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Montaigne lettore di Platone e Plutarco

È ormai tradizione considerare lo scetticismo di Montaigne come il risultato di una crisi

personale conseguente alla lettura dell’opera di Sesto Empirico. Tale consuetudine

deriva dal successo ottenuto dagli studi di Pierre Villey, autore della cosiddetta “tesi

evolutiva”, secondo cui il dubbio montaignano rappresenterebbe solo una fase del

pensiero dell’autore dei Saggi – collocata tra la fase stoica iniziale e quella epicurea

finale – ispirata, appunto, dallo studio degli scritti di Sesto Empirico avvenuto intorno al

1575.

Sempre maggiore è però il numero di coloro che, di contro, hanno osservato come lo

scetticismo di Montaigne si manifesti precedentemente al suo supposto incontro con l’

opera di Sesto Empirico e come tale indirizzo di pensiero non rappresenti solo una fase

dello sviluppo intellettuale montaignano, ma un tratto caratteristico permanente. Tra i

sostenitori di questa interpretazione troviamo Manuel Bermúdez Vázques, che nel suo

libro intitolato The Skepticism of Michel de Montaigne sottolinea i problemi connessi

alla tesi evolutiva di Villey: «In generale, tale argomento presuppone un modello di

sviluppo del pensiero […] in definitiva troppo lineare e semplicistico. Nel caso

particolare di Montaigne, ciò rappresenta una seria ingiustizia verso un autore che fu

tutto tranne che sistematico, tentando di farlo aderire in successione a differenti e

distinte scuole di pensiero».1 Del medesimo avviso è anche Marcel Tetel, che sottolinea

l’impossibilità di ricondurre il pensiero montaignano ad un’unica scuola: «Crescente

consenso sta ottenendo l’opinione secondo la quale Montaigne non fu in successione

uno stoico, uno scettico e infine un epicureo; egli fu piuttosto tutte e tre le cose nel

medesimo tempo e rifiutò di identificarsi in una scuola di pensiero».2

Non meno problematica è poi la questione relativa al presunto influsso esercitato

dall’opera di Sesto Empirico sullo scetticismo montaignano, un influsso che – come già

accennato – secondo Villey risalirebbe al 1575, anno di composizione dell’Apologia di

Raymond Sebond. Secondo Bermúdez Vázques, infatti, lo scetticismo di Montaigne

sarebbe più affine al dubbio socratico e al probabilismo della Nuova Accademia che

1 Manuel Bermúdez Vázques, The Skepticism of Michel de Montaigne, Springer International Publishing,

Switzerland 2015, pp. 55, 56. 2 Ivi, p. 56.

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allo scetticismo radicale dei neopirroniani. Una prima prova di ciò è riscontrabile nella

frequenza con la quale il bordolese fa riferimento agli autori classici nei Saggi:

Le moderne edizioni dei Saggi si aggirano intorno alle 1000 pagine. In queste 1000

pagine, Montaigne compie oltre 2500 riferimenti a più di 500 autori della

letteratura classica. Questi riferimenti includono più di 1000 citazioni dirette.

Montaigne menziona per nome, ed esamina, tutte le maggiori figure della

tradizione scettica antica con la sola eccezione di Sesto Empirico. Montaigne

prende in considerazione Socrate, Platone, Senofonte, Pirrone e il suo allievo

Timone, Arcesilao e Carneade, Cicerone, Plutarco e Diogene Laerzio, ma mai

Sesto Empirico.3

In tutta l’opera di Montaigne, dunque, il nome di Sesto Empirico non compare

nemmeno una volta; ma anche Pirrone e i pirroniani, nota sempre Bermúdez Vázques,

risultano menzionati un numero limitato di volte:

Pirrone è menzionato quattro volte nell’Apologia e tre volte altrove nei Saggi, e dei

pirroniani si parla in sette occasioni. […] Nell’Apologia, il solo Socrate è citato

quattordici volte e citato direttamente una. Platone viene menzionato ventiquattro

volte e citato direttamente in quattro occasioni. Cicerone è citato direttamente

ventidue volte e menzionato quattordici volte nella sola Apologia. Nove di queste

citazioni occorrono nella breve discussione sullo scetticismo antico che appare a

metà dell’Apologia […]».4

Benché tutto ciò non possa portare ad escludere che Sesto Empirico abbia avuto una

certa influenza sul pensiero montaignano, il continuo rimando a pensatori

dell’Accademia – o ad essa vicini – sembra suggerirci che Montaigne abbia scelto

questi ultimi come propria guida: lo scetticismo montaignano, sebbene non si limiti a

una mera ripetizioni delle posizioni accademiche, appare dunque essere il risultato

dell’incontro con lo scetticismo di matrice socratico-platonica.

Nell’Apologia troviamo la più ampia trattazione dello scetticismo antico operata da

Montaigne, la quale viene aperta da un significativo riferimento a Socrate, definito

«l’uomo più saggio che mai sia stato».5 Poco oltre, Montaigne inizia a descrivere la

differenza che intercorre tra lo scetticismo accademico e quello pirroniano elencando le

3 Ivi, p. 13.

4 Ivi, p. 34.

5 Michel de Montaigne, “Apologia di Raymond Sebond”, in Saggi, a c. di F. Garavini, Adelphi Edizioni,

Milano 1996, pp. 564-805, qui p. 651.

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tre posizioni epistemologiche possibili: coloro che ritengono di aver trovato la verità (i

dogmatici, ovvero aristotelici, stoici ed epicurei), coloro i quali ritengono che la verità

non possa essere raggiunta dall’uomo (Carneade e gli accademici) e coloro i quali

ritengono che non si possa conoscere nemmeno la nostra ignoranza (i pirroniani).

Questo passo rappresenta una delle prove più evidente dell’incontro di Montaigne con

le opere di Sesto Empirico: si tratta infatti di una riscrittura, quasi identica, dell’apertura

degli Schizzi Pirroniani. A differenza di quanto fa Sesto Empirico, però, Montaigne

sottolinea in riferimento all’Accademia: «Questo partito ha avuto il maggior seguito e i

seguaci più nobili»;6 ma la distanza dal filosofo neopirroniano emerge anche

dall’interpretazione di Montaigne – fornita più avanti nell’Apologia – in merito alla

posizione epistemologica di Platone. Diversamente da Sesto Empirico, che non

riconosce Platone come uno scettico genuino, Montaigne segue Cicerone, utilizzando le

parole di quest’ultimo per definire la propria posizione:

Timeo, dovendo istruire Socrate di ciò che sa degli dèi, del mondo e degli uomini,

propone di parlargliene come un uomo può parlare a un altro uomo; e dice che è

sufficiente se le sue ragioni sono probabili come le ragioni di un altro: dato che le

ragioni precise non sono in mano sua, né in altra mano mortale. Opinione che uno

dei suoi seguaci ha così ricalcato: «Ut potero, explicabo: nec tamen, ut Pythius

Apollo, certa ut sint et fixa, quæ dixero; sed, ut homunculus, probabilia coniectura

sequens».7

Come afferma Bermúdez Vázques, «Montaigne legge Platone attraverso gli occhi di

Cicerone»8 e non tramite Sesto Empirico; poco oltre nell’Apologia, egli scrive infatti di

