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I RAMPICANTI EDIZIONI VERSANTE SUD Osamu Haneda Y UJI THE C LIMBER

YUJI THE CLIMBER - Yuji Hirayama, dalla Coppa del Mondo alle big wall

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uno dei più grandi rocciatori vivente, incredibilmente ai vertici in quasi tutte le discipline, raccontato da uno dei più grandi giornalisti sportivi giapponesi: Osamu Haneda

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I R A M P I C A N T I

E D I Z I O N I V E R S A N T E S U D

O s a m u H a n e d a

Yu j i t h e Cl i m b e r

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Titolo originale: Yuji the climberPubblicato da Yama to Keikoku Sha, JAPCopyright © Osamu Haneda, 2003

2010 © VERSANTE SUD S.r.l. Via Longhi, 10 MilanoPer l‘edizione italiana tutti i diritti riservati

1a edizione Agosto 2010

www.versantesud.itISBN 978-88-96634-04-2

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Osamu Haneda

YUJI THE CLIMBERYuji Hirayama, dalla Coppa del Mondo alle big wall.

Traduzione di Emiko YasumuraAdattamento di Matteo Maraone

I R A M P I C A N T I

E D I Z I O N I V E R S A N T E S U D

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Salathe Wall

El Capitan. Una delle più grandi pareti al mondo, sicuramente una delle più famose. Mille metri di granito nel Parco Nazionale di Yosemite, uno dei luoghi sacri dell’arrampicata. E anche se la sua immagine ricorre spesso nei reportage di viaggio, vederla dal vivo è un’emozione indimenticabile. Per un giapponese, poi, ha una dimensione molto difficile da immaginare, e per un climber rappresenta una sfida affascinante, strabiliante. La prima salita fu realizzata da Warren Harding, nel 1958. Dopo diciassette mesi di preparazione e tentativi, arrivò sulla sommità con una salita durata quarantasette giorni, aprendo The Nose, la prima via. Nel 1960 un team di quattro persone, Royal Robbins, Joe Fitschen, Chuck Pratt e Tom Frost ripeterono il Nose, mettendoci appena sei giorni. E l’anno dopo aprirono una nuova via, la Salathe Wall. Gli spit usati per la Salathe furono appena tredici, contro i centoventicinque del Nose. Da allora, queste due vie sono probabilmente le più rappresentative di tutta Yosemite, e continuano ad attirare climber da tutto il mondo. Nel 1988 Todd Skinner e Paul Piana riuscirono a liberare la Salathe, senza ricorrere all’artificiale; il Nose avrebbe dovuto aspettare qualche anno ancora: nel 1993 Lynn Hill coronò con successo un tentativo di salirla in libera, e l’anno dopo riuscì addirittura a farla in giornata. La nuova tendenza era cercare di trasformare le big wall caratterizzate spesso da un massiccio uso di artificiale in

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vie ripetibili assolutamente in libera, nel nome di uno stile “pulito”. Nell’estate del 1995 Yuji aveva trovato nuove motivazioni durante un viaggio negli Stati Uniti. Ritornato in Europa aveva ripreso le gare, classificandosi settimo nella Coppa del Mondo. Era pur sempre un buon risultato, e sicuramente un grosso miglioramento rispetto al ventiduesimo posto dell’anno precedente, ma l’obiettivo di Yuji non era più quello: ne aveva uno ancora più grande e importante, almeno ai suoi occhi. La Salathe. Sfogliando un articolo su una rivista specializzata, Yuji aveva letto della ripetizione in libera da parte di Alexander Huber. Era la seconda ripetizione, ma nella prima Skinner e Piana erano saliti in progressione alternata. In questo caso, invece, Huber aveva sempre tirato da primo: nessuno aveva mai scalato quella via nella sua interezza e a quel modo. Guardando le foto degli ultimi tiri, Yuji si chiedeva se fosse possibile scalarla a vista. Era una follia, completamente irragionevole? In molti l’avevano ripetuta, in tre l’avevano fatta all-free, senza artificiale, c’era chi puntava al record di velocità, chi combinava modalità diverse in maniera anche bizzarra pur di entrare nella storia di quelle pareti. Ma nessuno si era mai nemmeno sognato di salirla a vista, senza raccogliere informazioni da chi l’avesse già ripetuta, senza studiare la via, limitandosi soltanto a guardare una relazione. Nessuno tranne Yuji. La sua abilità nell’arrampicata a vista era riconosciuta. Dove altri climber dovevano ripetere molte volte i movimenti per riuscire a concatenarli, Yuji passava

