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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTOFacoltà di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

L'APOLIDIA NEL DIRITTO INTERNAZIONALE

Relatore: Laureando:Prof. Antonino Alì Antonella Bonincontro

Anno Accademico 2013/2014

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTOFacoltà di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

L'APOLIDIA NEL DIRITTO INTERNAZIONALE

Relatore: Laureando:Prof. Antonino Alì Antonella Bonincontro

Apolidia – Diritto alla cittadinanza – Diritti umaniSovranità nazionale – Sicurezza internazionale

Anno Accademico 2013/2014

INDICE SOMMARIO

Introduzione

Capitolo primo: L'evoluzione storica del concetto di cittadinanza

1. Cenni introduttivi: la cittadinanza come crocevia di diritti2. La cittadinanza nella storia: le civiltà antiche

2.1 La cittadinanza nella storia: dal Medio Evo alle Costituzioni del XIXsecolo2.2 La cittadinanza nella storia: gli ordinamenti contemporanei

3. La cittadinanza per il diritto internazionale o cittadinanza globale

Capitolo secondo: La definizione di apolidia e la sua dicotomia

1. Il fenomeno dell'apolidia: uno sguardo d'insieme2. La definizione ufficiale di apolidia e le categorie esistenti3. La sfida dell'apolidia e i principi generali fondamentali di uguaglianza e

non discriminazione

Capitolo terzo: Le cause dell'apolidia

1. Le cause tecniche2. Privazione arbitraria della cittadinanza

2.1 Privazione illegale e l'assenza di giusto processo2.2 Privazione discriminatoria e il diniego di cittadinanza

3. Successione di Stati4. Le “nuove” cause

4.1 La registrazione civile di nascite e matrimoni;4.2 Migrazione (a) – Migrazione irregolare(b) – La tratta di esseri umani e i rifugiati

5. Alcune ulteriori considerazioni

Capitolo quarto: Il quadro giuridico internazionale di riferimento in

materia di apolidia e il ruolo dell'UNHCR

1. La nascita degli strumenti in tema di apolidia: la Conferenza dell'Aja del1930

2. La Convenzione del 1954 relativa allo status degli apolidi2.1 La struttura della Convenzione e il suo articolo 1

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3. La Convenzione del 1961 sulla riduzione dei casi di apolidia4. La Convenzione europea sulla nazionalità del 1997

4.1 La Raccomandazione n. 18 del 1999 del Comitato dei Ministri agliStati Membri sulla prevenzione e la riduzione dei casi di apolidia

5. La Convenzione del Consiglio d'Europa del 2006 sulla prevenzione deicasi di apolidia in relazione alla successione degli Stati

6. La regolamentazione dell'apolidia: perché aderire alle Convenzioni7. Il mandato dell'UNHCR e il suo ruolo nella protezione degli apolidi

7.1 L'UNHCR e la Sri Lanka: un piccolo caso di successo

Capitolo quinto – Proposte per una realizzazione efficace del diritto alla

cittadinanza: i principi chiave nella redazione delle leggi sulla cittadinanza e

delle procedure di riconoscimento dello status di apolide

1. Panoramica dei principi giuridici internazionali di riferimento in materiadi determinazione della cittadinanza

2. Quadro schematico dei meccanismi per la stesura di leggi sullacittadinanza2.1 Scopo della legge, principi generali e definizioni2.2 Acquisto della cittadinanza2.3 Perdita della cittadinanza2.4 Regole concernenti disposizioni di transizione2.5 Procedure e ripartizione delle responsabilità

3. Sistema di monitoraggio nell'adozione della legge sulla cittadinanza4. Panoramica dei principi giuridici internazionali di riferimento e dei

meccanismi procedurali in materia di determinazione dello status diapolide4.1 Profili strutturali di progettazione delle procedure4.2 Condizioni legali e pratiche di accesso alle procedure4.3 Garanzie procedurali4.4 La fase istruttoria e la valutazione delle prove4.5 Il diritto di appello e i diritti legati allo status di apolide

5. Considerazioni aggiuntive: la determinazione dello status di apolidia neicasi in cui la convenzione del 1954 non si applica

Capitolo sesto – Il quadro giuridico nazionale di riferimento in materia di

apolidia e la procedura italiana di riconoscimento dello status di apolide

1. L'evoluzione della normativa italiana in tema di cittadinanza2. L'adesione dell'Italia alla Convenzione sullo status degli apolidi del 1954

e le norme della legge sulla cittadinanza n.91 del 5 febbraio 1992 aventi

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lo scopo di evitare i casi di apolidia3. L'acquisto della cittadinanza italiana da parte dell'apolide e dei figli

dell'apolide4. La procedura di riconoscimento dello status di apolide in Italia

4.1 (segue): il permesso di soggiorno4.2 (segue): diritti e benefici connessi al riconoscimento dello status diapolide

5. L'espulsione del soggetto apolide dal territorio nazionale

Capitolo settimo – L'Unione Europea e il caso delle Repubbliche Baltiche

Sezione Prima – I meccanismi di protezione per l'apolide nel quadro dell'UE

1. Uno sguardo d'insieme in Europa2. Dopo “Lisbona”: verso un approccio efficace3. Forme di protezione per gli apolidi nell'UE

3.1 Schemi di protezione armonizzati3.2 Schemi di protezione specifici3.3 Schemi di protezione non specifici e non armonizzati

4. Osservazioni conclusive

Sezione Seconda – L'indipendenza dei Baltici e la questione “russofona”

Parte Prima – La legislazione sulla cittadinanza nelle Repubbliche Baltiche

1. Premessa2. La logica della nuova legislazione3. La nuova legislazione nelle tre Repubbliche baltiche4. La reazione internazionale alle nuove legislazioni e il potere della

condizionalità dell'Unione europea4.1 Il potere della condizionalità dell'Unione Europea4.2 Politiche adottabili dall'UE ai non-cittadini baltici per la loro tutela

5. Osservazioni conclusive

Parte Seconda – L'Unione Europea e la minoranza apolide in Estonia

1. Cenni storici: dall'antichità alla “restaurata” indipendenza2. La legge sulla cittadinanza estone e la persistenza di una diffusa apolidia3. La risposta internazionale alla politica di cittadinanza estone 4. L'accesso nell'Unione Europea e le sue attuali implicazioni5. Osservazioni conclusive

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Conclusioni

Bibliografia e fonti di ispirazioneAllegato A: Convenzione ONU sullo status delle persone apolidi del 1954Allegato B: Convenzione ONU sulla riduzione della apolidia del 1961

Ringraziamenti

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Introduzione

La prima volta che ho “scoperto” davvero l'apolidia ossia la condizione di chi è

privo di cittadinanza e mi sono effettivamente resa conto della portata di questo

fenomeno oltre che delle implicazioni reali che portava con sé ero soltanto una

studentessa del secondo anno, e del Diritto Internazionale avevo una conoscenza da

assoluta principiante, ma fu un momento che ricordo con incredibile lucidità perché

decisi proprio allora che laddove fossi arrivata al termine dei miei studi sarebbe stato

senza dubbio interessante dedicare proprio ad essa la mia discussione finale.

A molti, probabilmente, potrà sembrare un aneddoto abbozzato ad hoc per

l'occasione ma assistevo ad una lezione di diritto internazionale quando mi venne

sottoposto il caso di una donna che si era ritrovata nella condizione di apolide qui in

Italia dopo aver perso, all'indomani del disfacimento dell'URSS, la propria cittadinanza

sovietica con tutto ciò che ne conseguiva in termini di vulnerabilità. Legalmente non

poteva più rientrare nel proprio paese di origine ma al tempo stesso in Italia aveva

bisogno di un permesso di soggiorno che facesse riferimento a uno Stato per poter

continuare a risiedere e quindi anche ivi lavorare.

Questo racconto accese la mia curiosità, mi spinse a voler approfondire e mi resi

subito conto che più mi interessavo all'argomento più mi apparivano come fin troppo

trascurate benché numerose le conseguenze negative che la mancanza di una

cittadinanza o la sua successiva perdita potessero produrre nella vita di qualcuno oltre

che per la comunità internazionale tutta essendo spesso l'apolidia una realtà collegata da

vicino con fenomeni altamente tragici come la guerra.

Fortunatamente per me, grazie a quel momento che ispirò il mio interesse e grazie

all'appoggio del mio relatore che ha creduto in questa scelta, l'apolidia è l'oggetto

attorno al quale si articolerà la tesi che nelle prossime pagine prenderà forma.

L'intento che mi sono prefissa, pur non essendo io una voce autorevole in materia,

è quello di testimoniare innanzitutto che una simile realtà esiste, che milioni di persone

ne sono tragicamente colpite e che la comunità internazionale ha nel tempo approntato

degli strumenti non soltanto in termini di protezione ma anche e soprattutto di

prevenzione del problema che ha una dimensione, si potrebbe dire, quasi duale essendo

strettamente intrecciato con la questione della nazionalità la cui prospettiva è una

prospettiva interna e come tale rientrante nei limiti della sovranità di ciascuno Stato.

D'altra parte per riuscire a capire la posizione di svantaggio che l'apolide vive in termini

di godimento dei diritti fondamentali occorre compiere anche una indagine su ciò che

costituisce il legame tra individuo e Stato, insieme alle circostanze che questo legame lo

fanno venir meno.

Nel lavoro che segue ho pertanto intenzione di mostrare in che modo la comunità

internazionale ha reagito per affrontare il complesso problema dell'apolidia, con uno

sguardo dapprima alla definizione che ne ha dato, alle cause che ha riconosciuto essere

fonte di essa per poi giungere agli strumenti normativi approntati per la tutela di chi è

I

riconosciuto apolide e per la prevenzione di nuovi casi del fenomeno suddetto. Le

convenzioni specifiche elaborate dalle Nazioni Unite fungono da punto di partenza

perché progettate proprio per essere il regime giuridico di riferimento, e da esse la

ricerca proseguirà per arrivare ad analizzare tutta una serie di proposte che gli Stati

dovrebbero considerare allo scopo di una realizzazione efficace del diritto alla

cittadinanza accettandone i principi chiave in termini di redazione delle leggi sulla

cittadinanza e di procedure di riconoscimento dello status di apolide.

Naturalmente, non mancherà un approfondimento al quadro giuridico nazionale di

riferimento in materia di apolidia e alla procedura italiana di determinazione dello status

di apolide per poi giungere al quadro di riferimento approntato dall'Unione Europea per

la protezione dei soggetti apolidi, concludendo con una piccola indagine sulla

legislazione di cittadinanza delle Repubbliche baltiche alla luce della loro “restaurata”

indipendenza dal regime sovietico, che lasciò apolide buonissima parte degli esponenti

della minoranza russofona presente in quei paesi, e della loro successiva recente

adesione come Stati membri dell'Unione Europea, ponendo attenzione finale all'Estonia.

Carta degli apolidi nel mondo, Refugees International

II

“Citizenship is man’s basic right for it is

nothing less than the right to have rights”1

Chief Justice Earl Warren (USA 1958).

Capitolo Primo: L'evoluzione del concetto di cittadinanza

1 – Cenni introduttivi: la cittadinanza come crocevia di diritti.

In linea teorica, i diritti umani fondamentali sono garantiti per legge a tutti gli

uomini, donne e bambini, indipendentemente dalla loro nazionalità2. In pratica però la

dura realtà è che a milioni di persone ne è negato l'esercizio e il godimento perché

apolidi, individui che nessuno stato riconosce come propri cittadini. Essi vivono in una

condizione di invisibilità, di vulnerabilità, “nelle ombre ai margini della società”3 dove è

facile ignorarli. Sono senza protezione e senza riconoscimento, in quanto l'apolidia

esercita un effetto paralizzante sulla loro capacità di individui di funzionare all'interno

di un determinato paese o come cittadini del mondo.

La violazione compiuta ai loro danni è ancora più significativa se si considera che

uno dei diritti umani primari è proprio quello alla cittadinanza, garantito in più

strumenti normativi internazionali e che finisce per fungere, a livello operativo, come

precondizione al godimento di tutti gli altri.

1 Traduzione: La cittadinanza è un diritto fondamentale dell'uomo per il quale non è nulla di meno che

il diritto ad avere diritti.2 Sebbene usati spesso come sinonimi, le nozioni di nazionalità e cittadinanza provocano continui

dibattiti tra gli studiosi i quali si domandano appunto se questi termini lo siano effettivamente e se

possano essere usati in modo interscambiabile o se invece debbano essere distinti aprioristicamente. A

guardare il diritto internazionale pubblico parrebbe che possano essere uno il sostituto dell'altro in

quanto entrambi implicanti un legame tra individuo e stato sovrano. Tra gli studiosi, tuttavia, alcuni

ritengono che non si dovrebbe utilizzarli come termini intercambiabili tra loro. In tal senso ad esempio

Paul Weis sostiene come la nazionalità sia un concetto più ampio di quello di cittadinanza che

pertanto è in esso contenuto se osserviamo inoltre come la cittadinanza in se stessa non sia una

categoria indivisibile ma al contrario possa assumere varie accezioni diverse all'interno della

nazionalità di un particolare paese. Tra gli studiosi che distinguono, alcuni ritengono che i due

concetti siano da separare però non perché l'uno il contenuto o la specie dell'altro ma perché

rispettivamente manifestazione esterna e interna del legame che esiste tra l'individuo e lo stato. Il

risultato è una gran confusione nell'uso che di questi se ne fa, perché se da una parte molti sono

convinti della loro distinzione, molti altri ne valutano l'interscambiabilità come un dato evidente

vedendo in essi la mera appartenenza politica ad una comunità senza distinguere tra il fatto che la

nazionalità potrebbe definirsi come il legame etnologico che unisce un individuo a uno stato mentre la

cittadinanza il mero legame legale tra questi. In alcuni Stati come Romania, Albania, Bielorussia,

Estonia, Lituania, Macedonia, Montenegro, Russia, Svezia e anche la nostra Italia, i termini non sono

interscambiabili: mentre la cittadinanza si riferisce al legame legale tra uno Stato e un individuo, la

nazionalità implica invece l'origine etnica del soggetto. Per gli scopi di questa dissertazione,

ciononostante, i termini saranno usati interscambiabilmente per cui tutte le volte che si incontrerà

l'uno o l'altro entrambi implicheranno “il legame legale tra una persona e uno Stato senza alcuna

indicazione all'origine etnica della persona” così come l'art 2 (a) della Convenzione Europea sulla

nazionalità del 1997 statuisce a chiare lettere. 3 Traduzione di “in the shadows at the edge of society” - Philippe Leclerc & Rupert Colville, Millions

Seek to Escape the Grim World of the Stateless, U.N.H.C.R. Refugees Magazine, Sept. 27, 2007

1

Il problema della apolidia però non è un problema nuovo. Esso esiste da sempre,

praticamente da quando esistono comunità organizzate di uomini e, conseguentemente,

il legame con una di esse, il quale definisce da un lato una conformità tra individuo e

collettività, e dall'altro la distinzione tra collettività diverse.

Nel tempo i volti degli indèsiderables sono cambiati così come i mezzi per

individuarli, i nomi attraverso i quali riferirsi ad essi rimanendo tuttavia frequente la

consuetudine di discriminarli, isolarli o peggio ancora ignorarli del tutto.

Il secolo appena trascorso è stato vivo testimone di come l'umanità possa arrivare

a lacerare se stessa nell'idea di affermarsi come unica e pura. Inizialmente nel contesto

della prima guerra mondiale, si assistette alla “punizione” di numerosi rifugiati

attraverso la privazione della loro cittadinanza, di modo che non potessero più ritornare

nei loro paesi di origine e perdessero ogni speranza di riscatto. Fu però nel contesto

della seconda guerra mondiale che tale fenomeno vide i suoi effetti peggiori palesarsi

con forza.

Molti cittadini residenti nei regimi totalitari dell'epoca furono, infatti,

gradualmente estromessi, sistematicamente privati dapprima solo di alcuni diritti di cui

sarebbero stati invece titolari in quanto cittadini, e infine della loro stessa cittadinanza.

Essi, espropriati illegittimamente della loro condizione di appartenenza alla nazione

sovrana che li aveva rifiutati, si ritrovarono senza alcun diritto, divenendo

dolorosamente “schiuma della terra4”.

La comunità internazionale era cosciente degli atti violenti in corso, ma

inizialmente si attivò solo da un punto di vista formale per eliminare eventuali conflitti

di legge circa il riconoscimento della cittadinanza attraverso la Convenzione dell'Aja del

19305. Mancava infatti una reale volontà da parte degli Stati, che anzi in quel periodo

sembravano adoperarsi in senso opposto compiendo snaturalizzazioni6 di individui

naturalizzati in precedenza solo perché divenuti “cittadini sgraditi” o allontanando i

senza patria in campi di internamento “con l’esplicito intento di liquidare una volta per

sempre l’apolide ignorandone l’esistenza7”.

Si finì in tal modo per creare nuovi casi di apolidia.

A quelli de jure prodotti dai trattati di pace del 19198, si aggiunsero gli apolidi de

4 Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, trad. it. di A. Guadagnin, Edizioni di Comunità, Milano

1996, p. 372.5 La Convenzione entrò in vigore il 1° luglio 1937 tra 14 Stati, non in l’Italia. Per il testo si veda

Società delle Nazioni, Recueil Traités vol. 179 p. 89 ss6 Fu questo il caso di paesi come la Francia e il Portogallo nei confronti dei nativi di paesi nemici o che

avessero commesso atti antinazionali nel corso della guerra. Turchia, Belgio, Egitto e anche l'Italia di

Mussolini che emanò nel 1926 un provvedimento che dichiarava indegni quanti rappresentavano una

minaccia per l'ordine pubblico come i fuoriusciti politici. Infine, le leggi di Norimberga che chiusero il

cerchio aggiungendo all'arma della snaturalizzazione quella del campo di internamento in completa

violazione dell'inalienabilità dei diritti umani, fungendo da spazi di eccezione in cui la legge è

integralmente sospesa. In essi qualunque atto è possibile senza apparire un delitto.7 Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, trad. it. di A. Guadagnin, Edizioni di Comunità, Milano

1996, p. 388.8 La disgregazione violenta dei quattro imperi alla fine del 1918 che fu seguita dalla stipula dei Trattati

2

facto la cui precarietà era destinata a protrarsi, dato che questi mantenevano stretto il

legame con la loro nazionalità pur avendo perduto la cittadinanza, così che all’interno

del paese ospitante rappresentavano “minoranze straniere separate”, forze disgregatrici

pronte a combattere contro i governi dei propri paesi, come avvenne per gli antifascisti

italiani e spagnoli in Francia.

Era venuto meno in via definitiva il principio medievale per il quale «quiquid est

in territorio est de territorio»9, principio che negli anni recenti ha rivisto violata la sua

essenza dalla dissoluzione di alcuni stati perché da essa sono derivati individui privi di

cittadinanza, destabilizzati nel loro stesso luogo di nascita, per via del “muoversi” dei

confini nazionali.

Gli apolidi vivono invero in uno spazio di eccezione, sospesi in una condizione

che paradossalmente cade fuori dal diritto, come anomalie10

del sistema. Essi sono da un

lato la tragica conseguenza della separazione tra uomo e cittadino, e dall'altro un limite

del sistema stesso che li esclude. Se è vero infatti che lo Stato ha il potere di decretare

che un individuo non è mai stato o non è più proprio cittadino, di fronte a tale evidenza

sorge il problema di capire in che modo la dissociazione tra queste due dimensioni

influisca e quali diritti rimangano accessibili e fruibili una volta che il vincolo giuridico

è venuto meno.

La seconda guerra mondiale produsse ad ogni modo almeno una conseguenza

positiva divenendo monito per l'umanità che sopravviveva alle violenze di quegli anni.

La paura che simili atrocità potessero ripetersi funzionò come forte sprone verso una

maggiore attenzione per i diritti umani, e tra questi al “diritto ad una cittadinanza”,

nonché verso la creazione di strumenti in grado di realizzarne la necessaria e

fondamentale tutela.

La Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 si fece portatrice di tali

valori e, prima tra altri strumenti, asserì con l'art 15 il diritto di ogni individuo ad avere

una cittadinanza e a non esserne arbitrariamente privato, oltre che il diritto di ogni

individuo di mutarla.

Il diritto ad una cittadinanza, da quel momento in poi, diventa paradigma

“codificato”, riconosciuto dagli Stati firmatari della dichiarazione così come da altre

convenzioni internazionali (la Convenzione sui diritti del bambino all'art 7 e la

Convenzione americana sui diritti umani all'art 20) che ne riprenderanno il contenuto

confermandone la natura di diritto umano sostanziale ed innegabile, prima ancora

di pace del 1919 fu un fenomeno acceleratore per la formazione delle minoranze e creò consistenti

masse di profughi nell'Europa orientale e meridionale. Tuttavia se per le minoranze si poteva sperare

in una protezione supplementare e in garanzie per godere di alcuni diritti, per gli apolidi, che non

potevano più contare né in una patria né in una terra, ciò non si rese possibile. In ordine cronologico

tra i diversi gruppi, entrarono a far parte della categoria degli apolidi, milioni di russi, centinaia di

migliaia di armeni, migliaia di ungheresi, centinaia di migliaia di tedeschi e oltre mezzo milione di

spagnoli.9 Trad. “colui che è nel territorio, appartiene al territorio”10 Weis, P., ‘The United Nations Convention on the Reduction of Statelessness, 1961’, 11 ICLQ 1073

(1962).

3

dell'emanazione di convenzioni che trattino direttamente del problema dell'apolidia.

Ciononostante, a causa dell'autonomia legislativa che i governi nazionali hanno in

materia di cittadinanza, sono approssimativamente quindici milioni le persone nel

mondo che non hanno mai acquisito una cittadinanza o che l'hanno persa e non hanno

diritto di chiederla in un altro stato.

Essi vivono in condizioni precarie, spesso terribili, poiché la cittadinanza,

tradizionalmente concepita come appartenenza ad un determinato Stato, il quale regola

in maniera più o meno ‘liberale’ i diritti che da questa derivano, funge da “ruolino di

marcia” per l’esercizio di diritti e doveri della persona all’interno dei singoli

ordinamenti nazionali11

. Avere una cittadinanza comporta il diritto-potere di eleggere e

di essere eletti in assemblee rappresentative, di accedere alla giustizia ricorrendo presso

i tribunali e beneficiare della ‘protezione diplomatica’ del proprio paese se ci si trova

all’estero, ma permette anche l'accesso al servizio sanitario, alla educazione e al lavoro

oltre che, tra gli altri, il diritto alla proprietà, la libertà di stipulare contratti, sposarsi,

riconoscere la prole e muoversi dentro e fuori dai confini nazionali senza rischiare, solo

perché privi dei documenti necessari per dimostrare la propria identità legale, di

ritrovarsi detenuti per lunghi periodi in uno stato diverso da quello di abituale

permanenza. Avere una cittadinanza si rivela condizione prodromica al godimento di

molti diritti politici, economici e sociali, e se si analizzano bene gli effetti che la perdita

di essa comporta, il diritto alla cittadinanza si conferma quindi uno tra i fondamentali

diritti inalienabili dell'uomo, anzi forse il principale, poiché è solo appartenendo ad una

comunità politica che si mantengono tutte le libertà e le facoltà che danno dignità

all'uomo. La cittadinanza dunque come “diritto ad avere diritti”, condizione

imprescindibile per una esistenza “giuridica” e non solo “naturale” degli individui.

L'ultima parola, sul concederla o meno, come già accennato, spetta però in via

definitiva allo Stato, il quale sceglie in modo autonomo i principi cui aderire per

riconoscerla o revocarla.

A tal fine, i due criteri prevalentemente utilizzati dagli ordinamenti costituzionali

sono lo ius soli (diritto del territorio) e lo ius sanguinis (diritto di sangue) i quali

possono spesso essere in conflitto tra loro e nel cui scontro si ritrova una delle principali

cause di apolidia. In senso strettamente legale, essa è infatti la condizione di coloro che

non sono considerati cittadini da nessuno stato12

.

Confusione e conflitto nascono perché non c'è un principio unico che le nazioni

sembrano voler accettare come regola generale. Alcuni stati scelgono il primo, altri il

secondo, altri ancora una combinazione di entrambi. Il risultato è uno stato di incertezza

legale sia a livello domestico sia a livello internazionale, in cui un soggetto può essere

contemporaneamente cittadino di più Stati o nella situazione opposta cittadino di

nessuno.

11 Vedi Papisca Antonio, Introduzione alla dichiarazione universale dei diritti umani, Cattedra

UNESCO "Diritti umani, democrazia e pace", 200812 Vedi UN General Assembly, Convention Relating to the Status of Stateless Persons, 1954

4

È in queste pieghe normative che intervengono i vari trattati internazionali in

materia di prevenzione e riduzione dell'apolidia. Trattati che elaborano principi generali

da rispettare e che creano una rete di obbligazioni e procedure da seguire, intervenendo

sulla discrezionalità degli stati e sulla loro sovranità, evitando così un diniego o una

privazione arbitrari della cittadinanza13

. Trattati tanto più efficaci quante più adesioni

ottengono, poiché è solo la ratifica che ne determina la vincolatività. È sulla base della

loro adesione che gli Stati devono innanzitutto astenersi dall'adottare legislazioni o

pratiche che abbiano effetti discriminatori sull'attribuzione e sul riconoscimento della

cittadinanza, e secondariamente adoperarsi nel senso dell'eliminazione, o quanto meno

diminuzione, della condizione di estrema vulnerabilità che l'essere apolide comporta14

.

Malgrado ciò nei decenni passati il numero di apolidi è significativamente

cresciuto e non sembra diretto a diminuire negli anni a venire. Bisogna dedurre che le

aspettative di universale rispetto e operatività delle norme internazionali in materia di

apolidia, non hanno trovato l'adesione sperata. Per fare un esempio il numero dei paesi

che hanno ratificato le due convenzioni che trattano in via esclusiva del problema,

quella del 1954 sullo status di apolide e quella del 1961 sulla riduzione della apolidia,

rimane ancora oggi basso, sebbene il recente cinquantenario della Convenzione del

1961 abbia funzionato da spinta per molti. Cosicché paesi come le Filippine hanno

finalmente iniziato il processo di adesione per la convenzione del 1954, e altri come

Croazia, Nigeria, Gambia, Georgia e Panama hanno invece definitivamente ratificato

entrambe le convenzioni. Il numero degli stati parte15

è pertanto in crescita e ammonta

rispettivamente a 82 e 60, ma considerando che l’Organizzazione delle Nazioni Unite

13 Vedi Leclerc & Colville, supra nota 314 A tal fine l’Italia ha concluso vari accordi multilaterali e bilaterali. La preoccupazione di evitare

l’apolidia e di facilitare l’inserimento dell’apolide nella vita sociale in Italia ha portato, il nostro

legislatore, ad avere un occhio di riguardo verso questo fenomeno. Si ricorda infatti come nella nostra

legislazione si sia stati attenti ad evitare la creazione di situazioni di apolidia attraverso la previsione

della perdita della nostra cittadinanza solamente nei casi in cui si sia già in possesso di un’altra, sia

attraverso l’attribuzione della nostra cittadinanza a chi nasca, nel nostro territorio, da genitori ignoti o

apolidi o da genitori che abbiano una cittadinanza non trasmissibile al figlio. Anche a livello

giurisprudenziale si è avuta una particolare tutela verso gli apolidi difatti la nostra Corte costituzionale

nella sentenza n. 1722 del 18 maggio 1999 ha rilevato come un apolide, partecipando ai diritti previsti

dalla comunità nella quale ha stabilito liberamente la propria residenza, debba anche adempiere ai

doveri, difatti osservando che gli apolidi “godono nel nostro Stato di un’ampia tutela, come prescritto

dalla Convenzione di New York del 1954 e dell’abbondante legislazione nazionale in materia di

rapporti civili e sociali, alla stessa stregua dei cittadini italiani si induce a ritenerli parti di una

comunità di diritti la cui partecipazione giustifica la sotto posizione ai doveri”. Sempre la nostra Corte

Costituzionale oramai equipara la tutela verso gli apolidi alla tutela che ha verso i propri cittadini tanto

da giustificare anche un attaccamento reale, dei primi, al nostro contesto sociale con l’imposizione di

questi agli obblighi previsti anche ai cittadini.15 Dati raccolti presso la sezione Statelessness di REFWORLD – banca dati contenente un'ampia

raccolta di rapporti e documenti relativi ai temi di rilevanza per l'UNHCR come la determinazione

dello status di rifugiato, l'apolidia o la migrazione, e le cui informazioni sono accuratamente raccolte

dalla rete globale degli uffici distaccati dell’UNHCR, dei governi, delle organizzazioni internazionali,

regionali e non governative, delle istituzioni accademiche e degli organi giudiziari; nonché

quotidianamente aggiornate. http://www.refworld.org/statelessness.html [ultimo accesso 3 Settembre

2014]

5

conta 193 stati membri, tali cifre appaiono tristemente basse.

Fortunatamente l'attività svolta a tempo pieno da istituzioni come l'Alto

commissariato per i rifugiati, agenzia specializzata delle Nazioni Unite il cui mandato

comprende anche la protezione degli apolidi, lascia sperare in ulteriori margini di

miglioramento e sebbene la strada da percorrere rimanga lunga e tortuosa, la direzione

intrapresa è quella di una sempre maggiore presa di coscienza circa la gravità della

condizione in cui milioni sono costretti a vivere, oltre che il raggiungimento di una

massa critica di adesione agli obiettivi finali che faccia una differenza sostanziale.

In tale direzione, per superare il paradosso che vede la perdita dei diritti umani

coincidere con l'istante in cui una persona smette di appartenere ad una comunità

politica, rappresentando null'altro che la sua assoluta unica individualità16

, comprendere

la portata del problema è solo il primo momento di una più ampia e integrata

collaborazione tra le forze della società globale17

.

Occorre anche stimolare, da parte degli stati che già lo riconoscono,

un'implementazione effettiva ed efficace del “diritto ad una cittadinanza”, rafforzandone

le basi legali nella speranza che un “governo mondiale” finalmente realizzi anche un

“diritto mondiale” che segua l'utile non del singolo individuo o delle singole comunità,

ma della umanità intera, tenuto conto che ignorare gli “spaesati” significa ignorare la

possibilità di uno sviluppo maggiore.

2 – La cittadinanza nella storia: le civiltà antiche.

Comprendere cosa significhi essere apolide presuppone sapere cosa voglia dire

attualmente essere cittadino, status soggettivo di appartenenza ad una comunità politica

dal quale deriva la titolarità di una serie di diritti civili, politici e sociali, riconosciuti e

garantiti dalla comunità medesima e che nel tempo hanno visto mutare il loro contenuto

in funzione del contesto culturale di riferimento.

Molti affermano che madre del concetto “vero” di cittadinanza fu il

giusnaturalismo poiché adottò una prospettiva individualistica e contrattualistica dello

Stato moderno in cui gli individui, liberi e uguali, scelgono di diventare cittadini, cioè

unità costitutive di una comunità politica affinché i loro diritti trovino concretezza ed

attuazione. Ma se guardiamo alla concezione moderna che le attuali democrazie hanno

della cittadinanza ci accorgiamo come essa sia la rielaborazione della cittadinanza greca

e romana18

passata attraverso le rivoluzioni settecentesche e i fenomeni costituzionali

ottocenteschi.

L'idea che greci e romani avevano di democrazia, come partecipazione attiva alla

vita politica, è invero molto vicina a quella odierna di molti Stati civili, sebbene già a

16 Emblematica in proposito è la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789 che

definisce come non separabile la coppia uomo-cittadino.17 Secretary-General’s Guidance Note, The United Nations and Statelessness, 201118 Cfr. Trujillo Pérez, Cittadinanza, diritti e identità, in Dalla Torre-D’agostino, La cittadinanza:

problemi e dinamiche in una società pluralista, Torino, 2000

6

quel tempo imperfetta poiché limitata ad una cerchia ristretta di individui, i saggi e

virtuosi, i soli a poter godere appieno di tutti i diritti connessi alla cittadinanza19

. Schiavi

e donne, infatti, non venivano considerati cittadini ed erano esclusi dalla gestione

dell'attività pubblica, perché ritenuti indegni. Ad essi erano concessi solo alcuni diritti

civili, in quanto soggetti comunque legati al territorio della comunità.

Per poter divenire cittadini bisognava essere in possesso di determinate

caratteristiche quali l'essere un individuo maschio e libero di maggiore età, avere i

genitori cittadini e partecipare attivamente alla vita pubblica della propria polis20.

Naturalmente ogni polis aveva, in merito, una specifica regolamentazione e infatti ad

Atene, per esempio, era sufficiente essere maggiorenni, mentre a Sparta occorreva

sottomettersi alla disciplina militare. In tutte era tuttavia comune l'idea che, una volta

acquisita la cittadinanza, questa non poteva considerarsi un diritto inalienabile. Essere

cittadino era un privilegio e in quanto tale passibile di revoca, qualora si fossero

trasgredite le leggi della città21

.

Ogni polis, poi, riservava un trattamento diverso agli stranieri. Atene, aperta e

liberale, permetteva al forestiero di stabilirsi all'interno della città ed esercitare in essa

delle attività economiche purché questi ottenesse una garanzia da parte di un cittadino

ateniese che gli faceva da patrono e aveva il compito di presentarlo alla intera

comunità22

. In generale però gli stranieri erano esclusi dal godimento dei diritti, come

l'accesso alla giustizia o il diritto di voto, poiché erano visti con sospetto e pregiudizio.

La concessione della possibilità di partecipare alla politica e di conseguenza divenire

cittadini, rimaneva evento raro.

I Romani, che in epoca repubblicana ebbero una concezione di cittadinanza vicina

a quella aristotelica delle pol i s greche, apportarono elementi di ottimizzazione

aumentando le garanzie e i diritti in capo ai cittadini23

. Gestirne la fruibilità divenne

però complicato con la sempre maggiore espansione dell'impero romano a gran parte

del mondo conosciuto, poiché ad essere aumentato era il numero degli individui cui

erano attribuibili i diritti derivati dalla posizione di cittadino.

Inizialmente, infatti, la civitas romana si sviluppava nel territorio della città di

Roma o al massimo in quello subito limitrofo. In questo periodo la cittadinanza era uno

status da cui derivava il diritto di votare nelle assemblee, di essere eletto e di accedere

alla giustizia nonché l'esenzione da pene di tipo corporale come la pena di morte.

Successivamente, l'estensione della cittadinanza a tutti gli abitanti d'Italia e a tutti i

19 Cfr. Demostene, Per Formione, XXXVI, 6: passo in cui si evidenziava come il banchiere Formione

non essendo cittadino non poteva acquistare la proprietà di alcune terre gravate da ipoteche che lui

possedeva per potersi rifare di un debito.20 Cfr. Aristotele, Politica, 1253a. Secondo Aristotele solamente chi partecipava attivamente alla vita

politica e apparteneva ad una comunità etico-culturale, poteva venire considerato cittadino.21 Cfr. Contro Aristogitona, XXV, 17. Demostene affermava che “le leggi sono stabilite: per dissuadere

il cittadino dal compiere un’azione sbagliata, e per assicurarsi che la punizione dei colpevoli renda

migliori gli altri”.22 Cfr. Mac Dowell, The Law in Classical Athens, London, 1978, p. 76 ss.23 Cfr. Pettit, Republicanism. A Theory of Freedom and Government, Oxford, 1997.

7

sudditi delle Province24

, la trasforma da mero status soggettivo a strumento di politica

estera e diplomazia, quantunque aiutasse ancora per la distinzione tra libero e schiavo, e

t r a civis e peregrinum. La cittadinanza insomma si generalizza, includendo adesso

qualsiasi membro del populus romanus e fungendo quindi da mezzo di separazione tra

questo e tutte le altre popolazioni stanziate all'interno dei confini dell'impero25

.

Negli ultimi anni di esistenza dell'Impero romano, peraltro, la concezione di

cittadinanza si arricchisce di nuovi elementi in quanto con l'avvento della religione

cristiana si riconosce il cittadino in colui che è stato battezzato. Contemporaneamente si

forma anche l'idea che l'uomo nasca libero per natura e che sia dotato di una dignità

inalienabile a prescindere dalla cittadinanza di cui è dotato, da garantire anche a chi

civis non è.

2.1 – La cittadinanza nella storia: dal Medio Evo alle Costituzioni del XIX secolo.

Con la dissoluzione dell'Impero viene meno l'unità politica e con essa l'autorità di

riferimento, per cui il concetto di cittadinanza si frammenta irrimediabilmente. Cittadino

non è più chi appartiene alla comunità politica imperiale ma colui che ha un legame di

appartenenza con una delle diverse entità politiche createsi in seguito al disfacimento

dell'impero.

Siamo in epoca feudale e lo status civitatis è scomparso. L'esercizio dei diritti

civili dipende adesso dai rapporti feudali stabiliti entro un certo territorio e dal ceto

sociale di appartenenza26

. La plebe si ritrova in uno stato di soggezione e dipendenza

verso il Signore locale che domina su tutti gli individui in ragione di un vincolo

territoriale e in virtù dei privilegi concessigli dal Sovrano, cui a sua volta presta

giuramento di fedeltà. L’uomo libero è un suddito, anche se gode di alcuni privilegi, e

fa parte, come persona, della comunità universale degli uomini, concepita e portata

avanti dalla Chiesa.

Diversamente dal vassallaggio, con la nascita delle comunità cittadine si configura

invece un sistema di autonomie notevolmente diverso, in cui la cittadinanza è vissuta

orizzontalmente.

Questo cambio di direzione del rapporto da verticale a orizzontale produce una

serie di libertà per coloro che vivono all'interno di un determinato territorio, come il

diritto di proprietà e la tutela dei propri beni, ponendoli poi in una posizione privilegiata

rispetto agli stranieri, coloro che vivono fuori dalle mura, i quali godono di diritti

affievoliti, spesso solo per garantire attività economiche di scambio.

L'idea di cittadinanza come legame verticale si sgretola quindi lungo tutto il

Medio Evo man mano che prende corpo lo Stato moderno, e in particolare nel corso del

XVIII secolo quando le grandi rivoluzioni americana e francese permettono

24 Attraverso la Constitutio Antoniana che fu emanata dell’Imperatore Antonio Caracalla nel 212 d.C.25 Cfr. Seston, La citoyenneté romaine, i n Scripta varia. Mélanges d’histoire romaine, de droit,

d’épigrafe et d’Historie du christianisme, Paris, 1980, p. 5 e ss.26 Cfr. Bloch, La società feudale, Torino, 1974

8

all'individuo di riappropriarsi della sua condizione di cittadino.

Le radici della cittadinanza, intesa in senso moderno, risalgono infatti al periodo

della Rivoluzione francese. I rivoluzionari vogliono spezzare il legame verticale tra

sudditi e sovrani assoluti, ed elaborano un concetto di cittadinanza che richiama quelli

delle culture greca e romana27

. Portano avanti una idea nuova di uomo-cittadino,

appartenente idealmente ad una repubblica universale, oltre i confini nazionali, il quale

deve sacrificare il proprio interesse personale a vantaggio di un interesse generale

superiore28

.

Nonostante i principi di universalità e astrattezza cui si riferiscono, nella

Costituzione francese del 3 settembre 1791, prima costituzione scritta del continente

europeo, si distingue tra due tipologie di cittadini. Da un lato i cittadini attivi che

godono in modo pieno dei diritti politici come il diritto di voto, e dall'altro lato i

cittadini passivi che sono esclusi dal suffragio, pur essendo loro garantita uguaglianza

quanto ai diritti civili, alla proprietà e alla libertà religiosa. A quel tempo, potevano

essere cittadini attivi solamente gli individui di sesso maschile, di età non inferiore ai 25

anni, residenti in maniera permanente in Francia, che non avessero servito come

domestici o salariati, che avessero prestato giuramento e che avessero pagato

un’imposta di dieci giornate come testimonianza del loro censo. Cittadini passivi i

nullatenenti e le donne.

Tale distinzione viene meno nel 1792 con un decreto dei giacobini che concedeva

diritto di voto a tutti, anche grazie a teorizzazioni come quella di Condorcet che porta

avanti l'idea di una cittadinanza universale come diritto inalienabile dell'uomo. Egli era

invero convinto che bastasse appartenere al genere umano e risiedere per un certo

periodo in territorio francese per divenirne a pieno titolo cittadino, così propone che la

Costituzione se ne faccia garante in modo da evitare future negazioni di tale diritto e

ulteriori ingiustizie a danno di donne e stranieri residenti. Ciononostante i tempi si

scoprono non maturi per una concezione così universale di cittadinanza, poi ripresa

dalle future teorie sulla pace e sulla concordia perpetua, per cui la Costituzione del

tempo non ne divenne testimone.

Volendo tuttavia riconoscere un merito a questa fase della storia, si può affermare

che la figura di cittadino cambia da individuo passivo, subordinato al potere del

Sovrano, a individuo attivo. Egli diventa a pieno titolo attore e fautore delle proprie

scelte, siano esse meramente personali o piuttosto politiche.

Con l'avvento della cultura romantica, che si pone in contrasto con gli ideali

individualistici dell'Illuminismo, l'idea della cittadinanza come strumento di

27 “tous les hommes nés et domiciliés en France sont membres de la société politique (…) c’est à direcitoyens (...) ils le sont par la nature des choses et par le droit des gens” cit. Robespierre, Sur lanécessité de révoquer les décrets qui attachent l’exercice des droit di citoyen à la contribution dumare d’argent ou d’un nombre déterminé de journées d’ouvriers, in Parlementaires de 1787 à 1860,Recueil complet des dédats législatifs et politiques des chambres françaises, serie I, 25 gennaio 1790,

t. XI, 321.28 Vedi Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, Bologna, 1967, p. 116 ss.

9

integrazione politica viene abbandonata e si elabora invece un nuovo concetto. Essa

torna ad essere uno status, cioè una qualità personale, una condizione giuridica che

l’individuo ha di fronte allo Stato a cui appartiene e al quale è legato territorialmente. La

cittadinanza diventa strumento di differenziazione tra membri di diverse nazioni, qualità

dalla quale deriva il godimento dei diritti che le diverse nazioni riconoscono agli

individui in quanto membri, e finisce per essere sostituita dal concetto di nazionalità.

Peraltro, mentre le costituzioni di ispirazione rivoluzionaria contenevano varie norme

relative alla cittadinanza, quelle ottocentesche delegano alle legislazioni nazionali.

Vengono così emanate le prime leggi sulla cittadinanza che si occupano di specificare le

modalità di accesso ad essa, nonché le modalità della sua perdita e non più solo in che

modo l'essere o meno cittadino influenzasse la partecipazione alla vita politica.

Vengono elaborati i parametri per identificare un legame con lo Stato e tra ius sanguinis

che lega l'individuo allo Stato attraverso il legame di sangue e ius soli che collega

invece su base territoriale viene favorito il primo29

, anche in funzione del fatto che il

rapporto tra individuo e Stato è sostituito da quello tra individuo e nazione. Intesa

quest'ultima come società di uomini uniti per territorio, origine, costumi e lingua.

In questo periodo storico, nazionalità e cittadinanza vengono a confondersi, pur

essendo la prima uno status naturale derivante dall'appartenenza ad una nazione e la

seconda, invece, uno status giuridico riconosciuto dalla legge positiva di ogni Stato. Ciò

in quanto si sente forte la necessità di sviluppare un sentimento nazionale che unisca. I

cittadini, identificandosi in una certa nazione, possono infatti riconoscersi non solo

come “membri di uno Stato” ma anche come parti integranti di un popolo, della sua

storia e del suo destino. Ciò risulta ancora più evidente se si prendono in considerazione

quegli Stati come la Gran Bretagna che dovevano fare i conti anche con gli abitanti

delle colonie. In questi casi la cittadinanza diveniva uno strumento unificatore dei vari

territori, indifferente rispetto alla partecipazione politica e al suffragio per i quali

vigevano regole distinte e legate a vincoli di residenza, sesso e censo.

La nazionalità, e con essa la cittadinanza, vista come strumento di integrazione

sociale assume pertanto configurazione moderna, stimolando la nascita di istituti che ad

essa sono legati e che ancora oggi rimangono importantissimi come la protezione

diplomatica dei propri cittadini all'estero.

La cittadinanza, considerata come status giuridico riconosciuto dalla legge

positiva di ogni Stato, divenne attribuzione direttamente derivante dal riconoscimento in

capo ad un soggetto di una determinata nazionalità, status naturale derivante

29 Il codice austriaco del 1811 conferiva la cittadinanza ai figli legittimi dei cittadini austriaci iuresanguinis. In Germania il principio dello ius sanguinis era sempre dominante. In Italia il codice civile

del 1865 adottava il criterio dello ius sanguinis. Nel diritto olandese lo ius sanguinis era sempre il

primo criterio di acquisizione della cittadinanza anche se in questo quadro normativo si affiancava un

particolare criterio di ius soli. In Svezia con la Costituzione del 1809 si faceva, per la prima volta,

menzione della cittadinanza, e si introduceva il criterio dello ius sanguinis. La Svizzera ha sempre

adottato lo ius sanguinis. Diversamente la Grecia, il Lussemburgo e la Spagna preferivano adottare il

criterio di acquisizione della cittadinanza dello ius soli.

10

dall’appartenenza a una nazione, e assunse tre precise funzioni:

il riconoscimento degli individui come appartenenti allo Stato;

la distinzione degli individui sulla base dello Stato di cui sono cittadini;

la selezione e l’identificazione dei diritti individuali.

Alla fine del XIX secolo, la cittadinanza aveva assunto i connotati che ancora

conserva come tipici, anche in relazione alla struttura del nuovo sistema di diritto

internazionale che rimane basato sul riconoscimento reciproco tra nazioni le cui singole

legislazioni sulla cittadinanza distinguono le rispettive popolazioni.

2.2 – La cittadinanza nella storia: gli ordinamenti contemporanei.

Guardando alle varie regolamentazioni nazionali si potrebbe dire che la

cittadinanza conservi la caratterizzazione acquisita in epoca moderna, in base alla quale

è ciascuno Stato a qualificare gli individui come propri cittadini sulla base di una

propria normativa. Cittadino è, ovunque, colui che appartiene a quella determinata

consociazione politica e in quanto tale è titolare di precisi diritti e doveri sanciti dalle

leggi della consociazione stessa. Naturalmente ogni normativa nazionale è il risultato di

determinate esperienze storiche e dell'influenza del contesto geografico in cui il popolo-

nazione si sviluppa30

.

La Francia, ad esempio, possedendo da sempre un forte senso di identità

nazionale, grazie anche all'esperienza della rivoluzione, ha sempre adottato quasi in via

esclusiva il criterio dello ius sanguinis, così come Israele a causa della continua

instabilità delle sue frontiere e dei conflitti con il popolo palestinese. In Israele viene

infatti considerato cittadino solamente la persona nata da israeliani, elemento

sintomatico della chiusura verso tutto ciò che non appartiene alla loro cultura e alla loro

discendenza comune. La cittadinanza diventa quindi una forma di protezione verso il

mondo arabo che li circonda. In Regno Unito invece esistono tre tipi di cittadinanza: a)

quella propriamente britannica, b) quella dei territori d'oltremare, c) quella per le

persone che hanno dei rapporti con il Regno Unito e con i territori dipendenti. Secondo

l’attuale normativa (British Nationality del 1981 modificato nel 2002 dal British

Overseas Territories Act) la persona nata nel Regno Unito acquista la cittadinanza

inglese con la registrazione, se al momento della nascita uno dei genitori sia cittadino

britannico oppure se uno dei genitori pur non essendo cittadino britannico, risieda nello

Stato da tempo indeterminato. Mentre, qualora, al momento della nascita i genitori non

siano cittadini britannici e non risiedano nel Regno Unito, la persona nata sul territorio

nazionale potrà richiedere la cittadinanza nel caso in cui uno dei genitori in un secondo

tempo divenga cittadino britannico oppure si stabilisca nello Stato, oppure abbia vissuto

nel Regno Unito per 10 anni successivi alla nascita senza assentarsi per più di 90 giorni,

oppure abbia la cittadinanza britannica dei Territori d’oltre mare e abbia risieduto

30 Cfr. Weil, Access to Citizenship: A Comparison of Twenty-Five Nationality Laws, in Aleinikoff-

Klusmeyer, Citizenship Today, Global perspectives and practices, Washington D.C., 2001, p. 34.

11

legalmente nel Regno Unito per almeno 5 anni. In mancanza di una di queste ipotesi la

concessione della cittadinanza può ugualmente venire concessa ma sulla base di una

valutazione discrezionale del Ministro dell’Interno.

Diverse sono le esperienze dei vari Stati anche per quanto riguarda la perdita della

cittadinanza poiché lo Stato vuole comunque rimanere sovrano circa le modalità di

perdita di tale status.

In Francia si perde la cittadinanza qualora vi sia una rinuncia, davanti all’Autorità

competente, di un maggiorenne che risieda abitualmente all’estero; che abbia acquisito

una cittadinanza straniera che si sia sposato con uno straniero e che abbia acquisito la

cittadinanza del coniuge risiedendo abitualmente in quello Stato; qualora siano persone

che non soddisfino i criteri sopra citati possono venire autorizzate, attraverso un decreto,

a perdere la cittadinanza francese qualora lo richiedano a condizione che posseggano

una cittadinanza straniera.

La cittadinanza spagnola si perde quando si diviene indipendenti dalla famiglia di

origine e si decide di risiedere abitualmente all’estero, quando si acquisisce

volontariamente un’altra cittadinanza oppure si decide di usare esclusivamente la

cittadinanza straniera che si aveva prima della emancipazione dalla famiglia di origine.

È necessario però un arco temporale di 3 anni, e qualora in questo periodo si dichiari di

volere conservare la cittadinanza spagnola non se ne verificherà la perdita. Riguardo

alla titolarità di cittadinanze straniere, la normativa spagnola presenta poi una

peculiarità: nel caso in cui vi sia l’acquisizione della cittadinanza di uno degli Stati

ispano-americani o di Andorra, o delle Filippine, o della Guinea Equatoriale o del

Portogallo, ciò non comporta la perdita della cittadinanza spagnola in quanto in questo

caso viene ammessa la doppia cittadinanza. Coloro che abbiano perso la cittadinanza la

possono riacquistare se hanno la residenza legale in Spagna, se dichiarino di volere la

cittadinanza e se iscrivono nel registro dello stato civile il recupero della cittadinanza.

Nonostante la presenza di queste variegate discipline, oggigiorno, il concetto di

cittadinanza non può essere limitato alle diverse legislazioni nazionali, a prescindere dal

numero di elementi comuni o di discontinuità, poiché già dalla metà del secolo scorso in

materia è intervenuta più volte la normativa internazionale. Ciò in quanto è risultato

sempre più evidente che gli stati entrano in contatto tra loro, non solo mediante le

attività dei loro governanti e funzionari diplomatici, ma soprattutto attraverso i loro

cittadini, che nel tempo hanno peraltro acquisito una sempre maggiore libertà di

circolazione dentro e fuori dai confini nazionali del proprio paese d'origine.

La cittadinanza pertanto come elemento regolatore dei rapporti internazionali.

In proposito, già la Società delle Nazioni aveva avvertito la necessità di codificare

ed infatti erano stati predisposti quattro strumenti di diritto internazionale, una

Convenzione in materia di conflitti di cittadinanza e tre protocolli che si occupavano

della disciplina del servizio militare nei casi di doppia cittadinanza e di apolidia.

Successivamente, da meno non furono le Nazioni Unite che, nonostante la resistenza di

12

molti Stati, si adoperarono in tal senso promulgando trattati multilaterali come la

Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati del 1951, seguita nel 1954 dalla

Convenzione sullo status degli apolidi.

Si dimostrò attivo anche il Consiglio d'Europa favorendo la conclusione di

numerosi accordi tra cui la Convenzione di Strasburgo del 6 maggio 1963 sulla

riduzione dei casi di cittadinanza plurima, la Convenzione di Parigi del 10 settembre

1964 che impone agli Stati contraenti l'obbligo di comunicare agli altri Stati i casi in cui

un individuo abbia volontariamente acquisito o riacquisito la propria cittadinanza e, tra

le ultime più importanti, la Convenzione di Strasburgo del 7 novembre 1997 sulla

cittadinanza che all'articolo 3 sancisce che a decidere chi debba o meno essere cittadino

è la normativa di ciascuno Stato, ma pone anche una serie di limitazioni alle modalità di

acquisizione e perdita dello status quale ad esempio il divieto assoluto di privare un

cittadino della cittadinanza per motivi arbitrari e la limitazione dei casi di apolidia.

La cittadinanza, insomma, smette di essere elemento di diritto meramente interno,

questione da annoverare nell'area del dominio riservato degli Stati e diventa concetto

“internazionalizzato” facendo conseguentemente sorgere la necessità di trovare un

punto di raccordo tra i due ordinamenti, quello nazionale e quello internazionale.

3 – La cittadinanza per il diritto internazionale o cittadinanza globale

Se tradizionalmente, il diritto internazionale affidava al diritto pubblico di

ciascuno stato il compito di stabilire le regole, i requisiti e le procedure per acquisire o

trasmettere la cittadinanza, con l'avvento della globalizzazione, e soprattutto del

fenomeno sempre crescente delle migrazioni, lo stato-nazione inteso come mono-etnico

e mono-confessionale sta oramai scomparendo. Tuttavia questione fondamentale nel

processo di attribuzione della cittadinanza rimane capire in che misura vada attuato il

bilanciamento tra inclusione e esclusione. Nei secoli la sfida maggiore è sempre stata

quella di delineare con esattezza i limiti della appartenenza, segnare una linea di confine

tra chi poter considerare “noi” e chi “loro”. La Corte internazionale di Giustizia ha

descritto la nazionalità come il legame legale che ha in un fatto sociale di attaccamento

genuino le sue basi, una connessione genuina di esistenza, interessi e sentimenti31

. Tra

gli elementi di attaccamento troviamo il luogo di nascita, la discendenza, la residenza, la

lingua e la etnicità, e a seconda del principio di determinazione che ogni Stato assume

per definire i termini della propria appartenenza, tali fattori sono presi in considerazione

in misura e maniera differente per l'attribuzione dello status legale di cittadino.

Storicamente i due principi di determinazione prevalenti nei diversi sistemi

giuridici che compongono la comunità internazionale, come già detto, sono quello

dell’acquisto per discendenza da un cittadino (iure sanguinis) e quello dell'acquisto per

nascita sul territorio (iure soli). Le radici di quest'ultimo risalgono all'epoca feudale,

quando per esempio in Gran Bretagna, tutti “i soggetti nati britannici […] dovevano

31 International Court of Jusiustice, “Nottebohn Case” (Liechtenstein vs. Guatemala), 1953, pag. 23

13

fedeltà al Re e avevano diritto alla sua protezione”32

.

Da allora in poi, tale principio venne usato anche nel cosiddetto Nuovo Mondo

per rafforzare il legame con lo Stato di destinazione; l'immigrazione crescente era vista

come una fonte di potenziali nuovi cittadini e attraverso la dottrina dello ius soli la

seconda generazione di immigrati diventava automaticamente cittadino dello Stato nel

quale i genitori avevano scelto di stabilirsi. La ratio dietro questa modalità di

attribuzione della cittadinanza, che ritroviamo prevalentemente in Stati tradizionalmente

paesi di immigrazione, risiede nell'idea che un individuo è decisamente più connesso

con il territorio in cui è nato, dal momento che in esso cresce e vive, ne assimila i

costumi e i modi di pensare dei suoi abitanti e gradualmente si fonde con la loro

comunità33

. Il principio dello ius sanguinis invece riconosce la discendenza e la

parentela di origine come indicatori di quell'attaccamento genuino poc'anzi descritto

come determinante nella valutazione circa l'appartenenza o meno di un soggetto ad un

particolare Stato. In questo caso la cittadinanza è attribuita alla nascita laddove il

bambino abbia entrambi o anche uno solo dei genitori cittadino di quello stesso Stato,

tramandandosi di generazione in generazione attraverso la linea di sangue. Può essere

fatto risalire alla antica Grecia e se ne ritrova traccia nei primi codici europei che

regolamentavano la nazionalità, come il Codice Napoleonico del 1804 che ribalta

quanto era stato stabilito dalla Rivoluzione francese34

. La ratio di tale modalità di

attribuzione della cittadinanza, che ritroviamo prevalentemente nei paesi storicamente di

emigrazione come quelli Europei o Arabi, risiede nel riconoscimento del ruolo della

famiglia e nella volontà di mantenere la fedeltà delle popolazioni trasferitesi all'estero.

Considerato, in ogni caso, che queste due diverse dottrine sono entrambe

pienamente sviluppate e legittimate oltre che spesso oggi combinate tra loro, non

bisogna dimenticare che la questione della cittadinanza rimane il cuore pulsante della

sovranità di ciascuno Stato, non solo perché delinea i confini dell'appartenenza ma

soprattutto perché presupposto giuridico della titolarità di diritti e doveri e del

godimento delle libertà fondamentali.

Ai due principi prevalenti dello ius soli e dello ius sanguinis, si aggiungono come

32 Verena Stolcke, “The 'Nature' of nationality” in Bader (ed) Citizenship and exclusion, Macmillan

Press, London:1997, pag. 7033 International Union for Child Welfare, Stateless Children – A comparative study of national

legislation and suggested solutions to the problem of statelessness of children, Geneva:1947, pag. 1934 La Costituzione del 3 settembre 1791 stabilisce che è cittadino francese ogni individuo nato in Francia

da padre francese, chi è nato in Francia da padre straniero e ha fissato la sua residenza nel regno e

anche chi, nato da padre francese in un paese straniero, è tornato a stabilirsi in Francia e ha prestato

giuramento civico. Così come a coloro che, pur non avendo nessuna residenza nel regno, si sono però

distinti nella difesa degli ideali rivoluzionari. George Washington e Jeremy Bentham acquisirono in

questo modo la cittadinanza francese. Con il codice civile francese del 1804 invece la cittadinanza

diventa un diritto della persona tramandato come il nome di famiglia, attribuita alla nascita per

filiazione. La predominanza dello ius sanguinis, sebbene successivamente si sceglierà di riabilitare lo

iusius soli parallelamente, segna una importante tappa nello sviluppo delle successive leggi sulla

cittadinanza e non soltanto in Francia, essendo il Codice Napoleonico matrice d'ispirazione per molti

altri codici nazionali, tra cui quello italiano.

14

modalità di acquisto della cittadinanza anche quella per iuris communicatio, vale a dire

la trasmissione della cittadinanza da parte di un membro della famiglia ad un altro in

presenza di determinati presupposti come l'aver contratto matrimonio, l'aver adempiuto

ad un riconoscimento di filiazione naturale o ad un'adozione, e quella per

naturalizzazione, cioè l'attribuzione della cittadinanza mediante un apposito atto di

concessione dello stato su richiesta dell’interessato e in presenza di determinati requisiti.

Tuttavia, poiché la possibilità per le persone di varcare i confini nazionali, sposare

cittadini di altri Stati o stabilirsi e procreare in paesi diversi da quello della propria

cittadinanza è oramai un fenomeno con forti ricadute a livello globale, alla cittadinanza

come concetto di mero diritto interno o “dominio riservato35

” si sostituisce una nuova

nozione frutto della internazionalizzazione dei valori costituzionali comuni ai diversi

ordinamenti. Prova ne è, oltre alla continua affermazione in numerosi trattati

internazionali del diritto ad una cittadinanza che in questo modo potrebbe addirittura

assumere valore consuetudinario e che sulla base dello stesso diritto internazionale non

può essere né concessa né rimossa in violazione delle norme che la tutelano36

, anche

l'adozione di trattati e convenzioni che hanno come oggetto esplicito l'attribuzione della

cittadinanza come la Convenzione europea sulla Nazionalità promulgata nel 1997 dal

Consiglio d'Europa. Tale strumento ha carattere regionale ma la sua gittata può

facilmente varcare i confini del vecchio continente poiché incoraggia le altre

organizzazioni regionali e internazionali a sviluppare iniziative simili delineando i

principi guida da seguire per i Governi in materia di legislazione sulla cittadinanza.

Il diritto internazionale insomma favorisce una tutela dei diritti umani oltre le

rivendicazioni di sovranità degli Stati, affermando quindi con sempre maggiore tenacia

il valore prodromico che la cittadinanza possiede nei confronti dei diritti umani tutti.

Essa, oltre che da fattore di inclusione, può fungere infatti inoltre da fattore di

esclusione dell'individuo e la sfida dei diritti umani è proprio quella di evitare, essendosi

la cittadinanza sviluppata come veicolo di emancipazione dalla condizione di “sudditi”

a quella di “cittadini” e fonte di eguaglianza e non discriminazione, lo stato di

precarizzazione che subiscono i non-cittadini, deturpati in ciò che più li caratterizza

ossia il loro status di esseri umani. Se la cittadinanza infatti definisce l'insieme delle

condizioni necessarie affinché si possa avere pienezza dei diritti fondamentali, essa

compie un salto ancora più pericoloso poiché sovrasta la personalità giuridica

dell'individuo, base della sua dignità di uomo e in quanto tale titolare di diritti e libertà,

35 Come la stessa Corte permanente di giustizia internazionale aveva affermato nel 1923 per il caso

“Tunis and Morocco Nationality Decrees” in cui la Gran Bretagna accusava la Francia di imporre

illegalmente la cittadinanza francese ai bambini, di cittadini britannici, nati nelle aree del Protettorato

francese di Tunisia e Marocco. La Società delle Nazioni, con la sentenza della sua Corte Permanente,

confermò che a quel tempo le problematiche relative alla cittadinanza rimanevano problematiche di

giurisdizione interna degli Stati, da affrontarsi semmai, laddove vi fosse conflitto di attribuzione,

attraverso il mezzo delle relazioni internazionali. Cfr. Paul Weis, Nationality and Statelessness inInternational law, Kluwer Academic Publishers Group, Dordrecht:1979, capitolo 5

36 Prima fra tutti la Convenzione dell'Aja del 1930 la quale si occupò di regolamentare, sotto gli auspici

dell'allora Società delle Nazioni, i conflitti delle leggi di cittadinanza.

15

aumentando il divario tra appartenenza e partecipazione.

Il diritto internazionale quindi, e con esso il sistema di protezione dei diritti

umani, rivendicando la sua posizione in una società sempre più globale e universale, si

pone l'obiettivo di “diluire” il significato di cittadinanza, contribuendo

all'individuazione di un concetto non legato allo stato-nazione ma a qualcosa di

superiore.

In questa prospettiva, il diritto internazionale, così come quello nazionale,

assumerebbe una dimensione individualistica, in cui però i diritti di cittadinanza

assumerebbero carattere universale e il requisito dell'appartenenza ad una specifica

comunità politica sarebbe superato dall'appartenenza all'umanità tout court.

Naturalmente se intendiamo la cittadinanza come principio di lealtà e coesione

oltre che di appartenenza, risulta palese come una tale realtà di diritto rimanga lontana.

Perché possa divenire concreta bisognerebbe superare l'attuale squilibrio di potere tra

paesi ricchi e paesi poveri, oltre all'influenza che ancora esercitano gli stati più forti

nelle principali istituzioni globali come le Nazioni Unite. Si pensi al diritto di veto37

.

La cittadinanza è, concludendo, non solo appartenenza e partecipazione, ma

soprattutto “vita activa”, per riprendere la Arendt38

, il cui nucleo fondamentale è

costituito dalla solidarietà e dal riconoscimento reciproco che di volta in volta i membri

di una comunità politica si concedono.

L'apolidia, pertanto, non trova posto in un sistema che affronta l'identità nazionale

come un concetto in fieri, manifestandosi come un cancro globale che impedisce ai

soggetti che ne sono colpiti, non solo di godere dei più basilari diritti umani, ma anche

di collocare in qualunque posto il loro centro di interessi e attorno ad esso realizzare il

proprio progetto di vita.

37 È lo strumento che rende potenti i membri permanenti del Consiglio di sicurezza - organismo il cui

funzionamento è regolato dal capitolo V della Carta delle Nazioni Unite – perché permette di bloccare

qualunque azione dell'ONU. Allo stato attuale, l’ultima e unica riforma risale al 1963, e il CdS è

quindi ancora caratterizzato dalla stessa identica struttura: 5 membri permanenti – Inghilterra, Francia,

USA, Cina e Russia, cioè i vincitori della seconda guerra mondiale – più 10 membri non permanenti

eletti dall’Assemblea Generale con un mandato di 2 anni. Inoltre, solo i 5 membri permanenti

detengono il cosiddetto diritto di veto. L'ex segretario generale Kofi Annan, il 5 agosto 2005, aveva

presentato, senza successo, una bozza di risoluzione in cui esponeva varie linee di riforma del sistema

del Consiglio di sicurezza, allo scopo di renderlo uno strumento efficace per prevenire "genocidi,

crimini di guerra, pulizia etnica e altri crimini contro l'umanità" oltre che risolvere il problema del

diritto di veto. Sulla base delle linee evolutive delineate seppur in modo vago in tale risoluzione, per la

60esima sessione del Consiglio sono state presentate dal G4, da Uniting for consensus e dall'Unione

Africana tre proposte di riforma in cui la questione del diritto di veto assume colori decisamente

differenti a seconda della provenienza. Tutte ancora inattuate, trovando il limite più grosso nella stessa

Carta delle Nazioni Unite.38 Arendt, H., La banalità del male, Feltrinelli, Milano, 1964

16

Capitolo Secondo - La definizione di apolidia e la sua dicotomia

1 – Il fenomeno dell'apolidia: uno sguardo d'insieme.

Mentre argomenti come la migrazione sono vivi e accesi nel dibattito politico

odierno, agli aspetti legali della nazionalità e della cittadinanza è riservata minore

attenzione, senza considerare che tra questi l'apolidia è la più trascurata. La percezione

che si ha di questi fenomeni è che si tratti di mere questioni politiche, rare anomalie

tecniche, contenziose eccezioni alla regola generale secondo la quale ciascuno ha una

giustamente ovvia nazionalità. Vi è addirittura una difficoltà quasi morale nell'affermare

che il sistema legale possa fallire con alcuni individui, non offrendo loro nessuna

giurisdizione entro la quale poter inquadrare la propria vita quotidiana ma forse il

problema più grande è che l'apolidia è essenzialmente negativa e come tale quindi

difficile da mostrare e perfino da descrivere.

Se guardiamo alla definizione di nazionalità che nel 1955 la Corte Internazionale

di Giustizia diede nel famoso caso Nottebohm39

appare chiaro per inversione che

l'apolidia sia una posizione di distacco, esclusione e abbandono dell'individuo nel

rapporto con un qualsiasi Stato, fenomeno ancor più inaccettabile in un'epoca di

apparente universalità dei diritti umani tra cui appunto il diritto alla cittadinanza che ne

“rimane una importante considerazione per il pieno godimento di tutti40” rendendo

difficile, per non dire impossibile, la partecipazione in qualunque comunità nazionale a

qualsiasi livello sia esso politico, economico o sociale.

Le vicende storiche che hanno indotto le prime preoccupazioni del diritto

internazionale moderno circa il problema dell'apolidia furono la rivoluzione russa del

1917 e i massacri del popolo armeno nel periodo della prima guerra mondiale e negli

anni venti del novecento, ma livelli davvero preoccupanti si raggiunsero a ridosso delle

due guerre mondiali così come in seguito ai cambiamenti politici provocati dalla

estinzione dei grandi Imperi e di vari Stati e quindi gli inevitabili mutamenti di

sovranità territoriale insieme alla formazione di nuove realtà e alla instaurazione di

nuovi ordinamenti rivoluzionari41

. Con la guerra fredda e il successivo esplodere di

conflitti a sfondo etnico come ad esempio in Ruanda e nell'ex Jugoslavia insorsero gravi

crisi umanitarie tali che uno dei principali problemi che la comunità internazionale si

39 “un legame legale avente le sue basi in un fatto sociale di attaccamento, una genuina connessione di

esistenza, interessi e sentimenti, insieme con l'esistenza reciproca di diritti e doveri” in Liechtensteinv. Guatemala, 1955 I.C.J. 4 noto come “Caso Nottebohm” nella cui sentenza del 6 aprile 1955 la

Corte Internazionale di Giustizia elaborò il concetto di legame effettivo o “genuine link”.40 C. Thiele, “Citizenship as a requirement for minorities”, European Human Rights Law Review, 6

(2005), p.27641 Si pensi alla guerre balcaniche del 1912-1913 e poi la rivoluzione russa, all’estinzione dell’impero

austro-ungarico, alla sconfitta della Germania, della Bulgaria e della Turchia; si considerino gli eventi

precursori della seconda guerra mondiale come l’avvento del nazismo con la seconda sconfitta della

Germania, l’instaurazione del regime comunista nell’Europa orientale, e la scomparsa delle

repubbliche baltiche indipendenti, tutti eventi che hanno portato nel nostro Continente ad un grande

esodo. Le popolazioni più colpite da tutto ciò sono state i tedeschi, gli ebrei, gli arabi, i polacchi, gli

ungheresi, i greci, i turchi, i bulgari, gli armeni, i curdi e gli italiani.

17

ritrovò a dover affrontare divenne, insieme a quello dei rifugiati, proprio quello degli

apolidi. In quegli anni decine di milioni di persone, per loro scelta o forzatamente, si

spostarono in cerca di rifugio e in molti casi persero la cittadinanza di origine senza

avere la possibilità di acquistarne una nuova. Entrambi, rifugiati e apolidi, appartengono

alla categoria di diritto internazionale delle persone “non protette” e hanno visto nascere

tutta una serie di norme internazionali volte proprio alla loro protezione, con l'obiettivo

di garantirne tutela giuridica e assistenza materiale ma soprattutto hanno assistito ad una

presa di coscienza del problema per quanto ancora oggi debolmente considerato. In

ambito europeo grazie all'impegno normativo intrapreso in questa regione del pianeta, a

dispetto che in altri continenti42

, il fenomeno ha subìto un rallentamento di intensità.

Ciononostante le sfide che è costretto a fronteggiare chi è senza uno Stato non sono

affatto diminuite, così come la scarsa consapevolezza che gli stessi Stati continuano ad

avere del problema nel suo insieme.

Che vi sia un rapporto particolare con chi è considerato diverso o estraneo, si è già

visto non essere affatto un fenomeno nuovo nella storia dell'umanità poiché da sempre,

da quando esistono comunità organizzate di uomini, anche in epoche lontanissime e in

ogni parte del mondo, accanto all'idea di appartenenza che chiaramente supporta la

partecipazione al gruppo vi è anche quella di estraniazione. Solo chi è cittadino può

sperimentare a pieno le varie sfaccettature che l'appartenenza comporta, ciononostante

la preoccupazione verso gli “stranieri” anticipa ogni genere di sistema formale di

conferimento o negazione della cittadinanza e si è da sempre manifestata nelle società

politiche attraverso le più diverse dicotomie. Classicamente si ricorda quella tra

“cittadini” e “barbari” che esisteva nella Grecia antica, laddove grandi pensatori come

Aristotele teorizzarono una divisione per classi sulla base dell'idea che l'umanità non

poteva essere una singola e unica specie ma vi erano in essa delle distinzioni

fondamentali da attuare, distinzioni da cui dipendeva l'attribuzione o il diniego totale

degli stessi attributi d'umanità43

.

Se, però, nel caso dei rifugiati le difficoltà si concretizzano in persecuzioni e

quindi nella loro successiva ricerca di un riparo in comunità “altre” da quelle di origine,

nel caso degli apolidi la situazione è ancora più grave perché le comunità sono tutte

“altre” essendo gli stessi considerati estranei in ognuna di quelle esistenti e subendo

quindi una limitazione decisamente violenta della loro esistenza vedendosi negata

qualunque facoltà di determinarsi innanzitutto come membri di una consociazione, nelle

estremizzazioni come esseri umani, e quindi usufruire dei diritti derivanti da tale status.

Come detto, fu soltanto nel secolo scorso che il fenomeno acquistò portata

internazionale, se ne prese consapevolezza e si iniziò a spingere perché venisse

42 Si pensi alle decolonizzazioni dalle quali è derivata la formazione di nuovi Stati e importanti

mutamenti rivoluzionari e politici come nel Continente asiatico per l’India ed il Pakistan, la Corea ed

il Vietnam, nel Continente africano per Congo e Sudan meridionale, e infine nel Continente americano

si ricorda Cuba.43 Derek B. Heater, World Citizenship: Cosmopolitan thinking and its opponents, Continuum

International Publishing, 2002, pag 31

18

affrontato, anche grazie alla nascita delle prime organizzazioni internazionali a carattere

generale come la Società delle Nazioni prima e l'Organizzazione delle Nazioni Unite

dopo. In particolare in seguito alle due guerre mondiali, le conseguenze della negazione

della cittadinanza si percepirono in tutta la loro ferocia. Nell'Europa devastata dai due

conflitti numerosi territori erano stati ceduti sulla base delle alleanze e degli accordi

imposti dai vincitori ai vinti assistendo quindi alla estinzione di Stati preesistenti a

vantaggio della creazione di nuovi con l'effetto che milioni e milioni di persone si

ritrovarono allontanate dai loro paesi o addirittura straniere nel loro stesso luogo di

nascita perché private della propria cittadinanza senza alcuna possibilità di acquisirne

una nuova. Il risultato di tutto fu una tale instabilità a livello sia politico sia sociale che

neppure il successivo intervento dei grandi governi e delle organizzazioni internazionali

riuscì nel tempo a ricreare un qualche equilibrio, anche sulla base del fatto che

successivamente al processo di decolonizzazione e di dissoluzione dei regimi comunisti

come l'URSS e la Jugoslavia, nuove decine di migliaia di persone si videro coinvolte in

guerre civili, mutamenti geopolitici e talvolta anche persecuzioni etniche e religiose, e

così catapultate in un vasto limbo senza via d'uscita.

Ad oggi, calcolare con precisione il numero degli apolidi presenti nel mondo è

un'operazione complicata. Molti governi infatti non censiscono quelli presenti nel loro

territorio, talvolta ne negano in modo tassativo perfino la presenza, per cui gran parte

della popolazione mondiale rientrante in questa categoria non può che essere

individuata in modo approssimativo attraverso delle stime che ovviamente risultano

superiori ai dati ufficiali. Attualmente, invero, si stima che siano circa 15 milioni le

persone prive dello status di cittadino, membri di una delle categorie più fragili di esseri

umani, bisognosi di tutela non solo a livello interno ma soprattutto internazionale

proprio per la vastità e la portata del fenomeno oltre che la costante crescita nell'ultimo

secolo. Ogni giorno affrontano ostacoli e disagi sconosciuti a qualunque cittadino nel

proprio paese o qualunque cittadino straniero residente in altro paese rimanendo tra le

persone più oppresse e vulnerabili. Naturalmente alcune aree geografiche hanno una

maggiore presenza di apolidi rispetto ad altre ma a dispetto di tale disomogeneità di

distribuzione, la questione dell'apolidia rimane un problema globale che riguarda ogni

continente, essendo ancora pochi i governi ad avere adottato misure concrete a tal

proposito. La condizione comune è quella di persone che vivono ai margini della

società, costantemente soggette a discriminazioni attuate per mano non soltanto di

individui privati, come nel traffico di esseri umani, ma degli stessi agenti istituzionali,

soprattutto là dove gli Stati sono portatori di testimonianze deboli in campo di diritti

umani.

Nel 2011 con il cinquantesimo anniversario della Convenzione del 1961 sulla

riduzione dell'apolidia, e la conseguente campagna di sensibilizzazione portata avanti

dall'Alto commissario per i rifugiati, la cornice legale creata per prevenire e garantire

protezione a coloro che si trovano in tale condizione ha visto aumentare il numero degli

19

aderenti agli standard previsti. Ciononostante, essere apolide continua a significare

dover affrontare una sola evidenza: la cittadinanza è “prerequisito essenziale per

l'accesso ai processi politici e giudiziari oltre che per l'ottenimento dei diritti culturali,

sociali ed economici44” in quanto, senza un documento che ne accerti tale status, il

destino che attende coloro che non ne sono in possesso è quello di rimanere intrappolati

in un purgatorio di indefinita migrazione laddove nessuno Stato ne permetta l'entrata al

proprio interno o di indefinita detenzione laddove invece vi siano entrati illegalmente.

