quelli che ci osservano sono dei lucertola.»

Logan sentì il sangue affluirgli al viso per l'irritazione. «Non mi piaccio-no i giochi. Perché non mi hai avvisato?»

«Quei lucertola mi conoscono. Fanno la guardia a questo posto. Siamo entrati nel territorio del Senatore. Sarà lui ad aiutarci.»

Logan richiamò la magia nel bastone e il bagliore blu si oscurò fino a sparire. Il calore del suo potere scomparve. «Pensavo che sapessi la stra-da.»

Lei annuì. «La so. Ma qui siamo nel territorio del Senatore, perciò dob-biamo andare a fargli visita, prima. Ci aspetta.»

«E chi è questo Senatore?» volle sapere Logan. «Lo vedrai.»

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Cat batté le mani e un gruppo di lucertola uscì dall'ombra delle case. Le loro forme massicce e tozze si materializzarono come per incanto.

Logan non si allarmò. Non fecero alcun tentativo per fermarlo o cattu-rarlo e la ragazza cominciò quasi subito a parlare con loro. Non si servì di un idioma noto a Logan, ma di un linguaggio a base di brontolii e grugniti che i lucertola, comunque, parevano perfettamente in grado di capire. I lu-certola le risposero, alcuni mossero la testa e fecero dei gesti. Cat rivolse un cenno d'assenso al primo che le aveva risposto, gli sorrise e indicò da-vanti a sé.

«La nostra destinazione» spiegò a Logan. Era un maestoso edificio di pietra, dall'aspetto piuttosto antico, con u-

n'ampia gradinata che portava a un colonnato. I pilastri reggevano un mas-siccio frontone con decorazioni raffiguranti strani simboli e figure. Dall'in-terno della costruzione, attraverso le finestre abbattute dal tempo e dalle intemperie e le fessure delle solide porte, alte cinque metri e sbarrate per la notte, proveniva una luce debole, pulsante, assieme a un basso mormorio, che si alzava e abbassava come le onde dell'oceano.

In cima alla gradinata c'era un'altra dozzina di lucertola che impugnava-no tutti uno strano assortimento di armi: pungoli, Flechette e vecchi pisto-loni a un colpo solo, l'arsenale raffazzonato di una banda di straccioni.

Cat si diresse con decisione verso i gradini e i lucertola. «È proprio necessario?» chiese Logan, raggiungendola e salendo accanto

a lei. Lei gli lanciò un'occhiata obliqua. «Come ti ho detto, siamo nel territorio

del Senatore. Siamo qui perché lui ci ha dato il permesso. Ma ritiene de-plorevole non fargli una visita di cortesia. Dice che fa parte delle regole del galateo politico.»

"Galateo politico?" Logan studiò con attenzione l'edificio. «Questa non era una chiesa, una volta? Un luogo di culto, un tempio di qualche gene-re?»

Cat alzò le spalle. «Adesso è del Senatore. La usa per i dibattiti e per ap-provare le leggi. E come foro per parlare al suo elettorato.»

Logan preferì lasciar perdere l'argomento mentre salivano i gradini in di-rezione delle enormi porte. Quando arrivarono a pochi metri da esse, un lucertola si avvicinò a Cat e parlamentò con lei per qualche momento. La ragazza lo ascoltò e poi si rivolse a Logan.

«Tu non porti armi, vero? Il bastone è la sola cosa che hai?» Lui annuì.

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«Se si accorgessero che hai delle armi, ti ucciderebbero subito. Que-st'anno ci sono già stati parecchi tentativi di assassinare il Senatore.»

«Ho solo il bastone» ripeté Logan. Cat disse qualche altra parola al lucertola, che le rivolse un cenno con la

testa e fece un passo indietro. Altre due guardie, ai fianchi dell'ingresso, afferrarono le maniglie e aprirono la porta.

Logan e la ragazza entrarono. In un mondo completamente diverso. C'erano file e file di panche di legno che guardavano un'ampia pedana

coperta da uno strano assortimento di statue, quadri e oggetti artistici. C'e-rano scaffali pieni di vecchi libri disposti in file regolari e rilegati in cuoio, i cui dorsi mostravano un'identica armonia di rosso e oro. C'erano quadri e fotografie di persone vestite di abiti risalenti a tempi antichi. Alla parete in fondo all'ambiente era appesa una grossa croce di legno, con i bracci co-perti di drappeggi di seta. Le statue erano di bronzo e di marmo, alcune di uomini e di donne in posa, altre di strane creature con il corpo metà umano e metà animale. Una statua raffigurava una donna bendata che tendeva da-vanti a sé una bilancia con due piatti. Una parete era coperta di vecchi oro-logi che non funzionavano più, ma tutte le loro lancette puntavano verso l'alto.

C'erano animali impagliati di tutti i tipi, bandiere che Logan non cono-sceva, striscioni, stendardi e vecchi pezzi di tessuto, tutti inchiodati alle pa-reti o appesi al soffitto. Da una parte, davanti a quella raccolta disordinata, c'era una vecchia, pesante scrivania con una sedia, e il suo ripiano graffiato era coperto di fogli e libri. Lucertola armati erano di guardia agli scalini che portavano alla pedana, da un lato e dall'altro, e impugnavano storditori e armi a dardo. Le panche erano gremite di una folla, umani e mutanti me-scolati insieme, con la faccia sollevata e gli occhi diretti verso la pedana e l'oratore che parlava, con voce sonora e baritonale che echeggiava forte e regolare sul pubblico seduto in ascolto.

«Noi siamo il futuro e dobbiamo abbracciare il nostro destino. Siamo la promessa dei nostri antenati, siamo i portatori della loro legge e della loro visione, raccolti insieme in questo tempo, il più nero che si ricordi, in que-sta notte che è la più buia, uniti qui per riportare la luce a un mondo così dolorosamente turbato. Non dobbiamo mai scordare la nostra missione. Dobbiamo fermare la caduta.»

L'oratore era piccolo e tozzo, e dal timbro della voce era un maschio, ma la sua specie era virtualmente irriconoscibile. Stava in piedi, ma a fatica.

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Aveva braccia e gambe, ma le braccia erano due moncherini e le gambe erano deformi. La pelle squamosa suggeriva che fosse un lucertola, ma si scorgevano anche macchie di pelle scura, e ciuffi di peli che gli spuntava-no dal torso e dalla testa come le erbacce di un campo non coltivato. La sua faccia era così accartocciata e contorta che non si riuscivano a distin-guere lineamenti specifici. Era fermo nel centro della pedana e con le corte braccia gesticolava drammaticamente e alzava e abbassava la testa per sot-tolineare le parole. A Logan era appunto la voce a sembrare più normale, la voce di un esperto oratore, un individuo di grande abilità e sicurezza.

"La voce di un leader" pensò all'improvviso. Si chinò verso la ragazza. «Il Senatore?» le chiese. La ragazza annuì. «Un tempo era un senatore eletto, all'epoca in cui esi-

stevano cose del genere. Era uno di tanti, ma gli altri sono tutti spariti. È l'ultimo e porta avanti la tradizione, scrivendo e presentando leggi per il bene dei suoi elettori.» Guardò Logan scuotendo la testa. «Non pretendo di capire, ma pare funzionare. La gente viene dai dintorni per ascoltarlo.»

Le corte braccia si muovevano a scatti. «Non dobbiamo mai lasciarci prendere dalla disperazione, amici miei. Non dobbiamo mai cedere alle nostre incertezze e alle nostre paure. Dobbiamo sempre andare avanti, se-guendo la strada tracciata prima di noi da coloro che ci hanno preceduto. Dobbiamo adottare un comportamento dignitoso, ragionevole, e dobbiamo avere sempre chiare le nostre mete, sempre presenti, essere sempre consa-pevoli della loro importanza in un mondo civile. Perché noi siamo civili e noi siamo un mondo, anche se qualcuno la pensa diversamente. La legge ci vincola e ci dà dei limiti. L'ordine ci fornisce uno scopo. Questa sede del nostro governo fornisce la prova concreta della nascita della nostra società, che ha saputo sollevare la testa dal caos e dal fango.

«Guardate attorno a voi! Guardate in faccia i vostri amici e i vostri vici-ni, e tutti coloro che condividono le vostre speranze. Noi ci diamo speran-za l'un l'altro. Noi ci scambiamo reciprocamente la garanzia che il nostro stile di vita, anche se cambiato, non è scomparso. Ci potranno essere nere entità che cercheranno di abbatterci, di trascinarci lontano, verso luoghi dove regnano solo dolore e sofferenza. Ma qui non passeranno. Siamo troppo forti per loro! Troppo potenti! Ripetete con me le parole del patto! Le parole del giuramento!»

Tutti insieme, gli ascoltatori gli risposero:

«Giuro fedeltà alla bandiera.

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E all'uomo che chiamiamo il Senatore. E alla Repubblica che da lui è rappresentata. Un solo popolo, sotto la sua legge. E la promessa di un giorno migliore per tutti.»

Le parole echeggiavano in tutta la sala, forti e decise. Logan non aveva

idea del risultato che volevano ottenere, e neppure del loro significato. Non c'era più una repubblica e neppure una legge o un popolo, e probabil-mente non si prevedevano giorni migliori per molto tempo ancora. Ma la gente lì radunata credeva ciecamente alle parole del Senatore. Non c'era stata esitazione nel pronunciare le parole, nessuna sfumatura di dubbio o di confusione.

«Amici» riprese il Senatore, la sua forma tozza e sgraziata andava avanti e indietro sulla pedana, adesso. La testa era china. «Domani presenterò nuove leggi e pregherei tutte le varie persone qui radunate di venire ad as-sistere e a partecipare alla discussione. Il dibattito inizierà a mezzogiorno, in seduta pubblica. Tutti gli oratori avranno diritto di parola e le loro ri-chieste saranno ascoltate. All'ordine del giorno sarà soprattutto l'equa di-stribuzione dell'acqua e del cibo. Le nostre riserve sono abbondanti, ricor-date, ma non inesauribili.»

Girò su se stesso e allargò le braccia. «A tutti i presenti. Questo augusto consesso è sciolto e la seduta odierna è terminata. La presidenza si com-plimenta con voi e vi ringrazia del lavoro oggi compiuto. Che resti per sempre. Potete allontanarvi. Uscite e statemi bene.»

Dal pubblico si levò un forte applauso, poi tutti si alzarono e si avviaro-no verso le porte in fondo alla sala.

Cat e Logan si fecero da parte per lasciarli passare. Logan era sorpreso dal fervore che si leggeva sulle loro facce, anche se a lui sembrava solo u-n'ennesima variazione sul tema "specchietti per le allodole", ma quella gente aveva chiaramente trovato qualcosa in cui credere.

Il Senatore si era diretto alla scrivania e si era seduto. Varie persone si erano portate avanti e avevano preso posto sulle prime panche, senza dub-bio perché intendevano essere chiamate a parlare in privato con lui. Ma il Senatore indicò Cat e Logan e fece loro segno di avvicinarsi, di non rima-nere in fondo alla sala.

«Eccola qui, la mia gattina!» disse con voce sonora. «Non nasconderti nell'ombra. E porta con te il tuo grosso amico!»

Si avviarono lungo il più vicino corridoio tra i banchi e salirono sulla

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pedana dov'era seduto il Senatore. Lui si alzò per abbracciare Cat, una sor-ta di rapida stretta che terminò quasi prima di cominciare. Un gesto rituale, si disse Logan. Una tradizione che non corrispondeva necessariamente a un sentimento sincero.

In ogni caso, Cat gli sorrise. «Le tue parole ci infondono nuova speran-za, come sempre» gli disse.

«Un umile sforzo da parte di un umile servitore del popolo. Ma che altro posso fare?» si schermì lui. La bocca era tutta spostata da una parte della faccia gonfia, contorta e coperta di cicatrici come il resto del corpo, ma la sua voce era sonora e autorevole. Aveva un solo occhio sano, che si spostò su Logan. «Hai fatto nuove amicizie?»

«Si chiama Logan» rispose lei. «L'ho trovato che entrava in città. Voleva andare alla fortezza.»

«No, no, no, Logan!» esclamò il Senatore in tono preoccupato. La sua faccia rovinata si contorse in una nuova smorfia. «Non devi andarci. Non devi avere niente a che fare con quella gente. Sono egoisti e avidi. Sono il male.»

«Sono spaventati, probabilmente» commentò Logan. Il Senatore gli rivolse un sorriso sghembo. «Perché sei qui?» «Ha bisogno di una medicina per i suoi bambini malati» rispose subito

Cat. «Gli ho promesso che avremmo condiviso con lui le nostre.» «Bambini malati? Dove li porti?» Logan ebbe un istante di esitazione. «Non è facile rispondere. Non ne

sono ancora sicuro. Sto cercando la loro casa.» I lineamenti distorti del Senatore si rasserenarono. «Perché non qui?

Abbiamo posto per i nuovi venuti. Abbiamo case che si possono aprire a chi cerca rifugio.» Fece una pausa, poi aggiunse: «O non siamo una scelta opportuna?».

«Ha già una destinazione» intervenne Cat, alzando le spalle. «E poi, non è un elettore del nostro collegio, è un viaggiatore di passaggio.»

Il Senatore la fissò. «Mi pare che tu abbia trovato un inconsueto grado di interesse nel nostro amico, gattina. C'è qualcosa che non mi stai dicendo?»

Lei gli rivolse un'occhiata esasperata, da bambina. «Per favore, non trat-tarmi come una ragazzina. Faccio per lui quello che farei per ogni altro vi-sitatore che chiede aiuto. Hai sempre ripetuto che l'assistenza medica ai bambini è un punto essenziale della tua piattaforma politica. Perché deve diventare improvvisamente un problema?»

Il Senatore parve riflettere su quelle parole. Il suo occhio buono era fisso

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su di lei, senza muoversi e senza battere ciglio. Poi annuì. «Non è un problema, gattina. Come dici, siamo qui per dare aiuto a chi-

unque ce lo chieda.» Puntò un indice su Cat. «Fa' in modo che abbia quello che gli serve. Ma ricorda il nostro patto.»

La ragazza annuì e disse con calma: «Non c'è bisogno che me lo ram-menti».

Lo sguardo del Senatore si fece penetrante e Logan si chiese cosa stesse-ro dicendo. Intervenne dicendo: «Ti sono riconoscente dell'aiuto».

Il Senatore lo fissò. «Penso che avrai bisogno di molto più di quello che posso darti io.»

Logan lo fissò senza comprendere. «Anche qui, anche se siamo mutanti, abbiamo sentito parlare di coloro

che portano il bastone con gli strani simboli. Abbiamo sentito parlare del potere che avete e del timore che ispirate ai vostri nemici. Un uomo con le tue capacità potrebbe servirci, se cambiassi idea e preferissi rimanere.»

Logan scosse la testa. «Io non sono padrone di me, in queste decisioni. Io devo andare dove mi mandano.»

Cat lo guardò stupita, ma non disse niente. Sulla bocca del Senatore comparve quello che doveva essere un mezzo sorriso. «Forse sei stato mandato qui da noi.»

«Accorcerebbe notevolmente il mio viaggio» rispose Logan, sorridendo a sua volta. «Ma temo di non potermi fermare.»

«Allora faresti meglio a rimetterti in cammino» concluse il Senatore e fece un gesto con il braccio, come per congedarlo.

Due lucertola, appartenenti alla guardia personale del Senatore, li segui-

rono quando lasciarono la sala e si immersero nuovamente nel buio della notte.

«Non dire niente» gli mormorò la ragazza. Lei si mise in testa al gruppo e tornò indietro, lungo la strada da cui era

giunta con Logan, poi entrò in una zona di case in rovina. Montagnole di rifiuti e di macerie coprivano quelle che dovevano essere decine di isolati, l'intero quartiere sembrava aver subito un bombardamento. Fin dove Lo-gan poteva vedere alla luce della luna, non rimaneva in piedi un solo edifi-cio che fosse anche solo per metà intero.

Erano ormai all'interno delle rovine, in un labirinto indecifrabile, quando Cat s'infilò in un'apertura, tra due pareti diroccate, e si diresse verso una porta per metà aperta, che pendeva da uno dei cardini. La stanza in cui lo

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condusse era parzialmente illuminata dalla luce della luna che filtrava dal soffitto crollato.

Logan la seguì, ma i lucertola rimasero fuori. Negli angoli e accanto alle pareti, l'ambiente era pieno di macerie. Senza dire una parola, Cat comin-ciò a spostare i pezzi di legno e le pietre di una pila di macerie. Logan la aiutò e in pochi minuti trovarono una botola. Il Cavaliere stava per dire qualcosa, ma la ragazza si portò un dito alle labbra e indicò la chiusura. In-sieme sollevarono l'anello e apparvero alcuni scalini di pietra che portava-no a una cantina.

Cat scese per prima, seguita dopo un istante da Logan. I lucertola li la-sciarono fare. Rimasero di guardia, con la schiena all'ingresso, scrutando nella notte.

«I lucertola dicono di essere tutti una famiglia» gli disse Cat, quando fu-rono nella cantina. Parlava pianissimo, in modo che soltanto Logan potesse udirla. «Non so se sia vero, ma sono fedeli al Senatore in un modo addirit-tura feroce. Parecchi sono morti per lui durante gli attentati alla sua vita.»

«Chi ha cercato di ucciderlo?» Logan lo voleva sapere. La ragazza si strinse nelle spalle. «Gente della fortezza, soprattutto fana-

tici che pensano che tutti i mutanti sono pericolosi e debbono essere elimi-nati. Alcuni danno loro la colpa di quello che è successo al mondo in gene-rale.» Scosse la testa. «Alcuni hanno sempre bisogno di trovare qualcuno, uno qualsiasi, a cui addossare la responsabilità di tutto quello che succe-de.»

Frugò nel buio e accese una lampada a energia solare. «Se l'è anche cercata. È pericoloso come i nemici da cui dice di voler

proteggere i suoi elettori. Potrebbe tentare di uccidere anche te.» Logan le afferrò il braccio. «Uccidermi? E perché?» «Non gli piaci.» Cat cercò di staccarsi da lui, ma Logan continuò a tenerla ferma. «Aspet-

ta un attimo. Cos'hai detto?» Lei lo guardò con ira. «Faresti meglio a lasciarmi, se vuoi uscire di qui

tutto d'un pezzo.» «Non sono stato io a cacciarmi qui. Mi ci hai portato tu. Dimmi cos'è

questa storia, Cat. Subito.» Lei cercò di resistere, scuotendo lentamente la testa. «Se te lo dico, poi

non mi porti più via con te.» Nel sentire la disperazione della sua voce, Logan addolcì il tono. «Per

favore, dimmelo.»

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Per un momento, lei tacque, poi iniziò: «Si tratta di me. Sono di sua pro-prietà».

A tutta prima, Logan temette di avere capito male. «Sua proprietà?» ri-peté per controllare.

«È stato l'accordo con lui quando mi ha preso con loro. Ha accettato di darmi cibo e alloggio, ma in cambio io divenivo di sua proprietà. Ha detto che era una vecchia tradizione risalente all'inizio della politica. Ha detto che gli appartenevo finché non avessi pagato il mio debito.» Abbassò gli occhi e sospirò. «E io ho accettato. Ero affamata e sapevo che sarei mor-ta.» Dopo una pausa aggiunse: «Penso che avrei fatto qualunque cosa».

Dal modo in cui lo disse, Logan pensò che l'avesse fatta davvero. Sentì un nodo alla gola e una collera improvvisa. «E allora non vuole rinunciare a te. Parlava di questo, nella sala delle riunioni, quando ha ricordato il pat-to tra voi. Pensa che potresti cercare di andartene con me.»

Lei annuì, ma non disse niente. «E tutta quella storia che sei stata salvata da una famiglia di lucertola

che ti hanno preso con loro quando sei stata esiliata dalla fortezza, te la sei inventata?»

Lei si strinse nelle spalle, senza rispondere. Logan le lasciò il braccio e si guardò attorno. La cantina era piena di

scatole di tutte le dimensioni. «E qui c'è la Cyclomopensia, o ti sei inventa-ta anche quello?»

Lei strinse le labbra per il dispetto e raggiunse un gruppo di scatole, sol-levò un coperchio e prese dall'interno una mezza dozzina di confezioni. Le porse a Logan.

«Ce n'è per un mese di cura. Non era una bugia. Io conosco la medicina. Le scorte dei farmaci sono state affidate a me perché avevo appreso delle nozioni di medicina quando ero nella fortezza. Ma loro non ne hanno mol-to bisogno. Il loro sistema immunitario è cambiato quando sono diventati lucertola. Però in mezzo a noi ci sono anche degli umani. Persone della strada. Li curo io quando si ammalano. A volte scambio medicine con la fortezza, in cambio di materiale che ci serve. Ma il Senatore non vuole, qualunque sia la ragione. Lui odia la gente della fortezza.»

Logan si guardò attorno. «Tutte queste scatole sono piene di medicine?» La ragazza annuì. «Bene. Prendi quelle che possono essere più utili, secondo te. Portiamo

via anche quelle.» Lei lo fissò a bocca aperta. «Intendi ancora portarmi via con te?»

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«E perché no? Pensi che debba lasciarti qui? Mi pareva che avessimo stretto un patto.»

«Cercheranno di impedirtelo. Potrebbero cercare di ucciderti. Non me lo sono inventato.»

«Tu fa' come ti ho detto.» Lei cominciò a raccogliere varie scatole, ficcandole nelle tasche cucite

all'interno del suo mantello. Lavorava in fretta e senza parlare. Intanto Lo-gan dava un'altra occhiata alla stanza, tenendo d'occhio l'ingresso. Se in-tendevano ucciderlo, l'avrebbero fatto mentre usciva, pensando di poterlo cogliere prima che gli venisse in mente di difendersi. Il Senatore doveva aver comunicato loro la sua identità, doveva averli avvertiti del bastone e detto loro di fare in fretta.

Scosse la testa. Poi vide un'altra porta in fondo alla stanza. «Cosa c'è lì dietro?» chiese alla ragazza. Lei interruppe il lavoro per guardare. «Niente» rispose poi. «Un'altra

cantina, ma è vuota. Anzi, chiusa e sigillata. Il Senatore ha fatto saldare la serratura per essere sicuro che ci fosse un solo ingresso. Se cercheremo di rompere il sigillo, le guardie se ne accorgeranno e chiameranno aiuto.»

«E se non sentiranno niente?» Raggiunse la porta e appoggiò il bastone contro la serratura, poi evocò la

magia. In pochi secondi il fuoco aveva bruciato i chiavistelli di ferro e la porta era aperta. Dall'altra parte c'erano delle macerie che la bloccavano, ma, spingendo contro il battente, Logan riuscì a spostarle. La stanza su cui si apriva era enorme, ma in gran parte vuota. Poteva essere la rimessa di un magazzino, in un'epoca precedente, ma tutto quello che conteneva era scomparso da tempo.

In fondo al sotterraneo, una grossa serranda avvolgibile era aperta e si vedeva una rampa.

«Sei pronta?» chiese a Cat. Con un cenno d'assenso, lei lo raggiunse. «Come hai fatto?» Lui fissò con serietà la sua faccia coperta di macchie. «Il mio bastone

speciale.» Scavalcarono le macerie e attraversarono il sotterraneo fino alla porta.

Logan perse qualche istante a controllare che i lucertola non avessero al-cun sospetto, ma non sentì la loro presenza e non notò alcun pericolo. Uscì dall'edificio, seguito dalla ragazza, e fu di nuovo all'aperto.

Percorsero un lungo tratto a piedi, allontanandosi dal magazzino in una

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direzione a caso ed effettuando un largo giro prima di dirigersi verso il luogo doveva aveva lasciato il Lightning. Il silenzio era profondo e soffo-cava tutto, l'oscurità della notte diveniva un alleato della loro fuga. All'ini-zio non parlarono, mantenendo il silenzio per non offrire possibili indizi della loro presenza. Se il Senatore avesse deciso di mettersi sulle loro trac-ce, non intendevano fornirgli nessun aiuto.

«Non c'è bisogno di correre» gli disse all'improvviso la ragazza, voltan-do verso di lui la sua strana faccia. «Passerà del tempo prima che venga a cercarmi.»

Logan la guardò, sollevando un sopracciglio. «Del tempo? Perché? Non vuole indietro quello che gli appartiene?»

«Non crederà che tu abbia accettato di prendermi con te. Almeno per un po'. Penserà che tu sia andato via da solo.»

«Non hai detto che aveva paura di perdere la sua proprietà?» Lei voltò la testa da un'altra parte. «Certo. Sa che cercherò di andarmene

con te, non è la prima volta che ci provo. Solo, non pensa che tu sia dispo-sto a prendermi.»

«No? E perché?» «Perché sono una mutante, e il Senatore pensa che nessuno mi voglia,

eccetto lui.» Erano tornati nella zona dove Logan aveva incontrato la ragazza quando

ricomparve Coniglio, che prese a camminare al loro fianco. I suoi strani salti ne rivelarono l'identità prima ancora che riuscissero a vederla bene.

«Possiamo portarla con noi?» chiese la ragazza. Logan si strinse nelle spalle. «Una gatta capace di vedere al di là delle

apparenze per giudicare il carattere di una persona è troppo utile per la-sciarla.»

Anche se la ragazza non guardava verso di lui, Logan era pronto a giura-re che avesse sorriso.

21

La luce lunare bagnava il paesaggio avvolto nella notte, colorando d'ar-

gento i tetti e le pareti degli edifici, riempiendo di macchie simili a liquido i campi deserti e disegnando arabeschi sull'asfalto scuro dell'autostrada.

Fiamma seguiva il ragazzo sfigurato, a pochi passi di distanza, e faticava per reggere la sua andatura, ma non voleva sentire gli strattoni della corda che le aveva messo al collo per impedirle di fuggire. La bambina aveva

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detto a malapena qualche parola da quando si erano allontanati, troppo spaventata per poter fare qualcosa di più che obbedire ai suoi ordini. Ma ormai avevano percorso più di tre chilometri e lei si sentiva stanca.

«Quanto dobbiamo camminare ancora?» chiese. «Quanto decido io.» «Cioè?» «Quello che occorre per tornare indietro.» «Indietro dove?» Il ragazzo voltò verso di lei la faccia coperta di cicatrici. Nel suo unico

occhio sano si leggeva l'irritazione. «Dov'ero quando i tuoi amici mi hanno portato via.» «Dalla tua famiglia?» «Dalla mia tribù.» Si schiarì la gola e sputò. «Sei tu che hai una fami-

glia, non io.» Fiamma percorse ancora un breve tratto, poi sbottò: «Non ci voglio veni-

re». «Quello che vuoi non mi interessa.» «Perche fai questo?» «Questo cosa?» «Portarmi via con te.» «Perché e mi va di farlo. E perché lo posso fare.» Borbottò qualcosa che

la bambina non riuscì a capire, poi aggiunse: «Faccio a loro quello che hanno fatto a me. Ti porto via come hanno portato via me. Vediamo se gli piace».

Lei tacque ancora per qualche istante, poi chiese: «Cosa vuoi farmi?». «Non lo so ancora. Non ho deciso.» «Non dovresti fare così.» Aveva gli occhi pieni di lacrime. «Dovresti la-

sciarmi andar via.» «Sta' zitta.» Lei obbedì e proseguirono senza parlare, seguendo la linea buia dell'au-

tostrada che si perdeva nella distanza davanti a loro. Fiamma pensò al suo-no cupo degli spari della Flechette di Orso e si chiese cosa potesse signifi-care. Era successo qualcosa, mentre lei era lontana, e non aveva potuto metterli in guardia.

E tutto perché aveva voluto fare la cosa giusta. «Ti ho liberato io» disse in tono di sfida, convinta che la frase dicesse

tutto ciò che era necessario. «Grazie» rispose lui.

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«Dovresti lasciarmi andare.» «Non ci provare, a dire a me quello che devo fare. Tu non sai niente.» «Io so che ti ho aiutato, mentre adesso tu non vuoi aiutare me.» «Mi hai aiutato perché eri terrorizzata da quello che avrei fatto se mi

fossi liberato da solo.» «Non è vero!» «Certo che lo è. L'ho visto da come mi guardavi. Avevi paura.» «Avevo paura di quello che poteva succedere a te. Ero preoccupata di

quello che gli altri potevano decidere di farti mentre Gufo non ti teneva d'occhio.»

Il ragazzo sfigurato si strinse nelle spalle. «Non importa. Tu mi hai libe-rato. Ed è questo che conta. Ormai è fatta e farai meglio ad abituarti.»

Fiamma strinse le labbra per vincere il bisogno di piangere che si affac-ciava . "Hai dieci anni" disse a se stessa. "Sei troppo grande per piangere."

Tornò a pensare al suo gesto. Aveva fatto quello che credeva giusto quando lo aveva liberato. Vedeva come Pantera fissava il ragazzo. Alla prima occasione si sarebbe vendicato. Forse l'avrebbe ucciso. O poteva far-lo uno degli altri, se non ci pensava Pantera. Non poteva esserne sicura. Gufo non sarebbe riuscita a proteggerlo per sempre e Fiamma non voleva che gli succedesse qualcosa. Scoiattolo non avrebbe voluto che gli facesse-ro dal male, e lei neppure.

Aveva finto di dormire, poi si era alzata e si era avvicinata al ragazzo e l'aveva guardato a lungo mentre dormiva. Quando si era svegliato, avverti-to in qualche modo della sua presenza, lei lo aveva fissato ancora, anche dopo che lui si era girato dall'altra parte. Alla fine, quando aveva preso la decisione, gli si era inginocchiata accanto, aveva aperto le catene con la chiave che aveva tolto a Gufo e l'aveva liberato.

«Corri via!» gli aveva sussurrato. «Corri più lontano che puoi!» Ma invece di fuggire, lui le aveva messo una mano davanti alla bocca,

l'aveva sollevata e trascinata via, prima dietro la casa e poi verso l'auto-strada, dove Orso non poteva vederli. Fiamma avrebbe opposto una resi-stenza maggiore, ma lui le aveva sussurrato che se ci avesse provato l'a-vrebbe colpita e le avrebbe fatto davvero male. Terrorizzata e confusa da quello che era successo, era rimasta in silenzio finché non era stato troppo tardi. Dopo poco avevano raggiunto l'autostrada, lui aveva trovato un pez-zo di corda e gliel'aveva legata al collo e Fiamma si era trovata prigioniera. Ma anche allora la bambina aveva pensato che presto si sarebbe stancato di lei e l'avrebbe lasciata andare o che avrebbe capito di aver commesso un

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errore. Anche allora aveva sperato che riprendesse il senno e facesse la co-sa giusta.

Adesso aveva paura di essersi sbagliata. «Nessuno ti ha fatto del male» disse. «Anche dopo che hai ucciso Sco-

iattolo e non eri più in grado di difenderti, nessuno ti ha fatto del male.» «Io non volevo uccidere quel bambino» disse lui, sulla difensiva, strin-

gendo le labbra. «È stato un incidente. Mi hanno spaventato. La pistola ha sparato da sola.» Scosse la testa, preoccupato. «E poi era solo uno stordito-re. Non avrebbe dovuto fargli tanto male.»

«Ma gli altri avrebbero potuto vendicarsi, e non l'hanno fatto. Perciò, perché sei così cattivo con me?»

Lui si girò e la afferrò per il davanti della camicia, tirandola così vicina alla sua faccia che lei riuscì a scorgere i particolari delle cicatrici di ogni ferita da lui sofferta.

«Se volessi essere davvero cattivo con te, ne sarei perfettamente capace. Potrei farti tanto male da farti assomigliare a me. Perciò sta' zitta!»

La spinse via facendola cadere in terra, poi diede un forte strattone alla corda, finché lei non riuscì a rialzarsi.

La sua faccia si oscurò. «Potrei ucciderti, se volessi...» Riprese a camminare, costringendola a seguirlo. Fiamma lo seguì a fati-

ca, con le lacrime agli occhi, la bocca serrata. Si rifiutava di piangere, il ragazzo era crudele, e lei non voleva farsi vedere mentre piangeva. Cercò di pensare alle ragioni che l'avevano fatto diventare così. Era pieno di ran-core per quello che aveva subito, secondo lei. Per la faccia, soprattutto. Per l'occhio che aveva perso. Avrebbe voluto saperne di più perché forse a-vrebbe potuto dirgli qualcosa per consolarlo, ma aveva paura di fare do-mande. Era troppo infuriato.

«Potrei tornare qui con la mia tribù e uccidere tutta la tua famiglia» disse all'improvviso il ragazzo. «La colpa sarebbe loro perché mi hanno rapito. Avrebbero dovuto darmi quello che gli ho chiesto. Mostri!»

La sua amarezza era come uno schiaffo sulla faccia, Fiamma rabbrividì e si affrettò a distogliere lo sguardo. Gli sentì emettere uno sbuffo di deri-sione, poi il ragazzo diede un nuovo strattone alla corda, trascinandola a-vanti ancora più in fretta.

«Non ne avevano il diritto» mormorò ancora il ragazzo, e Fiamma non capì se parlasse degli Spettri o di altri.

La notte proseguì. Dopo un poco, la bambina cessò di pensare a quello che faceva e si concentrò sul compito di mettere un piede davanti all'altro,

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di andare avanti. La luna continuò il suo cammino nel cielo, le ombre si al-lungarono di nuovo. Il mondo era un paesaggio vuoto e silenzioso.

Di tanto in tanto Fiamma riconosceva qualche luogo da cui erano passati all'andata. Ma per gran parte del tempo teneva gli occhi fissi sulla strada e cercava di pensare a quello che poteva fare.

Finché all'improvviso furono gli eventi a decidere. "Devi andartene di qui!" le dissero tutt'a un tratto le voci, in tono urgen-

te. "Devi andartene di qui, subito!" «Ferma!» gridò al ragazzo. Il suo tono disperato lo spinse a voltarsi sor-

preso. «C'è qualcosa di molto cattivo che viene verso di noi.» Lui la guardò per un momento, poi rise. «Le inventi proprio tutte!» Fiamma scosse la testa. «Io riesco sempre a sentirlo, quando c'è qualche

cosa di brutto in arrivo. Le voci mi avvertono. E adesso c'è davvero. Pro-prio davanti a noi.»

Lui si portò le mani ai fianchi e guardò nella direzione da lei indicata. «Ma cosa dici? Io non vedo niente.»

«Non importa se non lo vedi. C'è.» «E io dovrei crederci?» S'interruppe. «Cosa intendi, dicendo che senti le

voci?» Lei cercò di pensare a cosa rispondere. «Riesco a sentire le cose che

stanno per succedere. È il mio dono. Posso sempre dire se c'è qualche peri-colo in agguato, e adesso so che non possiamo andare da quella parte.»

«Non possiamo, eh? E allora suppongo che dobbiamo tornare indietro. È così?»

Fiamma si passò le mani nella massa spettinata dei capelli rossi e ripeté, con tutta la fermezza e il coraggio che riuscì a trovare: «Non possiamo an-dare da quella parte».

«Credi che sia stupido?» chiese luì bruscamente. «Per che razza di idiota mi hai preso? "Non possiamo andare da quella parte." Che stronzata! Tu vai da qualsiasi parte ti dico io, che ti piaccia o no. Perciò piantala di pren-dermi in giro.»

«Non sto scherzando.» Il ragazzo scosse la testa, alzò gli occhi al cielo buio della notte e sospi-

rò. «Sai una cosa? Non capisco dove vuoi arrivare. A farmi impazzire, penso.»

Fiamma respirò a fondo e dichiarò: «Io non vado più avanti». «Tu vai dove ti dico di andare, piccolo mostriciattolo.»

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Lei allora si lasciò scivolare in terra, in un mucchietto. E questa volta non poté farne a meno, cominciò a piangere.

«Per favore, lasciami andare!» lo supplicò. «In piedi!» Il ragazzo era sopra di lei. Le sue parole tagliavano come ra-

soi. Lei pianse ancora più forte e scosse la testa. «Non vengo!» Lui cominciò a tirare la corda per trascinarla dietro di sé e la corda le ta-

gliava la pelle. Era ruvida e bruciava, e la soffocava, ma Fiamma si rifiutò di alzarsi. Il ragazzo sfigurato si girò e le mollò un calcio nelle costole.

Lei si raggomitolò su se stessa, singhiozzando. «Smettila» lo supplicò. «Alzati o ti ammazzo!» le gridò luì. All'improvviso gli comparve in mano una scheggia di vetro che aveva

raccolto da terra. La punta tagliente scintillò alla luce della luna. Gliela mi-se davanti alla faccia. Fiamma chiuse gli occhi e smise di respirare.

«Sai cosa si prova, quando ti tagliano la faccia?» sibilò. Lei scosse la testa senza rispondere. Si rannicchiò ancor di più su se

stessa. «Se ti taglio la gola, muori dissanguata. Ti piacerebbe?» Lei scosse di nuovo la testa. «Alzati o te la taglio!» Lei scosse decisa la testa ancora una volta. «No. Voglio andare a casa!» «Ti avverto!» "Svelta! Devi andare via subito!" La premonizione del pericolo che aveva già sentito si fece risentire sotto

forma di un grido silenzioso. Le voci erano frenetiche, una presenza tangi-bile, e Fiamma sapeva che se non avessero fatto qualcosa subito sarebbero stati uccisi.

«Dobbiamo nasconderci» sussurrò. Si accorse che il ragazzo si era allontanato, che qualcosa aveva richia-

mato la sua attenzione, e si azzardò ad aprire un occhio. Vide che stava os-servando alcune costruzioni alla loro sinistra.

«C'è qualcosa» disse piano, quasi tra sé. Guardò ancora per un momento gli edifici. «Qualcosa di grosso.»

Poi fissò Fiamma e sulla sua faccia comparve un'espressione diversa. «La sai una cosa? Sei troppo piccola e debole per interessarmi. Non sei di nessuna utilità.»

Si abbassò e, servendosi della scheggia di vetro, tagliò la corda attorno alla sua gola. «Torna indietro, se proprio vuoi» disse indicando la strada da

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cui erano giunti. «Scappa, gatto spaventato.» Lei lo fissò. «Dovresti nasconderti» gli disse. Lui scosse la testa. Il suo occhio luccicò alla luce della luna. «Io ho di

meglio da fare, corri via prima che cambi idea. Ne ho abbastanza di te.» Fece per allontanarsi, poi si girò verso di lei. «Non verrà a cercarti, te lo

assicuro. La tua famiglia. Tu credi che verranno, ma non verrà nessuno. Nessuno viene mai a cercarti, una volta che non sei più con loro.»

Senza più guardarsi alle spalle, si allontanò veloce inoltrandosi nell'auto-strada e nell'oscurità, e in breve fu solo un'ombra. Fiamma lo guardò anco-ra per un momento, poi si alzò e corse a nascondersi nel fosso che correva parallelo alla strada, lontano dal pericolo che aveva avvertito.

Si allontanò camminando nel fossato, per un breve tratto, tenendo la schiena bassa e senza fare rumore, come le aveva insegnato Passero. Poi uscì all'aperto e scivolò dietro alcuni ciuffi di erba che spuntavano a poca distanza. L'erba era più alta della sua testa e Fiamma non riusciva a vedere cosa c'era al di là. La attraversò finché non le parve di essersi allontanata a sufficienza, poi si lasciò cadere a terra. La premonizione era ancora con lei, sicura, pesante. Non sapeva che altro fare. Avrebbe dovuto allontanarsi di più, ma era esausta. Si abbassò ancora, strinse le ginocchia contro il pet-to, chiuse gli occhi, e aspettò.

Le voci sussurravano a Fiamma con forza e insistenza. «Scappa! Sei in

pericolo! Corri via subito!» Lei era abbastanza cresciuta da capire che le voci erano reali e che quan-

do parlavano era importante ascoltarle. Le voci erano una parte di lei, una presenza nella sua mente, reali e concrete come il mondo cupo e in rovina che la circondava. Raccontava delle voci ai genitori, ma i genitori non le davano retta. Si preoccupavano per lei. Non la giudicavano del tutto sana di mente. Forse era colpa dei veleni con cui era stata in contatto. Forse era una nuova forma di follia che l'aveva colpita presto, una follia che prima o poi, temevano, avrebbe finito per colpirli tutti.

Lei sapeva cosa pensavano perché di tanto in tanto li sentiva parlare, e il loro pensiero era sempre lo stesso.

Si rifiutavano di credere a quello che, come lei sapeva, era la verità. Ma quella notte era stato diverso, le voci erano diventate forti e rabbiose,

si rifiutavano di lasciarsi mettere da parte. Era corsa dai genitori, li aveva destati, aveva detto loro che dovevano fidarsi di lei, che correvano tutti un gravissimo pericolo. Ma nonostante le sue suppliche non le avevano dato

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retta. Le avevano detto che andava tutto bene, che doveva tornare a letto, che sarebbero rimasti a sedere accanto a lei finché non si fosse addormen-tata, che non poteva succedere niente di male. Anche se aveva solo sei an-ni, Fiamma sapeva che non era vero. Avrebbe voluto poterlo credere, ma lei sapeva. Stava per succedere qualcosa di orribile, e non bastava nascon-dere la testa nella sabbia per allontanarlo.

«Per favore» li aveva supplicati. «Dobbiamo fuggire.» Suo padre si era alzato ed era tornato a dormire. Sua madre era rimasta

nella sua stanza per consolarla mentre singhiozzava disperatamente. «Su, su» diceva per tranquillizzarla, accarezzandole i sottili capelli rossi, chi-nandosi su di lei e abbracciandola. «Ti tengo in braccio.»

"No, devi correre via! Devi correre via subito! Fuggire lontano e na-sconderti!" le gridavano le voci, coprendo e soffocando le parole consola-torie della madre, colmando la sua mente di suoni e di rabbia, di dolorose fitte di terrore. Lei non sapeva cosa fare. Non riusciva a pensare ad altre cose da dire.

Era terrorizzata. Era disperata. Quando infine la madre l'aveva lasciata, lei era rimasta immobile per un

solo momento, poi aveva lasciato il letto ed era uscita di casa scavalcando la finestra. Abitavano in una casa alla periferia di ciò che restava della città di Seattle. Era la casa in cui era nata e ne conosceva ogni angolo. Trascor-reva ore e ore in cortile, a giocare. Uno dei suoi passatempi preferiti era il nascondino. Si allenava a nascondersi, aspettando che il padre o la madre venissero a cercarla. I genitori le avevano chiesto di non fare quel gioco senza avvertire, ma il più delle volte lei preferiva tenere il segreto.

Ed era una di quelle volte. Era corsa in fondo al cortile e si era rifugiata nel suo nascondiglio prefe-

rito, un foro profondo, sotto il ripostiglio degli attrezzi. L'apertura era ab-bastanza larga perché lei ci si potesse infilare, ma troppo stretta per una creatura più grossa, uomo o animale. Quando era dentro quel foro, nel suo posto segreto, lei si sentiva sicura. E aveva bisogno di sentirsi sicura, quel-la notte che le voci erano così forti e imperiose. Avevano taciuto nel mo-mento in cui lei si era infilata nel foro, raggomitolata nel buio, in fondo al-l'oscurità.

E quando erano iniziate le urla, si era portata le ginocchia contro il petto e le aveva strette forte. Aveva cercato di non ascoltare, di fingere che non stesse succedendo niente. Ripeteva tra sé, piano, una cantilena, si dondola-va avanti e indietro. Le urla non erano durate a lungo, poi aveva sentito dei

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passi che si avvicinavano a lei. Passi pesanti e accompagnati da respiri af-fannosi, gutturali. Si erano avvicinati al ripostiglio, avevano girato intorno, poi si erano allontanati.

Lei era rimasta nascosta fino al mattino. Quando era strisciata fuori dal nascondiglio, aveva visto sull'erba rinsecchita del giardino la camicia da notte di sua madre. Era tutta sporca di sangue. L'aveva guardata un mo-mento, poi aveva alzato gli occhi verso la casa, verso la porta di dietro sfondata, le pareti e le finestre.

