Immigrati e integrazione
A cura del Centro Studi e Ricerche Idos
INDICE
Introduzione
Il concetto di integrazione
Le tre “P” dell’integrazione: processi, potenziale e politiche
Le dimensioni dell’integrazione
- Accesso alla casa
- Salute
- Tenuta scolastica e indirizzi formativi
- Partecipazione alla vita sociale e accesso ai servizi di welfare
- Integrazione culturale e appartenenza religiosa
- Conoscenza della lingua italiana
- Criminalità
- Cittadinanza
- Seconde generazioni
Gli indici di integrazione del CNEL
- Misurare il potenziale d’integrazione
- La griglia degli indicatori e degli indici sintetici
- Metodologia e relative annotazioni
- Risultati consolidati nel tempo
-
PAROLE CHIAVE
Casa, cittadinanza, criminalità, famiglia, indicatori statistici, Integrazione, lingua 2, occupazione,
pari opportunità, permessi di soggiorno, politica migratoria, reddito, regioni, religioni, scuola,
seconde generazioni, welfare.
BIBLIOGRAFIA
Caritas/Migrantes, Immigrazione Dossier Statistico, Idos, Roma: edizioni annuali dal 1991
(I Rapporto) al 2011 (XXI Rapporto), in www.dossierimmigrazione.it
CNEL, Indici di integrazione degli immigrati in Italia, Roma: edizioni annuali dal I all’VIII
Rapporto, in www.cnel.it
Caritas di Roma, Provincia di Roma, Camera di commercio di Roma, Osservatorio Romano
sulle Migrazioni, Idos, Roma: edizioni annuali dal I all’VIII Rapporto, in
www.dossierimmigrazione.it
Immigrati e integrazione. Il concetto, il processo e le politiche, gli indicatori, la misurazione
Introduzione
L’integrazione si può considerare come il cuore delle politiche migratorie. La sua analisi
implica innanzitutto una ricognizione concettuale che ne precisi i tratti essenziali; un compito,
questo, che a prima vista può sembrare arido ma che invece è determinante ai fini di evitare
semplificazioni inopportune o conclusioni inadeguate.
L’integrazione si struttura anche in una serie di aspetti – dall’accesso alla casa alla salute,
dalla conoscenza della lingua alla devianza – che nella loro concretezza danno subito un’idea
puntuale, seppur parziale, dello stato di avanzamento del fenomeno.
Infine, sotto l’aspetto comparativo, suscitano interesse i diversi livelli di inserimento rilevati
a livello territoriale, che è possibile cogliere mettendo a punto un sistema di indicatori e di indici
statistici.
Quanto qui illustrato dal Centro Studi e Ricerche Idos riassume l’esperienza maturata
attraverso le edizioni annuali del Dossier Statistico Immigrazione Caritas e Migrantes, i Rapporti
annuali del Cnel sugli Indici di integrazione degli immigrati in Italia e quelli dell’Osservatorio
Romano sulle Migrazioni della Caritas diocesana, la Provincia e la Camera di Commercio di Roma,
oltre che mediante altre specifiche monografie curate dalla stessa Idos.
Il concetto di integrazione
L’integrazione è un fenomeno complesso di cui non è possibile, a rigore, dare una definizione
univocamente condivisa perché coinvolge – e dipende da – una molteplicità di variabili contingenti,
che comprendono fattori “oggettivi” (le condizioni territoriali e ambientali di inserimento
lavorativo, sociale, culturale, relazionale ecc.) e “soggettivi” (l’approccio individuale al contesto di
arrivo e le aspettative del singolo nei confronti della società di accoglienza, condizionati peraltro
dalla propria cultura di origine, dalle personali esperienze e progetti migratori, dalla durata della
permanenza ecc.).
Proprio perché, come tutti i fenomeni complessi, l’integrazione sfugge al tentativo di
inquadrarla in un concetto universalmente accettato, valido per tutti in ogni luogo e in ogni tempo,
non solo ogni Paese di accoglienza ha potuto sviluppare diversi “modelli” di integrazione, ciascuno
basato su un’idea specifica di ciò che essa è o sarebbe dovuta essere, ma gli stessi immigrati hanno
finito per avere concetti molto differenti di questo termine, che variano a seconda della provenienza,
dei contesti di insediamento, da individuo a individuo e perfino da generazione a generazione.
Non è un caso, a tal proposito, che la letteratura attesti come molti dei problemi
d’inserimento legati, ad esempio, alle seconde generazioni nascano proprio da un vero e proprio
“conflitto di aspettative” sull’integrazione rispetto agli immigrati di prima generazione (un conflitto
spesso pagato a costi molto elevati in termini di coesione sociale e/o familiare).
Ma oltre che per la grande variabilità delle componenti soggettive e per il diverso peso di
quelle oggettive in gioco (il che obbliga, di volta in volta, a commisurare il significato del termine
alla particolare popolazione immigrata e alla specifica società di accoglienza a cui ci si riferisce, in
una determinata fase della storia migratoria di entrambi), la complessità dell’integrazione è dovuta
anche al fatto che il suo concetto fa equivocamente riferimento sia a uno status, a una condizione,
sia al processo che conduce a tale condizione come al suo traguardo.
A tal riguardo, è significativo che a livello comunitario sia venuta sempre più maturando una
comprensione dell’integrazione come processo più che come status: secondo i Princìpi
Fondamentali Comuni per la Politica di integrazione degli immigrati nell’UE (Documento del
Consiglio dell’UE 14615/04) essa è “un processo dinamico e bilaterale di adeguamento reciproco
da parte di tutti gli immigrati e di tutti i residenti degli Stati membri” che, da una parte, “implica il
rispetto dei valori fondamentali dell’UE” e, dall’altra, la “salvaguardia della pratica di culture e
religioni diverse”; per favorire un tale processo si segnala che è cruciale “l’accesso degli immigrati
alle istituzioni nonché a beni e servizi pubblici e privati, su un piede di parità con i cittadini
nazionali e in modo non discriminatorio”, e che “l’interazione frequente di immigrati e cittadini
degli Stati membri è un meccanismo fondamentale”.
Nella più recente Agenda europea per l’integrazione dei cittadini dei paesi terzi (COM
(2011) 455) si conferma che l’integrazione “è un processo evolutivo, che […] comincia dalla base
[…] secondo un autentico approccio dal basso, a contatto con la realtà locale”, “tramite la
partecipazione”.
Anche a livello nazionale, del resto, si rileva la stessa predominante comprensione
dell’integrazione come un processo che implica partecipazione e reciproca apertura: basti ricordare,
ad esempio, che già il Testo unico sull’immigrazione (art. 4 bis) definiva l’integrazione come “quel
processo finalizzato a promuovere la convivenza dei cittadini italiani e di quelli stranieri, nel
rispetto dei valori sanciti dalla Costituzione Italiana, con il reciproco impegno a partecipare alla
vita economica, sociale e culturale della società”. Del resto, proprio sulla nozione di identità aperta,
oltre che su quella dell’incontro (che “non è mai in astratto tra culture, ma sempre tra persone”), il
Piano per l’integrazione nella sicurezza, varato dal Governo italiano nel giugno del 2010, ravvisa
“le parole chiave di un ‘modello italiano’ di integrazione […] che supera, da un lato, l’impostazione
multiculturalista (per la quale le differenti culture per convivere debbono rimanere giustapposte e
perfettamente divise), e, dall’altro, la matrice assimilazionista (che mira alla neutralizzazione delle
tradizioni presenti in un ambito sociale a vantaggio di quella che ospita le altre)”.
Le tre “P” dell’integrazione: processi, potenziale e politiche
Ogni processo di integrazione si svolge, come tale, nella concretezza dei rapporti umani e
coinvolge le parti della società civile (gli immigrati, da un lato, e gli autoctoni, dall’altro) in quanto
poli di una relazione di scambio reciproco (correlazione) che si svolge nel tempo e che mira a
costruire un’identità comune in cui tutte le parti in gioco possano riconoscersi, “sentendosi a casa
propria” (pervenendo, cioè, a ciò che la lingua tedesca chiama Heimat, il sentimento di vivere in un
luogo appunto come nella propria patria, secondo l’accezione originaria del termine).
La coesione sociale, infatti, è garantita dal riconoscersi in un patrimonio identitario comune
che sia il frutto della reciproca compenetrazione dei portati culturali di partenza propri di ciascun
polo, all’interno di un processo in cui le identità si aprono alla s-fida (letterale) dell’altro e,
dialogando, si vengono ridefinendo in una nuova identità condivisa (una nuova italianità, nel caso
specifico) che le abbraccia e le supera al tempo stesso.
Ora, sia pure con difficoltà comprensibilmente maggiori, questo risultato qualitativo (che
corrisponde allo status di integrazione effettiva raggiunta in un certo territorio) può scaturire dai
processi di integrazione, come loro esito positivo, in maniera anche indipendente dai fattori
oggettivi sopra menzionati (situazione occupazionale e abitativa, accesso ai servizi, inserimento
scolastico, dimensione familiare, cittadinanza, ecc.).
Infatti non si può escludere (e, anzi, talora l’esperienza lo attesta) né che anche in luoghi ove
l’inserimento socio-occupazionale degli immigrati (a cui sono riferibili, in via generale, tali fattori)
risulti più carente o problematico rispetto ad altri contesti, si dia comunque il caso di immigrati che
si sentano e si dichiarino effettivamente integrati (in quanto, nelle loro interazione con il territorio e
con la popolazione locale, hanno maturato una condizione per cui lì, nonostante le criticità oggettive
di queste dimensioni strutturali, si sentono comunque “a casa propria”); né che, pure in un
(ipotetico) territorio in cui tutti questi fattori strutturali, oggettivi, fossero riscontrati a livelli
soddisfacenti, ci si imbatta nondimeno in immigrati che non si sentono (e di fatto non sono)
integrati.
Come già osservato, l’integrazione è infatti un fenomeno multidimensionale, che passa
anche attraverso fattori soggettivi che riguardano – ad esempio – l’impatto psicologico con il
contesto d’arrivo, la qualità delle relazioni sociali e intersoggettive che si instaurano nel luogo in cui
si viene a vivere e, soprattutto, il grado di corrispondenza tra la realtà che si trova e le aspettative di
integrazione che ciascun immigrato nutre.
Queste ultime, in particolare, rappresentano una variabile oltremodo mutevole giacché,
connesse alla diversa idea di integrazione che ogni straniero persegue, cambiano – come ricordato –
non solo da collettività a collettività, da generazione a generazione, da individuo a individuo, ma
anche, nello stesso individuo, a seconda della fase temporale della sua permanenza nel paese
d’arrivo.
Ne consegue sia che, quand’anche si utilizzino indagini di tipo esclusivamente qualitativo
volte a misurare – attraverso dati individuali – lo stato di “soddisfazione” degli immigrati circa la
loro integrazione, poiché tale stato finirebbe comunque per riferirsi a idee e aspettative alquanto
differenti, il livello di integrazione così desunto rischia di essere relativo a un termine non univoco
di riferimento (il che obbliga ad assumere in ogni caso una working-definition che, senza pretesa di
esaustività, costituisca un riferimento unitario per la ricerca); sia, d’altra parte, che non è (né può
essere) il livello di integrazione effettivamente raggiunta ciò che propriamente è in grado di
misurare un qualsiasi studio che, invece, si limiti a prendere in considerazione un insieme di fattori
puramente oggettivi, riguardanti l’inserimento sociale e occupazionale degli immigrati nei diversi
territori italiani.
La connessione di questi fattori con l’integrazione poggia, infatti, sul presupposto per cui,
considerati nel loro insieme, essi determinano quelle condizioni strutturali di partenza che, rilevate
ad adeguati livelli all’interno di un territorio, rendono ragionevole presumere che lì i processi di
integrazione tra immigrati e autoctoni possano più agevolmente innescarsi e realizzarsi con
successo, rispetto a dove tali condizioni siano invece più carenti o problematiche.
È per questo che, a rigore, misurare un insieme significativo di tali fattori oggettivi nei
diversi contesti territoriali significa piuttosto misurare il potenziale di integrazione che è proprio di
ciascun territorio (ovvero determinare quanto l’insieme delle precondizioni strutturali di un certo
contesto siano più o meno favorevoli all’innescarsi e/o al buon esito dei processi di integrazione in
loco); e in virtù della correlazione illustrata, tutti questi fattori di inserimento sociale e lavorativo
assurgono, dunque, a indicatori di un simile potenziale.
Tuttavia, sebbene non sussista – come spiegato – un collegamento automatico tra il
potenziale di integrazione rilevato e l’integrazione effettivamente raggiunta, è di grande importanza
conoscere, nelle sue componenti strutturali, il potenziale di integrazione di un territorio in ordine
alle politiche di integrazione da adottarvi, se si vuole che queste incidano in maniera efficace.
