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LUCIO SPAZIANTE

Immagini sonore: sound design, convenzioni audiovisive e costruzione della realtà

I testi audiovisivi devono la loro efficacia, alla capacità di creare effetti di realtà basati su processi di riproduzione tecnica, dunque genericamente legati a forme di rappresentazione e di ricostruzione della realtà stessa. Parte di questa stessa efficacia è dovuta proprio alla loro natura “audiovisiva”, cioè quella di un linguaggio che connette suoni con immagini in movimento attraverso procedure convenzionali: è il caso del cinema, ma anche della televisione e di formati mediali come i videoclip e gli spot pubblicitari. Si tratta in specifico di un linguaggio sincretico, ovvero, un linguaggio che tramite differenti modalità espressive (immagini e suoni) è in grado di condurre verso una omogenea configurazione di contenuto. In questo articolo da un lato si evidenzierà come i processi che legano il suono all’immagine nell’audiovisivo siano frutto di un sistema convenzionale in continua evoluzione, che in parte è basato sulla rinegoziazione del continuum che articola la somiglianza iconica tra suono e immagine; dall’altro, a partire da casi concreti del cinema contemporaneo, si evidenzierà come la dimensione sonora nell’audiovisivo risulti territorio di una sperimentazione che si articola attraverso la ricerca di intrinseche proprietà figurative del suono, nonché luogo di una parziale messa in crisi delle convenzioni standard che correlano banda sonora e banda visiva. Questioni che conducono ad una più generale riflessione sulle procedure di costruzione della realtà attraverso la dimensione sonora. L’indagine sul ruolo del suono nell’audiovisivo è nata negli anni Settanta a partire da un’indagine sul cinema, per la quale si possono citare tra gli altri i lavori di Mary Ann Doane sulla voce nel cinema, e i lavori classici di Rick Altman (1992) che hanno definito le prime linee di una sound theory. È di questa fase (cfr. Bordwell e Thompson, 1990) l’articolazione schematica tra

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suoni diegetici (ovvero, in sintesi, suoni ascoltati dai personaggi” ed extra-diegetici (ovvero suoni ascoltati esclusivamente dagli spettatori), così come la suddivisione di Michel Chion (1990) tra suoni in/off (ovvero “visibili” e “non-visibili” sullo schermo) e suoni over (superiori e trascendenti, come le “voci narranti”). La sound theory tradizionale traeva origine dall’indagine sulle convezioni realistiche per le quali il suono era prevalentemente funzionale all’immagine. Questo stesso rapporto tra suono e immagine veniva inquadrato secondo una relazione prevalentemente di tipo “armonico” o si potrebbe dire altrimenti “empatico” (ivi). Ovvero, si tendeva a produrre un risultato omogeneo e convergente, in cui i due piani (suono e immagine) tendevano a sostenersi reciprocamente per aumentare l’effetto di realtà. Per poter conferire al processo di fruizione audiovisiva il massimo livello di naturalità, l’apparato convenzionale tendeva infatti a nascondersi, e se parliamo di “convenzione” è perché i suoni che ascoltiamo in un film non sono per natura i “suoni di” quelle immagini o i “suoni delle” cose che vediamo sullo schermo. Suoni e immagini si articolano piuttosto lungo due catene parallele e separate, spesso anche realizzate indipendentemente, organizzate però con continui “punti di aggancio”. Per restituire un’impressione di omogeneità e concomitanza (ivi) la strategia standard è basata nel sincronismo tra suoni vocali e movimenti labiali (lip sync). L’impostazione teorica qui sinteticamente descritta risulta attualmente in parte superata dalle tecnologie di registrazione e doppiaggio più sofisticate e recenti (cfr. Whittington, 2006, p. 8), come il suono multicanale e l’attuale Dolby 5.1. Con queste ultime il suono diviene uno strumento per arricchire il linguaggio audiovisivo con più marcate possibilità espressive: da un lato si enfatizza il realismo attraverso una più compiuta capacità sensoriale e una corporeità sonora, le quali entrambe conducono ad inediti effetti di presenza; dall’altro si giunge verso frontiere creative inedite tramite la creazione di suoni basati sulla sintesi sonora e sul controllo digitale. Anche il ruolo rivestito dalla musica non è più delimitabile all’interno della cosiddetta “colonna sonora”. Valga su tutti l’esempio del cinema di Quentin Tarantino che attraverso operazioni di recupero e di archeologia della cultura