La portata di tale fenomeno risulta ai più di difficile comprensione poiché la

maggior parte di noi non pensa mai in maniera significativa alla propria cittadinanza e

alle conseguenze pratiche che essa comporta nella vita di tutti i giorni. Dal momento

della nascita, in cui la si acquisisce automaticamente sia essa per ius sanguinis oppure

per ius soli, fin quasi per tutta la vita sono poche se non addirittura rare le occasioni in

cui ci si rende conto scientemente dell'influenza che essa esercita sulla nostra intera

esistenza. Essa, banalmente, finisce per attirare la nostra attenzione in occasioni

superficiali come le Olimpiadi, quando ci si ritrova ad essere rappresentanti di fazioni

avversarie, contrapposte, ma non se ne tiene conto quando in modo del tutto naturale ci

si rivolge ad una struttura come un ospedale per ricevere assistenza; eppure rappresenta

una precondizione essenziale per il godimento di diritti fondamentali per ogni essere

umano come il diritto di voto, il diritto alla proprietà, il diritto all'assistenza sanitaria,

all'istruzione e perfino il diritto a lasciare il proprio paese. Se non consideriamo primo

fra tutti il diritto di esistere. La difficoltà nella cognizione di tale fenomeno emerge

ancora nel momento in cui bisogna fare i conti con la complessità che il termine

“apolidia” racchiude in se stesso. Contrariamente a quanto avviene generalmente per la

cittadinanza, l'apolidia non è uno status giuridico originario45

ma dipende generalmente

ab initio da una dichiarazione di volontà di un soggetto, l'ente pubblico statuale, che è

appunto titolare del potere di stabilire se un certo individuo è dotato o meno del

necessario collegamento con l'aggregato sociale per poter farne parte a pieno titolo. Gli

apolidi infatti hanno diritti e doveri derivanti dal riconoscimento del loro status, laddove

sia prevista una procedura di riconoscimento46

a livello ordinamentale, sia esso

amministrativo o giudiziario, come il diritto di asilo politico e il dovere di prestazione

del servizio militare47

, ma essendo la loro una condizione con carattere eccezionale,

44 David Weissbrodt, The human rights of non-citizens, 2008, Oxford University Press, pag 9745 Come tale configurabile solo nei pochi casi di nascita da genitori entrambi apolidi negli Stati che

ammettono esclusivamente l'acquisto della cittadinanza per iusius sanguinis. Così in Finlandia per

legge 9 maggio 1941, in Polonia per legge 20 gennaio 1920, in Romania per legge 29 gennaio 1939 o

in Svizzera per legge 25 giugno 1903 revisionata nel 1920.46 Nel nostro Paese l’apolidia di un soggetto può essere riconosciuta sia in sede giudiziaria che in via

amministrativa. Per la certificazione dello status di apolidia in via amministrativa è competente il

Ministero dell’Interno – Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione e la relativa procedura è

disciplinata dall’art. 17 del D.P.R. n. 572/93 “Regolamento di esecuzione della legge 91/92”. Per la

certificazione a livello giudiziario invece competente è il giudice ordinario civile in quanto status

personale ex art.3 CPC47 In Italia è stata la Corte costituzionale con la sentenza 172/99, scritta dal giudice Gustavo

Zagrebelsky, a confermarlo prima che l'obbligo del servizio di leva fosse eliminato con la legge

20

sebbene come la cittadinanza conseguenza autonoma di norme di diritto pubblico, il

loro godimento ne sarà pur sempre limitato.

Naturalmente in quanto fenomeno complesso l'apolidia può avere più di una causa

o concausa e pertanto assumere diverse forme. Laddove sia diretta conseguenza

dell'autonomia che ciascuno Stato ha in materia di attribuzione della cittadinanza si avrà

una apolidia cosiddetta originaria o assoluta. Laddove invece sia conseguenza di fattori

politici come una successione tra Stati si avrà una apolidia cosiddetta successiva o

relativa. In ogni caso, qualunque sia la manifestazione in cui si presenta, essa rimane

un'anomalia da evitare48

avendo come effetto principale quello di mettere l'apolide in

una posizione di svantaggio, privo dei diritti connessi sia allo status di cittadino sia allo

status di straniero, e nelle situazioni di maggior criticità paragonato a res nullius. Molti

dei soggetti apolidi infatti, sebbene ciascuno Stato debba rispettare ogni persona nella

sua qualità di individuo titolare di diritti che gli vengono riconosciuti dal diritto

internazionale, non beneficiano di alcuna protezione diplomatica e nei loro confronti

non esistono limiti di trattamento se pensiamo alle condizioni cui sono spesso costretti

come la mancanza di accesso a servizi basilari quali istruzione e salute insieme alla

costante minaccia di deportazione o illegittima detenzione.

La complessità del termine “apolidia”, nondimeno, si evince in maniera

Martino (legge 23 agosto 2004, n. 226). La Consulta, sciogliendo le perplessità del Tribunale militare

di Torino intorno al caso del "non-cittadino" che risulta legalmente insediato dentro i confini della

nostra Repubblica, ha infatti eliminato ogni dubbio di costituzionalità con l'articolo 52 della

Costituzione, fornendo una interpretazione che non impedisce al legislatore statale di estendere la

titolarità soggettiva del dovere di difesa del “patrio suolo” sebbene la norma costituzionale parli solo

di “cittadini” per indicare chi è tenuto ad adempiere al servizio militare. Le norme del DPR 14

febbraio 1964, n.237, e della Legge 5 febbraio 1992, n.91 non sarebbero state in contrasto con la

nostra carta fondamentale poiché la posizione dell'apolide non può essere paragonata a quella dello

straniero, il quale deve già obbedienza e lealtà ad un altro Stato, pertanto in concreto tale estensione,

al di là della stessa "cittadinanza", è del tutto legittima e anzi afferma che proprio attraverso il

contributo alle operazioni di tutela della pacifica convivenza internazionale - poste in essere anche nel

sociale dal militare durante la sua ferma - l'apolide completerebbe, secondo la Consulta, il quadro

partecipativo e provvidenziale avviato con la Convenzione di New York del 1954. Tutto ciò in

sostegno a quella "comunità dei diritti" che collega uomini e nazioni, ben oltre le apparenti divisioni

di lingua e di passaporto.48 La preoccupazione di evitare l’apolidia e di facilitare l’inserimento dell’apolide nella vita sociale in

Italia ha portato, il nostro legislatore, ad avere un occhio di riguardo verso questo fenomeno. Nella

nostra legislazione si è infatti stati attenti ad evitare la creazione di situazioni di apolidia attraverso la

previsione della perdita della nostra cittadinanza solamente nei casi in cui si sia già in possesso di

un’altra, sia attraverso l’attribuzione della nostra cittadinanza a chi nasca, nel nostro territorio, da

genitori ignoti o apolidi o da genitori che abbiano una cittadinanza non trasmissibile al figlio. Anche a

livello giurisprudenziale si è avuta una particolare tutela verso gli apolidi difatti la nostra Corte

costituzionale nella sentenza n. 1722 del 18 maggio 1999 ha rilevato come un apolide, partecipando ai

diritti previsti dalla comunità nella quale ha stabilito liberamente la propria residenza, debba anche

adempiere ai doveri, difatti osservando che gli apolidi “godono nel nostro Stato di un’ampia tutela,

come prescritto dalla Convenzione di New York del 1954 e dell’abbondante legislazione nazionale in

materia di rapporti civili e sociali, alla stessa stregua dei cittadini italiani si induce a ritenerli parti di

una comunità di diritti la cui partecipazione giustifica la sottoposizione ai doveri”. Sempre la nostra

Corte Costituzionale oramai equipara la tutela verso gli apolidi alla tutela che ha verso i propri

cittadini tanto da giustificare anche un attaccamento reale, dei primi, al nostro contesto sociale con

l’imposizione di questi agli obblighi previsti anche ai cittadini.

21

significativa nella distinzione tra apolidia de jure e apolidia de facto, che sono due

concetti diversi e distinti di cui il primo più ristretto è desumibile esclusivamente dalla

esistenza o dalla inesistenza di norme fornite dallo Stato di nascita o di origine della

persona. L'apolidia de jure possiede una definizione normativa ormai ampiamente

riconosciuta in quanto oggetto specifico di una convenzione internazionale, e

rappresenta il mancato godimento dello status di cittadino secondo il diritto interno

dello Stato in considerazione. A norma dell'art.1 della Convenzione relativa allo status

degli apolidi del 1954, l'apolidia di diritto è la condizione di “una persona che nessuno

Stato considera come proprio cittadino nell'applicazione della sua legislazione.” Da

tale norma risulta chiaro come essa non esaurisca tutte le situazioni di distacco

dell'individuo dal proprio Stato di origine, situazioni che rientrano nella categoria più

ampia e conseguentemente residuale della apolidia de facto, concetto ancora oggi

ambiguo e intorno al quale un eterogeneo dibattito è in corso da decenni. Essa fa

riferimento alla condizione di chi, pur conservando formalmente la propria cittadinanza,

non ha più una patria che possa chiamare “casa” e con essa la protezione diplomatica in

uno Stato terzo perché ad esempio vittima di persecuzione o oppressione politica,

razziale o religiosa. In tal senso potrebbe farsi confusione tra apolidi di fatto e rifugiati

ma è bene tenere distinti questi due concetti poiché pur essendo spesso gli apolidi di

fatto anche riconosciuti rifugiati ai sensi delle convenzioni internazionali che si

occupano della loro definizione e tutela, non è sempre vero il contrario potendo i

rifugiati essere anche apolidi di diritto nel loro stesso Stato di residenza. Ciò che occorre

tenere presente è che nel caso dell'apolidia de facto la perdita di efficacia della

cittadinanza è il frutto del comportamento sia dello Stato di origine sia dell'individuo49

.

Tenuto conto di tale distinzione, bisogna aggiungere che secondo le cosiddette

“Conclusioni di Prato”50

la maggior parte delle persone apolidi nel mondo ricadono

all'interno della categoria dell'apolidia de jure e di conseguenza entro l'ambito di

applicazione della Convenzione di New York del 1954 che all'art.1 come già detto ne

fornisce la definizione legale. Definizione che le “Conclusioni di Prato” assumono come

oggetto di studio e interpretazione cercando di chiarire innanzitutto cosa debba

intendersi per “Stato” e cosa per “legislazione” nella procedura di valutazione e

riconoscimento dello status di apolide de jure in capo a un determinato individuo51

.

49 Vedi A.Marazzi, L'apolidia e il suo accertamento giudiziario, Torino, 1958, pg 3650 Sviluppate da un gruppo di esperti intervenuti all'incontro “The Concept of Stateless Persons under

International Law” organizzato dall'Alto commissariato per i rifugiati e tenutosi a Prato, Italia, nei

giorni del 27 e 28 Maggio 2010, che ha osservato come la definizione di “apolide” contenuta nell'art.

1 della Convenzione del 1954 sullo status di apolide sia ormai entrata a far parte del diritto

consuetudinario internazionale. 51 Secondo l'art.1 della Convenzione sullo status di apolide del 1954, nessuno “Stato” deve avere un

legame di cittadinanza con il soggetto, secondo la sua normativa. Per Stato si intende, sulla base della

Convenzione di Montevideo del 1933, una entità con: popolazione permanente, territorio effettivo,

governo effettivo e capacità di entrare in relazione con altri Stati. Per normativa deve intendersi non

solo la legislazione ordinaria ma anche tutti i regolamenti, i decreti ministeriali, la giurisprudenza

delle corti, gli ordini e le pratiche consuetudinarie, laddove appropriate.

22

Tale categorizzazione è in ogni caso da criticarsi. Innanzitutto perché le due

tipologie sono spesso difficili da differenziare tra loro, essendo alla base di ciascuna un

concetto significativamente differente52

. Se quella de jure ha come causa più frequente il

“conflitto di leggi” tra i due principi cardine in materia di attribuzione della cittadinanza

ed è pertanto correlata alla violazione del diritto di cittadinanza in sé, quella de facto

invece è correlata alla violazione dei diritti che della cittadinanza sono diretta

manifestazione poiché di essa se n'è persa ogni efficacia in seguito a circostanze

pratiche e politiche come guerre, disordini civili e persecuzioni, cambiamenti territoriali

e nei casi più tragici perfino riassetti demografici ispirati da motivazioni etnico-

igieniche. La linea di confine che ne verrebbe fuori non è facile da tratteggiare e ciò

provoca una fondamentale domanda, la questione della protezione all'effetto della

dicotomia creatasi, tenuto conto che da una tassonomia simile deriva una gerarchia tra le

varie manifestazioni d'apolidia e con essa conseguentemente una differenza di

approccio e tutela di un gruppo rispetto all'altro.

Sebbene sia ormai da prevenire per diritto internazionale consuetudinario,

l'apolidia rimane ancora oggi un fenomeno persistente che colpisce un numero elevato

di cosiddetti “orfani internazionali” i quali a seconda del motivo per cui sono apolidi e

del luogo in cui si trovano vedono applicarsi trattamenti differenziati. In alcuni paesi,

infatti, l'apolide ha la titolarità di diritti come il possesso di una identità, elemento che

può sembrare banale a molti, e di documenti di viaggio che gli permettano di spostarsi

per motivi di studio, lavoro o salute mentre in altri semplicemente l'apolide non esiste.

Ciò è dovuto al fatto che pochi Stati nel mondo prevedono procedure interne di

riconoscimento dello status di apolide sebbene a livello internazionale le relative

Convenzioni siano chiare sul punto affermando non soltanto che esse debbano essere

previste ma delineando anche i principali elementi dai quali non si può prescindere:

52 Una definizione legale di apolidia, come detto, la ritroviamo nell'art.1 della Convenzione del 1954 la

quale appunto regola lo status degli apolidi e il loro trattamento. In essa non rientrano gli apolidi di

fatto ai quali si accenna nella Risoluzione n.1 dell'atto finale della Conferenza che elaborò la

Convenzione e che raccomanda un pari trattamento tra de facto e de jure laddove funzionale alla

acquisizione da parte dei primi di una nazionalità che sia efficace. Nonostante quanto stabilito

normativamente dagli strumenti di diritto internazionale, il dibattito sulle caratteristiche dei due gruppi

e su cosa debba o meno essere incluso nella definizione generalmente riconosciuta è piuttosto acceso.

Alcuni fanno rientrare in essa sia i de jure che i de facto principalmente perché non c'è, a loro avviso,

una differenza significativa nella protezione dei bisogni e dei problemi di entrambi i tipi di apolidi.

Altri invece separano nettamente i due gruppi e ne tentano una descrizione accurata, come Hugh

Massey che nel suo Legal and Protection Policy Research Studies: UNHCR and de facto statelessness(UNHCR 2010) ha recentemente definito cosa a suo avviso sia l'apolidia de facto. Egli la definisce

come la condizione di coloro che fuori dal proprio paese di cittadinanza sono incapaci oppure non

vogliono avvalersi della relativa protezione diplomatica che ne deriverebbe. Condizione fondamentale

è pertanto che gli apolidi di fatto si trovino all'esterno del territorio nazionale di appartenenza e

Massey li divide in tre principali sotto-categorie:

• quelli che non godono dei diritti derivanti dalle loro nazionalità

• quelli che sono incapaci di stabilire la loro nazionalità o hanno una nazionalità indeterminata

• quelli che, in un contesto di successione tra Stati, ottengono la nazionalità dello Stato diverso

da quello della loro abituale residenza

23

• non possono porsi scadenze o limiti di tempo e bisognerebbe favorire l'accesso

ai meccanismi relativi evitando ogni genere di discriminazione iniqua;

• deve essere concessa gratuitamente assistenza legale, assistenza linguistica nel

caso in cui vi sia la necessità di un interprete per la comprensione e la traduzione

di documenti, accompagnamento per bambini non accompagnati che hanno

comunque il diritto di essere ascoltati quando hanno la capacità di esprimere un

loro punto di vista in merito alla loro condizione;

• le decisioni devono essere prese per iscritto e obbligatoria ne è la motivazione,

fondamentale non soltanto per la comprensione delle ragioni che hanno spinto o

meno al riconoscimento dello status di apolide ma soprattutto per rendere

efficace ed effettivo il diritto all'appello dell'apolide stesso.

Bisogna inoltre tenere a mente che la richiesta di riconoscimento non è affatto un

procedimento semplice poiché analizzando l'art.1 della Convenzione del 1954 si evince

come per la positiva riuscita di esso sia prevista una prova negativa della condizione di

apolidia ossia che occorra dimostrare di non essere cittadino di nessuno Stato.

L'apolidia emerge quindi come una condizione causata principalmente dai governi

e non dalle azioni dei singoli individui, e il suo persistere come fenomeno trascurato

oltre che il suo espandersi in sempre più frequenti situazioni di crisi è da un lato effetto

delle lacune del diritto internazionale che tradizionalmente lascia ampia discrezionalità

agli Stati nel definire i contorni della propria cittadinanza, dall'altro causa di importanti

implicazioni umanitarie, prima fra tutte la questione del “fulfilment53

” dei diritti umani54

che, come insegnano le guerre mondiali, a dispetto della inalienabilità che per

definizione dovrebbe caratterizzarli, diventano alienabili e alienati dallo Stato-nazione55

e strettamente legate con tale questione varie conseguenze legali, sociali, psicologiche e

politiche.

53 Trad. adempimento, soddisfazione, realizzazione54 Teoricamente chi non è cittadino dovrebbe essere abbracciato dal sistema dei diritti umani in quanto

diritti a vocazione universale ma nella realtà, come anche Hannah Arendt sottolineava, di essi ne è

impedito il godimento laddove manchi una cittadinanza. Richard Bernstein nel suo Hannah Arendt onStatelessness (2005) lo evidenzia chiaramente affermando che paradossalmente la consociazione

umana potrebbe essere divisa in legalmente umani e legalmente non umani, e ciò in quanto la corrente

struttura del sistema internazionale di diritti è “state-based” assumendo la forma di un puzzle inerente

e non immediatamente autoevidente in cui la cittadinanza rimane un concetto limite della sovranità e

della permeabilità dei confini nazionali. 55 Lord Phillimore nel 1923 trattando del problema riguardante il rapporto tra diritto internazionale e

diritti degli individui ha detto che non può considerarsi una universalità di base di questi ultimi poiché

“l'individuo non ha nessun diritto sotto l'ordinamento internazionale perché lui o lei non dovrebbe

essere considerato cittadino del mondo ma un cittadino di un certo Stato” - Come citato in Tiburcio,

Carmen The human rights of aliens under international and comaprative law, [ed] Kluwer Law

International, The Hague, 2001, pag. 267 – considerato che nella teoria tradizionale di diritto pubblico

internazionale gli attori veri sono gli Stati. Il nocciolo del problema risiede infatti proprio nel fatto che

da un lato il diritto internazionale dei diritti umani ha sviluppato l'idea che gli individui devono

ricevere i diritti che sono loro propri sulla base del diritto internazionale stesso e dall'altro vincola se

stesso ad un sistema mondiale di Stati sovrani elargitori di uno status che invece in quanto originario

dell'essere umano andrebbe semplicemente riconosciuto.

24

Tra tutte le conseguenze legali derivanti dall'assenza della cittadinanza, la

principale è la mancanza di diritti legali manifestantesi nella incapacità di sottoscrivere

contratti e di essere parte legale di un negozio giuridico o proprietario di qualcosa,

nell'incapacità di ereditare o ancora di esercitare il diritto di voto sia esso attivo o

passivo, così come nella carenza di documenti di viaggio come il passaporto che

banalmente finisce per essere la più grave delle conseguenze legali diventando

presupposto primario della detenzione di migliaia di persone, le quali non possedendo

documenti che dimostrino la loro identità non possiedono quella libertà di spostamento

che dovrebbe essere innata in ciascun uomo e si ritrovano “immigrati irregolari” in ogni

dove e passibili pertanto d'essere rinchiusi per un tempo assolutamente discrezionale.

Tra le conseguenze sociali si trovano il non accesso all'istruzione, il non accesso

al mondo del lavoro che porta sovente alla estrema povertà, il tutto maggiormente

aggravato dal non possesso di un'assicurazione sanitaria. In molti paesi, inoltre, gli

apolidi non possono registrare matrimonio in quanto istituto contrattuale cui non hanno

accesso perché privi di capacità giuridica, e ciò comporta che non possano stabilire una

famiglia. In tale contesto, il rischio di discriminazione per chi ne è colpito sia in via

originaria che in via secondaria per discendenza è quindi molto alto insieme a quello

d'essere oggetto di traffici umani.

Dalle prime due classi di conseguenze si arriva direttamente a quelle psicologiche,

le quali non sono affatto da sottovalutare. Depressione, disordini da stress post-

traumatico, malattie psicosomatiche, ansia e in qualche caso anche suicidio sono

conseguenze significative di una diminuita qualità della vita. Molti apolidi si sentono

inutili nella loro condizione, subordinati ad un sistema che li rende degli esclusi, degli

emarginati dalla vita pubblica, ansiosi e depressi per la loro condizione di “nullatenenti”

rispetto al mondo dei diritti.

A tutte si aggiungono le conseguenze politiche le quali dovrebbero fungere da

monito per un cambiamento che sembra necessario sotto vari punti di vista. Gli apolidi

non hanno diritto di voto né attivo né passivo e sono quindi una fetta di popolazione che

non ha potere decisionale non potendo intervenire nelle questioni politiche siano esse di

ordinaria gestione della cosa pubblica oppure di straordinaria amministrazione laddove

ad esempio necessarie per produrre un rinnovamento politico-legislativo che ne

promuova gli stessi interessi di autodeterminazione. Accade infatti che le comunità

apolidi rimangano esposte a manipolazioni, sfruttamento e povertà, poiché mancano

degli strumenti ultimi per la comprensione della loro stessa posizione nel vasto

panorama sociale: lavoro e adeguata formazione.

Vengono vissuti come elementi di scarto della società, e pertanto sono a loro

riservate discriminazione ed emarginazione che portano poi verso fenomeni di forte

frustrazione e disperazione per la conseguente percezione di una mancanza di interesse

nei loro confronti e quindi di totale impotenza. Ciò potrebbe scaturire in dimostrazioni

25

violente, manifestazioni e tumulti armati56

e perfino nella formazione di gruppi

terroristici.

Il diritto alla cittadinanza fungerebbe quindi soprattutto da fattore di stabilità

poiché aiuterebbe a creare un sentimento di appartenenza e scoraggerebbe movimenti di

rivolta che non avrebbero in questo modo motivo di esistere. Ecco perché passo

essenziale negli sforzi per combattere e ridurre l'apolidia è quello di assicurare l'accesso

agli strumenti internazionali che tutelano da un lato il diritto alla nazionalità e dall'altro

riconoscono l'apolidia come un problema umanitario dettando le linee guida da seguire

per contemporaneamente prevenirla, ridurla o tutelare chi ne è affetto, primo fra tutti il

rispetto dei principi di uguaglianza e di non discriminazione ormai cuore del sistema.

2 – La definizione ufficiale di apolidia e le categorie esistenti.

Secondo la Convenzione ONU del 1954 relativa allo status delle persone apolidi,

si definisce apolide “una persona che nessuno Stato considera come proprio cittadino

nell'applicazione della propria legislazione”. Stimato che la definizione scelta altro non

è che una descrizione puramente legale del fenomeno, essa è stata classificata come

apolidia de jure in contrapposizione all'apolidia de facto ossia la condizione di chi pur

possedendo un vincolo formale di cittadinanza non può godere degli effetti che

normalmente da tale possesso derivano quali diritti politici, economici e sociali oltre ai

benefici tipici della protezione e dell'assistenza diplomatica. Tra gli studiosi del diritto,

in molti hanno lodato la sinteticità e la chiarezza della formulazione scelta nella

Convenzione ritenendo che così come enunciata essa imposti un criterio unico e

inequivocabile per il riconoscimento di chi è apolide de jure. Molti altri, invece, hanno

visto in ciò un punto debole poiché convinti che affermando un concetto così ristretto di

apolidia si siano lasciati privi di protezione tutti coloro la cui cittadinanza formalmente

vigente è all'atto pratico del tutto inutile, inefficace o impossibile da dimostrare. Dal

loro punto di vista, la definizione di apolidia andrebbe rielaborata e quindi estesa

proprio nel rispetto dello scopo ultimo della Convenzione del 1954 che attraverso la

creazione di un nuovo status internazionale, lo status di apolide, vuole fornire

protezione facendo dipendere da esso tutta una serie di diritti e in maniera vincolante.

L'attenzione per questi soggetti non è affatto un fenomeno nuovo ma, come

accennato nel precedente paragrafo, rimane ancora oggi uno dei punti nodali della

discussione nella lotta all'eliminazione dell'apolidia poiché proprio guardando

all'evoluzione dell'intero sistema in materia si evince come nonostante gli sforzi

compiuti in direzione di un approccio più aperto alla fine si è giunti ad una statuizione

56 Come ad esempio è accaduto per i Rohingya che negli ultimi decenni hanno più volte preso le armi

allo scopo di far cambiare la loro condizione. Essi sono una minoranza etnica e religiosa che vive nel

nord della Birmania e che è stata de-nazionalizzata nel 1982 attraverso la promulgazione di una nuova

legge sulla cittadinanza la quale appunto non include i Rohingya nella lista delle etnie nazionali.

Subendo costanti discriminazioni e abusi, buona parte della minoranza ha lasciato i confini nazionali

ma nonostante la diaspora continuano a subire una condizione di povertà, sofferenza e privazioni nei

luoghi in cui si sono stabiliti quali Bangladesh, Malesia, Arabia saudita e Thailandia.

26

che invece pone limiti. Prima ancora che venisse realizzato un sistema normativo

internazionale di riferimento con le due Convenzioni del 1954 e del 1961,

rispettivamente sullo status degli apolidi e sulla riduzione dell'apolidia, si era tentato in

vari modi di predisporre la tutela di coloro che a quel tempo venivano tutti inclusi nella

categoria collettiva dei “non protetti” insieme ai rifugiati, primo tra questi attraverso il

regime legale dei diritti umani. La Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo nella

sua bozza originale prevedeva infatti al secondo paragrafo dell'articolo 15, che stabilisce

appunto il diritto alla cittadinanza, come i soggetti che non possedessero alcuna

protezione da parte di alcun governo dovessero godere della protezione diretta delle

Nazioni Unite. Essa poneva al centro degli affari dell'ONU questa categoria includendo

chi si ritrovava in tale condizione sia attraverso meccanismi de jure sia attraverso

meccanismi de facto. Se guardiamo all'attuale secondo paragrafo dell'articolo 15, che

contiene invece il divieto di privazione arbitraria della cittadinanza, appare evidente

come tale primo tentativo di protezione sia fallito ma esso non sia risultato del tutto

vano poiché spinse le Nazioni Unite a commissionare uno studio approfondito circa la

situazione di coloro che si sceglieva generalmente di chiamare “apolidi”. L'idea era che

le conclusioni e le raccomandazioni che sarebbero derivate da tale studio57

avrebbero

formato la base per un'azione che colmasse la lacuna di protezione ma ciononostante

l'esito forse più importante cui si giunse fu accordare agli apolidi e ai rifugiati una

definizione e uno status legale indipendenti.

Seguendo la raccomandazione dello studio del 1949 A study of statelessness fu

istituita una commissione ad hoc per l'apolidia e per i problemi ad essa connessi il cui

mandato era determinare se vi fosse la necessità di un nuovo strumento internazionale

che assicurasse la protezione sia ai rifugiati che agli apolidi. La commissione decise che

una convenzione sarebbe stata una risposta appropriata e venne compilato il Progetto di

convenzione relativa allo status dei rifugiati accompagnato da un protocollo relativo allo

status degli apolidi con lo scopo di fornire tutela ai “non protetti”, rifugiati o apolidi che

fossero, con un corrispondente status e un certo numero di diritti. Solo il progetto della

prima divenne vera e propria convenzione nel 1951 dando alla luce la prima definizione

di “rifugiato” internazionalmente riconosciuta58

e creando in tal modo una divisione

definitiva nella categoria collettiva dei “non protetti”. Il progetto di protocollo invece

venne rinviato all'Assemblea Generale provocando conseguenze di vasta portata al

regime legale. Se infatti rifugiati e apolidi avevano fino a quel momento camminato

mano nella mano, adesso si ritrovavano su binari separati ma solo i primi possedevano

uno strumento legale predisposto per la loro tutela.

All'incirca tre anni dopo, nel 1954, divenuto chiaro come le disposizioni di un

57 UN, A study of statelessness, E/112, New York, 194958 Un rifugiato, secondo la definizione data dall'articolo 1 della Convenzione relativa allo status dei

rifugiati del 1951, è qualunque persona che […] si trova fuori dal paese della propria cittadinanza ed è

incapace o non vuole avvalersi della protezione di questo a causa di una ben fondata paura di essere

perseguitato per ragioni di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un particolare gruppo sociale

o opinione politica.

27

protocollo non fossero sufficienti venne convocata una seconda conferenza di

plenipotenziari che adottò la Convenzione relativa allo status degli apolidi. Sebbene i

diritti previsti per i rifugiati fungevano da punto di partenza per la discussione, i diritti

che andavano garantiti agli apolidi non erano interamente identici pertanto il testo della

Convenzione del 1954 pur rassomigliando a quello della Convenzione del 1951 con il

quale condivise uno sviluppo parallelo che ha definitivamente lasciato il suo segno

presentava un certo numero di eccezioni. La Convenzione del 1954, così come afferma

lo stesso “Pacchetto Informazioni e Adesioni” che è usato per promuoverne la ratifica,

fu “il primo strumento internazionale adottato per regolare e migliorare lo status

legale delle persone apolidi e assicurare loro i diritti e le libertà fondamentali senza

discriminazione59”. Il mezzo attraverso il quale tale strumento si prefissa di conseguire

lo scopo di assicurare i diritti fondamentali agli apolidi è il riconoscimento in capo

all'individuo che risponde alla definizione in essa contenuta dello status legale di

apolide, qualifica giuridica dalla quale derivano tutte le garanzie predisposte.

Naturalmente perché tale status possa essere attribuito, aldilà della procedura di

riconoscimento che ciascuno Stato deve allestire a livello interno, occorre che si sappia

cosa intendere per apolide. A tale proposito la Convenzione del 1954 intervenne in

maniera significativa differenziandosi rispetto all'ormai superato progetto di protocollo

poiché proprio all'articolo 1 forniva finalmente la definizione legale di apolide,

eliminando quindi il pericolo di un'arbitrarietà nell'attribuzione dello status a causa della

discrezionalità che gli Stati avrebbero avuto se una definizione non fosse stata

formulata. Il testo sul quale la conferenza di plenipotenziari concordò e che costituisce

l'attuale articolo 1 della Convenzione lasciava fuori un'ampia fetta di quei “non protetti”

che rifugiati non possono considerarsi ma che non sono neppure apolidi in senso

meramente formale poiché che un individuo risponda o meno a tale definizione dipende

semplicemente da una questione di diritto, a dispetto di qualunque connessione fattuale

o psicologica egli possa avere. Anche altri documenti legali internazionali, come il

Progetto di protocollo del Consiglio d'Europa sulla eliminazione dell'apolidia in

relazione alla successione di Stati, hanno adottato tale approccio al problema guardando

solo all'apolide de jure e lasciando fuori dal campo di protezione un ampio numero di

individui, i cosiddetti apolidi de facto. Eppure durante le discussioni riguardanti la

formulazione della definizione di apolidia, la questione circa la mancanza di protezione

per chi fosse de facto non protetto fu sollevata varie volte domandandosi peraltro in più

di un'occasione se il sistema di protezione previsto per i rifugiati fosse costruito in

maniera tale da giustificare che il regime degli apolidi si focalizzasse esclusivamente sui

casi de jure. Alcuni rappresentanti dei governi alla conferenza parlarono in favore

dell'inclusione della apolidia de facto nella convenzione così da offrire protezione a

coloro che rimanevano fuori da ogni riparo perché non rientranti né nella definizione di

59 UNHCR, Information and accession package: the 1954 Convention relating to the status of statelesspersons and the 1961 Convention on the reduction of statelessness, UNHCR, Ginevra 1999, pag. 10

28

rifugiato né in quella di apolide de jure ma ciò incontrò numerose obiezioni, come

quella del rappresentante britannico il quale argomentò che laddove la definizione di

apolidia fosse stata estesa il regime di protezione dei rifugiati ne sarebbe uscito

indebolito violando l'intento della relativa convenzione su cui la comunità

internazionale aveva precedentemente concordato. Nonostante le obiezioni fossero

tante, rimase la fastidiosa sensazione che qualora la convenzione del 1954 avesse

limitato il suo campo di applicazione ai casi di apolidia de jure avrebbe fallito nel

raggiungimento del proprio scopo originale poiché, pur operando cumulativamente con

la Convenzione dedicata ai rifugiati, nel divario intercorrente tra le rispettive definizioni

vi sarebbero stati individui lasciati privi di qualunque scudo60

.

Si raggiunse pertanto un compromesso: mentre gli stati membri avrebbero avuto

l'obbligo di concedere i benefici previsti dalla convenzione soltanto agli apolidi di

diritto, in una raccomandazione contenuta nell'atto finale gli stessi stati venivano

chiamati a considerare la possibilità di allargare la protezione a coloro che lo erano di

fatto61

. Tale raccomandazione in quanto tale non risultava vincolante ma suo malgrado

spinse gli Stati rimasti desiderosi di escludere dalla protezione alcune categorie di

soggetti a creare un dibattito su cosa si dovesse davvero intendere per apolidia de facto

creando ulteriore confusione quantunque la formulazione dell'articolo 1 dell'Atto Finale

che apparentemente lasciava ampio spazio all'interpretazione fosse in realtà, oltre che

restrittiva, chiara sulle caratteristiche per essere inclusi in tale categoria: il possesso

attuale di una cittadinanza legale e la rinuncia alla protezione del proprio stato di

cittadinanza per ragioni considerate valide. Tale scelta verbale, tenuto conto che a

livello internazionale riguardo alle ragioni da considerare valide per la rinuncia alla

cittadinanza ampissimo consenso ricadeva sulla “paura fondata di persecuzione”, aveva

all'atto pratico il difetto di avvicinare gli apolidi di fatto ai rifugiati e in tal modo

anziché estendere il raggio della protezione finiva per confermare come apolidi in senso

proprio fossero coloro sui quali la definizione ufficiale aveva fatto perno: chi mancasse

di un legame legale di cittadinanza con qualunque Stato. Per fortuna, possedendo una

formulazione aperta, la discrezionalità degli Stati in merito alle ragioni da prendere in

considerazione come valide si è di volta in volta affidata agli studi che dalla

promulgazione della Convenzione sono stati compiuti su tale categoria di apolidi,

migliorando così, al netto delle definizioni, le opportunità di tutela.

Premesso quanto appena descritto, comprendere quale sia la determinazione più

60 Inoltre la difficoltà di fornire una prova dell'apolidia de jure ai fini dello status di apolide risultava

notevole proprio per la difficoltà di provare l'assenza di un legame di cittadinanza con ciascuno degli

stati presenti al mondo. Vedi oltre Nehemianh Robinson, “Convention relating to the status ofstateless persons – its history and interpretation”, UNHCR, Geneva 1955

61 Art. 1 Final Act of the Convention relating to the status of stateless persons: “The Conference

recommends that each Contracting State, when it recognises as valid the reasons for which a person

has renounced the protection of the State of which he is a national, consider sympathetically the

possibility of according to that person the treatment which the Convention accords to stateless

persons”, UN, 1954

29

appropriata e quale la migliore risposta al fenomeno dell'apolidia si conferma qualcosa

su cui rimanere perplessi. Guardando al regime legale in materia e alla dottrina legale

che nel corso dei decenni se ne è occupata appare evidente come esistano due differenti

piani ermeneutici e con essi delle conseguenti discrepanze a livello operativo. Basando

la propria scelta esclusivamente sul sistema legale internazionale di riferimento, si

sarebbe portati a concludere che apolidi siano soltanto coloro ai quali fa riferimento

l'articolo 1 della Convenzione. Tuttavia, essa stessa compie un passo ulteriore aprendo

una possibilità a persone che mancano di una cittadinanza effettiva pur mantenendone il

vincolo formale. Ecco che allora, consapevoli di come la verità si nasconda spesso nelle

pieghe, non sembri affatto sbagliato ritenere utile se non addirittura consigliabile un

approccio mediatore che vada oltre la stretta definizione ufficiale ma che non perda di

vista il fine ultimo dell'intero sistema ossia riconoscere l'apolidia per combatterne le

devastanti conseguenze quali alienazione e annientamento sociale. In tale direzione la

divisione nelle due categorie de jure e de facto permane ma per comprenderne a pieno

lo scarto l'approccio definitorio deve ruotare attorno al sistema dei diritti umani

ponendo al centro come compromesso tra i due piani proprio il concetto di cittadinanza

come diritto umano primario che, laddove ineffettivo, funge da linea di demarcazione

fondamentale con ciò che non deve essere oggetto di protezione, potendosi così

affermare che a prescindere dal fatto che la mancanza del legame legale sia in senso

formale o in senso sostanziale quando la cittadinanza difetta si ha perfezionamento

dell'apolidia. Gli apolidi tutti infatti hanno come caratteristica principale la violazione di

quello che nel primo capitolo abbiamo specificato essere il ruolino di marcia dei diritti

umani nel loro complesso e cui spesso si fa riferimento come “il diritto ad avere diritti62

perché operante sia da diritto che da apripista al godimento di tutti gli altri. In questo

senso l'apolidia lancia una sfida: riconfermare l'universalità oltre la cittadinanza.

3 – La sfida dell'apolidia e i principi fondamentali di uguaglianza e non

discriminazione

Da quando le Nazioni Unite pubblicarono nel 1949 lo studio sull'apolidia, lo

sviluppo del diritto internazionale dei diritti umani ha in qualche modo modificato la

centralità del concetto di Stato-nazione poiché si è assistito ad un riconoscimento degli

individui come portatori di diritti e doveri per se in virtù della comune umanità. Il

diritto internazionale dei diritti umani ha infatti regolato le relazioni tra Stati e individui

dotando questi ultimi della capacità di chiedere non solo la promozione ma anche il

rispetto e la protezione dei loro diritti fornendo un'intelaiatura all'interno della quale le

azioni degli Stati possano essere contestate proprio per il fatto che alla base vi è un

principio di universalità che prescinde da qualunque cittadinanza o dall'assenza di

questa. Tenendo a mente tale principio l'apolidia, che è in se stessa una violazione del

62 Tale espressione fu pensata dal Capo di Giustizia della Corte Suprema degli Stati Uniti Earl Warren

nel caso Trop vs. Dulles nel 1958.

30

diritto alla cittadinanza, non dovrebbe minare la capacità degli individui di godere degli

altri diritti umani perché proprio la loro vocazione universale dovrebbe fungere da

catalizzatore per la loro piena realizzazione. Ciononostante, in realtà, la relazione tra

cittadinanza e diritti umani rimane simbiotica. Essa continua ad esercitare un ruolo

importante in molti aspetti della vita di una persona e il reale godimento dei diritti

umani è fatto dipendere in prima battuta dall'appartenenza ad un contesto nazionale

sebbene l'individuo sia in via di principio un soggetto di diritto internazionale.

La sfida che ne deriva per gli Stati è proprio quella di riaffermare l'universalità

che si è posta alla base del sistema dei diritti umani poiché non può esistere un divario

tra teoria e pratica in base al quale la cittadinanza che non dovrebbe mai fungere da

precondizione finisce invece per essere tale con conseguenze disastrose. Chiaramente

non è un risultato facile da raggiungere perché gli Stati dovrebbero al tempo stesso da

un lato affermare l'importanza della nazionalità e promuovere il diritto di ognuno alla

cittadinanza e dall'altro assicurare che la mancanza di essa non sfoci in vulnerabilità,

sfruttamento e violazione dei diritti umani, senza dimenticare peraltro quanto a

complicare il tutto ci si metta il concetto di sovranità nazionale.

L'incapacità che gli Stati dimostrano nel far fronte a questa sfida e nell'offrire una

protezione adeguata alle persone che si trovano in una condizione di vulnerabilità

perché prive di cittadinanza non fa altro che aumentare il costo e l'impatto della apolidia

stessa. Alla sfida così come posta si aggiunge peraltro anche la minaccia verso i principi

generali di uguaglianza e non discriminazione che possono essere considerati veri e

propri diritti e che insieme a quello alla cittadinanza fungono da cardine fondamentale

per un approccio che aspiri ad essere risolutivo verso il problema dell'apolidia proprio

perché per la natura interconnessa e universale del sistema dei diritti umani laddove

questi tre risultino compromessi tutti gli altri si ritrovano esposti a violazione ed

erosione. Essi costituiscono prerequisito essenziale nella promozione e nella protezione

dei diritti umani tutti degli apolidi che come accennato più volte sono una porzione di

popolazione mondiale assolutamente vulnerabile, ed è per tale motivo che i principali

trattati sui diritti umani, siano essi internazionali o regionali, prevedono al loro interno

delle clausole che esplicitano proprio il diritto all'uguaglianza e il diritto alla non

discriminazione. Alcuni ne fanno addirittura il loro obiettivo principale come ad

esempio nel caso della Convenzione sulla eliminazione di tutte le forme di

discriminazione razziale.

Per quanto riguarda il diritto alla cittadinanza, questi assume la caratteristica di

diritto umano fondamentale e inalienabile attraverso l'articolo 15 della Dichiarazione

Universale dei Diritti dell'Uomo che come visto nel precedente capitolo è ad oggi

ampiamente considerata manifestazione di diritto consuetudinario internazionale e come

tale pertanto vincolante nei confronti di tutti gli Stati che compongono la comunità

internazionale. La cittadinanza è un concetto a due dimensioni, una nazionale e una

internazionale, al quale si collegano attributi differenti a seconda della prospettiva da

31

cui la si osserva. I diritti e gli obblighi che da essa derivano, infatti, non coincidono

sempre da un ordinamento all'altro proprio per la discrezionalità che gli Stati

posseggono in materia ma occorre in ogni caso tenere presente che un minimo comune

denominatore che non può essere derogato esiste e che esso corrisponde con gli

standard previsti a livello internazionale. Ciononostante, la realizzazione pratica del

diritto alla cittadinanza rimane un tema sensibile e difficile perché spesso altamente

politicizzato per la sua vicinanza a tematiche calde come quelle della migrazione

irregolare e delle minoranze.

Il diritto all'uguaglianza63

assume valenza di diritto umano fondamentale a portata

universale per la prima volta nel 2008 attraverso la Dichiarazione di principi sulla

uguaglianza che stabilisce appunto la titolarità di esso in capo a chiunque a prescindere

dalla propria cittadinanza o dalla mancanza di essa. Questa dichiarazione chiarisce cosa

debba intendersi per uguaglianza e soprattutto che affinché vi sia realizzazione piena ed

efficace di essa è necessario che siano rispettati individualmente e collettivamente

alcuni elementi:

• il diritto al riconoscimento del pari valore e pari dignità di ogni essere umano;

• il diritto alla uguaglianza davanti alla legge;

• il diritto ad una eguale tutela e beneficio della legge;

• il diritto di essere trattati con lo stesso rispetto e considerazione di tutti gli altri;

• il diritto di partecipare su base equa con gli altri in ogni area della vita politica,

culturale, economica, sociale o civile.

L'ex relatore speciale sui diritti dei non-cittadini delle Nazioni Unite, David

Weissbrodt, ha affermato che tutte le persone dovrebbero in virtù della loro essenziale

umanità godere di tutti i diritti umani a meno di distinzioni eccezionali funzionali a

servire uno scopo legittimo dello Stato, come ad esempio la sicurezza nazionale, e solo

in quanto proporzionali a tale scopo. Conseguentemente, gli Stati dovrebbero assicurare

a chiunque una legislazione che rispetti il principio di uguaglianza, e con esso il divieto

di non discriminazione, includendo in ciò anche gli apolidi64

. Ovviamente, perché vi sia

rispetto sostanziale e piena efficacia di tale principio non serve che si adotti il medesimo

trattamento in ogni situazione ma al contrario sulla base di certe circostanze risulti

63 Nel 2008, su spinta di Equal Rights Trust, una commissione di esperti composta da 128 membri

provenienti da tutto il mondo ha promulgato una dichiarazione che riflette concetti e giurisprudenza

così come sviluppati nei contesti legali nazionali, regionali e internazionale e che approntando un

approccio unificato verso uguaglianza e non discriminazione si prefissa una maggiore protezione dei

vulnerabili. All'articolo 1 difatti tale dichiarazione definisce il diritto all'uguaglianza come il diritto di

tutti gli esseri umani ad essere uguali in dignità, ad essere trattati con rispetto e considerazione e a

partecipare su base paritaria in ogni area della vita economica, sociale, politica, culturale e civile. 64 Il comitato delle Nazioni Unite sulla eliminazione della discriminazione razziale ha difatti statuito che

sebbene in linea generale uno Stato possa permettersi di distinguere tra cittadini e non cittadini, questo

debba essere visto come una eccezione al principio di uguaglianza e quindi laddove tale eccezione

debba operare per volontà dello Stato dev'essere costruita in modo da evitare di eludere il divieto

fondamentale di discriminazione. Cfr. UN Committee on the Elimination of Racial Discrimination,

General recommenadation no. 30: discrimination against non citizens, 1/10/2004

32

necessario trattare in maniera differente gli individui proprio per affermarne il loro equo

valore e per migliorarne le capacità di partecipazione alla società come pari. Nel

contesto dell'apolidia, nel quale il principio di uguaglianza abbiamo detto svolgere un

ruolo cardine, è proprio questa dimensione sostanziale che deve essere applicata in

modo da assicurare che le loro particolari debolezze siano prese in considerazione

laddove ci si attivi per risolverle.

La Dichiarazione di principi elaborata nel 2008 non si limita però solo

all'uguaglianza. Essa identifica, nel suo articolo 4, il diritto alla non discriminazione

come diritto umano fondamentale affermando che seppur indipendente rispetto

all'uguaglianza si possa considerare in esso sussunto. Nel successivo articolo 5

stabilisce tutta una serie di motivi per i quali la discriminazione è vietata specificando

peraltro che essa dev'essere sempre proibita quando provoca svantaggi sistemici,

quando indebolisce la dignità umana oppure quando incide negativamente sul

godimento di diritti e libertà. La discriminazione, secondo la Dichiarazione, può essere:

• diretta quando una persona o un gruppo di persone è trattata, per una delle

ragioni elencate, in maniera meno favorevole rispetto a un'altra persona o un

altro gruppo in condizioni paragonabili;

• indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri

possono mettere persone con uno status o una caratteristica associata a uno o più

dei motivi vietati in una posizione di svantaggio ad altre persone, a meno che

tale disposizione, criterio o prassi non sia oggettivamente giustificata da finalità

legittima e i mezzi per il suo conseguimento siano appropriati e necessari;

• intenzionale o non intenzionale a seconda che si abbia o meno l'intento di colpire

una certa categoria di persone oppure lo svantaggio creato sia un risultato

accidentale di altre scelte.

L'emarginazione compiuta ai danni degli apolidi, sia all'interno che all'esterno del

paese di abituale residenza, è spesso legata a razza, etnicità e nazionalità (o assenza di

essa) che la Dichiarazione riconosce tra le cause principali di discriminazione per cui

può serenamente presumersi che è proprio affrontando questa che possa essere

combattuta l'apolidia, sebbene ovviamente tale approccio non sia da considerarsi

sufficiente tenuto conto del fatto che l'apolidia è una violazione dei diritti umani che

non si verifica come mero risultato di discriminazione ma piuttosto come la

conseguenza di una serie di concause tra cui anche la discriminazione per le diverse

ragioni di genere, religione, credo politico, appartenenza etnica, matrimonio o stato

civile insieme tra le altre ai conflitti normativi che intervengono tra le legislazioni

nazionali in materia di concessione della cittadinanza o all'improvviso mutamento delle

basi giuridiche di riferimento laddove intervengano successioni di Stati.

33

Capitolo Terzo - Le cause dell'apolidia

Alla domanda su come si produca l'apolidia, che spesso peraltro è la prima a venir

fuori quando si affronta l'argomento, le cause delle quali si potrebbe colorare la risposta

sono diverse. L'Ufficio dell'Alto commissariato per i rifugiati nel Pacchetto di

informazione e adesione alle Convenzioni del 1954 e del 1961 ne elenca dieci65

ma a

voler mantenere un approccio semplificatorio, cercando da un lato di delineare i

meccanismi principali che portano all'assenza di cittadinanza e dall'altro di sviluppare

una considerazione tale da attivarsi per la prevenzione, si possono riscontrare quattro

categorie di cause prime e con esse pertanto valutare l'efficacia effettiva della reazione

della comunità internazionale.

1 – Le cause tecniche

Come diretta conseguenza dell'autonomia che gli Stati possiedono in materia di

cittadinanza circa la loro propria regolamentazione interna, l'apolidia può essere il

risultato non intenzionale di un conflitto tra la legislazione domestica di due o più paesi.

In particolare, l'esistenza di due contrastanti principi sui quali si basa l'attribuzione della

cittadinanza ad un bambino alla nascita – ius sanguinis e ius soli – è stata in molte

occasioni causa di numerosi casi di apolidia, poiché ad esempio un bambino nato nel

territorio di uno Stato che applica lo ius sanguinis da genitori cittadini di uno Stato che

applica lo ius soli non potrà acquisire nessuna cittadinanza in quanto venuto al mondo

in territorio straniero rispetto a quello di nazionalità dei genitori e nel contempo fuori

dal campo di applicazione del principio generale della discendenza di quest'ultimo.

Naturalmente, in un contesto globale in cui l'interazione tra popoli lontani è

all'ordine del giorno, in cui sempre più frequentemente avvengono matrimoni misti e i

confini nazionali vengono costantemente superati, che l'apolidia in quanto conflitto

negativo di leggi sia un rischio sempre presente non può essere ignorato tenuto conto

soprattutto che anche laddove le legislazioni siano corrette e accettabili prese

singolarmente spesso purtroppo, aldilà delle misure introdotte dagli Stati di fronte ad

una crescente mobilità, quando applicate in combinato disposto creano un vuoto.

Occorre tuttavia notare che tra i due principi, quello che assume un ruolo centrale

in materia di apolidia è lo ius sanguinis, poiché le legislazioni che lo adottano possono

non soltanto contribuire nella creazione di nuovi casi di apolidia ma se applicate in

maniera rigida possono addirittura provocarne la perpetuazione in via ereditaria

trasmettendo la condizione di apolide di generazione in generazione. Il problema è

aggravato poi quando al principio dello ius sanguinis si aggiunge una legislazione con

una struttura basata sulla discriminazione di genere. Tanti degli Stati che aderiscono alla

65 Come segue: 1) conflitto di leggi 2) cessione di territorio 3) leggi relative al matrimonio 4) pratiche

amministrative 5) discriminazione 6) leggi relative alla registrazione delle nascite 7) applicazione del

principio dello ius sanguinis 8) denazionalizzazione 9) rinuncia alla cittadinanza 10) perdita

automatica della cittadinanza per effetto di legge

34

dottrina dello ius sanguinis infatti prevedono che la trasmissione della cittadinanza

avvenga soltanto da padre a figlio. Ciò ha l'effetto drammatico di moltiplicare il rischio

di apolidia, potendo il bambino fare affidamento per l'acquisto della cittadinanza solo su

un genitore che laddove non lo riconosca come figlio legittimo o sia sconosciuto,

apolide, deceduto o riluttante dal compiere i passi necessari per assicurare l'acquisto

della cittadinanza lo condannerà all'invisibilità.

Queste considerazioni hanno spinto vari studiosi a suggerire l'adozione universale

dello ius soli come principio cui appoggiarsi nella lotta alla apolidia, argomentando tale

scelta di dottrina con l'evidenza che ogni bambino nasca da qualche parte e che questo

luogo di nascita sia di solito relativamente più facile da stabilire66

oltre che non

influenzato dal fatto che il bambino sia legittimo o illegittimo, che i genitori siano

cittadini, stranieri, immigrati clandestini o perfino apolidi. Di contro, altri studiosi

hanno opposto l'argomentazione che la nascita in un determinato luogo può essere un

evento del tutto casuale e per nulla rappresentativo di un legame genuino, che casi di

apolidia originaria si siano verificati anche in paesi la cui legislazione è basata sulla

dottrina dello ius soli, che questa sia caratterizzata da una certa vulnerabilità di fronte a

forme di abuso come l'eventualità di un turismo delle nascite e che l'idea di una

adozione di un'unica dottrina per l'attribuzione della cittadinanza alla nascita da parte di

tutti gli Stati non è una soluzione né realistica né desiderabile poiché la disomogeneità

che tra questi esiste non vi si adatterebbe bene.

La tecnica scelta dalla Convenzione del 1961 che raggiunge un compromesso tra i

due principi è da preferire poiché, con l'obiettivo di un equilibrio nella loro

applicazione, accetta sia il luogo di nascita sia la discendenza come prova di un legame

genuino e di conseguenza prescrive adattamenti ai paesi che aderiscono strettamente

all'una o all'altra dottrina intervenendo sui vuoti normativi generati di volta in volta dal

conflitto negativo tra leggi e costringendo ai sensi dell'articolo 1 a concedere la

cittadinanza in ogni caso in cui la persona sarebbe altrimenti apolide.

Insieme allo scontro tra ius sanguinis e ius soli dal quale viene generata la

cosiddetta apolidia originaria poiché principi che intervengono al momento della

nascita, vi sono cause tecniche generatrici della cosiddetta apolidia derivata che operano

in un momento successivo della vita di una persona modificandone lo status civile. Tra

queste troviamo il matrimonio, il divorzio e l'adozione che proprio per il riconoscimento

che gli Stati da sempre riservano ai legami familiari fungono da indicazione circa

l'esistenza o la non esistenza di un nesso reale di cittadinanza. Storicamente per esempio

lo status legale della donna è sempre stato considerato “dipendente” da quello del

marito tanto che in conseguenza dei voti del matrimonio questa perdeva il suo legame

autentico con il suo stato di cittadinanza originaria per assumerne uno nuovo con quello

del suo sposo. Tale concezione era talmente radicata che molti stati la tradussero in

66 International Union for Child Welfare, Stateless children – A comparative study of nationallegislation and suggested solutions to the problem of statelessness of children, Geneva:1947

35

leggi prescrivendo che in caso di matrimonio con uno straniero la donna

automaticamente cambiasse cittadinanza. Oggi, alcune di queste leggi senza alcun

dubbio costruite su una discriminazione di fondo sono ancora in vigore e operano

nonostante l'ormai riconosciuto pericolo di apolidia che da esse può derivare. Quando

infatti contrariamente la legislazione dello Stato dello sposo non riconosca affatto un

acquisto automatico della cittadinanza in capo alla sposa attraverso il matrimonio, la

donna si ritroverà apolide67

. Allo stesso modo, le donne possono essere a rischio di

apolidia anche nel caso in cui si verifichi divorzio tra i due coniugi poiché quando il

matrimonio è sciolto la cittadinanza acquistata in via automatica verrà altrettanto

automaticamente persa con nessuna garanzia di riacquisto di quella originaria.

Ovviamente, in un contesto globale che come abbiamo detto vede aumentare il numero

di matrimoni tra cittadini di differenti Stati, la permanenza di simili legislazioni non può

essere ignorata perché rappresenta una fonte considerevole di apolidia e come tale

necessita di un sforzo armonizzatore che scongiuri il più possibile conflitti negativi tra

norme.

La Convenzione del 1961 sulla riduzione dei casi di apolidia, nel primo paragrafo

del suo articolo 5, pone un obbligo semplice per gli Stati parte non giudicando affatto la

legittimità complessiva delle prescrizioni circa la perdita di nazionalità in combinazione

con un cambiamento dello status personale ma fornendo al contrario esempi di

situazioni dalle quali possa generarsi apolidia e nelle quali quindi tale perdita debba

essere dagli Stati “condizionata” al possesso o all'acquisto di un'altra cittadinanza, o

meglio al previo possesso o all'assicurazione dell'acquisto di un'altra cittadinanza.

L'articolo compie un passo notevole rispetto ad altri strumenti di diritto internazionale

poiché non si limita ad un semplice divieto di discriminazione utilizzando termini neutri

dal punto di vista del genere ma inserisce accanto a matrimonio e divorzio anche i casi

di adozione internazionale come circostanze dalle quali, se implementato correttamente,

potrebbe di per sé essere sufficiente a prevenire l'insorgere dell'apolidia.

Così come alcune legislazioni nazionali prescrivono la perdita della cittadinanza

quando un individuo ne sposa un altro di differente nazionalità perché fondate sull'idea

che l'atto del matrimonio faccia venir meno il legame genuino e il vincolo di fedeltà con

lo Stato originario, usando una motivazione identica alcuni Stati prescrivono la perdita

automatica della cittadinanza per gli individui che emigrano e prendono residenza a

lungo termine in suolo straniero, in quanto visto come una forma di rinuncia volontaria

alla propria originaria cittadinanza. Questa pratica legislativa non è limitata ad una

particolare regione del mondo poiché esempi di Stati che attualmente la prevedono sono

Haiti, Malawi, Sudan e India68

. In alcuni casi, questa perdita può essere evitata

attraverso una regolare registrazione, presso l'ambasciata dello Stato di cittadinanza,

67 UNHCR, Nationality and statelessness. A handbook for parlamentaries, 2005, pag.3368 Haiti ex articolo 13 della sua Costituzione del 1987; Malawi ex articolo 25 della sua legge di

cittadinanza del 1966; Sudan ex articolo 13 della sua legge di cittadinanza del 1957 e India ex articolo

10 della sua legge di cittadinanza del 1955.

36

della volontà di rimanerne cittadino, ma spesso gli individui non sono informati di

questa possibilità o talvolta addirittura le procedure relative sono ostacolate. Il problema

risiede nel fatto che lo Stato di accoglienza ha piena autonomia nella scelta dei criteri

che una persona deve rispettare per essere naturalizzata, come un periodo di residenza

legittimo e permanente e condizioni aggiuntive quali la conoscenza della lingua e della

cultura, con la conseguenza che la perdita della cittadinanza a coloro che prendono

residenza all'estero spesso non coincide con l'acquisto della cittadinanza dello Stato di

nuova residenza intervenendo pertanto apolidia. Strettamente legata alla perdita della

cittadinanza, nella misura in cui non è sempre possibile una differenziazione, è la

privazione della cittadinanza. Solitamente viene impiegata come misura punitiva dallo

Stato nei confronti dell'individuo a cui la cittadinanza è ritirata e affinché ciò avvenga

occorre che questi abbia compiuto un certo comportamento che nello specifico può

concretizzarsi nel servizio volontario nelle forze armate di un paese straniero, nella

commissione di atti contrari agli interessi vitali dello Stato, nell'essere destinatario di

una pena detentiva entro un certo periodo dopo la naturalizzazione o nell'acquisto della

cittadinanza attraverso false dichiarazioni o frode. I più vulnerabili di fronte a tale

misura sono i cittadini per naturalizzazione poiché in possesso di un legame che non

esiste dalla nascita ma al contrario intervenuto in un momento successivo.

Così come la cittadinanza possa essere persa o ritirata, alcuni Stati prevedono che

ad essa si possa anche volontariamente rinunciare e ne tutelano la libertà. Lo scenario

ideale sarebbe quello in cui la rinuncia ad una cittadinanza corrisponda con la

naturalizzazione in un altro Stato, ma purtroppo non tutti gli Stati prevedono il previo

acquisto di una nuova cittadinanza prima di concedere all'individuo di rinunciare a

quella originaria per cui il rischio che il soggetto resti apolide, anche in via permanente

laddove le procedure non fossero completate con successo, è sempre presente in tali

circostanze. Risulta evidente infatti che l'incongruenza che sussiste nell'essere in grado

o addirittura richiesto di perdere o rinunciare alla propria nazionalità senza la garanzia

di acquisirne una alternativa possa facilmente portare all'apolidia, o in casi estremi

addirittura spingere all'apolidia coloro che desiderano avvantaggiarsi delle procedure

semplificate di naturalizzazione.

La Convenzione del 1961 sulla riduzione dell'apolidia agli articoli 6, 7 e 8 si

occupa rispettivamente della perdita, della privazione e della rinuncia alla cittadinanza

stabilendo il principio generale che a meno che la persona interessata non ne possegga o

acquisti un'altra e determinate condizioni siano contemporaneamente rispettate la sua

attuale cittadinanza non possa essere toccata.

2 – Privazione arbitraria della cittadinanza

Le parole “privazione arbitraria della cittadinanza” denotano la causa di gran

lunga più complessa e delicata di apolidia, tanto che la casistica che rientra in tale

categoria è la più grave di tutte quelle presenti nel mondo. Peraltro il problema della

37

privazione arbitraria della cittadinanza spesso si acuisce in circostanze in cui la politica

di nazionalità è già sotto pressione con un rischio di apolidia accresciuto da fenomeni

come la successione di Stati o la migrazione forzata.

Storicamente, i casi che per primi dominarono l'attenzione della comunità

internazionale furono proprio quelli a cui noi oggi attribuiamo l'etichetta di privazione

arbitraria della cittadinanza, poiché le campagne di denazionalizzazione69

di massa che

intervennero durante la prima e la seconda guerra mondiale furono esempi forti dei

pericoli che si nascondono nel potere degli Stati nazionali di definire le proprie “regole

di uscita70

” tanto da motivare gli Stati a includere nella Dichiarazione universale dei

diritti dell'uomo un divieto di privazione arbitraria della cittadinanza e gradualmente

introdurre limiti alla sovranità statale in materia di attribuzione della cittadinanza.

Occorre comunque notare come il termine “privazione” non debba essere inteso

solo nel senso di “denazionalizzazione” ma al contrario in maniera più ampia avendo il

divieto di arbitraria privazione un impatto sui poteri dello Stato anche in relazione alle

decisioni di conferimento della cittadinanza alla nascita o per naturalizzazione.

L'arbitrarietà è un concetto ricorrente nel contesto del diritto internazionale, in

particolare nel contesto dei diritti umani, che implica una discrezionalità capricciosa e

perfino tirannica, dipendente dalla volontà o dal piacere di taluno o da una sua

preferenza o mera opinione. Perché un atto statale, nel nostro caso l'atto di privazione

della cittadinanza, non sia considerato arbitrario è necessario che vi sia conformità alla

legge di riferimento la quale solitamente disciplina anche i casi in cui di questa si possa

essere privati, ma poiché può accadere che in situazioni di abuso di potere la stessa

legge sia arbitraria su tali basi gli studiosi hanno identificato due ulteriori circostanze in

cui la privazione della cittadinanza può considerarsi arbitraria:

• quando la privazione non è accompagnata dall'iter procedurale dovuto o giusto

processo includendo in questo anche revisione e appello;

• quando la privazione è discriminatoria facendosi rientrare comunemente in

questa circostanza i casi di “diniego di cittadinanza”.

2.1 – Privazione illegale e l'assenza di giusto processo

Come poc'anzi detto, la primissima formalità o condizione procedurale da

rispettare affinché una decisione di privazione non possa dirsi arbitraria è che questa sia

conforme alla legge in vigore per la materia. Considerato pertanto che la privazione

della cittadinanza deve essere prescritta per legge, questo criterio della conformità

assume una certa importanza poiché rende le decisioni delle autorità prevedibili e

69 Tra gli esempi più noti vi è quello del regime nazista che con la legge del 1935, una delle cosiddette

leggi di Norimberga, emanò numerosi decreti di denazionalizzazione come vero e proprio strumento

di persecuzione. La cittadinanza tedesca veniva mantenuta solo alle “persone di sangue germanico o

affine”, così avviando i primi passi verso ciò che tutti conosciamo come l'olocausto ai danni di ebrei,

romani e altri. 70 Asbjorn Eide, Citizenship and the minority rights of non-citizens, Working Paper, UN 1999, par. 19

38

soprattutto si adopera affinché non siano decisioni frettolose dovendo rispettare alcune

condizioni sia a livello formale sia a livello sostanziale. La seconda formalità da

rispettare perché non vi sia arbitrarietà è che siano osservate precise garanzie

procedurali cosiddette di giusto processo. Più specificamente, la decisione di diniego o

privazione vera e propria deve sempre essere formulata per iscritto e motivata,

all'individuo deve essere fornita l'opportunità di adire un tribunale indipendente ai fini

sia della revisione che dell'appello. Tali garanzie fungono da strumento contro l'apolidia

poiché attraverso la possibilità di ribaltare una decisione illegittima, irragionevole o

discriminatoria si munisce l'individuo della facoltà di far rivalutare la propria posizione.

La Convenzione del 1961 sulla riduzione della apolidia non contiene un divieto

generale di privazione arbitraria della cittadinanza in base al quale queste formalità

procedurali debbano essere garantite ma al paragrafo 4 del suo articolo 8 richiama i tre

elementi principali che uno Stato deve rispettare nell'esercizio legittimo del suo potere

di privazione e quindi perché una sua decisione non possa dirsi arbitraria:

• che vi sia accordo con la legge di riferimento;

• che sia previsto diritto di difesa per le persone interessate;

• che si tratti di tribunale indipendente e altro rispetto a chi ha emanato la

decisione, presupponendo pertanto diritto di revisione e appello.

2.2 – Privazione discriminatoria e il “diniego di cittadinanza”

La privazione discriminatoria della cittadinanza descrive sostanzialmente la

situazione in cui uno Stato trattiene o ritira la cittadinanza di un individuo sulla base di

una distinzione ritenuta irragionevole e insostenibile, perché ad esempio i motivi che vi

stanno dietro si basano su una qualche caratteristica immutabile come il colore della

pelle. Il termine divenuto popolare per descrivere queste situazioni di privazione

discriminatoria, sebbene non lo si trovi nei vari strumenti di diritto internazionale, è

“diniego di cittadinanza” ed è di vitale importanza riconoscere l'equivalenza che esiste

tra queste due espressioni poiché in tal modo oltre che riempire di contenuto una

etichetta che altrimenti rimarrebbe vuota si stabilisce anche il collegamento alle norme

internazionali applicabili ai casi di rifiuto della cittadinanza con la conseguenza che

qualificare una situazione come tale non è più un'operazione vaga e banale, ma è in

realtà una valutazione carica di conseguenze giuridiche.

In vista di tale equiparazione, nel 2005 il Report preparato da Constantin Sokoloff

“Denial of citizenship: a challenge to human security” attribuì al diniego di cittadinanza

un significato tangibile descrivendolo come l'incapacità di un individuo di ottenere una

adesione partecipativa in un dato Stato a prescindere dal fatto che l'individuo incontri

tutti i requisiti generalmente riconosciuti a livello internazionale per l'ottenimento della

cittadinanza. Si può notare come sostituendo “un dato Stato” con “qualunque Stato” il

risultato che si otterrebbe è l'apolidia, ma in ogni caso a prescindere da questa

sottigliezza verbale in tale definizione si possono riscontrare alcune debolezze.

39

Innanzitutto ordinariamente il diritto internazionale si limita a prescrivere i margini

all'interno dei quali gli Stati possono esercitare la loro sovrana libertà nella scelta dei

requisiti per l'attribuzione della cittadinanza, essendo infatti le condizioni che devono

essere rispettate perché un individuo possa dirsi cittadino di un dato Stato disposte dalle

leggi domestiche di quello Stato. Secondariamente se procedessimo assumendo che la

mancanza di attribuzione della cittadinanza in violazione di qualsiasi standard

internazionale costituisca un diniego di cittadinanza, la stessa definizione perderebbe

valore definitorio in sé poiché riporterebbe tutto alle cause tecniche dell'apolidia ossia a

quelle situazioni in cui la cittadinanza è privata o rifiutata in violazione di una norma

internazionale, che però nella definizione così come formulata fallisce nella

identificazione dello standard da rispettare. Come suggerisce l'Alto commissariato per i

rifugiati71

, tutte le leggi di cittadinanza compiono delle distinzioni e non tutti gli

individui, nonostante legami molto forti, sono in grado di acquisire la cittadinanza non

soltanto per via di discriminazioni palesi ma talvolta anche create inavvertitamente

attraverso l'attuazione delle leggi. A dispetto di ciò, affinché l'espressione “diniego di

cittadinanza” non risulti inutile occorre riportare come centrale l'unico elemento

unificatore nelle diverse circostanze di diniego, la discriminazione, tanto che il diniego

di cittadinanza finisce per corrispondere con la privazione discriminatoria di

cittadinanza sulla base di una definizione che per funzionare deve essere formulata

come l'incapacità di un individuo di ottenere o conservare la cittadinanza in un dato

Stato in violazione degli standard internazionali in materia di non discriminazione72

.

Il divieto di arbitraria privazione della cittadinanza è considerato una norma

basilare di diritto internazionale la cui inosservanza porta alla violazione dei diritti

umani e delle libertà fondamentali. Esso è infatti promulgato in numerosi trattati e

dovrebbe essere considerato come la controparte del diritto alla cittadinanza incluso a

sua volta in numerosi altri trattati.

Nell'introduzione della Convenzione del 1961 sulla riduzione della apolidia dove

71 UNHCR, Guidelines: field office activities concerning statelessness, Field-office memorandum

n.70/98, 28 september 1998, pag.672 Si può notare come “cittadinanza” sostituisca “adesione partecipativa” (“participative membership”

nella versione in lingua inglese) per evitare ogni tipo di ambiguità. Per di più, l'aggiunta

dell'alternativa “conservare” riflette l'intesa secondo cui la negazione e la privazione discriminatoria

della cittadinanza possono riferirsi anche alle situazioni in cui una persona è stata in grado di acquisire

la cittadinanza di uno Stato e in cui una persona è stata denazionalizzata. Ciò in accordo con l'idea che

si debba dare una interpretazione più ampia possibile. Ancora si può notare come sostituendo “un dato

Stato” con “qualunque Stato” ciò che ne risulta è anche in questa definizione proprio l'apolidia, tanto

che ai fini della ricerca che ci proponiamo il diniego di cittadinanza finisce per assumere particolare

interesse in due contesti:

• quando una persona è denazionalizzata in violazione di uno standard internazionale sulla non

discriminazione;

• quando a un soggetto apolide o potenzialmente apolide viene negato l'accesso in violazione degli

stessi standard.

Il caso dei Curdi nella Repubblica Siriana e il caso dei bambini di discendenza Haitiana nati nella

Repubblica Dominicana sono rispettivamente esempio dell'uno e dell'altro contesto in cui il diniego

di cittadinanza sfocia in apolidia.

40

ci si aspetterebbe di trovare almeno un rinvio pregiudiziale al principio della parità di

trattamento, al divieto di non discriminazione o addirittura una proclamazione del

divieto di privazione arbitraria della cittadinanza, insolitamente non contiene alcun

principio generale in merito. Al contrario, la questione importante della negazione della

cittadinanza viene trattata per la prima volta nell'articolo 9, norma sostanziale che

decreta che uno Stato contraente non possa privare alcuna persona o gruppo di persone

della loro cittadinanza per motivi razziali, etnici, religiosi o politici73

.

Il modo in cui la norma è formulata implica che la lista di motivi per i quali una

qualsiasi persona non possa essere privata della propria cittadinanza sia una lista finita.

Lo si può evincere dal fatto che la locuzione “o altra condizione” che solitamente

accompagna simili inventari in questo caso è assente e ancora dal fatto che il Pacchetto

informazione e adesione che si abbina alla Convenzione non menziona minimamente la

possibilità di altri motivi di discriminazione da leggersi in tale enunciato. La posizione

che ricopre l'articolo peraltro lascia implicare che “privazione” sia qui utilizzato nel suo

senso più stretto ossia nel senso di vietare la revoca della cittadinanza per i motivi

elencati, di conseguenza si deve ammettere che tale disposizione non coprirà tutti i casi

possibili di negazione della cittadinanza.

Ad ogni modo, affinché i quattro motivi elencati siano interpretati in linea con

l'evoluzione del diritto internazionale occorrerebbe un organo di monitoraggio

competente dal momento che il meccanismo di controllo previsto dalla Convenzione del

1961 risulta incapace di adempiere a tale compito proprio per il vuoto che questa

convenzione lascia nel prevenire la discriminazione nell'accesso alla cittadinanza.

Come accennato aprendo l'attenzione su questa causa di apolidia, l'espressione

“privazione arbitraria della cittadinanza” copre una serie di problemi distinti che vanno

da situazioni di denazionalizzazione al diniego di cittadinanza sia esso alla nascita o in

occasione della richiesta di naturalizzazione, e come tale quindi è di grave

preoccupazione per la comunità internazionale tanto quanto le predette cause tecniche.

Su tale considerazione, si evince come la Convenzione del 1961 che dovrebbe

rappresentare lo strumento principe per la prevenzione dell'apolidia fallisca.

Innanzitutto nella formulazione dei motivi che portano alla privazione della cittadinanza

perché oltre a costituire un gruppo chiuso dimentica di inserire tra questi il genere che

invece è terreno fecondo di differenziazione e quindi discriminazione in molte leggi

relative all'attribuzione della nazionalità. In secondo luogo fallisce ancora non fornendo

una disposizione generale di divieto di privazione arbitraria della cittadinanza così come

un meccanismo di controllo e sviluppo delle norme della Convenzione stessa.

Il sistema dei diritti umani nel suo complesso prova a fornire tutela sulla base

dell'idea che laddove vi sia violazione di un diritto umano fondamentale, come abbiamo

73 Questo articolo è l'unico della Convenzione a non essere strettamente focalizzato sulla prevenzione

dell'apolidia poiché al contrario si occupa di un aspetto più ampio nel campo dell'attribuzione della

cittadinanza. In applicazione di questo articolo infatti la privazione arbitraria della cittadinanza è

vietata sia che essa conduca o non conduca all'apolidia.

41

detto essere il diritto alla cittadinanza, deve essere garantito un effettivo rimedio a colui

che ne è vittima. Ciononostante nel mondo molti continuano ad essere resi apolidi.

3 – Successione di Stati

Per uno stato esistente con un territorio fisso, disciplinare l'acquisto e la perdita

della cittadinanza è un'operazione relativamente semplice poiché esiste già un corpo di

cittadini cui fare riferimento e lo Stato deve solo definire i criteri per l'attribuzione della

cittadinanza ai nuovi arrivi, siano essi immigrati o neonati, così come prevederne la

possibilità di perdita, privazione o rinuncia in determinate circostanze. Uno stato nuovo,

al contrario, deve definire se stesso, plasmare la propria identità delineando territorio e

popolazione, deliberare in merito a chi appartiene e a chi non appartiene al corpo

nazionale. Quando invece su un certo territorio la sovranità entra in nuove mani, la

situazione risulta più complessa perché viene a sollevarsi la difficile questione circa il

destino della popolazione che in quel dato momento occupa il territorio che subisce il

cambio di sovranità. Attraverso il godimento e l'esercizio della cittadinanza, tutte le

persone interessate dalla successione dovrebbero essere in grado di partecipare alla

costruzione del nuovo Stato e in particolare nel cruciale periodo di istituzione delle

nuove strutture statali74

ma ciononostante nella determinazione di chi è e chi non è

cittadino nel contesto della successione esiste un potenziale particolarmente elevato che

le decisioni prese possano condurre ad apolidia su larga scala potendo alcune aree della

popolazione colpita essere trascurate. Storicamente, infatti, la ridefinizione dei confini

internazionali si è dimostrata una notevole fonte di apolidia. Se guardiamo a uno dei più

antichi gruppi di apolidi, gli “heimatlosen75

”, la loro apolidia fu il risultato della

dissoluzione dell'impero austro-ungarico e dall'assestamento creato dai Trattati di Pace

del 1919, ma un gran numero di apolidi venne fuori anche dal rimescolamento dei

territori all'indomani della Prima e della Seconda guerra mondiale, così come più

recentemente dai fenomeni di decolonizzazione degli anni 50 e 60 oltre che dalla

disintegrazione di alcuni stati federali come l'Unione sovietica. Dalla fine della seconda

guerra mondiale, si sono formati più di un centinaio di nuovi Stati e la piaga di molti dei

gruppi di apolidi che oggi popolano il mondo ha origine proprio in una qualche forma di

cessione di territorio, come i Russofoni in Estonia e Lettonia o i Tartari76

in Ucraina.

74 Roland Scharer, Statelessness in relation to State succession. Feasibility study: the necessity of anadditional instrument to the European Convention on Nationality, Council of Europe Committee of

experts on nationality, Strasbourg, 12 October 2001, pag.475 Letteralmente “senza casa” o “senza radici”.76 Lo stesso anno in cui si disintegrò l'Unione Sovietica, nel 1991, l'Ucraina ha adottato una legge sulla

cittadinanza in base alla quale la cittadinanza veniva concessa a coloro che fossero in possesso di

residenza permanente al momento della emanazione della legge. Tutti quelli che erano in possesso di

passaporti sovietici, senza documenti o che arrivarono successivamente al 1991 affrontarono vari

problemi addivenendo molti addirittura apolidi. Per quanto riguarda i Tartari di Crimea, l'Ucraina ha

lavorato a stretto contatto con gli altri Stati dell'Asia centrale per reintegrarne i loro discendenti. I

Tartari erano infatti stati rastrellati da Stalin nel 1944 e deportati in Asia centrale, dove erano diventati

apolidi in seguito al crollo dell'Unione Sovietica. Una svolta arrivò nel 1999 con un accordo tra

l'Ucraina e l'Uzbekistan, dove la maggioranza dei Tartari era stato deportata. Da allora e fino al 2004,

42

“Successione di Stati” è il termine ufficiale con il quale si descrivono i fenomeni

di cessione di territorio o di sovranità e la definizione che gli strumenti internazionali ne

danno è di “sostituzione di uno Stato da un altro nella responsabilità per le relazioni

internazionali del territorio77

”. La frase così come formulata copre quattro principali

situazioni: unificazione o dissoluzione di uno Stato, cessione di territorio da uno Stato

ad un altro, separazione di parte di uno Stato. Ovviamente in tutte queste situazioni la

sovranità su un determinato pezzo di terra viene trasferito da uno “stato predecessore” a

uno “stato successore” e le questioni riguardanti la cittadinanza nel contesto della

successione devono essere risolte dalle leggi di cittadinanza degli Stati interessati

poiché se tali problematiche non sono globalmente affrontate o se le politiche intraprese

dai rispettivi Stati non sono armonizzate vi è il rischio che qualche individuo rimanga

trascurato. Nella sostanza, in questo processo di cessione del territorio o della sovranità

emerge una situazione di conflitto negativo tra le leggi già esistenti e le nuove

normative sulla nazionalità adottate in via concomitante. Alcuni gruppi di individui nel

contesto della successione di Stati spesso vengono peraltro esclusi dai meccanismi di

attribuzione della cittadinanza in maniera arbitraria. Diventa chiaro come l'apolidia che

può manifestarsi in occasione di una successione abbia caratteri di vicinanza sia con

quella prodotta per cause tecniche sia con quella prodotta per privazione arbitraria di

cittadinanza, pur rimanendo la circostanza della successione assolutamente rilevante e

generando secondo il diritto internazionale specifici obblighi per gli Stati interessati.

Chiaramente, ciascun caso di successione tra Stati è unico grazie alle specifiche

circostanze storiche e politiche in cui si verifica ma ai fini della questione della

cittadinanza si possono distinguere due grandi categorie: la successione a titolo

universale e la successione a titolo parziale78

.

