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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PAVIA FACOLTA’ SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE ANNO 2010 - 2011 CORSO: Forme di poesia per musica RELATORE PROFF: ROBERTO VECCHIONI “Dio nella canzone d'autore”

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PAVIA

FACOLTA’ SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE

ANNO 2010 - 2011

CORSO: Forme di poesia per musicaRELATORE PROFF: ROBERTO VECCHIONI

“Dio nella canzone d'autore”

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La canzone d’autore italiana è una delle strade più accessibili all’interpretazione del “contemporaneo” ovvero degli squilibri, delle incertezze, della relatività che l’ultimo novecento ci ha gettato addosso (bel instradato dal primo), e ciò grazie alla sua immediatezza poetica (in alcuni casi) plastica,realistica pragmatica (in altri) e persino prevedibile, scontata,ma sentita dai più in altri ancora.

La canzone d’autore ci ha insegnato il “medium” tra l’alta ricerca di scambio con la poesia e la discesa agli inferi del parlar popolare escludendo, bandendo la retorica: ha acquistato in quaranta/cinquant’anni la dignità di un arte a sè che non è letteratura e non è musica ma è comunque testimonianza dei crucci, dei dubbi, delle paure, delle tenerezze e tristezze di un inquieto novecentoIn cui ha ricondotto allo stesso livello sentimentale, esistenziale le differenze, le alternanze fra ceti e culture: l’uomo nel suo essere spicciolo e quotidiano ne è il protagonista, che sia un operaio dell’alfa o un professore della normale di Pisa.

Per parlare ad un uomo così che non è neanche vero, che in verità non esiste, ma che esiste più di tutti, è scesa dalla cattedra aulica della poesia ed è risalita dalla rivendicazione populista dei canti regionali e politici, è dovuta trasmigrare dalla musica leggera e si è obbligata a togliersi il complesso rispetto a quella classica.

La canzone d’autore è un fenomeno così vasto e variegato oggi che sembra impossibile rapportarla ad una sola origine. Infinite sono le forme, le esecuzioni, le palpitazioni, molteplici le differenze nel trattare un tema o l’altro; impalpabile a volte la differenza con altri generi, si pensi solo agli anni luce di distanza che esistono tra le tematiche, lo stile, i motivi di Guccini e quelli di Cocciante o, esempi internazionali, all’abisso che divide Sting da Dylan.

Una ricerca di definizione è stata già tentata nella voce “Canzone d’autore” della Treccani.Adesso qui riassumiamo e tentiamo di chiarire cosa differenzia la canzone “tout-court”, la “canzonetta” insomma, quella che ha segnato il novecento e l’ultimo novecento italiano dalla cosiddetta canzone d’autore.

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A primo acchito viene da rispondere che divergano per l’impegno, la ricercatezza lessicale, la concretezza dei sentimenti, la vena poetica.

Sono risposte generali, certamente buone, ma non sempre tutte valide e attendibili.Né mi pare attendibile classificare la canzonetta come prodotto poetico senza vincoli. Non è sempre così e la vendibilità, la fruibilità, perfino la popolarità non discreditano per forza la “canzone d’autore”.Allora da cosa dobbiamo partire?Io credo dai due termini “verità” e “ originalità”.La canzone percorre e ripete un mondo di idee fatte e preconcette,di “topoi” detti e ridetti, sbandierando o più spesso nascondendo una precisa retorica di fondo e rimanendo alla superficie visibile e intendibile ma spesso ingannatoria dei sentimenti.

La canzone d’autore cerca di variare, bandire l’ovvio e inventarsi nuove strade, proporre nuovi temi su forme meno semplicistiche , senza però ingarbugliare la natura del pensiero, senza complicarela ricettività dell’ascoltatore.E’ questa la differenzia in gran parte dalle modalità della poesia del novecento.

La canzonetta (che resta ed è ancora oggi erede del mondo favola–finzione–miraggio delle romanze e delle tiritere all’italiana) fa passare per reale,per vite vissute un immaginario che non è di nessuno ed è di tutti, stuzzica sogni proibiti, blandisce i desideri,cataloga senza pietà da una parte i buoni dall’altra i cattivi.

Ci catapulta in un mondo di amori tristi, perduti, finiti che non hanno spazio-tempo ma ci sembrano idealmente nostri,appartenenti, chissà per quale gioco ipnotico, alle nostre vite.Questa è finzione.La verità è altra cosa:la verità è leggere le piccole come le grandi cose sulla propria pelle e il proprio percorso umano: partire da ciò che effettivamente si è provato dando nome e cognome agli oggetti concreti ed astratti, alle persone e alle coscienze, nonché alle idee.

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Non ha importanza che il discorso sia basso o alto e non ha nemmeno importanza che si usi per dirla alla “provenzale” un TROBAR CLOU (ermetico) o un TROBAR PLAN (figurativo);l’importante è che nella metafora più o meno ardita (De Gregori – Fossati) o nel realismo schietto (Battisti e altri) si veda, si intraveda, si percepisca la verità della narrazione, della riflessione della storia.

Ed è altresì importante che i moduli di questa narrazione presentino caratteri personali ed inconfondibili e movenze lessicali,ritmiche e tematiche il più possibile sperimentali,nuove, non percorse e poco frequentate.

Se la verità resta primaria ed obbligatoria, l’originalità non è però sempre presente e percepibile, a volte si limita a un punto di vista, a pochi versi, a volte è una lettura possibile e nascosta.

Quindi riassumendo non possiamo esulare da queste due precise condizioni, ma per assurdo a volte pur presentandosi entrambe possiamo non trovarci di fronte ad una canzone d’autore.Fatto sta che a parte le caratteristiche che abbiamo citato all’inizio (cura del linguaggio, slancio poetico ecc.) non possiamo fare a meno del contesto e il contesto per una canzone è il resto della produzione di quell’autore. Una canzone cioè (ma nemmeno due o tre) pur essendo originale e vera non basta a se stessa, non è prova probante : è necessario quasi imprescindibile che esca dal vissuto consolidato e più volte espresso da un autore.

In altre parole alla base delle peculiarità “canzone d’autore” c’è l’uomo, il poeta in musica, c’è la sua coerenza, la sua militanza (non politica ovviamente), la sua costellazione di esempi e, se possibile ma non necessaria, la sua cultura, la sua ricerca del bello in un a parola la sua visione del mondo non casuale ed episodica ma costante nel tempo, pur se soggetta a possibili cambiamenti.In tutto ciò la canzone d’autore non avanza le pretese di un trattato filosofico, sociologico o erotico affettivo: pizzica, propone, argomenta, spinge a riflettere e a sentire al di là della superficie; ci mostra la nostra esistenza reale, è cronista indiretta delle mancanze, dei dubbi, degli equilibrismi per vivere, ma quasi

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sempre rimanendo nel cerchio di un linguaggio alla portata di chi vuol capire, evitando banali cadute di stile e cercando di smuovere

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istinti sopiti di una società sonnolenta tutta tesa ad esaltare le ombre della caverna platonica.

Abbiamo iniziato dicendo che la canzone d’autore è uno dei mezzi più efficaci per interpretare il “contemporaneo” e ciò proprio perché nasce come costola dell’esistenzialismo francese, rilegge, rifà, riduce, semplifica i grandi del 900 ( Mann,Freud Marx, Hemingway, Borges,) ma al contempo conosce la tradizione popolare, conosce il “quotidiano” attraverso il neo-realismo letterario e soprattutto cinematografico, e nei casi estremi ritaglia quindi esempi da passati più lontani, da figure e miti validi ovunque e per tutti. Ma tutte queste operazioni, tutta questa gigantesca galleria bibliografica, filmografica, antropologica il cantautore la filtra con la sua sensibilità fino a ridurla all’osso, all’esempio, alla citazione, evitando così di presentarsi come cattedratico, intellettuale inguaribile, dispensatore di teorie interminabili: è come se le esperienze culturali e letterarie, passando per un enorme imbuto ne uscissero dal beccuccio semplici e chiare, ridotte ma non impoverite alla portata dei più, o di chi almeno è pronto a concedersi uno sforzo interpretativo.

Qui sta la gran differenza fra “questa” canzone e la composizione poetica in generale, la letteratura in generale: all’analisi vasta, meravigliosa ma spesso complessa e fuorviante del comporre poetico La canzone d’autore oppure una sintesi fulminante: un verso una storia diventano paradigmi di altre storie (le nostre) coniugano subito bellezza e comprensibilità, ci sono vicini, ci implicano, ma attenzione, si tratta di un ammaliamento ben diverso da quello della “canzonetta” perché muove le corde della verità e non quelle della finzione e perché non richiede una banale e scontata corrispondenza emotiva. Bensì un intendimento duplice: istintivo (sentire) e riflesso (capire).L’identificazione che dunque suscita la canzone d’autore è qualitativamente diversa e necessariamente più solida perché credibile e trasferibile alle nostre esperienze reali, concrete, bandendo i vaneggiamenti stereotipati dei motivi commerciali.

4Proprio questa prerogativa, questa capacità della canzone d’autore di “mediare” tra chi dà e chi riceve è stato il punto su cui han più dibattuto Intellettuali vari, puristi lessicali, critici irremovibili, poeti investiti da Dio per arrivare alla conclusione che una tale forma d’arte non è

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né carne né pesce, non avrebbe l’universalità del sentire popolare(post romanticismo), né l’autorevolezza della lirica novecentesca.

Poeti come Raboni (con cui ho avuto uno scambio acceso di vedute qualche anno fa), Cucchi, Sanguineti stesso, rimandano la canzone d’autore a un genere artificioso, costituito negli anni 50 da e per una borghesia decadente, non allineata politicamente, in modo chiaro ma Vagamente esistenzialista, frignona e approssimativa, per nulla padrona della lingua e ancor meno dei temi musicali.

