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Vattimo - La Societa Trasparente

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Page 1: Vattimo - La Societa Trasparente
Page 2: Vattimo - La Societa Trasparente

Dello stesso autore in edizione Garzanti: /.c• tii!Vcnlure della dz//crn11a

Lz /me della moderni/a Credae dz creder,• Dopo la cmtiamtà

D1alogo con Nzei<.Jche SJchdimw ed emanczpazume

li /uturo dt Ila rdig1one (con Rich.1rd Rorty)

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Gianni Vattimo ------------- ------------

La società trasparente

Garzanti

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Nota alla terza edizione

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Questa dedizione d .Ila . o ·ùda trasparente si pubblica a distanza di l l , 1 1 j h]] prima, e il . tempo trascorso- moltissitn s si 1 '"' i ra la ra-pidità delle trasformazioni tecn ]orrl 1 , soprat-tutto, politiche che sono intervcnut , n l 1 uo non riflettersi anche sul senso di molte d J] , j , po-ste nella prima edizione. Non nel senso di 110 lifi-care, almeno penso, la loro ispirazione di fondo, cioè l'idea che la <<mediatizzazione>> della nostra esistenza ci metta · di fronte a (possibilità di) tra-sformazioni molto radicali del modo di vivere la soggettività, e a eventi che rappresentano anche vere e proprie svolte nel «senso dell'essere». Que-sto termine evoca qui soprattutto il pensiero H Heidegger, che, in modo apparentemente para-dossale, io credo di dover riprendere com '3 per una lettura non demonizzante, non 'punm1 1 t «umanistica», difensiva e nostalgica, del 1n J d

' dei media. E piuttosto un certo ottin1isn1o cir a la funZione emancipativa dei media qu llo eh , in questi anni, si è attenuato. Ma non nel senso di

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ml!ttere in discussione l'approccio filosofico di fondo. Anzi, come si vedrà dal capitolo sulla «dc realizzazione» c i suoi limiti, che viene qui aggiun to come ultimo del libro, si cerca una via di uscita dai nuovi problemi- soprattutto «politici»- po::.ti dallo sviluppo dci media e del loro peso sociale, proprio spingcnJo più avanti l'idea che sia il senso stesso dell'essere, Jella realtà, che nel mondo mc Jiatico viene moJificato, o almeno può essere mo-dificato, in diretione di una minore soggezione ai pn:giudizi di ciò che Heidcgger chiama metafio;ica. Una scommessa arrischiata, ne sono ben cosciente. Ma forse, nelle condizioni date, proprio la più «rcalistica».

(gennaio 200())

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Postmoderno: una società trasparente?

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Oggi si parla molto di posrmodernità· anzi ·c ne parla tanto che ormai è diventato quasi obblig:. torio prender le distanze da questo concetto, consi-derarlo una moda passeggera, dichiararlo ancora una volta un concerto «superato>> ... Ebbene, io ri-tengo invece che il termine postmoderno abbia un senso; c che questo sc:nso sia legato al fatto che la società in cui viviamo è una società della comuni-cazione generalizzata, la società dei mass media.

Anzitutto: parliamo di poscmoderno perché con-sideriamo d1e, per qualche suo aspetto essenziale, la modernità è finita. Il sc:nso in cui si può dire che la modernità è: finic.1 è legato a che cosa si intende per modernità. Tra le canrc definizioni, m credo che \'C ne sia una su cui si può concordare: la mo-dernità è l'epoca in cui divcnra un valore determi-nante il fatto di essere moderno. In icaliwo, ma credo anche in molte altre lingue, è ancora un'offe-sa dire a uno che è «rca:tionario». cioè attaccato ai valori dd passato, alla tradizione, a forme di pen-siero <<super:.uc>>. Più o meno, questa

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ne <«::ulogica>>, elogiativa, dell'essere moderno è ciò che, secondo me, caratterizza rutta la cultura mo-derna. Questo atteggiamento non è così evidente fin dalla fine del Quattrocento (quando <<Uffici<Ù-meme» si fa cominciare l'età moderna), anche se fin Ja allora, per esempio nel nuovo modo di consi-derare l'artista come genio creatore, si fa strada un sempre più intenso culto per il nuovo, l'originale, che non esisteva nelle epoche precedenti (in cui an-zi l'imitazione dei modelli era un elemento di estre-ma importanza). Con il passare de1 secoli, divente-rà sempre più chiaro che il culto del nuovo e dd-l'originale nell'arte si lega a una prospettiva più ge-nerale che, come succede nell'età dell'Illuminismo, considera la storia umana come un progressivo pro-cesso cL emancipazione, come la sempre più perfet-ta realizzazione dell'uomo ideale (lo scritto di Les-sing su L'educazione del genere umano, 1780, è un'e-spressione tipica di questa prospettiva). Se la storia ha questo senso progressivo, è evidente che avrà più valore ciò che è più «avanzato» sulla via della conclusione, ciò che è più vicino al termine del processo. La condizione per concepire la storia co-me realizzazione progressiva dell'umanità autenti-ca, però. è che si possa vederla come un processo unitario. Solo se c'è la storia si può parlare di pro-gresso.

Ebbene, la modernità, nella ipotesi che propon-go, finisce quando- per molteplici ragioni - non appare p1ù possibile parlare della storia come qual-cosa di unitario. Una tale visione della storia, infat-

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ti, implicava l'esistenza di un cenrro intorno a cui si raccolgono c si ordinano gli eventi. Noi pensia· mo la scoria come ordinata intorno all'anno zero della nascita di Cristo; c più specificamente, come concatenarsi delle vicende dci popoli della zona «cenrralc», l'Occidcncc, che rappre.senra il luogo della civiltà, al di fuori dd quale ci sono i <<primiti-vi», i popoli <<in via di sviluppo». La filosofta tra Otroccnco c Novcccnco ha radicalmente criticato l'idea di scoria unmui:l proprio svelando il carattere ideologim di queste r;lpprcscntazioni. Così, Walter &:njamm, in un breve scritto del 1938 (Teu sul/,, filosofia rtoritt), ha sostenuto che la scoria co-mc corso unitario è una rappresentazione del passa-to LOstruira dai gruppi c dalle classi sociah domi-nanti. Che cosa, infatti, si tramanda dd passato? Non tutto quello che è accaduto, ma solo ciò che appare nlevmzte: per esempio, .1 scuola abbiamo stu-diaro molrc dare di hacraglic, trattati di pace. anche. rivoluzioni; ma non ci hanno mai narrato le tra-sformazioni dd modo di nutrirsi, del modo di vive-re la scssualirà. o cose simili. Così, ciò di cui parla la scoria sono le vicende della geme che coma, dci nobili, dci sovrani, o della borghesia quando diven-ta class<.. di potere: ma i poveri, o anche gli aspetti dclJa vtta Lhc vengono considerati «bassi)), non «fanno storia». "'

S<.. si sviluppano osservazioni come queste (se-condo una via iniziata, prima che da Bcnjamin, da Marx t Nicrzsche), si arriva a dissolvere l'idea di storia come corso unirario; non c'è una storia uni-

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ca, ci sono immagini del passato proposte da punti d, vista diversi, ed è illusorio pensare che o sia un punto di vista supremo, comprensivo, capace di unificare tutti gli altri (come sarebbe <<la storta>>, che ingloba la scoria dell'arte, della letteratura, del-le guerre, della sessualità, ccc.).

La crisi dell'idea di sroria porta con sé qudh del-l'idea di progresso: se non c'è un corso unitario del-le vicende umane, non si porrà neanche sostenere che esse procedono verso un fine, che realizzano un piano razionale di miglioramento, educazione, emancipazione. Del resto, il fine che la modernità riteneva dirigesse il corso degli eventi era anch'esso raffigurato dal punto di vista di un certo ideale del-l'uomo. Illuministi, Hegel, Marx, positivisti, stori-cisti di ogni tipo, pensavano più o meno turri allo stesso modo che il senso della storia fosse la realiz-zazione della civiltà, e cioè della forma dell'uomo europeo moderno. Come la storia si pensa unitaria-mente solo da un punto di vista determinato che sì pone al centro (sia esso la venuta di Cristo o il Sa-cro Romano Impero) così il progresso si concepi-sce solo assumendo come criterio un certo ideale dell'uomo; che però, nella modernità, è stato sem-pre quello ddl'uomo moderno europeo- come di-re: noi europei siamo la migliore forma di umarurà, rutto il corso della storia si ordina a seconda che realizzi più o menu completamente questo ideale.

Se si considera rutto questo, si capisce anche che la crisi arcuale della concezione uni rari a della storia, lJ conseguente crisi dell'idea di progresso c la fine

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della modernità, non sono solo even6 determinati da trasformazioni teoriche - dalle critiche che Io storicismo o t toce n teseo (idealistico, posi tivisrico, marxista, ecc.) ha subito sul piano delle idee. È ac-caduto molto di più e di diverso: i popoli <<primiti-vi», cosiddetti tali, colonizzati dagli europei in no-me del buon diritto della civiltà «superiore» e più evoluta. si <;ano ribcllati e hanno reso problemarica di fatto una storia unitaria, centralizzata. L'ideale europeo di umanic:ì è stato svelato come un ideale fra altri, non necessariamente peggiore, ma che non può, senza violenza, pretendere di valere come l'es-senza vera dell'uomo, di ogni uomo.

Accanto alla fine dd colonialismo c dell'imperia-lismo, un altro grande fattore è stato determinante per la dissoluzione dell'idea di storia e per la fine della modernità, ed è l'avvento della società dclb comunicazione. Vengo così al secondo punto, gud-lo che riguarda la <<società trasparente». Come si sa-rà osservato, l'espressione «società trasparenrc» è gui introdotta con un pumo interrogativo. Ciò che intendo sostenere è: a) che ndh nascita di una so-cietà postmoderna un ruolo determinante è esero-tato dai mass media; b) che essi caratterizzano que-sta società non come una società più «trasparente», più consapevole di sé, più «illuminata», ma come una società più complessa, persino caotica; c infint c) che proprio in guesto relativo «caos» risiedono le nostre speranze di emancipazione.

Anzirutro: l'impossibilità di pensare la storia co-me un corso unitario. impossibilità che, secondo la

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tesi qui sostenuta, dà luogo alla fine della moderni-tà, non sorge solo dalla crisi del colonialismo c del-l'imperialismo europeo; è anche, c forse più. il ri-sultato della nascita dei mezzi di comunicazione Jj massa. Questi mezzi - giornali, radio, televisione, in generale quello che si chiama oggi telematica -sono stati determmanti nel produrre la dissoluzione dei punti di vista centrali, di quelli che un filosofo francese, Jcan François Lyotard, chiama i grandi racconti. Questo effetto dei mass media appare esat-tamente contrario all'immagine che se ne faceva ancora un filosofo come Theodor Adorno. Sulla ba-se della sua esperienza di vita negli Stati Uniti du-rante la seconda guerra mondiale, Adorno, in opere come Dialettica dell'iLluminismo (scritta in collabora-zione con Max Horkhcimer) e Minima moralia, prevedeva che la radio (solo ptù tardi la TV) avesse l'effetto d1 produrre una generale omologazione della società, permertendo e anzi favorendo, per una specie di propria tendenza demoniaca interna, la formazione di dittature e governi totalitari capa-ci, come il «Grande Fratellm> del 1984 di George Orwell, di esercitare un controllo capillare sui citta-dini, attraverso una distribuzione di slogan, propa-ganda (commerciale non meno che politica), visio-ni del mondo stereotipate. Quello che di fatto è ac-caduto, però, nonostance ogni sforzo dei monopoli e delle grandi centrali capitalistiche. è stato piutto-sto che racLo, televisione, giornali sono diventati elementi di una generale esplosione e moltiplica-zione di Weftanschazmngm, di visioni del mondo.

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Negli Stati Unici degli ultimi decenni hanno preso la parola minoranze di ogni genere, si sono presen-tate alla ribalta dell'opinione pubblica culture e sub-culture di ogni specie. Si può cerco obierrare cha a questa presa di parola non ha corrisposto una vera emancipazione politica - il porerc economico è ancora nelle mani del grande capitale. Sarà -non voglio qui allargare troppo la discussione su questo terreno; il farro è però che la stessa logica del <<mercato» dell'informazione richiede una conti-nua dilatazione di questo mercato, ed esige di con-seguenza che <<tutto>>, in qualche modo, dìvenci og-getto di comunicazione. Questa moltiplicazione vertiginosa della comunicazione, questa <<presa di parola>> da parte di un numero crescente di sub-cul-ture, è l'effetto più evidente dei mttJ.r media, ed è an-che il farro che - intrecciato con la fine, o almeno la trasformazione radicale, dell'imperialismo euro-peo - determina il passaggio della nostra società alla postmodernità. Non solo nei confronti con al-tri universi culturali (il «terzo mondo», per esem-pio), ma anche al proprio interno, l'Occidente vive una situazione esplosiva, una pluralizzazione che appare irresistibile, e che rende impossibile conce-pire il mondo e la storia secondo punti di vista unitari.

La società Jei llltiSS meditt, proprio per queste ra-gioni, è tutto il contrario di una società più illumi-nata, più <<educata» (nel senso di Lessing, o di He-gel, o anche di Comre o di Marx); i ma.rs media, che teoricamente rendono possibile una informazione <<in tempo reale» su rutto quello che accade nel

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mondo, potrebbero in effetti sembrare una specie di realizzazione: concreta dello Spirito Assoluto di Hcgd, cioè Ji una perfetta autocosocnza dt rutta l'umanità, la coincidenza tra ciò che accade, la sto-ria c la consapevolezza dell'uomo. A ben vedere, critici di ispirazione hcgel1ana e marxista come Adorno ragionano proprio pensando a questo mo-dello, c fondano il loro p<.:ssimismo sul fatto che es so (per colpa del mercato, in fondo) non si realizza come potrebbe, o si rcaliz7.a i n modo perverso e ca-ricaturale (come nel mondo omologato, e forse an-che «felice» per via della manipolazione dei deside-ri, dominato dal «Grande Fratello»). Ma la libera-zione della molte culture e delle molte Weitan-schauungen resa possibile da.i mass media ha invece smentito proprio l'ideale di una società trasparente: che senso avrebbe la libertà di informaz10nc, o an-che solo l'esistenza di più canali di radio e di televi-sione, in un mondo in cui la norma fosse la ripro-duzione esatta della realtà, la perfetta obiettività, la totale identificazione della mappa con il Di fatto, l'int<..:nsificazione delle possibilità di infor-mazione sulla realtà nei suoi più vari aspetti rende sempre meno concepibile la stessa idea dt una real-tà. Si attua forse, nel mondo dci maJs media, una «profezia>> di Nictzsche: il mondo vero alla fine di-venta favola. Se abbiamo un'idea della realtà, que-sta, nella nostra condizione di esistenza tardo-mo-d<..:rna, non può essere .intesa come il dato oggettivo che sta al di sotto, al di là, delle immagini che cc ne.: danno i media. Come c dove potremmo attinge-

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re una tak realtà «in sé»? Realrà, per noi, è piutco-sto il risultare dell'incrociarsi, del «contaminarsi» (nel senso brino) delle molteplici immagini, inter-pretazioni, ri-costruzioni che, in concorrenza rra lo-ro o comunque senza alcuna coordinazione «centra-le», i media distribuiscono.

La resi che intendo proporre è che nella società dei media, al posto cL un ideak emanciparivo mo-dellato sulla autocoscienza tutta spiegata, sulla per-fetta mnsapevolezza di chi sa come stanno le cose (sia esso lo SpiritO Assoluto di Hcgd o l'uomo non più schiavo dell'ideologia come lo pensa Marx), si fa strada un ideale di emancipazione che ha alla propria base, piuttosto, l'oscillazione, la pluralità, e in ddini riva l'erosione dello stesso «principio di realtà». L'uomo oggi può finalmente divenire con-sapevole che la perfetta 1iberrà non è quella di Spi-noza, non è- come ha sempre sognato la metafisi-ca - conoscere la struttura necessaria dd reale e adeguarsi ad essa. L'imporr::mza dell'insegnamento filosofico di autori come Nietzsche c Hcidegger sta nma qui, nel farro che essi ci offrono gli snumenri per capire il senso emanci pativo della fine della modernità e della sua idea di storia. Nietzsche, in-fatti, ha mostrato che l'immagine di una realtà or-dinata razionalmente sulla base di un fondamento (l'immagine che la mecafisica si è sempre fatta del mondo) è solo un mito <<rassicw-arivo» proprio di una umanità ancora primitiva e barbara: la metafi-sica è un modo ancora violento di reagire a una si-tuazione di pericolo e di violenza; cerca infatti di

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impadronirsi della realtà con un <<colpo di mano», cogliendo (o illudendosi di cogliere) il pri nei pio primo da cui cutro dipende (e dunque assicurandosi illusoriamente il dominio degli eventi). Heidegger, proseguendo su questa linea eli Nicczsche, ha mo-strato che pensare l'essere come fondamento, c la realtà come sistema razionale di cause ed effetti, è solo un modo eli estendere a rutto l'essere il model-lo dell'oggettività <<scientifica», della mentalità che, per poter dominare e organizzare rigorosamente tutte le cose, le deve ridurre al livello di pure pre-

misurabili, manipolabili, sostituibili - alla fme riducendo a queste livello anche l'uomo stesso, la sua interiorità, la sua storicità.

Dunque, se con la moltiplicazione delle immagi-ni del mondo perdiamo il «senso della realtà», co-me si dice, forse non è poi una gran perdita. Per una specie di perversa logica interna, il mondo dc-gli oggen:i misurati e manipolati dalla scienza-tec-nica (il mondo del reaLe, secondo la metafisica) è diventato il mondo delle merci, delle immagini, il mondo fantasmagorico dei mass media. Dovremmo contrapporre a questo mondo la nostalgia di una realtà solida uni caria stabile c «autorevole»? Un a ' ' nostalgia rischia di trasformarsi continuamente 1n un atteggiamento nevrotico, nello sforzo di rico-struire il mondo della nostra infanzia, dove le auto-rità familiari erano insieme minacciose e rassicuranti.

Ma in che cosa consiste, più specificamente, la possibile portata emanci pativa, liberatori a, della perdita del senso della realtà, della vera e propria

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erosione del principio di realtà nel mondo dei ma.rs media? Qui, l'emancipazione consiste piuttosto nel-lo spaesamento, che è anche, c nello stesso tempo, li-berazione delle differenze, degli elementi locali, di ciò che potremmo chiamare, complessivamente, il dialetto. Caduta l'idea di una razionalità centrale della storia, il mondo della comunicazione genera-lizzata esplode come una molteplicità di razionalità <<locali» - minoranze etniche, sessuali, religiose, culturali o estetiche - che prendono la parola, fi-nalmente non più tacitare e represse dall'idea che ci sia una sola forma di umanità vera da realizzare, a scapito di tutte le peculiarità, di tutte le individua-lità limitate, effimere, contingenti. Questo processo di liberazione delle differenze, detto di passaggio, non è necessariamente l'abbandono di ogni regola, la manifestazione bruta dell'immediatezza: anche i dialetti hanno una grammatica e una sintassi, e an-zi solo quando acquistano dignità e visibilità sco-prono la propria grammatica. La liberazione delle diversità è un ateo con cui esse <<prendono la paro-la>>, si presentano, dunque si «mettono in forma» in modo da potersi far riconoscere; nttt'altro che una manifestazione bruta dell'immediatezza.

L'effetto emancipativo della liberazione delle ra-zionalità locali non è tuttavia solo quello di garan-tire a ciascuno una più completa riconoscibilità e «aurenricità>>; come se l'emancipazione consistesse nel manifestare finalmenre ciò che ciascuno è «dav-vero» (in termini ancora rnetafisici, spinoziani): negro, donna, omosessuale, protestante, ecc. Il sen-

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so cmancipativo della liberazione delle differenze e dci <<dialetti» consiste piuttosto nel complessivo d-ferro di .rpaesamento che accompagna il primo effet-to di identificazione. Se parlo il mio dialetto, final-mente, in un mondo di dialetti, sarò anche consa-ptvolc che esso non è la sola <<lmgua», ma è appun-to un dialetto fra altri. Se professo il mio sistema di valori - relig1osi, estttici. politici, etnici - in que-sto mondo di culture plurali, avrò anche un'acuta coscicn7a della sroricirà. contingenza, limtratezza. di questi sistemi, a cominciare dal mio.

E quello che Nietzschc:, in una pagina della Ga-ia rcienza, chiama il «Continuare a sognare sapendo di sognare>>. È possibile qualcosa del genere? L'es-senza di quello che Nierzsche ha chiamato il «supc-ruomo>> (o oltreuomo), lo Uebermemch. è rutta qui: cd è il wmpito che egli assegna all'umanità del fu-turo, proprio nel mondo della comunicazione in-tensificata.

Un esempio di che cosa significhi l'effeno cmanciparivo della <<confusione» dei dialetti si può trovare.: nella descnzionc ddl'cspem:nza esteric1 che dà W ilhelm Dilchcy (una descrizione che rimane decisiva anche per Hcideggcr, a mio parere). Egli pensa che l'incontro con l'opera d'arte (come del resto la o;tessa conoscenza della storia) sia un modo di fare esperienza, nell'immaginazione, di altre for mc di esistenza, di altri modi di vira diversi da quello in cu1 di farro siamo calati nella nostra quo-ti<.lianirà concreta. Ognuno di noi, maturando, rc-:-;tring<: i propri orizzonti di vita, s1 specializza, si

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chiude entro una sfera determinata di inte-ressi, conoscenze. L'esperienza estetica gli fa vivere altri mondi possibili, e così gli mostra anche la contingenza, relatività, non definitività del mondo «reale» entro cui è chiuso.

Nella società della comunicazione generalizzata e della pluralità delle culture, l'incontro con altri mondi e forme di vira è forse meno immaginario di quanto non fosse pe::r Dilrhey: le possibilità «altre» di esistenza sono attuare sorto i nostri occhi, sonu quelle rappresentare dai molteplici «dialetti», o an-che dagli universi culturali che l'antropologia c l'etnologia ci rendono accessibili. Vivere in questo mondo molteplice significa fare esperienza della li-bertà come:: oscillazione continua tra appartenenza e spaesamen co.

È una libertà problemarica, non solo perché que-sto effettO dei media non è garantito, è solo una possibilità da riconoscere e coltivare (i media posso-no anche essere, sempre, la voce dd «Grande Fra-tello»; o della banalità stereotipata, del vuoto di si-gnificato ... ); ma anche perché noi stessi non sap-piamo ancora troppo bene quale fisionomia abbia - facciamo fatica a concepire questa oscillazione come:: libertà: la nostalgia degli orizzonti chius1, mi-nacciosi c rassicuranti insieme, è sempre ancora ra-dicata in noi, come individui e come società. Filo-sofi nichilisti come Nietzschc e Heidegger (ma an-che pragmatisti come Dewey o Wittgcnsrein), \TIO-strandoci che l'essere non coincide necessariamente con ciò che è stabile, fisso, permanente, ma ha da

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fare piuttosto con l'evento, il consenso, il dialogo, l'interpretazione, si sforzano di renderei capaci di cogliere questa esperienza di oscillazione del mon-do postmoderno come chance di un nuovo modo di essere (forse: finalmente) umani.