Nel caso della prima, lo Stato predecessore viene interamente deposto, di fatto

cessa di esistere79

e con la sua estinzione la sua cittadinanza diventa obsoleta, scade. In

questa circostanza, tutte le persone una volta cittadini dello Stato predecessore ai fini

dell'acquisto di una cittadinanza in sostituzione dipendono dallo stato successore o dai

paesi terzi con i quali essi possono avere un nesso reale o cosiddetto genuine link. Il

rischio di apolidia è ovviamente molto alto.

Nel caso della seconda, parte del territorio di uno Stato subisce un cambiamento

più di 300.000 Tartari hanno ricevuto la cittadinanza ucraina. Ad oggi, sebbene si stimi la presenza di

circa 5 mila apolidi nel territorio ucraino, conoscerne il numero esatto è impossibile. Tuttavia la

recente adesione dell'Ucraina ad entrambe le Convenzioni che si occupano di apolidia lascia sperare in

un impegno ancor più serio di quello mostrato finora verso la qualificazione e risoluzione del

problema attraverso la creazione sia di una procedura di riconoscimento dello status di apolide sia di

meccanismi che permettano la naturalizzazione. 77 Vedi in proposito gli articoli 2 e 1 rispettivamente della Convenzione di Vienna sulla Successione di

Stati nei trattati e della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione della condizione di

apolide in relazione alla successione di Stati.78 Paul Weis, Nationality and statelessness in international law, Kluwer Academic Publishers Group,

1979, pag.13679 Un esempio moderno è la disintegrazione dell'URSS, una federazione che si è estinta per far posto alla

nascita di 15 repubbliche indipendenti nei primi anni 90.

43

di sovranità attraverso l'acquisizione da parte di un altro Stato o la formazione di uno

Stato del tutto nuovo. In questa circostanza, lo Stato predecessore continua ad esistere80

e pertanto le cittadinanze coinvolte sono almeno due, quella dello Stato predecessore e

quella dello Stato successore. La questione fondamentale in questo caso si sdoppia

perché non è importante solo in che modo e quando si acquisti la cittadinanza del nuovo

Stato ma anche in che modo e quando si perda quella precedente, nascondendosi nel

conflitto negativo tra i diversi due momenti il rischio patente di apolidia.

In passato, la prassi generale tracciata per quanto riguarda la questione della

cittadinanza delle persone affette da successione statale rivela che in linea di principio,

lo Stato successore ha adottato una legislazione specifica che conferisce cittadinanza ai

cittadini dello Stato predecessore che hanno continuato ad avere la loro abituale

residenza nel territorio che ha subito il cambiamento di sovranità. Comunemente la

nazionalità delle persone ha seguito il cambio di sovranità sulla base di tre modelli

principali basati rispettivamente su cittadinanza precedente, giurisdizione territoriale,

etnicità81

.

La strategia che prevede il conferimento della cittadinanza dello Stato successore

sulla base della cittadinanza precedente è conosciuta come “modello di cittadinanza

restaurata” e solitamente viene preferita dagli Stati che hanno riottenuto indipendenza

dopo un periodo di annessione o di occupazione di un altro Stato82

.

La strategia che prevede il conferimento della cittadinanza dello Stato successore

sulla base della giurisdizione territoriale è conosciuta come “modello zero opzioni” e

solitamente è utilizzata dagli Stati che hanno acquisito indipendenza per la prima volta

come ad esempio è avvenuto nei processi di decolonizzazione. In base ad essa, tutti

coloro che al momento dell'indipendenza sono legalmente residenti nel territorio del

paese interessato diventano titolari della cittadinanza di questo83

. Come il precedente

modello, anche questo non rimane indenne da conseguenze problematiche soprattutto

nel caso di successione a titolo universale poiché lo Stato predecessore cessa di esistere

80 Diversi esempi si ritrovano nel processo di decolonizzazione che intervenne nella seconda metà del

XX secolo mutando il volto dell'intero globo. Un esempio su tutti è l'impero britannico che si è

sbriciolato e con esso la sua cittadinanza. 81 Peter van Krieken, Disintegration and statelessess, Netherlands Quarterly of Human Rights, Vol.12,

1994, pag.2682 Questo modello è stato quello utilizzato da Lettonia e Estonia al momento della partizione dall'Unione

Sovietiva nel 1991. I tre stati baltici, Lettonia Estonia e Lituania, ebbero un periodo di indipendenza

dopo la prima guerra mondiale prima di essere annessi e incorporati all'Unione Sovietica nel 1940. La

decisione che Estonia e Lettonia presero di dare la cittadinanza solo a coloro che erano già cittadini

prima del 1940, e quindi ai loro discendenti, tuttavia ebbe la conseguenza che molti dei residenti in

quel territorio si ritrovarono esclusi, ed avendo la cittadinanza sovietica perso ogni valore divennero

apolidi considerata anche le complessità con cui vennero arricchite da un lato le procedure di

naturalizzazione di Estonia e Lettonia e dall'altro di attribuzione della cittadinanza della Federazione

Russa. La Lituania invece adottò un modello che combinava aspetti di quello della cittadinanza

restaurata con un sistema di attribuzione basato sulla residenza, limitando in tal modo l'apolidia nel

suo territorio. 83 Peter van Krieken, Disintegration and statelessness, Netherlands Quarterly of Human Rights, Vol.12,

1994, pag.26

44

del tutto e perché esso non si occupa degli individui che al momento del cambio di

sovranità risiedono fuori dal territorio ma che cionondimeno sono colpiti dalla

successione84

.

Infine, vi è la strategia che prevede il conferimento della cittadinanza sulla base

del criterio della etnicità. Questa è stata utilizzata in più occasioni nel contesto delle

successioni tra Stati ma custodisce in sé un potenziale molto alto di discriminazione e

quindi al tempo stesso il rischio che si generino casi di apolidia85

.

A prescindere dal modello impiegato, tuttavia, ci sono delle considerazioni

aggiuntive che vanno tenute in mente. In primo luogo che laddove la cittadinanza di un

soggetto sia colpita da una successione tra Stati e all'individuo si renda disponibile la

titolarità della cittadinanza degli Stati coinvolti, a questi deve essere garantito diritto di

opzione in modo che possa abbracciare la soluzione che a suo avviso risulta più

appropriata. In secondo luogo che essendo gli Stati successori vincolati dalle norme di

diritto internazionale consuetudinario nel momento del loro insediamento ed essendo il

diritto ad una effettiva cittadinanza, così come lo speculare divieto di apolidia, una

norma di diritto consuetudinario internazionale, lo Stato successore che si trova a dover

affrontare la questione della nazionalità delle persone coinvolte nella successione deve

adoperarsi perché il rischio che si generino apolidi sia il minore possibile, se non

altrimenti nullo. Tenuto conto d'altronde che dall'analisi della recente pratica degli Stati

e dalle opinioni espresse da organi come l'Organizzazione internazionale del lavoro, la

Croce rossa internazionale e la Commissione sui diritti umani delle Nazioni Unite si è

dedotto come la successione tra Stati non debba influenzare gli obblighi che derivano

dai trattati sui diritti umani86

.

La Convenzione del 1961 sulla riduzione dell'apolidia nel primo paragrafo del suo

articolo 10 afferma che nei trattati tra gli Stati coinvolti devono essere presenti

disposizioni che abbiano come scopo quello di evitare l'apolidia come risultato della

cessione di un territorio. Come può notarsi, essa ha un approccio limitativo perché

84 È il caso dell'Ucraina che infatti dopo aver ottenuto l'indipendenza adottò una “Dichiarazione sulla

sovranità di Stato” nella quale determinava che il proprio corpo iniziale di cittadini doveva essere

formato da chi era in precedenza cittadino sovietico e risiedesse in via permanente in suolo ucraino

alla data dell'indipendenza del 24 agosto 1991. In questo modo si rendeva concreto il rischio di

apolidia di una larga parte della popolazione che nel maggio 1944 era stata deportata dalla Crimea

(una regione dell'Ucraina che oggi però vive una grave crisi bellica) perché accusata di essersi

schierata coi Nazisti. Molti non riuscirono a ottenere la cittadinanza e nonostante gli sforzi di più

istituzioni in tal senso, tra cui l'UNHCR, ancora oggi molti rimangono apolidi sebbene la legge di

naturalizzazione ucraina di recente emendata e semplificata risulta senza dubbio più appropriata ad

affrontare il problema e proseguire verso una risoluzione di esso. 85 Un esempio è il caso dei Tamils in Sri Lanka la cui cittadinanza rimase oggetto di discussione con

l'India per molto tempo. Questo gruppo di persone era stato portato nella vecchia Ceylon dai

colonizzatori britannici affinché lavorassero le piantagioni di tè e quando successivamente prese

forma la indipendente Sri Lanka questi rimasero per diversi decenni apolidi non potendo ai sensi della

legge di cittadinanza del 1948 dimostrare di essere nati per due generazioni di seguito nel territorio

interessato dal cambio di sovranità.86 Menno Kamminga, State succession in respect of human rights treaties, European Journal of

International law, Vol.7, 1996, pag.484

45

richiama solo l'ipotesi della cessione e non coprendo come ambito di applicazione tutti i

casi possibili di successione. Pur rimanendo sommario su tale punto anche il secondo

paragrafo dello stesso articolo, esso tuttavia presenta una maggiore completezza

aggiungendo all'ipotesi della cessione anche quella dell'annessione di territorio, e

estendendo la sua efficacia non solo a coloro che si trovano al tempo della successione

nel territorio in questione ma anche a tutti coloro che, in quanto comunque coinvolti, si

ritroverebbero altrimenti apolidi. La norma, infine, dimentica di dare attenzione al ruolo

dello Stato predecessore perdendo in questo modo un'occasione per restringere

ulteriormente il rischio di apolidia, anche solo temporanea.

4 – Le “nuove” cause

Sebbene la Convenzione del 1961, nelle cui norme sostanziali si ritrovano le

cause generatrici di apolidia, rimanga ancora oggi lo strumento creato su misura per la

prevenzione del fenomeno, nel campo dei diritti umani negli ultimi decenni sono stati

compiuti così ampi progressi nella comprensione del problema che le disposizioni della

Convenzione andrebbero senza alcun dubbio interpretate alla luce di questi sviluppi e

coerentemente con essi applicate. Tra questi, nell'attuale punto di vista della comunità

internazionale ha assunto importanza pratica il riconoscimento delle diverse “nuove”

fonti di apolidia che sono invece assenti nell'equazione della convenzione.

La prima di queste è la carenza di un sistema di registrazione civile per quanto

riguarda l'annotazione delle nascite e dei matrimoni, che per la prima volta venne

annoverata come fonte di apolidia nel 1997 dall'Alto commissariato per i rifugiati con la

pubblicazione "The State of the world's refugees87" attirando da quel momento

l'attenzione di molti sul nesso esistente tra le errate pratiche di registrazione delle

nascite e dei matrimoni e il generarsi di casi di apolidia.

La seconda fonte che negli anni recenti è stata identificata si riferisce all'ampia

questione della migrazione e alle sue diverse manifestazioni. La circolazione attraverso

le frontiere internazionali, infatti, produce da sempre tutta una serie di problemi relativi

alla documentazione, allo status giuridico e alla cittadinanza delle persone coinvolte88

.

In particolare le manifestazioni che producono un effetto quasi diretto di vulnerabilità, e

quindi apolidia come conseguenza, sono la migrazione irregolare, la tratta di esseri

umani e lo sfollamento forzato.

4.1 – La registrazione civile di nascite e matrimoni

Un sistema di registrazione delle nascite carente è una delle cause di apolidia più

tragiche, e ciononostante più sottostimate, perché laddove un bambino non venga

87 UNHCR, “Statelessness and citizenship” in The State of the World's refugees – A humanitarian

agenda, Oxford University Press, Oxford, 1997, pag.22688 In un mondo di Stati-nazione, infatti, in cui la popolazione globale è suddivisa teoricamente in diversi

corpi di cittadinanza mutualmente esclusivi, la migrazione internazionale rappresenta una anomalia

dalla quale deriva un qualche imbarazzo al sistema statale.

46

registrato alla nascita rimane senza l'importantissima prova legale e ufficiale della

propria esistenza. La stessa osservazione si applica alla registrazione dei matrimoni,

considerato che questa assicura un formale riconoscimento da parte dello Stato del

legame familiare di recente formazione e che, come abbiamo già detto, contrarre

matrimonio può avere un impatto sulla cittadinanza di entrambi i coniugi e dei figli nati

dalla loro unione.

Nel caso delle nascite, le ragioni che sottostanno alla mancata registrazione

variano da paese a paese ma possono essere raggruppate in due grandi categorie:

pratiche governative e inattività dei genitori89.

L'ostacolo fondamentale è dato dal

fallimento da parte della famiglia e dello Stato nella comprensione o nel riconoscimento

dell'importanza che ricopre la registrazione della nascita, con il risultato che questa non

soltanto non assume il valore di priorità che invece dovrebbe avere ma aumenta anche il

rischio che un bambino non registrato rimanga non reclamato90. I genitori potrebbero

essere ostacolati dagli eccessivi costi di registrazione o dal dover percorrere eccessive

distanze per raggiungere l'anagrafe più vicina così come dover attendere il

completamento di procedure burocratiche eccessivamente articolate, con il risultato di

una sfiducia generale nelle autorità civili dello Stato interessato dalla nascita. Il

governo, dal canto suo, potrebbe non riuscire a stanziare le risorse finanziare necessarie

a garantire un sistema di registrazione civile che funzioni correttamente, con il risultato

di un'insufficienza di attrezzature, un'inadeguatezza degli impianti di stoccaggio per i

documenti e una scarsa formazione dei funzionari del sistema di registro, oltre che di

procedure cariche di ostacoli che impediscono la registrazione come scadenze

irrealistiche o irrealistici requisiti documentali91

.

La registrazione delle nascite svolge un ruolo molto importante nell'applicazione

delle leggi di attribuzione della cittadinanza poiché funge da passaggio obbligato per la

determinazione di elementi quali la discendenza e il luogo di nascita, risultando pertanto

vitale nella protezione contro l'apolidia. Uguale considerazione può compiersi circa la

89 Youth Advocate Program International, Stateless children – Children who are without citizenship,Booklet n.7 in International Youth Issues, 2002, pag.8

90 Con le opportune procedure e con le necessarie misure, la registrazione della nascita è infatti un

elemento cruciale per una giusta esecuzione delle politiche nazionali di attribuzione della cittadinanza

siano esse basate sul principio di iusius soli o di ius sanguinis. Laddove infatti la politica del governo

sia quella di negare volutamente a determinate persone l'accesso alla registrazione delle nascite, si può

notare con evidenza quanta sovrapposizione vi sia tra la questione della non registrazione e il

problema dei casi di apolidia. Ad esempio, nella Repubblica Dominicana, dove la cittadinanza è

trasmessa secondo il principio dello ius iussoli, il diniego di accesso al processo di registrazione per

taluni bambini in quanto appartenenti a determinati gruppi diviene meccanismo per assicurare che

quegli stessi bambini rimangano esclusi.91 Un esempio classico di questa inadeguatezza si verifica nelle situazioni di successione tra Stati.

Poiché infatti queste situazioni sono spesso caratterizzate da spostamenti forzati di masse di

popolazione, conflitti violenti e agitazioni civili, gli Stati coinvolti (predecessore e successore)

dovendo rispondere all'emergenza in atto possono dimostrarsi per un certo periodo incapaci di

svolgere nel modo adeguato i compiti di registrazione delle nascite, o laddove continuino a tener fede

ai propri impegni gli sforzi compiuti possono essere resi nulli dai conflitti come accaduto in Bosnia e

Croazia.

47

corretta registrazione dei matrimoni poiché laddove un matrimonio non venga registrato

non vi è alcuna prova che quel determinato bambino sia frutto di quella determinata

unione, così come che esso sia legittimo, potendo pertanto sorgere problemi in merito

all'acquisizione della cittadinanza. Inoltre, la mancata registrazione di un matrimonio

può mettere la donna in una posizione molto complessa dal punto di vista sociale ma

soprattutto legale, rendendole impossibile accedere alle procedure di registrazione delle

nascite poiché considerata lei non sposata e conseguentemente il bambino come

illegittimo. Se infatti alcuni Stati non pongono alcun limite alla registrazione di bambini

anche laddove siano nati fuori dal matrimonio, altri rendono più gravosi i requisiti

richiesti in presenza di tali condizioni e altri ancora invece ne impediscono in via

assoluta ogni passo necessario ai fini della registrazione.

Ne consegue che nel contesto dell'apolidia, la documentazione impropria di eventi

quali nascita e matrimonio assume un carattere “interconnesso e autoalimentante92

aumentando sempre di più il rischio di una mancata attribuzione della cittadinanza e di

tutto ciò che ne consegue. Ciononostante, l'entità del problema è ancora inesplorato e in

contrasto con la crescente disponibilità di informazioni statistiche riguardanti ad

esempio la registrazione delle nascite, non esistono invece informazioni sul numero di

matrimoni che ogni anno non vengono registrati nel mondo.

La Convenzione del 1961 non dice nulla in proposito ma il sistema dei diritti

umani riconosce sia il diritto di ogni bambino di essere registrato alla nascita sia il

diritto a che siano compiute tutte le attività necessarie affinché la registrazione del

matrimonio sia efficace, sebbene queste promulgazioni fossero inizialmente basate su

logiche che prescindevano dalla prevenzione dell'apolidia poiché obiettivo principale

era da un lato assicurare che colui che fosse appena nato non diventasse oggetto di

rapimento, vendita o traffico umano, o qualunque altro trattamento incompatibile con il

godimento dei diritti del bambino in prima battuta come il diritto al nome e dei diritti

umani in generale tra cui il diritto ad una cittadinanza93

e dall'altro lato che le donne non

fossero oggetto di discriminazione94

.

4.2 – Migrazione

La seconda “nuova” causa di apolidia che come abbiamo detto è emersa

recentemente è la migrazione95

, fenomeno che storicamente è sempre stato un impulso

naturale dell'uomo considerato che le case sono state sradicate nella misura in cui le

92 Carol Batchelor, The international legal framework concerning statelessness and access for statelesspersons, European Union Seminar on the content and scope of international protection: Panel 1 –

Legal basis of international protection, Madrid, 2002, pag.593 Human rights Committee, CCPR General Comment N.17: Rights of the Child (Art.24), Geneva, 7

April 1989, paragraph 7; Committee on the rights of the child, Concluding observations: the FormerYugoslav Republic of Macedonia RC CRC/C/15/Add.118, Geneva, 2000, paragraph 21

94 Committee on the Elimination of Discrimination against Women, General Recommendation 21:Equality in marriage and family relations, A/49/38, New York, 1994, paragraph 39

95 Si noti che in questa sezione i termini "migrazione" e "migrante" sono usati in senso generale per

riferirsi a qualsiasi forma di spostamento attraverso confini internazionali.

48

persone si sono mosse in cerca di terra, cibo o speranza così come per sfuggire alla

guerra, alla povertà o alla disperazione. Oggi, i migranti internazionali sono il 3,1%

della popolazione mondiale. Ciò significa che sono 214 milioni le persone che vivono

fuori dal paese in cui sono nati96

e se consideriamo che il numero è costantemente in

aumento notiamo come la migrazione non sia mai stata così dilagante e così socio-

economicamente e politicamente significativa. Questa crescita di mobilità

internazionale ovviamente mette in discussione il concetto di appartenenza ad uno Stato

Nazione poiché l'idea del cittadino che trascorre gran parte della propria vita in un paese

e condivide una comune identità nazionale ha oramai perso terreno. Il risultato che ne

viene fuori è una crescente incidenza di situazioni in cui vi è un conflitto di leggi, come

ad esempio nel caso di matrimoni tra cittadini di diversi Stati, di bambini nati in uno

Stato del quale i loro genitori non possiedono la cittadinanza e che segue il principio

dello ius sanguinis, o nel caso di incongruità tra la legge del paese di origine che

regolamenta la perdita di cittadinanza e la legge del paese ospitante che regolamenta la

naturalizzazione. Come è facile notare da quanto detto nei precedenti paragrafi sono

tutte situazioni identificabili come potenziali fonti “tecniche” di apolidia, e nel caso in

cui la migrazione accompagni o preceda la cessione di un territorio il rischio cui sono

esposti i migranti in questione è decisamente alto. Causando una maggiore

compenetrazione delle persone attraverso i confini che formalmente separano gli Stati-

nazione, la migrazione aggrava molte delle cause di apolidia già viste pur possedendo

problemi specifici suoi propri che coinvolgono tre particolari categorie di individui: i

migranti irregolari, i rifugiati e le vittime di traffico umano. Tutti e tre hanno in comune

la caratteristica di essere una presenza imprevedibile, indesiderata e spesso non voluta,

oltre a quella di sfidare le regolamentazioni nazionali verso l'adozione di politiche che

affrontino le questioni dell'acquisto dello status legale di cittadino da parte di costoro.

4.2 (a) – Migrazione irregolare

Fin dalla nascita degli Stati-nazione, e in particolare nel corso degli ultimi 100

anni, la questione su come disciplinare la circolazione delle persone attraverso le

frontiere è stata una preoccupazione costante per i poteri costituiti. Progressivamente gli

Stati hanno assunto il potere di controllare i fenomeni migratori, facilitati dal fatto che

l'uso di carta d'identità e passaporto sia stato nel tempo istituzionalizzato. Oggi, peraltro,

gli Stati hanno un potere di selezione sui potenziali immigrati poiché predeterminano le

condizioni che devono essere rispettate affinché un individuo sia considerato idoneo per

l'entrata nel paese. Ciò può essere visto come una sorta di turno di qualificazione

iniziale di accesso alla cittadinanza, se pensiamo che a coloro che sono ammessi e

considerati idonei all'entrata nel paese viene in questo modo data la possibilità di

costruire un legame con lo Stato ospitante tanto da poter un giorno portare avanti la

pretesa di acquisto della cittadinanza ex ius domicili per se stessi o ex ius soli per la loro

96 International Organization for Migration, Facts and figures: global estimates and trends, 2014

49

futura prole. Molti paesi che aderiscono al principio dello ius sanguinis hanno realizzato

che l'esclusione degli immigrati e dei loro bambini dalla cittadinanza può essere

problematica e condurre a fenomeni come emarginazione sociale, esclusione politica,

conflitto e razzismo, e hanno di conseguenza adattato le loro politiche nazionali.

Ciononostante, ogni anno migliaia e migliaia di persone superano clandestinamente i

confini nazionali di numerosi paesi nel mondo generando una situazione di illegalità de

facto dalla quale deriva loro una pericolosa vulnerabilità. Essere un immigrato

irregolare può infatti avere un impatto decisamente negativo sul godimento di molti

diritti, compreso quello ad una cittadinanza poiché molti Stati la revocano quando un

soggetto risiede all'estero per un lungo periodo e gli Stati che ospitano richiedono tutti

un periodo di residenza legale ai fini della concessione di questa e quindi della

naturalizzazione, tanto che per l'immigrato clandestino il rischio di acquisire la

condizione di apolide e mantenerla in via indefinita è potenzialmente molto

significativo. Può avere un impatto decisamente negativo sul godimento di molti diritti

anche essere un bambino nato da immigranti irregolari. Laddove infatti i genitori

abbiano perso la propria cittadinanza e il bambino sia nato nel territorio di uno Stato che

concede la cittadinanza esclusivamente per ius sanguinis, senza prendere in

considerazione alcuna clausola di riserva che intervenga per ius soli in caso di apolidia,

la piaga si tramanderà dai genitori al figlio. La posizione di questi bambini risulta

vulnerabile tuttavia anche in paesi che prendono in considerazione la possibilità di una

riserva di cittadinanza per ius soli, poiché spesso proprio in questi si stabilisce che in

presenza della condizione di immigrante irregolare dei genitori la prole debba

comunque esserne esclusa o nella migliore, sebbene decisamente bizzarra, delle ipotesi

assumere anch'essi lo status di immigrante irregolare97

considerato che spesso non

hanno neppure possibilità di accesso al sistema di registrazione civile delle nascite.

Emerge come questi tre problemi, ossia l'assoluta mancanza di accesso alle

procedure di naturalizzazione, la mancanza di accesso alla cittadinanza per ius soli e la

mancanza di accesso alla registrazione delle nascite, contribuiscano non soltanto a

generare nuovi casi di apolidia ma anche a protrarli nel tempo. In linea di principio, il

mero fatto che la persona interessata sia un immigrante irregolare o che i propri genitori

posseggano tale status non dovrebbe essere d'ostacolo a che lo Stato ospitante fornisca

un livello base di protezione. I diritti umani fondamentali non dovrebbero mai essere

condizionati ad una qualche circostanza di residenza98

e laddove le politiche nazionali

97 Gli stati uniti sono una importante eccezione poiché continuano a sostenere, attraverso una politica dicoperta, la cittadinanza per diritto di nascita. L'idea che rimane alla base è che sebbene esistano

eccezioni di rito alla regola dello ius iussoli come nel caso dei bambini nati su navi straniere o da

personale diplomatico, la cittadinanza per diritto di nascita deve essere intesa nel senso di estenderla

anche agli indigeni nati da stranieri che si trovano nel paese illegalmente o con un visto da non-

immigrante. Vedi Alexander Aleinikoff, Between principles and politics: U.S. Citizenship Policy,Brookings Institution Press, Washington D.C., 2000, pag.123-128

98 Guy Goodwin-Gill, International Law and Human Rights: Trends concerning international migrantsand refugees, International Migration Review, Vol.23, 1989, pag.535

50

minaccino ponendo simili condizioni il godimento del diritto alla cittadinanza o il diritto

alla registrazione della propria nascita, violano senza alcun dubbio i fondamenti del

sistema dei diritti umani. Ovviamente, il diritto alla cittadinanza non include un diritto

alla naturalizzazione che rimane una procedura discrezionale in capo agli Stati i quali ne

decidono le condizioni nella misura in cui non violino il principio generale di non

discriminazione. Il diritto internazionale inoltre non si oppone a che essi pongano un

periodo minimo di residenza legale come precondizione alla naturalizzazione, sebbene

in questo modo gli immigrati irregolari continueranno a non beneficiare di protezione e

la loro presenza fattuale a risultare irrilevante per l'acquisto della cittadinanza fintanto

che la loro condizione non venga regolarizzata. La Convenzione del 1961 sulla

riduzione dell'apolidia, che come abbiamo detto poc'anzi non affronta le “nuove” cause

di apolidia, a tale riguardo tuttavia svolge un ruolo importante poiché apre la strada per

una protezione più efficace e completa anche in una situazione di immigrazione

irregolare. Essa infatti, concedendo agli Stati la possibilità di stabilire ulteriori requisiti

per l'attribuzione della cittadinanza per ius soli qualora vi sia domanda più tardi nella

vita, sancisce che una delle condizioni che possono essere impostate sia un certo

periodo di "residenza abituale99

" nulla precisando circa il fatto che questa debba essere

anche legale.

4.2 (b) – La tratta di esseri umani e i rifugiati

Due particolari manifestazioni del fenomeno della migrazione cui occorre

garantire uno sguardo più attento sono la tratta di esseri umani e lo sfollamento forzato i

quali eludono costantemente i “muri di carta100

” che sono stati eretti tra i diversi paesi

attraverso le politiche di immigrazione e controllo delle frontiere. La situazione dei

migranti coinvolti in esse richiede un trattamento speciale e il diritto internazionale ha

elaborato una serie di norme in tal senso che possono essere rilevanti ai fini della

prevenzione dell'apolidia.

L'articolo 3 del cosiddetto “Protocollo Palermo”, ovvero il Protocollo delle

Nazioni Unite sulla prevenzione, soppressione e persecuzione del traffico di esseri

umani, in particolar modo donne e bambini, definisce la “tratta di persone” come il

reclutamento, trasporto, trasferimento, l'ospitare o accogliere persone, tramite la

minaccia o l'uso della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode,

inganno, abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità o tramite il dare o ricevere

somme di danaro o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su

un'altra a scopo di sfruttamento. Essa può manifestarsi in molti modi diversi e può

colpire uomini, donne e bambini, ma "più notoriamente comporta la vendita di donne e

99 Peraltro definita, nella Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione della condizione di

apolide in relazione alla successione di Stati, come “una residenza stabile e di fatto”.100 Riferimenti a “muri di carta” si trovano in John Torpey, The invention of the Passport. Surveillance,

Citizenship and the State, Cambridge University Press, Cambridge, 2000, pag.139

51

bambini al fine di farli lavorare nel commercio del sesso senza il loro consenso101

". In

quanto fenomeno migratorio, il traffico umano è in aumento e costituisce il braccio di

una impresa estremamente redditizia: l'industria della migrazione102

. L'Organizzazione

mondiale della migrazione ha infatti stimato che ogni anno rimane vittima di traffico

umano un numero di persone che varia da 600 a 800 mila con una “produttività” pari a

circa 10 miliardi di dollari. Per prevenire e combattere tale fenomeno, sono stati

approntati numerosi strumenti di diritto internazionale ma ciò che davvero ricopre un

ruolo significativo è l'idea che la comunità internazionale ha abbracciato secondo la

quale il traffico di esseri umani è un reato che deve essere soppresso e punito in quanto

forma attuale di schiavitù e pertanto vietato dalle norme più antiche di ius cogens.

Un altro gruppo di migranti che contemporaneamente alle vittime di traffico

umano sfida i sistemi di gestione della migrazione attraversando i confini internazionali

perché costretti è composto dai rifugiati, il cui numero globalmente stimato alla fine del

2012 superava i 10 milioni. L'articolo 1 della Convenzione del 1951 relativo allo status

di rifugiato ne fornisce la definizione la quale ruota attorno all'elemento decisivo del

possesso da parte dell'individuo sfollato di un timore fondato di essere perseguitato per

ragioni di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o

opinione politica. La vulnerabilità che si evince nella posizione di questi soggetti e la

estrema carenza di tutela in cui si ritrovano ha operato da sprone fondamentale verso la

creazione di uno speciale status internazionale e da accompagnarsi a questo

l'elaborazione di un catalogo di diritti il più centrale dei quali è il diritto a non essere

espulso o restituito al paese in cui persiste la minaccia di persecuzione103

.

In molti casi, le vittime di traffico umano e i rifugiati riconosciuti come tali

condividono lo stesso destino degli immigranti irregolari poiché sebbene alcuni Stati

perdonino l'ingresso illegale di tali due categorie di persone, estraendoli in maniera

temporanea o talvolta definitiva dal gruppo degli immigrati irregolari, in moltissimi

paesi ciò non avviene. In alcuni, ad esempio, non esiste una normativa di riferimento

per i richiedenti asilo e quindi tutte le persone che desiderano protezione come rifugiati

sono trattati come qualunque immigrato irregolare nonostante il fatto che la loro

presenza illegale nel territorio dello Stato potrebbe essere tollerata per ragioni

umanitarie, essendo di conseguenza esposti negli stessi termini al rischio dell'apolidia.

Rischio che, inoltre, per entrambi i tipi di sfollati in questione e per gli eventuali figli al

loro seguito, può essere aggravato da problemi relativi alla documentazione. Le vittime

di traffico sono infatti di solito private dei loro documenti, talvolta addirittura questi

vengono distrutti una volta raggiunto il paese terzo se non già durante lo spostamento,

101 Ryszard Piotrowicz, Victims of trafficking and de facto statelessness, Refugee Survey Quarterly,

Vol.21, 2002, pag.50102 Stephen Castles; Mark Miller, The Age of Migration, The Guilford Press, London, 2003, pag.114103 La centralità del divieto di non refoulement o meglio del diritto a non essere espulsi o restituiti che

esplicita in maniera chiara l'articolo 33 della Convenzione del 1951 si evince dal fatto che numerosi

altri strumenti internazionali in materia di diritti umani lo danno per implicito.

52

rendendo quindi impossibile provare il loro status oltre che la loro identità104

. I rifugiati

allo stesso modo perdono o si lasciano alle spalle i documenti che ne dimostrano

l'identità, sempre che li abbiano mai avuti, e spesso negli sfollamenti di massa sia adulti

sia bambini divengono degli spaesati quasi in via ufficiale dal momento che le autorità

di entrambi i paesi, sia quello di origine che quello ospitante, si ritrovano sopraffatte

dallo stato generale di sconvolgimento, disordine e confusione di massa caratteristico.

Discutendo della registrazione delle nascite come causa di apolidia, si è visto che

essere senza documenti non è direttamente equiparabile con l'essere apolide ma la

mancanza di documenti ufficiali che dimostrino la cittadinanza, l'identità o anche altri

importanti fatti personali aumenta notevolmente il rischio di apolidia perché se già di

per sé è molto difficile per l'individuo stabilire con fermezza che non è considerato

cittadino da alcuno Stato e quindi apolide ai fini del riconoscimento del relativo status,

laddove invece un legame esista l'assenza di documenti impedisce allo Stato interessato

sia di tracciare che di riconoscere una tale connessione. Considerato peraltro che i

fenomeni di sfollamento internazionale inseriscono l'individuo in uno Stato non soltanto

differente ma di solito molto distante da quello di origine o cittadinanza, la difficoltà è

data anche dall'impossibilità di recuperare eventuali prove secondarie come testimoni o

documentazione indiretta; impossibilità che diventa definitiva al trascorrere del tempo.

Il Protocollo Palermo, al fine di migliorare le condizioni di chi è coinvolto nella

tratta di esseri umani in quanto vittima, nel suo articolo 7 domanda agli Stati di

adoperarsi per l'adozione di misure appropriate che consentano a queste persone di

rimanere, temporaneamente o permanentemente, nel territorio in cui sono stati contro la

loro volontà trascinati. Tale norma non è vincolante per cui non esiste alcun obbligo

concreto in capo agli Stati, sebbene almeno a livello europeo, grazie alla Convenzione

del Consiglio d'Europa sulla lotta contro la tratta degli esseri umani, essi siano obbligati

a rilasciare permessi di residenza alle vittime di traffico umano qualora l'autorità

competente ritenga che la loro permanenza sia necessaria a causa della loro situazione

personale o ai fini della loro collaborazione nelle indagini o nei procedimenti penali105

.

La posizione dei rifugiati è altrettanto ambigua perché sebbene la comunità

internazionale riconosca di fatto tre possibili soluzioni adottabili e durature nel tempo -

rimpatrio volontario, integrazione locale oppure reinsediamento - le norme di diritto

internazionale rimangono deboli e indirette sul punto, non esistendo alcun obbligo per

gli Stati riguardo l'adozione di tali misure. Ciononostante, il fatto che la Convenzione

del 1951 relativa allo status di rifugiato chieda agli Stati contraenti di facilitare la

naturalizzazione dei rifugiati presenti nel loro territorio fornisce una possibile base

giuridica per la contestazione di quegli ulteriori requisiti che spesso i rifugiati trovano

104 Carol Batchelor, The international legal framework concerning statelessness and access for statelesspersons, European Union Seminar on the content and scope of international protection: Panel 1 –

Legal basis of international protection, Madrid, 2002, pag.4105 Articolo 14, paragrafo 1 della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla lotta contro la tratta degli

esseri umani, entrata in vigore il 1 febbraio del 2008.

53

difficile o impossibile riuscire a soddisfare, quali ad esempio la fornitura della prova

della perdita o della rinuncia alla precedente cittadinanza. Infine, nel contesto del

reinsediamento, lo status fornito dallo Stato ospitante, che differisce appunto dallo Stato

di primo asilo, dovrebbe "portare con sé la possibilità di diventare finalmente un

cittadino naturalizzato del paese del reinsediamento106

".

L'accesso ad una nuova o sostituita cittadinanza per le vittime del traffico di esseri

umani o per i rifugiati rimane una zona ambigua del diritto internazionale, ma può

correttamente affermarsi come questa sia permeata dal principio dell'eliminazione

dell'apolidia se consideriamo che le misure riconosciute come utili da implementare

hanno come scopo principale fare in modo che né la vittima di traffico né il rifugiato

vengano lasciati in un limbo illegale.

5 – Alcune considerazioni

Quanto complessivamente descritto rappresenta l'insieme delle cause dell'apolidia,

come visto spesso interconnesse tra loro, e tenta di suggerire che ci sia spazio per

migliorare la risposta della comunità internazionale alla questione che da troppo tempo

affligge milioni e milioni di persone nel mondo.

Per quanto riguarda la registrazione delle nascite abbiamo scoperto che nonostante

una enunciazione chiara ed inequivocabile del diritto di ogni bambino di essere

registrato alla nascita, in pratica, un gran numero di neonati vede costantemente questo

diritto violato. Gli sforzi compiuti in tal senso sono molteplici ma sarebbe certamente

utile elaborare linee guida sulle procedure adeguate da seguire o sulle misure specifiche

da adottare per contrastare il fenomeno e le sue conseguenze, riunendo, chiarendo e

sviluppando le proposte avanzate, tra gli altri, dalla Commissione ONU sui diritti del

fanciullo in risposta alle relazioni dei singoli Stati, ma anche tener conto delle

raccomandazioni di organizzazioni come l'Unicef e Plan International. Tali linee guida

dovrebbero prevedere:

• la registrazione obbligatoria di tutte le nascite;

• il miglioramento della portata dei sistemi di registrazione attraverso il

decentramento e l'utilizzo di unità mobili di registrazione per raggiungere le

popolazioni isolate;

• la sensibilizzazione sull'importanza della registrazione delle nascite tra tutti i

soggetti interessati e la facilitazione della registrazione delle nascite in ritardo;

• la gratuità della registrazione, mettendo così fine ad ogni ambiguità;

• la trasparenza e la semplificazione di tutte le procedure di registrazione;

• la possibilità di impugnare una decisione con la quale la registrazione delle

nascite è respinta;

• la corretta conservazione dei registri in modo da evitare perdite o danni.

106 UNHCR, Resettlement Handbook, Geneva, 2004, pag.2

54

Per quanto riguarda gli immigrati irregolari, le vittime di traffico umano e i

rifugiati, data la complessità della situazione che sono costretti a vivere, dovrebbe essere

compiuto ogni sforzo per chiarirne le responsabilità e, attraverso uno studio attento,

confezionare le procedure più opportune alle particolari circostanze. Al fine di facilitare

la prevenzione e la riduzione dei casi di apolidia, inoltre, si potrebbe pensare a una

costruzione delle norme interne tale da evitare che certe informazioni come la razza o la

religione siano prese in considerazione, lasciando al contrario spazio a dettagli non

discriminatori quali il luogo di nascita, la residenza abituale propria o dei propri genitori

e perfino la cittadinanza, e dati i recenti progressi nel campo della tecnologia globale

addirittura a un sistema di identificazione internazionale che, nello stesso spirito del

passaporto Nansen107

, documenti gli apolidi attraverso una rete di cloud computing

gestita da un organismo indipendente rispetto ai diversi governi nazionali.

Un progetto simile per lo sviluppo di linee guida dettagliate potrebbe essere

previsto anche in relazione alla registrazione completa e corretta dei matrimoni,

questione che finora ha attirato su di sé una minore attenzione. Si potrebbe infatti

affrontare l'elaborazione di norme sulla registrazione dei matrimoni sotto gli auspici di

una raccomandazione generale del Comitato per l'eliminazione della discriminazione

contro le donne, tenuto conto che contrariamente a quanto avviene nella creazione di

una convenzione specifica, queste opzioni hanno il vantaggio della velocità e della

semplicità oltre a quello di evitare ogni critica che circonda da tempo l'eccessiva

proliferazione e frammentazione dei documenti che si occupano di diritti umani108

. Tale

approccio tuttavia, sebbene semplice e di immediata fruizione, presenta una certa

debolezza nel titolo stesso del documento che verrebbe preso a fondamento di esso,

poiché trattandosi di un "Commento generale" o di una "Raccomandazione generale"

ciò che verrebbe a mancare in termini di utilità è la vincolatività delle disposizioni in

esso contenute. In alternativa, a dispetto della superfetazione che le critiche cercano di

scongiurare, potrebbero essere trattate tutte congiuntamente in una nuova convenzione

delle Nazioni Unite o addirittura in un protocollo aggiuntivo alla Convenzione del 1961

sulla riduzione dei casi di apolidia che integri i meccanismi già esistenti e promuova un

coinvolgimento allargato di istituzioni quali gli organismi delle Nazioni Unite o la

Commissione del diritto internazionale, percorrendo l'idea che il processo di costruzione

di uno strumento internazionale vincolante per quanto lungo e complicato è un

contributo significativo verso il raggiungimento di un consenso che alla lunga è più

facile mantenere, dal momento che gli Stati che parteciperebbero alla conferenza di

elaborazione avrebbero la possibilità di discutere esaurientemente tutte le questioni

ritenute cruciali e di conseguenza allontanare una eventuale e futura insoddisfazione.

107 Il passaporto Nansen era un passaporto rilasciato dalla Società delle Nazioni. Venne concepito nel

1922 da Fridtjof Nansen e in seguito alla Dichiarazione internazionale dei diritti umani del 1929 che

indicava l'apolidia come problema dell'umanità venne accettato e riconosciuto internazionalmente a

tutela di profughi e rifugiati apolidi.108 Carmen Tiburcio, “Conclusion” in The human rights of aliens under international and comparative

law, Kluwer Law International, The Hague, 2001, pagg.268-269

55

Capitolo Quarto – Il quadro giuridico internazionale in materia di apolidia: le

Convenzioni ad hoc e il ruolo dell'Alto Commissariato per i rifugiati

1 – La nascita degli strumenti in tema di apolidia: la Conferenza dell'Aja

Negli anni successivi alla prima guerra mondiale, gli Stati europei avevano non

solo contribuito a creare la Società delle Nazioni ma percepito anche l'esigenza di

codificare finalmente il diritto internazionale in modo da stabilire regole e principi a cui

avrebbero dovuto attenersi nelle relazioni tra Stati e che in concreto sarebbero state

applicate dalla Corte Internazionale di Giustizia. Durante il periodo tra le due guerre, il

problema dell'apolidia era stato studiato da varie organizzazioni e centri di ricerca109

spinti dal fatto che mai prima di allora si era conosciuto un numero così alto di persone

sradicate dalla propria terra e private della propria cittadinanza. Peraltro fino a quel

periodo passare da un territorio ad un altro era abbastanza facile poiché non servivano

particolari documenti di identità e non vi era ancora stata una decisa affermazione dei

confini nazionali con la chiusura delle frontiere. L'Associazione del diritto

internazionale, rilevato questo vento di cambiamento, alla Conferenza di Stoccolma del

1924 prese delle risoluzioni molto importanti come ad esempio il divieto della perdita in

tutte le forme della nazionalità ma fu soltanto nel 1927 che convocò la prima

Conferenza per la codificazione del diritto internazionale nel cui ordine del giorno fu

inserito proprio il tema della nazionalità affidato alla Prima Commissione che

presieduta dal giurista M.Politis doveva affrontare senza alcun dubbio il più

problematico tra i tre argomenti oggetto della Conferenza: nazionalità, acque territoriali

e responsabilità degli Stati per quel riguardava i danni causati sul loro territorio, alla

persona e ai beni degli stranieri.

I testi adottati dalla Conferenza sul tema della nazionalità, se da una parte

segnarono un progresso apprezzabile nella direzione della regolamentazione

internazionale della questione, dall'altra mostrarono chiaramente come all'epoca

esistessero ancora ostacoli insormontabili che ne rendevano impossibile la

realizzazione. Lo scopo era giungere ad una convenzione per mezzo della quale gli Stati

modificassero le proprie leggi nazionali per realizzare una unità legislativa più completa

e quindi superare le difficoltà che i casi di doppia cittadinanza e apolidia creavano

rendendo inestricabili le relazioni internazionali.

Alla conclusione dei lavori, la Conferenza dell'Aja aveva adottato:

• la Convenzione riguardante determinate questioni relative ai conflitti di legge

sulla nazionalità;

• il Protocollo relativo al servizio militare dei soggetti aventi due o più

nazionalità;

• il Protocollo relativo a un caso di apolidia ossia quello del minore di padre

109 Come ad esempio lo stesso Istituto di Harvard che nel 1929 aveva promulgato proprio uno studio sulla

cittadinanza affrontando anche il fenomeno dell'apolidia.

56

apolide o di nazionalità sconosciuta;

• il Protocollo speciale relativo all'apolidia;

• i Propositi e le Raccomandazioni sulla questione della nazionalità.

La Convenzione riguardante determinate questioni relative ai conflitti di legge

sulla nazionalità evidenziò fin da subito la preoccupazione della Conferenza dell'Aja di

arrestare il minaccioso flagello dell'apolidia palesandolo in una dichiarazione in

occasione dei lavori: “Convinti che è interesse della comunità internazionale ottenere

da tutti i suoi membri il riconoscimento che ciascun individuo debba avere una

nazionalità e che ne debba avere una sola; riconoscendo pertanto che l'ideale verso il

quale l'umanità deve orientarsi in questo ambito consiste nell'eliminare tutti i casi di

apolidia e quelli di doppia cittadinanza; valutando che, in considerazione delle

condizioni economiche e sociali attualmente esistenti nei diversi paesi, non è possibile

fin da adesso effettuare una regolamentazione uniforme di tutti i problemi suindicati;

desiderosi tuttavia di iniziare questa grande opera attraverso un tentativo di

codificazione progressiva, regolando le questioni relative ai conflitti di legge sulla

nazionalità sui quali un'intesa internazionale è in questo momento possibile110”

La Convenzione venne adottata all'unanimità della Conferenza in seduta plenaria

e sebbene abbia solo 13 stati membri gli unici che presero posizione contro di essa

furono gli Stati Uniti che si rifiutarono di firmarla poiché molte norme in materia di

emigrazione in essa contenute non potevano essere accettate dal Governo dell'epoca.

Ciò che è importante notare però riguardo la questione che a noi interessa è che sebbene

la Conferenza ebbe il merito di risolvere e pertanto migliorare un buon numero di

conflitti in tema di nazionalità tra gli Stati, essa non era né perfetta né completa tanto

che nella Convenzione, così come peraltro nei suoi protocolli, nonostante le disposizioni

di protezione finalizzate alla prevenzione dell'apolidia tra le donne sposate e i bambini

non esisteva alcuna definizione né di apolidia né di apolide. La Conferenza aveva avuto

il pregio di aver ricordato agli Stati il grave pericolo rappresentato dalla moltiplicazione

degli apolidi spingendoli verso un impegno comune111

ma aldilà dello sforzo compiuto il

traguardo di una codificazione densa di consapevolezza era ancora lontano.

2 – La Convenzione di New York del 1954 relativa allo status degli apolidi

Nel periodo immediatamente successivo alla fine della seconda guerra mondiale,

che aveva sollevato numerose questioni in seguito agli avvenimenti che l'avevano

caratterizzata, si sentiva forte l'esigenza di un sistema normativo internazionale volto

alla protezione dei diritti umani e delle libertà individuali. Lo sterminio di massa di

intere popolazioni e la totale violazione dei diritti fondamentali che erano stati portati

110 A. Colaneri, Condition de sans-patrie, Parigi, 1932, pag. 162111 Nella sessione di Bruxelles del 1936, l'Istituto di diritto internazionale adottò risoluzioni che

prevedevano non soltanto un miglioramento delle condizioni degli apolidi ma anche la concessione in

loro favore di uno status giuridico definitivo.

57

avanti dai governi scatenava paure circa il futuro che, tra gli altri, vestivano di una

dimensione tutta nuova il problema dell'apolidia. Fu infatti immediatamente dopo la

nascita delle Nazioni Unite che la Commissione sui Diritti Umani nominò un gruppo di

lavoro per studiare a fondo il fenomeno e nel 1947 adottò una Risoluzione con la quale

raccomandava che la posizione degli apolidi privi di protezione fosse presa in carico da

istituzioni specializzate e sulla base di accordi o convenzioni internazionali. La prima

risposta giunse dal Consiglio Economico e Sociale che con la Risoluzione 116 (VI) D

del 1948 non solo riconosceva il diritto alla nazionalità a ciascun individuo ma

domandava al Segretariato Generale di preparare uno studio sulla situazione degli

apolidi. Tale studio, che venne poi pubblicato l'anno seguente, proponeva una

distinzione netta tra apolidi e rifugiati, e all'interno della categoria degli apolidi una

scissione tra quelli de jure e quelli de facto. Una seconda risposta arrivò nel 1948 con la

Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo adottata dall'Assemblea Generale delle

Nazioni Unite che con il suo articolo 15 dimostrava in modo evidente come la comunità

internazionale si fosse impegnata nella direzione della eliminazione definitiva

dell'apolidia112

. Un anno dopo l'adozione della Dichiarazione universale, l'8 agosto

1949, il Consiglio Economico e Sociale chiedeva che fosse istituito un Comitato sui

rifugiati e gli apolidi allo scopo di elaborare un progetto di Convenzione sullo status dei

rifugiati e degli apolidi e contestualmente eliminare il problema dell'apolidia.

All'interno di questo comitato che si costituì nell'agosto 1950 si crearono due

posizioni: una maggioritaria che riteneva inadeguato elaborare una Convenzione

sull'eliminazione dell'apolidia in quanto il problema più urgente era quello dello status

dei rifugiati e una minoritaria che invece sosteneva essere necessaria la

regolamentazione di entrambe le situazioni. Alla fine della discussione il Comitato

assunse il compito di preparare un progetto di convenzione relativa allo status dei

rifugiati e un progetto di protocollo relativo invece allo status degli apolidi che una

volta redatti furono presentati in occasione della quinta sessione dell'Assemblea

Generale delle Nazioni Unite al Consiglio Economico e Sociale il quale tra l'11 e il 16

agosto 1950 adottò una serie di Risoluzioni tra cui una che prevedeva il progetto di

statuto dell'Alto Commissariato per i Rifugiati e una in cui venivano fatte numerose

raccomandazioni dirette alla riduzione del fenomeno dell'apolidia. Quest'ultima

risoluzione, la n. 319 B (XI) sezione III, raccomandava in particolare a ciascuno Stato

membro di riesaminare la propria legislazione sulla nazionalità al fine di ridurre i casi di

apolidia causati dall'applicazione di questa, di introdurre nel suo ordinamento legislativo

delle disposizioni dirette ad evitare i casi di apolidia determinati dal mutamento dei

confini territoriali, di contribuire alla riduzione del numero degli apolidi concedendo

delle facilitazioni per la naturalizzazione a quelli residenti nel proprio territorio. La

Conferenza di plenipotenziari convocata dall'Assemblea Generale per studiare i due

112 Articolo 15: “Ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza. Nessun individuo potrà essere

arbitrariamente privato della sua cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza.”

58

progetti adotta soltanto la Convenzione sullo status dei rifugiati nel 1951 mentre decide

di non prendere decisione in merito al progetto di Protocollo rinviandolo agli organi

delle Nazioni Unite per un più ampio studio. I delegati di molti Stati dell'Europa dell'est

si erano dimostrati ostili alla sua adozione poiché ritenevano che possedendo delle

disposizioni in conflitto con le norme dei loro ordinamenti legislativi avrebbe

comportato una violazione del principio di non ingerenza negli affari interni degli Stati.

La Commissione del diritto internazionale aveva tuttavia evidenziato che l'esistenza di

molti casi di apolidia dipendeva proprio da tali norme interne pertanto il Comitato

Economico e Sociale considerò prive di valore ogni genere di obiezione e nel 1954

convocò una Conferenza di plenipotenziari sullo status degli apolidi che si tenne a New

York dal 13 al 23 settembre 1954 e a conclusione della quale venne adottata la

Convenzione relativa a detto status.

2.1 – La struttura della Convenzione e il suo articolo 1

La Convenzione del 1954, che prescrive l'assetto minimo di diritti che agli apolidi

devono essere garantiti una volta che ne sia riconosciuto lo status, si compone di sei

capitoli e di un allegato. Il primo capitolo, dedicato alle disposizioni generali, determina

il campo di applicazione personale di essa e stabilisce rilevanti principi come il divieto

di discriminazione fra gli apolidi o l'obbligo di accordare loro lo stesso trattamento

attribuito agli stranieri in generale, salvo le disposizioni più favorevoli. I successivi

quattro capitoli sono dedicati rispettivamente alla condizione giuridica dell'apolide, alle

attività lucrative, ai vantaggi sociali e alle misure amministrative. Il capitolo sesto

contiene invece le clausole finali, mentre l'allegato regolamenta le modalità e le forme

per il rilascio all'apolide del documento di viaggio. Dall'analisi di tutte le disposizioni in

essa contenute, emerge peraltro come il trattamento previsto dalla Convenzione nei

confronti degli apolidi si articoli su tre livelli: il trattamento nazionale, il trattamento

accordato ai cittadini del loro Stato di residenza abituale, il trattamento più favorevole

possibile e in ogni caso che non sia meno favorevole di quello accordato agli stranieri.

Sebbene una disamina che prenda ad oggetto ogni singola disposizione della

Convenzione sarebbe interessante, comporterebbe un lavoro complesso fuori dai fini del

presente capitolo. Così, pur rimandando al testo completo della Convenzione, seguirà

l'analisi del solo articolo 1 che apparentemente semplice nella sua formulazione pone

invece alcuni problemi, primo fra tutti comprenderne a pieno l'ambito di applicazione113

.

In occasione della Conferenza di New York del 1954 ci si domandò114

infatti se la

113 N. Robinson, A commentary on the Convention relating to the status of stateless persons. Its historyand interpretation, Institute of Jewish Affairs, World Jewish Congress, 1955, p. 5-14

114 Gran Bretagna e Finlandia propendevano per la prima soluzione, Giappone e Australia per la seconda.

Il rappresentante britannico precisò in particolare che non si potevano applicare alla stessa persona

entrambe le Convenzioni poiché laddove un apolide si fosse trovato in uno Stato aderente solo alla

Convenzione del 1954 e non a quella del 1951 e fosse in teoria qualificabile ai sensi della seconda,

non avrebbe potuto godere della protezione prevista a suo carico in quanto apolide perché

teoricamente già tutelato in quanto rifugiato.

59

Convenzione sullo status degli apolidi dovesse essere applicata solo agli apolidi che non

fossero rifugiati nel senso dell'articolo 1 della Convenzione del 1951 oppure a tutti gli

apolidi che non godessero dello status di rifugiato in quanto di fatto non rifugiati o in

quanto residenti in uno Stato che non fosse parte della Convenzione del 1951. Alla fine

si giunse ad affermare che la Convenzione, secondo la sua stessa definizione,

riguardasse tutti gli apolidi a prescindere dal fatto che la persona fosse o meno

riconosciuta anche come rifugiato ma che qualora uno Stato fosse stato aderente ad

entrambe le Convenzioni avrebbe dovuto applicare le disposizioni di quella relativa allo

status degli apolidi soltanto agli apolidi che non fossero nello stesso tempo rifugiati.

Accanto all'ambito di applicazione, un'altra questione posta dall'articolo 1 fu

proprio quella di stabilire chi doveva essere considerato apolide perché risultava oggetto

di discussione accesa scegliere se adottare una definizione meramente legale e quindi

considerare apolide chi non fosse considerato cittadino da nessuno Stato in applicazione

delle rispettive normative nazionali, oppure adottarne una che si estendesse anche a chi

pur possedendo una cittadinanza fosse stato di fatto privato della sua efficacia. Alla

Conferenza di New York del 1954 si discuteva insomma se le disposizioni e i benefici

previsti dalla Convenzione dovessero essere applicati solo agli apolidi de jure o anche a

quelli de facto. Fino a quel momento non era stata formulata nessuna definizione

ufficiale su cosa dovesse intendersi per “persona apolide”. Neppure il progetto di

Protocollo ne conteneva una, tanto che la Francia di fronte al rischio di una eccessiva

discrezionalità che tale mancanza avrebbe potuto creare aveva suggerito di inserirla nel

preambolo del Protocollo suggerendo come opportune quelle espresse dai delegati di

Gran Bretagna e Australia. In occasione della Conferenza per la Convenzione del 1954,

il Segretario Generale sottopose all'attenzione di tutti la definizione di apolide secondo

il rapporto sulla nazionalità formulato dal Relatore Speciale e adottato dalla

Commissione del diritto internazionale che peraltro precisava che “nel senso legale del

termine un apolide è chi non è considerato come cittadino da nessuno Stato, in base al

proprio ordinamento”. Fu chiaro che ci si volesse riferire ai soli apolidi de jure, tenuto

conto d'altronde delle numerose opposizioni115

all'inserimento delle persone apolidi de

fac to nella definizione che sarebbe stata adottata, sebbene la maggioranza dei

rappresentanti alla Conferenza fosse consapevole che in tal modo si compiva una

significativa limitazione ai danni degli apolidi de facto non potendo chiedere alcuna

tutela pur essendo nella maggior parte dei casi nella stessa aberrante condizione di

vulnerabilità di quelli de jure. Il rappresentante di Israele propose una definizione

costituita da due parti, una conservatrice che comprendeva tutte le persone che alla data

115 Soprattutto i rappresentanti della Gran Bretagna, della Jugoslavia, del Belgio, della Norvegia e della

Germania. Il rappresentante britannico in particolare sosteneva che la Convenzione sui rifugiati aveva

stabilito la misura entro la quale gli Stati contraenti erano disposti a concedere i benefici previsti dalla

Convenzione a quelle persone che avevano rifiutato di avvalersi della protezione da parte delle loro

autorità nazionali, per timore di subire delle persecuzioni. L'inserimento delle persone apolidi de factonella Convenzione avrebbe pertanto determinato la concessione di benefici a persone che invece erano

state escluse come rifugiati.

60

di entrata in vigore della Convenzione erano considerati come apolidi dallo Stato

contraente e una legale che invece faceva riferimento alle persone che avevano perso la

loro cittadinanza in base alle leggi dello Stato. La Conferenza accolse tale richiesta di

compromesso e decise di applicare la Convenzione agli apolidi de jure come regola,

stabilendo in aggiunta la possibilità per le Parti contraenti di estendere i suoi vantaggi

anche agli apolidi de facto. Aggiunse una clausola di facoltatività sotto forma di

Raccomandazione all'Atto Finale e, su suggerimento del rappresentante della

Danimarca, la limitò esclusivamente alle persone che avevano rinunciato liberamente

alla protezione del proprio Stato di cui erano cittadini. Ovviamente in quanto

raccomandazione essa non era affatto intesa come atto vincolante ma aveva comunque il

merito di lasciare una finestra a chi era stato lasciato fuori dalla definizione ufficiale.

Aldilà di chi rientrasse o meno nella definizione, questa così come formulata

nell'articolo 1 comportava per l'individuo interessato la difficoltà di dimostrare che

nessuno Stato esistente nel mondo lo riconoscesse come proprio cittadino. Per attenuare

questo aspetto negativo della definizione la cui prova risultava appunto estremamente

difficile se non addirittura impossibile, il rappresentante di Israele propose una

mediazione limitandola “alla legge nazionale a lui applicabile” ossia la legge del paese

di origine e/o di residenza permanente del soggetto. Gli Stati partecipanti alla

Conferenza del 1954 erano tutti consapevoli della grave difficoltà cui andava incontro

chiunque per dimostrare questa caratteristica negativa prevista dalla definizione di

apolide ma tutte le formulazioni suggerite richiedevano l'assenza di cittadinanza nel

soggetto affinché gli fosse riconosciuto il relativo status. Allo scopo di evitare che

questa diventasse una probatio diabolica concordarono pertanto sul fatto che

quantomeno non vi fossero limitazioni circa le modalità della prova lasciando in capo a

ciascuno Stato di residenza l'onere di decidere se la persona avesse o meno provato la

sua apolidia. La volontà comune era quella di richiedere che la prova formale della

mancanza di cittadinanza coinvolgesse solo quegli Stati con cui la persona aveva avuto

uno stretto legame i quali dovevano darne certificazione e che nell'eventualità in cui

questa non fosse possibile, allo scopo del riconoscimento dello status fossero ammesse

altre prove come documenti o testimonianze.

Tale riconoscimento deve essere fatto dalle autorità del paese di residenza

dell'interessato poiché la Convenzione non prevede un organo sovranazionale che

stabilisca se una persona possa o meno essere riconosciuta come apolide. Ciò comporta

che qualora l'apolide dovesse cambiare la sua residenza in un altro paese, egli possa

essere sottoposto ad un nuovo procedimento tenuto conto che ciascuno Stato non è

vincolato dalle decisioni prese da un altro paese sebbene poi all'atto pratico

difficilmente lo Stato di nuova residenza contesterebbe il precedente riconoscimento in

assenza di valide ragioni come ad esempio la scoperta di elementi che integrano una

delle fattispecie previste dalle clausole di esclusione116

di cui al secondo comma

116 La cui formulazione che è categorica, nel senso che laddove tali elementi emergano lo Stato non può

61

dell'articolo 1 della Convenzione.

3 – La Convenzione di New York del 1961 sulla riduzione dei casi dell'apolidia

Dato per acclarato che le Convenzioni del 1951 sullo status dei rifugiati e del

1954 sullo status degli apolidi perseguivano l'obiettivo di migliorare la situazione delle

persone cui rivolgevano le loro tutele, esse non risolvevano il problema fondamentale

della integrazione di tali soggetti all'interno della comunità nazionale ovvero il

problema della nazionalità. Così nel 1954, al Segretariato Generale delle Nazioni Unite

venne chiesto di riunire una Conferenza internazionale sul tema della eliminazione e

della riduzione dei casi di apolidia, poi tenutasi a Ginevra dal 24 marzo al 18 aprile

1959 e nella quale vennero presentati tre progetti: due che erano stati elaborati nel 1951

dalla Commissione di diritto internazionale e uno dalla Danimarca. Quest'ultimo, che

era il più restrittivo, venne subito scartato dalla Conferenza che decise di prendere in

considerazione il progetto intermedio relativo alla riduzione dei casi di apolidia

nell'avvenire sul quale si manifestarono profonde divergenze.

Il progetto della Commissione di diritto internazionale si fondava sullo ius soli la

cui rigida applicazione avrebbe praticamente eliminato l'apolidia per il futuro

attribuendo la cittadinanza in via automatica a chiunque nascesse entro i confini

nazionali di un qualunque Stato, ma trovò subito le opposizioni dei paesi che

applicavano invece lo ius sanguinis perché non disposti a modificare le loro legislazioni

nazionali117

. Nessuno di questi appariva disposto a fare concessioni e tutti concordavano

sul fatto che essendo un indebolimento della loro sovranità si dovesse tenere alto il

livello delle riserve. Ciononostante il risultato non fu un totale fallimento poiché, oltre

al fatto che i delegati erano riusciti a mettersi d'accordo su un certo numero di punti che

sarebbero poi stati presentati alla successiva conferenza sull'apolidia, venne adottata una

Risoluzione la quale equiparava l'apolidia de facto all'apolidia de jure.

Convocata una nuova conferenza per il 15 agosto 1961, i lavori ripartirono

esattamente da dove erano stati lasciati e, considerato che le questioni lasciate irrisolte

in fondo non erano poi molte, la Convenzione fu adottata il 30 agosto dopo appena due

settimane affrontando in maniera completa le tre questioni fondamentali della

attribuzione della cittadinanza, della perdita di essa e delle condizioni di applicazione

della Convenzione.

Essa mira a prevenire l'apolidia alla nascita, in caso di cambiamenti di status di

cittadinanza, come la perdita, la rinuncia o la privazione, e in caso di trasferimento di

territorio. Gli Stati firmatari sono tenuti a conferire la cittadinanza al momento della

più riconoscere lo status di apolide in capo al soggetto né i diritti riconosciuti dall'Atto Finale, fu

interamente copiata dall'articolo 1 della Convenzione del 1951 relativa allo status dei rifugiati. 117 Danimarca e Svizzera, ad esempio, sostenevano che gli Stati europei la cui legislazione si basava

essenzialmente sul principio dello ius sanguinis avevano in modo permanente un numero sempre

maggiore di apolidi e rifugiati ma che non si poteva chiedere loro di modificare la normativa

nazionale perché avrebbe significato inglobare ciecamente migliaia di persone attentando così alla

struttura e alla esistenza stessa dello Stato.

62

nascita o, su richiesta, nel caso in cui una persona rimanesse altrimenti apolide. Questo

vale anche per i trovatelli e per i bambini nati su navi e aerei, oltre che per quelli nati

fuori dal territorio di uno Stato parte qualora uno dei genitori sia cittadino al momento

della nascita del bambino e quest'ultimo rischi di diventare apolide. Laddove poi

intervengano cambiamenti nello status personale di un individuo come matrimonio o

adozione che comportino la perdita di cittadinanza, questa è sempre condizionata

all'acquisto di un'altra cittadinanza, sia essa del tutto nuova o già precedentemente in

possesso da parte del soggetto cui il mutamento di status personale si riferisce.

La Convenzione del 1961 manifesta insomma la volontà di intervenire riempiendo

quei vuoti normativi all'interno dei quali sedimentano l'alienazione e la disperazione di

chi si ritrova a non appartenere a nessuna comunità politica pur appartenendo per

nascita alla comunità umana. Essa conferma il divieto generale di privazione della

cittadinanza laddove l'effetto immediato sia proprio l'apolidia ma, ciononostante,

interviene con tutta una serie di eccezioni ad esso. Secondo la convenzione, infatti, una

persona naturalizzata può perdere la propria cittadinanza in ragione della residenza

all'estero per un periodo, non inferiore a sette anni consecutivi, specificato dalla

legislazione dello Stato contraente interessato se non riesce a dichiarare alle autorità

competenti la propria intenzione di mantenere la nazionalità. Inoltre, nel caso di un

cittadino di uno Stato contraente che sia nato al di fuori del suo territorio, la

convenzione prevede che la legge di tale Stato possa condizionare il mantenimento della

cittadinanza all'avverarsi, dopo la scadenza di un anno dal raggiungimento della

maggiore età, o della residenza nel territorio dello Stato o della registrazione presso

l'autorità competente. Infine, la privazione della cittadinanza è permessa qualora emerga

che la cittadinanza sia stata acquisita per errore o per frode, benché debba essere

assicurato a chiunque il diritto di rivolgersi a una corte o altro organo indipendente nel

rispetto del principio del giusto processo.

Le norme in essa contenute risultano spesso complesse, dovendo su più argomenti

trovare un compromesso che metta in sintonia paesi che per tradizione applicano lo ius

sanguinis con il fil rouge generale che si basa invece sullo ius soli, ciononostante

riescono a intervenire rispettando l'intenzione comune con la quale si giunse alla sua

promulgazione ossia promuovere la non discriminazione118

nel godimento del diritto

umano fondamentale ad una cittadinanza.

Nel perseguire tale obiettivo, la Convenzione ha riaffermato e rafforzato quanto

espresso dall'articolo 15 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e, per

evitare il rischio che comporta in materia la discrezionalità in capo agli Stati ossia il

rischio di incorrere nell'apolidia, ha imposto ad essi obblighi inequivocabili. Questa,

non avendo la Convenzione del 1961 dato spazio a una definizione ufficiale in nessuna

delle sue disposizioni, è da intendersi per interpretazione generale ai sensi della

118 In proposito molto importante è l'articolo 9 che appunto afferma come gli Stati contraenti non possano

privare una persona o un gruppo di persone della loro cittadinanza per ragioni etniche, razziali,

religiose o politiche.

63

Convenzione del 1954 e quindi come apolidia de jure, senza dimenticare sennonché la

Risoluzione annessa all'Atto Finale della Conferenza nella quale si raccomandava di

trattare, per quanto possibile, gli apolidi di fatto al pari di quelli di diritto119

.

La Convenzione sulla riduzione dell'apolidia ad oggi è stata ratificata soltanto da

55 stati, tra questi l'Italia non compare.

4 – La Convenzione europea sulla nazionalità del 1997

Nonostante la Convenzione dell'Aja del 1930 avesse dimostrato di affrontare in

maniera efficace le questioni riguardanti i conflitti di legge in tema di nazionalità e

avesse spinto verso la creazione di numerosi strumenti internazionali, i problemi emersi

con i grandi cambiamenti democratici che si erano verificati nell'Europa centrale e

orientale nel novembre 1989 a seguito della caduta del muro di Berlino evidenziarono la

necessità di una nuova convenzione sulla nazionalità che tenesse conto dell'evoluzione

dei diversi diritti nazionali e del diritto internazionale. Nel 1992 venne proposta la

redazione di uno studio di fattibilità di una nuova convenzione e nel 1993 il Comitato di

esperti sulla nazionalità iniziò l'elaborazione di un progetto di testo della Convenzione

europea sulla nazionalità che venne pubblicato dopo due anni dall'inizio dei lavori,

sebbene la versione definitiva della Convenzione si ebbe soltanto nel novembre 1996.

La Convenzione, aperta alla firma nel novembre 1997, possiede un certo numero

di disposizioni che riguardano l'apolidia, alcune delle quali peraltro hanno una incidenza

diretta sulla prevenzione o sulla creazione di essa.

A tal proposito, eloquenti sono i principi espressi dall'articolo 4, dall'articolo 6 e

dall'articolo 8 della Convenzione che, riprendendo quanto espresso nel Preambolo ossia

la necessità di evitare quanto più possibile l'insorgere di casi di apolidia, stabiliscono le

regole sull'acquisto, sulla conservazione, sulla perdita, sull'attestazione e sulla

reintegrazione della cittadinanza. In particolare, tra questi, grande considerazione si

deve al punto b dell'articolo 4 il quale prevede l'obbligo di evitare l'apolidia ed è

diventato parte del diritto consuetudinario internazionale.

Malgrado la presenza di tali norme dedicate al fenomeno, tuttavia, si percepisce

come una significativa lacuna della Convenzione l'assenza di una disposizione

maggiormente dettagliata diretta a prevenire i casi di apolidia, di cui peraltro non

fornisce alcuna definizione, essendo richiamato l'articolo 1 della Convenzione del 1954

e quindi limitato il suo campo di applicazione, come per le altre, ai soli apolidi di diritto.

4.1 – La Raccomandazione n. 18 del 1999 del Comitato dei Ministri agli Stati

Membri sulla prevenzione e la riduzione dei casi di apolidia.

Considerato che le disposizioni della Convenzione sulla nazionalità del 1997

avevano un significato generico e sommario che concedeva agli Stati un ampio spazio

di manovra per la loro interpretazione ed applicazione, nel 1999 il Consiglio d'Europa

119 Risoluzione I, annessa all'Atto Finale della Conferenza di Ginevra del 1959, A/CONF.9/14/Add.1

64

pubblicò una raccomandazione che aveva lo scopo di facilitare l'applicazione della

Convenzione del 1997 indicando agli Stati gli indirizzi specifici e diventando a tutti gli

effetti un importante supporto sul tema dell'apolidia. La Raccomandazione in particolare

chiedeva agli Stati di rispettare le seguenti regole:

prevenire e ridurre i casi di apolidia alla nascita.

◦ “Ogni Stato dovrebbe fare in modo che la sua nazionalità sia acquistata di

diritto dal bambini di cui un genitore possiede, al momento della loro

nascita, la nazionalità di questo Stato. Le eccezioni relative ai bambini nati

all'estero non dovrebbero causare casi di apolidia.” (Paragrafo II, comma

A, lettera a)

◦ “Ogni Stato dovrebbe vigilare affinché il suo ordinamento legislativo

preveda l'ottenimento della sua nazionalità da parte dei bambini nati sul suo

territorio che, diversamente, sarebbero apolidi” (Paragrafo II, comma A,

lettera b)

facilitare l'acquisto della cittadinanza da parte degli apolidi.

◦ “Ogni Stato dovrebbe facilitare l'acquisto della propria nazionalità da parte

degli apolidi che risiedono legalmente ed abitualmente sul suo territorio. In

particolare, ogni Stato, per ciò che lo riguarda, dovrebbe:

▪ prevedere un periodo di residenza più corto rispetto a quello

normalmente richiesto;

▪ nel caso in cui la condizione linguistica sia prevista dall'ordinamento

dello Stato, richiedere solo un livello di conoscenza appropriato di una

delle sue lingue ufficiali;

▪ vigilare che le procedure siano facilmente accessibili, entro dei termini

ragionevoli e con il minor costo;

▪ vigilare che le condanne, qualora siano previste in caso di acquisto di

una nazionalità, non costituiscano un ostacolo non ragionevole per gli

apolidi che la richiedono.” (Paragrafo II, comma B, lettere a, b, c, d)

prevenire l'apolidia come conseguenza della perdita della cittadinanza

◦ “Ogni Stato dovrebbe vigilare che non si possa rinunciare alla sua

nazionalità senza il possesso, l'effettivo acquisto o la garanzia di acquisto di

un'altra nazionalità. Se non è stata acquistata o posseduta un'altra

nazionalità, gli Stati dovranno prevedere che la rinuncia sia senza effetto;

◦ Quando uno Stato richiede per l'acquisto della sua nazionalità la perdita

della precedente nazionalità dell'interessato, questo Stato dovrebbe

concedere la sua nazionalità, anche se la precedente non è immediatamente

perduta. Gli Stati interessati dovrebbero, se necessario, mettersi d'accordo

sulle modalità di applicazione di questa disposizione;

◦ Allo scopo di prevenire il più possibile i casi di apolidia, uno Stato non

65

dovrebbe privare necessariamente della sua nazionalità le persone che

hanno acquistato questa nazionalità a seguito di una condotta fraudolenta,

per falsa informazione o per simulazione di un fatto determinante. Per tali

motivi, dovrebbero essere prese in considerazione la gravità dei fatti e delle

altre circostanze determinanti, come l'effettivo e reale legame di queste

persone con lo Stato interessato” (Paragrafo II, comma C, lettera a, b, c)

La Raccomandazione riprendeva i principi che erano stati espressi nella

Convenzione sulla nazionalità del 1997 in materia di apolidia ma richiamando

l'attenzione solo su questi non faceva altro che indirizzare l'applicazione e

l'interpretazione delle leggi nazionali nel senso dello scopo finale e cioè prevedere le

conseguenze derivanti dalle disposizioni degli ordinamenti interni e prendere in

considerazione tutte le relative misure in modo da evitare l'apolidia.

5 – La Convenzione del Consiglio d'Europa del 2006 sulla prevenzione dei casi di

apolidia in relazione alla successione degli Stati

Nel contesto delle Conferenze che hanno prodotto la Convenzione del 1961 sulla

riduzione dei casi di apolidia e la Convenzione europea del 1997 sulla nazionalità, una

delle questioni che la comunità internazionale ha dimostrato di tenere in considerazione

è stata proprio l'incidenza che la successione di Stati ha nella generazione di nuovi casi

di apolidia, poiché l'esperienza ha dimostrato come spesso durante tali fenomeni un

grande numero di persone rischi di perdere la propria nazionalità senza ottenerne una

nuova e divenendo in tal modo apolidi. Il capitolo VI della Convenzione europea sulla

nazionalità, in proposito, aveva tentato una regolamentazione dettando alcune regole e

principi di base da seguire in materia di cittadinanza che gli Stati avrebbero dovuto

seguire nei casi di successione ma non prevedeva nessuna regola specifica riguardo

all'apolidia che ne poteva risultare. Nel 2001, pertanto, il Comitato di esperti sulla

nazionalità ricevette dal Comitato europeo di cooperazione giuridica l'incarico di

preparare uno studio di fattibilità in merito a uno strumento aggiuntivo alla

Convenzione europea sulla nazionalità del 1997 e riguardante l'apolidia in relazione alla

successione di Stati. Il risultato cui giunse il Comitato di esperti fu un Protocollo al

quale però successivamente venne dato carattere indipendente e su raccomandazione

dello stesso Parlamento europeo venne cambiato il titolo in “Convenzione sulla

prevenzione dei casi di apolidia in relazione alla successione degli Stati”.

Venne aperta alla firma il 19 maggio 2006 e fondandosi sul capitolo VI della

Convenzione europea del 1997 ha previsto regole più dettagliate rispetto a quest'ultima.

Essa specifica cosa intendere per “successione di Stati” ossia qualunque sostituzione di

uno Stato con un altro nella responsabilità delle relazioni internazionali di un territorio,

e la definizione che fornisce di “persona apolide” è quella data dall'articolo 1 della

Convenzione del 1954 ma con una leggera modifica poiché per “legislazione” intende il

66

“diritto interno” che contiene tutti i tipi di disposizioni del sistema giuridico nazionale

come specificato del resto dall'articolo 2 della Convenzione europea sulla nazionalità.

È interessante notare però che riferendosi solo agli apolidi di diritto, essa non

comprenda affatto né coloro che erano già apolidi al momento della successione né

coloro che lo sono diventati dopo ma non a seguito della successione. Inoltre ai sensi

del suo stesso articolo 15 la Convenzione è basata sul principio di non retroattività

applicandosi pertanto ai soli casi di successione occorsi dopo la sua entrata in vigore. A

tale precisazione si giunse in seguito a numerose discussioni avute luogo durante la

elaborazione della Convenzione, ma compromesso importante fu lasciare agli Stati la

possibilità di applicare le disposizioni di essa anche a successioni verificatesi

anteriormente laddove non fossero ancora Stati parti della Convenzione al momento

della successione o laddove comunque ne dichiarassero la precisa volontà. Scopo

fondamentale dell'intera Convenzione è infatti fornire una protezione supplementare

contro l'apolidia e quindi promuovere un atteggiamento positivo sia riguardo alla sua

interpretazione che alla sua applicazione.

L'idea alla base fu che costituendo la prevenzione e l'eliminazione dei casi di

apolidia la principale preoccupazione della comunità internazionale non vi era alcun

motivo per il quale a seguito di successione tra Stati vi fossero delle persone che

improvvisamente perdessero la loro cittadinanza. Il diritto alla nazionalità come

espresso dall'articolo 15 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 e

dell'articolo 4 della Convenzione europea sulla nazionalità del 1997 assumeva ancora

una volta le vesti di un diritto fondamentale mostrandosi la cittadinanza come un

legame giuridico che garantisce all'individuo il pieno godimento dei suoi diritti in

quanto uomo passando per l'etichetta di membro di una comunità politica. L'apolidia

rende impossibile il riconoscimento della personalità giuridica, di conseguenza gli Stati

hanno l'obbligo di mettere in atto tutte le formalità necessarie per renderlo efficace.

