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OTTOBRE 2011 I Appunti dagli interventi di Davide Prosperi e Julián Carrón alla Giornata d’inizio anno degli adulti e degli studenti universitari di Cl. Mediolanum Forum, Assago (Milano), 1 ottobre 2011 PAGINA UNO VIVERE SEMPRE INTENSAMENTE IL REALE Edward Hopper, Mattina a Cape Cod, 1950.

VIVERE SEMPRE INTENSAMENTE IL REALE - Comunione e …

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OTTOBRE 2011 I

Appunti dagli interventi di Davide Prosperi e Julián Carrón alla Giornata d’inizio anno

degli adulti e degli studenti universitari di Cl. Mediolanum Forum, Assago (Milano), 1 ottobre 2011

PAGINAUNO

VIVERESEMPRE

INTENSAMENTEIL REALE

Edward Hopper,Mattina a Cape Cod, 1950.

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II OTTOBRE 2011

Appunti dagli interventi di Davide Prosperi e Julián Carrón alla Giornata d’inizio anno degli adulti e degli studenti universitari di Cl.

Mediolanum Forum, Assago (Milano), 1 ottobre 2011

JULIÁN CARRÓNOgni inizio ha dentro sempre un’attesa. Quanto più

riconosciamo qual è la natura della nostra attesa, tan-to più siamo consapevoli che ad essa non possiamo ri-spondere, ultimamente, noi. Per questo l’attesa di unuomo adulto diventa domanda, domanda all’Unico chepuò rispondere veramente alla portata della nostra at-tesa. Perciò, vedendo vibrare in noi questa attesa, al-l’inizio di questo gesto domandiamo lo Spirito, l’Uni-co in grado di rispondere ad essa.

Discendi Santo Spirito

DAVIDE PROSPERIDomandiamoci che significato ha trovarci qui (noi

presenti a Milano e tutti gli altri collegati da tutta Ita-lia e dall’estero), per ricominciare insieme questoanno. La risposta è che oggi più che mai ne abbiamobisogno. Abbiamo bisogno di ri-cordarci le ragioni per cui vale lapena ricominciare, perché siamoimmersi in una grande confusione,sociale, politica, ma soprattutto inuna grande crisi economica e del la-voro, che mette a repentaglio seria-mente la speranza di un popolo. Eallora siamo qui per dirci perché valela pena ricominciare.Il Papa, intervenendo al Parla-

mento tedesco la settimana scorsa,durante il suo viaggio in Germania,ha posto senza mezzi termini laquestione radicale di cosa voglia direoggi stare davanti all’urgenza delbene di un popolo: «Bisogna tornarea spalancare le finestre, dobbiamo vedere di nuovo lavastità del mondo, il cielo e la terra ed imparare ad usa-re tutto questo in modo giusto» (Benedetto XVI, Di-scorso al Parlamento federale, Berlino, 22 settembre 2011).Ma come lo si realizza? Come troviamo l’ingresso nel-la vastità, nell’insieme? Come può la ragione ritrova-re la sua grandezza senza scivolare nell’irrazionale?Il 26 gennaio scorso, presentando Il senso religioso, don

Carrón ha lanciato a tutto il movimento la grande sfi-da di quest’anno: il senso religioso come verifica del-

la fede. Che vuol dire: la fede vissuta come giudizio sul-la realtà è capace di suscitare un’umanità piena, una ra-gione che resiste davanti agli assalti del nostro tempo,dominato, come ha detto il Papa, da una concezione po-sitivista?Questa ipotesi è stata subito messa alla prova durante

le elezioni amministrative della primavera scorsa. E pri-ma ancora siamo stati provocati dal volantino dal ti-tolo Le forze che cambiano la storia sono le stesse che cam-biano il cuore dell’uomo. Qualcuno inizialmente lo hainterpretato come se mancasse qualcosa, come se si aves-se paura a schierarsi fino in fondo, accontentandosi del-le ragioni di una posizione ultima. Ma è stato un beneche questo sia accaduto, perché ci ha costretto a do-mandarci non superficialmente quanto le ragioni datefossero decisive per sfidare il mondo. Infatti abbiamodovuto entrare nel merito (e non ci siamo certo ri-sparmiati), abbiamo voluto verificare se le ragioni di

quello che noi difendiamo, che nonè un partito, ma un’esperienza, ap-punto, «ciò che abbiamo di piùcaro», tenevano. Abbiamo dovutorenderci conto se i criteri per guar-dare le cose che nascono dalla no-stra esperienza erano sufficienti aporre una posizione originale da-vanti a tutti, per poter vivere in-nanzitutto pienamente noi quellacircostanza. Oppure se, al contrario,era necessario aggiungere altro, uncriterio diverso, una strategia diversa.Ma se avessimo aggiunto un altrocriterio (un criterio, diciamo, «po-litico», o comunque «più politi-co»), ad un certo punto avremmo

dovuto scegliere tra l’uno e l’altro, perché, prima o dopo,un criterio deve pur prevalere. Allora la questione è: l’esperienza cristiana può es-

sere sufficiente a determinare una posizione e un giu-dizio integrale sulla realtà oppure no? Ecco, noi abbiamoscelto di assumerci questo rischio. E l’esito lo abbiamovisto al Meeting, dove l’irriducibilità della nostra po-sizione sulla politica, così come su tutto il resto, è sta-ta evidente per chiunque. Dopo il Meeting, anche i gior-nali laici, pur non capendo fino in fondo da dove vie-

La fede vissuta comegiudizio sulla realtà è capace di suscitareun’umanità piena, una ragione

che resiste davanti agli assalti

del nostro tempo,dominato, come ha detto il Papa in Germania, da una concezionepositivista?

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ne questa posizione, hanno dovuto ammettere, comeha fatto Michele Smargiassi su la Repubblica del 26 ago-sto: «Forse bisogna accantonare definitivamente la do-manda-tormentone di ogni anno “con chi sta Cl?”. Cl,da sempre, sta con Cl» («“Noi, il popolo di Dio”», la Re-pubblica, 26 agosto 2011, p. 37). E noi gliene siamo gra-ti. Questa irriducibilità non è strategica, ma nasce daun giudizio su quello che noi siamo, ed è questo che cirende liberi, liberi e quindi anche autorevoli. Paolo Fran-chi, editorialista del Corriere della Sera, ha scritto su il-sussidiario.netdel 29 agosto: «Il Meeting ha una lunga,e ormai consolidata, tradizione di apertura, la certez-za di sé (...). In una stagione che sembra segnata da unaguerra di tutti contro tutti tanto feroce quanto im-produttiva, al centro del Meeting di Rimini c’è stata laricerca delle cose che si possono e si debbono fare in-sieme senza che nessuno debba mettere a rischio la pro-pria anima, anzi, cercando di fare in modo che ciascuno

della propria storia e della propria cultura possa rin-tracciare e far pesare la parte migliore, meno caduca,più viva» («Io, relativista, vi spiego perché ho sbaglia-to a non andare a Rimini», ilsussidiario.net, 29 agosto2011). E questo non lo diciamo noi.Quest’anno il Meeting ha segnato un passo nuovo.

Nella situazione di totale incertezza in cui tutti, vera-mente tutti, si lamentano e basta (non si sente in giroun solo giudizio nuovo di speranza), molti si aspetta-vano di trovare al Meeting la stessa confusione, la stes-sa incertezza del mondo, guardando magari con la codadell’occhio a quale potere ci saremmo aggrappati. Per-ché questa è l’unica risposta che ci si può aspettare aldi fuori di una concezione come quella che stiamo de-scrivendo. Invece coloro che si aspettavano questo sonorimasti spiazzati, perché hanno visto un giudizio diverso,un’esperienza di certezza che non è determinata dallecircostanze, positive o negative che siano, ma è frut-»

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Ufficio di notte, 1940.