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tranquillamente. La sua capacità aveva un che di irrazionale, di assolutamente istintivo, un dono di natura. Ma, per quanto si possa essere ottimi climber, la Salathe è pur sempre una via di trentasei tiri, e si sviluppa per più di mille metri. Era una scalata ben diversa da quelle a cui era abituato Yuji. Il tiro più duro è un 5.13c (8a+), ma non gli sembrava impossibile, visto che era riuscito già a salire a vista difficoltà analoghe, come per esempio Neophytes, nel Verdon, o Sphinx Crack. Ma quella era soltanto teoria, non era evidentemente possibile rapportare l’impegno richiesto in una big wall con quello di una via ben più corta. Sembrava una follia, lo stesso Huber aveva scartato a priori la possibilità di successo di un tentativo del genere. Yuji era molto fiducioso, e sicuro dei suoi mezzi. Qualche mese prima, in fondo, era riuscito a ripetere a vista, primo assoluto, quella che veniva considerata la fessura più difficile al mondo, pur non dedicandosi da tempo all’arrampicata in fessura. La Salathe, pur essendo prevalentemente in fessura, era ben altra cosa. Per Yuji era un sogno. E un progetto molto emozionante. Dopo il primo entusiasmo, però, si mise a studiare e controllare le relazioni – l’unico aiuto ammesso in un tentativo a vista. Dopo venti tiri avrebbe trovato il primo 5.13a (7c+). Altri cinque tiri, e sarebbe arrivato il 5.13c (8a+). Era un’idea quantomeno stravagante. «Iniziavo a rendermi conto della difficoltà assoluta del progetto, ma questo mi dava ancora più stimoli. Era come se non avessi avuto altro obiettivo, fino ad allora. Sapevo che se ci fossi riuscito avrei fatto la

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storia, e questa fortissima motivazione era una sensazione che, nell’ambiente delle gare, avevo perso da molto tempo. Quando non fu più soltanto un’idea, ma divenne un vero e proprio progetto, passai una settimana insonne dall’agitazione e dall’emozione. Un mio amico, quando gli confidai al telefono quest’idea, mi chiese se stavo bene – pensava fossi uscito di testa! E in effetti a tratti era come se delirassi. Per esempio, in occasione di una visita di Iiyama, una mattina, anziché augurargli buongiorno, gli esposi una riflessione che avevo fatto – non so nemmeno su che tiro, insomma, non pensavo ad altro». Il ricordo dell’amico conferma il suo racconto: «Mentre parlavamo di altro, all’improvviso lui tornava sulla Salathe. La sua testa era da tutt’altra parte, ma la concentrazione, bisogna riconoscerlo, era incredibile, e la sua energia mentale non era mai stata così forte. Dal ritorno dagli Stati Uniti era cambiato completamente, dava prova di una determinazione assoluta, anche se a volte non si riuscivano nemmeno a seguire i suoi ragionamenti». Fino a quel momento Yuji si era concentrato sui tiri difficili in falesia o sulle gare. Semplicemente, non aveva mai sentito l’esigenza di cimentarsi su una big wall, ma per carattere voleva essere il più possibile polivalente ed eclettico: l’idea della Salathe non gli sembrava poi così bizzarra. «Di solito quando si parla di big wall si tende a pensare più a imprese alpinistiche che a salite in arrampicata libera. Credo però che questo tipo di commistioni sia prezioso, per lo sviluppo dell’arrampicata e anche dell’alpinismo, perché apre nuovi orizzonti e nuove sfide. E noi volevamo che questo tentativo fosse di

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interesse e ispirazione per tutti, alpinisti classici, climber, per tutte le persone che vogliono vivere avventure in montagna. Abbiamo scelto di salire in stile ground-up, tipico di Yosemite: si attacca dalla base e si continua in un solo tentativo. Volevamo inoltre che fosse un tentativo più pulito possibile, e per questo intendevamo scalare ininterrottamente, per quanto possibile, portandoci dietro un’attrezzatura minimale per il bivacco e risparmiando sui viveri. Insomma, pensavamo a uno stile alpino molto leggero, volevamo che fosse un tentativo convincente per tutti». Yuji non pensava ad altro, e dall’autunno del 1995 anche i suoi allenamenti, e persino la partecipazione alle gare, furono mirati a migliorare la tecnica a vista. All’ultima gara di Coppa del Mondo, però, svolta ad Aix-Les-Bains a dicembre, Yuji si infortunò all’indice sinistro. Tornò a scalare appena possibile, con molta attenzione e senza forzare, ma il dito continuava a fargli male, e faceva fatica a mantenere la forma. Inizialmente Yuji si era prefisso di effettuare il tentativo sulla Salathe a settembre, ma l’infortunio complicava parecchio le cose, e dovette rimandare di un anno i suoi progetti. L’infortunio non fu l’unico motivo di distrazione: da febbraio, consigliato da un conoscente, Yuji aveva preso a frequentare un corso di danza hip-hop a Tokyo. Non gli interessava tanto il ballo in sé, pensava piuttosto ad assimilarne il ritmo e i movimenti acrobatici. Ogni anno, nei mesi che trascorreva in Giappone, Yuji si dedicava a qualche altro sport, cercando di trarne qualche insegnamento utile per l’arrampicata. Prima del ballo aveva