Aveva teso l'orecchio nel silenzio, fissato le ombre che si stendevano al di là della porta divelta. Aveva aspettato un momento, poi si era girata dal-l'altra parte. Non aveva bisogno di entrare. Sapeva cos'avrebbe trovato. Gliel'avevano detto le voci, e le voci non si sbagliavano mai.

Aveva lasciato la casa e si era avviata verso la città, non sapeva cos'altro fare. "Troverò un'altra casa" diceva a se stessa. "Troverò un'altra famiglia." Ne era sicura con la solenne fiducia dei bambini piccoli.

Quando si era imbattuta in Gufo, la sua fede era stata premiata. Quegli eventi risalivano a quando lei era ancora Sara, prima di diventare

Fiamma, e da allora era passato molto tempo. Adesso sedeva nell'oscurità, con le ginocchia contro il petto e dondolava avanti e indietro, ripensando ad allora.

Il tempo rallentò fino a dare l'impressione di essersi ridotto a strisciare, e lei cercò di ascoltare le voci che la mettevano in guardia, ma adesso tace-vano. Non era più in pericolo. Era al sicuro.

Ma il ragazzo che l'aveva catturata... Le urla iniziarono bruscamente, facendola sobbalzare. Erano acute, pro-

lungate, e lei curvò le spalle nell'udirle come se fosse stata colpita da un pugno. Si portò le mani alle orecchie, non voleva sentire, sapeva da dove venivano, ne conosceva l'origine.

"Perché non mi ha voluto ascoltare? Perché i miei genitori non mi hanno creduto? Perché nessuno mi dà retta?"

Solo gli Spettri le avevano dato ascolto. Solo gli Spettri capivano il valo-re delle sue voci.

Trasse dei respiri lenti e profondi per calmarsi, per cancellare la paura e l'orrore, per far passare più in fretta quei momenti. Si abbracciò ancor più forte le gambe. Aveva freddo e si sentiva abbandonata. Poi, incapace di sopportare ulteriormente l'attesa, smise di respirare e tese l'orecchio.

Silenzio.

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Attese a lungo che il silenzio si spezzasse, che le giungessero i rumori del predatore nascosto dietro di lei, qualunque cosa fosse, ma non udì nien-te. Fu tentata di muoversi per andare a controllare, ma nello stesso tempo voleva tenere in vita la piccola speranza di essersi sbagliata. Poi la speran-za l'ebbe vinta sulla curiosità. Non avrebbe ricavato nulla, andando a con-trollare. Voltò la schiena all'autostrada e s'incamminò nell'erba, verso il punto dove finiva. Di lì proseguì attraverso una distesa spoglia che un tempo doveva essere stata un campo coltivato, o un cortile, accanto a un complesso di case coloniche, per poi tornare verso l'autostrada e la fami-glia da cui era stata strappata.

Era molto stanca, molto triste. "Non verrà a cercarti, te l'assicuro. La tua famiglia. Tu pensi che verran-

no, ma non verrà nessuno. Nessuno viene mai a cercarti, una volta che non sei più con loro."

Nella mente le echeggiavano le crudeli parole del ragazzo sfigurato, e al ricordo si sentì raggelare. Ma il ragazzo si sbagliava. Quella era la sua fa-miglia e la famiglia non l'avrebbe abbandonata. Non gli Spettri. Non Gufo e Passero e Pantera e gli altri. Sarebbero venuti a cercarla.

Arrivò all'autostrada e la seguì in direzione sud, verso il luogo dove li aveva lasciati. "Verranno" continuava a ripetersi.

E poco prima dell'alba, quando il sole aveva trasformato il cielo in un'as-surda distesa d'argento sotto uno spesso banco di fumo e di ceneri prove-nienti da incendi le cui origini poteva solo immaginare, arrivarono a sal-varla.

22

Per quasi due settimane Simralin guidò il fratello e Angela nel vasto de-

serto a est del Cintra, seguendo la dorsale delle montagne che avevano at-traversato dopo aver lasciato Arborlon. Le giornate erano roventi, le notti gelide, l'aria era secca e aveva odore e sapore di ferro.

Attraversarono lunghe distese di terreno sabbioso punteggiato di rovi e di alberi smilzi, i cui rami avevano conservato in qualche modo le foglie dai bordi sfilacciati, e campi rocciosi di lava che evocavano l'aspetto del mondo subito dopo la creazione.

Le miglia sparivano dietro di loro, ma la natura del territorio non cam-biava. Dopo qualche tempo, Kirisin cominciò a chiedersi se stavano dav-vero avvicinandosi alla meta o se si limitavano a girare in cerchio, ma ten-

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ne per sé le proprie preoccupazioni e lasciò fare alla sorella. In ogni caso, la poca energia che gli rimaneva gli serviva a fare la guar-

dia contro i demoni che li seguivano. Sapeva che erano anch'essi in quel deserto, che li seguivano senza fare rumore e senza farsi vedere, decisi a ucciderli tutti, pronti a coglierli alla sprovvista.

Kirisin cercava di non far trapelare lo sconforto, di essere come la sorel-la e Angela, che erano sempre calme e sicure di sé. Niente pareva in grado di turbarle. Naturalmente erano abituate a vivere in quel modo, a essere o il cacciatore o la preda. Avevano imparato da tempo a convivere con l'incer-tezza e la tensione. Lui cercava ancora di vincerle entrambe, e lo sforzo lo sfiniva. Non dormiva più, non mangiava più e a malapena riusciva a rac-cogliere i pensieri. La monotonia del viaggio accresceva i suoi timori. O-gni giorno era una nuova tappa in mezzo a una foresta di paure, un cammi-no che gli offuscava la mente, verso il disastro che, ne era certo, li attende-va. Niente di ciò che faceva riusciva ad allontanare quelle cupe certezze e l'effetto che avevano su di lui. Riusciva a malapena a ricordare come fosse la sua vita in precedenza. Il periodo che aveva trascorso come Prescelto, assegnato all'Ellcrys, pareva risalire a cent'anni prima.

Ma nella sua disperazione c'era un aspetto inatteso, e stranamente positi-vo, che non aveva previsto. Il viaggio era iniziato nel dolore e nel rimpian-to per i morti che si era lasciato alle spalle. Aveva creduto di non poter mai più ritrovare la serenità, tormentato da quanto aveva visto e dal suo falli-mento nel prevenirlo. Ma di giorno in giorno si accorgeva di un graduale affievolirsi della disperazione, l'immagine di Erisha morente si erodeva con il passare dei giorni, un'immagine che fino a poco prima pensava non avrebbe mai dimenticato. Analogamente, non cercava più di immaginare la fine di Ailie e di Culph. Non accadde all'improvviso e lui non ne fu subito consapevole. Non stava guarendo, no, ma il dolore e il lutto erano stati via via scacciati dalle paure e dai presentimenti neri. Non c'era più posto per i primi quando, di minuto in minuto, i secondi occupavano ogni suo istante di veglia.

La forza della sua convinzione che il re fosse responsabile di quelle tre morti continuava ad aumentare. Forse erano la sicurezza e l'ansia che si accompagnavano a questa certezza a impedirgli di crollare.

Ogni sera si raccoglievano in qualche rifugio che trovavano lungo il cammino, parlavano degli assassinii e delle ragioni per cui erano stati commessi. Non parevano esserci dubbi sulle ragioni, a parte il caso che aveva permesso a Kirisin di sopravvivere e fuggire con le Pietre Magiche.

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Dato che erano stati colti del tutto di sorpresa quando erano usciti dalle tombe sotterranee dell'Ashenell, pareva che il demone non dovesse avere difficoltà a uccidere ambedue i Prescelti. Angela pensava che a salvarlo fosse stata la velocità dell'intervento di Simralin. Accecare il demone a quattro zampe e lasciargli il coltello piantato nell'orbita l'aveva leso a tal punto da permettergli di colpire la sola Erisha. Simralin, invece, riteneva che il demone, semplicemente, si fosse trovato ad affrontare un numero di nemici superiore alle sue forze e che ciascuno di loro avesse contribuito per la sua parte a mandare a monte il suo piano.

Kirisin non sapeva cosa pensare, a parte la certezza che il demone na-scosto in mezzo agli Elfi era Arissen Belloruus. Si chiedeva come fare per smascherarlo, se fossero riusciti a trovare il Loden e a tornare ad Arborlon e dagli Elfi. Come allontanare la minaccia prima di chiudere la città e gli Elfi come aveva chiesto l'Ellcrys?

«Un passo alla volta, Piccolo K» gli aveva risposto la sorella quando, dopo più di una settimana nel deserto, era finalmente riuscito a dar voce al-le sue preoccupazioni. «Non possiamo affrontare i problemi tutti insieme, e forse non ne sapremo risolvere nemmeno uno finché non arriverà il mo-mento di affrontarli. Meglio non guardare troppo avanti, in una situazione del genere.»

Erano seduti su una sporgenza di roccia, in cima a un pendio che scen-deva dal deserto e guardavano, a nord, i contrafforti orientali della catena del Cintra e, più avanti, il filo argenteo di un largo fiume. Una volta attra-versato il fiume, avrebbero raggiunto il monte Syrring.

«Quando hai scoperto il segreto del nascondiglio delle Pietre, non le hai trovate subito» gli fece notare Angela. «Hai dovuto risolvere il mistero un passo alla volta.»

Kirisin fece una smorfia. «Pensavo solo che non avremo tempo per fare molto di più che usare il Loden, una volta che l'avremo trovato e saremo tornati ad Arborlon. Forse saremo costretti a chiudere il demone con la no-stra gente, solo perché non siamo in grado di individuarlo.»

«Un solo demone, migliaia di elfi» disse la sorella. «Una eventualità ac-cettabile, se dovesse mai accadere.»

«Raccontatemi qualcosa di quest'albero che dobbiamo salvare» chiese all'improvviso Angela. «Cos'è che lo rende così importante?»

Simralin e Kirisin si scambiarono un'occhiata. «Diglielo tu, Piccolo K» disse la sorella. «Sei tu che conosci meglio questa storia.»

Kirisin sollevò le ginocchia fino a portarle contro il petto e le circondò

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con le braccia. Non aveva voglia di raccontare nulla, non aveva voglia di parlare. «Questo è un racconto contenuto nelle nostre Storie, perciò non posso fare altro che ripetere» esordì, costringendosi ad aprire bocca.

«Ma credo che corrisponda in gran parte alla verità. Prima che al mondo esistessero gli umani, c'era la gente di Faerie. Gli esseri di Faerie sono stati i primi abitanti del mondo. Ce n'era di tutti tipi, buoni e malvagi, come ac-cade per gli umani. Gli Elfi erano una delle specie più forti e dominanti. Credevano che ogni vita avesse valore e che dovesse essere preservata.

«Altri però la pensavano diversamente. I malvagi. Così ci fu una guerra. Gli abitanti di Faerie combattevano come combattono gli uomini, a parte il fatto che molti di loro possedevano la magia e che alcune delle loro magie erano molto potenti. A un certo punto, coloro che praticavano la magia ne-ra finirono per trovarsi in vantaggio, avevano l'intenzione di dominare le altre specie e di cambiare il mondo in un modo che convenisse loro. Ed ci sarebbero riusciti, se avessero avuto tempo e spazio a sufficienza.

«Gli Elfi erano a capo di una coalizione di creature di Faerie che si op-ponevano a chi usava la magia nera e ai loro alleati. La guerra durò molto a lungo. Secoli. Alla fine gli Elfi e i loro alleati ebbero il sopravvento. Crearono un talismano, servendosi di un'unione di magia degli elementi e di magia del sangue, la magia più potente che esista, per costruire una pri-gione in cui chiudere i loro nemici.

«Il talismano era l'Ellcrys, e ne poteva esistere soltanto uno. Un albero che aveva migliaia di anni, capace di tenere chiusa la barriera che isolava le creature di Faerie che praticavano la magia nera e i loro alleati. La bar-riera fu chiamata "Divieto".»

«È l'Ellcrys a tenere al suo posto il Divieto?» lo interruppe Angela. «È questa la sua magia?»

Kirisin annuì. «Perché il Divieto resista, l'Ellcrys dev'essere conservato sano e forte. I Prescelti sono stati costituiti dopo la sua creazione per man-tenerlo in questo stato.»

«Quindi, se il Divieto crolla...» «I demoni escono» terminò Kirisin. «Ritornano nel nostro mondo. De-

moni di Faerie che nessuno vede da migliaia di anni. Mostri di tutti i tipi. Creature di magia nera. Peggio di quelli creati dagli uomini, forse.»

«Magari potrebbero eliminarsi tra loro» commentò Simralin, con un sor-riso sarcastico.

«Forse uccideranno noi, prima» rispose Angela. Scosse la testa. «Ma come sono nate queste creature? Cosa permette loro di vivere? Io credo nel

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Verbo, ho visto il suo potere, ho parlato con i suoi servitori. Il Verbo ha creato tutto. Ma continuo a chiedermi perché ha creato cose del genere. Perché permette ai demoni di esistere?»

Kirisin si strinse nelle spalle. «Nel mondo di Faerie, i demoni e gli altri del loro genere sono sempre esistiti. Non c'è un perché. Esistono e sono una minaccia. Gli umani non hanno mai fatto niente per eliminarli. Gli umani non cercano neppure di proteggere il mondo dove vivono, diversa-mente da noi Elfi. Non sanno come impedire ai demoni di impadronirsi di tutto. Colpa loro se adesso siamo a questo punto.»

Per un momento, la sua collera affiorò e prese il sopravvento nelle sue parole. Troppo tardi si ricordò a chi stava parlando.

«Piccolo K» gli disse la sorella. «Angela lo sa.» Kirisin s'interruppe di colpo e si sentì arrossire il collo e le guance.

«Scusa» disse. «Non volevo dirlo.» «Non è niente» rispose Angela, rivolgendogli un breve sorriso. «Volevi

proprio dire quello che hai detto, e hai ragione. Gli umani hanno ingannato se stessi e il proprio mondo e a causa del loro comportamento perderanno tutto. È per questo che siamo venuti qui. Perché adesso possiamo fare una cosa sola: raccogliere una quantità sufficiente di pezzi per cominciare a rimettere di nuovo tutto insieme.»

«Così sembrerebbe...» mormorò il ragazzo, ancora pieno di vergogna per ciò che aveva detto.

«Parlami del Loden, Kirisin.» Lui scosse la testa. «Non c'è molto da dire. Nessuno conosce esattamen-

te il suo potere. Non lo sapeva neppure il vecchio Culph. È una Pietra Ma-gica di grande potenza, portata alla luce e lavorata agli inizi del mondo di Faerie, come le altre. Agisce da sola, diversamente dalle altre pietre, che lavorano a gruppi di tre. È scomparso molto tempo fa e le Storie non ne fanno cenno.»

«Strano, vero?» osservò il Cavaliere del Verbo. «Che non se ne parli.» Lo stesso Kirisin se l'era già chiesto molte volte. Un talismano importan-

te e potente come il Loden avrebbe dovuto avere un posto speciale nelle Storie. Perché non se ne parlava?

«Non so perché non ne abbiano mai scritto niente» ammise dopo aver ri-flettuto qualche istante. «L'Ellcrys, quando mi ha parlato quella prima vol-ta, ha detto che dovevo usare le Pietre Magiche per cercare e che esse mi avrebbero permesso di trovarlo. Poi avrei dovuto portargli il Loden e tra-sferire l'Ellcrys al suo interno.»

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«Forse il Loden funziona come una specie di barriera, allo stesso modo dell'Ellcrys» suggerì Angela. «Ma cosa dovrai fare con quella pietra magi-ca, una volta scoperto come mettere l'Ellcrys al suo interno?»

«E degli Elfi che ne sarà?» terminò Simralin. Non avevano la risposta a nessuna di queste domande, potevano solo az-

zardare delle ipotesi. Ma serviva a passare il tempo e dava loro la possibili-tà di analizzare dall'inizio la natura della loro missione e la sua importanza per il popolo degli Elfi. Kirisin era già tutto preso da quel compito e come lui Simralin, anche se in modo minore. Ma per Angela era diverso. Il suo legame era molto tenue, a voler essere ottimisti. Stava ancora cercando di farsi una ragione della missione che le era stata affidata. Il ragazzo capiva la sua reticenza e la accettava. Gli Elfi non erano la sua gente e quella che combattevano non era la sua battaglia. Lei aveva già i suoi nemici. Come Cavaliere del Verbo, lottava per la razza umana, non per gli Elfi. Non ave-va mai saputo della loro esistenza finché non gliene aveva parlato Ailie. Si era adeguata agli ordini del Tatterdemalion, un incarico trasmessole diret-tamente dal Verbo. Era nella natura del suo servizio di Cavaliere che lei obbedisse. Ma questo non significava che il compito le piacesse. Fino a quel momento aveva fatto altro. Non poteva abbandonare la vecchia mis-sione senza guardarsi alle spalle, senza domandarsi se non avesse fatto la scelta sbagliata, senza chiedersi se non fosse caduta dalla padella nella brace.

Kirisin si sarebbe posto le stesse domande se fosse stato nei suoi panni. Avrebbe avuto molte esitazioni ad aiutare gli umani, responsabili di tante devastazioni e che avevano distrutto il mondo minacciando la sua stessa gente. Probabilmente, Kirisin avrebbe rifiutato. Andava a credito di Ange-la Perez che non l'avesse fatto. Il Cavaliere rischiava quanto lui nel credere che la sua missione fosse importante e necessaria.

Ma il cuore di Angela non era votato a quel compito come quello di Simralin e il suo, e il giovane si chiedeva se non c'era il rischio che la sua reticenza si dimostrasse pericolosa.

Se ne preoccupava, ma diversamente da molte altre sue preoccupazioni, teneva quella riflessione per sé.

Angela Perez era davvero in conflitto, a tal punto che stava perdendo la

sicurezza di trovarsi al posto giusto. Certo, intendeva fare del suo meglio per aiutare Kirisin e sua sorella nel loro tentativo di trovare il Loden. Tut-tavia non era convinta che quello fosse il suo dovere principale. Ailie le

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aveva detto che lo era, ma il Tatterdemalion, la sua coscienza in quella strana missione, non c'era più. Angela aveva solo se stessa per rassicurarsi, ma non trovava molte argomentazioni su cui far leva.

Era capace di mettere nero su bianco il suo malcontento, come su una carta geografica. Dal barrio di Los Angeles e dai suoi abitanti si era spo-stata in pochi giorni fino alla foresta del Cintra, magicamente preservata dalla distruzione, e ai suoi Elfi. Era partita senza preavviso, senza prepara-zione. Ogni cosa familiare le era stata tolta. Non si era mai allontanata dal quartiere della città dov'era nata. Non aveva mai creduto alla possibilità dell'esistenza degli Elfi. Da quando aveva perso Johnny e trovato O'olish Amaneh, aveva combattuto una battaglia per salvare dei bambini.

Che battaglia combatteva adesso? Una battaglia per trovare una pietra magica che avrebbe salvato un albero magico? Solo a pensare a quelle pa-role si traeva una conclusione ovvia. Lei non le capiva, non sapeva che ri-sultato avrebbe prodotto la sua missione. Lei si trovava lì perché la Signo-ra l'aveva inviata, ma, come temeva Kirisin, questo non significava che fosse emotivamente coinvolta in quello che faceva. La dedizione cieca non era nella sua natura e non l'accettava senza forti ragioni. Aiutare i bambini delle fortezze e delle strade di Los Angeles era qualcosa che capiva. Lei in passato era uno di quei bambini. Ma quelli al cui servizio si trovava adesso erano Elfi, un popolo di cui non sapeva praticamente nulla. "Un popolo" si affrettò ad aggiungere "che per la maggior parte non ama gli esseri umani e non ha fiducia in loro." Assomigliavano agli uomini e si comportavano come loro, ma avevano un modo di pensare che nasceva da secoli di vita e di esperienza precedenti all'esistenza degli umani.

Lei stava facendo quello che era stata incaricata di fare, ma era la cosa giusta?

Lo scontento la assaliva in modo opaco, ripetitivo, era sempre presente a ricordarle che aveva dato fiducia, in un modo cieco e forse sciocco, alle parole di un Tatterdemalion ormai morto.

E non riusciva a superare le contraddizioni. Continuarono a camminare per tutta la seconda settimana, scendendo

dalle cime settentrionali della catena del Cintra e giungendo in vista del fiume che separava l'Oregon e lo Stato di Washington. Gli umani lo chia-mavano Columbia, gli Elfi Redonnelin Deep.

Davanti a loro, dall'altra parte del fiume e nascosto dalla lontananza e dalla foschia, li attendeva il monte Syrring.

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Quando si fermarono per studiare il terreno da attraversare, ad Angela tornarono in mente i bambini che aveva lasciato alle cure di Helen Rice e degli altri, i bambini delle fortezze della California del Sud che lei aveva salvato. Helen doveva condurli a nord fino al Columbia, le aveva detto Angela, e là attendere un aiuto, ma che tipo di aiuto e da parte di chi rima-neva un mistero. Pensava di essere lei, ma Ailie aveva lasciato nel vago quel particolare. Angela era rosa dall'impotenza: erano arrivati al fiume? Erano riusciti almeno a fuggire dallo stato? O i demoni e gli ex uomini li avevano trovati? Quei bambini erano affidati alla sua responsabilità e si era impegnata con se stessa a salvarli, ma poi si era lasciata convincere ad ab-bandonare entrambi i compiti.

«Non manca molto, ormai» annunciò Simralin, passando ad Angela l'o-tre dell'acqua.

«È abbastanza lontano, comunque» mormorò il Cavaliere del Verbo, che in realtà pensava a qualcosa di completamente diverso.

La Cacciatrice degli Elfi si voltò a guardarla. «Abbiamo viaggiato velo-ci, Angela. Un mucchio di cose che potevano succedere non sono succes-se. Rischiavamo di essere raggiunti da quei due demoni, ma siamo riusciti a rimanere sempre un passo davanti a loro.»

«Non penserai che abbiano rinunciato, vero?» chiese Kirisin, speranzo-so. Aveva la faccia sciupata e il timore negli occhi. Angela era preoccupa-ta. Le condizioni fisiche del ragazzo continuavano a peggiorare, dal giorno della partenza, e non c'era modo di capire come stesse emotivamente. Pa-reva stremato.

Simralin scosse la testa. «No, non credo che abbiano rinunciato. Non mi aspetto che rinuncino mai a una preda. Noi possiamo solo fare del nostro meglio per render loro difficile l'inseguimento, e adesso che siamo al Re-donnelin Deep possiamo renderlo quasi impossibile.»

Angela la guardò e aggrottò la fronte. «Cosa intendi dire?» Simralin indicò davanti a loro l'ampia distesa del fiume. «Intendo dire

che se riusciamo ad attraversare il fiume prima che ci raggiungano, pos-siamo nasconderci in qualche punto dell'altra riva, farci sbarcare là. Po-trebbero impiegare giorni, settimane forse, per trovare il punto giusto. Se non potranno seguirci fino al punto dove sbarcheremo, non sapranno dove stiamo andando.»

Angela scosse la testa. «Ormai lo sanno già.» Simralin e il fratello la guardarono a bocca aperta. «Com'è possibile?»

chiese la Cacciatrice degli Elfi. «Noi stessi non lo sapevamo finché Kirisin

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non ha usato le Pietre Magiche.» «Una mia impressione» rispose Angela, passando a Simralin l'otre. «Da

quando questa missione è iniziata, i demoni sono sempre stati un passo da-vanti a noi. Uno di loro mi ha seguita per tutta la strada fin da Los Ange-les. Non doveva essere capace di farlo, ma c'è riuscito. E l'altro pare aver saputo quello che volevano fare Kirisin ed Erisha fin dal primo momento che l'hanno deciso. Ho l'impressione che conoscano le nostre mosse anche questa volta.»

Kirisin la guardò esasperato. «Be', allora cosa dobbiamo fare, secondo te?»

Inaspettatamente, lei sorrise. «Facciamo quello che siamo venuti a fare qui. Quando i demoni arriveranno, saranno un problema mio. Il vostro, tuo e di Simralin, sarà trovare il Loden e usarlo come dev'essere usato per sal-vare la vostra gente.»

Viaggiarono per il resto del giorno e parte del giorno seguente, una lun-ga, tormentosa camminata su un terreno aperto, caldo e secco, privo di vita vegetale e costellato di ossa sbiancate, sia umane sia animali. Era un cimi-tero di origine indefinita, un cupo ricordo della presenza dei morti e del-l'assenza dei vivi. Alla fine, quando erano a un miglio del Redonnelin, Simralin piegò bruscamente a nordest.

«Ci occorre un aiuto per passare dall'altra parte» li informò. «Ci serve una barca.»

«Non ci sono ponti?» chiese Angela. Era accaldata e stanca e ancora ad-dolorata per i bambini che si accusava di avere abbandonato. Non riusciva a fare a meno di cercare qualche segno della loro presenza lungo la riva, pur sapendo che non potevano esserci, che non avevano avuto il tempo di arrivare fin lì.

«Un fiume così largo...» continuò. «Ci dovrebbero essere almeno un pa-io di ponti per passarci a piedi.»

«Ce ne sono più di due, in realtà. Ma sono nelle mani di miliziani e di al-tri che sono ancora peggio. Non dobbiamo combattere quella battaglia se non è necessario.» Indicò davanti a sé. «Meglio una barca. E conosco qualcuno che ci può aiutare. Un vecchio amico.»

«Nessuno che ci veda in questo stato sarà disposto ad aiutarci» osservò Kirisin. Erano coperti di polvere e sudici da capo a piedi. Non si lavavano da un paio di settimane. Avevano attraversato il deserto e i campi di lava portando solo l'acqua da bere; impossibile usarla anche per lavarsi. Angela guardò i compagni e immaginò che il suo aspetto non fosse molto diverso.

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Ma Simralin si limitò a stringersi nelle spalle. «Non preoccuparti, Pìcco-lo K. A questo particolare amico non potrebbe importare di meno.»

Con il caldo del pomeriggio attraversarono la pianura avvicinandosi al fiume e con il calar della sera lo raggiunsero. C'erano alcune case vicino all'argine, vuote e diroccate, pontili in rovina a cui un tempo erano ormeg-giate barche, sentieri coperti di erbacce che serpeggiavano dall'uno all'al-tro. Non c'era segno di vita da nessuna parte.

Il fiume stesso era largo e tumultuoso, le acque aperte ribollivano di schiuma e le baie erano ingombre di rottami e di pezzi di legno scagliati fin lì dalle rapide. Alla luce della sera, le acque erano grigie, piene di argil-la sospesa, e dalla profondità giungeva un odore denso e nauseante che suggeriva segreti nascosti sotto la superficie, tentativi falliti di attraversa-mento.

«Ne sei certa?» chiese Kirisin, dubbioso. «Forse un ponte sarebbe più sicuro, dopotutto.»

Simralin si limitò a sorridere e a mettergli una mano sulla spalla, per poi riprendere il cammino. Anche Angela aveva dei dubbi, ma la cercatrice di piste li aveva condotti fin lì senza incidenti. Pensò per un attimo ai bambi-ni che Helen Rice e gli altri difensori portavano a nord e rimpianse di non essere con loro. Guardò lungo le rive e poi dietro di sé, per quello che sa-peva di non poter vedere. "Non posso farne a meno" pensò.

E mentre lo pensava, aveva il presentimento di non rivederli più.

23 L'oscurità si chiuse sui tre viaggiatori esausti quando entrarono in una

macchia di alberi scheletrici, spogli e privi di vita come le ossa della terra morente, sbiancati e levigati dall'azione del vento. Gli alberi sembravano distanti tra loro, all'inizio, ma dopo pochi passi i tronchi erano così fitti che divenne impossibile distinguere la strada. Simralin pareva sicura di sé, sceglieva il cammino senza esitare addentrandosi al loro interno. Dopo qualche tempo raggiunsero un canale che si era fatto strada entro un anello di rocce. Mucchi di grossi sassi spezzati dal tempo e dai sommovimenti tellurici giacevano su tutta la riva, e il loro profilo tagliente faceva pensare al dorso coperto di creste ossee di draghi addormentati. I viaggiatori si av-viarono lungo la riva, evitando le rocce quando era possibile, scavalcando-le quando non avevano alternative. Al buio era un percorso faticoso e irto di pericoli e Angela non poteva fare a meno di pensare che il tempo e le

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possibilità di successo continuavano inesorabilmente a diminuire. Alla fi-ne, dopo parecchie ore di cammino lungo il canale, in mezzo a una fitta macchia di alberi morti, scorsero davanti a loro, dietro una finestra aperta, una minuscola luce, debole e velata, che ardeva all'interno di una piccola abitazione.

«Siamo arrivati» li informò Simralin con un rapido sorriso. Scavalcaro-no ancora una catasta di tronchi caduti, oltrepassarono un rigagnolo che sfociava nel canale e finalmente giunsero alla casa con la luce solitaria. Il rifugio era talmente coperto dalle ombre delle rocce e degli alberi che il buio era pressoché impenetrabile. Angela, che aveva la vista molto acuta, riusciva a malapena a distinguere i particolari della casa e dell'ambiente circostante.

«Larkin?» chiamò Simralin, nel buio. «Sei a casa?» «Proprio dietro di te, Simralin Belloruus» fu la risposta. La voce era così

vicina che Angela trasalì. Si girò di scatto e vide una figura solitaria a po-chi passi da lei. La natura della persona che aveva parlato non era imme-diatamente distinguibile. Maschio e adulto, ma tutto il resto era un mistero. La faccia e il corpo erano nascosti da un lungo mantello e da un cappuccio strettamente avvolto. Una mano chiaramente umana uscì da una manica e fece un gesto.

«Ti ho sentita arrivare da mezzo miglio di distanza.» La mano si ritirò. «Fai un sacco di rumore, per un cercatore di piste.»

«Celare il mio arrivo non era la mia intenzione» dichiarò Simralin. «Se non avessi voluto fartelo sapere, non te ne saresti accorto.»

«Non me ne sarei accorto?» Una risatina giunse fino a loro nel buio. «Bene, adesso che sei arrivata, tu e i tuoi compagni non vorreste venire dentro e mangiare qualcosa?» Una pausa. «Avete fatto molta strada per ar-rivare, vero? Nel deserto, probabilmente. Non sono le tue rotte abituali, Sim.» Un'altra pausa. «Ehm, un bagno potrebbe essere una buona idea, prima di mangiare. Poi subito a letto. Tutt'e tre mi sembrate un po' esau-sti.»

L'uomo che aveva parlato girò adagio attorno a loro, e si avviò verso la casa.

«Oh, per poco non me ne dimenticavo!» Con la mano, indicò Angela. «Un umano! Adesso facciamo amicizia con il nemico, Sim? O rappresenta qualcosa di speciale?»

«Lei è Angela Perez» rispose Simralin, strizzando l'occhio ad Angela. «Ed è davvero qualcosa di speciale. È un Cavaliere del Verbo.»

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«Ah, un portatore del bastone nero. Lieto di fare la tua conoscenza.» Te-se la mano e Angela la strinse. Era sottile e robusta. «E il ragazzo? È tuo fratello?»

«Proprio lui. Kirisin.» La mano si tese di nuovo e Kirisin scambiò con l'uomo una rapida stret-

ta. «Larkin Quill» si presentò. «Adesso che tutti sappiamo chi siamo, veni-te dentro.»

Li accompagnò fino alla porta della casa, nel buio della notte. La luce che avevano visto da lontano era un'unica lampada senza fumo, posata sul tavolo, e non c'erano altre luci visibili. La piccola casa era immersa nel bu-io. Angela dovette guardarsi attentamente attorno per non sbattere contro i mobili. Kirisin fu meno fortunato e urtò subito una seggiola.

«Fa' un po' di luce, Sim» ordinò il padrone di casa. «Non tutti sono in grado di vedere bene al buio come me.»

Simralin si mosse senza difficoltà nella casa, come se la conoscesse be-ne, e le bastò un tocco della mano per accendere le lampade. Angela non vide alcuna fonte di energia e non sentì odore di fumo. Non aveva mai vi-sto niente del genere, ed era anche sorpresa del profondo, ricco odore di terra all'interno della casa, come se facesse parte della foresta al pari degli alberi. Aveva colto lo stesso odore anche addosso a Larkin.

Ma erano sorprese da nulla rispetto a quella che li aspettava. Mentre la luce vinceva il buio, Larkin si tolse mantello e cappuccio e si voltò verso di loro. Era un elfo alto e magro, di età indefinibile, con i lineamenti forti e affilati e capelli neri spettinati. Sotto gli abiti larghi e lisi, sembrava robu-sto e in forma; e il suo sorriso era caldo e cordiale. Ma nel vedere i suoi occhi, immobili e color del latte, Angela rimase senza fiato.

Larkin Quill era cieco. «Riesco sempre a capire quando una persona se ne accorge per la prima

volta» le disse. «C'è una sorta di sospensione del respiro che è inconfondi-bile. Non è successo anche con te, Sim?»

«Proprio così» confermò lei. Angela era stupefatta. Come riusciva a trovare la strada in mezzo a una

foresta così intricata, pur essendo cieco? Com'era riuscito a capire la loro identità e addirittura il loro sesso senza vederli? Come aveva saputo che avevano addosso la polvere del viaggio o che venivano da lontano?

Simralin la guardò e le rivolse un cenno. «Difficile crederlo, vero? Si di-verte molto a sorprendere la gente con la sua abilità. È diventato cieco cin-que anni fa, ma gli altri sensi hanno compensato la perdita in un modo

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straordinario. A breve distanza vede meglio di noi. E anche a distanze più lunghe, penso io. Vede cose che le persone dotate di una vista normale non riescono a scorgere. È così che riesce a vivere qui tutto solo.»

«Ero un cercatore di piste come Sim» spiegò Larkin. «Quando ho perso la vista ho perso anche il lavoro. Nessuno credeva che sarei ancora riuscito fare l'esploratore. La cosa non mi è piaciuta per niente, perché sapevo di poter vedere benissimo. Meglio di loro, di quelli che mi giudicavano inuti-le. Mi sono trasferito qui, lontano da tutti, tolti i pochi che, come Sim, si prendevano la briga di venire a trovarmi. È il mio modo di dimostrare che non sono un invalido, credo. Una cosa un po' infantile, probabilmente. Ma a me piace.»

Entrò nella piccola cucina e senza esitazioni o errori portò dei bicchieri e vi versò il contenuto di un otre fino a riempirli.

«I cacciatori come me, quelli che vanno in missione più lontano da Ar-borlon, sanno di Larkin» continuò Simralin. «Facciamo affidamento su di lui. Ha una barca per traghettarci dall'altra parte del Redonnelin in modo da non dover usare i ponti. Ci porta dall'altra parte e poi torna a riprenderci quando abbiamo finito. Legge le correnti del fiume come legge la faccia degli Elfi che lo credono cieco.» Gli sorrise. «Non è vero, Larkin?»

«Se lo dici tu. Chi può saperlo meglio di te?» Bevve una lunga sorsata. «Non vi ha ancora detto che è stata lei a salvarmi quando ho perso la vista. Eravamo di pattuglia insieme a sud del Cintra e siamo finiti in un campo di mantidi.»

«Insetti» spiegò Simralin. «Migliaia di insetti.» «Migliaia, divoravano tutto quello che trovavano sulla loro strada. Ma

alcune di quelle mantidi erano mutate. Sputavano un veleno che mi ha ac-cecato prima che mi accorgessi del pericolo. L'istinto non mi ha aiutato, quel giorno. Simralin è stata fortunata. Non è stata colpita ed è poi riuscita a metterci in salvo tutt'e due. In seguito gli Elfi sono andati là e hanno di-strutto il campo. Ma per me era troppo tardi.»

«È stato il mio maestro prima e dopo l'incidente» disse Simralin, conti-nuando la sua storia. «Mi ha insegnato il lavoro del cercatore di piste, mi ha insegnato tutto quello che so. E ancora mi insegna. Tuttora sa molte co-se più di me.»

«Questo perché sono più vecchio e ho avuto più tempo per imparare. Ma adesso perché non andate a lavarvi, tu e Angela Perez? Poi laveremo il più giovane della famiglia. Intanto Kirisin può tenermi compagnia e raccon-tarmi tutto quello che non so di sua sorella. Vieni, non fare il timido,

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scommetto che sei al corrente di un mucchio di cose che lei non vuole dirmi.»

Dietro la casa, ai piedi di una rupe, c'era una doccia rudimentale che uti-lizzava l'acqua di una piccola cascata. Angela e Simralin si tolsero i vestiti e cominciarono a lavarsi. Sulla pelle accaldata di Angela l'acqua era fredda come ghiaccio.

«Non riesco a capire. Una persona priva della vista che vive qui da sola» commentò, mentre si ripuliva della polvere. «Anzi, non riesco a credere che sappia tutte quelle cose su ciò che succede attorno a lui.»

Simralin afferrò il pezzo di sapone che le lanciò il Cavaliere del Verbo. «Vede in modi diversi dal nostro. Non vuole parlarne, ma lo si capisce da come si accorge di particolari che nessun cieco potrebbe mai notare. Nep-pure con un'intensificazione degli altri sensi. È qualcosa di diverso.»

«Ma gli Elfi non lo sanno?» Simralin si strinse nelle spalle. «Gli Elfi non sono molto diversi dagli

umani. Si convincono e giudicano senza informarsi come dovrebbero. "I ciechi non vedono. I ciechi non possono fare quello che fanno gli altri es-seri umani." Le avrai già sentite, queste frasi. Nessuno prende in conside-razione la possibilità che il suo caso sia diverso. Ma di una cosa sono sicu-ri. Non si fidano di lui come cercatore di piste.»

Terminato di lavarsi, lasciarono il posto a Kirisin. Quando tutti si furono ripuliti ed ebbero indossato il solo cambio di vestiti che si erano portati quando erano fuggiti da Arborlon, sedettero a tavola. La cena era calda e saporita. Ad Angela non venne neppure in mente di chiedere cosa stava mangiando. Si limitò a gustarla e ad accompagnare il cibo con la birra, e mangiando sentì una parte della stanchezza dissolversi.

Dopo sedettero nel minuscolo portico di Larkin mentre Simralin gli rac-contava la ragione che li aveva portati a nord del Cintra e i pericoli che lo attendevano se avesse accettato di aiutarli.

«Ci serve un passaggio» terminò. «Dobbiamo arrivare sull'altra sponda senza essere visti e senza far sapere a nessuno che ci hai aiutati.»

Il cieco non disse nulla, non si mosse. «In realtà, faresti bene a non aiutarci» aggiunse, mentre si fissavano nel

silenzio che fece seguito a quelle parole. «Un uomo intelligente ci direbbe di portare da qualche altra parte i nostri problemi.»

Larkin annuì e sulla sua faccia di elfo comparve un'espressione divertita. «Un ottimo consiglio, ne sono certo.»

«Senza dubbio, Arissen Belloruus ha mandato i Cacciatori degli Elfi a

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cercarci. E anche quei demoni ci inseguiranno.» «Lo penso anch'io. Potrebbero addirittura arrivare tutti insieme.» Simralin lo fissò. «Non mi pare che tu prenda la cosa molto sul serio.

Sembra che tu la giudichi divertente. Ma ad Arborlon ci sono tre persone assassinate che potrebbero dirti qualcosa di diverso, se fossero ancora in grado di parlare.»

Larkin alzò la mano come per scacciare quelle parole. «Vuoi o non vuoi il mio aiuto, Simralin? Sei venuta fin qui per convincermi a fare una cosa o per convincermi a non farla? Non puoi avere tutt'e due le cose insieme.»

«Voglio solo assicurarmi che tu capisca...» «Sì, che è una missione pericolosa.» Si sporse in avanti. I suoi occhi lat-

tiginosi erano fissi e non vedevano, ma tutta la sua attenzione era su di lei. «Cos'abbiamo mai fatto, noi cercatori di piste, che non fosse pericoloso? Viviamo in un mondo pieno di creature minacciose, infettato dalle malattie e dal veleno, e dove ogni momento s'incontra la follia. Credo di avere già il quadro della situazione.»

Lei lo fissò, serrando le labbra. «A volte mi fai venire voglia di urlare.» «Resisti alla tentazione. Allora. Dovremo attraversare il fiume alle prime

luci dell'alba, quando la marea è bassa e il mondo, o almeno una buona parte, riposa ancora. Intanto mi pare che il giovane Kirisin abbia avuto l'i-dea migliore.»

Tutti si voltarono a guardarlo. Il ragazzo si era addormentato sulla seg-giola.

Larkin si alzò senza aspettare la risposta alla sua proposta e indicò un angolo della stanza. «Potete accomodarvi là tutt'e tre. Un po' affollato, ma se siete stanchi come date a vedere, non dovrebbe avere importanza. Io fa-rò la guardia mentre voi dormite.»

S'interruppe e, nel silenzio che fece seguito alle sue parole, piegò leg-germente la testa da un lato e fissò nello spazio tra loro lo sguardo degli occhi ciechi. «Sono stato abbastanza chiaro per voi?»

Angela dormì male quella notte, continuò a sognare Johnny. Nel sogno

era ancora vivo, camminava lungo le strade del barrio, prendendosi cura delle persone che vi abitavano a seguito del crollo della civiltà. Era ancora bambina e lui era il suo difensore. Lei sedeva sulla soglia della loro casa e aspettava il suo arrivo, scrutando la faccia di coloro che passavano, cer-cando la sua in mezzo alle altre, timorosa di non vederlo apparire. E poi un giorno, nel suo sogno come nella vita, l'aveva atteso invano.

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L'alba era gelida e umida in modo inaspettato quando si accinsero ad at-traversare il Redonnelin Deep. L'aria era carica di umidità del fiume e il cielo grigio di nuvole di tempesta. Il tempo stava per cambiare, una cosa che ormai si vedeva raramente. Poteva persino giungere una forte pioggia, anche se Angela ne dubitava. Nessuno aveva più visto una goccia di piog-gia a Los Angeles da almeno un anno. Che lassù potesse essere tanto di-verso?

«Sulle montagne più alte potrebbe addirittura piovere» disse Larkin Quill, sorridendo allegramente al vento e alla luce mentre lasciava il rifu-gio del canale e dirigeva la barca verso l'acqua aperta. La sua faccia era sollevata verso il vento, come se scegliesse la rotta grazie a quel contatto.

«Una volta su quelle vette c'era neve tutto l'anno. Me l'hanno raccontato. Immaginate. Neve perenne, brillanti strati bianchi. Non è uno spettacolo che merita di essere visto? Il Syrring coperto di bianco?»

La barca che li portava verso il Nord era uno scafo pesante e tozzo, con la prua rinforzata di metallo e la fiancata coperta di vecchi pneumatici a cui erano legati dei paraurti metallici. Aveva anche una garitta per il pilota, il ponte anteriore aperto, una cambusa e due cuccette sottocoperta, a cui si accedeva da un boccaporto sul ponte. Si udiva il ronzio di due motori, che sembravano privi di alimentazione, un po' come le lampade della casa. Quando Angela chiese a Larkin come funzionassero, lui sorrise e alzò le spalle.

«Magia» rispose. Non la magia che lei conosceva, si disse Angela. Fino a quel momento

aveva pensato che gli Elfi avessero dimenticato tutta la loro magia, ma a-desso era giunta a ricredersi. Accantonò quel problema per il momento, ma si ripromise di informarsi più avanti. Per adesso le bastava lasciare la terra dove si aggiravano i demoni; il re degli Elfi era al suo inseguimento e l'immagine di Johnny assillava ancora i suoi sonni.

"Adios, mi amigo" sussurrò al vento, pensando a lui ancora una volta. "Eri il migliore di tutti noi. Riposa in pace per sempre."