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Scienze umane e società della comunicazione

Il rapporto fra scienze umane e società della co-municazione - la nostra società caratterizzata dal-l'intensificarsi dello scambio di informazioni e dalla tendenziale identificazione (televisione) tra evento e notizia - è più stretto e organico di guanto ge-neralmente non si creda. Se infatti è vero in genera-le che le scienze, nella loro forma moderna di scien-ze sperimentali e «tecniche» (manipolanti il dato naturale), co.rtituircono il loro oggetto più che non esplorino un <<reale>> già costituito e ordinato, ciò vale in modo del tutto speciale per le scienze uma-ne. Le quali non sono solo un modo nuovo di af-frontare un fenomeno <<esterno», l'uomo e le sue istituzioni, dato da sempre; ma sono rese possibili, nei loro metodi e nel loro ideale conoscitivo, dal modificarsi della vita individuale e associata, dal co-stituirsi di un modo di esistere sociale che, a sua volta, è direttamente plasmato dalle forme della co-municazione moderna. Non sarebbe concepibile una sociologia come scienza, e anche tcndcnzial-

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mente come previsione, di grandi comportamenti collettivi. o anche solo come presa d'atto ripologic:1 delle differenze di questi comportamenri, non solo se non sussistesse la possibilità di raccogliere le in-formazioni necessarie (eh<.; dunque suppongono un u:rro modo eli comunicazione): ma, anzi rutto, sm-za che qualcosa come un comportamento collettivo si possa dct<.:rminarc, comt farro; una possibilità che divcnra effettiva solo in un mondo in cui la co-municazione sociale ha superato cerci livelli . Anche e .soprattutto un sapere come quello dell'anrropolo-gta non sarebbe possibile sc.:nza tl fatto elcmcntan: ddl'incontro con civiltà c gruppi umani diversi -inconrro che si è verificaro in modo determinante solo con i viaggi <.: le scopcrt<.: moderne. O ancora, per tornare alla sociologia: una descrizione della so-cietà che non si identifichi con la descrizione, ca-taloguione e comparaz10ne di regimt politici (com'era la Politica ansrorelica), non è neppure concepibile prima che. ancora una volta nel quadro Jcl divenire sociale moderno, si sia costiruiro qual-cosa come la «società», quello che Hegel chiamava b solictà civile, distmta dallo Stato e dalle forme di ?rganizzazione politica del potere. Si osserverà che d sorgere c lo svilupparsi di una società civile di-stinta dallo Stato non sono, immcdiatamenre, un fenomeno dt cui si veda la connessione diretta con i fenomeni della comunicazione c con i nuovi mezzi di informa,zione messi a disposizione dalla tecnica moderna. E però possibile: mostrare - ad esempio richiamandosi agli studi di Habcrmas sull'opinione

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pubblica - <.:hc :trlthc nd diven1n. della società ci-vile, come .tmbiro diffcrcnziaro nsperco allo Sraro. ha un ruolo fond:lmCnt:lk la pubblica opinione. l'i-dea generale di una sfera pubblica. che è cerramcn-rc legata ai rnt'lC:lnismi dciJ'informazione e della comunic:uione st>eiak.

Un primo .tpprotdn al nostro tema può essere dunque la wnstat:tzionc - n:uur:ùmente andrebbe corrohor:tta da più ampi approfondimenti e rileva-zioni di fatto - che k cosiddntc <<scienze umane>> (un termine che nd nostro discorso, come nd1a cultura attu:tk, rimane non dd turco determinato quanto ai suoi limiti c al suo ambito di sione), dalla sociologia all'antropologia alla stessa psicologia le <]ualt dd resto sorgono di fatto so lo nella moc.k:rnitt't sono condizionate, peraltro in un rapporto di nxiproca determinazione, dal co-stituirsi dc:lla s(){ied moderna come società della comunic.azionc. Le scienze umane sono insieme ef-fetto c mezzo di ulteriore sviluppo della società del-la comunicazione grncralizzata. Benché non si pos-sa pretendere di dare ull'l ddinizione csausnva né ddlc scienze umane né ddla società della comuni-cazione - due termini che rcsmno indeterminati proprio per la loro prdimirurc ovvierà nd discorso della nosrra culrura - può gcncr:1lmenrc conve-nire che chiamiamo scienze umane rutri quei che rientrano (o rendono a rientrare: esempio la

l c r, } ll.ihcrnu,, \loru t { /"1/tt.t .t.lt"p"mmt pu!JI;/,,,, ( 1%2). tr;Jd H. Ùt A. lllumiiLHt, l ,\l.l'lni, \'\'. Pcmtl.l, l. m·rl;l, .H.tn 197 1

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psicologia) nell'ambito di quella che K.ant ha chia· m:lto antropologia prammatica - che cioè danno una descri:lione <<positiva>>. non filosofico-rrascen-d{:ntalc, dell'uomo. a partire però non da ciò che egli t per natura, ma da ciò che egli ha fatto di sé; dunque dalle istituzwni, dalle forme simboliche. dalla cultura. Una tale definizione delle scienze.: umane lascia certamente aperti molti problem1, t anzitlltro quello che riguarda l'antropologia di un Arno! d Gehlen. Ma quel che ci interessa qui non è una definizione epistemologicamenre esaustiva del· le scienze umane. bensl il rapporto di queste forme di sapere (quali che siano gli esatti confini dd loro ambito) con la società della comunicazione genera-lizlilta. Se dunque ipotizzcrcmo molto 1n generale che k scienze umane siano quellt che descrivono

ciò che l'uomo fa di sé nella cultu· ra t nella società, allora possiamo anche conveni-re che h stessa idea di una tale descnzione è essen-zialmente condizionata dal dispiegarsi. in modo v1sibilc c accessibile ad analisi comparative, di una tale positività del fenomeno umano; il che. ndla forma più ev1dent{:, si dà propno con lo SVI-

luppo della società moderna nc1 suoi aspetti comu· ntcativi

Parlare di società della wmunicazione, tuttavia, comporta anche un'altra ipotesi, che estende c com-plica la prima che abbiamo proposto circa la con-nessione tra scienze umane c societa della comuni-cazione: e tioè l'ipotesi che l'intensificarsi dei feno-m<.:nJ comunicativi, l'accc.:nruarsi della circolazione

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delle informazioni fino alla contemporaneità della telecronaca diretta (e al «villaggio globale» di McLuhan) non sia solo un aspetto fra gli altri della modernizzazione, ma sia in qualche modo il centro e. stesso di questo Questa ipotesi Sl nchiama ovviamente alle test di McLuhan, se-condo il quale una società è definita e caratterizzata dalle tecnologie di cui dispone, non però in senso generico, ma nel senso specifico di tecnologie della comunicazione; ecco perché parlare di una «galas-sia Gutcnberg>> o di un mondo tecnotroni.co non equivale a sottolineare solo un aspetto, sia pure es-senziale, della società moderna e di quella contem-poranea, ma i n dica invece il carattere essenziale di questi due tipi di società. Quando parliamo di ci-viltà della tecnica, nel senso più ampio e «Ontologi-co» a cui allude la nozione heideggeriana di Ge-Ste/1, dobbiamo capire che ciò a cui alludiamo non è solo l'insieme degli apparati tecnici che mediano il rapporto dell'uomo con la natura, agevolandogli l'esistenza attraverso ogni genere di utiliuazione delle forze naturali. Benché questa definizione della tecnologia valga in generale per tutte le epoche, oggi essa si rivela troppo generica c superficiale: la tecnologia che domina e foggia il mondo in cui vi-viamo è certo fatta anche di macchine nel senso tradizionale del termine, che forniscono i mezzi per «dominare>> la natura esterna; ma è soprattutto de-finita, e in modo essenziale, da sistemi di raccoJra e trasmissione di informazioni. Ciò diventa sempre più evidente a mano a mano che il divario tra paesi

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.wanzari e paesi arretrati si precis:1 come divario ndlo sviluppo dell'informatica. Di conseguenza. guando Heidtgger parla (come in Sentieri infermi/i) di <<<:poca dtlle immagini dd mondo» per definire la modtrnicà non usa un'espressione metaforic:l. né dcscrivc..: solo un tratto fra altri dd moderno com-pltsso di scitnza e tecnica, come fondamento della mentalità moderna; egli invtcc definisce propria· mt:nte la modernità come gucll'epoca in cui il mondo si riduce - o piuttosto si costituisce - ad immagini; non tanto alle wrelltJ!IJ(httllll11gen come

di valori, prosperrivc soggettive. oggetto di una possibile <<psicologia delle visioni del mondo>>, ma alle immagini costruire c verificate dalle s<.:ien-'1<.:, che si dispiegano sia nella manipolazione dell'c-sperimento, sia nella applicazione dei risultati alla rcc:nica, <: che, soprattutto (il che Heideggcr non esplicita, peraltro), si concentrano fine nella scienza c nella tecnologia dell'informazione.

Dire che la società moderna è essenzialmente b società della comunicazione c delle scienze sociali non significa dunguc mettere tra parentesi la porra-ca delle scienze della natura c della tecnologia che esse hanno reso possibile nella determinazione del-la struttura eli guesra società; ma piuttosto consta· rare c:hc: a) il <<senso>> in cui si muove la tecnologia non è tanto il dominio macchinico della natura, ma lo sviluppo specifico dell'informazione e della CO· srruzionc del mondo come <<immagine»; b) guesra società in cui la tecnologia ha il suo culmine nella <<informazione» è anche, essenzialmente, la sociec:ì

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delle scienze umane - nel doppio senso, oggettivo e soggettivo, del genitivo: quella eh<. è conosciuta e cosrrui ra, come loro oggetto adeguato, dalle scienze umane; e quella che si esprime, come in un suo aspetto determinante, in queste scienze.

Turco questo imicme di ipotesi si può coJrobo-rare, se non «provare». mostrando che esso funzio-na per capire, per esempio, la centralità che assu mono nelle società tardo-industriali le tecnologie informatiche, che sono com<: «l'organo degli orga-ni», il luogo in cui il sistema tecnologico ha il suo «pilota>> o ciberneta, la sua dtrezione, anche intesa come tendenziale direzione di sviluppo. Un altro terreno in cui sembra che questa descrizione unita-ria del mondo tecnologico come mondo ddle scien-ze sociali e dell'informatica possa servire, come ipo-tesi unificante, è gudlo della definizione della <<contemporaneità» del mondo contemporaneo: il gualc, nella prospettiva che abbiamo proposto, non si chiama tale in base a banali criteri di prossimità «cronologica» (contemporaneo è ciò che ò è rem-poralmcnte più vicino), ma piuttosto in guanto mondo in cui si delinea c comincia ad attuarsi con-cretamente la tendenza alla riduzione della scoria sul piano della simultaneità, attraverso tecniche co-me quella della telecronaca dirc.:rca.

Se anche non si vuol seguire fino alle sue estre-me, c vertiginose, conseguenze questa definiziOne della contemporaneità. che comporta certamente un riaggiusramento radicale della stessa nozione della storia, si potrà però riconoscere la ragiom:vo-

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lena di un altro asperro legato a questa ipotesi: mostrare cioè che alla luce di essa gli ideali sociali della modernira si mostrano unirariamence descrivi-bili come guidati dall'utopia della assoluta autolrtl-.rpttrenZtl. Almeno a partire dall'Illuminismo, è dive-nuro chiaro che il sottoporre.: le realtà umane - le istituzioni sociali, la cultura, la psicologia. la mora· k a un'analisi scientific.t non è solo un program-ma epistemologico che s1 proponga di perseguire interessi conoscitivi estendendo il metodo scic.:nrifi-co a nuovi ambiti di srudio; ma è una decisione ri-voluzionaria, che si captscc solo in relazione a un ideale di tr1sformazionc radicale della società. Non però nd senso di conc;iderart il sapere sull'uomo c k istituzioni come un mezzo per agire più effi-caccmtnrc in vista della loro modificazwnc. L' Aufklamng non c solo una tappa o un momenro prc.:p<lrarorio dell'emancipazione, ma ne è l'essenza stessa. La società delk scienze umane è quella 10 LUÌ l'umano è divenuto finalmente oggetto di sape-re rigoroso, valido, vcrificabile. L'importanza che rivestono, nd programma di emancipazione illumi-niStiCo, aspetti come quelli della libertà di pensiero c della tolleranza non è motivata solo o principal-mc..nte da una generale rivendicazione di libertà, di tU! gm.:sti momenti fanno pane. ma piuttosto dalla consapcvolena che una sociecà libera è quella in cui l'uomo puo diventare consapevole di sé in una «sfera pubblica>>, quella della pubblica opmione. della discusswnc libera. ccc .. non offuscata da dog-mi, pregiud1zi, supersCizioni. Lo «suenrismO>> posi-

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tivistico, che si concreta nella rivcndicaziom: di un passaggio allo stadio positivo del sapere sull'uomo, non (; banalmente riducibik a una sopravvalurazio-ne, quanto ai metodi, della scienza della natura, la cui applicazione anche all'ambito sociale c morale dovrebbe assicurare una maggior certezza cd dfica-cia anche a questi ripi di sapere; ma si capisce, al-meno per quanto riguarda Cornee, solo se lo si guarda dal punto di vista della sua analogia con il programma hegdiano della «realizzazione>> ddlo spirito assoluro, della piena autotrasparenza della ragione.

Questo ideale di autorrasparenza, cht: assegna al-la comunicazione sociale e alle sCienze umane.; un caram.:rc non solo strumentale, ma 111 qualche mo-do finale e sostanziale. nel programma di emanci-pazione, si ritrova oggi largamente nella teoria so-ciale. Da questo punto di vista, è emblematico il pensiero di autori come Ji.irgen Habcrmas c Karl Otto Apel, entrambi variamente legati all'eredità del marxismo critico dell'crmcneunca, delb filoso-

' fia del linguaggio, ma soprattutto mossi da una po-tente ispirazione ncokanciana che si associa a una cerca interpretazione della psicoanalisi. Ap.el.2 per esempio, costru1sce rutta la sua visione ddla socit:tà e della morale intorno all'ideale (che funge da im-perativo categorico kantiano) della <«.:omunità illi-mitata della comunicazione» - un termine che si

2 crr K.O. Apd. (1111/111/II•Ì (' ((}1//lliiÙ<IZ/fJ//f {l9ì1J, U:ld. l r. dl (; Carchu. Roscnlx:rg c Sdlin, Torino 1977.

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rithiama a Pcirce e al quale egli atuibUtsce la fun-I'Ìonc di una meraregola (hc rende possibile. rutti i nosrri molteplici giochi linguistici. Richiamandosi al noto aforisma ili Wittgcnstein, secondo cui non si può mai giocare un gioco linguistico da o;oli, Apd v<.:dc implicito in ogni uso dd lmguaggio, c dunque in ogni arto ili pcnsi<.:ro, una incvttabilc as-sunziom.: di responsabilità nei confronti delle rego-le linguistiche; questa responsabilità, però, lega i padantt ai partner. realt o potenziali, del dialogo so-ciale, di fronte ai quali ciascuno è responsabile del rispetto delle regole: il che vale anche quando si giochino giochi del rutto privati, con linguaggi che un parlante abbia inventato per sé solo; anche in questo caso, il parlante Lhc inventa le regole non è identico al parlante che, in un momento diverso, le applica, c che assume la responsabilità, ili fronte a un qualunque potenziale pttrlmr, della loro corretta osservanza. Ciò significa però che ogni atto di pcn-siuo, 111 quanto, come Apcl ritiene, è un arro ltn-gutsnw, si svolge sempre nell'orizzonte ili un'tdca-1<: comunità di argomentanti, ai quali il soggetto

il suo giocare il g10co linguistico abbia s<.:n-so non può non riconoscer<: gli stessi dirim che riwnos(e a se stesso. Di qui, allora, una sorra di in-trinseca esigenza di veridicità del linguaggio; eh<: richiede l'eliminazione di ogni ostacolo alla traspa-

della comunicazione; anzitutto degli osracolt posti volonranamem<.: dai soggetti (i quali possono bensì porli, ma non possono fare a meno ili ricono-scere che non dovrebbero agire così. come e dd re-

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sro il caso di ogni mancato rispetto di imperari\·i morali); e poi di rurri gudli di tipo sociale. ideolo-giw. psicologico, che rendono di farro opaca c im-perfetta la comunicazione. Si ha gui una estensione e radicalinazionc di quello che Peirce ha chiamaro <<socialismo logico». un'cspn.:ssionc molto significa-riva per capire l'ideale normativo di fondo in rutto gucsco discorso: l'ideale della perfetta trasparenza conoscitiva, una sorra di trasformazione della socic· tà in un «soggetto>> di tipo scientifico - come lo scienziato nel laboratorio, senza pregiudizi, o capa-cc comunguc di prescindernc in vista di una misu-razione obiettiva dei fatti decisivo. se-condo Apd. per la realllzaziom: di un socialismo logtco sono per l'appunto le scienze umane o socia-li. t:sst sono infatti la condii-ione positiva che rende possibile una autocoscienza soliale che superi i li-miti sta dell'idealismo sia dd determinismo mate-rialistico: la dialettica di guesri due momenti. in vi-sta di una sintesi e di un superamt:nro, si arrua pro-prio <<nel momento in cui la comunid della comu-nicazione, che costituisce il soggerro trascendentale della scicn7a, diventa al rempo stesso l'oggetto dd-la scienza· sul piano delle scienze sociali nel senso più lato del termine. Ora diventa cioè chiaro eh<.:. da una parte, il soggc.:no dd possibil<.: consenso alla verità della scienza non è una "coscienza in gcnc.:ra-1<.:" cxcramondana, bensì la socied srorico-rcalc. ma che. daJl'alrra. la società :;rorico-reale può essere compresa adeguacamenrc solo se vtenc considerata come soggt:rto virtuale della scienza. comprc<;a la

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scienza sociale, c se la su:l realtà scorica viene rico-srmim sempre, in mamera al rempo stesso empirica c normativo-critica, in riferimento all'ideùe. da rcl-lizzare nclb società, della comunità illimitata della comunicazione>>.'

appena il caso di osservare che qui l'espressto-m: <<socit:tà della comunicazione», a cui abbiamo as-segnato inizialmente un senso genericamente de-scrittivo, diventa un ideale normativo. con l'intro-duzjonc del termine «comunità>> che, oltre a ripren-dere Pcirce, evoca però un'idea di maggiore organi-cirà c immediatezza della comunicazione stessa, marcmdo una delle direzioni di significato in cui certamente Ape! si muove, un Itkak di tipo <<com-pcnctrativo>> romanuco, che resta molto spesso dominante· nelle teorie contemporanee della co-municazione.' La società della comunicazione illi-mitata, quella in cui si realizza la comunità del so-cialismo logico. è una società tmspan:nce, che pro-prio nella liquidazione degli ostacoli e delle opaci-tà, mediante un procedimento che si modella lar-gamente su una certa idea della psicoanalisi, giun-ge anche a ridurre radicalmente i motivi di con-flirto.

Le posizioni dt Apcl sono significative non solo pcrchl- assegnano un ruolo essenziale alle scienze umane nella realizzazione di una società della co-

\ flt, p. 172. 1 C fr su tic', C' · V;JttJffiO, t tlm!Aidlo dell.t UJI!IIfflll.ì. nd voi .1 \.Urli eh l Curi, l.t CQtiiUIIÙ.tztoll( um.tllll. Angdi, :'>libno

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municai'ionc intesa come ideale normarivo, ma an-che perché mcrrono in luce scr1i'a equivoci quel che è contenuto in qucsro ideale come suo rrarro essen-ziale. c cioè l':turotrasparcnza (tendeni'ialmenrc) completa della società, soggctro-oggccro di un sa-pere riflc.:ssivo che, in qu:t.lche senso, realiZi'a quel-l'assolutezza dello spirito che in Hegcl resta\'a un puro fantasma ideologico. una assolurezza che. nel-la sua <<idealità>>. mantene\'a con il reale concreto quel rapporto di trasccndcnza <<pl.ltonica>> tipico dclk essenze mctafisichc con rurrc le loro implica-zioni anche. 1n largo senso, rcpressive (nella misura i n cui restavano necessari amenrc trascendenti). Una vcrifJca dcll'imporran:.-a di questo ideale del-l'autorrasparcnza nella cultura conrcmporanea si può trovare nella srrutrura <.:oncetruale che regge la grande no:rca di Sartre sulla rag1onc dialettica. do-ve il problema c: proprio quello di individuate i mezzi concreti in base ai quali il sapere di sé della società si costituisce in forme non alienate. tali in quanto cffcrtivamenrc partecipare da rutti i mem-bri di quella sociec:ì: Sarcre pcns.1 naruralmenrc alla rivoluzione. mentre I Ialx:rmas e Apel pensano alla portata emancipante delle sociali; ma l'idea-le è lo stesso.

E dun<Juc quesra, l'ideale dcll'autorrasparenza. la direzione verso cui indica oggi la connessione tra società ddla comunicazione c scieni'C sociali? Sia-mo cioè finalmmrt 10 condizione di rcalinare un mondo in cu1, come dice Sartr<.: nella Q11e..rt1one di metodo, il senso della storia si dissolverà in coloro

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cht la fanno in concreco?' Di fatto, una tale possi-bilità sembra a portata di mano: basterebbe che i mtiJJ medùl, che sono i modi in cui l'aucoconsapcvo-lczza Jdla società si trasmectt ormai a tutti 1 suoi membri, non si lasciassero più condizionare da ideologie, interessi di parre, ccc.., c diventassero in qualche.: modo <<organi>> ddk scienze sociali, si as-soggettassero alla misura critica di un sapere rigo-roso, diffondessero una immagine <<scientifica» del-la socicd, quella appunto che le scienze umane so-no ormai in grado di costruire.

Se misuriamo la siru:l.Zione arcuale con il mcrro di una simile aspettativa, tio{: dell'ideale normacivo dell'autorrasparenza, ci troviamo ptrò di fronte a un insieme di fatti paradossali· quegli stessi fatti, per esempio, che incontrano gli storici del mondo contcmporam:o. Come scrive Nicola Tranbglia,6

«paradossalmente, nel momento m cui l'enorme sviluppo della comunicazione e dello scambio di informa;-ioni culturali oltre che politiche rendeva-no possibile un progetco di storia autenticamente mondiale, il declino dell'Europa c la nascita di mil-le altri ceneri di storia annullavano quella possibili-tà c spingevano la storiografia occidentale cd euro-pea a confrontarsi con la necc.:ssirà di un mutamen-to profondo nella propria concezione del mondo>>

< fr J.·P Smrc, Cnttc,, Jdl.l '·'S/fJIIt dt.tftlltM ( 19(JO), trJJ. i t <h P Caruso. il "'1. 1, pp. 76-T'. <J '\• Il ' 'u 1 tmroduzt<lOC .11 voi x, 2, dt· {/ tlton,/o ((lfl/tllljlomm'fJ, .lire c-m d;t '\ l'r.tnfaglia. Lt Nuova Fin:nn· I'JIH.