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musicale pop, nei propri film ha realizzato un vero e proprio “sonic style” (cfr. Wierzbicki, 2012). In Jackie Brown (USA, 1997) ad esempio, come osserva Miklitsch (2004, p. 290), l’origine primaria della narrazione scaturisce in primo luogo dalla musica: il brano di Bobby Womack Across 110th Street precede anche i titoli di testa ed è su quell’immaginario che si innesta l’intera narrazione. Ma il regista che forse più di altri funziona da spartiacque simbolico e cronologico nell’attribuzione di un diverso ruolo al suono nel cinema è David Lynch. Uno dei sound designer che ha collaborato a Cuore selvaggio (Wild At Heart, USA, 1990), Kim Cascone, osserva che per questo film Lynch ha realizzato un vero e proprio “sound world” (cfr. Smith, 2007, 43). Un mondo sonoro che non è semplicemente contenuto all’interno dello schermo, ma bensì forma uno spazio dimensionale intorno allo schermo stesso. In Mulholland Drive (USA, 2001) si può apprezzare da parte di Lynch una vera e propria esplorazione della “relazione tra suono e immagine, così come dei limiti e delle possibilità dello stesso suono cinematografico classico” (Miklitsch, 2008, 241). A tal proposito, la celebre sequenza del teatro, il Club Silencio (cfr. Corbella, 2011), si sviluppa come una sorta di dimostrazione della “finta indessicalità”, ovvero di una sorta di disvelamento della retorica referenzialista del suono nell’audiovisivo: il maestro di cerimonie Bondar (l’attore Richard Green), dichiara “No hay banda,.. there is no band, .. il n'y a pas d'orchestra, … it’s all tape recording” e prosegue affermando che sebbene non ci sia l’orchestra, è possibile sentire il suono di un clarinetto. Successivamente appare un trombettista sul palco, ma dai suoi gesti comprendiamo che il suono è registrato, non proviene dalla sua tromba. Dal che si può affermare che questa sequenza descriva “l’arte del suono nel cinema come un’arte di prestidigitazione. (…) L’apparizione del trombettista (…) serve a dimostrare che non sussiste alcuna correlazione “magica” tra suono e immagine” (Miklitsch, 2008, p. 241).

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1. Griglie di lettura semiotica e impressioni di somiglianza

L’esempio appena citato è utile per riflettere sul fatto che ciò che “accade” in un audiovisivo, specie riguardo al suono, non costituisce né uno specchio, né una pura impronta della realtà, bensì un processo complesso di costruzione, lettura, interpretazione e ricostruzione. Da questo punto di vista, uno sguardo semiotico su questo tipo di processi può fornire utili capacità di comprensione. Innanzitutto avrebbe più senso parlare di apparati di produzione, piuttosto che, come tradizionalmente si è fatto, di riproduzione, perché si tratta a tutti gli effetti di processi di invenzione, sebbene realizzati a partire da una relazione molto stretta con la realtà. Proprio nella tensione che si origina tra ri-produrre e produrre la realtà, tra rappresentare e presentare, e tra ricostruire e costruire, trova spazio la dimensione semiotica del senso. Come ricorda Paolo Fabbri (1986, p. 10), i testi più che produrre semplicemente un riferirsi al reale, proferiscono il reale. In particolare i testi audiovisivi possiedono procedure specifiche per “importare” il mondo al loro interno, per fare sì cioè che quanto accade sullo schermo di un cinema o di un televisore assuma senso per uno spettatore. Se ne Lo squalo di S. Spielberg (Jaws, USA, 1975) non accettassimo come minimamente verosimile l’animale non ci spaventeremmo, così come se in Sogni di A. Kurosawa (Dreams, USA, Giappone, 1990) non riconoscessimo la montagna e la neve, il film non potrebbe funzionare. Sebbene i testi audiovisivi siano supporti tecnici composti di celluloide o pixel, essi devono essere in grado di generare una materialità concreta sul piano sensibile. Devono cioè produrre effetti sensoriali e percettivi che diano un senso di concretezza a ciò che vediamo e ascoltiamo. L’effetto di concretezza deriverà dalla corrispondenza tra il modo di leggere il mondo che il linguaggio audiovisivo ci propone e il modo di leggere il mondo che adoperiamo nella realtà quotidiana (attraverso la complessiva articolazione dei sensi, tra cui il visibile e l’udibile). Data la complessità sensibile del mondo, il linguaggio audiovisivo dovrà operare una certa riduzione dell’esistente e mediarla attraverso quella griglia di lettura umana (Greimas 1984) che nel corso del tempo ha fornito elementi e modelli

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cognitivi per la costruzione del linguaggio (con artifici come la “soggettiva”, il flashback, lo zoom, il montaggio alternato, la profondità di campo, ecc.). Sarà necessario ottenere quella che Umberto Eco, discutendo della problematica dell’iconismo, ha definito “impressione di somiglianza” (1997, 309) ovvero ciò che si prova “di fronte a una immagine realistica o iperrealistica” (ivi, 310). La configurazione cui assisto come spettatore nella fruizione di un film deve agire in modo “simile” alla mia esperienza reale. Eco parla a proposito di “stimoli surrogati”, citando proprio un esempio di tipo audiovisivo:

abbiamo a che fare con stimoli surrogati in tutti quei casi in cui scattano gli stessi recettori che scatterebbero in presenza dello stimolo reale, così come accade agli uccelli che rispondono alla simulazione dei fischietti da richiamo o così come un rumorista radiofonico o cinematografico ci fornisce (usando strani strumenti) le stesse sensazioni acustiche che proveremmo udendo il galoppo di un cavallo o il ruggito di un’automobile da corsa. (ivi, 311, corsivo mio)

Eco sostiene a margine che per accettare come credibili o verosimili fenomeni del genere, ci basiamo su esperienze pregresse personali o collettive, dunque delegando verso precedenti percezioni, nostre o altrui. Da questo punto di vista, possiamo dire che non si tratta di creare forme di somiglianza con le cose bensì di imitare i processi percettivi tramite i quali abbiamo esperienza delle cose. A. J. Greimas (1984) riguardo a ciò ci dice che l’essere in grado di riprodurre i tratti essenziali della “natura”, implica l’aver compiuto un’analisi approfondita delle articolazioni fondamentali di questa stessa “natura”. È quello che accade a un pittore quando traspone i tratti del mondo su una tela, o a un sound designer quando deve organizzare l’ambiente acustico per la scena di un film. Greimas (ib.) indica con il termine di figuratività un processo che è assieme di lettura e produzione delle figure del mondo, in base ai vari ordini sensoriali (vista, udito, tatto, ecc.), intese come entità significanti. La lettura e la produzione avvengono tramite un processo di addensamento o rarefazione di tratti riconoscibili: tramite formanti figurativi si aggregano quei tratti che in un quadro mi fanno riconoscere “abeti” o “colline”. La densità figurativa può