Gli schiaffi dell'acqua contro la chiglia divennero più frequenti e le onde più alte. La foschia delle ore precedenti si era abbassata trasformandosi in lunghi tentacoli di nebbia che intessevano bizzarri disegni. Angela si girò a guardare la riva e vide che stava già svanendo alle sue spalle.

"Ve con Dios. Tu madre sueña contigo. Tua madre sogna di te." Poi, quando sollevò lo sguardo in direzione dell'alta rupe sotto cui si tro-

vava la piccola casa di Larkin Quill, scorse qualcosa che si muoveva. Tre

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figure, indistinte e confuse nell'ombra, apparvero per qualche istante in mezzo alle volute di nebbia. Erano sull'orlo della rupe e guardavano verso di lei.

Un ragazzo, una ragazza e un grosso cane. Furono visibili per alcuni secondi, poi scomparvero di nuovo nella neb-

bia. Mentre la barca si allontanava lungo il canale, Angela cercò varie vol-te di scorgerli, ma non ci riuscì.

Quando alla fine si girò, posando lo sguardo sulla riva che era la loro de-stinazione, non era neppure certa di averli visti.

Sull'altra sponda, due figure si nascondevano dietro una fila di fitti ce-

spugli e osservavano la barca che veniva verso di loro. La barca non pote-va attraccare in nessun posto vicino a quello dove aspettavano, in cima a una rupe che si alzava direttamente dall'acqua agitata del fiume. La barca si sarebbe fermata in un punto più a monte, dove un canale poco profondo portava a una piccola distesa di sabbia. Dopo essere sbarcati, per salire in cima all'argine gli occupanti sarebbero stati costretti ad arrampicarsi su un pendio ripido, roccioso, e avrebbero impiegato quasi un'ora nella salita. Prima di allora i due osservatori si sarebbero già allontanati, per precederli verso la loro comune destinazione, un luogo noto anche a loro e non sol-tanto ai tre che controllavano.

"Li controlliamo. Questo termine è più esatto di 'li seguiamo'" pensò una delle due figure.

«Si stupirebbero molto, se sapessero che saremo lassù ad accoglierli» sussurrò il demone a due gambe rivolto a quello a quattro zampe. «Vedi come si guardano alle spalle, scrutano la riva per cercare qualche segno della nostra presenza? Come si preoccupano di essere sorpresi quando non se l'aspettano! Come si devono sentire impotenti! Non hanno idea che sia-mo passati davanti a loro più di una settimana fa. Vero?»

Si sporse verso l'altro demone, accarezzò la sua forma slanciata e coper-ta di scaglie e sentì che premeva contro la sua mano, desiderosa del contat-to.

«Non hanno idea di nulla» sussurrò ancora. Guardarono la barca che si avvicinava lentamente, schiaffeggiata dalle

onde, sballottata dalle correnti, impegnata nel difficile compito di mante-nere la rotta verso il canale. Ma presto quella vista divenne tediosa e il de-mone a quattro zampe cominciò ad agitarsi, irrequieto. L'altro demone capì subito. Era il momento di lasciare quel luogo, di proseguire il viaggio.

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Il demone a due gambe indietreggiò finché non vide scomparire il fiume, poi si alzò. «Noi sappiamo già dove andranno adesso, vero, bellissima?» mormorò alla sua compagna. «Oh, certo che lo sappiamo. Noi sappiamo sempre tutto.»

E presto anche gli Elfi e il Cavaliere del Verbo l'avrebbero scoperto.

24 Quando Falco si svegliò, era l'alba di un mattino grigio e nebbioso, il

cielo e la terra avevano lo stesso colore e l'aria puzzava di umido e di terra ammuffita. Era disteso in un boschetto di alberi radi, vicino all'orlo di una rupe che digradava verso una gola. Nella gola, chiusa tra alte pareti di roc-cia, si vedeva scorrere un fiume dalla corrente tumultuosa e schiumeggian-te. Si riusciva a scorgere l'altra sponda e, al di là dell'acqua, un'alta parete di roccia; ma più avanti il terreno era coperto da una foschia profonda, im-penetrabile.

Non aveva la minima idea di dove si fosse svegliato. Guardandosi attorno vide Tessa, distesa per terra a pochi metri da lui,

ancora profondamente addormentata, e dietro di lei una massa scura e pe-losa in mezzo all'erba rinsecchita. Cheney.

Per un momento il suo pensiero tornò ai giardini del Re del fiume Ar-gento. I suoi sensi erano ancora permeati dai loro colori e profumi, nei suoi ricordi le parole del vecchio erano ancora fresche e recenti e la visione del proprio destino chiara come l'acqua di un lago sereno. Poi quel momento finì e Falco si trovò a fissare le nuvole grigie, al di là delle forme addor-mentate dei suoi compagni e un futuro che poteva solo immaginare.

Tessa si svegliò. Spalancò gli occhi e si mise lentamente a sedere, gli occhi fissi su di lui. «Siamo vivi» mormorò.

Falco sedette accanto a lei e le prese le mani. «Stai bene? Ti sei fatta ma-le da qualche parte?»

Lei provò a tastarsi varie parti del corpo. «No. E tu?» Falco scosse la testa. «Come può essere, Falco? Ci hanno gettato giù dalle mura della fortezza

e siamo caduti e...» S'interruppe riavviandosi nervosamente i capelli spet-tinati. «E poi?» Lo fissò stupita. «Non ricordo nulla, dopo di allora.»

«E poi vissero felici e contenti» disse Falco, sorridendo. «Come nelle storie di Gufo.»

Lei inarcò un sopracciglio. «Sarebbe bello. Dimmi la verità. Cos'è suc-

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cesso?» Falco glielo raccontò, prendendosi il suo tempo e ricordando ulteriori

particolari mentre parlava, cercando di non tralasciare nulla. Per la mag-gior parte del tempo, Tessa si limitò ad ascoltare, ma una volta o due non riuscì a evitarlo e dovette interromperlo per fargli qualche domanda.

Negli occhi della ragazza si leggevano incredulità e dubbio, ma non gli disse mai che poteva essersi sbagliato o che s'era sognato tutto o che era vittima di un'illusione. Continuò a sedere davanti a lui, e i suoi occhi non lasciarono mai quelli di Falco.

Quando il giovane ebbe terminato e il silenzio scese di nuovo ad avvol-gerli, Tessa continuò a sedere ancora per alcuni istanti, senza muoversi. Poi si sporse in avanti, di scatto, e lo baciò sulle labbra, con la mano dietro il suo collo in modo che non potesse staccarsi, e continuò a baciarlo per molto, molto tempo.

«Ti amo» gli disse, quando finalmente si allontanò da lui. «Ti amo da morire.» Gli prese la faccia tra le mani. «Sapevo che in te c'era qualcosa di speciale. Sapevo che eri unico. L'ho saputo fin dal primo momento che ci siamo incontrati. Le storie che Gufo raccontava sono vere. Tu sei il ragaz-zo che salverà i suoi compagni. Sei colui che troverà un posto sicuro per tutti noi.»

Falco sospirò. «È solo quello che mi è stato detto. Non so quanto ci pos-so credere.»

«Ma tu non sei come noi, non è vero? Tu sei qualcosa di diverso. Voglio dire, non lo dimostri, ma lo sei. Sei una creatura di Faerie. L'hanno detto sia Logan Tom sia il vecchio. Perciò, forse è vero. Forse lo sei davvero.» Parve riflettere con attenzione sull'idea. «Cosa significa, Falco?» gli chiese alla fine. «In che modo sei differente? Puoi dirmi qualcosa?»

Lui la osservò per un momento. «Sapere che potrei essere diverso ti por-ta ad avere paura di me?»

Tessa si affrettò a scuotere la testa. «No, non volevo dire questo. Vorrei solo sapere. Vorrei capire. Sei fatto in modo diverso? Quando sei nato, e-ri...?»

Chiuse con forza gli occhi e Falco vide brillare sulle sue ciglia le lacri-me. «Scusa non so cosa pensavo. Mi dispiace di averlo chiesto. Non ha importanza. Sei sempre il ragazzo che amo e che amerò sempre. Non im-porta come sei venuto al mondo o cosa sai fare o altro.» Gli strinse le mani fra le sue. «Dimentica quello che ho detto. Ti prego, non ne parleremo più. Parliamo d'altro. Dimmi, cosa facciamo?»

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Cheney si svegliava in quel momento, la sua grossa testa si sollevava per guardarli. Gli occhi grigi erano calmi, lo sguardo fermo. Non guardava Falco come se pensasse che gli era successo qualcosa di strano. Aveva il solito aspetto di sempre: attento e pronto.

«Non so quale sia la nostra destinazione» disse Falco a Tessa. Si alzò in piedi e l'aiutò ad alzarsi. «Non so neppure dove siamo. So che c'è un fiume nel canyon sotto di noi, ma questo è tutto.»

«Devi avere qualche idea» insistette lei. La sua faccia scura si aprì in un sorriso. «Come puoi salvare delle persone se non sai neppure come trovar-le?»

Lui si strinse nelle spalle. «Sono ancora piuttosto inesperto in questo compito. Devo imparare e agire insieme. Hai qualche idea?»

Lei si guardò attorno. «Andiamo fin sul ciglio del burrone e guardiamo se riconosciamo il posto.»

Lasciarono il rifugio degli alberi, attraversarono il tratto di terreno libero e giunsero fino all'orlo, poi guardarono in basso. Una barca solitaria attra-versava il fiume, a fatica, in direzione dell'altra riva. C'erano quattro pas-seggeri. Il primo, con un mantello nero e un cappuccio, era al timone e guardava innanzi a sé, nella foschia. Due sedevano su una panca, sotto di lui. L'ultimo, una donna, parve a Falco, era a poppa e guardava nella sua direzione. Per un momento i loro occhi si incrociarono ed ebbe quasi l'im-pressione che si conoscessero.

Poi una voluta di nebbia si infiltrò tra loro e la barca scomparve. Falco guardò a lungo in quella direzione, senza parlare.

«Dobbiamo passare questo fiume» disse infine. «Sai dove siamo adesso?» gli chiese Tessa. «No, ma non importa. So solo che dobbiamo attraversare il fiume.» «Come lo sai?» Falco scosse la testa. «Non saprei spiegarlo. Lo so e basta.» Fissò Tessa.

«Me lo dice qualcosa dentro di me.» Cheney si avvicinò a loro, abbassando la grossa testa per annusare il ter-

reno. Cominciava a cadere una pioggia leggera e la nebbia che copriva la superficie del fiume si addensava. Con l'alba, la giornata avrebbe dovuto rischiararsi; invece, la luce pareva diminuire e il buio farsi più fitto.

«Vorrei poterti dire di più» mormorò Falco. Tessa lo guardò per un momento, poi lo prese per un braccio e lo co-

strinse a voltarsi verso di lei. «Mi hai detto abbastanza. Faremmo meglio a metterci in cammino.»

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Falco scelse la direzione. Andare a destra o a sinistra lungo il fiume non

faceva differenza, ma l'istinto gli diceva di andare a destra, a monte, in di-rezione del debole chiarore dell'alba. La pioggia continuava a cadere, però non a rovesci, e in realtà era poco più umida della nebbia. Le precipitazio-ni, forti o meno, erano inconsuete, soprattutto quando si protraevano abba-stanza a lungo. Tuttavia, mentre proseguivano, continuò a piovere per tutta la mattina e parte del pomeriggio. Il fiume seguiva un percorso pressoché rettilineo e mentre camminavano a fianco del burrone riuscirono sempre a vederlo. Dopo quella prima barca, non videro altri movimenti sull'acqua e nessun segno di vita sulla riva. Attorno a loro il terreno si stendeva a perdi-ta d'occhio senza caratteristiche particolari. Collinette e foreste, campi e prati punteggiati di monoliti rocciosi, e in lontananza grandi montagne spoglie.

All'inizio del pomeriggio, Falco cominciava a chiedersi se aveva fatto la scelta giusta. Lo irritava il fatto che il Re del fiume Argento li avesse ri-portati nel mondo senza dargli una chiara idea della sua destinazione. Era già difficile accettare di non essere del tutto umano, di essere almeno in parte una creatura di Faerie, intrisa di magia primordiale e della promessa di compiere un'impresa impossibile. Come poteva trovare e condurre al si-curo migliaia di persone, in particolare bambini, nei giardini da cui era par-tito? Gli era impossibile immaginarlo, qualunque cosa gli avesse detto il vecchio. Se non altro avrebbe dovuto dargli un'indicazione precisa di dove e come svolgere quel compito.

Invece si trovava in un luogo sconosciuto, non a Seattle e a Pioneer Square, la sola casa che avesse mai conosciuto. Era lontano dagli Spettri, la sua sola famiglia, e aveva saputo che i suoi ricordi dell'infanzia nell'O-regon non erano veri. I suoi soli sostegni erano il suo cane e la ragazza che amava.

Lanciò di sottecchi un'occhiata a Tessa, ai suoi lineamenti eleganti, la pelle scura e i capelli neri e ricci, al modo in cui si muoveva, all'armonia del suo incedere mentre camminava. La presenza di lei lo consolava come nient'altro al mondo ed era felice di averla con sé più di quanto potesse e-sprimere con qualunque discorso.

Tessa. Pensando a lei provò di nuovo il terrore di perderla. Con Tessa accanto, se fosse rimasta con lui anche quello che gli era stato chiesto non era impossibile. Si ricordò di quanto fosse spaventato per lei, durante il processo all'interno della fortezza, quando i giudici avevano pronunciato

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per entrambi la sentenza di morte. Ricordava quanto avesse sofferto quan-do la madre le aveva sputato addosso e si era rifiutata di prendere le sue di-fese.

La sua decisione si rafforzò. "Noi siano gli Spettri e infestiamo le rovine del mondo distrutto dai no-

stri genitori." Ripeté in silenzio la frase, assaporando la forza di quelle parole. Il mondo che era toccato loro in eredità era avvelenato, devastato dalle

epidemie, decimato. Adulti che avrebbero dovuto avere senno l'avevano ridotto a brandelli.

Quanto tempo sarebbe servito a un diciottenne per salvare il poco che rimaneva?

Più di quello che aveva a disposizione, pensò. Molto di più. Potevano di-re quello che volevano, su di lui e sulla sua natura, potevano dire qualun-que cosa. Ma dentro di sé, dove il coraggio e la decisione erano più forti, Falco sapeva di essere solo un ragazzo e che i suoi limiti erano mura di pietra da cui non poteva sfuggire. Ci si aspettava che salvasse migliaia di bambini. Ci si aspettava che li aiutasse a sopravvivere. Ci si aspettava che trovasse un rifugio che li avrebbe protetti da un fuoco capace di consumare ogni altra cosa.

Ci si aspettava che facesse miracoli. Era chiedere troppo. A chiunque. Si era già verso la metà del pomeriggio quando videro i primi tetti di al-

cuni edifici lontani, un gruppo di superfici grigie e piatte, rese opache dalla pioggia e dalla polvere che vi si era accumulata. Le costruzioni sorgevano in un breve tratto piano, in mezzo a due alte rupi affacciate sul fiume, in una zona dove il corso d'acqua era più stretto. A un miglio da lì il fiume si restringeva ulteriormente e si vedeva un ponte. Anche se la pioggia offu-scava il paesaggio visibile da quella distanza e Falco non era sicuro di ve-dere bene, pareva che la struttura d'acciaio fosse intatta.

Tessa lo prese per un braccio. «Guarda, Falco» gli disse. «Là.» Il ragazzo guardò il punto che gli veniva indicato, lontano dal fiume:

uno spazio aperto che si stendeva tra un ammasso di grossi fabbricati e la foresta che poi proseguiva fino ai monti, velata dalla nebbia. Il campo era pieno di tende, di veicoli e di persone, ce n'erano centinaia, forse migliaia. Molti erano indaffarati in attività che Falco non riuscì a distinguere bene, c'erano fuochi e cucine da campo, e file di persone che passavano accanto ai fuochi: arrivavano con il piatto vuoto e si allontanavano con il piatto

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pieno. Era un accampamento, ma non si capiva perché ci fosse un accam-pamento in un luogo simile.

Poi, all'improvviso, notò che gran parte delle persone che vedeva erano bambini. Osservò meglio il perimetro del campo e scorse anche le guardie, tutte bene armate, che sorvegliavano le strade d'accesso.

Dai loro comportamenti capì che avevano già visto lui e Tessa. Tuttavia rimase ancora per qualche momento nel posto in cui si trovava, perché non intendeva dare l'idea di volersi nascondere o di essere spaventato, non in-tendeva dare l'impressione sbagliata e continuò a studiare i movimenti di coloro che stavano nell'accampamento, in attesa di vedere cosa sarebbe successo. Quelli non erano mutanti o ex uomini o qualcosa di pericoloso, ma persone come lui, e se lui non li avesse minacciati, forse neppure loro avrebbero minacciato lui.

Quando Cheney emise un basso, lungo brontolio, comprese che presto avrebbe saputo se aveva ragione.

«Fermo» disse piano al grosso cane, e abbassò la mano per accarezzargli il pelo grigio della testa, dietro le orecchie.

Dagli alberi accanto a lui uscì un uomo che impugnava una Flechette. Non la sollevò in maniera minacciosa. Anzi, non pareva granché sospetto-so.

«Salve» disse. «Salve» risposero Falco e Tessa, insieme. «Cercate qualcuno? Posso aiutarvi?» Era un uomo alto e magro, con gli occhiali e un'aria tranquilla, che indi-

cava come fare da guardia al campo non fosse il suo lavoro abituale. Ma impugnava l'arma con perizia, e Falco sapeva che nessun uomo che fosse sopravissuto in quel mondo, fuori dalle fortezze, faceva quello che aveva sempre fatto in precedenza.

«Cerco il vostro comandante» disse. L'uomo lo osservò per qualche istante. «Cos'è successo?» chiese. «Vi

siete persi?» Falco scosse la testa. «No. Anzi, sono qui proprio per il motivo opposto.

Vengo a farvi da guida.» L'uomo gli lanciò un'occhiata divertita, poi si limitò a sorridere e ad al-

zare le spalle. «Allora sono ansioso di sapere come conti di fare. Quel cane si comporta bene con i bambini?»

Falco annuì. «Fa quello che gli dico io.» Una mezza bugia, nel caso migliore, e una speranza infondata in quello

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peggiore. L'uomo lo guardò con aria dubitativa e disse: «Meglio per lui. Altrimenti gli sparo».

Li guidò in mezzo agli alberi, in direzione dell'accampamento. Lungo il cammino incontrarono altri gruppi di guardie, uomini e donne di tutte le età. Un gruppo male assortito, se mai Falco ne aveva visto uno. Alcuni e-rano grossi e minacciosi, veterani incalliti con ovvie esperienze, ma la maggior parte degli altri era assai meno marziale. Pareva che chiunque fosse in grado di camminare e avesse superato i diciotto anni fosse stato messo di guardia. Gli altri, quelli affidati alla loro custodia, erano molto più giovani. Giocavano in gruppo, leggevano storie e facevano lavoretti per passare il tempo. I bambini più grandi sorvegliavano i più piccoli. Tutti stavano al loro posto. Tutto sembrava bene ordinato e organizzato.

La guardia li condusse in fondo all'accampamento, fino a una tenda. Un gruppetto di uomini e donne era riunito attorno a un tavolo da picnic co-perto di logore carte geografiche che recavano grossi segni di pennarello. Una donna piccola e minuta, con i capelli biondi corti e i movimenti rapi-di, energici, stava parlando.

«Pattuglie lungo tutt'e due le rive e occhio al ponte, Alien. Quella gente della milizia può avere intenzione di giocare duro, e noi dobbiamo essere pronti. Non dobbiamo incoraggiarli dando l'impressione di non essere pre-parati. D'accordo, adesso i boschi sono sorvegliati da sentinelle dalla linea degli alberi fino a...»

S'interruppe per studiare la guardia che si avvicinava con Falco, Tessa e Cheney. Guardò con sospetto il grosso cane, poi chiese: «Cosa succede, Daniel?».

L'uomo era confuso. «Ho trovato questi tre sulla collina. Il ragazzo dice che è qui per guidarci. Ho pensato che forse dovresti parlarci tu.»

La donna fissò Falco per un momento, come se dovesse prendere una decisione. Alzò la testa dalle cartine geografiche, si passò le mani nei ca-pelli spettinati poi le portò sui fianchi. Falco capì che lo stava esaminando. Osservava con durezza il ragazzo alto e magro, dai capelli neri, non parti-colarmente interessante, che era fermo davanti a lei, e cercava di decidere se valeva il suo tempo. Poi si rivolse a coloro che le erano riuniti attorno e disse: «Lasciateci parlare un momento, per favore».

I suoi compagni uscirono. Alcuni con riluttanza. Uno o due rimasero an-cora qualche istante nelle vicinanze, in modo da intervenire a difenderla in caso di necessità, ma la donna non sembrava preoccupata. Era il capo, comprese Falco, anche se non lo sembrava, gli uomini erano più grossi e

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più forti e probabilmente anche dei combattenti migliori, ma era al suo giudizio che si affidavano.

«Sono Helen Rice» disse loro, tendendo la mano. Entrambi gliela strinsero, dissero il loro nome e quello di Cheney. Ma

Falco non recitò la litania degli Spettri. Era già abbastanza difficile con-vincerla ad ascoltare quello che aveva da dirle.

«Qualcuno ti ha mandato a farci da guida?» gli chiese Helen Rice. Lui le rivolse un cenno affermativo. «Credo di sì.» «Credi?» Lo fissò. «Te l'ha detto Angela Perez?» Falco la guardò negli occhi e vide qualcosa che gli suggerì la risposta.

«Non mi ha detto chi era. Ha detto che dovevo venire da voi per portare i bambini in un luogo sicuro.»

«Dov'è Angela? Cosa le è successo?» Lui scosse la testa. «Mi puoi dire dove siamo?» «Falco!» sussurrò Tessa, stupefatta. Adesso Helen Rice lo guardava come se fosse giunto da un altro pianeta.

«Fammi capire. Sei stato mandato a guidarci, ma non sai dove sei?» «So dove dobbiamo andare, ma non dove siamo.» Lei fece per dire qualcosa, poi cambiò idea. «D'accordo. Siamo sull'ar-

gine meridionale del fiume Columbia, cento miglia a est della città di Por-tland, Oregon.»

Falco guardò Tessa, che confermò: «A sud di Seattle, sì». «Ascoltate» intervenne Helen Rice. «Cos'è tutta questa faccenda? Vi de-

vo avvertire che non sono dell'umore giusto per giocare. Ho appena portato qui duemila bambini e i loro custodi dalla California meridionale. Il passo che abbiamo dovuto tenere è stato spaventoso, e non tutti ce l'hanno fatta. I sopravvissuti sono esausti e non hanno molta pazienza. Per favore, cerca di arrivare al punto.»

«Dobbiamo attraversare il fiume.» Diede un'occhiata alle carte e poi in-dicò la direzione delle case che aveva visto. «Ho visto un ponte, venendo qui» continuò. «Possiamo usare quello.»

Helen Rice scosse subito la testa. «La milizia locale l'ha fortificato e im-pedisce a tutti di attraversare senza pagare un pedaggio.»

«Che genere di pedaggio?» volle sapere Tessa. «Non è questo il punto. Ci è stato detto di aspettare qui e di non passare

sull'altra sponda.» Tornò a rivolgersi a Falco. «Noi siamo superiori nume-ricamente, ma loro sono meglio armati e hanno meno da perdere. Non pos-so rischiare la vita di questi bambini cercando di aprirci la strada verso l'al-

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tra riva. Almeno, non posso farlo senza una ragione migliore di quella che mi hai detto fino a questo momento. E poi...»

Respirò a fondo. «Non sono certa di dover fare quello che dici. Tu non sai chi ti ha mandato. Non sai chi siamo noi. Non sai dove sei. Non mi sembra che tu sappia molto. Le tue intenzioni sono ottime, suppongo. Ma, sai, "la strada dell'inferno è pavimentata" eccetera. Il tutto è molto sospet-to. Ho grosse difficoltà a credere che tu sia la persona che aspettiamo.»

Falco la capiva perfettamente. Anche lui, al posto suo, avrebbe detto lo stesso. Era solo un ragazzo, niente di speciale. Come poteva Helen Rice credere, anche per un solo minuto, che lui era in grado di aiutarla? Perché doveva mettere nelle sue mani centinaia di bambini senza saperne di più? Lui capiva tutto questo, ma nello stesso tempo doveva trovare il modo di farle fare esattamente quello che lei, per istinto e per abitudine, non avreb-be mai fatto.

«Devi credergli» disse all'improvviso Tessa, cercando di aiutarlo. «Falco è più di quello che sembra, è qualcosa di speciale, è diverso da

noi. Gliel'ha detto un Cavaliere del Verbo.» «Angela Perez è un Cavaliere del Verbo» disse Helen Rice. Falco scosse la testa. Non voleva mentirle. «No, non è stata lei. È stato

un altro, un uomo che si chiama Logan Tom.» Tornò a guardare in direzione del fiume. La preoccupazione per la sal-

vezza di quel gruppo premeva forte, dentro di lui, e lo spingeva a fare qualcosa. Più aspettavano, più pericolosa diventava la loro situazione. Fal-co non sarebbe riuscito a spiegare la sua certezza. Sapeva solo che quel-l'urgenza era così forte da non poterla ignorare. Non poteva neppure spie-gare perché fosse spinto a guidare quelle persone, soprattutto i bambini, se non perché, nel momento stesso in cui aveva saputo chi erano, si era affac-ciato nella sua mente il ricordo delle parole che gli aveva detto nei suoi giardini il Re del fiume Argento. Adesso che era davanti a Helen Rice e in mezzo a tutti quei bambini trovò un nuovo collegamento con la sua parte Variante, la parte di lui che veniva da Faerie e che era nata da Nest Free-mark, la parte che univa la magia di tutt'e due.

La magia affiorò in quel momento nelle ossa della mano di sua madre, che aveva in tasca. Soffiavano e scoppiettavano contro la sua pelle come minuscole scariche elettriche che chiedevano di essere liberate.

«C'è un esercito in arrivo» disse, e in quel momento comprese che era vero. «Dal Sud.»

«Il vecchio» disse subito Helen Rice. Serrò le labbra. «Tu come lo sai?»

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«L'esercito è troppo superiore alle vostre forze» rispose Falco, evitando una risposta diretta. «Non potrete resistere contro di loro su questa sponda del fiume. Se attraversate, però, forse potreste riuscire a tenere il ponte.»

«O a farlo saltare.» Guardò Falco con aria feroce. «Ma tentare di attra-versarlo con i bambini è ancora troppo pericoloso. Mi occorre qualcosa di più dei tuoi consigli, Falco.»

«Se vi portassi dall'altra parte senza lottare e senza far correre rischi ai bambini» chiese Falco «voi andreste?»

Lei esitò, soppesando l'offerta. Da una parte i suoi dubbi, dall'altra la voglia di credere a quel ragazzo, da una parte la paura di essere ingannata, dall'altra il desiderio che lui fosse la persona che aspettavano.

«Ti prego» intervenne Tessa. «Lascialo provare.» Helen Rice diede rapidamente un'occhiata alla ragazza. «D'accordo» dis-

se alla fine. Tornò a guardare Falco. «Ma hai una sola possibilità.»

25 «Hai una sola possibilità» gli ripeté Helen Rice, per poi aggiungere subi-

to: «E non farò muovere i bambini finché non avremo il totale controllo del ponte e non sarò convinta che si possa trasferirli senza pericolo».

Le parole della donna non furono una sorpresa per Falco, era quello che avrebbe detto anche lui se uno sconosciuto gli avesse proposto di condurre gli Spettri al di là di un ponte difeso da militari armati. Non aveva pensato neppure per un minuto che le cose potessero andare diversamente.

Le sue preoccupazioni immediate, del resto, erano assai maggiori. Non sapeva come prendere il controllo del ponte. Non sapeva come allontanare gli uomini che lo presidiavano. Sapeva solo di dover compiere il tentativo.

«Metterò a disposizione un numero di uomini sufficiente a tenere il pon-te nel caso di un contrattacco, se tu troverai il modo di impadronirtene» continuò la donna. «Abbastanza per difenderlo mentre gli altri tolgono l'accampamento e portano dall'altra parte i bambini.»

Lui annuì, senza parlare. La sua dedizione a quella missione era forte, ma le sue paure lo erano altrettanto. Falco comprendeva benissimo la real-tà della sua situazione. Agiva in base alla fede e all'istinto. Difficile dire a quale si affidava di più. Se l'una o l'altro l'avessero tradito, sarebbe certa-mente morto.

Non lasciò trapelare nulla di tutto questo mentre sorrideva con aria rassi-curante a Tessa e leggeva nei suoi occhi la sua stessa paura, ma moltiplica-

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ta per dieci. Si sentiva piccolo e inadeguato al compito che lo attendeva. Si sentiva quasi uno sciocco.

Ma una voce dentro di lui continuava a incitarlo, gli diceva di avere fe-de, di convincersi che era una cosa possibile per lui. La voce era la sua, ma anche quella del vecchio dei giardini, e di sua madre. Era un'unica voce che cambiava di tono e passava dall'acuto alla chiave di basso, ma sempre con la stesa intensità.

"Puoi farlo" gli assicurava. Helen Rice chiamò gli uomini con cui stava parlando quando la sentinel-

la le aveva portato Falco e spiegò loro cosa intendeva fare. Qualcuno bron-tolò, qualcun altro fece delle obiezioni, ma lei li mise a tacere con la sua autorità. A uno degli uomini - un tizio grande e grosso con un ciuffo di ca-pelli rossi, che si chiamava Riff - ordinò di prendere con sé due dozzine dei combattenti migliori, perché dovevano impadronirsi del ponte. Lui an-nuì, senza discutere, e andò a radunarli.

Quindici minuti più tardi erano in cammino lungo la sponda del fiume in direzione del ponte. La giornata era ancora più buia, le nubi ancora più fit-te e l'aria sempre più carica di umidità a mano a mano che la promessa di una tempesta cresceva. Si era levato il vento e soffiava polvere e sterpi in tutte le direzioni, costringendo la compagnia a camminare a capo chino e a tenere gli occhi quasi chiusi. Falco camminava accanto a Tessa e Cheney in testa al manipolo, dove si trovava anche Helen Rice. I suoi pensieri an-davano ad altri tempi e altri luoghi, quando percorreva le strade di Pioneer Square insieme agli Spettri, non molto tempo prima, armato di pungoli e-lettrici e di aghi avvelenati, un gruppo di sopravvissuti nelle rovine dei lo-ro predecessori, bambini di strada che cercavano di rimanere vivi. Con quale rapidità era cambiata ogni cosa. Tutti coloro che conosceva allora, tranne Tessa e Cheney, erano morti o si erano perduti. Non poteva neppure essere certo di rivedere gli altri Spettri, anche se in cuor suo era convinto che sarebbe successo. Sapeva però che al loro incontro si sarebbero guar-dati con occhi diversi... lui e loro. L'avrebbero visto come una nuova crea-tura, un'unione di ragazzo e di Variante, di carne e sangue e di magia, e non sarebbe stato più come prima.

Non sarebbe mai più stato come prima. «Cosa intendi fare?» gli sussurrò Tessa. Lui scosse la testa. Come poteva rispondere, quando lui stesso non co-

nosceva la risposta? Eppure, la sapeva quasi. Sentiva muoversi contro la pelle le ossa di sua madre chiuse nel taschino, un chiaro segnale che stava

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per accadere qualcosa. Sentiva la trasformazione mentre stava ancora av-venendo, un passaggio da ciò che gli era familiare a qualcosa di comple-tamente nuovo e diverso, privo di qualsiasi riferimento riconoscibile. Era il risveglio di una forza rimasta dormiente dentro di lui. Per quanto tempo, Falco non aveva modo di saperlo. Forse solo dalla sua visita ai giardini del Re del fiume Argento. Forse per tutta la sua vita. C'era, ed era reale, e cre-sceva da un istante all'altro.

Cercò di identificare cos'era. A tutta prima non ci riuscì. Poi, tutt'a un tratto, capì. Era il modo in cui i suoi sensi reagivano a ciò che lo circonda-va. Riusciva a sentire l'odore della terra, scura, verde e misteriosa. Uno zampillo di organismi viventi che formavano un'unica catena, lunga fin dove la sua mente riusciva a immaginare. L'odore apparteneva a ciascuna di quelle vite e Falco era in grado di distinguerle a una a una in un modo che non aveva mai sperimentato in precedenza. Poteva attribuire un nome a ciascuna di quelle vite, riusciva a vederle e a comprenderle.

Ma era solo l'inizio. Sentiva il sapore del vento, poteva gustarlo come se fosse cibo posto accanto alla sua bocca. Riusciva a sentire il sapore degli elementi della tempesta mentre si gonfiavano e si innalzavano in mezzo al-le nubi sopra di loro. Un sapore acre e metallico. Tuoni e fulmini, lontani fino al punto di essere a malapena riconoscibili, erano aspri e pungenti sul palato. L'elettricità balzava fuori dalla sua pelle sotto forma di scintille in-visibili, piccole scosse che correvano verso il punto dove teneva le ossa di sua madre, come se tutto quello sfavillio avesse un'origine comune. Senti-va anche altre cose. Cose che nessuna creatura di carne e sangue avrebbe dovuto essere in grado di sentire. Il gemito dei rami colpiti dal vento, che lottavano per non spezzarsi. Il sussurro dell'erba che si lamentava a sua volta. Lo scricchiolio della corteccia. Nessuna di quelle vite era sufficien-temente vicina perché la potesse scorgere, la distanza avrebbe dovuto esse-re d'impedimento, ma lui riusciva a udirle ugualmente.

Cosa ancora più sorprendente, riusciva a sentire il gemito della terra stessa, proveniente dalle profondità, anche se non influenzava nulla di quanto stava accadendo in superficie. Le zolle continentali si spostavano e il nucleo fuso ribolliva e schizzava, e il calore si alzava a mescolarsi con il gelo, producendo espansione e contrazione, formandosi e riformandosi, la nascita della nuova vita e la morte della vecchia. Falco poteva quasi tende-re la mano, toccare quello che riusciva ad annusare e ascoltare, e assapora-re e sentire, come se le sue braccia raggiungessero le linee di forza che cir-condavano la terra e si unissero a loro.

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Sapeva tutto questo senza che gliene avessero mai insegnato la possibili-tà. Lo sapeva dalla sua stessa trasformazione, dal modo in cui riconosceva la propria differenza, da come era stato cambiato dalla visita ai giardini del vecchio.

Abbassò la mano per toccare Cheney sulle grosse spalle, il cane sollevò la testa, gli occhi grigi si posarono su di lui e per un istante Falco ebbe l'impressione che il cane capisse quello che stava succedendo.

Guardò avanti, in direzione del ponte, una grossa e sgraziata campata di travi metalliche che avevano perso da tempo la vernice. Il metallo nudo era arrugginito e segnato dal tempo e dalle intemperie. Aveva l'aspetto di una creatura che poteva destarsi dal sonno e attaccare come un enorme insetto. Il paragone lo fece rabbrividire, richiamò alla mente il centopiedi e la ter-ribile lotta degli Spettri nella casa di Pioneer Square. Fissò il ponte e gli ordinò di stare fermo.

«Meglio prepararsi» disse in tono brusco Helen Rice, interrompendo il filo dei suoi pensieri. Avevano raggiunto gli scalini che salivano al ponte. Già gli uomini della milizia si erano schierati davanti all'imboccatura, per valutare la forza del gruppo che si avvicinava. Non era stato rivolto alcun segno di fermarsi, così Helen fece salire il suo gruppo in fila indiana e li avvertì di tenersi pronti, ma di abbassare le armi. Falco camminava dietro di lei. Aveva un nodo allo stomaco e il suo cuore batteva in fretta.

Cosa doveva fare? Non aveva un piano. Non aveva neppure un'arma. Era dolorosamente impreparato.

Quando raggiunsero la spianata davanti al ponte, gli uomini di Helen si allargarono a ventaglio fermandosi dove lei ordinava, a una quindicina di metri dalle prime barricate con i soldati. Tutti gli uomini che lo presidia-vano si erano avvicinati ai compagni e si guardavano nervosamente attorno mentre aspettavano di scoprire cosa stava accadendo; in cima alle travatu-re, altri soldati spiavano da torrette di metallo. Dall'altra parte del ponte c'era una sorta di carro armato, e un paio di mitragliatrici a fianco dell'in-gresso proteggevano quell'estremità.

Troppe armi, troppi uomini per attaccare senza gravi perdite per tutt'e due le parti, pensò Falco. Diede un'occhiata a Tessa, che gli rivolse un sor-riso incoraggiante.

«Cosa intendi fare, adesso?» gli chiese Helen Rice, a bassa voce. Falco rimase fermo per un momento, lasciando che le sue emozioni si

placassero e i suoi pensieri si riunissero. Attese di essere calmo, di sentire il battito del cuore e la pulsazione regolare delle ossa contro la gamba. At-

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tese la risposta delle ossa al suo pensiero, controllando se rallentavano o acceleravano. Attese che quella pulsazione entrasse in lui, si unisse a lui e divenisse qualcosa di più di una presenza esterna.

Aspettò di scoprire cosa doveva fare per portare a termine il suo compi-to. Attese guida e comprensione. Attese che quello strano collegamento con il mondo esterno rivelasse il proprio scopo.

«Falco» sussurrò Tessa, in tono urgente. Il giovane proseguì da solo, ma non si diresse verso la milizia e le barri-

cate. Si avvicinò a una macchia di cespugli, di alberi stentati e di liane ap-passite che crescevano coraggiosamente sul ciglio della strada. Rispondeva alla voce di quelle piante, ma agiva anche seguendo l'istinto. Il suo corso d'azione era fissato, ma il risultato rimaneva vago e incerto. Sentiva su di sé gli occhi di tutti, riusciva quasi a cogliere i loro pensieri. Si meravigliò per la stupidità della milizia che occupava il ponte e giocava con i fiammi-feri mentre il resto del mondo stava bruciando. Cosa pensavano di ottene-re, raccogliendo un pedaggio, di qualunque natura fosse, da coloro che vo-levano attraversare il ponte? A che potevano servire quelle azioni in un mondo come il loro?

S'inginocchiò accanto al cespuglio e ai rampicanti, passò le dita sulle fo-glie rinsecchite.

Il mondo era sotto le sue dita e aspettava che lui lo facesse rinascere. Questo pensiero giunse fino a lui senza essere chiamato. La vita attendeva di essere svegliata.

"So cosa devo fare" comprese all'improvviso. Prese tra le mani le piante appassite, chiuse le dita, delicatamente ma

con decisione, sulle foglie, cercando di non spezzarle, le tenne come se fossero le dita di un bimbo, e scese fino alle radici con sola la forza della volontà. Le sentì scuotersi, svegliarsi dal profondo letargo in cui erano ca-dute. Assorbivano il loro nutrimento, un nutrimento fresco e nuovo, da lui, dalla magia con cui le alimentava, una magia che gli giungeva da una fonte ancora ignota, che poteva sorgere dalle ossa della madre o dalla sua stessa forza vitale. Ma veniva anche dalla terra, dagli elementi intrinseci del suo-lo e della roccia e del metallo e del nucleo fuso.

"Svegliatevi" ordinò alle piante che toccava. "Svegliatevi per me." Che riuscisse a farlo era nello stesso tempo stupefacente ed esaltante.

Che avesse il dominio della magia era la realizzazione delle promesse fat-tegli da Logan Tom quando gli aveva rivelato le sue origini e gli aveva consegnato le ossa della madre. Non aveva osato credere che fosse possibi-

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le, ma aveva anche saputo che doveva essere così, per portare a termine il compito che gli era stato assegnato. Tutto il suo essere apparteneva alla terra su cui posava i piedi e alle piante che vi mettevano le radici.

In quell'istante, Falco venne cambiato per sempre. Non era più un ragazzo, un bambino di strada, era anche una creatura

della magia, un Variante che era giunto alla consapevolezza, che aveva re-alizzato il suo potenziale.

L'effetto fu immediato. Erba, cespugli e liane scaturirono dal suolo, alle due estremità del ponte, ed esplosero intorno alle barricate e alle armi e a-gli uomini che lo difendevano. Balzarono fuori dalla terra come se fossero affamate, come se volessero raggiungere il sole in cielo, l'aria, la pioggia, ogni cosa di cui erano rimaste prive nel loro letargo. Ma il loro sorgere era opera di Falco, e le piante obbedivano al suo comando. Si scagliarono sulle barricate e sui difensori, sugli uomini e sul metallo, avvolgendo metallo e uomini, avviluppandoli in verdi legami che si strinsero attorno a loro im-prigionandoli.

La milizia non ebbe alcuna possibilità di difendersi, non riuscì a sparare un solo colpo. Le armi vennero strappate di mano e carro armato e cannoni vennero soffocati. Gli uomini stessi furono legati come da funi. Le piante prima li bloccarono e poi si arrampicarono sull'intero ponte, avvinghiando-si sulle travi di metallo e sui pontoni, su tutta la struttura fino a nasconder-la completamente. Alla fine rimase solo il verde delle piante, che copriva l'intera campata. Il ponte, le barricate e i difensori erano divenuti parte di una vasta giungla. L'intero processo non richiese più di cinque minuti e la-sciò attoniti gli spettatori.

Tessa e Cheney erano immobili. Helen Rice sussurrò: «Oh, mio Dio!» dando voce al pensiero di tutti. Agli uomini di Helen Rice occorse il resto della giornata per smontare il

campo e portare i bambini al di là del ponte, nella nuova postazione scelta da Helen e dai suoi consiglieri, una posizione che Falco, istintivamente, giudicò più facile da difendere.

Dopo aver liberato i militari imprigionati, li lasciarono dalla parte sud del ponte e presero il controllo delle barricate che portavano al nuovo ac-campamento.

Al crepuscolo, avevano di nuovo piantato le tende e il trasferimento at-traverso il fiume era stato completato.

«Non so come hai fatto» disse Helen, quando lei e Falco rimasero soli,

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mentre Tessa era andata ad aiutare coloro che si occupavano dei bambini. «Ma mi pare che dimostri a sufficienza che sei quello che dici di essere.» Scosse la testa. «Non avrei mai immaginato che qualcuno potesse fare quello che hai fatto tu. Neppure Angela Perez.»

Falco non sapeva cosa dire, lui stesso stava ancora cercando di capire. Non riusciva a comprendere bene come fosse riuscito a provocare una così rapida crescita a partire da poche piante appassite, un talento così estraneo che gli pareva appartenere a un'altra persona. Non riusciva neppure a capi-re come avesse saputo quello che doveva fare.

«I bambini saranno più al sicuro da questa parte» disse. «Ma può darsi che dobbiate difendere il ponte.»

«Se rimarremo qui, lo so» rispose lei. «Avevi ragione sull'inseguimento. C'è già un esercito che risale la costa. Speravamo che Angela arrivasse prima del nemico, ma adesso non so cosa pensare.» Sollevò gli occhi e il suo sguardo vagò lontano, nel grigio della sera, come se pensasse di scor-gere la sua amica. «Quanto manca alla partenza? Da come parli sembra che non ci muoveremo subito.»

Lui annuì. «No. Non possiamo partire finché non troverò la mia famiglia e non la porterò qui. Sono a nord, vengono a incontrarmi. Dovrei tornare con loro in meno di una settimana.»

«Te ne vai?» chiese Helen Rice. «Non starò via per molto. Tornerò. Ma voi dovete difendere il ponte fino

a quel momento. Dovete proteggere i bambini. Se ne arrivano altri, prende-teli.» S'interruppe, poi aggiunse: «Angela farebbe così».

Non sapeva cosa pensasse Angela, non sapeva nulla di lei, a parte quello che gli aveva detto Helen Rice. Ma gli pareva che citare il suo nome potes-se servire a convincere la donna.

Helen rimase in silenzio per qualche istante, con la schiena curva, la te-sta bassa. «Sono così stanca» disse.