Platone che «nessuna dottrina fu titubante e aliena dall’affermare qualcosa quanto la

sua»9 e che «quando scrive secondo il proprio pensiero, non afferma nulla con

certezza».10

Ma nonostante discuta ampiamente dello scetticismo platonico e faccia ampio

riferimento ad un accademico come Cicerone, l’ammirazione di Montaigne sembra

spostarsi rapidamente verso la posizione di Pirrone e dei suoi seguaci, la cui opinione –

rispetto allo scetticismo della Nuova Accademia – giudica «più ardita e al tempo stesso

6 Ivi, qui p. 657.

7 Ivi, qui pp. 663, 664.

8 Manuel Bermúdez Vázques, The Skepticism of Michel de Montaigne, cit., p. 42.

9 Michel de Montaigne, “Apologia di Raymond Sebond”, cit., qui p. 667.

10 Ivi, qui p. 671.

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più verosimile».11

Montaigne argomenta infatti che accettare l’idea di una conoscenza

probabile come quella proposta dagli accademici significa ammettere di essere in grado

di distinguere il vero dal falso:

Questa apparenza di verosimiglianza che li fa inclinare a sinistra piuttosto che a

destra, aumentatela; quest’oncia di verosimiglianza che fa pendere la bilancia,

moltiplicatela per cento, per mille once, alla fine accadrà che la bilancia prenderà

partito del tutto, e decreterà una scelta e una verità intera. Ma come possono

lasciarsi piegare alla verosimiglianza se non conoscono il vero? Come possono

conoscere la sembianza di ciò di cui non conoscono l’essenza? O possiamo

giudicare fino in fondo o non possiamo giudicare affatto. Se le nostre facoltà

intellettuali e sensibili sono senza fondamento e senza base, se non fanno che

ondeggiare e andar dietro al vento, è inutile che permettiamo a qualche parte della

loro azione di trascinare il nostro giudizio, qualunque apparenza di verità essa

sembri presentare; e lo stato più sicuro del nostro intelletto, e il più felice, sarebbe

quello in cui esso si mantiene calmo, dritto, inflessibile, senza movimento e senza

agitazione.12

Al probabilismo accademico Montaigne sembra dunque preferire l’epochè dei

pirroniani, la radicale sospensione del giudizio che ha come conseguenza quella di

condurre all’atarassia, ovvero alla tranquillità dell’anima e alla liberazione dalle

passioni. Ma tale interpretazione non è priva di problemi, come sottolineato da

Bermúdez Vázques: «Va notato […] l’uso fatto da Montaigne del concetto di

verosimiglianza. Infine, c’è il fatto che Montaigne stesso sembra formulare un giudizio,

o almeno aderirvi».13

In particolare, l’uso che Montaigne fa del concetto di verosimiglianza non rappresenta

un caso isolato. Come sottolineato da Panichi, in almeno un altro luogo dell’Apologia

«Montaigne immette elementi apparentemente estranei allo scetticismo come il concetto

di “evidenza di ragione” (pirronizzare, nella restituzione dell’Apologie, è mettere in

dubbio l’“evidenza dell’esperienza”: il pirronismo critica l’evidenza dell’esperienza ma

non giunge all’evidenza di ragione)».14

Il riferimento è al passo con il quale l’autore dei

Saggi respinge la tesi dell’unicità del mondo, dove il concetto di verosimiglianza ricorre

due volte in poche righe:

11

Ivi, qui p. 744. 12

Ivi, qui p. 744, 745. 13

Manuel Bermúdez Vázques, The Skepticism of Michel de Montaigne, cit., p. 43. 14

Nicola Panichi, Montaigne, Carocci Editore, Roma 2010, p. 184.

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La tua ragione non ha in nessun’altra cosa maggior verosimiglianza e fondamento

che in questo, che ti convince della pluralità dei mondi: Terramque, et solem,

lunam, mare, cætera quæ sunt / non esse unica, sed numero magis innumerali. I

più famosi ingegni del tempo passato l’hanno creduto, e anche alcuni dei nostri,

spinti dall’evidenza della ragione umana. Poiché in questa fabbrica che vediamo

non c’è niente di solo e unico, cum in summa res nulla sit una, / unica quæ

gignatur, et unica solaque crescat, e tutte le specie sono moltiplicate in qualche

numero; per cui non sembra essere verosimile che Dio abbia fatto quest’unica

opera senza compagna […].15

Ma allora qual è l’opinione di Montaigne? La sua posizione è più vicina allo scetticismo

accademico o a quello dei pirroniani? Una possibile risposta a questa domanda viene

fornita da Bermúdez Vázques, secondo il quale l’interesse che il bordolese mostra per il

pirronismo non deriva dall’interesse per le opere di Sesto Empirico – materiale del

quale Montaigne fa scarso uso* –, ma dall’ammirazione verso la figura di Pirrone:

«Montaigne ricava le “espressioni pirroniane” da Sesto Empirico, ma in nessun luogo

manifesta interesse per Sesto Empirico in se stesso, solo in Pirrone, il quale sembra aver

conosciuto principalmente attraverso Diogene Laerzio».16

L’interesse montaignano per il pirronismo sarebbe dunque, nella lettura di Bermúdez

Vázques, la conseguenza del fascino esercitato sul bordolese dalla figura di Pirrone;

figura che per Montaigne rappresenta «l’esemplificazione di un ideale di semplicità

profondamente soddisfacente».17

Positivo è infatti il giudizio montaignano nei confronti

dell’anti-intelletualismo connesso all’immagine di Pirrone; sebbene infatti Montaigne

rifiuti apertamente il ritratto che ne fa Diogene Laerzio di un uomo «stupido e

immobile, dedito a un modo di vita selvatico e insocievole, che si lasca urtare dai carri,

corre incontro ai precipizi, rifiuta di adeguarsi alle leggi»18

per descriverlo come «un

uomo vivo, che discorre e ragiona, che gode di tutti i piaceri e i vantaggi naturali, che

15

Michel de Montaigne, “Apologia di Raymond Sebond”, cit., qui pp. 689, 690. * Il motivo per cui Montaigne non fa un uso sostanziale della fonte rappresentata da Sesto Empirico

rimane incerto. Secondo Bermúdez Vázques è possibile che Montaigne disponesse di un’edizione in

greco degli Schizzi Pirroniani – lingua che l’autore dei Saggi conosceva in maniera solo superficiale – e

che dunque avesse un accesso solo indiretto dell’opera. 16

Manuel Bermúdez Vázques, The Skepticism of Michel de Montaigne, cit., p. 39. 17

Ivi, p. 43. 18

Michel de Montaigne, “Apologia di Raymond Sebond”, cit., qui p. 661.