La stessa critica di estrema sinistra, tutta schierata con gli esperimenti post-popolari torinesi e milanesi di Liberovici, Leydi, Fo etc, schifò o nei migliori dei casi sottovalutò la portata del nuovo genere; tra contestatori più accesi ci furono Jaime Pintor e BErtoncelli, il primo che accese dispute con me e Branduardi a Rai 1, il secondoChe tutti ricorderanno come protagonista in negativo dell’Avvelenata di Guccini.

Questa presa di posizione veniva da motivazioni in parte valide e si basava su equivoci allora insormontabili. La canzone popolare (ripresa allora dal canzoniere del lazio, da Della Mea, Pietrangeli Giovanna Marini, Nuova compagnia di canto popolare), cantava in un periodo di grandi rivolgimenti sociali (il centro sinistra, l’ascesa dei sindacati, il problema del sud) le radici elementari della cultura italiana di base (e di maggioranza) ovvero i campi, ovvero le fabbriche, le ingiustizie sociali, i padroni, le miserie del meridione e lo faceva sia con brani tradizionali, sia attraverso ricostruzioni, pezzi nuovi che imitavano i più antichi.

Era la loro una sterminata Italia di campagne e periferie, di

5immigrazioni interne e incomprensioni ambientali, di sfruttamento e forte rivalsa politica.

Di fronte ad un tale complesso di problemi veri e seri a cui la loro canzone faceva da propaganda e cassa di risonanza, sembrò a questo gruppo di intellettuali scrittori poeti e cantastorie che fosse altamente ingiusto e improduttivo che la canzone d’autore

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ottenesse così tanto credito parlando di piccole storie quotidiane, d’amore e di smarrimenti sentimentali così lontani dal popolo.

Ma quella canzone, la canzone d’autore, “tirava di più” e i motivi sono tanti: basti dire che gli italiani un po’ per il loro innato individualismo un po’, un po’ perché si ritrovavano di più in quelle “piccole storie” e molto perché le linee musicali e poetiche della canzone d’autore erano più interessanti ed emozionanti e colpivano dritto al cuore, smentirono questo grande movimento di ritorno che per gradimento e popolarità (pur nascendo popolare) si perse lentamente e finì per essere di nicchia.

Per chi vuole saperne di più rimando al mio corso sulla canzone del novecento in Italia dove si evince che il motivo di fondo di tutto questo rumore per nulla è da ricercarsi nella pochissima cultura popolare che avevano ed hanno gli italiani, perché come ben fa rilevare De Mauro, noi non abbiamo mai avuto una tradizione popolare unitaria, bensì regionale (dovuta alle divisioni) e al limite abbiamo conosciuto e conosciamo solo le canzoni delle nostre parti (canzoni d’uso) e non quelle altrui ( di scambio) diversamente da altre nazioni europee. Fa eccezione Napoli, ma lì la storia è diversa (vedere corso sulla canzone napoletana). Dunque l’idea che bastasse una maggioranza d’individui a consacrare il successo di un genere fu smentita.

Per quanto riguarda i poeti, infiniti sono stati i dibattiti a cui ho partecipato facendomi il sangue amaro di fronte alle loro obiezioni sempre uguali, sempre schifate ad ogni contradditorio, educato o sanguigno che fosse, convinti com’erano e come sono che i cantautori rappresentino l’ala furba di post-liceali semianalfabetie a completo digiuno di sintassi, figure di pensiero, ritmo lirico e idee, facilitati dalle loro semplificazioni elementari e demografiche e

6dal rumore di note raffazzonate nel modo più semplice possibile perché rimangano in testa.E’ stato inutile spiegargli che quelle note,quelle melodie erano volutamente (e anche naturalmente) così semplici, perché nessun cantautore (a parte pochi), è stato ed è veramente musicista e che se avesse la mentalità da musicista non potrebbe essere cantautore. Sanguineti, ricordo, non conosceva o fingeva di non conoscere: per lui esitevano solo i “songs” americani, le grandi orchestre, il jazz, ed ogni volta che si tentava di spiegare che

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usavamo la musica non da cultori ma da neofiti, come in realtà l’avrebbero usata quelli che ci ascoltavano, si intestardiva a rispondere che la musica era un'altra cosa.

Stando così le cose viene facile intendere che serpeggiasse tra le file dei poeti, insieme all’altergia solita, un senso malcelato d’invidia per il successo ma anche per il denaro altrui.

Nessuno ha mai voluto sostituire la poesia, anche se Nanda Pivano diceva il contrario sostenendo addirittura che i cantautori siano i poeti d’oggi.

Certo qualcuno sì: De Andrè di sicuro, altri forse. Ma non sta qui il punto. Il punto è che la canzone d’autore non è musica, non è letteratura ma paradossalmente è musica e letterarietà insieme e questo miscuglio la libera da ogni legame coi generi suddetti: la canzone d’autore è qualcosa di diverso e di nuovo, una specie di mutazione genetica, un impoverimento ricco nella comunicazione emotiva, che diventa così linea retta tra due punti evitando pur meravigliose ma distraenti deviazioni: il cantautore è il nostro “transformer” l’eco puntuale delle nostre opinioni, l’ottimizzatore dei nostri sentimenti.

Devo insistere su questo punto ed essere categorico altrimenti non intenderemmo neppure parte del corso di quest’anno.

7In musica nella grande musica (dalla polifonia medioevale all’ottocento) Dio è stato celebrato con afflati e trasporti spirituali che sfiorano il sublime (si pensi a Monteverdi, a Palestrina, ad alcune insuperate romanze) ma ne è venuto fuori sempre un Dio astratto, lontano, onnipotente, incontestabile (le laude, le sacre rappresentazioni),temuto e adorato, incapace di interagire col mondo, alto e inaccessibile, interprete del dolore estremo (vissi d’arte Puccini), implorato sino allo spasimo.

Nella poesia, nella grande poesia, Dio è vissuto nell’icona che lo vuole e lo trasmette universale, Dio di popoli, di nazioni o di

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umanità tutta, mai o raramente dall’uomo, del singolo, mai o raramente con una voce, un viso, delle mani, delle parole.E anche quando tutto ciò è in parte avvenuto (penso all’originalità di Prevert, ma ai surrealisti in generale) sempre stragrande, immenso,imbattibile, amato o odiato che fosse, su un altro piano, mai a tu per tu.Poi ci sono le eccezioni.Padre Turoldo, Madre Teresa, autori cattolici dell’ultima metà del novecento e forse proprio da queste eccezioni sono partiti i cantautori, per parlarne.

Perché il Dio dei cantautori non è immenso, non è irraggiungibile, al contrario è un Dio con cui si parla, si litiga, si blatera, si chiede perdono a tu per tu.

Ed è un Dio che ha niente o poco a che fare con le piramidi di potere del mondo e persino con i suoi ministri, è un Dio diretto, fisico,plastico, dai tratti umani e leggibili, poco onnipotente, specchio fedele del dolore umano, è un Dio interpretato senza mediazioni, è un Dio che non divide tra bene e male ma tra sofferenza e felicità, è un Dio che puoi abbracciare od offendere, rinnegare o accettare, ma dopo aver detto perché, dopo avergli parlato ma sempre a tu per tu.

Ecco perché ho voluto definire nell’introduzione la canzone d’autore le sue caratteristiche, la sua specificità; perché credo che per come si è posta nella sua storia al servizio dei sentimenti, dei dubbi, dei desideri umani sia il campo più appropriato per rintavolare un

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discorso senza retorica, diretto con Dio: un tipo di discorso che a tutti noi è venuto chissà quante volte in mente e chissà quante volte abbiamo tentato di rendere alla nostra portata, giornaliero, appagante come uno sfogo o un atto di ringraziamento e non siamo riusciti a ritrovarlo ,a riconoscerlo nel sublime mare magnum delle sinfonie e della grande poesia.

Capisco in fondo i cantautori popolari e ancor più i poeti :non tutti gli esempi che proporrò e i temi che affronteremo sono così originali o così alti da meritare l’immortalità; ma è proprio questo che mi sembra bello e unico: ascoltare i nostri pensieri ( perché nostri sono) a volte anche scontati, acritici, individualistici, piccati,

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irriconoscenti, banalmente mistici, riproposti da compositori che vivono la quotidianità, come noi si confondono con la gente, entrano nei bar, vanno alle partite, leggono i fumetti, finiscono in vacanza a Riccione, in breve dicono quello che gli passa per la capa.

Tra le cose che ho scelto ce ne sono alcune così profonde che meriterebbero ognuna una sezione a sé. Eppure, pur nella loro sublimità resistono incatenate al suolo della nostra povertà interpretativa, del nostro elementare sentire e arrivano subito, ci commuovono, ci sconvolgono, ci catturano: De Andrè, Gaber, Renato Zero, Lucio dalla, Guccini.

Altre sono meno alte ma altrettanto immediate e mi consentono una casistica quasi totale del pensar moderno di dio (non intendo dei teologi o dei filosofi ovviamente) ed è in fondo ciò che mi sta più a cuore. Ribadisco che non è questo il luogo di impalpabili voli metaforici, qui si vola basso, ci si accontenta (che è tanto) di vagliare al ritmo di giorno per giorno e non dell’eternità, ben consapevoli che c’è di più e di più profondo in altri onorati lessici, ma la microstruttura su cui andremo a riflettere è, come vedremo, copia conforme di una concettualità generale,di un immaginare Dio primario e comune, appartenente a tutti e quindi livello di partenza su cui poter riflettere.

A conti fatti quindi troveremo a volte,forme altissime e a volte filastrocche infantili o addirittura lessici impoveriti dalla metrica musicale ma di là di tutto ciò son le tematiche a interessarci,

9tematiche che a ben vedere potremmo ridurre, schematizzare in poche precise e ricorrenti tipologie che vanno dall’insulto estremo alla professione di fede più sperticata.E se insisteremo di più su chi queste tematiche le nobilita al culmine del binomio verità-originalità, ciò non vuol dire che servano di meno alla nostra indagine esempi più ingenui e meno riusciti, perché anche questi nella loro povertà e, perché no, nella loro scontatezza riflettono le nostre piccole domande, aspettano piccole risposte.Così al pari di un altissimo e sofisticato laudate hominem ci troveremo a commentare risaputi e comuni modelli di supplica a Dio perché torni tra gli uomini; troveremo brani la cui esegesi si presenterà ostica e semanticamente varia o difforme e altri in cui al primo impatto si capirà dove l’autore va a parare: ci imbatteremo in canzoni che fanno sistema con altre dello stesso autore rivelando

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una mentalità costante e variante nel tempo e in canzoni che sono invece modello unico o quasi, casuali nella produzione ma comunque degne di essere prese in considerazione.