Poi si alzò, gli rivolse un sorriso che durò un istante e se ne andò. Falco la guardò mentre si allontanava, stava già facendo i suoi piani per partire. Attese che la gente cominciasse ad andare a dormire, poi trovò Tessa e le disse che partiva in cerca degli Spettri. Lesse nei suoi occhi la paura e l'in-certezza, vide la sua espressione contrarsi in una smorfia.

«Non c'è bisogno che tu venga con me» le disse. «Puoi aspettarmi qui, se vuoi.»

Tessa rise. «Potrei fare molte cose, se volessi. Ma sono tutte cose che vorrei fare con te.»

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«Mi dispiace di quello che è successo alla fortezza... tuo padre e tua ma-dre, tutto. Vorrei che non fosse successo niente.»

«Anche a me dispiace di quello che è successo. Ma più che altro mi di-spiace per te. Dev'essere molto inquietante, tutto questo, anche se è legato a quello che sei.»

Lui sorrise. «Vorrei pensarla anch'io così. Sembra tutto così strano.» Falco esitò. «Vieni con me?»

«Che ne pensi?» «Io voglio che tu venga. Forse potremo parlare di quello che è accaduto,

mentre camminiamo. Penso di averne bisogno. Penso che mi aiuterà a far-lo sembrare più reale.»

Lei gli prese le mani. «Allora sarà meglio incamminarsi.» Raccolsero un po' di scorte negli zaini e con Cheney che li precedeva si

diressero a ovest, seguendo il corso del fiume, che serpeggiava in mezzo a una catena di montagne che lo chiudevano da entrambi i lati.

A mezzanotte erano già a dieci miglia di distanza. Findo Gask camminava nel buio, uno spettro grigio nella notte nera. Il

cielo era coperto e privo di stelle, e il bosco che stava attraversando era avvolto nelle tenebre. Dietro di lui, l'accampamento degli ex uomini dor-miva e i loro grugniti e il suono del loro russare si mescolavano ai gemiti e al pianto degli schiavi che avevano portato da Los Angeles nella marcia verso il Nord. Procedevano in fretta, a piedi o sui carri, e ogni giorno viag-giavano da sedici a diciotto ore. Non c'era più tempo da perdere da quando il Variante era ricomparso, e ancor meno adesso che si era rivelato una se-conda volta.

Adesso sembrava più forte, la sua magia più potente, e non faceva alcu-no sforzo per celare le proprie azioni.

Questo era più di quanto il demone potesse sperare, e sapeva di non do-versi lasciar sfuggire di mano l'occasione. Però l'origine della magia era molto distante, verso nord, almeno varie centinaia di miglia, e il luogo del-la seconda esplosione di magia non era lo stesso della prima. Questo signi-ficava che il Variante era in movimento, e che dunque aveva una destina-zione o uno scopo. Gask non lo poteva immaginare, ma sapeva di dover raggiungere la creatura di Faerie prima che quello scopo venisse raggiunto. Il Variante era il più pericoloso nemico del demone, il solo servitore del Verbo che potesse distruggere tutto ciò che i demoni avevano ottenuto con tanto sforzo. Findo Gask rimpiangeva ancora di essersi lasciato sfuggire il

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Variante tanti anni prima, quando l'aveva avuto a portata di mano. In qual-che modo, Nest Freemark l'aveva ingannato, lo sapeva per istinto, sapeva che si era legata con quella creatura di Faerie e l'aveva tenuta al sicuro da lui. La sua vittoria su John Ross, o sugli altri Cavalieri del Verbo che ave-va eliminato nel corso degli anni, gli pareva vuota e incompleta. Soltanto la morte del Variante avrebbe potuto soddisfarlo, ormai.

Soltanto quella gli avrebbe restituito la pace. Era un obiettivo che prevedeva di raggiungere. John Ross e Nest Free-

mark e tutti gli altri portatori di magia di quel tempo erano morti, anche quell'enorme reduce di guerra, dalla pelle color del rame. Rimaneva solo Findo Gask. Il Variante, qualunque forma avesse assunto, era solo e isolato dai suoi, e forse anche ignaro del pericolo. Se fosse riuscito ad avvicinarlo prima che lo avvertissero...

O anche, si corresse, se un altro l'avesse raggiunto al posto suo, uno an-cor più letale e instancabile di lui...

Lasciò che quel pensiero rimanesse sospeso nell'aria mentre si spingeva nella parte più profonda della foresta, dove non arrivava mai la luce del so-le, e si fermò accanto a uno stagno. Lo stagno era soffocato dalle alghe e coperto di uno spesso strato di schiuma, le sue acque erano state avvelena-te anni prima, al culmine della distruzione dell'ambiente. Quello che un tempo era chiaro e pulito era adesso fangoso e inquinato. Nessuna creatura che vi abitava era rimasta quella di un tempo. Tutto era mutato. La puntura del più piccolo insetto avrebbe fatto ammalare un umano. Anche l'aria e l'acqua e le piante erano velenose.

Ma Findo Gask godeva dell'immunità e si faceva strada in mezzo a crea-ture che avrebbero ucciso senza alcun timore gli umani. Nessuno si avvici-nava a lui, né i serpenti né i ragni né gli insetti velenosi e neppure le crea-ture che non avevano nome. Nessuno si avvicinava perché nessuno era pe-ricoloso o pieno di veleno come lui. Gli abitanti delle profondità del bosco sapevano riconoscere uno dei loro, e se ne tenevano lontani.

Tranne uno. Si alzò dalla schiuma della palude come un leviatano che affiora dalle

profondità dell'oceano, l'acqua che ribolliva e scorreva in rivoli dal suo corpo. I gas sfuggirono sotto forma di bolle che scoppiavano e il loro feto-re riempì di un nuovo odore pestilenziale l'aria nauseabonda. Findo Gask sapeva che si nascondeva, ma sapeva anche che si sarebbe accorto del suo arrivo e si sarebbe rivelato perché quella era la sua natura.

Rimase a una buona distanza e lo guardò mentre emergeva. Le foglie

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morte e il sudiciume si raccoglievano in macchie umide sulla sua schiena curva.

Come ogni volta che lo guardava, Findo Gask tornò a meravigliarsi per l'assoluta mostruosità della forma che il demone aveva assunto. Il Klee non assomigliava a niente che Gask avesse visto altrove. La sua testa era una massa conica di osso, ammaccata come se fosse stata colpita da un grosso martello. I lineamenti erano coperti dalle pieghe di pelle scura, simile a cuoio, che gli scendevano dalle gote, e si vedevano solo gli occhi, verdi, piccoli e malvagi. Le lunghe braccia muscolose erano coperte di pelo, le mani contorte e nodose, le gambe, grosse come tronchi, robuste e curve, e l'intero corpo era coperto di scaglie, pelo e rifiuti. Quando si fu liberato dell'acqua e del fango, giganteggiò sopra Findo Gask, con la sua massa lo fece sembrare ancora più piccolo e per qualche momento lo spinse a riflet-tere, nonostante quello che il vecchio sapeva di lui.

Delloreen odiava il Klee, diceva che era un animale e lo disprezzava de-finendolo un mostro incapace di pensare, che sapeva solo uccidere. Non si sbagliava, ma non coglieva l'essenziale. Era proprio per quei motivi che Findo Gask lo trovava utile.

Una volta era un uomo. Molto tempo addietro, prima che Gask lo incon-trasse nelle rovine di una città, in mezzo a tanti morti da far sembrare in-credibile che quella strage fosse opera di una sola creatura. Inizialmente era un essere umano, e che cosa l'avesse cambiato, nessuno lo sapeva. Il Klee non parlava e a malapena ascoltava. Il più delle volte ascoltava Findo Gask.

Il grosso demone uscì dalla palude per avvicinarsi a lui e si chinò in a-vanti, speranzoso. Sapeva che Gask era venuto per qualche ragione, e che la ragione comprendeva quello che a lui piaceva di più.

«Voglio che tu mi trovi qualcuno» gli disse Findo Gask. «È una creatura di Faerie, ma non so che forma abbia. Ti aiuterò a capire quello che senti-rai accanto a lui, così riuscirai a trovarlo.»

Il Klee spostò il peso da un piede all'altro, un movimento lento e ponde-roso che indicava come avesse compreso. Dalle profondità del suo petto uscì un suono strano, che sembrava un sospiro.

Findo Gask sorrise. Era il suono che il Klee emetteva quando era molto soddisfatto.

Tese la mano e toccò arditamente il demone sul petto, con un solo dito. «Trova questa creatura di Faerie» gli disse. «E quando l'avrai trovata, uc-cidila.»

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26

Nuovamente insieme dopo il rapimento di Fiamma da parte del ragazzo

sfigurato e dopo il viaggio di Logan Tom tra le strade buie di Tacoma per cercare il farmaco contro l'epidemia, gli Spettri proseguirono il loro lento viaggio verso sud. Lasciarono il campo alla periferia della città mentre era ancora notte e c'era una ragionevole possibilità che il Senatore non avesse ancora scoperto la perdita della sua "proprietà". Viaggiarono sul Lightning e sul carro da fieno alla maniera degli spettri da cui avevano preso il nome, come ombre che scivolano nel buio.

Catalya indicò loro la strada, inducendoli a lasciare l'autostrada e gui-dandoli lungo strade secondarie che evitavano le roccaforti del Senatore e i punti dove poteva aver collocato sentinelle che lo avvertivano dell'arrivo di intrusi. All'alba erano lontani dalla città e tenevano una buona media.

Gufo, che viaggiava dentro il Lightning con Fiume e Aggiusta, diede ai due malati una forte dose del medicinale che Cat aveva prelevato dalla ri-serva segreta, li coprì con le coperte, mise sulla loro fronte un fazzoletto bagnato e continuò a parlare mentre dormivano il sonno della febbre, con la sua voce dolce e rassicurante. Presto entrambi mostrarono un netto mi-glioramento, la temperatura diminuì e il dormiveglia agitato si trasformò in un sonno profondo. In ventiquattr'ore sparirono anche le macchie rosse e si avviarono verso la guarigione. Logan cominciò a dirsi con un po' di con-vinzione che le cose procedevano abbastanza bene. Cessò di pensare alla possibilità di lasciare gli Spettri e continuare la ricerca di Falco da solo.

Anche il suo timore che prendersi cura di un gruppo di bambini di strada potesse fargli da freno e gravarlo di responsabilità indesiderate si era al-leggerito, dopo gli avvenimenti della notte precedente. Adesso, con il nuo-vo giorno, gli pareva che i ragazzi fossero in grado di assumersi le proprie responsabilità, tanto da non avere costantemente bisogno di lui e anche se questa considerazione poteva essere un incentivo a proseguire da solo, in realtà ebbe l'effetto opposto. Potendosene andare da un momento all'altro, senza creare problemi, si accorse di voler rimanere. L'idea di abbandonare gli Spettri cominciava a piacergli sempre meno e aveva scoperto che prefe-riva lasciare le cose come stavano.

Questo non escludeva che in seguito potesse cambiare idea, naturalmen-te. Gli avvenimenti lo potevano obbligare a quella scelta, prima o poi. Im-possibile prevederlo. Ma almeno per il momento poteva lasciar perdere

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l'argomento e concentrarsi sul viaggio. Il solo problema era Cat. Come Logan aveva temuto e lei stessa aveva

sospettato, la sua presenza non era universalmente accettata dagli altri ra-gazzi. Pantera, come prevedibile, era quello che faceva più chiasso, la chiamava mutante e diceva chiaramente a tutti che non la giudicava adatta a diventare uno Spettro, per quanti meriti avesse. Gesso era d'accordo con lui e così pure, a sorpresa, Passero. Forse il rischio di essere uccisa dai ra-na quando erano fuggiti da Seattle la portava a pensare in quel modo. For-se era conseguenza di qualcosa che non aveva mai rivelato agli altri. Ma anche se in genere non esprimeva ad alta voce i suoi pensieri, annuiva quando Pantera lo ripeteva, e Logan Tom non aveva dubbi sulle sue idee. Nemmeno Passero voleva la ragazza che non era né umana né mutante.

Gli altri la trattavano meglio. Gufo l'aveva subito stretta tra le braccia, le aveva detto che erano lieti di averla con loro e non aveva badato ai bronto-lii e alle occhiatacce di Pantera. E il primo giorno Fiamma la prese per mano e le camminò accanto, un piccolo gesto che rese Logan orgoglioso di lei.

Orso, grosso, calmo e taciturno, a un certo momento si interpose tra Pan-tera e Cat, quando il primo cercò di intimidirla, costringendolo a farsi da parte e infine a lasciar perdere. Pantera, che normalmente non avrebbe permesso a nessuno di fargli una cosa del genere, era rimasto allibito.

«Ma è solo un mutante» aveva mormorato a Orso. Però in seguito lasciò stare la ragazza. La loro destinazione era decisa e ripresero subito il viaggio. Avrebbero

impiegato almeno una settimana per arrivare al Columbia e al promesso incontro con Falco, dunque c'erano ottime ragioni per andare avanti. Logan continuava a chiedersi come avrebbero rintracciato il ragazzo, ma immagi-nava che sarebbe stato lui a trovarli. Il Variante nascosto nella sua pelle umana doveva ormai essersi affacciato e la magia doveva avere fatto presa. Così doveva succedere, comprese Logan, se il ragazzo doveva essere il lo-ro salvatore.

Il viaggio proseguì fuori della città, nella campagna. Gli edifici si allon-tanarono alle loro spalle, persi in una foschia di fumo e di ceneri che nep-pure il sole riusciva ad attraversare. I rottami dei veicoli che ingombravano l'autostrada sparirono e l'aria prese un odore di legno. Il territorio si sten-deva attorno a loro sotto forma di campi spogli e ciuffi di alberi morenti, di canali e di laghetti inquinati, di recinzioni abbattute e fattorie crollate. Non c'era pressoché segno di vita, tutt'al più un uccello ogni tanto, il rapido

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movimento di qualche piccolo animale che s'infilava in mezzo ai cespugli, un roditore che sporgeva per un momento la testa dalla tana, un paio di fi-gure sottili come fuscelli che fuggivano da una vecchia casa in lontananza.

"La fine di ogni cosa" pensò Logan, più di una volta. "Presto sarà così dappertutto." Cercò di immaginarlo ma non ci riuscì. Il mondo era troppo vasto per un simile epilogo. La prospettiva di una terra vuota e priva di vi-ta era troppo spaventosa perché la si potesse prendere in considerazione.

Anche se sapeva che stava per giungere. Anche se gli era stata predetta. Proseguirono per altri tre giorni senza cambiare direzione e videro una

manciata di piccole cittadine ai lati della carreggiata. Logan non ne cono-sceva il nome e non lo sapevano neppure Cat o gli Spettri. I cartelli che una volta le indicavano erano spariti, lasciando qualche palo di metallo spezzato e contorto. L'atmosfera era velata, con aria malsana e poca luce solare, e il panorama aveva l'apparenza di un miraggio. L'autostrada attra-versava un oceano di foschia che si muoveva in pigre volute. Per i mucchi di rottami di veicoli e di rifiuti, per gli ammassi di pareti cadute e di tetti sfondati, per i campi spogli e gli orizzonti vuoti, il mondo era una tomba.

Quando si avvicinò il mezzodì del terzo giorno, giunsero in vista di un nuovo gruppo di edifici, appena visibili in cima a una serie di collinette, in una zona gelida e brulla, un cimitero segnato dagli scheletri degli alberi morti.

Logan sedeva accanto al guidatore, nel Lightning, ed era girato all'indie-tro per parlare con Gufo. Fiume e Aggiusta erano di fianco alla donna e si erano ripresi abbastanza da poter stare seduti, ma non da camminare. Gli altri Spettri erano sul carro con Cat e Coniglio. Al volante c'era Pantera.

Il ragazzo aveva impiegato qualche tempo per lasciarsi convincere a guidare, ma quando Logan, all'inizio della giornata, gli aveva detto che era il momento che imparasse, il giovane aveva commentato che non vedeva niente di male nel provare. Da allora era sempre stato al volante.

«Non capisco come Cat potesse stare per strada da sola, di notte» diceva Gufo. «Sembrerebbe pericoloso.»

«L'ho pensato anch'io» rispose Logan. «E non aveva armi?» «Nessuna che io potessi vedere.» Fece una pausa. «Ma credo che sia più

in gamba di quello che sembra. Pareva a suo agio, là. Mi ha persino chie-sto cosa facessi in città da solo. Sembrava sicura di sapere meglio di me come ci si prende cura di se stessi.»

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«Perché è un mutante» mormorò Pantera. Aggrottò la fronte al pensiero di dover accettare una ragazza lucertola. A volte rimpiangeva che non ci fosse Falco a dare gli ordini. Falco non avrebbe mai lasciato entrare nella famiglia un mutante.

«Ehi, cos'è quella roba?» esclamò nel vedere qualcosa che ostruiva la strada.

Logan si voltò e vide quello che sembrava un ammasso di veicoli. «Ferma» ordinò a Pantera.

Quando il ragazzo ebbe arrestato il Lightning, Logan scese e avanzò di qualche passo, scrutando prima la strada e poi i campi che la circondavano. Niente si muoveva, ma in quell'ostacolo c'era qualcosa di strano. Guardò dietro di sé, i ragazzi, e poi di nuovo avanti. La strada correva diritta, senza deviazioni, e dietro la barriera non si vedevano altre vie. Non era possibile aggirarla se non inoltrandosi nei campi, ma il carro non era in grado di percorrere quel terreno accidentato.

Tornò indietro e si rivolse a Pantera. «Vado avanti. Stammi dietro e tieni gli occhi aperti.»

Il ragazzo aggrottò la fronte. «Sono solo rottami» disse. «Possiamo gi-rarci attorno, trovare un'altra strada.»

Logan scosse la testa. «Qui non vedo altre strade. Andiamo a dare un'oc-chiata.»

Si allontanò dal veicolo. Pantera abbassò la mano per toccare la Parkhan Spray infilata tra la portiera e il sedile, poi fece avanzare il Lightning al minimo, lasciando tra la vettura e il Cavaliere una certa distanza. Tutti a-vevano smesso di parlare e si guardavano attorno, scrutando in mezzo ai campi.

Logan non vedeva nulla, ma lo preoccupava il fatto che i veicoli che o-struivano la strada fossero così lontani dalle città, in mezzo a una zona se-mideserta. L'ammasso poteva essere il risultato di un antico scontro d'auto, o almeno così pareva. Ma lo inquietava ugualmente.

Era a pochi metri dal cumulo quando i suoi nervi presero improvvisa-mente a fremere e la magia a solleticargli la punta delle dita. Capì di aver commesso un errore. Non sapeva dire perché, ma aveva imparato a fidarsi dei suoi istinti. Si fermò dov'era e alzò la mano per avvertire Pantera.

«Non muoverti» gli ordinò qualcuno, di fianco a lui. Senza spostarsi, Logan girò la testa nella direzione da cui era giunta la

voce. Un uomo magro con una massa spettinata di capelli neri era spuntato da dietro un rottame. Non era armato. Aveva le mani abbassate lungo i

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fianchi, vuote. Logan si voltò verso di lui. Le rune del suo bastone si accesero mentre la

magia si preparava a colpire. «Se intendi usare quel bastone contro di me, pensaci due volte» disse

l'uomo con calma. «I miei amici vi circondano e puntano le armi sui bam-bini. Tu potresti riuscire a cavartela, ma forse non riusciresti a salvare lo-ro.»

Il Cavaliere del Verbo si affrettò a guardarsi attorno. Erano circondati da figure nere, almeno una dozzina, in apparenza sbucate dal nulla.

Dovevano essersi nascosti nei fossi ai margini della strada. O si erano scavati dei nascondigli. Erano magri e laceri come il loro portavoce e im-pugnavano armi di ogni tipo, tutte puntate contro il Lightning e il carro.

Logan si sentì prendere dallo sconforto. «Cosa volete?» L'uomo gli sorrise. «Vogliamo che tu venga con noi a vedere una perso-

na. Non ci vorrà molto tempo. I bambini possono aspettare qui il tuo ritor-no. Poi potrete proseguire.»

«Venire con voi dove?» «Dietro quella collina.» Indicò vagamente a est, in direzione delle mon-

tagne. «Vi abbiamo visto arrivare, sai? Questo incontro non avviene per caso. È stato voluto. Sappiamo chi sei. Sappiamo perché porti il bastone e cosa è in grado di fare, sappiamo tutto dei Cavalieri del Verbo. Per questo Krilka Koos vuole vederti.»

«Forse poteva limitarsi a chiedermelo, invece di mandare uomini armati a minacciare dei bambini.»

«Forse era il suo modo per assicurarsi che non gli dicessi di no.» Logan comprese subito due cose. Primo, l'uomo mentiva. Poteva pure

dire che non intendevano far loro alcun male e che gli avrebbero lasciato riprendere la loro strada, ma questo non era necessariamente vero. Lasciar-li liberi o dar loro il permesso di passare era una questione di convenienza, non di onore. Secondo, di qualunque cosa si trattasse, la questione lo ri-guardava di persona.

«Perché non lasciate andar via i bambini senza di me? Io posso venire con voi e incontrare... come hai detto che si chiama?»

«Krilka Koos. No, così non va bene.» «Perché?» «Se lasciassimo andar via i bambini, nulla ti farebbe restare qui. Sap-

piamo di non poterti costringere se non vuoi essere trattenuto. Sappiamo che non sei disposto a lasciare il bastone. La sola cosa su cui possiamo e-

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sercitare pressione sono i bambini. Se per te non significano niente, allora siamo nei guai. Però io sono pronto a scommettere che ci tieni parecchio.»

Logan annuì. «Nessuno li toccherà?» L'uomo scosse la testa. «Non gli verrà torto un capello.» «Chi è Krilka Koos?» L'uomo sorrise. «Lo vedrai. Allora, cosa rispondi? Vieni?» Logan esitò, poi fece per ritornare all'auto. «Non ci provare» si affrettò a dire l'uomo costringendo Logan a immobi-

lizzarsi. «Non si può sapere cos'hai intenzione di raccontargli. Potresti dir-gli qualcosa che non va bene.»

Logan lo fissò. «Forse vorranno sapere cosa succede.» «Forse lo capiranno da soli.» L'uomo si strinse nelle spalle. «Alcuni dei

miei amici rimarranno con loro per assicurarsi che non si facciano delle i-dee sbagliate.»

Logan continuò a fissarlo per un momento, mentre sentiva piombare sul-le sue spalle la gravità della situazione. Si era cacciato da solo in quel pa-sticcio, lasciandosi mettere in trappola nonostante tutta la sua esperienza e le sue conoscenze. Non aveva neppure preso in considerazione l'idea che i suoi nemici potessero servirsi dei bambini contro di lui, approfittare del suo senso di responsabilità nei loro confronti per abbattere le sue difese. Che stupido era stato.

Guardò per terra e scosse la testa. Aveva pensato a lungo di lasciare gli Spettri. Si era chiesto come se la sarebbero cavata senza di lui. Sarebbero riusciti a sopravvivere da soli? A proseguire il viaggio?

Presto l'avrebbero scoperto. «Va bene» rispose e si avviò con riluttanza verso l'uomo che aveva par-

lato. Pantera, seduto al posto di guida e con entrambe le mani bene in vista

per far vedere che non costituiva una minaccia, attese che il Cavaliere e coloro che l'avevano catturato fossero lontani prima di fare un rapido cal-colo delle guardie rimaste a sorvegliarli. Almeno tre. Forse una quarta die-tro il carro. Non poteva esserne sicuro. I due fermi davanti al Lightning e-rano umani, ma il terzo sembrava più grosso e robusto. Un lucertola, pro-babilmente. Erano tutti avvolti in vestiti neri che nascondevano parzial-mente i loro lineamenti e non poteva esserne sicuro. Uno dei due si avvici-nò a lui e guardò dentro.

«Spegni il motore» gli disse.

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Pantera abbassò le mani e con una spense il veicolo, con l'altra tolse la sicura della Parkhan Spray infilata tra il sedile e la portiera. Se avevano condotto via il Cavaliere, non intendevano riportarlo indietro, qualunque cosa dicesse il tizio. Questo significava che una volta eliminato lui, non avrebbero avuto più bisogno degli Spettri. La decisione da prendere era fin troppo chiara. Potevano starsene seduti lì e aspettare l'inevitabile, oppure fare qualcosa per salvare la pelle.

La faccia scura di Pantera s'indurì per la decisione. Già sapeva quale sa-rebbe stata la sua scelta.

La guardia che gli aveva rivolto la parola tornò ad allontanarsi, con aria annoiata. "Ragazzini" pensava probabilmente. "Perdita di tempo."

«Pantera, cosa stai facendo?» gli chiese all'improvviso Gufo, dal sedile posteriore, come se avesse intuito le sue intenzioni.

«Niente» rispose a bassa voce il ragazzo. E aggiunse: «Per ora». Controllò ancora le guardie, rapidamente, contando quante erano, stu-

diando le armi e facendo una stima della loro abilità. Quanto a quest'ulti-ma, difficile dire qualcosa, finché non avesse visto cosa erano capaci di fa-re. Pantera non l'avrebbe saputo finché non avesse fatto la sua mossa. Non sarebbe riuscito ad attaccare subito il lucertola perché era dietro di lui. Do-veva affrontare i due che aveva di fronte e poi sperare di poter colpire il terzo subito dopo. Ma era rischioso. Gli altri Spettri sarebbero stati in peri-colo, esposti al fuoco, mentre lui si occupava dei primi due. Se fossero morti, sarebbe stata colpa sua. Ma se non avesse fatto nulla e fossero mor-ti, sarebbe stata colpa sua lo stesso...

Sentì il sangue pulsargli alle tempie. In quella partita non c'era modo di vincere. Nessuno.

Si stava facendo coraggio per quello che doveva fare, imponendosi di stare calmo; sapeva bene di non aver mai fatto nulla di simile in preceden-za, non si era mai trovato in una posizione che lo costringesse a farlo, quando udì qualcuno gridare seccamente:

«Coniglio! Torna qui!» Si guardò alle spalle. Era la ragazza lucertola. Era scesa dal carro e cor-

reva dietro alla sua stupida gatta, che saltava in direzione del Lightning. Le guardie si erano voltate all'istante, allarmate dalle grida. La gatta correva e poi saltava, come fosse spastica o qualcosa del genere. Pantera gemette dentro di sé. Questo rovinava tutto.

«Guarda» disse al compagno la guardia che aveva parlato a Pantera. «E-sercitazione di tiro al bersaglio.»

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La gatta arrivò fino alla parte anteriore del Lightning prima che la ragaz-za la raggiungesse. Cat la raccolse mentre le guardie puntavano già le ar-mi. Il cappuccio le scivolò via dalla testa, rivelando la sua faccia coperta di macchie. Le guardie videro cos'era e si tirarono indietro d'istinto.

Lei si strinse al petto l'animale. «Quelli dentro l'auto hanno preso l'epi-demia» disse ai due. «Volete vederli?»

«Torna sul carro!» le disse seccamente la guardia, indicandoglielo con la canna dell'arma.

Lei lo guardò con stizza, gli voltò la schiena e tornò al carro. Mentre passava a fianco del Lightning, disse piano a Pantera: «Se spari con quello Spray ce li tiri addosso tutti. Lascia fare a me».

Si allontanò prima che lui riuscisse a rispondere. "Cos'ha detto?" pensò Pantera. "Lascia fare a me? Come se lei fosse speciale." Si girò a guardar-la, voleva dirle qualcosa, ma lei era già quasi al carro.

Poi quella stupida gatta si liberò di nuovo e tornò a saltellare verso il Li-ghtning. Cat corse a riprenderla, la acchiappò giusto davanti alla porta del veicolo, e la sollevò proprio mentre le guardie sì avvicinavano.

«Esci dall'auto» disse a Pantera, senza guardarlo «mettiti a quattro zam-pe e fa' finta di sentirti male.» Gli passò la gatta dal finestrino, poi, veden-do che esitava e che teneva la gatta come se fosse di vetro e la fissava con aria incredula, sibilò: «Vuoi uscirne vivo o morto? Fa' quel che ti dico!».

Lui stava quasi per non obbedire. Stava per dirle cosa poteva fare di se stessa, ma qualcosa nei suoi occhi gli suggerì di tacere. Con sua stessa sor-presa, lasciò cadere la gatta, aprì la portiera e uscì barcollando dalla vettu-ra, come se improvvisamente avesse avuto un malore. Si lasciò cadere a quattro zampe e cominciò a far finta di vomitare. Si levarono grida e gemi-ti dagli altri Spettri, sia quelli che si trovavano nel Lightning sia quelli ri-masti sul carro. Le due guardie che sostavano davanti all'auto vennero a-vanti di corsa, con un'espressione che era un misto di sorpresa e di diffi-denza, ancora incerte su quanto stava succedendo.

Pantera sputò in terra e alzò la testa come se stesse troppo male per muoversi; nello stesso tempo si augurò che non fosse uno sbaglio, che la ragazza sapesse quello che faceva, che fosse in grado di offrire qualcosa di più delle parole.

Ma non avrebbe dovuto preoccuparsi. Quando le due guardie furono a un paio di metri da lui, Cat girò su se stessa, facendo svolazzare il mantel-lo. Nella debole luce, Pantera vide un riflesso metallico roteare nell'aria. Un istante più tardi udì le guardie emettere un gemito soffocato e crollare a

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terra. Ancor prima che i due fossero caduti, la ragazza si stava già muovendo

nell'altra direzione, in attesa che il lucertola arrivasse da dietro il carro. Quando comparve, il suo braccio guizzò una terza volta, un altro lampo di metallo. Il mutante oscillò come un grosso albero colpito dal vento e cadde al suolo.

Il tutto avvenne così in fretta che Pantera ebbe a malapena il tempo di accorgersi di quello che era successo. Si alzò e si avvicinò alle guardie che giacevano davanti al Lightning. Dal loro petto sporgevano schegge di me-tallo lucente. La ragazza lo raggiunse, staccò i pezzi di metallo e li mostrò a Pantera.

«Stelle d'acciaio» gli spiegò. «Un'arma da lancio. Spalmata di un veleno potentissimo che paralizza la vittima fino a tre ore dopo essere entrata in circolo. Agisce all'istante.»

Lui la fissò a occhi sgranati. «Dove hai imparato queste cose?» chiese. «Da altri mutanti» rispose lei, infilando le stelle nelle tasche del mantel-

lo. Lo fissò. «Mutanti come me.» Si diresse verso l'ultima guardia, lasciando Pantera a guardarla a bocca

aperta. Il giovane non sapeva cosa pensare. "Potrebbe essere più in gamba di quel che sembra" aveva detto Logan Tom. Scosse la testa. Era un mu-tante, ma di quelli pericolosi.

«Cat, ehm?» la chiamò. «Hai dei buoni artigli miss Gattina.» Senza voltarsi, lei lo salutò agitando il braccio e piegando le dita come

artigli. «Pericolosa» ripeté lui. Mentre Cat se ne stava in disparte, con in braccio Coniglio, e non pre-

stava attenzione agli altri, gli Spettri legavano e imbavagliavano le guardie paralizzate, assicurandosi che non potessero sciogliere i nodi senza aiuto. Fatto questo, Pantera e Orso esaminarono la barriera di vecchi veicoli e subito notarono che un gruppo di componenti era fuso insieme e montato su ruote che permettevano di spostarla una volta aperti alcuni catenacci. Aggiusta fornì la sua consulenza e in pochi minuti aprirono la barricata e videro che lo spazio davanti a loro era libero.

Gli Spettri continuarono a osservare la strada che si perdeva nella di-stanza, mentre il giorno cedeva il posto al crepuscolo. Nessuno parlava. Tutti gli occhi fissavano il nastro d'asfalto e l'orizzonte meridionale velato dalla foschia.

«Be', cosa aspettiamo?» chiese Aggiusta.

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Pantera lo fissò e poi scosse la testa. «Non abbiamo nessuna possibilità, contro un intero campo pieno di uomini armati.»

«Possiamo fare qualcosa! Abbiamo la sua auto e le sue armi. Non pos-siamo abbandonarlo! È andato con loro per proteggerci» s'infiammò Ag-giusta. «Gufo? Cosa dobbiamo fare?»

Seduta sulla sua sedia a rotelle, Gufo fissava davanti a sé. «Non lo so» ammise. «Non so veramente cosa si aspetta da noi.»

Pantera guardò gli altri. La sua faccia scura era lo specchio dei sentimen-ti cupi che provava. Orso stava da una parte e guardava per terra. Fiamma era sul punto di piangere. Fiume e Passero sussurravano tra loro e la loro voce era impercettibile. Nessuno voleva esprimere ad alta voce quello che tutti pensavano. Nessuno voleva ammetterlo. Tutti sapevano quello che a-vrebbero dovuto fare, ma sapevano anche che era un suicidio. L'umore del ragazzo divenne ancora più cupo. Quel Cavaliere o qualunque cosa fosse, non era un loro problema. Non proprio. Bastava pensarci un attimo. Infatti il Cavaliere non era uno di loro.

«Andiamo» disse. «Togliamoci di qui.» Stava tornano al Lightning quando vide Catalya che lo fissava accarez-

zando la sua stupida gatta. «Cosa fai?» le chiese con irritazione. «Aspetto che ve ne andiate.» «Aspetti...» S'interruppe. «Tu non vieni?» Lei si strinse nelle spalle. «Io vado a cercare Logan Tom.» «Da sola?» Lei fissò su di lui gli occhi neri. «Così sembra.» Pantera la guardò incredulo. Se avesse avuto un po' di cervello, sarebbe

risalita sull'auto o sul carro come gli altri e si sarebbe allontanata. Se ne sa-rebbe andata via subito, senza pensare a Logan Tom. Una cosa era far fuori tre guardie imbecilli, un'altra assalire un campo pieno di gente armata... una ragazza, poi, artigli o non artigli... non era soltanto un'idiozia, era un suicidio.

Pantera non avrebbe dovuto perdere neppure un altro secondo per deci-dere. Doveva andarsene e basta. «Maledizione» mormorò.

Si avvicinò al Lightning, aprì la portiera dalla parte del guidatore e im-pugnò la Parkhan Spray. Poi tornò accanto agli altri.

«Aggiusta, guida tu» disse al ragazzo. «Va' avanti per circa un miglio e aspetta finché non sarai sicuro che non arriviamo più. Poi riparti. Tutti gli altri stiano con lui. Ciascuno dia una mano agli altri.»

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«Pantera!» esclamò Gufo, incredula. «Non puoi farlo.» «No, posso» rispose lui, evitando di guardarla negli occhi. «Vengo anch'io, Pantera» disse subito Passero. «No, uccellino pazzo. Solo noi due.» Indicò Catalya. «Solo noi. Tu resta

qui. Tu e Orso dovete proteggere gli altri.» «Cosa dici?» esclamò Passero. «Tu e lei? In due e basta?» Pantera annuì. «Se due non bastano, credi che siano sufficienti quattro o

sei o otto? Io non lo so. Io so questo: che andremo solo noi due.» «Non siete tenuti a farlo, Pantera» si affrettò a intervenire Gufo. «Proba-

bilmente sarebbe impossibile per chiunque, tanto più per due ragazzi. Cosa credete di poter fare? Come pensate di aiutarlo?»

«Non lo so. Ma dobbiamo provare.» Pantera lanciò un'occhiata a Catal-ya. «Ehi, miss Gattina!» la interpellò. «Parlavi sul serio quando dicevi di voler riportare indietro il nostro fratellone da quelle teste vuote? Pensi di avere gli artigli per farlo?»

Lei lo fissò per un istante, poi si avvicinò e lo studiò. «Pensi di potermi essere d'aiuto?»

Pantera sorrise. «Penso che lo scopriremo quando saremo lassù, non credi?»

Catalya consegnò Coniglio a Gufo. «Prenditene cura tu fino al mio ritor-no.» Guardò Pantera. «Io sono pronta, se lo sei tu.»

Nonostante le suppliche degli altri Spettri, si avviarono nella direzione verso cui era stato portato Logan Tom.

Nessuno dei due parlò. Nessuno si guardò alle spalle.

27 Logan Tom venne condotto fuori dell'autostrada, verso gli edifici nasco-

sti fra le basse colline. Coloro che l'avevano catturato si allargarono a ven-taglio attorno a lui per mantenerlo saldamente in mezzo a loro. Lui si co-strinse a non guardarsi alle spalle, in direzione del Lightning e del carro con gli Spettri, cercando di non pensare al futuro, di concentrarsi sul pre-sente e aspettare l'occasione migliore.

Avrebbe potuto fuggire in qualunque momento, ma fuggire significava far correre un pericolo immediato ai ragazzi e lui era convinto di dover trovare il modo di evitarlo. C'era ancora la possibilità che Krilka Koos, chiunque fosse, volesse soltanto parlare, o chiedergli aiuto per qualche

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problema. Doveva tenere conto anche di una simile eventualità. Però il desiderio di colpire, di falciarli con tutta la forza messa a sua di-

sposizione dal bastone nero era quasi irresistibile. Avrebbe potuto disper-dere quegli uomini come particelle di polvere, ridurli in cenere e volare in-dietro a liberare i suoi compagni inermi. Poteva rovesciare la situazione in un istante.

Forse, ma per scatenare una reazione bastava un grido, un colpo, il mi-nimo indizio che qualcosa andava male.

Gli uomini attorno a lui si tenevano a distanza, camminavano tranquilli, seguendo l'uomo che aveva parlato con Logan. Ma il loro atteggiamento indifferente era solo una posa e a tradire le loro vere emozioni erano le oc-chiate di sottecchi che rivolgevano di continuo al Cavaliere quando pensa-vano che non li guardasse. In quegli sguardi si leggeva il timore, ma anche qualcos'altro: un'eccitazione, un'ansia per qualcosa che quegli uomini sa-pevano e Logan Tom no.

Era quella conoscenza segreta a preoccuparlo. Aveva già visto la stessa espressione sulla faccia di altri uomini simili a quelli, e sempre preannun-ciava una nuova forma di spargimento di sangue. Ma lui non poteva tirarsi indietro. Aveva il bastone a proteggerlo, e il suo addestramento di Cavalie-re del Verbo a rassicurarlo. Qualunque cosa lo attendesse, l'avrebbe trovato pronto.

Proseguirono in mezzo alle alture, in direzione degli edifici, perdendo di vista l'autostrada e gli Spettri. Nessuno parlava. Logan pensò una volta o due di fare qualche domanda, poi decise di tacere. Meglio tenere per sé i propri dubbi.

«Davanti a noi» disse l'uomo che gli aveva parlato. «Sapevate che stavo arrivando» ribatté Logan, decidendo di non rimane-

re in silenzio. «Mi stavate aspettando.» L'uomo lo guardò. «Sì, ti stavamo aspettando. Teniamo sotto controllo le

strade per vedere chi passa. Coloro che ci possono essere utili li portiamo qui. Ma la maggior parte li ignoriamo. Non te, naturalmente. Ti abbiamo riconosciuto come Cavaliere del Verbo già a dieci miglia di distanza. Il ba-stone. Impossibile sbagliarsi.»

«Allora fermate solo i Cavalieri del Verbo?» L'uomo sorrise. «Te lo spiegherà Krilka Koos.» Krilka Koos. Anche il solo nome gli suonava odioso, ormai. Logan fece

sparire la rabbia dal viso e cercò di eliminare qualunque espressione. Kril-

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ka Koos avrebbe dovuto spiegargli molte cose. Magari più di quanto si a-spettasse. Girarono attorno a un piazzale asfaltato e si diressero verso un basso fabbricato che in passato doveva essere stato un grande salone-officina per la vendita e la riparazione delle macchine agricole. Sulle pareti di lamiera ondulata si vedevano manifesti sbiaditi che raffiguravano tratto-ri e macchinari di cui Logan non conosceva il nome e in cima a una tozza torretta c'era una banderuola a forma di trattore.

Sul lato più lungo della costruzione, davanti a lui, le porte scorrevoli di metallo erano spalancate, e accanto c'erano gruppetti di uomini. L'interno era debolmente illuminato dalla luce che entrava dalle porte e filtrava da crepe e prese d'aria. Nell'aria girava odore di letame, di spazzatura e di fie-no, intrappolato nella conca tra le alture.

Dietro il primo edificio c'erano molte costruzioni più piccole: case, ma-gazzini, stalle. Più avanti, i resti di un piccolo villaggio, con le abitazioni cadenti, abbandonato e dimenticato da tempo. Il Cavaliere del Verbo stu-diò per un momento le rovine, poi tornò a osservare l'edificio principale. Il terreno che lo circondava era coperto di fango e tutto calpestato, come se vi fossero passati avanti e indietro molti uomini. Non vedeva quegli uomi-ni e se ne chiedeva la ragione. Raggiunsero le porte scorrevoli e l'ingresso al capannone. L'uomo gli fece segno di fermarsi.

«Aspetta qui» gli disse. Lo lasciò in mezzo agli altri uomini che l'avevano catturato ed entrò.

Logan guardò i suoi sorveglianti. Puntavano le armi contro di lui, ma ave-vano la faccia tesa. Decise di non dare loro altre ragioni di preoccupazione. Sedette per terra, a gambe incrociate, con il bastone appoggiato sul grem-bo.

Qualche minuto più tardi, l'uomo che comandava la squadra fece ritorno. «Entra. Krilka Koos ti aspetta.»

Logan Tom si alzò in piedi e gli sorrise. «Tutto solo?» L'uomo rise. «Certo. Non è diverso da te.» Gli strizzò l'occhio. «Ve-

drai.» Logan resistette alla tentazione di trasformare quella strizzata d'occhio in

qualcosa di diverso. Varcò l'ingresso per immergersi nella fusione di om-bre e di luce diffusa che regnava all'interno. I suoi occhi faticarono ad abi-tuarsi al buio mentre osservava il grande ambiente. A tutta prima non riu-scì a vedere nulla, ma lentamente cominciò a distinguere una vasta area circondata da una serie di gradinate di legno spinte contro le pareti. Era stato lasciato uno spazio tra le gradinate in corrispondenza dell'ingresso e

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Logan notò che la pavimentazione era stata asportata, che il terreno era sta-to rastrellato con cura - con amore, si sarebbe detto - e le zolle di terra era-no state frantumate. "Un'arena" pensò.

Passò in mezzo ai palchi e si fermò nel centro dello spazio aperto. Un uomo seduto alla sua destra, sui gradini di legno, alzò la mano per salutar-lo.

«Sei arrivato!» esclamò in tono decisamente allegro. «L'esausto viaggia-tore ha trovato la strada di casa!»

Si alzò e si avvicinò, fischiettando in modo stonato. Era grosso, molto più di Logan, e i lineamenti scuri e solcati dalle rughe indicavano che era anche più vecchio. Aveva i capelli neri, lunghi e non curati, e una folta barba. Ma capelli e barba non riuscivano a nascondere le cicatrici che gli correvano su tutta la faccia come una ragnatela. Una, che sembrava prodot-ta da un laser, saliva dalla bocca a quello che rimaneva dell'orecchio de-stro, e spiccava ancora come una vivida linea rossa. Un'altra tracciava un solco diagonale sulle labbra. Le sopracciglia sembravano essere state can-cellate da una scottatura.

«Aspettavo questo momento» aggiunse con un sogghigno. «Anzi, lo a-spettavo con ansia. Non posso negarlo.»

Indossava abiti grigi e neri di qualche taglia superiore alla sua, sdruciti e lisi, ma gli strappi e le rotture delle cuciture parevano andargli a genio. Non portava armi da fuoco, ma forse non ne aveva bisogno, perché nella destra stringeva un bastone nero coperto di rune, identico a quello di Lo-gan.

«Sono Krilka Koos» annunciò l'uomo. Posò gli occhi sul bastone e sog-ghignò. «Sei sorpreso di scoprire che sono uno dei tuoi?»

Logan annuì. «Se intendi dire che sei un Cavaliere del Verbo, suppongo di sì.»