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essere molto ricca, e quindi produrre iconizzazione, quindi una riconoscibilità compiuta; oppure essa può ridursi tramite processi di “spoliazione”, procedendo così verso l’astrazione, ovvero tendere idealmente verso la non-riconoscibilità di una figura. Se solo pensiamo a come numerose opere pittoriche di Klee o Kandinsky si basino sull’oscillazione tra riconoscibilità e non riconoscibilità, si configura un processo sul piano visivo del tutto intuitivo ma che può valere ugualmente per la dimensione sonora. Ad esempio nel cinema horror si adoperano di frequente figure sonore come respiri e rantolii, giocando di continuo sull’evocazione di “presenze” o entità soprannaturali, anche qui oscillando sulla riconoscibilità / non-riconoscibilità di emissioni vocali umane. La costruzione di un testo visivo passa attraverso la nostra capacità di produrre significato in riferimento ai processi di percezione visiva. Ad esempio per disegnare una superficie acquatica dovrò “imitare” il modo in cui normalmente guardiamo l’acqua. Ma in che modo ottenere l’ “effetto acqua” e quale tratto di acquaticità scegliere? Più che riuscire a disegnare l’acqua, cercherò di disegnare il modo in cui si guarda l’acqua, riuscendo ad ottenere in questo modo l’effetto adatto (Calabrese 2006). Si tratta in ogni caso di smontare e ricostruire una modalità di sguardo, il che comporta una procedura che passi dal concreto all’astratto. Verrà elaborato un primo modello astratto che in un secondo tempo dovrà necessariamente essere reso nuovamente concreto. In sintesi, da un processo di analisi della lettura del mondo si ottiene un modello utile a costruire un oggetto audiovisivo. Un processo che sinteticamente può essere descritto così: figurazione / de-figurazione / ri-figurazione. Un po’ come fare un caffè, prelevarne l’acqua per renderlo solubile e conservabile – dunque astratto - e successivamente per renderlo nuovamente bevibile – dunque concreto - aggiungervi l’acqua. L’osservazione della realtà dunque non è altro che un studio dei modi con cui noi osserviamo la realtà stessa. Se il mondo sensibile è il luogo nel quale si producono le nostre esperienze concrete, esso diventa una fonte inesauribile di stimoli, di elementi che si propongono per divenire parte del nostro sistema espressivo e testuale. Una

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delle strade per produrre entità semiotiche è quella di costruire corrispondenze semantiche tra le figure del mondo e le figure del linguaggio. Mentre molto spazio è stato dato alla riflessione sullo statuto indicale dell’immagine nell’audiovisivo, meno attenzione è stata data alla funzione del suono e alla sua relazione sincrona con l’immagine in movimento. L’apparato degli effetti sonori è ampio ed articolato, ed è stato influenzato da una logica a sfondo referenziale: vi ritroviamo suoni ambientali, suoni di azioni, suoni di oggetti, oltre che la già ricordata distinzione classica che oppone suoni diegetici a suoni extra-diegetici (Odin 2000, trad. it. p. 23). Ma se il suono è un territorio articolato e dalle enormi potenzialità espressive, ciò lo si deve anche al suo potenziale figurativo. Seguendo l’impostazione che da Greimas (1984) arriva a Bertrand (2000), la figuratività può essere definita come la capacità contenuta nei testi di costruire forme analoghe all’esperienza percettiva dei diversi sensi, dunque oltre al visivo anche udito, tatto, olfatto e gusto. In questo modo la figuratività non costituisce unicamente un dominio del visivo, ma rappresenta una proprietà dei processi di significazione più in generale. In due parole si potrebbe definire come la possibilità di produrre senso tramite le figure del mondo. Figure che a questo punto possono essere anche figure dell’udibile, con le caratteristiche peculiari e proprie di quello stesso dominio sensoriale. I suoni esistono nello spazio e nel tempo e portano con sé tracce della loro costituzione naturale, ovvero della fonte che li ha prodotti e delle azioni compiute per produrli. Ad esempio la percussione di una campana di bronzo o il bussare su una porta di legno producono suoni che contengono tracce dell’azione compiuta (colpire) e del materiale percosso (bronzo o legno). Elementi che contribuisco a comporre un arredo figurativo relativo ai suoni. Per esemplificare ulteriormente la questione può essere utile lavorare su casi audiovisivi concreti.