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In generale, lo sviluppo intenso delle scienze uma-ne c l'intensificarsi della comunicazione sociale non sembrano produrre un accrcsc:imenro della aurorra-sparcnza della società, ma ami paiono funzionare in senso opposto. Si rrarra solo - come assume spesso una sociolog1a critica forse troppo pcdisst-guamcntt erede di schemi della ZivdistJtiom-Kritik primonovtccntesca - dd farro che lo sviluppo rcc-nologico ha una intrinseca tendenza a fungere Ja sostegno per il potere così com'è. divenendo faral-menrc schiavo della propag:md:t. della pubblicid. della conservazione c inccnsificazione dell'ideolo-gia? L'impossibilità di fare.: dttvvero una storia uni-versale, per esempio, a cui si trovano di fronte gli storici della conremporan<:irà. non sembra però le-gara principalmente a limiti di 9uc.:sro tipo. guanro piuttosto a ragioni opposte; c'è una specie di enrro-pia legata alla stessa moltiplicazione dei cenrri di scoria, cioè dei luoghi di raccolta. unificazione c trasmissione delle informazioni. L'idea di una scoria mondiale. in questa prospcccÌ\'a. si rivela ciò che.: di farro è sempre stata: Lt riduzione del corso degli eventi umani sotto una prospettiva unitaria cht: è anche sempre funzione di un dominio, sia esso do-minio di classe, dominio coloniale, ccc. Qualcosa del gmcrt. probabilmente. vale anche per l'ideale dell'aucorrasparenza della socicrà: esso funziona so-lo dal punro di visra di un soggccro centrale. il gua-le fX:rò diventa sempre più impensabile a mano a mano che. sul piano tecnico, diycnccrebbe <<possibi-le» rcalizzarlo dfettivamcncc. E forse guesro il clc-

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stino dello hegclismo, dell'A11jkl:irrmg, o di quella che Hcidegger chiama la metafisica, nella società contemporanea: divenendo effettivamc.:ntc possibtle dal punto di vista della disponibilità screttamcntt tecnica, l'autotrasparcnza della società da un lato, come mostra soprattutto la sociologia critica di Adorno, si svela come ideale di dominio e non di emancipazione; dall'altro - ciò che Adorno invece non vedeva - si sviluppano all'interno stesso dd sistema della comunicazione meccanismi (il «sorgt· re di nuovi centri di storia») che rendono in defini-tiva imposs1btle b realizzazione dcll'autotraspan:nz;t.

Alla luce di questa ipotesi. credo, si deve ripen-sare lo sviluppo del dibattito, molto significativo ndla cultura del Novecento, sulla «scientificità» o meno delle scienze umane e della storiografia. È noto che questo dibattito, nel corso del quale le stc.:sse scienze um<tne hanno per la prima volta defi-nito la loro fisionomia specifica. è stato segnato .ti-le sue origini dalla distinzione (formulata da Wm-ddband) tra scienze naturali nomotetiche e scic.:nzc.: umane idiografiche (o, in Dilthcy· scienze della ru-tura c scienze dello spirito, con l'opposizione spiegaz1onc causale c «Comprcnsione» ). F1n dalle origini, c sempre più nei decenni recenti, questa contrapposizione è apparsa insoddisfacente: non so-lo perché non si potevano le scienze dello spirito in balia di una comprensione quasi esdusi· vamente inruitiva c.; simpatetica, ma anche e soprat-tutto perché le stesse scienze della natura si sono ri-velate sempre più come determinate, nel loro costi-

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tuirsi. da modelli inrerprctarivi di tipo storico-cul-rur;J.ic tra i quali finisce per ric.:nrrare anche qudlo preteso <<neutrale» della spiegazione causale. Quale che.: sia lo stato delle cose nelle.: scienze della natura

' però, è indubbio che nelle scienze umane si sono imposti modelli di razionalità, da quello cenrraro

weberiano a quello di Cassirer che: si giova dd riferimento alla nozwnc.: storico-normati-va d1 srilc (ripresa da Wolfflin), a quello del <<mo-dello zcrm> di Popper, nc.:i quali è evidente il <.arar-rere a sua volta intrasrorico dci modelli inrerprcta-tivi di cui le scienze umane si giovano. Questo ct-rattc.:re incrastorico esclude che le scienze umane possano pensarsi come totalmente riflessive, come capati, cioè, di rispecchiare la rca!rà umana al di fuori di schemi inrerprerarivi che, essendo a loro volta fatti storici, non rapprcsencino anche una «novità» rilevante, e dunque non un puro specchio di ciò cht si tratterebbe di conoscere obierrivamcn-rc. Non solo. in questa presa di cosoenza eh<: s1 può ben chiamare ermeneucict. le scienze umane hanno riconosciuto il carattere srorico, Jimiraro e alla fine ideologico, dello src.:sso ideale dell'aurorra-

come di quello di una storia universale a CUI pnma si è accennato. L'ideale della comunità il limi taca ddla comunicaziOne.: di Ape l c Habcrmas è

7 Cfr JX:r CJss•rcr. -'':"'1 f,gic.l. Jumzt ddlt (1912). rmd 11. J1 ;\[. !..1 :-.:uova h,1ha. h rcmc 19n. M Cfr. K R Pnppcr . • \fum.1 .Id/" rtunmmo ( 19 11 -1')), rrad. it. d1 C Mom.dwnc. Fdrnnclli. 19n'.

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certamente modellato su quello della comunità dei ricercatori e degli scienziati a cui faceva riferimento Peirce nel suo parlare di socialismo logico. Ma è le-gittimo modellare il soggetto umano emancipaco, ed cvenrualmente la stessa società, sull'ideale dello scienziato nel suo laboratorio, la cui obiettività e disinteresse sono comandati da un i me resse tecno-logico di fondo, d1e pensa la narura come oggetto solo in quanto la prefigura come un luogo di possi-bile dominio - implicando dunque una serie di ideali, di aspettative, di motivazioni che oggi sono largamente soggetti a critica?

Invece che procedere vero l'aurorrasparenza, la società delle scienze umane e della comunicazione generalizzata ha proceduto verso quella the, alme-no in generale, si può chiamare la «fabulazione del mondo». Le immagini del mondo che ci vengono fornite dai media e dalle scienze umane, sia pure su piani diversi, costituiscono l'obiettività stessa del mondo, non solo interpretazioni diverse di una «realtà» comunque «data». «Non ci sono fatti, solo interpretazioni», secondo il detto di Nietzsche, il quale ha anche scritto che «il mondo vero alla fine è diventato favola».'

Non ha certo senso negare puramente e sempli-cemente una «realtà unitaria» del mondo, in una sorta di ripresa di forme di idealismo empirico in-

9 f: il urolo di uno dd .:apiroli dc Il crep//Jcolo dt>Kit lo 5Ì ndla rr3J H. di F. Masini, in Opere. cd. Colli-.Monnnari, vol. \'1, i\dclphi, l\ldano l 970.

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genue. Ma ha pm senso riconoscere che ciò che la «realtà del mondo>> è qualcosa che si

costltUISce come «conresro» delle molteplici fabula-zioni - e tematizzare il mondo in questi termini è proprio il com piro c il significaro delle scienze umane.

In senso, sebbene talvolta possa sembrare vuoto di contenuti, il dibattito metodologico che oc-cupa un largo spazio nelle scienze umane di oggi ne costiruiscc un momento non solo strumentale e preliminare, ma centrale e sostanziale: contribuisce per lo meno a sdogmatizzarle, a renderle «favole>> consapevoli di esser tali. La recente forruna che, nel dibattito di storici e sociologi, ha acquistato la no-zione di narratività, e l'indagine sui modell1 «reto-rici» e narratologici della storiografia, rientra per-fettamente in questo quadro, di un sapere delle scienze umane che liquida criticamente il mito dd-la trasparenza. Non già a favore di uno scetticismo totalmente relativistico; ma a favore di una dispo-nibilità meno ideologica all'esperienza del mondo, il quale, più che l'oggetto di saperi tendenzi;ùmcn-te (ma sempre solo tendenzialmenre) «oggettivi>>, è il luogo della proJuzione di sistemi simbolici, che si distinguono dai miti proprio in quanto sono <<storici» - e cioè narrazioni che prendono critica-mente le distanze, si sanno collocare in sistemi di coordinare, si sanno e si presentano esplicitamente come «ciivcnure», non pretendono mai di essere «natura».

Il problema della criticità del pensiero, una volta che questo, sia pure solo nel senso specifico che si è

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detto, abbia riconosciuto il pr<Xesso di fabulizzazio-ne del mondo, si pone naruralmcnrc in maniera ur-gente; c per ora cì sono solo pochi punti di rifcri-m<:nco chiari: anzitutto, che la logica in base l cui si può descrivere c valutare criticamente il sapere delle scienze umane, e la possibile «verità» dd mondo della comunicazione mcdiatizzata, è una lo-gica <<ermeneutica», che cerca la ventà come conti-nuità, <<corrispondenza>>. dialogo fra i resti, e non come conformità dell'enunciato a un mirico stato di cose. E questa logica è camo più rigorosa guanro meno si lascia imporre come definitivo un certo si-stema di simboli, una cena <<narra7jone>>. In questo, il termine «ermeneutica» conserva anche il suo rife-rimento alla <<scuola del sospetto» (secondo un'al-tra espressione di Nietzsche): se non possiamo (più?) illudercJ di svelare le menzogne delle ideolo-gie raggiungendo un fondamento ultimo e stabile, possiamo però esplicitare il carattere plurale dci «racconti», farlo agire come elemento di liberazio-ne dalla rigidità dci racconti monologici. dai siste-mi dogmatici del mito.

L'aurutrasparcnza a cui l'insieme di media c scicn1e umane ci conduce:, per ora, sembra essere solo questa, cioè la messa in luce della pluralità, dci meccanismi e delle armature interne della costru-zione della nostra cultura. Il sistema media-scienze umane funziona, quando funziona al meglio. come cmanCtpa7ionc solo in guanto ci colloca in un mondo meno unitario, meno certo, dunque anche

meno rassicurante di quello del mito. È il

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mondo per il quale Nietzschc aveva immaginato, come nuovo soggetto umano capace di viverlo sen-za nevrosi, la figura dcll'Uebermensch, dell'oltreuo-mo; c al quale la filosofia <<corrisponde» con quella che si può ormai a buon diritto chiamare la svolta ermeneutica.

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Il mito ritmt·ato

Uno dd problemi più urgenti che si pongono alla coscienza conrcmporlnca, una volta che essa sia divenuta consapevole della «fabulizzazione>> dd mondo opuata dal sistema media-scienze sociali, è quello di ridefinire la propria posizione nei LOn fronti del mito, soprattutto per non trovarsi a con-cludere (come: molti fanno) thc: proprio un ritrova-mento del mito possa rappresentare la risposta ade-guata al problema «che significa pensare>> nella condil'ionc di esistenza tardo-moderna.

Non c'è, nella filosofia contemporanea, una sod-disfacente teoria del miro - della sua essenza c dcl-k '\UC relazioni con altre forme del rapporto con il mondo. D 'altra parte, è vero che il termine c la no· ztonc di mito, sia pure non precisamente definiti, cirwlano largamente nella culmra corrente: dai 1\fiti d'oggi dt Roland Barrhcs è nata, o si è consoli-d:ila, una tendenza generale ad analizzare in termini di mitologia la culmra di mass:1 e 1 suoi prodoni; rncnrn: sulla base, remora ma non per questo meno effi<:acc, delle Réfle:\:/Ons sur la z·iolmce di Sorel si

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' .

continua a pensare alla presenza, c alla necessità. dd mito in politica, come unico agente capace di muovere le e anche Cbudc Lht-Strauss. che pure tratra i miri molto rccnicamcnr<.:. da <tnrropo-logo. scrive in una pagina Jcll' 1lnthropologie .rtmctll-rale d1c «nulla assomiglia al pensiero mitico più dcll.'idcologia politica. Ndh società odierna, questa ha tn <:erto modo solo sostituito quello». Sebbene Lévi-Srrauss non possa esser di usare il termine mito in mantcra imprecisa. una affermazio-ne di questo genere. anche in lui. si richiama piur-tosto all'uso comune. non reLnico. del termine mi-to; riemra dunque in quella vaghezza della nozione a cui a<:ccnnavamo. Quando infatti, nei più tardi lvfythologJCct, Lévi-Strauss applica un concetto più spccifiw c preciso di miro 1lk su<: possibili soprav-vivcnzc ntl mondo d'oggi, egli ridliama come <.:kmcnri e forme di esperienza in cm 11 mtro, sia pur dJ'isolro. sopravvive. la muska c la ra. Ma non è a quesro più limiraroe del termine miro che si allude quando st parla dt prest·nza del mito nella nostu cultura; bensì. ap-punto, a un senso più vago d1e, approssima_riva-mentc, intende il mito in base a questi (arattcrt: al -l'opposto dd pensiero scientifico. il mito non è un

l <- li'Vr ,rlnthrupologrt Jft1Jrf_nmlt, l'ton: P,mgr 19.">1{, l'· 2'\1 2 Cfr. per di li:\'1·!-tr.luss, r)I..Jj'ltulo L !IO/Ilo mtdo (M)tboiiJgrcn, IV, 1971 ), tr:td. i t dr l.u<iUclh. Il !-1,ggr.1torc. 1974 c la (!()uvcnurc» dc// rrudo t tirol/n (MJthologua, l, 1964 ), tmd. it, di ,\ Oon01m, Il S.•ggiawrc, l'X..:•.

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pensiero dimostrativo, analitico, ccc., ma narrativo, fantastico, COinvolgente k emozioni c, globalmen-te, con minori o nulle pretese di obiettività; ha da fare con la religione c l'arre, con il riro c la magia, t la scimza nasce invece in opposizione ad esso co-mc demitizzazione, «disincanto del mondo». Il sa· pere ra7ionale sulla realtà, <<ovunque. cerca di costi tuirsi come considerazione. rcorctica e spiegazione dd monJo, si vede opposto non tanto alla realtà fe-nomenica immediata, quanto piuttosto alla rrasfi-gurazionc mitica di questa rcalcà. A-folto prmw che il mondo si presenti alla cosocnza come un com-plesso di "cose" empiriche.; c di propnetà empiri-che, le si è presentato come un wmplesso di poten-ze c di azioni mitichc». In quest'ultima citazione, dal libro di Cassirer del 1923 che è forse l'ultima grande tcorizzazionc filosofica del mito nel nostro secolo, appare con chiarezza un elemento che è im-plictro cd essenziale nella moderna teoria del mico: l'idea che esso sia un sapere <<precedente» quello scientifico, più anuço, meno maturo, più lcgaro a tratti infantili o adolcsccnzia!t della storia della mente umana. Anche Il:vi-Strauss, che cerco non ha una concezione piatramcnce evoluzionistica dd mito come destinato a svilupparsi nel logos. c anzi si propone come un radicale anttstoncista, conside-ra comunque il pensiero mmco come un passato per la nostra cultura, canro che si preoccupa di in-

) R. e,,,s,rcr, Ft/UJQjia dd/t fonl/t JÙ!IIJOI!.IH! cr:1d 11. di E. Ar· naud, L.1 Nuuv::t lralia, Firtmt io/J(>, vol. Il, p. ) .

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dicarne o il surrogato nell'ideologia politica, o le tracce residue nella musica e nella letteratura.

Se però esplicitiamo questi contenuti impliciti nella posizione di Cassirer e anche in quella di

- per non parlare di Weber - pro-VIamo un certo disagio.

Alla base di questo disagio sta un fatto evidente: la moderna teoria filosofica del miro, fino alla più recente, quella di Cassirer, si è sempre formulata nell'orizzonte di una concezione metafisica, evoluti-va, della scoria; ora, proprio quesro orizzonte di fi-losofia della storia è oggi andato perduto. Di con-seguenza, anche la teoria filosofica del mito non riesce più a formularsi in modo preciso; e l'uso co-mune del termine miro registra ed esprime questa confusione teorica: da un lato, il termine continua a significare una forma di sapere non attuale. spes-so considerato più primitivo, comunque caratteriz-zato, rispetto al sapere scientifico, da una minore obiettività - o almeno da una minore efficacia tec-nologica. D'altra parte, sia per la crisi che, in filo-sofia, hanno subito le metafisiche evoluzionistiche della storia (e, insieme ad esse, lo stesso ideale di razionalità scientifica), sia per altre cause meno teoriche c più legate alla storia politica, la conce-zione del mito come pensiero primitivo appare in-sostenibile. Queste confusioni e contraddizioni si possono rilevare se si cerca di dare un censimento degli atteggiamenti che oggi più largamente condi-zionano l'uso del concetto di mito - atteggiamenti che propongo di descrivere sulla base di certi tipi

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1de1li i quali, per lo più, non si trovano espressi teoricamente e praticamente allo stato puro, m:1 no ugualmente presenti e caratteristici della zionc culturale in cui ci muoviamo. Questi atteg· giamcnti predominanti si possono riassumere sotto tre titoli: arcaismo, rclativismo culturale, irraziona-lismo temperato. Tutti c tre, come vedremo glio, sono caratterizzati da incoerenze c confusion1 che derivano dal non aver risoltO il problema di fi-losofia della srona che sta alla base di ogni conce-zione del miro: nascono cioè dal rifiuto della meta-fisica della storia che reggeva la precedente teoria del mito. ma non riescono a formularsi in termini reoricamence soddisfacenti perché non hanno ela-borato una nuova concezione filosofica della storia; ne hanno semplicemente accantonato il problema.

Descriverei come arcaismo un atteggiamento che si potrebbe anche chiamare «atteggiamento apoca-littico». Si tratta della diffusa sfiducia nella culmra scientifico-tecnologica occidentale, cons1derara co· me modo di vita che viola e distrugge l'autentico rapporto dell'uomo con se stesso e con la namra, e che è ineluttabilmcnte legata, anche. al sistema eli sfruttamento capitalistico e alle sue tendenze impe-rialistiche. Si può vedere nella preferenza JeJI'avan-guardia artistica primonovecentesca per le masche-re africane un segno del valore profetico che l'arce spesso, come in questo caso, ha avuto nei confronti di più generali movimenti della cultura e della so-cietà. Quello che nella avanguardia artistica storica era principalmente un interesse per modi di rappre-

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scncazione del reale non compromessi lOn la rradi-ztone dei linguaggi arrisrici crcdir.ui, rurravia am-piamente mescolato, almeno in t erte poetiche ( sur-realismo, espressionismo), con una profonda pole-mica contro la cultura borghese. è divc:nrato un atteggiamento generale: la cattiva coscienza dcl-l'inrellighenzia libera/ nei confronti dd co<>iddcrro terzo mondo si esprime certo am hc nelk .sue posi-zioni circa il miro. In generale, dd resto, senz:1 CJUC·

sro sfondo, in senso largo. politico. non si capirc:b-bc né la popolarità che:, come moda culturale. ha g<xiuro l'antropologia strutturale. né forse. più in generale, il farro che negli anni della maggiore diffusione a livello di culrura comune lo strutturali-smo - non solo antropologico, ccrèo - sia poruro apparire come una pos1zionc teorica «di sinismm: alla base di rurro gucsrn. Yt cr:1 l'idea d1t' lo sru· dio puramenrc scnmurale dei miri c delle culture <<sdvagge>>, sia la gcncr.lle con:-;iderazionc dell'un· mo in termini non sroricisrici (<<studiare gli uomini come formiche», diceva Lévi-Strauss lOntra Sartrc) fossero un modo di ltquidare l'ideologia euroccntri· ca del progresso con tutte le sue implicazwni impc· rialistiche e colonialistiche; a bvorc di un pensiero che ricuperasse i valori <<auccnrici>> di un rapporto dell'uomo con la natura non mediato dall'oggetti· vazionc scientifica strettamente leg:u:t- come wc-va mostraco la critica francoforrcsc. ma anch( d Lu-kacs di Stona e ,-o.ràenza di d1SJe- all'org:laizz:lzio-n<: capitalistica dd lavoro. A <lucsta critica c alla cattiva coscienza nei confronti dcll'irnpcria.lismo c

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delle varie forme di neocoloniahsmo si sono unire, più di recente, le preoccupazioni ecologiche per le conseguenze devastanti che sòenza, tecnologia, sfnmamcnto capitalistiw e corsa agli armamenti hanno sulla natura esterna e sulla stessa natura fisi-ca dell'uomo.

Da tutti questi fattori nasce quello che propon-go di lhiamarc rtrcmsmo nella considerazione dd mito: non solo, da questo punto eli vista, il mito non è una fase primitiva c superata della nostra sto-ria culturale, ma anzi è una forma eli sapere più au-tentica, non devastata dal fanatismo puramente quantitarivo c dalla mentalità obiettivantc propria della !'Cienza moderna, della tecnologia c del capita-lismo. Ci si aspetta, da un rinnovatO contatto con il mito - sia nella forma dei miri delle culture «al-tre» (quelli studiati dagli antropologi nei popoli selvaggi ancora esistenti) sia nella forma dci miti antichi della nostra tradizione (i miti greci, rivisita-ti mn metodi e mentalità antropologici da filologi c storiLi di formazione strutturalista) - una possi-bile via di uscita dalle. <;torture c conrraddi7.ioni dd-la arcuale civiltà scientifico-tecnologica. Gran p:trte della popolarità di Nietzsche c Heidegger nella re-cente: cultura europeo-continentale mi sembra si possa riportare - anche attraverso equivoci inter· pretarivi sui quali non mi soffermo - a questi sfondi. La critica della civiltà scientifico-tecnica e l'interesse per il pensiero arcaico, che si trovano, in forme diverse, in Nietzschc e in Heidegger, vengo-no assunti come punto di partenza per remare un

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ricupero del mito: anche !>C né Nietzsche né. so-prattutro, Hci<.kggcr giustificano una simile impresa.

Del resto, sarebbe difficile indicare posizioni fi-losofiche o programmt mlturali dl(: esplicitamente si propongano un ritorno al sapere miuco; se si enu-rua una parte di qud movimento che. in Italia c in Francia. va sorto il nome di <<nuova destra>>. c che riprende la polemica amicapiralistica dd nazismo c del fascismo mescolandola con temi derivati dal movimento del scssancorro. Ma l'arcaismo, wme del resto gli altri due atteggiamenti «idealtipici>> che ora descrivc·rò. non dà luogo a vere e proprie posizioni dottrinali compiute. per le ragioni che ho già accennato. tusre come consegu<:nza della crisi dello storicismo mctahsico ma non ne propone una alternativa, c così è destinato a restare teoricamente muro. o comunque non enunciato in tesi preust. Quando non matura in prognm1mi Ji resrauruion(: della cultura tradizionale. e in conseguenti posizio-ni politiche «di destra>>, questo arraismo può dar luogo, cd è il caso di molta cultura ùbf:ral europc.:a reccnce. anche a puri atteggiamenti di critica «UtO· piea» della civiltà sci<:ntifico-tecnnlogica e del capi-talismo. Qui, si ammette: che non ha senso, <:Ù è.: anzi politicamente pericoloso c inacC<.:nabile. cerca-re di restaurar<: la cultura <<rradizionalc>>; ma il sa-pere mitico, non compromesso cnn il razionalismo ddl'Occidentc capitalistico, rimane un punto di ri -ferimento. se non altro negativo. per rifiutare la modernità e i suoi errori.

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Il scwndo atteggiamento che, nella nostra cultu-ra attuale, condi7iona c qualifica la presenza del mi-to, dandogli una specifica attualità, è il t·elativùrno mlt11mle. Secondo questa posizione, i principi e gli assiomi fondamentali che ddiniscono la razionalità, i criteri di verità, l'etica c in genere che rendono possibile l'esperienza di una determinata umanità storica, di una cultura, non sono oggetto di sapere raz10nalc. di dimostraziOne, giacché da essi di pende ogni possibilità di dimostrare alcunché. Un'espres-sione di tale posii'ione divenuta molto popolare nel dibanitu epistemologico degli ultimi anni si può considerare la teoria dei paradigmi di Thomas Kuhn, almeno nella sua formulazione originaria.' Ma anche l'ermeneutica che si richiama a Heideg-gcr "iene spesso considerata una teoria di questo ti-po, anche se ci sono buone ragioni per credere che, per essa, le cose stiano tn modo diverso. Nel relati-vismo culturale non solo manca ogni idea di una r:li'Ìonalità univoca alla luce della quale giudicare «mitichc:» certe forme di sapere; ma anche, e so-prattutto, l'idea che t «principi primi» su cui si co-struisn: un universo culturale specifico non siano oggetto di sapere razionale, dimostrativo, lascia aperta la via a considerarli piuttosto oggetto di un sapere: di tipo mitico: anche la razionalità sciencifi-C:l clK ha costituito per tanti secoli un valore diret-tivo per la cultura europea è, in definitiva, un miro,

l < fr Kuhn. !..1 1/mlltmJ rM!t• l'ii'IJ!uzronì mmti{hht ( 1962). tr.td tC J, i\ Carugo, Linauch, Torino 19<,9. .