A tale scopo, nella Convenzione del 2006, articoli fondamentali sono l'articolo 2 sul

diritto alla nazionalità e l'articolo 3 sulla prevenzione dell'apolidia. Il primo riconferma

il diritto di ciascuno a possedere una cittadinanza, il secondo stabilisce invece il

principio generale in base al quale gli Stati interessati devono prendere tutte le misure

necessarie per prevenire i casi di apolidia derivanti dalla successione siano esse misure

previste da trattati internazionali o confezionate ad hoc dal diritto interno dello Stato.

Ancora, laddove gli Stati lo desiderino, il Rapporto esplicativo della Convenzione

precisa che le disposizioni di essa possano essere applicate anche agli apolidi di fatto,

allargando così sebbene su mera base volontaria la responsabilità degli Stati successori

riguardo ai soggetti che da una successione possono rimanere coinvolti loro malgrado.

6 – La regolamentazione dell'apolidia: perché aderire alle Convenzioni?

È nell'interesse degli Stati aderire alle diverse convenzioni che si occupano del

fenomeno dell'apolidia per almeno 6 differenti ragioni.

67

Primariamente, le convenzioni stabiliscono standard universali, costituendo le basi

legali internazionali per affrontare le cause e le conseguenze dell'apolidia, che non sono

oggetto di nessun altro trattato. La convenzione del 1954, ad esempio, riconoscendo

l'apolidia come un fenomeno devastante permette un sistema di garanzie per coloro che

ne sono afflitti prevedendo che ad essi venga riconosciuto lo status di apolidi insieme a

standard minimi di trattamento fino a che la loro condizione non possa essere risolta.

Tale convenzione è importante anche, come più volte detto, perché fornisce al suo

articolo 1 per la prima volta la definizione internazionalmente riconosciuta di “apolide”,

chiarendo chi debba essere oggetto delle misure in essa previste sebbene in via generale

limitata alla sola categoria degli apolidi cosiddetti de jure. La convenzione del 1961,

così come peraltro la Convenzione del 2006, riguarda la prevenzione e la riduzione dei

casi di apolidia stabilendo regole chiare secondo cui gli Stati devono garantire la

cittadinanza soprattutto nei confronti dei minori affinché non diventino apolidi dalla

nascita; approntano inoltre meccanismi allo scopo di prevenire il verificarsi dell'apolidia

anche nel corso della vita di un individuo quando ad esempio un tentativo di

naturalizzazione è fallito o il territorio in cui è residente abitualmente è soggetto a una

successione tra Stati.

Secondariamente, le convenzioni contribuiscono a risolvere questioni

interpretative dovute a conflitti fra norme e a prevenire casi di apolidia dovuti a lacune

di protezione delle normative sulla cittadinanza applicabili, perché l'adesione ad esse e

la conseguente adozione di norme dagli standard minimi in esse previsti favorisce la

trasparenza e la prevedibilità giuridica, tenuto conto che a livello globale le migrazioni e

i matrimoni tra persone appartenenti a comunità politiche differenti sono sempre più

frequenti e pertanto sempre più persone devono confrontarsi con complessi requisiti

legali e procedurali al fine di stabilire la propria cittadinanza.

Le convenzioni contribuiscono alla pace e sicurezza internazionale perché

prevengono spostamenti forzati. La cittadinanza favorisce nelle persone un senso di

identità e appartenenza che è fondamentale per una piena partecipazione all'interno di

una società. Difatti non è un caso che diverse ampie situazioni di apolidia si verifichino

in regioni di confine tra Stati, in Stati di recente indipendenza o in paesi che hanno

vissuto significativi flussi migratori e che in assenza di regole che permettono di

prevenire l'apolidia si trovano di fronte al nascere di contrasti relativi all'attribuzione

della cittadinanza di particolari individui o talvolta di intere popolazioni. Questi

contrasti normativi possono causare tensioni quando a chi è colpito dalla piaga della non

appartenenza non sono garantiti i livelli minimi di trattamento previsti dalla

Convenzione del 1954, poiché finiscono per vivere in condizioni di indigenza,

vulnerabilità, conflitto e per essere addirittura costretti a spostamenti forzati, creandosi

così crisi di rifugiati e quindi di instabilità.

Se il maggior numero di Stati aderisse alle diverse convenzioni che si occupano di

apolidia, il contesto internazionale di prevenzione ne risulterebbe tutto rafforzato e

68

capace pertanto di affrontare il fenomeno con maggiore efficacia.

L'adesione alle convenzioni sull'apolidia è importante ancora perché ridurne le

cause e il diffondersi migliora lo sviluppo sociale ed economico. Non è infatti un caso

che la Banca asiatica per lo Sviluppo, la Banca interamericana per lo Sviluppo e la

Commissione europea abbiano svolto studi che confermano il nesso tra cittadinanza e

sviluppo sociale ed economico. Queste istituzioni globali hanno peraltro affermato

come gli sforzi per ridurre l'apolidia non debbano necessariamente essere costosi

bastando in fondo semplici riforme legislative o amministrative per avere un impatto

che sia forte e significativo, oltre che risolutivo nei confronti di coloro che possiedono

un legame con uno degli Stati. Riformando il sistema di norme interne in modo che ci

sia poi una reciproca accettazione di regole minime in materia si contribuisce peraltro

ad una migliore gestione delle migrazioni internazionali perché si promuove il principio

della legalità in tutte le società e si migliora tra esse un interscambio umano.

Infine l'adesione alle convenzioni dimostra l'impegno degli Stati nel campo dei

diritti umani, considerato che molti strumenti internazionali che di questi si occupano

affermano con forza l'importanza del diritto alla nazionalità ma di fatto in pochi

prevedono azioni concrete rivolte verso una sua effettiva ed efficace realizzazione.

In sostanza ciò che davvero conta nella risposta che la comunità internazionale

deve a se stessa prima ancora che al fenomeno in quanto tale è il riconoscimento

dell'importanza della cooperazione come base necessaria per rispettare la dignità di tutti

gli individui bisognosi di protezione e quindi riuscire nell'intento ultimo della

eliminazione di questa terribile piaga.

7 – Il mandato dell'Alto commissariato per i rifugiati ed il suo ruolo nella

protezione degli apolidi

L'Alto commissariato per i rifugiati nacque, ai sensi dell'articolo 22 della Carta

dell'ONU, come organo sussidiario dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite che

con Risoluzione 428 del 14 dicembre 1950 lo incaricò, inizialmente per un periodo di

tre anni poi costantemente prorogato, di soccorrere i profughi europei della seconda

guerra mondiale. Nel corso dei suoi più di cinquant'anni di attività ha però visto

notevolmente mutare sia il contesto in cui operare sia le sue attività120

. Se infatti

all'inizio aveva piccole dimensioni, finanziamenti modesti e compiti limitati ai soli

rifugiati, oggi invece possiede un organico che supera le cinquemila persone operando

120 Il mutamento del contesto in cui opera ha portato l’Agenzia ad affrontare nuovi problemi e a

potenziare gli sforzi per adempiere gli obiettivi del suo mandato. Oggi, più che in passato, alla base

della creazione dei flussi di rifugiati c’è un conflitto armato, così l’Agenzia si trova ad agire sempre

più in contesti di guerra e non solo nei paesi di rifugio. I movimenti dei rifugiati non sono più solo un

effetto secondario dei conflitti, ma in molti casi svolgono un ruolo importante rispetto agli obiettivi ed

alle tattiche belliche. Ne consegue che, sempre più spesso, l’assistenza umanitaria non è vista come

un’azione neutrale, al di fuori delle operazioni belliche, ma al contrario le parti in causa hanno

l’impressione che l’UNHCR e le altre agenzie umanitarie parteggino per l’una o l’altra fazione,

specialmente quando sono più evidenti le responsabilità delle atrocità di una di esse.

69

in 120 paesi con un bilancio che si aggira intorno al miliardo di dollari all'anno.

Esso come si evince dall'articolo 2 del suo statuto offre la propria assistenza in

maniera imparziale ai rifugiati senza tener conto della loro appartenenza a determinati

gruppi etnici, religiosi, politici o alle loro differenze sessuali in quanto agenzia

umanitaria e sociale la cui attività non ha alcun carattere politico. Tuttavia, tenuto conto

che i rifugiati non sono affatto una massa indifferenziata di individui, l'Alto

Commissariato (o UNHCR) ha messo a punto dei programmi specifici che rispondono

ciascuno alle esigenze di un gruppo diverso di individui, come le donne o come i

bambini, gli adolescenti, gli anziani, i disabili o le vittime di traumi particolari

impegnandosi per ognuno di questi nella promozione della parità dei diritti. L'Alto

commissariato si adopera affinché siano rispettati i diritti umani fondamentali, controlla

che le azioni dei vari governi siano in conformità con il diritto internazionale e, qualora

siano parte della Convenzione del 1951 e/o del suo Protocollo del 1967, si assicura che i

rifugiati non siano respinti contro la propria volontà in paesi dove temono persecuzioni.

Ovviamente nel perseguire tale scopo l'organizzazione promuove la creazione di nuovi

accordi internazionali sui rifugiati oltre che l'adesione a quelli già esistenti, mettendo in

atto la vasta gamma di interventi che oggi vanno dall'assistenza umanitaria attraverso la

fornitura di aiuti materiali quali cibo, acqua e ripari, all'assistenza medica, istruzione e

servizi sociali, fino all'assistenza circa le richieste d'asilo e l'ottenimento dello status di

rifugiati. Principalmente finalizzato al reinsediamento di coloro cui fornisce la propria

attenzione, l'Alto commissariato contempla peraltro tre tipi di soluzioni durevoli: il

rimpatrio volontario, l'integrazione nei paesi ospitanti o lo stanziamento in un paese

terzo. La prima soluzione, che chiaramente è la più auspicabile, non sempre è

facilmente realizzabile poiché occorre che la situazione e le condizioni che hanno spinto

il rifugiato a fuggire nel frattempo siano cambiate. Una alternativa diventa la seconda

soluzione laddove il paese di rifugio sia vicino al proprio paese di origine perché in esso

vi trovano un ambiente socio-culturale nel quale è più facile vivere in attesa che si possa

realizzare il desiderio ultimo del rientro in patria. L'ultima soluzione ovvero quella dello

stanziamento in un paese terzo, infine, può essere talvolta l'unica possibile ai fini della

garanzia di protezione internazionale quando il rifugiato in questione è impossibilitato a

tornare nel proprio paese persistendo le condizioni che lo hanno costretto alla fuga e non

ricevendo una adeguata protezione nel paese d'asilo.

In questa sua continua attività l'Alto commissariato, che promuove il principio

della partecipazione oltre a quello della consultazione e del coinvolgimento dei

beneficiari, non agisce da solo ma al contrario collabora con numerosi altri attori quali

gli Stati, le organizzazioni regionali, internazionali e non governative. Il tutto avvalorato

dal fatto che nel corso degli anni le categorie di soggetti cui rivolgere la propria

attenzione si siano andate man mano enormemente diversificandosi. Nonostante infatti

l'agenzia operi principalmente per la protezione dei rifugiati, essa ha elaborato

programmi anche per l'assistenza a sfollati, popolazioni vittime di guerra, vittime di

70

calamità naturali e insieme a questi anche agli apolidi.

L'estensione del mandato dell'organizzazione è stata favorita da numerose

risoluzioni promulgate dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite che

compatibilmente con lo Statuto dell'Alto commissariato può invero ex articolo 9 di volta

in volta attribuirvi le funzioni che ritiene necessarie.

Nel campo dell'apolidia, alcune competenze erano già previste dall'articolo 6 (A)

(II) del proprio Statuto e dall’articolo 1(A)(2) della Convenzione del 1951, le quali però

fanno riferimento soltanto alle persone apolidi che rientrano nella definizione di

rifugiato. Tuttavia, riconoscendo che la situazione dei rifugiati è spesso molto simile a

quella degli apolidi tutti e che spesso l’apolidia è tra le cause della creazione di flussi di

rifugiati, pur non essendogli stato riservato alcun ruolo in materia dalla Convenzione di

New York del 1954, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha deciso, con la

risoluzione 3274 (XXIX) del 1974, di assegnare all’UNHCR le funzioni contemplate

dall’articolo 11 della Convenzione del 1961 sulla riduzione dei casi di apolidia che

appunto prevede l’istituzione di un organo che curi la supervisione delle domande

presentate ai sensi della Convenzione stessa.

Le competenze dell'Agenzia nel campo dell’apolidia sono progressivamente

aumentate e nel 1994 il Comitato Esecutivo dell’Alto Commissariato ha richiesto

all’UNHCR di intensificare il proprio impegno nella prevenzione e risoluzione dei casi

di apolidia. A ben guardare, sennonché, la maggior parte delle attività che

l’organizzazione intraprende in questo campo sono di carattere preventivo. L’UNHCR

promuove principalmente la ratifica delle Convenzioni internazionali sull’apolidia e

collabora alla stesura di nuovi strumenti come è avvenuto ad esempio per la

Convenzione europea sulla nazionalità del 1997, invita gli Stati a adottare una

legislazione interna adeguata a prevenire il fenomeno121

ed effettua inoltre un'opera di

monitoraggio delle possibili cause dell’apolidia portandole all’attenzione degli Stati.

Sempre nel campo della prevenzione, l’Agenzia fornisce assistenza tecnica e servizi di

consulenza agli Stati e ad altri attori nazionali ed internazionali che hanno interessi in

questo ambito122

, promuovendo peraltro la formazione di esperti e la diffusione di

121 Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, l’UNHCR ha svolto un ruolo importante quando i paesi

successori si sono trovati impegnati in una difficile opera di costruzione nazionale, aiutandoli a

superare certi orientamenti politico-giuridici che avevano il potenziale per creare apolidia su vasta

scala, come le aspirazioni di omogeneità etnica che alcuni di essi avevano. Quando gli Stati baltici

hanno riacquistato l’indipendenza, le loro leggi in materia di cittadinanza hanno escluso centinaia di

migliaia di abitanti di origine russa che vi vivevano da decenni; quando i tatari della Crimea sono

ritornati in gran numero in Ucraina, da dove le loro famiglie erano state deportate da Stalin negli anni

’40, alcuni sono arrivati troppo tardi per l’acquisizione automatica della cittadinanza, incontrando

difficoltà nel trovare lavoro e alloggio, l’UNHCR ha assistito il governo ucraino nel tentativo di

ridurre il problema attraverso l’adozione di una legislazione che facilitasse l’acquisizione della

cittadinanza da parte di questi individui; vedi UNHCR, I Rifugiati nel mondo, Cinquant’anni diazione umanitaria, UNHCR, Ginevra, 2000

122 L’UNHCR coopera attivamente con agenzie ed organismi internazionali come l’Alto Commissariato

per i Diritti Umani, l’UNICEF, il Comitato dei Diritti del Bambino ed il Comitato dei Diritti Umani,

oltre a continuare la sua collaborazione con partner tradizionali come l’UNDP e l’ILO.

71

informazioni sul problema dell’apolidia sia a livello nazionale che internazionale123

. Nei

casi in cui l’apolidia sia già sorta, l’Agenzia cerca di aiutare gli apolidi nel recupero

della propria cittadinanza124

, qualora ne avessero avuta una, oppure, ove l’accesso ad

una cittadinanza effettiva sia impossibile, li assiste nella presentazione delle richieste

per il riconoscimento dello status di apolide alle autorità preposte, in base alle

disposizioni della Convenzione del 1954 sullo status degli apolidi.

L'Alto commissariato per i rifugiati, tuttavia, non opera solo a livello preventivo

nella lotta contro l'apolidia. Se è infatti vero che si sia premurato di fornire una lista

chiara delle dieci cause del fenomeno in modo da permettere agli Stati di indirizzare in

modo puntuale e preciso il loro impegno affinché nuovi casi di apolidia non si

verifichino, come ad esempio riforme legislative e costituzionali, l'UNHCR si pone al

centro di una rete di supporto che ha come obiettivi, oltre alla prevenzione, anche

l'identificazione, la riduzione e la protezione.

Per quanto riguarda l'identificazione del fenomeno, l'agenzia fornisce sostegno in

attività come il censimento della popolazione al fine di capire chi effettivamente sia

colpito, in che misura e quale sia la dimensione del problema, così come l'analisi delle

legislazioni nazionali al fine di evidenziare eventuali lacune normative.

Per quanto riguarda la riduzione del fenomeno, l'agenzia fornisce sostegno nella

realizzazione e applicazione di procedure che permettano agli apolidi di acquisire una

cittadinanza. Laddove l'apolidia sia presente su larga scala, il compito più importante è

quello di promuovere riforme legislative che permettano di includere gli apolidi nel

corpo dei cittadini del paese, attraverso strumenti che aumentino la consapevolezza

pubblica del problema e quindi spingano verso la creazione di procedure d'accesso.

Laddove l'apolidia sia presente su scala ridotta, il compito più importante diventa invece

la promozione della naturalizzazione spingendo verso un abbassamento dei requisiti

richiesti e fornendo assistenza tecnica a coloro che inoltrano le relative domande.

Per quanto riguarda infine la protezione di coloro che dal fenomeno sono colpiti,

la misura più immediata che l'agenzia promuove è il riconoscimento dello status di

apolide spingendo affinché gli Stati approntino le relative procedure a livello interno e

quindi garantiscano agli individui interessati i diritti loro spettanti. Purtroppo, nel

123 L’UNHCR ha avviato una serie di attività per affrontare il problema dell’apolidia nell’ex URSS:

l’organizzazione di seminari, la promozione di una normativa di prevenzione attiva e di adesioni agli

strumenti internazionali esistenti, e la preparazione della Conferenza internazionale (tenutasi a fine

maggio 1996) sui rifugiati e gli esodi forzati nella Comunità di Stati Indipendenti (Csi) e negli Stati

baltici; www.cna.it124 Nella Repubblica di Macedonia, l’UNHCR in collaborazione con il Ministero degli Interni macedone

e con l’OCSE, ha organizzato una campagna di informazione con lo scopo di informare i residenti da

lungo tempo dei loro diritti relativi alla regolarizzazione dello status di cittadini, come pure delle

procedure da seguire; in Kyrgyzstan e più di recente in Turkmenistan, dove milioni di apolidi rifugiati

dal Tajikistan hanno vissuto per molti anni, l’UNHCR ha intrapreso un’iniziativa per assicurare che i

rifugiati siano pienamente consapevoli delle loro possibilità di opzione: o tornare in Tajikistan e

riacquistare la cittadinanza, o ottenere la cittadinanza del paese ospitante; v. Executive Committee of

the High Commissioner’s Programme, Standing Committee 33rd meeting, 30 June 2005, UNHCR’sActivities in the Field of Statelessness: Progress Report.

72

mondo, soltanto pochi governi hanno finora confezionato normativamente delle

procedure di riferimento, dimostrandosi quindi necessaria oltre che una diffusione

efficace di informazioni a riguardo anche una continua campagna di promozione con

l'obiettivo di garantire un numero sempre maggiore di accessi a trattati internazionali in

materia come la Convenzione del 1954 che peraltro è l'unico strumento a riconoscere

internazionalmente lo status delle persone apolidi come uno status cui sono in maniera

vincolante legati i diritti umani fondamentali.

7.1 – L'UNHCR e la Sri Lanka: un piccolo caso di successo

Grazie all'Alto commissariato per i rifugiati, molti paesi si sono resi conto di

quanto grande e importante sia lo sforzo da compiere per combattere la piaga globale

dell'apolidia e hanno adottato tutta una serie di misure per evitare che nuovi casi

emergessero, per riconoscere le persone apolidi come loro cittadini e per permettere loro

di esercitare quantomeno i diritti umani fondamentali.

In Sri Lanka l'apolidia si manifestò per la prima volta nel periodo che va dal 1820

al 1840. Migliaia di Tamils, un gruppo etnico nativo della provincia di Tamil Nadu in

India, erano stati portati dall'India in una regione dell'allora colonia britannica Ceylon

per farli lavorare nelle piantagioni di tè tra le più famose al mondo. Questi raccoglitori

di tè non hanno mai acquistato la cittadinanza del loro nuovo paese di residenza e a

causa delle leggi sulla nazionalità molto restrittive rimasero apolidi per più di 200 anni

fino all'ottobre 2003 quando il Parlamento promulgò la legge di concessione della

cittadinanza alle persone di origine indiana che diede appunto immediata cittadinanza a

coloro che avevano vissuto in Sri Lanka dal 1964 e ai loro discendenti125

.

Il solitamente lungo processo di ottenimento della cittadinanza fu semplificato con

una “dichiarazione generale” controfirmata da un giudice di pace come prova della sua

validità erga omnes. Il Ministero dell'Interno, le amministrazioni competenti in materia

di immigrazione e le diverse associazioni che si erano occupate del problema di questi

individui si premurarono, comprendendo i benefici che sarebbero derivati dall'acquisto

della nazionalità, di svolgere una campagna di informazione e raggiunsero perfino gli

apolidi nelle varie piantagioni per far sì che firmassero e compilassero i moduli

necessari, e più di 190 mila persone ottennero così la cittadinanza della Sri Lanka in

circa una decina di giorni. Il processo tuttavia non fu privo di ostacoli, ma al contrario

trovò diverse difficoltà oltre che nella povertà di quella regione anche nel basso livello

di istruzione che caratterizzava gli individui coinvolti e che non gli permetteva di

comprendere fino in fondo l'importanza di una simile concessione. Fortunatamente, pur

rimanendo molto da fare ancora, per migliaia di Tamils la vita è significativamente

migliorata. Hanno finalmente documenti che ne attestano l'identità, possono quindi

spostarsi, trovare un lavoro e godere finalmente di diritti per decenni loro negati.

125 Sulakshani Perera, “Sri Lankan”, UNHCR Refugees Magazine, Geneva, Issue 3, Num.147, 2007 p.20

73

Capitolo Quinto – Proposte per una realizzazione efficace del diritto alla

cittadinanza: i principi chiave nella redazione delle leggi sulla cittadinanza e delle

procedure di riconoscimento dello status di apolide.

1 – Panoramica dei principi giuridici internazionali di riferimento in materia di

determinazione della cittadinanza

Gli sforzi compiuti dalle organizzazioni così come dagli Stati per affrontare il

problema della apolidia sono tratteggiati in modo chiaro nei numerosi articoli che

compongono gli strumenti internazionali che si occupano di tale fenomeno. Tra questi

esiste un generale consenso secondo cui l'apolidia non è altro che una anomalia,

qualcosa di aberrante in termini legali, e ciò in quanto il mondo è composto di Stati e il

sistema che ne viene fuori è tale per cui l'identità legale individuale, così come l'accesso

pratico ai diritti individuali è largamente derivante dal legame di ciascuno con uno o più

di questi Stati. L'apolidia, come già detto più volte, è la mancanza di un vincolo legale

di nazionalità con qualsiasi stato126

. Ironicamente, pertanto, è per virtù di una

definizione legale che si determina che taluno manca di una esistenza legale potendo

essere nato in uno Stato da un cittadino di quello Stato, vivere là per tutta la sua vita,

non avere mai messo piede sul territorio di un altro Stato eppure non esserne cittadino

sulla base delle leggi che ne regolano la cittadinanza. Allo stesso modo, una persona

potrebbe non aver mai visitato uno Stato o avere nessun vincolo familiare in esso ma

essere ciononostante considerato cittadino se la legge lo dichiara. Sebbene infatti, come

essere umano, chiunque possa reclamare il proprio diritto ad una nazionalità così come

previsto dall'art 15 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, l'accesso

effettivo a tale diritto sarà in ultimo dipendente dalle decisioni prese dai politici e dai

tecnici di ciascuno Stato nazionale. Di questi ultimi in pochi hanno goduto di

un'esposizione ai principi fondamentali che stanno alla base del meccanismo di

attribuzione della cittadinanza così come delineato negli strumenti giuridici

internazionali, inclusi sia i principi che i metodi concernenti l'importanza della

prevenzione e dell'eliminazione della apolidia127

. Così, mentre la globalità del quadro

giuridico internazionale tratteggia le questioni chiave, come la necessità di prevenire

l'apolidia, il diritto alla cittadinanza e con essi la cooperazione internazionale per

raggiungere tali obiettivi, la misura in cui tali informazioni sono conosciute dovrebbe

essere rivista in modo da permettere che le norme dei trattati internazionali, i principi di

diritto internazionale consuetudinario e i diritti umani fondamentali trovino sbocco in

una legislazione nazionale chiara, accessibile, ben compresa e che possa essere tradotta

dalla nozione astratta in uno specifico diritto individuale.

126 Secondo l'art.1 della Convenzione di New York del 28 settembre 1954 sullo status degli apolidi,

ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 1 febbraio 1962, n. 306, apolide è "Una persona che

nessuno Stato, in base al proprio ordinamento giuridico, considera come proprio cittadino"127 UNHCR, Department of International Protection, The final report concerning the Questionnaire on

Statelessness pursuant to the agenda for protection: steps taken by states to reduce statelessness and to

meet the protection needs of stateless persons (Marzo 2004)

74

La domanda fondamentale diventa in che modo un particolare Stato possa

redigere una normativa sulla cittadinanza che assicuri il non insorgere dell'apolidia in

capo a chi si trovi sotto la relativa giurisdizione e con esso quali regole interne e

procedure debbano essere attivate affinché vi sia una realizzazione effettiva ed efficace

di quanto la normativa prescrive, potendo nelle pieghe di una lettera equivoca della

norma trovare spazio interpretazioni errate e controproducenti ai fini dell'applicazione

da parte delle amministrazioni locali, e avendo il tutto come risultato un terribile vuoto

sostanziale. Nella pratica se non vi è chiarezza di intenti, può accadere infatti che altri

Stati fraintendano la legge straniera e facciano supposizioni tali da generare pesanti

conseguenze quali nel peggiore dei casi l'apolidia del soggetto.

A tal proposito, per la costruzione di un quadro normativo di riferimento

nazionale circa la cittadinanza, esistono dei passi chiave che chi attua le politiche sociali

del paese deve seguire per promuovere la prevenzione e la riduzione dei casi di

apolidia128

.

Un primo passo essenziale verso un approccio più efficace in materia di

attribuzione della cittadinanza consiste nel rivedere i principi internazionali rilevanti e le

norme concernenti la nazionalità. Prima fra tutte la Convenzione dell'Aja del 1930 su

certe questioni relative ai conflitti delle leggi di nazionalità che all'art 1 afferma il

principio in base al quale spetta a ciascuno Stato determinare chi è cittadino secondo la

propria legge, aggiungendo che tale legge verrà riconosciuta dagli altri Stati allorché

concordi con le convenzioni internazionali, le consuetudini internazionali e i principi

generalmente riconosciuti. Il diritto internazionale infatti interviene fornendo una guida

su come gli Stati dovrebbero esercitare la loro sovranità in materia. A tal proposito può

ricordarsi quanto statuito dalla Corte Permanente di Giustizia Internazionale circa

l'appartenenza o meno di certe questioni alla giurisdizione domestica di uno Stato e

dalla Corte Inter-americana sui diritti umani. La prima affermò, nel 1923, che si

trattasse essenzialmente di una questione relativa poiché dipendente del tutto dallo

sviluppo delle relazioni internazionali129

. La seconda, nel 1984, che a dispetto della

tradizionale consuetudine di accettare che il conferimento e il riconoscimento della

nazionalità fossero faccende da decidere a livello domestico, il diritto internazionale si

era contemporaneamente sviluppato in una direzione per cui gli ampi poteri in capo agli

Stati subivano dei limiti tali da sfuggire l'ambito della loro competenza esclusiva130

.

Questo concetto è stato di recente confermato nel caso Dilcia Yean e Violeta

Bosico v. Repubblica Dominicana, in cui la Corte Inter-Americana ha dichiarato che

sebbene gli Stati abbiano il diritto sovrano di regolare la cittadinanza, essi rimangono

128 Carol A. Batchelor, “Transforming international legal principles into national law: the right to a

nationality and the avoidance of statelessness”, Refugee Survey Quarterly, Vol.25 Issue 3, UNHCR

2006129 Permanent Court of International Justice, Advisory opinion on the Tunis and Morocco Nationality

Decrees, Ser.B.No.4, 1923, p.23130 Inter-American Court of Human Rights, Proposed Amendments to the Naturalization provision of the

political Constitution of Costa Rica, Advisory Opinion OC-4/84 of 19 January 1984, Ser.A No.4

75

responsabili per la protezione degli individui contro le azioni arbitrarie nel rispetto degli

standard internazionali dei diritti umani. Essi sono in particolare limitati nella loro

discrezionalità dal dovere di garantire un'equa protezione davanti alla legge e di

prevenire, ridurre ed eliminare l'apolidia131

.

Ciò in quanto se uno Stato fallisce nel concedere la cittadinanza a un individuo o a

un gruppo può diventare un problema per tutti gli Stati poiché viene a crearsi una

instabilità senza rimedio dovuta a conflitti e spostamenti forzati, a meno che agli apolidi

in questione non sia concesso dallo Stato che ha loro negato la cittadinanza di fermarsi

nel proprio territorio come residenti con pieni diritti equivalenti a quelli dei cittadini.

Nella redazione di una normativa nazionale risulta pertanto necessario non

soltanto che vi sia chiarezza ma soprattutto che vi sia compatibilità con le regole e i

principi contemporanei di diritto internazionale così come ogni altra obbligazione

convenzionale e sempre nel rispetto del giusto processo. A tale scopo, intervengono

numerose norme di riferimento contenute in diversi trattati.

L'art 15 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo del 1948 stipula che

ogni individuo ha diritto a una cittadinanza, ha diritto a mutarla e a non esserne

arbitrariamente privato, e in quanto dichiarazione di un diritto umano si applica a tutti

siano essi uomini o donne, supportato peraltro dall'art 5 della Convenzione

internazionale, del 1965, sulla eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale

che appunto afferma come non debba esserci nessuna distinzione di razza, colore,

origine etnica o nazionale ma al contrario uguaglianza nell'attuazione del diritto alla

cittadinanza, al matrimonio e alla scelta del consorte. Ancora l'art 9 della Convenzione

sulla eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne prevede che lo

status di cittadinanza di una donna non possa essere alterato dal matrimonio, dalla

dissoluzione di esso o dal mutamento della nazionalità del proprio consorte durante la

vigenza del vincolo matrimoniale poiché alle donne devono essere garantiti eguali diritti

e altrettanta tutela dev'essere riservata alla loro prole, così come previsto

normativamente dall'articolo 24 del Patto Internazionale sui diritti civili e politici del

1966 e dall'articolo 7 della Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989 che

rispettivamente richiedono agli Stati da un lato una registrazione immediata delle

nascite e dall'altro una loro attivazione affinché non insorgano nuovi casi d'apolidia.

Tra i tanti riferimenti cui attingere in questa operazione di passaggio che termina

con la redazione di normative nazionali che garantiscano efficacia al diritto alla

cittadinanza, la Convenzione del 1961 sulla riduzione dell'apolidia132

svolge un ruolo

fondamentale poiché promuove tale diritto delineando i meccanismi necessari per

evitare la creazione di nuovi casi. Tradizionalmente tra gli elementi dai quali si fa

derivare il famoso “legame genuino” di cui parla la Corte Internazionale di Giustizia vi

sono il luogo di nascita, la discendenza da un cittadino, l'abituale residenza e i vincoli

131 Inter-American Court of Human Rights, Dilcia Yean and Violeta Bosico v. Dominican Republic,Judgement of 8 september 2005, Ser.C.No.130

132 Della quale peraltro l'Italia non è Stato firmatario.

76

familiari, ma gli Stati solitamente indicano una preferenza tra questi basando le loro

legislazioni o sullo ius sanguinis oppure sullo ius soli. Bilanciare questi fattori è

cruciale, per cui la Convenzione del 1961 incoraggia gli Stati ad assicurare:

• accesso alla cittadinanza per la persona che altrimenti sarebbe apolide se è nato

nel territorio dello Stato o se è nato all'estero da un proprio cittadino;

• protezione contro la perdita o la privazione della cittadinanza nel caso in cui la

persona sia a rischio apolidia;

• garanzie contro l'apolidia in caso di cessione di territorio o successione di Stati;

• equo processo e garanzie procedurali, compresi gli avvisi e il diritto a un appello

indipendente;

• applicazione non pregiudiziale della Convenzione favorendo una flessibilità che

promuova approcci migliori verso la riduzione dell'apolidia.

La Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite in alcuni suoi lavori

recenti133

ha anche poi sottolineato l'importanza della volontà del soggetto interessato,

laddove i fattori suddetti risultino complessi da bilanciare, attraverso l'opportunità di un

espresso diritto di opzione.

A livello regionale, la Convenzione europea sulla nazionalità del 1997 indica

come regola generale che l'apolidia debba essere evitata, attraverso passi ben delineati

come l'opportunità di naturalizzazione che deve essere concessa dopo un periodo

massimo di dieci anni di legittima residenza a chi non è nato nel territorio dello Stato e

non discenda da un cittadino di questo, così facilitando potenzialmente la riduzione

dell'apolidia per coloro che non possono acquisire una cittadinanza in altro modo. A

livello di principi generali significativa è la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla

prevenzione della condizione di apolide in relazione alla successione di Stati del 2006

che è interamente dedicata al problema dell'apolidia. In essa, sebbene molti Stati non

abbiano un diretto coinvolgimento in fenomeni di successione, possono trovare molti

spunti redazionali per le loro normative nazionali poiché vi sono ben delineati principi

base quali l'unità familiare, la non discriminazione e la responsabilità di ciascuno Stato

di assicurare che la propria cittadinanza venga garantita a livello potenziale a qualunque

individuo che altrimenti sarebbe apolide per via di un legame appropriato con lo Stato.

Dello stesso anno è la Risoluzione “Identità legale e apolidia” che l'Assemblea generale

dell'Organizzazione Asiatico-africana di consultazione legale ha adottato sottolineando

in essa che “il legame legale di nazionalità di un individuo è inseparabile dall'identità

legale di una persona in qualunque società” per cui risulta necessario indirizzare ogni

sforzo verso la situazione di precarietà che vivono gli apolidi privati del godimento dei

fondamentali diritti umani. In tale risoluzione il messaggio primario è che per

funzionare bene all'interno di una società in un mondo composto da Stati è richiesto un

133 United Nations International Law Commission, Draft articles on Nationality of natural persons in

relation to the succession of States, annexed to United Nations General Assembly Resolution 55/153,

A/RES/55/153, 12 December 2000

77

legame di nazionalità con almeno uno Stato tra essi, sottolineando che l'apolidia può

avere come bersaglio coloro che sono già vulnerabili avendo un ancor più grande

impatto nella consapevolezza che la perdita di cittadinanza comporta dure conseguenze

legali per tutti in generale ma in particolare per donne e bambini, soprattutto con

riguardo a fenomeni quali la migrazione e il traffico di esseri umani.

Il sistema dei diritti umani tutto dichiara a gran voce l'esistenza di un diritto

individuale a una cittadinanza, acquisito per appartenenza stessa al genere umano, e di

un corrispondente dovere in capo agli Stati di evitarne un'arbitraria privazione.

Naturalmente non essendoci nessun organo internazionale con poteri dichiarativi che si

occupi di cittadinanza, gli Stati saranno meramente soggetti a critiche qualora non

compiano nessuno sforzo in tal senso lasciando del tutto privi di protezione quanti

vivono tale limbo giuridico della non-appartenenza.

2 – Quadro schematico dei meccanismi per la stesura di leggi sulla cittadinanza

La sfida più grande per i redattori di una legge sulla cittadinanza è preparare un

linguaggio specifico che sia in grado di favorire l'integrazione dei principi chiave in

materia di cittadinanza con ben delineati articoli di legge. Una legislazione su misura è a

tal fine preferibile rispetto a più articoli in Costituzione poiché essendo questa

normalmente lunga e impregnata di un elevato valore tecnico-formale risulta difficile

gestirne i riferimenti incrociati e ancor più difficile modificarne i contenuti secondo gli

usi tecnici. Una legislazione dedicata permette una maggiore flessibilità e accuratezza

oltre che la possibilità laddove necessario di apportare modifiche per accogliere gli

eventuali sviluppi specifici. Cionondimeno la Costituzione rimane un importante punto

di riferimento per i principi generali cui l'ordinamento deve ispirarsi nel dotarsi di una

piattaforma chiara in materia di cittadinanza e quindi per approntare le sue diverse

politiche e linee di condotta. Negli ordinamenti costituzionali più evoluti infatti essa

afferma come fondamentali i principi di eguaglianza e di non discriminazione sia a

livello generale che declinati nello specifico sottolineando non soltanto che tutti i

cittadini sono uguali a prescindere dal modo in cui hanno acquistato la loro cittadinanza

ma anche che non possono esserne privati in modo arbitrario.

Ai fini di una strutturata applicazione della legge, sarebbe consigliabile dividere in

capitoli e sezioni specifiche la normativa di richiamo facendo attenzione a che tutte le

questioni relative a un dato argomento siano comprese sotto un'unica voce. In questo

modo chi deve mettere in pratica la disciplina correrà un rischio minore di trascurare

alcune norme rispetto ad altre oppure di scegliere quale tra loro debba o meno prevalere.

La chiarezza e la semplicità di esposizione sono inoltre punti essenziali nella redazione

di una normativa poiché aiutano ad identificare con facilità i casi che potenzialmente

potrebbero portare a vuoti, conflitti e conseguentemente risultare in casi di apolidia. Se

guardiamo alle leggi di riferimento che esistono e le confrontiamo a livello comparato,

possiamo poi evincere una struttura di base adottabile affinché la legge sulla

78

cittadinanza possa dirsi completa, efficace e di facile appronto. Essa deve in media

possedere cinque capitoli: un capitolo d'apertura con definizioni chiave e principi

generali cui attenersi, un secondo capitolo con le regole attraverso le quali si acquista la

cittadinanza e un terzo capitolo in cui invece ci si occupa della perdita di essa. Gli ultimi

due infine solitamente riservati alle norme di transizione e di procedura che gli operatori

avranno da seguire secondo gli scopi della legge oltre che eventualmente un cenno al

riparto delle responsabilità.

2.1 – Scopo della legge, principi generali e definizioni

Un capitolo che introduca informazioni, definizioni e principi generali è un modo

per evitare che nascano problemi di interpretazione. La trasparenza è un principio

fondamentale dello stato di diritto che tende a garantire un'applicazione rispettosa degli

scopi del legislatore da parte sia dei professionisti che dei singoli individui cui la

normativa si applica.

Tale capitolo dovrebbe indicare che lo scopo della legge sulla cittadinanza è

quello di stabilire principi e regole che determinano la cittadinanza in quel particolare

Stato. Principi importanti da menzionare sono:

• il diritto alla cittadinanza è un diritto umano universalmente riconosciuto;

• nessuno può essere arbitrariamente privato né della cittadinanza né del diritto di

mutarla;

• la costituzione o lo scioglimento del vincolo matrimoniale così come il

cambiamento di cittadinanza da parte di uno dei due coniugi in vigenza del

matrimonio non pregiudica la cittadinanza dell'altro;

• non sono ammesse distinzioni o pratiche che portino a una discriminazione sulla

base di sesso o genere, lingua, religione, opinioni politiche, razza, colore,

nazionalità, origine sociale o etnica, proprietà, nascita o altro status;

• tutti i consociati sono eguali di fronte alla legge;

• se una qualsiasi disposizione della legge produca conflitto con un trattato

internazionale cui lo Stato è parte, le disposizioni del trattato prevalgono.

Poiché la chiave di tutto rimane che i pratici del diritto comprendano ogni aspetto

della legge sulla cittadinanza in modo da garantirne una applicazione corretta e

maggiormente rispondente alle intenzioni di tutela e prevenzione, risulta importante che

questi principi siano non soltanto esplicitati ma soprattutto delineati individualmente a

prescindere dal fatto che siano contenuti in articoli tra loro separati oppure in sotto-

articoli di un'unica disposizione che faccia da architrave complessiva.

A tale scopo è fondamentale equipaggiare la legge che ci si accinge a

confezionare di una precisa leggenda dei termini utilizzati al suo interno, fornendo in

modo diretto le definizioni delle parole e delle espressioni tecniche, prime fra tutte

“nazionalità”, “straniero”, “apolide” e “diritto interno” che essendo chiavi di volta

79

dell'intera disciplina non possono in nessun caso essere fraintesi o esposti a rischio di

manipolazione.

La nazionalità134

è il legame legale tra l'individuo e lo Stato; lo straniero è colui

che non possiede un legame legale di nazionalità con lo Stato interessato; un apolide è

qualcuno che non possiede alcun legame legale di nazionalità con nessuno Stato135

; il

diritto interno è l'insieme di tutte le disposizioni di un dato sistema legale nazionale,

includendo in esse la costituzione, la legislazione ordinaria, i regolamenti, i decreti, la

giurisprudenza, le consuetudini e gli usi così come pure le regole derivanti dagli

strumenti internazionali vincolanti.

2.2 – Acquisto della cittadinanza

Gli Stati, nelle loro leggi sulla cittadinanza, fanno spesso riferimento all'acquisto

“per nascita”, ma è importante chiarire che tale espressione può avere due declinazioni

differenti. In alcuni casi infatti è accompagnata dall'idea che la nascita debba avvenire

“nel territorio dello Stato” affinché vi sia acquisto automatico, in altri invece dall'idea

che perché si produca tale effetto occorre “discendenza da un cittadino dello Stato”.

In questa distinzione si manifestano i due principi base che regolano l'attribuzione

della cittadinanza in capo agli individui: lo ius soli e lo ius sanguinis.

Secondo il diritto internazionale, nessuno dei due approcci può prevalere sull'altro

in termini generali a meno che non sia necessario intervenire per scongiurare anomalie

come l'apolidia. Inoltre una volta che uno Stato abbia scelto una linea di condotta nel

valutare chi può entrare a far parte della propria consociazione, tale approccio va

rispettato seppur con tutte le dovute eventuali eccezioni e sempre in modo concreto oltre

che rispettoso dei principi di equità e non discriminazione, cercando di mantenere una

certa neutralità che impedisca disfunzioni critiche. Più specificamente, per fare un

esempio, laddove uno Stato scelga di attribuire la propria cittadinanza ai nascituri

discendenti da propri cittadini, si dovrà fare attenzione non soltanto a che i soggetti in

questione siano cittadini nel momento in cui la nascita avviene ma soprattutto che non

vi siano distinzioni di sorta tra madre e padre136

garantendo quindi che sia l'uno che

l'altro possano trasmetterla a prescindere dal genere.

Nello sforzo di evitare e ridurre l'apolidia nonché promuovere il principio

134 Ricordiamo che per gli scopi di questa ricerca non si differenzia concettualmente dalla “cittadinanza”,

divenendo termini intercambiabili tra loro, e in quanto determinato per legge non pertiene all'origine

etnica o razziale del soggetto in questione. 135 Questa definizione come già trattato è presente all'art.1 Convenzione sullo status di apolide del 1954

ed è internazionalmente riconosciuta come la definizione giuridica ufficiale.136 Vedi “Final report on women's equality and nationality in international law” , Commissione su

femminismo e diritto internazionale, International Law Association, Londra (2000) in cui si stabilisce

che se madre e padre hanno differenti nazionalità il bambino possa acquisirle entrambe nel rispetto

sempre di quanto previsto a livello internazionale, ad esempio dagli artt 4 e 5 della Convenzione

dell'Aja del 1930 sulle questioni relative ai conflitti tra leggi sulla nazionalità che regolano la

protezione diplomatica quando un soggetto con più di una cittadinanza si trovi nel territorio di uno

degli Stati di propria cittadinanza o in uno Stato terzo.

80

dell'unità familiare, le previsioni all'interno della legge dovrebbero facilitare l'acquisto

della cittadinanza per i coniugi di cittadini, per i figli di cittadini che non possono

acquisire quella dei genitori automaticamente alla nascita, per i figli di genitori che ne

hanno acquistato una nuova e allo stesso modo per chi viene adottato. Tale facilitazione

può consistere sia in un alleggerimento delle procedure di naturalizzazione come anche

dei costi di esse sia in una riduzione dei requisiti richiesti quali ad esempio la durata

della residenza nel paese e il livello delle conoscenze linguistiche. Con tale obiettivo,

poiché le procedure di naturalizzazione contengono una buona dose di discrezionalità e

tendono tipicamente ad essere eccessivamente lunghe, uno strumento utile potrebbe

essere, laddove non vi sia il possesso di una precedente cittadinanza, l'introduzione di

un diritto di opzione su base volontaria in capo a chi aspira alla cittadinanza del proprio

consorte o del genitore sia esso naturale o adottivo, e ciò faciliterebbe notevolmente

l'approccio alla questione realizzandosi in modo automatico attraverso una semplice

registrazione. Di contro, poiché esiste la possibilità che il soggetto che ha acquisito una

certa cittadinanza rinunciando ad un'altra decida di tornare sui propri passi,

bisognerebbe prevedere uno strumento di ripristino che permetta il riacquisto della

cittadinanza di cui ci si era precedentemente privati o su base volontaria o su base

automatica qualora il soggetto rischiasse di diventare altrimenti apolide.

2.3 – Perdita della cittadinanza

Chiedersi cosa accada quando un individuo acquisisca una nuova cittadinanza o

risieda all'estero per un periodo molto lungo, cosa uno Stato dovrebbe fare di fronte alla

prova di una frode nell'acquisto della propria cittadinanza o se adempiere al servizio

militare in un esercito straniero comporti automaticamente perderne una qualunque

ulteriore, specialmente se il servizio è obbligatorio, è un approccio del tutto normale

verso il fenomeno della perdita della cittadinanza sia essa su base volontaria o coattiva.

Un individuo, infatti, può anche decidere di rinunciare alla propria cittadinanza

perché ad esempio ha instaurato legami più forti altrove avendo modificato il suo stato

di famiglia o essendosi trasferito per lavoro. Ecco, in alcuni casi è previsto che si

rinunci alla propria cittadinanza per acquisirne una nuova ma in nessun caso ciò deve

risultare in apolidia, neppure temporaneamente. Gli stati dovrebbero quindi assicurare

che il cambio di cittadinanza sia sempre possibile, e nei casi in cui non è ammessa una

cittadinanza plurima programmare la perdita della prima al momento dell'acquisto

automatico della seconda.

Un individuo che è nato nel territorio di uno Stato e in esso ha mantenuto la

propria residenza per tutto l'arco della propria vita potrebbe all'improvviso scoprire,

laddove la nascita non fosse stata correttamente registrata, di non esserne in realtà

considerato cittadino e di conseguenza trovarsi a dover fornire la prova del suo diritto a

quella cittadinanza allo scopo di rimanere in quel territorio e mantenere lo stato legale.

Tale eventualità è fonte di non pochi problemi soprattutto per donne e bambini che di

81

solito hanno pochi documenti che ne dimostrino l'origine, e tra le conseguenze più gravi

vi è il favoreggiamento di fenomeni quali la tratta di esseri umani e il loro traffico

illegale.

Gli Stati possono prendere misure per alleviare tali problemi assicurando che

qualunque perdita di cittadinanza sia attentamente scrutinata, che i principi del diritto ad

una cittadinanza e la protezione contro la perdita arbitraria di essa siano sempre

considerati primari, e che procedure adeguate siano predisposte per mettere al riparo da

perdite involontarie di cittadinanza i soggetti che per circostanze chiaramente fuori dal

loro controllo se ne ritrovano spogliati, ma i vuoti normativi e procedurali cui

aggrapparsi per impedire tali difformità rimangono eventualità possibili.

La perdita della cittadinanza ex lege ossia che avviene automaticamente per

iniziativa dello Stato, pertanto, dovrebbe essere fortemente presa in considerazione

come una eccezione alla regola che la cittadinanza, una volta acquisita, debba essere

adeguatamente salvaguardata come un diritto umano fondamentale. La legge di

cittadinanza potrebbe indicarne i casi tassativi in modo che questa venga persa solo se

c'è una specifica disposizione normativa che lo prevede ma nel rispetto di garanzie

sostanziali e procedurali. Casi specifici potrebbero essere: volontaria acquisizione di

un'altra cittadinanza da parte dell'individuo interessato, se quella plurima non è

concessa; volontaria rinuncia da parte dell'individuo che ha fatto richiesta per un'altra

cittadinanza137

; acquisto della cittadinanza per condotta fraudolenta o occultamento di

fatti rilevanti che se conosciuti avrebbero condotto al diniego della richiesta.

Inoltre la legge dovrebbe chiaramente specificare che la perdita di cittadinanza per

taluno non può comportare la perdita di questa anche per il proprio coniuge o per la

propria prole, e ciò sulla base del principio di indipendenza dell'identità legale che

dovrebbe essere incorporato a livello legislativo in tutte le normative che si occupano di

stato civile.

2.4 – Regole concernenti disposizioni di transizione

Nei casi in cui uno Stato sia appena formato o divenuto indipendente, affinché si

indichi quali individui debbano, o meglio possano, entrare a far parte del corpo iniziale

di cittadinanza sono necessari dei primi passi attraverso innanzitutto una specifica

sezione di una nuova o emendata legge sulla cittadinanza che determini in modo chiaro

e preciso quali persone saranno cittadini dello Stato, lasciando poi che il resto venga

regolarizzato in via generale fuori dal particolare evento della successione. È importante

per uno Stato articolare in modo trasparente quali persone reputare cittadini, considerato

peraltro che può essere una questione davvero complessa in situazioni di mutamenti

137 La differenza tra volontaria acquisizione e volontaria rinuncia risiede tutta nelle procedure utilizzate

per raggiungere lo scopo che in entrambe è lo stesso: la perdita della cittadinanza in questione. In un

caso la persona ha già volontariamente acquisito un'altra cittadinanza e lo Stato avvia un

procedimento di revoca. Nell'altro caso invece la persona ha fatto richiesta della cittadinanza

alternativa e nell'attesa rinuncia a quella di cui è titolare.

82

geopolitici e che persone che prima della dissoluzione si muovevano liberamente

possono ritrovarsi da un momento all'altro aldilà di un nuovo confine internazionale. Le

ramificazioni che possono intercorrere sono molteplici se non si affronta il tutto

attraverso le lenti dei diritti umani e l'obiettivo dell'eliminazione dell'apolidia, e ancora

molto severe perché portano alla perdita di una precisa identità legale, separando

famiglie intere e rendendole addirittura incapaci di possedere alcunché a titolo di

proprietà o lavorare nel proprio luogo di residenza.

Di primaria importanza nel caso della successione tra Stati è la necessità di

assicurare che tutti coloro che possedevano una cittadinanza prima della successione ne

abbiano una anche dopo. Nel preambolo del Progetto di articoli sulla cittadinanza delle

persone naturali in relazione alla successione di Stati, la commissione di diritto

internazionale è chiara nell'affermare che “nelle questioni riguardanti la nazionalità

deve essere dato dovuto riconoscimento agli interessi legittimi sia dello Stato che degli

individui138

” per cui non è ammesso che paghino con l'apolidia soggetti che non hanno

nessun controllo sulle circostanze della successione. In alcuni casi viene previsto un

diritto di opzione ma affinché non emergano discriminazioni deve sempre aversi

rispetto per il principio di non-discriminazione così come espresso anche all'art.15 del

Progetto e che statuisce che “gli stati interessati non negano ai soggetti il diritto di

conservare o acquisire una cittadinanza”. In questo contesto ovviamente avrà rilevanza

solo la legge degli Stati coinvolti dalla successione, significando con ciò in linea di

principio i diritti estesi sia agli uomini che alle donne. L'eliminazione dell'apolidia in

relazione alla successione tra Stati emerge come obiettivo essenziale tanto che la

Convenzione del 2006 ne fa proprio il suo oggetto e scopo, affermandosi come

strumento necessario agli Stati per assicurare a ciascun individuo coinvolto in possesso

di una cittadinanza prima della successione di averne una anche dopo. Ad ogni modo,

laddove gli Stati coinvolti non fossero capaci di armonizzare i loro sforzi, occorre che

prendano ognuno per sé piena responsabilità per l'applicazione dei principi chiave in

materia nei confronti dei soggetti sotto la loro giurisdizione.

2.5 – Procedure e ripartizione delle responsabilità

In ogni legge sulla nazionalità esiste una componente essenziale tanto quanto

l'esposizione dei principi generali che la regolano: le disposizioni procedurali.

La cittadinanza è un diritto umano vitale nella pratica per assicurare l'accesso agli

altri diritti umani di base come il diritto al lavoro, alla proprietà privata, alla libertà di

stabilimento e movimento dentro e fuori il proprio paese, al matrimonio, e insieme a

questi molti altri diritti che non derivano dalla cittadinanza per se. Compresa tale

importanza della cittadinanza per l'individuo, è imperativo concedere speciale

attenzione alle garanzie procedurali che operano nella determinazione di essa.

138 United Nations International Law Commission, Draft articles on nationality of natural persons in

relation to the succession of States, annesso alla Risoluzione ONU 55/153, A/RES/55/153, 12

Dicembre 2000

83

Nella redazione e nella revisione della normativa di riferimento, prima fra tutte le

garanzie di cui occorre tener conto è la ragionevole durata del procedimento. Sia esso

riferito all'acquisto, alla conservazione, alla perdita, al ripristino o alla certificazione

della cittadinanza non può avere una durata che infici l'oggetto della richiesta del

soggetto e su tali basi occorre che dei tempi siano già preventivamente previsti per

disposizione stessa in modo che tutto risulti più scadenzato e quindi efficiente.

Bisognerebbe specificare inoltre che le decisioni debbano tutte essere motivate e redatte

per iscritto, in modo che l'individuo possa avere contezza di quanto statuito dalla

discrezionalità delle autorità statali in merito alla propria richiesta. In assenza di

motivazione infatti il soggetto cui venga rigettata la domanda, non conoscerà le ragioni

che hanno portato l'autorità competente a decidere in un senso piuttosto che in un altro e

non potrà ad essa appellarsi. Alcuni Stati prevedono tale onere solo laddove le decisioni

siano negative tenuto conto che se ciò che si vuole tutelare è l'opportunità di appello del

richiedente e che le decisioni positive accolgono di fatto quanto domandato, contro di

esse non sarà espletato appello. Sempre con riferimento alle opportunità procedurali del

soggetto, all'interno della legge deve essere data indicazione dei tempi necessari

affinché il soggetto possa inoltrare nuovamente la richiesta di cittadinanza, quando la

prima richiesta è stata rifiutata e il processo di appello si è esaurito.

Naturalmente tali procedure, siano esse di prima richiesta oppure di appello,

dovrebbero essere delineate con chiarezza in modo che il soggetto sappia esattamente

come deve muoversi, quali siano i tempi da rispettare e soprattutto le eventuali tariffe o

onorari cui far fronte. Questi non devono mai essere eccessivi o irragionevoli per non

inficiare di fatto il potere di richiesta in capo al soggetto e affinché siano rispettati i

principi del giusto processo, di non-discriminazione e di eguaglianza sostanziale è

importante che nella stessa legge siano ben delineate non soltanto le tariffe ma anche il

meccanismo che sta dietro la loro determinazione. Nonostante infatti una tariffa sia in

linea teorica proporzionata, essa potrebbe in concreto risultare oltre le possibilità di

alcuni soggetti o gruppi inficiando così il loro diritto alla cittadinanza per mancanza di

mezzi economici e dando luogo quindi ad una palese violazione per niente

giustificabile.

Un elemento fondamentale tanto quanto l'obbligo di motivazione è sicuramente

quello della chiarezza delle date, e ciò poiché un individuo potrebbe ritrovarsi a dover

dimostrare ad un altro Stato lo status legale in cui si trova in un dato momento così

come statuito in un certo documento rilasciatogli. Per alcuni Stati la cittadinanza si

ritiene acquisita a decorrere dalla data in cui ha luogo il giuramento, per altri invece si

tiene in considerazione la data di pubblicazione dell'atto che decide in merito oppure

della sua notifica all'interessato. Gli individui devono infatti essere messi al corrente

attraverso le notifiche di ogni decisione che li riguardi e che potrebbe avere un impatto

sul loro status di cittadino. Naturalmente il rispetto di tale onere non può comportare da

parte dello Stato uno sforzo eccessivo manifestantesi in ricerche fin troppo elaborate ma

84

occorre che si attivi con i mezzi a disposizione affinché coloro che si trovano a rischio

di apolidia sappiano a cosa vanno incontro e non subiscano le conseguenze di una

arbitraria incuria da parte delle autorità competenti in materia, considerato che

discutibilmente, la creazione di apolidia è già di per sé un'azione arbitraria.

Il capitolo dedicato alle garanzie procedurali di una legge sulla cittadinanza

potrebbe inoltre prevedere in via diretta l'istituzione di agenzie governative ad hoc,

come ad esempio agenzie consolari presso il Ministero degli Affari Esteri,

specificandone le relative competenze riguardo le varie istanze e le certificazioni di

cittadinanza depositate all'estero, oppure presso il Ministero dell'Interno e suoi

equivalenti con riferimento invece a quelle presentate nello Stato. In tal senso, sarebbe

opportuno anche articolare in maniera dettagliata la possibilità di un controllo e di un

potere di revisione delle decisioni da parte del capo dello Stato, di altri organi

governativi o da una commissione sulla cittadinanza appositamente preposta alla

consulenza, promuovendo così la trasparenza nell'applicazione della legge. La

commissione sulla cittadinanza, in quanto organo consultivo e preposto a passare in

rassegna le differenti istanze individuali siano esse di primo grado o di appello, sarebbe

inoltre estremamente utile poiché garantirebbe una expertise tecnica capace di

sviluppare importanti prospettive di responsabilizzazione delle agenzie governative, che

peraltro laddove fossero di nuova formazione avrebbero un indirizzo da seguire e linee

di condotta cui ispirarsi.

I riferimenti legali, insomma, non sono mai troppi e più vi è chiarezza sulle

procedure, sui requisiti richiesti, sulle competenze e sulle motivazioni verso una

decisione piuttosto che un'altra, maggiore è la possibilità di evitare che si incorra

nell'aberrazione quale abbiamo detto essere l'apolidia.

3 – Sistema di monitoraggio nell'adozione della legge sulla cittadinanza

Nelle conclusioni del “Rapporto finale concernente il questionario sull'apolidia ai

sensi dell'Agenda per la protezione: misure adottate dagli Stati per ridurre l'apolidia e

per incontrare i bisogni di protezione degli apolidi139

” pubblicato dall'Alto

commissariato per i rifugiati nel Marzo 2004 si evince in maniera interessante che degli

Stati partecipanti alla ricerca solo il 54% possiede un qualunque meccanismo per

identificare i casi di apolidia, che il 44% possiede informazioni generali sul numero

potenziale di apolidi sotto la loro giurisdizione e l'86% vorrebbe maggiore contezza su

come non soltanto identificarli ma anche documentarli.

Dato che la cittadinanza è un diritto umano e, come già detto, funge da portale a

tutti gli effetti per l'accesso di ciascun individuo agli altri diritti come la libertà di

movimento, la capacità di costituire una famiglia e l'accesso al lavoro, l'assenza di essa

produce un impatto severo e risulta decisamente allarmante che proprio chi ricoprirebbe

139 UN High Commissioner for Refugees (UNHCR), Final Report Concerning the Questionnaire onStatelessness Pursuant to the Agenda for Protection. Steps taken by States to Reduce Statelessnessand to Meet the Protection Needs of Stateless Persons, March 2004

85

i ruoli addetti ad evitare il problema ne conosca di fatto così poco.

A tal fine, alcuni Stati hanno scelto di tenere consultazioni aperte sulla redazione

delle leggi sulla cittadinanza, consultazioni che hanno visto una significativa

partecipazione ma che per essere complete andavano aperte non soltanto a coloro che

sono cittadini ma anche a coloro che vengono in qualunque modo colpiti

dall'applicazione di una nuova legge, come ad esempio gli operatori giuridici cui spetta

fornire eventuale assistenza. Molti Stati adesso cercano di diffondere ampiamente

informazioni e dati così che il dibattito sulla legge possa essere trasparente e favorire un

coinvolgimento attivo delle persone interessate sotto la giurisdizione dello Stato.

Naturalmente rimane fondamentale l'applicazione degli standard dei diritti umani e con

essi il rispetto degli obiettivi che difendono le norme internazionali di riferimento, per

cui assume importanza che lo Stato lanci campagne pubbliche di consapevolezza,

tolleranza circa il fenomeno e accettazione circa gli impegni da intraprendere a livello

sia nazionale che internazionale.

Molti Stati hanno perseguito uno scambio di informazioni tecniche a livello sia

bilaterale che regionale come pure internazionale con lo scopo di comprendere

attivamente come cooperare per identificare i meccanismi necessari a sconfiggere

questo cancro giuridico. Una importante considerazione meritano in tal senso gli

strumenti di diritto internazionale che svolgono un ruolo fondamentale perché

forniscono un quadro di base per l'interazione tra tutte le parti coinvolte140

favorendo lo

scambio informato dei principi sottesi alle varie leggi sulla cittadinanza e ovviamente

supportando quei meccanismi che aiutano ad evitare campagne di insinuazione e

disinformazione basate sulla propaganda.

4 – Panoramica dei principi giuridici internazionali di riferimento e dei

meccanismi procedurali in materia di determinazione dello status di apolide

Sulla base di quanto enunciato, appare evidente che oggi più che mai le persone si

aspettano di essere ascoltate in materia di diritti umani poiché la violazione di questi ha

un impatto incidente in via significativa e diretta sulla loro esistenza effettiva, tanto che

una positivizzazione risulta indispensabile sebbene non possa ad essa essere attribuito

un ruolo assolutamente costitutivo. I diritti umani infatti hanno un'origine che poggia sul

140 Ci sono organizzazioni internazionali che hanno come mandato quello di fornire supporto tecnico e

condividere la loro expertise per la preparazione e l'implementazione delle leggi di riferimento circa la

cittadinanza. Primo fra tutti l'Alto commissariato per i rifugiati che in quanto agenzia specializzata

delle Nazioni Unite fornisce piena assistenza oltre che ai singoli anche a tutti gli Stati che ne facciano

richiesta. A livello regionale troviamo il Consiglio d'Europa che ha sviluppato sistemi completi di

dialogo per promuovere le consultazioni tra Stati e favorirne lo scambio di informazioni, oltre che

incoraggiarne l'armonizzazione degli approcci seguiti nel bilanciamento di interessi tra Stato e

individui. Per quanto riguarda invece i meccanismi per il coinvolgimento dei singoli e la promozione

della loro voce in materia di cittadinanza e status legale, uno dei pochi in atto al momento con un

riscontro valido è quello previsto dal Protocollo addizionale del 1999 alla Convenzione

sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne il quale riconosce in capo ad una

Commissione la competenza a ricevere e considerare le comunicazioni per conto di persone fisiche e

gruppi che affermano di essere vittime di una violazione di diritti enunciati nella Convenzione.

86

diritto naturale, organismo dinamico che vive fuori da qualunque volontà politica perché

generato dalla coscienza comune dell'umanità, ma le loro istanze prendono forma

attraverso un fenomeno di recepimento da parte dei vari ordinamenti positivi del

mondo. Il diritto naturale, lontano dall'appartenere semplicemente al metagiuridico,

abita nei diritti positivi in quanto fonte dei presupposti ontologici da cui i sistemi

giuridici non possono prescindere. Come affermato più di una volta, primo fra tutti i

diritti umani, il diritto alla cittadinanza si eleva a diritto umano fondamentale fungendo

in concreto da prodromo essenziale dell'identità legale di qualunque individuo

nell'attuale costrutto mondiale composto da Stati che in definitiva possiedono la

sovranità, l'autorità e la responsabilità per decidere chi è cittadino e in cosa realmente

consista il legame legale che a norma del diritto interno di uno Stato deve di volta in

volta sussistere affinché l'individuo in questione possa essere considerato come

consociato a tutti gli effetti.

I principi generali che devono essere rispettati in materia sono chiaramente

espressi a livello internazionale e perché si abbia un approccio completo al problema

occorre che questi siano integrati nelle varie leggi nazionali sulla cittadinanza in modo

che le preoccupazioni circa l'attribuzione della cittadinanza acquistino voce e sia più

facile trovare per esse una soluzione soddisfacente sia per l'una che per l'altra faccia del

fenomeno. Gli addetti ai lavori, siano essi operatori del diritto o responsabili politici,

devono avere l'opportunità di conoscere i principi fondamentali così come delineati nei

numerosi trattati internazionali, inclusi anche i meccanismi per prevenire ed eliminare i

casi di apolidia, e ciò in quanto a conti fatti se il sistema dei diritti umani stipula in capo

ai soggetti una titolarità a livello di diritti, esso produce al tempo stesso in capo agli

Stati tutta una serie di oneri da rispettare proprio perché unità di snodo della comunità

internazionale di diritto cui appartengono.

Se le leggi sulla cittadinanza risultano fondamentali affinché ogni singolo

ordinamento gestisca con chiarezza l'attribuzione della propria cittadinanza e ogni

singolo che ne voglia fare richiesta sappia quali procedure mettere in atto e a quali

autorità rivolgersi per ottenere soddisfazione in merito, laddove ci si trovi di fronte ad

un soggetto apolide il primo passo verso una risposta efficace per garantirne la

protezione141

si può trovare nelle procedure di riconoscimento dello status di apolide,

così come enunciato chiaramente dall'Alto commissariato per i rifugiati nel suo quadro

analitico per la prevenzione, riduzione e protezione delle persone apolidi.

Purtroppo, sebbene si riconosca quanto sia importante approntarle e

implementarle, non tutti gli Stati le prevedono nel loro diritto interno dimostrando

ancora una volta come l'apolidia rimanga uno sforzo troppo spesso trascurato142

.

Così come le legislazioni in materia di attribuzione della cittadinanza, anche per le

141 UN High Commissioner for Refugees, Statelessness: An Analytical Framework for Prevention,Reduction and Protection, 2008, p.20

142 Indira Goris, Julia Harrington & Sebastian Lestin, Statelessness: what it is and why it matters, Forced

Migration Revue, Aprile 2009

87

procedure di riconoscimento dello status di apolide esistono degli elementi che non

dovrebbero mai mancare nella loro predisposizione affinché risultino corrette ed

efficienti. A tale riguardo se le procedure sono già esistenti e si vuole comprenderne il

livello di efficacia, bisogna porsi qualche domanda una volta evidenziato il tipo di

procedura di cui si tratta, ossia se amministrativa in senso stretto oppure giudiziaria:

• se fornisca adeguati servizi di consulenza legale e di interpretazione;

• se le decisioni siano prese in tempi ragionevoli e con le dovute motivazioni per

iscritto;

• se è previsto un diritto di appello presso un'autorità indipendente;

• se al soggetto è concesso di rimanere all'interno del territorio dello Stato in

pendenza della decisione;

• se l'onere della prova sia in capo al richiedente o all'autorità che riceve la

richiesta;

• quale tipo di prova occorra per dimostrare la cittadinanza o l'assenza di essa;

• se i bisogni specifici di gruppi vulnerabili come donne, bambini e anziani sono

tenuti in considerazione;

• se l'Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite svolga un ruolo

operativo, funzionale e di consulenza;

• se è fornita adeguata formazione a tutti coloro che operano quali politici,

avvocati e funzionari.

Tra i tanti ordinamenti nazionali, Spagna e Ungheria143

attraverso la legislazione

ordinaria hanno creato dettagliate regole procedurali per il riconoscimento dello status

di apolide dedicando grande attenzione al problema. In alcuni paesi come Francia e

Belgio, le procedure sono previste a livello amministrativo mentre in altri come l'Italia

le procedure previste sono di fatto alternativamente una di stampo amministrativo e

l'altra di stampo giudiziario. In Belgio, per esempio, una persona può fare richiesta

presso il Tribunale di prima istanza che istruirà la pratica cercando di comprendere non

soltanto se il richiedente abbia o meno diritto alla nazionalità di un qualche paese con il

143 L'Ungheria ha creato una procedura ad hoc di determinazione dello status di apolide nel 2007. In base

a questa procedura, è possibile fare domanda per il riconoscimento dello status di apolidi con uno

standard di prova simile a quello applicato nella determinazione dello status di rifugiato. I ricorrenti

hanno diritto all'assistenza legale e all'UNHCR è concessa una posizione speciale nel processo

sebbene solo le persone che si trovano legalmente in Ungheria possano di fatto fare richiesta. Nel

2008 furono 47 i candidati al riconoscimento dello status di apolide in Ungheria, e tra questi in 25

procedettero alla fase di merito della decisione ma solo 20 ottennero lo status di apolide. L'UNHCR e

il Comitato di Helsinki ungherese hanno entrambi espresso la preoccupazione che la procedura

ungherese escluda le persone che soggiornano illegalmente nel Paese tenuto conto anche degli apolidi

de facto che nell'ambito della procedura non vengono neppure considerati. Come l'Ungheria, anche la

Spagna ha una procedura ad hoc per il riconoscimento dello status di apolide a chi ne faccia richiesta,

che coinvolge il ministro degli Interni il quale è costretto a riconoscere che una persona è apolide

laddove siano soddisfatte le prescrizioni della Convenzione del 1954 e di conseguenza è obbligato a

concedere lo status.

88

quale mantiene dei legami ma, laddove dovesse giungere alla conclusione che questi sia

da considerare apolide, attiverà la procedura di regolarizzazione come prevista dall'art.9

della Legge sull'immigrazione belga144

.

Esempio di grande peculiarità si ritrova però nella legislazione del Messico che,

presumibilmente, è l'unico paese al mondo a prevedere una procedura di riconoscimento

dello status per gli apolidi de facto e ciò in quanto, ai sensi della Convenzione del 1954,

ha incorporato, attraverso un ordine amministrativo che affronta la situazione degli

apolidi presenti nel suo territorio nazionale, i propri obblighi approntando una disciplina

specifica145

. L'ordine è stato promulgato nel 2007 e prevede una procedura relativamente

semplice con la quale gli apolidi, siano essi de jure oppure de facto, possono presentare

una petizione per la residenza in Messico e una volta riconosciutogli lo status di apolide

possono beneficiare in quanto “non-immigrati” dell'autorizzazione a lavorare e

viaggiare in tutto il paese per un periodo di un anno, rinnovabile quattro volte e al

termine del quale acquisiscono il diritto di chiedere un diverso status di immigrazione

oppure la naturalizzazione. Vengono esplicitamente esclusi dall'ambito di applicazione

della normativa sia i rifugiati che le persone i cui diritti di nazionalità sono riconosciuti

da un altro paese. L'esempio messicano assume, pertanto, una valenza decisamente

importante su come la protezione nazionale possa essere fornita a coloro che sono di

fatto apolidi in quanto in possesso di una nazionalità inefficace, e dimostra ancora di

essere una normativa flessibile laddove il soggetto cui è stato riconosciuto lo status di

apolide di fatto veda la propria cittadinanza riacquistare efficacia. In tal caso infatti, al

termine del periodo di un anno nel quale lo status è riconosciuto non si avrà alcun

rinnovo, salvaguardando in questo modo l'ordinamento nazionale stesso. Naturalmente

la procedura sta ancora attraversando una fase iniziale di applicazione e verrà

ulteriormente rafforzata man mano che la legislazione accolga le sfide che i vari casi

concreti impongono al diritto, facendosi portatori di possibili eventuali emendamenti

affinché sia il più rispondente possibile alle esigenze di tutela che si propone.

Ciononostante rimane un esempio che molti Stati dovrebbero adoperarsi a replicare

sulla base di una prospettiva internazionale di protezione completa degli apolidi tutti, de

jure e de facto.

Negli ultimi anni, punto fondamentale all'interno dell'agenda del sistema dei diritti

umani è stato lo sforzo crescente per integrare l'apolidia tra le violazioni da combattere

e fronteggiare, tanto che grazie anche ad una campagna di sensibilizzazione in materia

si è ottenuta un'ondata senza precedenti di adesioni alla Convenzione relativa allo status

degli apolidi del 1954 che mettendo al centro di tutto la necessità di un regime

interconnesso di protezione per le persone apolidi evidenzia quindi significativamente

l'esigenza di creare una specifica procedura di determinazione dello status di apolide. In

tal senso sono stati numerosi gli Stati che hanno compiuto passi positivi corroborando il

144 European Migration Network, Belgian Contact Point, The Organisation of Asylum and MigrationPolicies in Belgium, April 2009, p. 34

145 Circular Administrativa CRM-015-07: Situación migratoria de apátridas

89

loro diritto interno, tuttavia attualmente il numero di procedure esistenti per la

determinazione dello status di apolide e dei modelli di protezione specificamente

dedicati rimane basso, tanto che gli attori che operano in materia incontrano spesso

difficoltà nella ricerca di “buone pratiche” e di esempi da copiare o adattare.

L'ENS, acronimo per “European Network on Statelessness” che è una nuova

alleanza di società civile nata nel 2011 come rete di comunicazione per le varie

organizzazioni non governative, gli accademici, i centri di ricerca e le diverse istituzioni

impegnate nell'affrontare il fenomeno dell'apolidia, ha pubblicato coerentemente con il

suo obiettivo di incoraggiare gli Stati ad adottare efficaci politiche nazionali di

prevenzione e riduzione dell'apolidia una breve guida che fornisce con esperienza

tecnica un sostegno concreto ai paesi che desiderano migliorare il loro regime esistente

progettando nuovi, se non ancora esistenti, meccanismi di determinazione e protezione a

livello nazionale. Questa guida146

, le cui informazioni hanno un grande valore per

chiunque voglia sostenere degli standard di protezione migliori, sviluppa sei punti

chiave che non dovrebbero mai mancare in un sistema affinché possa dirsi rispondente

in modo efficace alle necessità di chi vive nelle ombre dell'assenza di una cittadinanza,

dalle questioni primarie di struttura e accesso alle procedure fino ai sistemi di

monitoraggio e valutazione come pure le tematiche relative ai diritti legati allo status e

all'appello, basandosi sulle norme internazionali stabilite dalla Convenzione del 1954

relativa allo status di apolide ma soprattutto sulle tre recenti e autorevoli linee guida147

emanate dall'UNHCR rispettivamente a febbraio, aprile e luglio 2012.

L'Alto commissariato per i rifugiati sostiene infatti che meccanismi di

determinazione dell'apolidia appositamente creati a livello nazionale siano

indispensabili affinché gli Stati possano rispettare gli obblighi di protezione fissati dalla

Convenzione del 1954 la quale pur ancorando al proprio interno un certo numero di

standard concreti riguardo lo status legale e i diritti però rimane silente circa il come

determinare chi sia effettivamente apolide.

Attualmente, solo una dozzina di Stati al mondo prevede un diritto di residenza

agli apolidi sulla base della loro apolidia e la maggior parte di essi, classificabili in tre

diverse categorie a seconda del livello di precisione delle norme specifiche di legge e

del quadro procedurale di riferimento, si trova in Europa148

.

146 European Network on Statelessness, “Determination and the protection status of stateless persons: A

summary guide of good practises and factors to consider when designing national determination and

protection mechanisms”, Gabor Gyulai, 2013147 UN High Commissioner for Refugees (UNHCR), Guidelines on statelessness no.1: The definition of

“stateless person” in article 1(1) of the 1954 Convention relating to the status of stateless persons, 20

february 2012; Guidelines on statelessness no.2: Procedures for determining wheter an individual is astateless person, 5 april 2012; Guidelines on statelessness no.3: the status of stateless persons at thenational level, 17 july 2012

148 La Francia, tra questi dodici, ha il sistema di protezione degli apolidi più antico nel mondo creato nel

1953, anticipando perfino la Convenzione del 1954. E' un sistema la cui precisione e cura rimane nella

categoria intermedia ma che a differenza di altri paesi, come ad esempio l'Italia, possiede una autorità

centrale denominata OFPRA che si occupa delle richieste in maniera diretta.

90

4.1 – Profili strutturali di progettazione delle procedure

Dal momento che come già accennato la Convenzione del 1954 non si pronuncia

su tali materie, gli Stati dispongono di un'ampia discrezionalità circa la predisposizione

e la resa operativa delle procedure per la determinazione dello status di apolide, pur

essendo chiaramente influenzati nel loro approccio dai numerosi fattori locali come le

dimensioni e la diversità della popolazione apolide stimata all'interno del proprio

territorio, oltre alla complessità delle questioni giuridiche e probatorie da esaminare in

relazione al fenomeno.

Nonostante tale ampia libertà di manovra circa l'orientamento da seguire, appare

certo come affinché le procedure di riconoscimento siano efficaci la determinazione

dello status di apolide dev'essere l'obiettivo specifico del meccanismo approntato,

sebbene non necessariamente l'unico. La prassi attuale adottata dagli Stati varia a

seconda della collocazione delle procedure nel quadro delle strutture amministrative

nazionali riflettendo pertanto le caratteristiche peculiari di ciascun paese. Ovviamente

una procedura centralizzata è preferibile a quelle condotte dalle autorità locali poiché in

questo modo è più probabile che vengano assicurate ai richiedenti non soltanto le

competenze necessarie da parte dei funzionari incaricati di determinare lo status ma

anche un più facile accesso alle procedure. Permettendo difatti che le domande scritte

siano presentate e trasmesse a un ufficio centrale, anche per il tramite di uffici locali

presenti nei luoghi di permanenza dei soggetti richiedenti, sarà più agevole il

coordinamento dell'esame dei fatti pertinenti, incluso il colloquio personale con

l'interessato. Stabilire se una persona sia o meno apolide può essere un procedimento

complesso e laborioso poiché coinvolge il legame che il soggetto in potenza possiede

con i numerosi Stati del mondo, pertanto appare necessario che le procedure di

riferimento siano quanto più possibile semplici, eque ed efficaci.