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mette in opera e si serve di tutte le sue parti corporali e spirituali con norma esatta e

sicura»,19

nell’Apologia possiamo leggere le seguenti parole:

È molto meglio per noi lasciarci portare, senza indagare, dall’ordine del mondo.

Un’anima libera da pregiudizi è già straordinariamente avanti sulla strada della

tranquillità. Coloro che giudicano e controllano i loro giudici non si sottomettono

mai come si conviene. Quanto sono più docili e più facili a piegarsi sia alle leggi

della religione sia alle leggi politiche gli spiriti semplici e privi di curiosità, che

non quegli spiriti vigili e maestri delle cause divine e umane!20

Ciò che Montaigne fa in questo passo è paragonare l’atarassia – ovvero la tranquillità

libera dalle passioni – derivante dalla sospensione del giudizio pirroniana alla

tranquillità naturale dei semplici e degli incolti; ma l’ideale della vita semplice e felice

torna in vari luoghi dell’opera, ad esempio quando Montaigne scrive qualche pagina

prima: «Ho visto al tempo mio cento artigiani, cento contadini, più saggi e più felici di

molti rettori d’università, e ai quali preferirei assomigliare».21

Questo aspetto del

pensiero montaignano è sottolineato da Petr Lom nel suo libro Scetticismo:

Secondo Montaigne, l’uomo ha pagato caro per la ragione, che anziché aiutarci a

essere felici, ci ha creato solo problemi: «L’incostanza, l’irresolutezza, l’incertezza,

il dolore, la superstizione, la preoccupazione per le cose future, per l’al di là, cioè:

l’ambizione, l’avarizia, la gelosia, l’invidia, i desideri sregolati, forsennati e

indomabili, la guerra, la menzogna, la slealtà, la calunnia e la curiosità». A che

cosa è servita tutta la filosofia, ci chiede Montaigne?22

È in questo contesto che si colloca l’aneddoto su Pirrone tratto da Diogene Laerzio e

riportato da Montagne all’Apologia: trovatosi su una nave durante una tempesta, Pirrone

non fece altro che mostrare a coloro che erano con lui, come esempio da imitare, un

maiale che viaggiava con loro e che guardava senza spavento al mare in burrasca; un

aneddoto che l’autore dei Saggi introduce con le seguenti parole: «Ma anche se la

scienza facesse veramente ciò che essi dicono, cioè smussasse e mitigasse l’asprezza

19

Ibidem. 20

Ivi, qui p. 662. 21

Ivi, qui p. 634. 22

Petr Lom, Scetticismo, tr. it. di A. Cadioli, Editrice Bibliografica, Milano 1998, p. 33.

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delle disgrazie che ci perseguitano, che altro farebbe più di quello che fa l’ignoranza

con molto maggiore semplicità ed evidenza?».23

Secondo Bermúdez Vázques, all’origine di questo aspetto del pensiero montaignano –

ovvero l’esaltazione della vita semplice e felice di cui Pirrone è l’esemplificazione – ci

sarebbe un giudizio negativo del periodo storico in cui Montaigne si trova a vivere,

un’età caratterizzata dalle atrocità delle guerre di religione e dal massacro perpetrato nel

Nuovo Mondo: «Montaigne vive in quella che percepisce come un’epoca decadente e

controversa. Egli equipara la virtù e l’innocenza alla semplicità. Egli rimpiange un

passato semplice dominato da buoni agricoltori che si lasciavano “portare, senza

indagare”».24

Lo stesso Bermúdez Vázques nota però come non sia questo lo stile di vita che

Montaigne sceglie per se stesso: «Montaigne è cosciente del fatto che l’ideale della vita

semplice è qualcosa di immaginario, e in ogni caso non è questa la strada che sceglie, in

quanto egli è, tra le altre cose, sia uno studente che un maestro. Egli si impegna nella

ricerca della conoscenza e, benché si mostri critico verso la pedagogia del proprio

tempo, crede che l’educazione sia essenziale per la formazione del giudizio».25

Dello

stesso avviso è Panichi, che sottolinea come Montaigne si serva di alcuni versi di

Lucrezio – «Qui vigilans stertit, / mortua cui vita est prope iam vivo atque vivendi»26

«per stigmatizzare la condotta del popolo, della gente comune, di coloro che non si

osservano, non si giudicano e lasciano oziosa la maggior parte delle loro facoltà:

l’individuo pratico-inerte, il vero idiota, il mal nato: “Chi russa da sveglio, e pur

godendo della vita e della vista, conduce una vita quasi morta”».27

Malgrado il fascino

esercitato su di lui dall’ideale della vita felice dei semplici, Montaigne riconosce un

desiderio umano universale per la verità, tanto da scrivere nel saggio intitolato Dell’arte

di conversare che «siamo nati per cercare la verità».28

«Nonostante tutti i dubbi estremi

presenti nell’Apologia, Montaigne non abbandona mai la sua fede che vede la filosofia

adeguata a questo compito».29

23

Michel de Montaigne, “Apologia di Raymond Sebond”, cit., qui p. 639. 24

Manuel Bermúdez Vázques, The Skepticism of Michel de Montaigne, cit., p. 45. 25

Ivi, p. 46. 26

Michel de Montaigne, “Apologia di Raymond Sebond”, cit., qui p. 656. 27

Nicola Panichi, Montaigne, cit., pp. 153, 154. 28

Michel de Montaigne, “Dell’arte di conversare”, in Saggi, a c. di F. Garavini, Adelphi Edizioni, Milano

1996, pp. 1226-1256, qui p. 1235. 29

Petr Lom, Scetticismo, cit., p. 39.

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Benché non possa essere negato il fascino esercito su Montaigne dalla figura di Pirrone,

Bermúdez Vázques osserva come l’autore dei Saggi arrivi a giudicare la posizione

pirroniana troppo estrema e, in definitiva, impossibile da attuare. Sebbene l’accusa di

estremismo colpisca, nel saggio Degli zoppi, Carneade e la Nuova Accademia – «La

superbia di quelli che attribuivano allo spirito umano la capacità di ogni cosa causò in

altri, per dispetto e per emulazione, quest’opinione che esso non è capace di nulla. Gli

uni si pongono nell’ignoranza a quello stesso estremo al quale gli altri si pongono nella

scienza»30

–, lo stesso giudizio, seppur con una sfumatura diversa, non risparmia il

pirronismo, come si può leggere nel saggio intitolato Della virtù: «È già qualcosa

condurre l’anima a tali concezioni; e di più conformarvi le proprie azioni; tuttavia non è

impossibile; ma conformarvele con tale perseveranza e costanza da fondare su di esse il

proprio costume abituale, e con imprese tanto lontane dall’uso comune, è certamente

quasi incredibile che lo si possa».31

Significativamente, subito dopo questo passo

Montaigne riporta due aneddoti tratti dalla vita di Pirrone in cui vediamo lo stesso

fondatore del pirronismo venire meno all’atarassia, diretta conseguenza della

sospensione del giudizio pirroniana:

Ecco perché, trovato qualche volta in casa sua discutere aspramente con sua

sorella, e rimproverato di venir meno così alla propria indifferenza: “Come,” disse

“bisogna che anche questa donnetta serva di testimonianza alle mie regole?”.

