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Zanna Bianca

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Zanna Bianca di Jack London, illustrazioni di Francesca Coen, edizione Rizzoli 2016. Tesi Master Ars in Fabula.

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Zanna Bianca

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Progetto grafico di Mariagrazia Rocchetti

Titolo originale: White Fang Traduzione di Beatrice Boffito

© 1955, 1979, 1993, RCS Libri S.p.A., Milano© 1994 R.C.S. Libri & Grandi Opere S.p.A., Milano

© 2000 RCS Libri S.p.A., Milano

Prima edizione Rizzoli, febbraio 2016Tutti i diritti riservati

ISBN 978-88-17-08322-5

Finito di stampare nel mese di gennaio 2016presso Errestampa s.r.l., Orio al Serio (BG)

Le illustrazioni sono state realizzate durante il Master in Illustrazione Editoriale Ars in Fabula, 2014-2015.

Docente coordinatore Mauro Evangelista.

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Jack Londonillustrazioni Francesca coen

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La pistadella carne

L’oscura foresta di abeti si estendeva, acci-gliata, su entrambi i lati del fiume coperto di ghiaccio. Gli alberi erano stati spogliati da un vento recente dei loro rivestimenti di neve, e sembravano curvarsi l’uno verso l’altro, neri e sinistri, nella luce morente del giorno.Un vasto silenzio incombeva sulla terra. La terra stessa era una desola-

zione, priva di vita, senza movimento, così solitaria e gelida, che il suo

spirito appariva quello della tristezza stessa. C’era, in essa, come un

accenno di riso, ma di un riso più terribile di qualsiasi tristezza, un riso

freddo come il gelo e che aveva in sé la tragicità delle cose ineluttabili.

Era la saggezza dell’eternità, perentoria e incomunicabile, che rideva

della futilità e dello sforzo della vita. Era il Wild, il Wild del Nord, sel-

vaggio e dal cuore gelato.

Pure, c’era vita, una vita dispersa e testarda. Lungo il fiume ghiacciato

faticava una fila di cani lupo, la pelliccia setolosa coperta di neve. Il re-

spiro, uscendo dalla bocca in spuma di vapori che ne avvolgeva il corpo,

si condensava su di esso in cristalli di ghiaccio. Bardature di cuoio pesa-

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vano sui cani, cinghie di cuoio le legavano alla slitta che tiravano. La

slitta, priva di pattini, era di grossa corteccia di betulla, e la sua intera

superficie poggiava sulla neve. L’estremità anteriore era curvata all’in-

sù come un rotolo di carta, per travolgere e abbattere gli accumuli di

neve che via via si formavano, a guisa di onde, sul suo cammino. Sulla

slitta, solidamente legata, era una cassa, stretta e lunga. Vi stavano

anche altri oggetti: coperte, un’ascia, una caffettiera e una padella; ma

soprattutto spiccava la cassa lunga e stretta, che occupava gran parte

dello spazio.

Davanti ai cani, con larghe rac-chette ai piedi, faticava un uomo, e dietro ne veniva un altro. Sulla slitta, nella cassa, giaceva un terzo uomo, la cui fatica era

finita; un uomo che il Wild aveva vinto e battuto tanto che ormai non

avrebbe più potuto muoversi né lottare. Il Wild non ama il movimen-

to. Perciò la vita, che è movimento, rappresenta un’offesa per esso.

Il Wild congela l’acqua per impedirle di correre al mare; risucchia la

linfa dagli alberi, tanto da farli gelare fino al cuore possente, ma più

ferocemente e più terribilmente ancora, il Wild si accanisce sull’uo-

mo, e lo costringe alla sottomissione schiacciandolo: l’uomo che è la

forma di vita più irrequieta, sempre in rivolta contro il principio che

ogni movimento deve, alla fine, giungere alla stasi.

Ma, davanti e dietro, intrepidi e indomabili faticavano i due

uomini che non erano ancora morti. Il loro corpo era coperto di

pellicce e di morbido cuoio conciato. Le palpebre, le guance e le

labbra erano talmente nascoste dai cristalli formati dal respiro ge-

lato, che i volti erano irriconoscibili, avevano l’aspetto di maschere

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spettrali, e gli uomini parevano becchini in un mondo di fantasmi.

Ma sotto quelle maschere vi erano uomini, uomini che penetrava-

no nella terra della desolazione e del silenzio beffardo, meschini

avventurieri che affrontavano una colossale avventura, sfidando

la potenza di un mondo remoto, estraneo e inerte come gli abissi

dello spazio.

Avanzavano senza parlare, risparmiando il respiro per la fatica del

corpo. Da ogni parte era il silenzio, incombente come una presenza

tangibile. Quel silenzio agiva sul loro spirito come le molte atmosfe-

re di un’acqua profonda agiscono sul corpo del sommozzatore. Li

schiacciava col peso di una vastità infinita e di un decreto irrevocabi-

le. Li opprimeva fin nei recessi più remoti del loro spirito, spremen-

done, come il succo dal grappolo, tutti i falsi ardori e l’esaltazione

dell’anima umana, sì da farli sentire minuscoli e trascurabili, come

pulviscolo, come automi che si muovevano con debole astuzia e poca

saggezza in mezzo alle azioni e reazioni dei grandi elementi e delle

forze cieche.

Passò un’ora, e una seconda. La luce tenue del breve giorno sen-

za sole incominciava a impallidire, quando un debole grido lontano

si levò nell’aria immota. Si librò in alto con rapido slancio, finché

raggiunse la sua nota più acuta nella quale insistette, palpitante e

intenso, e poi lentamente si spense. Avrebbe potuto essere un’anima

perduta che gema, se non avesse avuto in sé una certa ferocia e un’a-

vidità affamata. L’uomo che procedeva davanti ai cani volse il capo,

finché i suoi occhi non incontrarono gli occhi dell’uomo alla retro-

guardia. E allora, al di sopra della stretta cassa oblunga, si scambia-

rono un cenno d’assenso.

Un secondo grido si levò, forando il silenzio, sottile come un ago.

Entrambi gli uomini lo localizzarono subito. Era alle loro spalle, in

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