A tale proposito si potrebbe considerare di adattare le procedure amministrative

già esistenti in modo da includere anche la determinazione dell'apolidia, ma

chiaramente per compiere tale allestimento occorrerebbe considerare fattori come la

capacità amministrativa, le competenze sviluppate insieme ai profili e alle dimensioni

che caratterizzano gli apolidi da riconoscere come tali. Ovviamente a prescindere da

qualunque sia la scelta, è essenziale che la definizione di apolide sia compresa in

maniera chiara e che le tutele procedurali e gli standard probatori siano rispettati.

Riguardo peraltro l'autorità cui affidare la procedura di riconoscimento, non esiste

nessuna regola generale che espliciti quale sia la più appropriata dipendendo tale scelta

dalle caratteristiche proprie dell'ordinamento e dalle specifiche circostanze nazionali.

Alcuni Stati potrebbero scegliere di integrare le procedure nel quadro delle competenze

delle autorità per l'immigrazione, altri invece in quello dell'autorità responsabile delle

questioni relative alla cittadinanza, quali ad esempio le domande di naturalizzazione. La

seconda alternativa risulterebbe appropriata laddove esista una probabilità alta che gli

91

individui che ne fanno richiesta abbiano risieduto a lungo nel territorio dello Stato. In

Francia, Moldavia, Filippine, Spagna e Regno Unito, la procedura è stata delegata ad

una specifica autorità competente in materia, come pure in Lettonia. Altri paesi come la

Georgia hanno invece incaricato della procedura l'Agenzia per lo sviluppo dei servizi

pubblici che in ogni caso oltre a possedere le necessarie risorse umane e infrastrutturali

per affrontare le questioni relative a cittadinanza e status civili possiede anche la giusta

competenza e un'accertata esperienza di lungo periodo. Considerare le risorse a

disposizione, tanto quelle finanziarie quanto quelle umane, è infatti un elemento

fondamentale per la pianificazione delle procedure per il riconoscimento dello status di

apolide. Il numero spesso basso di richiedenti comporta la necessità di considerare

inoltre un bilanciamento tra i costi previsti e i risparmi che si otterrebbero dalla

semplificazione di altri meccanismi cui gli apolidi potrebbero in alternativa ricorrere

quali ad esempio le domande per altre forme di status di migrante.

4.2 – Condizioni legali e pratiche di accesso alle procedure

Chiunque si trovi nel territorio di uno Stato ha il diritto di avere accesso alle

procedure di riconoscimento dell'apolidia. Tale diritto, che non è affatto scontato nella

sua implementazione, funge da cartina di tornasole per la misura della efficacia ed

equità della procedura in questione, considerato che spesso gli individui ignorano tali

procedure o sono restii a presentare domanda. Presupposto fondamentale per poter

garantire l'operatività effettiva di tale diritto diventa pertanto la diffusione delle

informazioni in merito, attraverso campagne di informazione mirate e attività di

counselling che rendano edotti quanti ne sono colpiti delle possibilità che hanno di

fronte e delle tutele loro garantite, oltre ad una flessibilità burocratica e di

interpretazione delle regole prescritte di volta in volta.

In proposito occorre tenere presente che nella Convenzione del 1954 non vi è

alcun fondamento che stabilisca che i richiedenti debbano trovarsi legalmente nello

Stato oppure che debbano rispettare determinati limiti di tempo. Ciò risulterebbe assai

iniquo dal momento che il non possedere una cittadinanza nega a molti apolidi la

documentazione necessaria per entrare o risiedere legalmente in qualunque Stato, tenuto

d'altronde conto che qualunque termine o qualunque particolare imposizione burocratica

escluderebbe arbitrariamente costoro dal ricevere la protezione prevista dalla

Convenzione stessa intralciandone di fatto l'accesso ai meccanismi di riconoscimento e

identificazione149

.

Considerato tuttavia che gli individui sono talvolta inconsapevoli dell'esistenza di

una procedura per il riconoscimento del loro status di apolide o addirittura esitanti nel

149 Ungheria e Moldavia sono esempi positivi in proposito poiché prevedono che le richieste per lo status

di apolide possano essere presentate sia oralmente che per iscritto e in qualunque lingua, a ciascuna

delle competenti autorità presenti nel territorio nazionale anche attraverso eventuali direzioni

distrettuali o in mancanza attraverso stazioni di polizia laddove l'accesso venisse inficiato dall'assenza

di mezzi finanziari per affrontare eventuali spostamenti.

92

fare richiesta, per fare in modo che l'obiettivo di protezione venga rispettato occorre che

accanto all'attivazione volontaria sia prevista una procedura ex officio. Esempio positivo

si ritrova nella legislazione spagnola che nel Regio Decreto 865/2001 del 20 luglio con

il quale venne approvata la regolamentazione in materia di riconoscimento dello status

di apolide, chiarisce che laddove l'Ufficio per l'asilo e i rifugiati abbia contezza di fatti,

dati o informazioni che possano indicare la possibile concorrenza di circostanze che

determinino l'apolidia di un soggetto, informerà il soggetto stesso dell'attivazione della

procedura in modo da permettergli di accludere eventuali supplementi.

Sulla base di quanto statuito dalla Convenzione del 1954 al richiedente lo status di

apolide dovrebbero anche essere garantiti durante tutta la durata della procedura i diritti

derivanti dalla giurisdizione e dalla presenza sul territorio per cui gli Stati dovrebbero

innanzitutto astenersi dall'espellere un individuo in attesa dell'esito del procedimento di

determinazione e, tra gli altri, assicurare la libertà di movimento, il diritto al lavoro

autonomo e il possesso di documenti di identità così come le tutele predisposte per chi è

riconosciuto rifugiato. Sfortunatamente non esistono esempi positivi compiuti a livello

nazionale sebbene molti Stati abbiano compiuto passi avanti in questa direzione come la

Moldavia che per prima ha esplicitato il diritto a rimanere nel territorio in pendenza

della procedura di determinazione dell'apolidia o le Filippine che hanno optato per una

regolamentazione più specifica affermando che la richiesta riguardo lo status di apolide

sospende le procedure di deportazione e permette la possibilità di rilascio laddove sia

intercorsa detenzione.

4.3 – Garanzie procedurali

Al fine di assicurare che le procedure di determinazione dell'apolidia siano giuste

ed efficaci bisognerebbe che queste fossero formalizzate sotto forma di legge, poiché in

tal modo si assicura imparzialità, trasparenza e chiarezza che sono elementi

fondamentali del giusto processo. Con il medesimo scopo gli Stati devono inoltre essere

incoraggiati ad adottare tutta una serie di tutele sostanziali per la corretta riuscita

dell'intero sistema. Occorre nel dettaglio che:

• le informazioni circa i criteri di idoneità, la procedura di determinazione e i

diritti associati al riconoscimento siano diffusi dalle autorità in varie lingue

insieme alla fornitura di un servizio di counselling per tutti i richiedenti in una

lingua a loro comprensibile;

• le domande siano presentate in forma scritta con ulteriore ausilio nella stesura

laddove ve ne fosse la necessità, e nello specifico tramite traduzioni o

interpretariato;

• il diritto ad un colloquio con un funzionario responsabile delle decisioni sia

assicurato in modo da avere la possibilità di integrare informazioni utili;

• ogni singolo membro di una famiglia abbia il diritto di presentare una domanda

indipendente, tenuto conto delle dovute precisazioni laddove il soggetto sia un

93

minore e non sia un figlio a carico per conto del quale l'adulto possa presentare

domanda, nel qual caso dato per ovvio il diritto di essere ascoltato se capace di

organizzare e comunicare il proprio pensiero vedrà operare speciali garanzie;

• l'accesso all'assistenza legale sia sempre assicurato e realizzato in forma gratuita

laddove i richiedenti non possiedano sufficienti risorse finanziarie;

• i riconoscimenti avvengano in base al merito di ciascuna domanda e quindi con

riferimento alle informazioni relative alla normativa e alla prassi in materia di

cittadinanza negli Stati interessati, incluse legislazioni passate laddove

pertinenti;

• il processo sia di tipo inquisitorio nel caso in cui il riconoscimento dello status

avvenga tramite procedimento giudiziario e non amministrativo, purché però vi

sia sempre decisione motivatamente trascritta e comunicata in tempi ragionevoli;

• il soggetto interessato dalla decisione abbia diritto di appello e possa accedere

l'Alto commissariato per i rifugiati qualora lo desiderasse.

Tra queste tutele, il diritto ad un colloquio individuale e la necessaria assistenza

tramite traduzione o interpretariato sono essenziali per assicurare ai richiedenti

l'opportunità piena di esporre il proprio caso e fornire e chiarire le informazioni

determinanti ai fini della domanda presentata, consentendo di eliminare ipotetiche

ambiguità in ogni caso individuale, ma è nell'interesse di tutte le parti che la raccolta

delle prove per la determinazione dell'apolidia e quindi la conseguente decisione

avvenga con ragionevole solerzia. In proposito, diversi paesi hanno stabilito limiti di

tempo ristretti che le autorità hanno l'obbligo di rispettare nell'ottica comune secondo

cui generalmente non è auspicabile che una decisione di primo grado sia emessa a più di

sei mesi dalla presentazione di una domanda poiché ciò prolungherebbe

pericolosamente la condizione di non tutela del soggetto richiedente.

Allo stesso modo è una tutela essenziale in una procedura per la determinazione

dell'apolidia che il diritto di appello sia reso effettivo contro la decisione delle autorità

competenti e che l'esito di questo dipenda da un organismo indipendente rispetto a chi

ha deciso affinché vi sia una valutazione quanto più obiettiva possibile circa l'idoneità

della decisione di primo grado a statuire e si possa se è il caso non solo annullare la

decisione ma addirittura rinviare la questione all'autorità responsabile perché sia

riconsiderata. Potrebbe inoltre essere consentito un ulteriore livello di impugnazione

laddove il sistema legale e amministrativo dello Stato interessato preveda tale approccio

in via generale ma chiaramente a differenza dell'appello si avrà riguardo alle sole

questioni di diritto e non anche a quelle di fatto e potranno poi operare limiti

procedurali.

Ai fini della buona riuscita della procedura, gli Stati dovrebbero garantire, come

già accennato, che il richiedente il riconoscimento dello status di apolide abbia diritto ad

un colloquio con uno dei funzionari addetti al relativo processo decisionale. A tal

proposito esistono buone pratiche in Moldavia, Filippine e Ungheria che prevedono

94

specificamente un diritto automatico al colloquio. Con lo stesso scopo di chiarezza e

completezza risulta importante il coinvolgimento dell'Alto commissariato per i rifugiati

che può fungere da risorsa preziosa circa le pratiche e le leggi in materia di cittadinanza

oltre che facilitare le inchieste delle relative competenti autorità nazionali data la sua

capacità tecnica. Esempi positivi di cooperazione pratica tra l'Alto commissariato e le

autorità nazionali si ritrovano in Moldavia, nelle Filippine e in Georgia ma è solo in

Ungheria che il ruolo di vigilanza e supervisione in capo all'Alto commissariato per i

rifugiati è tenuto in gran conto e formalizzato tanto che è stato esplicitamente legiferato

come l'autorità competente per la determinazione dell'apolidia debba tenerne in

considerazione il parere di volta in volta espresso per ciascuna procedura, specificando

in aggiunta l'ampia gamma di diritti che il rappresentante di tale agenzia possiede in

merito alla procedura stessa quali presenziare ai colloqui, fornire assistenza tecnica al

richiedente, avere accesso ai documenti e poter prendere visione e copia della decisione

finale o della sentenza laddove la procedura sia in capo ad organi giudiziari.

4.4 – La fase istruttoria e la valutazione delle prove

Determinare lo status di apolide in capo ad un individuo è una procedura che

richiede una valutazione sia di elementi di fatto sia di elementi di diritto. Essa non si

limita all'analisi della legislazione inerente la cittadinanza ma prende in considerazione

anche la valutazione di come le varie legislazioni siano applicate nella prassi e quale sia

il loro livello di efficacia ed effettiva implementazione da parte dei funzionari.

Solitamente l'onere della prova di tali elementi è condiviso poiché per regola sia il

richiedente che l'esaminatore devono cooperare per ottenere evidenza e contezza dei

fatti costitutivi. Il richiedente deve pertanto rispettare il suo dovere di fornire un

resoconto quanto più completo e veritiero della propria posizione presentando tutte le

prove che ragionevolmente rientrano nella propria disponibilità di acquisizione.

L'autorità competente al riconoscimento deve dal canto suo fare in modo che la

procedura attivata sia obiettiva e attenta, cercando di dare sostanza alla richiesta del

soggetto anche casomai prendendo favorevolmente in considerazione le testimonianze

raccolte laddove le evidenze documentali dovessero risultare carenti.

Perché l'istruttoria di riferimento sia complessivamente efficace, le prove

ammesse nelle procedure di riconoscimento che gli Stati devono approntare a tutela di

chi è apolide possono essere classificate in due principali categorie: le prove relative

alle circostanze personali dell'individuo e le prove concernenti la legislazione del paese

in questione. Tra le prime, che aiutano a comprendere la storia del richiedente e quindi a

meglio valutare suoi ipotetici contatti con più ordinamenti, possono farsi rientrare

secondo una lista da considerarsi non esaustiva:

• le deposizioni del richiedente come la domanda scritta di attivazione della

procedura o il verbale dei colloqui;

• le risposte di autorità straniere ad un’indagine relativa allo status di cittadinanza

95

di un individuo;

• i documenti d’identità (per esempio certificato di nascita, estratto del registro di

stato civile, carta d’identità, tessera elettorale);

• i documenti di viaggio (inclusi quelli scaduti);

• i documenti relativi alle domande per l’ottenimento della cittadinanza o di prova

di cittadinanza;

• il certificato di naturalizzazione;

• il certificato di rinuncia alla cittadinanza;

• l e risposte precedenti degli Stati alle richieste di informazioni riguardo la

cittadinanza del richiedente;

• il certificato di matrimonio;

• il registro del servizio militare/certificato di congedo;

• i certificati scolastici;

• i certificati medici/attestazioni (per esempio attestati rilasciati dagli ospedali alla

nascita, registro delle vaccinazioni);

• i documenti d’identità e di viaggio di genitori, coniuge e figli;

• i documenti relativi all’immigrazione, quale il permesso di soggiorno dello Stato

di residenza abituale;

• g l i altri documenti attinenti ai Paesi di residenza (per esempio, documenti

relativi al lavoro, titoli di proprietà, contratti d’affitto, registri scolastici,

certificati di battesimo); e

• verbalizzazione di deposizioni giurate di vicini e membri della comunità.

Per quanto riguarda le seconde, ovvero le prove inerenti alla legislazione del

Paese considerato, alla loro implementazione e alle ipotetiche prassi così come in

generale al contesto giuridico in quegli ordinamenti, esse possono avere diverse fonti sia

governative che non governative ma affidabilità e imparzialità devono essere

caratteristiche immancabili perché fondamentali per l'accuratezza della procedura

stessa. Si preferiscono quindi le informazioni fornite da organi dello Stato e laddove

invece siano attori non statali, tra questi vanno preferiti quelli che abbiano maturato

competenze nel monitorare o revisionare tali materie perché è importante che le

informazioni siano costantemente aggiornate per essere istruttoriamente efficaci nelle

procedure di riconoscimento di altri Stati. Inoltre, laddove la prassi dei funzionari

addetti all’applicazione delle leggi di uno Stato relative alla cittadinanza dovesse

differire a seconda della regione, ciò deve essere preso in considerazione per quanto

riguarda le prove relative al Paese cui si fa affidamento.

Scopo della procedura di determinazione dell'apolidia è verificare se il soggetto

che ne richiede l'attivazione rientri nella definizione fornita dall'art.1 della Convenzione

del 1954 la quale indica come apolide l'individuo che non sia considerato cittadino da

96

nessuno Stato secondo quanto previsto dal proprio ordinamento giuridico. Ciò a ben

vedere comporta che la prova richiesta ai fini della procedura sia la prova di un fatto

negativo il quale peraltro implica non poche difficoltà, tenuto d'altronde conto della

parte su cui ricade la responsabilità di fondare la domanda e di conseguenza l'onere

della prova stessa. Solitamente nei procedimenti amministrativi o giudiziari spetta al

ricorrente fornire prove a sostegno della propria istanza, ma nel caso della procedura di

riconoscimento dello status di apolide l'onere della prova è in linea di principio

condiviso giacché sia il richiedente che l'esaminatore devono cooperare per stabilire

quali siano i fatti oggetto dell'istruttoria e chiarire se l'individuo rientri o meno

nell'ambito di applicazione della Convenzione. A tale scopo collaborativo, al

richiedente spetta rendere conto della propria posizione nel modo più dettagliato e

veritiero possibile e di fornire ogni prova ragionevolmente disponibile in proposito, così

come analogamente all'autorità preposta alla procedura si richiede invece che acquisisca

e produca le prove pertinenti consentendo una determinazione oggettiva dello status

tenuto conto delle evidenti difficoltà da parte dei richiedenti nel fornire sufficienti prove

documentali. Ciò è auspicabile anche in considerazione della complicazione che un

elevato standard di prova comporterebbe. Un riscontro sull'apolidia di un soggetto deve

ritenersi raggiunto laddove si stabilisca “ad un livello ragionevole” che l'individuo non

possa considerarsi cittadino di nessuno, rimanendo sufficiente considerare solo quegli

Stati con cui abbia un legame rilevante in genere sulla base di nascita sul territorio,

discendenza, matrimonio o residenza abituale, e non tutti quelli esistenti al mondo.

Ottenuta su tali basi, la prova della apolidia del soggetto sarà valida fino a prova

contraria da parte dell'autorità responsabile laddove si dimostri in grado di esibire prove

che siano chiare e convincenti150

del fatto contrario ossia dell'appartenenza del

richiedente ad uno Stato esistente in quanto cittadino.

Qualora un richiedente decidesse di non cooperare nello stabilire i fatti costitutivi

la propria istanza, ad esempio non rivelando deliberatamente le informazioni che ne

determinerebbero l'identità, la procedura di determinazione potrebbe risultarne

compromessa e ciò anche nel caso in cui l'autorità competente non fosse in grado di

esibire prove sufficientemente chiare e convincenti dell'esistenza in capo ad un soggetto

di una determinata cittadinanza. La domanda potrebbe pertanto essere respinta a meno

che le prove disponibili dimostrino comunque l’esistenza di un ragionevole grado di

apolidia. Diverso è il caso in cui il soggetto abbia intenzione di fornire le prove

necessarie ma sia impossibilitato a farlo.

Una volta raccolte, le prove vanno soppesate. Quando le prove documentali

esibite in merito alla storia personale di un individuo siano attendibili nel contesto di

150 Questa prova di cittadinanza potrebbe presentarsi, per esempio, sotto forma di conferma scritta

rilasciata dall’autorità competente per le decisioni di naturalizzazione in un altro Paese che attesti che

il richiedente è cittadino di quello Stato per naturalizzazione oppure sotto forma di informazioni che

stabiliscono che, secondo la normativa sulla cittadinanza e la relativa prassi di un altro Stato, il

richiedente ha automaticamente acquisito la cittadinanza di quest’ultimo.

97

una procedura per il riconoscimento, esse hanno precedenza rispetto alle deposizioni del

richiedente che invece assumono preponderanza rispetto alle informazioni riguardo al

Paese e a qualunque risultato ottenuto da indagini complementari effettuate con gli Stati

interessati laddove le prove fornite riguardo le circostanze personali di un individuo

siano poche o non documentali.

Determinare l'apolidia di un soggetto può costituire una sfida significativa per

ciascun ordinamento nazionale, soprattutto nei sistemi di nuova costituzione,

considerato che la consapevolezza e la competenza su questo tema è ancora molto

limitata. Con lo scopo di migliorare la contezza su tale fenomeno sono state create un

numero sempre crescente di banche dati, come EUDO e Refworld, le quali raccolgono a

livello comparato tutte le informazioni in materia di cittadinanza siano esse leggi di

riferimento a livello nazionale, convenzioni internazionali, rapporti o inchieste, e

offrono una vasta gamma di dati rilevanti per la determinazione dell'apolidia. Le

autorità accertanti possono comunque beneficiare in modo significativo di qualsiasi

orientamento concreto che fissi dei parametri di riferimento chiari e dei percorsi per la

valutazione, acquisizione e precisazione dei fatti materiali e delle circostanze relative.

Ungheria, Slovacchia e Filippine offrono un buon esempio di guida circa la valutazione

delle prove e delle evidenze in generale attraverso le loro leggi nazionali poiché

sottolineano in che modo i potenziali legami nazionali, vale a dire la nascita, la

residenza precedente o eventuali legami familiari, debbano essere esaminati. Accanto a

questi, il Regno Unito si è dotato di una regolamentazione specifica che fornisce una

spiegazione dettagliata e utile su come raccogliere e valutare le prove, includendo una

lista dei tipi di prove che possono essere esaminati e positivizzando peraltro che i

funzionari addetti alla decisione debbano compiere tutti gli sforzi necessari sebbene nei

limiti del ragionevole per aiutare i richiedenti nella ricerca delle prove necessarie.

4.5 – Il diritto di appello e i diritti legati allo status di apolide

In qualunque procedura per la determinazione dell'apolidia, garanzia essenziale è

assicurare un effettivo diritto di appello contro una decisione di prima istanza che sia

negativa ossia che rigetti la richiesta di riconoscimento dello status di apolide. A tale

scopo risulta fondamentale che gli Stati permettano un controllo giurisdizionale

ulteriore anche eventualmente limitato dalle regole procedurali del sistema giudiziario

in questione ma della procedura di appello deve in ogni caso esserne titolare un

organismo indipendente rispetto a chi ha precedentemente deciso nel merito.

Gli appelli devono essere possibili sia su punti di fatto che su punti di diritto,

considerato che esiste la possibilità che ci sia stata una scorretta valutazione delle prove

in primo grado e inoltre la scelta se l'organo di appello possa concedere da sé la

protezione ai sensi della Convenzione del 1954 o se debba semplicemente annullare la

decisione di primo grado rinviando nuovamente la questione per un riesame dipende

98

dall'approccio generale che il sistema amministrativo-giuridico in cui la procedura di

riconoscimento dello status di apolide si svolge assume di fronte a tale tipo di questioni.

I meccanismi attraverso i quali azionare l'appello differiscono infatti da paese a paese.

Alcuni come la Lettonia, il Messico e le Filippine permettono un appello di norma

amministrativo, mentre altri come la Francia, l'Ungheria o la Spagna ne permettono solo

uno di tipo giudiziario. Queste caratteristiche chiaramente riflettono le differenti

strutture di base degli ordinamenti ma aldilà delle tradizioni di ciascun contesto

nazionale l'Alto commissariato per i rifugiati ha identificato tre elementi che rimangono

cruciali affinché il meccanismo di appello possa dirsi efficace ed effettivo:

1. diritto automatico di appello – considerato che lo scopo della procedura di

determinazione è orientato alla protezione dei soggetti richiedenti e considerate

le questioni dei diritti umani in gioco, il diritto di appello o un ricorso

giurisdizionale contro una decisione negativa dovrebbe essere automatico e non

subordinato ad alcuna forma di approvazione da parte di un'autorità o di un

tribunale;

2. struttura centralizzata – dato che solitamente il numero di casi è limitato e

tenuto conto del carattere di specialità che contraddistingue la procedura di

determinazione, una struttura centralizzata e specializzata sarebbe

ragionevolmente più capace a trattare con i singoli individui fornendo

l'assistenza e la competenza necessarie;

3. possibilità di concedere protezione – dotare gli organi di ricorso e i tribunali

della possibilità di concedere protezione contro la decisione appellata, piuttosto

che limitarne il campo di applicazione all'annullamento e al rinvio per il riesame

per opera degli organi di istanza inferiore, può avere tutta una serie di effetti

positivi. Tale "revisione completa" può infatti contribuire ad evitare una

procedura di ricorso eccessivamente lunga laddove ad esempio il rinvio per il

riesame avvenga più volte e facilitare lo sviluppo di un orientamento giudiziario

utile non solo per le questioni procedurali ma anche per quelle materiali e

concettuali.

L'appello ovviamente viene attivato quando la richiesta in prima istanza sia stata

rifiutata. Laddove invece la procedura di riconoscimento terminasse con un esito

positivo per il richiedente in capo al quale venisse quindi riconosciuta la condizione di

apolide, questi si vedrebbe attribuito non soltanto uno status ma con esso anche tutta

una serie di diritti che ne sono corollari specifici ovvero il diritto di residenza, il diritto

di accesso al lavoro, il diritto di accesso all'istruzione, il diritto di accesso all'assistenza

sanitaria, il diritto ad una naturalizzazione facilitata.

Primo fra tutti si vedrebbe quindi riconosciuto il diritto alla residenza così come

delineato dalla Convenzione del 1954 che stabilisce un periodo minimo di validità che

non può mai essere inferiore ai due anni, essendo ammessi periodi di concessione

maggiori ai fini di una riserva di stabilità che rimane cardine fondamentale di tutta la

99

normativa. Tali permessi di residenza devono inoltre, ai fini della stessa riserva, essere

sempre rinnovabili. A ben guardare gli ordinamenti esistenti che possiedono un

meccanismo specifico per la determinazione dell'apolidia si evince come tutti

stabiliscano un diritto di residenza per coloro cui venga riconosciuto lo status di apolide,

sebbene chiaramente a differenziarsi siano di volta in volta le modalità di concessione e

i criteri di durata dei periodi di validità. Messico e Slovacchia attualmente forniscono il

miglior esempio nel settore poiché emettono in capo a chi è riconosciuto apolide un

permesso di residenza permanente. Ciò non soltanto assicura una maggiore stabilità e

una migliore integrazione ma risparmia per di più alle autorità procedenti inutili pesi

burocratici tenuto conto che a meno di naturalizzazioni l'apolidia rimane un fenomeno

duraturo. Altri come il Regno Unito e la Spagna sanciscono rispettivamente un periodo

di validità pari a 30 mesi e a 5 anni, entrambi rinnovabili per il medesimo periodo di

tempo purché persistano le medesime circostanze che ne hanno permesso il rilascio.

Una volta riconosciuto che un soggetto è apolide e che ha diritto di permanenza in

un certo Stato, si innescano automaticamente i diritti di “legittimo soggiorno”. Il diritto

al lavoro è uno di questi e si accompagna sempre al permesso di residenza, essendo il

lavoro abitualmente elemento centrale per un'autosufficienza economica e per una

integrazione sociale che abbiano successo. Gli apolidi si trovano infatti in una

situazione costante di vulnerabilità con necessità specifiche di protezione per le quali il

lavoro assume un'importanza indiscussa fungendo da chiave di volta per un'esistenza

dignitosa. Gli Stati che ne riconoscono l'importanza solitamente concedono un accesso

libero al mercato del lavoro sulla base quindi di un trattamento preferenziale comparato

a quello degli stranieri in generale, escluse ovviamente le dovute eccezioni che

rimangono sempre limitate ai soli cittadini come l'impiego nelle pubbliche

amministrazioni.

La Convenzione del 1954 richiede che gli apolidi godano del medesimo

trattamento riservato ai cittadini per quanto riguarda l'accesso all'istruzione e

all'assistenza sanitaria, aggiungendo che laddove possibile possa essere concesso

perfino un trattamento più favorevole tenuto conto delle difficoltà quotidiane che tali

soggetti sono costretti ad affrontare e rimanendo l'educazione scolastica e l'assistenza

medica così come il lavoro nodi cruciali di un inserimento sociale efficace. Esempi

normativi cui in proposito si potrebbe fare riferimento nella pianificazione di tali

garanzie si ritrovano in paesi come l'Italia, la Francia e il Messico che forniscono un

accesso illimitato a tutti i livelli del sistema educativo come pure a tutti i meccanismi di

finanziamento scolastico quali borse di studio, esoneri o fornitura del materiale

didattico.

Tra gli effetti che devono ai sensi della Convenzione del 1954 accompagnare il

riconoscimento dello status di apolide, la possibilità di una naturalizzazione facilitata

assume infine importanza eloquente poiché permette che l'individuo possa abbandonare

la condizione di vulnerabilità quale l'apolidia comporta per giungere ad una pienezza di

100

diritti e stabilità propria della cittadinanza. Per tale scopo gli Stati che

significativamente decidono di porsi come obiettivo la protezione degli apolidi devono

compiere ogni sforzo necessario per affrettare le procedure di naturalizzazione e per

ridurre il più possibile i costi e gli oneri, soprattutto burocratici, di queste. Nessun

meccanismo di protezione può infatti dirsi completo se non offre un sentiero verso una

soluzione definitiva e duratura nel tempo che risolva effettivamente l'apolidia di un

individuo. Ciascun ordinamento possiede le proprie tradizioni e le proprie politiche in

materia di appartenenza e quindi naturalizzazione degli stranieri, ma tra tutti quelli che

hanno elaborato e messo in pratica una procedura di riconoscimento dello status di

apolide la Slovacchia e l'Italia potrebbero utilmente essere prese ad esempio per il

futuro. La prima infatti permette agli apolidi di accedere alla naturalizzazione dopo che

siano trascorsi tre anni di legittimo soggiorno nel territorio dello Stato approntando un

sistema più favorevole non soltanto rispetto agli stranieri in generale che devono

legittimamente risiedere nel paese almeno otto anni continuativi ma perfino rispetto ai

rifugiati per i quali il periodo richiesto è di quattro anni. La seconda invece permette

l'accesso alla procedura di naturalizzazione dopo cinque anni di residenza, periodo la

cui durata è la metà di quello accordato in via generale a chiunque altro voglia diventare

cittadino italiano.

5 – Considerazioni aggiuntive: la determinazione dello status di apolidia nei casi

in cui la convenzione del 1954 non si applica

Molti degli apolidi che rispondono alla definizione dell'art.1 della Convenzione

del 1954 si trovano in paesi che non sono vincolati da questo trattato in quanto non sono

Stati firmatari. Insieme a questi, vi sono tutta una serie di individui che non rispondono

alla definizione legale di apolidia e che di conseguenza restano fuori dal campo di

applicazione della Convenzione non potendo ottenere la relativa protezione che questa

pone quale obiettivo principale. Sono rispettivamente gli apolidi de jure e gli apolidi de

facto accomunati però dall'essere entrambi in condizioni di non tutela che alcuni

ordinamenti nazionali tentano di superare, pur non avendo ratificato la Convenzione del

1954 ma ben consapevoli degli obblighi loro derivanti dal diritto internazionale relativo

ai diritti umani, introducendo normativamente delle procedure per la determinazione

della apolidia e per la gestione degli apolidi presenti nei loro territori. L'apolidia è

invero un fatto giuridicamente pertinente in molte situazioni che concretizzano una

violazione dei diritti umani come per esempio in relazione alla protezione contro la

detenzione arbitraria, al diritto delle donne ad un equo trattamento rispetto agli uomini

in materia di cittadinanza o ancora in relazione al diritto di ogni minore ad averne una e

che quindi merita d'essere patrocinato con attenzione e competenza. Come noto, a

livello internazionale non esiste nessuna definizione di apolidia de facto che sia

condivisa, sebbene l'esplicito riferimento a tale concetto nell'Atto Finale della stessa

Convenzione del 1954. Ciononostante, a ben guardare i diversi tentativi che

101

recentemente sono stati compiuti, gli apolidi di fatto sono inquadrati come soggetti

incapaci di godere della protezione dello Stato di cui possiedono la cittadinanza oppure

come soggetti che pur possedendone una scelgono volontariamente di non goderne per

valide ragioni come la persecuzione politica. Alcuni Stati concordemente con tale

assunzione hanno compiuto una precisa scelta di garanzia inserendo nelle loro

procedure per la determinazione dello status di apolidia anche il concetto di apolidia di

fatto, se non nella dicitura quantomeno nella sostanza, prendendo in esame i differenti

criteri di applicabilità della protezione stabilita dalla Convenzione del 1954 anche in

riferimento a tali soggetti.

Uno Stato però che scelga di concedere tutela a tali individui pur non essendo

firmatario e quindi pur non essendo vincolato ad agire in tal senso per obbligo giuridico

internazionale dovrà approntare la propria procedura di riconoscimento in maniera tale

da non impedire mai agli individui di presentare domanda, tenuto conto che spesso

nondimeno il soggetto che richiede l'avvio della procedura di riconoscimento non ha

ben chiaro a quale categoria appartenga arrivando in un momento successivo il

riconoscimento dello status effettivo del soggetto che potrebbe essere anche

semplicemente un rifugiato e quindi richiedere eventualmente una tutela differente.

102

Capitolo Sesto – Il quadro giuridico nazionale di riferimento in materia di apolidia

e la procedura italiana di riconoscimento dello status di apolide

1 – L'evoluzione della normativa italiana in tema di cittadinanza.

Il concetto di cittadinanza così come inteso in senso moderno, in Italia si ebbe con

lo Stato unitario a metà del 1800 e fin dalla nascita di esso venne dato rilievo particolare

al possesso della cittadinanza, occorrendo ad esempio esserne titolari per poter accedere

agli uffici pubblici e non potendo una persona averne più di una.

A dimostrazione della grande considerazione attribuita al suo possesso, basti

pensare che fino al 1948 era prevista una forma attenuata di cittadinanza, la cosiddetta

“piccola cittadinanza”, riservata a quelle popolazioni stanziate sul territorio delle

colonie su cui l’Italia esercitava il proprio dominio, considerato diverso dal territorio

metropolitano, e che non comprendeva il godimento dei diritti politici escludendo di

conseguenza i suoi titolari dalla partecipazione alla vita della comunità politica statale.

Seguendo, tuttavia, le linee di apertura verso nuove realtà che man mano

emergevano e richiedevano un riconoscimento, la normativa italiana sulla cittadinanza

ha seguito un processo di costante liberalizzazione tanto da assumere una valenza

sempre più sociale e politica.

Un primo complesso di disposizioni fu dettato al momento della costituzione

dell'unità d'Italia subito dopo la proclamazione del Regno d'Italia. Si trattava degli

articoli da 1 a 15 del Codice Civile del 1865, tratti a loro volta dal Codice Civile del

Regno Sardo, che ben presto si rivelarono assolutamente inadeguati di fronte alle mutate

condizioni politiche e sociali della nazione soprattutto considerato il fenomeno

imponente della emigrazione transoceanica. Lo sviluppo delle comunicazioni e la loro

crescente rapidità comportò che molti degli emigrati rientrassero in Italia con nuovi

vincoli di cittadinanza contratti all'estero ritrovandosi in una posizione incompatibile

con il loro ristabilimento in Italia e pertanto, come i molti cittadini stranieri che nel

territorio italiano cominciarono a migrare, fossero impossibilitati a chiederne lo status

civitatis. In proposito emerse immediatamente quanto l'istituto della naturalizzazione

disciplinato dall'art.10 del Codice Civile del 1865 fosse inadeguato poiché prevedeva

l’attribuzione della cittadinanza mediante un atto ampiamente discrezionale del potere

legislativo o esecutivo, svincolato peraltro dalla necessità di un qualsiasi collegamento

tra l’individuo e il nostro Paese, quale ad esempio la residenza.

Come nella maggior parte dei Paesi europei, venne a determinarsi un movimento

deciso a modificare le norme sull'acquisto, la perdita e il riacquisto della cittadinanza il

quale indusse il legislatore ad emanare in prima battuta la legge sull’emigrazione del

1901 e successivamente, nel 1906, la normativa sulla naturalizzazione, la quale

premiava coloro che possedessero legami con l’Italia.

Nondimeno, il primo provvedimento organico sulla cittadinanza italiana si ebbe

soltanto con la legge n.555 del 13 giugno 1912 che entrò in vigore il 1° luglio dello

103

stesso anno colmando peraltro le lacune del codice civile riguardo agli individui privi di

cittadinanza, cosiddetti peregrini sine civitate, conosciuti poi come apolidi. L'articolo 14

di tale legge stabiliva infatti che chiunque risiedesse nel Regno, e non avesse la

cittadinanza italiana, né quella di altro Stato, fosse soggetto alla legge italiana per

quanto si riferisse all'esercizio dei diritti civili e agli obblighi del servizio militare151

. La

Relazione parlamentare precisava peraltro che convenisse cancellare il fenomeno

dell'apolidia perché dannoso non soltanto all'apolide stesso ma anche allo Stato in cui

questo risiedesse. Tale articolo fu una vera e propria novità a livello ordinamentale

poiché per la prima volta si regolamentava la condizione degli apolidi, si specificava in

capo ad essi l'esercizio dei diritti civili ma non di quelli politici né quelli amministrativi

considerandolo quindi come un quasi cittadino.

Naturalmente dato il periodo storico in cui è stata promulgata non poteva non

risentire della cultura ottocentesca quanto alla concezione dei rapporti familiari. Essa

pertanto assegnava una posizione di assoluta preminenza all'uomo rispetto alla donna, e

inoltre da tale legge permeava il principio dell'unicità della cittadinanza del nucleo

familiare, di cui il marito-padre rappresentava il soggetto giuridico intorno al quale si

consolidava la cittadinanza dell'intera famiglia. Paradossalmente quindi le sorti di uno

decidevano le sorti di tutti poiché laddove questi avesse mutato il proprio status civitatis

perdendo ad esempio la cittadinanza anche la moglie e i figli sarebbero incorsi nella

perdita della cittadinanza italiana seguendo le vicende del pater familias.

Tale normativa, comunque, introduceva nell’ordinamento italiano un sistema

omogeneo e coerente destinato a rimanere vigente sia pure con talune significative

modifiche152

per ben ottant’anni fino all’entrata in vigore il 16 agosto 1992 dell’attuale

legge sulla cittadinanza n. 91 del 5 febbraio 1992 definita “legge organica” dallo stesso

legislatore. Questa, per quanto innovativa, non ha determinato fratture con i principi

guida già presenti nella legge del 1912 che rimase, come detto, legge fondamentale per

oltre ottant'anni ma ha al contrario realizzato continuità. In tale scenario si rinviene, in

particolare, la prevalenza del principio dello ius sanguinis per l’acquisto della

cittadinanza, mentre lo ius soli assume carattere residuale, così come lo deteneva nella

legge del 1912.

Uno degli elementi innovativi della legge è la possibilità di mantenere la doppia

cittadinanza sempre, essendo invece nella precedente normativa consentito soltanto per

alcune specifiche fattispecie come ad esempio per il discendente nato all'estero da

connazionale italiano con il chiaro obiettivo di mantenere il legame con la madre

patria153

.

151 Paolo Farci, Apolidia, Giuffrè, 2012152 Successivamente alla legge fondamentale del 13.6.1912, n. 555, erano state infatti introdotte, in

particolare dopo il 1975, la legge n. 151 del 1975 e la legge n. 123 del 1983 che avevano recepito gli

indirizzi forniti dalla Corte Costituzionale concernenti la parità tra uomo e donna e il riconoscimento

della volontà quale cardine dell’acquisto e della perdita della cittadinanza, a dispetto quindi

dell'impostazione paternalistica e dei tanti automatismi che erano stati in essa previsti.153 cfr. art. 7 della legge n. 555/1912

104

Le scelte operate dal legislatore del 1992 furono infatti condizionate e permeate

dal fenomeno della migrazione così come manifestatosi nei diversi periodi storico-

sociali del nostro Paese, tant'è vero che nella legge attuale chiara risulta la volontà di

fornire una concreta risposta alle pressanti istanze provenienti dalle comunità degli

italiani residenti all'estero in Paesi di vecchia emigrazione, come Argentina e Brasile, e i

quali videro nel rientro in patria una via di fuga alle condizioni economiche, sociali e

politiche degradate e precarie di quegli Stati, in particolare nel corso degli anni '80 dello

scorso secolo. L'attuale legge difatti contiene numerose disposizioni che attraverso

l'istituto della naturalizzazione risultano a favore del riacquisto della naturalità italiana

da parte dell'italiano precedentemente emigrato o dell'acquisto da parte dello straniero

discendente per nascita da italiani. Peraltro, lo stesso legislatore ha differenziato il

periodo di residenza necessario ai fini dell’ottenimento della cittadinanza, tenendo conto

dello status posseduto dal richiedente. Così, da un massimo di dieci anni di residenza

legale sul territorio dello Stato prevista per il cittadino non appartenente alla Comunità

Europea è stabilito un periodo minimo di tre anni per il discendente da cittadino italiano

per nascita entro il secondo grado e per lo straniero nato in Italia. Naturalmente, la

residenza di cui sopra deve essere conforme alle norme previste per il soggiorno degli

stranieri in Italia e di quelle in materia anagrafica, ovvero deve assumere il carattere

della legalità. Alle medesime prescrizioni deve rispondere la residenza dello straniero o

apolide coniugato con italiano, in modo da rendere le posizioni di irregolarità non

suscettibili di effetti per l'acquisto della cittadinanza.

Nonostante queste novità rispetto al passato, la normativa attualmente vigente, pur

essendo stata emanata nel 1992, risente in pieno del clima socio-economico che si era

determinato nel decennio precedente alla sua promulgazione ovvero il fenomeno

dell'immigrazione dall'estero di consistenti flussi di stranieri senza alcun precedente

legame con l'Italia. Pertanto, anche confrontandola con le leggi in materia degli altri

Stati della Comunità Europea, non appare in alcuni aspetti per nulla in grado di

rispondere alla domanda di integrazione che da tale fenomeno deriva. Essa rimane

saldamente ancorata alla piena ed incondizionata trasmissibilità della cittadinanza per il

principio dello ius sanguinis, prevedendo solo marginalmente l’acquisto del nostro

status civitatis secondo il principio dello ius soli. Su tale specifico punto, nelle ultime

legislature, sono stati proposti numerosi schemi di modifica della legge del 1992, spesso

ispirati da motivazioni contingenti sulla spinta di fenomeni emergenti. L’attuale legge,

comunque, contiene principi innovatori rispetto alla previgente normativa che possono

riassumersi nei seguenti punti:

• definitivo riconoscimento dell’uguaglianza tra l’uomo e la donna;

• ammissione dei casi di doppia cittadinanza;

• forte rilievo riconosciuto alla manifestazione di volontà della persona.

2 - L'adesione dell'Italia alla Convenzione sullo status degli apolidi del 1954 e le

105

norme della legge sulla cittadinanza n.91 del 5 febbraio 1992 aventi lo scopo di evitare

i casi di apolidia

Era il 23 luglio del 1952 quando, in occasione della firma della Convenzione di

New York del 28 settembre 1954 relativa allo status degli apolidi, l'allora rappresentante

permanente per l'Italia Gastone Guidotti precisava che nel siglare questa Convenzione,

il Governo della Repubblica Italiana riconosceva le disposizioni contenute agli articoli

6, 7 par.2, 8, 17, 18, 19, 22 par.2, 23, 25, 32 solo come mere raccomandazioni e

dichiarava inoltre che dal punto di vista delle obbligazioni assunte dalla Repubblica

Italiana in virtù della Convenzione l'espressione “eventi verificatesi anteriormente al

primo gennaio 1951” prevista dall'articolo 1 sezione A sarebbe stata interpretata come

riferita agli eventi verificatisi anteriormente al primo gennaio 1951 in Europa154

.

Successivamente con comunicazione del 25 gennaio del 1958 inviata al Segretario

Generale delle Nazioni Unite, dopo aver ratificato e dato esecuzione con legge n.306 del

1 febbraio 1962, l'Italia ritirava le precedenti riserve mantenendo soltanto quelle relative

agli articoli 17 e 18 della Convenzione i quali riguardano nello specifico il diritto di

esercitare un lavoro dipendente e il diritto di esercitare un lavoro autonomo

riconoscendo agli apolidi il trattamento più favorevole possibile ed in ogni caso non

meno favorevole di quello predisposto in capo agli stranieri in generale.

Sulla base degli ultimi provvedimenti legislativi in materia si potrebbe tuttavia

ritenere che questa riserva sia stata di fatto superata, avendo ad esempio il T.U. 286/98

previsto che alla stregua degli stranieri extracomunitari agli apolidi vada applicata la

normativa delineata in materia di rilascio del permesso di soggiorno per motivi di lavoro

subordinato o autonomo. Gli apolidi residenti in Italia potranno pertanto, una volta che

sia loro rilasciato permesso di soggiorno, svolgere una attività lavorativa al pari di uno

straniero e, grazie a un intervento della giurisprudenza155

, godere del diritto ad una

pensione sociale qualora versino in condizioni economiche disagiate.

In ogni caso, aldilà delle riserve inizialmente poste e successivamente ritirate, è

indubbio come l'adesione alla Convenzione relativa allo status degli apolidi del 1954

abbia avuto un impatto significativo nel nostro ordinamento che ha previsto diverse

disposizioni riguardanti il soggetto apolide residente in Italia, con lo scopo di evitare o

ridurre il verificarsi del fenomeno dell'apolidia, e facilitare altresì l'integrazione nella

società italiana del soggetto che ne è colpito. A tal proposito, insieme alla procedura di

riconoscimento dello status di apolide dalla quale deriva l'attribuzione di tutta una serie

di diritti e benefici, significative sono le seguenti norme della legge n.91 del 1992 che si

pongono come obiettivo quello di impedire il verificarsi di casi di apolidia.

Primo fra tutti, l'art.1 che al comma 1 lett. b) stabilisce che è cittadino per nascita

chi è nato nel territorio della Repubblica se entrambi i genitori sono ignoti o apolidi,

ovvero se il figlio non segue la cittadinanza dei genitori secondo la legge dello Stato al

154 Recueil de Traités, volume 189, Nazioni Unite, New York, p.192155 Sentenza del Tribunale di Roma, Sezione lavoro, 1 dicembre 1999

106

quale questi appartengono. Da ciò si evince che sebbene come già accennato il principio

cardine per l’acquisto della cittadinanza in Italia rimanga quello dello ius sanguinis, così

come era già previsto dalla legge del 1912 e così come era stabilito dall’art. 4 del

Codice Civile del 1865, lo ius soli resti un’ipotesi eccezionale e residuale per impedire

l'apolidia di coloro che, essendo nati in Italia da genitori stranieri, sconosciuti o apolidi,

non acquisterebbero alcuna cittadinanza. Inoltre, nel dichiarare esplicitamente che anche

la madre trasmette la cittadinanza, viene recepito in pieno il principio di parità tra uomo

e donna per quanto attiene alla trasmissione dello status civitatis, così come fu stabilito

nel 1983 dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 30 del 9 febbraio con la quale la

Consulta dichiarò infatti incostituzionale l'art.1 della legge del 1912 nella parte in cui

non prevedeva che fosse cittadino italiano per nascita il figlio di madre cittadina,

completandone in tal modo la disciplina e rendendola conforme al dettato

costituzionale. Logicamente, poiché la disciplina è stata modificata conformemente ai

principi della Costituzione, è interpretazione consolidata che la cittadinanza italiana in

derivazione materna possa attribuirsi nei casi in cui la nascita sia intervenuta dopo il 1°

gennaio 1948, data di entrata in vigore della Carta Costituzionale156

. Esaminando la

norma, occorre tenere presente tuttavia che i genitori devono considerarsi ignoti anche

quando non lo siano dal punto di vista biologico, ma lo siano dal punto di vista

giuridico. Quanto poi all’eventuale condizione di apolidia dei genitori, tale status deve

essere effettivamente attestato: in via giudiziaria a seguito dell’accertamento da parte

del giudice competente, oppure in via amministrativa da parte del Ministero

dell’Interno, secondo le modalità indicate dall’art. 17 del Regolamento di esecuzione

della legge, emanato con D.P.R. 12.10.1993, n. 572.

Per quanto riguarda l’altro caso contemplato dalla norma e cioè l’ipotesi che il

figlio non segue la cittadinanza né dell’uno, né dell’altro genitore secondo la legge

nazionale di ciascuno, si ritiene innanzitutto che tale circostanza oltre ad essere provata

dai genitori del minore deve essere verificata anche dall’esame della legislazione

straniera del Paese di appartenenza degli stessi e, se del caso, integrata da dichiarazioni

rilasciate dalle competenti autorità diplomatiche e consolari dello Stato di origine dei

genitori interessati. Nessun dubbio sussiste ai fini dell’attribuzione della cittadinanza

italiana secondo la disposizione in esame nel caso in cui la legge dello Stato straniero

d’origine dei genitori escluda che il figlio nato all’estero possa conseguire la loro

cittadinanza. Tuttavia, può accadere che la legislazione dei genitori non attribuisca

automaticamente alla nascita la cittadinanza ai figli nati all’estero dei loro cittadini, ma

ne sottoponga il conseguimento ad alcune condizioni o adempimenti, come ad esempio

la registrazione della nascita presso un consolato o il rientro nel Paese di origine, oppure

156 Infatti, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n.12091 emessa il 26 giugno 1998

hanno ribadito, nella sostanza, che l’efficacia delle pronunce della Corte Costituzionale decorre

dall’entrata in vigore della nostra Carta Costituzionale, ritenendo che i rapporti e le situazioni sorti in

data anteriore al 1° gennaio 1948, anche se non consolidati, non esauriti e non ritrattabili, devono

rimanere assoggettati alla disciplina previgente all’emanazione della Costituzione, prescindendo dalla

norma dichiarata incostituzionale.

107

una dichiarazione espressa del genitore esercente la patria potestà o, ancora, lo

svolgimento del servizio militare. In questi casi il bambino non acquista

immediatamente al momento della nascita la cittadinanza straniera, ma ha la possibilità

di acquistarla non appena si verifichi quanto previsto dalla legge del genitore.

Occorre pertanto analizzare che cosa intenda il legislatore con il verbo segue.

Laddove venisse interpretato nel senso di “acquista immediatamente” sarebbe

inevitabile concludere che il bambino divenga italiano, evitando così la deduzione

contraria che porterebbe a considerarlo apolide fino a quando non acquistasse la

cittadinanza straniera del genitore, in contrasto con le finalità della legge tese ad

eliminare i casi di apolidia proprio perché sarebbero i genitori del bambino a

determinare, con loro azioni od omissioni, la cittadinanza del figlio.

Ovviamente, essendo la formulazione dell’art. 1 unicamente diretta ad evitare

situazioni di apolidia destinate a protrarsi nel futuro ed essendo tale tesi avvalorata dalla

circostanza che la disposizione in esame non contempla la perdita della cittadinanza

italiana acquistata iure soli qualora l’individuo consegua una cittadinanza straniera in un

momento successivo alla nascita, si desume che momento decisivo della norma è quello

della nascita stessa e pertanto non può dispiegare effetti sulla cittadinanza italiana del

minore il riconoscimento effettuato da un genitore straniero o ex apolide in epoca

successiva, cui consegua l’attribuzione di una cittadinanza straniera157

.

Bisogna quindi concludersi che il termine segue debba essere interpretato non già

come equipollente di acquista, bensì con il significato di “può acquistare”.

Riprende il criterio residuale dello ius soli anche il comma 2 dell’art. 1 il quale

prevede l’attribuzione della cittadinanza per il figlio di ignoti che sia stato trovato sul

territorio della Repubblica, riprendendo sostanzialmente quanto già stabilito dalla legge

del 1912. L’attribuzione della cittadinanza iure soli a titolo originario previsto dall’art. 1

della legge del 1992 deve in tal senso essere interpretata sulla base della presunzione

che la nascita sia avvenuta sul territorio dello Stato e che i genitori siano entrambi ignoti

o apolidi. Tale disposizione non si riferisce a qualsiasi minore, ma soltanto a quello la

cui giovanissima età faccia ritenere che la nascita sia avvenuta in Italia, non potendo

invece riguardare quel minore che sia in grado di agire autonomamente, perché farebbe

presumere che sia entrato da solo nel territorio italiano158

. Il Legislatore, con tale

disposizione ha previsto l’acquisto della cittadinanza iure soli in modo da evitare

l’apolidia del soggetto, sul presupposto che il legame rappresentato dalla nascita in

157 Tale orientamento è stato confermato dal Consiglio di Stato, con il parere n. 2482\92 del 30.11.1992,

recepito dall’art. 2 del D.P.R. 12.10.1993 n. 572, che infatti stabilisce: “Il figlio, nato in Italia dagenitori stranieri, non acquista la cittadinanza italiana per nascita ai sensi dell'art. 1, comma 1,lettera b), della legge, qualora l'ordinamento del paese di origine dei genitori preveda la trasmissionedella cittadinanza al figlio nato all'estero, eventualmente anche subordinandola ad una dichiarazionedi volontà da parte dei genitori o legali rappresentanti del minore, ovvero all'adempimento diformalità amministrative da parte degli stessi”.

158 G. Zampaglione - P. Guglielman, L'attribuzione della cittadinanza, in Diritto consolare, volume III,

La cittadinanza, Roma, 1995, pag.29

108

Italia, ossia nell’ambito spaziale in cui si esplica la sovranità nazionale, valga ad inserire

la persona nella comunità del Paese.

In base all'art.2 della legge in esame, “il riconoscimento o la dichiarazione

giudiziale della filiazione durante la minore età del figlio ne determina la cittadinanza

secondo le norme della presente legge”. Ora, nel caso in cui il genitore, autore del

riconoscimento o così giudizialmente dichiarato, fosse un apolide, il soggetto

riconosciuto o dichiarato giudizialmente acquisterebbe comunque la cittadinanza

italiana in virtù dell'art.1, comma I, lett. b) della legge medesima. E’ da os serva re ,

inoltre, che pur trattandosi sostanzialmente di un acquisto per filiazione naturale,

derivante dall’evento biologico della nascita da soggetto italiano, il conseguimento della

cittadinanza italiana ex art. 2 della legge è da annoverarsi tra quelli a titolo derivativo.

In tale ipotesi, infatti, il soggetto interessato acquista alla nascita lo status di cittadino,

ma lo consegue una volta emanato l’atto o il provvedimento che ha sancito la sua

qualità di figlio di una determinata persona. In sostanza l’acquisto della cittadinanza è

conseguente al riconoscimento del rapporto di filiazione ma decorre ex tunc e cioè

retroagisce alla nascita159

.

Occorre osservare che gli effetti concernenti la cittadinanza sono automatici ove

il riconoscimento o la dichiarazione giudiziale incidano direttamente nella sfera

giuridica del figlio in quanto minorenne. Nel caso in cui questi sia maggiorenne è

prevista la conservazione dello status civitatis rivestito, salvo la possibilità di eleggere

la cittadinanza italiana determinata dalla filiazione, rendendo apposita dichiarazione

entro un anno dall’avvenuto riconoscimento. In quest’ultimo caso, l’acquisto della

cittadinanza opera però ex nunc, e cioè dal giorno successivo a quello in cui è stata resa

la dichiarazione, trattandosi di atto di elezione.

E’ da osservare, infine, che la dichiarazione giudiziale di riconoscimento potrebbe

essere stata effettuata all’estero: in tale eventualità il computo del periodo di un anno

per rendere la dichiarazione di elezione della cittadinanza deve effettuarsi dalla data in

cui viene reso efficace in Italia il provvedimento straniero.

La normativa in questione prevede all'art.3 che acquisti la cittadinanza italiana

anche il minore straniero adottato da cittadino italiano. Esso tuttavia non fa alcun diretto

riferimento all'acquisto della cittadinanza da parte del minore adottato che però sia

apolide, dovendosi ritenere in ogni caso che la disposizione anche sulla base

dell'interpretazione del Consiglio di Stato con il parere n.248 del 30 novembre 1992

debba essere intesa nel senso più ampio e quindi comprendente altresì il minore apolide.

Ciò non soltanto perché lo Stato andrebbe contro gli impegni assunti a ridurre il più

possibile il fenomeno dell'apolidia, ma anche perché si creerebbe una discriminazione

ingiusta. La stessa norma, inoltre, al comma III stabilisce la perdita della cittadinanza

laddove il minore adottato commetta un atto che provochi la revoca dell'adozione ai

159 Così come peraltro stabilito dal Ministero dell'Interno con circolare n.K.60.1 emanata in data 11

novembre 1992

109

sensi della legge 184 del 4 maggio 1983, ovviamente nel caso in cui al momento della

revoca questi recuperi o sia in grado di recuperare la cittadinanza straniera.

È da sottolineare come la posizione del minore adottato sia stata equiparata a

quella del figlio legittimo, dato che in precedenza chiunque venisse adottato in età

minore da cittadini italiani non acquistasse la cittadinanza italiana, ma soprattutto come

sia stato concessa efficacia retroattiva mediante il secondo comma dell'art.3 che appunto

estende il campo di applicazione anche agli adottati prima della data di entrata in vigore

della legge in esame.

Ovviamente affinché possa esservi acquisto della cittadinanza italiana occorre che

almeno uno dei genitori adottivi sia italiano nel momento in cui il provvedimento

giudiziale di adozione diventa efficace. Nel caso in cui invece i genitori adottivi fossero

in quel momento stranieri e conseguissero la cittadinanza italiana successivamente

all’adozione, il mutamento di quella del minore si verificherebbe per comunicazione di

diritto ai sensi dell’art. 14 della legge del 1992, regolante le vicende di cittadinanza dei

minori a seguito di mutamento di quelle dei genitori.

L'articolo 14 della legge 91/1992 stabilisce che “i figli minori di chi acquista o

riacquista la cittadinanza italiana, se convivono con esso, acquistano la cittadinanza

italiana, ma, divenuti maggiorenni, possono rinunciarvi, se in possesso di altra

cittadinanza”. L’acquisto interviene, quindi, per comunicazione di diritto, in

conseguenza del mutamento di cittadinanza di uno o di entrambi i genitori

automaticamente alla sola condizione della convivenza160

e sempre che si tratti di un

soggetto minorenne161

, prevedendo invece per il soggetto divenuto cittadino quando era

minorenne un'ipotesi di perdita della cittadinanza previa apposita dichiarazione di

rinunzia da parte dell'interessato, senza limiti di tempo e senza condizioni di residenza,

qualora raggiunta la maggiore età detenga anche una cittadinanza straniera. Si evince

chiaramente come ratio fondamentali di tale disposizione siano quindi da un lato quella

di assicurare l'unicità della cittadinanza per l'intero nucleo familiare e dall'altro quella di

evitare situazioni di apolidia.

Ciò rappresenta una innovazione rispetto al sistema precedente e precisamente

rispetto all'art.12 della legge del 1912 che al primo comma prevedeva che il figlio

minore non emancipato di genitore che acquistasse o riacquistasse la cittadinanza

italiana acquistava anch’esso la medesima cittadinanza a meno che risiedendo all’estero,

non detenesse una cittadinanza straniera. In questo modo, mentre per il figlio minore

160 L’art. 12 del Regolamento di esecuzione della legge (D.P.R. N. 572\93) ha specificato che la

convivenza deve essere stabile ed effettiva ed attestata con idonea documentazione. Inoltre, deve

sussistere al momento dell’acquisto o del riacquisto da parte del genitore. Se interviene in un

momento successivo o è cessata, il figlio minore non consegue la cittadinanza italiana.161 Il Consiglio di Stato, con decisione n.1077 del 28 novembre 2001, ha ritenuto che “poiché l'acquisto o

il riacquisto della cittadinanza italiana è previsto dall'art.14 della legge 5 febbraio 1992 n.91 solo afavore dei figli minorenni (e conviventi) di chi acquista o riacquista tale status, i figli maggiorenniche si trovino in tale situazione possono solo chiedere (e ottenere) la cittadinanza ai sensi degliarticoli 4 e 9 della medesima legge”.

110

che fosse residente l'acquisto avveniva automaticamente, per quello che invece risultava

residente all'estero non si verificava laddove questi mantenesse la cittadinanza straniera,

a prescindere dalla condizione di convivenza. L’art. 12 della legge del 1912, inoltre,

facendo riferimento al genitore esercente la patria potestà dava prevalenza alla

cittadinanza del padre producendo una discriminazione di genere nei confronti della

madre la cui cittadinanza in Italia ha assunto rilevanza solo dopo la sentenza n.30 della

Corte Costituzionale del 9 febbraio 1983 la quale sancì proprio l'incostituzionalità

dell'art.1 della vecchia legge nella parte in cui non prevedeva l'acquisto della

cittadinanza in derivazione materna all'atto della nascita, e che spinse verso la legge 21

aprile 1983 n.123 con la quale si introdusse la parità tra padre e madre in materia di

cittadinanza. In base all'art.5 di tale normativa infatti tutti i soggetti minorenni alla data

del 27 aprile 1983 il cui padre o la cui madre fossero in possesso della cittadinanza

italiana o che ne venissero in possesso nel corso della loro minore età dovevano essere

considerati cittadini italiani e seguivano incondizionatamente le vicende di cittadinanza

del genitore, a prescindere dalla residenza, dalla convivenza con l’uno o con l’altro, dal

fatto che la patria potestà fosse esercitata dal padre o dalla madre. Unico adempimento

richiesto dall’art. 5 era che chiunque fosse stato in possesso anche di un altro status

civitatis avrebbe dovuto esercitare opzione per una delle due cittadinanze tra il

diciottesimo e il diciannovesimo anno di età, pena la perdita automatica di quella

italiana. Il termine per l’esercizio dell’opzione, prorogato dalla legge 15.5.1986, n. 180

fino alla data di entrata in vigore della nuova legge sulla cittadinanza, è stato abrogato

così come il vincolo stesso di opzione, espressamente dall’art. 26 di quest’ultima, che

non prevede più la perdita della cittadinanza italiana per acquisto, ancorché volontario,

di altra nazionalità. La stessa legge 91/1992 infine ha del tutto svincolato le vicende di

cittadinanza dei figli minori da quelle dei genitori, pertanto l'eventuale perdita della

cittadinanza italiana da parte di uno o di entrambi non comporta più la perdita

automatica per la prole a meno che non ricorrano le ipotesi previste dalla Convenzione

di Strasburgo del 6 maggio 1963 per le quali l'automatismo della perdita interviene se il

genitore acquisisca la cittadinanza di uno Stato contraente.

3 – L'acquisto della cittadinanza italiana da parte dell'apolide e dei figli

dell'apolide.

Con l'adesione alla Convenzione di New York del 1954, gli Stati contraenti si

sono impegnati a facilitare l'assimilazione e la naturalizzazione delle persone in

condizione di apolidia. Rispetto al passato con la legge 91/1992 l'acquisto per l'apolide

della cittadinanza italiana è stato reso più facile prevedendo che possa ottenere la

naturalizzazione dopo un periodo di residenza legale abbreviato a cinque anni rispetto ai

dieci contemplati in via ordinaria per lo straniero. È bene specificare tuttavia che oltre

alla naturalizzazione esistono anche altre ipotesi di acquisto della cittadinanza.

La prima opera di diritto in favore di chi sia apolide alla nascita ed è prevista

111

dall'art.1, comma 1, lett. B della legge 91/1992 che appunto attribuisce in via automatica

la cittadinanza italiana a chi è nato in Italia da genitori apolidi o a chi è nato in Italia da

genitori stranieri ma sarebbe apolide perché non segue la cittadinanza dei genitori

secondo la legge dello Stato al quale i genitori stranieri appartengono162

. Affinché

l'operatività della norma sia garantita occorre che la condizione di apolidia dei genitori

sia effettivamente attestata attraverso le procedure di riconoscimento previste dal nostro

ordinamento ossia in via giudiziaria a seguito dell'accertamento da parte del giudice

effettivamente competente o in via amministrativa da parte del Ministero dell'Interno.

L'art.4 comma I attribuisce la cittadinanza italiana allo straniero o all'apolide “del

quale il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado sono

stati cittadini per nascita”. Si tratta di una sopravvivenza nel nostro ordinamento del

modo di acquisto tradizionalmente detto “per beneficio di legge”, ma con importanti

modifiche che ridisegnano tale istituto rispetto al passato. La fattispecie disciplinata

dall’art. 4 della legge riprende infatti quella dell’art. 3 della legge del 1912 ma la

modifica attribuendo maggior rilievo al criterio della discendenza da un cittadino

italiano per nascita e riconoscendo ai fini dell’acquisizione del nostro status civitatis un

valore preminente alla manifestazione di volontà. Il conseguimento avverrà qualora

sussista una delle seguenti condizioni, dopo che il soggetto abbia previamente

dichiarato di volere acquistare la cittadinanza:

• la prestazione di effettivo servizio militare per lo Stato italiano da parte del

soggetto;

• l'assunzione di un pubblico impiego alle dipendenze dello Stato dell'individuo

anche all'estero;

• la residenza legale da almeno due anni nel territorio della Repubblica della

persona interessata, al raggiungimento della maggiore età e la dichiarazione di

volontà intervenga entro un anno dalla data del raggiungimento.

Rispetto al corrispondente art. 3 della legge del 1912 tale norma, da un lato

elimina il presupposto della residenza decennale in Italia dei genitori, dando maggior

rilievo a quello della discendenza da un cittadino per nascita, dall’altro evidenzia la

preminenza riservata alla volontà della persona rispetto alle situazioni di fatto. In

particolare, riguardo alla pregressa normativa, l’elemento della volontarietà viene

introdotto nelle ipotesi della effettiva prestazione del servizio militare per lo Stato

italiano e dell’assunzione di pubblico impiego alle dipendenze dello Stato, anche

all’estero. Infatti, secondo la legge del 1912 in detti casi la cittadinanza si acquistava

automaticamente, mentre ai sensi della nuova disposizione è necessaria la preventiva

162 Invece l'art. 3 del regolamento di esecuzione della legge sulla cittadinanza (D.P.R. 12 ottobre 1993, n.

572) prevede che il figlio nato in Italia da genitori stranieri non acquista la cittadinanza italiana per

nascita qualora l'ordinamento del Paese di origine preveda la trasmissione della cittadinanza al figlio

nato all'estero, eventualmente anche subordinandola ad una dichiarazione di volontà da parte dei

genitori o dei legali rappresentanti del minore o all'adempimento di formalità amministrative da parte

dei genitori.

112

dichiarazione di voler ottenere la cittadinanza.

Esaminiamo le tre ipotesi sopra elencate:

• se presta effettivo servizio militare per lo Stato italiano: al riguardo l’art. 1 del

D.P.R. 12.10.1993, n. 572 concernente il Regolamento di esecuzione della suddetta

legge n. 91/1992 ha chiarito: “b) si considera che abbia prestato effettivamente servizio

militare chi abbia compiuto la ferma di leva nelle Forze Armate italiane o la

prestazione di un servizio equiparato a quello militare, a condizione che queste siano

interamente rese, salvo che il mancato completamento dipenda da sopravvenute cause

di forza maggiore riconosciute dalle autorità competenti”. Occorre distinguere in

proposito l’assolvimento del servizio militare dalla prestazione del servizio militare. Si

può infatti soddisfare l’obbligo del servizio militare senza la prestazione del servizio

stesso in virtù di dispense od esenzioni previste dalla legge. Per ottenere il beneficio di

legge è invece necessario che il servizio sia effettivamente reso. Inoltre, tenuto conto

che l’art. 15 della legge del 1992 stabilisce che l’acquisto o il riacquisto della

cittadinanza ha effetto dal giorno successivo a quello in cui si sono adempiute le

condizioni e le formalità richieste, la norma regolamentare stabilisce che la prestazione

del servizio sia interamente resa, salvo il sopravvenire di cause di forza maggiore, e

quindi l’art. 13 del regolamento stabilisce che in detta ipotesi l’acquisto della

cittadinanza decorra dal giorno successivo a quello del congedo. Destinatari della norma

in esame sono anche coloro che svolgono la prestazione di un servizio equiparato a

quello militare e quindi anche coloro che dovessero sostituire il servizio militare con

quello civile. In ogni caso affinché si verifichino gli effetti della legge, occorre che

l’interessato dichiari preventivamente di voler disimpegnare il servizio militare al fine

del conseguimento della cittadinanza italiana: in mancanza di tale dichiarazione non vi

sarebbe nessun acquisto della cittadinanza, a differenza di quanto prevedeva l’art. 3

della vecchia legge del 1912, in cui acquisto, invece, era automatico.

• se assume pubblico impiego alle dipendenze dello Stato, anche all’estero, e

dichiara di voler acquistare la cittadinanza italiana. Al riguardo, il legislatore ha

previsto che l'acquisto o riacquisto sia immediatamente collegato all'assunzione, mentre

viene richiesta una certa durata nel rapporto, almeno cinque anni, nel caso di

prestazione del servizio ai fini dell’ottenimento della cittadinanza per naturalizzazione

previsto nell’art. 9, lett. c). Inoltre, le diverse dizioni usate (“assume pubblico impiego”

e “ha prestato servizio”) non sembrano essere casuali, ma volute per i diversi effetti ad

essi connessi. Chiarite peraltro dall’art. 1 del regolamento di esecuzione della legge, il

quale stabilisce che “salvo i casi nei quali la legge richiede specificamente l’esistenza

di un rapporto di pubblico impiego, si considera che abbia prestato servizio alle

dipendenze dello Stato chi sia stato parte di un rapporto di lavoro dipendente con

retribuzione a carico del bilancio dello Stato”. Ovviamente, per l’acquisto previsto

dall’articolo, occorre sempre la dichiarazione, che comunque non può essere espressa

utilmente dopo la cessazione del pubblico impiego. In detta ipotesi, infatti,

113

mancherebbe la presenza contestuale di un requisito legittimante la richiesta e che

costituisce anche l’interesse per il quale è stato previsto il beneficio in esame.

• se al raggiungimento della maggiore età, risiede legalmente da almeno due

anni nel territorio della Repubblica e dichiara, entro un anno dal raggiungimento di

voler acquistare la cittadinanza italiana. L’ipotesi normativa in argomento attribuisce

rilievo alla residenza ultra biennale in Italia del soggetto al momento del

raggiungimento della maggiore età ed alla espressa manifestazione di volontà entro

l’anno successivo. Sono sorti fondati dubbi sulla circostanza se sia irrilevante o meno,

dopo il raggiungimento della maggiore età e prima della dichiarazione di volontà, il

trasferimento della residenza all’estero del soggetto interessato. Nonostante l’ambiguità

della dizione della normativa, sembra fondata l’interpretazione che esige la sussistenza

contemporanea di ambedue gli elementi della fattispecie, ossia della residenza in Italia

al momento della dichiarazione di volontà. Ciò in relazione sia alla lettera della norma

che si riferisce ad un soggetto che risiede attualmente in Italia, sia alla sua ratio,

ravvisabile nel collegamento tra soggetto e territorio e nel valore a ciò attribuito dal

soggetto stesso con la propria dichiarazione di volontà.

Il successivo articolo 5 della legge 91/1992 prevede la naturalizzazione per effetto

del matrimonio del soggetto, straniero o apolide, contratto con un cittadino italiano: “il

coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano può acquistare la cittadinanza

italiana quando, dopo il matrimonio, risieda legalmente da almeno due anni nel

territorio della Repubblica, oppure dopo tre anni dalla data del matrimonio se

residente all'estero, qualora al momento dell'adozione del decreto di cui all'articolo 7,

comma I, non sia intervenuto lo scioglimento, l'annullamento o la cessazione degli

effetti civili del matrimonio e non sussista la separazione personale dei coniugi. I

termini di cui al comma I sono ridotti della metà in presenza di figli nati o adottati dai

coniugi”. Si tratta di un acquisto che non interviene in via automatica, ma attraverso un

determinato procedimento amministrativo, disciplinato dall'art.7 della legge 91/1992,

che inizia per effetto di una manifestazione di volontà da parte del soggetto interessato

che presenta la propria istanza al Prefetto competente per territorio o all'autorità

consolare, e che si conclude con un decreto del Ministero dell'Interno. La legittimazione

a richiedere la cittadinanza presuppone naturalmente che il vincolo di coniugio sia

perfettamente valido e che il relativo atto di matrimonio sia stato trascritto correttamente

negli appositi registri di stato civile del Comune italiano competente. All’autorità

amministrativa compete esclusivamente l’accertamento del possesso dei requisiti e

l’inesistenza delle cause ostative, per cui una volta che tale accertamento abbia avuto

esito favorevole, il provvedimento appare vincolato. E’ possibile affermare, quindi, che

il provvedimento attributivo della cittadinanza in conseguenza del matrimonio rientri

nella categoria dell’accertamento costitutivo; i suoi effetti si producono ex nunc e non

ex tunc, ma il presupposto è che in un determinato momento storico si sia verificato il

114

concorrere di circostanze di fatto e di diritto previste dalla legge.

Infine, ai sensi dell'articolo 9, lettera e), “la cittadinanza italiana può essere

concessa con decreto del Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, su

proposta del Ministro dell'interno, all'apolide che risiede legalmente da almeno cinque

anni nel territorio della Repubblica”. La residenza legale deve essere ininterrotta ed

attuale al momento della domanda di cittadinanza. In tal senso il Consiglio di Stato ha

ribadito, con i pareri n. 2800\95 e 363\95 resi dalla sezione prima, rispettivamente in

data 22 febbraio 1995 e 1° marzo 1995, che il periodo di residenza legale prescritto ed

utile ai fini del conseguimento della cittadinanza deve avere il carattere della continuità.

E ancora il TAR Lazio, con sentenza n.10920 del 6 dicembre 2001 ha dichiarato, in

merito alla questione se l'apolide debba o meno aver già utilmente trascorso il prescritto

periodo di residenza legale in Italia quando entra in possesso di tale status, che “è

illegittimo il provvedimento del Ministero dell'Interno che non prende in

considerazione la domanda di concessione della cittadinanza italiana di un soggetto

dichiarato apolide, nel presupposto che il requisito della residenza legale in Italia da

cinque anni debba essere conteggiato dal momento della dichiarazione di apolidia,

mentre l'art.9 l. 5 febbraio 1992 n.91 prevede soltanto la presenza dei due requisiti”. In

considerazione di ciò, ai fini del raggiungimento del periodo prescritto si potrà

computare anche il tempo di legittima dimora abituale in Italia, anteriore al

riconoscimento dello status di apolide da parte del soggetto interessato.

Per il resto, riguardo all'acquisto o riacquisto della cittadinanza l'apolide è

equiparato allo straniero.

4 – La procedura di riconoscimento dello status di apolide in Italia

Come già accennato nel precedente paragrafo, anche l'Italia prevede che vi sia

riconoscimento dello status di apolide in capo ai soggetti che se ne dichiarano colpiti e

in quanto firmataria della Convenzione del 1954, ponendosene come obiettivo la tutela,

attribuisce loro i relativi diritti che nello specifico collimano con quelli concessi ai

rifugiati politici ovvero il diritto ai documenti di identità, al possesso di un permesso di

soggiorno, al lavoro, all'assistenza sanitaria, alla previdenza sociale oltre che la

possibilità di chiedere la cittadinanza italiana dopo 5 anni di permanenza legale nel

territorio dello Stato.

Ottenere il riconoscimento dello status di apolide, tuttavia, non è affatto semplice

considerato che persiste una diffusa incertezza circa i vari passaggi da seguire come ad

esempio a chi rivolgersi per ottenerlo. La legge 91 del 1992 che disciplina appunto il

tema della cittadinanza tace in proposito ed è il relativo regolamento di attuazione, il

DPR 572 del 1993, a prevedere all'art. 17 la "possibilità" di presentare un'istanza al

ministero dell'Interno. Eccetto questo, non vi sono altri riferimenti normativi che aiutino

a comprendere se sia l'unica possibilità ovvero se sia da considerarsi alternativa

all'accertamento dello status di apolide in giudizio, secondo le norme generali

115

sull'accertamento degli status personali da parte del giudice ordinario.

In proposito, nel corso degli anni si è formata una giurisprudenza discordante.

Secondo l'orientamento dominante, l'accertamento dello status di apolidia può essere

chiesto sia in sede amministrativa, sia in sede giudiziaria, pur essendo il procedimento

giurisdizionale considerato dalla giurisprudenza maggioritaria come alternativo e non

come successivo al procedimento amministrativo. Benché alcune pronunce abbiano

escluso che l'accertamento dello status di apolide possa essere richiesto direttamente al

giudice, senza essersi prima rivolti al Ministero dell'Interno, la giurisprudenza

maggioritaria ammette che l'interessato possa scegliere se chiedere l'accertamento dello

status al Ministero dell'Interno oppure direttamente all'autorità giurisdizionale163

.

Sull'argomento si sono pronunciate per la prima volta con Sentenza n. 28873 del 9

dicembre 2008 le Sezioni unite della Corte di Cassazione le quali hanno ritenuto

ammissibile il ricorso straordinario per cassazione avverso il decreto della Corte di

Appello che, in sede di gravame, dichiarava improponibile il ricorso per l'accertamento

dinanzi all'autorità giudiziaria ordinaria dello stato di apolidia e hanno affermato la

giurisdizione del giudice ordinario. Entrambi i tipi di procedimento hanno in comune la

questione della prova dell'apolidia che consiste in un fatto negativo, cioè il mancato

possesso di alcuna cittadinanza di alcuno Stato. Naturalmente, poiché una eccessiva

richiesta di prove finirebbe con l'esigere al richiedente una prova quasi impossibile,

dovendo fornire documentazione riferita a tutti gli Stati del mondo, dottrina e

giurisprudenza ritengono sufficiente che si abbiano degli elementi meramente indiziari.

L'onere della prova spetta pur sempre al richiedente in base alle norme sul procedimento

amministrativo e sulle azioni giudiziarie in materia di diritti, ma si ritiene che debba

essere concretamente proporzionato alle sue possibilità. D'altronde l'autorità

amministrativa o l'autorità giudiziaria hanno il potere-dovere di verificare l'efficacia dei

fatti allegati o di corroborare l'eventuale inefficacia di altri titoli a supporto della

regolarità del soggiorno. In ogni caso i mezzi di prova non sono sempre indicati

chiaramente dalle vigenti norme legislative e regolamentari, sicché il richiedente

potrebbe tranquillamente esibire documenti ufficiali rilasciati da autorità statali, i testi di

norme vigenti in determinati Stati, la documentazione di atti di pubbliche

amministrazioni italiane o straniere, l'allegazione di atti notori, l'esame del passaporto o

di altri documenti di viaggio che attestino dove la persona abbia vissuto.