«Dovresti esserlo. Come potevi immaginarlo? Achille non te l'ha certa-mente detto. Non dice mai nulla ai miei ospiti.»

Achille. Doveva essere il capo degli uomini che l'avevano catturato. «Non ha detto niente neanche questa volta.»

«Come ti chiami?» «Logan Tom.» Krilka Koos gli tese la mano, ma Logan la ignorò. Disse: «Non sono ve-

nuto qui in seguito a un gentile invito, perciò veniamo al sodo. Di cosa si tratta?».

L'uomo rise e allungò con poca grazia il braccio per dargli una pacca

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sulla spalla. «Di cosa si tratta? Ma si tratta di tutto!» Allargò le braccia e il suo sorriso si allargò. «Tutto quello che ha ancora importanza in questo mondo abbandonato da Dio, in questo mattatoio infernale popolato di de-moni ed ex uomini e creature che sono abominazioni troppo terribili per meritarsi un nome. Riguarda l'essere stati cacciati via dalla nostra vita co-me ratti da una nave che affonda. Riguarda l'essere stati costretti a ricostru-ire la nostra esistenza a immagine dei nostri nemici. Riguarda chi dovrà morire e chi dovrà sopravvivere nei giorni che verranno.»

Fece una pausa. Le cicatrici sulla sua faccia erano livide. «Riguarda noi due, Logan. Perché, quando si arriva al dunque, noi siamo tutto quello che conta.»

Logan lo fissò. Krilka Koos si sarebbe potuto scambiare per una persona ancora abbastanza normale, se non fosse stato per gli occhi. Erano occhi che Logan riconobbe all'istante, perché li aveva già visti una volta, dieci anni prima: gli occhi di Michael quando era stato costretto a ucciderlo.

Scosse la testa. «Non so di cosa parli.» Krilka Koos annuì, come se Logan avesse detto una cosa che lui già sa-

peva. «Dagli tempo. Ora, piuttosto, vediamo se riesco a capire quale sei. Quale dei Cavalieri del Verbo ancora vivi. Siamo rimasti in pochi, sai? Una manciata, e anche questa non è una notizia fresca.

«Vediamo. Viaggi con dei bambini. La cosa mi piace. Un uomo con dei bambini lotta per qualcosa di più che per se stesso. E guidi quel Lightning modificato. Indica che hai del talento, delle capacità che gli altri non han-no. Perciò dovresti essere quello che ha distrutto i campi di schiavitù in tutto il Midwest. Liberando i prigionieri in modo che potessero correre a trovarsi qualcun altro che li catturava e li rendeva schiavi una seconda vol-ta. Ho ragione?»

«Può essere. Come fai a sapere di me?» «Le notizie viaggiano, se sai come ascoltarle. Le parole si muovono in

tanti modi. Sono venuto qui alcuni anni fa per farne la mia roccaforte. Ho combattuto per tutto il viaggio dalla costa atlantica, mentre gli oceani si al-zavano, le rive venivano inondate e le città sprofondavano. Poi ho lottato per le città dell'interno e le ho viste cadere a una a una, sotto le armate gui-date dai demoni. Nel frattempo ho eliminato la mia buona parte di demoni ed ex uomini e non mi è dispiaciuto affatto. Ma ce n'erano sempre altri, sempre nuovi. Mi sono stancato, Logan.»

Fece un'altra pausa. Poi riprese: «Non è quello che è successo anche a te? Non sei stanco?».

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«Da un sacco di tempo» ammise Logan. Un cupo sospetto cominciava a farsi strada in lui. «Allora, sei venuto all'Ovest per sfuggire a tutto questo. E sei passato per le montagne?»

«Sì, dai valichi.» «A nord, attraversando quello che una volta era il Montana?» L'uomo sorrise. «Tu sai chi sono, vero? Hai trovato quelle patetiche cre-

ature che venerano gli spiriti della montagna e ti hanno parlato di me.» Logan annuì. I suoi sospetti erano stati confermati. Era il Cavaliere rin-

negato di cui gli avevano parlato gli uomini ragno quando aveva attraver-sato i monti, qualche settimana prima. Era l'uomo che aveva ucciso trenta di loro perché gli impedivano il passaggio.

«Ho saputo che hanno commesso l'errore di farti arrabbiare e che tu ne hai uccisi parecchie decine come ritorsione.»

«Non era una ritorsione» gli disse Krilka Koos, con serietà. «Era una le-zione. La mia reputazione non è qualcosa che posso lasciar rovinare dal primo venuto, e non certo da un branco di ragni. Se lo si venisse a sapere in giro, per me sarebbe finita. Non avevano alcun diritto di fermarmi. Per-ciò ne ho fatto un esempio. Quando mi sono stabilito in questo posto, pronto a iniziare i miei preparativi, la voce era già corsa e coloro che veni-vano a unirsi a me sapevano già che non ci sarebbe stata tolleranza per la disobbedienza. Al posto mio, tu avresti fatto lo stesso. Non dire che non è vero, perché la tua sarebbe una menzogna.»

C'erano molte risposte che Logan avrebbe potuto dargli, ma il modo in cui brillavano gli occhi di quell'uomo gli fece capire che non gli avrebbe dato ascolto. Perciò si scrollò di dosso quella finta indifferenza. Non cer-cava una discussione. Voleva solo andarsene e basta.

«Cosa vuoi da me?» chiese. «Cosa voglio da te?» L'uomo rise di nuovo. «Ma come, Logan! Voglio

che ti unisca a me! Voglio che tu stia al mio fianco quando arriverà il mo-mento di affrontarli!»

«Affrontare chi?» «I nostri nemici! I demoni e gli ex uomini! Gli eserciti che vengono qui

a distruggerci! Smettila di sognare, Logan! Abbattono le fortezze a una a una. Uccidono e rendono schiavi gli abitanti. Devastano ogni cosa alle ra-dici. Alla fine, arriveranno anche qui, e cercheranno di fare lo stesso, ma non lo troveranno tanto facile, quando sarà il momento.» Si sporse in avan-ti con aria da congiurato. «Da quasi tre anni, ormai, mi addestro ogni gior-no, cercando di diventare invincibile. Mi sono messo alla prova. Noi vi-

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viamo in un crogiolo dove il nostro metallo è temprato dal calore greggio del combattimento. Attraversiamo il fuoco e ne usciamo più puri e più for-ti. Più resistenti. Quando giungeranno, i demoni e gli ex uomini e tutti co-loro che vogliono distruggermi, sarò preparato.» Fece una pausa. «Ormai sono pronto.»

«Perché non puoi farlo da solo?» gli chiese Logan, con calma. «Mi pare che te la sia cavata benissimo, finora.»

Krilka Koos lo guardò con durezza. «Non capisci.» Logan annuì. «Forse no. Forse dovresti spiegarmi.» «Uno va bene, ma due sono meglio. Due possono condividere il peso

della lotta, renderla più facile, più sopportabile.» La sua voce si abbassò. Il suo sguardo si perse nella distanza. «Di che u-

tilità sei, almeno per qualcuno, Logan? Tu viaggi qui e là, attacchi un campo di schiavitù dopo l'altro. Lotti con un gruppo di ex uomini o con l'altro, elimini un demone o due, ma dove ti porta tutto questo? Stai meglio di dieci anni fa? E com'è migliorata la vita di coloro che hai cercato di aiu-tare? Non durerà a lungo, lo sai. La tua fortuna. La tua determinazione. Presto o tardi si esauriranno.»

«Ho giurato di servire il Verbo» rispose Logan. «Faccio quello che pos-so, quando posso. Non serve a nulla starsene chiusi nel proprio campo ad aspettare che il nemico ti trovi. Devi uscire a cercarlo. Devi distruggerlo prima che riesca a distruggere te.» Rifletté per qualche istante, poi prose-guì: «E il giuramento che hai fatto quando sei diventato Cavaliere del Ver-bo? Te lo sei scordato?».

L'uomo alzò le spalle. «Un falso giuramento a un falso dio. Una promes-sa fatta senza valutare fino in fondo le conseguenze. Che aiuto ci fornisce il Verbo? Che speranze ci dà? La Signora e l'indiano, dove sono, quando è il momento di affrontare i nemici? Dove sono finiti? No, Logan, noi non abbiamo legami con nessuno, tranne noi stessi.»

Il luccichio dei suoi occhi era diventato più acceso, sulla sua faccia sfre-giata compariva un'espressione rapita. Krilka Koos, qualunque cosa fosse, aveva voltato la schiena alla sua vita di Cavaliere del Verbo e aveva ab-bracciato qualcosa che Logan non sapeva definire. Impugnava ancora il bastone e brandiva il potere del Verbo, ma non serviva più la causa a cui si era dedicato in passato.

Logan scosse la testa. «Non credo che possa funzionare. Tu e io. La tua lotta e la mia non sono le stesse. Tu hai deciso di scegliere una strada, ma non è la mia strada. Io devo seguire la mia.»

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«Quando ti unirai a me, sarai il secondo in comando del mio esercito.» Pareva che Krilka Koos non l'avesse sentito. «Ho continuato ad addestrare i miei seguaci. Sono invincibili, resisteranno a ogni nemico e lo vinceran-no. Sopravviveranno perché non hanno paura di morire, perché sono stati messi alla prova infinite volte. Io non li lascerò morire. Sono migliaia, e al-tri si uniscono a me ogni giorno. Se ti unirai anche tu avrai la possibilità di compiere qualcosa d'importante, la possibilità di influire sull'esito dello scontro. Non perderai più tempo e fatica per coloro che non li meritano. I campi di schiavitù sono stati costruiti per le pecore. Noi due siamo lupi! Noi ci rivoltiamo e combattiamo! Noi facciamo quello che i Cavalieri del Verbo avrebbero dovuto fare già da tempo. Lasciare le pecore al loro de-stino e comportarci da guerrieri.»

Logan scosse di nuovo la testa. «Il bastone ci è stato dato per aiutare quelle pecore. È il nostro debito verso di loro.»

«Noi non dobbiamo niente a nessuno!» gridò all'improvviso l'altro, e le sue parole echeggiarono contro le pareti di metallo del capannone. «Nes-suno! Abbiamo già provato quella strada ed è stata un fallimento! Siamo stati quasi sterminati nel tentativo di salvare quelle pecore, quelle misera-bili creature che non volevano neppure lottare per se stesse. Abbiamo per-so abbastanza tempo con loro!»

Logan sapeva già dove si sarebbe arrivati, ma non poteva fare niente per cambiare la situazione. «Non posso unirmi a te» gli disse, semplicemente.

Krilka Koos, rosso in faccia per l'eccitazione, lo fissò per un lungo istan-te. «Potresti voler ripensare a questa risposta. Vieni con me.» Accompagnò Logan fino a un angolo del capannone, dietro le gradinate, dove le ombre erano profonde e stratificate. C'era una sorta di nicchia, una rientranza del-la parete, alta cinque metri e larga dieci. Logan vide quella che sembrava una serie di attrezzi, fissati con viti e anelli alla lamiera ondulata, tutti or-dinatamente disposti.

Krilka Koos si accostò alla parete e aprì un lucernario per illuminare l'ambiente.

Logan rimase a bocca aperta. La parete in fondo alla nicchia era decorata di armi, da Parkhan Spray e Tyson Flechette a lance, coltelli e spade, stelle da lancio, punte avvelenate e centinaia d'altre. Al centro della collezione c'erano tre bastoni neri coperti di rune, la loro superficie, un tempo lucida, era opaca e senza vita, i simboli di potere grigi e freddi come cenere.

Logan rivolse un'occhiata a Krilka Koos. «Non ti sbagli» rispose l'uomo, alla sua muta domanda. «Appartenevano

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a Cavalieri del Verbo, uomini e donne che stavano dove stai tu adesso. Uomini e donne che hanno dato voce all'oscurità del loro cuore. Gli è stato chiesto di unirsi a me. Hanno rifiutato. Il prezzo del rifiuto è talvolta più alto di quello che immaginiamo.»

«Tu li hai uccisi?» chiese Logan, incredulo. «Altri Cavalieri del Verbo? Li hai uccisi?»

Krilka Koos scosse la testa. «Non come pensi tu. Io non lo farei. Io non sono fatto così. Sono stati loro a uccidersi.»

Si portò davanti a Logan e lo fissò negli occhi. «Ho chiesto loro di unirsi a me, proprio come adesso lo chiedo a te. Per una ragione o per l'altra, hanno detto di no. Sono stati sciocchi. In questo mondo devi decidere da che parte stai. Non puoi sottrarti.»

Puntò il dito contro Logan. «Se non sei con me, allora inevitabilmente sei contro di me. Forse non oggi, non subito, ma prima o poi lo sarai. Il po-tenziale è in te, inutile fingere che non sia così. Coloro che non sono nostri amici sono i nostri prossimi nemici. Non possiamo permetterci di lasciar fuggire i nostri nemici. Saremmo sciocchi se lo facessimo.»

Logan capiva il senso, ma faticava ancora a rendersi conto di quello che udiva. «Hai detto che si sono uccisi da soli?»

«In un certo senso. Li ho usati per misurare la mia forza e la mia abilità. Ho concesso loro la scelta tra unirsi a me o mettersi alla prova contro di me in combattimento.»

Logan per poco non scoppiò a ridere. Se Michael, alla fine, era impazzi-to, Krilka Koos era andato al di là. «Li hai costretti a lottare contro di te?»

L'uomo annuì. Non sorrideva più. «Se decidi di non stare con me, allora decidi di stare contro di me. La questione viene regolata mediante una pro-va di forza. La tua contro la mia. Giudizio per ordalia. La giusta decisione è la tua di non unirti a me o la mia di insistere perché tu lo faccia? Un du-ello fino alla morte lo deciderà. Niente di nuovo. È stato un metodo accet-tato da tutti, per decidere il torto e la ragione, per migliaia di anni.» Indicò la parete. «Quei tre - e tutti gli altri le cui armi sono appese qui, coloro che non erano Cavalieri del Verbo ma che hanno scelto ugualmente il combat-timento - hanno lottato e sono morti in quest'arena. Io ero il più forte, il meglio addestrato, il più preparato. Sono quello che ha vinto.» S'interrup-pe. «Ero quello che aveva ragione. Loro avevano torto.»

Incrociò le braccia sul petto. «Adesso tocca a te decidere, come è toccato a loro. Vuoi mettermi alla prova?»

Logan scosse la testa, mentre un pesante senso di disperazione gli si

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gonfiava nel cuore. Avrebbe dovuto cercare di liberarsi prima, avrebbe fat-to meglio a correre il rischio. «Voglio tornare dove mi avete trovato, pren-dere i miei bambini e andarmene. Lasciami fare così.»

L'uomo scosse la testa. «Scegli. Unisciti a me o lotta contro di me. Non hai alternative.»

«Questo discorso non ha alcun senso. A che può servire che i Cavalieri del Verbo si combattano tra loro? Abbiamo lo stesso nemico. Lasciami an-dare. Lasciami condurre la lotta nel modo che mi sembra migliore. E io la-scerò fare lo stesso a te. Perché non possiamo agire in questo modo?»

Krilka Koos gli rivolse un sorriso triste. «Perché il combattimento è il modo con cui si risolve tutto, Logan. Perché il mondo sta finendo e la bat-taglia per salvarlo l'abbiamo persa. Quello che ci resta, nel tempo che ci resta, è la possibilità di scoprire il nostro valore. Dobbiamo rimanere inerti ad aspettare la morte come le pecore che sei tanto ansioso di servire? O morire combattendo, da uomini come siamo? Nel tuo cuore, sai la risposta. Noi siamo gli ultimi e i migliori. Quanto valiamo? Mettendoci uno contro l'altro, possiamo scoprire la verità.»

Logan scosse la testa. «Io non voglio combattere contro di te. Non lo fa-rò.»

«Credo invece di sì. Penso che tu non ti conosca bene quanto immagi-ni.» Mosse le braccia e soffiò in un fischietto che portava al collo. «Giudi-zio in duello. A morte. Hai un'ora per prepararti. Achille ti terrà compagnia fino ad allora. Non cercare di fuggire. Se cercherai di farlo, sai già cosa succederà ai tuoi bambini. E la colpa sarà tua. Se mi sconfiggi, avrai il permesso di prenderli e andartene. Sono le regole che ho stabilito e i miei uomini le rispetteranno.» Scosse la testa. «Avrei preferito che ti unissi a me, naturalmente. Ma anche ucciderti sarà emozionante. Un'ora.»

Si allontanò e fece segno ad Achille e alle guardie che erano accorse quando aveva suonato il fischietto.

«Quello che non ci uccide ci rende più forti, Logan Tom» gli disse anco-ra, mentre si allontanava. «È un vecchio modo di dire, cerca di pensarci.»

Logan lo vide scomparire nel buio, dimentico di tutto il resto del mondo. Era proprio come Michael alla fine, pazzia galoppante.

«Hai deciso?» gli chiese Achille, a bassa voce, fermandosi davanti a lui.

«Lo affronterai in duello?» Logan lo guardò disgustato. «Lui pensa che lo farò.» Scosse la testa.

«Non capisco. Perché lo segui?»

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Sotto il ciuffo di capelli neri, la faccia di Achille aveva un aspetto cada-verico. «Non è ovvio? Perché è invincibile.» Indicò la parete coperta di armi. «Perché vince in combattimento contro tutti coloro che gli si oppon-gono. Nessuno è mai riuscito a sconfiggerlo. E nessuno lo sconfiggerà mai. Né i demoni né gli ex uomini. Neppure gli altri Cavalieri del Verbo. È troppo forte anche per loro.»

Diede a Logan una lunga occhiata. «Vedrai. Sarà troppo forte anche per te.» Con un sorriso triste, distolse gli occhi da lui. «Tu non lo conosci co-me noi che lo seguiamo. Ci ha dato speranza quando non ne avevamo più. È colui che ci salverà tutti.»

28

Da dietro i cespugli che lo nascondevano, Pantera spiava i movimenti

degli uomini raccolti davanti al capannone, ma non scoprì alcun indizio della sorte toccata a Logan Tom.

«Da quanto è lì dentro?» sussurrò a Catalya. Lei scosse la testa. Un movimento pressoché impercettibile. La ragazza

era appiattita sul terreno accanto a lui. «Cosa credi che stia succedendo?» La ragazza scosse di nuovo la testa. «Allora, cosa facciamo?» Cat lo guardò. «Non hai un piano?» ribatté. «No! Pensavo che ce l'avessi tu!» Pantera la guardò irritato, aggrottando

la fronte. «Perché dovevo avere un piano? Questa idea era tua!» «Non quella di portarti dietro.» «Ma quella di venire qui è tua!» Catalya non rispose e Pantera tornò a fissare l'ingresso del magazzino,

cercando di cogliere qualche movimento nell'oscurità. Niente. Per quanto ne sapeva, Logan Tom poteva essere stato gettato in

un pozzo e potevano avere buttato via la chiave. Erano nascosti su un'altura, di fianco all'ingresso del capannone, al sicu-

ro, a un livello più alto di quello degli edifici e della città fantasma. Imma-ginando che dovevano aver visto arrivare il Lightning lungo l'autostrada, Pantera e Catalya avevano preferito seguire il percorso degli uomini che trascinavano via Logan Tom, pensando che se anche l'autostrada era sor-vegliata, la strada per la loro fortezza poteva non esserlo. Fino a quel mo-mento avevano avuto ragione. Non avevano visto nessuno e non erano stati

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fermati mentre si muovevano lungo i burroni e gli avvallamenti che ser-peggiavano attraverso quelle alture. Alla fine avevano raggiunto la zona alberata occupata dal gruppo.

Ma adesso che avevano trovato il nascondiglio perfetto, un punto da do-ve potevano vedere senza essere visti, non sapevano cosa fare.

Almeno, Pantera non lo sapeva. Diede un'occhiata a Catalya. Difficile dire cosa pensasse lei.

Studiò la sua faccia chiazzata. Strana, di primo acchito, ma una volta che ci si abituava alle macchie di pelle di lucertola, neanche brutta. Era diversa come lo era Tessa, strana, unica. Aveva i capelli neri come Tessa, ma la pelle chiara come Gesso. Pantera non riusciva a spiegare l'attrazione che provava per lei. Naturalmente, in parte era dovuta al modo in cui attaccava. Qualsiasi ragazza in grado di mettere fuori combattimento tre uomini con la sua stessa velocità era qualcosa di speciale. Neppure Passero era capace di farlo. La studiò ancora. Non riusciva a staccare gli occhi. Non voleva staccarli. Si chiese perché Cat si desse tanto da fare per suscitare repulsio-ne.

Lei si girò di scatto e gli rivolse un sorriso ironico. «Non riesci proprio a togliere gli occhi da me?»

Lui distolse lo sguardo, arrossendo per l'imbarazzo. "Stupida mutante" pensò, ma soffocò subito quel pensiero. Era sbagliato chiamarla così, an-che senza pronunciare ad alta voce le parole. Sbagliato pensarla così, dop-piamente sbagliato sottintendere che ci fosse in lei qualcosa di negativo so-lo per il suo aspetto.

Si biasimò per quella sua abitudine di dire le cose, anche tra sé e sé, sen-za prima averle meditate a fondo. Si biasimò perché lo faceva sempre. Come quando Logan Tom aveva portato la ragazza al loro accampamento. La prima cosa che aveva fatto era stata chiamarla "mutante". La sua bocca era stata più veloce del cervello, come se non ci fosse collegamento tra i due. Passero lo redarguiva sempre per quell'abitudine e così pure Fiume, e di tanto in tanto avevano ragione. Se lo meritava. Se l'era cercata.

«Mi dispiace di aver detto quelle cose di te, prima» le confessò d'impul-so. Mentre lo diceva non aveva il coraggio di fissarla negli occhi. «Non dovevo insultarti. Non te lo meriti. Non volevo veramente dirlo. Ero solo stupido.»

«Passami la tua Spray» rispose lei, quasi come se non ascoltasse. Pantera esitò, sorpreso dalla richiesta, poi le passò l'arma. Catalya la pre-

se e se la infilò in fretta sotto il mantello, poi, per fissarla dopo averla na-

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scosta in una delle tasche, fece qualcosa che il ragazzo non riuscì a vedere. «Ehi!» protestò. «Cosa fai?» Lei lo guardò e gli strizzò l'occhio. «Ti metto in salvo da te stesso. Te la

ridarò quando ne avrai bisogno.» Sotto di loro, lo spazio davanti al capannone cominciava a riempirsi di

uomini e donne, tutti stracciati e male in arnese, ma tutti armati. Parvero comparire dal nulla, ma in realtà provenivano dalle costruzioni più piccole e dalle colline. Tutti parlavano e sembravano molto eccitati. Si dirigevano in massa verso le porte aperte del capannone ed entravano.

«Cosa succede?» chiese Pantera. Cat si girò verso di lui. Non sorrideva più. «Adesso lo scopriremo. Non

lasciarti prendere dal panico, ci hanno visti. Sono dietro di noi.» Lui la fissò, credendo che scherzasse, che fosse un'altra ironia a sue spe-

se. Fece per risponderle qualcosa, ma lei si portò un dito alle labbra. «Fermi dove siete» ordinò una voce. Pantera sentì un tuffo al cuore. «Cosa credete di fare?» chiese un'altra voce. «Cerchiamo solo qualcosa da mangiare» rispose Catalya, in tono spa-

ventato e disperato. «Non facciamo niente di male. Ti prego, signore, non mangiamo da giorni.»

«Bambini di strada» disse una terza voce. «E quella è una mutante, guarda che faccia. Non toccarla.»

Pantera fece per girarsi. «Ti ho detto di non muoverti» ordinò il primo degli uomini. Adesso si era avvicinato. Il giovane sentì contro la guancia la canna gelida di un'arma.

«Lasciaci andare, signore» supplicò Catalya, che cominciava a piangere. «Penso proprio di no» rispose il primo uomo «finché non saprò qualcosa

di più su voi due. Penso che fareste bene a venire con noi. Alzatevi, ma niente movimenti bruschi.»

Pantera era furioso. "Lo sapevo!" pensava. "Non avrei dovuto darle la Spray!"

«Presto» lo incitò il secondo «o perderemo lo spettacolo.» La canna si allontanò dalla faccia di Pantera. Mentre i due ragazzi si alzavano, Catalya diede a Pantera un'occhiata,

una strizzata d'occhio e sussurrò: «Fidati di me». Poi, rivolta a coloro che li avevano catturati disse con voce tremante: «Che razza di spettacolo, si-gnore?».

"Spero che sappia quello che fa" pensò Pantera, acido.

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Quando l'ora concessa a Logan era quasi scaduta, Achille gli portò u-

n'armatura logora e piena di ammaccature, che ovviamente era stata usata moltissimo. I pezzi erano coperti di segni di colpi e alcuni avevano qual-che crepa. Logan gli disse che non voleva mettersela, anzi non voleva nep-pure quel combattimento, ma l'altro insistette perché la indossasse. Krilka Koos intendeva portare un'armatura e non ammetteva differenze, nella pro-tezione o nelle armi, che dessero un vantaggio a un duellante o all'altro. Entrambi dovevano indossare la stessa armatura e impugnare le stesse ar-mi.

Logan si lasciò vestire. Le piastre sul petto e sulla schiena, le protezioni del braccio e del gomito, e quelle per le cosce e il ginocchio, con doppi rin-forzi alle giunture della spalla con le braccia e dei fianchi con le cosce. L'armatura era leggera e robusta, di una lega perfezionata negli ultimi giorni della guerra che aveva visto la fine dell'organizzazione statale e dei suoi eserciti. Michael ne aveva posseduto una, Logan no.

Terminata la vestizione venne lasciato solo, con l'armatura che lo strin-geva leggermente e le mani serrate sul bastone, la collezione di armi da-vanti a sé. Logan continuava a chiedersi come potesse essere successo, a ripetersi che non aveva alcun senso. Era quello che aveva pensato fin dal primo momento che Krilka Koos gli aveva comunicato le sue intenzioni e ancora adesso, mentre stava per scontrarsi con il Cavaliere rinnegato, non riusciva ad affrontare la realtà della situazione.

Gli pareva irreale, un sogno da cui poteva svegliarsi da un momento al-l'altro, anche quando sentì giungere le voci dall'esterno del capannone, sempre più forti e numerose, e poi dall'interno, unite a grida ed esclama-zioni; anche quando sentì il rumore degli stivali che salivano sulle gradina-te e delle mani che battevano ritmicamente a mo' di incoraggiamento. An-che quando la cacofonia fu così intensa da cancellare ogni altro suono e lo assalì con le sue ondate di ferocia e di frenesia Logan non trovò niente di stabile a cui afferrarsi. Era in mare, trascinato via dalle correnti, e ogni co-sa attorno a lui si faceva sempre più remota.

Come poteva prepararsi per una battaglia che non voleva combattere? La domanda gli vorticava nella testa con l'insistenza del bagliore delle esplo-sioni solari viste da dietro le nubi. Si chiese se era quello l'epilogo della sua esistenza, del suo servizio a favore del Verbo, dei suoi sforzi per trova-re e proteggere il ragazzo Falco, della difesa degli Spettri, di tutto quello che non aveva ancora portato a termine nella sua vita. I Cavalieri del Ver-

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bo non avevano vita lunga, ma Logan Tom, in qualche modo, aveva sem-pre creduto di poter sopravvivere un po' di più.

«Ci siamo» gli disse all'improvviso Achille avvicinandosi a lui. Logan lo guardò, scorse il pallido sorriso sulla sua faccia e capì che nes-

suno pensava, neppure per un minuto, che potesse uscire vivo dall'incon-tro.

«Cosa devo fare?» gli chiese. «Entra nell'arena. Troverai Krilka ad aspettarti. Quello che succederà

poi, dipende da voi due.» Fece un passo indietro. «Buona fortuna» In realtà però, pensò Logan, gli aveva detto "addio". Diede un'ultima occhiata alle armi della collezione e per un momento

pensò agli uomini, e probabilmente anche donne, che le avevano impugna-te in duello. Guardò ancora una volta i tre bastoni coperti di rune che erano appartenuti ad altri Cavalieri del Verbo, opachi e inerti nei loro anelli di metallo, privi di ogni potere da quando il loro proprietario aveva perso la vita. Certo quei Cavalieri non avevano cercato lo scontro più di quanto non l'avesse cercato lui. Era un'oscenità che fossero finiti così.

Krilka Koos uccideva per convincersi della propria superiorità. Uccideva perché i suoi seguaci lo credessero invincibile, il suo giuramento come Cavaliere del Verbo era stato sovvertito. Logan sentì montare dentro di sé una gran rabbia. Krilka Koos non avrebbe mai smesso, a meno che qual-cuno non lo facesse smettere.

A meno che lui non lo facesse smettere. Strinse nelle mani il bastone, respirò a fondo ed entrò nell'arena. Il ruggito che salutò il suo arrivo per poco non lo fece cadere all'indietro. Urla di attesa si levarono dalla gola di centinaia di uomini e donne. Tutti

battevano i piedi sulle pedane, applaudivano o picchiavano qualche ogget-to sui sedili di metallo. I fedeli si erano riuniti in forze, per assistere alla sua sconfitta per mano del loro capo, salvatore ed eroe da circo. Logan sentì lo stomaco chiudersi e la paura scorrergli nelle vene. Non era immu-ne a questa emozione. Aveva sfidato cento volte la morte nelle sue incur-sioni contro i campi di schiavitù, ma non l'aveva mai affrontata in una si-tuazione simile. Sentì un nodo alla gola mentre il clamore della folla lo colpiva come un'onda oceanica che voleva sommergerlo e affogarlo.

Ma a raggelargli il sangue fu la quantità di Divoratori che si ammassa-vano intorno alle gradinate e su tutti i gradini, forme nere che si agitavano in ansiosa attesa di quello che stava per avvenire. Non ne aveva visti così tanti da quando il giovane Falco era stato gettato dalle mura della fortezza

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di Seattle. Ce n'erano centinaia, in attesa dello spargimento di sangue. In attesa della possibilità di bere il dolore e la sofferenza di tutte le emozioni cupe che si sarebbero riversate dai combattenti.

Era una battaglia tra Cavalieri del Verbo e non ci sarebbe mai stata un'altra occasione di partecipare a un simile banchetto. Nessuno poteva vederli, tranne lui e Krilka Koos. Nessun altro avrebbe mai saputo della lo-ro presenza.

Logan sentì lo stomaco stringersi a quel pensiero. Krilka Koos lo attendeva all'altra estremità dell'arena. Era vestito nero e

di grigio, abito e armatura dello stesso colore, e teneva con naturalezza il bastone sotto il braccio, ma già le sue rune brillavano di un rosso cupo. Aveva l'aria di un uomo che non è spaventato né ansioso. Aspettava senza dare segni di impazienza o di attesa. Per lui era solo una lotta delle tante, un'uccisione delle tante. Sarebbe stata un po' diversa dalle altre perché Lo-gan Tom era un Cavaliere del Verbo, ma niente di più. L'esito era già sta-bilito. La sicurezza gli si leggeva in faccia.

Attese, pienamente esposto e senza protezione, che Logan fosse entrato nell'arena, poi allargò invitante le braccia.

«Vieni a combattere con me, Logan Tom!» gridò. «Vieni a metterti alla prova!»

La folla ruggì in risposta, e il suono rimbalzò sul soffitto facendo trema-re le pareti di metallo. I Divoratori saltarono l'uno sull'altro nella frenesia di avvicinarsi. Logan fissò l'ingresso da cui era entrato e pensò ancora alla possibilità di una fuga. Gli uomini che servivano Krilka Koos erano quasi tutti raccolti in quel capannone per vedere lo spettacolo e non avrebbero potuto impedirgli di raggiungere gli Spettri, se fosse riuscito a raggiungere quella porta.

Ma per uscire, Logan avrebbe dovuto farsi strada in mezzo a file di uo-mini e donne, almeno una decina, e per di più voltare la schiena a Krilka Koos. Non vedeva molte possibilità di successo.

Rinunciò a quell'idea e diede un'occhiata all'avversario. La sua faccia piena di cicatrici brillava nell'ansia dell'attesa e il bastone nero era diretto contro di lui, adesso, orizzontale e pronto per l'uso. Logan scosse la testa e iniziò a dire: «Perché non possiamo risolverla in...».

Fu tutto quello che riuscì a pronunciare prima che il fuoco del Verbo, brandito dal suo servitore rinnegato, lo colpisse con la forza di un maglio e lo scagliasse lontano, ruzzoloni. L'intensità dell'attacco fu sconvolgente. Il dolore gli squassò tutto il corpo e gli tolse il respiro, lasciandolo senza fia-

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to e ansimante. Per poco non perse la presa sul bastone, solo l'istinto e la disperazione gli impedirono di lasciarlo.

Ma l'attacco ebbe anche un altro effetto. Cacciò via da lui ogni esitazio-ne e ogni dubbio, cancellando in un attimo qualsiasi considerazione, tranne una.

Nella sua mente urlava una parola, severa e imperiosa: "Sopravvivi!". L'allenamento e l'istinto presero il comando e Logan rotolò su se stesso e

si alzò in piedi con un unico movimento fluido. Non si preoccupò di difen-dersi contro quello che stava arrivando e, invece, attaccò. Richiamò la ma-gia e la scagliò dall'altra parte dell'arena, contro Krilka Koos, con ogni grammo di forza in suo possesso. Vide il fuoco colpire l'uomo più alto di lui, urtarlo e farlo barcollare con la sua potenza.

Ma non fece granché di più. Non lo scagliò a terra come Logan Tom a-veva sperato. Non spezzò le sue difese e non intaccò la sua sicurezza. An-zi, la rese ancora più forte. Krilka Koos si scrollò di dosso gli effetti del colpo, recuperò l'equilibrio e sollevò le braccia in un gesto di trionfo, quasi come se pensasse di avere ormai vinto il duello.

La folla ruggì approvando e batté le mani, pestò i piedi, ancora più forte di prima. Sparsi in mezzo alla folla e invisibili, i Divoratori si lanciavano in avanti e poi si ritraevano come cani rabbiosi.

Logan era di nuovo in piedi e teneva il bastone puntato protettivamente davanti a sé, aveva alzato tutte le sue difese. Krilka Koos sorrideva e, per derisione, lo sfidava ad avvicinarsi. I due uomini giravano l'uno attorno al-l'altro, facendo finte e senza attaccare, e ciascuno cercava una debolezza nel modo di combattere dell'altro.

Logan, che aveva abbandonato ogni riluttanza insieme alla speranza di ricondurre alla ragione l'avversario, era deciso a mettere fine all'incontro il più in fretta possibile.

Ma fu Krilka Koos a colpire adesso, ancora senza preavviso, ancora fin-gendo di voler solo spostare leggermente la sua posizione. Colpì i piedi di Logan, una folgore incandescente che scaturì dalla punta abbassata del suo bastone, sfiorò il terreno e si avvolse intorno alle caviglie di Logan, bru-ciandolo anche attraverso gli stivali e facendolo cadere in ginocchio. Subi-to il Cavaliere rinnegato colpì una seconda volta, prendendo di mira la te-sta.

Logan riuscì a ripararsi dal colpo all'ultimo momento, difendendosi in ginocchio, incapace di alzarsi perché aveva le gambe e i piedi insensibili.

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Alzò una cortina di fuoco del Verbo in modo da formare uno scudo che spezzò in varie parti il colpo destinato a staccargli la testa, e anche se i suoi piedi non avevano riacquistato la sensibilità, si mise a sedere sui talloni.

«Avanti Logan Tom!» gli gridò Krilka Koos. «Di sicuro puoi fare qual-cosina di più!»

In risposta a quelle parole, dalla folla uscirono insulti, grida, fischi e de-risioni di tutti i tipi. Logan li udiva appena, cercava di raccogliere i pensie-ri e nello stesso tempo di rimettersi in piedi. Stava perdendo quel duello. Doveva rivolgere l'attacco contro Krilka Koos. Cosa gli aveva insegnato, Michael, che si potesse usare adesso? Che potesse tenerlo in vita?

Il Cavaliere rinnegato attaccò di nuovo. Il fuoco del suo bastone costrin-se di nuovo Logan a indietreggiare. Questa volta verso la prima fila di se-dili. Alcune mani brusche lo allontanarono, pugni e calci lo colpirono sulle spalle e alla schiena. Si era appena ripreso, quando il fuoco lo colpì ancora. Le sue difese erano deboli e disperse, la sua concentrazione infranta dal dolore e dallo shock di quanto gli stava succedendo. Finì in ginocchio an-simante, assalito da ondate di nausea. Sentì il primo Divoratore su di sé. Il suo tocco era come quello di una foglia bagnata sulla pelle rovente.

"Fa' qualcosa!" gridò a se stesso. Ma non riusciva a immaginare cosa. «Scusa, signore, ma cosa sta succedendo lì dentro?» chiese Catalya, con

la sua voce da bambina spaventata. Alzò le mani e si coprì le orecchie. «Che chiasso!»

Pantera avrebbe voluto alzare gli occhi al cielo, ma li tenne fissi sull'in-gresso del capannone, mentre gli passavano davanti diretti verso la prigio-ne, qualunque fosse, dove intendevano rinchiuderli coloro che li avevano catturati. Le pareti metalliche dell'edificio vibravano per il rumore di urla rauche e di piedi battuti. Dagli sfiatatoi e dalle brecce nella lamiera usciva del fumo e il buio che regnava all'interno della costruzione era interrotto di tanto in tanto da lampi di luce vivida. Davanti all'entrata c'era un ammasso compatto di corpi, che impedivano di vedere lo spettacolo che aveva fatto accorrere tutti laggiù.

In ogni caso, che lo vedesse o no, Pantera si era fatto una buona idea di quel che stava succedendo all'interno.

«A voi non deve interessare quello che succede lì dentro» disse alla ra-gazza uno degli uomini, mentre l'altro, per buona misura, dava uno spinto-ne a Pantera. «Basta che vi muoviate. Sbrigatevi!»

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«Finiremo per perderlo!» brontolò il suo compagno, furibondo. «Perde-remo tutto!»

Si lasciarono alle spalle l'ingresso, girarono l'angolo e si diressero verso alcuni edifici più piccoli, raggruppati vicino al fondo della strada. Pantera aveva un coltello nascosto in uno stivale, ma non sapeva come raggiunger-lo. E anche se fosse riuscito a recuperarlo, non sapeva come servirsene per eliminare i due avversari. Aveva bisogno della Spray, ma l'arma era al si-curo nel mantello di Cat, che i loro carcerieri si erano guardati bene dal perquisire, aggiunse tra sé, con amarezza. Erano così spaventati dalla sua malattia, di qualunque malattia si trattasse, che si erano occupati soltanto di lui. "Maledette teste di legno" pensò.

Erano arrivati alle costruzioni. «Bene, voi vi fermate qui» disse uno dei due, accostandosi alla porta più vicina e sciogliendo una catena infilata tra due anelli metallici.

«Volete chiuderci qui dentro?» chiese Cat, inorridita. «Proprio così, faccia di lucertola» rispose lui, con un sogghigno. «Qui

non ti darà fa...» Cat mosse di scatto il braccio e una stella d'acciaio si piantò nel petto

dell'uomo, che finì scompostamente a terra. Il secondo uomo lo guardò, in-credulo, poi cercò di alzare l'arma. Ma ormai la seconda stella si era già conficcata nel suo collo. Emise un suono strangolato, si portò la mano alla gola e cadde a sua volta.

Né Pantera né Cat dissero una parola mentre trascinavano i due uomini all'interno della baracca, chiudevano la porta e li imprigionavano dentro passando la catena tra gli anelli.

Il ragazzo si voltò verso di lei. «Sapevi che stavamo per essere catturati da questi idioti, ma hai lasciato che succedesse?»

«In che altro modo potevamo arrivare così vicino?» Gli diede un'occhia-ta di rimprovero. «Che pensavi, di poter arrivare fin qui senza essere visti, forse? Non sai proprio niente? Come hai fatto a sopravvivere fino a oggi?»

«Sono sopravvissuto benissimo, finché non ho incontrato te!» ribatté Pantera.

Lei frugò sotto il mantello, sciolse i lacci che la legavano, estrasse la Parkan Spray e la passò al compagno. «Tieni. Magari riuscirai a sopravvi-vere anche questa volta. Se farai attenzione a quello che faccio io.»

«Perché, adesso hai un piano?» Lei sollevò il cappuccio per nascondere la faccia. «Certo. Entriamo, lo

troviamo, lo tiriamo fuori. Che te ne pare?»

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Lui la fissò: «Mi pare una follia». «No. Abbiamo il vantaggio della sorpresa.» Pantera la fissò ancora per qualche istante, poi sospirò. «Non so perché

mi aspetto qualcosa da te. Va bene, andiamo.» Lei si lanciò di corsa attraverso il terreno vuoto. Logan Tom era di nuovo in piedi, il suo bastone aveva evocato ancora

una volta la magia del Verbo. La difesa, una difesa con molte falle, lo pro-teggeva come meglio poteva. I Divoratori che avevano cercato di assalirlo erano stati ricacciati indietro, contro le gradinate. Non che questo gli desse la sicurezza di essere vivo cinque minuti più tardi. Dall'altra parte dell'are-na, Krilka Koos stava già festeggiando la propria vittoria, aveva ripreso a sfidarlo, facendogli la posta come un predatore fa la posta a un animale fe-rito. Logan sapeva di avere bisogno di un piano, qualche modo per coglie-re con la guardia abbassata l'uomo più grosso di lui, qualche modo per an-nullare la sua forza e il suo potere. Doveva richiamare alla mente tutte le lezioni che Michael gli aveva impartito sul combattimento corpo a corpo. Ma ferito e sofferente, costretto a lottare per non andare in pezzi, trovava difficile ricordare qualcosa.

«Logan Tom! Sei ancora vivo, laggiù?» Krilka Koos rise, fece ironica-mente una finta, poi un passo di lato, come se volesse scansare un imma-ginario contrattacco. «Non penso che sia rimasto molto, di te! Vuoi farla finita in fretta? O vuoi trascinare in lungo le cose?»

Troppo sicuro della propria vittoria, Krilka Koos rivelò qualcosa che non voleva rivelare. Logan lo osservava mentre fintava e si spostava, fin-tava e si spostava, e si accorse che nei suoi movimenti c'era uno schema ri-corrente. Se fosse riuscito ad approfittarne, forse avrebbe avuto una possi-bilità.

Senza lasciar trapelare il suo stato mentale e le sue intenzioni, cominciò ad avanzare verso l'altro uomo. Koos non poteva indovinare il suo piano; i movimenti di Logan non parevano indicare un attacco. Anzi, poteva sem-brare una sottomissione, una rassegnazione al suo destino.

«Ne hai abbastanza?» gridò. Era quello che prevedeva, quello che, se-condo lui, Logan desiderava. «Butta a terra il tuo bastone e prometto di fi-nirti in fretta!»

Continuò a giocare con il suo prigioniero, riprese a fintare e a ritirarsi. Ma questa volta, Logan lo aspettava al varco. Quando Koos iniziò la sua

finta, Logan evocò in fretta la magia e la scagliò sotto forma di una sfera di

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fuoco nel punto dove l'uomo sarebbe giunto nella sua ritirata, ormai com-pletamente prevedibile.

Krilka Koos si portò proprio in quel punto, poi, all'ultimo istante, accor-tosi di quello che stava succedendo, cercò di cambiare direzione, ma era già in movimento ed era troppo tardi. Il fuoco abbagliante del Verbo lo raggiunse, colpendolo in pieno, facendogli perdere l'equilibrio e scaglian-dolo nella polvere.

Logan si lanciò all'istante su di lui, attraversando di corsa lo spazio che li separava e usando la magia non per attaccare, ma per proteggersi. Come aveva previsto, Koos cercò di colpirlo da terra, per fermarlo mentre era in corsa, ma le difese di Logan, rafforzate dalla sua furia e dalla sua determi-nazione, riuscirono a resistere.