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una credenza condivisa sulla cui si arriccia l'organizzazione d1 questa culrur:1; c così (come scrive ad esempio Odo è un m1to, una credenza-guida non dimostrata né dimostrabile, an-che la stessa idea che la storia ddla ragione ocn-dcncale sia la storia ddl'allonranamento dal mito, della Entmythologi.rumng.

Diversamente dall'arcaismo. il rdativismo cultu-rale non assegna alcuna (micica) supcnorirà al s.1 pere mitico rispetto a 9udlo tipico ddb modernità; solo, in g<;ncrale, nega che vi sia una opposizione tra questi due tipi di S;lpcrc, giacché entrambi sono fondati su presupposti che hanno il cararrere del mito - della credenza non dimostrata. ma piuttosto immediammenrc vissut,l. Non semprc· queste credenze base proprie di ogni universo cul-turale vengono chiamate miti. come però abbiamo visto fare da Marquardt; ma è un fatto che. nel re lativismo, l'interesse per il miro è vivo guanro nel-l'arcaismo; non pcrchè si cerchi di ntrovarc, nd mito, un sapere più autentico; ma perché lo studio dei miti di altre civiltà può insegnaro d metodo corretto ptr conoscere anche la nostra. giacché anch'essa ha una struttura fondamental-mente mirica. Come si vede bene dall'uso del rc:r-mine nel testo citaro di Marquardt, mito qui C:CJUi-valc a sapere non dimostrato, immediatamente v1s suto. Ed è dunguc assunto in un senso ancora mol

< 'fr O MarquJrdt. •""'Nr.l r·o''' Pmrzrpirllm. Re< Lm. S1 > .mh 1981, p. 93.

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to condizionato dalla sua pura e semplice opposi· zione ai caratteri propri dd sapere scientifico.

Nel terzo degli atteggiamenti da cui mi pare di-pendt.Tc oggt la considerazione del mito, quello che chiamerei irrazionalismo temperato o teoria della ra-uontt!itèllimitata, il mito è invece inteso in un si-gnificaro alquanto più specifico, che del resro si ri-collcga al senso etimologico originario della parola. Mito significa infatti, come si sa, narrazione. In questa forma esso si oppone al. o si distingue dal, sapere scientifico non per un sçmplicc rovescia-mento dei caratteri di quest'ultimo - la dirnostra-tività, l'obiettività, ecc - ma per un suo tratto sptcifico positivo: la struttura narrativa. Possiamo infatti chiamare teoria della razionalità limitata qucll'insicmc di atteggiamenti culturali che consi-dcr::mo il sapere mitico, in quanco essenzialmente narrativo, come una forma di pensiero più adeguata a c<.-rti ambiti dell'espcricnza, senza contestare, o mettere comunque esplicitamente in questione, la validità del sapere scientifico-positivo per altri cam-pi dcll'espcriema.

Possiamo trovare esempi di questa posizione in almeno tre campi: a) nella psicoanalisi, nella quale la vita interiore tende ad essc:rc considerata, sia nel suo funzionamento normale sia nella situazione te-rapcurica, come strutturata da narrazioni; o addirit-tura, come accade nella psicoanalisi di derivazione junghiana, come rifc:rcntcsi necessariamente a cerrc «storie» basilari, a certi miti archetipici, che la fog-giano non in quanto princi pì astratti, giochi di for-

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zc, ccc., ma appunto in quanto storie, le quali non si lasciano riportare, tra l'altro, a modelli strutturali di cui sarebbero solo simboli, allegorie, o applica-zioni (in questo senso, credo, Hillmann parla an-che di polircismo'"); b) nella teoria della sroriogra-fia, dove il modello della narratività appare sempre più rilevante - non solo in quanro rivela i modelli retorici su cui si costruisce la sroriografia, ma so-prattutto in quanto, nella pluralità di questi model-li, scopre la base per negare l'unità della stona, e per riconoscere la sua irriducibile pluralità - la quale, nella misura in cui non rispccchia più una realtà-norma, sempre più difficilmente si distingue dai miri; c) nella sociologia dc1 !lutss med1a: qui. al-l'originaria applicazione della nozione di miro ai movimenti delle masse (rivoluzionarie) proposta da Sorel si è (molto significativamcnre, credo) so-stituita l'analisi in termini di mitolog1a dei conte-nuti e delle.: immagini del mondo distribuite da ci-nema televisione lctterarw-a e arei varie.: di consumo. , ,

Si possono qualificare questi van modi re al miro, in termini di applicahilità a var1 ca.mp1 dell'esperienza, come irrazionalismo temperato o t<.:onc della razionalità limitata 111 quanro hanno tn comune un presupposto che, del resto, risale fino a Platone:· quello sc<..ondo cui cerci campi dell'espc· ricnza non si lasciano comprendere mediante la ra-

<> Cfr per c.:st·mpio l\IilkrJ. l ldlmann, Il 1/UfJ!O j)(J!italll/tJ (ICJRI ). trad. tL dt :\l. Bonac.• c: P. D<>nktmcS<o, C.mmnità, 19S). 7 < fr. per cscmpil) Tnl/tYI, 19 d.

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gione dimostrativa, o il metodo scientifico, ed csi-gon? invece un tipo eli sapere che non può qualifi-carsi se non come mitico.

Come ho detto all'inizio, ritengo che questi vari ;ureggiamenti (che non ispirano soltanto determi-nare posizioni nei confronti del mito, ma che tutta-via trovano in esso uno dei loro contenuti più ca-ratteristici) nascano tutti. più o meno eli rettamenrc, dalla clissoluzionc delle filosofie mctafisiche ddla storia, senza però consumare (o: digerire) a suffi-cienza questa dissoluzione; e che proprio per que-sto pn.:senrino equivoci c contraddizioni che lt ren-dono teoricamente insoddisfacenci. L'arcaismo, per cominciare dal primo, non solo non si pone 1! pro-blema della storia in quantO non riesce a dar luogo a una posizione praticabile nei confronti del mondo moderno, che non sia, ma è significativo, la propo-sta della restaurazione, da destra, della cultura «tra-dizionale». Il tradizionalismo di destra che rappre-senta l'unico sbocco visibile, in politica, dell'arcai-smo, è significativo perché ne svela, estremizzando-la, la debolezza teorica che consiste nel rovesciare semplicemente il mito del progresso in un mito delle origini, le quali solo in quanto tali sarebbero più autenticamente umane c degne di costiruire o il fine di una rivoluzione politica o, almeno, il punto di riferimento per una critica della modernità.

Idealizzare come condizione perfetta il tempo ddk· origini è altrettanto vuoto che idealizzare J! futuro come tale (come ha farro c fa ancora l'ideale sccularizzato del progresso, dello sviluppo, ccc.).

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Non solo: con le origini noi siamo in rapporto me· dianrc il processo che ne è derivare. giù fino a noi; l'arcaismo pretende scmpliu:mcnrc di mettere: 1.h parre il problema cosriruiro da tale processo. c anzi-rutto '-lUCSto: se dalle origini è venuta proprio b condizione di disagio, alienazione, ccc. in cui ci rro-vtamo, perché mai risalin: ad csst.:? Sono probkmi di questo tipo, problemi di filosofia della storia, che mette da parre scm:1 averl1 sufficien-tcmcnre discussi, mcnrrc essi non sono affarro dive-nuri in:muali per il farro che sono rramonr:uc le mcrafisiche evoluzionistiche della scoria.

Lo sttsso si può dire del rcbrivismo culruralc. Qui. :tn/1, è ancora più evidente che il problema della storicJtà non è né posro né risolro, ma sempli-cemente «saltato»: il n.:! ati vismo culturale non fa attenzione né (a) all'effettivo contesto in cui la resi della pluralità lfriducibilc dci mondi culturali viene enunciara; né (b) all'effettiva impossibilità di isola-re i mondi culturali l'uno dall'altro - e non solo. come in (a), dal nostro universo. di noi antropolo-gi c :-.rudiosi del tn1to <.ht ne b(ciamo la teoria. ll problema che spesso si pone agli anrropologi che lavorano «sul campo» quello dd rapporto tra lo-ro, esponenti d1 una cultura forre. spesso coloniali-sta, <.: i loro informatori indigeni - è solo un asper-ro del più ::tmpw problema ermeneutico che il reb-rivismo culruralc non si pone. Lo studio delle cul-rurc <<altre>> accade già sempre in un conrcsro che rende impossibile, c artificiosamente hlsa. b prctt'· sa di rapprcsenradc come oggetti separati; esse so·

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no invece interlocutori di un dialogo, che però, una volta riconosciuto, pone il problema dell'orizzonte comune in cui di fatto accade, vanificando la sepa-ratezza presupposta dal relativ.ismo. Qucsro oriz-zonte comune è il problema della filosofia della storia, che non si può liquidare facilmente.

Infine, la teoria della razionalità limirata - cioè l'idea diffusa in varie forme secondo cui il miro in quanto sapere narrativo sarebbe un tipo di pensiero adeguato a certi campi dell'esperienza (la cultura di massa, la vita intenore, la sroriografia) - lascia an-ch'essa da parre il problema di definire la propria collocazione storica: non sì rende conto di fondarsi su una tacita accettazione della distinzione tra Ncr-tur- e Geisteswissenschaften; distinzione che è divenu-ta sempre più problematica e dubbia quanto più si è fatta strada la consapevok:zza che anche la scienza esatta è un'impresa sociale, dunque che i metodi oggettivanti delle scienze della natura sono un mo-mento all'interno di un contesto che, come tale, rientrerebbe a pieno titolo nel campo delle scienze storico-sociali.

In vari gradi e in forme diverse - che certo po-n·cbbero essere indagate più ampiamente - i tre atteggiamenti correnti nella cultura odierna a pro-posito del mito mettono da parte troppo fretrolosa-mente il problema della propria contcstualizzazione storica: non dicono dove essi stessi, come posizioni teoriche, si collocano. L'arcaismo vuole tornare alle origini e al sapere mitico senza domandarsi che co-sa sia il periodo <<intermedio» che ci separa da quel

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momento iniziale; il rclativismo culrurale parla di universi culturali separati e autonomi, ma non <.!ice a quale di questi universi appartiene la teoria relati-vistica stessa; la razionalità limitata non ha una teoria esplici ca circa la possibilità eh distinguere davvero rra campt nservati al sapere mitico e campi in cui vale la razionalità scicnnfica. A rutti cp.tcsti problemi. la metafisica della sroria di ripo idealisti-co o positivistico dava una risposta, concependo la storia come un unico processo di Ar1kldrung e di emancipazione della ragione. Il prm:csso di emanci-pazione della ragione è però andato al di là di quel-lo che idealismo e posirivìsmo si aspettavano: mol-tepliet popolt c culture hanno preso la parola sulla scena del mondo, cd è divenuto impossibile credere che la storia sia un processo unitario, con una linea continua verso un tdo.r. L1 realizzazione dell'univer-salità della scoria ha reso impossibile la sroria uni-versale. Con ciò anche l'idea d1e il corso storico potesse pensa.rs1 Aufk/dmng, liberazione della ragione da!Je ombre del sapere mittco, ha perso la sua legittimità. La demitizzazione è stata ricono· sciuta essa stessa come un mito.

Ma la scoperta del carartere mirico della dcmttiz-zazione legittima davvero gli arrcggi.unenti verso il mito che abbtamo sopra descrirri?

Demitizzare la demitizzazione non sigmfica re scaurare i dirirti del mito; se non altro perché tra i

H Cfr. anwra O. :-..tu9uJrÙr. op. at .. p. 9\, l'imtcme ùcl s:1gg1<• <•Loh Ùts

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miti a cui dobbiamo riconoscere legittimità c'è an-che qudlo della ragione e del suo progresso. la de-mitizzazione, o l'idea della storia come processo di

della ragione, non è qualcosa che si possa <.:sorcizzare tanto facilmente. Nietzschc aveva già mostrato che quando si scopre che anche: il va-lore ddla verità è una credenza fondata su esigenze vitali, dunque un «errore», non s1 restaurano sem-plicemente gli errori precedenti. continuare a so-gnan: sapendo di sognare, come d1ce il passo già ci-tato della Gaia scienza, non equivale certo al sogna-re puro e semplice. Così accade con la demitizzazio-ne: se.: vogliamo essere fedeli alla nostra esperienza storica, dovremo prendere arto che, una volta svela-ta la demitizzazione come un miro, il nostro rap-porto con il miro non ritorna ingenuo, ma rimane segnato da questa esperienza. Una teoria della pre-scnn del miro nella cultura d1 oggi deve ripartire da questo punto. La parola di Nietzschc nella Gaia .ramza non è solo un paradosso filosofico, è l'e-spressione di un destino della nostra cultura: que-sto desnno si può anche indicare con un altro ter-mine, quello di secolarizzazione. l o questa parola si espnmono i due elemenri indicati dal motto della Gata saenza: saper d1 sognare c continuare a sogna-re. La secularizzazione dello spirito europeo dell'età moderna non è solo la scoperta e la demistificazio-ne degli errori della religione, ma anche la soprav-vivenza, in forme diverse c, 1n un ceno senso, de-gradate, di quegli «errori». Una cultura secolarizza-ta non è una cultura che si è semplicemente lascia-

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ta alle spalle i conrenuti religiosi della tradizione. m.t che wminua a viverli wme tracce. modelli na-:-.costi c distorti, ma profondamente presenti.

Sono wsc che si leggono d1iat.lmcntc in Max Wtbt:r: il capitalismo moderno non nasce come ab-bandono ddla tradizione cristiana medievale, ma come sua applicazione «trasformat1». Lo stesso sen-so h.t la ricerca di Locwìth sullo stonòsmo moder-no: anche qui, le varie merafis1chc ddla sroria fino a Hegcl. Marx. Cornee non sono che <<inrcrprcrazio-ni>> della teologia della sroria ebraico-cristiana. pen-sate al di fuori del quadro teologico originario. Non tanto in Loewirh, ma cerco in Weber, o anche nella opposizione comunità socierà di Tonnies. il processo attraverso cu1 la modernità (come capìrali-smo industriale in Webt:r, come società non più fondata su legami organici in Tonnies) si distacca dalle sue matrici rcligio:-c origin.me appare come una commistione inseparabile di conquista c perdi-ca: la modcrnizzaziont non avviene attraverso l'ab-bandono della tradizione ma attraverso una sona • di inrerprctazwne ironica di essa, una <<clisrorsione>> (Hcidtggtr parla, in un senso non lontano da quc-sro, di Verwmdung'), eh<: la conserva ma anche, 111

parte, 1.\ svuota. Penso dK a questi elementi del concetto di s<::colarizzazionc si possano accostare le resi di Norbcrr Elias sulla storia della civiltà eu-

9 Per 1.1 lh>71one d1 J tnundu11g m llc:Hkggcr c la 5Ul tntcrprUlltOnC nel S< Il<;(> qu1 .K<cnruw ,j vnb d llf' X del nun fin<' eMI. l mo.le1111· f,Ì, < ,,,r/.11111, .\Ill.mo 1985.

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ropca, l sia quelle eli Girard sul sacro come violenza e sul cristianesimo come processo di desacralizza-zione. l In Elias, il processo di civilizzazione moder-no si sviluppa quando il potere e l'esercizio della forza si concentrano nel sovrano. nello stato assolu-to e poi costituzionale. In cornspondenza di ciò. la psicologia collettiva subisce una trasformazione ra-dicale: i smgoli interiorizzano, in ruttc le classi so-ciali, le «buone maniere» dei cortigiani che per pn-mi avevano fatto l'esperienza della rinuncia alla for-i':a a favore dd sovrano; le passioni non sono più forti e apcrre come nelle epoche passate, l'esistenza perde in vivaatà e colore ma guadagna in sicurezza e formalizzazione. Anche qui, al progresso si ac-compagna una minore intensità ddl'espcrienza, una sorta di svuotamento o di diluizione. Quanto a Girard, il suo discorso riguarda la civiltà umana in generale: il cui cammino, secondo lui, va dalla na-scita del sacro - che esorcizza la violenza di rutti contro rutti concentrandola sulla vittima sacrificale. ma !asciandola dunque sopravvivere come base del-le istituzioni - fino alla sua lkmistificazione da pane dell'Antico Testamento e di Gesù: quest'ulti-mo mostra che il sacro è la violenza, e apre la via a una nuova storia umana che, anche conrro la termi-

IO Da N cfr. 'pc:<.aalmcntc l'flltll', cmlt.ì (1937). rud. a c. da G Il lino, Bologna l 98).

l l Da R. Gar;trd. oltre: L.t t'JtJ!l'IIZ.t i' ti \liCm ( 1972), trad. a r. dì O. l·auta c CLc:rkl. Adelph1, Malano 1980. dr. Dd/i! CIJJt ll<lltOr/t' .rm tl,tl/.t jflndtiZifJIII' dd 11/f)lldo ( 1978), rrad. a r. di R. Dama;\na. Addrlu, ;>.Iil.tnu 198).

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nologia e i propositi di Girarci, possiamo ben chia-mare

La cultura moderna europea è così legara· al pro-prio passato religioso non solo da un rapporto di superamento ed emancipazione, ma anche, insepa-rabilmente, da un rapporto di conservazione-distor sionc-svuotamento: il progresso ha una sona di na-tura nostalgica, come classicismo e romanricismo dci secoli scorsi ci hanno insegnato . .Ma il significa-to di questa nostalgia di\ itne manifesto solo con l'esperienza della demitizzazione portata fino in fondo. Quando anche la dtmirizzazione è svelata come mito, il mito ricupera legittimità, ma solo nel quadro di una generale cspcncnza «indebolita» del-la verità. La presenza del mito nella nostra culrura attuale non esprime un movimento di alternativa o di opposi7.ione alla modcrnizzazione; ne è invc.:u.: un cmo conseguente, il punto di arrivo, almeno fi-no ad ora. Il momento della demitizzazione ddla demitizzazione, anzi, si puo considerare il vero c proprio momento dt p<tssaggw dal moderno al postmoderno. Questo passaggio avviene in Niecz-sche, nella sua forma filosofica più esplicita. Dopo di lui, dopo la demitinazione radicale, l'esperic.:nza della verità non può semplicemente più essere la stessa di prima: non c'è più evidenza apodittica, quella in cui i pensatori dell'epoca della merafisica cercavano un fundamentt/111 abso/!11 ""' et ÙICOtzCIIJS/1111. Il soggetto posrmoderno, se guarda dentro di sé al-la ricerca di una certezza prima, non rrova la sicu-r<.:zza del cogito cartesiano, ma le intermirtenze del

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cuore prousrianc, i racconti dci meditt, le mitologie dalla psicoanalisi.

E questa esperienza, moderna o :mzi postmoder-IU, tiò thc il «ritorno>> del mito ndla nostra cultu-ra c nel nostro linguaggio certa di catturare; c non certo una nnascita dd miro come sapere non inqui-nato dalla modernizzaziom: c. dalla razionaliuazio ne. Solo in questo senso, il <<ritorno dd mito», se. c. nella misura in cut si dà, -;cmbra indicare verso un supcramcmo dell'opposmonc tra razjonalismo c ir-razionalismo; un supcramenro che però riapre il problema di una rinnovata considerazione filosofica ddla storia.

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L 'arte

Com<.: è accaduto in rutta l'età moderna• è proba-bile che anche oggi i tratti salienti dell'esistenza, o anche, per dirlo in termini heideggeriani, il «senso dell'essere» caratteristico ddla nostra epoca, si an-nuncino in modo parricoJarmentc evidente, e anri-òpatorc, nella esperienza estetica. Ad essa, dunque, è necessario guardare con parcicolan: attenzione se si vuol capire non solo che ne è dell'arre, ma più in generale che ne è dell'essere, nell'esistenza tardo-moderna.

Il problema dell'arre in una società di comunica-zione generalizzata è stato affrontato in maniera de-terminante, e ancora oggi attuale, dal saggio di Walrcr Bcnjamin su L'opera d'arte nell'epoca del/et surJ t·iproducibilità tecnica, del 1936; uno scritto a cui occorre continuamente ritornare, perché, alme.:-

l Su (ic'>, s1 veda il p. VI dd mio l..t /111<' dd/,, mt .. lmmJ. Gao.tnu, 191l5. ·

2_ Ì: puhhJ.uro in iuliano. ndb rmd. J1 E. Filippini. dJ l:.m:1Ud1. To· nno 1966.

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no pare a mc, non c mai stato cffc:ttiYamente assi-milato e «digerito>>, per dir così, dalla ricerca esteti-ca successiva. In generale, infatti, lo si è inteso co-me pura e semplice ricognizione sociologica delle nuove conelizioni in cui opera l'arte contempora-nea, uttlizzandolo sia come strumenro eli polemica contro il mercato dell'arte sia come base teorica per la riflessione su tutti i fenomeni artistici che si col-locano fuori dalle istituzioni tradizionali dell'arce (fuori dal teatro, come lo happening; fuori dal mu-seo c dalla galleria, come varie forme eli arte com-portamentale, land art, ecc.); o invece lo si è, in fondo, liquidato come espressione di una illusione. quella che la riproducibilità tecnica potesse rappre-sentare una chance positiva per il rinnovamento del-l'arte, mentre in realtà, come ha sostenuto Adorno che ha vissuto in America l'esperienza della civiltà massificata, questa è ben lontana dal realizzare le condizioni dell'utOpia di Benjamin. e rappresenta invece l'appiattimento totale di ogni arte nella ma-nipolazione del consenso da parte dei mass medùt. Queste varie letture del saggio di Benjamin sem-brano però largamente insufficienti. Ciò su cui bi-sogna tornare a riflettere è l'intuizwnc centrale di tale saggio, c cioè l'idea che le nuove condizioni della produzione e della fruizione arti5tica che si determinano nella società dei masJ media modifica-no in modo sostanziale l'essenza, il 1Veren dell'arte (un termine che qui useremo in senso he1deggeria-nu. non la natura eterna dell'arte, ma il suo modo eli dar1i nell'epoca attuale). Rispetto a gut:sto mu-

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tamento di essenn. né Adorno. con la sua critica radicale della riproduci bili rà, né le interpretazioni sociologizzancì (che vanno fino alla speranza di una riconciliazione estetica dell'esistenza, come in Marcuse) hanno davvero detto nulla di nuovo, c di adeguato alk premesse poste da BenJamin. Quando Adorno nega 1..hc l'arre possa davvero (o debba) perdere l'aura che isola l'opera dalla guotidianità, difende cerro il potere critico dell'opera rispettO al-la realtà esistente; ma adotta anche, e mantiene, la concezione dell'arre come luogo di conciliazione c di perfezione che si è espressa in rutta la tradizione metafisica occidentale, da Aristocclc a Hegel. Che la conciliazione sia utopica, e stia nel dominio dd-l'apparenza, come Adorno sottolinea riprendendo opportunamente Kant contro Htgcl, non significa però un vero mutamentO di essenza, ma solo la sui! collocazione in un futuro indefinito, che le conser-va però il suo ruolo di ideale rcgolativo. È guc:sro un punto su cui occorre riflertcn:, anche di fronrc alle recenti riprese, soprattutto in Francia (con un certo ritardo rispetto ad altri ambiti culrurali, come I'Itaha), dell'estetica di Adorno ed anche del pen-siero di Ernst Bloch.

Eppure, in Bcnjamin vi sono le premesse per av-viare una riflessione sul nuovo lr/eren dell'arte nella società tardo-industriale, superando proprio la defi-nizione metafisi(a tradizionale dell'arte come luogo della conciliazione, della corrispondenza tra 1nrcrno cd esterno, della catarsi.