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to di una posizione originale rispetto alla realtà. Siè visto in tante occasioni: una nuova idea di ecumeni-smo, in cui un’amicizia misteriosa con gente di ogni cre-do è nata dal riconoscimento che l’esperienza che si èvista (non dimentichiamoci che nell’ottobre 2010 si èsvolto per la prima volta il Meeting Cairo) è un pun-to educativo per tutti: il rettore dell’università egizia-na Al-Azar, per esempio, ha chiesto a Savorana se puòmandare in Italia alcuni suoi studenti universitari perconoscere l’esperienza da cui nasce il Meeting. I filo-sofi Costantino Esposito e Fabrice Hadjadj hanno mo-strato come l’esperienza cristiana risponde al drammadel pensiero moderno. E ancora, pensiamo all’incon-tro su «L’Italia unita, storia di un popolo in cammino»,con Giuliano Amato, Marta Cartabia e Maria Bocci. Op-pure, ancora, consideriamo la reazione di Sergio Mar-chionne, che quest’anno è tornatoal Meeting due volte e ha detto allatelevisione: «Mi interessa la qualitàdella gente che è qua. Questa è gen-te vera, che fa. È la semplicità del fare.In un Paese che parla tanto, questaè gente che fa. È un bel posto in cuivenire» (Intervista al TgMeeting, 24agosto 2011). Li abbiamo visti tut-ti questi giovani, ai parcheggi sottoil sole, alle cucine, alle mostre, allamostra sui 150 anni della sussidia-rietà: ragazzi che hanno aspettativeper il futuro, che vedono il mondoin cui sono, eppure hanno unagran voglia di costruire, perché c’èun’esperienza viva che è più positi-va di tutta la negatività che sentono intorno. E noi dob-biamo guardare lì. Questo in fondo è anche l’augurioche ci ha fatto il presidente Napolitano quando, inau-gurando il Meeting, ha detto: «Portate, nel tempo del-l’incertezza, il vostro anelito di certezza». Il nostro com-pito non è che tutti la pensino come noi, ma che que-sto anelito di certezza diventi contagioso.Recentemente, reagendo a questi fatti, Carrón ci ha

detto: «Quando queste cose sono presenza e suscitanocuriosità? Quando fanno emergere la presenza nel rea-le di una realtà inspiegabile: il Mistero. Noi diventia-mo interessanti quando nella realtà emerge un’ecce-denza, che è quello che attira veramente». Il Misterocome realtà presente, pur senza essere misurabile, anzi,proprio per questa eccedenza rispetto alla nostra mi-sura, compie, ci compie, rende compiuto il rapportodella ragione con la realtà.

Permettetemi di raccontare un fatto che mi è acca-duto questa estate e che mi ha chiarito quello che stia-mo dicendo. Durante una gita in montagna, c’era unpunto molto esposto, la cresta era franata ed era rimastoaperto un buco di poco più di mezzo metro che davasul vuoto. Lungo il sentiero c’erano davanti un adul-to con due ragazzini; a un certo punto, l’adulto è pas-sato ed è passato anche il primo ragazzino, mentre ilsecondo è rimasto bloccato. Inizialmente ho interpre-tato che fosse per una questione psicologica, un’insi-curezza che il primo, magari più spavaldo, non aveva.Ma poi ho scoperto che il primo era il figlio dell’adul-to che era passato, mentre l’altro era un amico. E lì misi è chiarita la questione. Per il secondo la realtà era soloquel buco che dava sul vuoto, era solo «il problema»che doveva superare e non sapeva se ne avrebbe avu-

to le forze. Perciò era rimasto bloc-cato. Mentre per il primo la realtà erail buco e il padre, il padre che era lìcon lui e che era passato, era già pas-sato, tutte e due le cose insieme. C’èun affetto, c’è una Presenza chedomina la realtà: se la ragione nonriconosce questa Presenza dentro larealtà, la realtà è ridotta e la ragio-ne è bloccata.Per cui una ragione libera, capa-

ce di stare davanti al reale, è una ra-gione affettiva. Dove pesca questacertezza che tutti abbiamo visto a Ri-mini, tanto che lo ha riconosciutoanche chi è lontano dalla nostraesperienza? Evidentemente non si

tratta di una sicurezza di sé, come un’autosufficien-za in cui crediamo di potere vivere. È proprio il con-trario: la certezza è un legame affettivo con la verità,e questo, solo questo, può renderci liberi da qualsia-si potere.Allora, se quello di cui abbiamo più bisogno per vi-

vere (al pari dell’aria che respiriamo) è una ragione ca-pace di riconoscere il reale in tutta la sua profondità,ti chiediamo: dove nasce e come si realizza una ragio-ne così?

JULIÁN CARRÓN1. «FISSARE COME PRESENZA LE COSE PRESENTI»Una ragione capace di riconoscere il reale in tutta la

sua profondità nasce e si realizza nell’avvenimento cri-stiano. È in forza dell’avvenimento cristiano che la ra-gione compie la sua natura di apertura davanti allo sve-

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Una ragione capace di riconoscere il reale in tutta la sua profonditànasce e si realizzanell’avvenimento cristiano. È in forza dell’avvenimento

cristiano che la ragionecompie la sua natura di apertura davanti allo svelarsi stesso di Dio

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larsi stesso di Dio. Si capisce perché don Giussani diceche «il problema dell’intelligenza è tutto dentro»l’episodio di Giovanni e Andrea (L. Giussani, Si può vi-vere così?, Rizzoli, Milano 2007, p. 273). Per questo mo-tivo il 26 gennaio scorso (in occasione della presenta-zione de Il senso religioso) abbiamo iniziato ricordan-do che «il cuore della nostra proposta è [...] l’annun-cio di un avvenimento accaduto, che sorprende gli uo-mini allo stesso modo in cui, duemila anni fa, l’annunciodegli angeli a Betlemme sorprese dei poveri pastori. Unavvenimento che accade, prima di ogni considerazio-ne sull’uomo religioso o non religioso» (L. Giussani,Un avvenimento di vita, cioè una storia, Edit-Il Saba-to, Roma/Milano 1993, p. 38). E da che cosa si vede cheesso è entrato nella nostra vita? Dal fatto che «questoavvenimento - dice don Giussani - resuscita o poten-zia il senso elementare didipendenza e il nucleo dievidenze originarie cui dia-mo il nome di “senso reli-gioso”» (Ivi).Questo è il motivo per

cui l’avvenimento cristianorende l’uomo uomo, cioèpiù in grado di vivere se-condo le sue evidenze ori-ginali, più in grado di es-sere colpito dal reale, di vi-vere la realtà secondo la suaverità, perché capace diusare la ragione secondo lasua vera natura di apertu-ra alla totalità della realtà.Solo una «ragione aperta al linguaggio dell’essere» (Be-nedetto XVI, Discorso al Parlamento federale, Berlino,22 settembre 2011), come ha appena detto il Papa inGermania, può raggiungere il reale, senza rimanere pri-gioniera delle interpretazioni che aggiungono solo in-certezza a incertezza, come vediamo oggi a tutti i livelli.Per questo noi, che partecipiamo a questo avve-

nimento nella comunità cristiana, dovremmo sor-prendere nella nostra esperienza che siamo più «vul-nerabili» di fronte all’essere delle cose, più in gra-do di essere colpiti, di stupirci, perché è nel rapportocol reale, davanti alla moglie o ai figli, ai colleghi oalle circostanze, al sole o alle stelle, che noi faccia-mo la verifica della fede. Se è vero che ogni uomoè colpito di fronte al reale, ciascuno di noi dovreb-be essere più facilitato in questo dal fatto di esserestato risvegliato dall’incontro cristiano, così che la

realtà ci parli di più, ci sorprenda di più.Ma tutti noi sappiamo quanto spesso non è così. An-

cora una volta don Giussani ci viene in aiuto per iden-tificare dov’è la questione. Rivolgendosi ai preti delloStudium Christi, nel 1995, diceva: «La radice della que-stione è il fattore costitutivo di ciò che c’è, e la parolapiù importante per indicare il fattore più importantedi quel che c’è è la parola presenza. Ma noi non siamoabituati a guardare come presenza una foglia presen-te, un fiore presente, una persona presente, non siamoabituati a fissare come presenza le cose presenti. Sia-mo approssimativi in questo» (Milano, 1 febbraio 1995).E lo dice a noi, a noi che abbiamo già incontrato Cri-sto e che abbiamo avuto il nostro io risvegliato da que-sto incontro. Perciò tutti noi possiamo fare subito laverifica e giudicare fino a che punto Giussani ha ragione:

basta che ciascuno osser-vi che cosa è successo oggi,se si è sorpreso almeno unistante della presenza del-le cose presenti.Non rendersi conto del-

le cose presenti come pre-senza non vuol dire ne-garle. Intendiamoci, pos-siamo accettarle e ricono-scerle - insiste ancora donGiussani -, e tuttavia dar-le per scontate. Ha perfet-tamente ragione: «Noi nonsiamo abituati a fissarecome presenza le cose pre-senti». Dalla realtà, al ma-

rito o alla moglie, fino a noi stessi.Che cosa deve avere visto in noi don Giussani, anni

fa, osservando la nostra reazione alla sua lettera alla Fra-ternità (del 23 giugno 2003), dedicata al tema dell’Essere,per arrivare a dire: «Io ho dovuto scoprire in questi gior-ni che l’Essere non è vibrante in nessuno!»? Benedet-to XVI ha identificato la conseguenza di questa posi-zione: «La maggior parte della gente, anche dei cristiani,oggi dà per scontato Dio» (Benedetto XVI, Incontro coni rappresentanti del Consiglio della Chiesa evangelica inGermania, Erfurt, 23 settembre 2011).Nella sua semplicità, questa lettera di un giovane uni-

versitario di Roma esprime bene la questione:«Nel novembre dello scorso anno, ho avuto un in-

cidente che mi ha costretto fermo a letto per più di tremesi. È stata una grande fatica. Non mi potevo muo-vere, ero impossibilitato a qualsiasi attività, qualsiasi,»

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Chop Suey, 1929.