Sentì il ruggito della folla che li circondava e quel suono rafforzò la sua decisione perché rivelava lo sbigottimento per l'improvvisa svolta degli avvenimenti.

Poi fu sopra Koos e cominciò a usare il bastone come una mazza, abbat-tendolo sulle braccia e sul corpo in colpi rapidi e secchi, cercando di aggi-rare i tentativi di bloccarlo. Ottenne il risultato di sentire Krilka Koos gru-gnire di dolore, ancora steso sulla schiena e incapace di alzarsi.

Non gli permise di rimettersi in piedi. Non poteva farlo, se voleva so-pravvivere. Era circondato dai Divoratori, che erano saliti su tutt'e due, e lottavano tra loro per portarsi più vicino, per succhiare le emanazioni della loro lotta. Intensificò l'attacco, raddoppiando la quantità dei colpi, con il fuoco del Verbo che sprizzava da entrambe le estremità del suo bastone in reazione alla sua collera. Il fuoco scaturiva anche dal bastone di Krilka Koos, ma il Cavaliere rinnegato non riusciva a concentrarlo su di lui.

Poi, forse per la disperazione, Koos rotolò su se stesso per raggiungere Logan, con una mano cercò di afferrargli le gambe, nel tentativo di rove-sciarlo a terra. Lasciò perdere ogni parvenza di attacco con il bastone, lo schiacciò contro il proprio corpo servendosi del braccio libero, e invece di affidarsi alla magia, si affidò alla sua forza superiore. Incassò la testa tra le spalle, proteggendola come meglio poteva, e cercò di colpire.

Logan non riuscì a liberarsi e si accorse di perdere l'equilibrio. Quando finì a terra, Krilka Koos fu immediatamente sopra di lui, lo col-

pì con il bastone e i pugni. I colpi esplosero nella testa di Logan, che per un momento temette di perdere conoscenza. Rimase in vita grazie all'istin-to e all'allenamento, seppellendo la testa contro la spalla dell'avversario e cercando con le dita, nel collo dell'uomo, un fascio di nervi sensibili.

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Krilka Koos ansimò e lanciò un urlo, agitando le braccia per liberarsi. Il suo attacco contro Logan ebbe una battuta d'arresto mentre si rotolavano nella polvere dell'arena in una confusione di gambe e braccia e le grida de-gli uomini e delle donne sulle gradinate salivano a un volume ancora mag-giore. Koos era più alto e più forte, ma Logan, non potendo contare sulla potenza e sulla dimensione, conosceva meglio l'autodifesa. Con le dita sempre piantate nel collo dell'avversario, sollevò di scatto la testa e colpì l'uomo sulla faccia, spaccandogli il naso.

Koos lanciò un urlo di dolore, e il sangue schizzò su tutt'e due. Ma, so-prattutto, semiaccecato e impazzito per il dolore, Koos allentò la stretta con cui teneva l'avversario.

Logan si liberò all'istante e si rimise in piedi prima che Koos potesse fermarlo. Il fuoco ricoprì l'intera lunghezza del suo bastone con un abba-gliante lampo bianco-azzurro e dagli spettatori si levò un grido collettivo.

Con tutta la forza muscolare che aveva disposizione, Logan abbatté il bastone abbagliante sulla tempia dell'uomo. La testa si piegò e Krilka Koos rabbrividì. Scacciando via i Divoratori che si erano immediatamente gettati da quella parte, Logan colpì con tutta la forza che aveva le mani del Cava-liere rinnegato, prima una e poi l'altra, spezzandogli molte dita. Koos lan-ciò nuovamente un urlo lacerante, si lasciò sfuggire il bastone dalle mani sfracellate e si raggomitolò su se stesso.

I Divoratori lo ricoprirono, accorrendo frenetici. Una massa nera e rin-ghiante.

Il ruggito della folla sulle gradinate si ridusse a un brusio di incredulità, Logan li ignorò e continuò a fissare l'avversario. L'avversario che non ave-va voluto, ma che ora accettava come nemico. Krilka Koos ansimava anco-ra, cercava di parlare, ma il dolore e lo shock glielo impedivano.

Logan si avvicinò. «Uccidimi» sussurrò il Cavaliere rinnegato. Stringeva i denti e fissava Logan con occhi che mandavano fiamme. Cacciò via i Di-voratori che minacciavano di sommergerlo, e la sua faccia scura si contras-se in una smorfia di disgusto. «Fa' in fretta, prima che mi mangino vivo!»

Logan esitò. Era quanto gli avrebbe fatto l'altro se fosse stato al posto suo. Era la soluzione più intelligente.

Lanciò un'occhiata agli spettatori, guardò le loro facce, lesse quello che aspettavano. La nausea lo colpì come un'ondata violenta, la magia corse avanti e indietro nel suo corpo. "Uccidilo." Sarebbe stato facile.

Invece si raddrizzò, andò a prendere il bastone che Krilka Koos aveva lasciato cadere e lo gettò via.

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«Non ne avrai più bisogno» gli disse, accostandosi perché lo potesse sentire. Allontanò a calci i Divoratori, respingendoli verso le gradinate. «D'ora in poi, non fingerai più di essere quello che non sei.»

«Ti darò la caccia!» gridò l'altro. Il volto scuro e sfregiato era distorto dalla furia. «Ti troverò e ti ucciderò, dovunque ti nasconderai. E prima uc-ciderò i tuoi bambini. Tutti! Lo farò davanti a te!»

Logan si accostò. «Spera di non rivedermi più.» Krilka Koos sorrise, una smorfia che era una maschera di morte, e poi

gli sputò in faccia. Un attimo più tardi, Logan sentì una puntura al polpac-cio, poi un forte bruciore. Abbassò gli occhi mentre Koos ritirava la mano e vide il minuscolo dardo conficcato nella sua carme.

Un dente di vipera. Subito i Divoratori furono di ritorno, ma questa volta sciamarono su di

lui. A quel punto Logan perse il controllo di sé, picchiò il legno durissimo

del bastone sul ginocchio destro di Krilka Koos, spezzandoglielo. Il cava-liere rinnegato si lasciò sfuggire un disperato singhiozzo. Un istante di esi-tazione, poi Logan gli spezzò anche il sinistro.

«Trovami, se ne sei capace!» gridò. I Divoratori erano divenuti una mas-sa scura al margine della sua visione. La testa gli ronzava di magia e tutto il mondo che lo circondava era andato a fuoco, era una nebbia di dolore rosso vivo. «Dammi la caccia, se vuoi! Ma per cercarmi dovrai strisciare!»

La folla non si era accorta di quanto stava succedendo e continuava a fe-steggiare la sua vittoria, applaudiva e gridava il suo nome. Per loro, Logan aveva già preso il posto di Krilka Koos. Era diventato il loro capo invinci-bile.

Logan rimase immobile per qualche istante, in mezzo alla cacofonia, e continuò a fissare il loro vecchio leader. Il fuoco del Verbo correva lungo il suo bastone come una cosa viva. I Divoratori erano dappertutto. Era di-sorientato, aveva la testa leggera, e tutto quello che lo circondava comin-ciava ad appannarsi.

Si girò verso la folla. «Via di qui!» gridò. Poi, vedendo che esitavano, che volevano vedere cosa stava per fare, ri-

volse il bastone contro di loro, lanciando verso le gradinate una pioggia di fuoco che incendiò tutto quel che poteva bruciare. Coloro che un momento prima tergiversavano, fuggirono via dai loro sedili, volando verso l'uscita e la sicurezza del mondo all'esterno dell'edificio. Logan li rincorse con il suo fuoco, semi-impazzito per la rabbia e la frustrazione.

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I suoi pensieri erano cupi e dominati da un desiderio di distruggere. Era avvolto in una sorta di furore guerriero che gli portava via la ragione.

"Sono animali! Nient'altro che animali!" La sua mente annaspava, il suo corpo barcollava. Il veleno si faceva già

strada nel suo organismo. Si ritirò dentro di sé, in profondità, per proteg-gersi, chiuse serrature, sbarrò porte, mise catenacci e alzò barriere.

"Animali!" "Riducili tutti in cenere!" Pantera e Catalya, nascosti dietro la sezione di gradinate sotto cui erano

strisciati dopo essere entrati da una breccia nella lamiera in fondo all'edifi-cio, avevano visto gli ultimi momenti dello scontro tra Logan Tom e Kril-ka Koos attraverso i varchi tra le gambe degli spettatori.

Quando il Cavaliere del Verbo aveva rivolto contro la folla il fuoco del bastone erano subito indietreggiati e si erano gettati a terra, mentre le parti in legno bruciavano e la gente fuggiva.

Calore e fiamme passavano a ondate sopra di loro e nell'edificio si ri-frangeva il bagliore rosso di una fornace. In pochi istanti erano spariti qua-si tutti. In mezzo al fumo, scorgevano la figura di Krilka Koos, supina al centro dell'arena, e Logan Tom solo, in piedi, appoggiato al suo bastone, che barcollava come se non riuscisse a mantenere l'equilibrio.

Catalya colpì Pantera sulla spalla per richiamare la sua attenzione, poi si alzò in piedi. Insieme uscirono dalla gradinata, evitando le fiamme e il ca-lore, e corsero dal Cavaliere del Verbo. Nessuno cercò di fermarli. Non era rimasto più nessuno.

Pantera guardò la parete piena di armi, mentre le passavano davanti. In gran parte erano fuse o bruciate, dal legno dell'impugnatura e delle aste si alzavano fiammelle. La parete stessa era diventata irregolarmente grigia. Solo i tre bastoni con le rune erano intatti; il loro legno nero opaco non era stato intaccato dalle fiamme.

Lui non parve notare il loro arrivo, se ne accorse solo quando gli furono vicini, il suo sguardo era vuoto, lontano. Faticava a tenersi in piedi.

«Logan» lo chiamò la ragazza. Era arrivata da lui prima di Pantera. Senza esitare, abbassò la mano e sfi-

lò il pungiglione. «Tienilo fermo, Pantera!» ordinò. Gli tagliò il pezzo di calzone e mise

allo scoperto la ferita, una brutta macchia viola che già si era gonfiata fino a divenire un nodulo.

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Pantera, che con entrambe le braccia sollevava il Cavaliere del Verbo, scosse la testa. I denti di vipera erano sempre letali. Non c'era cura. Ma non lo disse, non fiatò. Si limitò a guardare mentre Cat gli legava la gamba al di sopra della ferita, frugava nelle tasche del suo mantello e tirava fuori un tubo di unguento che spalmò sul nodulo, per poi coprirlo con un pezzo di cotone e fissarlo con un cerotto.

«Servirà a estrarre il veleno» disse, come spiegazione. «Portiamolo via di qui.»

Presero un braccio per uno, se lo appoggiarono sulla spalla, il ragazzo e la ragazza, e lo sorressero lungo l'arena in direzione dell'entrata. Pantera teneva nell'incavo del gomito la Parkhan Spray, pronto a usarla. Ma i pochi che si erano fermati accanto all'uscita si affrettarono a fuggire al loro arri-vo.

Dietro di loro, Krilka Koos continuava a gemere e a gridare il nome di Logan Tom. Pantera avrebbe voluto tornare indietro e mozzargli la lingua.

Una volta fuori, cominciarono il lento ritorno verso l'autostrada. Il po-meriggio volgeva al crepuscolo, la luce cominciava a mancare. A levante il cielo era già buio. Pantera barcollava sotto il peso di Logan e cercava di guardarsi alle spalle, preoccupato che uno di quella milizia di imbecilli gli sparasse nella schiena.

«Pesa una tonnellata» mormorò, sforzandosi di tenerlo dritto. Di fianco a lui, Catalya si limitò a un cenno di conferma. La sua faccia

chiazzata era rossa per lo sforzo. «Potrebbe non farcela, lo sai» commentò Pantera, lanciandole un'occhia-

ta. «Molti non sopravvivono.» Lei serrò le labbra. «Lui non è come gli altri.» A questo non si poteva obiettare. Pantera si sistemò meglio, sulla spalla,

il braccio del Cavaliere del Verbo. E nella sua mente passarono le immagi-ni della battaglia che avevano visto poco prima.

No, decisamente Logan Tom non era come gli altri.

29 Lasciato Larkin Quill, che riattraversò il Redonnelin Deep per tornare a

casa, dove avrebbe atteso il segnale per venire a riprenderli. Angela e i due elfi si avviarono di nuovo verso il monte Syrring, Quando iniziarono il cammino verso nord era già metà mattina, ma il viaggio prese una piega diversa da quello che Angela si aspettava.

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«Quanta strada c'è ancora?» chiese a Simralin, dopo che era passato pa-recchio tempo e cominciava a preoccuparsi.

«Poche miglia» rispose la ragazza, dalla testa del gruppo. Si girò a guar-darla e non riuscì a nascondere un sorriso.

Angela guardò davanti a sé. C'erano delle montagne, ma erano lontane e nessuna di esse aveva qualcosa di diverso dalle altre. Probabilmente, si disse, dipendeva dal fatto che non riusciva a scorgerlo, perché il monte Syrring era coperto dalla cappa di foschia che gravava come un sudario su tutta quella zona, quasi a ricordare loro quanto era inquinata l'aria.

Proseguirono in silenzio, camminando di buona lena su un terreno co-perto di erba rinsecchita, cespugli, montagnole rocciose. Angela continua-va a pensare alla sua vecchia vita e a Johnny, e poi alla piccola Ailie, la sua sfortunata coscienza. Il Tatterdemalion non aveva avuto molte occa-sioni di svolgere tale ruolo, anche se aveva detto, in occasione del loro primo incontro, che si era data quell'impegno. Un esserino che viveva una media di trenta giorni, ma che si era offerta come voce della ragione a un Cavaliere del Verbo. Una creatura di Faerie che cercava di aiutare un uma-no. Sembrava assurdo e anche, in un certo modo, triste. Per quella che for-se era la centesima volta, rimpianse di non essere riuscita a salvare la sua piccola amica.

Giunsero in una zona desertica, priva di costruzioni, strade, animali. Non c'era neppure un roditore che tirasse fuori la testa dalla tana o un uccello che volasse in cerchio nel cielo. Grandi alberi morti erano riuniti in am-massi scheletrici, come se alla fine avessero cercato conforto l'uno nella vicinanza dell'altro. L'erba era affilata e grigia per la malattia e la morte. Dappertutto il terreno era coperto da uno strato di polvere, che sotto i loro piedi si alzava in minuscoli sbuffi. In lontananza, le montagne erano scure e nude, altrettanto lontane quanto lo sembravano un'ora prima.

«Ma quant'è lontano il monte Syrring, esattamente?» chiese Angela, con impazienza.

Simralin si fermò per un momento, stappò l'otre dell'acqua e ne bevve una lunga sorsata.

«A piedi, un paio di settimane. A volo d'uccello, un centinaio di miglia.» Con la testa, indicò le montagne. «È dall'altra parte di questi monti.»

Angela rimase a bocca aperta. «Due settimane? Ma noi non abbiamo due settimane.»

Simralin le rivolse un cenno della testa. «Non preoccuparti. Saremo lag-giù prima di notte.» Si rimise sulla spalla l'otre. «Vedrai, Angela. I cercato-

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ri di piste sanno arrivare a destinazione con mezzi che gli altri non cono-scono.»

Un commento enigmatico che Angela si sentiva portata a mettere in dubbio, ma che decise di non contestare. Diede un'occhiata a Kirisin, che si limitò ad alzare le spalle, come per dire che non aveva capito, ma che al-lo stesso tempo pareva sicuro che la sorella avrebbe mantenuto la promes-sa. Anche Angela avrebbe voluto avere la stessa fiducia in qualcuno, ma in realtà non l'aveva neppure in se stessa.

Proseguirono ancora per breve tempo, non più di una mezz'ora, e arriva-rono a una fitta macchia di conifere, alberi vecchi e alti, con gli aghi, un tempo verdi, grigio-argento per l'effetto dell'inquinamento su natura e pre-cipitazioni. Era una strana vista: alberi che si stendevano per miglia e mi-glia in tutte le direzioni, probabilmente fino ai primi pendii dei monti che si scorgevano a ovest. Senza esitare, Simralin li condusse direttamente nel cuore della foresta, precedendoli con sicurezza. I suoi capelli biondi scin-tillavano alla luce velata del giorno.

Angela e Kirisin la seguirono, nessuno dei due parlò. I boschi erano bui, grigi e silenziosi; e il vuoto era come una presenza costante.

Quel tipo di luoghi non piaceva ad Angela, che preferiva le pietre, i mat-toni e il cemento della città. In una città potevi ritrovare la tua strada. Lì non c'era nulla che indicasse da che parte andavi. Gli alberi coprivano la vista delle montagne. La foschia stemperava la luce. Tutte le cose avevano lo stesso aspetto.

Poi, all'improvviso, il terreno cambiò. Da terra e arbusti divenne un alto-piano irregolare di terra battuta che il vento aveva spogliato di ogni granel-lo di polvere. In mezzo alle conifere c'erano strani alberi dai rami contorti, con foglie appuntite e corteccia che si sfogliava, e cespugli di rovi alti fino a un paio di metri. In pochi minuti si trovarono al centro di quel nuovo tipo di vegetazione e Angela aveva perso del tutto il senso dell'orientamento. Serrò il bastone nelle mani per assicurarsi di non essere del tutto priva di potere. Ma il bosco sembrava assediarla da tutti i lati, minacciando di sof-focarla, di rubarle la forza.

«Come odio questo posto» mormorò. Kirisin la guardò e annuì, ma non disse niente. Angela cominciava a dubitare che quel sentiero conducesse da qualche

parte, quando la foresta si aprì davanti a loro. Si trovavano sull'orlo di un fosso circolare che circondava un'ampia radura di roccia, dove due cataste di sterpi coprivano un paio di grossi oggetti di forma quadrata. Quella che

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forse in origine era una terza pila era sparsa sulle rocce vicine. Per la prima volta, Simralin pareva esitante. Aggrottava la fronte per la

preoccupazione. «Dovrebbero essere tre» disse, più che altro a se stessa, ma abbastanza

forte da essere udita dai compagni. «Cos'è successo al terzo?» Angela si avvicinò di qualche passo, fino ai margini del fosso, e guardò i

due oggetti ancora coperti dagli sterpi. «Sono delle ceste, quelle?» chiese, sorpresa. Simralin annuì. «Sì. Ma dovrebbe essercene un'altra. Aspettatemi qui.» Scese nel fosso, salì dall'altra parte, si diresse agli sterpi sparsi per terra

ed esaminò attentamente il terreno. Quando ebbe osservato a sufficienza, scrutò gli alberi tutt'intorno, e poi tornò a guardare i due compagni.

«Non posso esserne sicura. Il terreno è troppo roccioso per leggerlo chiaramente. Un solo individuo, mi pare. Ma potevano essere di più. Non capisco. In questo periodo nessuno dei nostri cercatori di piste è in missio-ne da queste parti.»

Si inginocchiò e studiò le impronte una seconda volta. «Niente di specia-le nei pochi graffi che riesco a distinguere.» Scosse la testa. «Se si trattasse di demoni, potrei vedere i segni di quel mostro. Ma se c'era solo l'altro...» S'interruppe. «Va bene. Venite qui.»

Angela e Kirisin attraversarono il fosso e guardarono a terra. Ma il suolo era così duro e roccioso che non rivelava assolutamente niente. Il Cavalie-re del Verbo non riusciva a capire come Simralin fosse riuscita a leggervi tutto quello che aveva affermato. «Cosa succede?» chiese. «Che facciamo qui?»

«Liberate una di quelle ceste» disse Simralin, invece di rispondere. «Ki-risin ti può aiutare. Togliete tutto quello che trovate nel fondo, apritelo e allargatelo sul terreno, non cercate di collegarlo. Lasciatelo fare a me. Tor-nerò tra un minuto.»

Scese di nuovo nel fosso, risalì dall'altra parte ed entrò in mezzo agli al-beri, dove scomparve. Angela diede un'occhiata a Kirisin e insieme si av-vicinarono alla cesta più vicina. Tolsero i rami secchi e gli sterpi che la na-scondevano e Angela, mentre lavorava, pensava che quel tipo di mimetiz-zazione poteva funzionare solo per chi osservava dall'alto, non per chi vi si imbatteva per caso. Poi guardarono dentro. La cesta era divisa in quattro spicchi, due tramezzi a novanta gradi la separavano e servivano anche co-me rinforzi. Nel fondo c'erano un grosso pezzo di tela strettamente ripiega-ta, cavi, moschettoni di metallo e tubi.

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«Che cos'è?» chiese Angela al ragazzo. Kirisin scosse la testa. «Non lo so, non ho mai visto niente del genere.» Insieme posarono a terra il contenuto della cesta, disponendo separata-

mente tutti i pezzi come aveva detto Simralin. La tela era un tessuto legge-ro che Angela non conosceva, sottile ma robusto, grigio con macchie bian-che. Quando lo ebbero steso in terra, prese una forma riconoscibile.

«Questo sembra un pallone» disse Angela. «Un pallone ad aria calda» precisò Simralin, che tornava in quel mo-

mento. «E ci trasporterà dove dobbiamo andare.» Portava con sé alcune celle a energia solare e quello che sembrava una

sorta di motore. Posò le celle nella cesta e il motore sul terreno, vicino al-l'imboccatura del pallone.

«Questo è un bruciatore» spiegò, indicando il motore. Prese un tubo e lo collegò da una parte al pallone e dall'altra allo scarico del bruciatore. «Ri-scalda l'aria e la spinge nel pallone, che si gonfia. Quando è pieno, solleva dal terreno la cesta e i suoi occupanti.»

Abbassò una levetta e il bruciatore si accese con un basso ronzio, infran-gendo il silenzio. Lentamente il pallone cominciò a gonfiarsi.

«I cercatori di piste degli Elfi usano questi palloni per coprire lunghe di-stanze. Li teniamo in alcuni nascondigli ai piedi della montagna. Li hanno inventati gli umani, ma anche noi abbiamo trovato il modo di servircene. I nostri esploratori hanno cominciato a utilizzarli una generazione fa. Li u-savamo già prima che il vostro governo crollasse, ma dopo l'inizio delle guerre abbiamo cominciato a impiegarli con maggior frequenza. Abbiamo trovato difficile muoverci con la libertà precedente. Gran parte della cam-pagna era invasa dalle milizie e dalle creature mutanti e la terra era perico-losamente avvelenata. La durata dei viaggi divenne un fattore più impor-tante di prima, molte volte. I palloni ci hanno dato una mano a risolvere il problema.»

«Elfi che usano la tecnologia umana» mormorò Angela, scuotendo la te-sta.

«Di tanto in tanto.» Simralin sorrise. «Siamo abbastanza intelligenti da approfittare delle buone idee in cui ci imbattiamo. Te ne farò vedere un al-tro esempio quando saremo al monte Syrring.»

Diede un'occhiata alla catasta di rami accanto a loro. «Ne avevamo tre, ma qualcuno ne ha preso uno. Ha preso anche una serie di celle e un bru-ciatore. Quelle attrezzature erano nascoste in mezzo alle rocce. Solo i cer-catori di piste che vanno in missioni lontane conoscono questi nascondigli.

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È molto improbabile trovarli per caso.» Scosse la testa e si chinò a prendere i cavi e i moschettoni. «Venite qui.

Aiutatemi a fissarli alla cesta e al pallone» terminò. Seguendo le sue istruzioni, prepararono il pallone per la partenza, videro

l'involucro riempirsi e innalzarsi pian piano dal terreno. Nel frattempo a-vevano collegato in modo sicuro il bruciatore e sistemato il loro equipag-giamento all'interno della cesta. Alcuni cavi legati a ceppi e ad alberi morti servivano ad ancorare il pallone mentre si sollevava. Quando Simralin giudicò che fosse pronto, ordinò agli altri due di entrare nella cesta, salì dopo di loro, sciolse gli ancoraggi e partirono.

"Madre de Dios" pensò Angela. Non aveva mai provato niente di simile. La terra precipitò verso il basso

mentre salivano nel cielo del primo pomeriggio; alberi, rocce, fiumi e laghi divennero progressivamente più piccoli, il paesaggio si allargò come una miniatura. A parte i brevi periodi in cui Simralin usava il compressore per pompare aria calda nel pallone, erano avvolti in un silenzio così profondo e intenso da dare ad Angela l'impressione di essersi lasciata alle spalle tut-to quello che c'era di terribile nella sua vita. La cesta dondolava debolmen-te alle correnti d'aria, ma per lo più era immobile e seguiva i comandi di Simralin, che la dirigeva verso i monti di nordovest.

«Ti piace?» chiese l'esploratrice, dopo qualche tempo. Angela sorrise e annuì. «C'è il rischio che il pallone si sgonfi?» Simralin scosse la testa. «Il tessuto è di nostra fattura, molto forte, molto

resistente. Non patisce la pioggia. Resiste persino alle lame. Il pericolo più grosso è un fulmine, ma il tempo è buono.» Sorrise. «Molto meglio che camminare. Saremo sul posto al tramonto.»

Volavano a una velocità regolare, in direzione di un varco tra i monti della catena. Il vento li spingeva. Angela notò che Simralin doveva avere una buona esperienza di volo perché riusciva senza difficoltà a mantenere la rotta, aprendo e chiudendo bocchette, liberando piccoli sbuffi d'aria che servivano a spostarsi leggermente o a regolare la quota. Conosceva i mo-vimenti delle correnti e, grazie ai tubi che aveva inserito nelle fenditure della cesta, correggeva la direzione del volo. Non era una scienza perfetta, ma la cercatrice di piste riusciva sempre a seguire la rotta giusta, approfit-tando delle correnti che soffiavano alle diverse quote.

Le ore passavano lentamente, nonostante l'urgenza della loro missione. Angela scrutava in basso, alla ricerca di qualcosa di diverso dai semplici cambiamenti del terreno. Tracce di vita. Tracce di inseguimento. I nemici

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che non riusciva a vedere, ma che erano lì, lei ne aveva la certezza. Volare a centinaia di metri di quota dava sicurezza, ma sapeva che era un'illusio-ne.

Oltrepassarono la catena di monti e in quel versante incontrarono venti che venivano da sud e li spingevano verso nord. Con il passare delle ore, il vento si faceva più o meno teso. A volte erano colpiti da forti raffiche, a volte il vento cessava del tutto. Sorvolarono decine di miglia di foreste ma-late e di territorio collinoso, evitando le cime, i canyon e le gole, dove le correnti erano irregolari e potevano sbatterli contro le rocce. Kirisin aveva pronte un sacco di domande e la sua naturale curiosità richiedeva spiega-zioni che però la sorella non poteva dargli perché era troppo impegnata a pilotare il pallone. Angela invece si accontentava di godersi la vista e pre-feriva il lusso del silenzio concesso loro da quel viaggio meraviglioso. Era difficile trovare il silenzio in città. Almeno, finché non morivi, come Johnny, ma allora durava per sempre.

Il tramonto era vicino quando raggiunsero il monte Syrring. Il vento era rinforzato e incontrarono raffiche che li sballottavano da una parte all'altra. Simralin rinunciò a rispondere alle infinite domande di Kirisin per mante-nere la stabilità. Angela si teneva strettamente all'orlo della cesta. Poi, quando uscirono da un gruppo di monti più bassi, scorsero all'improvviso, sullo sfondo dell'orizzonte, la vetta coperta di neve. Un enorme blocco di roccia e di ghiaccio, una massa che si levava assai più in alto della loro quota e giganteggiava rispetto alle altre montagne, alla pianura che la cir-condava, a tutto ciò che si poteva scorgere a perdita d'occhio. Era il più grande monolito che Angela avesse mai visto, ma anche il più bello. Lag-giù, diversamente da ogni altro luogo che aveva incontrato nei suoi viaggi, tranne forse il Cintra, l'aria era chiara e pulita e i particolari della montagna e di quanto la circondava si distinguevano perfettamente. Il Cavaliere del Verbo continuò a fissare incredula il gigante vulcanico, stupita da quanto fosse puro tutto ciò che lo circondava, come se la mano di Madre Natura avesse spazzato via da quel maestoso paesaggio tutta la malattia e l'inqui-namento del mondo.

Quando chiese informazioni per sapere come fosse possibile, Simralin rispose che era merito dei forestali elfi che abitavano sui pendii del Paradi-se, il nome che avevano dato a quel lato del monte. I suoi genitori avevano proposto che gli Elfi si insediassero là, ma di fronte all'opposizione di A-rissen Belloruus erano riusciti soltanto a fondare una piccola comunità di persone che si prendevano cura del monte. Impiegavano la poca magia a

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loro disposizione per legare tra loro gli elementi della terra, dell'aria e del-l'acqua in modo da tener lontani le malattie e i veleni che altrove erano pe-netrati così in profondità. Agli Elfi rimaneva ancora la capacità di farlo, anche se diventava via via sempre più chiaro che la loro era una battaglia perduta. Nel Cintra il tentativo era già fallito.

Simralin diresse il pallone verso i pascoli che coprivano i piedi del mon-te, vaste distese di verde punteggiate di quei fiori selvatici che Angela cre-deva fossero ormai definitivamente scomparsi dal mondo. Cercò di ricor-dare quando aveva visto fiori in tale quantità. Mai, dovette concludere. Non ne aveva mai visti tanti. Anche nel Cintra, quelli che aveva visto era-no confinati a piccole aree. Lì invece si stendevano a perdita d'occhio, co-me un manto che formava una colorata regione di confine tra la foresta al di sotto e la roccia nuda e il ghiaccio al di sopra. Scrutò il fianco del monte alla ricerca di qualche presenza, pensando di poter scorgere alcuni degli el-fi citati da Simralin, quelli che si prendevano cura del monte. Ma non si vedeva segno di vita.

Quando chiese a Simralin dove fossero, lei scosse la testa. Erano pochi, una manciata, e sparsi lungo i pendii ai piedi del monte. Difficile trovarli senza una lunga ricerca. I forestali erano abituati a vedere di tanto in tanto i palloni dei cercatori di piste e, in genere, li lasciavano al loro lavoro se non erano i Cacciatori a chiamarli. In quel momento non c'era ragione di di-sturbarli.

Il sole era quasi al tramonto, adesso, e le ombre si allungavano sulla montagna, disegnando grandi macchie nere. I colori svanivano dal mondo, l'aria cominciava a rinfrescarsi troppo. Angela lanciò un'occhiata alla cima coperta di neve; la luce del tramonto scintillava sotto forma di improvvisi lampi quando si rifletteva sui ghiacciai.

«Dobbiamo trovare un rifugio prima che faccia notte» suggerì Simralin. «Altrimenti congeleremo.»

Fece scendere il pallone ai margini di un pascolo, chiudendo il bruciato-re e aprendo alcuni sfiatatoi. Il cesto s'inclinò su un fianco, nel toccare ter-ra, e il pallone lo trascinò per un tratto prima che ne fosse uscita aria a suf-ficienza. I tre viaggiatori scesero e recuperarono il pallone, piegando il tes-suto come Simralin mostrò loro, poi raccolsero tutte le corde e il resto del-l'equipaggiamento. Quando ebbero slegato e raccolto tutto, Simralin inse-gnò loro come riporlo dentro la cesta.

«Nessuno lo toccherà» promise. «Lo useremo al ritorno, quando avremo finito qui. Cerchiamo un posto dove rifugiarci e mangiamo qualcosa.»

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Preso il loro equipaggiamento, si lasciarono condurre da Simralin a un gruppo di conifere in fondo al pascolo, a destra. La cercatrice di piste fi-schiettava piano nel silenzio della sera.

Trascorsero la notte in una capanna ai margini del pascolo, usata dai fo-

restali nei loro viaggi sui pendii della montagna, un minuscolo rifugio na-scosto tra gli alberi, che, come tutte le costruzioni degli Elfi, era pressoché invisibile finché non gli si arrivava addosso.

Se Simralin non avesse saputo dov'era, i suoi due compagni non sareb-bero mai riusciti a trovarla.

Il rifugio conteneva sacchi a pelo arrotolati e posati su scaffali e qualche piccola scorta. I visitatori usarono i sacchi a pelo per dormire, ma non toc-carono le scorte. Cibo e bevande erano difficili da trovare lassù e si erano portati provviste sufficienti per le loro necessità.

L'alba che li accolse al risveglio era grigia e nebbiosa. Un cambiamento rispetto al giorno precedente e un tipo di clima fin troppo raro. Osservando le nubi che parevano ribollire sopra di loro, Kirisin ebbe l'impressione che potesse addirittura piovere. Dopo colazione, Simralin fece loro riporre in una cassa di legno gran parte del loro equipaggiamento. Disse che avreb-bero avuto bisogno di vestiti pesanti per ripararsi ad alta quota e di cibo e acqua per tre giorni. La salita ne avrebbe richiesto uno, la discesa un altro. Restava un giorno per trovare il Loden.

«Tempo sufficiente» terminò. «Se è davvero lassù» si affrettò a dire Kirisin. La sorella si strinse nelle spalle. «Perché non scoprirlo? Usa le Pietre

Magiche. Ormai siamo vicini e non ci faremo scoprire usando la magia.» Uscirono dalla capanna, attraversarono il bosco e si inoltrarono sul pa-

scolo che saliva fino al punto dove terminavano gli alberi e iniziava la roc-cia nuda. L'aria lassù era più rarefatta e Kirisin cominciava ad accorgersi che era difficile respirare. Ma era fresca e pulita e profumata di conifere e di neve, perciò non gli diede fastidio. Anche l'aria del Cintra era buona, ma non era viva e vibrante come quella del monte.

Quando furono all'aperto, in un punto da cui si vedeva chiaramente la vetta - non ce n'era bisogno, ma tanto valeva approfittarne -, Kirisin estras-se il sacchetto delle Pietre Magiche, le rovesciò sul palmo della mano e cominciò il rituale che riportava in vita la magia. Questa volta aveva un'i-dea più precisa di che cosa era necessario, dopo avere scoperto come usar-le nel Cintra. Tenne in mano le Pietre senza stringerle, con il braccio teso

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verso il monte Syrring, e allontanò tutti i pensieri, sforzandosi di visualiz-zare soltanto la caverna nel ghiaccio che la magia gli aveva mostrato in precedenza.

Fermo nell'ombra della montagna e con la gran volta del cielo sulla te-sta, si lasciò sprofondare nel silenzio e nella solitudine.

Chiuse gli occhi e scomparve nel proprio interno. Con la mente, immaginò le caverne. Sentì sotto di sé la superficie gelida e dura. Sentì l'odore delle vene di

metallo che s'intrecciavano all'interno della roccia. Vide il riflesso color arcobaleno della luce solare che filtrava da fessure

e crepacci, la luce rifranta e diffusa, venata di macchie di colore che pare-vano appartenere a un altro mondo.

Sentì le caverne sussurrare, rivolgersi a lui. Questa sensazione riuscì quasi a distrarlo, a spezzare la sua concentra-

zione. C'era qualcosa di strano in quel sussurrare, l'impressione che la voce che sentiva fosse reale e non immaginaria, che qualcuno, elfo o altra entità che fosse, lo stesse chiamando.

Poi le Pietre cominciarono a illuminarsi, la loro luce azzurra brillò den-tro il suo pugno chiuso e raggi sottili scaturirono dagli spazio tra le dita. Il calore della magia si diffuse nel suo corpo e lo infuse di un'improvvisa vampata di eccitazione. Cercò di resistere come poté, di concentrare i pen-sieri, di non lasciarsi sopraffare dall'esaltazione. Ma era difficile. Avrebbe voluto gridare per l'eccitazione, dare voce a quello che provava. La magia era inebriante, avrebbe voluto rimanere in quello stato per sempre.

Un istante più tardi, la luce scaturì dal suo pugno e si lanciò verso la sommità del monte Syrring, attraversando il campo e i fiori selvatici, la roccia nuda che lo sovrastava, le piccole conifere che a detta di Simralin avevano migliaia di anni, su, verso la vetta. Giunta alla quota delle nevi perenni, oltrepassò il fronte del ghiacciaio, entrò in quel bianco paesaggio e avvolse in una luminosa onda azzurra le caverne che i tre viaggiatori cer-cavano.

Adesso Kirisin le vide di nuovo; questa volta erano meglio definite: pa-reti scolpite dal tempo e dagli elementi, l'acqua di fusione del ghiaccio che correva in un rivolo scavato nel loro centro, cascate congelate nel punto dove erano scese dalle quote più alte.

E c'era anche altro, qualcosa che Kirisin non riusciva a distinguere. Si nascondeva in fondo alla caverna più grande, in attesa e pronta a fare un balzo, tutta coperta di ghiaccio e brillante di luce argentea. Era enorme, e

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terribile, Kirisin lo avvertiva con un sesto senso. Non si muoveva. Aspet-tava. Eppure il giovane aveva l'impressione che fosse viva.

«Cos'era quello?» chiese Angela, a bassa voce, quando si spense la luce delle Pietre Magiche e il grigiore e la nebbia dell'alba tornarono a circon-darli.

Kirisin scosse la testa. «Non ne sono sicuro. Pareva una sorta di statua. Una statua scolpita nel ghiaccio.» Guardò Simralin. «L'avevi mai vista?»

Lei scosse la testa. «Non sono mai stata in quelle caverne. Non sapevo neppure che ci fossero delle caverne.»

Si scambiarono ancora un'occhiata, poi Simralin disse: «La spiegazione non la troveremo certamente qui. Mettiamoci in cammino».

Si avviarono poco più tardi, dopo aver mangiato e atteso che Simralin

raccogliesse l'attrezzatura per scalatori che era conservata in uno dei bauli della capanna. Prese tutto quello che poteva servire, lo distese sul terreno e spiegò le ragioni della scelta.

«Le corde ci torneranno utili se dovesse essere necessario arrampicarsi. I chiodi da ghiaccio e i morsetti servono a bloccare le corde. La piccozza si usa per scavare e piantare i chiodi. Quegli oggetti di metallo dall'aria cru-dele e con i denti sono i ramponi. Si fissano agli stivali per non scivolare sul ghiaccio e sulla neve ghiacciata. Le chiusure hanno una molla; per to-glierli c'è una leva sul tallone.»

Poi indicò l'ultimo attrezzo. «Fate attenzione a questi. Sono guanti chio-dati. Una cosa nuova. Guardate il palmo.» Indicò di nuovo. «La superficie è come il dorso del porcospino. Accarezzate qualcosa nel verso sbagliato, così...» mosse la mano verso il basso «... e decine di piccoli chiodi si pian-teranno nella superficie che avete toccato e la presa vi impedirà di scivola-re o di cadere. Sono molto resistenti. Si liberano se spostate la mano verso l'alto. I guanti sono fissati al polso con cinghiette, per non sfilarsi involon-tariamente.»

«Dove hai preso tutta questa roba?» chiese Angela. «In prestito qui e là.» Simralin sorrise. «Ti ho detto che se vediamo

qualcosa di utile, ce ne appropriamo senza guardare chi ne sia l'inventore.» Indicò un mucchietto di bastoncini. «Torce. Le spezzate nel centro e

avete luce per un'ora.» Indicò le tre lampade. «Lampade solari. Buone per ventiquattr'ore di uso ininterrotto. Inoltre, stivali e guanti hanno strisce ri-frangenti che brillano nel buio, nel caso servisse.»

Infine indicò gli zaini. «Cibo e acqua per tre giorni. Anche di più se fos-

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se necessario. Materassini gonfiabili e coperte di elyon, un tessuto degli Elfi, leggerissimo e caldo. Questa è la nostra attrezzatura per dormire. Poi occhiali da ghiacciaio per non farci abbagliare, mantelli per tutte le condi-zioni atmosferiche. Armi. Coltelli. Il mio arco, frecce, la spada corta e l'adzl.»

Con quest'ultimo termine indicò il particolare giavellotto con due punte e l'impugnatura al centro, rivestita di corda. «Inoltre abbiamo il bastone di Angela e, naturalmente, se tutto il resto dovesse fallire, le battute di Kiri-sin.»

Gli sorrise. «Taglienti come lame, mi dicono.» Kirisin annuì. «Che ridere. Pensi che le Pietre Magiche si possano usare

come arma?» Tutti rifletterono per qualche istante. «Difficile dirlo» rispose alla fine

Simralin. «Speriamo di non aver bisogno di armi» commentò Angela. «Ma in ogni

caso non è Kirisin quello che deve lottare.» Simralin annuì. «Se c'è da lottare, tu sta' lontano, Piccolo K.» Impiegarono qualche altro momento per controllare un'ultima volta l'at-

trezzatura, ci furono alcune domande e relative risposte e finalmente furo-no pronti. Infilarono tutto negli zaini, se li misero in spalla e partirono.

Salirono per tutta la mattinata, lasciandosi alle spalle la zona dei pascoli e attraversarono la foresta fino ad arrivare, poco dopo mezzogiorno, alla quota che non permetteva la crescita di vegetazione. Si fermarono a man-giare, stanchi e affamati. Kirisin aveva le gambe e la schiena doloranti. Dall'espressione di Angela, gli parve che anche lei soffrisse. Soltanto Sim-ralin sembrava completamente a suo agio e sorrideva come se l'ascesa non fosse molto più di una passeggiata mattutina. Mentre mangiavano, parlava e rideva, descrivendo avventure ed esperienze di altri tempi e altri luoghi, che riguardavano le montagne e il monte Syrring in particolare.

Una volta, raccontò, vi era giunta con una piccola spedizione di cui fa-ceva parte Tragen. L'alto elfo, che all'epoca stava ancora imparando a muoversi sulle montagne, si era arrampicato troppo in fretta sui sentieri del ghiacciaio, aveva fatto uno sforzo eccessivo, si era disidratato, aveva perso troppo calore corporeo ed era svenuto. Gli altri cercatori di piste non glie-l'avevano mai perdonato; ogni volta che c'era da salire su un monte insi-nuavano che forse doveva evitarlo.

Rise e si ravviò i capelli biondi. «Tragen non lo trova molto divertente, ma non ha un gran senso dell'umorismo. Se non lo compensasse in altri

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modi, penso che dovrei ricredermi sulla nostra relazione.» Kirisin rivolse alla sorella un'occhiata tagliente. «Tragen va benissimo»

disse, e ripeté le medesime parole della sorella: «Per adesso». Ripresero la salita lasciandosi alle spalle gli ultimi alberi e camminando

su roccia e ghiaia. Il sentiero sparì del tutto e il pendio divenne più ripido. Kirisin incontrava difficoltà a respirare, ma sapeva che l'aria era rarefatta e che dopo qualche tempo i suoi polmoni si sarebbero abituati. Almeno, questo era quanto gli aveva detto Simralin. In ogni caso proseguì la mar-cia, seguendo la sorella mentre passavano tra i frammenti rocciosi della montagna in direzione dei ghiacci.

Quando arrivarono all'inizio del ghiacciaio, Simralin li spinse ancora a-vanti, finché non lo raggiunsero a una quota elevata, ormai, dove il vento che soffiava più forte, gelido e asciutto. In mezzo a un gruppo di rocce che li riparavano dal vento, Simralin fece loro agganciare i ramponi, infilare i guanti, mettere gli occhiali e impugnare le piccozze.

Muovendosi lentamente, ora, ma continuando a salire, lasciarono le roc-ce e si inoltrarono sul ghiaccio. Tutt'intorno a loro, il ghiaccio aveva un luccichio opaco alla debole luce solare. Il grigio del mattino si era dissolto a quelle altezze e le nubi erano adesso sotto di loro, una massa scura e ri-bollente che circondava le rocce. Ma ormai il giorno finiva e la luce la-sciava il posto al buio. L'orizzonte a ovest, rifrangendo il cambiamento di intensità della luce, cominciava già a colorarsi.