L'accertamento dello status di apolide in via amministrativa non era per nulla

disciplinato fino al 1993, quando con il Regolamento di esecuzione della legge 5

febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza se ne disciplinarono alcuni

aspetti. L'art. 17 di tale regolamento, ossia il D.p.r. 12 ottobre 1993 n. 572, attribuisce

al Ministero dell'Interno la competenza a certificare la condizione di apolidia della

persona residente nel territorio italiano prevedendo che la persona interessata

163 Vedi in questo senso, App. Perugia, 20 aprile 2004, trib. Lucca, 16 dicembre 2002; trib. Alessandria,

19 giugno 2002, trib. Prato, 14 gennaio 1997

116

all'accertamento dello status di apolide debba produrre un'apposita istanza in bollo

corredata dalla seguente documentazione:

1. atto di nascita;

2. documentazione relativa alla residenza in Italia. Nella prassi amministrativa si

esige il certificato di residenza e copia autenticata del titolo di soggiorno

(attestazione comunale del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno

permanente del cittadino comunitario residente in Italia, permesso di soggiorno,

permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, carta di soggiorno

di familiare di cittadino comunitario residente in Italia, carta di soggiorno

permanente di cittadino comunitario residente in Italia, iscrizione del minore di

14 anni sul permesso di soggiorno o sulla carta di soggiorno del genitore, tutore

o affidatario);

3. ogni documento idoneo a dimostrare lo stato di apolide (es. l'attestazione

rilasciata dall'autorità consolare del Paese d'origine o, se ritenuto necessario,

anche del Paese di ultima residenza dell'interessato da cui risulti che il

medesimo non è in possesso di quella cittadinanza).

La stessa disposizione prevede altresì che il Ministero dell'Interno ha la facoltà di

richiedere, a seconda dei casi, altri documenti, tenuto conto in ogni caso che laddove

redatti in lingua straniera debbano essere legalizzati e tradotti. La domanda deve essere

presentata al Ministero dell'Interno o per il tramite della Questura ovvero mediante

raccomandata con ricevuta di ritorno da inviarsi al seguente indirizzo: Dipartimento per

le libertà civili e l'immigrazione - Direzione centrale per i diritti civili, la cittadinanza e

l'immigrazione - Via Cavour, 6 00184 ROMA.

Il procedimento amministrativo di riconoscimento dello stato di apolidia ha una

durata complessiva molto lunga, perché deve concludersi entro il termine di 350 giorni

ovvero entro il termine di 895 giorni nel caso in cui debba chiedersi il parere della

Rappresentanza diplomatica o consolare e quello del Ministero degli Affari esteri. Tali

termini sono indicati nella tabella A allegata al regolamento approvato con D.M. Interno

18 aprile 2000, n. 142 (pubblicato in G.U. 5 giugno 2000, suppl.ord. n.86/L). Infatti

nell'ambito di questo procedimento amministrativo il Ministero dell'Interno ha la facoltà

di attivare una verifica presso il Ministero degli Affari esteri e/o presso le autorità dello

Stato estero, al fine di stabilire se effettivamente la persona non sia più considerata

cittadino di quello Stato. Si ritiene che l'impugnazione dell'eventuale rifiuto opposto dal

Ministero dell'Interno alla certificazione dello status di apolide debba essere fatta

davanti al giudice ordinario e non al giudice amministrativo, dal momento che la pretesa

all'accertamento dell'apolidia deve essere qualificata come diritto soggettivo e non come

interesse legittimo164

. In ogni caso è evidente il limite intrinseco di tale procedimento

164 L'importante Cass., 4 aprile 2011, n.7614 (in Nuova giur.civ.comm. 2011, I, 1168 con nota di S.E.

Pizzorno, Apolidia e rito applicabile) ha chiarito che: “le controversie riguardanti lo stato di apolide,

117

amministrativo di riconoscimento dell'apolidia: di esso può fruire soltanto colui che sia

già regolarmente residente nel territorio italiano e dunque si applica soltanto ai casi di

apolidia successiva, cioè alle ipotesi di persone che per qualsiasi motivo abbiano perso

la cittadinanza del Paese di origine in periodo successivo all'inizio della loro regolare

iscrizione anagrafica nelle liste della popolazione residente in un Comune italiano165

.

Nulla si prevede invece per chi sia giunto in Italia quando già si trovava in condizione

di apolide, anche se costui potrebbe chiedere ed ottenere lo status di rifugiato o di

protezione sussidiaria qualora nel Paese in cui risiedeva, ancorché privo di cittadinanza,

sia stato oggetto di persecuzioni o comunque vi sia il fondato timore di persecuzioni

individuali per motivi di lingua, razza, opinioni politiche, condizioni personali o sociali

ovvero allorché abbia subito un danno grave a causa di torture, maltrattamenti, pene

inumane o degradanti o della violenza in situazione di conflitto interno o internazionale.

L'accertamento dello status di apolide in via giurisdizionale, fermo restando che si

tratti di un'azione di accertamento di status e quindi sia applicabile l'art 2697 c.c. in base

a l quale "chi vuole fare valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne

costituiscono il fondamento" non vede ad esso dedicata alcuna specifica disposizione.

Pertanto, la soluzione delle questioni di diritto sostanziale e di diritto processuale, come

il giudice competente e il rito applicabile, è affidata all'elaborazione giurisprudenziale.

Secondo l'indirizzo prevalente, la giurisdizione in materia spetta al giudice ordinario,

trattandosi del giudice competente in generale per le azioni di stato delle persone e per

eventuali lesioni dei diritti soggettivi. Quanto al rito applicabile per l'accertamento dello

status di apolidia, esistono due diversi orientamenti. Secondo una parte della

giurisprudenza166

, il giudizio rientra negli ordinari giudizi di cognizione e deve essere

introdotto con un atto di citazione ad udienza fissa, da notificarsi al Ministero

dell'Interno. Secondo altra parte della giurisprudenza167

, invece, l'accertamento

dell'apolidia deve avvenire nell'ambito di un procedimento in camera di consiglio, da

svolgersi secondo le previsioni degli artt.737 ss. c.p.c. Questa posizione si fonda sulla

considerazione che si verte in materia di status delle persone e che non sarebbe possibile

identificare un soggetto titolare dell'interesse a contraddire. Ad essa, i sostenitori della

prima interpretazione eccepiscono che soltanto in presenza di una disposizione di legge

espressa, il procedimento potrebbe essere regolato secondo le norme dei procedimenti in

camera di consiglio. Durante il procedimento, può essere chiesto al giudice in via

cautelare il rilascio di un permesso di soggiorno.

Limiti all'onere probatorio gravante sull'interessato. In astratto, l'apolide dovrebbe

dimostrare di non essere cittadino di nessuno dei numerosissimi Stati esistenti al mondo.

La giurisprudenza, tuttavia, ritiene sufficiente che l'interessato provi di non essere

in difetto di diversa esplicita previsione del legislatore, devono essere proposte e decise nel

contraddittorio con il Ministero dell'Interno, nelle forme dell'ordinario giudizio di cognizione e non in

quelle del rito camerale davanti al tribunale” (in senso conforme: Cass., 23 gennaio 2012, n.903)165 Come è il caso di ex-straniero già regolarmente soggiornante nel territorio italiano. 166 Vedi App. Milano, 9 aprile 2002, Trib. Alessandria, 19 giugno 2000; Trib. Milano, 25 gennaio 1990167

Vedi Trib. Milano, 5 marzo 2003, Trib. Lucca, 16 dicembre 2002, Trib. Prato, 14 gennaio 1997

118

cittadino di quegli Stati con i quali ha intrattenuto rapporti significativi. In concreto,

l'interessato dovrà dimostrare:

• di avere perso la cittadinanza dello Stato di origine e quella dello Stato di ultima

residenza;

• di non avere acquistato né la cittadinanza dello Stato di ultima residenza, né la

cittadinanza italiana.

Circa i mezzi di prova ammissibili, oltre a quelli sopra indicati, nella

giurisprudenza si ammette anche la produzione di testi volti a confermare le circostanze

addotte nell'azione proposta.

4.1 – (segue): il permesso di soggiorno

La stessa normativa italiana prevede che a chi sia in attesa del riconoscimento

dello status di apolide possa essere concesso il permesso di soggiorno. L'art. 11, comma

1, lett. c) del D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394 ossia il Regolamento recante norme di

attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione

e norme sulla condizione dello straniero, a norma dell'articolo 1, comma 6, del decreto

legislativo 25 luglio 1998, n. 286, come modificato dal regolamento approvato con

D.P.R. 18 ottobre 2004, n. 334, prevede che un apposito permesso di soggiorno per

acquisto dello stato di apolide sia rilasciato allo straniero già in possesso di permesso di

soggiorno per altri motivi, per la durata del procedimento di riconoscimento. E' evidente

che si tratta di un permesso di soggiorno da rilasciare soltanto nei casi di apolidia

successiva, cioè a persona che era già regolarmente soggiornante in Italia ad altro titolo

e che avendo perso la sua originaria cittadinanza per qualsiasi motivo abbia

regolarmente iniziato un procedimento amministrativo o giudiziario mirato al

riconoscimento del proprio status di apolide. Proprio perché a causa della perdita della

cittadinanza la persona non potrebbe esibire alcun valido passaporto, né potrebbe

rientrare in alcun Paese di appartenenza, l'art. 9 comma 6 del citato regolamento esenta

la persona che richieda tale tipo di permesso di soggiorno dall'obbligo di esibire un

valido passaporto e la documentazione concernente la disponibilità di sufficienti mezzi

di sussistenza, di un alloggio idoneo e di mezzi per il ritorno nel Paese di origine. Anche

tale previsione riguarda soltanto i casi di apolidia sopravvenuta in Italia a persona che vi

soggiornava da straniera ossia i casi concernenti chi sia da tempo titolare di un permesso

di soggiorno. Sono dunque esclusi i soggiorni di breve periodo per i quali è sufficiente

la dichiarazione di soggiorno.

Nella prassi amministrativa la circolare del Ministero dell'Interno - Dipartimento

della pubblica sicurezza - Direzione centrale dell'immigrazione e della polizia delle

frontiere - 7 dicembre 2006 (Prot.n.400/C/2006/401948/P/14.201) ha stabilito, tra l'altro

che:

• la domanda di rilascio del permesso di soggiorno per attesa del riconoscimento

dello status di apolide debba essere presentata direttamente al Questore;

119

• l a domanda di rinnovo dello stesso rientra tra quelle che devono essere

presentate presso gli Uffici Postali abilitati utilizzando l'apposito kit a banda

gialla disponibile presso tutti gli uffici postali, i Patronati ed i Comuni abilitati,

in virtù della convenzione stipulata tra Ministero dell'Interno e Poste Italiane

SPA, ai sensi dell'art. 39 comma 4 bis della Legge 16 gennaio 2003, n. 3, come

modificato dall'art. 1 quinquies della Legge 12 novembre 2004, n. 271;

In conformità agli obblighi derivanti dal Regolamento CE n. 1030 del 13 giugno

2002, che istituisce un modello uniforme di permesso di soggiorno, dal 1 gennaio 2006

è previsto inoltre il rilascio del permesso di soggiorno elettronico, in sostituzione di

quello cartaceo. Con decreto del Ministero dell'Economia e delle Finanze del 4 aprile

2006, di concerto con il Ministero dell'Interno, è stato fissato un corrispettivo per il

rilascio in € 27,50 il cui pagamento dev'essere effettuato tramite appositi bollettini di c/c

postale premarcati, disponibili presso gli uffici postali abilitati alla ricezione delle

istanze e pagabili presso qualunque ufficio postale.

4.2 – (segue): diritti e benefici connessi al riconoscimento dello status di apolide

Secondo quanto si desume dall'interpretazione coordinata dell'art.1 commi 1 e 3

del D.lgs. 286 del 1998 e della Convenzione relativa allo status degli apolidi del 28

settembre 1954 cui è stata data esecuzione in Italia con la legge 1° febbraio 1962, n. 306

il trattamento giuridico riservato all'apolide è quello di uno straniero extracomunitario,

salvo che sia previsto un trattamento diverso o migliore da leggi o da convenzioni

internazionali in vigore in Italia e, in particolare, dalla suindicata Convenzione.

Ne risulta che, per effetto della suddetta combinazione, ogni apolide riceve un

trattamento giuridico che per alcuni aspetti è identico a quello previsto nelle medesime

condizioni per il cittadino e per altri aspetti è identico a quello previsto per lo straniero.

In particolare, in base alla Convenzione citata, l'apolide riceve:

• un trattamento identico a quello del cittadino italiano in materia di libertà di

religione e di libertà di istruzione religiosa dei loro figli (art. 4), di proprietà

intellettuale ed industriale (art. 14), di diritto di agire e difendersi davanti alla

giustizia (art. 16), di istruzione obbligatoria (art. 22, comma 1), di assistenza e

soccorso pubblico (art. 23), di trattamento dei lavoratori e di previdenza sociale

(art. 24), obblighi fiscali (art. 29). Inoltre, al pari dei cittadini italiani e

diversamente dagli stranieri anche rifugiati, gli apolidi che risiedono legalmente

nel territorio dello Stato sono assoggettati alla legge italiana, non solo per

l'esercizio dei diritti civili, ma anche per quanto riguarda gli obblighi del servizio

militare, nei casi in cui è obbligatorio per i cittadini168

.

• un trattamento identico a quello previsto per gli stranieri in materia di acquisto o

168 Si veda in proposito l'art.16 della legge 91/1992 che è stato considerato costituzionalmente legittimo

dalla Corte costituzionale con sentenza 172/1999

120

locazione o altri contratti concernenti la proprietà mobiliare e immobiliare (art.

13), diritto di associazione non politica e senza scopo di lucro e di associazione

sindacale (art. 15), l'accesso ad ogni forma di lavoro subordinato (art. 17), di

lavoro autonomo (art. 18) e di libere professioni (art. 19), edilizia residenziale

pubblica e aiuti pubblici in materia di case di abitazioni (art. 21), accesso

all'istruzione superiore e ai corsi universitari, incluse le misure del diritto allo

studio (art. 22, comma 2), libertà di circolazione e soggiorno nel territorio dello

Stato (art. 26).

Per effetto di tale trattamento l'apolide può ottenere un permesso di soggiorno con

il quale peraltro accedere allo svolgimento di un'attività lavorativa il cui rilascio e

rinnovo secondo la prassi avviene previa esibizione della certificazione di apolidia con

modalità analoghe a quelle previste per il permesso di soggiorno per attesa del

riconoscimento dello status di apolide descritte nel precedente paragrafo. Inoltre può

mantenere o ristabilire il suo diritto all'unità familiare con cittadini italiani, comunitari o

extracomunitari anche chiedendo il ricongiungimento ai sensi delle norme applicabili in

materia agli stranieri.

Sotto alcuni profili, l'apolide riceve poi un trattamento analogo a quello previsto

per i rifugiati tant'è vero che in base all'art. 7 della Convenzione del 1954 dopo 3 anni di

residenza sul territorio italiano è esentato da ogni verifica della condizione di reciprocità

e in base all'art. 28 della stessa Convenzione può ottenere, a meno che non vi si

oppongano ragioni imperative di sicurezza nazionale e di ordine pubblico, un titolo di

viaggio per apolidi onde poter circolare al di fuori del territorio dello Stato, titolo che

deve essergli rilasciato comunque se è regolarmente residente sul territorio italiano. La

Convenzione raccomanda oltre a ciò di accordare speciale attenzione agli apolidi

regolarmente residenti in altri Stati ma che si trovino sul territorio e che non siano nella

possibilità di ottenere un titolo di viaggio dal Paese di loro residenza abituale, e laddove

vogliano entrare invece in Italia deve essere rilasciato visto d'ingresso se lo Stato di

residenza non rientra tra quelli in cui vige la libera circolazione secondo gli accordi di

Schengen.

Lo Stato deve altresì dare assistenza amministrativa agli apolidi, sostituendosi agli

apolidi nei rapporti con le autorità di Stati esteri, rilasciando loro certificati e documenti

che normalmente dovrebbero essere rilasciati agli stranieri dalle autorità del loro Paese.

Tali rilasci possono anche essere a pagamento, ma l'importo dell'eventuale tariffa

dovrebbe essere rapportata al costo delle medesime prestazioni erogate in favore dei

cittadini italiani (art. 25). Lo Stato deve permettere altresì il trasferimento degli averi

dell'apolide verso il proprio territorio e verso il territorio di un altro Stato (art. 30).

L'art. 12 della Convenzione prevede per di più che lo statuto della persona

dell'apolide sia regolato dalla legge del Paese di domicilio o di residenza, fatto salvo il

rispetto dei diritti precedentemente acquisiti dall'apolide e concernenti lo statuto della

persona, in particolare quelli risultanti dal matrimonio. Pertanto l'art. 19 della legge 31

121

maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato)

prevede che, nelle ipotesi in cui si debba applicare la legge nazionale di una persona,

agli apolidi si applichi la legge dello Stato del domicilio o, in mancanza, la legge dello

Stato di residenza. Del tutto eccezionali possono essere i provvedimenti di espulsione

nei confronti degli apolidi. Infatti l'art. 31 della Convenzione del 1954 prevede che

l'apolide possa essere espulso soltanto per motivi di ordine pubblico o di sicurezza

nazionale ed in tal caso gli deve essere concesso tutto il tempo necessario per difendersi

e farsi difendere di fronte ad un giudice prima che l'espulsione sia eseguita essendogli

peraltro accordato un termine ragionevole che gli consenta eventualmente di farsi

ammettere in un altro Stato, fatta salva la facoltà di applicare misure di ordine interno

presumibilmente per motivi di sicurezza.

L'art. 32 della Convenzione raccomanda infine agli Stati di facilitare e accelerare

l a naturalizzazione degli apolidi. Perciò la concessione della cittadinanza italiana può

essere richiesta dall'apolide al Presidente della Repubblica (analogamente a quella del

rifugiato) dopo 5 anni di residenza legale nel territorio italiano (art. 9, comma 1, lett. e)

legge 5 febbraio 1992, n. 91), invece dei dieci anni previsti per lo straniero

extracomunitario, ferma restando la necessità che anche l'apolide produca

documentazione analoga a quella prevista per gli stranieri ai fini di attestare la

sussistenza degli altri requisiti attinenti all'incensuratezza penale, alla non pericolosità

per la sicurezza dello Stato e per l'ordine pubblico, all'autosufficienza economica e

all'affidabilità fiscale.

5 – L'espulsione del soggetto apolide dal territorio nazionale

L'articolo 31 della Convenzione di New York del 1954 prevede il divieto di

espulsione dell'apolide che si trova regolarmente sul territorio dello Stato se non per

motivi di sicurezza nazionale o di ordine pubblico. Sono attribuite le stesse garanzie

previste per i rifugiati dalla Convenzione di Ginevra del 1951, cioè che la decisione sia

presa in modo conforme alle disposizioni della legge interna e che l'apolide, salvo

ragioni imperative di sicurezza nazionale, possa fornire le prove a suo discarico,

presentare un ricorso e farsi rappresentare in giudizio.

La Convenzione sugli apolidi del 1954 non prevede nulla circa il loro ingresso nel

territorio degli Stati contraenti, né contiene una norma, a differenza di quanto previsto

dall'articolo 31 della Convenzione sui rifugiati, che permetta agli apolidi in caso di

ingresso clandestino di evitare sanzioni penali eventualmente adottate nei loro confronti.

L'ingresso degli apolidi nel territorio dello Stato è uguale a quello degli stranieri e

dunque anche per loro si rendono necessari gli stessi adempimenti previsti dalla legge.

A conferma di ciò, il D.P.R. 394 del 31 agosto 1999, il “Regolamento recante norme di

attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina sull'immigrazione

e norme sulla condizione dello straniero” stabilisce all'art.11 comma I punto C che il

permesso di soggiorno è rilasciato, quando ne ricorrono i presupposti, per i motivi e la

122

durata indicati nel visto d'ingresso, per l'acquisto della cittadinanza o dello status di

apolide per la durata del procedimento di concessione o riconoscimento. Laddove

invece l'apolide entri privo di visto e del conseguente permesso di soggiorno, violando

così le norme in materia di ingresso e soggiorno in Italia, può essere emesso a suo

carico un provvedimento di espulsione. Se l'apolide si trovi nell'impossibilità materiale

di ottemperare all'ordine impartitogli perché non riesce a trovare un paese disposto ad

accoglierlo, l'interessato diventa destinatario di due diversi comandi tra loro

contrastanti, uno che gli impone di lasciare il territorio e l'altro che invece gli vieta

l'accesso nel territorio dello Stato confinante.

Nei primi decenni del secolo scorso, a causa dei grandi mutamenti geopolitici

avvenuti durante e dopo la I guerra mondiale, accadeva che individui come ad esempio i

cittadini dell'Impero russo o gli armeni dell'Impero ottomano fossero costretti a lasciare

il paese d'origine rifugiandosi, muniti di passaporto rilasciato dal proprio Stato poi

scomparso, in un altro paese europeo. Molto spesso accadeva che lo Stato ospitante,

dopo aver inizialmente accolto il rifugiato apolide, rilasciandogli altresì una carta di

soggiorno per stranieri, non gli rinnovasse più il documento per motivi di natura

politica, emettendo contestualmente un provvedimento di espulsione ai suoi danni.

L'apolide, impossibilitato a lasciare il paese per recarsi legalmente in un altro Stato in

quanto privo di un passaporto valido perché rilasciato da un paese ormai scomparso, era

costretto a rimanere nello Stato ospitante in violazione dell'ordinanza di espulsione

emessa. Lo stesso veniva così condannato per la violazione e una volta espiata la pena,

veniva nuovamente espulso e così per diverse volte essendo nell'impossibilità di dare

esecuzione al provvedimento di espulsione.

Secondo una parte della dottrina169

, le scriminanti dello stato di necessità e della

forza maggiore possono correre in soccorso in tale situazione, sostenendo che il

provvedimento di espulsione possa essere disatteso senza che la sua inosservanza integri

un reato da parte dell'apolide quando l'esecuzione ne risulta impossibile per una di

queste due cause. Ciò in conformità con la Convenzione di Ginevra170

del 28 ottobre

1933 che prevedeva che l'impossibilità per un apolide di lasciare il territorio costituisse

un caso di forza maggiore che escludeva l'applicazione di una sanzione penale.

Tale orientamento trova conferma non solo nella precedente legge Martelli, la

n.39 del 28 febbraio 1990, che all'articolo 9 par.5 prevedeva che gli apolidi procedenti

alla regolarizzazione non sono punibili per le contravvenzioni alle norme vigenti in

materia di ingresso degli stranieri, ma anche nella prassi normalmente seguita da parte

delle autorità.

La mancanza di cittadinanza in capo ad un soggetto può in alcuni casi essere un

atto di persecuzione da parte di uno Stato perché trova fondamento in motivazioni

169 A.M. Calamia, “Ammissione ed allontanamento degli stranieri”, Giuffrè Ed., Milano, 1980, pag.154170 In occasione della Conferenza di Ginevra del 28 ottobre 1933 della Società delle Nazioni fu elaborata

peraltro una nuova convenzione che costituiva il primo accordo internazionale che regolamentava lo

status legale per gli apolidi.

123

politiche. In tal senso l'art.19 del Testo Unico 286/1998 prevede che l'espulsione e il

respingimento non possono in nessun caso essere disposti verso uno Stato in cui lo

straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di cittadinanza, in conformità

al principio generalmente riconosciuto di non procedere all'espulsione di un soggetto

verso uno Stato che potrebbe farne oggetto di persecuzione, come riaffermato in una

risoluzione adottata all'unanimità nel corso della Conferenza di New York del 1954

sugli apolidi e che precede il testo della relativa convenzione.

Occorre infine osservare che le procedure amministrative di certificazione dello

status di apolidia vengono ostacolate dalla richiesta di esibizione del permesso di

soggiorno e del certificato di residenza anagrafica da parte del Ministero dell'Interno

all'interessato nonostante tale obbligo non sia previsto dall'articolo 17 del D.P.R. 572

del 12 ottobre 1993 che invece richiede solo la documentazione relativa alla residenza,

ma non la residenza legale, del soggetto in Italia. Tale obbligo di esibizione non trova

giustificazione neppure nell'art.11 del regolamento di attuazione del Testo Unico

sull'immigrazione che stabilisce che il permesso di soggiorno sia rilasciato per acquisto

dello stato di apolide “a favore dello straniero già in possesso del permesso di

soggiorno per altri motivi, per la durata del procedimento”.

Ovviamente ciò accade perché se la norma fosse interpretata nel senso di rendere

irricevibile la domanda presentata dall'apolide di fatto che sia entrato nel territorio

nazionale privo di visto di ingresso e permesso di soggiorno valido, rappresenterebbe

una violazione evidente degli obblighi di esecuzione della Convenzione del 1954

assunti con la legge 306/1962.

Accade quindi che per ottenere il riconoscimento del proprio status di apolide,

qualora privi di visto e permesso di soggiorno validi, questi siano costretti ad adire il

giudice ordinario in via diretta e unica perché il relativo procedimento prescinda dalla

preventiva esibizione di tali documenti e della certificazione anagrafica.

La Commissione europea contro il razzismo e l'intolleranza ha censurato tale

situazione nel suo terzo rapporto sull'Italia, sottolineando la negligenza e l'incuria dello

Stato in materia di accesso allo status degli apolidi di fatto i quali rivolgendosi al

Ministero dell'Interno privi del visto e del permesso rischierebbero non soltanto di non

vedersi riconosciuto il loro status ma anche d'essere costretti a rimanere nel territorio

nazionale per un tempo assolutamente indefinito171

.

171 ECRI, Commissione europea contro il razzismo e l'intolleranza, Terzo Rapporto sull'Italia, adottato il

16 dicembre 2005, pubblicato a Strasburgo il 16 maggio 2006, par.96

124

Capitolo Settimo – L'Unione Europea e il caso delle Repubbliche baltiche

Si è detto più volte che l'apolidia è un fenomeno molto vasto che colpisce milioni

di persone costrette a vivere in una situazione di vulnerabilità estrema, definito come la

mancanza di una qualunque cittadinanza. Ovviamente, essendo un fenomeno globale

non esiste area del mondo che non ne conosca esempi sia passati che presenti

emergendo di conseguenza come un candidato naturale anche per l'agenda dell'Unione

Europea che in quanto organizzazione politica che riunisce più realtà nazionali si è

trovata a dover fare i conti con le conseguenze di esso e approntare dei meccanismi di

protezione per coloro che ne risultano colpiti. Sebbene infatti le circostanze in cui

vivono gli apolidi possano variare notevolmente da un paese membro all'altro in

funzione dell'attenzione che al loro status è riservata di volta in volta nelle rispettive

legislazioni nazionali, considerato che gli Stati membri conservano ancora in maniera

quasi esclusiva la competenza in materia di leggi sulla cittadinanza, l'esistenza di

standard che a livello UE affrontano il problema aiuta a potenziare gli sforzi interni nel

risolvere la ridotta capacità di esercitare i diritti e le libertà fondamentali comune a tutti

i soggetti apolidi, a prescindere dal paese membro in cui si trovano.

In tale direzione, nella prima sezione di questo capitolo l'interesse sarà riservato

seppur brevemente proprio ai meccanismi che l'Unione Europea possiede attualmente

per la protezione di coloro che risultano privi di una qualunque cittadinanza in modo da

apprenderne i punti cardinali, per poi successivamente concentrarsi su un particolare

gruppo di apolidi che la recente “Europa unita” si è trovata a conoscere, ossia la

minoranza russa nelle Repubbliche baltiche, con una particolare attenzione per il caso

dell'Estonia che ad oggi, insieme a Malta, Cipro e Polonia, rimane tra i paesi membri a

non aver ancora ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite del 1954 relativa allo

status degli apolidi, strumento di diritto internazionale di primaria importanza in

materia.

Sezione Prima – I meccanismi di protezione per l'apolide nel quadro dell'UE

1 – Uno sguardo d'insieme in Europa

Il fenomeno dell'apolidia, prima della grande guerra, si riscontrava di rado in

quanto evento eccezionale, isolato e inconciliabile con la vita di uno Stato, essendo

considerato un problema più politico che giuridico. La comunità internazionale, così,

non se ne preoccupava più di tanto con l'unica eccezione nel dicembre 1850 quando

l'imperatore Francesco Giuseppe d'Austria minacciò di revocare la nazionalità austro-

ungarica a tutti coloro che avessero partecipato al movimento rivoluzionario in

Lombardia e a Venezia, provocando malumori e interventi diplomatici da parte degli

125

altri paesi europei172

.

All'epoca la causa principale dell'apolidia era determinata dalle disposizioni

contrastanti delle legislazioni dei vari Stati in materia di cittadinanza, e gli stranieri,

definiti come gente proveniente da fuori, nei rapporti internazionali venivano divisi in

due classi: coloro che appartenevano a uno Stato determinato pur non appartenendo alla

nazione dove essi si trovavano e coloro che non appartenevano a nessuna nazione e non

avevano nessun posto come casa. Per quanto riguarda gli individui appartenenti alla

seconda classe, la lingua giuridica della Svizzera tedesca coniò il termine di

heimathlose. Questi divenne subito famoso e quindi adottato da numerosi tribunali e da

numerosa dottrina ma fu successivamente sostituito dal francofono apatride, vocabolo

che apparve per la prima volta in un articolo del giurista Charles Claro pubblicato per il

giornale “La Loi” nel 1918 e che venne adottato anche dalla Società delle Nazioni che

lo preferì al termine apolide considerando che la polis dopo tanto tempo si era

ingrandita ed era diventata patria.

Secondo la dottrina del primi anni del 1900 veniva considerato apolide colui che

non era legato ad alcuno Stato a titolo di cittadino o di suddito, sia perché non aveva

acquistato questa qualità, sia perché vi aveva rinunziato o ne era stato privato in forma

individuale, a seguito di speciali circostanze relative alla sua nascita, al suo

matrimonio, alla violazione delle leggi del suo paese; sia a seguito del trasferimento di

un territorio entro i confini di un nuovo Stato o della trasformazione del regime politico

sociale del proprio paese di origine. Inoltre elencava dieci differenti categorie di

apolidia a seconda dell'eziologia di ciascuna di esse.

Ovviamente le cause dalle quali scaturisce tale anomalia sono mutate nel corso del

tempo ma purtroppo il fenomeno è tutt'altro che scomparso tanto che nel giugno 2008 il

commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa, Thomas Hammarberg, ha

dichiarato coraggiosamente quanto importante sia riconoscere che “nessuno dovrebbe

essere apolide nell'odierna Europa173

” richiamando l'attenzione su diversi stati europei,

membri sia 'vecchi' che 'nuovi' dell'Unione Europea. Se nel mondo si stimano infatti

circa 15 milioni di apolidi, in Europa la cifra si aggira attorno al milione e gli Stati

membri coinvolti non sono affatto pochi. Il diritto alla cittadinanza e il divieto di

privazione arbitraria di essa, come abbiamo detto, si ritrovano in numerosi strumenti

normativi realizzati a tutela dei diritti umani, primo fra tutti a livello europeo la

Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948, con il risultato di un sistema

giuridico di vasta portata tra quelli del mondo sviluppato. Ciononostante una soluzione

rimane sfuggente perché nella pratica i diritti umani, e quindi il diritto alla cittadinanza,

non coprono affatto tutti.

Gli schemi che adoperano le normative praticate in Europa in materia di

172 Tra le associazioni private che per prime presero coscienza della gravità del fenomeno, l'Istituto del

diritto internazionale propose delle soluzioni durante una sua sessione di Amburgo del 1891 ma solo

nel 1896 giunse ad adottare una risoluzione sulla nazionalità.173 T. Hammarberg, “No one should have to be stateless in today's Europe”, Viewpoint (9 giugno 2008)

126

cittadinanza variano, sia geograficamente che temporalmente, per ragioni di storia e

filosofia. Molti Stati orientali, in particolare, hanno sempre avuto una

concettualizzazione della cittadinanza costruita su base etnica tanto che la fine dell'era

sovietica infatti, mettendo fine ad una unione politica di Stati, ha portato non solo alla

comparsa di focolai seri di guerra etnica ma anche a quelle problematiche riguardanti la

delicata definizione dell'appartenenza agli Stati di nuova formazione dalle quali è

derivata buona parte dell'apolidia presente nell'Europa orientale. La Germania, nel

periodo intercorrente tra l'insediamento del suo moderno concetto di cittadinanza nel

1913 e la fine di questo millennio, ha portato avanti una politica di cittadinanza basata

in maniera molto forte sul principio dello ius sanguinis, riconoscendo come cittadini

anche i discendenti di coloro che erano emigrati nei secoli precedenti e negando al

contrario la cittadinanza ai bambini tedeschi nati da stranieri residenti, fino a quando nel

2000, in seguito alle costanti pressioni delle Nazioni Unite ha deciso di adottare una

politica basata invece su ben più forti elementi dello ius soli. Il Regno Unito, nel corso

del XX secolo, è passato da un concetto inclusivo secondo il quale chiunque fosse nato

in territorio dell'Impero Britannico era ugualmente soggetto alla Monarchia ad un

regime che differenzia più cittadinanze britanniche sulla base di uno schema molto

complesso di ius sanguinis che concede la titolarità del diritto di entrare e vivere nel

territorio del Regno Unito solo ai cittadini britannici impiantati nel Regno Unito. La

Francia ha sempre avuto una forte politica di ius soli, come del resto si addice a un

paese che proprio come promulgato nella Rivoluzione del 1789 ha a cuore l'attenzione

verso i diritti del cittadino, ma il suo è uno schema di “doppio ius soli” poiché, così

come essenzialmente fa il sistema di ius sanguinis del Regno Unito, per stabilire lo

status dell'individuo torna indietro a quello dei rispettivi genitori.

Naturalmente, questa varietà di approcci a livello nazionale può far nascere delle

preoccupazioni riguardo all'attribuzione della cittadinanza e conseguentemente al

prodursi di nuovi casi di apolidia, tenuto conto peraltro che la cittadinanza europea è

una cittadinanza meramente accessoria a quella nazionale. Tuttavia, insieme allo

svilupparsi del concetto controverso di “Fortezza Europa”, in base al quale chi si trova

all'interno del sistema politico ha ampi diritti mentre quelli formalmente fuori hanno

difficoltà, si sono realizzati anche meccanismi di protezione aventi come oggetto

proprio l'apolidia all'interno dell'Unione Europea.

La letteratura nascente di questi ultimi anni sul tema dell'apolidia spesso fa

riferimento a una importante distinzione tra due contesti in cui questo fenomeno può

sorgere. Il primo contesto copre le popolazioni apolidi protagoniste di un flusso

migratorio, il secondo invece comprende le situazioni in cui gli apolidi si trovano nella

loro “patria” ossia un paese con cui hanno legami significativi e stabili tramite elementi

quali la nascita o la residenza a lungo termine. Ognuno di questi due contesti, la cui

linea di demarcazione peraltro non è affatto cristallina, richiede diverse soluzioni.

Secondo il parere consensuale di un gruppo di esperti e dell'UNHCR, la soluzione

127

adeguata per il secondo ovvero per il cosiddetto apolide in situ è la naturalizzazione o il

riconoscimento della nazionalità. Per coloro che mancano di un chiaro attaccamento a

uno Stato specifico, invece, dovrebbero essere accessibili appositi meccanismi di

protezione come ad esempio un meccanismo di determinazione dello status di apolide

che sia efficace, che garantisca i diritti allo status connessi e che funga da presupposto

per una soluzione 'duratura' come la naturalizzazione.

Nella maggior parte dell'Unione Europea, l'apolidia non è un fenomeno di massa

come avviene in alcune regioni del Medio Oriente, del Sud-Est asiatico o dell'Africa

centrale. In tal senso, Lettonia ed Estonia rappresentano un'importante eccezione

considerato che centinaia di migliaia di russofoni non hanno una cittadinanza in questi

due Stati membri dell'UE. Storicamente, risultano popolazioni di stampo migratorio

tuttavia i loro legami con tali paesi sono talmente forti che di solito sono considerati

come appartenenti alla categoria sopra descritta delle popolazioni senza stato in situ.

Queste situazioni sono il risultato di fattori storico-politici determinati così come di

meccanismi disfunzionali o inefficaci per la prevenzione della condizione di apolide alla

nascita. Il problema è che la situazione non sembra vicina a una possibile risoluzione

perché contemporaneamente anno dopo anno arrivano in Europa migliaia di migranti in

cerca di protezione e di una vita più dignitosa.

Nella maggior parte degli Stati membri dell'UE, l'apolidia è prevalentemente o

esclusivamente un fenomeno migratorio spesso legato alla migrazione forzata.

Ciononostante l'apolidia continua a rimanere un fenomeno nascosto e finora non è stata

oggetto di discussione politica principale in materia di protezione internazionale.

Sebbene le spiegazioni possano essere diverse probabilmente la più evidente è la

semplice mancanza di consapevolezza non soltanto del fenomeno in sé quanto anche

della violazione dei diritti ai danni di chi è apolide e della vulnerabilità che ne deriva.

Ad oggi, infatti, esistono ancora Stati membri che non sono parti della Convenzione del

1954 relativa allo status degli apolidi, senza contare che molti di quelli che l'hanno

ratificata continuano a ignorare gli obblighi riguardanti le procedure di determinazione e

protezione che da essa promanano174

. Tuttavia nel quadro normativo dell'UE esistono

delle forme di tutela sulle quali i migranti forzati apolidi possono contare.

2 – Dopo “Lisbona”: verso un approccio efficace.

Senza mirare ad un'analisi completa in proposito, l'esistenza di una massa di

persone la cui protezione non è affatto armonizzata può dimostrarsi un grosso ostacolo

perché è difficile immaginare una zona comune di protezione se gli stranieri con una

grave condizione medica o gli apolidi non-rifugiati possono avere accesso a status di

protezione significativi in alcuni Stati membri mentre in altri vanno incontro a

detenzione e indigenza. Ovviamente, non è realistico aspettarsi una armonizzazione

174 Cfr. UN High Commissioner for Refugees (December 2010) Expert Meeting – Statelessness

Determination Procedures and the Status of Stateless Persons (Summary Conclusions), paragraph 1.

128

significativa delle competenti strutture nazionali in materia di apolidia soprattutto tenuto

conto delle difficoltà che già fatica a sormontare per la protezione dei rifugiati, ma il

quadro corrente per la protezione delle persone apolidi nell'UE merita comunque

d'essere osservato.

Innanzitutto occorre dire che nel diritto comunitario l'apolidia non è di per sé

motivo per ottenere uno status di protezione. Il trattato sul funzionamento dell'Unione

Europea stabilisce che l'Unione ha competenza nello stabilire e gestire le politiche

comuni in materia di asilo e immigrazione175

, tuttavia molte disposizioni ben più

elaborate che definiscono lo scopo di questa competenza non fanno alcun riferimento

all'apolidia o a qualunque altra categoria aperta che potrebbe includere misure per una

politica di protezione comune nei confronti delle persone apolidi. Neppure la Carta dei

diritti fondamentali dell'Unione Europea contiene alcuna disposizione specifica in

materia di apolidia, pertanto potrebbe concludersi che attualmente l'UE non possiede

alcuna particolare titolarità ai fini dell'adozione di una legislazione o di misure comuni

sull'apolidia come problema specifico. L'unica pionieristica iniziativa a suggerire

l'inclusione della protezione degli apolidi sotto l'ombrello delle politiche d'asilo dell'UE

è stata portata avanti dal governo ungherese nella sua risposta al Libro verde della

Commissione europea del 2007 sul futuro comune europeo in materia di asilo.

Ciononostante, anche questa proposta in quanto piuttosto timida è finora rimasta priva

di alcuna eco.

La legislazione dell'UE in materia di migrazione e asilo, censimento della

popolazione o cooperazione nel campo della giustizia penale e della legge contiene dei

riferimenti agli apolidi ma sono apparizioni a dir poco sporadiche, tanto che in un

articolo del 2010 Tamàs Molnàr176

conclude che le regole esistenti proteggono gli

apolidi in modo indiretto laddove la base legale sia collegata a una libertà

fondamentale come la libertà di movimento dei lavoratori o a una politica europea

come quella relativa all'entrata e alla permanenza dei cittadini di stati terzi. Secondo

Molnàr, la conseguenza per questa categoria di persone è stata una copertura giuridica

come effetto collaterale della legislazione.

Il Trattato di Lisbona del 2007 a tal proposito mostra una crescente

consapevolezza177

delle istituzioni europee quando stabilisce che per quanto riguarda la

legislazione dell'UE in materia di libertà, sicurezza e giustizia “gli apolidi sono

equiparati ai cittadini di paesi terzi”. Questa disposizione, l'articolo 67 del Trattato,

175 Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea, artt. 77-79176 Tamàs Molnàr, Stateless persons under international law and EU law: a comparative analysis

concerning their legal status, with particular attention to the added value of the EU legal order, 51

Acta Juridica Hungarica, 2010, pagg. 293-304177 Maggiore consapevolezza delle istituzioni si evince anche dalla Risoluzione del 14 Gennaio 2009 del

Parlamento europeo che valuta la situazione dei diritti umani all'interno dell'Unione tra il 2004 e il

2008. Questa infatti sembra seguire la stessa linea del Trattato di Lisbona pur compiendo un passo

ulteriore mettendo in evidenza ed esplicitando le preoccupazioni relative all'apolidia quali la

discriminazione, lo sfruttamento, le difficoltà di integrazione o la mancanza di un adeguato status

giuridico che possa garantire il godimento di diritti fondamentali.

129

potrebbe a prima vista sembrare di minore importanza ma in realtà costituisce un passo

importante verso la creazione di un quadro giuridico adeguato per l'apolidia nell'Unione

poiché pur considerando che molti Stati membri hanno inglobato in maniera automatica

gli individui apolidi all'interno di questa categoria, senza questa precisazione da parte

del Trattato è presumibile che gli apolidi si troverebbero oggi catapultati in un vuoto

normativo, e di conseguenza in un limbo giuridico, prodotto dalla consueta dicotomia

cittadino UE contro cittadino Paese terzo.

3 – Forme di protezione per gli apolidi nell'UE

Purtroppo, l'impatto di questa recente tendenza e dell'accennato positivo effetto

collaterale di alcune disposizioni della legislazione dell'UE è stato piuttosto modesto in

termini pratici. Non è previsto difatti alcuno spazio comune di protezione per gli

apolidi, così come non è previsto nessun meccanismo di protezione o di determinazione

che sia completo ed efficace. Ciononostante, almeno alcune categorie di immigrati

apolidi possono beneficiare di una serie di status di protezione nell'Unione.

3.1 – Schemi di protezione armonizzati

Tra le varie cause che producono apolidia, questo fenomeno è spesso collegato a

oppressione politica, etnica, religiosa, a discriminazione di genere o a varie altre

pratiche persecutorie. Ciò detto, le persone apolidi che hanno un fondato timore di

essere perseguitate possono beneficiare dello status di rifugiato, mentre coloro che

corrono un rischio reale di subire un grave danno possono per diritto dell'UE godere di

uno status di protezione cosiddetta sussidiaria in qualsiasi Stato membro dell'Unione.

L'esistenza di un quadro di tutela sovranazionale è infatti indubbia, aldilà delle difficoltà

che la macchina amministrativa comunitaria soffre in materia di asilo178

. Nel 2010, per

esempio, hanno chiesto asilo nei vari Stati membri dell'Unione 2122 apolidi e un terzo

di loro hanno ottenuto il riconoscimento dello status di protezione già alla prima istanza.

Ovviamente, considerato che in questa situazione gli apolidi finiscono per

ottenere protezione in quanto riconosciuti rifugiati, merita una menzione speciale

l'articolo 1D della Convenzione del 1951 relativa allo status dei rifugiati il quale

afferma che laddove un soggetto abbia ricevuto protezione o assistenza da una agenzia

ONU diversa dall'Alto Commissario per i Rifugiati (UNHCR) e poi questa protezione

sia cessata per una qualunque causa, questi diventa titolare ipso facto dei benefici della

convenzione. Attualmente, l'unica agenzia ONU alternativa all'UNHCR che fornisce

assistenza a rifugiati che siano perlopiù apolidi è l'Agenzia per i profughi palestinesi nel

Vicino Oriente (UNRWA) per cui, aldilà della problematicità che molti hanno ravvisato

178 Ciò significa che un Curdo siriano o un Rohingya che siano apolidi e sfuggano una grave

discriminazione che perdura nel tempo, una emarginazione sociale o maltrattamenti vari, possono

trovare protezione in Europa sotto l'ombrello della legislazione comunitaria comune in materia di

asilo. Questo fenomeno è importante in termini statistici perché centinaia di sfollati apolidi anno dopo

anno ottengono uno status di protezione armonizzato.

130

in tale disposizione, il suo uso nell'Unione Europea è marginale.

La Corte europea di Giustizia si è però trovata ad affrontarne le modalità di

applicazione in seguito a due richieste da parte del Fővárosi Bíróság, il Tribunale

Metropolitano ungherese. La prima richiesta avvenne nel 2010 per il caso Bolbol in cui

la Corte di Giustizia evitò di fornire risposta a due delle tre questioni sollevate dal

tribunale, provvedendo semplicemente a delineare in maniera tecnica chi potesse o

meno essere beneficiario dell'assistenza dell'UNRWA. La seconda richiesta intervenne

invece nel 2011 quando il Tribunale Metropolitano, scontento della sentenza deludente

che aveva ottenuto presentò un nuovo ricorso179

in materia di asilo palestinese unendo

nello stesso tre differenti casi con lo scopo di coprire gli aspetti principali dell'articolo

1D e ottenere stavolta dalla Corte la formulazione di orientamenti più chiari. Con questa

seconda sentenza che arrivò nel dicembre 2012 la Corte europea di Giustizia rispose alle

diverse questioni specificando in particolare non soltanto chi fosse o meno destinatario

dell'assistenza dell'UNRWA ma anche chi una volta persa l'assistenza diventasse il

destinatario ipso facto dei benefici della convenzione oltre a cosa effettivamente

intendere per 'benefici della Convenzione'.

3.2 – Schemi di protezione specifici

Gli apolidi che non si qualificano per lo status di rifugiato o per quello di

protezione sussidiaria, in alcuni Stati membri, possono ottenere uno status giuridico per

il semplice motivo d'essere apolide. Purtroppo, sebbene siano parte della Convenzione

del 1954 relativa allo status di apolide ventidue degli Stati membri, soltanto una ristretta

minoranza tra questi opera una protezione specifica per coloro senza una cittadinanza.

Attualmente, lo abbiamo già visto in uno dei precedenti capitoli, solo sei180

Stati membri

definiscono l'apolidia come terreno di protezione per sé e ciascuno di essi stabilisce una

differente procedura di riconoscimento e protezione, dando spazio a normative

regolamentari o a vere e proprie legislazioni.

In ogni caso, a prescindere dall'approccio intrapreso, tutti definiscono l'apolidia

come terreno separato per rivendicare protezione e tutti prevedono un assetto di diritti

che derivano dal riconoscimento dello status di apolide in capo al soggetto interessato.

Ovviamente, differenze importanti possono essere riscontrate in ciascuno di questi

sistemi di protezione ma tutti integrano un passo fondamentale dal punto di vista dei

diritti umani perché portano alla luce un problema ingiustamente trascurato per troppo

tempo offrendo un percorso ben preciso verso la tutela e la sensibilizzazione all'interno

di una più ampia comunità di funzionari statali, avvocati e società civile. La loro

esperienza aiuta a comprendere che con la creazione di regime di protezione specifico

per gli apolidi si possono evitare soluzioni pratiche forzate come l'espulsione o peggio

ancora condannare tali soggetti ad un limbo giuridico permanente. Il tutto senza uno

179 CJEU - C-364/11 Mostafa Abed El Karem El Kott, Chadi Amin A Radi, Hazem Kamel Ismail v

Bevandorlasi es Allampolgarsagi Hivatal (BAH)180 Spagna, Ungheria, Francia, Italia, Lettonia e Slovacchia.

131

sforzo eccessivo da parte delle amministrazioni nazionali perché le statistiche

dimostrano che rispetto alle procedura di asilo in tutti i paesi interessati il carico di

lavoro in materia di determinazione dell'apolidia è assolutamente marginale.

Non risulta pertanto affatto sorprendente che oltre ai sei programmi esistenti, vi

siano altri Stati membri che, prendendo coscienza del fenomeno, riconoscono un

proprio obbligo di protezione nei confronti degli apolidi. Belgio e Austria, per fare due

esempi, nel 2011 si sono impegnati a rivedere la loro attuazione della Convenzione del

1954 sulla base delle linee guida elaborate dall'UNHCR e a istituire un meccanismo di

protezione specifico.

3.3 – Schemi di protezione non specifici e non armonizzati

Gli apolidi che non si qualificano per lo status di rifugiato o di protezione

sussidiaria e che si trovano in uno Stato membro dell'UE in cui l'apolidia non è

considerata ragione sufficiente per una protezione può ancora avere alcune opzioni a

suo vantaggio181

. L'insieme estremamente eterogeneo di status di protezione non

armonizzati comprende infatti una serie di regimi nazionali che possono essere

facilmente applicati ai migranti apolidi. Quando, per esempio, l'apolidia è successiva a

un fenomeno di migrazione forzata può notarsi che essa è spesso accompagnata da

ostacoli giuridici e/o pratici insormontabili al rientro della persona nel proprio paese di

origine o di precedente residenza, per cui molti Stati operano come consueta alternativa

'opzione di protezione' l'attribuzione di uno status cosiddetto umanitario o tollerato la

cui base legale include l'impossibilità pratica di ritorno182

e per gli Stati più esigenti

anche che il perdurare di tale impossibilità sia dovuto a fattori che sfuggano al controllo

della persona interessata e comunque non siano dovuti a sua colpa.

Questi regimi di protezione non specifica possono offrire una soluzione de facto

per un numero limitato di migranti apolidi, fornendo loro soggiorno legale e garantendo

che non siano sottoposti a detenzione. Tuttavia, la qualità di tali regimi può facilmente

risultare inferiore a livello di protezione per tutta una serie di ragioni:

• offrono di solito condizioni meno favorevoli per quanto riguarda l'autorizzazione

a risiedere o la titolarità di diritti sociali ed economici;

• contribuiscono all'occultamento del fenomeno dell'apolidia ma non cancellano le

difficoltà pratiche che ne derivano a livello sociale;

• si dimostrano più lenti nel trovare soluzioni definitive nel tempo.

4 – Osservazioni conclusive.

È stato chiarito che all'interno dell'Unione Europea si prevedono differenti forme

e livelli di protezione per chi si ritrova privo di cittadinanza. Gli status di protezione non

181 Germania, Paesi Bassi, Austria, Polonia, Repubblica Ceca. 182 European Migration Network (December 2010), The different national practises concerning granting

of non-EU harmonised protection statuses, pag. 3

132

armonizzati continuano a svolgere un ruolo molto importante in ambienti nazionali e,

considerata l'apparentemente profonda difficoltà nell'attuare una politica comune in

materia di asilo, risulta fondamentale cercare una visione che allarghi il campo di

applicazione della legislazione comunitaria sulla base di una categoria che condivida le

preoccupazioni di tutti. In proposito, utile allo scopo di una armonizzazione potrebbe

essere affrontare la questione della protezione nei confronti delle vittime del traffico

umano che pare essere sentita come fondamentale da parte degli Stati nella loro totalità.

Ciononostante, occorrerebbe premunirsi anche di una base giuridica esplicita di diritto

comunitario in modo che la riluttanza di quegli Stati che rimangono ancora inattivi a

riguardo risulti vanificata. Laddove infatti vi fossero standard di protezione comuni e

certi per legislazione promanante dagli organi dell'UE sarebbe impossibile ignorare il

problema, tenuto conto che molti Stati sembrano dimostrare una sempre maggiore

consapevolezza non soltanto della portata del fenomeno ma anche dell'importanza della

protezione che andrebbe garantita. Gli sforzi compiuti dall'UNHCR in occasione della

commemorazione del cinquantesimo anniversario della Convenzione del 1961 sulla

riduzione dei casi di apolidia sono intervenuti a colmare diversi decenni di trascuratezza

e a spingere verso un vero riconoscimento delle soluzioni possibili. Con la propaganda

che ne è derivata, il numero di Stati che a livello globale hanno ratificato entrambe le

convenzioni in materia è aumentato facendo ben sperare per una propagazione dei

meccanismi di protezione destinata a crescere già nel breve periodo proprio per la

pressione creata su quegli Stati che ancora mancano di un quadro normativo interno di

riferimento, e naturalmente anche sull'Unione Europea a livello regionale.

Sebbene infatti una regolamentazione a livello centrale sembri ancora irrealistica,

l'UE può fare comunque molto per migliorare la tutela degli apolidi in ciascuno dei suoi

Stati membri. A voler stilare un elenco non esaustivo di possibili punti di partenza:

• potrebbe incoraggiare gli Stati membri a migliorare la visibilità degli apolidi

nelle statistiche, per esempio promuovendo una metodologia comune di raccolta

dei dati o di censimento;

• incoraggiare verso la ratifica gli Stati che non lo hanno ancora fatto;

• incoraggiare gli Stati a cooperare con l'UNHCR;

• promuovere l'idea della creazione di una procedura di protezione specifica,

evidenziando i modelli efficaci già esistenti;

• cercare di integrare la questione dell'apolidia all'interno della propria struttura

amministrativa inserendola nel programma di formazione delle istituzioni;

• cooperare strettamente con l'Agenzia dei diritti fondamentali dell'Unione

Europea (FRA) affinché ci sia un costante aggiornamento sulle conseguenze

legate alla condizione di apolide in ciascuno dei vari Stati membri.

Compiere questa serie di passi appare importante perché non dobbiamo

133

dimenticare che pilastro fondamentale della civiltà europea è sin dall'inizio la protezione

degli essere umani, in particolare di quelli considerati vulnerabili. Ne deriva pertanto un

obbligo morale molto importante e con esso la consapevolezza che occorre spingere

verso una maggiore operatività non solo per migliorare il trattamento di chi senza sua

colpa è privo di qualunque legame di cittadinanza ma soprattutto per una soluzione

definitiva che elimini tale condizione dal ventaglio di manifestazioni che un essere

umano può ritrovarsi a vestire.

Sezione Seconda – L'apolidia nel quadro dei paesi Baltici

Parte Prima - La legislazione sulla cittadinanza nelle Repubbliche Baltiche

1 – Premessa

Successivamente al fallito colpo di stato sovietico del 1 agosto 1991 le tre

Repubbliche baltiche - Lituania, Estonia e Lettonia - proclamavano la propria

indipendenza, approntando ciascuna appositi strumenti legislativi intesi a definire il

profilo giuridico degli aventi diritto alla cittadinanza e quindi ad elencare i requisiti

necessari agli stranieri per ottenere la cittadinanza medesima. L'approvazione di queste

leggi, tuttavia, non fu un processo senza conseguenze poiché provocò tutta una serie di

effetti a catena che andarono dal riaccendersi del conflitto tra popolazioni indigene e

popolazioni non indigene all'interno delle stesse Repubbliche fino al crescere della

tensione tra le Repubbliche da un lato e la Federazione Russa dall'altro, così come al

raffreddarsi dei rapporti con gli Stati occidentali a causa di varie critiche che erano state

mosse dalle organizzazioni internazionali in difesa dei diritti umani. Le leggi baltiche

sulla cittadinanza avevano infatti garantito soltanto agli indigeni il conseguimento

automatico della cittadinanza, scatenando inevitabilmente preoccupazioni diffuse perché

all'incirca 2 milioni e 600 mila persone ne risultavano tagliate fuori avendo origini

etniche non baltiche. In grande maggioranza slavi, in particolare russi stando all'ultimo

censimento sovietico del 1989: in Lituania 344.000 russi, 63.000 bielorussi, 44.000

ucraini e 257.000 polacchi per un totale di 750.000 individui non indigeni ossia il 20,4%

della popolazione complessiva; in Lettonia 905.000 russi, 119.000 bielorussi e 92.000

ucraini, per una somma di 1.278.000 persone non indigene ossia il 48% della

popolazione complessiva; in Estonia 474.000 russi, 48.000 ucraini e 27.000 bielorussi

per un totale di 602.000 individui non indigeni ossia il 38,5% della popolazione

complessiva.

La realtà demografica così fotografata rappresentava il risultato di fenomeni

congiunti iniziati nel 1940 con l'annessione forzata delle tre Repubbliche Baltiche da

parte dell'Unione Sovietica. Più precisamente da un lato un processo di massiccia

immigrazione slava, soprattutto russa, e dall'altro un processo di grave impoverimento

demografico delle popolazioni locali. Quest'ultimo dipendente da varie circostanze della

134

seconda guerra mondiale e dell'immediato dopoguerra quali la diaspora dei militari che

si sottraevano al pugno di ferro dell'Armata Rossa, l'emigrazione degli oppositori del

regime comunista insieme alle successive ondate di deportazione in Siberia dei

partigiani antisovietici e dei contadini più ostili alla collettivizzazione, così come al

piano di industrializzazione intensiva messo a punto dal governo sovietico che aveva

come proposito cosciente proprio di russificare la regione baltica allo scopo di

controllare più agevolmente una popolazione indigena nota per i suoi sentimenti

antisovietici. Gli slavi venivano spinti verso le Repubbliche baltiche dalla prospettiva di

una migliore qualità della vita. Molti di loro erano militari che decidevano di

impiantarsi nella regione al compimento del servizio di leva. Quanto ai lavoratori

dell'industria, invece, si trattava di una popolazione assai mobile che si fermava per

periodi non lunghi e che manteneva pochi contatti con la popolazione locale considerato

che lavoravano in comunità mono-etniche, abitavano in speciali appartamenti contigui

alle fabbriche e mandavano i propri figli in scuole separate.

Sulla base di ciò, gli slavi nei Baltici avevano pochi motivi per cercare una

qualche forma di assimilazione, col risultato che si disinteressarono alla lingua, alla

cultura, alle tradizioni indigene e considerando la regione baltica come una parte

integrante dello Stato sovietico finirono con l'infastidire la popolazione locale che

sviluppò un acerbo risentimento nei loro confronti.

2 – La logica della nuova legislazione

Tenendo conto di quanto appena detto, appare evidente perché la questione dei

diritti di cittadinanza sia diventata centrale nelle Repubbliche baltiche all'indomani della

ritrovata indipendenza e come mai la logica che ha presieduto la nuova legislazione

fosse fondata, con tanto di negazione automatica della cittadinanza medesima alla

popolazione non indigena, su di un giudizio che voleva gli eventi del 1940 ossia

l'annessione sovietica un atto illegale dal punto di vista del diritto internazionale, con la

grave conseguenza che tutte le persone arrivate nelle Repubbliche baltiche dopo questa

data furono considerate alla stregua di occupanti stranieri e in quanto stranieri, laddove

desiderassero acquisire la cittadinanza locale, avrebbero dovuto inoltrare formale

richiesta di naturalizzazione. Nella logica baltica, l'annessione delle tre Repubbliche

all'unione Sovietica, infatti, avrebbe interrotto de facto ma non de jure la continuità

legale della loro esistenza autonoma e pertanto queste non avrebbero affatto proclamato

ex novo la propria indipendenza ma l'avrebbero semplicemente restaurata.

Riguardo alla questione della cittadinanza, la logica muoveva dal postulato che le

relative leggi anteriori al 1940 fossero rimaste in vigore nei successivi cinquant'anni, sia

pure soltanto de jure e che quindi le nuove normative, lungi dall'istituire nuovi diritti,

dovessero limitarsi a riattivare i diritti fondati sulle legislazioni precedenti l'illegale

annessione. Tale intento appariva chiaramente formulato nella risoluzione sul

ristabilimento dei diritti di cittadinanza della Repubblica lettone e sui principi

135

fondamentali di naturalizzazione, che così esordiva: Quantunque, il 17 giugno del 1940,

la Repubblica di Lettonia sia stata occupata, e quantunque lo Stato abbia allora

perduto la propria sovranità, l'insieme dei cittadini della Repubblica di Lettonia

(definiti dalla Legge sulla cittadinanza del 23 agosto 1919) ha continuato ad esistere.

In conseguenza della prolungata annessione del territorio lettone, illegale dal punto di

vista del diritto internazionale, si è stabilito in Lettonia un numero consistente di

cittadini dell'URSS, il cui ingresso e la cui residenza non sono stati regolamentati da

alcun trattato stipulato fra la Repubblica di Lettonia e l'URSS. Allo scopo di eliminare

le conseguenze dell'occupazione e dell'annessione della Lettonia da parte dell'URSS, e

di ristabilire i diritti legali dell'insieme dei cittadini della Repubblica di Lettonia, il

Consiglio Supremo della Repubblica di Lettonia decreta che[…]. La risoluzione

proseguiva negando ogni validità al decreto sovietico del 7 settembre 1940 che aveva

attribuito agli abitanti delle Repubbliche baltiche la cittadinanza sovietica ed elencava i

principali criteri di definizione dell'insieme dei cittadini della Repubblica di Lettonia.

Come possiamo constatare, alla nozione di ristabilimento della cittadinanza per la

popolazione indigena, la risoluzione lettone aggiungeva il concetto di «eliminazione

delle conseguenze» dell'annessione sovietica. Ma era davvero possibile cancellare con

un colpo di spugna l'annessione del 1940 e le sue conseguenze? Questa fu la via che le

autorità baltiche tentarono di perseguire, prendendo a modello il secondo dopoguerra

europeo. Al pari dell'unione Sovietica, la Germania nazista aveva annesso illegalmente

un certo numero di Stati sovrani e nel 1945 gli Alleati si erano mostrati determinati a

rendere nulle tali annessioni e le conseguenze ad esse relative: allora, tutti i tedeschi -

indifferentemente occupanti o residenti - erano stati espulsi dai Paesi dell'Est europeo.

Senonché, nel 1991, l'operazione di espellere gli "occupanti" slavi dalle Repubbliche

baltiche non poteva che rivelarsi praticamente e politicamente impossibile: non

foss'altro perché erano intercorsi cinquant'anni dal momento dell'occupazione, e vasti

contingenti di popolazione avevano avuto tutto il tempo per trasferirsi altrove. Perciò, la

procedura effettivamente adottata dalle Repubbliche baltiche aveva finito per

assomigliare a quella seguita dopo la seconda guerra mondiale dall'Austria la quale

vincolò il riconoscimento della cittadinanza ad un criterio retroattivo.

Consapevoli ovviamente d'essere passibili di una accusa in termini di violazione

dei diritti umani, i leader politici delle Repubbliche sottolinearono che una tale scelta

legislativa possedeva una dimensione puramente morale evocando il disagio di

concedere la cittadinanza a gente che pur senza avere materialmente organizzato o

eseguito le deportazioni o le purghe successive all'annessione aveva di fatto traslocato

negli appartamenti e nelle case dei cittadini deportati183

.

Ora, considerato che il diritto internazionale si mantiene vago in termini di

cittadinanza, lasciando agli Stati sovrani il compito di definire chi è cittadino e chi non

lo è, una critica alla logica che sosteneva la legislazione baltica sulla cittadinanza

183 Cit. in Helsinki Watch, New Citizenship Laws in the Republics of the Former USSR, aprile 1992.

136

all'indomani della restaurata indipendenza dovrebbe seguire una considerazione di

metodo in base alla quale una discussione andrebbe condotta più in termini politici che

giuridici, sebbene dal punto di vista di questi ultimi la legislazione fosse palesemente

zoppicante anche e soprattutto in funzione della prospettiva dei diritti umani.

L'argomentazione morale che i governi dell'epoca portarono avanti risultava

difatti problematica. Anzitutto, perché per quanto potessero essere giustificati i dubbi

relativi alla moralità dei primi immigrati sovietici, appariva arbitrario estendere tale

diffidenza ai milioni di cittadini sovietici arrivati nella regione baltica decenni dopo i

tragici eventi degli anni quaranta. In secondo luogo, perché fondandosi sul concetto di

colpa collettiva violava un fondamentale diritto dell'uomo ossia il diritto a non essere

discriminato sulla base di «opinione politica o di altro genere, origine nazionale o

sociale, [...] o altra condizione»184

. In terzo luogo, quand'anche uno degli obiettivi della

nuova legislazione baltica sulla cittadinanza consistesse in una sorta di ritorsione contro

gli invasori sovietici, le nuove normative baltiche non negavano la cittadinanza in modo

incondizionato a tutti gli “invasori” ma si limitavano a fissare requisiti assai severi per

l'ottenimento della cittadinanza medesima. In particolare, l'esigente requisito relativo

alla residenza (nel caso della normativa più penalizzante, quella lettone, un minimo di

sedici anni) non riguardava affatto la gente che si era piazzata - negli anni quaranta - in

abitazioni ancora calde, ma piuttosto colpiva comuni cittadini sovietici approdati nelle

Repubbliche baltiche a partire dagli anni settanta. Una distinzione netta tra "invasori" e

pacifici cittadini sovietici risultava impossibile e pertanto la giustificazione morale dei

leader baltici toglieva base all'intera argomentazione e all'intera costruzione di legge,

perché pur avendo come scopo l'eliminazione delle conseguenze di un atto illegale e

contrario ai principi dei diritti umani, proprio per l'intima natura di questi il ricorso a

mezzi lesivi di diritti fondamentali quale il diritto alla cittadinanza non poteva

considerarsi legale o meritorio salvo vederne il sistema svuotato del suo significato

universale.

Nel caso della legislazione baltica i requisiti per la cittadinanza venivano

modificati per individui i quali, fino al 1991, si consideravano ed erano cittadini della

repubblica nella quale erano precedentemente emigrati185

. Pertanto sebbene la

legislazione potesse configurarsi come liberale nei confronti dei nuovi immigrati, essa

di fatti privava la popolazione locale non indigena dei diritti dei quali aveva goduto sino

al momento dell'indipendenza e perseguiva tale scopo nell'idea di eliminare le

conseguenze demografiche dell'annessione sovietica considerata illegale. Determinare

la colpevolezza individuale di soggetti appartenenti a determinate categorie della

popolazione, tuttavia, anche accantonando la dimensione del problema più direttamente

184 Art. 2 Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo adottata dall'Assemblea Generale delle Nazioni

Unite il 10 Dicembre 1948185 In base al sistema binario di classificazione vigente in URSS, la maggioranza della popolazione non

indigena vivente nella regione baltica non aveva la cittadinanza sovietica (al pari della popolazione

baltica), ma al contrario possedeva la nazionalità russa, o ucraina, ecc.

137

attinente alla sfera dei diritti umani, risultava una operazione punitiva priva di

giustificazione poiché sembrava richiedere alle nazioni baltiche uno spirito

spiccatamente vendicativo.

Beninteso, le Repubbliche baltiche avevano pieno diritto di decidere

autonomamente della questione, e dal punto di vista strettamente legale si trovavano

forse nel giusto. Tuttavia, la loro scelta di ignorare i cambiamenti della realtà di fatto

intervenuti dal 1940 nei cinquant'anni successivi si è rivelata oltre che politicamente

anche socialmente costosa, avendo rinfocolato vecchie tensioni e generato minoranze

colpite dalla piaga che a noi qui interessa: l'apolidia.

3 – La nuova legislazione nelle tre Repubbliche baltiche

Vista la logica generale che presiedeva alle nuove legislazioni baltiche in materia

di cittadinanza e con essa gli obiettivi che queste intendevano perseguire, vediamo in

che modo le tre repubbliche agirono legislativamente all'indomani della ritrovata

indipendenza.

La Lituania fu la prima fra tutte le Repubbliche ex sovietiche ad approvare una

nuova normativa sulla cittadinanza, ancora prima della sua dichiarazione di

indipendenza dall'URSS che avvenne l'11 marzo 1990. Era infatti il 3 novembre 1989

quando la Lituania consentiva a tutti i residenti permanenti del territorio di ottenere la

cittadinanza lituana senza distinzioni di etnia, lingua, religione o impiego lavorativo186

.

Una seconda legge sulla cittadinanza fu approvata il 5 Dicembre 1991 e dava titolo a

tutti i cittadini e i residenti permanenti della Lituania prima del 15 giugno 1940 e i loro

discendenti per diventare cittadini del nuovo Stato indipendente. La legge del 1991

stabiliva che la cittadinanza potesse essere acquistata per nascita o per naturalizzazione

e chiariva i criteri per la naturalizzazione dei nuovi cittadini affermando che la

naturalizzazione avvenisse per gli adulti in maniera automatica una volta che fossero

soddisfatte determinate condizioni. In primo luogo, il superamento da parte dei

candidati di un esame scritto e orale della lingua lituana oltre alla verifica della

conoscenza delle disposizioni fondamentali della Costituzione. In secondo luogo, l'aver

vissuto in Lituania per un periodo di almeno dieci anni, e il possesso di un posto di

lavoro fisso o di una fonte di reddito costante e legale. Da notare, però, che anche se

nella legge non si fa menzione di un divieto per coloro che erano membri dell'esercito

sovietico di ottenere la cittadinanza, la Corte costituzionale lituana ha stabilito che senza

il consenso speciale del governo questi non possano essere qualificati come residenti

permanenti e quindi non abbiano diritto alla cittadinanza187

. In Lituania le procedure di

naturalizzazione non differiscono notevolmente da quelle in Lettonia ed Estonia, ma a

186 Council of Europe: Doc. 6787, “Report on the application of the Republic of Lithuania for

membership of the Council of Europe”, March 2, 1993, p.11187 Ineta Ziemele, “The role of state continuity and human rights in matters of nationality of the Baltic

States”, in Tavalds Jundzis (ed.) The Baltic States at historical crossroads (Riga: Academy of

Sciences, 1998) p. 260

138

differenza che nelle altre due repubbliche la cittadinanza non è stata un grosso problema

per la Lituania che ha accettato tutti i migranti di epoca sovietica come cittadini.

Pertanto, il ripristino dello stato lituano non ha portato a una grande popolazione di

apolidi residenti e, esplorando le ragioni di questa apparentemente generosa politica

verso i lituani non indigeni, è importante affermare che la “russificazione” della

Lituania è stata attuata ad un livello inferiore che in Estonia e Lettonia. La percentuale

totale dei lituani indigeni è infatti rimasta relativamente invariato rispetto al periodo tra

le due guerre, e rimane ancora oggi intorno all'80 per cento. Al contrario, la differenza

nella percentuale di etnie lettone ed estone nei rispettivi paesi tra il 1930 e il 1990 è più

profonda: nel 1935 la percentuale dei lettoni indigeni era 75,5 mentre nel 1995 tale

percentuale era scesa a 55,1; nel 1934 in Estonia, la maggioranza etnica consisteva

nell'88 per cento della popolazione, mentre nel 1989 la percentuale era del 61,5188

. Sulla

base di questi dati appare chiaro come per i lituani non sia stato affatto difficile decidere

di ospitare una parte considerevole di non-lituani senza sacrificare le loro ambizioni

democratiche, alla salvaguardia della sovranità, della lingua o della cultura nativa, e

pertanto adottare una politica relativamente liberale di naturalizzazione dei migranti

dell'era sovietica.

Mentre la Lituania e l'Estonia scelsero di ricostruire le loro nuove democrazie da

zero con l'adozione di costituzioni del tutto nuove, la Lettonia valutò il concetto di

continuità dello Stato fino all'estremo ripristinando dopo l'indipendenza la propria

Costituzione del 1922. Ovviamente non era la base perfetta per una moderna

democrazia lettone, ma per compensare la sua breve durata e le lacune in essa presenti,

come il fatto che non contenesse alcuna menzione circa i diritti umani, la Costituzione

venne rafforzata da una serie di leggi costituzionali. Il motivo del ripristino di una

costituzione meno che perfetta risiedeva nel voler ottenere un riconoscimento

internazionale, considerato che i paesi baltici tutti affermavano come nonostante 50 anni

di annessione sovietica, gli Stati non avevano mai cessato di esistere. Si trattava

chiaramente di un mito senza alcun ritorno internazionale in fatto di sostegno poiché

numerosi paesi tra cui anche gli Stati Uniti non riconobbero mai l'annessione che

permise agli Stati baltici di essere incorporati con l'URSS un atto illegale. Con il

medesimo spirito orientato al principio di continuità dello stato, il 21 agosto 1991, i

leader lettoni ripristinarono la legge sulla cittadinanza del 1919 così come emendata nel

1927, la quale attribuiva in modo automatico la cittadinanza del restaurato stato lettone

a coloro che la possedevano prima del 1940. La “Risoluzione sul rinnovo della

Repubblica di Lettonia, sui diritti dei cittadini e sui principi fondamentali di

naturalizzazione” del 15 ottobre 1991 dichiarava infatti che lo Stato restaurato

considerava nulla la legge sulla cittadinanza imposta nel 1940 dall'Unione Sovietica,

con la conseguenza che migliaia di residenti del territorio lettone divennero apolidi189

.

188 Ibidem189 Ibidem

139

Secondo tale nuova legge, inoltre, avevano diritto di partecipare alle prime elezioni

dello stato ripristinato soltanto coloro che fossero stati membri di esso nel periodo tra le

due guerre e i loro discendenti. Il risultato di tale politica fu che solo il 64 per cento

della popolazione residente si scoprì in possesso dei requisiti per partecipare, rimanendo

la rimanente parte del tutto esclusa190

. Successivamente, e precisamente il 22 luglio

1994, il parlamento lettone o “Saeima” adottò una nuova legge sulla cittadinanza che

ribadiva che chi fosse cittadino prima del 1940 e i suoi discendenti avesse diritto alla

cittadinanza, e oltre a stabilire regole per la naturalizzazione concedeva anche la

cittadinanza a persone che fossero residenti permanenti della Lettonia prima del 1919

assumendo nondimeno un atteggiamento favorevole al rimpatrio degli immigrati lettoni.

Le “disposizioni transitorie” della legge del 1994 permettevano inoltre a chi fosse

cittadino della Repubblica lettone nel periodo tra le due guerre di ottenere la

cittadinanza senza rinunciare alla propria cittadinanza attuale, laddove nel frattempo si

fosse spostato e ne avesse acquisito una nuova, così come agli immigrati di etnia estone

o lituana e perfino ai non-lettoni qualora avessero terminato le scuole secondarie di

lingua lettone o fossero sposati ad un cittadino lettone da almeno 10 anni. Tuttavia la

stessa legge, all'articolo 10, indicava chi non potesse acquisire la cittadinanza lettone

neppure attraverso la naturalizzazione:

• coloro che si sono ribellati "contro l'indipendenza della Repubblica di Lettonia,

il suo sistema democratico parlamentare o l'autorità statale esistente in Lettonia,

se ciò è stato stabilito con un decreto da parte di un tribunale”;

• coloro che hanno suscitato odio etnico o razziale attraverso la propagazione di

idee fasciste, maschiliste, nazionalsocialiste, comuniste o comunque totalitarie

dal 4 maggio 1990;

• funzionari di Stati esteri, coloro che hanno servito nelle forze armate o di polizia

di uno Stato estero, tra cui anche l'URSS, che non erano residenti permanenti in

Lettonia prima della loro coscrizione;

• coloro che sono stati impiegati, informatori o agenti del KGB o di qualsiasi altro

servizio di sicurezza straniero;

• coloro che sono stati condannati per un crimine e imprigionati per un periodo

superiore ad un anno;

• coloro che hanno partecipato ai tentativi di blocco del movimento per

l'indipendenza dopo il 13 maggio 1991 attraverso la partecipazione al Partito

Comunista Lettone, al Fronte internazionale dei lavoratori della Lettonia

sovietica, al Consiglio unificato dei collettivi del lavoro, all'Organizzazione dei

veterani di guerra e del lavoro, o ancora al Comitato di salvezza per la Lettonia e

suoi comitati regionali.

Le procedure di naturalizzazione incluse nell'articolo 12 della legge del 1994

190 Constitution Watch: Latvia, East European Constitutional Review, Vol.2 No.3 (Summer 1993) p.11

140

richiedevano la residenza permanente in Lettonia per un periodo di almeno cinque anni,

a partire dal 4 Maggio 1990, oltre al requisito della padronanza della lingua lettone,

della storia e dell'inno nazionale, così come la conoscenza dei principi fondamentali

della Costituzione e della legge costituzionale sui "diritti e doveri di un cittadino e una

persona". In particolare, per quanto riguarda l'esame di lingua, il Capo III della legge lo

descrive come la verifica della capacità in capo al richiedente di leggere, parlare e

scrivere in lingua lettone su argomenti di vita quotidiana. Afferma, inoltre, che i disabili

e gli anziani sono esenti dal sostenere questo esame, e che i candidati devono dimostrare

anche la prova di una fonte legale di reddito e di rinunciare alla loro precedente

cittadinanza.

I parlamentari lettoni credevano che vi sarebbe stata una corsa agli uffici per la

naturalizzazione, così per evitare il verificarsi di tale fenomeno venne creato un

cosiddetto “sistema di finestre” che secondo l'articolo 14 della legge distingueva i

richiedenti la cittadinanza sulla base della loro età e dell'essere nati o meno all'interno

del territorio lettone, dividendoli in otto differenti gruppi, da quello comprendente

soggetti nati in Lettonia e aventi una età compresa tra i 16 e i 20 anni al momento della

loro richiesta a quello comprendente invece soggetti nati fuori dalla Lettonia e aventi

una età che supera i 30 anni, per i quali i termini di inizio delle procedure di

naturalizzazione variavano notevolmente. Non sorprende, pertanto, che sulla base di tali

criteri almeno il 28 per cento dei residenti registrati rimase apolide191

. Chiaramente ciò

suscitò una forte pressione internazionale affinché l'apolidia all'interno dei suoi confini

terminasse ma la Lettonia di fronte a questa rimarcò la propria politica di cittadinanza

affermandone la legittimità sulla base del principio della continuità dello Stato. Invece

di modificare le sue politiche di cittadinanza, il parlamento lettone adottò in data 12

aprile 1995 una legge speciale sulla "status degli ex cittadini sovietici privi sia della

cittadinanza lettone sia di un altro paese" con efficacia solo nei confronti dei residenti

non cittadini qualificantesi per le procedure di naturalizzazione, ed esclusi pertanto

quanti fossero stati membri dell'esercito sovietico e le loro rispettive famiglie. Si

prevedeva che gli apolidi registrati dovessero godere degli stessi diritti dei cittadini

lettoni stabiliti all'articolo 2 della legge costituzionale sui "Diritti e doveri di una

persona e di un cittadino" e inoltre si confermava che avessero il diritto di viaggiare

liberamente, accogliere i loro coniugi e i loro familiari a carico in Lettonia, potessero

mantenere la loro lingua e cultura nativa, e avessero diritto a ricevere servizi di

traduzione nei procedimenti giudiziari. Infine, veniva stipulato il divieto di esilio o

espulsione ai loro danni, escluso il caso in cui fosse stabilito ai sensi di legge o uno

Stato straniero si impegnasse a riceverli.

