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48 Il dovere della testimonianza e il diritto alla ricerca Un ricordo di Giovanna Massariello R icordo un giorno l’anno scorso, quando Giovanna mi portò quattro piccoli fogli di quaderno a righe scritti di pugno da mia nonna Marcella Chiorri Principato e intitolati La donna italiana. Li aveva trovati tra le carte di sua madre Maria Arata, ex- deportata, scomparsa nel febbraio 1975. Me li donò senza troppe parole e chiedendomene la fotocopia, ma sapendo come mi sarei comportato con quelle carte. Infatti le lessi, le trascrissi e incominciai a studiarle. Era un discorso denso di sofferenza e carico di speranza, risalente ai tempi della Consulta Nazionale, ovvero ai mesi precedenti al 2 giugno 1946, quando Maria Arata, al ritorno da Ravensbrück, sia pure ancora profondamente segnata dalle sofferenze del lager, collaborava con mia nonna nei Gruppi di Difesa della Donna, proprio mentre si avviavano a entrare a far parte dell’Unione Donne Italiane. E videntemente mia nonna decise di donarle quelle pagine autografe, come un omaggio verso l’amica che il 4 luglio 1944 vide dalla finestra arrestata dalla polizia fascista e portata via su un carro di spazzatura. L’episodio è descritto anche da mia madre nelle sue memorie (Concettina Principato, «Siamo dignitosamente fiere di avere vissuto così». Memoria della Resistenza e difesa della Costituzione. Scritti e discorsi, a cura di Massimo Castoldi, Ravenna, Giorgio Pozzi, 2010, p. 31). T ra gli Arata e i Principato esisteva un legame profondo, rinsaldato nella condivisione di ideali e valori comuni, che li univano nella lotta antifascista. Maria Arata, a esordio del suo Diario di una deportata a Ravensbrück, Il ponte dei corvi (Milano, Mursia, 1979, p. 18) ricorda proprio mio nonno tra i suoi «compagni di lotta leali, valorosi fino all’eroismo». Abitavano in due isolati contigui: gli Arata in via Garofalo 44, i Principato in via Gran Sasso 5. Q uel 4 luglio Maria Arata fu condotta prima alla Guardia repubblicana dell’Ufficio Maria Arata Massariello, madre di Giovanna, dopo essere stata deportata a Ravensbruck. Sopravvissuta alla prigionia, riprese l’insegnamento fino alla morte avvenuta nel ‘75. Politico Investigativo del gruppo «Fabio Filzi» di via Tonale e poi al carcere di San Vittore. Solo quattro giorni dopo sarebbe stato arrestato anche mio nonno, poi fucilato in Piazzale Loreto il successivo 10 agosto. Maria Arata sarebbe partita per Bolzano il 7 settembre e poi per Ravensbrück il 7 ottobre. I l filo non si è interrotto col passaggio delle generazioni. Mia madre aveva lavorato con Maria Arata e io con Giovanna. Quelle carte erano la conferma di un intreccio di vicende umane e storiche, ma anche per noi di un metodo di lavoro e di una scelta di vita. Questo mi univa a Giovanna: la necessità morale di testimoniare la vita dei propri congiunti che avevano lottato e sofferto per affermare valori di onestà, libertà e democrazia, ma anche il bisogno di sostenere tale proposito col rigore scientifico della ricerca. Giovanna usava le proprie competenze di docente di glottologia e linguistica, esperta di lessicologia, lessicografia, dialettologia, interferenza linguistica, anche nella ricerca sulla

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Il dovere della testimonianza e il diritto alla ricerca

Un ricordo di Giovanna Massariello

Ricordo un giorno l’annoscorso, quando Giovanna miportò quattro piccoli fogli di

quaderno a righe scritti di pugno damia nonna Marcella ChiorriPrincipato e intitolati La donnaitaliana. Li aveva trovati tra le cartedi sua madre Maria Arata, ex-deportata, scomparsa nel febbraio1975. Me li donò senza troppeparole e chiedendomene lafotocopia, ma sapendo come misarei comportato con quelle carte.Infatti le lessi, le trascrissi eincominciai a studiarle. Era undiscorso denso di sofferenza ecarico di speranza, risalente ai tempidella Consulta Nazionale, ovvero aimesi precedenti al 2 giugno 1946,quando Maria Arata, al ritorno daRavensbrück, sia pure ancoraprofondamente segnata dallesofferenze del lager, collaboravacon mia nonna nei Gruppi di Difesadella Donna, proprio mentre siavviavano a entrare a far partedell’Unione Donne Italiane.

Evidentemente mia nonnadecise di donarle quellepagine autografe, come un

omaggio verso l’amica che il 4

luglio 1944 vide dalla finestraarrestata dalla polizia fascista eportata via su un carro dispazzatura. L’episodio è descrittoanche da mia madre nelle suememorie (Concettina Principato,«Siamo dignitosamente fiere diavere vissuto così». Memoria dellaResistenza e difesa dellaCostituzione. Scritti e discorsi, acura di Massimo Castoldi, Ravenna,Giorgio Pozzi, 2010, p. 31).

Tra gli Arata e i Principatoesisteva un legame profondo,rinsaldato nella condivisione

di ideali e valori comuni, che liunivano nella lotta antifascista.Maria Arata, a esordio del suoDiario di una deportata aRavensbrück, Il ponte dei corvi(Milano, Mursia, 1979, p. 18)ricorda proprio mio nonno tra i suoi«compagni di lotta leali, valorosifino all’eroismo». Abitavano in dueisolati contigui: gli Arata in viaGarofalo 44, i Principato in viaGran Sasso 5.

Quel 4 luglio Maria Arata fucondotta prima alla Guardiarepubblicana dell’Ufficio

Maria Arata Massariello, madre diGiovanna, dopo essere stata deportataa Ravensbruck. Sopravvissuta allaprigionia, riprese l’insegnamento finoalla morte avvenuta nel ‘75.

Politico Investigativo del gruppo«Fabio Filzi» di via Tonale e poi alcarcere di San Vittore. Solo quattrogiorni dopo sarebbe stato arrestatoanche mio nonno, poi fucilato inPiazzale Loreto il successivo 10agosto. Maria Arata sarebbe partitaper Bolzano il 7 settembre e poi perRavensbrück il 7 ottobre.

Il filo non si è interrotto colpassaggio delle generazioni. Miamadre aveva lavorato con Maria

Arata e io con Giovanna.Quelle carte erano la conferma diun intreccio di vicende umane estoriche, ma anche per noi di unmetodo di lavoro e di una scelta divita.Questo mi univa a Giovanna: lanecessità morale di testimoniare lavita dei propri congiunti cheavevano lottato e sofferto peraffermare valori di onestà, libertà edemocrazia, ma anche il bisogno disostenere tale proposito col rigorescientifico della ricerca.Giovanna usava le propriecompetenze di docente diglottologia e linguistica, esperta dilessicologia, lessicografia,dialettologia, interferenzalinguistica, anche nella ricerca sulla

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memoria e questa a sua voltainfluenzava l’orientamento dei suoistudi linguistici.

Il lager, lo scrive Primo Levi, èper sua stessa natura una«Babele» di linguaggi, nella

quale si impone una lingua su tuttele altre: il tedesco, la lingua delpotere. Chi lo conosce aumenta lesue esigue possibilità disopravvivenza, ma chi sopravvive loavverte negli anni come un incubocostante, al punto da non riuscirepiù a sopportarne la pronunciaanche dei più elementari fonemi.Nel lager, le differenze, leminoranze, le variazioni linguistichesono punite e il monologismo deidominatori annulla i deportati comeparlanti e quindi come uomini. Ilrifiuto di tale atteggiamento aiuta acomprendere l’interesse da parte diGiovanna per tutti gli aspettidialogici e interdiscorsivi dellinguaggio, sia all’internodell’esperienza dei campi disterminio, sia nella realtàcontemporanea.

Un libro che stava molto acuore a Giovanna era laPoetica del diverso dello

scrittore francese studioso diletteratura caraibica ÉdouardGlissant (Roma, Meltemi 1998,trad. da Introduction à une poétiquedu divers, Paris, Gallimard, 1996),che sostiene che «noi dobbiamoconsiderare il multilinguismo undato poetico della nostra esistenza enon una realtà che ci rendepoliglotti», essere multilinguesignificherebbe innanzitutto unadisponibilità ad ascoltare, prima cheun’abilità a parlare. Ed è in questachiave che Giovanna leggeval’interesse linguistico di Primo Levi,osservando per esempio comespesso nei suoi libri l’epigrafe inesergo sia in una lingua diversarispetto all’italiano: in yiddish nelSistema periodico, in inglese nellaChiave a stella, come se in questaaccoglienza di un’altra lingua vifosse implicito un segnale al lettoredi attenzione più profonda e piùestesa all’accoglienza della diversitàculturale.

Il documento era per Giovannapunto di partenza, di ancoraggiodella propria indagine, ma era

ben consapevole quanto questo

fosse anche un pretesto per andareoltre l’archivio e la testimonianza,fosse questa anche quella di suamadre.La sua non è stata mai nostalgicarievocazione, ma provocazione esfida a un presente spesso distratto.E qui ancora una volta torna lalezione di Levi, che con Se questo èun uomo non ci ha lasciato undiario, ma uno strumento di ricercae di conoscenza prima di tutto dinoi stessi.

Qui la scelta del lavoro inFondazione e lacollaborazione con me, nella

convinzione che la nostra non debbaessere solo conservazione dellamemoria e della testimonianza, maun interrogarsi sulle dinamichestoriche per generare unariflessione, che ripudi le chiacchieretroppe volte spacciate per storia.Ultimo atto del nostro lavoroinsieme è stato il convegno del 18-19 ottobre Settant’anni dall’8settembre 1943. Per la costruzionedi una memoria europea. Il pesodelle responsabilità storiche diItalia e Germania, al quale

Giovanna non ha potutopresenziare, ma del quale è statal’ideatrice, l’ispiratrice, larealizzatrice. In sua memoria necurerò la pubblicazione degli atti.

Il suo magistero sta proprio inquesto: nell’inscindibilità dellaricerca scientifica dalla

testimonianza e dall’impegno etico ecivile, nella consapevolezza di essereanello di una catena che, legataall’esperienza di chi non c’è più, cipermetta di guardare avanti con uncerto ottimismo, nonostante tutto.