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non potevo nemmeno studiare a causa degli anti-dolorifici che prendevo, che mi impedivano qualsiasiattività che richiedesse un minimo di concentrazione.Tre mesi a letto, fermo, immobile. Ricordo però che unpaio di mesi dopo aver ricominciato a camminare, guar-dando delle foto di me a letto con degli amici intor-no, andai da mia madre e le dissi quasi d’istinto: “Guar-da che bella foto! Comunque, è stato proprio un belperiodo!”. Riguardando indietro posso dire che, nel-l’immensa fatica dello stare fermo a letto, in tutta lasmania di voler presto rialzarmi in piedi, c’era qual-cosa che non mi rendeva infelice; anzi, ero ultimamentelieto nella fatica.Per due motivi. Il primo è che in tutto il dolore sono

stato sempre sostenuto, in un modo libero e gratuito:dalle facce degli amici che instancabilmente si dedica-vano a me, come dai mieigenitori, che mi dicevanosempre di offrire la fatica eil dolore. Mi accorgevo diuna totale dedizione a me:totale e dettagliata. Il se-condo motivo è che le cose,anche le più piccole, nonerano più scontate: erosorpreso per un piatto dipasta un po’ più elaborato,per la compagnia che ve-devo intorno a me, per ilfatto che le mie sorelle pri-ma di addormentarsi mimettevano vicino al letto lapadella per la notte, senzache lo chiedessi. Fino ad arrivare, una mattina, men-tre un’ambulanza mi portava in ospedale per alcune vi-site, a stupirmi di rivedere il cielo: io, che ci fosse il cie-lo, lo sapevo già, ma finalmente mi ero accorto che c’era,che era lì. [Quando uno se ne rende conto per una vol-ta nella vita, capisce quante volte per lui il cielo non èstato una cosa presente] Non facevo niente, non pote-vo fare niente, eppure, in tutto il dolore, in tutta la sma-nia, non ero infelice. Tutto era preso per il valore cheaveva, niente era più scontato. E il riconoscere il valo-re delle cose mi rendeva lieto.Ora dopo quattro mesi dall’aver ricominciato a

camminare, mi accorgo che quella tensione verso le coseè già scemata: il piatto di pasta più elaborato è ridiventatoun piatto di pasta normale, le cose sono ancora unavolta sotto l’ombra della mia misura e del mio com-piacimento... Qual è la strada che può restituirmi quel-

la condizione, che può farmi vivere sempre quel-l’esperienza?». Tutti possiamo riconoscerci in questa situazione: se

non vediamo continuamente l’essere vibrare in noi,tutto torna di nuovo piatto e diventa sempre più ur-gente in ciascuno di noi la domanda: qual è la stra-da che può restituirmi quella condizione che rendepossibile non dare per scontato tutto, ma sorprendermidi tutto?Per rispondere a questa domanda occorre capire per-

ché ci capita questo. Perché, dopo un’esperienzacome quella descritta, ritorniamo a dare tutto per scon-tato e non ci stupiamo più di niente? Don Giussaniidentifica le ragioni in Ciò che abbiamo di più caro, illibro dell’Equipe degli universitari pubblicato que-st’anno:

1) Questo accade - diceGiussani - per colpa diuna ragione debole, cioè diun uso ridotto della ra-gione che, non essendo ingrado di cogliere la pre-senza delle cose presenti, ciporta a dare tutto perscontato. È una ragionefragile il motivo per cui ilreale non ha presa su dinoi, non ci colpisce e tut-to diventa di nuovo grigio.Questo uso della ragioneporta a una conseguenzainevitabile.2) Una divisione fra il ri-

conoscimento e l’affettività, tra il riconoscimento e l’es-sere attaccati al riconoscimento: l’io resta diviso tra ilriconoscimento (che rimane astratto) e l’affettività (chefluttua). Non essendo la ragione in grado di raggiun-gere la realtà, l’affettività non s’incolla, rimane fluttuantee niente ci prende.Don Giussani ci offre anche un esempio di questo:

«All’inizio dell’evo moderno: Petrarca ammettevatutto il dottrinale cristiano, eccome, lo sentiva anchemeglio di noi, ma la sua sensibilità o affettività fluttuavaautonoma» (Ciò che abbiamo di più caro. 1988-1989,Bur, Milano 2011, p. 156). Cioè, il solo affermare il dot-trinale cristiano come discorso non è in grado di tra-scinare l’affettività, generando quella unità di ragio-ne e affezione senza della quale non si conosce, e l’iorimane diviso. Possiamo affermare il dottrinale cristiano(così come dichiarare che c’è il cielo) come un a prio-

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Camera a New York, 1932.

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ri astratto: ma non c’è vibrazione, non c’è attaccamento,non c’è qualcosa al di fuori di noi che ci salva da noistessi e dalla nostra misura. Questa è «l’anoressia del-l’umano» che è all’origine della confusione, dello smar-rimento, dell’incertezza in cui tante volte ci troviamoa vivere in questi tempi, nei quali ci vediamo fluttua-re, come un sasso che viene travolto dalle opinioni, da-gli stati d’animo, non essendo in grado di attaccarci aqualcosa di reale presente, né di interessarci veramentea qualcosa. Questa anoressia non si risolve aumentandoi discorsi, ma educando la ragione ad aprirsi al «lin-guaggio dell’essere».Che cosa voglia dire questa apertura all’essere lo do-

cumenta bene un episodio della vita di don Giussani,che mi ha sempre colpito. Scrivendo ad Angelo Majo,dice quello che vede in chi gli è amico: «Un po’ di serefa, pensando, ho scoperto che l’uni-co amico mio eri tu». E perché loconsidera amico? Perché «quellavibrazione ineffabile e totale nelmio essere di fronte alle “cose” e alle“persone” non riesco a captarla senon nel tuo modo di reagire» (Let-tere di fede e di amicizia ad AngeloMajo, San Paolo, Cinisello Balsamo-Mi, 2007, p. 103). Tra le tante cosea cui Giussani poteva guardare peridentificare chi gli era amico, qua-le indica? Ancora una volta ci spiaz-za: non una intelligenza particola-re, non una capacità di dominare ilsuo pensiero, non una coerenzaetica da ammirare, ma la «vibrazioneineffabile e totale» davanti all’essere, che lui coglie nelmodo di reagire del suo amico. Allora si capisce per-ché la radice della questione è che noi facciamo fati-ca, non siamo abituati a guardare come presenza unafoglia presente, non siamo abituati a cogliere, a fissa-re come presenza le cose presenti. Non è che uno ne-ghi la presenza delle cose. Semplicemente la dà per scon-tata. Lo si vede dal fatto che non c’è neanche un istan-te di stupore. Non che abbiamo fatto qualcosa di sba-gliato, semplicemente non abbiamo sorpreso vibrarel’essere in noi. Tutti sappiamo a che grado d’insop-portabilità si può arrivare quando la vita diventa cosìpriva di stupore.Si capisce, allora, l’urgenza di abituarsi a fissare come

presenza le cose presenti, in modo tale che possiamovedere vibrare il nostro io, qualsiasi sia la circostanza.E siccome le cose sono comunque presenti, quello che

manca non sono le cose, ma è un io in grado di ren-dersi conto di quel che c’è. Questo ci fa capire fino ache punto il clima razionalistico in cui viviamo inci-de su di noi, molto di più di quanto riusciamo a ren-derci conto. Lo vediamo dalla fatica che facciamo a ri-conoscere la realtà secondo tutta la sua natura. Oggidomina una concezione positivista, secondo le sue nuo-ve traduzioni. Ma come ha ricordato ancora il Papa inGermania, «la visione positivista del mondo (...) nelsuo insieme non è una cultura che corrisponda e siasufficiente all’essere uomini in tutta la sua ampiezza.Dove la ragione positivista si ritiene come la sola cul-tura sufficiente, relegando tutte le altre realtà cultura-li allo stato di sottoculture, essa riduce l’uomo, anzi, mi-naccia la sua umanità» (Benedetto XVI, Discorso al Par-lamento federale, Berlino, 22 settembre 2011).