«Siamo vicini!» disse Simralin a mo' di incoraggiamento. Si era fermata a una decina di metri da loro e li aspettava. Kirisin rallentò e Angela si mi-se al suo fianco. Il giovane si augurò che la sorella dicesse la verità. Co-minciava ad avere freddo, nonostante i vestiti da montagna, e non riusciva più a nascondere la stanchezza. Si sistemò meglio lo zaino sulle spalle e riprese ad avanzare, poi si accorse che Angela non lo seguiva. Si guardò attorno. Il Cavaliere del Verbo era dove l'aveva lasciata e scrutava la mon-tagna sotto di loro.

Si fermò. «Angela?» Lei lo guardò. Aveva lo sguardo lontano, osservava qualcosa al di là di

loro. Dava l'impressione di essere in un altro luogo. «Va' avanti, Kirisin» gli disse. «Io arrivo tra un momento, voglio con-

trollare una cosa. Non preoccuparti, troverò la strada.» «Aspetto con te» si offerse subito lui. «Aspettiamo insieme.» Lei alzò la mano per fermarlo, nel vedere che si avvicinava. «No, Kiri-

sin, devo farlo da sola. Fa' come ti dico. Tu e tua sorella proseguite senza

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di me. Fa' quello che sei venuto a fare.» Kirisin voleva protestare, ma le lesse negli occhi qualcosa che lo fermò.

Una forte determinazione, che gli faceva capire come lei avesse ormai pre-so una decisione. Qualunque cosa volesse fare, non voleva che gli altri in-terferissero.

Kirisin esitò, incerto e allarmato. «Non metterci troppo. Sta facendo bu-io.»

Lei gli rivolse un cenno d'assenso, poi si diresse verso il gruppo di massi che avevano lasciato poco prima.

«Adios, mi amigo» gli disse ancora. «Lo siento.» Kirisin non aveva idea del significato di quelle frasi. Dal modo in cui

aveva parlato, più a se stessa che a lui, forse non si era neppure accorta della lingua che aveva usato. Era come se con quelle parole se lo fosse tol-to dalla mente. Il ragazzo la guardò allontanarsi e si chiese se doveva se-guirla. Non gli piaceva l'idea di dividersi così, di non essere insieme nel momento in cui si avvicinavano all'oggetto per cui avevano percorso tanta strada.

Ma soprattutto non gli era piaciuto il tono della sua voce. Sembrava che se ne stesse andando. Pareva che avesse voluto dirgli addio.

30 Angela Perez era tranquilla. Una calma profonda, diffusa, era scesa den-

tro di lei e si insinuava in ogni fibra del suo corpo in un modo che non provava da anni. Non sarebbe stata in grado di spiegarlo, non c'era niente che lo giustificasse. Semmai, avrebbe dovuto avere paura, essere terroriz-zata per ciò che la attendeva tra le rocce sotto di loro. Avrebbe dovuto ave-re i nervi a fior di pelle.

In fin dei conti, forse sarebbe morta. Si diresse verso gli speroni rocciosi, le masse di pietra scura che in mez-

zo al candore della neve sembravano le zanne della terra pronte a divorar-la. Le rune scolpite sulla superficie lucida del suo bastone nero erano de-bolmente illuminate.

Angela sapeva cosa si nascondeva tra le rocce. I demoni. La femmina dai capelli ispidi che si era trasformata in un orrore a quattro zampe e l'a-veva seguita al Nord dalla sua città e il compagno che aveva trovato nel Cintra. In qualche modo, la coppia aveva scoperto la destinazione di Ange-

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la e dei suoi compagni e li aveva preceduti. Non avrebbe dovuto esserne sorpresa e in realtà non lo era affatto.

Aveva sempre sospettato che i demoni fossero un passo avanti rispetto a loro, fin da quando Ailie ed Erisha erano state uccise nell'Ashenell. Ne a-veva avuto la certezza quando avevano raggiunto il nascondiglio dei pallo-ni ad aria calda e avevano scoperto che ne mancava uno. Lei aveva imma-ginato subito chi l'aveva preso. Non c'era modo di accertarlo, ma lei l'ave-va capito.

Da quel momento in poi aveva sempre aspettato di incontrarli, sapendo che sarebbero comparsi, esattamente come sapeva che la lotta tra loro sa-rebbe finita lì. Lassù sul monte, mentre Simralin li rassicurava di essere quasi giunti a destinazione, Angela aveva colto la presenza dei demoni e aveva capito che era giunto il momento. L'aveva previsto fin da quando era sfuggita all'ultimo attacco, nelle foreste morenti della California, quando si era salvata soltanto grazie all'avvertimento di Ailie. Non aveva detto niente ai compagni, ma aveva continuato ad aspettare la loro comparsa. Adesso erano arrivati. Era giunto il momento dello scontro che aveva sempre rite-nuto inevitabile.

Ma era tranquilla. Non voleva che Kirisin o Simralin si rendessero conto di quello che sta-

va succedendo. Se l'avessero scoperto, avrebbero voluto aiutarla. Ma non potevano farlo. Lei avrebbe dovuto preoccuparsi per loro, cercare di pro-teggerli, e così avrebbe ulteriormente diminuito le sue possibilità di so-pravvivere. Possibilità che erano già scarse in partenza.

Se avesse dovuto affrontare uno solo dei due, forse sarebbe riuscita a uc-ciderlo o a metterlo fuori combattimento. Ma se entrambi erano in attesa, il massimo in cui poteva sperare era una morte rapida. Non si faceva illusio-ni. Con ogni probabilità non ne sarebbe uscita viva.

Le pareva molto strano il fatto di non provare paura. Era terrorizzata do-po il suo ultimo scontro con il demone femmina, così spaventata da non riuscire a pensare lucidamente, quando lei e Ailie erano sfuggite al suo at-tacco e sfrecciavano sulla Mercury in direzione dell'Oregon. In quel mo-mento era certa che se fosse stata costretta a un nuovo confronto con quel demone, sarebbe morta. In due occasioni le era sfuggita, ma a malapena. La terza volta il demone l'avrebbe uccisa. Angela era forte e abile, ma quel mostro era superiore alle sue forze. In precedenza era stata fortunata. Non poteva aspettarsi che la fortuna fosse sempre dalla sua parte.

La situazione la fece quasi sorridere. Forse l'inevitabilità di quanto la at-

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tendeva aveva dissolto in lei la paura. Forse, sapendo di dover combattere, si era rassegnata all'esito. Non aveva paura della morte o delle sue conse-guenze per gli altri. Non aveva paura di affrontare quel mostro, anche se rischiava di soffrire in modi che non aveva mai creduto possibili. Se era quella la morte che la inseguiva fin dalla sua nascita - la morte che, in una forma o nell'altra, insegue sempre tutti -, se era la fine a lei destinata, An-gela poteva accettarla. Non riusciva a spiegare questa disponibilità a subire il suo destino, ma vi trovava conforto. Aveva trovato la grazia.

Raggiunse le rocce e si fermò. Almeno uno dei demoni la attendeva lag-giù, ancora invisibile. Il demone-lupo, quello che serviva il vecchio, Findo Gask. Non aveva fatto alcuno sforzo per celare la sua presenza. Si era rive-lato apertamente, sapendo che lei avrebbe reagito in quel modo. O forse aveva sperato che lei fuggisse, per inseguirla e assalirla alle spalle, come un coniglio braccato da un predatore. Qualunque fosse il caso, voleva farle sapere, prima di ucciderla, che l'aveva trovata e non poteva sfuggirle. Pro-vava piacere nel costringerla ad aspettare la propria morte, nel farle inten-dere di non avere modo di fuggire.

All'improvviso sentì dolorosamente la mancanza di Johnny. Sarebbe sta-to tutto più semplice con lui accanto, ma forse, pensò poi, Johnny le era davvero vicino. In spirito, se non in carne. Forse era ancora lì, il suo ange-lo custode.

Ricordò quella volta che, non molto tempo dopo averla trovata - Angela aveva nove o dieci anni - le aveva detto che si sarebbe allontanato per un periodo più lungo del solito e che lei doveva aspettare da sola il suo ritor-no. Lei si era subito spaventata, era certa che non sarebbe tornato, che in-tendeva abbandonarla. Con calma, con gentilezza, lui l'aveva tranquillizza-ta, accarezzandole i lunghi capelli neri, dicendole che era tutto a posto, che lui sarebbe tornato, che non l'avrebbe mai lasciata, qualunque cosa succe-desse.

Quando lei si era calmata e aveva ripreso a ragionare, lui le aveva detto: «Yo no abandono mi niña. Non abbandonerei mai la mia bambina. Dovun-que sarai, io ti sarò sempre accanto, forse non mi potrai vedere, ma io ci sarò. Mi sentirai nel tuo cuore».

Angela pensava che fosse vero. Che in realtà Johnny non l'aveva mai la-sciata ed era sempre lì nel suo cuore. Se cercava abbastanza in profondità, sentiva la sua presenza quando era sola o spaventata. Poteva trovare con-forto ricordando che Johnny aveva sempre mantenuto la parola.

Anche dopo essere uscito dalla sua esistenza e dal mondo dei viventi,

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una parte essenziale di lui era ancora presente. E anche quella volta era così. Johnny era con lei. Arrivò accanto alle rocce e si fermò, fiutando l'aria per cogliere il puzzo

di demone. Lo afferrò quasi all'istante, acido e velenoso. Il fetore di una creatura che aveva gettato via ogni parvenza di umanità. Era ovunque e l'odore dolce e pulito dell'aria di montagna era soffocato dai suoi effluvi pesanti. Si nascondeva in mezzo alle rocce, ancora invisibile, e aspettava che lei si avvicinasse. Angela sentiva la rabbia e l'odio, e il bisogno di sa-ziarli tutt'e due con il suo sangue.

Come affrontare il demone? Scrutò le ombre nere dei massi, i passaggi che serpeggiavano tra l'uno e

l'altro. Non le pareva una mossa intelligente inoltrarsi là dentro. Meglio aspettare fuori, fare in modo che il demone uscisse allo scoperto.

Poi vide comparire dalle rocce il primo Divoratore, una massa nera di buio liquido, seguito da altri. Non parevano avere fretta, i loro movimenti sembravano dettati dal caso. Ma dove inizialmente ce n'era solo una man-ciata, presto ne giunse una dozzina, e poi un'altra.

Angela si guardò alle spalle, in direzione della montagna e del punto do-ve aveva lasciato Kirisin e la sorella. Non si vedevano più. Con un po' di fortuna, forse non l'avrebbero neppure sentita.

Era giunto il momento di farla finita. «Demone!» gridò in direzione delle rocce. Poi attese. Kirisin si avvicinò alla sorella che, quando lui la raggiunse, si guardò at-

torno e chiese: «Dov'è Angela?». Il giovane scosse la testa. «Ha detto che doveva fare una cosa.» «E ti ha detto di cosa si trattava?» «Ha solo aggiunto che dovevamo proseguire senza di lei. Io le ho detto

che potevamo aspettare che finisse, ma lei non ha voluto. Era molto deci-sa.» Scosse la testa. «Non so che pensare, Sim. La cosa non mi piace.»

«Vero. Non piace neanche a me.» Simralin guardò in basso, dove si po-teva ancora scorgere la figura del Cavaliere del Verbo, ferma davanti al gruppo di rocce da cui erano passati poco prima.

«Cosa fa, secondo te?» le chiese Kirisin. Lei tacque per un istante, poi rispose: «Penso che voglia proteggerci.

Penso che sia questa la sua decisione. Faremmo meglio a darle retta. Vieni, le caverne sono qui davanti a noi».

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Risalirono il pendio, che si faceva sempre più ripido, e dovettero ricorre-re ai ramponi e alle piccozze per non scivolare. Era un'avanzata lenta e fa-ticosa, ma proseguirono senza soste sulla superficie del ghiacciaio. Kirisin osservò come la sorella usava la piccozza, piantandola nel ghiaccio e poi utilizzandola per sollevarsi, e la imitò. Un paio di volte si guardò alle spal-le per cercare la figura di Angela, ogni volta la vide nello stesso punto, pronta e in attesa ai margini del gruppo di rocce. Una volta gli parve di sentirla gridare qualcosa, ma il vento che soffiava dalla cima del monte soffocò le sue parole.

In quel momento provò imperioso il desiderio di tornare indietro, ma continuò ad avanzare, un piede davanti all'altro, un colpo di piccozza nel ghiaccio e una trazione del braccio. Poi, quando la salita terminò e giunse-ro a un pianoro roccioso, non poté più scorgerla.

«Kirisin!» lo chiamò la sorella, gridando per farsi sentire in mezzo al vento. Indicò un punto davanti a lei.

L'ingresso della caverna era una feritoia buia, nascosta da un gruppo di massi coperti di neve. Sull'apertura pendevano ghiaccioli che sembravano una cortina gelata. Dal punto dove si trovavano sembrava piccola e quasi insignificante sullo sfondo dell'enorme curva della montagna, come se non fosse altro che la tana di qualche animale.

Ma quando si avvicinarono videro le sue reali proporzioni e la sua vera forma. Giunti di fronte ad essa, si fermarono per osservarla con maggiore attenzione, ma dall'esterno non si vedeva molto. L'imboccatura scendeva nel cuore della montagna ed era stretta e bassa, dovevano chinarsi per po-ter entrare. Più avanti il passaggio sembrava allargarsi, ma l'oscurità non permetteva di vedere bene. Più avanti ancora c'era troppo buio e non si di-stingueva nulla.

Simralin guardò il fratello. «Sei pronto, Piccolo K?» Lui le rispose di sì, anche se non era del tutto sicuro di esserlo, ma era

deciso ad andare fino alla fine di quella missione, qualunque ne fosse l'esi-to.

La sorella prelevò dallo zaino la lampada portatile e l'accese. Con un'ul-tima occhiata a Kirisin, si chinò per entrare nella caverna e proiettò il rag-gio di luce nell'oscurità davanti a lei. Kirisin la seguì in silenzio, anche lui con la lampada in mano. In pochi istanti furono all'interno, inghiottiti dalle ombre e dalla roccia. Si erano lasciati alle spalle il pendio coperto di ghiaccio.

Con sorpresa, Kirisin vide che l'interno era sufficientemente chiaro e

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non erano servivano le lampade. La luce filtrava da fessure nella roccia ed era diffusa da finestre di ghiaccio che si erano formate sotto lo strato ester-no di neve. Anche le pareti e il soffitto della caverna erano coperte di ghiaccio, intagliato come nelle visioni che le Pietre Magiche gli avevano mostrato ormai due volte. Un motivo a greche simmetriche, che correvano sulle pareti e sul soffitto a perdita d'occhio. La luce si rifletteva sulle gre-che e disegnava strani arabeschi sul pavimento. Qua e là baluginavano i colori dell'arcobaleno, creati da riverberi casuali e inattesi, piccole meravi-glie in mezzo alla penombra.

Cinquanta passi più avanti, un pilastro irregolare di ghiaccio si alzava dal pavimento della caverna fino a un foro nel soffitto. In qualche periodo più caldo, una cascatella era scesa da quel foro ed era gelata, creando quel-la bizzarra struttura. La luce s'incanalava nella colonna di ghiaccio e dava l'impressione che ci fosse una lampada al suo interno.

Kirisin si avvicinò a guardare. All'interno, velato da superfici simili a nebbia, c'erano minuscole creature sospese nel tempo.

Più avanti, le caverne erano completamente buie, le fonti di luce spari-vano a una a una, l'oscurità avvolgeva ogni cosa. Dovettero accendere le lampade e poterono distinguere solo le parti del loro cammino illuminate da qualche sciabolata dei raggi delle lampade. Il freddo era più intenso, il silenzio assoluto. A parte il crepitio del ghiaccio del pavimento che si spezzava sotto i loro ramponi e il rumore del loro respiro, non c'erano altri suoni.

Poi, davanti a loro, le pareti della caverna cominciarono ad allargarsi e il soffitto a sollevarsi. C'erano stalattiti sottili come lance di ghiaccio, altre grosse come la gamba di un uomo, altre ancora più alte di Simralin. Le ombre parevano guizzare alla luce delle lampade, il velo di ghiaccio che copriva ogni cosa scintillava di colori che danzavano come fiamme. Dal-l'interno, dove non arrivava la luce delle torce, giungeva il rumore dell'ac-qua che gocciolava e scorreva sulle rocce.

Simralin si fermò. «Penso che dovresti usare le Pietre, Piccolo K.» Con il raggio della lampada, illuminò davanti a loro, prima a sinistra e poi a de-stra. «Vedi? Le gallerie si diramano in direzioni diverse, da questo punto. Dobbiamo sapere quale scegliere.»

Kirisin annuì, ma si guardò attorno, dubbioso. Non gli piaceva l'idea di evocare in quello spazio ristretto la magia delle Pietre. Come prevedere le conseguenze che avrebbe avuto nel sottosuolo? Ma le trasse di tasca, come gli diceva la sorella, se le rovesciò sul palmo, tese il pugno, chiuse gli oc-

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chi e cercò mentalmente di visualizzare il Loden. La risposta fu così immediata che il giovane sobbalzò per la sorpresa.

Dalle Pietre Magiche scaturì un forte lampo, e la luce azzurra lasciò la sua mano per correre lungo il corridoio direttamente davanti a lui, fino a illu-minare una forma accovacciata in mezzo a una grande caverna, qualcosa che era più vicino a un incubo che a una visione.

La luce delle Pietre Magiche si spense. Kirisin e la sorella non riusciva-no a parlare per la sorpresa e fissavano la galleria buia.

«Hai visto?» sussurrò lui, ancora stupefatto. «Ho visto qualcosa» rispose lei. «Ma non credo che fosse reale.» «A me sembrava reale.» «No. Era solo una scultura. Fatta di rocce e ghiaccio.» «Era un drago, Sim.» Lei scosse la testa. «Non ci sono più draghi. Lo sai.» Certo, Kirisin lo sapeva, ma questo non contribuiva a tranquillizzarlo su

quanto aveva visto. Infilò di nuovo nella tasca le Pietre, sotto il mantello da neve, rammaricandosi all'improvviso di non avere indossato qualcosa di più pesante.

«Andiamo a vedere» disse Simralin, avviandosi verso la galleria. Percorsero il corridoio, attraversando prima una caverna e poi un'altra,

facendosi strada sempre più in profondità nel cuore della montagna. Il rag-gio della loro torcia, illuminando debolmente le pareti, dava loro qualche rassicurazione di non essere caduti in un'imboscata.

Il tempo passava, ma le caverne proseguivano e non c'era traccia della grande caverna del drago. Kirisin cominciava a chiedersi se l'aveva visto davvero o se l'aria rarefatta non gli procurasse allucinazioni.

All'improvviso, allo sbocco di un largo corridoio, si trovarono in una ca-verna enorme. Ecco il drago.

Si fermarono nell'istante in cui lo videro, due figure minuscole al suo confronto.

Il drago era enorme, alto dieci metri se non di più, accovacciato per terra nel centro esatto della grotta. Era coperto di scaglie e aculei e aveva ali co-riacee ripiegate contro il corpo. Gli artigli, retrattili come quelli dei gatti, erano sfoderati sulle punte delle dita, la coda irta di spine era avvolta su se stessa come una frusta.

Ma fu la bocca, o meglio le mascelle, a richiamare subito l'attenzione del giovane. L'enorme testa era abbassata e la mascella inferiore e la lingua bi-forcuta erano appoggiate sul pavimento. La bocca era spalancata fino a ri-

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schiare di slogarsi e così grande che anche un uomo di alta statura sarebbe riuscito ad arrivare fino alla gola senza dover piegare la schiena. Le ma-scelle avevano due file di denti che sembravano le sbarre di una porta che dava accesso all'interno di una fortezza priva di luce.

Kirisin fissò il mostro, immobile come se fosse stato inchiodato al pavi-mento. Simralin aveva ragione, era una scultura di ghiaccio, su quella che sembrava pietra lavorata, congelata per l'eternità. Non era vivo. Era solo una statua.

Ma a che scopo l'avevano messo lì? Guardò all'improvviso negli occhi del drago, orbite lattiginose sul muso

feroce, e un brivido gli corse lungo la schiena. Involontariamente fece un passo indietro.

«Kirisin Belloruus.» La voce che gli aveva sussurrato quelle parole era bassa e priva di corpo.

Era la voce da cui si era sentito chiamare quella mattina, quando aveva u-sato le Pietre Magiche per trovare l'ingresso della caverna, e lo invitava a sé, lo chiamava.

Rimase senza fiato. «Sim» sussurrò. «Hai sentito anche tu...» «Usa le Pietre» lo interruppe lei, senza dargli ascolto. «Dev'essere na-

scosto qui.» Kirisin lo sapeva già. Sapeva molte cose che avrebbe preferito ignorare.

Non sarebbe stato capace di spiegarlo, almeno non in modo razionale, ma lo sapeva nel modo in cui, talvolta, si sanno le cose. Da quello che provi. Dall'istinto che prende il posto della logica. Avrebbe preferito che non fos-se così, ma lo sapeva. E basta.

Non c'era bisogno di usare le Pietre per scoprire dov'era il Loden. Era al-l'interno del drago.

Anche questo doveva essere opera di Pancea Rolt Gotrin. Magie di un tipo ormai dimenticato erano state usate per creare quel mostro e collocare il Loden al suo interno. Il drago era il protettore di quella pietra magica. Il suo custode e guardiano. Se volevi impadronirti del Loden, dovevi sfidare le fauci del drago. Dovevi accettare, per fede o in base a un ragionamento logico da te scelto, che ti avrebbe lasciato passare.

Ma come sapeva, il drago, chi ammettere? Doveva esserci un modo, un sistema di riconoscimento, per determinare la sua idoneità.

«Il Loden è dentro il drago» disse alla sorella. «Devo andare a prender-lo.»

Lei scosse subito la testa. «Oh, no. È troppo pericoloso. Prima dobbiamo

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esserne certi.» Si portò davanti alle fauci del drago e proiettò il raggio della lampada

sulla fila di denti all'interno della bocca. Il raggio mostrò l'interno fino alla gola, poi si arrestò come se avesse incontrato una parete.

«Lì dentro non c'è niente» commentò, sporgendosi per osservare meglio. Kirisin sapeva che non era vero. Ma Sim non si sarebbe lasciata convin-

cere dalle sole parole. Estrasse dalla tasca le Pietre Magiche e si portò ac-canto a lei. Mostrò le pietre alla sorella, poi strinse la mano, chiuse gli oc-chi e cercò di nuovo dentro di sé l'immagine del Loden. La visualizzò e la risposta delle pietre fu immediata. La magia esplose nella sua mano e la luce azzurra entrò nella gola del drago, superò il punto dove si era arrestata la luce della lampada e si addentrò ancora, per una distanza difficile da de-terminare, per fermarsi infine su un piedestallo su cui era appoggiata una gemma bianca che brillava come un piccolo sole.

La luce delle Pietre si spense. Kirisin guardò con aria interrogativa la so-rella.

«Va bene» rispose lei. «Ma vengo anch'io.» Lui scosse la testa. «Non credo che sia possibile. Penso che non sia per-

messo. Il drago è una sorta di cane da guardia. Probabilmente è stato co-struito con la magia da Pancea Rolt Gotrin e dalla sua famiglia. Vi hanno posto all'interno il Loden per proteggerlo. Allontana chiunque non abbia il permesso di entrare. Un momento fa mi chiedevo come fa il drago a sapere chi lasciar passare. Penso che la chiave si trovi nelle Pietre Magiche e che questa sia una delle ragioni per cui l'ombra di Pancea me le ha date. Chi possiede le Pietre può entrare. Tutti gli altri vengono...» S'interruppe e alzò le spalle. «Mangiati. O non so che.»

«Tu lo pensi, ma non lo sai» osservò lei. Kirisin scosse la testa. «Lo penso, ma, oltre a questo, lo sento.» Si toccò

il petto. «Qui» La sorella lo guardò con durezza. «Questa cosa non mi piace. E se ti

sbagliassi?» «Allora potrai venire a riprendermi. Non è quello che fanno le sorelle

maggiori? Intanto, aspetta l'arrivo di Angela. Dovrebbe essere qui da un momento all'altro. Deve sapere anche lei quello che facciamo.»

Vide che Simralin si sforzava di trovare qualcos'altro da dire, e che la proposta di Kirisin non le piaceva. Ma tutt'e due sapevano di non avere al-ternative, se volevano impadronirsi del Loden. Che, dopotutto, era lo sco-po della loro missione. In fin dei conti era quello che dovevano fare.

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Respirò a fondo e annuì. «Fa' attenzione. Se è opera di magia, non avrai molte difese.»

«Quante ne avevo nelle tombe dell'Ashenell» le rispose sorridendo. «Abbi fede, Sim.»

Lei gli sorrise a sua volta. «E tu abbine anche per me, Piccolo K.» Kirisin si girò verso il drago. La bocca spalancata, davanti a lui, era un

invito a entrare in quelle fauci nere. Diede una rapida occhiata alle file di denti e agli strani occhi lattiginosi, chiedendosi ancora una volta se si era-no mossi.

Poi entrò, tenendo davanti a sé, come un talismano, le Pietre Magiche.

31 Quello che successe negli istanti successivi colse assolutamente di sor-

presa Kirisin Belloruus. Mise piede sulla lingua, superò le file di denti ed entrò nelle fauci del drago, e tutto quel che stava dietro di lui scomparve all'improvviso. Simralin, la caverna con le sue stalattiti e il pavimento di ghiaccio, persino il più sottile filo di luce. Tutto svanì come se non fosse mai esistito.

Il ragazzo si fermò di colpo, lì, sulla soglia della grande bocca, e si guar-dò alle spalle, incredulo. Mosse la torcia prima da una parte e poi dall'altra, cercando di vedere qualcosa nell'oscurità, ma era come illuminare una pa-rete uniforme. Il forte raggio non rivelò nulla che stesse all'esterno. Kirisin provò a puntare il fascio luminoso davanti, verso la gola, e anche allora rimase sorpreso. Diversamente da prima, quando Simralin aveva provato inutilmente con la sua, la lampada mostrò un corridoio buio, che scendeva verso l'interno. Il corridoio ricordava come forma e colore l'esofago di un animale, ma non si capiva dove portasse. Presumibilmente, nello stomaco del drago. Dove lui poteva servire da cena per l'animale.

Ma il giovane elfo preferiva pensare che laggiù avrebbe trovato il Lo-den. Prese per un istante in considerazione l'idea di girarsi e uscire dalla chiostra dei denti del drago, ma, essendo ormai giunto a quel punto, torna-re indietro gli sembrava la scelta sbagliata. E se non fosse più riuscito a en-trare? Adesso che era dentro, doveva andare avanti e vedere cosa sarebbe successo.

Proseguì, camminando con cautela, assicurandosi di trovarsi su un terre-no solido. Ma non era il caso di preoccuparsi. La galleria, o gola, era solida come le rocce all'esterno della caverna. Kirisin notò che lì dentro faceva

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meno freddo, come se il drago fosse vivo e scaldasse l'ambiente con il ca-lore del corpo. Ma era un'idea troppo inquietante perché vi si soffermasse e si affrettò cacciarla dalla mente.

Avanzò a lungo, più a lungo di quanto fosse possibile, in quel tunnel che si avvolgeva su se stesso, e anche questo non sembrava possibile. Di tanto in tanto sentiva un brontolio, come il verso di un grosso animale. Cercò di non pensarci. Cercò di non pensare ad altro che alla sua missione, metten-do un piede davanti all'altro e scrutando innanzi a sé. Inoltre cercava di non pensare al fatto che quel corridoio non sembrava arrivare da nessuna parte. Nonostante tutto il suo camminare, tutto ciò che lo circondava pare-va sempre esattamente lo stesso. Poi, all'improvviso, la lampada si spense e il giovane si trovò nel buio più completo. Per un momento s'immobiliz-zò, senza capacitarsi di quello che era successo. Provò ad azionare alcune volte l'interruttore e batté il palmo della mano sul fondo della lampada. Niente. Per qualche istante venne colto dal panico, ma si affrettò a soffo-carlo. Agganciò la lampada alla cintura e stava per prendere uno bastone luminoso, quando ebbe un'idea improvvisa. D'impulso, impugnò le Pietre Magiche e le tese innanzi a sé; sfruttando ciò che aveva appreso le volte precedenti, evocò la loro magia.

La luce azzurra brillò nella sua mano e illuminò il corridoio davanti a lui. Con stupore di Kirisin, la luce non andò a cercare il Loden, come lui aveva creduto, ma si limitò a rischiarare la strada e a permettergli di prose-guire.

Kirisin continuò a camminare, nella gola del drago, alla luce azzurra del-le pietre. I minuti passarono, troppi per poterli contare, un periodo di tem-po indefinibile, impossibile da misurare.

Poi, senza preavviso, il tunnel terminò e Kirisin si trovò in una sala che poteva essere un'altra caverna, lo stomaco del drago, o un mondo comple-tamente diverso. Non assomigliava a nulla di quello che aveva visto o im-maginato. Nel momento in cui vi poneva piede, un forte bagliore esplose intorno a lui, dal pavimento, dal soffitto, dalle pareti, avvolgendo ogni co-sa nella sua luce.

Kirisin aveva l'impressione di trovarsi nel centro di quel fulgore, non vedeva altro.

A parte il piedestallo di pietra che gli comparve all'improvviso davanti e su cui poggiava il Loden.

Non era difficile riconoscerlo. Kirisin l'aveva già scorto nelle visioni che gli avevano mostrato le Pietre quando l'avevano condotto fin li. Ma, anche

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senza le visioni, l'avrebbe capito ugualmente. Era così particolare da non poter essere altro. Era custodito da un treppiede di fuoco bianco e le sue sfaccettature brillavano intensamente. Lingue di fuoco gli serpeggiavano attorno avvolgendolo come in un nastro, sfiorandolo con fiamme bianche come esplosioni di luce solare, lisce e perfette. Una chiara testimonianza della magia che le aveva generate.

Kirisin provò ad avvicinarsi, arrivò a poca distanza dal piedestallo e si fermò. Era venuto a prendere il Loden per portarlo via con sé. Ma cosa sa-rebbe successo, una volta che avesse cercato di impadronirsene? Le stre-ghe Gotrin avevano collocato il Loden dentro il drago per tenerlo al sicuro. La magia da loro evocata per proteggerlo avrebbe permesso a lui, Kirisin, di interferire? Le Pietre Magiche gli avevano consentito di trovarlo, ma non poteva essere certo che gliene assicurassero anche il possesso. Poteva essere necessario qualcosa di più, qualche altra dimostrazione del suo buon diritto di prenderlo.

Non aveva idea di che cosa poteva essere. Rimase a lungo immobile, cercando di decidere che cosa fare, consape-

vole del fatto che il tempo scivolava via. Osservò il fuoco bianco che guiz-zava attorno al Loden per proteggerlo e quella di allungare la mano per af-ferrare la gemma non gli parve una buona idea. Non era la giusta condotta da tenere. Doveva trovare il modo di interrompere il fuoco, di spegnerlo per il tempo sufficiente a portare via la Pietra. All'improvviso si chiese se le Pietre Magiche blu gli potessero fornire la chiave di quel mistero come gli avevano permesso di trovare il cammino all'interno del drago. Respirò per tranquillizzarsi, tenne le Pietre Magiche davanti a sé, puntate verso il piedestallo, e visualizzò la scomparsa delle fiamme che proteggevano il Loden.

Non successe niente. Non solo le fiamme rimasero al loro posto, ma la magia delle pietre si rifiutò di rispondere al suo comando.

Deluso, Kirisin abbassò il braccio e si mise a riflettere. Forse aveva af-frontato il problema dalla direzione sbagliata. Le Pietre blu servivano per cercare. Trovavano quello che era nascosto. E se avesse provato a usarle per cercare il modo di far scomparire le fiamme? La magia avrebbe rispo-sto alla sua richiesta?

Poteva provare. Fece un passo indietro, lasciando un po' di spazio tra sé il piedestallo. La luce della sala attorno a lui era accecante. Aveva cercato di ignorare il senso di straniamento che creava, l'impressione di essere staccato da tutto. Adesso, invece, fissò lo sguardo sulle fiamme che cir-

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condavano il Loden e immaginò che svanissero, si spegnessero completa-mente in modo da lasciare la Pietra priva di protezione sul suo sostegno.

Questa volta la magia esplose di vita, una sfera di luce azzurra che gli circondò il pugno e coprì il chiarore della stanza. La luce si fece ancora più forte, si stabilizzò, poi guizzò in avanti, fino a un punto a metà del piede-stallo, nella parte di fronte a lui. Al bagliore della magia, notò alcuni segni che erano poco più che macchioline. Quando la luce svanì, corse avanti, per non perdere di vista ciò che gli aveva svelato. S'infilò le pietre in tasca, s'inginocchiò e tastò la superficie del piedestallo, cercando di ignorare il timore che da un momento all'altro potesse sprofondare nello strano chia-rore della stanza e finire in quello che c'era di sotto, qualunque cosa fosse.

Trovò subito quello che cercava. Una piccola depressione, larga poco più di un polpastrello, poi una seconda, una terza e infine una per ciascun dito della mano. Con cautela, vi posò le dita sopra e spinse. Immediata-mente le lingue di fuoco in cima al piedestallo scomparvero. Quando Kiri-sin si alzò, il Loden era appoggiato sul suo sostegno senza protezione. Con la massima attenzione, il giovane tese la mano, esitò un attimo, poi afferrò la pietra e la sollevò. Non scaturì nessun fuoco per fermarlo. Nessuna ma-gia comparve per punire la sua intrusione. Con un sorriso radioso serrò la pietra nel pugno. Non poteva averne la certezza, ma pensava che in qual-che modo la magia l'aveva individuato attraverso il tocco delle dita, o co-me portatore delle Pietre Magiche o come degno dell'approvazione del-l'ombra di Pancea Rolt Gotrin. In un modo o nell'altro, era stato ricono-sciuto e accettato, e adesso il Loden era suo.

Gli occorse un momento per allentare la stretta e osservare meglio la pietra. Era una gemma assolutamente limpida, perfettamente levigata e sfaccettata, che rifletteva e rifrangeva la luce della sala. Nelle sue profon-dità, piccole tracce di colore guizzavano e svanivano come pesciolini nel mare.

«Che cosa puoi fare?» chiese alla gemma. Poi, stringendola di nuovo nel pugno, tornò indietro nella direzione da

cui era arrivato, ripercorrendo i suoi passi verso la parete di luce. Non sa-peva cosa sarebbe successo se avesse cercato di oltrepassarla, ma la sua unica possibilità stava nel cercare di uscire. "Se non altro, il peggio è pas-sato" pensò.

Quando arrivò alla luce, ebbe ancora un attimo di esitazione, poi, non avendo altra possibilità ragionevole, tese la mano e la sfiorò con le dita. Immediatamente la luce scomparve, e così la camera, il piedestallo e tutto

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quello che aveva visto da quando aveva lasciato le fauci del drago ed era sceso nella sua gola. Batté le palpebre per il buio improvviso e aspettò che i suoi occhi si abituassero all'oscurità. Quando fu di nuovo in grado di ve-dere, si trovò nella bocca del drago e al di là delle sue doppie file di denti scorse il chiarore della lampada di Simralin. Nell'ombra al di là delle fauci del drago, vide muoversi la sua sagoma, ancora avvolta nel buio.

«Eccoti qui, finalmente!» esclamò una voce familiare, ma non quella della sorella. «Vieni qui, ragazzo, non stare lì a bocca aperta.»

Kirisin aveva davvero spalancato la bocca per la sorpresa. «Demone!» gridò Angela Perez una seconda volta, quando non ebbe ri-

sposta. «Hai paura di me?» Ancora niente. Continuò ad aspettare. Il tempo non aveva importanza,

anzi, più ne passava, meglio era. Cercava di guadagnare tempo a beneficio degli elfi, e più trascorrevano i minuti, più aumentavano le loro probabilità di impadronirsi dell'oggetto che cercavano.

Poi, all'improvviso, provò un forte senso di allarme, a trovarsi all'aperto in quel modo, esposta a tutto, e cominciò a spostarsi verso sinistra, cam-biando la posizione e la prospettiva sotto cui vedeva le rocce. I Divoratori, che ormai ammontavano a un centinaio e più, si mossero con lei. Lei aveva già evocato la magia del bastone, l'aveva colmato di fuoco bianco e le rune brillavano come le braci di una forgia. Sentì il calore scorrere dentro di lei, circolare come il sangue, come il ritmo della sua vita. Lei non si sarebbe lasciata uccidere facilmente, pensò. Non intendeva agevolare i nemici ve-nuti a eliminarla facendosi prendere dal panico o fuggendo o agendo con fretta o disperazione. Avrebbe mostrato loro cosa significava la vera forza.

I sibili giunsero un momento più tardi, come per irriderla, un sussurro lento e malvagio che proveniva dal mucchio di rocce.

Angela trattenne il respiro e attese. Poi il lupo mostruoso comparve, un'ombra che scivolava fuori da altre

ombre, lunga, sottile e famelica. La sua lingua ciondolava di lato e le zan-ne brillavano. Era lungo almeno tre metri e il suo corpo sottile era un unico fascio di muscoli. Adesso, però, non assomigliava a un lupo, ma piuttosto a un'enorme pantera. Il muso era chiaramente felino, il corpo scaglioso a-veva compiuto una nuova metamorfosi. Il cambiamento sorprese Angela. "Un demone è sempre un demone, qualunque aspetto prenda" mormorò a se stessa.

Guardò al di là dell'apparizione, nell'ammasso di rocce. Non c'era segno

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del secondo demone. Era ancora nascosto, in attesa della possibilità di co-glierla con la guardia abbassata mentre lei era impegnata con il primo mo-stro? Dov'era finito? Ma già mentre si rivolgeva la domanda si accorse di conoscere la risposta.

Il secondo demone era salito sulla montagna, aveva seguito Kirisin e la sorella, aveva girato dietro di lei e mentre il mostro la teneva occupata, a-vrebbe eliminato i due elfi indifesi.

Nel comprenderlo, sentì un tuffo al cuore. Simralin era forte e Kirisin coraggioso, ma non potevano tener testa a un demone. Si sentì prendere da un senso di urgenza. Doveva liberarsi in fretta del mostro, se voleva aiuta-re gli amici.

«Acude a mi, demonio» Angela irrise il demone, poi sibilò nella sua di-rezione. «Qui, micio, micio! Vieni a giocare con me.»

Il demone soffiò come se fosse stato colpito dall'acqua bollente e inarcò la schiena. Lentamente, con cautela, scivolò verso di lei. I Divoratori si stringevano intorno a loro, ansiosi e affamati, pregustando la battaglia. Angela tese i muscoli, nella neve e nel ghiaccio, e solo allora notò di non essersi tolta i ramponi. I loro denti di ferro erano piantati nella neve e la inchiodavano al suo posto. Le impedivano di muoversi in fretta. Ma ormai non aveva il tempo per cambiare le cose. Avrebbe usato quello che aveva a disposizione.

Assunse una posizione difensiva mentre il demone-pantera si preparava a balzarle addosso, ricordando come avesse rischiato di essere sconfitta tutt'e due le volte che si erano scontrate. L'aveva combattuta con ogni grammo di forza e ogni briciola di abilità che aveva potuto mettere in campo, ma sarebbe morta in entrambe le occasioni se non fosse soprag-giunto un colpo di fortuna. Non poteva aspettarsene un altro.

Non pensava di poter sconfiggere la creatura, non pensava di poterla uc-cidere senza essere uccisa a sua volta. Eppure doveva trovare il modo di farlo. Doveva scordare le probabilità avverse, ignorare il passato e cambia-re il destino che prevedeva per sé.

Poi notò un particolare che aveva scordato. Il demone aveva un occhio solo. Simralin gli aveva cavato l'altro con il suo coltello, quando erano stati attaccati nell'Ashenell, settimane prima. Una cavità scura era tutto quel che ne rimaneva. Angela sentì rinascere all'istante la speranza. Se il demone riusciva a vedere da una sola parte, forse le sue possibilità erano maggiori del previsto.

E se fosse riuscita a colpire l'altro occhio...

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«Madre de Dios» sussurrò. Il demone si lanciò contro di lei all'improvviso, di corsa, precipitandosi

lungo la breve distanza che le separava. I suoi artigli si piantavano nel ghiaccio e ne sollevavano frammenti bianchi che schizzavano nell'aria tut-t'intorno.

Angela portò in posizione la punta del suo bastone nero e diresse la ma-gia del Verbo come un maglio contro l'assalitore. Il demone venne scaglia-to da una parte, finì sulla neve e si fermò girando su se stesso.

Senza mostrare di essere stato minimamente danneggiato dall'azione del Cavaliere del Verbo, il demone si rimise sulle zampe e tornò ad avanzare. Per tre volte sì scagliò su Angela e per tre volte venne fatto volare indietro. Non si era allontanato per più di un paio metri da lei, quando si alzò per balzarle ancora addosso, ma adesso Angela aveva capito il suo piano. Il demone la costringeva a sprecare la sua forza contro attacchi senza impor-tanza. La spezzava un poco alla volta, stancandola in modo che, alla fine, non fosse più in grado di difendersi dall'attacco vero. E Angela era costret-ta a constatare che la strategia funzionava. Il demone era molto più forte di lei e poteva assorbire meglio i colpi. Niente di quello che faceva riusciva ad avere effetto su di lui. Lei, viceversa, cominciava già ad essere stanca.

I Divoratori sentivano la sua debolezza e stringevano lentamente il cer-chio attorno a lei.

Angela doveva fare qualcosa per rovesciare la situazione. Pensò a Johnny. Cosa le avrebbe consigliato?

"Usa gli strumenti che hai a disposizione." Il demone tornò ad attaccare. Lei reagì, ma questa volta non fu abba-

stanza veloce. Il mostro le fu sopra prima che potesse scagliare la magia. Angela parò con il bastone, per il lungo, il suo assalto, e nello stesso tempo si lasciò cadere all'indietro, in modo che l'inerzia lo facesse volare sopra di lei.

La manovra ebbe successo. Il demone rotolò via nella neve, agitando le zampe, ma Angela sentì una fitta bruciante al fianco destro, dove gli artigli del mostro le avevano lacerato le vesti e le erano penetrati nella carne.

Ignorando il dolore, si rimise subito in piedi e si voltò a fronteggiare il nuovo assalto. I Divoratori si aggrappavano a lei cercando di divorarla, ma Angela li cacciò via.

"Usa gli strumenti che hai a disposizione." Il demone le balzò addosso quasi subito, attaccandola allo stesso modo.

Ma questa volta lei era pronta. Le parole di Johnny le avevano fatto venire

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un'idea e Angela, tutt'a un tratto, seppe cosa doveva fare. Non cercò di ral-lentarlo con la magia, lasciò che si avvicinasse. Il mostro la colpì e la buttò a terra, cercando di inchiodarla sul terreno per farla a pezzi. Angela lasciò che colpisse il bastone, ma questa volta, quando venne spinta all'indietro, piegò le gambe contro il corpo e staccò dal ghiaccio gli stivali. Puntò con-tro la pancia del demone i ramponi, con le loro punte acuminate, e quando la bestia atterrò su di lei, scalciò con violenza.

I ramponi si piantarono nel ventre molle del mostro e lo lacerarono verso il basso, con tutta la forza che Angela aveva nelle gambe.

Il demone urlò. Il Cavaliere del Verbo non aveva mai udito un urlo simi-le, un grido terribile e straziante che echeggiò su tutta la montagna e rag-giunse le valli ai suoi piedi. Carne e muscolo si squarciarono sotto gli sti-vali. Il sangue schizzò dappertutto. La bestia le strinse le fauci su un brac-cio e sul bastone, ma lei evocò la magia per impedire alle mascelle di chiudersi e ai denti di strapparle il braccio.

Un istante più tardi, il mostro si staccò da lei, rotolando sulla neve in un groviglio di sangue, scaglie e carne lacerata, con i Divoratori che si ag-grappavano a lui come macchie nere.