Credo che questa fiducia sia lasua principale eredità,necessaria per guidare la

Fondazione memoria dellaDeportazione verso una nuova fase,per fare delle voci dei testimoni nonun coro indistinto, ma il fondamentodi una coscienza critica, che anchese resta di pochi, costituisca unbaluardo contro ogni forma dideriva dei principi di rispetto delladignità umana, per i quali troppevite sono state tragicamentesacrificate.

Massimo Castoldi

Una fotografia della Prof.ssa Massariello scattata in occasione dell’incontro“Triangoli di Memoria” tenuto a Montecitorio il 30 maggio 2013. Era presente ilPresidente della Camera, Laura Boldrini.

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Partigiano, catturato dai nazisti

Parlamentare del Pci per tre legislature ,ex Presidente nazionale dell’Anpi

Grande penalista, principe del Foro

Presidente dell’Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea

Nato a Roma il 13 aprile 1921,Raimondo Ricci in etàadolescenziale trascorse due

anni in Africa orientale, insieme conla sorella Maura, essendo stato ilpadre Emilio, di professionemagistrato, nominato presidente delTribunale di Harar in Etiopia.Rientrato in Italia nel 1939, dopoaver conseguito la maturità classicavenne ammesso al CollegioMussolini, succursale della ScuolaNormale di Pisa nell’ambito deglistudi giuridici. Nella città toscanaRicci si formò alla lezione dimaestri quali Guido Calogero eAldo Capitini, entrando in contattocon gli ambienti dell’antifascismo.

Chiamato alle armi nel 1941 edestinato alla Capitaneria delporto di Imperia, nei giorni

successivi all’8 settembre si adoperòper la costituzione di un primigenionucleo di lotta partigiana cheavrebbe operato nella zona delmonte Faudo, sotto il comandomilitare di Vittorio Acquarone.Arrestato dai fascisti nel dicembre1943, di ritorno da una missione aGenova ove aveva stabilito contatticon il locale Cln, e rinchiusodapprima nel carcere di Imperia epoi in quello di Savona, sotto lacustodia della Gestapo,successivamente venne preso inconsegna dalle SS e trasferito nella

Ci ha lasciato il 27 novembre scorso

La morte di Raimondo Ricci mi ha colpito molto profondamenteper i legami che la deportazione di entrambi, prima a Fossoli epoi a Mauthausen, aveva generato.Con Raimondo ho condiviso queste esperienze alle quali,successivamente, se ne sono unite, per anni e anni, tante altre,coprendo tutto il periodo forte della nostra partecipazionepolitica e delle nostre battaglie ideali.

Una amicizia indissolubile. Gianfranco Maris

Il telegramma di Gianfranco Maris

É morto a GenovaRaimondo Ricci

deportato a Mauthausen

“il periodo forte delle nostre battaglie...”

Raimondo Ricci parla ad un congressodell’Anpi.

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IV sezione del carcere genovese diMarassi, destinata ai detenuti politici.Sfuggito fortunosamente allarappresaglia nazista del Turchino, cheil 19 maggio 1944 fece 59 vittimeprelevate dal carcere di Marassi, duedelle quali erano suoi compagni dicella, alla fine di quello stesso mesedi maggio fu inviato al campo diFossoli, centro di raccolta per ebrei eprigionieri politici destinati alladeportazione nei lager nazisti.

Ricci giunse nel lager diMauthausen, vicino allacittadina austriaca di Linz, alla

fine del giugno 1944 e vi rimase sinoalla liberazione del campo, avvenutail 5 maggio 1945 con l’arrivo delleforze armate americane. Fuall’interno del lager di Mauthausen,entrando in contatto con altriprigionieri politici italiani, tra cuiGiuliano Pajetta, fratello diGiancarlo, che Ricci si iscrisse alPartito comunista italiano.Dopo essersi laureato, neldopoguerra, in giurisprudenza edessere divenuto, come avvocatopenalista, un principe del foro diGenova, Ricci intraprese una carrierapolitica nelle file del Pci che, apartire dal 1976, lo avrebbe portato inParlamento per tre legislature e,successivamente, al consiglio dipresidenza della Corte dei Conti.

Nel 1992 Ricci è stato elettoalla presidenza dell’attualeIstituto ligure per la storia

della Resistenza e dell’etàcontemporanea, carica che avrebbemantenuto per vent’anni, lungo iquali si è adoperato con grandeenergia e lungimiranza perintensificare e ampliare le attività e iprogetti di ricerca scientificadell’Istituto, divenuto, sotto il suomandato, punto di riferimento dellavita culturale genovese e non solo.Membro del direttivo dell’Istitutonazionale per la storia del movimentodi Liberazione in Italia di Milano, cuifanno capo gli oltre cinquanta Istitutistorici della Resistenza italiani, dopoessere stato vice-presidentedell’Associazione nazionale partigianid’Italia, nel 2009 ne è divenutopresidente nazionale, caricamantenuta sino al 2011. Nel 2006 il Comune di Genova gli ha conferito il Grifo d’oro,massima onorificenza cittadina.

Cara Bianca, La Spezia, 20-09-2013

a sei mesi dalla tua scomparsa ho avvertito il desiderio di scrivere questeparole che mi sono nate dal cuore.La tristissima e feroce deportazione nei campi di sterminio nazisti ci ha ac-comunati ed uniti in quanto abbiamo subito entrambi questa follia nazista:io come figlio di deportato ucciso a Mauthausen (Gusen), Tu, molto più pe-santemente, in prima persona, unitamente alla Tua mamma, Tua sorella eTuo fratello. Loro purtroppo non fecero ritorno.Ci siamo conosciuti molto tempo dopo la fine della guerra del 1945, entrambiancora giovani ed impegnati nel nostro lavoro o professione. Al termine deirispettivi impegni, con la frequenza assidua della Sede Provinciale ANED èiniziata una profonda conoscenza reciproca.Come non ricordare il Tuo modo di proporTi, il calore, la competenza, il Tuoprofondo rispetto per tutti, anche per gli avversari?Riuscivi a catalizzare il massimo interesse di chi Ti ascoltava, sia nelle variecircostanze ufficiali a ricordo della deportazione, ma soprattutto nelle scuo-le superiori.Insuperabile nel rivolgerTi e testimoniare le Tue terribili esperienze agli stu-denti nel rispettoso silenzio di chi Ti ascoltava.Io, seduto, al tuo fianco, sempre più ammirato per come Ti esprimevi, sere-na, senza odio verso chi Ti aveva procurato tanto dolore, riuscivi a metterein guardia i giovani a tutela della libertà e della democrazia.Io, che al solo ricordare le vicende della deportazione, ho sempre provatoun brivido e un moto di rabbia, mi chiedevo come facessi ad essere serena,obiettiva, attenta a non spargere odio verso nessuno.Cara Bianca, per ricordarTi come meriti, dovrei scrivere molto ancora, madesidero esprimere che sono orgoglioso e considero un onore l’averTi cono-sciuta, esserTi stato amico ed aver lavorato al Tuo fianco negli impegni del-l’associazione ANED per ricordare tutti, specialmente ai giovani, il sacrifi-cio dei nostri cari nei campi di sterminio nazisti.Impossibile dimenticarTi!Marcello OrsettiEx Segretario Aned – La Spezia – Figlio di deportato politico deceduto a Mauthausen (Gusen)il 27-02-1945, matricola 126316

Lettera a Bianca PaganiniLa deportazione piaga da non dimenticare

I NOSTRI LUTTILUIGI ROVEDA

iscritto all’Aned di Parma, fu depor-tato nel campo di concentramento diBolzano con matricola n.9484.

PIO BIGOfu tesoriere dell’Aneddi Torino e consiglierenazionale dell’associa-zione. Dopo i rastrella-menti del marzo 1944,venne arrestato e de-portato a Mauthausen(matricola n. 58.719) e nei sotto-campi di Gusen I, Linz I e Linz III.Venne poi trasferito ad Auschwitz-Birkenau (matricola n. 201.561) e neisottocampi Monowitz e Gliwice.Giunto, infine, a Buchenwald (ma-

tricola n. 123.377), vi rimase finoalla liberazione del Lager.

GIUSEPPE CASTELNOVOiscritto all’Aned diMilano e membro delCollegio dei Revisoridei Conti della Fon-dazione Memoriadella Deportazione,fu deportato a Bolzano e trasferitol’8/01/1945 nel campo di Mauthausenmatricola n.115433.

SUNTER TORELLI iscritto all’Aned di Parma, è statodeportato nel campo di concentra-mento di Bolzano con la matricolan.1102.

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Nei primi dodici giorni di audizioni e di interrogato-ri, le udienze non portarono praticamente ad alcun ri-sultato. Gli imputati si protessero a vicenda quanto

meno per evitare di incriminare se stessi. Durante il pro-cesso, gli storici vennero consultati al fine di comprende-re, tra le tante cose, anche la struttura organizzativa delle SSe la relativa creazione dei campi di concentramento.

Un punto chiave delle udienze fu, più che altro, quello di evi-tare, così come era già successo a Norimberga e a Cracovia,che i criminali si potessero dissociare dal binomio “co-mando e controllo” nel lager e costruissero quindi uno sta-tus assolutorio. Gli storici rilevarono all’epoca che nessu-na SS potè essere condannata a morte visto che nessuno diloro aveva prove che dimostrassero la loro effettiva re-sponsabilità. Una anomalia si evidenziò anche nella dife-sa delle vittime che si dimostrò inappropriata.

La maggior parte delle SS che furono effettive nel com-plesso del lager di Auschwitz-Birkenau non venneromai portati davanti una Corte di Giustizia. Solo 63

SS, tra ufficiali, sottoufficiali e militari, tra i circa 7000 inservizio nel campo, incluso Buna-Monowitz, vennero pro-cessati. Il primo processo ad hoc ad Auschwitz venne con-dotto a Cracovia tra il novembre e il dicembre 1947 in cui41 SS vennero processate dalle autorità polacche. Il se-condo processo, quindi, quello di Francoforte portò in giu-dizio altre 22 appartenenti alle SS tra il 20 dicembre 1963e 10 agosto 1965.

Il processo di Francoforte, diversamente da quello di Cracoviae da quello di Gerusalemme al criminale Eichmann del1961, venne istruito e condotto sulla base della “Legge te-desca per i criminali nazisti”. Durante le udienze vennerochiamati a deporre circa 360 testimoni, inclusi 210 super-stiti del campo. Fritz Bauer, procuratore generale dellaGermania e lui stesso un ex prigioniero in un campo nazi-sta nel 1933, condusse l'azione penale.

di Antonella Tiburzi

Il processo di FrancoforteA giudizioi criminalinazisti di AuschwitzNel dicembre dell’anno scorso ricorrevail cinquantesimo anniversario.