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2. Wall-e: immaginari sonori e ibridazioni del reale

Il film di fantascienza per bambini Wall-e (USA, 2008) di Disney-Pixar è un utile esempio su cui ragionare perché rappresenta una piccola enciclopedia aggiornata sul come costruire ex novo un mondo completo e, tramite il suono, arricchirlo anche di elementi visivi; il tutto, per una fruizione mainstream adatta ad ogni pubblico. Il plot è ambientato in un pianeta Terra del futuro ridotto ad un’unica grande discarica planetaria, con gli umani trasferitisi a vivere una vita di ozio e comodità tecnologiche su una stazione orbitante. La prima mezz’ora del film è priva di dialoghi: solo musiche e rumori hanno il compito di dare corpo alla narrazione. L’universo di Wall-e prende vita tramite il suono, a partire da quello storico proveniente “dal” cinema, iniziando dai titoli di testa che sono introdotti dalle musiche di Put On Your Sunday Clothes, dal musical cinematografico Hello Dolly (USA, 1969). Le parole della canzone parlano di un gruppo di provinciali che decide di “mettersi il vestito della Domenica” per andare a vedere lo sfavillante mondo di New York, mentre il mondo di Wall-e è invece desertico, cupo, polveroso e pieno di rifiuti - quanto di più distante dallo sfavillante esista. Per questo quel musical rappresenta per il robottino Wall-e un ideale paradiso perduto, un mitico mondo immaginario cui egli può accedere attraverso un complicato sistema di riproduzione lo-fi composto da videoregistratori, iPod e vecchi monitor. Naturalmente condividerà subito quel mondo anche con l’amata fidanzata robotica Eve, mimando per lei i balli del musical, e adottandolo come sottofondo per il loro primo contatto intimo, mediante la musica e le immagini del brano It Only Takes a Moment. Hello Dolly nel suo complesso risulta essere come un vero e proprio testo-guida, e di confronto, per la costruzione dell’universo narrativo in Wall-e. Diviene una sorta di finestra e di modello audiovisivo per imparare le relazioni, il contatto, l’affettività: il robottino guarda il musical e schiaccia il tasto REC così da poter memorizzare i gesti d’amore che poi egli stesso metterà in pratica. In questo modo l’audiovisivo si propone come modello di ri-costruzione del reale, attravreso la mediazione di una mediazione. Lo stesso Wall-e è un robottino, dunque una macchina, entità non-organica, che però

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possiede caratteristiche vagamente antropomorfe. Egli-esso esibisce un apparato vocale umanoide in grado di articolare suoni e pseudo-fonemi significanti. Possiede del resto, grazie ad una testa, agli occhi-telecamere e agli arti-forcelle anche una gestualità che è umanoide, in modo che il tutto sia in grado di esprimere forme articolate di affettività. Ma quali caratteri figurativi concreti possiederà questo personaggio? Ad esempio, quale voce e quali suoni emetterà? Wall-e presenta una resa sonora nella quale si possono individuare tratti semantici ibridi tra umano e non-umano, tra artificiale e naturale. A quale concreta forma sonora sono associati questi tratti astratti come “umano” oppure “non-umano”? A formanti sonori che associati tra loro formano figure sonore, come potrebbe essere il caso di un suono di calpestio emesso da passi umani, a cui viene idealmente associata una figura astratta che è quella del “camminare”. La “voce” di Wall-e è basata sulla voce naturale del suo celebre sound designer, Ben Burtt, da lui stesso poi processata intervenendo su differenti parametri acustici, tra cui la risonanza, la composizione delle frequenze, la forma dell’inviluppo delle forme d’onda e l’intonazione. Il campionamento e trattamento digitale ha dapprima “fotografato” il suono naturale e poi lo ha disarticolato, generando una voce che dal punto di vista del timbro, della risonanza e dello sviluppo dell’intonazione non ha nulla di naturale, dunque suona “non-umana”. L’articolazione fonetica dell’inglese è per contro rimasta inalterata, tanto che chiunque può comprendere che l’emissione sonora corrisponde a parole come “Wall-e!” o come “Eve”. Infine per assecondare la piccola taglia fisica del personaggio Wall-e la voce possiede anche una intonazione alta, contribuendo ad ingenerare un tratto di infantilità. A partire dalla originaria figuratività sonora naturale della voce umana in questo caso è stato operato un processo di costruzione-lettura-modifica-ricostruzione tramite apparati tecnici, ottenuto però anche grazie ad una “griglia di lettura culturale” che mettesse in grado di cogliere, con un buon margine di approssimazione, il carattere ibrido naturale-artificiale dei suoni. Wall-e presenta caratteri pseudo-umani, ma del resto anche l’universo informatico è fatto di entità ibride uomo-macchina. Ecco perché Wall-e, che

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adopera pannelli solari per ricaricarsi, quando raggiunge il livello di batteria completa emette il suono di start di un vecchio modello Macintosh; un suono che è oramai parte del patrimonio culturale. Il film nel complesso propone un modello di realtà ibrida, composto da continue mediazioni tra reale e mediale, nel quale il cinema diventa memoria per una alternativa ricostruzione del mondo, a partire da quello emozionale ed affettivo, i cui tratti espressivi, anche visivi, sono esemplificati al meglio tramite il suono.

3. Last Days: strategie di dissociazione tra racconto visivo e racconto sonoro

Un’altra questione rilevante rispetto ai modelli di realtà costruiti attraverso il suono nell’audiovisivo riguarda in specifico la funzione di veridizione assegnata al suono, cioè le modalità attraverso cui un suono risulta verosimile. Del resto se la pratica realizzativa in un testo audiovisivo punta all’efficacia dell’effetto realistico piuttosto che alla sua presunta autenticità, allora l’apparato di manipolazione tecnica possiede ampie possibilità di intervento. Al proposito Michel Chion ci ricorda che

nella questione della funzione realistica e narrativa dei suoni diegetici (voce, musica, rumori) la nozione di resa si contrappone a quella di riproduzione. Nel cinema il suono viene riconosciuto dallo spettatore come vero, efficace e adatto, non se esso riproduce il suono prodotto nella realtà dallo stesso tipo di situazione, ma se rende (vale a dire traduce, esprime) le sensazioni associate a quella causa (1990, trad. it. 96).