Queste premesse possono essere adeguatamente

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sviluppare partendo da una analogia a prima vista paradossale, su cui, che io sappia, non è stata anco-ra richiamata l'attenzione. Nello stesso anno 1936, in cui veniva scritto il saggio di Benjamin, nasceva anche un altro scritto determinante per l'estetica contemporanea, e cioè il saggio di Heidegger su Der Urspr1!ng des Kunstwerke.r, ora contenuto in Holzwege.' E lo scritto in cui Heidegger elabora la sua centrale nozione di opera d'arte come «messa in opera della verità», che si attua nel conflitto tra i due aspetti costitutivi dell'opera: l'esposizione del mondo e la pro-duzione della terra. Ora, l'opera co-sì concepita esercita sull'osservatore un effetto che Heidegger definisce con il termine Stoss - urto, al-la lettera. Nel saggio di Benjamin troviamo - sul-la base di premesse del tutto diverse e. apparente-mente, anche con significato differente - una teo-ria che attribuisce all'arte più caratteristica dell'c-poca della riproducibilità tecnica - il cinema -un effetto definito proprio in termini di shock. La tesi che intendo proporre è: sviluppando l'analogia tra lo Stos.r heideggeriano e lo shock di Benjamin è possibile cogliere i tratti essenziali della nuova <<es-senza» dell'arre nella società tardo-industriale, tratti che la riflessione estetica contemporanea anche più acuta e radicale - pnmo fra tutti Adorno - si è lasciata sfuggire.

' :\1, l kideggcr, <•L'onginc dell'opera d',me>>. nel voi Swlrt:rt mter-1'111/t, ( 1950), tc1J. i t di P. CluoJi. b Nunva Ira ha, Firenze l 969.

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La riproducibilità tecnica sembra operare in sen-so esattamente opposto allo .rhock: nell'epoca della riproducibilirà, infarti, sia la grande opera d'arre del passato, sia i nuovi prodotti nati già per i media ri-produtìbili, mmc appunto il cinema, rendono a di-vcncan: oggetti di consumo comune, dunque anche sempre meno rilevati sullo sfondo della comunica-zione intensificata; a parte questo effetto di ottun-dimento psiwlogico, che s1 può idennficarc come il <<Consumarsi» dei s1mboh troppo presto trasmessi c moltiplicati, anche sotto un alrro aspcrto i mezzi tecnici della riproducibilità rendono a livellare le opt:rc, perché, per quanto siano perfezionati. fini-scono per accentuare e isolare.: nelle opere un insJe-me d1 caratteri the sono quelli più «pcrcepibili» dal mezzo stesso, o comunque costringono l'opera en-tro limici legati alle condizioni dd mezzo: Adorno ha insistito, per esempio, sul discorcimenco dei tempi musicah che si produce per costringere le r<:-gisrrazioni entro i limiti eli un disro.

Naturalmente, quesro conflitto tra un <<essere in sé>> ddl'opera cd un suo adattJrsi allt esigenze del meno di riproduzione.: si cogli t: solo se ri si mute dal punto d1 vista- che è quello di Adorno- rhc distingue anmra un ideale «valore d'uso>> dell'opera dal suo alienatO e decaduco valore «dJ scambio>> (legato alle condiz10111 dd mercato, alle mode, ccc.). Bcnjamin mvetc, come si sa. nel saggio del 1936 :wcva proprio s:ùucaro come una novità th:i-siva c.: positiva il fatto che la nproducibilità tecnica fatessc sparire complct:uncntc il valore «cultuale»

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dell'opera a favore del suo valore <<esposJtJVO»; il che era come dire che l'opera non ha un <<valore d'uso» distinto dal suo valore di :scambio; o che, in-somma, tutto il suo significato estetico si identifica con la storia della sua lf''irktmg, della sua fortuna, recezione, interpretazione, nella cultura e nella so-città (questo, detto di passata, non equivale ad as-sumere una posizione di puro e semplice nichili-smo ermeneutico, espresso nel motto di Valéry: «mes vers ont le sens gu'on leur prète>>; le singole interpretazioni non sono librate nel vuoto, sono le-gare, con un nesso che è storico-fattuale ma ha an-che una portata normat1va, a rurte le altre intcrprc-ra7ioni, alla globale lY7irkungsgescbichte, o «storia de-gli effetti». dell'opera').

Ma il problema del rapporto tra valore cultuale - o «auratico», nel senso di Benjamin - e valore espositivo dell'opera d'arre non si risolve <hvvcro se non s1 seguono fino in fondo le implicanze della teoria dello shock. Fino a che si pensa che la fruizio-ne dell'opera d'arte sia carattenzzaca come cogli-mento della perfezione della forma e come soddi-sfazione vissuta per questa perfezione, risulterà im-possihile accettare che, come si è detto, il V<Ùorc d'uso si dissolva nel valore di scambio, o <.he cada il valore cultuale dell'opera a favore del suo valore espositivo.

l Questo è uno du termini ctnrrali dd tl1battiw c.:rmtncutiLo LLln· tcmpm.tnetl; dr H.G Gadamcr, l 'm/,Ì t mtl&do ( 1960), rr.td. 1t. di G Y-1tnmo, Bomp1aru, Milano 198\, '>pt:C. pp. )'iO ss.

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Nel saggio di Bcnjamin. l'cffccro di shock è carat-teristico dd cinema. che in ciò è stato anticipato dalle poetiche dadaiste: l'opera d'arre dadaista è in· farci concepita come un proiettile lanciaro contro lo sputatorc. contro ogni su:t sicurezza, aspettativa di senso, abitudine pcrcettiva. Il cinema è fatto an· dù:sso Ji proiettili, di proiezioni. appena un'im-magine si è formata, già è sostituita da un'altra, al-la gualc l'occhio e la mente ddlo spettatOre si de-vono riadattare. In una nota, Bcnjamin paragona cspliciramenre le prestazioni pcrccttive richieste al· lo spettatore del film cnn gudlc necessarie ad un pedone (o. possiamo aggiungere, a un au.comobili-sta) che si muova in mezzo al traffico di una gran-<k cirttì moderna. <<Il cinema- scrive Benjamin -è la forma d'arte che corrisponde al pericolo sem· prc maggiore di perdere la vira, pericolo di cui i . . . , contemporanei sono costrew a tener conro ... >>. Sembra di leggere qui. in una forma curiosamente dcmitin.ata c ridotta a dimensioni di vita quoridia· na - il traffico e i suoi rischi -ciò che Heidcggcr

nel suo saggio sull'Odgine ddl'opmt d',me con la nmione di StoJJ. Anc.:h(' per Hcidcgger, in un sc.:nso di vc.:rso ma forse profondamente vicino a quello di Bcnjamin, l'esperienza dello shock dell'arte ha da fare con la morte; non tanto o principalmen-re con il rischio di essere travolti da un autobus per scrad:t, quanto con la morte come: possibilità costi-ruriva dell'esistenza. Ciò che, nell'esperienza del-

l 'optr.t d:trlf, Cl!., p. '\'l, no1.1 .N.

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l'are<.:, causa lo Sto.u, per Hcideggcr, è il fatto stesso tbc l'opera ci sta piuccosro che non esserci.' Il fatto dell'esserci, il Da/3, come ricordano 1 kttori di Ew:-re e tempo, è and1e alla base dcll\:sperienza esistcn-ziak dell'angoscia. Nel paragrafo 40 di Essere e tem-po l'angoscia viene descritta come lo scaro emotivo che l'esserci (cioè l'uomo) vive quando è posro di fronte al nudo fatto dell'essere-gcrraro nel mondo. Mentre le cose singole appartengono al mondo in quanto sono inserite in una rete dì rimandi, di si-gnificattvità (ogni cosa è riferita ad altre, come ef-fetto, come causa, come strumento, come segno, ccc.), il mondo come tale, nel suo insieme. non ha rimandi, è insignificante; l'angoscia registra questa insignificanza, la gratuità corak del fatto che i l mondo c'è. L'csp<.:rienza dell'angoscia è un'espericn·

di «spacsam<.:ntO>> (di Un-hemilichkeil, di Un-zu-llause-sein ). L'analogia dello StosJ <.lcll'arte con que-sta <:spencnza dell'angoscia st capisce se si pensa eh<.: l'opera d'arte non si lascia riportare a un ordine di significati pn:stabilito, almeno nel senso che non è deduCibile da esso come sua conseguenza logica; c anche nel senso che non si mserisce semplicemcn-tl" all'interno dd mondo com'è. ma pretende di get-tare su di esso una nuova luce. L'incontro con l'o-pera d'arte, come Heidegger lo descrive, è come

6 S<!Jitm ci t., pp. 19-">0 ., C:Ir. Hciùçggcr, t 11'111/"' {19Z7), rraJ. 11 . di P. <Jucxh, Urct, Torino 1969 R llurrr t lmtpo. m .. pp. 2%·97.

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l'incontro con una persona che ha una sua visione del mondo con la quale la nostra deve inrerprerati-vamentc confrontarsi. È .mzinmo in questO senso che si deve intendere la resi hcidcggcriana secondl> cui l'op<.:ra d'arre Jondct un mondo. pokhé si prest:n-ra come una nuova <«tpcrtura>> storin>-evenrualt dell'esser<:. Sebbene lo StwJ sembri desnirro con termini più <<positivi» ddl\1ngoscia di Euere e tem-po, che ha invece sempre da fare con Stimnumgen come hl. paura. ransia. ecc., il suo significato è. per l'csscmialc. lo stesso: quello di porre in stato di spcnsionc l'ovvietà dd mondo, di suscitare una preoccupata meraviglia per il fatto, di per sé imi-gnificance (in senso rigoroso, non rinviante a nulla: o rinvianrc al nulla). che il mondo c'è.

Fino a eh<.: punto gucsca nm•ion<: di Sto.u ha dav-vero da fare, oltre alla vicinanza tcrminologic:l, con lo shock di cui parla Benjamin in connessione con i medùt della riproducibilità? Heidcgger sembra lq;a-rc: lo Stou dell'opera d'arre al fatto che essa è una <<messa in opera della verità>>. cioè una nuova aper-tura ontologico-epocalt; in guesto senso. di Sto.u si dovrehb<: parlare solo in riferimento a grandi opere che si pr<:scntano come decisive nella storia di una cultura o almeno nella csperienza vissuta dci singo-li: la Bihhia. i tragici greci, Dante.:, Shakespeare ... Lo .rbock di BenJamin s<:mbra inven: qualcosa di molto più semplice e familiare. come appunto la rapida successione delle immagini nella proiezione del cinema che richiede allo spcrratore una prc'>ta-zionc analoga a quella richicsr:1 a un guidamrc che

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si muova nel traffico della città. Eppure i due con-cetti, quello di Heidegger e quello di Benjamin. hanno almeno un tratto in comune; l'insistenza sullo spaesamenro. Nell'un caso e nell'altro l'espe-rienza estetica appare come un'esperienza di estra-niamento, che esige un lavoro di ncomposizione e di riadattamento. Questo lavoro però non mira a una condizione finale di ricompos17jone raggiunta; l'esperienza estetica è invece diretta a mantenere in vita lo .rpaesamento. Per Benjamin, dato l'esempio del cinema che egli sceglie, è fin troppo evidente che non possiamo pensare che l'esperienza del film si compia quando esso si sia ridotto a un quadro fermo. Per Heidegger, l'esperienza dello spaesa-mento dell'arte si contrappone a quella della fami-liarità dell'oggetto d'uso, nel quale l'enigmaticità Jcl DafJ (del «che») «dilegua ndl'usabilità>>. Non si può supporre che He1degger pensi a una «con-dusione» dell'esperienza dello spacsamento estetico in un recupero della familiarita e dell'ovvietà, quasi che il destino dell'opera d'arte fosse di trasformarsi, alla fine. in un semplice oggetto d'uso. Lo stato Jello spaesamento - sia per Heidcggcr sia per Benjamin - è costitutivo e non provvisorio. Que-sto è propno ciò che costituisce l'elemento più ra-dicalmente nuovo di queste posizioni estetiChe nei confronti della tradizionale riflessione sul bello -e anche della sopravvivenza di questa tradizione nelle teorie estetiche del nostro secolo. Dalla dot-trina aristorelica della catarsi al libero gioco delle facoltà kanriano. al bello come perfetta corrispon-

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denza di interno ed esterno in Hcgd. l'esperienza estetica sembra esser stata sempre descritta in ter-mini di Geborgenheit - di sicurezza. di «appaesa-mento» o «riappaesamento».

Si può indicare l"elemcnto nuovo della posizione di Hc.:idcgger c di Benjamin, quello per cui essi si staccano da ogni concezione ddl\:spcricnza estetica in rcrmin1 di Geborgenheit, mediante la nozione di oscillazione. Questo richiede uno sposramenro di accento nel modo consueto di Interpretare il senso dcll'csrcrica di Heideggcr: essa risulta infarti una dorrrin;t carica di enfasi romantica se si insistt trop-po sull:l funzione di «fondazione>> che l'opera d'arte esercita nei confronti dd mondo. Cerro, in Heidcg-gcr c'è anche questa insistenza: «ciò che dura lo fondano i poeti». secondo l'affermaziOne dt Holdcr-lin che egli nprende spesso; il che vuoi dire cht nella poesia accadono k svolte decisive del lingu:tg-gio1 il quale è b «casa dell'essere». cioè il luogo in cui si delineano le coordinare fondamentali di ogni possibile esperienza del mondo.

Tuttavia. cio che import:t di più a I Icideggcr. e che vime in luce sia in moltc pagine.: dd slggio dd 1936, sia nelle sue lctrun: dci potti, non è la defini-zione positiva del mondo che la poesia apre c fon-da, bensì J'individuazwnc della portata di «sfonda-mento>> che la poesia s<:mprc, inscparabdmence. ha.

9 finalml'ntl' di,p<mibilc un.t traduwmc ttahanJ. curata m m•J(lO CCtcllcnrC' dl I. Amoroso, tlcgh di llc!Jcggcr 'u Lt p{}(JM d: llrJ/dtrlw. i\ddphi, ;\filmo 1988

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Fondazione c sfondamento sono il senso dci due :tspctti che Hcidcgger indica come costitutivi dd-l'opera d'arte, cioè l'esposizione ( .1ufste!bmg) del mondo e la pro-duzione (lla-stcllllng) della <<terra». Il mondo esposto dall'opera è d Sistema di signifi-cati che essa inaugura: la terra è pro-dotta dall'npe-ra in quanto è messa avanti, mostr;lta come il fon· do oscuro, mai roralmcnre wnsumabile in enuncia-zioni c:splicire, su cui il mondo ddl'opera si radica. Se. come si (: visto. lo spacsamcnto è l'dcmcnco es-senziale e non provvisorio dell'esperienza cstetict. di quesro spaesamcnro è responsabile molro più la terra che il mondo; solo perché il mondo di signifi-utti dispiegato nell'opera appare come radicato oscuramente (dunque non, logJcamenre, «fonda-to») nella terra. l'opera produce un effetto di spac.:· samcnro: la terra non è mondo, non c sistema di connessioni significative. è l'altro. il nulla, la gene-rale graruit;'i c insignificanza. L'opera è fondazione solo in quanto produce un continuo effetto di spac· samcnro, mai ricomponibilc in una finale Geborgen· beil. L'opera d'arre non è mai tranquilhnantc, «bel-la>> nel senso della perfetta conciliazione di interno cd esterno, cd esistenza, ccc. Può forse ave-re qualcosa della catarsi aristotelica. ma solo se b cararsi è intesa come esercizio di finitezza, un rico-noscimento dei limiti invalicabili, rcrrcsrn, ddl'csi-srtnza umana; come purificazion<.: perfetta. ma com<: phr6m.ri1. E in questo senso non tanto fondan· re 9uanto sfondante che lo StoJJ heideggeriano può essere interpretato come analogo allo Jhock di cui

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parla Benjamin. L'analogia :-;fugge c scmbr:1 assurda se. all'apparente instgnificanza dello shock di Bmja-min, si contrappone una visione enfatica dell'opera d'arce l<>me inaugurazione c fondazione di mondi storico-culturali. Ma leggere in questi termini la teoria di Hcidcgger significa ancora intcrpretarla in una forma metafisica o, per dirla in termini hcideg-gcriant, ontica: lo Sto.u in questo caso dipendercblx infatti dall'imponenza positiva, dalle proporzioni decisive del nUO\'O mondo che l'opera inaugur:t c fonda: interpretare e fruire l'opera .significherebbe stabilirsi in questo mondo c ndb sua nuova signi· ficarivit:ì. Ma risulta invece chiaro lhe a Heidegger. nello come nell'angoscia. interessa lo spaesa-mcnto nspctto a qualunque mondo - sia quello

. si_a quello prospettare dall'opera in termini posmvt. .

«<l cinema - dice Benjamin è la forma d'arte che corrisponde al pericolo s<.:mpre maggiore di perdere la vira ... » Ma. dal conrcstn di tuno il suo saggio. esso è anche la forma d'arre che rc:1lizz:1 l'csscnza tardo-moderna di ugni arte. guclla nelht cui luce soltanto ogni esperimza estetica, anche di opere d'art<.: dd passato. ormai possibile. QutSCI c:spcri<.:nza non può più esser<. caratterizzata da al· cun;t GfborgenheTt, da alcuna .sicurt:zza c ne; c: invece cssenzialmtnrc prcC"'.tria, legata non so· lo ai pcrkoli accidentali a cui la vira del pedone metropolitano e soggetta, ma alla stessa srruttunt precaria dell'esistenza in generale. L> shock ristico delle nuove forme d'arre della riprodudbilid

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è solo il modo in cui di fatto si realizza, nel nostro mondo, lo Stoss di cui parla Heideggcr, l'essenziale oscillazione c spacsamento che costituisce l'espe-rienza dell'arte.

Mentre pero nel saggio di Ben1amin si coglie fa-cilmente un generale orienramenro di valutazione positiva dell'esistenza tecnologic:t. giacché la fine dd valore cultuale e auratico dell'opera d'arre è da lui esplicitamente intesa come una chance positiva di liberazione dell'arte dalla superstizione, dall'alie-nazione, e in definitiva dalle catene della metafisi-ca, sembra che Heidcgger :;ia un giudice severo del-le condizioni di esistenza moderne, anche c soprat-tuttO perché la banalizzazione del linguaggio che si verifica nella società della comunicazione generaliz-zata distruggerebbe la stessa possibilità di esistenza dell'opera in guanto opera, appiattendola ndl'insi-gnificanza. Ma è difficile dimostrare che Heidegger sia un teorico dell'opera d'arte nel senso cultuale della parola; che cioè egli veda il valore estetico dell'opera legato all'hic et nunc della sua presenza di forma riuscita e pcrfena, di prodotto dell'artista in-teso come genio creatore. Sono tutte categorie (be, benché essenziali nella concezione cultuale dell'o-pera d'arte, sono radicalmente estranee all'atteggia-mento heidcggeriano, per il guale l'opera è <<messa in opera della verità» proprio in guanto è sempre più che àrte, più che forma compiuta c perfetta o risultato di un atto creativo o di una maestria. L'o-pera funziona come apertura della verità perché è un «evento» (Ereignis) dell'essere, il guale però ha

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la sua essenza di evento nell'essere rr:wolro cd «espropriato>> nel «giow di del mondo>> (come llcidegger dice nel suo saggio su <d;a cosa>> ).

Qui è tuttavia più imporr.mtc approfondire l'al-tro problema. quello dell'atteggiamento di Hcideg-ger nei confronti dei cuatccri ddl'csisrcnza umana nd mondo ddh tecnica. Chiarendo questo proble-ma si possono trovare.: imporranti inditazioni sul si-gni fitato :,pacsanre c <coscill:ttoriOI> dell'esperienza esrcrk--:1 nella tarda modernid, indic:tzioni che cr-vono anthe a sviluppare gli clernemi impliciti nelle proposte di Bcnjamin. (Detto di pass.H.t, è verosi-mile che entrambi, Heideggcr e Bcnjamin. attinga-no gli dementi per la dcsu·izione dell'esistenza umana nella metropoli moderna da Gcorg Sim md"). Rifacciamoci alle pagme di Identità e diffi rm ·'' c Ji Sagg1 e d1.mmi,' i n w1 llcidcgger illustr.t l.t sua nozione eli Ge S/(·1/. Con questo termine. che si può tradurre con im-posi-zione. I leidcggcr car:uccrizza tutto l'insieme dcll:l rcmita moderna, che è in gcncmlc pens.tbile comt' uno s·tellm. un <cporrc.:»: l'uomo pone le cose come oggew della sua manipolazione, ma è a sua volt;l

IO Il s.tsgau è 1 onrcnuro ne:-l , olumc \,, •1 t "'''11m ( ), rrad a t da (, V.llumo, :'llursJ,I, \hlano Il t fa 01 (, 1! 'a.!;J;IO <l l mctropuh l 1.1 Vltll nl(ntlk ( rrad 11. dt F Luoano nel vol. llllllla 1111 ddf11mn , lUrJ d1 < h \\'ngln Mtlb, Comunità, 196, 12 Ucui/Jtì t tlifjm11za (1957) c rr.tdonu m n.thano dt L l gJtJO tn <•aut .tum, nr Hl"-&;. gcnn.tHI tpralc J9S2, per dm m v IJ tr:!d CH .a c 1 .all.a nnr.t IO.

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sempre richiesto di nuove prestazioni, in modo che il Ge-Steii è una specie di continua, sfrenata provo-cazione reciproca di uomo ed essere. Ma l'essenza della tecnica moderna così ddinita non è solo il su-premo punco di arrivo dell'oblio metafisica dell'es-sere; per Heidegger, il Ge-Steii è anche «un primo, incalzante lampeggiare dell' Ereignis»," cioè dell'e-vento dell'essere, al di là dell'oblio metafisica di es-so. ' Proprio nel Ge-Ste/1, cioè nella società della tec-nica e della manipolazione totale, Heidegger vede anche una chance di oltrepassare l'oblio e l'aliena-zione metafisica in cui è vissuto fino ad oggi l'uo-mo occidentale. Il Ge-Steft può offrire una tale chan-ce proprio perché si definisce in termini che sono quasi identici a quelli usati da Benjamin per parla-re dello shock.

Scrive infatti Heidegger: nel Ge-Stel!, <<tutto il nostro esistere si trova dovunque provocato - ora giocando, ora impulsivamente, ora aizzato, ora so-spinto - a darsi alla pianificazione e al calcolo di ogni cosa». 1 La provocazione sotto cui l'esistere dell'uomo moderno sta è analoga alla condizione del pedone metropolitano di Benjarnin, per il quale l'arte non può essere che shock, spaesamento conti-nuo, e in fondo esercizio di mortalità. La chance di

13 ldenii/,Ì t' dJjfirmza. ci r., p. 14 l l <;u .:onlttto di ohlm dtlJ't,snc: proprw ddb mt:t.tfisil:l. c: 'u altri tc:rrnm1 ddbt filosofi:t hcidc:ggcriana, pus'iQno rrov,tre m;lg· gmn 11luswmom nella mia lmmduz.mnf ,t lleidrggf!r, bccrz3, Rom:l· B;tr, 1982'. l 'i ldmii/J. e diffmi/ZII. lÌ L. p. Il.