Il processo iniziò ufficialmente il 20 dicembre 1963 e condussero leudienze tre giudici e sei giurati.

Durante le sedute non si presentaronodue imputati a causa malattia: l'ex medico Gerhard Neubert e l'ex capodel blocco Heinrich Bischoff.

“Acinquant’anni di distanza riesaminiamo l’andamentodi uno dei più importanti processi ai criminali nazisti

Stefan Baretzkj, a destranella foto, fu incriminatoanche per questa fotoperché provava la suacolpevolezza nella“selezione” di ebrei nelmaggio 1944.Nella foto in alto l’auladurante il processo.

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Le notizie in merito alla presenza e permanenza di crimi-nali nazisti erano note nella Germania occidentale sin dal1958, ma molti di loro non erano stati assicurati alla giustiziaper via di problemi giuridici. Inoltre, nonostante le misuredi de-nazificazione imposte dagli Alleati, in Germania, mol-ti ex membri del partito nazista e delle SS riuscirono a man-tenere posizioni governative di alto rango. I procedimentigiudiziari furono resi noti al pubblico in modo da diffonderela conoscenza della Shoah, qualora fosse stato necessario,ai cittadini della Germania occidentale e al resto del mon-do.

Le prove di Auschwitz evidentemente furono viste in unaprospettiva storica. I vari saggi storici si sono spesso in-terrogati sul perché venne portato in giudizio un numerocosì piccolo rispetto al personale presente ad Auschwitz ?

La differenza nella severità delle sentenze emesse non puòessere spiegata sulla base del fatto che nei primi processi ven-ne condannata l’élite nazista mentre in questo processovennero condannati i bassi ranghi delle SS visto che in realtàè stato dimostrato, come emerge dalle arringhe, che eranotutti “ assassini - indipendentemente dal rango”. La di-sparità risiede in realtà nei diversi sistemi giuridici.

Il primo processo di Auschwitz si svolse secondo le leg-gi contro i criminali di guerra e crimini contro l'uma-nità, e secondo il codice legale che era stato istituito nel

processo di Norimberga. Il secondo invece si svolse nel-l’ambito e nel quadro del diritto penale tedesco, il che resepiù difficile condannare alcuni degli accusati. Il processo

“Il dibattimento si svolse nella città tedesca tra il 20 dicembre 1963 e il 30 agosto 1965

di denazificazione in Germania non era stato implemen-tato in tutti i livelli del governo, compreso il Dipartimentodi Giustizia e quindi il contesto storico tedesco del se-condo dopoguerra portò alla sistematica “scomparsa” dimolti criminali. In secondo luogo, Fritz Bauer, il pubblico ministero nelprocesso, che era anche il procuratore capo per la Germaniafederale e responsabile per la ricerca e l'interrogazioneprocessuale, portando questi criminali in giudizio, riten-ne necessario investire grandi sforzi nello scoprire e nelricercare documenti e testimonianze relative al sistema ealla struttura del campi, ma nello stesso tempo non utilizzòle stesse perizie nel portare criminali a giudizio. Comerisultato di questi fattori, la maggior parte degl assassinirimase al di fuori del secondo processo di Auschwitz, cheinvece avrebbe dovuto segnare la condanna più importantee definitiva di tutto l’organico del Lager.

Spunti di riflessione in questo caso specifico non nemancano. Il processo di Francoforte ad “Auschwitz”vide coinvolti e messi sotto accusa soli 22 imputati

tra tutti gli ufficiali delle SS. Nella sola amministrazio-ne del campo vi erano circa 6000-8000 tra ufficiali, sot-toufficiali e militari semplici. Perché in realtà solo così po-che persone vennero processate per i crimini commessiad Auschwitz? Gli imputati non vennero condannati peri singoli crimini quanto piuttosto per aver fatto parte del“progetto” Auschwitz. Il processo doveva approfondiree investigare sui singoli crimini commessi ad Auschwitz.Risultò infatti molto importante il ruolo degli storici pro-prio per confermare in modo oggettivo e con prove do-

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“Fra le condanne si contano solo sei ergastoli

cumentarie i delitti compiuti. Quale effetto hanno provocatole prove nel pubblico tedesco? E quali effetti nel restodel mondo?

Quando i testimoni sopravvissuti al campo di Auschwitzcominciarono le loro deposizioni, il clima nell’aula si ri-velò subito estremamente angosciante. Essi furono co-stretti dal procuratore, suo malgrado, a riattraversare do-po venti anni i terribili fatti che avevano vissuto. Ma l’a-spetto più grave fu che essi furono messi sotto pressionedalla difesa delle SS che dubitava della veridicità delle lo-ro relazioni. Capitò che spesso si ritenne necessaria una pausa perchéun testimone aveva raggiunto il limite della sua capacitàdi sopportazione di fronte alle volgari allusioni della di-fesa. Le dichiarazioni di ex prigionieri crearono sgomentoe incredulità nel pubblico tedesco.

Oltre ai testimoni che avevano patito le aggressioni del-le SS, furono interrogati anche gli ex membri delle SS. Essirisultavano essere per lo più dirigenti che erano stati giàcondannati in altri processi ma anche le loro deposizio-ni si resero utili per capire le condizioni del campo.

In tutto furono ascoltati 360 testimoni. Una testimonian-za scritta importante risultò essere quella rilasciata dalcomandante Rudolf Höss, il cui memoriale, scritto in car-cere in Polonia prima di essere giustiziato, registrava e con-fermava gli elementi a carico delle SS. Per consentireun accurato controllo delle dichiarazioni prestate, si re-se necessaria una visita in loco da parte dei giudici e pro-curatori tedeschi in Polonia per ispezionare tutte le car-te relative agli atti processuali del 1947.

Durante le udienze vennero portati dati specifici dinatura statistica relativi alle vittime di Auschwitz:

965.000 ebrei75.000 polacchi21.000 Rom e Sinti15.000 prigionieri di guerra sovietici 15.000 altri prigionieri

Durante le deposizioni le SS affermarono che negli anniche vanno dai primi mesi del 1942 e fino al novembre del1944, in circa 900 giorni, arrivarono 600 “treni speciali”dalla Germania a Birkenau. I medici delle SS seleziona-vano di solito i deportati disponendo direttamente il lo-ro invio in camere a gas, in caso di donne con bambini,di vecchi e di malati. Queste selezioni costarono la vitaa 850.000 ebrei immediatamente dopo il loro arrivo. Percoloro che entravano nel campo iniziava il processo diimmatricolazione con il tatuaggio e la destinazione ai la-vori più usuranti. Secondo le prove che vennero portate nelle varie udien-ze sopravvissero 200.000 ebrei ovvero più della metà deideportati ebrei a cui venne dato un numero di matricola.Non risultarono al processo prove documentarie, secon-

do gli atti dei verbali, in merito a coloro che non entraro-no nel campo e che vennero invece destinati subito alle ca-mere a gas. Gli atti del processo riportarono anche dati re-lativi al periodo successivo ovvero dalla metà del gennaio1945 quando le SS di Birkenau avviarono, contestualmenteai suoi 40 sottocampi, le marce della morte per prigionie-ri verso altri campi sul fronte occidentale.

L’intenzione principale del procuratore rimaneva quel-la di condurre un altro grande studio su Auschwitz ma,purtroppo il trascorrere del tempo e la notevole quan-

tità di materiale documentale resero sempre più difficileper gli investigatori la possibilità di ottenere altre o alme-no una buona quantità di prove. Gli imputati Wilhelm Burger, un ex membro del diparti-mento politico, Josef Erber, e Gerhard Neubert, medicinell'infermeria per i prigionieri del campo di concentra-mento di Buna / Monowitz nonostante fossero già staticondannati nel primo processo, vennero ugualmente por-tati a giudizio anche di fronte a questa Corte. L’azione giudiziaria contro Neubert nel primo processo diAuschwitz era stata ridotta a causa della sua malattia. Lacorte di Francoforte aveva trovato Burger colpevole peraver procurato il gas tossico Zyklon B come strumento perlo sterminio. Per quanto riguarda le intenzioni, i giudici dei tribunali pe-nali lo ritennero responsabile come capo blocco e di ran-go superiore come SS, e lo condannarono a otto anni di re-clusione. Joseph Erber venne riconosciuto colpevole peraver partecipato alla selezione alla Judenrampe e per l’as-sassinio dei membri del Sonderkommando del 7 ottobre1944. Qui la corte stabilì che Erber agì di concerto con gliordini di Hitler e di Himmler e con altri nazisti e quindivenne condannato al carcere a vita.

La storia pregressa dei processi ai criminali nazisti e isuoi risultati finali hanno dimostrato che l’imputazio-ne della colpevolezza individuale degli imputati diAuschwitz diventava sempre più difficile, e che nono-stante l’ampia gamma di conoscenze acquisite dagli in-vestigatori nell’ufficio del pubblico ministero aFrancoforte sul Meno, risultava quanto meno compli-cato ricostruire una responsabilità soggettiva. Le mo-tivazione si soffermano anche su un’altra questione.

Che effetto ebbe questo processo tra i sopravvissuti del-la Shoah?