Sarebbe dovuta morire, o essere ferita così gravemente da non poter pro-seguire la lotta. Ogni altra creatura sarebbe stata messa fuori combattimen-to. Ma non quella. Era già di nuovo in piedi e tornava a gettarsi su di lei, ignorando i Divoratori e il ventre ridotto a una massa di sangue e di carne dilaniata. Pareva non accorgersene.

Angela sentì il coraggio abbandonarla. Si preparò alla carica del mostro, evocando tutta la magia che aveva a disposizione. Non fu sufficiente. Il demone la raggiunse così rapidamente da darle a malapena il tempo di rea-gire. Il fuoco scaturì dal suo bastone, bruciò la creatura, lacerò pelle e sca-glie e carne e forse anche l'osso. Ma non riuscì a fermarlo, e nonostante lo sforzo di tenerlo lontano, il mostro urtò Angela con violenza, spingendola indietro lungo il ghiaccio e mozzandole il respiro. Gli artigli strapparono e dilaniarono. Le zampe pesanti la schiacciarono. Sentì vampate di dolore correre su e giù per il corpo. Sentì costole spezzarsi. Il suo braccio destro perse la sensibilità e la sua gamba sinistra cedette. Sentì le articolazioni perdere la forza e per un momento temette di essere fatta a pezzi.

Ma resistette. Il demone avrebbe potuto finirla in quel momento, ma si era lanciato su di lei con tanta foga che l'inerzia lo allontanò di nuovo da Angela, proiettandolo sulla superficie ghiacciata e contro le rocce da cui era uscito. Gridò e soffiò quando si staccò da lei, piantò gli artigli nel

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ghiaccio, ma non riuscì a fermarsi. Angela lo vide solo per qualche secondo, un incubo nero e confuso, e

puntò il bastone contro la sua testa, lo inseguì con il fuoco magico. Lenta-mente, barcollando, il Cavaliere del Verbo si rimise in piedi, appoggiando-si pesantemente al bastone. L'intera parte destra del suo corpo era una massa di sangue. Riusciva a malapena a tenersi in piedi.

Si sfilò il mantello e lo avvolse attorno al braccio ferito per evitare ulte-riori danni. Non riusciva a determinarlo, ma forse le ossa del suo avam-braccio erano già rotte. Fece una smorfia. Probabilmente non erano le sole.

Vide il demone uscire ancora una volta dalle rocce e venire avanti cion-dolando. Pareva ridotto peggio di lei, ma continuava ad attaccare. Angela scosse la testa, disperata. Non sapeva cosa occorresse ancora per fermarlo, ma non pensava di possederlo. I Divoratori ammassati attorno a loro, pen-sò tetramente, prevedevano di banchettare a spese di entrambi.

Il demone caricò di nuovo, ma non altrettanto velocemente, questa volta, perché la sua resistenza si era consumata e la forza gli mancava. Anche co-sì, Angela non riuscì a togliersi dalla sua traiettoria. Scagliò il fuoco contro il suo muso, e quando il demone la colpì, infilò tra le fauci il braccio ferito, ancora avvolto nel mantello, e la punta del bastone per fermare le zanne. Poi, mentre una nuova ondata di dolore correva dentro di lei, fece la sola cosa che aveva sempre saputo di non dover fare. Lasciò il bastone e, con la mano libera, abbatté il palmo del guanto chiodato sul muso del mostro.

La fortuna la aiutò. Il guanto colpì il demone sopra l'occhio e scese verso il basso, sul muso. La mostruosa pantera urlò di furia e di dolore, mentre quella parte del suo corpo si tramutava in una macchia rossa. Lottò per li-berarsi della mano e graffiò con gli artigli Angela per allontanare il guanto dalla carne.

Il Cavaliere ignorò il dolore, riprese in mano il bastone ed evocò la sua magia nel momento stesso in cui lo toccava. Allontanò il demone e lo vide agitarsi, cieco e frenetico, e scivolare via. Ancora piegata sulle ginocchia, usò il dolore e la collera per alimentare la magia del Verbo e la diresse contro l'avversario, con forza dirompente.

Gridò, mentre scagliava il fuoco del Verbo. In quell'istante anche lei era poco più di un animale.

La magia colpì il demone con una furia che oltrepassava ogni sforzo di cui si credeva capace. Esplose contro la testa sanguinolenta, vi entrò e la spezzò come vetro. Frammenti d'osso schizzarono da tutte le parti. Il corpo si agitò ancora per lunghi istanti, come se non sapesse ancora di non essere

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più intero, di non avere più un cervello a guidarlo. I Divoratori gli piomba-rono sopra, seppellendolo in una massa di ombre che si contorcevano. Il mostro crollò sotto il loro peso, rabbrividì una volta sola, poi non si mosse più.

Angela era in ginocchio e stringeva il bastone con tutte le sue forze. La fiamma magica del Verbo si era spenta, guizzava solo un'ultima fiammella alle due estremità, simile a una lingua di gatto.

Il Cavaliere fissava il corpo del demone, non riusciva ancora a credere che fosse morto. Si aspettava che da un momento all'altro si muovesse; che si alzasse e tornasse ad assalirla.

Ma il demone non si muoveva più, senza testa e senza vita. Quando i Divoratori cominciarono ad allontanarsi, Angela capì finalmente che non si sarebbe più rialzato. Cercò mettersi in piedi per raggiungere i compagni. Doveva trovarli e proteggerli. L'altro demone poteva averli raggiunti, or-mai, e avrebbe finito il lavoro incominciato dal demone-pantera. Uccidere Kirisin dopo avere ucciso Erisha. Il Loden sarebbe andato perso e gli Elfi condannati...

Si sforzò di alzarsi, ma si accorse che le gambe non la reggevano. Poteva solo rimanere in ginocchio.

Poi non poté più rimanere neppure così e scivolò nell'oscurità.

32 Kirisin guardò l'apparizione ferma davanti a lui e cercò di accettare che

quello che vedeva era reale. «Credevo che fossi morto!» esclamò, incredulo. Il vecchio Culph rise. «Oh, guarda. E cosa ti ha portato a crederlo, Kiri-

sin?» «Tragen ha trovato il tuo corpo!» «Ah, è quello che ti ha detto?» Anche nella penombra, Kirisin gli vide

brillare gli occhi. «E hai pianto per me? Hai pensato che i demoni mi aves-sero raggiunto? Che mi avessero scovato e ucciso?»

«L'abbiamo pensato tutti!» esclamò Kirisin, cominciando a provare un forte sollievo. «Dopo la morte di Ailie ed Erisha, abbiamo creduto che i demoni avessero eliminato anche te. Non avevamo il tempo di controllare a fondo, siamo dovuti fuggire da Arborlon quasi subito.»

Il vecchio fece qualche passo in avanti, abbassò il raggio della lampada e annuì.

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«Avete fatto bene. Non è sensato correre rischi inutili. Anch'io ho agito così. Ho aspettato che le acque si calmassero e poi vi ho seguiti. Vi ho se-guiti fin qui, in queste caverne.» Si guardò attorno. «Impressionanti, vero? Un rifugio degli Elfi.» Tornò a guardare Kirisin. «L'hai trovato? Hai trova-to il Loden? Ce l'hai con te?»

Kirisin tese la mano e mostrò la gemma che teneva nel palmo. «Nella bocca del drago. Protetto dalla magia di Pancea Rolt Gotrin, come pensavi tu. Avevi ragione su tutto. Non saremmo riusciti ad arrivarci senza di te.» Scosse la testa. «Stento ancora a credere che tu sia vivo. Come sei riuscito ad arrivare fin qui da solo?»

Culph si strinse nelle spalle. «Be', sono stato aiutato. E conosco alcune cose sul modo di viaggiare. Per esempio, usare palloni ad aria calda è u-n'arte che ho imparato tempo fa. Esci di lì e ti racconterò. Abbiamo tutto il tempo che ci serve.»

Kirisin si avvicinò, passando sulla lingua di ghiaccio del drago, scavalcò con attenzione le file di denti e rientrò nella caverna. Riaccese la torcia so-lare, che aveva ripreso a funzionare, ma tenne la luce abbassata per non abbagliare il vecchio.

Culph, da parte sua, aveva posato in terra la sua lampada, che illuminava un ampio arco di terreno tra loro.

«Non riesco ancora a credere che tu abbia fatto tutta quella strada» disse Kirisin. «E che sia riuscito a trovarci.»

«Come ho detto, sono stato aiutato.» Il vecchio sorrise. Poi, quando il ragazzo entrò nella zona illuminata dalla sua lampada, alzò la mano. «Così sei già abbastanza vicino. Perché non resti lì dove sei, mentre parliamo?»

Kirisin si fermò, sorpreso dal cambiamento nel tono di voce del vecchio bibliotecario. Poi vide qualcosa dietro Culph, una figura stesa a terra. Sim-ralin, a giudicare dal vestito e dai capelli biondi. Era immobile e aveva del sangue sulla faccia.

«Resta dove sei, Kirisin» gli ordinò Culph, a bassa voce. Adesso non sembrava affatto il vecchio Culph. «Non badare a tua sorella. Sta benissi-mo dov'è.»

«Cosa sta capitando? Che le è successo?» «Ha preso un colpo in testa. Un po' forte, temo. È un'elfa robusta.» Kirisin non si mosse. Cercava di dare un senso a ciò che aveva sentito.

«Sei stato tu?» sussurrò. Culph alzò le spalle, poi annuì. «Sono stato costretto a farlo. Era una di-

strazione.»

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«Una distrazione? Cosa stai dicendo?» Kirisin batté gli occhi. Poi si sen-tì raggelare da un sospetto. «Tu» disse piano. «Tu sei il...» Non riusciva a dire la parola "demone". «Per tutto questo tempo.»

Il vecchio annuì. «Per tutto questo tempo.» Il cuore di Kirisin perse un battito. Indicò la sorella. «L'hai uccisa?» «Ucciderla? No, sarebbe stata un'azione inutile. Mi sono solo assicurato

che non interferisse tra me e te. Mi occorre viva, perché tu non faccia sciocchezze mentre parliamo. Non ne farai, vero? Stupidaggini, intendo. Non vuoi costringermi a farle davvero male.»

Kirisin lo guardò furibondo. «Tu hai assassinato Erisha. E Ailie. E hai cercato di uccidermi. Perché non l'hai fatto? Se volevi impedirci di trovare il Loden, perché non hai finito il lavoro e non hai eliminato anche me?»

Il vecchio inclinò di lato la testa, perplesso. «Cosa ti fa credere che vo-lessi impedirvi di trovare il Loden? O le altre Pierre Magiche, se è solo per questo? Che le trovaste era proprio quello che volevo, fin da quando mi hai detto che l'Ellcrys ti aveva parlato.» Dondolò piano sui talloni. «In realtà è molto semplice. Tu ed Erisha cercavate le Pietre Magiche. Se vi foste riu-sciti, le avreste usate per salvare l'Ellcrys. Mi è parsa un'idea eccellente. Così ho fatto ricerche sull'argomento. Mi sono imbattuto subito nelle in-formazioni che mi occorrevano, non tutte, ma la maggior parte. Ne ho tro-vate un po' nelle Storie e un po' nei diari e nei memoriali delle antiche fa-miglie. Come custode di quei documenti, li avevo tutti a disposizione. Però non ho detto a nessuno quello che avevo trovato. E mi sono assicurato che nessun altro lo scoprisse.»

«Ma tu ci hai aiutato!» «Quanto bastava per farvi fare ciò che mi serviva, Kirisin. Non di più.

Vi ho fornito alcune informazioni per costringervi a cercare. Non sapevo cosa fosse successo alle Pietre Blu dopo la morte di Pancea Rolt Gotrin. Sapevo che si trovavano nella sua tomba, ma non sapevo dove la regina fosse sepolta. Alcune cose erano sconosciute anche a me. Ma voi l'avete scoperto e tu hai recuperato le Pietre Magiche, mentre io non sarei riuscito a farlo, né come demone e neppure come vecchio Culph, curatore della bi-blioteca reale. Occorreva la persona giusta, un Prescelto che si fosse dedi-cato al recupero dei più preziosi talismani degli Elfi.»

«Ma quella persona poteva essere Erisha!» esclamò Kirisin, in tono ac-ceso. «Perché l'hai uccisa?»

Il demone alzò le spalle «Uccidendola, vi ho costretti a fuggire, tu, tua sorella e il Cavaliere del Verbo. Dovevate uscire dal Cintra e andare da so-

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li in un posto dove si potesse provvedere a voi con tranquillità. E, natural-mente, volevo che cercaste il Loden. In ogni caso Erisha non è mai stata la persona più adatta a usare le Pietre Magiche. Anche uno sciocco poteva capire che aveva una volontà troppo debole per compiere quello che era necessario. Il vero Prescelto sei sempre stato tu. Eri tu il più forte. Il più deciso. Ucciderla era il modo perfetto per rafforzare la tua decisione.»

Sorrise, e quel sorriso bruciava come sale su una ferita aperta. «Vivo da molto tempo tra gli Elfi come vecchio Culph. Anni. E prima di lui ero u-n'altra persona, e prima di allora un'altra persona ancora. Ma il mio trave-stimento da Culph è stato il più utile, perché mi ha dato accesso a tutti i documenti che mi servivano a conoscere la storia degli Elfi. Ho potuto studiare le loro leggende e scoprire le loro debolezze. A tutti noi che ser-viamo il Vuoto era chiaro che a un certo punto sarebbe stato necessario oc-cuparsi degli Elfi. I problemi erano quando e come farlo. Erano una nazio-ne di una certa dimensione, anche se meno numerosi degli umani. In ogni caso, una forza da non trascurare. Cosa si doveva fare, una volta giunto il momento dell'azione? Nel corso degli anni li ho studiati e ho aspettato l'occasione, sapendo che il momento si avvicinava e bisognava trovare le risposte. Il vecchio Culph era poco più di un accessorio dell'arredamento del palazzo e non ha mai destato sospetti.»

Una volta superato lo shock dei primi minuti della narrazione, quando il vecchio aveva ammesso di essere il demone, Kirisin cominciava a cercare il modo di venir fuori da quel disastro. Non aveva altro piano che far parla-re Culph,.. far parlare il demone, si corresse con amarezza. Perché davanti a lui c'era solo un demone nei panni di Culph. Finché fosse riuscito a te-nerlo impegnato, avrebbe potuto scoprire una possibilità di fuggire. Il vec-chio non pareva in grado di difendersi, non si vedeva alcuna arma. Ma era riuscito a sopraffare Simralin, forse addirittura a ucciderla. Il giovane inor-ridiva all'idea, ma non aveva prove che la sorella fosse viva.

L'amarezza montava dentro di lui con tanta forza da indurlo a rinunciare alla cautela e ad attaccare la creatura che aveva davanti. Ma si trattenne. Doveva parlare, parlare, e intanto cercare una soluzione.

Poi tornò a sperare. Si era dimenticato di Angela! Era sulla montagna e doveva raggiungerli nella grotta. Forse sarebbe arrivata in tempo per aiu-tarlo!

Ma gli tornò in mente che il demone non era solo. Certo aveva con sé l'altro mostro.

«Dov'è il tuo... l'altro demone, quello che inseguiva Angela?» chiese.

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Il demone sorrise. «Sono tutt'e due fuori. A rinnovare un'antica rivalità, credo. Se finirà come penso, non rivedremo nessuna delle due.» Incrociò sul petto le braccia scarne. «Come ti ho detto, in questa faccenda sono sta-to agevolato. Ma credo che il bisogno di quel tipo di aiuto sia terminato.»

Kirisin fece una smorfia. «Forse le cose non andranno come pensi. Ti pentirai di averci usati in questo modo.»

«Oh, ne dubito.» Il demone scrollò di nuovo le spalle. «In ogni caso, l'argomento non riguarda noi due. Mi sono assicurato che non venissimo disturbati. Questo tempo è tutto per noi due, Kirisin, perciò vediamo di farne buon uso. Tu hai diritto a una spiegazione, e l'avrai.» Fece una pausa poi continuò: «Vuoi sapere del re? Vuoi sapere perché era tanto ansioso di fermarti?».

«Suppongo che fosse opera tua.» Il ragazzo stringeva il Loden nella ma-no con tanta forza che le sfaccettature lo ferivano. Allentò la stretta e s'infi-lò in tasca la pietra. «Hai detto al re qualcosa che l'ha spaventato?» chiese, cercando ancora di guadagnare tempo.

«Giusto. Ho fatto proprio così. Gli ho raccontato di aver scoperto che il Loden era stato creato per proteggere l'Ellcrys. Cosa che, naturalmente, è vera. Ho aggiunto che la magia del Loden è pericolosa per chi usa la pie-tra, quando viene evocata. Gli ho detto di avere appreso dalle leggende che chi usa il Loden rimane legato alla sua magia con un legame quasi sempre mortale. La pietra ne succhia tutta l'essenza vitale. Una volta evocata, la magia chiede come sacrificio chi l'ha invocata. L'ho convinto che, di con-seguenza, sua figlia sarebbe morta. Lui era disperato e cercava un'alterna-tiva, ma gli ho detto che non ce n'erano. L'Ellcrys aveva fatto la sua scelta e il primo che veniva chiamato era colui che doveva rispondere. La sua so-la possibilità, gli ho spiegato, era lasciare che il suo servizio di Prescelta fosse finito, così l'albero avrebbe dovuto scegliere un altro. Un Prescelto che aveva finito il suo periodo di servizio non era accettabile. L'ho convin-to che l'albero non correva un pericolo immediato e che si poteva aspetta-re. Il re voleva credere alle mie parole. Avrebbe fatto qualunque cosa per salvare la figlia.»

«Ma tu l'hai uccisa ugualmente.» Il demone si strinse nelle spalle. «Mi era utile. Era più importante co-

stringervi a fuggire che soddisfare i desideri del re. Volevo che tutti fosse-ro contro di voi, per non lasciarvi altra scelta e obbligarvi a fare quello che volevo: trovare il Loden per aiutare l'Ellcrys e convincere il re della vostra innocenza. Ammettilo, erano le vostre intenzioni, vero?»

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Kirisin annuì. «Non capisco perché hai fatto tutto questo. Perché non hai ucciso anche me. Perché non hai lasciato perdere tutta la faccenda delle Pietre Magiche. Bastava che aspettassi, l'albero sarebbe morto e il Divieto sarebbe stato infranto. Avresti ottenuto quello che volete, tu e gli altri de-moni. Che t'importa del fatto che io abbia o non abbia il Loden? O eri pre-occupato che lo trovasse qualcun altro?»

Il demone gli rivolse un sorrisino. «Niente affatto. La situazione è molto più complessa. Devi capire. I demoni stano vincendo la lotta contro l'uma-nità. Entro pochi mesi, tutti gli uomini saranno spazzati via o imprigionati nei nostri campi. Allora dovremo occuparci degli Elfi.»

S'infilò la mano in tasca e ne estrasse una cordicella d'argento in cui era-no infilati due anellini lucidi. Oziosamente, cominciò a muovere la cordi-cella in modo che gli anelli continuassero a scorrere su e giù. Pareva com-pletamente assorto in quell'attività, metteva la cordicella in differenti posi-zioni per far compiere agli anelli movimenti diversi. Una volta o due, sol-levò bruscamente la cordicella e gli anelli gli scomparvero in mano per un istante, per poi tornare a rotolare lungo la cordicella.

Kirisin guardò gli anelli luccicanti. Poi guardò di nuovo il demone. «Non hai risposto alla mia domanda.»

Il vecchio sorrise. «Vero, non ho ancora risposto. Pazienta, Kirisin.» Adesso muoveva in cerchio la cordicella con gli anelli, le sue mani descri-vevano grandi archi nell'aria della caverna. «Abbiamo tutto il tempo che ci occorre.»

All'improvviso, dietro il demone, Simralin mosse la gamba destra. Kiri-sin trattenne il fiato.

«Il problema, con gli Elfi, è di natura logistica» continuò il demone, senza smettere di giocare con la cordicella e gli anelli. Seguiva con lo sguardo il movimento degli anelli e pareva completamente assorto. «Per sottomettere e infine eliminare gli umani ci vuole tempo, abbiamo dovuto impiegare anni per infrangere i loro sistemi che assicuravano l'ordine, in-coraggiandoli in segreto ad agire per la loro stessa distruzione. Le guerre tra gli stati, le epidemie che hanno decimato la popolazione, l'avvelena-mento del mondo, l'erosione del senso di sicurezza e della forza di decisio-ne sono tutte cose che hanno richiesto molto tempo e molta fatica. Non siamo propriamente ansiosi di ripetere tutto quel lavoro con gli Elfi. La lo-ro popolazione è meno consistente, ma sono in numero sufficiente a crear-ci dei guai. Inoltre, non abbiamo la certezza che non possano recuperare la magia dimenticata, e inizino a usarla contro di noi.»

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Il demone fece vorticare velocemente cordicella e anelli, come se fosse-ro una ruota d'argento.

«Guarda cos'è successo nel tuo caso, Kirisin. In poche settimane. Hai ri-scoperto varie forme di magia, vari talismani che erano andati perduti da secoli. Pietre Magiche che possono essere usate come armi... armi che gli stessi demoni devono rispettare. E se ce ne fossero altre e tu riuscissi a tro-vare anche quelle? Siete un popolo più metodico degli umani e con il tem-po, spinti dalla necessità, potreste trovare il modo di fermarci.»

Kirisin continuava ad aspettare che la sorella si muovesse di nuovo, ma lei rimaneva immobile. Come se avessero una volontà propria, i suoi occhi tornarono a fissare il demone, la sua cordicella, i suoi anelli e le sue follie. Guardò gli anelli rotolare nella cordicella. A che serviva, quella lunga spiegazione? In ogni caso, il demone aveva commesso un grave errore. Aveva rivelato che le Pietre Magiche erano un'arma e potevano essere usa-te contro di lui. Kirisin non sapeva come, ma avrebbe trovato il modo. A-vrebbe pagato a fondo per quello sbaglio. Infilò pian piano una mano nella tasca. Le sue dita incontrarono il sacchetto delle Pietre Magiche e con grande cautela cominciò a sciogliere la cordicella di cuoio che lo legava.

«Molto più comodo, Kirisin» riprese il demone, continuando a muovere le mani e a far girare gli anelli. «Mi stai guardando?» chiese a bassa voce. Kirisin lo guardava. E all'improvviso non poté più distogliere gli occhi.

«Molto più comodo raccoglierli tutti insieme e tenerli da qualche parte finché non saremo pronti a occuparcene. In questo modo eviteremmo che qualcuno sfugga. Ci risparmierebbe tempo e fatica... mi stai guardando?»

Gli anelli vorticavano più in fretta, lampeggiando. «Mi stai guardando, vero? Vedi come girano e girano e girano. Sono così belli! Ti piacciono, vero, ragazzo mio? Ti piace guardare i loro colori.»

Kirisin annuì. Non riusciva a pensare ad altro, era totalmente assorbito dal movimento delle mani e della cordicella e degli anelli. Non aveva mai visto niente di più affascinante. Non poteva distogliere gli occhi.

«Così, se riuscissimo a riunire tutti gli Elfi in un unico posto, per esem-pio l'interno del Loden, sarebbe infinitamente più semplice tenerli sotto controllo. Più nessun timore che qualcuno vada alla ricerca di talismani perduti, nessuna preoccupazione per cercare il modo di eliminarli. Baste-rebbe trovare una persona in grado di usare il Loden. Un elfo che ne avesse il diritto e il potere. Uno come te, Kirisin. Una persona disposta a fare quello che ci serve. Una persona sotto il nostro controllo.»

Kirisin cercò di parlare e scoprì di non esserne capace. Poteva solo con-

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tinuare a fissare gli anelli sulla loro cordicella, lo scintillio del metallo che rifletteva la luce. Si rendeva vagamente conto che c'era qualcosa di sba-gliato, che non avrebbe dovuto permetterlo, ma nello steso tempo era e-stremamente felice di guardare gli anelli.

«Anche i demoni conoscono qualche piccola magia» disse il vecchio, avvicinandosi di un passo. «Adesso tu appartieni a me, ragazzo. Sei il mio obbediente servitore, e farai quello che ti dico. Molto più facile delle mi-nacce, delle torture e tutto il resto. Un semplice incantesimo e adesso io controllo la tua volontà. È ciò che ho sempre voluto da te. Non ti chiedo molto. Solo di tornare con me nel Cintra e usare il Loden come ti ha chie-sto l'Ellcrys. Mettere la città i suoi abitanti dentro la Pietra, dove se ne sta-ranno tranquilli e al sicuro, e tenerceli finché non arriverà il momento di farli uscire. I miei amici ci aspettano per salutarci, un buon numero di loro. In effetti, un intero esercito. Li ho chiamati poco prima di partire per se-guirvi. Demoni ed ex uomini. Per essere certi che nessuno si allontanasse prima del nostro arrivo.»

Sulla faccia del vecchio comparve un ghigno crudele. «È stato facile in-gannarti, ragazzo. Sei così ingenuo e fiducioso, così disposto a credermi amico. Sono stufo di te, stufo della tua razza. Sono stufo di fingere di esse-re uno di voi, di fingere di essere in qualche modo vostro eguale. Vi voglio tutti morti. Vi voglio cancellati dalla faccia della terra.»

Le mani si muovevano, gli anelli scintillavano. «Ancora un momento, ragazzo, e sarà tutto finito. L'incantesimo sarà

terminato e più nulla potrà scioglierlo. Tu continua a guardare.» Kirisin non poteva fare diversamente. Sentiva la voce, ma non capiva le

parole. Erano rassicuranti e gradevoli, ma non ne afferrava il significato. Se ne stava immobile come una statua, avvolto dal buio della caverna, iso-lato entro il raggio della lampada con gli occhi fissi sugli anelli. Una pic-cola parte di lui gli gridava di fare qualcosa, ma non ascoltava l'avverti-mento perché disturbava la sua concentrazione sugli anelli.

Solo gli anelli contavano. «Ancora qualche momento, sciocco ragazzo» sussurrò il demone. «Vo-

levi che continuassi a parlare, vero? Volevi guadagnare tempo per trovare il modo di sfuggirmi, vero? Bene fa' pure! Fuggi! Torna da dove sei venuto e liberati di me! Cosa c'è che non va, Kirisin? Non ci riesci? Sei davvero così contento da non voler più scappare? Possibile? Credo che forse...»

Il respiro gli si mozzò e la sua testa si piegò all'indietro per lo shock. La cordicella e gli anelli volarono via nell'oscurità. Il demone lanciò un urlo,

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uno spaventoso gemito di incredulità e di rabbia. Kirisin uscì bruscamente dalla trance ipnotica. La sua concentrazione

sulla corda e sugli anelli svanì in un batter d'occhio. Era di nuovo nella ca-verna, davanti al vecchio bibliotecario che invece era un demone, davanti al vecchio Culph che annaspava nell'aria come impazzito.

Simralin, appoggiata su un gomito, gli aveva piantato il suo lungo coltel-lo da caccia in una gamba rinsecchita.

«Strega!» gridò il demone, voltandosi verso di lei e scalciando. Ma lei gli afferrò la gamba e strinse tra le braccia le caviglie, cercando di

tirarlo verso di sé. Sotto la maschera di sangue che la copriva, la sua faccia era rigida per la concentrazione, i suoi forti muscoli erano contratti per lo sforzo di tenere fermo il demone.

Ma Culph, per quanto sembrasse un fragile vecchio, era più forte di lei. Si liberò e scalciò di nuovo, e questa volta la colpì sulla faccia. La testa di Simralin scattò all'indietro per la forza del colpo. Kirisin sentì il suo grido, mentre rotolava su se stessa e poi rimaneva immobile.

Zoppicando, il demone la raggiunse. «Culph!» gridò Kirisin. Il demone si voltò con gli occhi che mandavano fiamme. Mentre si vol-

tava, il giovane impugnò le Pietre Magiche e le tese verso di lui. Ricordava cosa potevano fare: un'arma che persino i demoni dovevano rispettare, glielo aveva detto il suo nemico. Strinse nel pugno le pietre e le puntò con-tro il vecchio, visualizzando nella mente quello che desiderava.

La reazione del demone fu immediata. Indietreggiò e sollevò le braccia come per proteggersi. Kirisin sentì un brivido di feroce soddisfazione im-padronirsi di lui.

«Sciocco ragazzo!» gridò il demone, facendo alcuni gesti con le mani. Ma era troppo tardi. Il fuoco azzurro scaturì dalle pietre e avvolse il de-

mone in un sudario di fiamme. Culph urlò, cercò di spegnere il fuoco ma non ci riuscì e cominciò a bruciare, prima i vestiti e la carne, poi quello che stava sotto.

Continuò ad agitarsi invano mentre il fuoco lo consumava. Kirisin non si fermò. Tenne il fuoco puntato sul demone; mantenne forte, continuo e cen-trato il potere delle Pietre. Il vecchio Culph scomparve. Ogni aspetto va-gamente da elfo svanì. Rimase una forma scheletrica nera come la notte, un mostro disegnato dalla mano di un bambino.

Poi anche quella si dileguò, consumata e trasformata in cenere impalpa-bile, pulviscolo che fluttuava alla luce della lampada e si depositava sul

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ghiaccio della caverna, i resti di un'epidemia virulenta che era stata final-mente debellata.

Kirisin abbassò il braccio. «Per Erisha» mormorò. «Per Ailie. Per Sim e Angela e per tutti coloro che hai toccato con le tue sporche menzogne!»

Tremava di rabbia ed era vicino al collasso. Temeva che il suo cuore si spezzasse per i ricordi evocati da quelle parole. Aveva le lacrime agli occhi e in bocca un'amarezza che sembrava voler durare per sempre.

Nel gelo e nel silenzio della caverna, si strinse il petto tra le braccia per non andare in pezzi.

33

Crepuscolo sull'autostrada. Pantera camminava in testa con Passero e i suoi occhi scuri seguivano la

discesa del sole che scivolava sotto l'orizzonte. La luna era già alta, quasi piena, bianca sullo sfondo grigio e velato del cielo. Di fianco all'autostrada si levavano colline basse che ricordavano una serie di onde. La siccità e i veleni le avevano rese brune e spoglie. Erano interrotte solo da qualche piccolo gruppo di edifici simili ad animali che tirano fuori il muso dalla tana per darsi cautamente un'occhiata attorno. Più avanti, oltre quelle colli-ne ondulate, si alzava una catena di monti scuri e dalle cime aguzze.

Pantera si guardò alle spalle. Catalya camminava qualche metro dietro di lui, la faccia nascosta nel cappuccio, gli occhi abbassati sulla strada dove metteva i piedi. Coniglio saltellava attorno a lei, per poi rincorrerla quando si allontanava troppo. Dietro di loro, a qualche decina di metri, veniva il Lightning, guidato da Aggiusta. Gufo e Fiume erano dentro il veicolo e vegliavano sul Cavaliere del Verbo, ancora privo di sensi.

Gli altri Spettri viaggiavano sul carro, in mezzo alle loro scorte di cibo, ormai molto ridotte, e alle loro scarse proprietà; facevano la guardia men-tre le ombre si allungavano.

La fine del giorno era silenziosa, a parte il basso ronzio del motore elet-trico del Lightning alimentato dall'energia solare, al fruscio delle gomme sul cemento e ai sussurri di un vento leggero.

Pantera si sorprese a pensare a Logan Tom per quella che doveva essere la centesima volta nel giro dell'ultima ora. Salvarlo da Krilka Koos e dai sui seguaci decerebrati era una cosa, salvarlo da se stesso era un'altra. Non gli era parso così malridotto quando l'avevano portato indietro, non gli era parso così danneggiato. Poi, tutt'a un tratto, Logan Tom non era più stato

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con loro. Diede un calcio a qualcosa che stava sulla strada. «Nessuno può far

niente per tirarlo fuori da questo stato?» chiese all'improvviso a Passero. Lei lo guardò e scosse la testa dai capelli biondi. Sembrava stremata.

«Deve svegliarsi da solo, quando sarà pronto.» «Ma in due giorni non ha mosso un muscolo! Non mangia e non beve.

Un uomo non può andare avanti a lungo in questa maniera. Lo sai.» «Lo so, ma le cose vanno così. È stato ferito molto gravemente, perciò si

è rifugiato in qualche luogo all'interno di se stesso per cercare di guarirsi. Semplicemente, non ha ancora finito.» Si strinse nelle spalle. «Gufo sta fa-cendo il possibile per lui. Le ferite stanno guarendo bene. Non c'è nessuna traccia di infezione causata dal dente di vipera, eppure quella ferita avreb-be dovuto ucciderlo. Qualunque cosa si sia guastata, è all'interno della sua testa.»

A Pantera sembrava un gran mucchio di idiozie, ma tenne per sé la con-siderazione.

«Quell'uomo muore» disse invece. «Non parlare così» lo rimproverò Catalya da dietro. Pantera fece una smorfia. «Va bene, va bene. Facevo solo... un'osserva-

zione, nient'altro.» E pensò, irritato: "La ragazza ha le orecchie di un fal-co".

Falco, ecco. Un altro mistero che aspettava ancora la risposta. L'uomo-uccello era scomparso dalle mura, era finito dentro quella gran

bella luce - e non è quello che ti succede quando muori? - e adesso diceva-no che l'avrebbero trovato, bastava andare a sud. Come se potesse essere vero. L'aveva detto una visione, ma Pantera non aveva mai avuto molta fe-de nelle visioni. Neppure in quelle di Falco, quelle che Gufo trasformava in storie per i ragazzi. Quelle storie gli piacevano, gli piaceva come Gufo le narrava. Ma in realtà non ci credeva. Credere a storie come quelle ti por-tava alla morte, in quel mondo.

Se proprio volevi credere a qualcosa, facevi meglio a credere alla Par-khan Spray o alla Tyson Flechette. Oggetti concreti che potevi stringere in pugno e usare per ammazzare i nemici.

Anche Cat la pensava allo stesso modo. Ragazza pratica, senza grilli per la testa. Poteva essere mezza mutante, ma assomigliava a lui più degli altri. Non riusciva ancora a capacitarsi del modo in cui aveva fatto fuori quei pagliacci della milizia. Era maledettamente pericolosa, ecco cos'era. E la pensavano allo stesso modo riguardo alla ricerca di Falco. Una perdita di

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tempo. A volte Pantera si faceva delle domande. Quello che facevano sembrava

avere uno scopo, ma quanto aveva davvero importanza? In quei momenti si sentiva come un uomo che annegava e dibatteva le braccia sull'acqua, nel bel mezzo dell'oceano.

«Lo sai che non lo troveremo mai» disse a Passero. «L'uomo-uccello, in-tendo dire. Possiamo continuare a cercarlo finché anche l'ultimo di noi sarà sottoterra con Scoiattolo, ma non lo rivedremo più.»

Lei non lo guardò. Guardava dritto davanti a sé, in lontananza. «Forse sì» rispose lei, a bassa voce. Pantera la guardò, confuso. Il modo in cui aveva parlato gli sembrò stra-

no, poi guardò anche lui nella direzione in cui guardava la ragazzina. Tre figure erano comparse proprio allora, da dietro una collina, e salivano sul-l'autostrada per venire verso di loro.

Un giovane, una ragazza e un cane dalla brutta testa grossa. Pantera rimase a bocca aperta. «Maledizione!» sussurrò. Un grande sorriso si disegnò sulla faccia di Passero, e la sua espressione

cupa si trasformò per incanto. La stanchezza scomparve. Nuova vita fiorì. Senza una parola, corse verso le figure che si avvicinavano, chiamandole

per nome, e il suono della sua voce fu come un richiamo che avvisava gli altri.

«Maledizione!» ripeté Pantera, mettendosi a correre a sua volta. Crepuscolo sulla montagna. Quando Angela Perez riprese i sensi, il sole era calato e faceva molto

freddo. Giaceva sulla neve e sul ghiaccio, a faccia in giù, nel punto dov'era crollata dopo la battaglia contro il demone, con il mantello avvolto sul braccio ferito e il bastone stretto contro il corpo.

C'era sangue dappertutto e grandi chiazze del manto bianco della monta-gna erano bruciate e fumavano ancora a causa del fuoco del Verbo. I resti del demone giacevano da una parte, irriconoscibili, salvo le parti inferiori. Angela distolse in fretta lo sguardo. Anche nella morte era mostruoso.

Sapeva di doversi alzare e trovare un riparo, sapeva che se non l'avesse fatto sarebbe morta assiderata. La luce era quasi sparita dal cielo e la tem-peratura scendeva rapidamente. Forse l'inverno era scomparso dal resto degli Stati Uniti, ma lì era ancora presente. Cercò di muoversi e scoprì che il suo corpo non voleva. Le doleva in ogni fibra, ma pensava che il freddo contribuiva ad attutire il dolore e a rallentare l'emorragia. Sapeva di essersi

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rotta alcune costole e forse anche il braccio, di perdere sangue da una doz-zina di lesioni profonde. Non poteva essere certa d'altro.

Provò a tastarsi alla ricerca di danni interni, ma si fermò subito. «No to-ques» sussurrò. «Non toccare. Meglio non sapere. Meglio non pensarci.»

Trascorse qualche momento a rimettere in ordine le idee, respirò a fondo più volte e rafforzò la propria decisione. Poi strinse con forza il bastone e si mise in piedi. Riuscì a raddrizzarsi con fatica rischiando di cadere, in-ciampando e faticando a mantenere l'equilibrio, ma fece qualche passo, con il dolore che la trafiggeva come un coltello rovente. Lottò per stare in piedi, sicura che se fosse caduta non si sarebbe più alzata.

Si sciolse dal braccio il mantello e lo indossò. Le occorse molto tempo, e quando ebbe finito aveva l'aspetto di un vagabondo. Fori e strappi dapper-tutto, macchie scure di sangue, non una grande protezione contro il freddo.

Ma pur sempre una protezione. Era il massimo che poteva fare. Usare quello che aveva.

Il suo zaino era sparito e non aveva la forza di cercarlo. Le occorreva un riparo. Subito. Ansimando e appoggiandosi al bastone, guardò verso le ca-verne, per cercare l'entrata.

Non riuscì a vederla. "Non importa" pensò. "So che c'è. So che posso trovarla. So che devo

trovarla." «Resistete, Kirisin, Simralin» sussurrò al vento, alla neve e al gelo. «Sto

arrivando.» Lentamente, a fatica, cominciò a risalire il fianco del monte.

RINGRAZIAMENTI La pubblicazione di questo libro segna anche il trentesimo anno della

mia attività di scrittore, iniziata nel 1977 con La Spada di Shannara. Fatti risalenti a tempi così remoti che riesco appena a ricordare quel che prova un autore nel vedere pubblicato il suo primo libro. Quel che non posso scordare è quanto sono stato fortunato nell'incontrare alcune persone che mi hanno aiutato a percorrere ogni passo della mia strada. Il debito nei loro confronti è superiore a quanto riuscirei a esprimere con le parole, ma sento il dovere di provare a esprimerlo.

Fin dall'inizio della carriera, i miei libri sono stati pubblicati dalla Del Rey Books. Non sono molti gli scrittori che possono dire altrettanto. Il no-stro sodalizio, lungo ed estremamente fortunato, è legato a un numero di

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fattori casuali - e favorevoli -, a incominciare dal rapporto con i fondatori della casa editrice, Lester e Judy-Lynn del Rey. In tutta la mia vita non troverò mai più due persone come loro: appassionate, devote, brillanti, tal-volta anticonvenzionali, ma d'una cortesia che andava al di là di ogni im-maginazione.

Lester è stato il mio primo redattore, il mio mentore, critico, maestro di doposcuola e amico. Quasi tutto quel che so sull'arte dello scrivere è da lui che l'ho imparato. Ho sentito ripetere molte volte una frase da coloro che hanno lavorato con lui: "Lester era di un'abilità da Superman, nel trovare i punti deboli di un dattiloscritto!". Non sarò io a negarlo. Ti insegnava nel migliore dei modi. Ti lasciava fare i tuoi errori, aspettava che ti accorgessi di avere fatto la corbelleria e poi ti spingeva a cercare la forma giusta. Era famoso per la sua promessa: "Se riesci a convincermi che ho sbagliato e che tu hai ragione, metteremo come vuoi tu". Riuscivo a convincerlo me-diamente una volta su venti. E quasi sempre, alla fine della discussione, mi sentivo deluso e umiliato dalla mia ignoranza rispetto alla sua grande co-noscenza. Però Lester ha fatto di me uno scrittore migliore. Non sono mai riuscito a ringraziarlo a sufficienza durante la sua vita; temo di non riuscir-ci neppure ora.

Owen Lock, assistente e protégé di Judy-Lynn, prese il posto di Lester come redattore capo. È un tipo di lavoro che non ti porta ringraziamenti, ma solo grane. Lui, comunque, riuscì a farlo funzionare bene. Owen e io siamo cresciuti insieme nella Del Rey. Abbiamo fatto amicizia subito e da allora siamo rimasti amici. Mi ha aiutato più volte e in più maniere di quante si possano contare. Non smetterò mai di ringraziarlo.

Il mio attuale redattore è Betsy Mitchell. Ne avevo sentito parlare già prima che entrasse nella casa editrice, ma non conoscevo le sue capacità. Sono lieto di poter dire oggi, in base alla mia esperienza, che sono consi-derevoli. È lei a mantenere onesta e focalizzata la mia prosa, cosa non sempre facile. Non esita a dirmi quando svicolo o tento di cavarmela senza compiere troppi sforzi. Possiede un gran senso dell'umorismo ed è acutis-sima. È un onore lavorare con lei.

Non saprei veramente da dove cominciare, se dovessi dirvi il nome di tutti coloro che mi hanno aiutato nelle case editrici del gruppo, Del Rey Books, Ballantine Books e Random House, nel corso degli anni. Se cercas-si di elencarli, ne dimenticherei qualcuno. Non esagero nel dire che sono centinaia. Editoria, pubblicità, grafica, marketing, vendite, dai più grandi ai più umili, tutti hanno reso migliori i miei libri e la mia vita. Hanno lavora-

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to duramente per me, ogni volta, e non li dimenticherò. I miei amici e parenti mi sono stati di enorme sostegno, mi hanno dato

spazio e tempo per le mie stramberie e i miei vagabondaggi fuori della re-altà. I vari membri della mia variegata famiglia, in particolare, raggiungo-no vette di pazienza e di comprensione che non potrei mai uguagliare, lo ammetto senza difficoltà. Mi stupisce che non mi hanno mai fatto ricovera-re. Le mie figlie Lisa, Jill e Amanda, mio figlio Alex, mio nipote Hunter, sono lo zoccolo duro della mia - talvolta dubbia - sanità mentale, e mi ri-portano a terra quando è necessario. Sono i cavi di sicurezza che mi tengo-no ormeggiato al mondo reale. Mia sorella Laurie non dubita mai di me, ha sempre fiducia e mi ha sempre sostenuto. S'è scordata di tutte le volte che l'ho rincorsa col coltello quando eravamo bambini, e di questo la ringrazio. Li ringrazio tutti per quello che fanno per me.

Poi c'è Judine. Cosa posso dire per dare un'idea di quanto è importante per me? Mi assiste fin dal primo giorno che ci siamo incontrati, venti e più anni fa. Senza di lei mi sarei perso, è lei che mi ha insegnato tutto quel che conosco sul lato commerciale dell'editoria.

Judine è stata la mia prima lettrice, ha corretto e riletto i miei manoscrit-ti, ha viaggiato con me nei più lontani angoli del paese per innumerevoli presentazioni dei miei volumi. Mi dice quando sbaglio e mi rassicura quando ho ragione. È la mia coscienza e il mio cuore. Il mio amore per lei è profondo e privo di riserve.

Tutti dovrebbero essere fortunati come lo sono io. Tutti dovrebbero ave-re il tipo di amici e di famigliari che ho io. Se ci fosse un modo per otte-nerlo, sarei il primo a imporne per legge l'adozione. Grazie a tutti.

Terry Brooks Agosto 2007

FINE