Se la grammatica mainstream dell’audiovisivo è mediamente basata su una sorta di convenzione sonora realistica standard basata sulla congruenza tra audio e video (cioè quella secondo cui i personaggi femminili possiedono voci femminili, i cani abbaiano e gli aerei rombano) è pur vero che in particolare nel cinema d’autore e indipendente, dove il lavoro sui confini del linguaggio audiovisivo è più ricercato, avviene spesso che questa logica venga superata. Ne è un esempio il caso affrontato da Chion (1990, trad. it. 39) relativo ad una sequenza di Solaris (Солярис, Russia, 1972), film di

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fantascienza di Andreij Tarkovskij, nel quale l’ex-moglie del personaggio principale dapprima appare d’improvviso, proveniente da una realtà spazio-temporale indefinita, e successivamente si suicida bevendo ossigeno liquido. Accade però che l’entità Cervello-Oceano la faccia resuscitare, così che il suo corpo ritorna alla vita scosso da contrazioni e convulsioni. Per dare una sostanza figurativa a questo processo di resurrezione di un corpo “cristallizzato”, Tarkovskij ha conferito alle convulsioni una sonorità di vetri rotti, laddove il vetro porta con sé tratti semantici di fragilità e assieme non-organici, secondo una logica che Chion (ivi) ha definito di “contrappunto libero”, dove cioè si crea una libera associazione tra immagine e suono, svincolata da convenzioni referenziali, ottenendo invece un effetto estetico e anti-realista. A partire da qui, vorrei provare a concentrarmi proprio sulle logiche che definiscono il continuum tra realismo e anti-realismo nella relazione audiovisiva suono/immagine. Un tema che spesso ricorre nel lavoro del regista Gus Van Sant e del sound designer di cui spesso si è avvalso, Leslie Shatz. In particolare Last Days (USA, 2005), vincitore del premio per il sound design al festival di Cannes, e successivamente Paranoid Park (USA, 2007), sono casi che possono essere considerati esemplari nell’attribuzione alla dimensione sonora di un ruolo narrativo che è quantomeno paritario rispetto a quello attribuito alla dimensione visiva. Laddove Wall-e si presenta come un mondo finzionale la cui “realtà” viene intertestualmente costruita anche a partire da altri frammenti finzionali (come il musical e il cinema), il lavoro di Van Sant si presenta invece con uno sguardo in apparenza contraddistinto da realismo ed esplicita ricerca di immediatezza. Per certi aspetti i suoi film potrebbero apparire quasi affini a documentari (pensiamo a Elephant, USA 2003), a partire dalla scelta di lasciare spazio all’imprevisto e all’ elemento evenemenziale in fase di ripresa, come si evince dalle testimonianze contenute negli extra del dvd di Last Days. L’aneddoto del venditore delle Pagine Gialle che diventa personaggio del film, dopo essersi presentato a vendere mentre erano in corso le riprese, ne è un gustoso esempio. Ma questa apparente immediatezza è d’altro canto il

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risultato di un uso anche estremo delle convenzioni cinematografiche. Se in Wall-e era il suono cinematografico a fornire un modello culturale per la costruzione del reale tramite il suono, nel lavoro di Van Sant è il suono della natura a fornire un materiale espressivo che si presenta con caratteri per certi versi affini alle sonorità della musica concreta. Qui non si tratta cioè di un’estetica naturalista tout court, bensì della scelta di adoperare la materia sonora della natura (suoni di vento, acqua, fiume, foglie…) e altre sonorità concrete (rumori quotidiani, suoni di sedie, porte, passi, ...) per realizzare forme espressive del tutto non-naturalistiche. Il panorama sonoro ambientale nel film è del tutto asservito ad una lettura soggettivo-introspettiva della realtà, definita attraverso il punto di vista del personaggio principale Blake (alias Kurt). Il plot narrativo in Last Days è appunto basato sugli eventi legati agli ultimi giorni di vita di Kurt Cobain, leader della band musicale dei Nirvana, prima del suo suicidio. Per certi versi il film può anche essere letto come un immaginario viaggio nelle associazioni libere (cognitive e sensoriali) interne alla mente di Blake. Sin dalle prime sequenze l’effetto di presenza del suono prevale su quello delle immagini. Blake compie una sorta di percorso di immersione negli elementi naturali: dapprima il suono delle rapide mentre fa il bagno in un fiume rende tutto il resto acusticamente indistinguibile (compresi i suoi gesti e le azioni); poi lo seguiamo ascoltando il crepitio di un fuoco notturno all’aperto, assieme al verso dei grilli; successivamente egli viene visivamente ripreso tramite un “campo lungo” mentre cammina in una sorta di acquitrino. Qui la sensazione acustica restituita dal punto di ripresa del suono è molto più vicina rispetto alla sensazione restituita dal punto di ripresa visiva, ponendo ancora una volta la dimensione sonora in primo piano. Da qui in avanti, accadrà spesso nello sviluppo narrativo del film che vengano alterati i consueti parametri spazio-temporali che governano l’azione dei personaggi in relazione con la visione ed il suono. La condizione nella quale lo spettatore del film viene volutamente collocato è uno stato di indecidibilità; uno stato nel quale, nonostante la fatticità delle immagini, egli non sa attraverso quale punto di vista stia ascoltando, e attraverso quale punto di