I testimoni sopravvissuti di Auschwitz o di Birkenau, inpiù occasioni, in quegli anni, si dichiararono non più dispostia fare il viaggio verso la sede di Francoforte o verso laGermania in generale. Essi dissero esplicitamente che l’i-dea di trattare le vittime come “prove di accusa” era asso-lutamente vergognosa. Loro erano certamente delle prove contro i nazisti ma nonaccettavano di essere usati per confutare le dichiarazionidelle ex SS e di conseguenza essere messi sullo stesso lo-ro piano nei vari confronti. Questo causò inevitabilmente

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una perdita non solo di natura giuridica ma anche di gene-re storico. Le responsabilità amministrative e criminali deinazisti ad Auschwitz avrebbero potuto essere accertate nonsolo in ambito legislativo, andando quindi a creare “pro-tocollo di accusa” determinato a proteggere tutti i depor-tati da qualsiasi tentativo di moderare la gravità dei reati com-messi dal nazismo, ma anche dal punto di vista storico.A partire dagli anni ’60 infatti l’affacciarsi dei primi ne-gazionisti nel panorama accademico o sociale mondialeavrebbe potuto essere frenato già ai suoi esordi proprio invirtù della presenza di materiale storico, prodotto dai na-zisti stessi, edito e pubblicato in Europa e reso fruibile an-che fuori dall’aula del tribunale. La circolazione di una fonte principale come le carte cheprovenivano direttamente dall’amministrazione del cam-po poteva diventare un muro documentale su cui far sgre-tolare le tesi revisioniste tentate da alcuni ex fascisti o exnazisti. Purtroppo questa fase di raccolta e diffusione ar-rivò solo più tardi quando ormai gli “storici” revisionistiavevano già preso posto nel mondo accademico o nella po-litica. Da quei violenti eventi, era passato un ventennio e la

Germania era diventata una nazione ricca, sotto l’aspettoeconomico, e proprio in quegli anni si stava misurando conuno degli altri avvenimenti più significativi della sua sto-ria e dell’Europa del ‘900: il Muro nel 1961. In queste con-tingenze era quindi forte nell’opinione pubblica tedescala tentazione di abbandonare il passato.

Il processo si concluse il 20 agosto del 1965, dopo oltre unanno e mezzo di dibattimento, e ovviamente creò un even-to che irruppe nella giustizia tedesca creando una sorta dipressione nella punizione dei crimini nazisti nella sua sto-ria. Nello stesso tempo aprì una fase volta a sensibilizza-re sia la magistratura che in generale l’opinione pubblicasul tema delle colpe e delle responsabilità della Germanianel territorio europeo durante la guerra.

Nella tabella qui sopra le sentenze: in generale 17 degliimputati furono giudicati colpevoli; 6 furono condan-nati al carcere a vita mentre gli altri ricevettero con-danne che andarono dai 5 ai 14 anni. La maggior parte degli accusati non scontò mai piena-mente la sua pena.

FarmacistaVictor Capesius Imputato per 4 casi e per l’uccisione dialmeno 8.000 prigionieri

9 anni in carcere

Responsabile dello studiodentistico delle SS

Willi Frank Responsabile in 6 casi per l’uccisione dialmeno 6.000 prigionieri

7 anni di carcere

Aiutante del comandantedel lager

Karl Höcker Responsabile per l’assassinio in 3 casi e dialmeno 3.000 prigionieri

7 anni di prigione

Capo delle guardieOswald Kaduk Assassinio in 10 casi. Responsabile perl’uccisione di almeno 1.002 prigionieri

Ergastolo

Capo BloccoBruno Schlage Responsabile per l’assassinio in 80 casi 6 anni di prigione

Lager-GestapoHans Stark Responsabile in 44 casi e di almeno300 prigionieri

10 anni di prigione

Dentista delle SS Willi Schatz Prosciolto

Medico del lagerFranz Lucas Responsabile per l’assassinio in 4 casi e dialmeno 4.000 prigionieri

3,5 anni di prigione. Dopola revisione del processovenne prosciolto.

Effekten LagerArthur Breitwieser Assassinio in almeno 14 casi Prosciolto

Imputato

Le condanne a FrancoforteRuolo Accusa Giudizio finale

Lager-GestapoPery Broad Responsabile dell’uccisione di ben 22 casi.Almeno 2.000 uomini

4 anni di carcere

Lager-GestapoKlaus Dylewski Contribuito all’uccisione di almeno 1500 persone

5 anni di carcere

Medico ordinarioEmil Hantl Responsabile per l’uccisione in 42 casi e dialmeno 340 prigionieri

3,5 anni di prigione

Comandante dei prigionieri “Schutz”

Franz Hofmann Responsabile in almeno 33 casi e diben 2.250 prigionieri

Ergastolo

Lager-GestapoWilhelm Boger Assassinò in almeno 5 casi e in altri 109casi complessivamente almeno 1.010 uomini

Ergastolo FunktionshäftlingEmil Bednarek Assassinio in almeno 14 casi Ergastolo

Medico ordinarioJosef Klehr Assassinio di 475 casi. Responsabile per l’assas-sinio di altri 6 casi e di almeno 2.730 prigionieri

Ergastolo

Aiutante del comandantedel lager

Robert Mulka Responsabile per l’assassinio in 4 casi e dialmeno 3.000 prigionieri

14 anni di prigione

MedicoHerbert Scherpe Responsabile per l’assassinio in 200 casi e dialmeno 700 prigionieri

4,5 anni di prigione

Lager-GestapoJohann Schoberth Prosciolto

Accusato di omicidio in almeno 5 casi. In altri 11 casi viene imputato per l’uccisione di ben 10.050 prigionieri.

Ergastolo BlockführerStefan Baretzki

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Nel 1944 una crisi economica molto importante toccòla Libia e la sua popolazione, in particolare quella ara-ba che viveva per lo più a Tripoli e l'aumento dei re-

sidenti nella stessa città cominciò a creare qualche proble-ma di fiducia tra le due comunità ma, in tutti modi, i rapportifurono buoni. Nel luglio del 1944, nella Moschea di Homs alcuni reli-giosi fecero circolare la voce che gli ebrei avevano uccisouna ragazza araba nel pozzo. Una voce ovviamente infon-data ma che destò molto clamore tra gli abitanti della co-munità. Come era formata la società islamica? Erano unanuova generazione di arabi, costituita da siriani, palestinesied una élite di egiziani (arrivati insieme alle truppe ingle-si) che apparteneva a un movimento pan-islamico e nazio-nalista che vedeva negli ebrei il loro primo nemico. Alcunierano intellettuali, parecchi commercianti e ad alcuni di-rigenti, tornati in Libia dopo l'esilio del periodo italiano. Nel1945 essi cominciarono a muovere la parte più popolanadella comunità araba contro gli inglesi e contro gli ebreiperché ritenuti “responsabili” della loro crisi economica. In ogni caso, fino a novembre 1945 gli ebrei erano ottimi-sti rispetto alla posizione degli inglesi e ritenevano che laloro posizione anti-sionista non riguardasse strettamentela Libia, ma soprattutto, la questione concentratasi indi Antonella Tiburzi

La distruzionedella comunitàebraica libica.1945-1948tre anni peressere cacciatiLa condizione degli ebrei in Libia deveessere inclusa nella situazione generaledegli ebrei in Europa alla fine dellaseconda guerra mondiale. La maggiorparte di loro, costituita da sopravvissutiprovenienti da Austria, Germania e da italiani nei campi libici decise di rimanere nella propria terra per provare, almeno, a vivere con la comunità araba a Tripoli.

Nel 1943 gli ebrei ebbero unincremento importante delle attivitàeconomiche, culturali e sociali e nellostesso periodo si registra un nuovoinizio del movimento sionistasoprattutto tra i giovani libici.

Questa posizione fu profondamentecontrastata dall'amministrazioneinglese che li privò del sostegnoeconomico ad esempio nella scuolaebraica in cui veniva insegnatol'ebraico, vietò la ricostruzione dellaorganizzazione locale sionista e negòl'accesso a persone provenienti dallaPalestina per svolgere attività sionista.

“La situazione pesante in Palestina è in parte la ragionedella posizione ostile a Tripoli contro gli ebrei

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Palestina. Gli ebrei in generale non avevano intenzione dipartire per la Palestina in questo periodo ma si considera-vano “vigili” sull’andamento degli eventi nel Mediterraneoe ospitarono alcuni Hechaluz (movimento di formazioneculturale israeliana destinata agli ebrei nella diaspora) cheorganizzarono una scuola agricola per i pionieri che, suc-cessivamente, sarebbero andati in Israele.

Tale circostanza economica, politica ed emotiva feceda cornice al pogrom del novembre 4-6, 1945 e rap-presentò l’inizio della distruzione dell'ebraismo libico.

Secondo il parere dell'importante quotidiano arabo Tarabulusel Gharb la situazione pesante in Palestina, sotto gli aspet-ti politici, è in parte la ragione della posizione ostile degliarabi a Tripoli contro gli ebrei. Ai perpetratori non interessava quindi solo la condizio-ne locale o nazionale ma riguardava in realtà la comu-nità internazionale islamica. Il Presidente della ComunitàZachino Habib il giorno 4 novembre, non appena ebbesentito delle aggressioni, andò alla stazione della poliziacentrale, dove però non trovò funzionari in grado di farfronte all’emergenza di violenza di quelle ore. I giorniseguenti 5 e 6 molti arabi armati arrivarono a Tripoli cau-sando morti, violenze e distruzioni e anche in questo ca-so la polizia entrò in azione solo dopo 48 ore, nonostantefossero stati precedentemente informati. In questi due giorni la comunità fu sottoposta a omicidi,rapine, violenze e incendi senza tregua. I quartieri dove vi-vevano gli ebrei furono parzialmente distrutti e la poliziaentrò in azione solo nella notte tra martedì 6 e mercoledì7, quando il massacro era ormai finito. Nei luoghi di Zanzur e Zuara furono massacrate 40 persone.In tutto risultarono uccisi 130 ebrei.

“In due giorni del 1945 la comunità fu sottoposta a omicidi, rapine, violenze e incendi senza tregua.

Idati ci riportano i seguenti numeri: circa 4000 perso-ne dovettero lasciare le loro case e diventarono rifugiati,più di 4200 sono stati ridotti in miseria per via delle spo-

liazioni delle loro proprietà e abitazioni, circa 300 mi-lioni di lire furono richiesti come risarcimento danni ecirca 10.000/12.000 ebrei dovettero essere sostentati, nel-le settimane seguenti, dall’Amministrazione militare in-glese La stampa araba e la società politica criticarono forte-mente i fatti recenti, non per la connotazione della violenzae il massacro degli ebrei, ma semplicemente perché te-mevano che il giudizio del mondo politico internaziona-le avrebbe potuto compromettere negativamente la lororichiesta di indipendenza dal mandato britannico.In realtà la situazione generale risultava molto ambiguasia da parte inglese che araba e di conseguenza le re-sponsabilità appartennero a molte autorità. I capi dellacomunità araba non avevano fatto troppo per evitare ilmassacro e il giornale Tarabulus el Gharb si rese re-sponsabile per aver diffuso le voci di violenza del Cairoe di Alessandria contro gli ebrei.