Queste categorie (e altre) sono percorse ,utilizzate più o meno tuttedalla canzone d’autore, perché come abbiamo più volte chiarito, tra le forme di indagine dell’anima, dell’io, del mondo,essa segue mille strade e si divarica da mille incroci e non è possibile costringerla in una definizione unitaria, anche se il solo comun denominatore possibile è da ricercarsi nello sforzo degli autori di essere “veri” e nel loro tentativo di essere originali, diversificandosi dalle canzonette in primis, e dai colleghi poi.

Nella canzone italiana del 900, prima dell’avvento di quella d’autore Dio non è mai protagonista,Figura si, ma in forma oleografica o proverbiale, casuale e parenteticaÈ insomma presente nelle esclamazioni, funge da pretesto spicciolo per chiedere aiuto in amore o contro le ristrettezze del vivere, è implorato al ricordo del paese lontano.A Dio non ci si rivolge mai direttamente e meno che meno lo si giudica in qualche modo, Ci troviamo spesso di fronte ad una sfilza d’invocazioni inutili o ridondanti del tipo “Dio del ciel se fossi una colomba/chiedo al buon Dio/ volesse Dio/, tutte pur lontane dal tema. Perché?

10Innanzi tutto perché la canzone è passatempo, favola per diradare il grigiore della realtà e non ammette “excursus” in argomenti così alti e impegnativi.

Fino ai primi anni ’60, l’argomento più gettonato, anzi quasi l’unico, è l’amore con i suo succedanei che sono innamoramento, passione, sospetto, gelosia, tradimento, o a volte scherzo, gioco, presa in giro.Dalla “romanza” a “Sanremo” la canzone italiana è proprio “leggera”, coltiva una forma musicale del tutto inadatta a riflessioni esistenziali o comunque a problematiche culturali: non stiamo qui a elencare tutti i motivi (vedere corso omonimo) ma alcuni paiono ben chiari: il ritardo di una lingua nazionale, il ruolo di parolieri ed editori, la ricerca quindi di testi elementari e concetti accessibili ai più, lo strappo tra cultura popolare ed intellettuale, la forte censura politica ed ecclesiastica, il perbenismo, la voluta mancanza di senso critico, il timore della blasfemia: tutte cose che tracciano un solco

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profondo tra sentimentalismo e pensiero consapevole fino ad escludere il secondo al vantaggio del primo.

E d’altronde non eran tempi. Tutto il lacerarsi nel dubbio dei poeti, anche italiani da Gozzano in poi, non è campo in cui vogliono mettere il naso gli scrittori di canzoni che al massimo risolvono il problema con un “escamotage” sostituendo a Dio il destino e prendendosela con le stelle.

Quando dico “non erano tempi” intendo anche l’educazione, il basso livello di cultura e più di tutto la poca propensione degli autori a parlare di sè.E’ ovvio che in canzoni generalizzate e in terza persona prevalesse un asettico senso comune di guardare il problema: fino a che il mutamento di condizioni storiche e sociali non lo permetterà, temi più alti, non saranno mai affrontati.

Ciò potrà avvenire solo quando una serie di eventi permetterà ad una generazione nuova di spaziare ,di estendere lo sguardo, di liberarsi dalle convenzioni . Ecco allora che l’autobiografismo, inteso come esposizione nuda e cruda di dubbi, angosce, sconfitte, paure, sarà il mezzo insostituibile per pescare più a fondo ed

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esprimere domande e risposte attinenti alla vita reale e non a quella immaginaria della “canzonetta”.

Quando e come questo trapasso?

In realtà fu più lento e graduale di quanto si creda, anche se la canzone d’autore in sè nascerà quasi di botto come sviluppo ultimo di molte cause scatenanti (vedere Treccani voce “la canzone d’autore”).

Digerito il dopoguerra, la ricostruzione, gli anni ’50, la nuova generazione di giovani troverà terreno fertile per lo scatto di qualità e tempo utile alla riflessione (dispensa su “canzone d’autore”).

Sono ragazzi avidi di letture e musica nuova, rock, jazz, avidi di cinema, di filosofia: la forte scolarizzazione, l’apertura politica a

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sinistra, l’avvento informativo dei media, produrranno un benefico senso critico nei confronti dei padri e del loro immobilismo.Gli ultimi anni ’50 rappresentano un momento di formazione ed apertura indagatrice e ci si chiederà in che tipo di società, in quale prospettiva futura si stia vivendo e perché. Ci si chiederà, finalmente anche in canzone quale sia il vero sbocco dei sentimenti, si guarderà agli “altri” uomini, intesi come persone e non solo figure di sfondo.Alla filosofia del “vivi e lascia vivere” del “tira a campare” si sostituirà un immensa smania di esserci, di conoscere se stessi prima di tutto e appunto gli altri, il mondo, la vita poi.

Narrativa e poesia non avevano aspettato tanto, ma quelli erano campi per pochi privilegiati intelletti e coscienze d’avanguardia. Che questo salto lo operi la canzone significa molto: vuol dire che le nuove generazioni si svegliano, si muovono, si chiaman fuori dal “tira a campare” e si arrogano un senso critico grazie a forme poetiche più accessibili e stimolanti.Non è ovviamente il ’68: Ci vorranno dieci anni e l’esempio di Francia ed America per arrivare a tanto. Diciamo che gli anni sessanta (in cui comunque prolifica, seppur in forma più attenta la

12canzonetta) saranno il trampolino di lancio, un lungo periodo di incubazione, una presa di contatto con la propria “contemporaneità”. Che al principio è senso di malessere, a voltesgomento, escavazione del proprio “io”, poi, grazie anche alla “canzone popolare”, ed alla partecipazione reale alla vita del paese diventerà politica, bagno nel “sociale”.

La grande canzone d’autore, quella dei padri fondatori prende giusto un ventennio da Modugno a Vasco Rossi, anni ‘60 e ’70 quindi, e se nella prima parte prevarrà la vena intimistica nella seconda si produrrà quel che abbiamo detto: grande affetto comune per l’umanità tutta, denuncia dell’ingiustizia, difesa a spada tratta della fantasia, fratellanza con lo spirito ribelle, nausea per il potere, il tutto permeato da un relativismo dell’essere che lezioni poetiche del novecento hanno saputo produrre.

Riassumendo; sorge dunque, grazie a nuove condizioni storiche e sociali un movimento espressivo in canzone, fortemente autobiografico, che riconsidera i sentimenti e le cose tutte da un'altra angolazione: non più quella retorica e oleografica della

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“canzone all’italiana”, ma quella esistenziale e critica del proprio vivere ed del proprio essere.

Questa canzone d’autore ha poco o niente della canzone precedente, anzi rompe gli schemi, libera il tracciato musicale, pesca altrove (Francia e America), si rifugia spesso nella ballata, elimina le tirate della romanza, si fa discorsiva, spesso parlata, “sporca” la fredda se pur perfetta esecuzione del canto con accenti e ritmi più liberi, imita la lingua parlata,vera, per prodursi lentamente nel tempo in esperimenti sempre più alti e ricercati, attenendosi al concreto, là dove la poesia scritta viaggia per conto suo nell’astratto.

Non ci vuole molto a capire che un tale mezzo espressivo ha già alla sua nascita, potenzialità tematiche vastissime, e infatti dopo i primi anni in cui l’amore (quasi sempre problematico, doloroso) la farà da padrone, a furia di indagare su se stessi, questi autori approderanno ad argomenti mai tentati in Italia e in canzone.

13Dio, dunque. Come si sono ficcati in questo problema i nostri cantautori? Quando? In questi quarant’anni e più è maturata una dialettica, si sono verificati variazioni? Possiamo concederci uno schema?Direi di si.Dalle duecento e più canzoni che ho preso in visione, ne ho selezionate una cinquantina che bastano ed avanzano per chiarire il campo d’indagine, le riflessioni e le risposte che i cantautori danno su Dio.

Avevo in mente un asse cartesiana ( corso del tempo in ascisse e concetti in ordinata), ma una volta realizzata mi sono accorto che era si importante, ma non probante: non legittimava cioè chiaramente un’ evoluzione significativa e progressiva. Mi spiego: Dio parte col botto nella canzone d’autore, perché le tematiche successive sono già insite nei grandi autori di fine anni ’60, primi ’70, De Andrè, Guccini, Gaber.

L’approccio teorico,epistemologico,esplicativo è tutto lì nei grandi esempi da “La buona novella” “Volume I” “Dio è morto” “Il signor G” “Libertà obbligatoria” I quarant’anni a seguire sono un accavallarsi di temi ricorrenti, con partenze e ritorni:uno stesso

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concetto, per esempio del ’79, viene ripreso più o meno simile, da altro autore nel ’97 e via dicendo.

L’asse cartesiano non ci dà quindi informazioni definitive e non permette l’identificazione di un “sistema di pensiero”.Mi spiego meglio : il botto di Guccini è del ’65, nello stesso anno con tutt’altro piglio Celentano proporrà “Pregherò” che si può dire il perfetto opposto del buio gucciniano.Risulta quindi evidente fin dall’inizio che l’intendimento della figura divina in canzone è BINARIO, anzi due volte BINARIO:

1) Al filone FIDEISTICO ( pregherò) si contrappone quello PROBLEMATICO, dubbioso, che in alcuni casi finirà per essere agnostico o volutamente ostile.

2) Al filone io e Dio si contrappone quello di Dio e il MONDO, o meglio Dio nel mondo.