Per comprendere meglio il nesso tra potenziale e politiche di integrazione, occorre ricordare
che la condizione fondamentale perché i processi di integrazione, così come sono stati sopra
illustrati, possano plausibilmente puntare a una buona riuscita è che gli attori in gioco (attori che –
come si è osservato – sono le persone stesse che fanno parte della società civile: gli immigrati, da
una parte, e gli autoctoni, dall’altra, in un determinato contesto territoriale) si riconoscano
previamente e reciprocamente come interlocutori, l’uno dell’altro, su un piano di pari dignità.
E nella misura in cui tali processi si svolgono nella concretezza delle relazioni sociali, anche
questo riconoscimento della pari dignità tra immigrati e autoctoni (che le politiche di integrazione
sono chiamate innanzitutto a sancire sul piano formale, di diritto) richiede di trovare una fattuale
traduzione in tutta una serie di ambiti concreti della vita sociale. Ambiti su cui, pertanto, le stesse
politiche di integrazione sono chiamate a intervenire per rendere reale una tale parità e che
corrispondono esattamente a quegli stessi fattori oggettivi di inserimento socio-occupazionale (la
situazione lavorativa, le condizioni abitative, l’inserimento scolastico, l’accesso ai servizi
fondamentali, ecc.) che, nel loro insieme, determinano – come già detto – il potenziale di
integrazione proprio di ciascun territorio.
Come, infatti, gli immigrati potrebbero entrare, come soggetti a pieno titolo e interlocutori di
eguale livello con gli italiani, in un rapporto di correlazione e scambio reciproco quali sono i
processi di integrazione, quando nella realtà non si danno le condizioni di una sostanziale parità
con i cittadini italiani in dimensioni fondamentali della vita sociale, sperimentando così uno stato di
inferiorità e/o di discriminazione di fatto?
Sotto questo profilo, dunque, ogni studio che, pur non misurando il livello di integrazione
effettiva degli immigrati nei diversi contesti territoriali, cerchi tuttavia di valutare il potenziale
d’integrazione di questi ultimi, svolge nondimeno una funzione strategica per le politiche di
integrazione: infatti, misurando la condizione degli immigrati in quegli stessi ambiti su cui tali
politiche sono chiamate a esercitarsi (e mostrando, negli ambiti in cui ciò sia possibile, anche lo
scarto che separa la situazione degli immigrati da quella degli italiani), dotano i decisori politici, a
livello nazionale non meno che a livello locale, di uno strumento conoscitivo utile a orientarne le
decisioni e gli interventi, calibrandoli in modo tale da intervenire in maniera mirata soprattutto
laddove si rilevano le criticità (e gli scarti) più grandi.
D’altra parte, oltre ad adoperarsi per mettere gli immigrati nella condizione di partecipare ai
processi di integrazione in una situazione di reale equiparazione con gli autoctoni, le politiche sono
anche chiamate a promuovere spazi e canali di dialogo in cui tali processi possano svolgersi senza
degenerare in conflitti che – soprattutto all’interno delle attuali società multiculturali – rischiano di
minare seriamente quel bene comune che è la coesione sociale.
In questa prospettiva, l’impegno delle politiche dovrà preliminarmente svolgersi sul piano
culturale, promuovendo iniziative che, per un verso, mirino ad abbattere barriere, pregiudizi o
steccati ideologici che impediscano o addirittura osteggino il riconoscimento reciproco di cui sopra
(in quanto sviliscono l’altro, negandogli – di diritto e/o di fatto – un ruolo paritario nella relazione e
abolendo, così, la reciprocità); e, per altro verso, che forniscano gli strumenti di base (a partire, ad
esempio, dalla conoscenza della lingua, da una parte, e della cultura, dall’altra) per abilitare gli
attori in gioco a una piena partecipazione alle dinamiche di costruzione di un’identità comune e
condivisa.
Le dimensioni dell’integrazione
Come è stato già richiamato, i fattori che in un territorio possono oggettivamente favorire i
processi di integrazione degli immigrati sono diversi e, almeno in parte, facilmente immaginabili: il
lavoro e la casa sono probabilmente i più importanti, anche per le implicazioni che essi hanno in
termini di permanenza e radicamento sul territorio; quindi, in generale, l’accesso ad ambiti
fondamentali di welfare e la fruizione dei servizi di base (scuola, sanità, previdenza, ecc.), almeno
su un piano di parità effettiva con gli autoctoni; infine, anche certe condizioni esistenziali (come, ad
esempio, l’aver costituito – o ri-costituito, attraverso il ricongiungimento – la propria famiglia, che
è la rete primaria degli affetti) o l’accesso a status giuridici che sanciscono la piena partecipazione
al sistema di diritti e di doveri dello Stato (come, ad esempio, la cittadinanza).
In questa sede analizzeremo alcune di queste importanti dimensioni strutturali
dell’integrazione, prendendo in considerazioe – per ciascuna – la situazione socio-statistica degli
ultimi anni disponibili, così come è stata elaborata negli annuali Rapporti CNEL sugli Indici di
integrazione degli immigrati in Italia (l’VIII Rapporto, presentato nel 2012, è basato su dati
consolidati che nella maggior parte dei casi si riferiscono al 2009 e, per qualche indicatore, anche ad
anni precedenti).
Accesso alla casa
Secondo l’Istituto “Scenari Immobiliari”, in Italia il costo di affitto medio annuo nominale
di una casa di 50 mq situata in zona periferica – secondo la tipologia di abitazione più diffusamente
presa in locazione dagli immigrati – era, nel 2008, di 3.901 euro (427 euro in meno rispetto all’anno
precedente, quando la cifra era di 4.328 euro, per una diminuzione del 10%). Questo costo incideva
per oltre un terzo (35,4%) sul reddito medio annuo pro capite stimato della popolazione straniera
proveniente da Paesi esterni alla vecchia UE a 15 Stati (circa 11.000 euro annui, in base alla stima
Cnel), mentre pesava per poco più di un quinto (21,5%) sul reddito medio annuo pro capite della
popolazione nazionale complessiva (circa 18.100 euro annui, secondo l’Istituto Tagliacarne), per
una differenza di 14 punti percentuali tra le due incidenze.
Si tratta di dati sostanzialmente in linea con gli stessi dell’anno precedente (37,0% contro
22,5%, calcolati sulle retribuzioni medie annue pro capite rispettivamente dei dipendenti d’azienda
nel loro complesso – 19.213 euro – e di quelli provenienti dai paesi extraUE15 – 11.697 euro –
secondo i dati forniti dall’Inps).
La notevole differenza di reddito medio tra i due segmenti di popolazione (quasi il 40% a
sfavore degli immigrati non comunitari, per entrambi gli anni) determina il diverso peso del costo
d’affitto sulle rispettive disponibilità economiche, per cui se esso risulta relativamente
“sopportabile” per la media generale, rende mediamente problematico l’accesso al mercato delle
locazioni da parte di un lavoratore non comunitario.
Restando al 2008 e analizzando la situazione territoriale, i livelli di maggiore accessibilità al
mercato delle locazioni da parte degli immigrati si registrano in quattro regioni italiane di piccole
dimensioni, in cui l’incidenza dell’affitto sul reddito medio si mantiene sotto al 30%: Friuli V. G.
(22,3%), Marche (26,1%), Umbria (27,7%) e Molise (27,9%); seguono, con quote tra il 30 e il 33%,
Piemonte (30,8%), Valle d’Aosta (30,9%), Emilia R. (31,2%), Sardegna (32,0%), Calabria (32,1%)
e Veneto (32,2%). Un mercato della casa praticamente proibitivo, visto il peso dei costi medi di
locazione sui redditi dei non comunitari ivi residenti, caratterizza invece il Lazio (55,4%) e la
Campania (51,9%).
Tra le province, si conferma la possibilità di trovare una casa in affitto a prezzi molto più
accessibili in quelle che fanno capo a centri medio-piccoli: a Gorizia, che conosce l’incidenza più
bassa dei costi di locazione sul reddito dei non comunitari (15,3%), seguono – con quote inferiori al
21% – Macerata (16,8%), Biella (19,5%), Vercelli (19,6%), Cuneo (19,9%), Reggio Emilia
(20,2%), Udine (20,3%) e Pordenone (20,4%). Se a queste si aggiunge Trieste (20° posto in Italia
con incidenza del 25,5%), tutto il Friuli V. G. è rappresentato tra le prime 20 province dai costi
delle locazioni più accessibili agli immigrati.
Molti dei grandi centri metropolitani d’Italia si posizionano nella parte bassa della classifica,
con livelli di accessibilità al mercato immobiliare tra i più bassi d’Italia: Bologna è all’84° posto
con incidenza del 36,9%, Genova al 91° con 39,1%, Milano al 94° con 41,0%, Roma al 98° con
47,9%, Firenze al 99° con 48,8%, Venezia al 101° con 50,8% e Napoli al 103°, ultima con 55,4%.
Salute
Tra i diffusi motivi di diffidenza verso gli immigrati, oltre al pregiudizio che essi sarebbero
portatori di criminalità, v’è ancora piuttosto radicato quello che essi sarebbero anche portatori di
malattie “esotiche”.
E, al pari della loro presunta endemica inclinazione al crimine, anche questa credenza non
trova alcun riscontro statistico; anzi, è documentato che dai paesi più poveri partono generalmente i
giovani più in salute – ai quali vengono affidate le speranze di sostentamento e di sopravvivenza,
oltre che le risorse economiche, di interi nuclei o clan familiari – in quanto i più adatti ad affrontare
sia le notevoli fatiche del viaggio (soprattutto quando si tratta di attraversare, con ogni mezzo
disponibile, deserti e mari) sia le prevedibili privazioni dei primi tempi dell’inserimento nel nuovo
contesto, realizzandosi così una selezione “a monte” della popolazione immigrata più sana.
La circostanza è confermata dal cosiddetto “effetto migrante sano”, cioè dalla constatazione
– statisticamente dimostrata – che gli immigrati appena giunti in Italia godono di migliori
condizioni di salute rispetto a quelli presenti da oltre un anno, il che, insieme agli ostacoli
burocratici e linguistico-culturali che si incontrano – soprattutto per chi è da poco arrivato in Italia –
nell’accesso la servizio sanitario nazionale, contribuisce a determinare la tendenza degli immigrati a
utilizzare i servizi ospedalieri in misura minore rispetto agli italiani, concentrando gli accessi sulle
cause accidentali (traumatismi) e sui motivi legati alla riproduzione (gravidanze e parti).
In particolare, stando ai dati provenienti dall’archivio delle schede di dimissione ospedaliere
(SDO) e relativi ai ricoveri effettuati in Italia da cittadini stranieri presso strutture pubbliche e
private, tanto in regime ordinario (con pernottamento) quanto in day-hospital (ricovero diurno), e
concentrando l’attenzione sugli immigrati provenienti dai cosiddetti “paesi a forte pressione
migratoria” (Pfpm) – Europa centro-orientale, America centro-meridionale, Africa, Asia a
eccezione di Israele e Giappone, Oceania a eccezione di Australia e Nuova Zelanda – si osserva che
nel 2008 sono stati effettuati, in Italia, 502mila ricoveri a carico di questi stranieri, e di questi il
73% in regime ordinario.
Tali ricoveri pesano per il 4,6% sull’ospedalizzazione complessiva in ordinario e per il 3,7%
in day-hospital: percentuali comunque inferiori all’impatto demografico, stimato per l’anno in
studio intorno al 7,2% (con riferimento alla sola componente regolare).
Nel corso degli anni, si è registrato un costante aumento dei ricoveri a carico degli
immigrati: in particolare, rispetto al 2000, le degenze in regime ordinario sono raddoppiate e i day-
hospital quasi triplicati. Sono dati solo in parte spiegabili alla luce dell’incremento demografico
(nello stesso periodo gli stranieri residenti sono aumentati del 206%); soprattutto l’aumento
dell’attività di day-hospital sembra riconducibile, in qualche misura, a una maggiore capacità degli
immigrati di pianificare l’accesso alle cure, per ragioni non più soltanto determinate dalla stretta
emergenza sanitaria.
I pazienti stranieri sono in prevalenza donne (67%, rispetto al 53% tra gli italiani) e giovani:
il 19% è rappresentato da minori, il 70% si concentra tra i 18 e i 49 anni, mentre solo il 3% supera i
65 anni (mentre tra gli italiani la quota si attesta intorno al 40%).
Per valutare comparativamente la frequenza del ricorso ai servizi ospedalieri si può
utilmente usare il tasso annuale di ospedalizzazione (rapporto tra i ricoveri avvenuti nel corso
dell’anno e la popolazione mediamente presente nel periodo): tra gli uomini, i tassi di
ospedalizzazione riferiti agli immigrati maggiorenni sono risultati più bassi rispetto a quelli degli
italiani, al netto delle differenze per età (circa 20% in meno in regime ordinario e 57% in meno in
day-hospital), segno di un minore ricorso alle prestazioni ospedaliere da parte della popolazione
straniera.