Il governo britannico aveva considerato i seguenti mo-tivi: l'aumento del sionismo dall’Europa e nell'areadel Mediterraneo poteva essere stata una delle cause

relative all’attacco anti-ebraico. L’Amministrazione mi-litare inglese sostenne di non aver potuto prevedere il ri-schio di una violenza generalizzata in quei giorni ma que-sta posizione si rivelò falsa. Nel rapporto su “I pogrom ara-bi e sommosse anti-ebraiche in Tripolitania - 4-7 Novembre1945”, il servizio di sicurezza britannico in Tripolitaniaera stato informato già il 4 novembre in merito a una ma-nifestazione anti-ebraica prevista per il 9 Novembre, in

Le vie delquartiereebraico diTripoli animatedallacoabitazione di ebrei e arabi negli annisuccessivi alla guerramondiale.

Nella foto inbasso tre donneebree per le viedi Tripoli.

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favore dei diritti arabi palestinesi e inoltre le notizie rela-tive alle proteste antiebraiche in Siria, Libano e Egitto sierano già ampiamente diffuse, e quindi sarebbe onestoconsiderarle come sintomi di una reazione che sarebbescoppiata anche in Libia.

Anche il movimento nazionalista arabo ebbe un ruo-lo importante nel pogrom. L’arrivo a Tripoli di mas-se in un movimento coordinato che si diffuse pre-

sto in altri luoghi della regione rivelò quindi l'esistenza diuna organizzazione in grado di muovere raggruppamenti.Oltre a ciò è da considerare anche la diffidenza del popo-lo arabo verso la comunità ebraica che, una volta oppres-sa, ora si era affermata nella società in modo rispettabilesoprattutto dopo il mandato britannico. E infine la diffici-le situazione economica spinse la maggior parte degli ara-bi ad ottenere “soldi facili” attraverso la rapina e l'espul-sione dalle case del popolo ebraico di Tripoli. Questo aspet-to potrebbe essere vero perché la maggior parte degli ag-gressori risultavano essere molto poveri e quindi spinti aprocurarsi il più possibile in questo disordine generale.Tali circostanze storiche e politiche rivelarono che gli in-glesi, col timore di dover abbandonare il mandato inPalestina e in Egitto e di conseguenza anche quello inLibia, decisero di adottare un comportamento autoritarioal fine di rendere la Tripolitania non ancora pronta all’in-dipendenza e quindi bisognosa della presenza di un go-verno forte.

Nelle lettere inviate ai rabbini o ad altre Comunitàebraiche in tutto il mondo, la Comunità ebraica ave-va espressamente e apertamente denunciato il po-

grom e l'inefficienza degli Inglesi. Una risposta molto concreta a tutte le circostanze è che lacondizione politica internazionale influenzò profonda-mente il pogrom di Tripoli. Il governo inglese aveva ten-tato di creare un buon rapporto con le masse arabe, ma noncon il movimento nazionalista che agognava espressa-mente l'indipendenza. A questo punto l’unico obiettivoper le comunità ebraiche risultava essere l'emigrazione inPalestina intesa come la fine del loro problemi. Anche inquesto caso dovettero attendere fino al febbraio 1949 ov-vero fino a quando l’amministrazione inglese concessel’autorizzazione a raggiungere la terra promessa. Nel mese di febbraio 1948 emerse la richiesta da parte de-gli ebrei libici di partire al più presto data la totale insicurezzain cui si trovavano nell'amministrazione inglese. La ra-gione di questa emergenza si evidenziò, e in parte venneconfermata, con l’altro pogrom del giugno 1948, che difatto determinò la distruzione definitiva della comunitàebraica in Libia.

La condizione politica ed economica degli ebrei libi-ci tra la fine del 1945 e la fine del 1948 erano statemolto depressive e seriamente in pericolo per via dei

cambiamenti storici, politici e sociali nell'area delMediterraneo. La maggior parte degli ebrei voleva lasciareil più presto la Libia e molti si unirono al movimento sio-

nista diretto in Palestina. Dopo la proclamazione dello Statodi Israele del 14 maggio 1948, le conseguenze su Tripoli ein Libia furono immediate e quindi risulta essere evidenteil forte legame tra i due eventi. Nei giorni successivi arrivarono dalla Tunisia elementi le-gati al nazionalismo islamico costringendo la Comunità achiedere immediatamente l'aiuto dei militari britannici cheperò, anche questa volta, si limitarono solo a indirizzare itunisini verso l'Egitto.Il 12 giugno, a meno di un mese dopo la proclamazionedello Stato di Israele, un grande gruppo formato da gentearmata si diresse verso il quartiere ebraico ma questa vol-ta li attesero ebrei organizzati in una importante resisten-za, diretta anche dai membri del Hagana (forze armate pro-venienti dalla Palestina), costringendo così gli arabi a spo-starsi in un altro punto della città dove però compironoogni tipo di violenza, rapina, incendi e provocando la di-struzione praticamente di tutta l’area. I saccheggi distrus-sero alcune case, negozi e una sinagoga (già attaccata nel1945). Dopo i due giorni di nuovi pogrom i soldati britan-nici decisero di ristabilire l’ordine.

Gli ebrei senza fissa dimora furono circa 1.600, orarifugiati nel Hara (quartiere ebraico a Tripoli) o nelcampo profughi di Porta Benito. Circa 300 famiglie

furono ridotte alla miseria. Nel novembre 1948 la comunitàscrisse lettere a organizzazioni internazionali chiedendoun disperato aiuto: “Viviamo sotto la paura di un altro po-grom ... [...] abbiamo paura che un’altra massa di folla cipuò uccidere ancora. [...] Non si può uscire da questo in-ferno sulla terra. L'Autorità inglese ha chiuso la porta diogni via d'uscita. [...] Non si può portare il cibo ai nostrifigli perché noi possiamo correre il rischio di essere ucci-

“In realtà la situazione generale risultava molto ambigua sia da parte inglese che araba

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si. Chiediamo almeno per far lasciare il Paese ai bambini,alle donne e agli anziani. Salvaci! Salvaci! Salvaci!” E an-cora in un’altra missiva diretta al mondo: “ Chiediamo avoi che avete il nostro destino nelle vostre mani, la possi-bilità di emigrare in qualche parte del mondo per ottenereun lavoro, una casa, una vita per i nostri figli e dove le la-crime di lungo tempo possano essere feconde per la no-stra nuova vita”. Gli ebrei libici non vogliono essere visticome vittime e chiedono quindi di partire per la Palestinao per l'Italia. La loro perseveranza nel chiedere di emigra-re era mossa dalla frustrazione, dalla paura e dall'esaspe-razione. Nelle settimane successive un gruppo numeroso di ebrei sitrasferì a Tripoli alla ricerca di un rifugio, lasciando le lo-ro case, negozi e attività commerciali svendute a prezzimolto bassi, al fine di avere una disponibilità per poter par-tire.

Nel primo periodo del 1949 un terzo degli ebrei diTripoli viveva di carità e così dopo l'autorizzazionedel governo inglese a poter emigrare, nei mesi suc-

cessivi circa 20.000 lasciarono il paese mentre 2/3 risulta-rono essere pronti a partire.Dopo il pogrom l'American Joint Committee aveva stan-ziato 15.000 dollari per scuole e cliniche, assumendosi tut-te le spese di assistenza. Numerosi erano stati anche i casidi emigrazione clandestina soprattutto dopo i pogrom del1945. Tra il 1948 e il 1949 più di 2500 giovani erano emi-grati illegalmente in Palestina, molti si erano fermati inItalia sulla via per Israele mentre circa 600 raggiunsero

Israele direttamente. Il numero iniziale di ebrei che avreb-bero potuto legalmente raggiungere la Palestina non do-veva essere più di 7.000 persone l'anno, ma le autoritàebraiche fecero sapere che almeno 30.000 volevano par-tire e che risultava difficile trattenerli ancora nel paesesoprattutto perché la possibile e imminente indipenden-za libica avrebbe potuto chiudere l'emigrazione ed esse-re motivo di nuovi pogrom. E così, alla fine decisero chel'emigrazione poteva avvenire senza restrizioni. Le pri-me partenze iniziarono il 5 aprile 1949.

Alla fine del 1950 in Libia erano rimasti ancora12.000 ebrei. Alcune ragioni li trattennero dal par-tire: le loro attività finanziarie, alcune industrie e

varie proprietà. Ma le condizioni politiche in quel mo-mento speciale risultano essere troppo importanti e allostesso tempo troppo pericolose per la Comunità ebraicanel paese: la proclamazione di indipendenza della Libiadel 21 novembre 1951. Da Tripoli a Haifa in Israele cifurono 42 navi con 31.343 ebrei.Il 18 dicembre 1951 il rapporto dell’Institute of JewishAffairs affermò che l’indipendenza libica segnava anchela fine della comunità ebraica. Gli ebrei non ebbero piùdiritti, ne protezioni o difesa dei diritti. Gli ebrei libici in Israele formano comunità diverse co-me “Or Shalom” di Bat Yam o il centro di documenta-zione di “Or Yehuda” vicino a Tel Aviv. Produssero atti-vità, eventi culturali e costituirono una traccia molto im-portante della documentazione della diaspora per l'areadel Mediterraneo.

Tra il 1948 eil 1949 più di2500 giovanieranoemigratiillegalmentein Palestina,molti si eranofermati inItalia sullavia perIsraelementre circa600raggiunseroIsraeledirettamente.

Nell’im-magine in alto unminareto e iruderi di unarco romanoin una fotoscattata aTripoli nel1946.

“L’Amministrazione inglese sostenne di non aver potuto prevedere il rischio di una violenza generalizzata

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La Resistenzaha settant’anniOgni sacrificio“memorabile”deve restare, ora e sempre,“indimenticato”

di Sauro Borelli

J’espère que le souvenir des mes camarades et le mienne sera pas oublié, car il doit être mémorable: cosìThomas Mann, nel marzo 1954, concludeva la propria

appassionata prefazione alla cruciale raccolta di Piero Mal-vezzi e Giovanni Pirelli Lettere di condannati a morte dellaResistenza europea. Un auspicio umile e immediato, piùche una frase ultimativa, di un giovane operaio franceseche, militante della lotta partigiana, catturato dai nazisti econdannato, si accingeva stoicamente, serenamente ad af-frontare la morte.