Un’altra volta che fu visto difendersi da un cane: “È molto difficile” disse

“spogliare interamente l’uomo; e bisogna farsi un dovere e sforzarsi di combattere

le cose, prima con le azioni, ma, nel peggiore dei casi, con la ragione e con gli

argomenti”.32

Possiamo dunque essere d’accordo con Bermúdez Vázques quando scrive che

«Montaigne considera la posizione pirroniana estrema e poco credibile. […] Montaigne

ammira l’equilibrio dei pirroniani come un ideale, ma lo considera in conclusione

inattuabile […]».33

L’atarassia è dunque, agli occhi del bordolese, una chimera.

30

Michel de Montaigne, “Degli zoppi”, in Saggi, a c. di F. Garavini, Adelphi Edizioni, Milano 1996, pp.

1367-1384, qui pp. 1383, 1384. 31

Michel de Montaigne, “Della virtù”, in Saggi, a c. di F. Garavini, Adelphi Edizioni, Milano 1996, pp.

935-944, qui p. 937. 32

Ibidem. 33

Manuel Bermúdez Vázques, The Skepticism of Michel de Montaigne, cit., p. 51.

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La critica montaignana al pirronismo non si esaurisce però qui, ma si spinge fino a

scoprire quello che Panichi definisce «il fondo segretamente dogmatico dello stesso

pirronismo».34

Nel saggio intitolato Della presunzione, Montaigne sembra sposare

l’epochè pirroniana quando scrive: «L’incertezza del mio giudizio è così perfettamente

bilanciata nella maggior parte delle occasioni, che volentieri mi affiderei alla decisione

della sorte o dei dadi»;35

un passo che sembra richiamare la definizione che Sesto

Empirico fornisce dello scetticismo nella parte iniziale degli Schizzi Pirroniani: «Lo

Scetticismo esplica il suo valore nel contrapporre i fenomeni e le percezioni intellettive

in qualsivoglia maniera, per cui, in seguito all’ugual forza dei fatti e delle ragioni

contrapposte, arriviamo, anzitutto, alla sospensione del giudizio, quindi,

all’imperturbabilità».36

Tale adesione viene però messa in discussione nell’Apologia di

Raymond Sebond, dove Montaigne osserva quanto segue: «Benché la fortuna ci muova

cinquecento volte di posto e non faccia che vuotare e riempire continuamente, come un

vaso, la nostra credenza di opinioni sempre diverse, la presente e l’ultima è sempre

quella certa e infallibile».37

Scrive Panichi:

La forza della seconda opinione non bilancia la prima (come voleva Sesto), ma

l’annienta. […] Lo spirito è portato ad aderire alla rappresentazione più forte,

perché presente. Dato che l’isostenia è la possibilità di sospensione del giudizio, se

essa viene invalidata la seconda non può avere luogo. Montaigne non sospende di

fatto il giudizio, e nemmeno l’atarassia è possibile. Il risultato è che è impossibile

disfarsi totalmente delle opinioni […]».38

Secondo Panichi, l’interesse che Montaigne manifesta per il pirronismo dipenderebbe

dal fatto che in esso egli vedrebbe scongiurato il rischio dell’apraxia – l’inattività,

l’inerzia pratica e la completa trascendenza dal reale – al quale invece lo scetticismo

della Nuova Accademia presterebbe il fianco. Scrive infatti Montaigne nell’Apologia:

«Quanto alle azioni della vita, essi [i pirroniani] seguono la maniera comune. Si

adattano e si accomodano alle inclinazioni naturali, all’impulso e alla costrizione delle

34

Nicola Panichi, Montaigne, cit., p. 158. 35

Michel de Montaigne, “Della presunzione”, in Saggi, a c. di F. Garavini, Adelphi Edizioni, Milano

1996, pp. 842-885, qui p. 874. 36

Sesto Empirico, Schizzi Pirroniani, tr. it. di A. Russo, Editori Laterza, Roma-Bari 1988, p. 4. 37

Michel de Montaigne, “Apologia di Raymond Sebond”, cit., qui pp. 746, 747. 38

Nicola Panichi, Montaigne, cit., pp. 158, 159.

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passioni, alle norme delle leggi e delle consuetudini e alla tradizione delle arti».39

L’autore dei Saggi fa qui riferimento a un passo degli Schizzi Pirroniani con il quale

Sesto Empirico espone le «quattro regole atte a rendere lo scettico adattabile agli usi e

costumi del proprio paese, buon cittadino, saggio e attivo, annettendo una distanza

interiore che gli permette di non impegnarsi intellettualmente nella pratica»:40

Attenendoci, pertanto, ai fenomeni, viviamo senza dogmi, osservando le norme

della vita comune. Questa osservanza delle norme della vita comune pare essere

quadripartita, e consiste, parte, nella guida della natura, parte, nell’impulso

necessario delle affezioni, parte, nella tradizione delle leggi e delle consuetudini,

parte, nell’insegnamento delle arti.41

Ma, come lo stesso Panichi evidenzia, la critica montaignana non risparmia nemmeno

questa “morale provvisoria” dei pirroniani, l’unica forma pensata per attuare il

passaggio dello scetticismo teorico alla pratica. Ad essere attaccata da Montaigne è

l’arbitrarietà delle leggi, come emerge dal seguente passo tratto dall’Apologia di

Raymond Sebond:

Che cosa ci dirà dunque in questo frangente la filosofia? Di seguire le leggi del

nostro paese? Cioè questo mare fluttuante delle opinioni di un popolo o d’un

principe, che mi dipingeranno la giustizia di tanti colori e l’acconceranno in tante

fogge quanti cambiamenti di passioni vi saranno in essi? Il mio giudizio non può

essere così flessibile. Che bontà è mai quella che ieri vedevo in onore e domani non

lo sarà più, e che, varcato un fiume, diventa crimine?42

Persino il concetto di legge di natura viene sottoposto al vaglio della critica:

Sono poi veramente curiosi [i filosofi] quando, per dare qualche certezza alle leggi,

sostengono che ve ne sono alcune stabili, perpetue e immutabili, che essi chiamano

naturali e che sono impresse nel genere umano per la condizione della loro propria

essenza. E, di queste, chi ne conta tre, chi quattro, chi più, chi meno: prova che

questo è un segno incerto come il resto. […] Di queste tre o quattro leggi scelte non

ce n’è una sola che non sia contraddetta e smentita, non da un solo popolo, ma da

molti. Ora, l’universalità dell’approvazione è il solo segno evidente dal quale essi

possano dedurre alcune leggi naturali. Di fatto, quello che la natura ci avesse dato,

39

Michel de Montaigne, “Apologia di Raymond Sebond”, cit., qui p. 661. 40

Nicola Panichi, Montaigne, cit., p. 156. 41

Sesto Empirico, Schizzi Pirroniani, cit., p. 9. 42

Michel de Montaigne, “Apologia di Raymond Sebond”, cit., qui p. 770.