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In più, a scatenare tutti i fulmini dello scontento e dell’incertezza umana arriverà nel ’67 De Andrè (spiritual-si chiamava Gesù) colsuo Dio-uomo da una parte e il suo uomo incolpevole dall’altra, temi che tre anni dopo esprimerà in senso più ampio ne “la buona novella”.A volte i filoni 1) e 2) si incroceranno, più frequentemente quello fideistico sarà fortemente personale , si muoverà in varie ballate di speranza e di amore universale. Il due) che è visione totale di un umanità spesso affranta e senza riscontri, andrà dalla negazione di un disegno provvidenziale (De Andrè) al fraintendimento di tale disegno da parte degli uomini (Gaber Guccini De Gregori) creando quindi un'altra pensabile dicotomia fra credenti e non.

Lo sforzo più grande resta comunque quello dei primi anni: nei successivi ci si imbatterà come vedremo in altri esempi più o meno originali; ma la maggior parte delle volte seguiremo rigagnoli consueti di invettive, domande senza risposta, richieste più o meno disperate di aiuto, tutte cose altrettanto interessanti anche se meno illuminanti.“Pregherò”, abbiamo detto, è canzone immediata, facile e anche furba di fede. “Non puoi odiare Dio perché non puoi vederlo, ma c’è”. Verso che presuppone una cecità spirituale ma anche probabilmente fisica con conseguente rancore nei riguardi del destino: l’escamotage religioso di Celentano è elementare: io con il

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mio amore ti farò vedere Dio, del quale Dio non si pone nemmeno il problema dell’esistenza, che sarà di altri, perché lui ci crede e ci prospetta addirittura l’eventualità di un miracolo. Siamo in pieno catechismo.Differente anni luce è l’impatto di Guccini: intanto in lui Dio è metafora del dolore immenso che sconquassa il mondo, della perdita dei valori, delle guerre, della fame, della miseria e quant’altro. Non è quindi Dio in sè ad essere morto, bensì la società tutta che confonde il male con il bene, non conosce più limiti, non ha più nessuna pietà. Ovviamente il brano fu messo al bando, censurato, perché poteva far nascere dubbi a un bel po’ di cretini sul piano provvidenziale divino, laddove è vero proprio il contrario e cioè che gli uomini e solo loro hanno distorto il senso etico del mondo. E non c’era nemmeno bisogno della correzione forzata degli ultimi versi (“ Se Dio muore per tre giorni poi risorge”) per capire tutto ciò.

15Guccini inaugura quindi il filone di un Dio (presumibilmente vero) tradito dal mondo, ma lo fa in senso laico umano senza lasciarsi andare ne di qua ne di là a giudizi sul Padre eterno. Siamo ancora a un Dio immobile, un Dio di cui abbiamo creduto di assumere il potere rovinandoci con le nostre stesse mani.Altra storia è in De Andrè: lui sì che prende e subito una posizione.L’afflato di Fabrizio è fortemente, tortuosamente terreno, è l’uomo il centro morale, il valore primo dell’universo; ogni cosa parte dall’uomo e nell’uomo ha il suo epilogo.E’ l’uomo in questo buio inspiegabile a crearsi alibi, distrazioni e sogni, è l’uomo a subire da altri uomini e infine è l’uomo ad essere il primo incolpevole, costretto, obbligato dalla natura e dalla nascita a quelle deviazioni dalla norma che altri chiamano peccato e che invece sono difese al proprio esistere.

Tutto ciò è già presente nel volume I del ’67.

Ma De Andrè crede in Dio? Parrebbe di no. Dio è invenzione del potere per avere la scusa di comandare in suo nome e giustificare a suo nome ogni bassezza.Eppure quanto è certo che per lui Gesù fosse un uomo (si chiamava Gesù) sia pur grande e rivoluzionario,altrettanto incerto se di là del Dio del potere, quello finto, quello inventato, De Andrè non veda un altro Dio e cioè il suo dei poveri, dei disadattati.

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Il dubbio è forte già in “Spiritual”, dove la preghiera si fa implorazione “ Dio del cielo, se mi vorrai amare scendi dalle stelle e vienimi a cercare” e dove da un concetto preciso (“ non son io a dover cercare te ma tu me”)si desume che almeno al principio il dubbio ce l’avesse. Ancor più ce lo attesta la splendida “Preghiera in gennaio” (dedicata al suicidio di Tenco) che è una specie di sommario delle sue certezze.

1) non esiste l’inferno2) Dio accoglie chi ha sofferto anche i peccatori3) i ben pensanti sono gli unici colpevoli, sempre4) e, fondamentale, Dio ascolta gli uomini per aiutare gli uomini.

Non solo Preghiera in gennaio è un capolavoro, ma risulta nella sua non laicità, nel suo sfondo eretico un atto di fede ancor più forte di

16mille lodi al creatore. E’ evidente che De Andrè fosse affascinato dal sospetto dell’esistenza di Dio, ma lo immaginò uguale identico al suo sentire, senza stare a seguire bibbie e vangeli.

E infatti nemmeno i Vangeli canonici seguì quando si trattò di parlare degli uomini (perché l’uomo è il protagonista, non Dio) ne la buona novella. Maria, Giuseppe, Tito, Lamaco, Gesù stesso sono uomini illusi da un sogno; tutti, perfino i ladroni, coerenti nelle loro scelte, nelle loro azioni.Della buona novella si è parlato l’anno scorso: rileviamo qui solo qualche tratto essenziale: a De Andrè non interessa per niente celebrare la venuta di un Dio sulla terra. A lui preme dimostrare come un uomo straordinario abbia insegnato al mondo la pietà e, attenzione non il perdono, la pietà. Si perdona infatti solo chi ha colpa e se ne pente, ma nell’universo di Fabrizio, l’uomo non è responsabile del male, o ci nasce in mezzo o se ne difende, come nel sublime “Testamento di Tito” .Nessuno ha mandato Gesù sulla terra, Gesù è la risposta dolce e orgogliosa che l’uomo dà all’oscurità in cui vive: “ non voglio pensarti figlio di Dio ma figlio dell’uomo, fratello anche mio” gran parte di questa oscurità sta nel potere, nella prevaricazione storica, nella violenza che ha ucciso Cristo e governa il mondo, massacrando altri uomini in suo nome (concetto per altri ripreso ne il blasfemo in “non al denaro, non all’amore ne al cielo”).

Il laudate hominem è insieme una professione di ateismo e fede, fede per gli individui ritenuti i peggiori secondo la morale di chi

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comanda e impone le regole. Che creda o no in un suo Dio Fabrizio comunque non ci concede mai un dubbio metafisico e non discute su santificazioni o giudizi universali: la battaglia, la storia e il senso sono qui sulla terra: noi siamo a immagine e somiglianza di un Dio (inventato o vero non fa nulla) che è l’idealizzazione, la sublimazione, il riassunto della nostra fratellanza, del nostro amore per gli altri.

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Contestuale anche se fortemente politico, caustico, graffiante è il Gaber dell’80 (io se fossi Dio), che stila in effetti un panorama definitivo delle bassezze di questo mondo, augurandosi l’avvento diun Dio vendicativo e punitore.Gaber rivolgendosi direttamente al creatore aveva già scritto nel ’70 una bellissima “preghiera”, il cui tema ( guardar giù anche tra gli scontenti, i disgraziati, gli operai) riprenderà De Andrè in smisurata preghiera,e si era divertito (e qui l’ironia è tutto) in una bizzarra Madonnina dei dolori del ’72 fuori dalla norma perché ai grandi problemi metafisici oppone le sue minuscole fastidiosissime disgrazie di uomo comune.

Io se fossi Dio è una valanga di citazioni, sottintesi e no, un torrente di invettive, di gridi liberatori, di offese, un mix alla Savonarola, insomma.

Ovviamente anche qui Dio è un ruolo una scusante una maschera, ma a differenza di De Andrè, Gaber a Dio ci crede e come e sotto sotto spera che prima o poi intervenga per punire questo letamaio.Nella sua lista compaiono i piccoli borghesi, categoria prediletta, i finti sentimentali, i patiti della ragione, i seguaci di idee sette e ideologie da quattro soldi ( Io morirei per qualcosa di più importante) gli inglesi gli africanisti, gli americani e i russi, le militanze cieche, gli stupidi i bigotti ,i porci e i delinquenti, i padri di famiglia ottusi ma soprattutto i giornalisti (“ e specialmente tutti”) cannibali, necrofili, deamicisiani astuti. Se fosse Dio Gaber chiuderebbe la bocca a tanta gente, soprattutto ai politici ( ce n’é per tutti: democristiani, comunisti,socialisti, radicali allora di moda)

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E prende anche posizione sui terroristi (l’altra faccia della medaglia)ammettendo che non riesce proprio a capirli , che ottengono solo effetti contrari ai loro sforzi e in definitiva sono pazzi incontenibili e gli provocano sgomento, come sgomento gli provoca il fatto che Aldo Moro per merito loro sia diventato un eroe, lui che è responsabile di vent’anni di cancrena italiana.

Sulla falsariga di Cecco Angiolieri (se fossi foco) Gaber ci pennella un Dio lontano ed assente, testimone pigro e neghittoso degli sfaceli d’Italia e del mondo e inaugura quel suo star da parte quel suo non schierarsi, non giurare su nessuna bandiera o idea, tutte

18buone in astratto e tutte rovinate dall’insipienza degli uomini. Il suo Dio, a volte persino comico, con quel vezzo di mandare ambasciatori sulla terra, è inadeguato, piccolo piccolo, per la piega che ha preso l’universo, e Gaber gioca a sostituirlo calando carichi pesanti di punizione e vendetta com’era in uso in altri tempi, un ruolo questo che si arrogherà ancora spesso in seguito.

Anche qui, su più larga scala, Dio è un pretesto per parlare di bene e di male, di giustizia ed ingiustizia, Gaber quindi non intavola una discussione ontologica e in definitiva non gli imputa colpe personali, anzi implicitamente lo riafferma esistente e signore anche se distratto del tempo e dello spazio.