La semplice lettura di questo motto suscita in noi – og-gi, in tempi di diffusi quanto cinici revisionismi, ne-gazionismi o impudenti smanie revanscistiche – tri-

stezza e sdegno, sol che si commisurino gli slanci generosi,le lotte disperate come le sofferenze inenarrabili, i dolori, lemorti che caratterizzarono, appunto, la stagione esemplaredella Resistenza in tutti i Paesi d’Europa ove il cancro nazi-fascista attecchì e proliferò per troppi anni. Giusto e oppor-tuno ci sembra perciò che storici e analisti di tale specificoperiodo accentrino le loro ricerche, i loro studi sull’intieroarco di esperienze, eventi, testimonianze, reperti di una si-mile cosmogonia civile, politica, morale.

In questo senso, prezioso, tempestivo si prospetta l’im-portante volume documentario Storie della Resistenza(a cura di Domenico Gallo e Italo Poma), silloge quanto

più varia, dettagliata possibile di tutte le componenti, gli in-finiti aspetti particolari, le vicende personali e collettive del-le molteplici insorgenze resistenziali nei più diversi ambitidella guerriglia nel Nord Italia e nei restanti focolai dell’in-tero Paese. C’è una sorta di rapsodico racconto globale cheprende avvio e s’intensifica man mano, nelle singole vocidi partigiani, nei plurimi ricordi di militanti d’ogni estrazio-ne sociale e culturale che si addensa in queste Storie dellaResistenza, fino a consolidarsi in un quadro organico, deltutto esauriente di fatti, figure, episodi e evenienze assolu-tamente smaglianti per verità drammatica e dedizione testi-moniale.

Tra le tante rievocazioni, ora lucidamente sobrie, oravelatamente sofferte, emerge per originalità e intelli-genza il particolare scorcio evocato da Angelo Del

Boca del suo ricordo “Un uomo ordinato – Il dizionario delpartigiano anonimo” ove rivive l’esperienza, appunto, diun giovane combattente che, nel 1945, sul fronte dell’Ap-pennino ligure-emiliano, in varie pause della lotta redige un“dizionario” agro-ilare ma sostanzialmente veritiero dei vo-caboli tipici della guerra partigiana.

Esempio: “Nome di battaglia – Serve a mascherare lanostra identità e di rimando a tradire il nostro caratte-re. Esso rivela infatti le nostre ambizioni o le nostre

letture, oppure i limiti della nostra fantasia”. E ancora:

“C’è una sorta di rapsodico racconto globale che prende avvio e s’intensifica man mano...

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“Notte – Ci sono notti brevissime e notti eterne. Quelle pas-sate nei fossi della via Emilia, in attesa di una colonna, conle mani saldate allo Sten non finiscono mai… Ciascuno dinoi conserva il ricordo di una notte terribile”. O, di nuovo:“Paura – Chi dice di non averne è un bugiardo . Nessuno dinoi può giurare che sarà vivo domani. O anche stasera”. Oancora e ancora: “Prete – Quello che sta con noi è l’umile epovero parroco di campagna. Gli alti prelati, in città, bene-dicono i gagliardetti delle ‘Brigate Nere’”. Ma poi, sonomolte altre le parole di un’esistenza allo sbando. La vita (ela morte) dei partigiani sono in esse esemplate persino conqualche licenza umoristica bonaria ed eloquente: “VittorioEmanuele – Era piccolo col fascismo. Senza fascismo nonè cresciuto di un pollice”. Anzi, il contrario, diremmo noioggi.

Esistono, poi, tra i tanti testimoni di queste Storie del-la Resistenza una serie di personaggi (letterati, arti-sti, intellettuali, professionisti) e di protagonisti poli-

tici (da esponenti dei vari partiti a singoli militanti antifa-scisti) e, ancor più, di operai, contadini, studenti che, ani-mati da un’ansia quasi fisica, di riscatto, di rivendicazionecivile, libertaria infoltiscono di memorie, episodi, figure diun microcosmo contrassegnato dalle stimmate del prodigoeroismo come della naturalità di una scelta radicale, incon-ciliabile contro il fascismo e la prevaricazione della barba-rie nazista.

Ogni aspetto, tutte le particolarità della guerra parti-giana sono d’altronde, indagate nei molteplici sag-gi assemblati in questa silloge – oltretutto né apo-

logetica né enfatica: anche gli scorci negativi non sono ta-ciuti –: nel brano intitolato Comunisti, azionisti, democri-stiani, Roberto Battaglia rievoca con vivo gusto ironico idiversi comportamenti dei combattenti a seconda dell’ap-partenenza: “…alcuni partigiani dopo aver devastato colloro grande appetito la casa d’un povero prete di monta-gna, gli confidarono orgogliosamente d’essere ‘democri-stiani’ ed ebbero in cambio l’umile, ma saggia risposta‘veramente… non si direbbe’”. Per contro “… la discipli-na severa e uniforme dei comunisti contribuì più d’ognialtra cosa a trasformare le bande di Diavolo Nero in unvero reparto militare, la Brigata La Spezia, dando nuovafermezza e un nuovo orgoglio ai suoi uomini”.

Oggi, mentre populismo e neofascismo fanno prose-liti nel nostro Paese (Forza Nuova, Gruppi Pound,oltranzisti cattolici) e ancor più in Europa (allar-

manti le reviviscenze apertamente fasciste in Ungheria,Russia, Grecia, Inghilterra, Francia) e negli Stati Uniti, unvolume come Storie della Resistenza dovrebbe essere pro-prio una sorta di livre de chevet di qualsiasi persona per-bene. Anche per tener fede all’accorato appello del giova-ne operaio francese assassinato dai nazifascisti nel 1944:il suo sacrificio “memorabile” deve appunto restare, ora esempre, “indimenticato”.

“Episodi e evenienze assolutamente smaglianti per verità drammatica e dedizione testimoniale

Qui a destraun disegnodel 1935WernerHeldt,L'adunatadegli zeri.Nella paginaaccanto,quasi unarisposta inun graffitodi CorradoCagli nelmuseo deldeportato a Carpi.

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di Ionne Biffi* La professoressa Massariello mi informa di que-sta richiesta e subito, con entusiasmo, entram-be decidiamo di offrirci volontarie per lo svol-

gimento del lavoro richiesto. L'elenco di cui si staparlando comprende poco meno di 4.000 nomi. Percapire il criterio con il quale è stato stilato l'elenco efacendo riferimento ai nomi dei Deportati della Se-zione di Sesto San Giovanni, che io conosco bene, ap-puriamo subito che nell'elenco sono stati inseriti an-che i Deportati morti durante le marce di trasferimen-to. Incredibile !! La precisione nazista, anche in que-sti casi, ha utilizzato il concetto che i tanti “pezzi” par-titi dai diversi Lager, sarebbero dovuti risultare arri-vati a destinazione, sopravvissuti o morti. Nell'elen-co, invece, mancano tutti i nomi dei Deportati dece-duti in terra austriaca dopo la liberazione dei Campida parte degli Alleati. Questa mancanza a noi sembrauna grossa lacuna e decidiamo di inserirli, chiedendoal Ministero Austriaco di tenerne conto. Ora l'elenco

La Stanza dei Nomi nel museo diMauthausen

Nei primi giorni del settembre 2012, l'avvocato Marisha inoltrato alla Fondazione Memoria dellaDeportazione una domanda di collaborazione arriva-tagli dall’Ambasciata Italiana in Vienna.

All’Ambasciata Italiana era pervenuta, da parte delMinistero della Repubblica Austriaca la richiesta ditrovare persone, disposte a controllare l'elenco deinomi delle persone, di nazionalità italiana, trucidatenel lager di Mauthausen e nei suoi 49 sottocampi.

I nomi sarebbero stati inseriti nel progetto “Stanza deiNomi”, di prossima realizzazione nel restaurandoMuseo, posto all'interno del Lager, che sarebbe statoinaugurato il 5 maggio 2013. L'Ambasciatore Italiano,per questo controllo, ha chiesto l'interventodell'Associazione Aned e della Fondazione Memoriadella Deportazione.

“Ora l'elenco della “Stanza dei Nomi” del museo comprende ben 4.124 nomi di italiani

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della “Stanza dei Nomi” del Museo comprende ben4.124 nomi di Italiani e include le persone morte finoal 30 giugno 1945 in Mauthausen o nei suoi Sotto-campi. I nomi dei Deportati morti di tutte le naziona-lità, non elencati in ordine alfabetico, sono stati inci-si in bianco su pannelli neri di cristallo, con la grafiadel Paese di provenienza, per restituire un’identità al-le vittime i cui nomi erano stati spesso germanizzatidal nazismo. Nella stanza sono stati collocati deigrossi libri le cui pagine riportano l'elenco dei dece-duti in ordine alfabetico per permettere un'immediataricerca.

Abbiamo svolto questo importante lavoro convera passione, impegnando tantissimo del no-stro tempo, anche le domeniche e le serate,

per rispettare la data di consegna richiesta. Molti,molti gli errori trovati nell'elenco pervenutoci, men-tre invece, ancora una volta, abbiamo riscontrato la

precisione nazista nella compilazione dei numeri dimatricola. Tante le fonti da noi utilizzate per i con-trolli: elenchi in nostro possesso; la ricerca in Internetdegli elenchi di nomi di persone coinvolte in fatti diguerra; gli elenchi delle pagine bianche dei vari paesiitaliani per individuare l'esatto cognome degli abitan-ti di quel determinato paese di nascita. Ma la fonte didati più importante è stata l'elenco di Italo Tibaldi. Ungrande, grandissimo ringraziamento al nostro Italo,la sua vita trascorsa ad elencare i nomi dei suoi “Com-pagni di Viaggio” trova una gratificazione anche nelMuseo: dal suo elenco abbiamo ricavato tanti datipreziosi, anche i nomi delle persone decedute dal 5maggio al 30 giugno 1945 in terra austriaca. Grazie Italo, sei un grande, grazie davvero!!

Io ho trascorso la serata del 24 ottobre 2013 in unristorante di Steyr in compagnia della signoraMartha Gammer, presidente del Comitato di Gu-

sen. Nel corso della serata, la signora Gammer mi hacomunicato, con sua vera soddisfazione, che l'Italia èl'unico Paese ad aver inserito nell'elenco riportatonella “Stanza dei Nomi” del Museo di Mauthausen inomi dei deceduti in terra austriaca tra il 5 maggio edil 30 giugno 1945. Sono stata felice di apprenderequesta notizia ed ho subito pensato che, al mio rien-tro in Italia, l'avrei comunicata immediatamente allamia cara amica, professoressa Giovanna Massariello.