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praticato aiki-do e yoga, per esempio, e sosteneva che gli fossero stati molto utili per aumentare la concentrazione e per fare movimenti il più possibile efficienti, senza sforzi. La curiosità è sempre stata uno dei tratti del suo carattere, e inoltre era sempre meticoloso e determinato. L’insegnante del corso, Shie Miyaoka, ricorda che «le prime volte che l’ho visto, ho pensato che avrebbe smesso dopo un paio di lezioni. Aveva senso del ritmo, ma non riusciva proprio a imparare le sequenze e le combinazioni di movimenti. Non gli restavano in testa, tutto qui». Al contrario delle previsioni di Shie, Yuji non mollava: «Io sono uno che impara ripetendo le cose. Certo, ci sono persone che al primo colpo riescono benissimo a fare tutto, io magari ho bisogno di ripetere le cose dieci, o perfino cento volte… ma, quando inizio una cosa non voglio lasciarla a metà, e forse questo è un aspetto positivo del mio carattere». Come conferma Shie, «Mi sembrava diverso dagli altri. Ci sono allievi che non riescono proprio, e a suon di frustrazioni e delusioni abbandonano. Le persone più egocentriche, poi, incolpano me dei loro errori e del loro insuccesso. Yuji invece non sembrava prendersela con nessuno, tranne un po’ con se stesso, ma si allenava e ripeteva pazientemente i passi e le sequenze». Affascinato dalla sua vitalità e dalla sua allegria, Yuji prese a corteggiare Shie, finché, dopo un paio di mesi, si fidanzarono. Shie non sapeva niente di quello che faceva Yuji, e non aveva la minima idea di cosa fosse il free-climbing. La prima volta che vide qualcuno scalare fu in occasione di una gara della federazione giapponese, a Ikebukuro. Yuji vinse facilmente, staccando Tomoli Usami, promessa

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nascente, ma Shie rimase molto colpita da quei climber, che le sembravano semplicemente una banda di matti. A maggio di quell’anno, Yuji e Iiyama tornarono negli Stati Uniti per continuare il progetto del libro fotografico su di lui, girando tra Yosemite, lo Utah e il Nevada. Il viaggio però non fu particolarmente positivo. Il dito di Yuji continuava a fargli male, e non riusciva a concentrasi, e il pensiero di Shie lo distraeva ulteriormente. Di solito era Yuji a spingere Iiyama ad andare a scalare, ma in quell’occasione non usciva di casa fino all’ora di pranzo, ciondolava senza far niente, scriveva lettere, mandava fax o telefonava a Shie. A un certo punto aveva anche proposto di tornare indietro per una settimana; non era riuscito a trovare i biglietti, ma Iiyaama era parecchio innervosito da questo atteggiamento. Non riusciva a scattargli foto decenti semplicemente perché non ne aveva praticamente mai l’opportunità. I trasferimenti in auto erano segnati da lunghi silenzi, carichi di tensione. E anche se, ad anni di distanza, il ricordo complessivo del viaggio sarebbe stato positivo, in quel momento la situazione era decisamente sgradevole. Iiyama aveva persino ripreso a fumare, e spesso e volentieri indugiava in innumerevoli lattine di birra. Il nervosismo per i postumi dell’infortunio e il pensiero di Shie fecero scendere la sua determinazione e la sua concentrazione verso il progetto Salathe. Anche i risultati delle gare ne risentirono: a novembre, in una prova valida per il campionato nazionale, venne sconfitto sonoramente da Dai Koyamada, in Coppa del Mondo non andò mai oltre qualche piazzamento non troppo esaltante, chiudendo al quindicesimo posto della classifica generale.

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L’anno successivo segnò invece una graduale ripresa. I risultati in gara non erano ancora lusinghieri, ma il dito ormai era completamente guarito, e Yuji si recò con François e Iiyama in Francia meridionale, per tre settimane di arrampicata. Il libro fotografico era quasi completato, e un gruppo editoriale aveva dato garanzie sulla pubblicazione. Mancavano solo gli scatti sulla Salathe. In quel periodo, inoltre, Shie restò incinta. I due si frequentavano pensando di sposarsi, prima o poi, e questa notizia per Yuji fu un’emozione incredibile. Entrambi avevano molti progetti ancora in corso, ma la gravidanza, evidentemente, portò qualche cambiamento. Tanto per iniziare, nel giro di qualche mese si sposarono direttamente in comune. Shie non voleva, però, che tutto questo fosse d’intralcio nel progetto della salita a vista della Salathe, e dopo averne discusso a lungo Yuji, rassicurato e sostenuto anche dalla sua compagna, continuò i preparativi.La capacità di salire ogni singolo tiro era fuori discussione, quello che sembrava invece mancare a Yuji era la resistenza, che doveva decisamente essere fuori dal comune. Il tentativo era previsto per settembre, il periodo forse migliore per le condizioni climatiche locali, ma Yuji approfittò del viaggio di nozze con Shie per tornare ancora una volta negli Stati Uniti. Voleva cimentarsi sul Nose, che in un certo senso considerava propedeutica, provando a salirla a vista con Iiyama. Si ambientò sul granito di Yosemite salendo, sempre on-sight, Excellent Adventure, 5.13c (8a+), e a fine giugno attaccò il Nose, riuscendo a ripeterla a vista fino al settimo tiro. Gli ci vollero tre giorni, per ripeterla interamente. Il primo bivacco non fu