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vista stia guardando. Mentre la superficie visiva mostra che ciò che in quel momento io spettatore vedo, è “ciò che è”, il piano sonoro non mi dice con altrettanta certezza cosa io sto sentendo e perché. Mentre Blake è ripreso di spalle mentre cammina sotto un ponte, si sente il suono di qualcosa, come di una porta in un ambiente interno che si apre e si chiude; non si comprende precisamente cos’è, dov’è, (e a quale momento temporale si riferisca), però si coglie immediatamente la dissonanza con l’immagine perché le figure sonore e le figure visive non corrispondono. In Last Days, sin a partire dalle prime sequenze, il sonoro possiede il compito, frutto di una precisa scelta estetica, di descrivere la “presenza del mondo” come dimensione fenomenica. In questo modo risultano attori della narrazione sia l’ambiente circostante, ovvero il bosco, con il treno e il fiume che lo attraversano, sia gli oggetti della casa, tutti posti sullo stesso piano dei personaggi umani. La manifestazione del mondo passa in buona parte attraverso una sorta di “ipertrofia sonora”. La natura e gli oggetti “risuonano” con grande potenza, come se l’apparato cinematografico di lettura del mondo creasse una iper-amplificazione percettiva, dell’udibile prima ancora che del visibile. Durante la visione del film a poco a poco questi elementi dell’ambiente assumono un ruolo percettivamente pregnante che va a fissarsi nella memoria. Ad esempio la sequenza nella quale Blake (alias Kurt) prepara la sua colazione, possiede una capacità di descrizione sonora così tanto iperrealistica da poter essere compresa e “seguita” anche senza le immagini, unicamente tramite il racconto sonoro.1 Definita questa sorta di tavolozza percettiva fatta di situazioni, figure, suoni e colori, il film gioca sulla possibilità di ricombinare suoni e immagini scardinando la logica narrativa lineare. Talvolta i suoni che ascoltiamo corrispondono a momenti narrativi che sono già accaduti nello sviluppo

1 Il racconto sonoro della colazione possiede una sorprendente somiglianza con un altro celebre racconto che è unicamente sonoro: quello dei Pink Floyd in Alan’s Psychedelic Breakfast, brano del 1970 contenuto nell’album Atom Heart Mother, nel quale è possibile seguire tramite suoni e rumori l’intera preparazione di una colazione (Camilleri 2005; Spaziante 2009).

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cronologico del plot visivo. Ad esempio mentre le immagini inquadrano una stanza da letto, ecco che ascoltiamo suoni di acqua rifrangersi sulle rive del lago (indizio desumibile grazie al ricordo di sequenze precedenti o conseguenti). Spesso quei suoni che sono dissociati dal visivo “provengono” da situazioni relative ad altri momenti temporali dell’intreccio narrativo. La dissociazione tra suono e immagine può assumere anche un carattere diegetico, cioè “entrare nella storia”: in una delle sequenze finali del film mentre le immagini inquadrano Blake camminare di notte all’aperto nel bosco, poco prima che decida di spararsi una fucilata in testa, si ascoltano passi su un pavimento di legno. Apparentemente solo “noi spettatori” li sentiamo, come è accaduto in precedenza, ma ecco che ad un tratto Blake si volta, come se anche lui nella sua confusa mente li sentisse. Si comprende così come l’associazione/dissociazione tra suono e immagine costituisca un terreno anche per possibilità narrative inconsuete.

4. Paranoid Park: falso naturalismo e mondi sonori interiori

In Last Days abbiamo visto che le convenzioni suono/immagine vengono messe alla prova soprattutto attraverso una sorta di circolarità temporale della dimensione sonora posta in contrasto con la linearità narrativa delle immagini, dando luogo ad una sorta di universo mentale sonoro. Nel successivo lavoro, Paranoid Park (USA, 2007), Gus Van Sant procede con una simile strategia espressiva adoperando anche brani di musica elettroacustica e musica concreta (cioè costruita con oggetti sonori prelevati dall’ambiente acustico naturale o quotidiano e rielaborati). L’ambiente naturale qui funge nuovamente da pretesto sul quale innestare sonorità che sembrano naturali, ma naturali non sono, tramite una sorta di mise en abyme sonora. Già dalle prime sequenze, è ancora il suono a definire la prospettiva attraverso la quale il mondo viene percepito. I suoni live lasciano rapidamente il posto a un mondo sonoro finzionale che non possiede una relazione referenziale con le immagini in termini di causa-effetto, alla maniera di casi come: immagine di forchetta = suono di forchetta; immagine di cane = abbaiare del cane.