Per le donne invece la situazione si inverte, con tassi più elevati del 13% tra le straniere
rispetto alle italiane in regime ordinario e solo di poco inferiori (9% in meno) in day-hospital, il che
sembra riconducibile all’elevato numero di ricoveri a carico delle immigrate per motivi legati alla
riproduzione (parti e interruzioni volontarie di gravidanza).
Negli uomini, la causa più frequente di ricovero in regime ordinario è rappresentata dai
traumatismi (22%), di cui è ragionevole presumere che una quota non trascurabile sia ricollegabile
al contesto lavorativo (per via delle condizioni precarie e la scarsa tutela in cui molti lavoratori
immigrati operano), mentre tra gli italiani troviamo al primo posto le patologie cardiocircolatorie
(intorno al 24%). Al secondo posto troviamo le malattie dell’apparato digerente (14%), soprattutto a
carico del tratto intestinale, e tra queste si segnala un numero particolarmente elevato di appendiciti
acute. Seguono le malattie del sistema circolatorio (11%) e dell’apparato respiratorio (9%, tra cui
assumono rilevanza le forme asmatiche e le broncopneumopatie croniche).
Nelle donne, la causa più frequente di ricovero ordinario è rappresentata dal parto (58%),
che è la prima causa di ricovero anche tra le italiane, sebbene con una frequenza relativamente più
ridotta (17%). A seguire troviamo le infezioni dell’apparato genito-urinario (7%), dell’apparato
digerente (6%) e i tumori (5%). In day-hospital, invece, circa la metà degli accessi (52%) è
determinato da motivi legati alla riproduzione e di questi l’interruzione volontaria di gravidanza
costituisce la quasi totalità. Seguono le affezioni dell’apparato genito-urinario (11%).
Tenuta scolastica e indirizzi formativi
Nell’anno scolastico 2007/2008 (l’ultimo per il quale è stato possibile ottenere i dati di
dettaglio utili all’esposizione seguente), dei 565.011 alunni complessivi di III media che in Italia
sono stati scrutinati per deciderne l’ammissione o meno all’esame finale, era straniero il 6,8%;
mentre dei 18.849 di quelli che, a seguito dello scrutinio, non sono stati ammessi all’esame finale,
gli stranieri erano ben il 17,5%.
Come si vede, l’ultima è un’incidenza più che raddoppiata rispetto a quella detenuta tra gli
scrutinati, per uno scarto tra le due percentuali pari a 10,7 punti percentuali, a significare quanto il
riscontro di una preparazione complessiva non idonea per il proseguimento degli studi superiori
riguardi gli alunni stranieri in una misura così eccedente la quota “fisiologica”, da segnalare la
persistenza di un problema strutturale nel sistema scolastico nazionale quanto alle strategie
formative degli studenti non italiani.
In effetti, a un tasso di non ammissione (% dei non ammessi all’esame finale sul totale degli
scrutinati) riguardante l’intera popolazione scolastica in Italia pari al 3,3% fa da contrappunto, da un
lato, quello dei soli alunni italiani, di poco inferiore (3,0%: 15.543 su 526.312), e, d’altro lato,
quello dei soli alunni stranieri, che lievita invece all’8,5% (3.306 su 38.699), una quota quasi tripla
rispetto a quella degli autoctoni e pari a più del doppio del tasso di fallimento scolastico medio
complessivo (3,9%), che somma il tasso di non ammissione con quello di bocciatura (% di non
licenziati – 2.939 – sul totale degli esaminati – 553.349 –, pari allo 0,5% in Italia).
Un’altra conferma le difficoltà di accesso ai canali formativi superiori da parte della
popolazione scolastica straniera proviene dal considerare la percentuale degli iscritti al liceo –
classico, scientifico, linguistico, artistico e socio-psico-pedagogico – sul totale degli alunni stranieri
frequentanti le scuole secondarie di II grado (al netto, perciò, degli iscritti agli istituti tecnici,
artistici e di formazione professionale).
Nel più recente a. s. 2009/2010, dei 143.224 alunni stranieri iscritti alle scuole secondarie di
II grado in tutta Italia, solo il 19,3% – ovvero meno di 1 su 5, pari a 27.575 scolari – ha scelto un
indirizzo liceale, ovvero un tipo di scuola che non è direttamente orientata all’inserimento nel
mondo del lavoro (come invece sono gli istituti tecnici o di formazione professionale) e che, in linea
di principio, presuppone la continuazione degli studi a livello universitario, lasciando così ipotizzare
un affrancamento dai bisogni primari, legati al sostentamento, da parte delle famiglie di questi
ragazzi (le quali possono perciò investire su una formazione di alto livello e a medio termine dei
loro figli, senza che l’esigenza che questi contribuiscano il prima possibile all’economia familiare, o
che ne diventino quanto prima indipendenti, ne accorci le prospettive di formazione), il che
rivelerebbe un inserimento sociale e occupazionale di questi nuclei di immigrati già consolidato e
avanzato.
A livello di regioni, le più alte quote di liceali tra gli studenti stranieri delle superiori
spettano a Sardegna (35,4%), Campania (32,0%) e Trentino A. A. (30,3%), a cui seguono, con
percentuali comunque superiori al 25%, Lazio (29,1%), Sicilia (26,9%), Calabria (26,6%), Molise
(26,4%), Abruzzo (25,9%) e Puglia (25,0%).
Che il fenomeno tocchi i suoi picchi in diversi territori del Meridione – presumibilmente
anche a causa delle esigue opportunità occupazionali che l’area è in grado di offrire in alternativa –
trova una contropartita nel fatto che importanti contesti del Settentrione, soprattutto del Nord Est,
conoscono invece quote relativamente basse di liceali stranieri: il Friuli V. G., che pure primeggia
in questo indice, è solo 16° con il 19,0%, mentre in coda alla graduatoria nazionale si incontrano il
Veneto (13,7%) e l’Emilia R. (13,4%), uniche regioni con percentuali di liceali inferiori al 14%, a
indicare come in queste aree la cultura del lavoro efficientista, sostenuta da concrete opportunità
occupazionali e di guadagno, investe precocemente i giovani autoctoni e immigrati, ponendosi in
alternativa al proseguimento degli studi superiori.
La circostanza trova conferma anche a livello di province, dato che i valori più elevati si
registrano a Isernia (45,9%), Oristano (45,8%), Vibo Valentia (41,8%), Enna (38,7%), Cagliari
(36,3%), Sassari (35,8%) e Napoli (35,6%); e se Roma è al 20° posto con 29,1%, Milano si trova
solo al 78° con 15,0%, mentre Trieste – prima nell’indice di inserimento sociale – occupa il 33°
posto con un’incidenza del 25,4%, comunque superiore alla media nazionale.
Partecipazione alla vita sociale e accesso ai servizi di welfare
L’accesso ai servizi sociali di base (es. scuola, sanità, ecc.) e ad alcuni beni fondamentali di
welfare (es. casa) è analizzato in paragrafi tematici specifici all’interno della presente sezione,
mentre un indice sintetico per aree nazionali, regioni e province italiane, alla costruzione del quale
contribuiscono indicatori legati a diversi di questi aspetti di inserimento sociale, è tradizionalmente
elaborato – come si vedrà in seguito – negli annuali Rapporti CNEL sugli Indici di integrazione
degli immigrati in Italia.
In questa sede, quindi, verranno sinteticamente prese in considerazione alcune condizioni di
fondo sulle quali basare un adeguato accesso degli immigrati ai servizi e al sistema di welfare del
paese ospitante.
Una prima condizione, squisitamente culturale e politica, consiste nell’adozione di
un’adeguata idea di integrazione alla quale il modello di inserimento sociale degli stranieri possa
essere riferito, inteso che un immigrato non potrà mai definirsi “integrato” qualora venga escluso o
penalizzato nella partecipazione alla vita sociale e nell’accesso ai servizi che lo Stato è chiamato a
garantire.
Sotto questo profilo, è evidente che diversi dei tradizionali “modelli” di integrazione attestati
in letteratura si sono rivelati insoddisfacenti: così è accaduto, ad esempio, per il modello
utilitaristico del Gastarbeiter o “lavoratore ospite” che, rifacendosi all’idea di una migrazione “a
rotazione”, per decenni non solo ha indotto la Germania a non riconoscersi come “paese di
immigrazione” ma le ha anche consentito di disattendere l’adozione di politiche di inserimento
strutturale degli immigrati, precludendo loro diversi canali di accesso e di partecipazione effettiva
alla vita e alle strutture sociali del paese; o per il modello assimilazionistico francese, che ha
condizionato tale partecipazione e accesso all’abbandono, da parte degli immigrati, di tutte le
proprie specificità culturali (in nome di una laicità ottenuta “per toglimento” dei portati identitari
propri del migrante), fino a vietare, in pubblico, ogni segno che possa ricondurre a una particolare
appartenenza culturale o religiosa (si ricordi il grande dibattito sull’uso del velo islamico, dei
simboli religiosi negli ambienti pubblici, ecc.); o, infine, per il modello multiculturalista olandese e
anglosassone, in cui la tutela delle specificità culturali degli immigrati ha finito per promuovere
quasi sistemi paralleli e per frammentare il contesto socio-urbanistico in una molteplicità di identità
chiuse e non comunicanti che hanno pregiudicato l’unitarietà (e a volte anche la coesione) del
tessuto sociale.
Se ci si riferisce, piuttosto, al modello teorico di integrazione delineato nella legge 40/1998 e
ripreso in diversi documenti governativi italiani – modello che, conformemente agli orientamenti
comunitari, da una parte afferma l’universalismo dei diritti (non ultimo quello della piena
partecipazione alla vita sociale del paese ospitante) e dall’altra riconosce come un valore i differenti
portati culturali degli immigrati, a condizione che non confliggano né mettano a repentaglio i
principi fondativi della società italiana, ci si rende conto che l’Italia si muove all’interno di un
quadro teorico di stampo interculturalista, che prevede una reciprocità tale per cui, ad esempio,
mentre da una parte occorre garantire agli immigrati – favorendolo – l’accesso ai servizi
fondamentali, in nome di diritti universali, dall’altra questi stessi servizi sono chiamati a
rimodellarsi per rispondere in modo adeguato alle specifiche esigenze di questa nuova utenza, in
nome della valorizzazione dei singoli portati culturali.
Si arriva così alla seconda condizione, che consiste nell’agevolare gli immigrati (che spesso
si trovano in uno stato di disorientamento e di scarsa conoscenza del funzionamento dei servizi e
delle strutture italiane) attraverso una semplificazione burocratico-amministrativa delle procedure e
la messa a disposizione di mediatori culturali qualificati in grado, oltre che di fare opera di mero
interpretariato, anche di decodificare e raccordare le due culture a confronto, nel rispetto della
specifica comprensione di sé, degli altri e della realtà di cui entrambe sono portatrici.
Un’operazione, questa, che eleverebbe la risoluzione di esigenze pratiche al livello di occasioni per
agevolare i processi di integrazione intesi nell’ottica del dialogo, dello scambio e della reciproca
conoscenza tra immigrati e italiani, senza pretese di egemonia da una parte o dall’altra.
Integrazione culturale e appartenenza religiosa
Se le culture possono essere adeguatamente definite come diversi modi (socialmente
determinati e determinanti) di intendere e comprendere se stessi, gli altri e il mondo, allora ogni
religione, in quanto incide profondamente proprio su questo modo di guardare e di vivere la realtà
nella sua totalità, può essere a ragione considerata un elemento culturale qualificante. Del resto, è
ormai largamente acquisito che diversi dei portati e dei valori culturali delle società “laiche”
derivano da un’originaria matrice religiosa, avendo la secolarizzazione determinato il travaso,
appunto dal patrimonio religioso a quello diffusamente laico, anche di vari riferimenti e concezioni
ideali, spesso fondativi della società stessa.
In questo senso, dunque, le differenze religiose, soprattutto nel rapporto tra autoctoni e
immigrati, possono – almeno in una certa misura – essere considerate come un paradigma (o,
quanto meno, un aspetto sensibile) delle differenze culturali, allo stesso modo per cui il dialogo
inter-religioso è strettamente connesso con il dialogo inter-culturale.
Del resto, la sfida di salvaguardare e tenere insieme, in un medesimo tessuto sociale, i
diversi portati culturali di cui gli immigrati sono espressione – contro ogni tendenza
assimilazionistica, tipica di una laicità “per toglimento”, per così dire – passa necessariamente
anche attraverso il rispetto delle altre religioni e della libertà religiosa in generale.