Per questo don Giussani, nel ca-pitolo secondo de Il senso religioso,identifica con chiarezza il nostrocompito: «Il problema davvero in-teressante per l’uomo non è la logi-ca - gioco affascinante -; non è la di-mostrazione - invitante curiosità -:il problema interessante per l’uomoè aderire alla realtà, rendersi contodella realtà. È dunque una cogenza(qualcosa che costringe), non unacoerenza. Che una madre vogliabene al figlio non costituisce il ter-mine di un procedimento logico: èuna evidenza, o una certezza, unaproposta della realtà la cui esisten-za è cogente ammettere» (L. Gius-

sani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 2010, p. 20). Sol-tanto l’evidenza della realtà può avere quella cogenzache ci costringe a riconoscere come presenza le cose pre-senti.Nessun testo può aiutarci a verificare se la fede ci fa-

cilita il riconoscimento della realtà più del capitolo de-cimo de Il senso religioso, con cui riprendiamo il no-stro percorso di Scuola di comunità, perché quel ca-pitolo è la descrizione di che cosa accade in un uomodi fronte all’imponenza del reale. Consapevole che noisiamo immersi in un’epoca di ideologie (razionalismo,positivismo), che ci porta a usare la ragione in un modoridotto, e quindi a guardare la realtà secondo tale ri-duzione, già dall’inizio don Giussani stabilisce un prin-cipio di metodo per una lotta contro l’ideologia: par-tire dall’esperienza, perché la realtà - ci ha sempre in-segnato - si fa trasparente nell’esperienza. Questo»

OTTOBRE 2011 VII

Non siamo abituati a guardare come presenzauna foglia presente. Non è che uno neghi la presenza delle cose.Semplicemente la dà per scontata. Tutti

sappiamo a che gradod’insopportabilità

si può arrivare quando la vita diventa così priva di stupore

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principio metodologico, che fissa nel primo capi-tolo de Il senso religioso, è decisivo per affrontare il ca-pitolo cruciale di tutto il libro, che è definito da donGiussani con queste parole: «Il capitolo decimo de Ilsenso religioso è la chiave di volta del nostro modo dipensare» (cfr. «Un uomo nuovo», Tracce-LitteraeCommunionis, n. 3, marzo 1999, p. IX).Fin dalle prime battute del capitolo, egli ci invita a

guardare la struttura della nostra originale reazione da-vanti al reale, in modo tale che non vinca in noi già dalprimo contraccolpo la riduzione ideologica, per poi de-scrivere che cosa voglia dire seguire quella provocazionedel reale fino alla sua origine, senza bloccarla a metàstrada. Don Giussani descrive, cioè, in questo capito-lo qual è l’itinerario vero della ragione e dell’affezio-ne di fronte alla realtà, itinerario che deve percorrerechi vuole uscire dalla si-tuazione di scontatezza incui ci troviamo.Perciò comincia con un

interrogativo: se questedomande ultime che co-stituiscono il senso reli-gioso sono la stoffa del-l’umana coscienza, del-l’umana ragione, comefanno a destarsi? «La ri-sposta a tale domanda cicostringe a individuare lastruttura della reazioneche l’uomo ha di fronte allarealtà» (Il senso religioso, op.cit., p. 139). Don Giussanici offre il metodo: «Se l’uomo si accorge dei fattori chelo costituiscono osservando se stesso in azione, per ri-spondere a quella domanda occorre osservare la di-namica umana [nel suo rapporto] nel suo impatto conla realtà, impatto che mette in moto il meccanismo ri-velatore dei fattori» (Ivi).E aggiunge una notazione fondamentale. «Un in-

dividuo che avesse vissuto poco l’impatto con la re-altà [quante volte desideriamo risparmiarlo a noi stes-si, e soprattutto ai figli!], perché, ad esempio, ha avu-to ben poca fatica da compiere, avrà scarso il senso del-la propria coscienza [è l’io che viene meno, è l’io chemanca], percepirà meno l’energia e la vibrazione del-la sua ragione» (Ivi). Infatti, è nel rapporto con la re-altà che noi vediamo crescere il senso della nostra co-scienza, l’energia e la vibrazione della ragione. Se, dun-que, vogliamo risparmiarci l’impatto con la realtà so-

stituendolo con i discorsi o i commenti, la conseguenzainevitabile sarà che noi non vibreremo più di fronteal reale.A ogni frase di questo capitolo ciascuno di noi do-

vrebbe guardare la sua esperienza, qual è la sua reazionedavanti alle cose, per non affrontare tutto il capitolodecimo sostituendo il contraccolpo dell’essere con i suoicommenti al testo, parlando dello stupore senza stu-pirsi (tra parentesi, questo è noiosissimo, oltre che inu-tile!). Il primo punto che don Giussani affronta nel ca-pitolo è proprio questo: lo stupore della presenza.

2. LO STUPORE DELLA “PRESENZA”Per aiutarci a riconoscere le cose presenti come pre-

senza qual è la prima mossa geniale di don Giussani?Rompere l’ovvietà con cui noi guardiamo il reale, la no-

stra scontatezza. Come ab-biamo visto, noi di solitoguardiamo il reale comeovvio. Per strapparci que-sta ovvietà Giussani ci in-vita a compiere uno sfor-zo di immaginazione:«Supponete di nascere, diuscire dal ventre di vostramadre all’età che avete inquesto momento, nel sen-so di sviluppo e di co-scienza così come vi è pos-sibile averli adesso. Qualesarebbe il primo, l’assolu-tamente primo sentimen-to, cioè il primo fattore del-

la reazione di fronte al reale?» (Ivi). Ciascuno deve cer-care d’immedesimarsi con l’esperienza che don Gius-sani ci suggerisce, provando a seguirlo. E la forma piùsemplice è ritrovare nella propria esperienza un fattoche lo documenti. Come quello che mi ha racconta-to il mio amico Alexandre, un medico del Brasile.Questa estate, con un gruppo di amici universitari

di lingua portoghese (brasiliani, portoghesi, mozam-bicani) è andato a fare una passeggiata al Colle San Car-lo, a La Thuile. Mentre camminava stava pensando ache cosa avrebbe detto all’arrivo. Pensava tra sé: «Faròloro guardare il panorama, canteremo qualche canto,eccetera». Ma appena arrivati, avendo davanti il Mon-te Bianco, che tanti vedevano per la prima volta, sonorimasti tutti in silenzio. Mentre erano lì, tutti zitti, han-no sentito arrivare un secondo gruppo che era rima-sto indietro. Le persone camminavano parlando ad alta

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VIII OTTOBRE 2011

Il mare a Ogunquit, 1914.

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voce. E il nostro medico ha cominciato a pensare checosa avrebbe detto al loro arrivo: «Li farò stare zitti».Ma mentre pensava queste cose, sono arrivati e l’im-ponenza della presenza del Monte Bianco è stata cosìcogente che anche questi sono rimasti in silenzio. Que-sto piccolo fatto dice quanto l’immagine usata da donGiussani dell’aprire gli occhi con la coscienza che ab-biamo ora non sia affatto una forzatura.«Se io spalancassi per la prima volta gli occhi in que-

sto istante uscendo dal seno di mia madre, io sarei do-minato dalla meraviglia e dallo stupore delle cose comedi una “presenza”. Sarei investito dal contraccolpo stu-pefatto di una presenza che viene espressa nel voca-bolario corrente della parola “cosa”» (Il senso religio-so, op. cit., pp. 139-140). È lo stesso invito che ci rivolgeil Papa: «Come può la ragione ritrovare la sua grandezzasenza scivolare nell’irrazionale?Come può la natura apparire nuo-vamente nella sua vera profondità,nelle sue esigenze e con le sue in-dicazioni? (...) Bisogna tornare aspalancare le finestre, dobbiamo ve-dere di nuovo la vastità del mondo,il cielo e la terra» (Benedetto XVI,Discorso al Parlamento federale,Berlino, 22 settembre 2011).Per i nostri amici che erano in gita

così come per noi queste cose nonsono ovvie, e si vede dallo stuporeche generano. Basta leggere gli ag-gettivi con cui don Giussani de-scrive questo contraccolpo: domi-nato, investito dal contraccolpo“stupefatto”, riempito di questa meraviglia, di questostupore, che nessuna situazione di questo mondo, nes-suna crisi, può evitare: niente può impedire il con-traccolpo dell’essere né di riempirci di questa pienezza,di fare vibrare tutto il nostro essere e di ripartire.«L’essere: non come entità astratta, ma come presenza,