Invece, triste, davvero molto triste il mio rientro inItalia, con la tragica notizia che Giovanna non saràpiù tra noi. Giovanna, amica mia, ti ricorderò sem-

pre e sono grata al destino che mi ha concesso di per-correre un tratto della mia strada di vita accanto aduna persona preziosa come Te.

* Sezione Aned Sesto San Giovanni- Fondazione Memoria della Deportazione

Nel memoriale al campo di Mauthausen eccola stanza buia con larghi pannelli recanti i no-mi delle vittime che è stato possibile censire,oltre 123.000. I pannelli sono grandissimi, neri ed i nomi so-no incisi in trasparenza, con luci bianche postesotto così le vittime illuminano la stanza.Nella foto piccola sotto il titolo il registro cheriporta, sulla carta tradizionale, tutti i nomidella stanza.

“Un grandissimo ringraziamento va al nostro Tibaldi, la vita trascorsa ad elencare i “Compagni di Viaggio”

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Acento anni, a Roma, libero dipasseggiare per le stradedella capitale, è morto il

criminale nazista Erich Priebke,ufficiale delle SS, condannatoall’ergastolo da un tribunale militareitaliano per la strage delle FosseArdeatine. In virtù dell’età avanzataha potuto evitare il carcere e persinofesteggiare il suo centesimo anno incompagnia di camerati, con tanto ditorta gigantesca e sventolio disvastiche, fiero dei delitticompiuti, ben lungi dall’essernepentito. Poi, passato da poco ilgiorno del centenario, è spiratonel suo letto. Questo in una nottedell’11 ottobre del 2013.

Settant’anni prima,assassinato dai suoicolleghi, moriva un

bambino appena nato. Lo ricordanel suo bel libro uscito di recenteCorrado Stajano, scrivendo, perl’appunto, di Gorizia, città diconfine:“In uno spiazzo verde accantoalla Sinagoga si può leggere unalapide che gela il cuore:Questo giardinoè dedicato aBruno Farberfiglio di ebrei goriziani

deportato e ucciso ad Auschwitzall’età di tre mesi”.

Che cosa poteva diventare sefosse vissuto questo neonato?E quale sarebbe stata la sorte

di tanti altri bambini? Dei seimilioni di ebrei che morirononell’Olocausto un milione e mezzoerano bambini, in gran parte aldisotto dei 15 anni. Per loro, quandovenivano avviati nei campi disterminio, non c’era scampo.Appena giunti sul posto la lorodestinazione immediata era quelladelle camere a gas, assieme allemadri che vanamente cercavano diproteggerli.

Finché erano nei vari ghetti, aLodz, Lublino, Varsavia, moltiintellettuali cercarono di

fornire clandestinamente a questifanciulli un qualche insegnamento.Un educatore leggendario, nel ghettodi Varsavia, fu Janusz Korczak, unmedico ebreo, uno studioso di famaeuropea, che si occupò di centinaiadi bambini, lottando quotidianamen-te con le autorità per procurare lorocibo e altri generi di prima necessità.

Come si legge nel “Dizionariodell’Olocausto”, edito daEinaudi, a cura di Alberto

Cavaglion, Korczak “cercava nelcontempo di trasmettere ai piccoli ivalori umanistici e di comunicareloro un senso di responsabilità e didignità. Quando giunse il momentoin cui i bambini del ghetto dovetteroessere evacuati, Korzcak e la suaassistente Stefania Wilcinskavestirono i piccoli con i loro abiti

migliori e diedero ad ognunodi loro un sacchetto e disseroche avrebbero fatto unviaggio. Korczak, con unbambino in braccio, diresseun canto popolare polaccomentre procedevano in filaordinata verso gli altri ebrei.I tedeschi offrirono aKorczak la possibilità direstare nel ghetto, ma luirifiutò e accompagnò ibambini a Treblinka, dovemorì con loro”. Finirono tuttinelle camere a gas e poi nelcrematorio.

Per il criminale Priebke,morto ad oltre 100anni, si è molto parlato,

anche troppo a nostro avviso, dellasua sepoltura: Dove, come, quando.Per il piccolo Farber non ci funessuna tomba. Uscì da Auschwitzdal camino del crematorio. Avrebbepotuto diventare, chissà, un grandeartista, uno scienziato, un altroEinstein, che era un ebreo come lui,o anche un artigiano, un operaio.Come gli altri bambini (un milionee mezzo!) avrebbe comunquevissuto la sua vita. Fu invececondannato a morte per la colpa diessere nato ebreo.

Igoriziani, perché non sidimentichi, gli hanno dedicatoun giardino. Se qualche nostro

lettore si recherà in quella città gliporti un fiore.

i.p.

I 100 anni di Priebkee i tre mesi di Farber

Il cancello che immetteva al vec-chio ghetto di Gorizia è ora l’in-gresso del giardino dedicato alpiccolo Farber

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Mimmo Franzinelli

Il duce e le donne. Le avventure e passioni extraco-niugali di MussoliniMondadori, Milano, pp. 260, euro 20,00

Scrive Sergio Luzzatto che se uno stesse leggendo oggi illibro di Mimmo Franzinelli (ma quanto scrive questo bra-vissimo studioso del fascismo e dell’Italia repubblicana co-me preferisce farsi chiamare) andrebbe con il pensiero di-ritto a Silvio Berlusconi tanto il percorso appare simile.Aggiungo io con un filo di pudore in più per Mussolini.Semmai il confronto porta a riflettere su un certo mododi incarnare il potere nell’Italia dell’ultimo secolo. Sessoutilizzato per la propria immagine. Sesso come preda delpotente. Sesso come visione oggetto della femminilità.Sesso come gioco perverso di chi si ritiene al riparo daogni legge umana e divina. Se differenza c’è, ma di poco conto, questa è sui tempidelle notizie: di Mussolini si seppe dopo. La stampa ave-va la mordacchia delle censura. Della Petacci, della Sarfatti,della Dalser (la donna da cui ebbe un figlio disconosciu-to per la violenza del padre) e degli amori si verrà a conoscerea guerra finita Del signore di Arcore si è saputo tutto in diretta, compre-si i processi che hanno contribuito a definirne meglio il trat-

to e ad accelerarne la fine politica. Ma altro, sempre mar-ginale, divide i due: se Mussolini, è l’impressione, ha gui-dato parte dei suoi amori lungo il tragitto della passioneo dell’infatuazione, se alcune donne si sono piegate al ca-risma simbolico del capo, se altre ancora hanno cedutoalla lusinga dei benefici, l’altro ha fatto mercato nell’al-cova della residenza con retate di donnine disposte a tut-to per scopo di denaro. Qualcosa unisce i due. E’ il ruolo dell’ape regina, di co-lei che organizza il cerchio magico delle ragazze cui of-frire l’amore. L’ape regina del duce, citata da Franzinelli, è Cesira Carocci,(nella foto) di Gubbio che in pochi anni dal modesto ap-partamento di via Rasella scalerà il traguardo di VillaTorlonia e Palazzo Venezia. Avrà il compito di oliare ladelicata macchina. C’è anche un’altra figura, ErcoleBoratto, l’autista di un intero ventennio che darà una ma-no. Franzinelli, maneggiando le memorie scritte per l’Ossamericano dal Boratto, trae storielle piccanti. Il duce adesempio, come (pare) il nostro brianzolo, puntava sulleminorenni. Bianca Ceccato è la “nipote di Mubarak” deigiorni nostri. A Mussolini darà un figlio, Glauco. RestaClaretta che gli resterà fedele sino all’ultimo. Certo la so-la che non fece mai calcoli per vile guadagno.

BIBLIOTECASuggerimenti di lettura

a cura di Franco Giannantoni

Robert Belleret

Piaf. Un mythe francaisFayard, Parigi, pp. 190, euro 25.00

Ma guarda che amara sorpresa per noi che alla voce diquel passerotto spaventato, una donnina di un metro equarantasette, tutt’altro chebella, nata su un marcia-piede, trascinatrice di fol-le perdutamente innamo-rate di quella voce melo-dica e triste, avevamo af-fidato i nostri sogni gio-vanili, sapere che, mentrela Francia era divisa in due,lei, Edith Piaf (in realtàEdith Giovanna Gassion1915-1963) se la faceva coinazisti? Proprio così. In pochi losapevano e la ricostruzio-ne che fa ora RobertBelleret ha il sapore acre

di un manrovescio. Una punizione a pensarci bene chenon meritavamo. Il passerotto viveva nel bordello del-la Gestapo coltivando oscure amicizie senza apparen-te imbarazzo. Questo prima, durante e dopo la guerra. “Potete rico-noscere-aveva detto nella sua ultima intervista-che hoavuto fortuna nell’aver avuto tanti amanti. Quale don-na non mi invidierebbe? Tutti giovani, belli, seducen-ti”. Eppure la voce ha retto al ludibrio, si è fatta mito nelmondo. La voce di Francia spedita in ogni dove comeuna cartolina. Lei intanto batteva bistrot e strade pari-gine avvolta nel mistero di una voce irripetibile, magica,al pari di chi era nato in quegli stessi anni tormentati,Maurice Chevalier, Yves Montand, Georges Moustaki,Charles Aznavour. La sua celebre canzone, “Non, je ne regrette rien”, di-ventò l’inno della Legione Straniera dopo che lei la de-dicò al reparto d’assalto. Icona della destra e dei pieds-noirs d’Algeria, Edith Piaf fu figlia di un secolo fattodi rose e di rimpianti. Un asteroide porta il suo nome,E’ 3772 Piaf. Scoperto nel 1982 tra Marte e Giove vi-ve ancora come il suo eterno fascino.