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spaventoso come Yuji temeva, e in seguito ripetè la via altre due volte, mettendoci sempre meno tempo. Voleva abituarsi il più possibile alle big wall, ma sentiva una stanchezza mai sperimentata in precedenza. «Non credevo che fosse umanamente possibile essere così stanchi. Ci vuole molta resistenza, un sacco di più di quanto io stesso pensassi». Inoltre, doveva adattare il più possibile il suo stile di arrampicata a quel granito. Nei trentacinque tiri del Nose non riuscì a passare red-point soltanto in due punti. Si trattava di passaggi assolutamente aleatori, su prese sfuggenti e con movimenti dalla logica ingannevole. Anche se era una big wall, presentava un continuo distillato di passi quasi da boulder: avrebbe dovuto lavorare molto anche su questo. La nota positiva, invece, fu la resistenza. All’ultimo tiro del Nose, Yuji provò a immaginarsi sulla parte sommitale della Salathe. «Ero esausto, letteralmente a pezzi, ma ho ricreato nella mia mente un altro scenario, quello della Salathe, cercando di visualizzare me stesso mentre la salivo, di capire che tipo di sensazioni avrei provato. Sono riuscito a terminare il Nose con meno sforzo di quanto avessi creduto, e ho capito che l’aspetto psicologico, in una salita del genere, era cruciale. Non avrei dovuto mai abbassare la concentrazione, essere sempre determinato, e solo così sarei riuscito a tirar fuori risorse inaspettate anche nei momenti più critici. Insomma, ho capito perfettamente la lezione: non si trattava solo di resistenza fisica, anzi. E questo è stato un insegnamento preziosissimo. Ciò nonostante, continuavo a essere pieno di dubbi. Se non ero riuscito a scalare il Nose in red-point, come avrei potuto salire a vista la Salathe? Cercavo però

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di lasciare il minor spazio possibile a questo tipo di dubbi, ed ero sempre convinto che ce l’avrei fatta.» Il programma di allenamento di Yuji continuò a ritmi serrati. A luglio, tornato in Giappone, si dedicò soprattutto al boulder in una palestra indoor. In agosto volò di nuovo a Yosemite. Aveva deciso di lavorare al massimo su continuità e resistenza, senza trascurare nessun aspetto dell’arrampicata. Aveva programmato allenamenti strutturati su tre settimane, intervallati da un breve riposo, alternando bouldering, vie in fessure, multipitch brevi e vie dure su strutture artificiali. Il tentativo sarebbe stato il 18 settembre. Aveva ricevuto un’offerta da parte di un canale televisivo per delle riprese, tramite un’agenzia di comunicazione a cui aveva affidato la gestione dei suoi diritti di immagine. Voleva che il tentativo a vista sulla Salathe rappresentasse il culmine della sua carriera, e allo stesso tempo una sintesi del suo approccio all’arrampicata: determinazione, concentrazione, ritmo e fluidità. Il suo assicuratore sarebbe stato l’americano Hans Florine, specialista di velocità su big wall e vera e propria enciclopedia vivente di Yosemite: non poteva scegliersi un compagno migliore. Yuji aveva conosciuto Hans nell’ambiente della Coppa del Mondo, e da subito si era stabilito un legame molto amichevole, un’intesa particolare. Hans non aveva avuto un attimo di esitazione quando Yuji gli aveva chiesto di collaborare al suo progetto. Un’altra figura chiave fu Hidetaka Suzuki. Dopo essersi fatto un nome come alpinista, Hidetaka era