[una] presenza che non faccio io, che trovo, una pre-senza che mi si impone» (Il senso religioso, op. cit., p.140). E allora riesco a fissare come presenza le cose pre-senti. E questo porta nella vita di ciascuno il risvegliodel proprio io umano. Noi sappiamo bene quale gra-do di intensità acquista il nostro io quando accade que-sto, quale vibrazione si sperimenta.«Lo stupore, la meraviglia di questa realtà che mi si

impone, di questa presenza che mi investe, è all’origi-ne del risveglio dell’umana coscienza» (Ivi). Scopro inme una intensità sconosciuta, per «questa originale espe-

rienza dell’“altro”. Il bambino la vive senza accorger-si, perché ancora non del tutto cosciente: ma l’adultoche non la vive e non la percepisce da uomo coscien-te è meno che un bambino, è come atrofizzato» (Ivi).È questa la mancanza dell’io, che è come atrofizzato,come un sasso che non si stupisce della bellezza dellemontagne, che non vibra davanti all’essere delle cose.Capiamo che cosa sarebbe della vita di ciascuno di noise perdessimo questa capacità di stupirci! E quale donoè l’avvenimento cristiano che ci rende più capaci di stu-pirci di tutto. Ha ragione Heschel: «Privi di meraviglia,restiamo sordi al sublime» (A.J. Heschel, Dio alla ricercadell’uomo, Borla, Torino 1969, pp. 273-274). Vale a dire,ci perdiamo il meglio. E nessuna distrazione creata poiartificialmente, come quelle che la società di oggi in-venta, ce lo potrà restituire.

«Perciò il primissimo sentimentodell’uomo è quello d’essere di fron-te a una realtà che non è sua, che c’èindipendentemente da lui e da cuilui dipende». C’è, c’è, c’è! «Tradot-to empiricamente è la percezioneoriginale di un dato» (Il senso reli-gioso, op. cit., p. 140); secondo il suosignificato di participio passato,«dato» implica qualcosa che «dia».Tutto mi è dato, regalato. Riusciamoa immaginare che cosa sarebbe lavita se vivessimo ogni cosa come«dato», come dono, se riconosces-simo così qualsiasi cosa presente e seci facesse vibrare? Qualunque cir-costanza sarebbe diversa.

Un’amica mi scrive:«Ciao, Julián! Ti scrivo dalla camera dell’ospedale in

cui è ricoverata la mia mamma, che ha subito un pic-colo intervento chirurgico. Che miracolo questa gior-nata che è iniziata tutta all’insegna della non sconta-tezza; mi è sembrato di vivere in diretta quello che vie-ne descritto nel decimo capitolo de Il senso religioso.Vedere mia mamma che scendeva in sala operatoria sot-to anestesia me l’ha fatta guardare con una tenerezzagrande: non solo perché è mia mamma, ma perché que-sta mattina la sua presenza mi risvegliava a prenderecoscienza che l’evidenza più grande e profonda che per-cepisco è che io non mi faccio da me, non sto facen-domi da me, non mi dò l’essere, non mi dò la realtà chesono, sono “dato”! Non era scontato che questa mat-tina mia mamma mi fosse regalata e che io mi guar-dassi come un dono!».

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È nel rapporto con la realtàche vediamo crescere il senso della nostra

coscienza, l’energia e lavibrazione della ragione.Se, dunque, vogliamo

risparmiarci l’impatto conla realtà sostituendolo con i discorsi o i commenti, la conseguenza inevitabilesarà che noi non vibreremopiù di fronte al reale

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Ma qual è l’ostacolo decisivo a questo modo diguardare? Che, come abbiamo visto, noi diamo perscontato questo dato, non percepiamo la realtàcome dato. Si parte scavalcando l’esserci, il darsi, l’esi-stere delle cose. E qual è il segno più evidente che noiscavalchiamo l’esserci delle cose? La mancanza di stu-pore. Purtroppo questa è la posizione più comune,più radicata in noi di fronte alla realtà. «Non siamoabituati - questa è la portata di ciò che dice Giussa-ni - a guardare come presenza le cose presenti». Perquesto è così raro vedere vibrare l’essere in qualcu-no! E quando lo vediamo vibrare in noi è uno stu-pore, tanto è raro che accada.A questo punto, possiamo capire meglio quanto sia

decisivo per ciascuno di noi imparare, affinché diventiabituale, quell’atteggiamento suggerito da don Gius-sani: «La stessa parola “dato” è vi-brante di una attività, davanti allaquale sono passivo: ed è una passi-vità che costituisce l’originaria at-tività mia, quella del ricevere, delconstatare, del riconoscere» (Il sen-so religioso, op. cit., pp. 140-141). Laprima attività, amici, è questa pas-sività, senza della quale non mirendo conto del dato, della realtàcome dato, come un dono che miviene fatto. Se non vogliamo perdereil reale in ogni particolare, deve di-ventare familiare in noi questa in-dicazione di don Giussani: la primaattività è questa passività. Ma dob-biamo essere attenti al tipo di pas-sività di cui stiamo parlando per non trarre la con-clusione, come al solito, che non occorre fare niente.La passività di cui si parla è un «ricevere, constatare,riconoscere» la realtà come data. Cioè, proprio il con-trario del darla per scontata. E da cosa possiamo ri-conoscere che stiamo facendo la stessa esperienza dicui parla Giussani e non stiamo soltanto ripetendo unoslogan? Dallo stupore, dal risveglio dell’umano in noi.La presenza è così cogente che facilita l’accorgersi di

essa, perché «“l’evidenza è una presenza inesorabile!”.L’accorgersi di una inesorabile presenza!» (Il senso re-ligioso, op. cit., p. 141). Guardate che espressione sin-tetica: l’accorgersi di una inesorabile presenza. Que-sto è trattare le cose presenti come presenza: l’accor-gersi di una inesorabile presenza. Questo accorgersi nonpotrà mai essere ridotto a «una registrazione a fred-do»: è una «meraviglia gravida di attrattiva», è uno «stu-

pore che desta la domanda ultima dentro di noi» (Ivi);la domanda religiosa.Infatti, la religiosità nasce da questa attrattiva. Il pri-

mo sentimento dell’uomo è questa attrattiva; lapaura - che si indica tante volte come origine dellareligiosità - non subentra che in un secondo momento.«La religiosità è innanzitutto l’affermarsi e lo svi-lupparsi dell’attrattiva [dell’essere. Questo è quello checi occorre, lo svilupparsi dell’attrattiva dell’essere]. C’èuna evidenza prima e uno stupore del quale è cari-co l’atteggiamento del vero ricercatore: la meravigliadella presenza mi attira, ecco come scatta in me la ri-cerca» (Ivi).Che semplicità occorre per lasciarsi attirare da

quella presenza, che, per la vibrazione che provoca inme, diviene così interessante da fare scattare la ricer-

ca! Se questa ricerca non si ferma,non si blocca, per spiegare quellapresenza, quel dato, dobbiamo am-mettere qualcosa d’altro. Ma spes-so noi blocchiamo questa ricerca, elo si vede dalle innumerevoli voltein cui sentiamo dire: perché davantialla realtà dobbiamo tirare in balloil Mistero, il Tu, Dio? Si domandaquesto come se il rimando a un al-tro fattore oltre e dentro ciò che sivede, non fuori, ma oltre e dentro ciòche si vede, non fosse contenuto inciò che si vede, nell’esperienza di ciòche si vede, nel dato, ma fosse co-struito da noi. Certamente questo ri-mando è colto dal soggetto, ma

appartiene all’oggetto, alla cosa, all’esperienza della cosa.Per questo uno che, partendo da quello che c’è, come

vero ricercatore non blocca il rimando inscritto nel-l’esperienza delle cose e non blocca la sua curiosità, ilsuo desiderio di capire fino in fondo, di spiegare in modoesauriente il dato, non può non riconoscere qualcosad’altro come parte della presenza che c’è. Come descriveil dialogo di Dio con Giobbe: «Dov’eri tu quand’io po-nevo le fondamenta della terra?», vale a dire: sei statotu a generare questa realtà che ti stupisce? «Dillo, se haiintelligenza! Chi ha fissato le sue dimensioni, se lo sai,o chi ha teso su di essa la misura?» (Gb 38,4-5).Tutto ciò che c’è grida la sua dipendenza da un Al-

tro. Perciò non esiste niente di più adeguato, di più ade-rente alla natura dell’uomo che essere posseduto, peruna originale dipendenza. Infatti la natura dell’uomoè quella di essere creato, e la sua ragione si compie nel

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Di fronte all’abissalegratuità del reale vi è come una strana paralisidella ragione. Ma se unonega questo, nega la cosa. È come se dentro le cose ci fosse un invito, non

aggiunto, ma riconosciutodal soggetto.