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Aldo Toscano

Io mi sono salvato. L’Olocausto del lago Maggiore egli anni dell’internamento in Svizzera (1943-1945).Interlinea Edizioni, 2013, pp. 276, euro 15,00

Si era salvato dopo l’8 settembre del ‘43 rifugiandosi inSvizzera come migliaia di altri italiani, ebrei come lui,militari, civili e lì aveva vissuto, passando da campo incampo, sino alla Liberazione. Dell’internamento negli an-ni aveva scritto un diario tutto privato. Duecento e più pagine. Meticoloso, pieno di date e di fat-ti. Poi aveva aggiunto le pagine di processo di Osnabrueckdel 1968 contro i criminali nazisti autori di quello che ave-va definito “l’Olocausto del lago Maggiore” (Meina,Stresa, Baveno, Arona, di quel tremendo autunno dopol’armistizio). Infine per completare l’opera aveva neglianni del pensionamento sviluppato il lungo viaggio dellasua famiglia (gli avi torinesi, Mario, il fratello diploma-tico, Franco l’altro fratello, il pediatra e appunto lui) inun terzo blocco. Ora i figli hanno dato alle stampe quel materiale destina-to a finire certamente in un cassetto. Dentro il lettore tro-va la miniera d’oro dei ricordi strazianti delle razzie e de-gli omicidi perpetrati dagli occupanti, i silenzi e i non ri-cordo dei boia davanti ai magistrati tedeschi che darannoloro una mano, la solitudine e l’afflizione della perma-nenza nella Confederazione in attesa che la guerra fossefinita. E’ stato un faticoso lavoro, assai utile, una sintesidi anni cruciali, arricchiti dalle note personali di chi nondimentica mai di essere riuscito a salvare la vita.

Sonia Residori

Una Legione in armi. La Tagliameno fra onore, fedeltàe sangue.Cierre, Sommacampagna 2013, pp. 215, euro 16,00

Della famigerata Legione “Tagliamento” di Merico Zuccari,fra le più feroci unità armate della Rsi, si conosceva solola requisitoria tenuta nel 1952 dal Procuratore Militare diMilano, l’azionista avvocato Egidio Liberti, pubblicatadall’Istituto di Storia della Resistenza di Borgosesia nel 1974e brandelli romanzati di un “figlio del Duce”, CarloMazzantini nel “A cercare la bella morte” per i tipi diMondadori negli anni ’90. Ora Sonia Residori, studiosa ve-neta, ha rimesso le mani nel copioso materiale documen-tario e ha offerto della Legione repubblichina, nata dal-l’unione fra il 63° battaglione e il 1° battaglione Camillucciadi Roma un ritratto ancora più preciso accompagnando legesta dal Piemonte, alla costiera Adriatica, al Veneto, si-no alle ultime stragi compiute in Valtellina prima di scio-gliersi nella “battaglia dell’onore” sui contrafforti reticidel Mortirolo. Il volume cade nel 70° anniversario del ter-ribile eccidio di Borgosesia (22 dicembre 1943) quando laLegione fucilò dieci cittadini fra cui un ragazzo di soli 14anni. Non paga la “Tagliamento” si avventurò in un ra-strellamento poderoso nel tentativo, fallito, di sgominarele prime formazioni che Moscatelli aveva organizzato inalta Valsesia. Epico lo scontro a Camasco il 31 dicembre1943 con un gruppo di “Garibaldini” che ressero all’ur-to prima di guadagnare le vicine montagne. Libro da leg-gere e su cui meditare. L’Italia nacque lì.

BIBLIOTECASuggerimenti di lettura

a cura di Franco Giannantoni

Elisabetta Ferrario e Giorgio Cavalleri

Le rotte del transatlanticoNodo Libri, Associazione Amici del Novocomun, Como2013, pp. 47, sip

In un piccolo, elegante volume voluto dai genitori diMarina Cavalleri, dolce, sensibile, colta studiosa, portatavia l’anno scorso da una maledetta e misteriosa malat-tia, è descritta, attraverso i giudizi di alcuni amici-fre-quentatori, la storia del “Transatlantico”, l’edificio piùcontroverso del Razionalismo italiano, opera comasca nel1927 di quel genio che fu Giuseppe Terragni, allora gio-vanotto di 23 anni!. Per ammirare quest’opera che so-pravvive stupendamente al tempo, restaurata nella par-te esterna da una decina d’anni, un mastodonte che do-mina il lago e che fa da confine ideale alla città del ‘900,vengono ogni anno in visita centinaia di persone, giap-ponesi, americane, russe, cinesi, europee in genere. IlTransatlantico è un mito.

Un modello moderno a oltre 80 anni dalla sua edificazione.Marina Cavalleri era l’ animatrice di queste visite. Sipresentavano a casa degli studenti giapponesi. Lei, ele-gante, bella, poliglotta, li accompagnava e li istruiva. Così per tutti gli altri visitatori in ogni mese dell’anno.Giuseppe Terragni, il grande architetto aveva così, inmodo singolare, con la voce di questa ragazza, amicacarissima, garantite attualità e memoria. Il volume è unomaggio a Marina voluto da Elisabetta e Giorgio, cari ami-ci, la mamma e il papà. Questo Giano Bifronte che è ilTransatlantico, scrivono i due autori, “guarda a sud-e atutta la tradizione architettonica italiana- con un fron-te, le forme e le finiture classicheggianti, il tetto a faldee guarda a nord-e idealmente alla Mitteleuropa e ai nuo-vi orizzonti dell’architettura moderna-con il fronte op-posto, i volumi puri e il terrazzo praticabile”. Un gioiel-lo che scuote le coscienze di chi oggi per costruire mas-sacra territorio e paesaggio.

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Mario Avagliano, Marco Palmieri

Di pura razza italiana. L’Italia “ariana” di fronte alle leggi razziali.Baldini Castoldi, Milano 2013, pp. 448, euro 18,90

La Shoah italiana è stata sempre studiata nell’ottica di chila compì materialmente, i fascisti della Rsi e i tedeschi oc-cupanti. Un lavoro condotto con grande profondità a co-minciare (a parte i giudizi) da Renzo de Felice, poi da MicheleSarfatti, Liliana Picciotto, Susan Zuccotti, ecc. Ora il discorsoè stato capovolto. Avagliano e Palmieri pongono l’interro-gativo su quale fu la reazione del popolo italiano. Come sicomportò, come reagì prima alle leggi razziali, poi alla re-pressione dopo l’8 settembre verso i 44 mila ebrei residen-ti sul territorio nazionale? La risposta è severa: con l’indif-ferenza. All’isolamento della comunità ebraica, fenomenopressoché generale, si accompagnò durante la stagione del-le catture e della spoliazione dei beni mobili ed immobili,un qualche atteggiamento solidaristico soprattutto da par-te del basso clero di montagna, quello in prossimità dei va-lichi confinari e della popolazione contadina. La gran mas-sa stette a vedere. Altri sfruttarono il momento per passarecoi nazifascisti facendo opera di delazione. Ci fu chi si fe-ce pagare per favorire la fuga e poi tradì. Molti ammini-stratori dei beni ebraici collaborarono con il nemico indicandosedi, luoghi, banche dove colpire. Fu una rappresentazionesquallida, espressione diretta della propaganda del regimeche aveva educato la collettività italiana a ritenere gli ebreidegli approfittatori, responsabili coi “poteri forti” dell’im-poverimento dell’economia e in fondo della sconfitta.

Fondazione Nilde Jotti

Le leggi delle donne che hanno cambiato l’Italia.Ediesse, Roma, pp. 240, euro 14,00

Ci sono fatti che ancora oggi i giovani ignorano, ad esem-pio che le donne sino al 1963 non potevano diventare ma-gistrato (oggi sono 4006 su 8678); che fino al 1968 l’a-dulterio femminile è stato un reato; che fino al 1996 laviolenza sessuale era un delitto contro la moralità pub-blica e il buon costume e non contro la persona. E anco-ra: che il diritto al congedo dei padri è entrato nell’ordi-namento del 2000. Che solo dal 2012, dunque ieri, i figlinati fuori dal matrimonio hanno gli stessi diritti dei figlinati dentro. Sono alcune leggi, frutto di dure battaglie,che il volume edito dalla Fondazione Nilde Jotti, l’indi-menticata Presidente della Camera dei Deputati, proponealla lettura e alla riflessione generali e che in un Paese co-me il nostro dovrebbe circolare in ogni scuola. Il libroparte dal 1946 quando ventuno donne Costituenti inizia-

rono il loro cammino scandito nella Costituzione dallaparità fra uomo e donna nel matrimonio, nella famiglia, nellavoro, nella politica. Nel volume c’è tutto: le leggi dal1950 al 2012 in ordine cronologico, un modo per afferra-re il significato dei tanti diritti di cui oggi godiamo. Alcunesono note, popolari, da quella della Merlin sulla chiusu-ra dei bordelli pubblici (1958), alla legge sul divorzio(1970), a quella sull’aborto (1978): Altre sono meno no-te ma importantissime a cominciare dalla legge Anselmisulla parità del diritto del lavoro (1977) per finire allalegge 1 del 2003 con cui, modificando l’articolo 51 dellaCostituzione, si afferma la parità uomo-donna nell’ac-cesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive. Resta il vul-nus, malgrado la legge, sulle quote rosa. Il rapporto diequità non è cosa fatta. Le resistenze sono tante, soprat-tutto degli uomini. Tanti i nomi delle autrici di questo pre-zioso strumento, da Elena Marinucci, a Rosa JervolinoRusso, Marisa Malagoli Togliatti, Claudia Macina.

I giorni della speranza e del castigo

Il viaggio dalla Liberazione al dopoguerra

Nel suo nuovo libro il gior-nalista – scrittore FrancoGiannantoni, con l’estre-mo rigore e la passione ci-vile che lo caratterizzano,compie un sofferto viag-gio dalla Liberazione alprimo dopoguerra attra-verso un’inedita docu-mentazione per delineareil Paese che prese formafra la giustizia dei Cln e lavendetta delle bande irre-golari; il peso delle sen-tenze della magistraturacontro i collaborazionisti;il ruolo dei partigiani, deirepubblichini, dei civili,dei voltagabbana nelle ten-sioni che animarono il pas-saggio dal fascismo allademocrazia; gli esiti fata-li della mancata epurazio-ne e della vagheggiata “pa-ce nazionale” con la scar-cerazione dei maggiori re-sponsabili dell’avventuradi Salò; le dimenticanze,i compromessi, i silenziche impedirono la genesidi una comune repubbli-ca.È un libro che consiglia-mo di leggere ai nostri let-

tori, dal titolo significati-vo “I giorni della speran-za e del castigo”

Franco GiannantoniI giorni della speranza

e del castigo2013

Emmeeffe Edizioni di Varese

pag. 663euro 30,00

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Anniversario (16 aprile 1945) della liberazione di Buchenwald. Il deportato politico ucraino Petro Mischtschuk è tornato nell'ex campo di concentramento. L'anziano si è commosso ripercorrendo gli spazi dell’orrore. Oggi il campo è un museo della memoria

Nel ritorno al campoun fiore in memoria