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oltrepassare la metafisica che offre il Ge-Ste/1 è lcg;l· ra al farro che, in esso, <momo cd essere perdono le determinazioni che b merafisic:t ha loro arrribui-tm>: ' la natura non è più solo il luogo delle leggi necessarie delle «scienze positive>>. mentre il mon-do umano - anch'esso duram<:ntc soccoposto alle rcc.nichc di manipolazione non è più il comple-mentare t. simmecricamcntc opposto regno della li-berrà, c,1mpo delle <<sciemc dello spirito». In gue· sco rimescolio di carre, il teatro della metafisica con i suoi ruoli definitivi tramonta, e per gucsto può darsi una chance di nuovo avvento dell'essere.

La nosrra cerminologi<l <.:srccica, i concetn w cu1 disponiamo per parlare di arce sia in quanto pro-duzione sia in quanto fruizione c che sempre di nuovo ritornano, sono form<: diverse. nella nostra rifksswne, :,ono adeguaci a pensare l'esperienza csn;nca come spaesamento, oscillaztOne, sfonda· mento, 1-bock? Un segno che non lo sono porrebbe vedersi nd facto che la ttona cscc.:rica non ha .mco-ra farro giuscizta at mass meclu1 c alle possibilità che css1 offrono. Sembra sempre, cioè, che si tratti di «S<llvart>> una essenza dell'arte (creatività, originali-tà, fruizione della forma. conciliazione, ecc.) dalle minaLc<. Lhe le nuove condiziont dt esistenza della civtlrà di massa rappresentano non solo per )':Irte, si dice, ma per la sressa <:sscnza dell'uomo. Le con-dizioni ddla riproducibilicà, in parucolare, vengo-

H• p n .

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no considerate inconciliabili con le esigenze della creatività che pare indispensabile nell'arre, non solo perché la rapida diffusione delle comunicazioni tende a banalizzare immediatamente ogni messag-gio (che del resto, per soddisfare :ùlc esigenze dci medi et, nasce già sempre banalizzato); ma perché, soprattutto, si reagisce a questo consumo dei sim-boli attraverso l'invenzione di «novità» che, come quelle della moda, non possiedono la radicalirà che sembra necessaria alropcra d'arte, ma si presentano come giod1i superficiali. I mas.r medict, in effetti, conferiscono a tutti i contenuti che diffondono un peculiare carattere di prccarietà e superficialità; es-so urta duramente contro i pregiudizi di un'estetica sempre ispirata, più o meno esplicitamente, all'i-deale dell'opera d'arre come «monumentum aerc perennius», c dell'esperienza estetica come espe-rienza Lhe coinvolge profondamente c autentica-mente il soggetto, creatore o spettatore. Stabilità c perennità dell'opera, profondità c autenticità dell'e-sperienza produttiva c fruiriva sono cerro cose che non possiamo più aspettarci nell'espericma estetica tardo-moderna, dominata dalla potenza (e impoten-za) dci media. Contro la nostalgia per l'eternità (dell'opera) e per l'autenticità (dell'esperienza), bi-sogna riconosLerc chiaramente che lo Jhock è tutto ciò che rimane della creatività dell'arte nell'epoca della comunicazione generalizzata. E lo sbock è defi-nito dai due caratteri che abbiamo individuato se-guendo le indicazioni eli Bcnjamin c di Heideggcr: anzitutto. esso non è altro, fondamentalmente, che

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una mobilità c iperscnsihilid dci nervi e dell'imcl-ligenza. caratteristica dell'uomo metropolitano. A gucsra eccitabilità e i per -cnsibilirà corrisponde un ':mc non più centrar.t sull'ojlmt ma sulre.rpcrim-za, p<.:nsata però in t<.:rmini di variazioni minime e continue (secondo l'esempio della percezione del nn<.:ma). Sono turri dcmc:nri l'h c, scbbcnt senza svilupparnc l<.: ultime conseguenze, l'estetica orro-noveccmcsca ha spesso rcorin:uo: Heidcggcr li se-gnala per esempio, peraltro in modo polemico, nel-l:t rcori:l dell'arte di Nictzsdte.

Il secondo carattere che costituisce lo shock come unico residuo della crcativinl nell'arte della tarda mod<.:rnit.i è quello l'he Hcid<.:gger pensa sorto la noziom: eh Sto.rs: cioè lo sp:t<.:samcnro c l'oscillazio-ne the hanno da fan.: con l'angoscia e l'esperienza della mortalità. Il fenomeno dcscritro da Bcnjarnin come .ih(){k, cioè. non riguarda solo le condi7.ioni della percezione, né è solo un fatto da affidare alla sociologia dell'arre; è invece il modo in cui si arcua l'opera d'arre come conflitto tr;t mondo e terra. Lo Jho(k-Sto.u (: il Jr'eren, dell'arte nei due sen· si eh<.: questa espressione ha nella tt:rminologia hci-Jc.:ggcnana: è cioè il modo in cui si a noi, nella rarda modcrnicà. l'esperienza csrctic.t; cd è, anche, ci() Lhc ci appare come essenziale per l':trre folli corat, cioè il suo accadere come nesso di fonda;.oionc c sfondamento. neiJa dell'oscillazione c dello spacsamcnro: in ddiniriva. come esercizio di mor-tali r:ì.

Si viene così a proporre un:t troppo sbrigari\'a

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apologia della cultura di massa, riscattata, sembra, da tutti i caratteri alienanti così efficacemente indi-viduati da Adorno e dalla sociologia critica? L'equi-voco di questa sociologia, oggi, ci appare fondato sul fatto di non aver discinto le condizioni dell'alie-nazione politica proprie delle società a organizza-zione totale dagli elementi di novità impliciti nelle condizioni di esistenza tardo-moderne. Il risultato di questo equivoco è stato che, spesso, la perversità della massificazione e dell'organizzazione totale è stata condannata in nome di valori umanistici la cui portata critica era legata esclusivamente al loro

erano infatti valori ispirati a momen-ti precedenti di quella metafisica il cui esito, come ha visto bene Heidegger, è stato appuntO l'organiz-zazione totale della società. Noi oggi siamo forse in grado di riconoscere che gli elementi di superficia-lità e precariecà dell'esperienza estetica quale si at-tua nella società tardo-moderna non sono necessa-riamente segni e manifestazioni di alienazi?ne, le-gati agli aspetti disumanizzanti della massificazione.

Contrariamente a quanto a lungo - e con buo-ne ragioni, purtroppo - ha creduto la sociologia critica, la massificazionc livellante, la manipolazio-ne del consenso, gli errori del totalitarismo non sono l'unico esito possibile dell'avvento della comunica-zione generalizzata, dei mctJs media, della riproduci-bilità. Accanto alla possibilità - che deve essere decisa politicamente -di questi esiti, si apre anche una possibilità alternativa: l'avvento dei media, in-farri, comporta anche una accentuata mobilicà e su-

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pcrfi(ialità dcll'espericnz:-t, che contrasta con le ten-denze alla generalizzazione dd dominio. in quanro dà luogo a una sp<:CJt di <<indebolimento» della no-zione stessa di realtà, con il LOnsegucnte indeboli-mento an(he di tutta la sua cogenza. La <<soucd dello spcttacolo» di <.ui parlarono i si ruazionist1 non è solo la società ddlt apparenze manipolare dal por<.:rc · è anche la sou<.:rà 1n cui la realtà si prc-s<:nra con caracreri più molli c fluidi, e in cui l'espc-ncnza può acquisin: i narri dcll'oscillazion<:. dello spacsamcnro, del gioco.

L'ambiguità che molte teorie conremporam:c considerano caratteristica dell'esperienza esccri<.a non è una ambiguità provv1sona. non si tratta uoè, attraverso l'uso più libero c meno automatizzam del linguaggio che si dà nella eli diventare - come soggetti - più padroni dd linguaggio 1n gc:ncrale. In questo caso l'ambiguità poetica è solo meno per produrre, alla fine, una più piena appro· priazione dd linguaggio da parte del soggcrw; dunque, anche, SI tratta di uno spaesamenro srru· mcnralc, che mira a un riappacsamcnco conclusiVO il quale rcsca prigioniero S<.' non dell.l categoria d1 opera, cerro di quella di soggetto, che le fa da corri-spettivo. L'esperienza dell'ambiguità è invece costi-tutiva ddl'arre, come l'os<.illazionc c lo spaes:uncn ro; sono queste le sole vie attraverso le quali, nel mondo della comunicazione generalizzata, l'arce può configurarsi (non: ancora. ma forse: finalmen-te) come creatività c libertà.

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Dall'utopia all'eterotopia

La più radicale trasformazione che si è verificata tra gli anni sessanta e oggi per ciò che riguarda il rapporto tra arte e vita quotidiana mi sembra si possa descrivere come un passaggio dall'utopia all'e-terotopia. Gli anni sessanta (e certo, principalmente il sessanrotto; ma si tratta di un movimento che culmina, soltanto, nella contestazione di quell'an-no, c che è vivo fin dall'immediato dopoguerra) ve-dono una larga diffusione di prospettive orientate a un riscatto estetico dell'esistenza, che nega più o meno esplicitamente l'arte come momento «specia-lizzato», come «domenica della vita» nel senso in cui ne parlava Hegel. L'utopia si presenta ovvia-mente nella sua forma più esplicita e radicale nel marxismo; ma ha anche una versione <<borghese», che si può indicare nella ideologia dd design d1e si impone largamente, per esempio, attraverso la po-polarità di Dewey' nella filosofia e nella cri tic a eu-

l Di DcWC} si veda Caru: come e1pmenza ( 1934), rrad. i t. a rura di L Malrcsc, La Nuova Italia. Firmzc 1%6': c: sull'csrenca di Dcwq d bello sn1dio d1 R. Barilli, Per llrlll e.lleiiCil mrmdmu1, Il .Muli-no, Bologna 196-1.

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ropea degli anni cinquanta. Anche Dewcy. come i teorici c i cri t ici marxisti (da Lukacs ai maestri di Francofone fino :.1 Marcuse) ha ascendenze hcgelia-nc. Per Dcwey. l'esperienza del bello è legata alla percezione di un fulfllment che ha cucco da perdere ad essere sc.:p;u:uo dalla concretezza della vira quoti-diana: se <..'è un campo dell'arre in senso specifico. esso tuttavia allude a una più generale sensazione di armonia thc ha le sue radici nell'uso dcgh ogget-ti, nello !'>tabilimc.:nro di t:quilibri soddisfacenn era individuo c ambic.:mc. Quanro alle vane forme di marxismo, esse hanno in comune 1'1dea che la sepa ratczza dell'arce c Ll specifiCltà dell'esperienza este-tica sono 1spem della diviswnc dd lavoro sociale che si Jeve eliminare wn la rivoluzione o comun-que con una trasformazione della società nel senso della ri:tpprupri.uinnt, da parte di tutti, dell'esscnn intera Jdl'uomo. In Lukacs guesra prospettiva agi-sce printipalmcntc a livello di mecodologia critica (realismo non è puro risJx·cchiamenro delle cose come sono, ma rappresmtazionc dell'epoca c de1 suoi wnflitti con un riferimento implicito all'e mantipazionc c .tlla riappropriazionc): in Adorno la promel"re de bonbeur cosriruti\':1 dell'arte si dà so-prarcuno come istanza negativa c smascheramt:nro della disarmonia ddl'c.sisrc.:nrc - con la correlativa rivalutazionc «rivoluzionari:H> delle avanguardie

2 1>1 Adorno, l tr !.1 l tfll"l.l ""'"" ( •r Ji 1: J)c ,\ng(!J,, l:m.tudi, 'lunno dlt' s•st<:m:t pt:nì :mch( g1:i prllJ'(>,tr 111 "fl<'• r P' tu<k nu di ,\dnrno.

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storiche, che il realismo lukacsiano considerava in-vece puri sintomi della decadenla. Questa rivaluta-zione delle avanguardie in chiave uropica si esplici-ta poi, fino alle sue conseguenze estreme, nel sogno marcusiano di una esistenza esteticamente (anche: sensibilmente e sensualmente) riscattata nella sua coralità.' St: Adorno aveva aperto la via a una consi-derazione positiva, dal punto di vista marxista, del-le avanguardie soprattutto in quanto rivoluzioni formali dci linguaggi delle varie arti (la dodecafo-nia schoenberghiana, il silenzio di Beckcrt ... ), Mar-cusc «sintetizza» nella sua utOpia anche altri signi-ficativi aspetti dell'avanguardia, per esempio le istanze di una trasformazione generale dei rapporti tra esperienza estetica e quotidianirà, fatte valere dal surrealismo e dal siruazionismo. Sullo sfondo di tutto ciò stanno alcuni grandi maestri del mar-xismo critico - Benjamin per Adorno, Bloch per Marcuse; e personaggi come Henri Lefebvre, · più esplicitamente legati all'esperienza delle avan-guardie e del loro prolungarsi fino ai primi an-ni cinquanta, come è appunto il caso del siruazio-nismo.

3 01 Il. Marcusc, oltre al claSSI(O Em1 t cit·tlhì ( 195') ), rrad H. di L. Einaudi, Torino l9(YI , ,i vcJ;mo i s;tggi ra•whi in Gflltflrcl t w-

atlct C 19M), rrad. IL d1 (.. Astht·ri, l!. Ostcrlow c F. Cnruri. Einaud1. Torino 1969. <· f..rt dmlemtOIIt' eJMtCtl ( 19"'7 ), rrad. i t. di F. C:tnnobhw-Codclli, Mundaduri, MiLmo 1978. ·l Dr H cnn. Lddwn: veda soprarrurro, su quc::sri remi, Lt Crtttque de '" m lf!ltJitdmmt•, Parigi 19-17.

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Se si guardano quegli anni dalla relativa disranz;t che cc ne separa oggi. app:tiono attenuare anche le non piccole differenze teoriche che distinguevano. ptr l'ideologia del deiign (d sogno di un riscatto estetico della quoridianirà attraverso l'orti· mizzuiom: delle forme degli oggetti, dell'aspetro dell'ambiente) da!J'am:ggiamcnto rivoluzionario dci vari marxismi. Da questi punti di vista pur tra loro diversi si per-;egui\·a sempre una unificazione complessiva di significato csrccico e significato esi-sr<:nziale che può indicarsi buon diritto come uto-pia. Utopia era. secondo Ll famosa opera di Blod1 del 1918,' il significato delle avanguardie arrisridK' pnmonovccencesche; e queste avanguardie, mentre erano passate (storicamente è sraco così, attraverso il Bauhttus) per molti aspctri nella ideologia del de-·"8"· d'altra parre, attraverso un lungo cammino (dal rifiuto di Luk:ics a Adorno c infine a Marcu· se), si erano saldate con il marxismo rivoluzionario (questa saldatura. a livello di massa, è dd resro uno d<:i significati, o il significato, dd '68).

Di questa grande utopia unificante - che tr<l utopia dell'unificazione cstt:ti<:a dell'c.:spericnz•t, c eh<: unificava orientamenti teorici c anche politici diversi, conferendo loro un generale atteggiamento dj distacm verso quella che Nictzschc ha chiamaro «l'arre delle opere d'arte)), a favore del design o a h-vore dd riscatto rivoluzion<trio di curra resistenza

1:. IliO< h. ,\pmt" ddlulof'ict (191H l' 1923), rraJ it di F. Coppdloni c: V. Bcrrolino. L1 \:uova hal1.1, 191!0.

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- oggi non sembra più restare gran che. È ormai raro, per quanto ne so, che il discorso Lritico sulle tJ.rti ponga ancora esplicitamente il problema del si-gnificato generale dell'arte, insieme a quello del si-gnificato c del valore dell'opera.

Quella che secondo Adorno era l'essenza ddl'a-vanguardia, e la sua vera portata utopica, il farro cioè dì mettere in discussione la stessa essenza del-l'arte con la singola opera, oggi non sembra avere più corso. Come se il «sistema dello spirito» con le sue distinzioni e specializzazioni si fosse completa-mente ristabilito: paradossalmente. anche un'opera come quella di Habermas, che si presenra come ri-vendicazione del permanente valore del programma moderno dell'emanCipazione, assume come punto di riferimento non controverso la distinzione di ori-gine kantiana degli ambiti di vari ripi di azione so-ciale, quello celeologico, quello regolato da norme e quello espressivo e drammaturgico - riservando in qualche modo a quest'ultimo la sfera esteuca:·

comunicativo, che rappresenta in Haberrnas d momento culminante di questa tipologia, non mette realmente in discussione la distinzione degli altri tre, anzi vale come norma trascendentale che vigila affinché non si operino indebite colonizza-zioni (anzitutto dci vari interessi espressi nelle tre forme di azione a danno della ma probabilmente anche di ciascuno dci tre tipi di agi-

(,Cfr. J. Hab1:rm:t>, T/!()Y!tJ wmtallCallw ( 19Hl ), trad. ir d1 P. RJI)auuo, a lUra di G.L. Ruswni, Il 1\lulinn. Blllogna 19H6 (2 voli )

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re su ciascun altro). Non intendo comungue gui discutere specificamente la Teoria dell'agn·e conunu-catwo habermasiana; ma solo mostrare in essa un esempio di una certa restaurazione teorica della se-paratczza <: specializzazionc ddl'estctico, che gui, secondo una tradizione di pensiero profonda.menrc radicata nella modernità, è riportato all'espressi-vità.

La ripresa da parte di Habcrmas della tripartizio-nc: kantiana della ragione è solo un sinromo della situazione generale a cui inrendo riferirmi; e non è nccessariamenre citata come farro «negativo», e da cnticarc come un regresso teorico e pratico (anche se, come spero si vedrà più avanti, non intendo nemmeno condividere Ja posizione di Habermas c la sua strenua difesa dell'arrualic;ì del moderno). Habe1 mas esprime, in gucsto aspetto della sua reo-n a, la caduta dell'utopia c il ritorno a u·na rranguil-la accettazione della separatczza dell'estetico. Turca-via, ciò che accade nel rapporto tra arre e vita quo-tidiana negli anni recenti non è solo questo. o prin-cipalmente questo: la ripresa ddl'esreriotà kanriana da parre di Habermas, anzi, potrebbe essere citata anche come segno del farro che la sua difesa dell'Il-luminismo e della modernità implica anche una specifica sordità nei confronti di molti fenomeni che h;tnno da fare con b cultura <<estetica» massifi-cara, c che Habermas non «vuole>> vedere e rico-noscer<.: nella loro portata Il ritorno dell'arre nei suoi confini, dopo l'utopia degli anni sessanta, è solo un aspetto della situazione che et interessa; c

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che Habermas - per ciò che riguarda l'estetica - sembra isolare in corrispondenza di certi suoi prcgi teorici (cioè del suo rifiuto della pose-modernità).

Perché l'utopia estetica degli anni sessanta, in qualche modo, si sta invece realinando, in forma distorta e trasformata, sotto i nostri occhi. Se da un lato l'arte nel suo senso tradizionale, l'arte delle opere d'arte, ritorna all'ordine, nella società la sede dell'esperienza estetica si disloca: non già nel senso del design generalizzato e di una universale igiene sociale delle forme né come riscatto estetico-rivo-' luzionario dell'esistenza nel senso di Marcuse; ma come dispiegamento della capacità del prodotto estetico - non diciamo scnz'alrro dell'opera d'arre - di «fare mondO>>, di creare comunità. Da questo punto di vista, forse, l'interpretazione più rcorica-menre fedele e adeguata dell'esperienza estetica co-me si dà negli anni recenti è quella proposta dal-l'onrologia ermeneutica gadameriana. Per Gada-mer, come si sa, l'esperienza del bello è caratteriz-zata dal riconoscersi in una comuntrà di fruitori

stesso tipo di oggetti belli, naturali e d'arte. Il giUdizio è riflettente, secondo la teJmìnologia di Kanr, non solo perché si riferisce invece che all'og-getto allo staro del soggetto; ma perché si riferisce

7, D1 l 1.<?. Gadamcr. olm.: al g•it citato 1 'mtà e ml'lo.lo, si ,·nhno : l dd btl/(), uad. Jt. d1 R. Dotrori c L. Butuni. Manctti. Gc:· nova 19H(J, t Ptnllarlnlli cMI<I lellrraltmt, crad i c a (Ur;J di R. Dotturi, Transt:uropa, Anwna 19R8.

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al soggetto wme membro di una comunità (il che. in qualc..hc misura, (;; gtà prcscmc in certe pagine ddl:t Crllir,l del Giudizio). L'esperienza del bello, in::.urnma. più fondamenralmcnrc che esperienza di una struttura che approviamo (ma poi, 10 base a quali è esp<.:rimza di appartenenza a una <.Omunità. E facile vedere comt <.' pcrthé una rak ronu:zionc ddl'csretico "i poss;t presentare con par-ticolan: pcrsuas1vità specialmente oggi: la culrum di massa ha come moltiplicato c reso macroscopico questo dell'esteticità. evidenziandone anche b problcmaricità, nei confronti della quale non si può non pn.:nder posizione. Nella società in cui pensava <.: -;cnveva Kant, il comcnso della comuni-tà ndla fruizione di un oggetto bello poteva ancora vi versi, almeno tendenzialmente, come consenso dell'umanità in generale. (: v<.:ro, per Kanr, che quando godo di un oggerco bello attesro e vivo la mia a una comunid, ma questa co-munità - pur solo pensata wme possibile, contin-gcnre, probkmatica - è la stessa comunità umana. La <.:ultura di massa non ha affatto livellato l'espe-rienza estetica omologando tutto il «bdlo>> ai valori di qudla comunità - la soci<.:tà borghese europea

che si sentiva portatrice pnvilcgiata dell'umano; ha invece evidenziato in modo esplosivo la molrc-plicir:ì dci <<belli». dando la parola a culture diverse - con la ricerca anrropologic:t - ma anche a <<SOC· tosistcmi>> interni alla stessa wltura occ.idemale. Di fatto, la fine. dell'uropia dd riscatto estetico dcll'esi-srcnza medtante l'unificazione dd bello con il quo-

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ridiano è avvenuta parallelamente, e per gli stessi motivi, alla fine dell'utopia rivoluzionaria degli an-ni sessanta: a causa dell'esplosione del sisrema, del-la impensabilità della scoria come corso unitario. Quando la storia è divenuta, o tende a diventare, di fatto storia universale - poiché v1 hanno preso la parola i tanti esclusi, muti, rimossi - è divenuto impossibile pcnsarla davvero come tale, come un corso unitario, eventualmente diretto a una emano-pazione. L'utopia, anche nei suoi aspetti estetici, implicava questo quadro di riferimento della storia universale come corso unitario. E si è dissolta, an-che sul piano estetico, con l'effettivo realizzarsi di una certa <<universalità>> nella forma della presa di parola di modelli diversi di valore e di riconosci-mento. Quel che ci è accaduto, quanto all'esperien-za estetica e al suo modo di rapporrarsi alla vita quotidiana, non è solo 11 «ritorno» dell'arte nelle sue sedi canoniche moderne; ma anche, e soprattut-to, il delinearsi di una esperienza estetica di massa come presa di parola da parre di molti sistemi di n-conoscimento comunitario, di molteplio comunità che si manifestano, esprimono, riconoscono in mo-delli formali c in miti differenti. In tal modo l'es-senza <<moderna>> dell'esperienza estetica, che Kanr aveva già Jescritto nella Critica dei Gi11dizio, si è di-spiegata in rutta la sua portata ma anche si è ridefi-nita: il bello è esperienza di comunità; ma la comu-nità, proprio quando si realizza come fatto <<Univer-sale», subisce un processo di moltiplicazione. di pluralizzazione inarrestab1lc. Noi viviamo in una

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società intensamente estetizzata proprio nel senso «kantiano» della parola; dove il bello, cioè, si :mua come istituzione di comunità; ma in cui proprio per questa intensificazione sembra essersi dissolto l'alno aspetto della universalità kantiana, l'identifi-cazione, almeno tcndenziale ed csigcnziale, della comunità estetica con la comunità umana to11t COttrt.