Per questo la primaoriginale intuizione è lo stupore del dato

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riconoscere quella implicazione ultima che è dentro l’es-sere delle cose. Se uno nega il rimando, se nega l’oltre,nega la cosa, l’esperienza della cosa, la distrugge. Di fron-te all’abissale gratuità del reale vi è come una strana pa-ralisi della ragione, che si blocca. Ma se uno nega que-sto, nega la cosa. È come se dentro le cose ci fosse uninvito, non aggiunto dal soggetto, ma riconosciuto dalsoggetto, perché contenuto del fenomeno stesso dellapresenza. Per questo la prima originale intuizione è lostupore del dato. Vi prego di non darlo per scontato, ri-ducendo di nuovo l’esperienza a pensiero: il pensierodello stupore non è lo stupore, come il pensiero di es-sere innamorato non è essere innamorato. Per questodon Giussani, nel quarto paragrafo del capitolo deci-mo - relativo all’io dipendente -, ci fa capire se veramenteabbiamo fatto esperienza di quello che dice o se abbiamoseguito semplicemente la logica di un discorso senza ne-anche un istante di stupore.

3. L’IO DIPENDENTE

«Quando è risvegliato nel suo essere dalla presenza,dalla attrattiva e dallo stupore, ed è reso grato, lieto, per-ché questa presenza può essere benefica e provviden-ziale, l’uomo prende coscienza di sé come io e riprendelo stupore originale con una profondità che stabiliscela portata, la statura della sua identità» (Il senso reli-gioso, op. cit., p. 146).Il test che io ho accusato il contraccolpo dell’essere

è, primo, che il mio io si è risvegliato. Lo constatiamospesso: riconosciamo che è successo qualcosa a qual-cuno perché l’io di quella persona si è risvegliato («Mache cosa ti è successo?», le domandiamo subito). Se-condo, sono grato e lieto (come l’amico dell’inciden-te). Io so che è avvenuto quel contraccolpo in me per-ché percepisco in me stesso una gratitudine, una leti-zia per questa presenza (posso trovarmi in ospedale,come l’amico della lettera, ma sono grato e lieto per-

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Collina con faro, 1927.

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ché questa presenza c’è). Terzo, questo mi rende con-sapevole di me, fino al punto che, quarto, la profon-dità dello stupore stabilisce la portata della mia iden-tità. Guardate qual è il criterio di misura della nostraidentità! Non sono i titoli universitari o i soldi che gua-dagniamo o il ruolo che ricopriamo, a stabilire la por-tata della nostra identità, ma la profondità dello stu-pore che mi rende consapevole di me. «In questo momento - continua Giussani - io, se sono

attento, cioè se sono maturo, non posso negare chel’evidenza più grande e profonda che percepisco è cheio non mi faccio da me, non sto facendomi da me. Nonmi do l’essere, non mi do la realtà che sono, sono“dato”. È l’attimo adulto della scoperta di me stessocome dipendente da qualcosa d’altro» (Ivi).Ciascuno dovrà chiedersi se per lui che «io non mi

faccio da me» è «l’evidenza piùgrande». Per noi è evidente la bot-tiglia o il bicchiere; ma che «io nonmi faccio da me» non è così evi-dente, e lo si vede dalla domandache spesso ritorna tra di noi: perchédavanti al reale o al mio io devo direTu? Non manca qualche passaggio?Per rispondere a questa doman-

da dobbiamo cercare di seguireGiussani nel suo percorso fino allaprofondità del reale, se vogliamo co-glierne l’origine. «Quanto più ioscendo dentro me stesso, se scendofino in fondo, donde scaturisco?Non da me: da altro. È la percezio-ne di me come un fiotto che nasceda una sorgente. C’è qualcosa d’altro che è più di me,e da cui vengo». E fa un esempio bellissimo: «Se un fiot-to di sorgente potesse pensare, percepirebbe al fondodel suo fresco fiorire una origine che non sa che co-s’è, è altro da sé» (Ivi).«Scendere fino in fondo dentro me stesso» è un in-

vito a un uso vero, non fragile della ragione, l’unico ingrado di vincere la separazione tra riconoscimento eaffezione. La nostra difficoltà a farlo, a seguire don Gius-sani in questo, è segno della nostra mancanza di fa-miliarità con un uso completo, non positivista della ra-gione. La fatica che facciamo per arrivare fino in fon-do ci fa pensare che si tratti d’una operazione menta-le, una complicazione, una sorta di creazione, e che infin dei conti il Tu sia frutto del nostro sforzo. Che scle-rosi dell’io e della ragione! Che mancanza di «io»! Eche mancanza di familiarità con un uso adeguato del-

la ragione! Lo possiamo vedere quando impariamo ma-tematica: per non sbagliare dobbiamo fare tutti i pas-saggi, passo dopo passo. Tutto ci sembra così artificioso!E perché? Per una mancanza di familiarità con un usoadeguato della ragione. Infatti, quando abbiamo im-parato la matematica, tutto diventa agile, veloce e af-fascinante. O ancora, quando uno comincia a suona-re il pianoforte, le mani sembrano ingessate. Ma chedelizia quando l’agilità delle nostre dita permette di go-derci Mozart!Ma noi non abbiamo la pazienza di fare questo la-

voro a cui ci invita costantemente don Giussani. Ci sem-bra complicato, artificioso, appunto. E scambiamo laragione col sentimento, perché sembra più facile, piùimmediato: se lo sento, esiste; se non lo sento, non esi-ste. Questa è la nostra intelligenza “logica”! A questo

punto, ciascuno di noi deve deciderese seguire Giussani - scendendodentro se stesso fino in fondo - nel-l’imparare questo uso della ragio-ne per riconoscere le cose presenticome presenza, o se preferisce farealtro rinunciando a seguirlo. Mapoiché non siamo abituati a farequesto percorso, preferiamo fare al-tro (leggere, ripetere delle frasi), in-vece di impegnarci per imparare ausare la ragione come lui. E quan-te volte soccombiamo alla tenta-zione di scappare! Per questo, poi,rimaniamo confusi, nell’incertezza,travolti come un sasso dalle opi-nioni.

Soltanto chi segue Giussani nel percorso che ci in-dica potrà vedere accadere in sé quella vibrazione checi invade quando entriamo veramente in rapporto conl’Essere; così come vediamo vibrare l’io di ciascuno dinoi davanti al tu della persona amata. Uno può dire:«Tu» con tutta la vibrazione che l’essere della perso-na amata provoca in lui. E che ribellione sentirebbe sequalcuno - a cui manca questa familiarità - volesse ri-durre quella vibrazione a una operazione mentale, auna complicazione! È come vedere la persona amataridotta dallo sguardo freddo di un altro. Ma se noi nonseguiamo Giussani fino a questo punto, tutto diven-terà di nuovo piatto, malgrado tutti i nostri commenti,perché non acquisteremo quella familiarità con un usodella ragione in grado di farci aderire veramente al rea-le e di impedirci di continuare a fluttuare nei nostri sta-ti d’animo.

XII OTTOBRE 2011

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Chi non fugge e prende coscienza di sé fino in fondo,comincia a essere

consapevole che se sta in piedi è perché è

fatto da un Altro. E la suavita inizia ad avere

un punto d’appoggio saldo,certo, per quel legame

della ragione con la realtàfino alla sua origine

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Tutto ha la natura del segno, del fiotto. Il fiotto im-plica la sorgente. Conoscere significa accettare dicompiere il percorso che va dal fiotto alla sorgente. Que-sto è l’uso vero, non fragile, della ragione.Se uno dicesse: «Io» con tutta la consapevolezza di

quello che sta succedendo ora, vedendosi donare l’es-sere - di cui l’incremento dell’essere che il tu della per-sona provoca in lui è soltanto un pallido riflesso -, conche razza di vibrazione dovrebbe dire: «Io sono “tu-che-mi-fai”»! (Ivi) Come ci testimonia don Giussani:quella sorgente che «è più di me stesso», non posso pen-sarla senza tremore e attrattiva. Ma per noi dire: «Tu»è quasi uguale a zero. Capite che cosa ci perdiamo? Losappiamo, non è che non lo sappiamo, ma non bastasaperlo perché accada. È solo un’educazione cherende diversa la vita. Questa vibrazione non è un sen-timentalismo, è «un giu-dizio che trascina tutta lamia sensibilità» (cfr. «Unuomo nuovo», op. cit., p.IX), è la consapevolezzacommossa di un adultodavanti al Tu che mi dàl’essere. Per questo il Papadice che «la Chiesa si apreal mondo, non per otte-nere l’adesione degli uo-mini per un’istituzionecon le proprie pretese dipotere, bensì per farli rien-trare in se stessi e cosìcondurli a Colui del qua-le ogni persona può direcon Agostino: Egli è più intimo a me di me stesso (cfr.Conf. 3,6,11)» (Benedetto XVI, Discorso ai cattolici im-pegnati nella Chiesa e nella società, Friburgo, 25 set-tembre 2011).Infatti, perché la mia ragione possa essere affettiva