Da questo punto di vista, ha senso chiedersi in che misura il nuovo contesto multireligioso,
determinatosi in Italia a seguito dell’immigrazione, possa facilitare o meno i processi di
integrazione. In un’indagine condotta pochi anni fa a Roma (cfr. Caritas Italiana, Ambasciata di
Germania a Roma, Da immigrato a cittadino: esperienze in Germania e Italia, Idos, Roma, 2008, p.
88-98) ben un terzo degli immigrati intervistati ha ritenuto che le differenze religiose fossero
d’ostacolo all’integrazione, fondata su principi condivisi, riferendosi in maniera ricorrente all’islam.
Sebbene anche in Italia la questione religiosa rischi di rappresentare un impedimento per la
realizzazione di una autentica integrazione, il problema sembra porsi in maniera più sfumata
rispetto ad altri paesi, grazie a una frammentazione piuttosto variegata delle appartenenze religiose
degli immigrati.
Basti pensare che – in base a un originale metodo di stima delle appartenenze religiose
opportunamente messo a punto e perfezionato, negli anni, dal Dossier Statistico Immigrazione
Caritas/Migrantes – nel 2010 tra gli stranieri residenti i cristiani, che pure rappresentano la
maggioranza assoluta (53,9%, pari a un totale di circa 2.455.000 persone), vedono prevalere al loro
interno gli ortodossi (1.405.000, pari al 30,7% di tutta la popolazione straniera considerata) sui
cattolici (876.00 e 19,2%), i protestanti (204.000 e 4,5%) e altri gruppi come testimoni di Geova,
mormoni, ecc. (33.000 e 0,5%), mentre i musulmani nel complesso (senza distinguere al loro
interno tra sunniti, sciiti e altri gruppi) sono un terzo di tutti gli immigrati (1.505.000 e 32,9%),
seguiti da un consistente numero di atei o agnostici (196.00 e 4,3%), quindi da induisti (119.000 e
2,6%), buddhisti (89.000 e 1,9%), fedeli di varie religioni orientali come quelle tradizionali cinesi,
il confucianesimo, il gianismo, il sikhismo, lo shintoismo, il taoismo e lo zoroastrismo (61.000 in
totale), credenti di religioni tradizionali africane (46.000) ed ebrei (meno di 7.000).
In virtù di questa configurazione spiccatamente “policentrica” delle appartenenze religiose
degli immigrati, nessuna detiene un monopolio così schiacciante sulle altre da potersi arrogare il
diritto di assolutizzare le proprie istanze, il che dovrebbe favorire di fatto un maggior rispetto delle
minoranze. Sarebbe riduttivo, ad esempio, affermare che la differenza religiosa, in Italia, si
esaurisca nell’Islam, come del resto non è giusto inquadrare pregiudizialmente l’Islam (peraltro
intendendolo in maniera semplicistica, ma fuorviante, come una realtà monolitica e omogenea) in
un ottica negativa.
Riguardo alle diverse fedi, si pone poi anche la questione del riconoscimento sul piano dei
diritti, aspetto complesso e al tempo stesso basilare ai fini di un dialogo serio e rispettoso.
Conoscenza della lingua italiana
L’integrazione linguistica degli stranieri in Italia è stata “istituzionalizzata” dapprima
mediante il Decreto del 4 giugno 2010, il quale ha inserito la conoscenza della lingua italiana –
almeno di livello A2 – tra i requisiti necessari per l’ottenimento dell’ambita Carta di soggiorno CE
per soggiornanti di lungo periodo (documento di durata illimitata – e quindi affrancato dall’obbligo
di rinnovo – che un immigrato non comunitario può richiedere dopo un soggiorno regolare e
continuativo di almeno 5 anni e che non solo dispensa dall’obbligo di stipulare un contratto di
soggiorno e consente il reingresso in Italia senza visto, ma dà anche diritto all’assistenza
previdenziale e all’accesso agli alloggi di edilizia pubblica).
A questo atto è seguito, il 28 luglio del 2011, il Regolamento attuativo dell’Accordo di
integrazione: si tratta di un Accordo, istituito circa un anno prima, che ogni non comunitario
ultra16enne che fa ingresso per la prima volta in Italia (per motivi di lavoro – tramite il decreto
flussi – o per ricongiungimento familiare o come rifugiato o con protezione internazionale) deve
sottoscrivere contestualmente alla domanda di rilascio del permesso di soggiorno.
L’Accordo prevede il raggiungimento di una serie di obiettivi nell’arco di 2 anni, ai quali
corrispondono dei punteggi: se in questo periodo non ne saranno stati raggiunti, rispetto a un
massimo di 30, almeno 17, l’accordo sarà prorogato di un anno per consentire il “recupero” dei
crediti; mentre se i punti saranno meno di 17 il permesso di soggiorno non potrà essere rinnovato e
il non comunitario verrà espulso. Tra gli obiettivi “a punteggio” previsti (partecipazione a un corso
di educazione civica organizzato dalle Prefetture, conseguimento di titoli di studio, formazione
professionale, iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale, stipula di un contratto di locazione o di
acquisto di una casa) v’è, appunto, anche la conoscenza della lingua italiana almeno a livello A2.
Così, al pari degli aspiranti alla Carta di soggiorno CE, anche i non comunitari neo-entrati in
Italia (per i quali, a differenza dei primi, i tempi sono contingentati e non possono essere
dilazionati) dovranno sostenere un test di italiano, per accedere al quale occorre iscriversi via
internet presso l’apposito sito del Ministero dell’Interno (www.testitaliano.interno.it) e attendere,
entro 60 giorni dalla richiesta, la convocazione (se tutti i requisiti saranno risultati in regola) per
sostenere il test presso un Centro Territoriale Permanente (CTP), unica struttura abilitata a rilasciare
i relativi attestati, oltre che affidataria del compito di congegnare le prove d’esame (tre e
sostanzialmente scritte: comprensione del testo, ascolto e trascrizione, composizione) e di
espletarle.
Stando ai soli aspiranti alla Carta di soggiorno CE, nei primi 6 mesi del 2011 le domande
pervenute per accedere al test sono state, in Italia, oltre 51.000: una cifra pari ad appena il 12%
circa dei 400.000 soggiornanti che, a giugno dello stesso anno, risultavano aver maturato i requisiti
per richiedere la Carta (circostanza sulla quale ha indubbiamente pesato anche una oggettiva
carenza informativa: assenza di manifesti, di pubblicità televisive, di circolari alle Camere di
Commercio, al mondo datoriale e sindacale, ecc.). In ogni caso, delle domande pervenute oltre un
decimo è stato automaticamente respinto dalla procedura informatica per difetti nei requisiti mentre
ben un quinto ha riguardato persone che poi non si sono presentate il giorno della prova
(probabilmente diversi erano convinti che le lungaggini burocratiche avrebbero fatto slittare il
termine dei 60 giorni e che quindi avrebbero avuto tutto il tempo di frequentare un corso di italiano,
mentre tale termine è stato generalmente rispettato); altri, poi, non hanno ricevuto la lettera di
convocazione per irreperibilità del domicilio o della residenza, oppure non hanno potuto presentarsi
perché il datore di lavoro non ha concesso loro il permesso di assentarsi nel giorno del test.
L’esito è stato generalmente confortante, avendolo superato l’87% di quanti l’hanno
sostenuto. In particolare a Roma (un osservatorio significativo) la quota è stata di ben il 95% (1.365
test superati su 1.431 sostenuti), sebbene anche la capitale abbia conosciuto carenze strutturali (su
3.140 richieste, 377 sono state respinte per mancanza di requisiti e 403 convocati non si sono
presentati all’appuntamento).
Diversi hanno osservato che l’introduzione dell’obbligo di questi test non è stata sostenuta
da alcun finanziamento specifico per sostenere i corsi preparatori, ampliare l’offerta formativa,
potenziare il personale docente dei CTP e adottare misure di facilitazione all’accesso di tali corsi (a
fronte di diversi paesi europei che invece hanno previsto, a spese dello Stato, fino a 600 ore di corsi
gratuiti di lingua per ogni straniero che vi faccia ingresso).
Proprio la contrazione dell’offerta formativa, connessa alla riduzione del personale, è
probabilmente una delle ragioni per cui in un’area urbana come quella di Roma i CTP (12 nella
capitale e 37 in totale nel Lazio), tra giugno 2010 e giugno 2011, hanno registrato 6.307 iscrizioni ai
corsi gratuiti di lingua italiana, oltre 800 in meno rispetto all’anno precedente, nonostante una
domanda in continua crescita. Si tratta di un numero di iscritti inferiore anche a quello (9.563 su
Roma e 9.959 nel Lazio, per lo stesso periodo di riferimento) della rete Scuolemigranti, che a
settembre 2011 riuniva ben 59 delle associazioni del volontariato e del privato sociale attive,
nell’area capitolina e laziale, per i corsi di lingua per stranieri preparatori ai test.
È interessante notare che, tra gli iscritti romani di questa rete (la cui componente maschile
prevale con il 55%), numerose sono le collettività rappresentate (124), tra le quali spiccano
maggiormente la bangladese (16%), l’ucraina (8%), la romena (7%) e la peruviana (5%); inoltre,
quasi la metà degli iscritti (48%) ha meno di 30 anni e oltre 6 su 10 (63%) ha una formazione
superiore (diploma o laurea), a fronte del 6% che non ha mai frequentato una scuola nel proprio
paese d’origine. Quasi un quinto (18%) è rappresentato da comunitari, mentre tra i non comunitari i
motivi prevalenti del soggiorno sono il lavoro (29%), la protezione internazionale (19%) e la
famiglia (11%).
Criminalità
Tra il 2005 e il 2008 la popolazione straniera residente è aumentata, in Italia, di 1.220.779
persone, passando da 2.670.514 residenti del primo anno considerato a 3.891.293 dell’ultimo. Si
tratta di un incremento di ben il 45,7% nell’arco di un triennio.
Se l’equazione tra immigrazione e criminalità fosse vera, per cui la criminalità nel nostro
Paese crescerebbe in misura direttamente proporzionale all’aumento degli immigrati, dovremmo
registrare un incremento della malvivenza tra gli stranieri che sia sostanzialmente simile
all’aumento delle loro presenze.
Le statistiche smentiscono, però, questa equazione, giacché nello stesso triennio 2005-2008
le denunce contro stranieri sono aumentate del 19,9%, ovvero di quasi 26 punti percentuali in meno
rispetto alle loro presenze nel Paese. Tali denunce sono passate, infatti, da 248.291 di inizio triennio
a 297.708 rilevate alla fine dello stesso, per un incremento, in termini assoluti, di 49.417 casi.
Se rapportiamo questo sovrappiù di denunce contro stranieri al sovrappiù di presenze
immigrate registrato nello stesso periodo (in base all’assunto ipotetico per cui la quota di reati
denunciati che, a fine quadriennio, risulta in eccedenza rispetto a quella riscontrata all’inizio sia
attribuibile alla quota di immigrati che, alla fine dello stesso periodo, eccede la popolazione
straniera inizialmente rilevata, ovvero ai nuovi ingressi netti, e presupponendo quindi un tasso di
criminalità invariato, ogni anno, per lo stock di immigrati presenti), si ottiene un tasso criminale
straniero “di flusso” pari a un denunciato ogni 25 individui, pur senza includere gli irregolari, gli
stranieri temporaneamente presenti in Italia per turismo, affari o altro, e quelli in attesa di
registrazione in anagrafe.
Si tratta di un tasso inferiore a quello complessivo “di stock” riguardante l’intera
popolazione nazionale (italiani e stranieri insieme), che è di un denunciato ogni 22 individui. Viene
così a cadere il pregiudizio di una maggiore pericolosità degli stranieri che arrivano nel Paese.
Peraltro, il fatto che le denunce contro stranieri riguardano in gran parte immigrati irregolari
(per più del 70% nel 2005, stando al Rapporto sulla criminalità in Italia pubblicato nel 2007 dal
Ministero dell’Interno), i quali non sono ovviamente ricompresi tra i residenti, impedisce (come
pure era stato fatto nel passato) di calcolare il tasso di devianza straniero rapportando il numero dei
denunciati semplicemente a quello dei residenti, poiché in tal modo la popolazione di riferimento
sarebbe parziale e il tasso inevitabilmente eccedente (e perciò anche incomparabile con quello dei
soli italiani).
Considerando invece, come si fa in questa sede, il tasso di aumento dei residenti (presenze
regolari), l’ipotesi di fondo è che, pur non conoscendone il numero assoluto, gli immigrati irregolari
siano venuti crescendo in misura simile a quella dei regolari, per cui il tasso dovrebbe essere
sostanzialmente rappresentativo dell’intera popolazione straniera (regolari e irregolari insieme).