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lo seguiremmo senz’altro con comune consenso. E non solo ogni popolo, ma ogni

individuo sentirebbe l’imposizione e la violenza che gli farebbe chi volesse

spingerlo contro questa legge. Che me ne mostrino, per prova, una di questo tipo.43

Montaigne appare dunque critico verso l’assunzione delle leggi come regola di condotta

per lo scettico: se, come viene affermato nell’Apologia, «la verità deve avere un volto

uniforme ed universale»,44

nelle leggi e nei costumi del mondo egli vede solo la

diversità. Come scrive Lom, «Montaigne ci dice che “non c’è cosa soggetta a più

continuo rivolgimento delle leggi”, dato che nella sua vita egli ha visto numerosi

cambiamenti sul diritto inglese e anche nella Francia, sia nella politica che nella

religione».45

Nonostante quanto detto fino ad ora, è però altrettanto vero che sono numerosi i luoghi

nei Saggi in cui è lo stesso Montaigne a proporre la conformità verso i costumi e le

norme giuridiche. Come evidenziato da Lom, se da un lato egli appare come il difensore

dello statu quo politico, allo stesso tempo il suo scetticismo sembra minare le

fondamenta stesse di ciò che vorrebbe difendere:

Nell’Apologia, Montaigne afferma che dobbiamo obbedire alle leggi, mettendo poi

in dubbio la legittimità del diritto in generale data la sua variabilità, e sostenendo

che per le leggi non esistono modelli né universali né naturali, ma unicamente

convenzioni arbitrarie e mutevoli. Di più, Montaigne mette in dubbio la capacità e

la legittimità dei sovrani, spiegando che essi sono come gli altri uomini, né migliori

né peggiori […]».46

Una possibile soluzione a tale contraddizione ci viene fornita dallo stesso Lom, secondo

il quale il conservatorismo montaignano scaturirebbe dal timore per l’instabilità

politica:

Nella sua preoccupazione per la pace civile, Montaigne anticipa i pensieri del

filosofo inglese Thomas Hobbes […], sostenendo che la cosa peggiore in politica è

l’instabilità. Dubbioso nei confronti dei tentativi di cambiamento dopo aver visto

quarant’anni di guerre in Francia, Montaigne scrive che “la novità mi disgusta,

sotto qualsiasi aspetto si presenti, e ho ragione, perché ne ho veduti gli effetti molto

43

Ivi, qui pp. 770, 771. 44

Ivi, qui p. 769. 45

Petr Lom, Scetticismo, cit., p. 35. 46

Ivi, p. 42.

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dannosi”. […] Per Montaigne, tutte le azioni rivoluzionarie non sono altro che una

scusa per commettere azioni crudeli [...].47

Sebbene siano dunque numerosi gli esempi negli scritti montaignani in cui è lo stesso

autore a proporre alcune riforme politiche – come l’eliminazione della tortura e la

modifica del sistema educativo, senza dimenticare le critiche rivolte verso le incoerenze

delle leggi francesi sul duello e sul sistema fiscale –, Montaigne crede che l’unica cosa

che conti veramente sia però la pace sociale: «Anche se Montaigne ammette che molte

leggi francesi sono barbare e ingiuste, egli afferma che quel che è di capitale importanza

è l’ordine; senza ordine, senza leggi, gli uomini vivrebbero in maniera peggiore delle

bestie, e dunque anche le peggiori leggi del mondo sono meglio di niente, perché “senza

di esse gli uomini si divorerebbero fra loro”».48

A quanto detto fino ad ora si aggiunge il fatto che, secondo quanto scrive Montaigne in

Dell’arte di conversare, l’ubbidienza alle leggi riguarderebbe soltanto il comportamento

esterno, mentre il nostro giudizio personale deve, al contrario, rimanere libero: «Ogni

riverenza e sottomissione è loro [ai sovrani] dovuta, salvo quella dell’intelletto. La mia

ragione non è avvezza a piegarsi e inchinarsi, i miei ginocchi lo sono».49

È dunque un interessante paradosso quello che emerge dall’incontro tra lo scetticismo

teoretico e il conformismo pratico di Montaigne: mentre lo scetticismo porta l’autore

dei Saggi a sottolineare a più riprese la fallacia delle leggi, numerosi sono i luoghi in cui

ci viene però consigliato di rispettarle. Scrive in proposito Lom:

Per quanto dobbiamo nutrire sospetti nei riguardi delle motivazioni e dei progetti di

tutti i fautori di cambiamenti politici, Montaigne insegna che colui che obbedisce

alle leggi perché sono “giuste” non le rispetta per una giusta ragione. Il motivo

della nostra ubbidienza dovrebbe essere la comprensione che la pace sociale è il

bene politico più importante e che per questo motivo è necessario tollerare tanta

imperfezione».50

A questo punto non è difficile notare come la posizione montaignana appaia essere

alquanto diversa da quella di Sesto Empirico, il cui conformismo dipendeva dalla totale 47

Ivi, p. 43. 48

Ivi, p. 44. 49

Michel de Montaigne, “Dell’arte di conversare”, cit., qui p. 1245. 50

Petr Lom, Scetticismo, cit., p. 46.

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sospensione del giudizio e dalla volontà di scongiurare il pericolo dell’apraxia. Più in

generale, appare corretta l’interpretazione fornita da Panichi, il quale, partendo dalla

definizione del pirronismo che Montaigne fornisce nell’Apologia – «Chiunque

s’immagini una continua confessione di ignoranza, un giudizio senza direzione e senza

inclinazione, in qualsiasi occasione, concepisce il pirronismo»51

–, scrive: «Fatta salva

la prima parte, condivisa da Montaigne, quel che segue è respinto […] perché […]

questo tipo di saggezza è costretto ad accettare molte cose senza comprenderle, riduce la

propria arte di vivere all’accettazione, rinunciando ad ogni etica della responsabilità».52

Una rinuncia e un’accettazione che Montaigne stigmatizza in modo molto chiaro nel

saggio Dell’esperienza:

Non è altro che debolezza personale quella che ci fa accontentare di ciò che altri o

noi stessi abbiamo trovato in questa caccia alla conoscenza […]. È segno di

ristrettezza di mente quando questa si accontenta, o di stanchezza. Nessun intelletto

generoso si ferma in se stesso: aspira sempre ad altro e va la di là delle proprie

forze; ha slanci che oltrepassano le sue possibilità; se non avanza e non si affretta,

se non indietreggia e non si urta, è vivo soltanto a metà […].53

Come notato da Panichi, lo scetticismo montaignano sembra prendere le distanze dal

pirronismo di Sesto Empirico perché «mette in crisi la ragione stessa e la sua incapacità

di disfarsi delle opinioni»,54

senza che però ciò conduca alla disperazione epistemica e

morale, come scritto chiaramente nell’Apologia:

Quello che le mie facoltà non possono scoprire, non smetto di sondarlo e provarlo;

e, rimaneggiando e impastando questa nuova materia, agitandola e riscaldandola,

apro a colui che mi segue qualche possibilità di goderne più a suo agio, e gliela

rendo più duttile e maneggevole […]. Altrettanto farà il secondo col terzo: sicché la

difficoltà non deve farmi disperare, e nemmeno la mia impotenza, poiché è soltanto

mia».55

51

Michel de Montaigne, “Apologia di Raymond Sebond”, qui p. 661. 52

Nicola Panichi, Montaigne, cit., p. 188. 53

Michel de Montaigne, “Dell’esperienza”, in Saggi, a c. di F. Garavini, Adelphi Edizioni, Milano 1996,

pp. 1422-1497, qui p. 1428. 54

Nicola Panichi, Montaigne, cit., p. 165. 55

Michel del Montaigne, “Apologia di Raymond Sebond”, cit., qui pp. 742, 743.

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Possiamo dunque essere d’accordo con lo stesso Panichi quando definisce quello di

Montaigne «un dispositivo teorico che, una volta dissodato il terreno con le armi dello

scetticismo, quindi della critica, finisce in modo carsico per convertire lo scetticismo in

un nuovo orizzonte di “convinzioni” e di possibilità».56

Alla luce di quante detto fino ad ora, il motto montaignano – Que sçais je? – assume un

significato del tutto opposto a quello tradizionalmente attribuitogli, rappresentando non

l’adesione ma il rifiuto dell’epochè pirroniana. Un discorso analogo vale per il simbolo

della bilancia scelto da Montaigne, che, più che l’isostenia, richiama il compito

attribuito dal bordolese al giudizio. Come scrive Bermúdez Vázques, Montaigne

«sceglie una bilancia non per rappresentare l’atarassia, ma per simboleggiare il giudizio.

[…] Montaigne accetta l’esistenza dei fenomeni ma, a differenza dei pirroniani, tenta di

interpretarli».57

Modello di Montaigne, più che Pirrone o Sesto Empirico, appare essere dunque Socrate,

come sostenuto dallo stesso Bermúdez Vázques: «Per Montaigne, come per Socrate, la

conoscenza è qualcosa che va ricercata senza sosta, anche se impossibile da ottenere

pienamente».58

«Il giudizio occupa in me la cattedra più elevata, o almeno vi si sforza

diligentemente»,59

scrive Montaigne nel saggio Dell’esperienza: per quanto debole, la

ragione è infatti tutto ciò che abbiamo in grado di guidarci. Basta osservare l’indice dei

Saggi per rendersi conto di come il loro autore eserciti il proprio giudizio su numerosi e

diversi argomenti, prendendo chiaramente le distanza dalla radicale sospensione del

giudizio tipica del pirronismo; ma nel saggio intitolato Di Democrito e di Eraclito,

Montaigne è esplicito:

Il giudizio è un utensile buono a tutto, e che s’impiccia di tutto. Per questo, nei

saggi che ne faccio qui, mi servo di qualsiasi occasione. Se c’è di cui non mi

intendo affatto, proprio per questo lo saggio, sondando il guado molto da lontano; e

poi, se lo trovo troppo profondo per la mia statura, mi tengo vicino alla riva; e

questo riconoscere di non poter andare oltre è una manifestazione della sua

essenza, anzi, una di quelle di cui più si vanta. Talvolta, applicandolo ad un

argomento vano e da nulla, provo a vedere se troverà modo di dargli corpo e di

sostenerlo e puntellarlo. Talvolta lo porto su un argomento nobile e travagliato, nel

quale non deve trovar niente da sé, poiché la strada è tanto battuta che può

56

Nicola Panichi, Montaigne, cit., p. 172. 57

Manuel Bermúdez Vázques, The Skepticism of Michel de Montaigne, cit., p. 51. 58

Ivi, p. 60. 59

Michel de Montaigne, “Dell’esperienza”, cit., qui p. 1437.

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procedere solo sulle orme altrui. Qui esso esplica la sua funzione scegliendo la

strada che gli sembra migliore e, fra mille sentieri, dice che questo oppure quello è

stato il meglio scelto.60

Se con la metafora del guado Montaigne testimonia la sua adesione allo scetticismo, tale

adesione non lo limita nell’utilizzo del suo metodo fatto di prove e tentativi: un metodo

che, benché non possa concretizzarsi un una teoria unitaria o in un sistema, non porta

l’autore dei Saggi ad abdicare dall’esercizio del proprio giudizio. È questa

l’interpretazione fornita anche da Lom, il quale descrive lo scetticismo montaignano

come una «combinazione di opinioni e dubbi, che appaiono quasi contemporaneamente

negli scritti di Montaigne»;61

uno scetticismo dunque non assoluto come quello

pirroniano, ma che presenta alcuni limiti che si manifestano in particolare nelle aspre

critiche rivolte dal bordolese verso il comportamento dei conquistatori europei nel

Nuovo Mondo affidate principalmente al saggio Dei cannibali. Come osserva Lom,

infatti, per essere completamente coerenti con lo scetticismo non si dovrebbe formulare

alcuna opinione sulle condotte, in quanto scettici sul bene, sul male e sulla giustizia:

Lo scetticismo da solo sarebbe insufficiente per sostenere la tolleranza; un

completo scettico vivrebbe in uno stato di indifferenza, incapace di decidere se la

giustizia abbia un valore o di scegliere tra il giusto e l’ingiusto. La tolleranza è

qualcosa di più della semplice indifferenza: tollerare vuol dire rispettare dei

principi diversi e soprattutto opposti a quelli che noi affermiamo; e il concetto di

rispetto implica una fede nei principi di uguaglianza e di libertà, principi sui quali

non siamo scettici. […] Ci sono dei limiti ai dubbi di Montaigne che si mostrano

come opinioni e fedi non dubitative […].62

Lo scetticismo di Montaigne non ha come obiettivo l’atarassia, conseguenza della

sospensione radicale del giudizio; per quanto incerti possano essere i risultati a cui

perviene, egli non abbandona nemmeno per un attimo la ricerca della verità, come

affermato anche nel saggio Dell’esperienza: «Non c’è fine alle nostre ricerche; il nostro

60

Michel de Montaigne, “Di Democrito e di Eraclito”, in Saggi, a c. di F. Garavini, Adelphi Edizioni,

Milano 1996, pp. 390-394, qui pp. 390, 391. 61

Petr Lom, Scetticismo, cit., p. 41. 62

Ivi, p. 49.