Tra le righe si evince che nella sua disamina Gaber lascia intendereche forse è così che deve andare: l’altro Dio quello vero, permette tutto quello che lui non permetterebbe ma avrà bene le sue ragioni anche se inarrivabili e oscure.

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19Negli anni ’70 non possiamo fare a meno di citare l’altra storia del mondo, così minuziosamente complessa,fascinosamente darwiniana che ci presenta Lucio Dalla (com’è profondo il mare). Il tema di fondo è la storia del pensiero libero umano soffocato dall’ignoranza e dalla prevaricazione evidenti nelle ultime due strofe dove chi comanda, non potendo eliminare il male (metafora del progresso popolare) lo brucia lo uccide lo umilia.Quel che mi ha colpito nel testo è proprio l’assenza assoluta di qualsiasi accenno a un piano provvidenziale, a qualcosa o qualcuno “ extra homines”, a parte un doloroso ”Dio o chi per lui sta cercando di dividerci”.

In una saga quindi che ripercorre il cammino, il lento progresso dell’uomo nel mondo visto da un ottica illuminista Dio, tra conflitti lotte operaie rivoluzioni scoperte sopraffazioni appare una volta sola di striscio e appare nella veste più deandreiana che conosciamo: quella del potere che ne ha usurpato il posto. Non erano tempi quelli di salamelecchi e sviolinate, oggi a distanza di trent’anni Dalla,come molti d’altronde, si è chiamato fuori, ha sepolto nel passato la sua vena contestatrice e provocatoria e si è trovato a consacrare e legittimare la presenza e le ragioni di Dio nel mondo (Inri). D'altronde questo rendez vous con la fede pare che oggi sia una tappa quasi obbligatoria per molti cantautori, da Baglioni a Jannacci a Vecchioni stesso, quasi che “ tirare i remi in barca” abbia bisogno di una giustificazione, di un alibi che faccia da solido contrappeso.

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20Completamente in un'altra direzione vanno a parare Edoardo Bennato (affacciati, affacciati del ’75) e Franco Battiato ( il re del mondo del ’79), entrambi lontanissimi dall’ingenuo buonismo della strapopolare “io vagabondo” dei Nomadi del ’72 nella quale, quasi a predicare nel deserto ,i Nomadi tiran fuori il tipico disadattato “precario? Nullatenente? Ragazzo allo sbando?) che di fronte agli sbattimenti della vita (soldi in tasca non ne ho), sa comunque di poter contare su Dio. Elementare Watson.

Ben più tosto e originale si dimostra Bennato che è a suo modo un antesignano, inaugura cioè una serie di velenose se non sarcastiche lamentele contro il clero: e farà scuola come dimostrano successive performances di Masini e Cristicchi ad esempio.Canzone personalissima che colpisce duro il Pontefice e con lui direi, la Chiesa tutta e il suo interessato ufficio nel mondo. Anche qui non è messa in discussione la divinità, ma per la prima volta la supponenza retorica dei suoi ministri che promettono e non mantengono, che chiedono pace e onestà senza darne l’esempio.

Bisogna considerare che una gran parte di cantautori crede in Dio ma non sopporta l’istituzione terrena che lo rappresenta: non è cioè messo in discussione il messaggio d’amore di Cristo, ma il soffocamento di ogni libertà personale da parte della Chiesa, nonché la sua corruzione e il suo potere ricattatorio, soprattutto sui deboli. E se Bennato se la prende con il Papa cattolico, Franco Battiato (’79) punta in ben altra direzione.A Battiato ogni rivelazione sta stretta e non certo per confessato ateismo ma al contrario per un suo immaginifico e totale spiritualismo che và oltre la riduttività e il particolarismo culturale appunto di qualsiasi rivelazione.E così fin dagli esordi gli piace giocare con un universo non contenibile nel ristretto cerchio della carità cristiana, ma individuabile e decifrabile (in un mare di simboli) in un contesto ben più ampio dove egli si muove e si esplica tra misticismi orientali e nozioni sufi,con vaghe parentele nel mondo musulmano e arabo in

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genere. La produzione di Battiato è tutta connotata da questo forte spiritualismo, a volte volatile e catturabile nella meditazione estrema, ma comunque e sempre presente anche quando sembra non esserci e che impregna il senso delle sue canzoni e suggerisce traguardi finali di pace e armonia (vedere” la cura”).

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“il re del mondo” è favola di tentazioni umane ammalianti e umilianti(tecnologia, progresso ) e mito dell’altezza spirituale di Agarthi, re del mondo appunto che attraverso i suoi “migliori” segue e indirizza gli uomini, fa da super visore al loro cammino.Si inserirebbero qui interrogativi vari e forse marginali sul dispotismo di Agarthi, sulla possibile negazione del libero arbitrio, nonché dubbi sulla bontà o meno di questo re del mondo che, come dice Battiato “ci tiene prigioniero il cuore”.Ma quel che più conta del brano è la contrapposizione tra la follia mediatica tecnicistica degli uomini e la pace che dà loro un percorso di meditazione extra terrena. Le nozioni che possediamo, gli oggetti che consumiamo, non han niente a che vedere con la vita che possiamo riconoscere molto meglio nel vento che ci accarezza mente torniamo in bicicletta verso casa: metafora bellissima e folgorante.

Questo è forse l’assunto il trait-d’union tra divino e umano (anche buddismo e confucianesimo e non solo lo ricercano) : essere cioè in perfetta armonia con l’universo, corpo e anima.Ecco allora che l’apparente contraddizione con il libero arbitrio vien meno.Canzone oscura ma stimolante che si permette di dileggiare i miti dell’uomo faber mediatico e sottacere la tradizione cristiana per scandagliare un avvicinamento all’infinito totale libero dal peso delle differenti culture storiche che hanno partorito appunto religioni diverse per ogni popolo.

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Agli inizi degli anni ’80 si torna per così dire alla tradizione con Renato Zero e Vasco Rossi, appena prima del grande silenzio che durerà fino agli anni ’90.Vasco “portatemi Dio” (dell’83) è già uguale a se stesso coerente con il suo personaggio provocatorio e blasfemo, crudo, granitico, cialtrone e coraggioso. E siccome è Vasco Rossi fa quel che nessuno aveva mai tentato, se la prende direttamente con Dio quasi che Costui fosse un divertito torturatore delle sue creature, intimandogli senza pudori di presentarsi in giudizio e attribuendosi il potere di giudicarlo.Il ribellismo di Vasco Rossi imponeva prima o poi una scelta del genere (che ha una lunga tradizione in poesia e prosa) e probabilmente solo lui poteva permettersi in canzone una simile levata di scudi. L’originalità del pezzo sta nel soggettivismo (presente anche nella Madonnina dei dolori di Gaber), perché Vasco non se la prende con Dio per le ingiustizie e i dolori dell’umanità di cui pare fregargliene poco o niente, bensì solo per le colpe che il Signore avrebbe nei suoi confronti (“gli devo raccontare la vita che ho vissuto e che non ho capito a cosa sia servito”) che è poi una tacita scusante (visto che non ha senso la vita) al suo remare al contrario: un giustificativo ai suoi eccessi ai suoi anticonformismi.

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Zero no. Zero (“potrebbe essere Dio”, si badi bene al condizionale) ritaglia un brano intenso e profondo senza andare a cercare metafore alate e volando basso e convincente con esempi di tutti i giorni.L’assunto in fondo è lo stesso in cui ci siamo più volte imbattuti, ovvero l’erronea propensione degli esseri umani a mitizzare piaceri fuggevoli, a mercificarsi, a ritenere indispensabili e imperdibili oggetti di tutti i tipi,false immagini di illusoria felicità.

Anche Zero avverte :queste cose non sono Dio, dimenticale. Fin qui tutto normale, tutto secondo un canone noto, ma poi c’è la svolta, anzi la doppia svolta, primo: Dio non è una certezza assoluta, io ci credo ma non ne ho le prove. E allora? E allora: secondo:se Lui non c’è ,Dio sarà “ricostruire”. Ricostruire cosa? L’uomo, a partire dai sentimenti da quello che c’è nel cuore e nell’anima.Credo che Zero sia un uomo di fede, ma anche per lui credere e basta non serve, bisogna agire e infatti si rivolge all’amico assicurandolo che glielo farà conoscere Dio, il suo Dio, che significa prima di tutto rendere partecipi gli altri di quello che si ha nel cuore, farsi conoscere nella propria indifesa umanità, così indifesa che Zero stesso ha un cruccio finale: “ e quando sarà nuda la mia anima di fronte a Te avrai il coraggio di tradirmi?” .Bello anche il timido accenno analogico al tradimento di Cristo.

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Gli anni ’80 sono muti con Dio, a meno che non adombri qualcosa quel “ci vuole un'altra vita” di Battiato del 1986.Scartati i tranquillanti le terapie ed ogni ideologia, cos’altro ci resta in cui credere? Un'altra vita.Già, ma resta il dubbio esoterico, perché Battiato sempre lì va a cascare; ma resta anche un piccolo margine per supporre che abbia pensato per un attimo a un Dio più tradizionale.Comunque gli anni ’80 come già detto non offrono quasi niente alla nostra ricerca e i motivi come per altri periodi simili, sono ovviamente culturali; il riflusso in quasi tutti i campi si beve bellamente ogni discorso che vada più in là degli insipidi amorazzi di tutti i giorni. Sono anni in cui parecchi cantautori, anche storici, cambiano faccia o si rivolgono ad altro;molti di nuovi si affacciano sulla scena, ma non hanno ancora né la voglia né il carisma per misurarsi in tal senso.D’altronde anche alla ripresa l’argomento sarà trattato sulla falsa riga degli esempi più illustri di vent’anni prima.Ciò non toglie che salteranno comunque fuori alcune varianti di grande interesse: 1) parlar di Dio in modo personale e soggettivo sarà sempre più frequente 2) particolare genere degli anni ’90 sarà il dialogo a due con il Creatore 3) le canzoni si faranno sempre più brevi e schematiche 4) a parte alcune eccezioni negli anni ’90 e ancor più nel 2000 si invertirà la percentuale tra invettive e preghiere a favore di quest’ultime.In più cresceranno come funghi dichiarazioni più o meno sentite di fede e di amore.