Nel caso in cui si ipotizzasse, invece, che gli immigrati irregolari siano cresciuti in Italia più
dei regolari, il tasso di aumento delle presenze qui considerato risulterebbe inferiore a quello
effettivo; ma in tal caso il confronto con il tasso d’aumento dei denunciati rivelerebbe un
andamento di quest’ultimo ancora meno esuberante rispetto a quello delle presenze immigrate.
A ciò si aggiunga, inoltre, una quota indefinibile di denunce riguardanti – come osservato
sopra – stranieri che sono in attesa di registrazione presso le anagrafi e immigrati “di passaggio”
(ovvero muniti di un visto per presenza inferiore ai 3 mesi per turismo, affari, visita, missione, ecc.
che non necessita di essere tradotto in un equivalente permesso di soggiorno), i quali non rientrano
né tra i residenti né tra gli irregolari, ed ecco che un tasso di devianza calcolato sui soli residenti non
può che risultare necessariamente sovradimensionato.
Negli ultimi anni, si è sviluppata una maggiore attenzione verso i fattori che possono influire
sul livello di criminalità degli immigrati, sia per verificare la fondatezza di alcune opinioni comuni
sia, soprattutto, per individuare elementi utili alla predisposizione di piani e politiche miranti alla
migliore gestione dell’immigrazione e dell’integrazione.
Sulla scia di tali lavori, il Centro Studi e Ricerche Idos ha realizzato uno studio innovativo
sulle relazioni eventualmente intercorrenti tra il livello di criminalità degli immigrati e alcune loro
caratteristiche demografiche e di inserimento socio-occupazionale, utilizzando la metodologia
statistica della regressione lineare multipla.
Questa tecnica consente di verificare l’esistenza o meno di relazioni tra una o più variabili
“indipendenti” (gli indicatori demografici e socio-occupazionali) e una variabile “dipendente” (il
tasso di criminalità), quantificando la loro intensità in termini matematici. Tale metodo si basa
sull’ipotesi che, in una qualche misura da verificare, le variazioni dei valori della variabile
dipendente dipendano – appunto – dalle variazioni dei valori di una o più variabili indipendenti.
Si è dunque considerata come variabile dipendente un indice relativo di delittuosità (%
denunciati stranieri su totale denunciati / % stranieri residenti su pop. residente totale), basato su
dati del Ministero dell’Interno e dell’Istat relativi al 2008, e come variabili indipendenti 14 degli
indicatori assoluti utilizzati nel VII Rapporto Cnel sugli Indici di integrazione degli immigrati in
Italia (manca solo l’indicatore di devianza, in quanto analogo alla variabile dipendente).
Secondo un modo di vedere diffuso, infatti, il coinvolgimento degli immigrati nella
criminalità costituirebbe tout court la misura, in negativo, della loro (possibile) integrazione.
Verificare, perciò, se ed eventualmente come e quanto la devianza degli immigrati sia correlata con
altri significativi indicatori dell’integrazione appare estremamente opportuno per soppesare la
fondatezza di questo assunto e per prendere coscienza di quali siano gli effettivi nessi,
statisticamente rilevanti, tra questo fenomeno e le altre componenti dell’integrazione.
L’analisi sui dati regionali ha evidenziato relazioni statisticamente significative tra l’indice
relativo di delittuosità e due delle variabili indipendenti: l’indicatore di appartenenza familiare
(ricorrenza delle famiglie con almeno un componente straniero) e l’indicatore di accessibilità al
mercato immobiliare (incidenza di un canone medio d’affitto sulla retribuzione media di un
lavoratore non comunitario), circa i quali il valore del coefficiente di determinazione è pari a 0,808
su una scala che va da 0 a 1 (ciò vuol dire che la variazione congiunta delle due varabili
indipendenti “spiega” l’80,8% della variazione della variabile dipendente).
In particolare, osservando il “peso” esercitato da ciascuna variabile indipendente su quella
indipendente, si rileva che:
una variazione di una unità standardizzata dell’indicatore di appartenenza familiare produce
una variazione di -0,927 unità standardizzate dell’indice relativo di delittuosità: praticamente
una relazione inversamente proporzionale pressoché completa tra le due variabili;
una variazione di una unità standardizzata dell’indicatore di accessibilità al mercato
immobiliare produce invece una variazione di 0,282 unità standardizzate dell’indice relativo
di delittuosità: una relazione direttamente proporzionale tra le due variabili, ma di intensità più
attenuata rispetto alla precedente.
Va specificato che le relazioni evidenziate non indicano necessariamente un rapporto causa-
effetto diretto, ma potrebbero dipendere anche da altri fattori inespressi legati ad esse. Si tratta però
di “indizi” importanti, che possono essere ulteriormente approfonditi attraverso analisi successive,
raffinando gli indicatori oggetto di studio e/o considerandone anche altri.
Come già sottolineato, il coinvolgimento degli immigrati nella criminalità viene sempre più
comunemente inteso come una cartina di tornasole emblematica, seppur in negativo, del loro grado
di integrazione, effettiva o potenziale. Pur senza farsi fuorviare da equazioni semplicistiche e facili
automatismi, in questa generalizzazione (come in tutte, del resto) c’è una parte di verità. E non
potrebbe essere altrimenti, visto che ogni processo di integrazione è una partita che si gioca sul
piano squisitamente sociale, i cui attori – cioè – sono componenti stesse della società (in questo
caso, gli immigrati da una parte e gli autoctoni dall’altra).
Tenendo conto di ciò, non stupisce che l’analisi condotta abbia rivelato una così stretta
relazione inversa tra il tasso di delittuosità e l’appartenenza familiare degli immigrati, oltre che – in
seconda battuta – una significativa relazione diretta con la difficoltà di sostenere i costi d’affitto di
una casa (pur piccola e in periferia), per cui la criminalità degli immigrati cresce in misura quasi
perfettamente proporzionale alla mancanza di un contesto familiare di riferimento in loco e alla
difficoltà di accedere a ciò che più di tutto rende possibile la (ri)costituzione di una famiglia intorno
a sé: un’abitazione, appunto.
La ragione va forse individuata nel fatto che nella rete primaria degli affetti ogni persona
sperimenta, apprende e vive, in primo luogo, proprio quel senso di appartenenza che, a livello
allargato e superando i legami di sangue (“fuori della porta di casa”, per così dire), alimenta e
mantiene la coesione sociale, costituisce la società stessa.
Così, nella misura in cui ogni crimine rappresenta una ferita inferta alla coesione sociale stessa
(il che rivela un senso di appartenenza al contesto sociale carente, assente o conflittuale), è naturale
che garantire agli immigrati la possibilità effettiva di accedere a una casa e di (ri)costituire, di
conseguenza, una famiglia propria (coerentemente con gli indicatori che più di tutti hanno rivelato
una relazione con l’indice di delittuosità), si riveli – anche statisticamente – come la prima e
soprattutto più adeguata “terapia” contro il rischio di devianza.
Un messaggio, questo, che le politiche di integrazione – in virtù del profondo nesso, appena
illustrato, che lega senso di appartenenza, criminalità e integrazione – dovrebbero tenere ben
presente quando sono chiamate a fare scelte operative tese a ridurre il coinvolgimento (reale e
potenziale) degli stranieri nella devianza.
Cittadinanza
Ancora nel 2007, delle totali 38.466 cittadinanze italiane concesse durante l’anno (al netto
delle acquisizioni jure sanguinis o per nascita in Italia, riguardanti rispettivamente stranieri con
ascendenze italiane e stranieri di seconda generazione che abbiano compiuto la maggiore età, le
quali fanno lievitare la cifra complessiva a circa 54.000 casi), oltre 4 su 5 (82,2%) sono avvenute
per matrimonio con partner italiano (31.609), mentre solo meno di un quinto (17,8%) per residenza
legale e continuativa di almeno 10 anni, cioè per naturalizzazione in senso proprio.
In valori assoluti, le naturalizzazioni sono state appena 6.857 e per la quasi totalità (99,5%)
hanno riguardato stranieri che effettivamente vivono in Italia (mentre quasi un quinto di tutte le
acquisizioni per matrimonio, pari a 6.599 casi, è stato appannaggio di stranieri che vivono
all’estero, coniugati con italiani).
In media, si è trattato di meno di 2 naturalizzazioni ogni mille stranieri residenti in Italia, a
significare un ingresso formale nel sistema di diritti e doveri dello Stato fortemente difficoltoso (e
quindi una parità di diritto, nelle prerogative della cittadinanza, di fatto frenata).
Due anni dopo, nel 2009, i casi di naturalizzazione sono più che triplicati, salendo a 22.869 e
a 5,40 ogni 1.000 residenti stranieri. Nonostante questo salto, rispetto agli altri grandi contesti
europei l’Italia si conferma un paese in cui i canali di acquisizione “fisiologica” della cittadinanza
(quale è appunto, la naturalizzazione) continuano a rappresentare una strettoia oltremodo difficile
da superare.
In questo contesto estremamente rarefatto spiccano, con medie superiori a 7 casi ogni 1.000,
Trentino A. A. (8,90), Valle d’Aosta (8,77), Marche (8,32), Friuli V. G. (8,26), Veneto (7,31) e
Piemonte (7,31) per quanto riguarda le regioni (l’ultima delle quali è la Calabria, con appena 1,91
casi di naturalizzazione ogni 1.000 residenti); e, con quote superiori al 10 per mille, Biella (13,16),
Vicenza (11,60), Trieste (11,47) e Lecco (10,11) per quanto attiene invece le province.
Tra queste i grandi agglomerati urbani rappresentativi delle tre principali aree nazionali si
collocano nella zona medio-bassa della graduatoria, con valori piuttosto esigui che dimostrano
quanto la complessità sociale di questi contesti incida pesantemente sui processi di inserimento
sociale, di radicamento territoriale e di identificazione: Roma è al 78° posto (3,48), Milano all’85°
(2,47) e Napoli all’86° (2,41).
Seconde generazioni
Come già in precedenza accennato, il tema dell’integrazione dei figli stranieri nati in Italia
da immigrati appare di grande attualità e, nondimeno, di grande complessità.
L’attualità (e quindi l’urgenza) della questione è attestata dai numeri: alla fine del 2010 il
Paese ospitava quasi 1 milione (993.238) di minori stranieri, pari a oltre un quinto (21,7%)
dell’intera popolazione straniera residente. In effetti, grazie a un processo di progressivo
radicamento a carattere familiare da parte degli immigrati, il segmento minorile della popolazione
non italiana ha conosciuto, nel periodo più recente, un notevole incremento (+100.000 unità, in
media, ogni anno), dovuto sia ai nuovi ingressi dall’estero (attraverso ricongiungimento o come
minori non accompagnati) sia – in gran parte – ai nuovi nati in Italia da genitori entrambi stranieri
(seconde generazioni in senso proprio), che nel 2010 sono stati oltre 78.000 – picco numerico di un
dato di flusso che è venuto costantemente crescendo negli anni – cioè ben un settimo (14%) di tutte
le nuove nascite (circa mezzo milione) registrate nel paese in quell’anno: per rendersi conto
dell’esuberanza del fenomeno, basti notare che è un’incidenza, questa, pari al doppio di quella che
la popolazione straniera residente detiene sulla popolazione complessiva dell’Italia (7% circa).
In effetti lo stock delle seconde generazioni ammonta, in Italia, a circa 650mila persone: una
compagine che, da sola, rappresenta un settimo (14,2%) di tutti gli stranieri residenti in Italia. Si
tratta – come in più occasioni viene ribadito – di persone “straniere” solo sul (pur gravido di
importanti conseguenze) piano giuridico, in quanto hanno la cittadinanza di un paese in cui non solo
non sono nati, ma spesso o non sono mai stati o vi sono stati per periodi limitati, del quale hanno
una conoscenza piuttosto indiretta (per lo più mediata dai genitori) e di cui, se ne parlano la lingua
(perché in privato i genitori non abbandonano l’idioma), per essi non si tratta in ogni caso della
“lingua madre”, che evidentemente è invece quella italiana (come pure la cultura originaria di
riferimento).
Proprio questa circostanza induce a considerare la particolare complessità che caratterizza la
questione dell’integrazione delle seconde generazioni. Trattandosi di persone nate, cresciute e
formatesi in Italia, esse hanno condiviso con i loro coetanei italiani le medesime aspettative di
“riuscita” e di “affermazione” sociale (e lavorativa) di questi ultimi, sentendosi essi stessi italiani di
fatto. Ne deriva che le aspettative di integrazione delle seconde generazioni, allineate con quelle
degli autoctoni coetanei, sono molto più alte di quelle dei loro genitori, che, come immigrati di
prima generazione, spesso sono venuti in Italia preoccupandosi soprattutto di garantirsi le
condizioni basilari di sussistenza (e di sopravvivenza) per sé e per la famiglia eventualmente da
ricongiungere, cioè con un’idea e un’aspettativa di “integrazione” decisamente meno ambiziosa
(collimante, piuttosto, con un “inserimento” minimo).