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convertito – con lo zelo di un evangelizzatore – al free-climbing. Aveva passato quasi vent’anni, agli albori del free-climbing, a girare gli Stati Uniti campeggiando nei boschi, ai piedi delle pareti rocciose, conducendo una vita essenziale e stoica, e meritandosi per questo l’appellativo di “eremita dell’arrampicata”. Ancora oggi, soprattutto in Giappone, molti ammirano la sua scelta radicale, citandolo come punto di riferimento per uno stile di vita ideale. Era diventato una figura mitica, avvolto da un alone di leggenda, e quando fu lui stesso a chiamarlo offrendogli la sua collaborazione Yuji trasecolò dalla sorpresa. La squadra era pronta, e ben assortita: «Hans era un tipo molto energico. Del resto, se ti specializzi nell’arrampicata in velocità di una big wall… Invece Hidetaka aveva un approccio molto più rilassato, quasi mistico. A tratti Hans mi spronava e mi incitava, in altri momenti invece era Hidetaka a tranquillizzarmi: Yuji, va tutto bene, è tutto a posto, fai con calma. Quando dovevo attaccare la parete era il turno di Hans, quando invece ero io a dovermi difendere interveniva Hidetaka. Non sarò mai abbastanza grato a tutti e due». La sveglia era fissata alle tre e mezzo del mattino. Yuji era tesissimo, non aveva praticamente chiuso occhio. La partenza fu alle quattro e mezzo, e un’ora dopo si trovavano alla base della Salathe. Cibo, acqua, sacco a pelo e portaledge erano stati portati nel punto in cui avevano programmato il primo bivacco, Heart Ledge. Da lì, Hans sarebbe salito spostando il materiale al secondo bivacco, che sarebbe stato El Cap Spire o The Block. La corda era stata realizzata su misura: settanta metri, di uno

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spessore non eccessivo per non essere troppo pesante, ma sufficiente a garantire una doverosa sicurezza, con l’obiettivo di concatenare i tiri corti non troppo difficili. «La gestione dei tempi era fondamentale. Il meteo poteva fare i capricci, o peggio, e l’idea di dover rinunciare per un temporale mi sembrava insopportabile. E soprattutto sapevo benissimo che avrei accumulato stanchezza su stanchezza. Era una sfida mai tentata». Il sole fece capolino alle sei e mezza, e Yuji attaccò il primo tiro, un 5.10c (6a+). Il primo test severo sarebbe stato al terzo tiro, Friction Slab, una micidiale e aleatoria placca di aderenza di 5.11c (6c+). Nonostante la tensione e la pressione che si sentiva addosso, Yuji superò i primi dieci tiri in due ore. Mantenne un ritmo incredibile fino ad Heart Ledge, superando quattro cordate e passando da Stefan’s Traverse, Hollow Flake e The Ear senza problemi. A quattro ore dall’inizio, però, la forza resistente iniziava a venir meno, e la velocità ne risentiva. Yuji cercava di concentrarsi soprattutto su quello che aveva in quel momento davanti agli occhi: «Mentre scalavo, non pensavo a quello che mi aspettava, affrontavo semplicemente un tiro alla volta. C’erano passaggi molto difficili, ma cercavo di liberarli uno a uno, anche se era tutto molto dispendioso. Ho dovuto combattere per mezz’ora appena sopra The Ear, sentivo la stanchezza che si accumulava, e a un certo punto ho iniziato a sentire dei crampi alle braccia e agli addominali». Nonostante tutto, Yuji arrivò a El Cap Spire, in cui era previsto il primo bivacco, all’una. Aveva scalato a un ritmo impressionante, tanto che sia Iiyama, che si sarebbe

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occupato del reportage fotografico, che la troupe televisiva erano in ritardo e dovettero precipitarsi lì. Nonostante la possibilità di un bivacco relativamente comodo, Yuji volle continuare. I primi due tiri erano semplici, in fondo si trattava al massimo di un 5.11c (6b+). Subito dopo, seguiva un 5.12a (7a+), in teoria abbondantemente alla sua portata. Forse non riuscì a leggere la linea, forse era decisamente troppo stanco, e aveva chiesto a se stesso fin troppo: Yuji cadde su quel tiro. Il suo urlo di disperazione riecheggiò probabilmente in tutta la vallata. Iiyama aveva immortalato il momento della caduta, e commenta così: «Era molto deluso. Affranto. Non smetteva di gridare. Be’, io lo conosco piuttosto bene, quando cade grida al massimo un paio di volte, poi gli basta il tempo della calata e torna tutto a posto, ritorna il solito Yuji sorridente e positivo… ma in quell’occasione… non l’avevo mai visto così. Era a pezzi». Nelle parole di di Yuji, «fino al momento della caduta stavo procedendo cercando di risparmiare il più possibile le forze. Quando sono caduto mi sono sentito come morto. Ho pensato semplicemente che avevo rovinato tutto, che avrei potuto riposare e aspettare, che quello era un tiro abbondantemente alla mia portata, ma io niente, testardo e cocciuto… e tutta una serie di pensieri neri e lividi, carichi di rabbia». Tutti pensavano che il grande sogno di salire la Salathe a vista fosse naufragato, ma c’era ancora una possibilità. Il tiro in cui Yuji era caduto presentava una variante, addirittura più difficile della linea originale. Se fosse riuscito a salirla, la linea della Salathe sarebbe stata