Una delle più belle pagine di ricerca lessicale e letteraria resta sicuramente “qui Dio non c’è” di Baglioni da “oltre” del ’90.Perfetto paradigma del punto 1 di cui sopra, tutta la canzone è un ammucchiarsi di visioni impressionistiche e fortemente personali dell’autore:frammenti di ricordi inusuali e che han marchiato la sua vita, ombre di persone e di amori celate nascoste o sottointese; infanzia e gioventù ripercorse attraverso i giochi e gli incontri, e

25l’angelo della malinconia a coprire tutto,tristezza e sconfitte come strade percorse da solo, senza nessuno, tantomeno Dio che non dà

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segni ,che non scende da lassù e probabilmente non c’è, perché quel che più rimpiange Baglioni è la mancanza di una fede e l’impossibilità di farcela da solo a trovarla. Così su di un tessuto nobilissimo di azzeccate figure retoriche (sinestesie a iosa) non gli rimane che quell’ultimo disperato invito “e allora dio bevi con me, insieme a me”. Mancanza (e bisogno) della fede: ecco un filone nuovo in cui ci imbatteremo ancora, a volte palese, a volte nascosto tra le righe (Gazzè, Masini) non è un caso che questo filone sorga solo ora al principio degli anni ’90 al tramonto di due idolatrie illusorie dei decenni precedenti e cioè contestazione e sfrenato consumismo.

Meritano una citazione alcuni brani “minori” come “Dio c’è” del ’92 di Mia Martini e il suo esatto contrario “Dio non c’è” di Marco Masini del ’93. Il brano di Mia Martini esce un po’ dalla falsariga delle lamentele per il disfacimento spirituale del mondo, perché come la maggior parte dei brani anni ’90 è più personale. Qui Dio infatti è rivisto nelle persone positive e perché no nell’amore e nel sesso che danno un senso al mondo. Altra metafora quindi: Dio c’è, siamo noi, i peggiori, anzi i migliori che è come dire le anime salve di De Andrè.Di ben altro genere è il pezzo di Masini che ha fatto a suo tempo incavolare parecchia gente anche perché costruito in forma di dialogo con Don Ernesto, un prete apertissimo, guida spirituale di “comunisti e farisei” dalle parti del monte Amiata. Masini confessa un ateismo di derivazione paterna, dovuto soprattutto alla poca fiducia che nutre nei confronti dei Vicari di Cristo (a parte Don Ernesto)e la canzone è giocata su due piani temporali: il passato quando Don Ernesto cercava di convincere Marco e Marco lo ascoltava comunque, e il presente tra Firenze e le sue Chiese inutili, dove Marco nega ostinatamente l’esistenza di Dio dopo la morte del suo amico prete.

Si rinnova qui e non è un caso, l’impossibilità di darsi una fede quando non c’è come nel brano di Baglioni, anche se l’andamento realistico quasi cinematografico apre un baratro tra lo stile di Masini e quello sognate e surreale di Baglioni.

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Il 1993 è l’anno di un intensa Ave Maria di Renato Zero.Da rilevare che quando la Madonna appare in canzone fa sempre figure superlative: la sua immagine è accompagnata

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da un senso di rispetto generale quasi fosse un’ icona intoccabile, da non mettere in discussione, al contrario di Dio. Tutto ciò fa parte di un transfert spiegabilissimo. Dio è corrispettivo maschile di forza e dominio e se non suscita amore suggerisce obbedienza cieca; è cioè una figura di potere. La Madonna non comanda e non impone, è l’eterna madre e quindi la dolcezza del mondo e nel mondo. Su questa lunghezza d’onda troviamo la “Madre dolcissima” di Zucchero che è una sintesi dedotta e modernizzata dalla versione canonica degli acuero.

Nel 1994 resta da segnalare un inusuale incursione di Gino Paoli nell’ambito religioso. Già dal titolo “ il Dio distratto” si desume l’argomento: le cose non vanno bene perché Dio non è molto attento. Notare la sottile differenza con altre canzoni sulle disgrazie del

mondo. Qui Dio non è cattivo o sadico, e non è neppure uno che non deve spiegarci niente perché lui sa e noi no. Dio è solo distratto, il che ci riconduce ad un Paoli illuminista e voltairiano, Dio è il grande orologiaio.

Al punto 2) di cui parlavamo sopra, ovvero al dialogo diretto, appartengono “un giorno un sogno” di Antonacci “hai un momento Dio” di Ligabue. Il dialogo con Dio diretto a botta e risposta è cosa impervia e rischiosa. L’escamotage per renderla credibile sta nell’abbassare Dio a livello umano, farlo parlare e agire come un uomo, altrimenti tutto diventa grottesco. Il brano di Antonacci parte bene e poi si sfilaccia, finisce cioè nello stereotipo della donna che non torna e si deprezza ancor più con due versi finali a tarallucci e vino.L’ho scelto perché è un classico esempio di come non si dovrebbe scrivere o di come si scrive quando si hanno le idee confuse. Ligabue, nella sua semplicità, mi sembra invece più consistente. L’approccio all’Eterno (anche qui Dio è umanizzato, ma perché tutti quanti lo portano al bar a bere sto povero Dio?), è più immediato e

27consequenziale, molto discreto, riverente e la domanda non è poi di quelle che ci vogliono anni e pagine per rispondere: “ Io sono un bravo ragazzo, vuoi incontrarmi almeno per un attimo?”.

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L’esordio e l’assunto sono l’esatto contrario della canzone di Vasco Rossi, e così pure il tono. C’è di bello in Ligabue (di allora, un po’ meno di oggi) che rende tutto semplice persino credibile, mette a suo agio chi ascolta e suscita identificazioni positive.Come dicevo all’inizio gli ultimi 15 anni sono un andare e venire di argomentazioni, soliloqui, variazioni su tema che non possono essere assemblati o incasellati in categorie. C’è di tutto:dalla farneticazione geniale di Battiato ne “l’esistenza di Dio”, dove la scienza seziona e ricuce per cercare anima e tracce di sopravvivenza nell’uomo, all’ironia nemmeno troppo nascosta di Paola Turci in “ringrazio Dio” (testo invero criptico dove la solitudine si mischia e si confonde come i soggetti) che quasi implora nuove prove e nuovi dolori per movimentare questa valle di lacrime; all’ennesimo dialogo (stavolta indiretto) di Finardi con Dio, dove l’umanizzazione è chiaramente proposta come un ipotesi (“Se Dio fosse uno di noi”).

Novità piuttosto interessante è qui la sofferenza personale del Creatore (“anche lui con i suoi guai”) e il fantasma di un suo prepensionamento (nessuno che lo invoca mai); ma ancor più originale è il tentativo di dare una risposta alla creazione ( c’è una ragione? E’ una punizione? Una disattenzione? Un caso?), come pure la commiserazione finale per la pochezza del genere umano sempre lì a implorare miracoli o roba simile.In “uno di noi” non c’è solo l’umanizzazione di Dio, ma anche lo scambio di ruoli: è Dio a soffrire e l’uomo a commiserarlo.

28E arriviamo all’agnello di Dio, brano complesso sfuggente, qua e là ostico, faticoso da intendere. Di certo c’è che la figura dell’agnello desunta dal Vangelo assume un significato molto più ampio di quello comune. L’agnello è sacrificale e De Gregori ci illustra una galleria di esistenze illuse, comprate, deteriorate dalla civiltà del benessere “che tutto consuma, compreso l’amore”. Noi lo

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prendiamo in considerazione non per la sua attinenza specifica al tema, ma per la disastrosa rappresentazione che ci da della fine millennio e della incolpevole colpevolezza di tutti laddove non si arriva ad ingannare l’infelicità né con la droga né con nessun altro pretesto illusorio, fino a che in questo sopraffarsi e distruggersi non resta che resistere e infilarsi maschere (“insegnami a fare come si può”, quasi un’ implorazione a un Dio teorico e impossibile).

Lacerante pessimismo che nega un qualsiasi piano provvidenziale finale, Dio non abita da queste parti.

Del ’96 è pure “oggi un Dio non ho “ di Raf, altra temperie ovviamente e minore profondità. Anche qui Dio è metafora di una strada ,di un indirizzo di vita di, un percorso chiaro da scegliere per arrivare a un fine. Il cantautore però sembra aver perso almeno momentaneamente la bussola. “Oggi un Dio non ho” è un esempio “ di crisi ,di accecamento, di buio momentaneo, accidente piuttosto comune nei credenti e quindi fonte di identificazione per chi ascolta. I versi che Raf usa per descrivere il disagio accentuano la facilità di assimilazione, perché a molti capita di sentire come vero imprescindibile il Vangelo (Jetsemani),augurabile l’integrazione (l’arrivo di altri popoli) e via discorrendo, ma quando si spegne la luce niente di tutto ciò colpisce più, niente di tutto ciò ha un significato.

Comunque la crisi, ogni crisi, presuppone una fede e una fede vigile dialettica, interrogativa, dubbiosa, per niente sterile o statica.

Di rilievo come abbiamo già spiegato, che pur non credendo più a Dio l’autore continui a supplicare la Madonna, la cui esistenza evidentemente è data per scontata indipendentemente da Lui.

Passo in rapida successione alcuni testi degni di nota.

29Per la citazione “e punta un po’ di soldi anche su Dio” “il fossile” di Samuele Bersani ci riporta al “proviamo anche con Dio non si sa mai” di Ornella Vanoni.L’eventualità remota non và quindi scartata ma inserita tra tutte le cose che ti possono salvare la vita ( e quella del fossile è proprio un guaio).