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fine è nell’altro mondo».63

In questo, esso sembra presentare maggiori affinità con il

dubbio di Socrate e Platone – e, più in generale, dell’Accademia – piuttosto che con il

pirronismo di Sesto Empirico. Non è dunque un caso che proprio Socrate emerga come

una delle guide principali a cui Montaigne si affida lungo tutti i Saggi e che non manca

di elogiare in diversi luoghi: nell’Apologia di Raymond Sebond, dove l’anima di Socrate

viene definita «la più perfetta che sia venuta a mia conoscenza»64

e nel saggio

Dell’esperienza, dove il filosofo greco viene descritto come «il maestro dei maestri».65

Ma il passo forse più significativo, che testimonia in maniera più esplicita il debito di

Montaigne verso la tradizione socratico-platonica, lo si può trovare nel saggio intitolato

Della fisionomia: «È stata una fortuna che l’uomo più degno di essere conosciuto e

d’esser presentato al mondo come esempio [Socrate] sia colui del quale abbiamo più

sicura conoscenza. È stato illustrato dagli uomini più intelligenti che mai siano stati

[…]».66

Oltre a quanto evidenziato finora, la vicinanza del dubbio montaignano a quello

socratico-accademico è testimoniata anche da un altro elemento, ovvero

dall’ammirazione che l’autore dei Saggi manifesta nei confronti di Plutarco in numerosi

luoghi della sua opera, come avviene ad esempio nel saggio intitolato Dei libri, dove

Montaigne scrive: «Plutarco è il mio uomo»;67

un debito espresso in maniera esplicita

anche nel saggio Su alcuni versi di Virgilio – «Ma posso liberarmi più difficilmente di

Plutarco. È così universale, e per quanto stravagante sia il soggetto da voi scelto,

s’inserisce nella vostra operazione e vi tende una mano liberale e inesauribile in

ricchezze e in abbellimenti»68

– e in quello intitolato A domani gli affari, nel quale il

bordolese esprime tutta la sua gratitudine verso Jacques Amyot per la sua traduzione

dell’opera plutarchea: «Noialtri ignoranti saremmo stati perduti se questo libro non ci

63

Michel de Montaigne, “Dell’esperienza”, cit., qui p. 1428. 64

Michel de Montagne, “Apologia di Raymond Sebond”, cit., qui p. 546. 65

Michel de Montaigne, “Dell’esperienza”, cit., qui p. 1439. 66

Michel de Montaigne, “Della fisionomia”, in Saggi, a c. di F. Garavini, Adelphi Edizioni, Milano 1996,

pp. 1384-1422, qui p. 1385. 67

Michel de Montaigne, “Dei libri”, in Saggi, a c. di F. Garavini, Adelphi Edizioni, Milano 1996, pp.

525-543, qui p. 537. 68

Michel de Montaigne, “Su alcuni versi di Virgilio”, in Saggi, a c. di F. Garavini, Adelphi Edizioni,

Milano 1996, pp. 1114-1194, qui p. 1163.

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avesse sollevati dal pantano; grazie a lui, osiamo ora e parlare e scrivere; […] è il nostro

breviario».69

Ma il debito montaignano verso Plutarco emerge soprattutto nell’Apologia di Raymond

Sebond, il saggio scettico per eccellenza, che si chiude sulla dicotomia tra essere/mente

umana ed essere/mente divina. Ed è proprio nella parte conclusiva di questo saggio che

emerge la matrice plutarchea del pensiero montaignano, come sottolineato da Panichi:

«Queste ultime pagine sono di fatto una riscrittura di un lungo brano plutarcheo tratto

dall’opuscolo L’E di Delfi letto da Montaigne nella traduzione di Amyot. La tesi

principale è che Dio non ha mutazioni, declinazioni, tempo; l’uomo è, intus et in cute,

mutazione, declinazione, tempo. Ed è per questo che “Nous n’avons aucune

communication a l’estre”».70

La conclusione a cui arrivano entrambi gli autori è dunque la separazione della

conoscenza razionale dalla credenza religiosa, sebbene ciò assuma nei due sfumature

leggermente diverse. Plutarco, nelle Questioni platoniche, sottolinea la necessità per

l’uomo di attenersi alla fede tradizionale ed ancestrale perché dotata di maggior senso di

qualsiasi costruzione teorica umana: «L’antica fede e reverenza [credenza] dei nostri avi

in questo paese ci deve bastare, non potendosene formulare o concepire una prova più

chiara ed evidente, di cui senso umano per sottile acutezza / non inventò mai la

profonda saggezza».71

Anche Montaigne, seguendo la strada plutarchea, reclama

l’autonomia della filosofia dalla religione, ma lo fa con uno spirito opposto: filosofia e

religione devono restare separate e non hanno nulla da guadagnare mescolandosi.

Sottolinea infatti Panichi: «Apparentemente anche I, 12 conclude sul fideismo o sul

fatto che, se la ragione ci abbandona, bisogna lasciar posto alla fede […]; ma l’aiuto

divino, la fede, aveva precisato [Montaigne] nel cuore dell’Apologie, non arriva sempre

ed è dono che non arriva a tutti. Affermazione che rimbalza al lettore la palla della

bontà di Dio».72

Un ulteriore indizio dell’influsso esercitato da Plutarco nei confronti di Montaigne è da

rintracciarsi nel metodo scelto da quest’ultimo per comporre i Saggi; di Plutarco, il

bordolese ama infatti il suo modo di non stabilire la certezza: «Vi sono poche cose che

69

Michel de Montaigne, “A domani gli affari”, in Saggi, a c. di F. Garavini, Adelphi Edizioni, Milano

1996, pp. 467-470, qui p. 468. 70

Nicola Panichi, Montaigne, cit., p. 200. 71

Ivi, p. 213. 72

Ivi, pp. 214, 215.

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quell’autore stabilisce in maniera tanto decisa […], mentre altrove mantiene sempre un

tono dubbioso e ambiguo».73

Montaigne ammira Plutarco perché, insieme ad altri

autori, possiede «un modo di scrivere che rivela dubbi sulla sostanza»74

presentando

molte cose «in due forme, […] in modo diverso e contrario»,75

tanto che Panichi rivela:

«In una frase cancellata nella seconda edizione degli Essai, Montaigne aveva annotato:

“combien diversement discourt il de mesme chose, combien de fois nous presente il

deux ou trois causes contraire de mesme subjects, et diverses raisons, sans choisir celle

que nous avons à suivre”».76

Montaigne recepisce e fa proprio lo stile scetticheggiante

di Plutarco, facendo giocare ogni idea contro le altre all’interno di un discorso aperto e

sempre suscettibile di aggiunte e ripensamenti. Un elemento ben sottolineato da Panichi,

che scrive:

La recezione di un Plutarco scettico in Montaigne appare evidente e meritevole di

molta attenzione, a cominciare dal metodo. Il metodo plutarcheo che indica con il

dito la strada da seguire, se lo si vorrà, […] trova in Montaigne ampia conferma: la

vera istruzione avviene più «par contrarieté que par exemple» (III, 8, 922B).