Sebbene in misura minore rispetto alla Lettonia, l'Estonia come questa seguì

rigorosamente il principio di continuità nello ristabilire il proprio Stato democratico e

dopo il tentato colpo di Stato in Unione Sovietica e la rapida adozione della

191 Percentuale riportata in Latvia: human development report 1997 (Riga: UNDP, 1997) p.49

141

"Risoluzione sulla indipendenza nazionale dell'Estonia" del 20 agosto 1991, il

parlamento estone iniziò subito a lavorare su una nuova costituzione tenendo a mente

che la lotta per l'indipendenza perseguita dalle tre Repubbliche dovesse essere legata al

mantenimento di quelle garanzie secondo le quali nessun tentativo sarebbe stato messo

in atto per limitare la cittadinanza sulla base dell'origine etnica192

. Purtroppo, la nuova

costituzione adottata con referendum il 28 giugno 1992 tradì queste intenzioni iniziali

sebbene furono inserite al suo interno sia garanzie per la tutela delle minoranze che per

la tutela dei diritti sociali ai residenti non cittadini. L'articolo 28 della Costituzione

estone stabiliva infatti: "Tutte le persone hanno diritto all'assistenza sanitaria. I cittadini

estoni hanno diritto all'assistenza sociale in caso di vecchiaia, inabilità al lavoro, perdita

di reddito, e bisogno […] questo diritto deve esistere ugualmente per i cittadini estoni

così come per i cittadini di stati stranieri e apolidi che soggiornano in Estonia. Lo Stato

deve incoraggiare l'assistenza sociale del governo che sia volontaria e locale. Le

famiglie con molti bambini e i disabili hanno diritto a speciali cure da parte delle

autorità statali e locali". La Costituzione stabiliva inoltre che i non-cittadini residenti

avessero il diritto di partecipare alle elezioni locali. Queste politiche liberali lasciarono

intendere il forte consenso politico che voleva la costruzione di una politica di

cittadinanza restrittiva e che portò avanti l'obiettivo di ripristinare la supremazia della

lingua estone sui diritti individuali dei residenti non estoni come valore prioritario. La

gamma di diritti che lo Stato infatti offriva ai residenti non cittadini era semplicemente

una strategia per allontanare le critiche internazionale e prefigurava il lungo periodo

durante il quale molti residenti sarebbero rimasti apolidi.

Dopo che la Repubblica di Estonia venne restaurata, il parlamento estone o

Riikigoku con un decreto datato 26 febbraio 1992 ripristinò la legge sulla cittadinanza

del 1938, così come emendata nel 1940 e secondo la quale la cittadinanza dovesse

essere concessa solo a quei residenti che possedevano la cittadinanza estone prima del

16 giugno 1940 nonché ai loro discendenti193

. L'opportunità di ottenere la cittadinanza in

maniera automatica fu data anche ai cittadini di epoca sovietica che fossero in grado di

provare di aver supportato e sostenuto il movimento di indipendenza nazionale,

presentando le loro tessere di soci del Congresso dell'Estonia. Fu l'8 luglio 1993 che

l'Estonia adottò la “Legge della Repubblica di Estonia sugli Alieni” che era molto simile

alla legge lettone sui residenti non cittadini, in termini di concessione della protezione

dei diritti costituzionali a favore degli alieni. Tuttavia, a differenza della legge lettone

che garantisce al residente non cittadino di non essere deportato, la legge estone

conteneva un incentivo negativo per i non cittadini a registrarsi presso gli uffici locali di

immigrazione entro il termine stabilito per non dover affrontare la possibile espulsione

192 Aleksei Semjonov, Citizenship legislation, minority rights and integration in Estonia, European

Center for Minority Issues Baltic Seminar “Minorities and Majorities in Estonia: problems of

integration at the threshold of the EU”, 2004193 Ineta Ziemele, “The role of state continuity and human rights in matters of nationality of the Baltic

states”, in Tavils Jundzis (ed.) The Baltic States at historical crossroads (Riga: Academy of sciences,

1998) p.257

142

dal territorio dell'Estonia. Con le elezioni del 1993 si assistette alla creazione di un

governo di centro destra e a tendenza nazionalista, la cui maggioranza progettò la nuova

“Legge della Repubblica di Estonia sulla cittadinanza” adottata il 19 gennaio 1995 e

contenente disposizioni quasi identiche riguardo alla naturalizzazione alla legge sulla

cittadinanza lettone. Tra le notevoli differenze vi erano che la legislazione estone

mancava di disposizioni speciali riguardanti il rimpatrio degli emigrati estoni, che il

possesso della doppia cittadinanza era vietato, e che non erano previsti privilegi speciali

ai residenti lettoni o lituani presenti nel territorio dello Stato. In contrasto con l'elenco

specifico della legge lettone circa le esclusioni intese a vietare la cittadinanza ai membri

del partito comunista, a questo proposito la legge estone stabiliva semplicemente che 'la

cittadinanza estone non potesse essere concessa o ripresa da una persona che avesse

agito contro lo Stato estone e la sua sicurezza, così come a coloro che fossero stati

impiegati o fossero attualmente impiegati in servizi di sicurezza o intelligence straniera.

Inoltre, la legge estone seguì affatto il sistema a finestre per le procedure di

naturalizzazione, aprendole pertanto a tutti i residenti permanenti dalla data di entrata in

vigore della legge stessa ossia il 1 aprile 1995.

Tirando le somme, la nuova legislazione baltica, a volerla osservare come un

unicum, garantiva il riconoscimento automatico della cittadinanza solo a quanti fossero

cittadini delle rispettive repubbliche già nel giugno del 1940 e ai loro discendenti diretti,

indifferentemente dal fatto che fossero o meno residenti, con la conseguenza che decine

di migliaia di abitanti di lingua russa che si erano trasferiti ai tempi dell'Unione

sovietica sull'onda del processo di russificazione introdotto sin dai tempi di Stalin si

ritrovarono in una condizione di apolidia con cui fare i conti, come un esercito di “non

cittadini”, persone prive sia del passaporto russo che di quello di una delle tre

repubbliche baltiche e in quanto tali non assimilabili e non integrabili.

4 – La reazione internazionale alle nuove legislazioni

La comunità internazionale avrebbe di certo voluto che tutti e tre gli Stati baltici

avessero preso la direzione lituana nel risolvere la questione della cittadinanza, ma così

non fu. Nonostante numerosi Stati e organizzazioni internazionali avessero criticato le

leggi sulla cittadinanza di Estonia e Lettonia in quanto possessori del desiderio comune

che i Russi fossero dotati di pieni diritti sociali e politici attraverso la cittadinanza, vi

era ben poco che la comunità internazionale potesse fare giuridicamente poiché le

critiche erano basate essenzialmente su argomenti di tipo etico. Si argomentava che

queste leggi sulla cittadinanza discriminassero per motivi di etnia e lingua e che quindi

creassero apolidia piuttosto che evitarla, e ancora che essendo leggi di Stati successori

avrebbero dovuto concedere la cittadinanza a tutti coloro che nel loro territorio si

trovavano come residenti permanenti al momento della successione. Di contro a tali

argomentazioni si rispondeva affermando che etnia e lingua fossero elementi capaci di

dare prova della lealtà e del legame genuino di un individuo con uno Stato, che tutti i

143

cittadini della ex URSS avessero comunque la possibilità di rivendicare la cittadinanza

russa e che di stati successori non si trattasse affatto perché gli Stati baltici avevano

ristabilito quanto era stato interrotto illegittimamente dalla dominazione sovietica

dovendosi pertanto rispettare il principio di continuità con tutto ciò che ne conseguiva

per gli immigrati dell'epoca sovietica.

I problemi connessi all'intera questione relativa ai diritti di cittadinanza

ovviamente intervennero a complicare, senza tuttavia comprometterle, le relazioni

diplomatiche fra i Paesi occidentali e i neonati Stati di Lettonia e di Estonia. Le

Organizzazioni europee ed americane internazionalmente impegnate nella difesa dei

diritti umani si adoperarono nello sforzo di rendere pubblici i termini della questione,

ma i governi delle maggiori nazioni occidentali dimostrarono grande cautela al riguardo,

rinunciando - nei fatti - a esercitare pressioni sulle autorità lettoni ed estoni. Nella

primavera del 1992, il Consiglio d'Europa inviò nei Paesi baltici tre commissioni di

esperti, con il compito di verificare la conformità dell'ordinamento interno delle

Repubbliche con gli standard fissati dal Consiglio d'Europa stesso come requisiti per

l'ammissione di nuovi membri. I rendiconti degli esperti attestarono l'esistenza, in tutte e

tre le Repubbliche, di anomalie giuridiche nella sfera dei diritti umani: in particolare,

per quanto concerne l'eguaglianza dei diritti e la protezione delle minoranze. In

generale, gli esperti giudicarono prematura l'incorporazione delle Repubbliche baltiche

nel Consiglio d'Europa, sia per il carattere temporaneo delle carte costituzionali di

alcune fra loro, sia per il ritardo da esse accumulato sul terreno legislativo e

consuetudinario. In base a tali rendiconti così, nell'estate del 1992 il Consiglio d'Europa

annunciò che l'ammissione delle Repubbliche baltiche non sarebbe stata presa in

considerazione nell'immediato e menzionò, fra i problemi irrisolti, proprio quello dei

diritti di cittadinanza194

. Nel 1996 inoltre lo stesso Consiglio d'Europa condusse uno

studio195

sulle conseguenze della successione tra Stati in materia di cittadinanza in cui

invocando l'articolo 1 della Convenzione dell'Aja del 1930 su certe questioni relative al

conflitto tra leggi di cittadinanza affermava che sebbene da un lato fosse facoltà di

ciascuno Stato determinare ai sensi delle proprie leggi chi considerare come proprio

cittadino, dall'altro lato sia il diritto internazionale che la stessa pratica degli Stati

mostravano come tale facoltà fosse corredata di limiti sottolineando ancora tutta una

serie di principi generali che di volta in volta andavano presi in considerazione. Quelli

rilevanti per il caso “Baltico” includevano il divieto di discriminazione sulla base di

etnia o lingua, la creazione di legami effettivi tra potenziali cittadini e lo Stato, la

prevenzione nella creazione di apolidia, e il diritto di opzione per i residenti dello Stato

194 Nel settembre successivo, a dimostrazione delle proprie buone intenzioni, l'Estonia invitò l'ufficio

Diritti Umani e Istituzioni Democratiche della Conferenza sulla Sicurezza e Cooperazione in Europa

ad inviare nel Paese una propria commissione di esperti, allo scopo di verificare la conformità

dell'ordinamento legale estone con gli standard internazionali. 195 Consiglio d'Europa, On the consequences of State succession for nationality, Report adottato dalla

Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto al suo 28esimo incontro plenario, Venezia

13/14 Settembre 1996, (Strasbourg: Council of Europe Publishing, 1998), pp.19/52

144

successore nella scelta del loro paese di cittadinanza. Gli Stati baltici difesero

chiaramente le loro politiche di cittadinanza definendosi come Stati ristabiliti e non

come Stati successori, sebbene ciò non potesse considerarsi affatto una valida difesa.

Il divieto di non discriminazione sulla base dell'origine etnica, del colore,

della religione, della lingua o dell'opinione politica nella determinazione della

cittadinanza è una limitazione ben riconosciuta al diritto di ciascuno Stato di

determinare le condizioni per l'acquisto della cittadinanza. L'articolo 1 della

Convenzione internazionale sulla eliminazione di tutte le forme di discriminazione

razziale stipula al suo terzo comma che “niente nella Convenzione può essere

interpretato in modo da pregiudicare in qualunque modo le disposizioni legali degli

Stati concernenti la nazionalità, la cittadinanza o la naturalizzazione, a condizione che

tali disposizioni non siano discriminatorie nei confronti di una particolare cittadinanza”.

Inoltre, l'articolo 9 della Convenzione ONU sulla riduzione dell'apolidia proibisce agli

Stati di privare “qualunque persona o gruppo di persone della loro cittadinanza su base

razziale, etnica, religiosa o politica”.

Conseguentemente, le legislazioni delle Repubbliche baltiche assumevano una

luce sospetta a causa dei loro rigidi requisiti linguistici o a causa delle loro posizioni

ferme riguardo al non concedere la cittadinanza agli ex militari delle forze sovietiche.

La legge lettone in particolare sembrava individuare la popolazione di etnia russa come

inidonea all'acquisto della cittadinanza mentre invece gli immigrati di epoca sovietica di

etnia lituana ed estone godevano dell'acquisto automatico di essa. L'Alto commissario

OSCE per le minoranze nazionali invocò la discriminazione su base linguistica e le sue

raccomandazioni riguardo al fatto che gli anziani e i disabili fossero esentati dal

sostenere esami di lingua furono adottate dalle leggi sulla cittadinanza degli Stati baltici,

ma non ebbero la stessa fortuna le raccomandazioni riguardanti la semplificazione delle

esaminazioni perché ritenute non necessarie da Lettonia ed Estonia. Queste infatti si

difendevano nella scelta di tali politiche discriminatorie nei confronti della popolazione

residente di etnia russa sulla base dell'intento di “correggere” cinquant'anni di

discriminazione nei confronti di estoni e lettoni da parte della Russia sovietica, mirando

in sostanza con le misure intraprese a ristabilire una eguaglianza di fatto nelle rispettive

società196

.

Il principio del legame effettivo deriva dal riconoscimento generale che

debba esserci una qualche forma di legame tra lo Stato e l'individuo che richiede la

cittadinanza. Questi legami sono molto spesso la nascita, il domicilio e la residenza nel

paese in questione197

ma anche altri possono essere inclusi, in particolare in termini di

responsabilità dello Stato di difendere i propri cittadini dalle azioni degli altri Stati. Per

tali ragioni, è consuetudine che gli Stati successori possano scegliere di non concedere

in via automatica la cittadinanza a coloro che hanno servito politicamente o

196 Op.cit. Ziemele, The role of state continuity and human rights in matters of nationality of the BalticStates, p.264

197 Op. cit. On the consequences of State succession for Nationality, p.22

145

militarmente lo Stato predecessore e pertanto risultava vano criticare le legislazioni

baltiche che proibissero l'acquisto della cittadinanza al personale dell'armata sovietica,

del KGB o dell'amministrazione di Stato. Nel caso specifico, data la storia

dell'aggressione russa agli Stati baltici appariva giustificato che Estonia e Lettonia

domandassero a quanti di etnia russa non soltanto di rompere i loro legami politici e

militari ma anche di dimostrare un impegno verso i paesi adottivi, tenuto conto che

veniva concesso in ogni caso il diritto di optare per l'acquisto della cittadinanza russa. A

giustificare questa scelta, peraltro, il fatto che le Repubbliche baltiche non furono le

prime ad utilizzare la lingua come un elemento determinante per la cittadinanza. Il

Trattato di pace di Parigi del 1947 tra l'Italia e le potenze alleate si occupò del problema

della cittadinanza e della migrazione su larga scala durante la seconda guerra mondiale

utilizzando la lingua per determinare la cittadinanza dei residenti nei territori acquisiti

dall'Italia. Si ritenne che gli abitanti dei territori trasferiti la cui lingua consuetudinaria

fosse l'italiano dovessero essere titolari del diritto di opzione per la cittadinanza italiana,

mentre coloro che risiedessero in Italia ma usassero abitualmente la lingua serba, croata

o slovena potessero optare per la cittadinanza iugoslava, con la condizione ulteriore che

laddove avessero scelto la cittadinanza iugoslava avrebbero dovuto trasferirsi là198

.

Il principio della prevenzione dell'apolidia è divenuto un principio di

hard law del diritto internazionale sin dall'adozione della Convenzione ONU sulla

riduzione dei casi di apolidia del 1961 la quale all'articolo 8 stipula che gli Stati parte

non devono privare una persona della propria cittadinanza se tale privazione la

renderebbe apolide. Il fatto che nel 1999 i residenti rimasti apolidi fossero il 13 per

cento in Estonia e il 28 per cento in Lettonia offrì prova che tali paesi stessero provando

a fare del loro meglio perché tale principio fosse rispettato. Tenuto conto peraltro che i

governi di Estonia e Lettonia, aldilà delle politiche interne scelte, sostenevano che i

residenti non indigeni potessero comunque inoltrare richiesta di cittadinanza russa sulla

base dell'articolo 13 della legge russa sulla cittadinanza della Federazione del 28

novembre 1991 che stabiliva che le persone nate dalla data del 30 dicembre 1922 in

avanti e che avevano perso la cittadinanza della Ex Unione Sovietica dovessero ritenersi

in possesso della cittadinanza della Federazione Russa per nascita laddove nate sul

territorio della Federazione Russa, o per discendenza laddove al momento della nascita

un genitore fosse cittadino dell'Unione Sovietica e fosse residente permanente sul

territorio della Federazione Russa. Chiaramente, sebbene le continue dispute circa i

confini tra la Federazione Russa e le Repubbliche di Estonia e Lettonia potessero

rendere tale disposizione oscura, la legge offriva la possibilità ai cittadini sovietici di

ottenere la cittadinanza russa in via automatica, e pertanto a tutti i residenti degli Stati

baltici la possibilità di non rimanere apolidi di fronte ad una esclusione dalla

cittadinanza delle Repubbliche.

Il principio del diritto di opzione offre ai residenti dello Stato successore

198 Op. cit. On the consequences of State succession for Nationality, p.34

146

il diritto di scegliere tra la cittadinanza dello Stato predecessore e quella dello Stato

successore oppure scegliere la cittadinanza di uno dei due (o più) Stati successori199

.

Estonia e Lettonia potrebbero sostenere che la attuale popolazione apolide residente in

maniera permanente abbia in realtà scelto l'apolidia perché era stata a loro data la

possibilità di ottenere automaticamente la cittadinanza della Federazione Russa, e che

sebbene restrittive le legislazioni di Estonia e Lettonia avessero dato la possibilità ai

residenti di diventare cittadini attraverso la naturalizzazione. Inoltre, considerata la

pratica comune tra gli Stati di associare il diritto di opzione al principio dei legami

effettivi, la cittadinanza concessa dal paese che condivide con l'individuo una maggiore

identità etnica, linguistica o religiosa apparirebbe giustificata dalla comunità

internazionale. Nel caso di Lettonia ed Estonia, sulla base di questa ultima

considerazione, la responsabilità della apolidia di quella parte di popolazione di etnia o

lingua russa andava attribuita alla Federazione Russa in via primaria e in via secondaria

semmai ai residenti non-cittadini che scelsero di rimanere in territorio baltico a dispetto

del loro status di apolidi.

La pratica della concessione della cittadinanza alla popolazione residente

sulla scorta del principio di diritto internazionale in base al quale la popolazione va col

territorio200 è detta essere una prassi internazionale sebbene non sia ancora una regola

vincolante di diritto internazionale codificato prescrivente l'acquisto automatico della

cittadinanza dello Stato successore201

. Nei casi in cui esiste uno Stato predecessore e uno

Stato successore, di regola lo Stato successore conferisce la propria cittadinanza, di

solito in modo automatico, agli ex cittadini dello Stato predecessore abitualmente

residenti nel territorio dello Stato successore seppur in un bilanciamento con i principi

del diritto di opzione e dei legami effettivi. Nei casi in cui lo Stato predecessore cessa di

esistere, come nel caso dell'Unione sovietica, lo Stato successore è maggiormente

costretto dalla prassi internazionale di offrire cittadinanza in via automatica ai residenti

del suo territorio. L'articolo 10 della Convenzione sulla riduzione dei casi di apolidia dà

effetto a quest'obbligo affermando che ogni trattato tra gli Stati contraenti che regoli la

cessione di territorio deve includere disposizioni che assicurino che nessuno divenga

apolide come risultato della cessione [..] In assenza di tali disposizioni uno Stato

contraente a cui il territorio è ceduto or che altrimenti lo acquisirebbe deve conferire la

propria cittadinanza a coloro che altrimenti sarebbero apolidi come risultato della

cessione o acquisizione. Delle tre Repubbliche, solo la Lituania conferì in maniera

automatica la propria cittadinanza ai residenti permanenti nel proprio territorio. Estonia

e Lettonia, sulla base del riconoscimento internazionale della illegittimità della loro

annessione all'Unione sovietica, sovvertirono il bisogno di un patto di secessione su cui

fondare la loro indipendenza rivendicando al contrario il loro status di Stati continui e

sulla base di questo riaffermarono tutte le leggi tra cui quelle di cittadinanza, tirandosi

199 Op. cit., On the consequences of State succession for Nationality, p.45200 Corollario del ben più generale principio «quiquid est in territorio est de territorio».201 Op. cit., On the consequences of State succession for Nationality, p.39

147

fuori pertanto dal dovere di seguire la prassi circa il conferimento automatico di essa. A

prescindere comunque dall'approccio alla questione, e dalle politiche che adottarono nei

confronti di coloro che rimasero apolidi, tutte rappresentarono un caso “speciale” poiché

la loro pretesa di essere identiche ai tre Stati baltici annessi nel 1940 dall'Unione

sovietica e quindi la loro volontà di seguire il principio di continuità fu accettata dalla

comunità internazionale tutta202.

Successivamente, sullo sfondo dello scoppio della violenza etnica in Jugoslavia e

nel Caucaso, temendo per la fragile stabilità dell'intera regione baltica, gli Stati membri

dell'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) decisero di

istituire missioni permanenti a Tallinn e Riga, operando in stretta collaborazione con

l'Alto commissariato per i diritti umani, il Consiglio d'Europa cominciò a fornire

consulenza legale sui progetti di cittadinanza e sulle leggi sulla lingua, e infine l'Unione

europea sviluppò una propria strategia di “diplomazia preventiva” nel quadro della

politica estera e della sicurezza comune, come previsto dal Trattato di Maastricht.

Questo piano, che entrò nel quadro istituzionale dell'UE come conseguenza del

Consiglio di Copenaghen del giugno 1993, si basava essenzialmente sulle proposte del

Primo Ministro francese Eduard Balladur203

e portò al cosiddetto “Patto di stabilità in

Europa”. L'obiettivo fondamentale di “promuovere relazioni di buon vicinato e

incoraggiare i paesi a consolidare le loro frontiere e risolvere i problemi delle minoranze

nazionali” venne chiaramente applicato alla situazione conflittuale tra gli Stati baltici e

la Russia, tanto che si pensò di organizzare una “tavola rotonda baltica” che riunì i

funzionari di entrambe le parti e che ebbe l'Unione europea nel ruolo di moderatore,

coincidendo peraltro con l'intento di rafforzare la fiducia in una buona riuscita del

processo con l'introduzione di disposizioni di condizionalità negli accordi bilaterali tra

la UE e ciascuna delle repubbliche baltiche. Scopo di tale politica di condizionalità era

fornire un importante incentivo allo sviluppo delle politiche di tutela delle minoranze

degli stati baltici, al rafforzamento delle prospettive di associazione nonché infine al

rafforzamento delle relazioni con gli stati che dal controllo delle minoranze risultavano

coinvolti. In tale direzione, pertanto, e alla luce della situazione precaria della

minoranza russofona in Estonia e Lettonia, a differenza di accordi analoghi conclusi con

altri paesi dell'Europa centrale e orientale, gli accordi con gli Stati baltici contenevano

sempre un riferimento specifico ai principi democratici e ai diritti umani che fungeva da

condizione sine qua non degli accordi stessi poiché se ne prevedeva l'immediata

sospensione al momento di una qualunque violazione che fosse grave.

4.1 – Il potere della condizionalità dell'Unione Europea

A differenza di altre organizzazioni internazionali e singoli governi, l'Unione

202 Op. cit., On the consequences of State succession for Nationality, p.38 203 Takako Ueta, “The Stability Pact: from the Balladur Initiative to the EU Joint Action”, in Martin

Holland (ed.), Common Foreign and Security Policy. The Record and Reforms (London, Washington,

1997), 92-104.

148

Europea ha esercitato una fortissima spinta sui paesi dell'Europa post comunista

candidati all'adesione. Sebbene infatti la condizionalità non fosse uno strumento nuovo

a livello internazionale per influenzare il comportamento di uno Stato, rispetto ad

esempio ai paesi in via di sviluppo, nel caso dei paesi baltici ha avuto un forte

potenziale di successo per almeno due ragioni. Innanzitutto, gli Stati baltici così come

altri paesi post comunisti avevano un disperato bisogno di finanziamenti internazionali

per supportare la loro riforma sia politica che economica. Secondariamente, asserivano

ormai da tempo le loro credenziali “occidentali” insieme al desiderio di ritornare in

Europa. Desiderio che, direttamente proporzionale alla voglia di sfuggire dalla sfera di

influenza della Russia, funse da forte incentivo per colmare le significative differenze

esistenti tra gli Stati baltici e l'Europa occidentale.

Mentre le precedenti ondate di allargamento dell'Unione Europea richiesero ai

paesi candidati all'adesione di compiere aggiustamenti politici ed economici, le

condizioni poste ai paesi post comunisti furono decisamente alte. Ciò avvenne non

soltanto perché la rapida espansione della competenza dell'UE dalla fine della Guerra

Fredda e la devastazione socio-economica dovuta alla eredità sovietica avevano

contribuito entrambe in modo significativo ad allargare il divario tra l''Europa orientale

e quella occidentale, al punto che i richiedenti paesi post comunisti furono sottoposti a

un controllo e a una pressione maggiore riguardo alle riforme da realizzare, ma anche

perché uno dei criteri fondamentali per l'annessione stabiliti a Copenaghen, a dispetto

della mancanza di consenso interno sull'argomento, era proprio la tutela dei diritti delle

minoranze, tema caldo nei paesi baltici e che quindi portò l'Unione Europea a chiedere

che i paesi candidati adottassero gli standard più alti e a non concedere loro nessun

potere di opt-out. I progressi nel tenere il passo con gli obiettivi di breve e medio

termine dei partenariati per l'adesione erano documentati in report regolari della

commissione europea che in maniera dettagliata descrivevano non soltanto gli

avanzamenti ma anche le difficoltà incontrate nell'architettura delle riforme in ciascun

paese, e pertanto permisero all'Unione Europea di effettuare gli aggiustamenti di volta

in volta necessari alle proprie politiche di partenariato in funzione dei risultati raggiunti.

Fu proprio sulla base di tali report che la Commissione europea in una sua

opinione allegata alla “Agenda 2000: Per una Europa più forte e più ampia” criticava i

criteri troppo restrittivi nonché discriminatori per la concessione della cittadinanza in

Lettonia ed Estonia. Era infatti chiaro dalle relazioni periodiche della Commissione,

emesse annualmente tra il 1998 e il 2000, che durante tutto il processo di adesione

l'Unione Europea avesse smesso di chiedere alle due Repubbliche di estendere la

cittadinanza ai residenti di epoca sovietica come aveva fatto la Lituania o di fare cadere

i problematici requisiti linguistici imposti alle procedure di naturalizzazione, ma al

contrario aveva candidamente incoraggiato entrambi i paesi a semplificare le procedure

per i residenti apolidi, soprattutto i bambini, a migliorare la diffusione

dell'insegnamento della lingua in modo da ridurre il principale ostacolo alla

149

cittadinanza, a cancellare gli articoli discriminatori delle leggi sulla lingua e infine a

ratificare la Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali del 1995

che, ad oggi ratificata da quasi tutti i paesi membri del Consiglio d'Europa ossia da 39

su 47, è in vigore dal 1998 per l'Estonia, dal 2000 per la Lituania e dal 2005 per la

Lettonia. Per quanto riguarda quest'ultima, la posizione di influenza dell'Unione

Europea fu evidente nel ritmo rapido di riforme relative alle leggi di cittadinanza. Nel

1998, il parlamento lettone adottò infatti una nuova legge sulla cittadinanza che

successivamente fu accolta con referendum nazionale e con la quale il sistema delle

finestre veniva abbandonato lasciando spazio ad un processo di naturalizzazione aperto

a tutti i residenti alieni. Inoltre, la nuova legge rendeva i bambini nati in Lettonia da

genitori apolidi titolari del diritto alla cittadinanza e semplificava ancora le procedure di

naturalizzazione per le persone di età superiore ai 65 anni. Peraltro, il governo lettone

rispose alle critiche circa le sue politiche discriminatorie verso i non-cittadini

eliminando quelle restrizioni, come il possesso del certificato linguistico, che

impedivano loro di lavorare come vigili del fuoco, personale aereo, farmacisti o di

ricevere assistenza laddove invece si fossero ritrovati ad essere disoccupati.

Nonostante i mutamenti legislativi, durante il periodo precedente alla annessione,

non fu affatto facile per le due Repubbliche di Lettonia ed Estonia aumentare il numero

delle richieste di naturalizzazione perché in entrambe la barriera più significativa

all'acquisto della cittadinanza rimaneva il superamento di un esame di lingua. L'Unione

Europea allo scopo di eliminare tale ostacolo si adoperò stanziando ingenti fondi in

programmi linguistici così come in progetti di integrazione sociale affinché gli individui

di lingua russa potessero studiare le lingue delle due Repubbliche senza dover sostenere

alcun costo, ma purtroppo questi corsi risultavano essere sovraffollati e con liste d'attesa

eccessivamente lunghe.

Malgrado ciò, la pressione europea è rimasta sia prima che dopo l'adesione di

questi Stati come membri dell'UE motore primario verso il miglioramento della

condizione dei non-cittadini residenti perché si è perlomeno predisposto un ventaglio di

diritti che pone il non-cittadino in una posizione quasi paritaria. La revisione delle

politiche sulla cittadinanza è difatti negli Stati baltici all'ordine del giorno,

riconoscendosi come paesi entro cui convivono etnie attraversate da una profonda

frattura non soltanto sotto il profilo sociale ma anche sotto quello giuridico. A tutt'oggi

sono circa 300 mila gli abitanti di lingua russa in Lettonia e 100 mila quelli in Estonia

che non possiedono una cittadinanza, sebbene tra loro vi siano persone nate e cresciute

proprio nel territorio delle due Repubbliche baltiche. Di questa minoranza si continua a

parlare come di sradicati per quanto importanti passi siano stati compiuti. La Lettonia

ha difatti di recente approvato una nuova riforma della legge sulla cittadinanza che,

entrata in vigore il 1 ottobre 2013, porta alla risoluzione in materia di alcuni problemi

stratificatisi nel corso degli anni204

. Per esempio, ai non-cittadini con residenza stabile in

204 Legge approvata il 9 maggio 2013 dopo due anni di discussioni e che apporterà forti cambiamenti alla

150

Lettonia e nati dopo l'indipendenza, ossia dopo il 21 agosto 1991, è riconosciuta

automaticamente la cittadinanza. Cittadinanza concessa anche ai bambini nati all’estero

da almeno un genitore lettone. La legge introduce ancora la “doppia cittadinanza” per i

cittadini di origine lettone o figli di lettoni che vivono all’estero e il diritto alla

cittadinanza per i lettoni deportati o costretti a emigrare durante le vicende legate

all’occupazione nazista o sovietica, inclusi discendenti diretti e familiari. Certo,

permangono nella legge delle contraddizioni come il fatto che un cittadino comunitario

residente in Lettonia anche da pochissimo, a differenza di un “non-cittadino” residente

da più tempo, può votare ed essere eletto alle elezioni amministrative e a quelle del

parlamento europeo, e le sue motivazioni vanno sicuramente ben al di là della garanzia

dei diritti per tutti. Ma le direttive politiche che hanno guidato tale riforma cercavano di

rispondere a situazioni economiche sociali che stavano divenendo sempre più

preoccupanti per il piccolo paese baltico. Considerato infatti che il basso tasso di

natalità e il saldo migratorio negativo avrebbero fatto nascere ben presto l’esigenza

d’importazione di manodopera, il governo non ha agito che per preparare la strada verso

un flusso immigratorio costituito prevalentemente da “emigrati di ritorno”.

4.2 – Politiche adottabili dall'UE ai non-cittadini baltici per la loro tutela

Adesso che Lettonia ed Estonia sono Stati membri dell'Unione Europea, la

percezione che i residenti alieni hanno del valore della cittadinanza è sicuramente

cambiata poiché tenuto conto che soltanto i cittadini degli Stati membri sono considerati

cittadini europei i residenti alieni non si avvantaggiano in quanto tali dei benefici della

cittadinanza europea e col tempo potrebbero sviluppare una sempre maggiore disparità

socio-economica rispetto ai cittadini delle due Repubbliche causando in situazioni

estreme anche proteste e disordini sociali. A tale situazione, aldilà dei meccanismi di

protezione che brevemente sono stati descritti nella precedente sezione ma che

comunque riguardano più che altro situazioni di apolidia migratoria, l'UE potrebbe

rispondere attuando una sorta di fictio iuris ossia trattando i non-cittadini residenti in

quelle Repubbliche come fossero cittadini estoni e lettoni e quindi estendendo loro la

cittadinanza dell'Unione con tutto ciò che da questa ne consegue in campo di diritti.

Questa operazione ovviamente non è affatto facile da contemplare legalmente senza

considerare anche un cambiamento in massa delle politiche di cittadinanza dell'Unione

poiché offrire la cittadinanza europea ai residenti alieni delle due Repubbliche di

Estonia e Lettonia significherebbe scavalcarne i rispettivi governi e la loro sovranità in

materia che fino a prova contraria continua a rimanere prevalente su quella regionale.

Alcuni studiosi, a sostegno di tale possibile azione, sostengono che la creazione della

stessa Unione Europea ha non soltanto compresso lo spazio di controllo da parte degli

Stati ma ha anche prodotto una “nozione deterritorializzata dei diritti della persona”205

struttura etnico-sociale del paese, che era stata precedentemente stravolta nel periodo del dominio

svedese e all'epoca zarista.205 Soysal Yamesin, Limits of citizenship, Chicago: University of Chicago Press, 1994

151

per quanto poi nelle stesse direttive comunitarie in materia di diritti sociali e politici

continui a prevalere la nozione di cittadinanza come conferimento dello Stato-nazione e

come precondizione fondamentale per la partecipazione politica in Europa206

.

Ovviamente la questione tocca molti punti nodosi con i quali l'Unione europea è

attualmente alle prese come il problema del suo deficit democratico o il trattamento dei

cittadini di paesi terzi, e proprio grazie all'impegno occorso per migliorare la situazione

di questi ultimi risulta ad oggi evidente che i residenti alieni possano fare affidamento

su una politica nuova, senza ricorrere a cambiamenti drastici né alle leggi di

cittadinanza di Estonia e Lettonia né alla costruita architettura della cittadinanza

europea. Nel 2003, infatti, con il Consiglio europeo di Tampere, fu emanata la Direttiva

2003/109/CE “Relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di

lungo periodo” che richiede agli Stati membri di estendere i diritti molto simili ai diritti

dei cittadini ai cittadini di paesi terzi che abbiano vissuto nel territorio dell'unione per

almeno cinque anni. La direttiva specificamente rivolge a coloro che ne sono interessati

un equo trattamento in termini di accesso al lavoro, istruzione, sicurezza sociale e

benefici fiscali, accesso a beni e servizi come la casa, libertà di associazione, libertà di

movimento all'interno del paese di residenza, nonché protezione verso provvedimenti di

espulsione. In particolare, la direttiva offre ai cittadini di paesi terzi che possiedono

permessi di residenza di lungo periodo e alle loro famiglie libertà di movimento negli

altri Stati membri dell'Unione. Questa direttiva mostra la buona volontà da parte

dell'Unione Europea e la sua capacità di intervenire in problematiche che coinvolgono

la distribuzione dei diritti fondamentali nell'Unione stessa, influenzando in tal modo le

politiche migratorie e di cittadinanza degli Stati membri.

Un espediente per il problema dell'apolidia in Estonia e Lettonia, alla luce di tale

strumento normativo, potrebbe pertanto essere quello di trattare i residenti alieni delle

due Repubbliche come cittadini di Stati terzi sebbene tecnicamente per loro un “paese

terzo” non sia ravvisabile ai sensi della definizione della Commissione207

. Estonia e

Lettonia, comunque, in termini di integrazione dei residenti alieni e di equo trattamento

rispetto ai cittadini sono probabilmente già oltre la curva ma laddove ciò avvenisse a

livello europeo e quindi questi avessero la libertà di spostarsi verso altri Stati membri

molte attuali tensioni verrebbero pacificamente meno. Ovviamente, sebbene tale fictio

allevierebbe di molto il problema dei residenti apolidi di certo che non lo risolverebbe

rimanendo pertanto di fondamentale importanza un intervento diretto delle Repubbliche

interessate per una modifica delle loro rispettive legislazioni.

5 – Osservazioni conclusive

Il problema dell'apolidia nelle Repubbliche baltiche, e in particolare in Estonia e

206 Vink Maarten, Limits of european citizenship: european integration and domestic immigrationpolicies, Constitutionalism Web Papers, Con WEB No. 4/2003

207 Renars Danelsons, “Latvia” in K. Hailbronner and I. Higgins, Migration and asylum law and policy inthe European Union, Cambridge University Press: 2004, pp. 228/229

152

Lettonia, è indubbiamente un fenomeno molto complesso da risolvere soprattutto per il

contesto storico in cui queste si sono sviluppate. Tuttavia, punire i residenti alieni per

eventi frutto di scelte a loro non imputabili, in quanto dettate da politiche governative

all'indomani della ritrovata indipendenza, è difficilmente difendibile soprattutto adesso

che gli Stati baltici si trovano sotto l'ombrello dell'Unione Europea che non avendola

risolta prima dell'allargamento ha chiaramente ereditato la questione.

Certamente, l'Unione Europea ha molte più opzioni di quelle qui sommariamente

delineate e certamente ha già fatto moltissimo ai fini di una politica di integrazione

ancora più efficace e armonizzata tra i suoi paesi membri, ad esempio modernizzando il

concetto di Stato-nazione per rispondere agli effetti della globalizzazione e del

conseguente multiculturalismo. Ciononostante, i non-cittadini continuano a subire le

conseguenze negative della loro non-appartenenza, soprattutto perché le azioni

intraprese a livello europeo richiedono poi non soltanto una corretta interpretazione a

livello nazionale ma anche una corretta implementazione. Tuttavia se lo scopo del

processo di allargamento è quello di portare pace e prosperità in Europa, alla luce delle

misure intraprese in tal senso la speranza di una risoluzione in via definitiva rimane

forte.

Parte Seconda – L'Unione Europea e la minoranza apolide in Estonia

A luglio 2011, quasi un ventennio dopo la ritrovata indipendenza delle Repubblica

d'Estonia, il Consiglio d'Europa aveva già inviato una serie di raccomandazioni

classificate come “confidenziali” a proposito delle discriminazioni che il governo di

Tallin da anni pone in atto contro i cosiddetti “non-cittadini”, ovvero gli abitanti non di

etnia estone, in prevalenza russofoni, che vivono nel paese baltico e che di fatto sono

privi della cittadinanza. In questi “inviti” da parte del Consiglio d'Europa, i temi trattati

sono in particolare due: l'ottenimento della cittadinanza vincolato al superamento di un

esame di lingua estone e il divieto di diventare membro di un qualsivoglia partito per

chi è privo della cittadinanza estone. Le raccomandazioni inviate esortavano il governo

di Tallin a revocare tutti quei provvedimenti che di fatto davano vita ad un regime

segregazionista vero e proprio in un paese ormai membro dell'Unione Europea e in

quanto tale quindi fonte di forte imbarazzo per la stessa governance di Bruxelles.

L'Europarlamento e la Commissione Europea aveva infatti sollevato in più occasioni la

questione della discriminazione etnica nelle Repubbliche baltiche, senza tuttavia sortire

alcun particolare risultato.

In una di queste comunicazioni a livello confidenziale, il Consiglio d'Europa

chiedeva che ai cittadini russofoni venisse concessa la possibilità di inserire il proprio

patronimico nei documenti ufficiali e raccomandava inoltre alle autorità locali di dotare

la segnaletica stradale di caratteri cirillici per cercare di alleggerire i rapporti con la

Russia. Se pensiamo infatti che oggi nel paese baltico i russofoni costituiscono il 30 per

153

cento della popolazione e che per circa centomila di questi, ossia quasi il 10 per cento

dei residenti, non esiste nemmeno un diritto di cittadinanza pur essendo nati e cresciuti

in Estonia, ci si può tranquillamente rendere conto non soltanto delle difficoltà cui sono

sottoposti costantemente ma soprattutto di quale livello di gravità abbia raggiunto la

questione, tenuto conto peraltro dei rapporti gelidi che Mosca e Tallin mantengono. A

dimostrazione di ciò basto ricordare che a marzo del 2011 il ministro degli esteri russo

Sergey Lavrov aveva denunciato l'Estonia dinanzi al Consiglio ONU per i diritti umani

a Ginevra proprio per via del fenomeno dei cittadini “senza stato” definendolo come

vergognoso e chiedendo che a questi venisse garantita la piena applicazione delle

raccomandazioni di ONU, OSCE e Consiglio d'Europa sull'eliminazione della

discriminazione razziale.

Il problema sostanziale è che, sebbene siano passati vent'anni dalla fine

dell'URSS, nelle tre Repubbliche baltiche e pertanto anche in Estonia rimane ancora

forte l'odio verso la minoranza russa. Dopo l'annessione forzata del 1940, l'alleanza

scellerata dei partigiani baltici con le truppe della Wermacht dopo l'invasione nazista

del 1941 era infatti stata punita da Stalin alla fine della guerra con il terrore più duro:

purghe, deportazioni e condanne a morte furono il viatico per un lento e costante

abbattimento della cultura e dell'identità estone a favore di quella russa che si voleva

come identità dominante.

Tale passato, ereditato dalla minoranza russofona, rende comprensibili le

diffidenze che gli Estoni nutrono nei confronti dei loro connazionali-occupanti, ma

palesa come incomprensibile e ad oggi ingiustificabile non soltanto la politica di

cittadinanza adottata dal governo di Tallin quanto soprattutto la posizione revisionista in

base alla quale da qualche anno in nome dell'anticomunismo sovietico non si perde

occasione per celebrare come eroi dell'indipendentismo estone oscuri miliziani

filonazisti complici di Hitler nelle atrocità commesse contro la popolazione russa tra il

1941 e il 1944.

Logicamente, con tale scenario come sfondo, l'obiettivo per l'Unione Europea e

altre organizzazioni internazionali come l'OSCE rimane quello di promuovere stabilità,

dialogo e comprensione tra le parti interessate, conciliando le pretese di cittadinanza dei

russofoni con la posizione etnico-nazionalistica dell'Estonia, stimato che la

comparazione di esperienze pregresse di società fortemente divise a livello etnico

suggerisca come di solito il gruppo oppresso cerchi giustizia attraverso la violenza.

1 – Cenni storici: dall'antichità alla “restaurata” indipendenza

Sebbene esistano alcune specifiche differenze, l'Estonia sin dalle sue origini ha

avuto per molti aspetti una storia comune con Lettonia e Lituania, avendo i tre paesi

condiviso analoghe vicende storiche208

. Da un punto di vista geografico sono detti

“baltici” tutti quei popoli e paesi che si affacciano sul mar Baltico e quindi saranno tali

208 White S., Batt M., Lewis G., “Developments in Central and East Europe” Londra (1998) p.11

154

la Svezia, la Finlandia, l’Estonia come la Lituania, la Lettonia, la Polonia e la Germania

fino alla Danimarca, ritrovandosi riuniti sotto la stessa etichetta popoli molto differenti

per lingua ed etnia: svedesi, tedeschi e danesi sono popoli germanici parlanti lingue

sorelle; finlandesi ed estoni parlano lingue di gruppo finnico, non indoeuropeo; i

polacchi sono un popolo slavo, parlanti una lingua slava occidentale. Generalmente

però, per la loro storia e vicende comuni, sono conosciuti come stati baltici solo la

Lettonia, l’Estonia e la Lituania, mentre si usa per gli altri stati della regione parlare più

come entità singole o per i paesi del Nord Europa, come paesi scandinavi.

Il termine “baltici” nasce in ambito squisitamente linguistico essendo un

neologismo che deriva dal latino mare Balticum e che compare nella letteratura

scientifica a partire dal 1845, per identificare solo i tre paesi della costa orientale del

mar Baltico ma tra denominazione geografica e denominazione etnolinguistica non vi è

coincidenza poiché baltici in senso stretto cioè appartenenti al ceppo indoeuropeo sono

soltanto lituani e lettoni, mentre gli estoni appartengono alla stirpe dei fenni

linguisticamente appartenenti al ceppo ungrofinnico. I popoli indoeuropei provennero

dal sud recando un patrimonio di esperienze ed usi che costituì la base per la cultura di

lituani e lettoni; i fenni invece, dalla regione continentale russa raggiunsero il mare per

una via settentrionale, intorno al lago Peipus, della quale si spostarono verso nord in

Finlandia e verso sud in Estonia. La lingua estone, difatti, sebbene abbia accolto molti

prestiti germanici, baltici e slavi coincide in gran parte con il finnico differendo

entrambe in modo sostanziale dalle lingue indoeuropee.

Stanziati fin dall'antichità sul litorale costiero del mar Baltico, i popoli baltici che

conducevano un'esistenza essenzialmente pacifica e dedita soprattutto all'agricoltura

appaiono sulla ribalta storica solamente a partire dal XIII secolo quando l'Europa

cristiana decise di evangelizzare e colonizzare gli ultimi pagani che vivevano sul

continente europeo, organizzando le crociate contro i cosiddetti “saraceni del nord” in

seguito alle quali i cavalieri dell’ordine teutonico si affrettarono a ottenere le donazioni

promesse loro dall’imperatore Federico II con la bolla d’oro di Rimini, la quale costituì,

di fatto, l’atto di nascita della Prussica germanica. L'elemento pagano tuttavia non

scomparve e anzi continuò per lungo tempo a convivere con quello cristiano, tanto che

ancora oggi la loro tenace unione si riscontra nel folclore e nell'arte popolare dell'intera

regione. Prima di allora, i popoli della Bàltia avevano probabilmente subito la

dominazione dei goti dal III fino al IV secolo, momento in cui iniziò la migrazione

slava verso nord-ovest che spinse verso la costa i popoli di lingua baltica e finnica, così

come successivamente tedeschi, svedesi e danesi in cerca di possibili avamposti e punti

commerciali sulle vie fluviali verso la Russia.

Il completo controllo russo sull'Estonia avvenne con la Grande Guerra del Nord

scatenata nel 1721 da Pietro I contro gli svedesi per ottenere lo sbocco al mar Baltico.

La nuova dominazione significò per i contadini la soppressione di tutte le concessioni

fatte dagli svedesi e portò all'alleanza tra la nobiltà tedesca e quella russa.

155

Successivamente, e precisamente a cavallo tra il XVIII e il XIX, in Estonia si manifestò

un vigoroso movimento di opinione pubblica, alimentato dalla stampa che aveva

maturato una propria coscienza nazionale e dalle idee democratiche dell'Europa

occidentale che erano penetrate nella letteratura estone. Inoltre gli echi della

Rivoluzione francese si erano fatti sentire anche in Estonia e i contadini iniziarono a

protestare esprimendo il loro malcontento contro i baroni dell'impero zarista. Il risultato

che ottennero fu un lieve miglioramento delle loro condizioni perché sebbene fosse stata

nel 1816 abolita la schiavitù il diritto di proprietà terriera restava ancora e soltanto una

prerogativa dei nobili che si permettevano notevoli abusi di potere effettuando

espulsioni massicce e ostacolando le aspirazioni del popolo in ogni settore. Fu soltanto

verso la metà del XIX secolo che, in base a ulteriori riforme, i contadini ebbero la

possibilità di diventare proprietari209

.

Per quanto riguarda l'istruzione pubblica, alla secolare opposizione degli elementi

di cultura tedesca si sostituì l'avversità delle autorità russe verso ogni forma di

emancipazione culturale degli estoni la cui manifestazione più clamorosa fu la

russificazione dell'università di Tartu che aveva fino a quel momento promosso e

diffuso la cultura tedesca in tutta l'Estonia210

. Le ribellioni dei contadini si susseguirono

e ben presto acquisirono una valenza politico patriottica che si sarebbe rivelata decisiva

poiché scaturì nel movimento della Giovane Estonia la cui parola d'ordine era “Siamo

estoni, ma vogliamo anche diventare europei211

”.

Nel 1914 con la guerra russo-tedesca in corso la nobiltà baltica si dichiarò fedele

senza riserve alla causa russa mentre gli estoni del movimento Giovane Estonia si

dispiegarono tanto contro i tedeschi quanto contro i russi costituendo consorzi e

cooperative proprie al fine di boicottare l'opposizione messa in atto dalle banche locali.

Il regime militare instauratosi durante la guerra, la Duma, non favorì la causa estone ma

il 12 aprile 1917 permise la costituzione di un Consiglio nazionale estone contro la cui

attività si attivarono allo scoppio della rivoluzione del 1917 i comunisti estoni

rappresentati da circa 15 mila uomini tra le truppe rivoluzionarie russe. Nel 1918

tuttavia con il trattato di Brest-Litovsk che sancì l'uscita dalla guerra della Russia si

stabilì che in Estonia le truppe russe dovessero lasciare il posto a un corpo di polizia

tedesco che garantisse la sicurezza del paese e attraverso il quale venne iniziata una

vigorosa opera di germanizzazione il cui primo passo fu proprio l'imposizione della

lingua tedesca. A marzo di quello stesso anno la Francia espresse il suo sostegno

all'indipendenza estone e più tardi anche l'Inghilterra riconobbe il nuovo Stato, l'esercito

bolscevico tentò di riottenere il controllo del territorio ma nel 1919 con il comando

supremo del generale Laidoner iniziò la riscossa delle truppe estoni che grazie all'aiuto

dei paesi occidentali riuscirono a liberare tutto il paese e a suffragio universale eleggere

l'assemblea costituente. Si affermò l'indipendenza nazionale e si elaborò una

209 Ibidem, 1998, p. 34210 Ibidem, 1998, p. 39211 Ibidem, 1998, p. 41

156

costituzione definitiva.

Con il trattato di pace di Tartu del 1920 l'esercito estone ottenne il riconoscimento

dell'indipendenza anche dalla Russia sovietica e in quella occasione peraltro fu ratificata

la frontiera sud orientale a vantaggio dell'Estonia che adesso godeva di completa libertà

e iniziò a lavorare per ristrutturare il paese. Fu promulgata una nuova costituzione di

tipo parlamentare e si ottenne il riconoscimento giuridico dalla conferenza degli

ambasciatori. Durante la crisi economica del 1929 un partito di estrema destra, il Vabs,

approfittò del malcontento della popolazione per elaborare un progetto di costituzione

opposto a quella democratica del 1920 e ottenendo una forte maggioranza in occasione

di un plebiscito impresse una svolta autoritaria di stampo mussoliniano, sopprimendo

tutti i partiti politici e istituendo una assemblea corporativa. La politica estera estone in

questi anni era in bilico a causa del duplice pericolo tedesco e russo che minacciava il

paese. Il governo estone cercò di giungere senza successo a una confederazione con la

Lettonia, la Lituania, la Finlandia e la Polonia, per tentare di fuggire dalle mire

espansionistiche del colosso sovietico e nazista ma si ottenne soltanto una alleanza,

l’Intesa Baltica, che mirava ad un’azione comune di Lituania, Estonia e Lettonia nel

campo della politica estera e della difesa, concepita in un primo tempo principalmente

in funzione anti-nazista, giacché la Germania appariva allora come probabile

aggressore, più della stessa Unione Sovietica. L’Intesa, però non fu mai effettivamente

efficace perché le tre repubbliche baltiche si rivelarono divise al loro interno: la Lituania

era preoccupata principalmente per le manifeste mire tedesche e polacche sul suo

territorio, mentre Estonia e Lettonia temevano soprattutto il pericolo sovietico.

Nel settembre del 1939, con una fulminea offensiva ad est delle truppe tedesche,

iniziò la seconda guerra mondiale. La Polonia fu occupata rapidamente e divisa tra la

Germania nazista e l’Unione Sovietica. Il 17 giugno del 1940 l’Armata Rossa occupò

tutta l’Estonia e l’area baltica a lei assegnata dal Patto Ribbentrop Molotov e il 24

agosto la camera dei deputati si riunì per approvare una nuova costituzione sancendo

all'unanimità la nascita della Repubblica Socialista Sovietica Estone e proclamandola

“uno stato socialista per i lavoratori e i contadini” su modello della costituzione

stalinista dell’Unione Sovietica del 1936, con il partito comunista estone nel ruolo guida

sostenuto dalla presenza di un consistente contingente dell'Armata Rossa nel paese.

Durante i primi mesi, molti ufficiali dell’ex esercito estone vennero arrestati e

deportati in campi di prigionia, giustiziati circa 2,000 cittadini estoni e deportate da vari

strati della popolazione approssimativamente 19,000 persone, circa la metà delle quali

fu immediatamente internata nei campi di lavoro già a metà giugno del 1940. Tra questi

anche il 10% del corpo insegnanti perché accusato di propagandare idee

controrivoluzionarie ai nuovi cittadini sovietici la cui educazione era adesso in mano

alla Lega Comunista Insegnanti detentrice dei valori socialisti.

Quando le truppe naziste attaccarono l’Unione Sovietica, il 22 giugno del 1941,

l’Armata Rossa era malamente preparata per questa guerra tanto che all'inizio dell'estate

157

del 1941, insieme a 33 mila cittadini estoni che collaboravano con il regime sovietico,

decise di ritirarsi dall’Estonia permettendo ai nazisti di impossessarsene e creare un

governo fantoccio filo-nazista. La repressione di chiunque avesse collaborato con

l'Unione Sovietica fu molto violenta e particolarmente cruenta la deportazione di 2 mila

cittadini estoni di origine ebraica nei campi di concentramento. Sennonché nell'estate

del 1944 l'Armata Rossa rioccupò l'Estonia e diede vita alla Repubblica Socialista

Estone dell'Unione Sovietica, la ESSR, il cui Consiglio dei Commissari del Popolo, poi

divenuto Consiglio dei Ministri, era inizialmente formato da persone di origine estone

ma di provata fede sovietica in quanto rifugiatisi a Mosca durante l'invasione nazista

mentre successivamente fu composto solo da persone di origine russa, considerato che

si diffidava non poco dei nuovi estoni che volevano iscriversi al partito comunista per

partecipare alla sovietizzazione del paese.

Le deportazioni, dopo la seconda guerra mondiale, furono più ampie di quelle

precedenti, a causa del clima politico staliniano. Nel 1946 venne addirittura creato un

Ministero per la Sicurezza dello Stato estone che rafforzò sensibilmente non soltanto il

controllo ma anche la repressione. Ciononostante, per diversi anni il totale asservimento

dell'Estonia fu ostacolato dalla presenza di un gruppo di partigiani estoni che, nati

subito dopo la ritirata nazista e formati da poche migliaia di estoni, si mostravano

impegnati in una costante guerriglia clandestina. Il loro obbiettivo era quello di resistere

il più possibile, per ottenere da parte dai paesi dell’occidente il riconoscimento

dell’indipendenza e per provocare il ritiro dell’Unione Sovietica dall’Estonia a causa

delle pressioni internazionali. Gradualmente, però, il disinteresse degli occidentali e una

mobilitazione impari da parte dell’Armata Rossa provocarono la perdita di ogni tipo di

speranza, senza considerare che nel 1955, dopo la morte di Stalin, i partigiani ottennero

l'amnistia e la possibilità di tornare nelle proprie case senza rappresaglie se avessero

sospeso ogni tipo di attività. Ciò comportò ovviamente la fine di un movimento che

rimane una delle pagine più eroiche della storia estone e con essa anche il segno del

totale asservimento dell'Estonia all'Unione Sovietica.

Dopo la morte di Stalin, le condizioni di vita cambiarono significativamente in

Estonia, anche se il sistema politico rimase inalterato. Il primo contatto con il mondo

non sovietico avvenne nel 1956, tramite l’apertura della linea navale che collegava

Tallin a Helsinki e grazie alla quale da una parte alcuni stranieri poterono visitare

l’Estonia e dall'altra parte una piccolissima porzione di estoni andare in occidente, per la

prima volta dopo la seconda guerra mondiale. Molte vittime delle deportazioni avvenute

sotto il governo staliniano furono riabilitate e il regime sovietico denunciò i crimini del

dittatore, proponendo una nuova era di riforme. Nel frattempo il tema del nazionalismo

iniziò a serpeggiare tra gli estoni e nel 1972 si formarono due piccoli gruppi clandestini:

il Fronte Nazionale Estone e il Movimento Democratico Estone che auspicavano

l’indipendenza dell’Estonia e chiedevano alle Nazione Unite di poter ottenere libere

elezioni per l’assemblea costituente. Nei primi anni, le autorità sovietiche tollerarono

158

questi gruppi ma successivamente li arrestarono condannandoli per propaganda

antisovietica. Ciononostante, i dissidenti continuarono a perorare la causa estone, a

organizzare radicali proteste e manifestazioni in tutto il paese auspicando maggiori

libertà e la difesa del proprio linguaggio e della propria cultura, tenuto conto che i

tentativi di assimilazione si facevano sempre più incisivi attraverso per esempio

l'imposizione della lingua russa come unica lingua nazionale.

Con Gorbaciov e la sua politica di glasnost e perestroika arrivò un vento liberale

anche in Estonia. Gli estoni colsero questa inaspettata opportunità con pubbliche

proteste contro il potere centrale come quella del 1988 per destituire il capo del partito

comunista estone, Valjas Vaino, il quale venne sostituito dal figlio Karl212

. Ci furono

mobilitazioni di piazza anche per il tentativo sovietico di riforma costituzionale per

rafforzare il potere sovietico e nella primavera del 1989 gli estoni ottennero i primi

segnali verso l’indipendenza ottenendo di fatto una moderata autonomia economica. La

più forte arma estone, per ottenere la libertà, fu quella di usare la storia per convincere

Mosca a desistere sui suoi domini baltici tentando di costringere Gorbaciov ad

ammettere le colpe sovietiche e la verità storica dei patti segreti di non aggressione con

la Germania nazista per la spartizione dei paesi baltici. Ormai gli estoni invocavano

sempre più frequentemente l’indipendenza e chiedevano l’aiuto internazionale per

bloccare i tentativi di Mosca di mantenere l’Estonia nell’Unione. Con le elezioni del

1990 per il parlamento, il Fronte Popolare Estone vinse con la maggioranza relativa di

40 seggi su 101 che sebbene non fosse schiacciante espresse comunque l'intenzione del

paese di ottenere l'indipendenza. A differenza della Lituania che si proclamò subito

indipendente, l’Estonia preferì adottare una linea più morbida con Mosca, ma quando

nella notte del 19 agosto del 1991, carri armati e unità militari sovietiche mossero verso

Tallin per tentare di bloccare l’indipendenza estone, il parlamento estone si riunì con

una seduta di emergenza proclamando la piena indipendenza da Mosca e il

riconoscimento internazionale.

Il 6 settembre del 1991, anche Mosca riconobbe l’Estonia come stato

indipendente.

2 – La legge sulla cittadinanza estone e la persistenza di una diffusa apolidia

Dopo aver ottenuto l'indipendenza, come già accennato nella precedente sezione,

l'Estonia intraprese una politica di restaurazione nazionale puntando a riottenere la

propria sovranità e quella identità culturale persa durante l'occupazione sovietica.

Ragioni storiche, culturali, sociali e politiche avevano reso difficile una serena

integrazione tra gli estoni e coloro che erano arrivati nel paese durante il regime

sovietico, tanto che il governo estone preferì assorbire la minoranza russa all'interno

della società per proteggere la propria sovranità nazionale e per far crescere

velocemente l'economia del paese che si sarebbe consolidata solo con la piena

212 Ibidem, 1998, p. 199

159

omogeneizzazione della minoranza russa all'interno della società estone.

L’Estonia figura, infatti, tra le migliori economie tra l’ex repubbliche sovietiche,

sebbene i costi sociali di questo sviluppo economico si siano ripercossi principalmente

sulla minoranza russa composta da diversi gruppi etnici, la maggior parte dei quali è di

origine russa, parla il russo e si riconosce nell’identità e nella cultura russa.

Subito dopo l’indipendenza, il parlamento estone dovette affrontare il grave

problema della cittadinanza per tutta quella parte di popolazione che si trovava sul suo

territorio senza essere però etnicamente estone. I due principali criteri per concedere la

cittadinanza furono il principio dello “ ius sanguinis” secondo il quale la nazionalità si

ottiene grazie alle origini dei propri genitori e il principio dello “ius soli” nel quale la

cittadinanza si acquisisce dal luogo in cui si nasce. Democratici e repubblicani estoni

insieme ai rappresentanti della minoranza russa optavano per il diritto dello “ius soli”,

mentre i nazionalisti estoni appoggiarono il principio del “ ius sanguinis”. Il parlamento

scelse quest'ultimo criterio precludendo così i diritti di centinaia di persone che

vivevano nel paese da quando erano nate. Sulla base dello “ius sanguinis” infatti si

stabilì che si poteva concedere la cittadinanza a tutti coloro che discendessero da

individui residenti in Estonia prima della seconda guerra mondiale. La decisione, che fu

presa in un clima di tensione per tutelare l’indipendenza del paese e per difendere

l’identità e la lingua estone, ebbe come base legale e ideologica la continuazione “de

jure” dello stato estone prima dell’occupazione sovietica del 1940. Conseguentemente,

tutti gli immigranti arrivati fino alla “restaurata” indipendenza del 1991 furono

considerati illegali e non poterono ottenere nessun diritto di cittadinanza. Il parlamento

estone restaurò molte delle leggi del 1938, enfatizzando la continuità legale con la

repubblica estone prima della guerra.

La legge sulla cittadinanza, che nel febbraio del 1992 sulla base di una idea di

“continuità legale” con la Repubblica estone precedente alla guerra reintroduceva la

normativa vigente nel 1938, prevedeva che solo chi era cittadino estone prima

dell'occupazione sovietica del 1940 potesse essere automaticamente riconosciuto

cittadino estone, lasciando fuori dal proprio campo di applicazione i discendenti non

diretti e rendendo di fatto apolide un terzo della popolazione dell'epoca. Si stabilì anche

che la cittadinanza estone potesse acquisirsi per naturalizzazione ma a tal fine vennero

posti come necessari 5 requisiti legali213

:

avere vissuto per un minimo di 5 prima della data di applicazione della legge in

Estonia;

avere una buona conoscenza della lingua estone da verificare con apposito

esame di stato;

conoscere la costituzione estone e le sue leggi sulla cittadinanza;

possedere un reddito fisso e legale per vivere;

e infine giurare fedeltà allo stato estone e alle sue leggi.

213 AA VV, “Transation in the Baltic States”, University of Aarhus, 1999b, p. 211

160

Un emendamento adottato nel dicembre 1998 riconobbe successivamente il diritto

alla naturalizzazione anche per i bambini nati nel paese dopo l'indipendenza del 1991 da

genitori di origine russa dopo l’indipendenza del 1991 soprattutto sulla spinta del

Consiglio d'Europa che premeva affinché venisse perlomeno prevenuta e affrontata

l'apolidia infantile. Molti russi, considerarono queste leggi umilianti e trovarono molte

difficoltà nel passare l’esame di stato non riuscendo a imparare l’estone.

Attualmente solo una piccola parte di loro ha ottenuto, in questo modo, la

cittadinanza estone214

mentre la rimanente parte della minoranza vive in Estonia priva di

una qualunque base legale e senza poter usufruire dei diritti civili.

La legge sulla lingua del 1989, stabilì che solo l’estone è la lingua ufficiale del

paese e tutte le altre lingue sono considerate lingue straniere. La minoranza russa perciò

non ebbe nessuna possibilità legale di utilizzare la propria lingua di origine, anche nelle

zone del paese a maggioranza russa e considerato che l’esame di stato per verificare la

conoscenza della lingua rimase alla base per ottenere la cittadinanza e di conseguenza

per mantenere od ottenere un lavoro le condizioni dei russofoni divennero piuttosto

complesse. Emblematico fu il caso del 1999 in cui 300 poliziotti di origine russa persero

il proprio posto di lavoro perché non riuscirono a passare l’esame di lingua estone215

.

Anche le leggi elettorali estoni discriminano la minoranza russa perché solo chi ha

ottenuto la cittadinanza, solo cioè una piccola parte di non estoni, può votare o essere

eletto nel parlamento. Tuttavia, la legge stabilisce che per le elezioni locali anche i non

cittadini residenti possano votare, producendo così come risultato la presenza di un

buon numero di rappresentanti della minoranza russa nelle assemblee locali. A Tallin,

ad esempio nelle elezioni del 1993 e del 1996, la minoranza russa riuscì ad avere un

terzo dei suoi rappresentanti all’interno dell’assemblea locale. Una nuova legge

elettorale del 1999 ha però ostacolato ancora una volta la minoranza russa impedendo di

candidarsi a chiunque non parli fluentemente l’estone, interferendo di conseguenza nella

scelta dei candidati.

Il problema della lingua rimane perciò la chiave di tutto il processo di

integrazione, considerato per di più che imparare l’estone e superare l’esame di stato

non è un’impresa molto facile. L’estone è un linguaggio di origine finno-ungherese,

completamente diverso dal russo e con un sistema grammaticale molto complesso,

difficile da imparare senza un regolare corso di studi scolastico così come senza avere

quotidiani rapporti con chi parla questa lingua, rapporti che sono pressoché inesistenti

vivendo i due gruppi quasi del tutto separati. In Estonia, poi, è sempre più necessario

conoscere l’inglese e il tedesco a causa dei numerosi rapporti commerciali del paese con

l’estero, e la minoranza russa, ancora alle prese con l’estone, si trova svantaggiata ed

esclusa dai principali e più redditizi posti di lavoro del paese che richiedono la

conoscenza di queste due lingue. Dopo l’indipendenza, insomma, i russi persero

214 Taagepera R.,“Estonia, return to indipendence”, Oxford, Westview Press (1993) p.114215 Andersen E.A., “An etnically devided society wads promoted by privatisation in Estonia”

Copenaghen, Conflict and Peace Research Institute (2000) p.118

161

completamente qualsiasi tipo di vantaggio non soltanto sociale ma anche economico a

causa oltre che delle leggi su cittadinanza e lingua soprattutto delle leggi sulle

privatizzazioni che da una lato ridistribuirono solo agli estoni tutti gli edifici e le terre

confiscate durante il periodo sovietico e dall'altro lato li favorirono nella creazione di

nuovi posti di lavoro, provocando in capo alla minoranza russofona una sostanziale

perdita di occupazione.

La conseguenza più controversa che si ebbe dalla legge sulla cittadinanza del

1992 pertanto fu che sebbene presentata con un linguaggio etnicamente neutro,

influenzò notevolmente la minoranza di lingua russa che era emigrata in Estonia durante

il periodo sovietico. A livello formale i diritti sociali di cui beneficiavano i componenti

della minoranza non erano sostanzialmente diversi da quelli dei cittadini estoni che ne

avevano soltanto due ulteriori ovvero il diritto di voto e di candidarsi alle elezioni

parlamentari così come quello di fare domanda per alcune posizioni legate alla

protezione dell'interesse pubblico216

ma a livello sostanziale la situazione era del tutto

sbilanciata. Eppure la politica di cittadinanza così attuata non portò ad una significativa

mobilitazione etnica come invece ci si sarebbe aspettati, ma anzi nel tempo i russofoni

presero in considerazione altre alternative come la scelta della cittadinanza russa pur

rimanendo per l'Estonia apolidi non-cittadini.

Nel 1995 venne adottata una nuova legge di cittadinanza che definiva innanzitutto

nuovi criteri da soddisfare affinché la domanda potesse essere presentata e ulteriori

requisiti aggiuntivi perché vi fosse conseguente conferimento della cittadinanza.

Occorreva che la persona fosse stata residente in Estonia prima del 1 luglio 1990 o in

possesso di permesso di residenza permanente di lungo periodo al momento della

presentazione della richiesta. Soddisfatto uno di questi due requisiti, perché l'esito della

domanda fosse positivo occorreva:

• avere elevata padronanza della lingua estone;

• avere almeno 15 anni di età;

• aver vissuto in Estonia sulla base di un permesso di soggiorno per almeno otto

anni di cui almeno cinque anni in modo permanente;

• avere una conoscenza della costituzione estone e della legge sulla cittadinanza;

• avere un reddito legale permanente sufficiente per mantenere sé e i propri

dipendenti;

• avere una residenza anagrafica in Estonia;

• essere fedeli allo Stato dell'Estonia;

• prestare giuramento di fedeltà.

Dal 1995 al fine di facilitare i requisiti richiesti per ottenere la cittadinanza in

favore di alcune categorie di non-cittadini la legge sulla cittadinanza è stata modificata

più volte. Nel 2004 per esempio il periodo di attesa per la naturalizzazione è stato

216 Public Service Act, 25 Gennaio 1995, Riigikogu Election Act, 12 giugno 2002

162

diminuito a sei mesi ed è stata prevista una procedura di naturalizzazione semplificata

per le persone con disabilità e, in aggiunta, per i bambini apolidi nati dopo il 1992 da

genitori entrambi apolidi. Secondo l'articolo 13 sezione 4 della legge sulla cittadinanza,

una procedura di naturalizzazione semplificata può essere richiesta anche per i minori di

anni 15 nati in Estonia dopo il 26 febbraio 1992, da parte di entrambi i genitori anche

disgiuntamente eliminando così eventuali ostacoli prodotti dalla separazione di questi,

purché residenti legalmente in Estonia da non meno di cinque anni e che non siano

considerati cittadini da nessun altro stato.

Rispetto ad altri paesi, i requisiti per la naturalizzazione in Estonia possono essere

visti come piuttosto liberali, tuttavia ciò che rende eccezionale la normativa estone è che

al momento in cui entrò in vigore una considerevole parte della popolazione fu lasciata

senza cittadinanza217

. Ovviamente, tale carattere esclusivo della politica estone va

considerato alla luce della elevata diffidenza tra la maggioranza della popolazione di

etnia estone e la minoranza di lingua russa che esisteva al momento della transizione da

stato occupato a stato nuovamente indipendente e che ancora oggi tende a persistere.

Al 31 dicembre 2009, in Estonia 104813 persone erano ancora con una

cittadinanza indeterminata e di questi 2153 erano bambini di età inferiore ai 15 anni in

possesso di permessi di residenza di lungo periodo. Tali cifre sono particolarmente

appariscenti in un paese con una popolazione che non supera il milione e mezzo, e che

ha stabilito procedure per l'acquisto della cittadinanza. L'atto giuridico di base che

disciplina i punti cardinali dello status dei non-cittadini in Estonia è la cosiddetta

“Legge sugli Alieni” adottata nel 1993 e che utilizza il termine alieni per riferirsi sia ai

cittadini di stati stranieri sia alle persone apolidi. La legislazione estone infatti non fa

alcuna distinzione tra queste due categorie di individui, e inoltre estende ai non-cittadini

gli stessi diritti e il libero accesso alla protezione sociale di cui sono titolari i cittadini.

L'apolidia tra i russofoni d'Estonia tuttavia rimane diffusa e soprattutto persistente,

tanto che nell'aprile del 2008 si decise di svolgere uno studio218

sulla etnia russa di

questo paese, studio che offrì quattro spiegazioni al permanere di tale condizione219

.

Queste includono: (1) difficoltà nell'apprendimento della lingua estone e nel

superamento dell'esame di stato che funge da precondizione essenziale all'acquisto della

cittadinanza; (2) avversione emotiva nei confronti della richiesta di cittadinanza sulla

217 Mentre nella prima metà degli anni novanta le domande per la naturalizzazione erano numerose, il

ritmo da allora si è notevolmente rallentato. Nel 1999 la percentuale di cittadini estoni tra la

popolazione era cresciuto all'80% ma nella successiva decade è cresciuto di poco raggiungendo nel

2008 una percentuale del solo 84%. La popolazione attuale di non-cittadini è il 16% di quella totale e

di questo 16% circa la metà sono apolidi mentre la rimanente parte sono cittadini di altri Stati come la

Russia. Guardando ai dati, dal 1992 al 2008 in Estonia quindi circa 150 mila persona sono state

naturalizzate e contemporaneamente altre 100 mila sono divenute cittadini della Federazione Russa. 218 “Integration monitoring 2008” sviluppato congiuntamente dalle università di Tartu e Tallinn sotto

forma di sondaggio in tutto lo Stato. 219 Raivo Vetik, “Statelessness, citizenship and belonging in Estonia” in Statelessness and citizenship –

A comparative study on the benefits of nationality, Brad K. Blitz – Maureen Lynch, Edward Elgar

Publishing 2011, p. 163

163

base del fatto che molti percepiscono come dovuta l'acquisizione in via automatica

all'indomani della restaurata indipendenza; (3) preferenza della cittadinanza russa in

base a migliori opportunità di viaggio e altro; (4) mancanza della cittadinanza estone

non influenza la vita quotidiana di una persona.

I non-cittadini intervistati ai fini dello studio hanno considerato le difficoltà

collegate all'apprendimento della lingua estone come tra le più significative nel percorso

di ottenimento della cittadinanza, menzionando nella loro intervista la questione

linguistica come un fortissimo deterrente per la stessa richiesta alle autorità competenti

e come il motivo principale per il quale ancora oggi molti russofoni sono privi della

cittadinanza estone. Gli ostacoli ravvisati dagli intervistati sono stati la mancanza di

contatti frequenti con gli estoni così come i costi esagerati dei corsi di lingua.

Il secondo gruppo di ragioni è connesso con l'avversione emotiva che deriva dalla

opinione che la politica di cittadinanza della Repubblica estone è ingiusta per sua stessa

natura. Molti intervistati hanno percepito con profonda amarezza la scelta di non

concedere loro in maniera automatica la cittadinanza come è avvenuto per la maggior

parte degli estoni indigeni all'inizio degli anni 90 nonostante siano nati e cresciuti in

Estonia e abbiano vissuto là per tutta la loro vita. La necessità di inoltrare una richiesta è

stata infatti considerata da quasi tutti gli intervistati avvilente, perché nel loro giudizio

lo Stato avrebbe dovuto avere una maggiore cura per i propri residenti e non concedere

privilegi solo ad un gruppo etnico. Spiegando le ragioni dietro l'apolidia dei russofoni in

Estonia peraltro due terzi degli intervistati ha aggiunto che oltre che avvilente e ingiusto

la necessità di inoltrare una domanda per ottenere la cittadinanza attraverso la procedura

di naturalizzazione ha prodotto in loro la sensazione di essere persone di second'ordine

agli occhi da un lato dello stesso Stato e dall'altro degli estoni indigeni. Hanno quindi

percepito l'atteggiamento di differenziazione e discriminazione dell'Estonia come ostile

perdendo interesse nell'appartenenza a questa.

Il terzo gruppo di ragioni per non scegliere la cittadinanza estone è connesso alla

preferenza di quella russa. Secondo i dati raccolti dal monitoraggio dell'integrazione

messo in atto con tale studio, tale ragione è stata menzionata da circa il 70 per cento

degli intervistati220

sebbene fosse facilmente evincibile dal fatto che negli ultimi anni vi

è stata una impennata notevole di richieste per la cittadinanza russa. Le motivazioni

fondanti tale scelta sono state anch'esse analizzate e esplorate dallo studio in questione e

sono schematizzabili come segue:

• inoltrare domanda per la cittadinanza russa è più facile che per quella estone;

• viaggiare verso la Russia è più facile, tenuto conto che molti hanno anche

parenti in territorio russo e il possesso della cittadinanza li esime dalla continua

richiesta di visti;

• l'impatto della rimozione del soldato di bronzo, statua di sovietica memoria dalla

triste posa a capo chino che per cinquant'anni ha rappresentato il “soldato

220 Ibidem, 2011, p.165

164

liberatore” e che il governo estone ricollocò dal centro al cimitero militare di

Tallinn accompagnato da una rivolta in cui un russo è rimasto accoltellato.

Monumento russo per eccellenza, quel soldato di bronzo infatti simboleggiava,

nel bel mezzo della capitale, i diritti della minoranza russa mentre per gli estoni

non era che un perenne memento dell’occupazione sovietica.

Il quarto gruppo di ragioni ha a che fare con l'opinione che non possedere la

cittadinanza estone non influisca in maniera sostanziale sulla vita quotidiana di chi ne è

sprovvisto e pertanto non vale nessuno sforzo per ottenerla. Circa tre quarti degli

intervistati del progetto di monitoraggio alle domande riguardanti se e in che modo non

essere cittadini estoni in Estonia toccasse le loro vite risposero che non percepivano

nessuna esigenza urgente o irrinunciabile perché avendo una buona fonte di reddito ci si

può sentire a proprio agio anche in possesso di un passaporto grigio. Inoltre per i non-

cittadini più anziani, il desiderio di non acquisire la cittadinanza estone è una forma di

autocompiacimento perché sulla base della Legge sugli Alieni possono godere degli alti

livelli di protezione sociale estoni e quindi anche di un sistema pensionistico che

paragonato con quello russo promuove ben maggiori aspettative pur senza negare fino

in fondo la loro identità alla quale data la loro età sono sicuramente più legati.