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A credere per fede e credere per disperazione si aggiunge qui un “credere per scommessa” che è parente più della rassegnazione che del rischio.Chi invece crede e fa la lista dei suoi buoni propositi e delle sue buone azioni per accattivarsi Dio è Ruggeri nel “Padre nostro” 1989Ma il brano è convenzionale, scontato e gli accenti musicali impongono una metrica obbligata che lo raffredda tantissimo.

Ben altro spessore, e ben altra altezza di ispirazione ne “un Dio che cade” di Gianna Nannini. La canzone è di una consequenzialità perfetta, dall’attesa alla speranza di felicità, che poi dovrebbe essere il fine ultimo di tutti gli uomini. L’attesa, sacra e umana assieme è quella non di un Dio che scende e si fa vedere ma di un Dio che cade e quindi riconosce le possibilità di errore delle sue creature: cade appunto come loro.Nel testo anticonformista brillano le locuzioni usate dalla Santacroce (l’autrice) per un finale che annuncia dolcezza e rifugge dall’orrore del tuono: eccola dunque la speranza, quella di un mondo senza colpe.

E due parole le meritano anche i “Gemelli Diversi” per “ tutto il calore che c’è”. Difficile per una formazione proiettata in avanti trovare tante espressioni tradizionali si, ma rimasticate con passione personale. Il testo è un diluvio di immagini, un rimescolio di vita quotidiana condita dallo stupore e dalla meraviglia di sentire Dio vicino e di vedere tutto più chiaro quando Lui è presente.

Con “prete” di Cristicchi torniamo all’argomento istituzionale: Dio in terra, la sua Chiesa.

Masini aveva risolto la questione chiudendosi in un totale scetticismo ( per i Ministri e per Dio stesso) dopo la morte del suo amico Don Ernesto.

30Cristicchi ci và giù duro sciorinando un enciclopedia di orrori storici e contemporanei del cattolicesimo. Si ha l’impressione che sia andato volontariamente in giro a raccogliere tutti i luoghi comuni (veri o presunti) contro la Chiesa e i suoi Ministri e li abbia rimescolati in tono di rancorosa invettiva, quasi a bella posta per farsi censurare e creare un caso. La sequela di crudeltà (catechismo a memoria, masturbazioni proibite, Madonne che sanguinano, inquisizione, tesori trafugati, intrighi politici etc) ha come acme e

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punta di diamante la irrinunciabile presa di posizione: “ prete non ho voglia di ascoltarti”, giustificata dalla ancor più banale asserzione “la mia religione è il dubbio”. Quanta distanza dal “mi dissocio” silenzioso di De Andrè e dallo sfogo personalissimo di Vasco Rossi. Pure una cosa positiva c’è: nessuno prima di lui aveva avuto il coraggio ( o l’interesse) di collezionare in una volta sola una tal sequela di “j’accuse” per il sollazzo dei liberi pensatori di tutto il paese.

“ posso nascondermi aspettando che ritorni tutto quel vuoto stellato dove a Dio piace improvvisarsi pescatore”.

Tre versi dicono molto di più di un saggio intero e Fossati( “baci e saluti” 2006) li segna ad epigrafe su di un testo straordinario vissuto all’ombra e in parallelo con i grandi poeti sudamericani di cui conosce anima e sintassi.

Cosa significa vivere?

Forse è un infilarsi e uno sfilarsi dentro e fuori situazioni analoghe, girare posti lontani o vicini alla ricerca di un sè momentaneo, provvisorio e casuale, un occhio agli uomini, un occhio alla propria anima.E così si incontra di tutto: bastardi e banditi per lo più, ragazze anche molte, ma in definitiva a furia di vedere e conoscere si finisce con dirsi “io non so chi sono”.

C’è una sola altra alternativa a questo girare e rigirare infinito, a questo mentire a ragazze belle, una sola: fermarsi, nascondersi e appunto attendere il ritorno di Dio. Ma questo Fossati non lo farà; è evidente che la considera come un

31evidenza lontana, l’ultima forse. Ma è pure evidente che quel Dio pescatore lo attrae e parecchio.

L’avventura umana, il viaggio interminabile non prevede almeno per ora quella risposta definitiva. Fatica di vivere e libertà vanno in coppia, si tengono:il giorno per nascondersi, quando verrà, sarà un altro modo di essere liberi. E il francobollo della Consoli (il pendio dell’abbandono 2006), vogliamo parlarne?

In tutto sette, otto versi.

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Il distacco, la solitudine, l’amore che se ne va: l’abbandono è una china in cui si può anche precipitare. Ma c’è il vento, il vento sostiene, il vento annuncia il futuro. Altri tempi e migliori. In disparte Dio assiste affranto e impotente. E’ quasi un romanzo.

Ma c’era bisogno di scomodare Dio? Si, assolutamente, se non altro per appioppargli quei due aggettivi perfetti per conoscere cosa pensi la Consoli di Dio ovvero che “sa”, “vede” ma non “interviene”.C’è in quei due aggettivi tutta l’umanità evangelica di Cristo e il gran dono del libero arbitrio lasciato agli uomini. Almeno io così la vedo. Ma ci starebbe pure un'altra lettura più pessimistica: Dio non interviene perché non può. È debole anche Lui, quasi impotente contro il destino (come nella mitologia greca). Conta però che in entrambi i casi la sua figura riluce di umanità degnissima, fino al dolore straziante per le sue creature. Ta i divertissments sull’argomento è molto godibile il gioco di Max Gazzè (gli anni senza un Dio) dove si accenna alle due generazioni, quella del silenzio e della pazienza( il padre) e quella del disordine e dell’impazienza( il figlio).Tra le sperticate preghiera sempre nel 2007, c’è “Inri” di Dalla. Siamo qui molto lontani dalla visione apocalittica di “ come è profondo il mare” e la preghiera sa di decadenza e di involuzione compositiva. Dovrebbe essere un atto di fede ma si presenta come un compitino ben fatto e infarcita di cose dette e stra-dette.

Ma la voce più certamente più originale, più singolare che si eleva a cantare il rapporto con una sacralità presente e intangibile, ma comunque chiamata a significare la speranza è quella nel 2006 di Vinicio Capossela in “ovunque proteggi” .Non esiste nessuna

32preghiera, nessun “a tu per tu” in questi anni che arrivi così decisamente e direttamente al Signore, come questa voce laica e sprovveduta, peccatrice, deviata dagli eventi, ma pregna di una fede tra disperazione e sogno.

Capossela porta il dialogo a due all’estrema essenzialità - valore del lirismo ed è cantore graffiante della sua anima in questo estremo rivedersi e risolversi nel bisogno spasmodico non di doni o facilitazioni, non di conquiste o miracoli, ma di tenerezza divina, di aiuto ora e sempre, in una parola di protezione. L’ambiguità è evidente: Dio è quasi assimilabile a una persona umana (a un padre, a una donna) che comunque ci sia, sia pronta a prendere le

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sue difese sempre (ovunque proteggi la grazia del tuo cuore); ma è straordinariamente pulsante ed emozionante il desiderio dolcissimo che Dio o chi Capossela voglia investire di tale potere sia la “conditio sine qua non” per continuare a vivere e credere.

Questo sghimbescio, questo sfogo fuori norma, questo mascherare una fede per creare amore resta una delle invenzioni più riuscite a significare un rapporto possibile con il Signore.

Il tormento esistenziale di vivere e non sapere il perché ,di ripetere gli stessi gesti, gli stessi atti continuamente, di rischiare la noia e l’abitudine, ma anche l’assoluta aleatorietà di questo vivere, l’angoscia di sentirsi come prigionieri di uno spazio imperforabile e la paura di smarrire la strada, perché “ogni giorno di pioggia che Dio manda in terra” và catalogato e strascinato subito così, son ritocchi di fioretto di De Gregori nella canzone omonima. Pioggia, non sole, e quindi disagio, fatica, velo perenne di tristezza: Dio questo ci manda continuamente pioggia, fatica. De Gregori non è mai stato tenero con l’Essere supremo e pur non parlandone mai direttamente non ha saputo esimersi dallo stigmatizzare, dal punzecchiare, forse perché non l’ha mai capito o (essendo lui) non c’era niente da capire. Comunque questo suo silenzio di anni, dal quale ogni tanto sortisce una freccia al veleno è specchio di un indifferenza e l’indifferenza suona quasi più sconsolata del non credere. Ma ricordiamo che come De Andrè anche lui, anche le sue canzoni, hanno radici profonde nella terra, nelle cose degli uomini.

33Di taglio volutamente popolare è la preghiera degli Avion Travel (se veramente Dio esisti) inserita da Fiorella Mannoia nel suo ultimo album, dico popolare perché l’eloquio è elementare, scorrevole colloquiale e non mancano anacoluti ed errori consapevoli (“voi la mira gli dovete sbagliare”). Si tratta di una supplica scevra di ogni retorica per niente pressante, soffice, gentile, quasi pudica in cui si domanda a Dio quel che in fondo è tutto, quel che non ha bisogno di nient’altro, perché da solo basta a colorare e a dar ragione al resto e cioè che la vita malinconica o felice che sia resti comunque nostra e senza noia.

Nella canzone “culturale”, ovvero comunque costruita, filtrata dalla contemporaneità, “pensata” nonostante l’istintività dei sentimenti, l’approccio con Dio rimanda sempre ad un giudizio sui tempi, sui

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totem e tabù che incontriamo. La canzone “culturale” si diversifica fortemente da quella che chiamiamo “popolare” proprio per l’immediatezza (oltre che per la tradizione orale) di quest’ultima.

Non è nemmeno il caso di puntualizzare che il nostro corso non ha preso in esame il concetto di Dio nella canzone popolare perché avremmo dovuto eseguire ben altri rilievi e rifarci a ben altre fonti.

La “canzone culturale” è legata alla città molto più che al contado e in definitiva non sorge dalla base della popolazione ma è quasi sempre di estrazione riflessa e borghese-ribelle, illuminista, avversa ai ben pensanti e politicamente collocata in un aerea che và dall’anarchismo al pensiero socialista.