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nuovamente collegata a vista. «Si trattava di un tiro di 5.13a (7c+), ancora più duro del precedente. Saliva dieci metri e poi traversava verso destra rispetto alla linea originale. So che chi l’ha percorso ha usato parecchio artificiale, ma mi sembrava fosse fattibile. Poi c’erano altri cinque metri di traverso, su protezioni pressoché inesistenti, ma non mi restava altra scelta. Pensavo di aver clamorosamente fallito, e mi immaginavo i volti di Iiyama, della troupe televisiva, dei miei referenti presso gli sponsor… era troppo, dovevo provare. E comunque, anche se fossi caduto di nuovo, potevo sempre puntare a una ripetizione red-point». Il suo corpo, però, era al limite. Erano già passate le cinque del pomeriggio, e non era in condizione di riposarsi a dovere. «Era l’ultima chance. Se non fossi riuscito a superare quel tiro, sarebbe stata semplicemente la fine. Ho puntato tutto su quel tiro, e ho incominciato a scalare». Pur al limite, Yuji riuscì a liberare il tiro meravigliosamente. Il sogno della salita a vista, sia pure seguendo una variante, era ancora intatto. E anzi, il fatto che la variante fosse più difficile della linea originale non toglieva nulla al valore dell’impresa. La reazione di Yuji alla caduta era stata eccezionale. «Il più bel ricordo della Salathe forse è proprio questo tiro. Ero riuscito a rimettere in carreggiata tutto, e i due anni di progetti e allenamenti avevano finalmente acquisito un senso. Ancora oggi, penso che quella sia stata la scalata migliore della mia vita». Quel tiro emozionò anche le altre persone che in quel momento erano presenti. Secondo Iiyama, «Non avevo

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mai visto Yuji così. Il tiro non era poi così difficile, rispetto alle sue capacità, ma è stato lo spirito con cui l’ha affrontato che mi ha colpito. Io lo osservavo attraverso il mirino della macchina fotografica, e mi sembrava quasi che avesse un’aura tutto attorno. È stato un momento indimenticabile, mi veniva da piangere». Alle sei e mezza Yuji era arrivato a un altro possibile bivacco, The Block. Fisicamente si sentiva a pezzi, ma era lucido e determinato, e confidava nel fatto di poter proseguire. Un giorno lunghissimo era ormai alle spalle. La mattina dopo si alzò alle sei e mezza, dopo un riposo di dieci ore. Malgrado tutto, aveva un indolenzimento muscolare che non aveva mai sperimentato, e decise di aspettare un po’, sperando che i muscoli si sciogliessero. Alle nove e mezzo, con un’ora di ritardo sul programma, era in parete. Affrontò i primi due tiri con calma, per riscaldarsi, prima di affrontare un tiro di 7c, The Roof, che superò – anche se con qualche difficoltà. Aveva già scalato trenta tiri, e novecento metri della via. La parte più difficile doveva ancora arrivare, lo aspettava appena al di sopra di The Roof. Si tratta della Head Wall, la parete sommitale, con tiri che arrivano al 5.13d (8b). Yuji cadde di nuovo appena sopra un tiro di 8a+. «Mi sentivo molto sicuro nell’arrampicata in fessura, forse avevo sottovalutato quest’aspetto. Fatto sta che in quel tiro c’era anche un movimento molto duro, sembrava più da boulder, e sono rimasto intrappolato lì. È stato un problema di concentrazione, forse». La delusione era forte, ma non come il giorno precedente, e Yuji pensò subito che avrebbe pur sempre potuto ambire a una salita

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red-point, riuscendo peraltro a salire i quarantacinque metri terminali di quel tiro, lungo quasi sessanta metri, in un solo tentativo, con sua grande soddisfazione. Il tiro successivo, nonostante la difficoltà di 5.13a (7c+) era breve, poco più di dieci metri, ma il tempo cambiò drasticamente, e incominciò addirittura a nevicare. Il freddo e la stanchezza si facevano sentire, e Yuji cadde di nuovo. Il tempo a disposizione era sempre meno, in quelle condizioni non poteva assolutamente permettersi un altro bivacco. Nel giro di qualche ora il tempo migliorò, e anche se Yuji dovette letteralmente trascinarsi sugli ultimi tiri, che salì alla luce di una frontale, riuscì ad arrivare in cima, sia pure semplicemente in red-point. Alle otto di sera si concluse il secondo giorno di lotta. Yuji e i suoi amici e collaboratori si ritrovarono a festeggiare nel buio della vetta. L’obiettivo della salita a vista era sfumato, ma complessivamente fu una vera e propria impresa. Nel libro fotografico che, tra le altre cose, documenta questo tentativo, Yuji ha scritto: «Non sono riuscito nel tentativo di salire a vista tutti i tiri. Mi dispiace molto, è innegabile. Forse non ero preparato a sufficienza, o non ero semplicemente abbastanza forte, ma questa volta ho anche sentito molto l’importanza della fortuna nella scalata a vista. La fortuna fa parte del gioco, e per quanto si provi ad allenarsi, acquisire una preparazione che possa andare in ogni caso al di sopra della fortuna è quasi impossibile. E comunque mi sono sentito felicissimo di essere riuscito a esprimermi al massimo delle mie capacità, soprattutto in quella che per me era un’esperienza assolutamente