Ebbene, la letteratura sul tema mostra come proprio questa forte divergenza di “aspettative
di integrazione” tra stranieri di prima e di seconda generazione è sovente alla base di conflitti (a
volte pagati anche a caro prezzo sul piano esistenziale) che coinvolgono i delicati processi di
identificazione e di auto-riconoscimento in un patrimonio culturale (quello del paese di
cittadinanza) piuttosto che in un altro (quello del paese di accoglienza) da parte di entrambe le
generazioni in gioco.
E gli esiti sono, generalmente, due, tra loro opposti quantunque – appunto – entrambi
conflittuali: o le seconde generazioni rifiutano di riconoscersi nel patrimonio identitario della
cultura dei propri genitori, così come questi hanno cercato di trasmetterla loro, sposando
un’italianità “imperfetta” che però sentono propria (conflitto intra-familiare); oppure si riconoscono
nel patrimonio identitario della cultura d’origine dei propri genitori (tanto più in quanto coerente
con la propria cittadinanza giuridica, sebbene rappresenti per loro un’identità ugualmente
“imperfetta”, per quanto detto sopra), spinti magari dal sentimento di dover così prendere su di sé e
riscattare – con la propria eventuale “riuscita” – i torti (discriminazioni, vessazioni, disparità di
trattamento ecc.) subiti dai propri genitori in quanto portatori di quella stessa identità “altra”,
ponendosi quindi in contrasto con la cultura – dominante e avvertita come ingiusta – del paese di
accoglienza (conflitto contro la società).
Con il rischio che la prima eventualità (identificazione nell’italianità e conflitto intra-
familiare) sfoci nella seconda (conflitto con la società), delineando così un doppio scacco, qualora,
pur sentendosi italiano, il giovane straniero di seconda generazione dovesse sperimentare su di sé
(in quanto comunque percepito come – e giuridicamente essendo – uno straniero) discriminazioni
analoghe a quelle delle prime generazioni.
Alla luce di questo quadro, al tempo stesso spinoso e delicato, in cui si riassumono le nuove
sfide dell’integrazione oggi in Italia, si comprende quanto importante e strategicamente urgente sia
da un lato insistere sulla promozione e la diffusione di una cultura di incontro e di dialogo
interculturale, e dall’altro rivedere una legge sulla cittadinanza che, per gli stranieri nati in Italia,
prevede la possibilità di vedersi concedere la cittadinanza italiana solo qualora dovessero decidersi
a farne richiesta nella limitata “finestra” temporale del loro 18° anno d’età.
Gli indici di integrazione CNEL
Misurare l’integrazione tout court si rivela un obiettivo tanto ambizioso quanto problematico,
visto il quadro di assoluta complessità che caratterizza il fenomeno come tale e la sua stessa
definizione. Di questo obiettivo si è fatto carico il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro
attraverso l’Organismo Nazionale di Coordinamento delle politiche di integrazione degli immigrati
(CNEL/ONC).
Misurare il potenziale d’integrazione
Innanzitutto, come tutti i fenomeni complessi, l’integrazione non è oggetto di misurazione
diretta (cioè non esiste un dato che, immediatamente, ce ne possa restituire la dimensione) bensì
indiretta: occorre, cioè, risalirne alle dimensioni attraverso un sistema che metta insieme e
possibilmente sintetizzi una serie di dati riferiti, ciascuno, a fenomeni che si riconoscono essere
correlati in maniera significativa con l’integrazione e che siano a loro volta misurabili. I dati di
questi fenomeni possono così assurgere a indicatori dell’integrazione e, opportunamente trattati,
possono confluire nella costruzione di un apposito indice sintetico.
In secondo luogo, basandosi su dati statistici aggregati provenienti da archivi di fonti ufficiali,
è possibile misurare soltanto alcuni degli aspetti che costituiscono questo fenomeno, per sua natura
multidimensionale e quali-quantitativo, senza perciò poter pretendere di esaurirne l’intera portata.
Si tratta precisamente di aspetti che corrispondono a quei fattori oggettivi sopra menzionati
(l’accesso al mercato della casa, l’andamento scolastico, il tasso di devianza, la retribuzione media
annua, il grado di corrispondenza tra livello di formazione e livello di inserimento occupazionale, il
tasso di assorbimento nel mercato occupazionale, ecc.), che però – come ricordato – sono
esattamente quelli su cui le politiche di integrazione sono chiamate a intervenire e che quindi
rivestono un significato strategico per i decisori politici.
Come già rilevato, si tratta di fattori che misurano ciascuno la condizione degli immigrati in
un determinato ambito di inserimento sociale e occupazionale e che, considerati nel loro insieme,
determinano quelle condizioni strutturali di partenza che, quanto più alto è il livello al quale
vengono rilevate all’interno di un territorio, tanto più rendono ragionevole presumere che lì i
processi di integrazione tra immigrati ed autoctoni abbiano la possibilità di realizzarsi agevolmente
e con successo, a prescindere dal fatto che tali processi vi abbiano effettivamente avuto luogo e
dall’effettivo livello di integrazione a cui essi abbiano eventualmente condotto.
È per questo che, presi nel loro complesso e opportunamente correlati in uno studio statistico
per indici, ciò che questi fattori misurano non è – come è bene ricordare – l’integrazione
effettivamente raggiunta in un certo territorio, quanto piuttosto ciò che è stato sopra definito il
potenziale di integrazione proprio di quel territorio.
Del compito di misurare un tale potenziale si occupa, da circa dieci anni, il CNEL, attraverso
l’Organismo Nazionale di Coordinamento delle politiche di integrazione degli immigrati, che, con il
supporto del Centro Studi e Ricerche IDOS, realizza un Rapporto annuale sugli Indici di
integrazione degli immigrati in Italia strutturato in indicatori e indici territoriali, sulla base dei
presupposti teorici appena illustrati.
Tenendo conto del ruolo consultivo per le politiche del governo che un organismo
costituzionale come il CNEL riveste (e, al suo interno, nello specifico l’ONC, per le politiche di
integrazione), si può dire che il Rapporto risponde pienamente alla “missione” del soggetto
istituzionale che lo promuove, proprio misurando – e continuando a misurare – il potenziale di
integrazione dei vari territori italiani, ovvero elaborando una mappatura dei territori nazionali dal
potenziale di integrazione più elevato.
La griglia degli indicatori e degli indici sintetici
Per l’elaborazione dei propri Rapporti, il CNEL ha preliminarmente individuato tre ambiti
tematici correlati, secondo una specifica pertinenza, al potenziale di integrazione degli immigrati
proprio di ciascun territorio (grandi aree, regioni e province).
Questi ambiti tematici corrispondono ad altrettanti indici sintetici:
1) l’indice di attrattività territoriale, che misura il potere di ciascun contesto territoriale di attrarre e
trattenere stabilmente al proprio interno quanta più popolazione immigrata presente a livello
nazionale;
2) l’indice di inserimento sociale, che misura il grado di radicamento nel tessuto sociale e il livello
di accesso ai servizi fondamentali da parte degli immigrati, in ciascun contesto territoriale;
3) l’indice di inserimento occupazionale, che misura il grado e la qualità dell’inserimento lavorativo
degli immigrati nel mercato locale.
In relazione a questi tre indici, e alle rispettive istanze conoscitive, è stata quindi selezionata
una batteria di indicatori statistici (15 in totale, nelle ultime edizioni, ripartiti in gruppi di 5 per
ciascun indice) in base a un criterio di pertinenza, di attendibilità, di completezza (soprattutto nella
disaggregazione territoriale) e di comparabilità.
Nel riportare, di seguito, la griglia degli indicatori utilizzati nell’ultima edizione – l’ottava –
del Rapporto CNEL (i cui dati si riferiscono, salvo poche eccezioni opportunamente segnalate, alla
fine del 2009), occorre tenere presente che ogni edizione annuale può o contenere nuovi indicatori
in sostituzione di altri precedentemente utilizzati, o anche indicatori tradizionali che però sono stati
costruiti in modo diverso al fine di migliorarne la penetrazione conoscitiva. Tutto ciò non consente,
a rigore, di comparare i risultati delle diverse edizioni annuali, se non in maniera parziale e
puramente indicativa.
Indice di attrattività territoriale
- Indicatore di incidenza: % degli stranieri residenti sulla popolazione residente complessiva
(2009) – fonte: Istat
- Indicatore di densità: n° medio di stranieri residenti per kmq (2009) – fonti: Istat e Istituto
Geografico “De Agostini”
- Indicatore di ricettività migratoria: rapporto tra il numero di stranieri che, nel corso
dell’anno, si sono iscritti nelle anagrafi locali come residenti, proveniendo da altri Comuni
italiani, e il numero di quelli che, nello stesso anno, si sono cancellati come residenti, per
iscriversi in altri Comuni italiani, moltiplicato per 100 (2009) – fonte: Istat
N.B. Il valore dell’indicatore rappresenta il numero medio di iscritti per ogni 100 cancellati:
data pari a 100 l’equivalenza numerica tra iscritti e cancellati, quando il valore è superiore a
100 esso indica un’eccedenza dei primi rispetto ai secondi e denota, perciò, un saldo
migratorio interno positivo; quando invece il valore è inferiore a 100 esso indica un numero
inferiore di iscritti rispetto ai cancellati e denota, quindi, un saldo migratorio interno
negativo.
- Indicatore di stabilità: % dei minori tra la popolazione straniera residente (2009) – fonte:
Istat
- Indicatore di appartenenza familiare: % di famiglie con almeno un componente straniero sul
totale delle famiglie residenti (2009) – fonte: Istat
Indice di inserimento sociale
- Indicatore di accessibilità al mercato immobiliare: incidenza % dei prezzi medi annui di
affitto di una casa di 50 mq in zona periferica sulla retribuzione media annua pro capite
stimata di un lavoratore dipendente extraUE15 (2008) – fonti: Istituto “Scenari
Immobiliari” e stima Cnel su dati Inps e Istituto “Tagliacarne”
N.B. impossibile calcolare i valori dell’indicatore per grandi aree.
Ipotesi di correlazione inversa con l’indice di inserimento sociale: più tale incidenza cresce
(rendendo più proibitivo il costo di affitto di una casa), più diminuisce il grado di accesso al
mercato degli alloggi da parte degli stranieri e più diventa problematico, quindi, il loro
inserimento sociale, essendo la casa un bene primario di welfare.
Si badi che questo indicatore, considerato come variabile indipendente nella regressione
lineare dell’indice relativo di delittuosità degli immigrati, ha dimostrato (relativamente al
2008) una assai significativa correlazione inversa con tale indice, assunto come variabile
dipendente, a significare che il rischio di devianza degli immigrati è inversamente
proporzionale al loro grado di accesso al mercato della casa, cioè alla loro possibilità di
trovare un alloggio, sia pure in affitto.
- Indicatore di istruzione liceale: % di iscritti al liceo (classico, scientifico, linguistico,
artistico e socio-psico-pedagogico) sul totale degli alunni stranieri iscritti nelle scuole
secondarie di II grado (al netto degli iscritti agli istituti di formazione professionale) nell’a.s.
2009/2010 – fonte: Ministero della Pubblica Istruzione
Ipotesi di correlazione diretta con l’indice di inserimento sociale: più tale percentuale è
alta, più sono gli studenti immigrati che perseguono un percorso formativo superiore
affrancato – almeno in linea di principio – dall’esigenza di trovare immediatamente lavoro
per assicurare un sostegno economico, e più quindi si può presupporre un diffuso
inserimento sociale avanzato (tale, cioè, che abbia già superato i bisogni basilari legati al
sostentamento); inoltre, più tale percentuale è alta, più la formazione culturale dei giovani
stranieri è tendenzialmente elevata e più, quindi, essi potrebbero concorrere per posti di
lavoro maggiormente qualificati, contribuendo così a promuovere la complessiva mobilità
sociale degli immigrati.
- Indicatore di tenuta del soggiorno stabile: % di permessi di soggiorno per motivi di lavoro e
di famiglia in vigore al 31.12.2009 che sono risultati ancora in vigore al 31.12.2010 (al netto
di quelli scaduti e non rinnovati) – fonte: Ministero dell’Interno
Ipotesi di correlazione diretta con l’indice di inserimento sociale: più tale quota è elevata,
più gli immigrati che intendono insediarsi stabilmente in Italia (come il soggiorno per
motivi di lavoro e di famiglia presuppone) vedono salvaguardate le condizioni legali per
una tale permanenza stabile (conservazione del regolare titolo di soggiorno), scongiurando
la caduta nell’irregolarità e il conseguente obbligo legale di rimpatrio a cui la precarietà
dei permessi di soggiorno – soprattutto in anni di crisi economico-occupazionale – li
espone; e più, quindi, il loro inserimento sociale può contare su una base legale di
garanzia.