occorre che sia veramente ragione, che scenda fino alpunto di raggiungere il Tu reale da cui scaturisco, nonuna ragione fragile. Se la ragione non raggiunge il rea-le, l’affezione rimane staccata e fluttua; per colpa del-la divisione tra la ragione e la realtà, si genera una di-visione tra riconoscimento e affettività. La ragione nonè lucidità analitica, ma è legame con la realtà. Perciò donGiussani dice che la vera ragione si scopre in Giovan-ni e Andrea, perché loro sono stati «presi». Infatti, sen-za che la ragione raggiunga la realtà e ci leghi, noi con-tinuiamo a fluttuare e non c’è certezza. Come ha do-cumentato ampiamente il Meeting di quest’anno. E

come ha acutamente osservato il professore EugenioMazzarella, commentando l’intervento di CostantinoEsposito a Rimini: «Noi veniamo al mondo, siamo po-sti nel nostro essere, da Qualcuno [...], che è e resta lanostra originaria “provvista” di certezza. [...] Tener vivaquesta certezza, ravvivarla nella vita di ogni giorno edi ogni momento è riprendersi - riprendere sé - in que-sto originario legame a Qualcuno che ci costituisce, verafonte della certezza» («Caro Ferraris, perché qualcu-no ci ha voluto nel mondo?», ilsussidiario.net, 19 set-tembre 2011). Questo significa riprendere sé dallo smar-rimento in cui tante volte scivoliamo.Allora si capisce la differenza tra ripetere: «Io-sono-

tu-che-mi-fai» come uno slogan pur vero e dire: «Io»con la coscienza di un Altro che mi fa ora! Se non po-tete dire «Tu» con la stessa emozione, con la stessa vi-

brazione della prima vol-ta in cui vi siete sorpresi in-namorati davanti alla per-sona amata, non sapeteneanche lontanamente checosa vuol dire Giussani.Altro che complicazionementale! Altro che elucu-brazione! La differenza sivede da quello che succe-de in noi. Nel primo caso- ripetendo: «Io-sono-tu-che-mi-fai» come uno slo-gan - non accade niente; se,invece, dico: «Tu» con lacoscienza dell’Altro chemi sta facendo ora, non

posso evitare una commozione sconfinata; non pos-so evitare di vedere sorgere in me una affezione a quelTu e nello stesso tempo di sorprendere una gratitudi-ne infinita perché c’è. Quanto cammino ci resta ancorada fare per vivere la realtà con questa intensità, comeci testimonia ancora don Giussani!«Quando io pongo il mio occhio su di me e avverto

che io non sto facendomi da me, allora io, io, con la vi-brazione cosciente e piena di affezione che urge in que-sta parola, alla Cosa che mi fa, alla sorgente da cui stoprovenendo in questo istante non posso che rivolger-mi usando la parola “tu”. “Tu che mi fai” è perciò quel-lo che la tradizione religiosa chiama Dio, è ciò che è piùdi me, è cio che è più me di me stesso, è ciò per cui iosono» (Il senso religioso, op. cit., p. 147). Altro che unaparola! Dio mi è padre perché mi sta concependo «ora».Fuori da questo «ora» non c’è niente. «Nessuno è

OTTOBRE 2011 XIII

PAGINA UNOVIVERE SEMPRE INTENSAMENTE IL REALE

Ufficio di una piccola città, 1953.

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così padre, generatore» (Ivi). Per questo cantiamosempre con commozione: «Quando mi accorgo che tusei, / come un’eco risento la mia voce / e rinasco comeil tempo dal ricordo» (A. Mascagni, «Il mio volto», Can-ti, Cooperativa editoriale Nuovo Mondo, p. 203).«La coscienza di sé fino in fondo percepisce al fon-

do di sé un Altro. Questa è la preghiera: la coscienza disé fino in fondo che si imbatte in un Altro. Così la pre-ghiera è l’unico gesto umano in cui la statura dell’uo-mo è totalmente realizzata» (Il senso religioso, op. cit.,p. 147). Che differenza dal pietismo e dal formalismoa cui riduciamo di solito la preghiera! Si capisce perchépoi ci stanchiamo e scappiamo da essa. Mentre chi nonfugge e prende coscienza di sé fino in fondo, cioè usala ragione non in modo fragile, ma vero, completo, co-mincia a essere consapevole che se sta in piedi è perchési appoggia a un Altro, è perché è fatto da un Altro. Ela sua vita inizia ad avere un punto d’appoggio saldo,

non sentimentale, fluttuante, dipendente dagli stati d’ani-mo, ma certo, per quel legame della ragione con la re-altà fino alla sua origine.Aiutiamoci a immedesimarci per non ridurre que-

ste cose a un che di scontato, appena le abbiamo ascol-tate! «Come la mia voce, eco di una vibrazione mia, sefreno la vibrazione, la voce non c’è più. Come la pollasorgiva che deriva tutta dalla sorgente. Come il fiore chedipende in tutto dall’impeto della radice» (Ibidem, p.148). La voce, la polla, il fiore... sono immagini che donGiussani ci offre per aiutarci a renderci conto di que-sto ora, per superare l’ovvietà, la scontatezza. Per que-sto dire: «Io sono», secondo la totalità della mia statu-ra di uomo, non può che voler dire: «Io sono fatto». Eda questo, aggiunge don Giussani, «dipende l’equilibrioultimo della vita» (Ivi).Da che cosa si vede che uno ha questo equilibrio? Dal

fatto che «respira interamente, si sente a posto e lieto,

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PAGINA UNOVIVERE SEMPRE INTENSAMENTE IL REALE

Ufficio a New York, 1962.

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quando riconosce di essere posseduto». Perciò, «la co-scienza vera di sé è ben rappresentata dal bambino trale braccia del padre e della madre» (Ivi). Possiamo ve-dere che questo diventa per noi esperienza dal fatto che,come il bambino, possiamo entrare - quanto è im-portante questo oggi, nel contesto di una crisi che vi-viamo a tutti i livelli - in qualsiasi situazione dell’esistenza,in qualsiasi circostanza, in qualsiasi buio, con una tran-quillità profonda e una possibilità di letizia. «Non c’èsistema curativo che possa pretendere questo» (Ivi). Eproprio perché non diventa nostra questa coscienza veradi noi stessi dobbiamo rivolgerci ad altri sistemi cura-tivi, che tuttavia non sono in grado di arrivare a que-sto livello della questione, e perciò non risolvono le cose,se non mutilando l’uomo: spesso, per togliere il disa-gio di certe ferite, censurano l’uomo nella sua umani-tà. Bella soluzione!A nessuno sfugge la portata di

quanto stiamo dicendo di fronte allasfida rappresentata dalle circostan-ze che siamo chiamati a vivere. Solouna certezza così radicata ci per-metterà di costruire.