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inedita. Nel momento in cui finivo l’ultimo tiro sotto alla luce della frontale, ho capito che in quei due giorni si erano espressi tredici anni della mia carriera». Sulla cima di El Capitan, infilato in un sacco a pelo, finalmente libero dalla tensione, Yuji iniziò a rilassarsi, parlando con i suoi compagni di tante cose: la prima caduta appena sotto The Block, la variante, la placca finale… la prossima volta avrebbe cercato di farlo in una giornata. A poco a poco, tutti caddero nel sonno, tranne Yuji, che arrivò a vedere l’alba senza addormentarsi un istante. La notizia del tentativo sulla Salathe fu accolta come un evento sensazionale, sia nel mondo dell’arrampicata che in quello dell’alpinismo. Secondo François Legrand «segnò una svolta decisiva nel cambiamento e nel miglioramento di Yuji. Aveva lottato per tanti anni nell’ambiente delle gare, e avere un obiettivo così grande gli aveva fornito ulteriori motivazioni e nuovi stimoli, che avrebbero portato molta energia in più a partire dalle gare successive». «La prima volta che mi ha parlato di quel progetto, onestamente, sono rimasto un po’ dubbioso. Pensandoci bene, però, e valutando le sue capacità, sia nell’arrampicata in fessura che in quella in placca, per non parlare della sua bravura quando si tratta di scalare a vista, credevo che sarebbe riuscito, in ogni caso, a combinare qualcosa di buono. In quel momento al mondo non c’erano altri climber in grado di farlo, e secondo me era proprio un’idea molto interessante. Sapevo che sarebbe comunque stato un progetto molto difficile, ai limiti del proibitivo, ma comunque giudicavo positivamente quest’idea incredibile,

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anche se non ero del tutto sicuro che ce l’avrebbe fatta. Anch’io avevo salito la Salathe, ma con molta più fatica e in maniera completamente diversa, forse soltanto chi è stato su quegli ultimi tiri può davvero capire quanto fosse un’impresa titantica. In passato, un climber di assoluto talento come Tod Skinner ci aveva messo mesi, provando e riprovando un tiro dopo l’altro, e invece Yuji era riuscito in un solo tentativo. Una vittoria alla Coppa del Mondo è un’impresa straordinaria, ma questa era una cosa di un altro pianeta». Gli apprezzamenti e i commenti positivi venivano da ogni dove, accompagnati da qualche critica isolata: era stato un tentativo troppo pubblicizzato, un’evoluzione scontata di un percorso ormai alla fine, un modo per richiamare nuovamente l’attenzione su di sé… ma Yuji non ci diede peso. L’aspetto fondamentale, per lui, era ritrovare degli stimoli che gli permettessero di proseguire la sua carriera di climber. Un amico di Yuji ricorda che, subito dopo la Salathe, se lo vide arrivare nella piccola palestra che gestiva in un quartiere periferico di Tokyo. Yuji lo salutò e, con sua grande meraviglia, gli disse: «Non sono molto bravo sui tetti, vorrei allenarmi un po’… hai qualche circuito da consigliarmi, per favore?» Era costantemente alla ricerca del miglioramento, attraversato da una grande tensione verso quello che era sempre stato il suo obiettivo principale: diventare il numero uno. E finché non fosse stato soddisfatto di sé, non avrebbe mai mollato, non avrebbe mai cercato scorciatoie o modi di farsi notare. Una persona, in particolare, era fiera del tentativo e

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della performance di Yuji: si trattava di Kiyoshi Hinokiya, che lo aveva avvicinato al mondo del free-climbing. Nel momento in cui Yuji si era dedicato alle competizioni, Hinokiya aveva preso una strada diametralmente opposta, secondo una questione di principio. «Ancora oggi quando vedo gli atleti che si preparano alle gare mi vien da ridere. Li trovo molto buffi, mentre li osservo davanti alla parete che mimano i gesti dei singoli movimenti. Non riesco a crederci! Penso che l’arrampicata debba essere una cosa diversa. Non si tratta di concatenare meccanicamente una serie di movimenti, ma quando li vedo così, ecco, mi sembrano tanti automi. Anche perché conosco climber che non sono mai andati a scalare su una vera parete, in montagna, e non si allontanano mai dal loro pannello». Hinokiya, nonostante questa posizione radicale, prendeva parte a qualche competizione, e con buoni risultati, perché pensava che altrimenti le sue opinioni non avrebbero goduto di alcun credito: troppo facile criticare senza sperimentare di prima mano quello di cui si stava parlando. La vera arrampicata, secondo lui, si esprimeva nella natura. In occasione di un viaggio in Europa era andato a trovare Yuji in Francia. Sarebbe stata l’ultima volta che si vedevano di persona. Dopo quel viaggio Hinokiya pensava di aprire una scuola di arrampicata, in cui avrebbe fatto scalare gli allievi soltanto in ambiente naturale. Ma, di ritorno in Giappone, ebbe un grave incidente in montagna, fratturandosi mani, gambe e bacino, immobilizzato in un letto di ospedale per più di tre mesi. Perse il suo lavoro, accantonò ogni progetto di fondare una scuola e tagliò ogni