Tutti gli esempi che abbiamo proposto rientrano in queste categorie ed è ovvio che oggi come oggi in seguito alla grande trasversalità raggiunta e una certa tendenza alla massificazione a livello medio alto, tendono a rappresentare una mappa abbastanza fedele e ormai maggioritaria dei modi di pensare Dio.

Volutamente ho saltato dall’indagine temporale (che come detto non è probante) un brano di De Andrè da “anime salve” e cioè Smisurata Preghiera. L’ho fatto perché penso si tratti di un compendio generale di quasi tutto quello che abbiamo analizzato e perché oltre ad essere un capolavoro assoluto la possiamo usare

34per tirare le fila, per abbozzare una conclusione ovviamente momentanea, dato che una definitiva non credo sarà mai possibile.

Smisurata Preghiera è il poema finale in 43 versi dell’umanità di sempre, dei luoghi e delle forme del male, delle misconosciute e peregrine apparizioni del bene, delle menzogne e delle violenze contro coerenza e luminosità.

De Andrè ha preso spunto da “Il Gabbiere” di Alvaro Mutis, poeta sudamericano, ricostruendo in versi una “summa” che vale da suo testamento spirituale.Da una parte quindi il potere con le sue mille facce e ancor più con le sue mille maschere, dall’altra tutti quelli che vanno “in direzione ostinata e contraria”, votati alla solitudine, al rimbombo della propria una voce in un coro di sopraffatori.

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Il De Andrè di sempre, alto, altissimo a difendere la debolezza coerente e minoritaria continuamente offesa contro la maggioranza che non lascia spazio a chi esce dal cerchio e dai limiti; è il De Andrè di Villon, dei due ladroni, del fiume sand creek, del suo lontanissimo Piero, il De Andrè percorso da un fuoco di sdegno e da un vento di dolcezza che si confondono e ci ammaliano sino alla commozione.

IL solito Faber sì, ma sul finale ecco la sorpresa, ecco quel rivolgersi umile e disperato a Dio (credere per sopravvivere), implorandolo di salvarli tutti questi “servi disobbedienti” troppo sfortunati in vita per patire anche dopo al morte.E così dopo aver elencato gli orrori e i delitti di una maggioranza presuntuosa e invincibile nei secoli, approda ad una “smisurata (oltre i limiti,oltre le leggi dello stesso Dio) preghiera”, perché il Creatore si accorga anche di chi ha sbagliato, concedendo ,lui Faber A Dio, l’alibi di una svista, di una distrazione da correggere, ma tornando uomo forte e orgoglioso della sua natura nell’ultimo verso che non fa sconti neppure a Dio perché la pace dei diseredati Fabrizio la esige “come un dovere”.

La disamina formale del brano ci lascia attoniti e strabiliati già da quell’incipit senza soggetto (che è al tredicesimo verso), fatto di bagliori pittorici, di sinestesie colorate e sparse, di termini inusuali

35ed evocativi come pochi (il belvedere delle torri/le cose sopra le parole/il facile vento/inesauribili astuzie/orribile varietà delle proprie superbie), dove i potenti tutti, nessuno escluso, vengono bollati qui e per sempre come una malattia un anestesia, una tragica abitudine per quelli che viaggiano in altra direzione.

E quando si conclude l’invettiva prende il volo la vena lirica e celebra sconosciuti eroi che han consegnato sangue e sudore all’umanità, agli “altri” e tra questi Ernesto Che Guevara che curò i lebbrosi in Giordania e probabilmente seminò il suo passaggi di figli dai nomi argentini (“improbabili nomi di cantanti di tango”); gli ultimi nove versi, poi, sono un capolavoro nel capolavoro: è come se tutto il dolore, tutta la miseria del mondo si fossero concentrati in quell’attimo nella sua penna: “non dimenticare il loro volto che dopo tanto sbandare è appena giusto che la fortuna li aiuti”, è così sino ai quattro colpi finali, parattatici rispetto a quelli centrali, anche se di segno e significato opposto: Fabrizio si fa suggeritore a Dio, giustificandolo (anche Lui) come ha fatto con tutti e sempre, ma lo

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mette di fronte alla pietà che proprio Lui non può tradire, lo incatena al patto con la sua divinità fatta di misericordia.

Ci pareva giusto concludere così e non aggiungere altre parole.

La canzone d’autore raggiunge qui una vetta sublime, esula dal genio, si fa poesia pura, nuda e cruda và addirittura oltre la verità che è condizione storica del suo genere.

36

Popolare e pseudo popolare

La prima fallace illusione nell’interpretazione di una qualsiasi opera d’arte e in particolare della canzone d’autore deriva dalla sterilizzazione dei significati e dei segni estremi e dall’esaltazione dei concetti medi tipici della cultura “pseudo popolare”.

Semplifichiamo: la cultura popolare è qualcosa di strettamente legato all’anima vera di una Regione di un habitat o di una nazione tutta: non raramente ha un afflato universale e diventa accettabile ad ogni latitudine superando il tempo e lo spazio geografico.

Quella pseudo popolare è un imitazione ingannatoria, una falsificazione anche ben riuscita delle emozioni primarie e gioca con un bluff oggi più che mai evidente, riesce a farci scambiare per un valore ciò che è di facile intendimento , perché i media comunicativi ci hanno lentamente preparati , plagiati e cloroformizzati fino a costringerci a scelte che crediamo nostre ma

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che in realtà vengono imposte subliminalmente dal business system:

Avviene così che nell’ascoltare un brano noi identifichiamo come prioritari elementi che illusoriamente crediamo dettati da un senso di emotività universale: in realtà li rapportiamo soltanto al nostro piccolo e insufficiente mondo di dare e avere, credersi e illudersi.

L’inganno dello pseudo-arte (inclusa la canzone) scaturisce quindi da una serie di sillogismi errati del tipo

1) tutte le canzoni parlano di me 2) questa è una canzone 3) questa parla di me

Dove la premessa maggiore è del tutto inconcepibile. Capita così che in una cultura che ti spaccia per vere emozioni fasulle o astratte, la maggior parte dei giovani caschino in un tranello fabbricato a bella posta.

37Il peggio è che se anche svegliati e risvegliati da un tale torpore mistificatorio non se ne accorgono: e d’altronde questo non è che l’atto conclusivo di una tragedia estetica totale dove se io non sono educato a riconoscere il bello in generale non posso certo ritrovarlo in una canzone.

La canzone d’autore propone invece un risveglio dall’ovvietà delle emozioni tentando di procurarci un intelligenza critica nella loro scelta e insegnandoci che il valore e la portata dei nostri sentimenti non può restare in balia dei primi sdolcinati, illusori, scontati, semplicistici temi che vengono proposti.

Ecco cos’è dunque la “sindrome onirica”, una specie di ipnosi, uno stato confusionale del nostro senso critico che ci fa scambiare per veri gli imput che arrivano al nostro cuore e al nostro sistema nervoso costringendoci a piangere o a ridere, quando invece sono artefatti ,ingegnosamente adattati alla nostra sensibilità indifesa già provata e dopata , da aver preso il posto di quelli originali che ormai non conosciamo quasi più.

D’altronde il marchingegno del business system è ben noto: basta dare alla gente quel che vuole per far successo; ma il problema sta

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proprio in “quel che vuole”, perché sarebbe meglio definirlo quel che vogliamo noi che lei,la gente, voglia.

Attenzione che questo inghippo, questo inganno non è uno scarto che si verifica tra canzonette e canzone d’autore, ma anche tra canzone d’autore e canzone d’autore, c’è infatti chi cavalca la tigre di una popolarità raggiunta e scende agli stessi compromessi di genere più miseri.

Per capire, per leggere dentro l’arte, manca ai nostri giovani un educazione al bello formale e alla sintesi emozionale: loro si fidano di concetti vaghi e temporaneamente appaganti che sembrano corrispondere perfettamente a un modello di risoluzione delle proprie insicurezze e si limitano quindi a galleggiare su una supeficie di improvvisate costruzioni formali dando più importanza all’ovvio che al vero. Non riescono da soli a uscire da un certo realismo aneddotico (di canzonette e anche di alcune canzoni

38d’autore) proverbiale ,incazzoso-salvifico che li massifica e invecedi avvicinarli al proprio io, li precipita in un baratro di anonimità generale, quando la risposta migliore sarebbe fare un fascio dei piagnistei esistenziali più lassativi che giustificativi di certi presunti geni e pensare a se stessi, al proprio singolare esistere di là dei suddetti pianti e frigni, delle vaghe e non provate accuse alla società e agli altri uomini, vergate in maniera così accattivante e ammiccante dai loro idoli.

Ma questa insulsa rilevanza della canzonetta e la sparagnina ricerca di complicità di certa canzone d’autore sono purtroppo effetti inevitabili e comunque riconducibili allo sviluppo culturale di tutto il paese. Ciò vuol dire, da una parte che la mentalità di una data gente adesso e qui, si rispecchia nel bene e nel male persino nella pochezza delle sue esternazioni sonore, cioè la media-italia vale quello che canta; ma, d’altra parte ciò non vuol dire che dobbiamo tapparci gli occhi e le orecchie e lasciare le cose come stanno; l’importante sarebbe reagire e seguire quella strada alternativa che in parte già c’è. Ma comunque mettiamocela via: un senso critico, un puntuale intendimento del bello, un a sicura spartizione tra vero e falso non sono mai state cose della maggioranza, deve essere una minoranza coraggiosa a fare rilevare puntualmente tutto ciò, a illuminare per quel che può le coscienze civiche e individuali.

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Tutto ciò lo si può fare soltanto indicando senza mai abbattersi il senso del vivere, compito questo non solo di intellettuali e antesignani ma anche per la gente comune.

E così la canzone d’autore, quella che io intendo, sarà forse sempre di minoranza, ma non per questo battuta o sconfitta: il suo itinerario oggi è quello di testimoniare e dare esempio senza però abbandonare la via maestra con facili deviazioni.Resterà sempre così quel che abbiamo detto all’inizio e cioè la maniera più rapida e più vera per arrivare a un sentire comune che vada oltre lo squallore e la mediocrità.