Anche nell'estetica esperiamo ciò che, con diver-se modalità c carica drammatic:.t, accade nella scien-za, che era sempre sembrata (mi riferisco qui anco-ra al modo in cui Habermas ne parla: l'agire teleo-logJCo suppone un mondo «obiettivo», uno) il luo-go del darsi del mondo come oggetto unico; espe-riamo cioè che il mondo non è uno, ma molti; ciò che chiamiamo il mondo è forse solo l'ambito «rc-siduale», e l'orizzonte regolativo (ma con quali problemi) in cui si articolano i mondi. È verosimi-le che l'esperienza estetica della società di massa, il vertiginoso proliferare di «bellezze» che fanno mondi, sia prufondament<.: modificata d:ll fatto che anche il mondo unitario di cui la scienza credeva di poter parlare si sia rivelato una molteplicità di mondi diversi. Non è più posstbile parlare di espe-rienza estetica come pura espressività, pura colori-tura emotiva molteplice del mondo, come si faceva quando si pensava che questo mondo base fosse co-munguc dato, incuntrabilc con i metodi della scicn· za. Ciò lasoa sicuramente aperto il problema d.i ri-definire l'esteticità, c forse rende impossibile «defi-nirla» delimitandola e distinguendola: anche gui,

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sembra che ci troviamo di fronte a una realizzazio-ne imprevista, c forse <<distorta>>; dell'utopia.

Il dispiego dell'esperienza estetica come espe-rienza di comunità invece che come apprezzamento di strutture si dà, tuttavia, solo nel mondo della cultura dì massa, dello storicismo diffuso, della fine dei sistemi unitari. È per questo che non si tratta di una realinazìone pura e semplice dell'utopia, ma di una sua realizzazione distorta e trasformata: l'uto-pia estetica si attua solo dispiegandosi come eteroto-pia. Viviamo l'esperienza del bello come riconosci-mento di modelli che fanno mondo e che fanno co-munirà solo nel momento in cui questi mondi e queste comunità si danno esplicitamente come molteplici. In ciò, forse, si uova anche un filo con-duttore normativo, capace di rispondere a quelle preoccupa?ioni che sorrolineano chc se il bello è comunque sempre solo esperienza di comunità, non avremo più nessun criterio per distinguere la comunità violenta dei naz.isti che ascoltano Wa-gncr o quella dci rockctrari che si preparano even-tualmente a violenze e vandalismi, dalla comunità dei fans di Beethoven o della Travù1ta ... Nel con-

che l'universalità a cui pensava Kant si rea-hzza per noi solo nella forma della molteplicità.

B è p<:nsara m base a un termine centrale ddb falosofa:t th l kidcggcr, la nei wnfronti ddhl mt·r.tfasacl.. uoè t_ldl'ol?hu Jdl'esscrc, ti pcnsacro può cscrutart· un'oper;l cis lh.c JndK' <: .Klt:tta tn 9uald1t: m1xlo la tr,tdmonc, su tuuo uo, dr. l'ultimo tap. del mto La Jme moJ,,.. lillà, lÌt.

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posstamo assumere lcgirrimamcntc come criterio normacivo la pluralità cspli<.itamc.:nce vissuta come tale. Ciò che, legittimamenrc c non solo nella faba coscH.:nta della ideologia, era per Kant l'appello al-la comunità umana univ<:rsak che. intorno ai valori del bello «borghese>>, si coagulasse il consenso di qualunque essere umano vcrammt<: degno del nome), è divenuto oggi. in condizioni diverse della storia dell'essere. J'c.,pli<.ito riferimcn-ro alla molteplicità. Il ri<.onoscimento di sé d1c.: gruppi c comunità fanno nei loro modelli di belJcz. za ha intrinsecamente una norma, d,tt.l dal modo di accadtrc, dal IP'eren dell'arte c ddl'cstctico nelle.: no-stre condizioni srorico-dcsrinali: cd è che l'esptrien-za del riconoscimento di una comunità 10 un mo-dello deve farsi in esplicito ril biamo, con esplicita apcrrura, alla moltcplicid dci modcllt. Sì. questo è probabilmente come rovesciar<.· in positivo. bccn· clone un canone, l'atteggiamento che il Niecc .. chc della seconda «Inattuale>> dcsui' come ripi co dell'uomo ottocentesco, pnxlotro di una culrur.t storica esagerata, il quale si .tggir;t cnmc un rurism nel giardino della stona, c wmc in un magazzino di maschere teatrali cerca sempre di-versi. L'esperienza estetica drvcnta inaurcnrica quando, nelle condizioni atruali di pluralismo vcrti· ginoso de1 modelli, il riconosdme.nro d1c un grup·

Cfr F l':aC{I'><.hc. Sul, Mt/11.1 t Il dmmo d. 1tt rt n.t la "'' (-.c,ond.a delle <Consadcr.mnm wattu,Jia>), 18 4), [f,!d 1t di S. <.ral mcrr.a. an fJjli.rt', cd. Culla·Monnn.ara, \ol 111, l, Adclpha, .\faiano l') 2

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po opera di se stesso nei propri modelli si vive e si presenta ancora nella forma della identificazione della comunità con l'umanità stessa; cioè presenta il bello, c la comunità determinata che lo riconosce, come un valore assoluto. La <<verità» possibile del-l'espcricma estetica tardo-moderna è probabilmen-te il «collezionismO>>, la mobilità delle mode, il museo anche; c alla fine, lo stesso mercato, come luogo cL circolazione di oggetti che hanno demitiz-zato il riferimento al valore d'uso e sono puri valori di scambio: non necessariamente solo di scambio monetario, ma eh scambio simbolico, sono status symbols, tessere di riconoscimento di gruppi. Non sarebbe forse azzardato ipotizzare che molti discorsi teorici Jell'tstetica filosofica e della critica delle ar-ti si spieghino oggi come sforzi di far valere, nono-stante tutto, ancora dei criteri «Strutturali>> nella considerazione delle opere d'arte. Ma non tutte le teorie si muovono in questo senso csorcizzatorio e di fuga n;grtssiva· a partire da Diltht:y, k Lui resi si rarovano in fu<.ocur e pnma ancora in Heidcg-ger, la capacità dell'opera d'arte di <<fare mon<.lo» è pensata sempre al plurale - dunque non in senso

ma in senso crcrotopico: è proprio nel sag-gio su L'ongme dell'opera d'atte, del 1936, che Hei-dtp:gu 111111 p.ula p i u dd mondn l.<JllH. 111 F1111ì t

ll'mpu, ma JJ un mondo (e dunguc implicitamencc.: di molti mon<.li). E Dilrhey 1

" vcdt già il senso pro-

IO Si vc&mn, J, Diltht}, gli smttl rac:colri in italiano in Crtf/(<l tltfl,t folf.UJI/fllfll1t.t, :1 lUra di P. Ro ... si, Ei1uuJJ. Torino

%

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fondo d eli' esperienza estetica (e della srcssa espe-rienza storiografica) nella sua capacità di farci vive-re, nella dimensione immaginaria, altre possibilità di esistenza, dilatando in questo modo i confini di quella specifica possibilità che, nella quotidianità, realizziamo. Basterà, con Heidegger, uscire dall'o-rizzonte ancora fondamcntalmt:nte scienristico in cui si muove Dilthey. per vedere il senso dell'espe-rienza estetica nell'aprire un mondo o mondi, che non sono <<solo» immaginari, ma che costituiscono

stcsso, sono accadimcntì d'essere. Questa lettura teonca, solo abbozzata, della tra-

sformazione dell'esperienza estetica degli ultimi vent'anni può concludersi, sebbene provvisoria-mente, con l'esplicitazione di due implicazioni già contenute in quanto si è detto sopra: il passaggio dall'utopia all'eterotopia comporta come suo aspet· to più appariscente la liberazione dell'ornamento c, come suo significato onrologìco, l'alleggerimento dcii' t'SSt'rt.: .

La liberazione dell'ornamuuo, rm:glill .mwra · la scoperta del c:uattere di ornamento ddl'cstctiLo, dell'essenza ornamentale del bdlo, è il senso stesso dell'eterotopia dell'esperienza estetica. Il bdlo non è il luogo di manifesrazion<.: (U una vcrit:ì. che in es-

tmvi <.'s]'H è ssiom st·nsihile, provvisoria. anticipa-roria, educativa, come hJ voluto sl't ssn l't·stu il .1

metafisica della tradizione. La bellezza è ornamento nel senso che il suo significato esist<.:nZtalc, l'int<.:· resse a cui risponde, è la dilatazione del mondo dd-la vita in un processo di rimandi ad altri possibili

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mondi di vita, che non sono però solo immaginari o marginali o complementari al mondo reale; ma compongono, costituiscono, nel loro gioco recipro-co <.: come.: loro residuo, il cosiddetto mondo reale. r:cssc.:nza ornamcnralc della LUirura della società di

la dfimc.:rirà dei suoi prodotti, l'eclettismo che la domina, l'impossibilità di riconoscervi una quakhc tsscnzialità - che fa spesso parlare di Kitscb per questa cultura - corrisponde invece pienamente :ù Weren dell'estetico nella tarda mo-dernità. Non è cioè tn bac;e a un ritorno a valuta-i'Ìoni <<Strutturali>>, centrate sull'oggetto bello, che si può assumer<.: un atteggiamento selerrivo nei confronti di questa cultura. Kitscb, se esiste, non è ciò chc non risponde a criteri formali rigorosi e si dà nell'inautcnticità della mancanza di uno scile forre. Kitrcb l' invtcc solo lÌÒ lhc, nell'epoca dd-l'ornam<.:nto plurale, prcrcndc ancora di valere co-mt monumcnw più p<.:rcnnc del bronzo, rivendica ancora la stabilità, ddinitività, perfezione della for-ma <<classica» dell':trt<.:. Non è esagerato dire che né l'estetica teorica, né la critica sembrano oggi prepa-rare a orientarsi sdettivamcnte nel mondo dell'este-tico tardo moderno jlfxla propria principia, cioè fuo-n dal riferimento perdurante, e irrimediabil.mence ideologico, alla struttura dell'oggetto. Si potrà di-snm:r<.: sc c fino a che punto questa insufficienza ddl'csretica c della critica si dia davvero. Ma se, co-mc a me pare, essa è un fatto, dipende probabil-mente anche dal mancato riconoscimento della se-conda <<implicazione» del passaggio dall'utopia al-

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l'cccrompia come dell'esperienza estetica; di quelle conseguenze, cioè, cht: st situano al livello onrologiw. Di qUI deriva b scr.lordinaria impor-canza della <<Ontologia>> di llcidcggcr per il nostro pensiero· solo essa semhra capace di aprirci autenti-camente all'esperienza d<..ILt r.u·da mmkrnid senza un permanente, sottint<:so rifcnmemo a canoni e prinopi merafisici. Ci<'> è visihik, nel caso ddl'csrc-tica, proprio nella sostanziale inGlpacità che rivela di considerare come chance destinale, c non solo come pcrvertim<:nto di v,tlori cd essenze autcn-richt, l'esperienza csrccit.l dcll.t tulntr.t di massa. Lo sforzo compiuto da Bcnjamin con il saggio su L'opera d'ttrte neil'epom dt!la 1/ltl riproducibilitì temi-ca era diretto in questo senso, ma probabilmente era troppo legato a una conn:ztonc dialettica dt.:lla realtà fWt riuscire. Heidcggcr, invece. criticando l'i -dentiflcazionc metafisica dtll'csscrc wn wn la st.tbilid struttur:tk del «darm>. dckgit(lm.t in modo radicale la nostalgia per l.t forma da:;sic.l, per la valurazione fondata sulla struttur.l. Snlo se l'essere non ha da essere pensato come fondamcnro <: stabihtà di strutture eterne, ma si d:ì invece coml evento, con tutte le implicaz10ru che ciò comporta - anzitutto un indebolimcnm di base. per clll, LO mc anche Heidegger d1cc, l'essere non è. ma dCtade

solo a queste condizioni l'esperienza csretic.t come ccerocopia. moltipltutzionc dell'ornamcnro. s-fondamento del mondo sia nd senso ddla sua wl-locazione su uno sfondo. sia nel senso di una sua complessiva de-autorizzazione.:, acquista un signifi-

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caco c può diventare il rema di una riflesswne teo-rica radicale. Senza guesto riferimento ontologico. cercar di leggere come una vo<:azione ( un <<desti-no» k trasformazioni dell'cspencnza estetica degli ullimi due decenni (come gudk delle epoche pre-cedenti, del resto) appare solo una civetteria storì-cistica, un cedimento alla moda, la debolezza di chi vuole a turri i costi stare al passo con i tempi. Ma i tempi, SJ sa, hanno un passo c nvclano una direzio-ne solo se sono lecci, inrcrprcraci. La scommessa con l'ctcrocopia, per chiamarla così. può non essere solo frivolena se collega l'cspuienza escerica tra-sformata della società di massa ton l'appello hei-deggcriano a un'esperienza non (più) metafisica dcll'ess<:rc. Solo se in qualche modo, seguendo Hci-dcggcr, ci aspettiamo che l'css<:re sia appunto ciò che non è, che dilegua, che si afferma neiia sua dif-fcn:nza in quanto non è presenza, stabilità, struttu-ra; solo così possiamo - fors<: - trovare una via in mezzo all'esplosione dd carattere ornamentale <:d crcroropico dell'estetico di oggi.

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!limiti della derealizzazione

Viviamo quello che si potrebbe chiamare un momento dt svolta nella considerazione tìlosoftca c critica dd mondo dei mass media Nei decenni recenti, la diffusione dell'ermcncutic.t nell'ambito filosofico c i grandi progressi della tecnologia dd-le comtmicazioni sul piano pratico, della cultura diffusa c della socictc1, hanno dato luogo all'im-porsi di un (sia pur rcl<ttivo) «ottimismo mediati co», di cui penso sia utile ripercorrere le ragioni proprio quando, per una serie di motivi che cer-chen.·) brevemente di analizzare, sta di\'encndo prohlcm:nico o per lo meno si sta appannando.

1\ parrirc dalla fine degli annt Sett<mta-se c difricik fissare limiti cronologici precisi ci era parso di poter uscire fin:tlmente dalla \'tun· mung canmcrizzata dal pessimismo della Scuola di Francoforte nei confronti della societ} della co-municazione massificara. Le tesi apl)Calittichc di l lorkhcimer c ,\dorno a\·cv:mo pt:rso vigore per un insieme di motivi: anziwtto, l'erosione dell'u -manismo che le condizionava (e stato critica-

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10 da llabcrmas, sotto il nome di individua-lismo), provocata dall'imporsi dello strutruralismo come ot·icntamcnto culturale: l'gemonico negli anni Settanta. Il successo dello st nn tu r.tlismo (con il motto cmbkmatico di hisogna stu dian.• gli nomini come si studiano le formiche .. ) t:ra ancht: legato alla finL" tkgli ultimi imperi colo niali (in Francia, era da poco finit<l la guerra d'Al gc:riw c c'era il contliuo dc:l Victnam ... ): l'umani-smo :;i \.'ra svelato, o comunque \.'l'a generalmente considerato. come complice delle posizioni euro-Cl'lltriche e ciò <1\'C\'a reso impraticabili le grandi filosofie Jcltt storia di origine ottoccntesca: non solo l'idl·alismo hegcliano, ma anche il posnivismo

ilm,u x1smo. Umanismo significava anche una certa conce

%ione della Bddullg, fondat.t sulla :wtotrasparenza della coscic:nza. di un soggetto capace di emanciparsi in quanto si riappropria\'a di se stL·sso c si lihenn-a dci veli ideologici conquistando una visione «oggettiva>> dd mondo c della storia. l:ra questo soggetto, nricnlato all'itbtle di una piena appropriazione ddla verit;l, quello che risul-tava minacciato dalla forza tkmoniaca dei mass nH:dia come Adorno lt conn:piva. Ma proprio questo ideale dcll'autotraspttren:t.a dd soggetto co llll' scopo ddl'emancipazionl' era stato dissolto d,tlla critica dell'ideologia. dall'nntropologia srnu-rurale. d:tlla stessa diffusione della psicoanalisi in una \'crsionc sempre meno idealistica. Parallela-mente all'erosione ddl'itk-ale umanistico della Btl-

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dung, nnchc il car:.men: dei media sem-brava mentito dall'effetti\ o :-.viluppo delle tecno-l<)gie comunicative. Adorno. quando p<trlav<l dei mass media. aveva sempre :tvuto in mente la pro-p<lg:mda nazist:.l e il dottor GtK·hhds: la voce dd «gnmdc fratello» che parlct alle nwsse c impone lo ro, qu;tsi in uno stato ipnotico, opinioni, compor tamenti, consL·nso. Ma il mondo mL·diauco che in tanto si andava delinc;tndt' negli .mnt di questo secolo si c·)nhgur:l\ a come un.! Babele piutlnsro che come una totalità dipendente da un unico li modello in base a cui pens;tre quc:-sw Bahdc non poteva più l'ssct-c quello mecc.mi-co, dove un motore centrale determina i movi menti di tutti gli ingranaggi periferici. La filosofia c 1<1 sociologia critica h:.mno dovuto prender atto Jclla trasformazione della tecnologia dalla fase meccanica alla fase clettroni<.'a o infnrmattca. An-che senza spingerei troppo in tt'rreni che per ora conlìnano con la science fiction, non è difficile \"C-

tkre che la transizione dall\·gemonia. n della tl!n10logia meccanica a qudla ddla tccnolo-giH l'lcttronica porta con M: l'eml'l'gcrc Jel modd-lo dt'lla «rete» al posto di quello ddl'ingranaggio nt0Ssn da un un1co centro. La da cu1 dipende l<t sorte degli S(Wtt;u:oli tdl·visivi L il loro di\'Crso peso negli orari della programmazione c nella dist Jdle risorse finanziarie. non può fare a meno di un rifcrimcmo all'audience: la qu,llc. per quanto manipolata e manipolabile, rap-

tuttavia scmprl' un intcrlocutore non LO-

llH

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talmente prcvedibile e condizionabile. Non solo: le possibilita di divenire soggetti attivi nel «merca-to» mediatico, per esempio creando srazioni radio e, ormai, anche stazioni televisive indipendenti, non sono più soltanto privilegio di pochi- dipen-dono semmai più c.Ia decisioni politiche e legislati-ve che non c.Ia stretti fattori economici. E le reti di comunicazione che si servono dei computer sono già una realtà interattiva molto diffusa e dagli svi-luppi per ora imprevedibili.

Finora, almeno, l'ottimismo mcdiatico, l'aspet-tativa non irragionevole che lo sviluppo della tec-nologia elettronica e della cultura che essa rende possibile potessero smentire le previsioni fosche deHa Scuola di Francoforte e aprire nuove vie di emancipazione è stata in certa misura condivisa anche nella filosofia. Da un tale ottimismo, per esempio, dipende gran parte delle teorizzazioni c.lel post-moderno (ovviamente, tranne quelle come mi pare il caso di Jamcson, ne hanno dato una rappresentazione condizionara da presupposti ancora adorniani ... ). Ma persino la teoria dell'agire comunicativo di Habermas ha poruto nascere, probabilmente, solo nel clima di questa trasforma-zione; almeno nella misura in cui prende come ideale possibile, e non solo come te/o::. utopico di significato esclusivamente «regolativo», una co-municazione sociale non distorta (che, per Ador-no, non appariva assolutamente possibile in un mondo mcdiatizzato come il nostro). Ancora più stretta mi sembra la relazione di questo ottimismo

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mediatico - penso si possa chiamare così- con la vastn popolarità dell'ermeneutica nella nostra cul-tura (la Vl'ra e propria komé ermeneutica degli an-ni Sctl<lnta-Onanta). Nell'ermenl'utica, come si sa , scomparl' anche la diftidcnza che si rrova ancora in llahetmas, e che è una adorni;ma, per la comunicazione e per il suo costante rischio di di-storsione c dt manipolazione. Il r.nto e che l'enne-ncut i ca non si lascia più dominare dall'ideale Jdla trasparenza, giacchl: non crcdl' più, come invece crede ancora llabermas, alla possibilità e necessità di una conoscenza «oggettiva>> in vistu dcll'eman-cip<vtonl'. Mentre I labennas è, attraverso Ador-no, l'en:de dell'ideale (ancora nggetttvistico, anco· ra metafisica) Ji au totraspa renza hcgeliano l'

marxiano, l'ermeneutica i:.· inVl'ce 1\:rcdc di Nictt.-sche: per essa, non si tratta di emanuparsi dalle imerptl'lazioni, ma dt L·mancipan: le interprcrazio· ni dal dominio c dalle pretese di una verita «\'cr,t)>, la quale richiederebbe di affidarsi a scienziuti. gc · rarchie rdig10sc., comitati centntli politici o ad nl· tre categorie di intelligenze «non Jistortc», con nn ti i 1 ischi che questo comporta pcr la libcrtù. Il mondo della comunìcnzionl mcdiatica può appa rirc pcrcio, e di fano e appttrsn, ai teorici dell't·r mem·ut ic:a, come il mondo della lihertà dd l c in· rcrprctazioni. Anchl' la conn:rsazionc che, do il noto slogan di Richard Rorty, bisogna chl" «proseg ua>>, difficilmente si potrebbe disringuctT dalla Babele Ji messaggi che i media c0ntinua-menre ci inviano ...