CONCLUSIONE

La formula dell’itinerario al si-gnificato ultimo della realtà qual è?Vivere il reale, ci dice schiettamen-te don Giussani. Si capisce, allora,l’importanza del reale per il vivere.L’unica condizione per essere

sempre e veramente religiosi, cioèuomini (non pii, uomini!), è vive-re sempre intensamente il reale. Per questo uno chevive intensamente il reale, anche se è contadino o ca-salinga, può sapere di più del reale che un professo-re, perché la formula dell’itinerario al significatodella realtà è quella di vivere il reale senza preclusio-ne, senza rinnegare e dimenticare nulla.Ma, attenzione, che cosa vuol dire vivere il reale? Don

Giussani ci riserva l’ultima perla: «Non sarebbe infattiumano, cioè ragionevole, considerare l’esperienza li-mitatamente alla sua superficie, alla cresta della suaonda, senza scendere nel profondo del suo moto». Que-sto è il «positivismo che domina la mentalità dell’uomomoderno», che «esclude la sollecitazione alla ricercadel significato che ci viene dal rapporto originario conle cose. [...] Il positivismo esclude l’invito a scoprireil significato che ci vien rivolto proprio dall’impattooriginario e immediato con le cose» (Il senso religio-

so, op. cit., p. 151). Come ha detto ancora il Papa inGermania, con una immagine luminosa: «La ragio-ne positivista, che si presenta in modo esclusivista enon è in grado di percepire qualcosa al di là di ciò cheè funzionale, assomiglia agli edifici di cemento armatosenza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da solie non vogliamo più ricevere ambedue le cose dal mon-do vasto di Dio» (Benedetto XVI, Discorso al Parla-mento federale, Berlino, 22 settembre 2011).Da che cosa vediamo che siamo positivisti? Dal fat-

to che soffochiamo dentro il nostro edificio di cementoarmato. Don Giussani ci offre tutti i dati perché cia-scuno possa verificare che esperienza sta facendo. Pos-siamo dare le interpretazioni che vogliamo, ma se sof-fochiamo nelle circostanze, vuol dire che siamo po-sitivisti (questo è il punto!). Per respirare basta «tor-

nare a spalancare le finestre», per«vedere di nuovo la vastità delmondo, il cielo e la terra», ci dice ilPapa, senza bloccare, aggiunge donGiussani, «l’invito a scoprire il si-gnificato che ci vien rivolto propriodall’impatto originario e imme-diato con le cose» (Il senso religio-so, op. cit., p. 151).Per questo, «quanto più uno vive

il livello di coscienza, che abbiamodescritto, nel suo rapporto con lecose, tanto più vive intensamente ilsuo impatto con la realtà e tanto piùincomincia a conoscere qualcosa delmistero» (Ivi).Questo chiede a ciascuno di noi

un impegno che nessuno ci può risparmiare. Perciòdon Giussani finisce rendendoci consapevoli che«quello che blocca la dimensione religiosa autentica,[...] è una mancanza di serietà con il reale, di cui il pre-concetto è l’esempio più acuto» - cioè l’ideologia, que-sta riduzione che viviamo tante volte per la situazio-ne culturale in cui siamo -. «Il mondo è come una pa-rola, un logos che rinvia, richiama ad altro, oltre sé, piùsu». Per questo l’analogia è la parola che «sintetizza lastruttura dinamica dell’impatto che l’uomo ha con larealtà» (Ivi).Che avventura affascinante, amici! Percorrendola fino

in fondo, potremo testimoniare a tutti una ragione ca-pace di riconoscere il reale in tutta la sua profondità,il solo punto che permette di costruire, in un momentoin cui tutto sembra cospirare contro la ripresa della vitasociale. Questo è il nostro contributo.

OTTOBRE 2011 XV

PAGINA UNOVIVERE SEMPRE INTENSAMENTE IL REALE

Che avventuraaffascinante, amici!Percorrendola fino infondo, potremo

testimoniare a tutti una ragione capace

di riconoscere il reale intutta la sua profondità,quando tutto sembra

cospirare contro la ripresadella vita sociale. Questo è il nostro contributo

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Page 16: VIVERE SEMPRE INTENSAMENTE IL REALE - Comunione e …

OMELIA ALLA MESSA JULIÁN CARRÓNLe letture di oggi ci dicono che imparare a fare il

percorso come ci siamo detti non è decisivo soltantoper il rapporto con la realtà in generale, ma anchecon quel reale più reale dell’avvenimento cristia-no, che è Cristo. Tanto è vero che possiamo esse-re davanti alla preferenza del Mistero e non ren-dercene conto.Tutta la liturgia di oggi è piena di questa predile-

zione, di questa preferenza: «La vigna del Signore de-gli eserciti è la casa d’Israele; gli abitanti di Giuda sonola sua piantagione preferita» (Is 5,7). Da che cosa sivede questa preferenza? Perché Dio «l’aveva dissodatae sgombrata dai sassi e vi aveva piantato viti pregia-te; in mezzo vi aveva costruito una torre e scavato an-che un tino» (Is 5,2). L’aveva circondata con quellapreferenza unica, ma non soltantonella sua origine: infatti il Signo-re ha mandato - come dice il van-gelo - i profeti, perfino il Figlio, peraverne cura, ma i contadini nonL’hanno accolto, non si sono resiconto di quella preferenza, diquel dono (cfr. Mt 21,33-43). Equando non prendiamo consa-pevolezza del dono del reale, chericeviamo dal Mistero, vediamoche si moltiplicano i disastri. In-fatti dopo questo rifiuto, che cosaaccade? «La terra è calpestata,diventa deserto dove cresconorovi e pruni» (cfr. Is 5,5-6). La vita si riduce a que-sto: un deserto, tutto diventa piatto, tutto diventa dinuovo grigio.Inserendole nella Liturgia, la Chiesa attualizza que-

ste due parabole di Isaia e del Vangelo per richiamarcial fatto che noi, adesso, siamo la vigna del Signore.Il Signore ha generato la Chiesa, l’ha curata, l’ha com-prata a prezzo del sangue del suo Figlio. Noi possia-mo dire: «Siamo la vigna prediletta». Dio non ab-bandona il suo popolo e continua a inviarci mes-saggeri, «testimoni» - come ci ha ricordato il nostroArcivescovo domenica scorsa -, che si prendono curadella vigna, perché non diventi un deserto. Ma tan-te volte noi non soltanto rifiutiamo i profeti, comeil popolo della antica alleanza, ma rifiutiamo ancheil Figlio. «Cristo - ci ha detto l’Arcivescovo citandoGiovanni Battista Montini - è un ignoto, un di-menticato, un assente in gran parte della cultura con-temporanea». E questo fa sì che gli uomini «non rie-

scono più a vederne la convenienza per la vita quo-tidiana loro e dei loro cari» (A. Scola, Omelia all’in-gresso in Diocesi, Milano, 25 settembre 2011).Ce lo ha ricordato lo stesso Papa - un altro mes-

saggero - in Germania: «Constatiamo un crescen-te distanziarsi di una parte notevole di battezzati dal-la vita della Chiesa» (Benedetto XVI, Discorso ai cat-tolici impegnati nella Chiesa e nella società, Fribur-go, 25 settembre 2011). E ancora: «La vera crisi del-la Chiesa nel mondo occidentale è una crisi di fede»(Benedetto XVI, Discorso al Consiglio del Comitatocentrale dei cattolici tedeschi, Friburgo, 24 settembre2011). Vediamo come continua a realizzarsi, tale equale, la parabola: possiamo anche noi rifiutare tut-ti i messaggeri, e perfino il Figlio. La conseguenza lastiamo vedendo in noi e nella vita sociale: questo«massiccio abbandono della pratica cristiana» non

può non implicare - diceva il car-dinale Scola - un «grave detri-mento per la vita personale e co-munitaria della Chiesa e della so-cietà civile» (A. Scola, Omelia...).Ma il Signore continua a man-darci anche ora testimoni, mes-saggeri: dal Papa al nostro Arci-vescovo, insieme a tante personecambiate in mezzo a noi. Attra-verso di loro Cristo continua achiamarci, ad attrarci verso di Luiaffinché la nostra vigna non di-venti un deserto, ma porti frut-to. Perché, come diceva il Papa, «il

rinnovamento della Chiesa, in ultima analisi, può rea-lizzarsi soltanto attraverso la disponibilità alla con-versione e attraverso una fede rinnovata» (BenedettoXVI, Omelia alla Messa, Friburgo, 25 settembre 2011).La conversione non è altro che costruire sulla pie-tra che gli altri hanno scartato e che anche noi tan-te volte scartiamo; è costruire sul Signore perché -come ha affermato il Papa - «Egli ci è vicino e il suocuore si commuove per noi, si china su di noi. (...)Egli attende il nostro “sì” e lo mendica» (Benedet-to XVI, Omelia...). È davanti a questo mendicare di Cristo del no-

stro sì che oggi si gioca la nostra vita. «Per comu-nicarsi agli uomini Cristo ha voluto avere bisognodegli uomini» (A. Scola, Omelia...), ci ha ricorda-to l’Arcivescovo. Dio ha bisogno di noi, siamo sta-ti chiamati a collaborare alla Sua missione, per po-ter testimoniare che l’unica pietra su cui si può ve-ramente costruire è proprio Lui.

XVI OTTOBRE 2011

PAGINA UNOVIVERE SEMPRE INTENSAMENTE IL REALE

Il Signore continua a mandarci testimoni: dal Papa al nostroArcivescovo, insieme

a tante persone cambiatein mezzo a noi. Attraversodi loro Cristo continua ad attrarci a Lui

affinché la nostra vignanon diventi un deserto,

ma porti frutto