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legame con il mondo dell’arrampicata. «Molti pensieri mi tormentavano. Avevo fratture dappertutto, e anche se fossi guarito non sarei riuscito a dimostrare al cento per cento quello che volevo, e tanto meno a insegnarlo. Mi piaceva molto l’idea della scuola, ma non poter insegnare nelle migliori condizioni mi sembrava inutile, anche se probabilmente molti degli allievi, soprattutto i principianti, non avrebbero notato la differenza. Per me invece c’era eccome, e non mi sentivo assolutamente in grado di continuare sapendo di non poter mai tornare a essere al cento per cento. E così tagliai i ponti con il mondo dell’arrampicata». Le voci su quanto accaduto si moltiplicavano, e nascevano delle vere e proprie leggende: alcuni sostenevano di averlo visto scalare in solitaria nella falesie più remote, gli avvistamenti non si contavano più… ma lentamente si era persa traccia di lui. Non andò nemmeno alla festa di nozze di Yuji, gli sembrava inopportuno, e c’erano troppe persone legate al mondo dell’arrampicata. Quando sentì la notizia del tentativo sulla Salathe Hinokiya era raggiante. Era molto felice per l’impresa del suo amico, e si chiedeva come avesse fatto a superare i difficili tiri finali. Secondo lui, era stato un risultato incredibile. Yuji stimava moltissimo Hinokiya, e considerava i suoi insegnamenti come un bene molto prezioso. «In origine il free-climbing era molto più avventuroso, forse anche molto più pericoloso. Spero che questo spirito di avventura non vada perso, e che i climber della prima generazione, come Hinokiya, riescano a trasmetterlo. Il vero fascino dell’arrampicata sta anche nel divertirsi nella

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natura, con gioia e passione, e non solo nel realizzare gradi incredibili. Hinokiya ha sempre cercato di farmi capire questo, ma forse l’ho capito soltanto sulla Salathe. Sapevo che sarebbe stato un tentativo ai miei limiti, ma l’avventura è proprio questo: fare qualcosa che raggiunge i limiti, che li sposta verso l’alto. Mentre ero impegnato su quella parete provavo una quantità incredibile di emozioni, profondamente diverse l’una dall’altra, un insieme variopinto di sensazioni. Non mi era mai capitato». La notizia della Salathe circolò anche al di fuori del mondo dell’arrampicata, e Yuji ricevette premi e sponsorizzazioni inconsuete per un climber. Ripensando a quella via, inoltre, propose di adottare nuovi sistemi per la valutazione delle big wall. La valutazione delle difficoltà di vie di qualche decina di metri non era adatta a una situazione così complessa, e anzi, poteva dare luogo a equivoci e fraintendimenti. E, soprattutto, era davvero difficile valutarne correttamente la portata. Secondo Sakashita, infatti, «ben pochi possono comprendere davvero cosa significhi quest’impresa, anche tra i climber. Solo chi è salito sulle big wall di Yosemite può capire, secondo me. Forse il valore di quella via sta anche in questo, e soltanto tra diversi anni potrà essere apprezzata correttamente. O forse no, anche perché è molto difficile che l’arrampicata sulle big wall diventi uno sport di grande diffusione. Certamente, si possono immaginare le difficoltà connesse a una scalata di questo tipo, ma ci sono talmente tante sfumature da tenere in considerazione… e soprattutto, sono troppo poche le persone che hanno provato un’esperienza simile di prima

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mano, e la percezione del pubblico si annacqua. Mentre, per esempio, scalare l’Everest è alla portata praticamente di chiunque abbia un minimo allenamento e molti soldi, la salita a vista della Salathe è per pochi. Ogni salita di quel genere, probabilmente, e non solo di quella via. Chi conosce quello di cui stiamo parlando sa benissimo cosa intendo, ma il grande pubblico no, e conosce molto meglio, grazie ad articoli, video, e reportage “imprese” che di avventuroso hanno ben poco. Personalmente, mi dispiace molto, e vorrei soltanto che più persone potessero capire la straordinaria portata di quello che ha fatto Yuji».

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Buoux, Francia.

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El Capitan, in azione su El Niño.

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