- Indicatore di naturalizzazione: n° medio di naturalizzati (acquisizioni di cittadinanza per
residenza legale e continuativa di almeno 10 anni) ogni 1.000 residenti stranieri (2009) –
fonte: Ministero dell’Interno
Ipotesi di correlazione diretta con l’indice di inserimento sociale: più la quota è elevata, più
sono gli stranieri che hanno maturato la condizione giuridica che, riconoscendone di diritto
la completa parità con i cittadini autoctoni, li abilita a una piena partecipazione al sistema
dei diritti e dei doveri che regola la società a cui sono previamente appartenuti per un
numero cospicuo di anni; e più, quindi, l’inserimento sociale assume un carattere
strutturale.
- Indicatore della capacità di iniziativa familiare: % di famiglie il cui capofamiglia è straniero
sul totale delle famiglie con almeno un componente straniero (2009) – fonte: Istat
Ipotesi di correlazione diretta con l’indice di inserimento sociale: inteso che la nozione di
“capofamiglia” denoti il responsabile legale del nucleo familiare, che spesso coincide
anche con il suo maggiore percettore di reddito, più il valore osservato è elevato, più vi
sono immigrati che hanno raggiunto quella condizione di stabilità giuridica ed economica
che permette loro di proporsi come la persona di riferimento intorno alla quale costituire (o
ri-costituire, mediante ricongiungimento parentale) un nucleo familiare, dimostrando così
una raggiunta capacità – appunto – di “iniziativa familiare”; e più, dunque, l’inserimento
sociale degli immigrati è connotato da una certa solidità.
L’indicatore non perde di significatività nei casi – che sono, in realtà, quantitativamente
molto rilevanti – in cui si tratti di nuclei unipersonali, giacché anche in tale evenienza
il”capofamiglia” gode, in quanto tale, di una autonomia giuridica ed economica che gli
permette, appunto, di essere legalmente considerato come una”famiglia a sé”.
Indice di inserimento occupazionale
- Indicatore di impiego della manodopera immigrata: % di nati all’estero tra i lavoratori
risultati occupati nel corso dell’anno (2009) – fonte: Inail
Ipotesi di correlazione diretta con l’indice di inserimento occupazionale: più è ampia la
quota di lavoratori nati all’estero sul totale dei lavoratori risultati occupati nel corso
dell’anno, più il mercato si rivela “aperto” al coinvolgimento della manodopera immigrata,
e più – dunque – l’inserimento occupazionale degli immigrati trova canali nel mercato
locale, sia pur sotto un profilo puramente quantitativo (ovvero a prescindere dal livello di
impiego, dal tipo di contratto, dalle condizioni e dalla durata del lavoro).
- Indicatore della capacità di assorbimento del mercato lavorativo: rapporto tra il numero di
lavoratori nati all’estero assunti nel corso dell’anno e il numero di quelli che hanno cessato
il rapporto di lavoro (perché licenziati, dimissionati o con contratto scaduto e non rinnovato)
nel corso dello stesso anno (2009), moltiplicato per 100 – fonte: Inail
N.B. L’indicatore rappresenta il numero medio di assunti per ogni 100 cessati: data pari a
100 l’equivalenza numerica tra assunti e cessati, quando il valore è superiore a 100 esso
indica un’eccedenza dei primi rispetto ai secondi e denota, perciò, un saldo occupazionale
positivo; quando invece il valore è inferiore a 100 esso indica un numero inferiore di assunti
rispetto ai cessati e denota, quindi, un saldo occupazionale negativo.
Ipotesi di correlazione diretta con l’indice di inserimento occupazionale: più il rapporto è
alto (tendenzialmente denotante un saldo occupazionale positivo, per cui è più la
manodopera immigrata “assorbita” che quella “espulsa” dal mercato del lavoro), più per
gli “stranieri” il mercato occupazionale si rivela dinamico, in quanto riesce (almeno
tendenzialmente) a offrire loro più posti di lavoro di quanti ne toglie contestualmente dalla
piazza; e più, quindi, l’inserimento occupazionale è favorito da un mercato del lavoro che
tende a espandersi.
- Indicatore di reddito: importo, in euro, del reddito medio annuo pro capite stimato della
popolazione straniera di paesi esterni all’UE a 15 Stati (2008) – fonti: Inps e Istituto
“Tagliacarne”
N.B. impossibile calcolare i valori dell’indicatore per grandi aree.
Ipotesi di correlazione diretta con l’indice di inserimento occupazionale: più l’importo (che
corrisponde a una stima media) è elevato, più si può presupporre un’occupazione più
continuativa nel corso dell’anno e/o in impieghi di più alta qualifica (e quindi a maggiore
retribuzione); e, dunque, più la qualità dell’inserimento occupazionale è migliore (anche se
il dato delle retribuzioni varia da luogo a luogo anche in base al costo e al tenore di vita
locale).
- Indicatore della tenuta occupazionale femminile: % delle lavoratrici nate all’estero risultate
occupate nel corso dell’anno che non hanno avuto cessazioni del rapporto di lavoro durante
lo stesso anno (occupate al netto delle cessate) (2009) – fonte: Inail
Ipotesi di correlazione diretta con l’indice di inserimento occupazionale: più la quota è
alta, più le lavoratrici nate all’estero risultate occupate nel corso dell’anno hanno evitato di
subire, nel corso dei dodici mesi considerati, una cessazione del rapporto di lavoro,
salvaguardando così la continuità occupazionale; e più, dunque, l’inserimento
occupazionale di queste lavoratrici è al riparo dalla precarietà.
Considerando l’elevato grado di correlazione (diretta) che questo indicatore di genere
intrattiene con il medesimo riferito alla totalità dei lavoratori nati all’estero, di cui il
presente può dunque ritenersi un proxy, i risultati possono essere considerati come
indicativi della condizione dell’intera compagine di lavoratori nati all’estero.
- Indicatore di lavoro in proprio: % di titolari d’impresa stranieri sul totale dei titolari
d’impresa (2009) – fonte: Unioncamere/Cna
Ipotesi di correlazione diretta con l’indice di inserimento occupazionale: più è ampia la quota di
titolari d’impresa stranieri sullo stock degli imprenditori attivi nel corso dell’anno, più è
relativamente diffusa, tra i lavoratori stranieri, la (più o meno indotta) tendenza al lavoro in
proprio; e più, quindi, l’inserimento occupazionale degli immigrati è sostenuto da un (più o meno
indotto) spirito d’iniziativa.
Anche questa griglia, utilizzata nell’ultimo Rapporto, non ha (e non può avere) un carattere
definitivo, né corrisponde a un modello ottimale: resta fermo, infatti, che diversi indicatori
teoricamente di sicura pertinenza, i quali meriterebbero pertanto di entrare nella batteria adottata,
sono di fatto risultati indisponibili o incompleti; oppure, messi concretamente al vaglio, attraverso
appropriate simulazioni, si sono rivelati scarsamente utilizzabili e, quindi, sono stati scartati.
Sarà il continuo vaglio delle fonti a permettere di perfezionare di volta in volta la griglia
degli indicatori – o affinando i più consolidati o, appunto, sostituendone alcuni con altri più
adeguati – se non addirittura di costruire nuovi indici, migliorando così la capacità di misurare le
potenzialità strutturali che ogni territorio offre per una buona riuscita dei processi di integrazione.
Metodologia e relative annotazioni
Per ogni indicatore della griglia è stata stilata la graduatoria rispettivamente delle province,
delle regioni e delle grandi aree nazionali, ordinando di volta in volta i territori da quello con il
valore più alto (o più virtuoso, in rapporto all’indice di appartenenza), in cima, a quello con il valore
più basso (o meno virtuoso), in coda.
Ultimamente, è stato adottato un duplice metodo di elaborazione delle graduatorie territoriali
degli indicatori e degli indici: un metodo cosiddetto assoluto, basato – per ogni ambito esaminato –
sui dati relativi alla sola popolazione immigrata all’interno dei vari territori; e un metodo cosiddetto
differenziale (o comparativo), che si basa invece sullo scarto, all’interno di ciascun territorio, tra il
dato degli immigrati e quello degli italiani (o, in alternativa, della popolazione complessiva,
comprensiva di italiani e stranieri).
Ne deriva che ognuno degli indicatori e degli indici presenta, per tutte le ripartizioni
territoriali previste, una duplice graduatoria (assoluta e differenziale, appunto), la quale non è stata
possibile solo nei casi – opportunamente indicati nella griglia – in cui gli indicatori non si sono
prestati a un trattamento differenziale (o perché il dato su cui si basano non ha un corrispettivo per
la popolazione italiana, o perché l’indicatore assoluto è già strutturalmente concepito come rapporto
tra il dato degli immigrati e quello della popolazione complessiva, o infine perché i dati disponibili
non hanno consentito di fatto di applicare il metodo comparativo).
Nelle graduatorie elaborate secondo il metodo assoluto, si sono quindi trasposti i valori di
ciascun territorio su una scala centesimale, attribuendo 100 al territorio in cima alla graduatoria, 1 a
quello in coda e un valore centesimale intermedio tra 1 e 100, proporzionale alle distanza tra i valori
di partenza, a tutti gli altri territori (si tratta del metodo di standardizzazione dei valori chiamato “di
percentualizzazione”).
In base ai valori centesimali così attribuiti, i territori sono stati suddivisi, all’interno delle
rispettive graduatorie, in 5 fasce d’intensità: minima (valori centesimali da 1,0 a 20,0), bassa (da
20,1 a 40,0), media (da 40,1 a 60,0), alta (da 60,1 a 80,0) e massima (da 80,1 a 100,0).
In questo modo, si sono potute stilare le graduatorie territoriali (con rispettive fasce
d’intensità) anche per ognuno dei 3 indici considerati, ordinando ancora una volta province, regioni
e grandi aree separatamente in base alla media dei valori centesimali che ognuna di esse ha ottenuto
in ciascuno dei 5 indicatori di pertinenza di ogni indice.
I valori di queste medie sono da considerare anch’essi riferiti a una scala centesimale (da 1 a
100) e, su tale scala, misurano il livello raggiunto da ogni territorio, all’interno della sua classe di
appartenenza, nel campo a cui ciascun indice fa capo (attrattività, inserimento sociale e inserimento
occupazionale appunto).
Applicando lo stesso metodo (media dei valori centesimali di ciascun territorio) ai due indici
di inserimento sociale e occupazionale, sono state in ultimo costruite le graduatorie (con relative
fasce d’intensità) dell’indice sintetico finale, quello che misura il potenziale di integrazione proprio
di ciascun territorio.
Riguardo al metodo appena illustrato, occorre fare almeno tre importanti annotazioni.
La prima è che, naturalmente, le graduatorie degli indicatori relativi a fenomeni che
presentano – secondo l’ipotesi esplicitata nelle griglia – una correlazione inversa con l’integrazione
(per cui si assume che sia l’estensione più ridotta del fenomeno a indicare migliore potenziale di
integrazione) sono state realizzate “al contrario”, ovvero collocando al vertice la regione con il
valore minimo (o, nel caso del criterio differenziale, con lo scarto più alto tra immigrati e autoctoni)
e in coda quella con il valore massimo (o, nel caso del criterio differenziale, con lo scarto più
basso), tenendo fermo, nella standardizzazione dei valori, che la prima avrà il punteggio maggiore
(100) e la seconda quello minore (1).
La seconda annotazione da fare è che la ragione per cui i Rapporti CNEL ritengono di
costruire l’indice finale del potenziale di integrazione sulla base dei soli indici di inserimento
sociale e di inserimento occupazionale risiede nel fatto che la letteratura internazionale in materia
concorda nel vedere negli ambiti socio-lavorativi le dimensioni più strutturali dell’integrazione
degli immigrati. In questa impostazione l’indice di attrattività territoriale, pur non entrando a
sistema nella costruzione dell’indice finale, resta comunque un importante riferimento di contesto
per apprezzare quali aree esercitano sugli immigrati un maggiore potere di attrazione e una
maggiore capacità di trattenimento stabile al proprio interno, offrendo così indicazioni previe,
sebbene indirette, sulle virtualità che ogni territorio mette in campo, favorendo il radicamento sul
territorio.
La terza annotazione consiste, infine, nel rilevare quanto il metodo differenziale integri
fruttuosamente quello assoluto, aiutando a comprendere, per ciascun campo di pertinenza
rappresentato dagli indicatori, in che misura la situazione della popolazione straniera si discosta, in
positivo o in negativo, da quella “fisiologica” rispecchiata nelle condizioni medie della popolazione
autoctona o della popolazione complessiva.
In particolare, l’applicazione congiunta dei due metodi consente di apprezzare, per ogni
singolo ambito indagato, non solo i territori che offrono agli immigrati le condizioni di inserimento
socio-occupazionale più elevate nel Paese, ma anche quelli che offrono loro i livelli di inserimento
meno penalizzanti in rapporto alla popolazione locale, cioè alla popolazione italiana (o
complessiva) che vive nello stesso territorio.