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Ma forse si deve guarùare a questa Babele con occhi che, se anche hanno messo da parte le prete se di assolutezza cli stampo lwgdiano, non voglio-no rinunciare però all'ereùita Ji wù1ltra filosofia che pure è profonùamente legata al nome di Nictzschc e alla tradizione ermeneutica, quella dell'csistemdalismo. Se, per esempio, vogliamo cercare un criterio che distingua l'idea della con-versazione Ji Rorty daJla pura c semplice chiac-chiera della pubblicità telc\'isiva, do\'remo proba-bilmente riconoscere che per lui è essenziale che ciò che si propone nella conversazione sia una «ri-descrizione» originale del mondo, caratterizzata da qualcosa di simile a cio che gli esisLcnzialisti hanno chiamato autenticita. Su un criterio del ge-nere, con tutta la vaghezza che <::sso comporta, an-eh<:: un classico dell'ermeneutica come Gadamer sarebbe d'accordo: e vero che nel dialogo con l'al-tro tutto ciò che egli dice vH preso sul serio, e non <<ridotto» o «smascherato» da un preteso punto Ji vista piLJ vero, eccetera, (come in fondo si finisce per dover pensare in una prospettiva ha-bcrmasiana); Luttavia ancht: rt:r GaJamer si può distinguere tra un dialogo autentico c un dialogo che non è (come, secondo lui, lo stesso dialo-go psicoanalitico, dove quel che il paziente, o ann-lizzante, dice è ricevuto Jal tcrapeuta solo come sintomo ... ). Sia in Gadamer sia in Rorty, ciò che caratterizza il dialogo e la conversazione come au-tentici non è la capacità di dire una verità oggetti-vamente adeguata, non distorta, ma l'attcggiamen-

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w degli interlocutori: che propongono interpret:t zioni o «ridescrizionÌ>> originali, proprie r eigcn c clgentlicb, secondo un nesso etimologico che h;t molto JX'so, come si sa, in Sem und 'lctl c in gene-re nella filosofia .. ). Ma, come mo ,..,t'"'

stra appunto la sorte che la nozione Ji autcnticita ha nelle opere del «secondo I leideggcr» dove di autenticità non si parla pitt, c tutta la fami-glia di 1\:nnini che hanno &t fare con il «proprio», lo eigp1, :si raccoglie intorno alla nozione di Erei-J!.IIIJ, evcmo, accudimento- 'il: m hm che l'clemenw nierzschiano che vive nell'ermeneutica O'idt.:a di una liberazione delle interpretazioni. c non di una liheraziotu.: d,, cs'\e .. ) si rihl'lli contro questa ridu zionc dell'intcrpretatione all'autenticita e al pro prio. L questo, probabilmente, uno Jci sensi che ha per l'ermeneutica l'msistcnza di D<.:rrida sulla dccostru:t.tone, la dispersione, l'ahb,tndono di ogni

del «proprio». Il l atto è che l'ermeneutica. se vuole Ja\'\'cro es-

sere una filosofia del dialogo inteso come momt."n-ro non riducibile a puro srrumcnto, prowtsorit) e in lonc..lo in essenziale, per l;\ scOJ1l'J ta di una veriti't oggettiva (a cui corrisponde l'ttbde monologic·n di un soggetto pedettaml'ntr rrasparentc) non put) che scglllrc fino in fondo la deriva «dcrealizzante» intravista d<1 1'\ietzsche. Solo a quest•l condizione l'crmcncutka si può prescnrare come la filosolia della società della comunicazione gcncralizzllta; c questa è, dd resto, la sua soht possihilitù di argo· mentarsi come teoria in qualche modo «vera». Co-

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me ho cercato di chiarire altrove, dato che la tesi che «non ci sono fatti, solo interpretazioni» è ov-viamente essa stessa una interpretazione (si con-traddirebbe se si presentasse come la descrizione oggettiva di un fatto), la sua sola di ri-vendicare una validità, di farsi preferire ragione-volmente ad altre teorie, consiste nel prescntHrsi come risposta dialogicamente «adeguata» a un ap-pello, come modo di reagire <<a tono» a un evento o a una catena di eventi, che si identificano con lo stesso sviluppo della socit..:ta moderna come so-cietà della comunicazione. Sebbene questa tesi possa qui esser presentata solo in modo molto sommario, propongo di inrendcrla, nel presente contesto, nei termini seguenti: l'ermeneutica non può essere una filosofia metafisica che afferma la struttura «eternamente» interpretativa dell'essere e deUa realtà; può solo presentarsi come la filoso-fia che cor-risponde alla situazione del mondo del-Ia comunicazione generalizzata. È infatti in questo mondo che diventa ragionevole pensare che «non ci sono fatti, solo interpretazioni». Se in situazioni storiche diverse, in cui la rappresentazione della realtà era monopolio di una o due istituzioni Oa Chiesa, l'Impero; nella modernità: la scienza speri-mentale ... ), si poteva c si doveva essere «realisti», oggi la sempre piu visibile e vertiginosa pluralità delll' agenzie intcrpretative ha portato con sé una consapevolezza acuta e diffusa (non solo presso gli «intellettuali») del carattere intcrprctativo della stessa nozione di realtà e di verità. Che i] mondo

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sia un «gioco di interprcwzioni» e niente di più lo sappiamo pit• o meno cspliciramcntc tutti. È que-sto che qui chiamo den.:alizzazionc. Turto ciò sta-bilisce un.1 specie di profonda solidarietà tra posi-zioni filosofiche come 1\:rmeneurica, ma anche il neopragmatismo e la stessa teoria lkll'agirc comu-nicali\o (almeno entro i limiti chc ho detto) e la società dei mcd1a. Se, come io crl•do, non si può ri nunciarc all'ermcncutic•l e alle nu(we possibilittl che essa apre al pensiero c alla stessa ricerca dd-l'cmandpazionc (il numo C\'CJ1((1 dell'essere a cui pensan1 oscuramente llcideggcr, e prima di lui Nierzschc) bisognerà mantenersi in qualche modo fedeli al mondo mediatico; riconoscendo appunto che l'oltrepassamento della metafisica a cui la filo sofia, dopo lleideggcr, aspir;l, si dù solo nelle nuo ve condizioni di esistenza che sono dalle tccnologit. comunicative.

Ma la svolta di cui bo parlato ;til'inizio non l: qudla d1L' ci ha condoui dalla tk·monizzazione dci media che caratterizzm·a la tl·oria critica fran-cofonc.:se all'otrimismo mcdiatico in base al quale si wiluppa la koiné ermcm·utica lkgli anni St:ttan ta ()t tanta c posizioni p ili o meno connl'ssc, come il nL·opragmatismo di Rort} o IKrsino. per certi aspc:tti. le pnsi:t.ioni di I lahcrmas. La S\'(.'lta è quel-la che., almeno mi pare sta maturando oggi sotto i nostri orchi, l'che Ìll\'l'll' i:-;pirata dall'esi-genza di trovare comunque un limite alla dcrcaliz-:t.l\Zinne.

Ciò che chiamiamo Jcrcalizzazione, e di cui ccr-

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chiamo i limiti è quell'insieme di fenomeni che si chiama anche «esretizznzione». L'cstetizzazione generale dell'esistenza- dalla pubblicità alla pre-valenza dello status symbol sull'uso, all'informa-zione «confe.donata» eccetera- è solo il punto di arrivo eli un processo, cht: coincide con la moder-nità stessa, nel quale proprio ciò che e accaduto nell'ambito dcll'esperieDza estetica ha anticipato, o almeno rappresentato, in modi emblematici tra-sformazioni che si sarebbero verificate al livello piu gt.:ncralc della vita sociale. Per parlare di dc-rcalizza:...:ione c dei suoi limiti, dunque, si deve rife-rirsi all'esperienza estetica per due buoni motivi. Primo: è J'arte che, nella modernità, condensa, rappresenta, anticipa, (non solo nei suoi contenuti, ma nel suo stesso modo di essere sociale) le tra-sformazioni che stanno avvenendo o stanno per avvenire nell'insieme della cultura collettiva; se-condo: questa funzione emblematica dell'arte (che si può veder confermata dalla centralità che assu-me la figura dell'artista nella cultura moderna, per

dopo Vasari) si spiega da ultimo con il fatto che le trasformazioni che 111 essa si annuncia-no culminano nella cstetizzazionc e Jercalizzazio-ne che caratterizzano la nostra esistenza tardo-mo-derna o post-moderna.

Per élnalizzarc il senso Jdl'estetizzazionc, biso-gna però ricordare che Adorno ha avuto il torto di non capire che gli aspetti di dissonanza e di disar-monia dell'arre di avanguardia non sono solo, co-me pensava lui, modi di alludere «via negationis»

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alln piena. classica, che. sebbene ir-raggiung ibilc, rimane ai suoi occhi il solo possibile itleall" Jcll'ane. Su questo. hn ragione Benjamin quando tcorizza che lo sht,ck è un dcmento costi -tutivo ddl'esperienza cstl.!tica. almeno nella sola forma che essa può an:rc pl'r noi; c ha ragione l k·idl.!ggl.!r, per il quale l'npcr<\ d'arte è «messa in opera verità» pcrche c portatrice di un con-flitto mai risolto tra «mondo» c «tclTa». L'estctiz-zazione generale dell 'esistenza che camttcrizza le socicti"t industriali avanzate non si riduct.: a stende-re su tlll[a l'esperienza il colore wsa ddk comme-die a lieto fine. come se dereulizzazione rolcsse di -re che la «realtà» è stata sosriwita da un mondo di forme ideali dotate della rotonditit c limpidezza delle opcn: ch1ssiche.

Se dunque Ja che av\'iene nd mondo ddht comunicazione massific.na \'a analiz-zata come cstctizzazione, si dovril tener presente che l'esperienza estetica della wrda modernità h<1 i caratteri dello shock e dd cont1itto. St.: non vodia-mo ritornare alla metafisica oggetti\ istica non po-tremo opporci alla den:alizzazione in nome di un recupcro della realtà perduta (un 'impresa che avrcbhL' tutti i caratteri di nevrosi che Nictzscbe atfl'ibuisce al nichilismo reart ivo: t• di cui si ha un

nei fondamentalismi c fanatismi di \'ari<' tipo chl.! percorrono le nostre societ:t): ma dovre-mo piuttosto cercare di cogliere l'cstetizzazionc nei suoi aspetti di contlino, e riconoscere in essa gli ekmenti Ji actriro cht• costituiscono punti di

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resistenza c possibili criteri di e di giu-dizio. Non c vero che nd mondo delle interpreta· zioni liberare da ogni fondamento realistico, «tut-to va» secondo il motto di Fevcrabend che ncor-da fin ,troppo la canzonetta cui gli animali di Zarathustra, nell'opera d1 Nietzsche. fmintendono e banalizzano la terribile dottrina dell\:tcrno ritor-no. Ma se non «tutto va», perché?

Se torniamo al filo conduttorl dcll'estetizzazto-ne, c ci domandiamo che cosa, in essa, non ci pia-cc e ci suona falso, la risposta su cui credo si do-vrebbe convenire e che essa tende a immobiliuarc l'esperienza estetica nel suo senso classico c «mc-tafisico», in quella compiutezza ideale che ne face-va un mondo di «pura» fantasia, il quale non può sussistere se non come opposto a una «realtà>>. Nella estctizzazionc gencralizztlta del mondo me-diarico sentiamo la dercalizzazione come una per-dita solo perché in esso scompaiono le distinzioni. la dramm<tticita delle scelte, la contrapposizione rra c negazione, la possibilità di im-pegnarsi in un giudizio. Ma questo accade solo perché, in un senso abbastanza compt·cnsibilc, l'e-stcLizzazione di wi si parla tamo non e completa: J'csteticita massificata che copre come un grande velo rosato il mondo ddlc merci, delle informazio-ni addomesticar<:, della «réc.lame come diceva Adomo, è ancora modellata sulla ro-rondita conciliata che contraddistingui.! la bellezza classica nell'estetica di I fegcl. Con la differenza che 1 Icgcl, con qualche buona ragione, vcJeva

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questa quie ta perfezione delln forma come un mo-mento irrimediabilmcnrc «supenlto» deUa vita dello spirito: mcmre 1\:stcricità dd mondo mcdiu -tico la impone come punro d'arri m definiti\ o.

come credo si debba fare, riconosciamo che cio acc<tduto di significativo nclk: tra Ot-to c Novecento(: l'affermazione dd carattere con-flitm.tlc dell'esperienza estetica, perché l'cstetizza-zionc generalizzata del mondo mcdiarico non ac-coglie questa conllittualità, c cominun a modellar-si su una concc:zione «classica» ddl'estcticirà? Per-

in:-ommn, nel cinema e nelle urti pil"1 popohtri. c'è poca avanguardia c trionfa inwcc il lieto fine? Non credo che il trionfo dclliero fine che è scm-pn.: stato l'obiettivo polemico pn.:diletto dci teori-ci dell' nv<mguardia- sia smentito nelle arti di mas-sa di oggi dall'ondata di chc invade gli schermi Jd cinema e della tl'kvisionc. Si rratra pur sempre di spettacoli di ripo <<gastronomico». che lX'I lo pitJ non danno luogo ad alcuna esperienza Javn:ro Clmflittu.ùe ndlo spett:Horl:; anzi proprio i loro tntttl estremi ne dimostntno il carattere di «innocuo» tntrattenimento.

Ciò che sto cercando dt argomcncare c che. nel l'cstetizzazione diffusa, quello che ci colpisce ne gali\'amentc fa sentire il bisogno di un «limite della Jerealizz.tzione» è l'as:-cnza di ogni conflit -tualità; e che questa assenza ha una spiegazione, che complcssi\'amentc possiamo riassumere sono il termine di <<esigenze del mcrc:Ho». la preoccu-pazione di servire al merc<lW (delle merci vere c

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proprie; ma anche, per esempio. del consenso po-litico, nel caso della propaganda), ciò che impedi-sce ai mass media di accogliere in ruttn la sua por-tata, e con la sua conflittualità, l'esperienza esteti-ca come si è di fatto configurata nelle arti dd no-stro secolo. Ma il mercato, con le sue leggi, e una istanza assolutamente realistica. Di conseguenza, il titolo di questo saggio andrebbe anche inteso nel senso seguente: la Jerealizzazione che è resa possi-bile dalle nuove tecnologie della comunicalione incontra un limite in quell'agente «realistico» che e il mercato; l'insoddisfazione che proviamo di fronte al mondo delle immagini dei mass media non manifesta percio, probabilmente, un bisogno dì trovare limiti alla derealizzazione, ma scontento pcr il fatto che questa derealizzazionc non viene lasciata attuarsi liberamente, perché si oppongono ad essa limiti ancora realistici come il mercato e le <<leggi» dell'economia. Quando ci poniamo il pro-blema di trovare dei limili alla derealizzazione, cerchiamo solo un principio per discriminare cio che va e ciò che non va nel mondo dei media; ma questo principio, scopriamo alia fine, può essere solo quello di liberare la Jerealizzazione dai resi-dui ostacoli «realistici» che il mercato le impone. (Uso qui il termine mercato per indicare tutta la sfera dell'economia nella sua pretesa di valere co-mc principio di riferimento alla realta. So bene che anche il mercato, in molti sensi, è una creazione artificiale ... ). Insomma: ciò che non va nd mondo della «irrcalrà>> meJiatica non è la per-

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dita d<..·l riferimento al reo.tlc, ma il fatto che. in es-sa, il reale si fa ancora troppo, e indebitamente, valer<.'. E tutto questo ci diventa evidente. ripeto, se riflettiamo sul perché l'cst<..'tizzazionc prodotta dai nella nostra società sia stata incapace di accettare tllrte le implicazioni conOittuali dell'c-spcricnza estetica così come essa si è delineata nd-lc arti del nostro secolo.

Chi ha familiarità con l'opera di Adorno. a cui ho fatto ripetute allusioni, riconoscerà in que-ste tesi una specie di «adornbmo)> riveduto . .\lolro profondamente ri\'eduro, mi par<..'. Anche qui si pane dalht constatazione del fauo che la disson<tn· za che caratterizza l'arte d'avanguardia non è recc pita dalla cultura di massa. t\nclw qui si considera l'arte di massa come sede di un;l falsa conciliazio m:. l'via non in nome di una concilhtzione più au-tcnrit<l c «vera», che bisognerebbe rivendicare proprio con il silenzio di B<..·ckett o le dissonanze di Schònberg. Adorno resta un pensatore profon-damt:nte «realista» e merc1fisico. Noi ci muo\-iamn nella direzione di una libcmzionc ddiH intcrprct<l zione dalle pretese, che non possono non esser false, della «realtà».

Piu che Adorno, sarebbe qui il caso di evocar J 1erhcrt Marcuse: troppo compll't:tmente diment caro ncgh ultimi anni. dopo la popolarità che <l\'l' \'a goduto nella cultura giovanile degli anni santa. L'ideali.:' di emancipazione di .t\1arcust: - in base a una rilertura molto originale Ji Hcgcl, Marx, c prima ancora, di Schillcr- è molto vicino

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a qudlo che, qui, io di potL'r legare invcCL' all'cn:dit:l di Hcideggcr e di Nictzsche. L'idea di

è affine a qudla di riscano estetico ddl'csbtcnza che Marcusc perseguiva, con la sola diffL·n.:nza che qui, nella nozione di esteticità, si accentua di più il ctuattcn: con-flittuale dell'esperienza estetica. L'emancipazione.: a cui si pensa dal punto di vista «nichilistico» nd quak· mi pongo, è il mondo del conflitto delle in-terpretazioni. e non il mondo conciliato dci «tigli dd finri» dci rivoluzionari californiani dd 1968.

Da Marcu:-.c, comunque, possiamo prendere l'i dca che oggi, il mondo san:hbc tecnologicamente in condiZione eli assicun.11T un 'esistenza caratteriz-zata piu in termini Ji frui;.ione qualitativa che in termini dt produzionc.: quantil.ltlvH; c che se ciò non nvvienc è perché si impone ancora una specie di «repressione aJdJzionalc», una re:-.iduale intru-sione Jcl principio di rcalrà, che. nel senso •lmpÌll

diamo yui a questa espressione, si puo tdenti· beare: con le leggi del mercato.

Si può trarre:, Ja ciù che si è Jetto fin qui, un in sicmc di criteri per giudium:: ciò che va e cio che non va nel mondo estetinato dei mass media? Ri cnnosci.1mo che gran parte dd lavoro è ancora d<l farl'. Ma almeno un principio generale si c chiari-w, credo. Non si tratta di contrapporre all'artifi-ciosità c all'irrealtà del mondo mcdiatico un ri-chiamo di tipo realistico - né nd senso di n.:stau l'étrc la pretesa esperienza <«.Hrcttn» del mondo: né nd sL·nso, piLJ sofisticato ma sostanzialmente idcn·

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tico, di idealizzare una ddla comunica-zionl· in termini «esistenzialistici» {originalità dd messaggio. coinvolgimcnln profondo di chi lo tra-

ccc.), o in termini di trasparenza non di-stort;.t l.1 quale finirebbe pe1 definire solo come «oggettiva». Cio che occorre fare, invece, e assumere la dcrcalizzazione comc unico possibile filo co1H.luuore. c riconoscere che c.: io che le impt:-Jisce di funzionare in su1so da\'vero emancipati\'o è il persistere Ji «limiti» Ji tipo realistico; per

la pre\'alenza Jdl 'economia sull'estericn nei mass media. Se l'cconomi<t. come lf:tlsa) istan-za n.:alistica puo ancora prcv<tlcn.• sull'cstdica, è perché acctde qui un fenomeno analogo a ciò che accade ncll.t ondata di fondamcnt;.tlismi di ogni ti -po che si c scatenata di recente nel mondo: una sorta di reazione di agomfob1a, una nostalgia per il ritorno a orizzonti limitati ma certi. come quelli Jelht famiglia. della comunità locale. dell'etnia, della setta n:ligiosa. :\d caso della comunicazione massificntu. il fondamentalismo si esprime appun-to con le posi:doni rc..:alistichL· che ho indicato so-pra: richi,lmo all':.nncnucita. alb trasparenza. Invece, almeno tbl punto di vista che ho descritto qui, il vero valut:.tti,·o. il «limi-te» critico ddla derealizzazinnc ma del rutto inter-no a essa, è appunto la radicalità con cui essa viene condott:.l alle sue conseguenze. Se c '0 un esito «pn-sith•o>> - cmancip:Hi,•o. lihcr:.mte. desidcrabik -dd processo di derealizzazionc inaugunlto dalla nélscita della società dci mass questo non

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può essere che la liberazione della pluralità delle interpretazioni e l'estetizza;;ione tendenzialmente totale dell'cspcrictua umana dd mondo.

Questo id<.:ale è tutt'altro che una accettazione del mondo com'e. )i ricorderà che abbiamo qui preso le mosse dal disagio che si prova davanti ul fano che, in apparenza, l'ottimismo mcdiatico che è succcduto al rifiuto della società di massa ispira· to alla scuola di Francoforte sembra rinunciare a ogni criterio di giudizio. Ora, il tl'los della «l'Stc tizzazione illimitata» che qui ci sembra di a\·er in-di\'iduato non dà affatto luogo a una posizione passtva o neutrale. Ha un significato emancipati vo, nella cultura di massa costruita c distribuita dai media, cio che procede verso una sempre piu completa riduzione del dominio «realistico» del l'economia. t in fondo il sogno stesso che si dcii neava nell'opera di Marx: non considerare piu le leggi economiche come leggi «naturali>>, costruire una soci<.:tà non più fondata sulla lotta per la so pravvivcnza. t per questo che il nome di Marcusc 'ìembra un riferimento obbligato in conclusione di queste riflessioni. La sola differenza, forse. che ci separa da Marcusc c che il suo ideale emancipati v o era ancora troppo lega Lo a una concezione «classica» dell'esperienza estdica, mirava alla re staurazionc di una specie di soggetto «naturale>>, reso benst poso.;ibilc dalla tecnologia moderna, ma non sostanzialmente modificato da essa. Noi sia-mo prob.tbilmente in condizion<.: di attribuirt: al-l'csretizzazionl' un significato meno «rousseauia-

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no». pil't a\'venturoso c, nello stesso tempo. più conforme alle concrete trasformazioni storichl! nelle.: quali siamo coinvolti.

Ma n.::-;ta anche per noi valida l'intuizione di Marcuse, che si può del resto considerare una ere-ditit di Nictzsche: oggi l'umanità deve innalzarsi al livello delle sue possibilità Lccnologichc. immagi-nare un ideale di uomo che conto e utilizzi fino in fondo queste possihtlità. Che, per noi come per 1\larcuse c per Nictzsche stesso. consistono in una radicale cstctizzazione dell'esistenza. a cui si oppongono resistenze n:siduali, nostalgie realisti-che, bisogni nevrorici di orizzonti t ·tssicunmti e di sciplinanti. Rispetto al sogno di Marcuse, l'atteg giamento che qui si propone è anche più concreta mente <l portata di mano, nd senso che lo stesso mondo delle tecniche oggi rivela lct tendenza all'e stetizzaz10nc Non c'è solo il fatto che ht produzio-ne di merci ormai da un p<tio di secoli deve creare artificialmente i bisogni Ja che Junqul! hanno sempre meno un ancoraggio realistico nella natura um.ma; ma, sopratrutto, oggi molte tccno logie nate in vista di scopi, in gl·nerak, «economi-ci», o di vengono servire, c non solo marginalmente, a scopi «ludici», di soddisfaziom: estetica. [ il caso delle tecniche della realtà \' Ìrtua le, molto spesso in funzione di esigenze mili-tari o paramilitari (addestramento di piloti o di astronauti per esempio). che sempre più massic-ci<tmentc st trasformano in elementi delrindustria del divertimento. Ma molto pil't in gcncrah:. va

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considerato con attenzione jJ fatto che il mondo tardoindustriale sembra poter salvare i suoi stan-dard di vita solo orientandosi verso la produzione di beni «estetici» - capaci di soddisfare bisogni qualitativi, e in generale indotti, non-naturali- in-vece che al mondo della quantità. D'altra parte, anche se questo è un terreno assai difficile e com-plesso, lo sviluppo delJ'economia finanziaria su scala mondiale, l'instaurarsi di un mercato dove ciò che si compra e si vende sono sempre meno merci concrete c sempre più «titoli», nomi./utures kome dice una parola un po' misteriosa che si leg-ge nei bollettini di borsa), sembra indicare una ir-resistibile tendenza della stessa economia a trasfe-rirsi sul piano della immaginazione, liberandosi da ogni legame realistico: si pensi a che effetti disa-strosi potrebbe avere oggi una decisione «realisti-Ca>> delle grandi banche mondiali di chiedere la re-stituzione dei capitali ai loro debitori del terzo mondo; non è un caso che, contro ogni principio realistico, esse continuino a erogare prestiti ai de-bitori perché questi possano pagare anche solo gli interessi sui debiti contratti.

Questi sono soltanto esempi di come si può cer-care di argomentare la ragionevolezza della tesi della estetizzazione illimitata come telos emanci-pativo concretamente perseguibile nella società tardo-moderna. Un telos che appare qui meno astratto e utopico di come appariva in Marcuse. Anche se c'è ancora molto lavoro per farlo diven-tare un effettivo criterio Ji azione, sul piano socia-

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le c politico. La filosofia non può certo adempiere da sola a questo compito; può però aiutare a pre pararne le basi ndla cultunt di oggi. introducendo l'idea che la derc;tlizzazione non è una perdita a cui reagire con la nevrosi di un lutto insupcrabile, ma un evento di cui cogliere tutte le chances di emanctpaztonc.

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Indice

i'\ot,l alla terz,t edizione

Postmodenw: un,t trasparente?

Scil·nzc umane c socktil lk·lla çomunie:IZionc Il miLO ritnl\'ato L'arte dell'oscillazione Dall'uto/'ia all'eterotopia l limiti t dia dcrcaliuazionc

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