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L’universo sonoro si distacca invece dalla referenzialità per costruire “mondi mentali”, ovvero prospettive fortemente soggettive. Già Last Days era incentrato sulla crisi di un individuo espressa a livello testuale attraverso: un caos sensoriale, la mancanza di linearità spazio-temporale, la dissociazione tra suono ed immagine. Paranoid Park procede allestendo una serie di mondi separati, chiusi, mentali, onirici sempre presentati attraverso la prospettiva di Alex, il personaggio principale. È il caso dello skate park, reso attraverso riprese dalla grana vintage con camera a mano in Super8, dove si vedono ragazzi andare sulle tavole, ripresi in una prospettiva dal basso, mentre si ascoltano differenti strati sonori sovrapposti, composti di suoni elettronici, assieme a rumori di oggetti e a un recitativo poetico in francese. Nonostante l’ambiente sia uno skate park, inizialmente non si percepisce alcun suono di skateboard o alcuna voce di ragazzi. Tramite questi strati sonori aggregati si allestisce invece un “mondo interno” del soggetto, pseudo-onirico, che dal punto di vista sonoro risulta totalmente slegato dal contesto ambientale. Mentre si passa alla sequenza successiva questo multistrato sonoro si dissolve lentamente: non c’è più la ripresa in Super 8 dal basso ma ora è la camera a mano che riprende di spalle Alex, il personaggio protagonista, mentre cammina in un sentiero nell’erba, verso una spiaggia. Qui l’universo sonoro si fa ancora più ambiguo: si avvertono suoni che potrebbero acusticamente “derivare” dall’ambiente, ad esempio il rumore del mare o anche i rumori provenienti dal cammino di Alex. Ma nel in breve si palesa un altro mondo sonoro, di nuovo costituito da strati. Vi si ritrovano suoni orchestrali, lontani e dissonanti, che creano una tensione emotiva crescente, sovrapposti a suoni naturali di uccelli. Nonostante le immagini insistano su una panchina all’aperto immersa nell’erba alta, i suoni di uccelli non sono live, cioè ad un ascolto attento si comprende che non provengono dal contesto visivo rappresentato. Come si vede, la tradizionale suddivisione standard che prevede nell’universo sonoro cinematografico voci di attori, oppure una colonna sonora musicale, oppure rumori ambientali, viene qui sostituita da una dimensione trasversale nella quale i rumori confluiscono nella musica e le voci umane non sono solo

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quelle degli attori ripresi ma hanno una provenienza indefinita e non motivata. In generale il patrimonio espressivo sonoro appare più articolato rispetto a categorie tradizionali. In particolare non solo viene messa in crisi, come già detto, la convenzione che configura le immagini come cause e i suoni come effetti, ma viene negata anche quella convenzione più radicata che attribuisce un carattere di autenticità ai rumori “naturali”. Lo si fa ad esempio impiegando una composizione elettroacustica come quella di Frances White, Walk Through "Resonant Landscape" No. 2 che deriva da una precedente installazione artistica realizzata con suoni naturali trattati elettronicamente. Quello che poteva essere un “effetto di realtà”, diventa qui un falso effetto di realtà, generando invece l’effetto di una dimensione soggettiva continuamente separata, con un soggetto-Alex profondamente distaccato dalla realtà circostante. La dimensione sonora nel linguaggio audiovisivo dimostra potenzialità che fanno intravedere ampi margini di possibilità espressive. Il tema di un adolescente che abita nei propri mondi interiori, il quale sebbene per forza è a contatto con mondi esteriori (sociali e/o adulti), alla fine rimane del tutto chiuso nei propri, viene reso con grande efficacia proprio attraverso il sonoro. Sin dalle prime sequenze Alex non parla con nessuno: guarda, osserva, annota su un diario, ma non proferisce parola, se non nella forma di un monologo interiore reso tramite una voice over, che in questo caso diviene la “voce del pensiero”. Nella sequenza successiva viene chiamato dal preside, mentre è in classe, per un colloquio con la Polizia: mentre attraversa i corridoi, ascoltiamo sullo sfondo i rumori d’ambiente mentre in primo piano si staglia una musica (extra-diegetica?): è la canzone I Can Help di Billy Swan, che dice “Se hai un problema, non importa quale, se hai bisogno di una mano, io posso aiutarti”. I confini dei mondi di Alex sono così tracciati in primo luogo attraverso il suono. Molto spesso è il suono interiore a caratterizzare Alex. Eccetto quando è “costretto” in una interazione dialogica con qualcuno, il più delle volte la “sua” realtà è composta da suoni “interni”, mentali, non da suoni della realtà esterna che gli giungono tramite l’udito. Si alternano musiche e suoni onirici,

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canzoni, voci del suo monologo interiore. Il tutto sembra convergere verso una sorta di “suono della solitudine”. In una delle sequenze più significative, infine, Alex, dopo essere rimasto coinvolto in un omicidio, ritorna a casa e, ancora sconvolto per l’accaduto, fa una doccia. Il suo stato emotivo di disperazione viene reso attraverso una crescita del volume sonoro, in modo tale per cui la dimensione sonora tende a sovrastare la presenza visiva. Inoltre, il suono di acqua scrosciante, nonostante l’apparente riferimento alle concomitanti immagini della doccia, possiede piuttosto il timbro di pioggia torrenziale, conferendo un effetto di falsa naturalità. Mentre le immagini sullo sfondo mostrano figure di uccelli disegnate sulle mattonelle della doccia, a chiudere questo quadro di mise en abyme sonora ascoltiamo contemporaneamente versi provenienti da una voliera, come se il mondo mentale di Alex l’avesse improvvisamente trasportato in uno zoo di animali tropicali (cfr. anche Kulezic-Wilson 2012, p.80).