Sotto questo profilo, in qualche caso si è potuto constatare come, a parità di condizioni
territoriali di partenza, la situazione degli stranieri, in certi ambiti, fosse anche più virtuosa di quella
degli autoctoni, talora anche in aree strutturalmente più svantaggiate di altre.
E comunque le graduatorie stilate secondo il metodo differenziale restituiscono non di rado
una “geografia rovesciata” delle regioni e province italiane rispetto a quelle costruite secondo l’altro
metodo, a indicare che le aree del paese che offrono in assoluto di più agli immigrati (specialmente
quelle strutturalmente meglio attrezzate del Centro-Nord) talvolta offrono loro relativamente meno
rispetto a quanto riservano agli autoctoni (e quindi rispetto a quanto, potenzialmente, sarebbero in
grado di offrire), il che segnala la necessità di recuperare terreno sul piano delle pari opportunità e
di un riconoscimento paritario effettivo.
Di contro, il “poco” che altri territori (soprattutto meridionali) sono capaci, in assoluto, di
offrire agli immigrati può essere “molto” rispetto alle proprie possibilità strutturali (riflesse negli
standard di vita della popolazione nativa), visto che in queste aree i livelli medi di inserimento
socio-occupazionale degli immigrati sono più vicini a quelli degli autoctoni; cosa che rivela come
tali contesti siano di fatto più paritari, sia pure nel “poco”, quanto alle condizioni generali di vita tra
italiani e stranieri.
Del resto, all’assunzione del metodo differenziale è sotteso il presupposto che per gli
immigrati il requisito minimo – sebbene non necessariamente sufficiente – per poter godere di un
effettivo riconoscimento come interlocutori, nei processi di integrazione con la popolazione locale,
sia di avere condizioni di vita medie il più possibile paritarie con quelle degli autoctoni, così come
queste vengono di volta in volta rilevate in ciascuno degli ambiti che ogni indicatore misura.
Questo assunto teorico non significa, però, che lo standard di vita medio della popolazione
autoctona rappresenti, come tale, il termine di riferimento per ritenere gli immigrati
soddisfacentemente inseriti nel contesto locale: infatti, all’interno di territori con gravi problemi
strutturali, in cui una grande massa della stessa popolazione autoctona vive in condizioni di disagio
(scarsità di servizi di base, bassa qualità della vita, alloggi inadeguati o inaccessibili, mancanza di
lavoro, insufficienza di strutture di supporto ecc.), è molto difficile considerare questi standard
generali come il traguardo ottimale di inserimento. Paradossalmente, in questi casi occorrerebbe
chiedersi se gli stessi autoctoni possano essere considerati o meno come persone “integrate” nel loro
territorio e se questo sia in grado di garantire delle condizioni di vita sufficienti perché gli stessi
nativi possano lì condurre la propria esistenza dignitosamente e a livelli accettabili.
Ecco perché i due metodi adottati per costruire le graduatorie territoriali dei singoli
indicatori e indici, lungi dal portare a risultati contraddittori allorquando determinino – come sopra
osservato – una “geografia rovesciata”, richiedono piuttosto di essere assunti insieme per un
commento congiunto, in cui una graduatoria contempera l’altra.
Ciò non solo serve a evitare di assolutizzare in modo unilaterale dei risultati che, in quanto
prodotti da uno solo dei due metodi, hanno invece un significato parziale; ma aiuta anche a cogliere
in maniera più comprensiva un fenomeno che, tanto per la sua multidimensionalità quanto per
l’importanza strategica che riveste, merita di essere indagato il più estesamente e profondamente
possibile, assumendolo in tutta la sua complessità.
Risultati consolidati nel tempo
Nei Rapporti CNEL uno degli aspetti che emersi con una certa continuità – il che sembra
indicare che si tratti di una circostanza strutturale – è che le aree del Centro-Nord (e in particolare il
Nord-Est) sono quelle che, in termini assoluti, mantengono il più alto potenziale di integrazione
degli immigrati in Italia, ossia le precondizioni strutturali migliori perché l’inserimento socio-
occupazionale degli immigrati possa lì avere luogo in maniera più soddisfacente.
In particolare ogni anno, dal 2003, il potenziale più elevato è sempre spettato a una delle
quattro regioni del Nord-Est, che a turno si sono succedute nel primato e che comunque hanno
sempre tutte occupato posizioni di vetta nella graduatoria, il loro “blocco” venendo interrotto, di
volta in volta, dall’interpolazione di qualcuna delle grandi regioni del Nord-Ovest (Lombardia e
Piemonte) o delle quattro del Centro Italia: le Marche, in particolare, negli anni pre-crisi (a
conferma che il cosiddetto “modello adriatico” della piccola e media impresa, a cui anche la regione
centrale partecipa, dimostrava effettivamente un grande capacità di assorbimento della manodopera
straniera, contribuendo a creare condizioni favorevoli al generale inserimento degli immigrati nel
tessuto locale) e, dopo, anche Lazio, Toscana e Umbria. Nel dettaglio si osserva che:
- nel 2003 il più alto potenziale d’integrazione degli immigrati è spettato al Veneto (con
Emilia R., Trentino A. A. e Friuli V. G. piazzati nell’ordine dal 3° al 5° posto e
l’interpolazione delle Marche al 2°, mentre Lombardia e Piemonte seguivano
immediatamente al 6° e al 7° posto);
- nel 2004 il primato è spettato al Trentino A. A. (con il Veneto al 2° posto, l’Emilia R. al 4°
e il Friuli V. G. al 6°, interpolate rispettivamente dalla Lombardia al 3° e dalle Marche al 5°,
mentre al 6° e 7° c’erano Valle d’Aosta e Piemonte);
- nel 2006 ha primeggiato l’Emilia R. che ha preceduto immediatamente il Friuli V. G., al 2°
posto (mentre il Trentino A. A. si è collocato al 5° e il Veneto al 7°: in mezzo si sono
infilate Piemonte e Lombardia, rispettivamente al 3° e 4° posto, e ancora le Marche, al 6°);
nello stesso anno, la graduatoria dell’indice finale stilata secondo il metodo comparativo
(cioè, in base al minor scarto medio tra il dato degli italiani – o della popolazione
complessiva – e quello degli stranieri) ha visto primeggiare la Sardegna (dove, perciò, la
condizione media di inserimento socio-occupazionale degli immigrati è stata la più simile a
quella degli autoctoni), a cui sono seguite nell’ordine ancora le Marche e il Friuli V. G., due
regioni che quindi hanno saputo offrire agli immigrati condizioni di inserimento socio-
lavorativo non solo tra le migliori, nel panorama nazionale di quell’anno, ma anche tra le più
paritarie con quelle della popolazione nativa locale;
- nel 2008, primo anno della crisi, erano ancora Emilia R. e Friuli V. G. a occupare le prime 2
posizioni dell’indice (mentre il Veneto e il Trentino A. A., rispettivamente al 5° e 6° posto,
risultavano scavalcate nell’ordine da Lombardia e Lazio, al 3° e al 4°, con la Toscana al 7° e
le Marche precipitate al 14°); la graduatoria comparativa nello stesso anno ha visto in testa
stavolta l’altra grande isola, la Sicilia, la quale ha preceduto il Piemonte, il Molise e la
Sardegna, mentre le regioni di testa dell’indice assoluto che per prime si incontrano anche in
questa graduatoria comparativa (che quindi, oltre a offrire un alto potenziale d’integrazione
degli immigrati, presentano, nel loro territorio, un differenziale ridotto tra le condizioni di
inserimento socio-occupazionale degli immigrati e quelle degli autoctoni) sono,
significativamente, le due a statuto speciale del Nord-Est, il Trentino A. A. (qui al 5° posto)
e il Friuli V. G. (qui al 7°);
- Nel 2009 infine, anno in cui la crisi economico-finanziaria globale ha esplicato tutte le sue
ripercussioni sul piano occupazionale, il più elevato potenziale d’integrazione degli
immigrati in Italia è stato detenuto dal Friuli V. G. (e in particolare, a livello di province, da
Trieste), il quale ha distanziato il restante blocco delle regioni del Nord-Est (Veneto, Emilia
R. e Trentino A. A., rispettivamente dal 4° al 6° posto) grazie all’interpolazione, al 2° e 3°
posto, della Toscana e – sorprendentemente – dell’Umbria, mentre è significativo non solo
che il Lazio sia sprofondato al 14° posto, ma anche che la Liguria (7° posto) e le stesse
Marche (8°) abbiano sopravanzato le due grandi regioni del Nord-Ovest, simbolo della
produzione industriale in Italia, la Lombardia (9°) e il Piemonte (10°), essendo proprio
l’industria il settore che più duramente ha accusato la contrazione occupazionale (anche
riguardo ai soli immigrati) dovuta alla crisi.
La metodologia seguita è andata perfezionandosi negli anni e ha modificato in parte anche gli
indicatori e ciò aiuta a comprendere le modifiche intervenute pur all’interno di linee di continuità.
In effetti, al costante primato del Nord-Est nell’indice sul potenziale complessivo di
integrazione è connesso anche l’altro aspetto “strutturale” che è venuto emergendo, con eguale
costanza, nei Rapporti CNEL, stavolta osservando piuttosto le caratteristiche dei territori provinciali
che hanno con continuità primeggiato nella rispettiva graduatoria. Senza qui rendere conto delle
province che, di anno in anno, hanno guidato la classifica, basti rilevare che si è sempre trattato di
capoluoghi urbanisticamente e demograficamente ridotti, a dimostrazione che in Italia i processi di
integrazione degli immigrati hanno evidentemente migliori chance di riuscita “nel piccolo”, nei
contesti territorialmente e amministrativamente più ristretti, e quindi in aree caratterizzate da una
disseminazione di piccoli centri (la quale favorisce la diffusione territoriale degli immigrati)
piuttosto che monopolizzate da grandi agglomerati urbani o metropolitani (che, con la loro forte
concentrazione demografica e la conseguente complessità, rendono i processi di inserimento molto
più difficoltosi).
Del resto, a incoraggiare i processi di identificazione e le dinamiche di integrazione “nel
piccolo” è, in Italia, la stessa conformazione urbanistica del paese, effettivamente costellato da una
molteplicità di centri e capoluoghi di provincia di dimensioni medie o medio-piccole, ciascuno con
un proprio patrimonio identitario ben definito, custodito e vivo (patrimonio che è spesso frutto di
una locale tradizione storica, artistica e culturale che affonda le radici nell’Italia medievale dei
Comuni e arriva fino al Risorgimento, con l’Italia dei vari regni, ducati e granducati).
Proprio in questa peculiarità i Rapporti CNEL hanno ravvisato lo specifico di un modello di
integrazione “all’italiana” che, opportunamente sostenuto, esplicherebbe appieno le virtualità che
contiene in nuce anche rispetto ad altri modelli europei di integrazione, codificati nella letteratura.
Diversi studiosi ritengono, ad esempio, che uno dei motivi per cui, in Italia, il pericolo che si
verifichino rivolte e disordini analoghi a quelli accaduti di recente, e a più riprese, nelle banlieu
parigine è piuttosto contenuto – nonostante non manchino criticità anche nelle politiche migratorie e
di integrazione nostrane – risiede proprio nel fatto che il nostro paese non conosce, riguardo alla
popolazione immigrata, i livelli di concentrazione demografica che si registrano, in Francia, intorno
all’area metropolitana della capitale, dove abita ben il 40% dell’intera popolazione immigrata
nazionale (mentre in Italia, sommando gli immigrati che vivono nelle province di Roma e Milano, i
due maggiori poli metropolitani a più alta presenza di stranieri, si raggiunge solo un quarto di tutta
la popolazione immigrata del paese).
Se a ciò si aggiungono, da una parte, le concrete possibilità di inserimento nel mercato
occupazionale offerte dall’Italia nord-orientale, sollecitate dall’andamento demografico negativo e
facilitate dal tipo di sistema produttivo locale (il già menzionato “sistema adriatico” della piccola e
media impresa, anch’essa un fattore che incoraggia un modello “diffusivo” di immigrazione), che si
innestano in una dominante “ideologia del lavoro” (per cui lo straniero che lavora è “buono”, quello
che non lavora è quanto meno sospetto); e, d’altra parte, la grande presenza dell’associazionismo sia
laico sia – in grande misura – cattolico, che funziona spesso come efficace ammortizzatore sociale,
ecco che allora non c’è da stupirsi se le aree del Nord-Est, in quanto riassumono in sé tutte queste
caratteristiche, si siano affermate a livello nazionale come quelle a più alto potenziale di
integrazione socio-occupazionale, al di là di ogni lettura strumentale o ideologica del dato.