Movimenti, parole, immagini, exempla, concetti sono nutriti dalla contraddizione

che li fa vivere; titoli di capitoli promettono di parlare della crudeltà ma predicano

la clemenza…77

La scelta di tale metodo è un ulteriore indizio della vicinanza di Montaigne con lo

scetticismo di matrice socratico-accademica: è infatti evidente come il metodo

plutarcheo si rifaccia alla procedura, tipica della Nuova Accademia e difesa apertamente

da Plutarco nelle Contraddizioni degli stoici, della discussione contraddittoria,

consistente nel sostenere successivamente su ogni argomento tesi che si oppongono

l’una all’altra. Scegliendo come proprio modello Plutarco, Montaigne si rifà dunque allo

scetticismo dell’Accademia: numerosi sono infatti le opere plutarchee nelle quali

l’autore manifesta la propria simpatia per il probabilismo accademico, una simpatia

sviluppata grazie agli insegnamenti del suo maestro Ammonio, scolarca dell’Accademia

platonica.

73

Michel de Montaigne, “Apologia di Raymond Sebond”, cit., qui p. 736. 74

Ivi, qui p. 667. 75

Michel de Montaigne, “Della fisionomia”, cit., qui p. 1422. 76

Nicola Panichi, Montaigne, cit., pp. 204, 205. 77

Ivi, p. 205.

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Ma l’importanza della filosofia plutarchea va ben oltre quanto detto fino ad ora, in

quanto è proprio la presenza di Plutarco che aiuta Montaigne «a costruire il suo proprio

punto di vista sulla costruzione di uno scetticismo “temperato” e non disperato, per il

quale valga il motto, caro a entrambi, “niente di troppo”».78

Come abbiamo già

accennato in precedenza, il pirronismo appare a Montaigne troppo estremo, come

testimonia il seguente passo tratto dall’Apologia:

I filosofi pirroniani […] sono stati costretti a rifugiarsi in quest’altro paragone della

medicina, senza il quale la loro posizione sarebbe inesplicabile; quando

proferiscono: “Io ignoro”, o: “Io dubito”, dicono che questa si porta via da se stessa

insieme al resto, né più né meno che il rabarbaro che spinge fuori gli umori cattivi

e fugge via insieme con essi».79

Il riferimento è qui agli Schizzi Pirroniani di Sesto Empirico, nei quali viene descritto il

meccanismo autopurgativo – e dunque autosoppressivo – delle espressioni scettiche per

evitare la mortale contraddizione a cui si trovavano esposte. Montaigne appare cosciente

del limite dello scetticismo radicale dei pirroniani, tanto da mettere in guardia il lettore:

Quest’ultima mossa bisogna usarla solo come estremo rimedio. È un colpo

disperato nel quale bisogna che abbandoniate le vostre armi per far perdere al

vostro avversario le sue, e un tiro segreto del quale bisogna servirsi di rado e con

parsimonia. È una grande temerarietà perdere se stessi per rovinare un altro.80

Spiega in proposito Panichi: «Il colpo disperato fa perdere se stessi, come se la ragione

“uscisse da sé”: perdere se stessi per far perdere un altro, equivale alla perdita della

ragione, al suicidio e alla morte della ragione per autonegazione, autoeliminazione

simile alla purga scettica che elimina se stessa insieme alla malattia, lo scetticismo

insieme al suo opposto, il dogmatismo, lo strumento giudicante con il giudicato».81

Alla ragione “suicida” Montaigne preferisce il vaglio critico, e la guida non è Sesto

Empirico ma Plutarco, il quale intende la sospensione del giudizio come una

disposizione dello spirito che vuole restare esente da errori e che rifiuta di abbandonarsi

78

Ivi, p. 202. 79

Michel de Montaigne, “Apologia di Raymond Sebond”, cit., qui pp. 693, 694. 80

Ivi, qui p. 739. 81

Nicola Panichi, Montaigne, cit., p. 221.

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alle sensazioni così zoppicanti. Una testimonianza di ciò è riscontrabile nel Contro

Colote:

Non è dunque una favola né un trastullo di giovani temerari […], come dice

Colote, la decisione di sospensione [del giudizio], ma un’abitudine e disposizione

certa di uomini che vogliono salvaguardarsi dal fraintendere e dal cadere in errore,

[…] e non si fanno ingannare insieme a quelli che le cose apparenti abbiano

veridicità e debbano essere credute come certe, constatando una così grande

oscurità e così grande incertezza nelle immaginazioni e nelle cose apparenti

[fenomeni].82

La cura purgativa non è accettata da Montaigne, che non smette di vedere nella ragione

l’unico strumento misurante a propria disposizione, facendo proprio l’insegnamento

impartito da Plutarco nel De cohibenda ira, trattato molto frequentato dal bordolese e

primo dei Moralia ad essere conosciuto in Occidente: «Coloro che vogliono vivere sani

non facciano altro per tutta la vita che aver sempre cura di sé: non perché si debba

espellere la ragione con la malattia, dopo che essa ha finito di curare e guarire, come

l’elleboro, ma è necessario che restando nell’animo preservi e conservi il giudizio

affinché la ragione non somigli alle erbe medicinali, bensì ai cibi salutari».83

La ragione

deve dunque “restare dentro”, come spiegato bene da Panichi

Plutarco crede che la ragione, il logos, a differenza dell’elleboro, non debba

scorrere fuori insieme alla malattia, una volta terminata la cura, ma rimanere

nell’anima per tenere controllati i giudizi. […] La ragione deve restare dentro, per

misurare, pesare, balancer et contrebalancer per tutta la vita, in una ricerca

continua; deve restare il compasso e la pierre de touche nonostante le sue falsità e

illusioni di cui si deve liberare […]. Tutto questo l’uomo dovrà continuare a

imparare nella ricerca intellettuale intesa come formazione permanente. È la

bilancia di Montaigne che ritorna…».84

Il dubbio montaignano appare dunque più vicino allo scetticismo di Plutarco – e

dell’Accademia platonica di cui è stato un degli esponenti più illustri – che a quello dei

pirroniani, la cui posizione viene giudicata troppo estrema. In definitiva, Montaigne non

sceglie l’atarassia: «La ragione […] non deve autosoffocare, deve restare dentro e

82

Ivi, p. 210. 83

Ivi, p. 222, 223. 84

Ivi, p. 223.

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curare tutta la vita. […] La ragione non deve rinunciare a conoscere e conoscersi: deve

dare un senso e una direzione alla sua finitezza che la rende infinita».85

85

Ivi, pp. 270, 271.

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Bibliografia

Manuel Bermúdez Vázques, The Skepticism of Michel de Montaigne, Springer International

Publishing, Switzerland 2015.

Petr Lom, Scetticismo, tr. it. di A. Cadioli, Editrice Bibliografica, Milano 1998.

Michel de Montaigne, Saggi, a c. di F. Garavini, Adelphi Edizioni, Milano 1996.

Nicola Panichi, Montaigne, Carocci Editore, Roma 2010.