Conclusioni

Il suono possiede dunque una forte potenzialità di produrre immagini acustiche “mentali”, ovvero figure sonore. Ma per la configurazione fenomenologica del nostro orizzonte sensoriale, il suono tende ad essere concepito non come “suono in sé” ma come “suono di qualcosa”. Eccone spiegato l’impiego primario nel linguaggio audiovisivo: una “immagine di campana” potrà ottenere un effetto di maggiore realismo se associata ad un “suono di campana”. Christian Metz in una delle prime riflessioni operate sullo statuto del suono rispetto all’immagine del cinema, osservava che dicendo “sento un boato” (rumble) è necessario specificare “un boato di cosa…?” (1980, p. 26). Ciò conduceva Metz (ibidem) a ipotizzare che il suono fosse una proprietà dell’oggetto, piuttosto che un oggetto in sé. D’altronde contestualmente osservava come la stessa idea di suono in/off fosse fortemente debitrice di una impostazione sottomessa alla visione: difatti,

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sostiene Metz, ogni suono per il solo fatto di poter essere percepito, è in, ovvero “esiste” anche se non se ne “vede” una corrispondenza sullo schermo. Se in conclusione è plausibile affermare che i suoni non si limitano a rafforzare l’immagine visiva ma sono del tutto in grado di esprimere senso indipendentemente, ecco che in questo modo essi affermano la loro piena potenzialità iconica. Si può dire altrimenti che i suoni producono effetti percettivi per certi aspetti similari all’oggetto che li ha prodotti. Come già ricordava Umberto Eco,

certi stimoli (…) producono una percezione molto “simile” a quella che si proverebbe in presenza del fenomeno fisico imitato, salvo che gli stimoli sono di natura diversa. (…) I segni iconici non hanno le “stesse” proprietà fisiche dell’oggetto, ma stimolano una struttura percettiva “simile” a quella che sarebbe stimolata dall’oggetto imitato (1976, 258, corsivo mio)

Diventa così plausibile poter affermare che i suoni possano essere suoni “di qualcosa” poiché di quella cosa condividono alcune proprietà. È evidente che il suono prodotto dallo sgocciolio in un lavello è composto di onde sonore e non di acqua, ma è pur sempre in grado di creare un effetto di senso percettivo di “acquaticità” altrettanto efficace. Infatti se sento uno sgocciolio, allora capisco che senza dubbio il rubinetto non è ben chiuso. Un “suono di” acqua adoperato nel linguaggio audiovisivo rispetto all’acqua vera e propria assume la funzione di uno stimolo equivalente, o meglio, per adoperare la terminologia di Umberto Eco, rappresenta uno stimolo surrogato in grado di ottenere un “effetto iconico” (1997, 312). L’osservazione del funzionamento della figuratività sonora conduce ad alcune considerazioni finali: le potenzialità espressive del suono all’interno del linguaggio audiovisivo rappresentano un terreno che possiede ancora margini da esplorare, sul piano ontologico e semiotico, su quello estetico e a favore di una più generale riflessione nel campo dei sound studies. Se da un lato le capacità del sound design tendono a ricercare la massima efficacia realistica, nello stesso tempo l’evoluzione del linguaggio audiovisivo sta ulteriormente ampliando e ristrutturando il proprio apparato convenzionale. Il suono diventa un territorio grazie al quale sviluppare forme di costruzione peculiari: spazi narrativi, stati mentali soggettivi, ri-articolazioni della linearità narrativa,

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messa in discussione dello status di pura referenzialità di un suono live. Inoltre gli apparati tecnologici impiegati dal sound design rendono sempre più esplicite le potenzialità iconiche del suono. Di fatto oggi un film si può già “vedere” ad occhi chiusi, ascoltando soltanto il sonoro. Un esempio recente si può individuare in quella vera e propria opera di architettura sonora che è il sound design di Drive (USA, 2011), film di N. W. Refn premiato al Festival di Cannes, dove i dettagli acustici riescono a descrivere visivamente persino le ombre, e la narrazione intreccia voci, rumori e musica senza possibilità di separarne lo statuto. L’idea che le “figure sonore” possano fungere da veicolo di significati e forme ad essi correlati può fornire un contributo alla riflessione e assieme stimolare l’elaborazione di strumenti metodologici e categoriali più raffinati ed appropriati. I processi percettivi, la riconoscibilità delle figure, l’efficacia di un testo, e le procedure di realismo sono tutte tematiche fortemente convocate dalla figuratività sonora e dalla relazione suono/immagine nell’audiovisivo. Nell’analisi del linguaggio cinematografico tradizionale sono state storicamente adoperate opposizioni categoriali che - come si è visto - necessitano di essere meglio articolate, come nel caso dell’opposizione diegetico/extradiegetico (oggetto di ripetute discussioni critiche, cfr. Winters 2010), oppure - in rapporto al quadro visivo – nel caso della classificazione delle voci come in/off/over. Simili suddivisioni nelle pratiche audiovisive concrete vengono messe in crisi da pratiche del tutto trasversali a queste categorie. L’articolo è dedicato al ricordo di Omar Calabrese. Bibliografia Altman, R. (a cura di) 1992 Sound Theory/Sound Practice, New York, Routledge. Beck, J. e Grajeda, A. (a cura di) 2008 Lowering the Boom: Critical Studies in Film

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