Da quanto affermato da alcuni partecipanti al sondaggio, l'”Integration Monitoring

Project”, sembrerebbe che rimanere un non-cittadino non abbia un effetto profondo

nelle loro vite e che loro non possano ricevere alcun beneficio dall'acquisire la

cittadinanza estone. In realtà, risultati emersi dallo studio suggeriscono che il possesso

della cittadinanza fa la differenza a prescindere dalla percezione che possiedono della

discriminazione sociale ai loro danni. Si è registrato infatti che sebbene la condizione

socio-economica della popolazione di lingua russa in Estonia sia gradualmente

migliorata così come evidenziato dalla diminuzione del divario tra i salari rispetto agli

estoni indigeni, esistono ancora delle sostanziali differenze sia nei guadagni sia

nell'accesso all'istruzione soprattutto quella superiore, scaturendo ciò in uno svantaggio

nel ricoprire ruoli lavorativi di prestigio.

Occorre però fare una differenza tra i tre gruppi che compongono la popolazione

di lingua russa che vivono in Estonia. I russi che hanno acquisito la cittadinanza estone

tendono ad essere più giovani, meglio istruiti, conoscono estone e altre lingue ad un

livello molto alto e hanno incarichi lavorativi di tutto rispetto. Le persone che hanno

acquisito la cittadinanza russa di contro tendono ad appartenere alla vecchia

generazione, le loro conoscenze della lingua estone sono piuttosto scarne anche in

conseguenza di una istruzione inferiore ma le loro condizioni socio-economiche sono

comunque migliori di chi non possiede alcuna cittadinanza. Ovviamente, sono stati

compiuti notevoli passi avanti verso una sempre maggiore integrazione dei russofoni a

livello strutturale nella società estone ma nel contesto della integrazione nazionale e

dello sviluppo di valori condivisi e della accettazione dei simboli nazionali la tendenza

registrata è quella opposta perché il ricorrere alla naturalizzazione continua a essere

165

considerato ingiusto da chi in quel paese ci ha vissuto per tutta la sua vita e si sente

costretto a una dimostrazione di lealtà che percepisce come del tutto inopportuna.

3 – La risposta internazionale alla politica di cittadinanza estone

Di fronte alla politica di cittadinanza promulgata dall'Estonia la comunità

internazionale non è affatto rimasta silenziosa. L'Unione Europea, il Consiglio d'Europa,

l'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa e l'Organizzazione del

Trattato del Nord Atlantico hanno tutti fornito resoconti su come si stesse comportando

in termini di standard democratici e spinsero affinché il governo operasse in tal senso.

In questa prospettiva, l'organizzazione che risultò più influente fu proprio quella

che a noi qui interessa ossia l'Unione Europea poiché ad essa l'Estonia doveva

dimostrare non soltanto di essere disposta ma anche di essere in grado di conformarsi

agli standard europei221

poiché laddove ciò non fosse avvenuta ne sarebbe stata preclusa

ogni annessione. Sebbene l'Unione Europea fosse nella posizione migliore per fare

pressione nei confronti della Estonia allo scopo di modificare la politica intrapresa in

materia di cittadinanza, essa collaborò al fianco delle altre organizzazioni menzionate.

La Repubblica Estone, sentendo la pressione della comunità internazionale, si

mise per garantire una maggiore democraticità al suo interno ma per quanto riguarda la

tematica della cittadinanza rimase lenta e testarda sulla scorta di quanto detto in

precedenza sia nella precedente che in questa sezione. L'Estonia voleva infatti

ricostruire la propria società in maniera etnicamente omogenea filtrando la minoranza

russa e il modo per raggiungere tale obiettivo era attraverso una politica che escludesse

automaticamente la minoranza dei russofoni dall'acquisto della cittadinanza. Al tempo

stesso però l'Estonia cercava una adesione all'Unione Europea per cui si rese conto che

se avesse continuato in tale direzione non sarebbe mai divenuta uno degli Stati membri.

Le fu chiaro che le opzioni da seguire erano due:

• cambiare le proprie politiche di cittadinanza per placare animo dell'UE;

• fare in modo che la maggioranza continuasse a avere sopravvento sulla

minoranza.

• Alla fine, decise che l'adesione all'UE era più importante che stabilire

democrazie etniche così si attivò perché la propria politica fosse conforme alle

norme comunitarie almeno ad un livello minimo, che significava:

• rendere il processo di naturalizzazione più accessibile per la minoranza russa;

• mantenere sotto controllo la minoranza russa agli occhi della comunità

internazionale;

• accettare coloro che avessero superato con successo la procedura di

naturalizzazione e quindi assimilarli.

Con l'adozione di questi tre approcci, l'Estonia si trasformò a poco a poco da

221 Nida M. Gelazis, “The European Union and the Statelessness Problem in the Baltic States,” European

Journal of Migration and Law, 6, 3, (2004): p.239

166

democrazia etnica a democrazia etno-liberale mantenendo da un lato un predominio

della maggioranza ma fornendo una accessibilità più semplice che soddisfacesse le

richieste dell'Unione Europea. Peraltro, sempre sotto la pressione internazionale,

l'Estonia smise di fare riferimento alla minoranza russa come un gruppo di immigrati

clandestini e cominciò a definirli come residenti di lungo periodo, seppur rifiutandosi di

riconoscerla ufficialmente come minoranza.

Il requisito di dieci anni di residenza originariamente richiesto prima che

qualunque individuo potesse considerarsi candidabile alla richiesta di naturalizzazione,

successivamente venne ridotto della metà. Inoltre a seguito di numerose critiche

internazionali riguardanti l'esame di lingua, l'Estonia ha deciso di creare tre categorie di

livello: principiante, intermedio e avanzato, riducendo infine le spese per l'iscrizione e

rimborsandole del tutto a coloro che avessero superato con successo la procedura di

naturalizzazione.

Nel 1992 cominciò a consegnare ai non-cittadini documenti di viaggio temporanei

che permettevano loro di viaggiare dentro e fuori dallo stato, ma che non li dotavano di

nessuna protezione diplomatica. Protezione che giunse a partire dal 1995 quando ai

documenti di viaggio si sostituirono i passaporti.

Con tali modifiche adottate dall'Estonia, la minoranza russa ha acquisito nel

tempo vari diritti che in una certa misura assomigliano a quelli di cui sono titolari

normalmente i cittadini. Tuttavia il problema non viene risolto, anzi ne viene ritardata la

soluzione perché rendendo “più comoda” la vita di quanti la cittadinanza non la

possiedono si rende meno urgente la necessità che questa venga concessa.

Ciò bastò però per permettere che le richieste dell'Unione Europea fossero

ritenute soddisfatte e che nel 2004 l'Estonia, insieme a Lettonia e Lituania, ne entrasse a

far parte come Stato membro lasciandosi alle spalle venti anni di era post-sovietica

sebbene gli argomenti a giustificazione del perdurare di questa situazione di apolidia

fossero sempre meno convincenti da un punto di vista democratico222

. Non poteva infatti

accettarsi l'argomento in base al quale la minoranza russa mancasse di un adeguato

collegamento con l'Estonia, tenuto conto che scelse di rimanere in questo stato pur

sapendo che sarebbe bastato trasferirsi nella vicina Russia per ottenerne la relativa

cittadinanza, così come l'argomento che la minoranza russa avrebbe potuto in qualche

modo mettere a repentaglio gli obiettivi politici dell'Estonia essendo questa non soltanto

ormai parte integrante dell'Unione Europea ma anche di numerose altre organizzazioni

internazionali come la NATO. La minoranza non avrebbe potuto essere un pericolo

neppure per la cultura o la lingua dell'Estonia, nei confronti della quale peraltro l'UE nel

suo complesso rischia di esercitare un influsso culturale ben più significativo.

A dispetto della palese inadeguatezza delle argomentazioni che erano state poste a

sostegno dell'esclusione della minoranza dalla concessione automatica della

cittadinanza della Repubblica Estone, questa continuò a difendere la propria politica

222 Ibidem, p.239

167

come del tutto in linea con gli standard internazionali affermando non soltanto di essere

assolutamente attiva verso una diminuzione sempre maggiore del numero delle persone

prive di cittadinanza223

ma avendo anche registrato all'indomani dell'adesione all'UE un

incremento delle richieste di naturalizzazione dovuto a una rivalutazione della lingua e

soprattutto alle possibilità che la cittadinanza estone avrebbe permesso, prima fra tutte

l'accesso alla cittadinanza europea con tutto ciò che ne consegue a livello di libertà224

.

In ogni caso, la mancanza di cittadinanza di una notevole parte della popolazione

rimane un problema perenne e che adesso che l'Estonia è uno stato membro dell'Unione

Europea risulta perfino più difficile da risolvere non potendo questa esercitare più

alcuna pressione con minacce di non inclusione. Essendo diventata membro l'Estonia ha

raggiunto il proprio obiettivo finale e pertanto da un punto di vista dei principi

democratici non ha nessuna nuova motivazione a cambiare la propria politica. L'Unione

Europea ha chiaramente commesso un errore critico ammettendola senza prima essersi

assicurata che il problema della cittadinanza fosse risolto in via definitiva225

.

4 – L'accesso nell'Unione Europea e le sue attuali implicazioni

La politica di cittadinanza estone non è più così ostracizzante come lo era quando

lo Stato restaurò la propria indipendenza, perché attraverso le diverse riforme che sono

nel frattempo intervenute si è reso più facile per la minoranza russa soddisfare le

condizioni necessarie per il conferimento della cittadinanza sebbene di fatto non sia

stato sufficiente per eliminarne del tutto il problema. Per poter pienamente partecipare

ai meccanismi democratici di uno Stato, un individuo deve possederne la cittadinanza.

La minoranza russa sta ancora sperimentando gli effetti collaterali della politica

intrapresa dall'Estonia e pertanto di questa ne sta sperimentando anche le difficoltà dal

punto di vista della partecipazione democratica.

Lasciando da parte, tuttavia, i meccanismi democratici interni al paese appare

manifesto come la mancanza di cittadinanza sia anche un problema in termini di

cittadinanza europea. La cittadinanza dell'UE viene infatti conferita in maniera

automatica a coloro che possiedono la cittadinanza di uno degli Stati membri

dell'Unione stessa, e una volta concessa consente alle persone che ne sono titolari di

godere di molti vantaggi e benefici in termini sia di diritti che di libertà226

:

• essere in grado di muoversi liberamente e di soggiornare in qualsiasi paese

dell'UE;

• essere in grado di votare e di essere eletto alle elezioni locali ed europee nel

paese di residenza;

223 Estonia.eu: Official Gateway to Estonia, “Citizenship”224 Ibidem225 Lottmann, Annelies, (2008) “No Direction Home: Nationalism and Statelessness in the Baltics,”

Texas International Law Journal, 43, 3, p. 516226 European Commission, “EU Citizenship,” European Commission website accesso 16 dicembre 2011,

(http://ec.europa.eu/justice/citizen/index_en.htm)

168

• essere in grado di ricevere protezione diplomatica e consolare nei territori al di

fuori dell'UE da qualsiasi paese membro dell'UE;

• essere sotto la protezione dell'Unione europea nei confronti di qualsiasi

discriminazione di genere.

I cittadini della Repubblica estone sono titolari della cittadinanza europea e

pertanto sono in grado di godere dei benefici in via automatica, mentre gli appartenenti

alla minoranza russa che non sono in possesso della cittadinanza estone ne rimangono

esclusi in via formale.

Se consideriamo che l'Unione Europea indica che spetta a ciascuno Stato membro

determinare i modi in cui si può acquisire la cittadinanza nazionale, si potrebbe

sostenere che essendo l'Estonia un membro dell'Unione in quanto tale sarebbe libera di

determinare le proprie politiche di cittadinanza e pertanto la questione della minoranza

russa non dovrebbe rappresentare affatto un problema. Si potrebbe tuttavia argomentare

in senso contrario che poiché alla base della concezione dell'Unione Europea della

cittadinanza in senso assolutamente inclusivo il fatto che vi siano degli Stati che non

abbiano ancora posto rimedio agli impedimenti burocratici e culturali mantenendo

escluse dai meccanismi democratici propri e della stessa Unione un numero ingente di

persone sia una violazione grave di uno dei principi fondamentali dell'UE.

L'Estonia, rientrando in tale categoria di paesi, viene pertanto meno e anche in

maniera piuttosto lampante agli occhi della comunità internazionale ai doveri che le

derivano dalla condizionalità europea.

A prescindere dalla situazione attuale, tuttavia, il fatto che l'Estonia non sia stata

in grado di risolvere il proprio problema di cittadinanza prima dell'adesione pone per

l'Unione Europea un'altra questione che può essere spiegata esaminando quelle che

esplicitamente sono state riconosciute in via generale come le condizioni essenziali per

tutti quegli Stati che desiderassero diventare membri dell'Unione, potendo questa poi

per ciascun potenziale aderente porre condizioni ulteriori.

Le condizioni per l'adesione che devono essere soddisfatte perché uno Stato

candidato sia ammesso a far parte dell'Unione sono state poste ovviamente nel tempo

ma di recente ufficializzate nel 1993 in occasione del Consiglio europeo tenutosi a

Copenaghen da cui presero il nome venendo soprannominate appunto come “Criteri di

Copenaghen per l'adesione”. Essi indicano che uno Stato candidato debba avere

“istituzioni stabili che garantiscano la democrazia, lo stato di diritto, i diritti umani

nonché il rispetto e la protezione delle minoranze227

”. Nel 1995 il Consiglio europeo

riunitosi a Madrid ha ulteriormente specificato i criteri di Copenaghen indicando che

uno Stato candidato debba avere la capacità di rendere efficaci al proprio interno le

regole e le procedure promulgate a livello europeo e che: "Mentre è importante per la

legislazione europea che questa sia recepita nella legislazione nazionale, è ancora più

importante per la legislazione da attuare che siano predisposte adeguate strutture

227 Ibidem

169

amministrative e giudiziarie per far sì che la sua implementazione sia non solo efficace

ma anche efficiente.”. Ciò significa che le politiche che gli Stati adottano per

conformarsi alle norme UE debbano avere un riscontro pratico e concreto perché i

criteri di Copenaghen possano dirsi rispettati e soddisfatti.

Ovviamente, la Commissione europea osserva i vari paesi candidati e produce

relazioni sui loro progressi attraverso rapporti annuali che hanno appunto lo scopo di

informare sia chi all'interno dell'UE deve decidere in merito all'adesione o meno sia gli

stessi paesi candidati i quali resi edotti dei risultati raggiunti e dei progressi compiuti

possono laddove necessario raddrizzare il tiro delle proprie politiche. Fino al 2003 le

relazioni prodotte dalla Commissione hanno sempre attirato l'attenzione sul fatto che

l'Estonia, così come del resto la compagna repubblica di Lettonia, avrebbe dovuto

prendere una maggiore iniziativa per risolvere il problema della cittadinanza228

mentre

nella relazione del 2003 che fu l'ultima prima della annessione alla Unione Europea, la

Commissione fece solo un breve accenno alla questione della minoranza russa apolide

menzionandolo semplicemente come un problema di integrazione il cui processo andava

accelerato con un incoraggiamento generale.

Ora, sebbene l'Estonia non stesse in alcun modo abusando della minoranza russa,

non si può negare che al momento della adesione non avesse ancora rimediato a dispetto

delle riforme intraprese e dei meccanismi approntati per aiutare la minoranza ad

acquisire la cittadinanza. Essa rappresenta quindi un dilemma per l'UE perché essendo

divenuta membro senza il pieno rispetto dei criteri di Copenaghen, si è implicitamente

indicato che questi in una certa misura possano anche essere ignorati.

Ovviamente questo rappresenta una forte discrepanza tra ciò che l'UE afferma

esplicitamente coi criteri di adesione e ciò che implicitamente si evince dalle sue azioni.

All'Estonia era stato tecnicamente richiesto di dimostrare di aver risolto i suoi deficit in

campo democratico e in particolare la questione della minoranza apolide, ma l'Unione

Europea ha poi di fatto deciso che gli sforzi semi-riusciti di essa fossero “abbastanza

buoni” per la sua ammissione all'interno del panorama politico-governativo dell'Unione.

In questo modo, a dispetto della sua natura di organismo sovranazionale con capacità di

assimilazione e perseguimento di una maggiore integrazione, l'Unione Europea non ha

semplicemente dimostrato un approccio morbido di fronte al più interessante obiettivo

dell'integrazione economica ma in maniera neanche troppo velata di disinteressarsi dei

diritti dei quali al momento della sua costituzione aveva fatto il proprio manifesto.

5 – Osservazioni conclusive

Dopo l'indipendenza, l'Estonia cercò di ristabilire rapidamente uno Stato

monolinguistico come quello che esisteva prima dell'occupazione sovietica del 1940

perché obiettivo primario per gli estoni era riaffermare in tal modo la sovranità e la

228 European Commission, “2002 Regular Report on Estonia's Progress Towards Accession” pp.19-20,

European Commission Enlargement Archives website, accesso 16 dicembre 2011

(http://ec.europa.eu/enlargement/archives/pdf/key_documents/2002/ee_en.pdf)

170

dimensione culturale che sentivano di aver perso nel corso del lungo periodo

d'occupazione. La forzata russificazione del paese, infatti, aveva portato l'identità e la

lingua estoni pericolosamente vicine all'estinzione229

.

Per gli estoni il loro paese era il solo e unico angolo del pianeta in cui la loro

lingua e la loro cultura potessero sopravvivere, per cui non sorprende affatto se dopo

l'indipendenza abbiano desiderato di imporne il monopolio sul territorio della

“restaurata” repubblica.

Per gli immigrati sovietici, al contrario, l'Estonia era una colonia dell'URSS dove

conservare e mantenere la lingua e l'identità russa, oltre che in cui poter vivere senza il

bisogno di integrarsi e adattarsi alla realtà locale. Molti di essi, una volta arrivati in

Estonia ormai in età matura, avevano trovato diverse difficoltà nell'apprendere l'estone e

di conseguenza considerarono più facile mantenere la propria lingua senza sentire

l'esigenza di integrarsi nella società estone. Ovviamente, non appena questi equilibri

mutarono, i russi si ritrovarono improvvisamente in un paese che non era più di loro

pertinenza perdendo tutti i privilegi fino a quel momento goduti.

Nacque il grave problema di far coincidere il bisogno russo di adattarsi alla nuova

realtà con il bisogno estone di sentirsi finalmente in uno Stato nazionale, indipendente e

autonomo da qualunque influenza sovietica.

Nello stesso periodo, nel 1991, tensioni etniche in Iugoslavia tra croati e

minoranza serba locale provocarono una cruenta guerra fratricida scatenando tutta una

serie di riflessioni perché in considerazione di quanto stava accadendo nei Balcani gli

estoni e la minoranza russa capirono di trovarsi in una condizione pericolosa e di dover

cercare la strada migliore per risolvere il problema della convivenza reciproca.

Entrambe le comunità evitarono di rifugiarsi in posizioni estremistiche che avrebbero

potuto portare a una guerra civile ma in ogni caso il grosso vantaggio per l'Estonia, a

differenza che per la Iugoslavia, era che la questione si poneva in termini di lingua e

non di razza o religione, malgrado alcuni estoni e russi avessero manifestato in passato

una certa intolleranza etnica nei confronti dell'altra comunità.

La Repubblica estone è un paese diviso in due comunità linguistiche che parlano

due idiomi completamente diversi tra loro, pertanto la lingua come già accennato finisce

per essere la chiave di tutto, fungendo peraltro da precondizione essenziale per la

minoranza russofona all'ottenimento della cittadinanza estone. Un possibile esempio da

imitare per affrontare tale realtà di fatto potrebbe essere il modello pacifico della vicina

Finlandia che da oltre cento anni ha elaborato un accordo di convivenza pacifica con la

minoranza svedese che vive all'interno del paese230

. In questo paese oggi esiste un

bilinguismo perfetto nelle zone in cui vive la minoranza svedese e nel corso degli anni

la situazione è migliorata notevolmente per tutta la società finnica, grazie soprattutto

alla legislazione con la quale si sono elaborati diritti a protezione della lingua e della

229 Toivo G., “Estonia and Estonians” New York, Longman Inc., 1992, p. 314230 Andersen E.A., “An ethnic prospective on economic reform, the case of Estonia” Copenaghen,

Rasmus & Knut, 1998, p.233

171

comunità svedese in Finlandia in un contesto di amministrazione decentralizzata.

Nei primi mesi del 1990, il governo estone aveva considerato la possibilità di

adottare il modello finnico ma si trovò di fronte a sostanziali e differenti problemi. Se

infatti la minoranza svedese rappresentava solo il 6 per cento della popolazione e aveva

origini molto antiche, quella russofona in Estonia era invece il frutto di una

immigrazione selvaggia arrivata a toccare anche il 30 per cento del totale della

popolazione del paese. Su tali dati, il modello finnico risultava inadeguato, considerato

peraltro che la maggior parte degli estoni si è sempre dimostrata contraria a una forma

di bilinguismo nazionale così come buona parte della minoranza russa memore dei

privilegi dei tempi della precedente occupazione sovietica.

Nel 1991 il problema si acuì particolarmente sul diritto alla cittadinanza quando

entrambe le comunità si radicalizzarono su posizioni estreme. I gruppi radicali estoni

attaccarono violentemente le opinioni moderate del governo di Savisaar, il quale

auspicava di concedere la cittadinanza a tutte le persone di origine russa che risiedessero

in Estonia dal 1940 fino alle elezioni del 1992, obiettando che la minoranza russa

avrebbe ottenuto gli stessi diritti degli estoni dopo aver occupato con la forza il paese e

averli privati di diritti e libertà. Non tutti gli estoni presero tuttavia posizioni così

estreme. Una parte di loro infatti desiderava una soluzione equa e pacifica che seguisse

la tradizione estone di tolleranza per le autonomie culturali tipica del periodo

antecedente alla invasione sovietica. I radicali estoni erano favorevoli a concedere una

specie di green card sul modello americano: un permesso di soggiorno che permettesse

ad una persona straniera di lavorare senza però la possibilità di essere cittadini e quindi

godere dei diritti di voto231

. Ciò in quanto la maggior parte degli estoni si domandava

come potessero essere cittadini estoni e integrarsi nella società non conoscendone la

lingua e non condividendone la cultura. La situazione più semplice per i radicali estoni

era che la minoranza russa lasciasse il paese come avevano fatto i coloni francesi in

Algeria dopo l’indipendenza dello stato nord africano. Tuttavia, la situazione politica ed

economica della Russia di Eltsin non era la stessa di quella della Francia di De Gaulle,

perché dopo il disfacimento improvviso dell'URSS la prima soffriva di una grave crisi e

di una insicurezza tali che non poteva accettare profughi provenienti dalle ex

repubbliche sovietiche. Il disegno di legge discusso alla fine del 1991 seguì pertanto i

principi di quello del 1925 che permetteva l'uso della lingua minoritaria in aree del

paese dove la minoranza etnico-linguistica prevaleva, sebbene la stessa legge

affermasse che una minoranza etnica può considerarsi tale solo se i suoi membri sono

riconosciuti come cittadini estoni. La legge estone sulla cittadinanza non permetteva

però alla maggior parte dei russi, che non conosceva l’estone, di diventare cittadini.

Dal 1995 grazie anche alle pressione politiche da parte dell'Unione Europea e

anche parzialmente della NATO si manifestarono alcuni cambiamenti nella politica

231 A giustificazione di tale proposta, i radicali estoni presero l'esempio della Polonia che dopo la seconda

guerra mondiale non aveva dato la cittadinanza ai coloni tedeschi mandati nella zona di Poznan dalla

Germania nazista.

172

nazionale estone. Fu perfino creato un ministero per le relazioni inter-etniche e notevoli

fondi da parte della UE e dell'UNEP, l'agenzia delle Nazioni Unite per lo sviluppo,

furono investiti con lo scopo di aiutare le parti più economicamente depresse della

minoranza russa.

Nel 1998 un contributo positivo per risolvere il problema fu apportato dalla

Russia che riconobbe in capo all'Estonia, con un accordo bilaterale, lo status di M.F.N

ossia Most Favoured Nation, un titolo che favoriva i rapporti economici con la

Federazione attraverso la diminuzione delle tariffe doganali russe dei prodotti estoni e

che quindi usava un vantaggio fiscale come moneta di scambio per il miglioramento

delle condizioni degli ex cittadini sovietici, spingendo la Repubblica Estone a

riconsiderare la propria politica di cittadinanza in una direzione maggiormente inclusiva

e meno restrittiva dal punto di vista linguistico.

Il governo estone se da un lato cerca di temporeggiare creando palliativi in modo

da non innervosire troppo la Russia, dal lato opposto non ha un vero interesse a trovare

una soluzione definitiva perché saldamente convinta della strada intrapresa all'indomani

della dichiarazione di indipendenza. La Russia, tuttavia, guarda a tale situazione con

sempre maggiore tensione a questa situazione considerandola discriminatoria e

inaccettabile lasciando trapelare la minaccia di sanzioni sia politiche che economiche

laddove l'atteggiamento nei confronti della minoranza russa non virasse affatto.

A dispetto del lento progresso verso l'integrazione e del miglioramento delle

relazioni bilaterali, se la situazione dovesse degenerare la Russia potrebbe intervenire

con la propria forza militare destabilizzando l'intera area baltica. Questo scenario

pessimistico dipende principalmente da due fattori: il primo interno legato alla

integrazione dei russofoni in Estonia e il secondo esterno legato a quanto la Russia

tollererà ancora il perdurare di tale condizione. In proposito il vertice di Pratica di Mare

tenutosi nel maggio 2002 con il Consiglio NATO-RUSSIA è un fatto sicuramente

importante perché l'Estonia fa parte di quei paesi che si sono avvantaggiati della

possibilità di adesione sia nella Nato sia nell'Unione Europea.

L'Estonia potrebbe a questo punto difendersi ribattendo di aver fatto già molto per

la minoranza estendendole i diritti socio-economici spettanti ai cittadini estoni e

facilitando la procedura di naturalizzazione per quanto riguarda l'esame di lingua

suddiviso ad ogni in tre differenti livelli di difficoltà, per cui potrebbe promettere di fare

di più senza tuttavia pianificare un preciso piano di azione. Molto naturalmente

dipenderà dalle pressioni che subirà dall'interno adesso che è uno Stato membro a tutti

gli effetti sia dell'Unione Europea che dell'Organizzazione del Trattato del Nord

Atlantico. Inoltre, considerato che chiave di tutto rimane il problema linguistico nel

processo di integrazione, una delle pressioni che ci si aspetterebbe da queste

organizzazioni per arrivare ad una soluzione sarebbe la proposta di rendere il russo la

seconda lingua ufficiale dell'Estonia, così come lo svedese in Finlandia.

Perché una tale proposta possa essere accettata senza particolari grane a livello

173

sociale, gli estoni dovrebbero sentirsi più sicuri della propria identità e della propria

sovranità nazionale. L'allargamento europeo ha già creato un clima di stabilità e il

crescere delle nuove generazioni di russi più vicini alla cultura estone potrà sicuramente

dissipare ulteriori timori e rancori ma chiaramente i tempi affinché possa ottenersi una

convivenza pacifica e integrata non sono affatto brevi.

Comprensibilmente, il processo d’integrazione della minoranza russa in Estonia

non riguarda solamente gli estoni, ma anche la minoranza russa che deve collaborare.

Gli estoni devono accettare la presenza degli ex “occupanti” sovietici e la minoranza

russa deve mostrare più rispetto e più considerazione verso l’identità e la storia estone e

capire che non si trova più in una situazione di vantaggio come ai tempi dell’impero

sovietico. Deve anche capire che la principale lingua nazionale ora non è più il russo,

ma l’estone, e che di conseguenza è necessario impegnarsi per conoscere anche questa

lingua. Il governo estone, dal canto suo, non sta facendo molto per attuare nel prossimo

futuro il modello finnico, in quanto desidera, tacitamente, un’assimilazione radicale dei

russi nella società e nella identità estone. Il processo di integrazione sarà probabilmente

lungo; ci sono voluti più di cinque anni perché i russi ottenessero dal governo estone,

dopo l’indipendenza del 1991, solo un temporaneo permesso di soggiorno, ed è difficile

immaginare, nell'attuale situazione, che il problema possa adesso risolversi

velocemente. Del resto, se la chiave dell’integrazione della minoranza russa nella

società estone rimane la necessità di conoscere la lingua estone e di ottenere di

conseguenza la cittadinanza, quando o se, questa condizione sarà risolta, altri,

importanti problemi verranno risolti automaticamente, come lo stesso riconoscimento

della minoranza russa in quanto minoranza e conseguentemente per espressa previsione

della legislazione sulle minoranze etniche anche il diritto di usare il proprio idioma là

dove la minoranza costituisce la maggioranza.

Ripensando allo slogan utilizzato dal movimento della Giovane Estonia, questa

repubblica potrà finalmente affermare di essere un paese di stampo occidentale solo

quando si assumerà tutte le responsabilità nella risoluzione di un problema che mina da

troppo tempo ormai la propria stabilità politica e sociale, trovando quella coesione che

nessuna pressione esterna può partorire ma che deve appunto nascere dall'interno,

attraverso il raggiungimento di uno sviluppo democratico che valga tutte le difficoltà

affrontate.

174

“Il mio desiderio è quello di essere un cittadino del mondo,

di essere un concittadino di tutti gli uomini - un pellegrino, meglio ancora.”

Erasmo da Rotterdam, lettera a Ulrico Zwingli, 1522

Conclusioni

È un fatto familiare e inconfutabile che il mondo in cui viviamo oggi sia

contrassegnato da divisioni. Posti di frontiera, pattuglie di frontiera e perfino schemi

elaborati stabiliscono le linee di demarcazione tra il territorio di uno Stato e l'altro. È

una realtà che non può semplicemente essere ignorata o messa da parte, e nella quale

l'apolidia appare come la conseguenza evidente dell'esserci noi stessi organizzati in

comunità di Stati il cui distintivo di appartenenza è appunto la cittadinanza. Ciò in

quanto dove c'è inclusione là c'è anche esclusione e con la possibilità dell'esclusione da

uno Stato conseguentemente la possibilità dell'esclusione da ogni Stato.

“La cittadinanza è derivata dalla divisione del mondo in Stati la quale riflette una

realtà in cui le diverse società umane sono posizionate una accanto all'altra. In questa

realtà, non è possibile che tutti siano stranieri tra loro o tutti membri di una società

singola. Nella realtà di esistenza degli Stati, esiste una divisione tra cittadini che sono

membri di uno Stato e stranieri che cittadini invece non lo sono232”.

Le partizioni quindi si sono create soprattutto tra le persone che devono essere

collegate ad uno Stato o all'altro attraverso il legame giuridico di appartenenza della

nazionalità. Queste divisioni, tuttavia, non sono a tenuta stagna. Così come può esserci

una striscia occasionale di terra che non appartiene a nessuno Stato, allo stesso modo ci

sono individui che non sono reclamati da nessuno Stato. Tali soggetti sono gli apolidi

del mondo, variamente descritti come reietti, fantasmi legali, non-persone, in

riconoscimento della loro posizione precaria di outsider in questo mondo moderno tanto

ben ordinato, e la loro anomala situazione è stata l'oggetto che, spero in maniera

adeguata, ha caratterizzato l'elaborazione di questa mia tesi.

Nei capitoli iniziali è apparso subito evidente che la questione della apolidia non è

né una questione teorica né una questione insignificante, poiché si tratta di un vero e

proprio problema che affligge ben 15 milioni di persone in tutto il mondo. Esso deriva

da una grande varietà di cause e non lascia nessuna regione incontaminata. Spesso si

dimostra addirittura come un problema altamente persistente con individui che

rimangono anni, decenni o perfino tutta la loro vita in questo limbo legale. Per non

parlare del fatto che l'apolidia può anche auto-perpetuarsi, trasmettendosi

232 Yaffa Zilberschafts, “Chapter 3 – The horizontal aspect of citizenship” in The human right tocitizenship, Transnational Publishers Inc., NY:2002, pag.71

175

impotentemente da una generazione a quella successiva. Una breve lettura dei rapporti

sulle popolazioni senza stato è difatti sufficiente a rivelare come sebbene l'impatto che

la mancanza di una nazionalità esercita sulla vita di questi individui possa variare

sensibilmente da un luogo a un altro ciononostante il quadro generale è sinceramente

preoccupante. L'apolidia difatti altera la capacità di una persona di godere di una vasta

gamma di diritti sia nella sfera pubblica che soprattutto in quella privata. L'insicurezza

individuale e la situazione di emarginazione che ne deriva e che ciascun apolide vive

può peraltro avere un drammatico effetto a catena sia sulla famiglia del singolo

individuo sia sulla comunità più ampia, tenuto conto che può divenire fattore

significativo di contribuzione al trasferimento forzato, a fenomeni di instabilità interna o

internazionale e addirittura conflitti violenti.

Obiettivo primario prefissatomi è stato mostrare che al volgere di questo nuovo

millennio, ormai iniziato da qualche anno, una comprensione profonda della gravità e

delle potenziali implicazioni dell'apolidia, così come l'emergere di alcuni nuovi casi di

apolidi, ha spinto la comunità internazionale a rinnovare i suoi tentativi di lotta contro il

problema che aveva catturato l'attenzione di tutti poco più di mezzo secolo prima. Alla

conclusione della seconda guerra mondiale infatti la scia della crisi umanitaria che ne

era scaturita appariva evidente, e con essa si era percepita forte la sfida impostasi nel

salvaguardare il gran numero di persone che erano state in un modo o in un altro

sradicate e alle quali pertanto serviva protezione. Una serie di studi e dibattiti portarono

all'adozione di tre strumenti giuridici indipendenti tra loro ma fondamentali per

rispondere al problema dei “non protetti”: la Convenzione del 1951 relativa allo status

dei rifugiati, la Convenzione del 1954 relativa allo status degli apolidi e la Convenzione

del 1961 sulla riduzione dei casi di apolidia. Come osservato nel capitolo dedicato

all'analisi degli strumenti internazionali in materia, la prima guadagnò subito un largo

consenso e ad oggi rappresenta la pietra angolare della protezione internazionale dei

rifugiati, mentre le due Convenzioni sull'apolidia subirono un lungo periodo di

abbandono fino a che nel 1990 non si riaccese l'interesse per la questione. Erano,

sennonché, trascorsi decenni dalla adozione delle convenzioni e la comunità

internazionale aveva nel frattempo realizzato nuove intuizioni sollevando diversi dubbi

circa il fatto che le convenzioni fossero o meno una risposta adeguata al fenomeno,

anche e soprattutto sulla base della consapevolezza tutta nuova che l'impostazione

giuridica generale della comunità internazionale aveva raggiunto per via dell'avvento e

dello sviluppo dei diritti umani. Emersero le lacune del quadro fondamentale di

riferimento e con esse la domanda circa un possibile miglioramento del Diritto

Internazionale, e di riflesso di quello nazionale, in modo da garantire una protezione che

fosse ottimale sia della persona che dei suoi diritti. Sull'onda di tale quesito,

riconoscendo comunque un merito alle convenzioni relative all'apolidia, mi è parso

opportuno elencare tutta una serie di motivi per i quali queste andrebbero in ogni caso

ratificate e implementate da tutti gli Stati, a prescindere dai miglioramenti ancora

176

possibili per una eliminazione definitiva del fenomeno in oggetto.

L'approccio che esse adottano vuole che prevenzione e protezione siano

considerate separatamente, per cui mantenendo tale distinzione dopo aver analizzato le

norme a tutela degli apolidi, ho delineato alcuni suggerimenti per i governi nazionali ai

fini della determinazione di procedure da approntare appositamente per il

riconoscimento dello status di apolide cui far dipendere diritti e libertà fondamentali

garantiti convenzionalmente oltre che di una riforma a livello interno che aiuti tali

soggetti nella direzione della naturalizzazione e pertanto della assimilazione.

Per chiarezza d'esposizione, al fine di valutare il quadro giuridico internazionale e

il modo in cui le legislazioni nazionali sulla cittadinanza dovrebbero essere costruite

affinché il fenomeno possa essere evitato nonché addirittura eliminato, apposito capitolo

è stato dedicato alla stesura delle cause, tecniche e non, che portano al verificarsi

dell'apolidia senza peraltro dimenticare menzione anche a quelle cosiddette “nuove”,

così chiamate perché riconosciute in un momento successivo alla redazione della

Convenzione ONU del 1961 ossia lo strumento intitolato in particolare alla prevenzione

e dal quale si può facilmente concludere che oggi al Diritto Internazionale basterebbero

fondamentalmente due norme: una sulla prevenzione dell'apolidia alla nascita – che per

esempio imponga il principio dello ius soli – e una sul divieto di denazionalizzazione a

meno di acquisto doveroso di altra cittadinanza. Entrambi i principi che si ritrovano

riflessi anche in numerosi strumenti aventi ad oggetto i diritti umani, nella Convenzione

ONU del 1961 sulla riduzione dei casi di apolidia si articolano in una serie di

disposizioni intricate in base alle quali lo Stato è responsabile del conferimento della

cittadinanza e deve, in presenza di certe circostanze, astenersi dal ritirare la cittadinanza

già concessa. Tale convenzione, tuttavia, si dimentica di affrontare questioni che nella

lotta all'apolidia risultano fondamentali e che, di contro, si riscontrano nel sistema dei

diritti umani dove con i suoi seppur variegati strumenti si afferma con forza che il diritto

alla cittadinanza è i l diritto tra i diritti, ruolino di marcia dei diritti della persona e si

offrono standard che basandosi su diversi livelli di attaccamento al territorio affrontano

il problema in maniera più ampia, avvantaggiando la strada verso una loro piena,

corretta e armonizzata applicazione.

Ovviamente, insieme alle lacune, rimangono aperte alcune sfide.

Inequivocabilmente, come emerso dalla trattazione, comprendere quale sia il

modo migliore per gestire il nesso tra inclusione ed esclusione sulla base della

cittadinanza, interrogativo cui che è apparso ancor più importante trovare una risposta

proprio nell'ultimo capitolo dell'elaborato perché affrontando la costruzione edificata

legislativamente dalle Repubbliche Baltiche all'indomani della loro restaurata

indipendenza e della recente adesione all'Unione Europea si è palesato come sia

estremamente facile generare apolidia in un processo di ricostruzione storico-politica.

La cittadinanza ha infatti, come visto nel primo capitolo, la funzione fondamentale di

fornire una casa in cui si ha diritto inconfutabile di soggiorno. Da un lato questo

177

implica che gli apolidi non possiedono quel diritto indiscusso di vivere da qualche parte,

traducendosi ciò in problemi come la separazione familiare, la mancanza di accesso a

diritti e servizi e in alcuni casi perfino la detenzione. Dall'altro lato, l'apolidia si impone

come causa per lo spostamento di enormi flussi di persone che si ritrovano in un circolo

vizioso di immigrazione illegale che ha come risultato la perpetuazione dell'apolidia

stessa. Ho pertanto cercato di sottolineare la necessità e l'urgenza di affrontare il

problema di chi è privo di una qualunque cittadinanza suggerendo l'ampliamento degli

sforzi del Comitato dell'ONU per i diritti umani nella identificazione degli individui in

ciascun paese, anche a prescindere dalla questione della cittadinanza, attraverso la

proposta di un sistema di identificazione internazionale che si avvalga degli attuali

potenti mezzi di comunicazione oltre che della tecnologia ormai diffusa a livello

globale. Insieme a questa, si sono palesati come convenienti tanto una ulteriore

cristallizzazione delle norme relative alla prevenzione dell'apolidia quanto un ulteriore

chiarimento delle garanzie a tutela di chi ne è già affetto e cui occorre pertanto

protezione. L'identificazione degli apolidi e dei soggetti a rischio di apolidia è invero

precursore necessario per l'applicazione delle norme relative alla prevenzione, alla tutela

e in ultima analisi alla risoluzione dei casi esistenti di apolidia, eppure è risultata nel

tempo un'attività decisamente trascurata perché come descritto nel capitolo dedicato alla

redazione delle procedure per il riconoscimento dello status di apolide, gli organismi

chiamati di volta in volta ad accertare la cittadinanza o l'apolidia di un richiedente si

sono avvalsi di modalità allestite ad hoc mancando un tentativo internazionale di

elaborazione di procedure o norme per il futuro o di uso generale. Su tale premessa ho

cercato di delineare dei principi guida cui sarebbe utile conformarsi per colmare le

lacune relative alle procedure che costituiscono pratica attuale nei diversi contesti

nazionali e che potrebbero fungere senza alcun problema come base per lo sviluppo di

uno strumento internazionale supplementare da adeguare al quadro giuridico attuale.

Concludendo, insomma, la ricerca si è snocciolata intorno alla considerazione che

le questioni di cittadinanza se lasciate marcire possono degenerare sia in termini di

sicurezza nazionale e internazionale sia in termini di instabilità, povertà,

discriminazione e disperazione, e che sebbene un intervento internazionale vi sia già

stato così come mostrato dai numerosi luoghi normativi cui attingere per gestirne gli

effetti, la strada verso una realizzazione efficace del sistema approntato come risposta

appare ancora oggi tortuosa, oltre che poco battuta, per cui fine ultimi dello studio

rimane la spinta verso la scoperta di un approccio che sia soprattutto funzionale.

178

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187

ALLEGATO A

Convenzione ONU sullo status degli apolidi del 1954

Traduzione italiana non ufficiale a cura dell’UNHCR

Preambolo

Le Alte Parti contraenti,

Considerando che la Carta delle Nazioni Unite e la Dichiarazione Universale dei Diritti

dell'Uomo approvata il 10 dicembre 1948 dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite

hanno affermato il principio che gli esseri umani, senza discriminazione, devono godere

dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali,

Considerando che l'Organizzazione delle Nazioni Unite ha più volte manifestato il suo

profondo interessamento per gli apolidi e si è preoccupata di garantire loro, nella

maggiore misura possibile, l'esercizio dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali,

Considerando che unicamente gli apolidi rifugiati possono beneficiare della

Convenzione del 28 luglio 1951 sullo status dei rifugiati e che esistono numerosi apolidi

ai quali detta Convenzione non è applicabile,

Considerando che è auspicabile regolare e migliorare le condizioni degli apolidi

mediante un accordo internazionale,

Hanno convenuto quanto segue:

Capitolo I. Disposizioni generali

Articolo 1. Definizione del termine "apolide"

1. Ai fini della presente Convenzione, il termine "apolide" indica una persona che

nessuno Stato considera come suo cittadino nell'applicazione della sua legislazione.

2. Questa Convenzione non sarà applicabile:

(i) alle persone che beneficiano attualmente di una protezione o di un'assistenza da parte

di un organismo o di un'istituzione delle Nazioni Unite che non sia l'Alto

Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, fin tanto che beneficeranno di detta

protezione o assistenza;

(ii) alle persone considerate dalle autorità competenti del Paese nel quale le stesse hanno

stabilito la loro residenza come aventi i diritti e gli obblighi connessi al possesso della

cittadinanza di questo Paese;

(iii) alle persone delle quali si avranno fondate ragioni per credere:

a) che hanno commesso un crimine contro la pace, un crimine di guerra o un crimine

contro l'umanità, ai sensi degli strumenti internazionali elaborati per prevedere

disposizioni relative a questi crimini;

b) che hanno commesso un crimine grave di diritto comune fuori del Paese di residenza

prima di esservi ammesse;

188

c) che si sono rese colpevoli di atti contrari agli scopi ed ai principi delle Nazioni Unite.

Articolo 2. Obblighi generali

Ogni apolide ha, verso il paese in cui risiede, doveri che includono segnatamente

l'obbligo di conformarsi alle leggi ed ai regolamenti, come pure alle misure prese per il

mantenimento dell'ordine pubblico.

Articolo 3. Divieto delle discriminazioni

Gli Stati Contraenti applicheranno agli apolidi le disposizioni della presente

Convenzione senza discriminazione in quanto alla razza, la religione o al paese

d'origine.

Articolo 4. Religione

Gli Stati Contraenti concedono agli apolidi, sul loro territorio, un trattamento almeno

tanto favorevole quanto quello concesso ai propri cittadini per ciò che concerne la

libertà di praticare la religione e la libertà d'istruzione religiosa dei figli.

Articolo 5. Diritti concessi indipendentemente dalla presente Convenzione

Nessuna disposizione di questa Convenzione pregiudica gli altri diritti e vantaggi

accordati agli apolidi indipendentemente da questa Convenzione.

Articolo 6. La locuzione "nelle stesse circostanze"

Agli effetti della presente Convenzione, la locuzione "nelle stesse circostanze" implica

che tutte le condizioni (segnatamente quelle riguardanti la durata e le premesse per il

soggiorno o la residenza) che l'interessato dovrebbe adempiere per poter esercitare il

diritto in causa, se non fosse un apolide, devono essere adempiute dallo stesso, escluse

le condizioni che per loro natura non possono essere adempiute da un apolide.

Articolo 7. Esenzione dalla condizione della reciprocità

1. Con riserva delle disposizioni più favorevoli previste dalla presente Convenzione,

ogni Stato Contraente deve accordare agli apolidi il trattamento concesso agli stranieri

in genere.

2. Dopo un soggiorno di tre anni, tutti gli apolidi fruiscono, sul territorio degli Stati

Contraenti, dell'esenzione della condizione della reciprocità legislativa.

3. Ciascuno Stato Contraente continua a concedere agli apolidi i diritti ed i vantaggi cui

essi già avevano diritto, indipendentemente dalla reciprocità, alla data d'entrata in vigore

della presente Convenzione per detto Stato.

4. Gli Stati contraenti esaminano con benevolenza la possibilità di concedere agli

apolidi, indipendentemente dalla reciprocità, diritti e vantaggi non compresi tra quelli

cui possono pretendere in virtù dei paragrafi 2 e 3, come pure la possibilità di estendere

189

l'esenzione dalla condizione della reciprocità ad apolidi che non adempiono le

condizioni previste nei paragrafi 2 e 3.

5. Le disposizioni dei paragrafi 2 e 3 del presente articolo sono applicabili tanto ai diritti

ed ai vantaggi previsti negli articoli 13, 18, 19, 21 e 22 della presente Convenzione,

quanto a quelli che non sono previsti nella Convenzione.

Articolo 8. Esenzione da misure straordinarie

Per quanto concerne le misure straordinarie che possono essere prese contro la persona,

i beni o gli interessi dei cittadini o degli ex-cittadini di uno Stato straniero, gli Stati

Contraenti non le applicheranno ad un apolide per il solo fatto di aver posseduto la

cittadinanza dello Stato straniero in questione. Gli Stati Contraenti che, secondo la loro

legislazione, non possono applicare la norma generale prevista nel presente articolo

autorizzano in casi appropriati, esenzioni in favore di tali apolidi.

Articolo 9. Misure provvisorie

Nessuna disposizione della presente Convenzione impedisce ad uno Stato Contraente, in

tempo di guerra o in altre circostanze gravi ed eccezionali, di prendere

provvisoriamente, rispetto a una persona determinata, le misure che detto Stato

considera indispensabili per la sicurezza nazionale, fino al momento in cui lo Stato

Contraente di cui si tratta abbia accertato che tale persona è effettivamente un apolide e

che le misure prese devono essere mantenute nei suoi confronti nell'interesse della

sicurezza nazionale.

Articolo 10. Continuità della residenza

1. Se, durante la Seconda Guerra Mondiale, un apolide è stato deportato e trasferito sul

territorio di uno Stato contraente e vi risiede, la durata di questo soggiorno forzato è

computata come residenza regolare su detto territorio.

2. Se, durante la Seconda Guerra Mondiale, un apolide è stato deportato dal territorio di

uno Stato contraente e vi è ritornato prima dell'entrata in vigore della presente

Convenzione per stabilirvi la sua residenza, il periodo che precede la deportazione e

quello ad essa successivo sono considerati come un solo periodo ininterrotto, per tutti i

casi in cui è richiesta una residenza ininterrotta.

Articolo 11. Gente di mare apolide

Trattandosi di apolidi regolarmente impiegati come membri dell'equipaggio di un

natante che batte bandiera di uno Stato Contraente, questo Stato deve esaminare con

benevolenza la possibilità di autorizzare tali apolidi a stabilirsi sul suo territorio e di

rilasciare loro titoli di viaggio oppure di ammetterli temporaneamente sul suo territorio,

in particolare per agevolare loro la costituzione del domicilio in un altro Paese.

190

Capitolo II. Condizione giuridica

Articolo 12. Statuto personale

1. Lo statuto personale di un apolide è determinato in base alla legge del paese di

domicilio o, in mancanza di un domicilio, in base alla legge del paese di residenza.

2. I diritti precedentemente acquisiti dall'apolide e derivanti dal suo statuto personale, in

particolare quelli risultanti dal matrimonio, saranno rispettati da tutti gli Stati

Contraenti, con riserva, se è il caso, dell'adempimento delle formalità previste dalla

legislazione di ciascuno Stato; tuttavia, deve trattarsi di un diritto che detto Stato

avrebbe riconosciuto quand'anche l'interessato non fosse divenuto un apolide.

Articolo 13. Proprietà mobiliare ed immobiliare

Gli Stati Contraenti concedono a ciascun apolide un trattamento quanto favorevole

possibile e, in ogni caso, un trattamento non meno favorevole di quello concesso, nelle

stesse circostanze, agli stranieri in genere per quanto concerne l'acquisto della proprietà

mobiliare ed immobiliare ed i diritti a ciò relativi, nonché i contratti di locazione e gli

altri contratti concernenti la proprietà mobiliare ed immobiliare.

Articolo 14. Proprietà intellettuale ed industriale

In materia di protezione della proprietà industriale, segnatamente di invenzioni, di

disegni, di modelli, di marchi di fabbrica, di nome commerciale, ed in materia di

protezione della proprietà letteraria, artistica e scientifica, ciascun apolide fruisce, nello

Stato in cui ha la sua residenza abituale, della protezione concessa ai cittadini di detto

paese. Nel territorio di uno qualsiasi degli altri Stati Contraenti, egli fruisce della

protezione concessa in detto territorio ai cittadini dello Stato in cui ha la sua residenza

abituale.

Articolo 15. Diritto d'associazione

Per quanto concerne le associazioni a scopo apolitico e non lucrativo e i sindacati

professionali, gli Stati Contraenti concedono agli apolidi che risiedono regolarmente sul

loro territorio un trattamento quanto favorevole possibile e, in ogni caso, un trattamento

non meno favorevole di quello concesso, nelle stesse circostanze, agli stranieri in

genere.

Articolo 16. Diritto di adire i tribunali

1. Ciascun apolide può adire liberamente i tribunali sul territorio degli Stati Contraenti.

2. Nello Stato Contraente in cui ha la sua residenza abituale, l'apolide fruisce dello

stesso trattamento concesso ai cittadini di detto Stato, per ciò che concerne il diritto di

adire i tribunali, comprese l'assistenza giudiziaria e l'esenzione dalla cautio judicatum

solvi.

191

3. Negli Stati Contraenti in cui non ha la sua residenza abituale, l'apolide fruisce, per

quanto concerne i diritti previsti nel paragrafo 2, dello stesso trattamento concesso ai

cittadini del paese in cui ha la sua residenza abituale.

Capitolo III. Attività lucrativa

Articolo 17. Professioni dipendenti

1. Gli Stati Contraenti concedono agli apolidi residenti regolarmente sul loro territorio

un trattamento quanto favorevole possibile e, in ogni caso, un trattamento non meno

favorevole di quello concesso, nelle stesse circostanze, agli stranieri in genere per ciò

che concerne l'esercizio di una attività professionale dipendente.

2. Gli Stati Contraenti esaminano con benevolenza la possibilità di prendere misure

intese a parificare i diritti degli apolidi a quelli dei loro cittadini per quanto concerne

l'esercizio delle professioni dipendenti, segnatamente se si tratta di apolidi entrati sul

loro territorio in applicazione di un programma di assunzione di mano d'opera oppure di

un piano d'immigrazione.

Articolo 18. Professioni indipendenti

Gli Stati Contraenti concedono agli apolidi che si trovano regolarmente sul loro

territorio un trattamento quanto favorevole possibile, e, in ogni caso, un trattamento non

meno favorevole di quello concesso, nelle stesse circostanze, agli stranieri in genere, per

ciò che concerne l'esercizio di una professione indipendente nell'agricoltura,

nell'industria, nell'artigianato e nel commercio, come pure la costituzione di società

commerciali ed industriali.

Articolo 19. Professioni liberali

Ciascuno Stato Contraente concede agli apolidi che risiedono regolarmente sul suo

territorio, se sono titolari di diplomi riconosciuti dalle autorità competenti di detto Stato

e desiderano esercitare una professione liberale, un trattamento quanto favorevole

possibile e, in ogni caso, un trattamento non meno favorevole di quello concesso, nelle

stesse circostanze, agli stranieri in genere.

Capitolo IV. Vantaggi sociali

Articolo 20. Razionamento

Qualora esista un sistema di razionamento cui è sottoposta la popolazione nel suo

insieme e che disciplina la ripartizione generale di prodotti scarseggianti, gli apolidi

saranno trattati come i cittadini nazionali.

Articolo 21. Alloggio

192

In materia di alloggi, gli Stati Contraenti concedono agli apolidi che risiedono

regolarmente sul loro territorio, per quanto siffatto problema sia disciplinato da leggi e

regolamenti o sia sottoposto al controllo delle autorità pubbliche, un trattamento quanto

favorevole possibile e, in ogni caso, un trattamento non meno favorevole di quello

concesso, nelle stesse circostanze, agli stranieri in genere.

Articolo 22. Pubblica educazione

1. In materia di scuola primaria, gli Stati Contraenti concedono agli apolidi lo stesso

trattamento concesso ai loro cittadini.

2. Per ciò che riguarda l'insegnamento nelle scuole che non sono scuole primarie,

segnatamente circa l'ammissione agli studi, il riconoscimento di certificati di studio, di

diplomi e di titoli universitari rilasciati all'estero, l'esenzione dalle tasse scolastiche e

l'assegnazione di borse di studio, gli Stati Contraenti concedono agli apolidi un

trattamento quanto favorevole possibile e, in ogni caso, un trattamento non meno

favorevole di quello concesso, nelle stesse circostanze, agli stranieri in genere.

Articolo 23. Assistenza pubblica

In materia di assistenza e di soccorsi pubblici, gli Stati contraenti concedono agli apolidi

che risiedono regolarmente sul loro territorio lo stesso trattamento concesso ai loro

cittadini.

Articolo 24. Legislazione del lavoro e sicurezza sociale

1. Gli Stati contraenti concedono agli apolidi che risiedono regolarmente sul loro

territorio lo stesso trattamento concesso ai loro cittadini, per ciò che concerne:

a) la retribuzione, compresi gli assegni familiari se tali assegni fanno parte della

retribuzione, la durata del lavoro, le ore supplementari, i congedi pagati, le limitazioni

poste al lavoro a domicilio, l'età minima dei lavoratori, il tirocinio e la formazione

professionale, il lavoro delle donne e degli adolescenti ed il godimento dei vantaggi

offerti dai contratti collettivi di lavoro, nella misura in cui tali problemi siano

disciplinati dalla legislazione o siano di competenza delle autorità amministrative;

b) la sicurezza sociale (le disposizioni legali in materia di infortuni sul lavoro, di

malattie professionali, di maternità, di malattie, d'invalidità, di vecchiaia e Stato

giuridico di morte, di disoccupazione, di oneri familiari, nonché quelle relative a tutti gli

altri rischi che, conformemente alla legislazione nazionale, sono coperti da un sistema di

assicurazioni sociali), con riserva:

i) di accordi appropriati intesi a salvaguardare diritti acquisiti e diritti in corso

d'acquisizione;

ii) delle disposizioni particolari prescritte dalla legislazione nazionale dello Stato di

residenza e riguardanti le prestazioni o le prestazioni parziali pagabili esclusivamente

con fondi pubblici, come pure gli assegni pagati alle persone che non adempiono le

193

condizioni per la concessione di una rendita ordinaria.

2. I diritti a prestazioni derivanti dalla morte di un apolide in seguito ad infortunio sul

lavoro o a malattia professionale non sono lesi dal fatto che l'avente diritto risiede fuori

del territorio dello Stato contraente.

3. Gli Stati contraenti estenderanno agli apolidi i vantaggi degli accordi conclusi o che

dovessero concludere tra di loro, concernenti la conservazione dei diritti acquisiti o in

corso d'acquisizione in materia di sicurezza sociale, sempre che gli apolidi adempiano le

condizioni previste per i cittadini dei paesi firmatari di siffatti accordi.

4. Gli Stati contraenti esaminano con benevolenza la possibilità di estendere agli

apolidi, entro i limiti dei possibile, i vantaggi di accordi analoghi in vigore o che fossero

un giorno in vigore tra questi Stati contraenti e Stati non contraenti.

Capitolo V. Provvedimenti amministrativi

Articolo 25. Assistenza amministrativa

1. Qualora, per esercitare un diritto, un apolide necessitasse normalmente della

cooperazione di autorità straniere, alle quali egli non può ricorrere, gli Stati contraenti

sul cui territorio egli risiede vigileranno che detta cooperazione gli sia concessa dalle

proprie autorità.

2. Le autorità indicate nel paragrafo 1 rilasciano o fanno rilasciare agli apolidi, sotto il

loro controllo, i documenti o gli attestati che sono normalmente rilasciati a uno straniero

dalle sue autorità nazionali o per il loro tramite.

3. I documenti o gli attestati rilasciati in tal modo sostituiscono gli atti ufficiali rilasciati

agli stranieri dalle loro autorità nazionali o per il loro tramite e fanno fede fino a prova

del contrario.

4. Con riserva delle eccezioni che potrebbero essere ammesse in favore degli indigenti,

per i servizi indicati nel presente articolo possono essere riscosse delle tasse, che devono

tuttavia essere moderate e corrispondere a quelle imposte ai cittadini dello Stato di cui si

tratta, per servizi analoghi.

5. Le disposizioni dei presente articolo non pregiudicano affatto gli articoli 27 e 28.

Articolo 26. Libera circolazione

Ciascuno Stato contraente concede agli apolidi che si trovano regolarmente sul suo

territorio il diritto di scegliervi il luogo di residenza e di circolarvi liberamente, con le

riserve previste dall'ordinamento applicabile, nelle stesse circostanze, agli stranieri in

genere.

Articolo 27. Documenti d'identità

Gli Stati contraenti rilasciano documenti d'identità a tutti gli apolidi che si trovano sul

loro territorio e non posseggono un valido titolo di viaggio.

194

Articolo 28. Titoli di viaggio

Gli Stati contraenti rilasciano agli apolidi che risiedono regolarmente sul loro territorio

titoli di viaggio che permettano loro di viaggiare fuori di tale territorio, sempre che non

vi si oppongano motivi impellenti di sicurezza nazionale o d'ordine pubblico. Le

disposizioni dell'allegato alla presente Convenzione sono applicabili a siffatti titoli. Gli

Stati contraenti possono rilasciare un titolo di viaggio di questa natura a qualsiasi altro

apolide che si trovi sul loro territorio; essi esamineranno con particolare attenzione i

casi di apolidi che, trovandosi sul loro territorio, non sono in grado di ottenere un

documento di viaggio dal paese della loro residenza regolare.

Articolo 29. Oneri fiscali

1. Gli Stati contraenti non devono riscuotere dagli apolidi imposte, tasse o diritti di

qualsiasi genere diversi da quelli o d'importo superiore a quelli imposti ai loro cittadini

in circostanze analoghe.

2. Le disposizioni del paragrafo precedente non si oppongono all'applicazione agli

apolidi delle disposizioni di leggi e regolamenti concernenti le tasse dovute dagli

stranieri per il rilascio di documenti amministrativi, compresi i documenti d'identità.

Articolo 30. Trasferimento di proprietà

1. Ciascuno Stato contraente deve permettere agli apolidi, conformemente alle leggi e ai

regolamenti del loro paese, di trasferire gli averi che hanno introdotto sul suo territorio

nel territorio di un altro paese in cui sono stati ammessi per stabilirvisi.

2. Ciascuno Stato contraente esaminerà con benevolenza le domande di apolidi che

desiderano ottenere l'autorizzazione di trasferire ogni altro avere necessario alla loro

sistemazione in un altro paese in cui sono stati ammessi per stabilirvisi.

Articolo 31. Espulsione

1. Gli Stati contraenti possono espellere un apolide che risiede regolarmente sul loro

territorio soltanto per motivi di sicurezza nazionale o d'ordine pubblico.

2. L'espulsione può essere eseguita soltanto in base ad una decisione presa

conformemente alla procedura prevista dalla legge. L'apolide deve, se motivi impellenti

di sicurezza nazionale non vi si oppongono, essere ammesso a produrre prove a sua

discolpa, a presentare ricorso e a farsi rappresentare a questo scopo davanti ad

un'autorità competente o davanti ad una o più persone specialmente designate

dall'autorità competente.

3. Gli Stati contraenti assegnano a detto apolide un termine adeguato per permettergli di

farsi ammettere regolarmente in un altro paese. Gli Stati contraenti possono prendere,

durante tale termine, tutte le misure interne che reputano opportune.

195

Articolo 32. Naturalizzazione

Gli Stati contraenti facilitano, entro i limiti del possibile, l'assimilazione e la

naturalizzazione degli apolidi. Essi si sforzano in particolare di accelerare la procedura

di naturalizzazione e di ridurre, per quanto possibile, le tasse e le spese della procedura.

Capitolo VI. Disposizioni finali

Articolo 33. Informazioni inerenti a leggi e regolamenti nazionali

Gli Stati contraenti comunicheranno al Segretario Generale delle Nazioni Unite il testo

delle leggi e dei regolamenti che essi potrebbero promulgare per garantire l'applicazione

della presente Convenzione.

Articolo 34. Composizione delle contestazioni

Per quanto non possano essere composte in altro modo, le contestazioni tra le Parti circa

l'interpretazione o l'applicazione della presente Convenzione saranno sottoposte, a

richiesta di una delle Parti in causa, alla Corte internazionale di Giustizia.

Articolo 35. Firma, ratifica e adesione

1. La presente Convenzione è aperta alla firma presso la Sede della Organizzazione

delle Nazioni Unite fino al 31 dicembre 1955.

2. Essa può essere firmata:

a) da tutti gli Stati Membri dell'Organizzazione delle Nazioni Unite;

b) da ogni altro Stato non membro, invitato alla Conferenza delle Nazioni Unite sullo

statuto degli apolidi;

c) da tutti gli Stati che l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha invitato a firmare o

a aderire.

3. Essa deve essere ratificata e gli strumenti di ratifica devono essere depositati presso il

Segretario Generale delle Nazioni Unite.

4. Gli Stati indicati nel paragrafo 2 del presente articolo possono aderire alla presente

Convenzione. L'adesione avviene mediante il deposito di uno strumento di adesione

presso il Segretario Generale delle Nazioni Unite.

Articolo 36. Campo d'applicazione territoriale

1. Ogni Stato può, all'atto della firma, della ratifica o adesione, dichiarare che la

presente Convenzione sarà applicabile a tutti i territori che esso rappresenta in campo

internazionale, oppure a uno o più territori siffatti. Tale dichiarazione ha effetto a

contare dall'entrata in vigore della Convenzione per detto Stato.

2. In seguito, l'estensione dell'applicazione può avvenire in ogni tempo mediante

notifica al Segretario Generale delle Nazioni Unite e ha effetto dopo novanta giorni a

contare dalla data in cui il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha ricevuto la

notifica, oppure alla data d'entrata in vigore della Convenzione per detto Stato, se

196

quest'ultima data è posteriore.

3. Per ciò che concerne i territori ai quali la presente Convenzione non sarà applicabile

alla data della firma, della ratifica o adesione, ogni Stato interessato esaminerà la

possibilità di prendere, appena possibile, le misure necessarie per l'estensione

dell'applicazione a detti territori, con riserva del consenso dei governi di tali territori,

qualora ciò fosse richiesto per motivi costituzionali.

Articolo 37. Clausola federale

Nel caso di Stati federativi o di Stati non unitari, sono applicate le seguenti disposizioni:

a) per quanto concerne gli articoli della presente Convenzione la cui applicazione spetta

al potere legislativo federale, gli obblighi del Governo federale sono identici a quelli

delle Parti che non sono Stati federativi;

b) per quanto concerne gli articoli della presente Convenzione la cui applicazione spetta

al potere legislativo dei singoli Stati, province o cantoni che compongono lo Stato

federativo e non sono tenuti in virtù del sistema costituzionale della federazione a

prendere misure legislative, il Governo federale comunicherà detti articoli, nel più breve

termine possibile e con il suo parere favorevole, alle autorità competenti degli Stati,

delle province o dei cantoni;

c) uno Stato federativo partecipe della presente Convenzione comunicherà, su domanda

di qualsiasi altro Stato contraente trasmessagli dal Segretario Generale delle Nazioni

Unite, un esposto della legislazione e della prassi in vigore nella federazione e nelle sue

unità costitutive, per ciò che concerne l'una o l'altra disposizione della Convenzione;

nell'esposto, deve essere indicato in quale misura la disposizione di cui si tratta sia stata

eseguita in virtù di un atto legislativo o in altro modo.

Articolo 38. Riserve

1. All'atto della firma, della ratifica o dell'adesione, ciascuno Stato può fare riserve circa

gli articoli della presente Convenzione, eccettuati gli articoli 1, 3, 4, 16 (1) e 33 a 42

compreso.

2. Ciascuno Stato contraente che abbia fatto una riserva conformemente al paragrafo 1

del presente articolo può in ogni tempo ritirarla mediante notifica scritta al Segretario

Generale delle Nazioni Unite.

Articolo 39. Entrata in vigore

1. La presente Convenzione entra in vigore il novantesimo giorno dopo la data del

deposito del sesto strumento di ratifica o di adesione.

2. Per ciascuno Stato che ratificherà la presente Convenzione o vi aderirà dopo il

deposito del sesto strumento di ratifica o di adesione, essa entra in vigore il novantesimo

giorno dopo la data del deposito dello strumento di ratifica o di adesione da parte di

detto Stato.

197

Articolo 40. Denuncia

1. Ciascuno Stato contraente può denunciare la presente Convenzione, in ogni tempo,

mediante notifica scritta al Segretario Generale delle Nazioni Unite.

2. La denuncia ha effetto, per lo Stato interessato, un anno dopo la data in cui è stata

ricevuta dal Segretario Generale delle Nazioni Unite.

3. Ciascuno Stato che ha fatto una dichiarazione o una notifica conformemente

all'articolo 36 può comunicare successivamente al Segretario Generale delle Nazioni

Unite che la Convenzione non è più applicabile ai territori indicati nella comunicazione.

In questo caso, la Convenzione cessa di essere applicabile ai territori di cui si tratta, un

anno dopo la data in cui il Segretario Generale ha ricevuto la comunicazione.

Articolo 41. Revisione

1. Ciascuno Stato contraente può in ogni tempo, mediante notifica scritta al Segretario

Generale delle Nazioni Unite, domandare la revisione della presente Convenzione.

2. L'Assemblea generale delle Nazioni Unite raccomanda, se è il caso, le misure che

devono essere prese circa siffatta domanda.

Articolo 42. Comunicazioni del Segretario Generale delle Nazioni Unite

Il Segretario Generale delle Nazioni Unite comunica a tutti gli Stati Membri delle

Nazioni Unite e agli Stati non membri indicati nell'articolo 35:

a) le firme, ratifiche e adesioni previste nell'articolo 35;

b) le dichiarazioni e le notifiche previste nell'articolo 36;

c) le riserve fatte o ritirate conformemente all'articolo 38;

d) la data d'entrata in vigore della presente Convenzione, conformemente all'articolo 39;

e) le disdette e le notifiche previste nell'articolo 40;

f) le domande di revisione previste nell'articolo 41.

In fede di che, i sottoscritti, a ciò debitamente autorizzati, hanno firmato, in nome dei

loro rispettivi Governi, la presente Convenzione.

Fatto a Nuova York, il ventotto settembre millenovecentocinquantaquattro, in un solo

esemplare i cui testi inglese, spagnolo e francese fanno parimenti fede, che sarà

depositato negli archivi dell'Organizzazione delle Nazioni Unite e le cui copie

certificate conformi saranno mandate a tutti gli Stati Membri delle Nazioni Unite ed agli

Stati non membri indicati nell'articolo 35.

(Seguono le firme)

198

Allegato

Paragrafo 1

1. Il titolo di viaggio previsto dall'articolo 28 della presente Convenzione deve indicare

che il portatore è un apolide, ai sensi della Convenzione del 28 settembre 1954.

2. Questo titolo deve essere compilato in almeno due lingue, di cui una deve essere la

lingua inglese o francese.

3. Gli Stati contraenti esamineranno la possibilità d'adottare un titolo di viaggio

conforme al modello qui accluso.

Paragrafo 2

Con riserva dei regolamenti dei Paesi che rilasciano il titolo di viaggio, i figli possono

essere indicati nel titolo di un genitore o, in circostanze eccezionali, di un altro adulto.

Paragrafo 3

Le tasse riscosse per il rilascio del titolo di viaggio non devono essere superiori alla

tariffa minima prevista per i passaporti nazionali.

Paragrafo 4

Con riserva di casi speciali o eccezionali, il titolo è rilasciato per il più gran numero

possibile di paesi.

Paragrafo 5

la durata di validità del titolo sarà di almeno tre mesi e di due anni al massimo.

Paragrafo 6

1. Per il rinnovamento del titolo o la proroga della sua validità è competente l'autorità

che l'ha rilasciato, fintanto che il titolare non si è stabilito regolarmente in un altro

territorio e risiede regolarmente sul territorio di detta autorità. Nelle medesime

condizioni, l'autorità che ha rilasciato il titolo scaduto è competente per l'allestimento di

un nuovo titolo.

2. I rappresentanti diplomatici o consolari possono essere autorizzati a prorogare, per un

periodo non superiore a sei mesi, la validità dei titoli di viaggio rilasciati dai loro

Governi.

3. Gli Stati contraenti esaminano con benevolenza la possibilità di rinnovare o di

prorogare la validità dei titoli di viaggio, o di rilasciarne dei nuovi, agli apolidi che non

risiedono più regolarmente sul loro territorio, se quest'ultimi non possono ottenere un

titolo di viaggio dal Paese della loro residenza regolare.

Paragrafo 7

Gli Stati contraenti riconoscono la validità dei titoli rilasciati conformemente alle

199

disposizioni dell'articolo 28 della presente Convenzione.

Paragrafo 8

Le autorità competenti del paese nel quale l'apolide desidera recarsi devono, se sono

disposte a permettergli l'entrata, apporre il loro visto sul titolo di viaggio, sempre che un

visto sia necessario.

Paragrafo 9

1. Gli Stati contraenti s'impegnano a rilasciare visti di transito agli apolidi che hanno

ottenuto il visto di un territorio di destinazione finale.

2. Il rilascio di siffatti visti può essere rifiutato per i motivi che possono giustificare il

rifiuto di un visto agli stranieri in genere.

Paragrafo 10

Le tasse per il rilascio di visti d'uscita, d'entrata o di transito non devono superare la

tariffa minima applicabile ai visti di passaporti stranieri.

Paragrafo 11

Se un apolide cambia il luogo di residenza e si stabilisce regolarmente nel territorio di

un altro Stato contraente, il rilascio di un nuovo titolo, conformemente ai termini e alle

condizioni dell'articolo 28 della Convenzione, spetta all'autorità competente di detto

territorio, alla quale l'apolide ha il diritto di presentare la sua richiesta.

Paragrafo 12

L'autorità che rilascia un nuovo titolo è tenuta a ritirare il titolo scaduto e a rimandarlo

al paese che l'ha rilasciato, se nel documento scaduto è specificato che il titolo deve

essere restituito al paese che l'ha rilasciato; in caso contrario, l'autorità che rilascia il

nuovo titolo deve ritirare e annullare quello scaduto.

Paragrafo 13

1. Ogni titolo di viaggio rilasciato conformemente all'articolo 28 della presente

Convenzione darà al titolare, salvo menzione contraria, il diritto di ritornare sul

territorio dello Stato che l'ha rilasciato in qualunque momento del periodo di validità di

tale titolo. Tuttavia, il periodo durante il quale il titolare potrà rientrare sul territorio del

paese che ha rilasciato il titolo di viaggio non potrà essere inferiore a tre mesi, salvo il

caso in cui il paese nel quale l'apolide desidera recarsi non esige che il titolo di viaggio

implichi il diritto di rientro.

2. Con riserva delle disposizioni del capoverso precedente, uno Stato contraente può

esigere che il titolare del documento si sottoponga a tutte le condizioni che possono

essere imposte alle persone che escono dal paese o che vi rientrano.

200

Paragrafo 14

Con la sola riserva delle prescrizioni del paragrafo 13, le disposizioni del presente

allegato non pregiudicano in nessun modo le leggi ed i regolamenti che disciplinano, nei

territori degli Stati contraenti, le condizioni di entrata, di transito, di soggiorno, di

domicilio e d'uscita.

Paragrafo 15

Il rilascio del titolo, come pure le iscrizioni che vi sono contenute, non determinano né

pregiudicano lo statuto del titolare, in particolare per quanto concerne la cittadinanza.

Paragrafo 16

Il rilascio del titolo non conferisce al titolare diritto alcuno alla protezione dei

rappresentanti diplomatici e consolari dello Stato che rilascia il titolo, e non conferisce

ipso facto, a questi rappresentanti, un diritto di protezione.

201

ALLEGATO B

Convenzione ONU sulla riduzione della apolidia del 1961

Traduzione italiana non ufficiale a cura dell’UNHCR

Preambolo

Gli Stati Contraenti,

Agendo in adempimento alla risoluzione 896 (IX) adottata dall’Assemblea Generale

delle Nazioni Unite il 4 dicembre 1954,

Considerando auspicabile la riduzione dell’apolidia attraverso un trattato internazionale,

Hanno convenuto quanto segue:

Articolo 1

1. Ogni Stato Contraente concederà la propria cittadinanza a una persona nata nel

suo territorio che sarebbe altrimenti apolide. Tale cittadinanza sarà concessa:

1 . (a) Alla nascita, per operazione di legge, oppure

2. (b) Previa presentazione di un’istanza presso l’autorità competente, da o

per conto della persona interessata, secondo le modalità prescritte dalla

legge nazionale. Salvo le circostanze previste al par. 2 di questo articolo,

nessuna di tali istanze potrà essere respinta.

Lo Stato contraente che stabilisce la concessione della propria cittadinanza ai

sensi della lettera (b) di questo paragrafo, può altresì stabilire che la concessione

di tale cittadinanza per operazione di legge avvenga al compimento di una certa

età e sia soggetta a certe condizioni, così come stabilito dalla legislazione

nazionale.

2. Uno Stato Contraente può stabilire che la concessione della cittadinanza ai sensi

della lettera (b) del paragrafo 1 di questo articolo sia soggetta a una o più delle

seguenti condizioni:

(a) Che l’istanza sia presentata nel corso di un periodo, fissato dallo Stato

Contraente, che abbia inizio non oltre il compimento del diciottesimo anno d’età

e che termini non prima del compimento del ventunesimo anno d’età, di modo

che alla persona interessata sia concesso almeno un anno durante il quale possa

egli/ella stesso/a presentare l’istanza senza dover ottenere autorizzazione legale a

tal fine;

(b) Che la persona interessata abbia soggiornato abitualmente nel territorio dello

Stato Contraente per un periodo di tempo fissato dallo Stato interessato, che non

superi i cinque anni immediatamente precedenti alla presentazione dell’istanza

né i dieci anni in totale;

(c) Che la persona interessata non sia stata condannata per un reato contro la

sicurezza nazionale né che sia stata oggetto di condanna detentiva per un termine

202

uguale o superiore a cinque anni per un reato penale;

(d) Che la persona interessata sia sempre stata apolide.

3. Ferme restando le disposizioni di cui ai paragrafi 1 (b) e 2 di questo articolo,

un/a bambino/a nato/a da un matrimonio nel territorio dello Stato Contraente, la

cui madre abbia la cittadinanza di detto Stato, acquisirà tale cittadinanza alla

nascita nel caso in cui sia altrimenti apolide.

4. Uno Stato Contraente concederà la propria cittadinanza a una persona che

sarebbe altrimenti apolide e che sia impossibilitato/a ad acquisire la cittadinanza

dello Stato Contraente nel cui territorio egli/ella è nato/a poiché ha superato l’età

per la presentazione dell’istanza o non ha soddisfatto le condizioni relative alla

residenza, se la cittadinanza di uno dei genitori al momento della nascita della

persona era quella dello Stato Contraente summenzionato. Se al momento della

nascita i genitori non erano in possesso della stessa cittadinanza, la legge

nazionale dello Stato Contraente in questione stabilirà se la cittadinanza della

persona interessata seguirà quella del padre o quella della madre. Qualora sia

prevista un’istanza per la concessione di tale cittadinanza, questa dovrà essere

presentata all’autorità competente da o per conto dell’interessato/a secondo le

modalità previste dalla legislazione nazionale. Salvo le previsioni di cui al par. 5

di quest’articolo, tale istanza non dovrà essere rifiutata.

5. Lo Stato Contraente può subordinare la concessione della propria cittadinanza ai

sensi del paragrafo 4 di quest’articolo alle seguenti condizioni:

(a) Che l’istanza sia presentata prima che l’istante raggiunga una certa età, non

inferiore ai ventitré anni, fissata dallo Stato in questione;

(b) Che la persona interessata abbia soggiornato abitualmente nel territorio dello

Stato Contraente per un certo periodo immediatamente precedente alla

presentazione dell’istanza, non superiore ai tre anni, stabilito dal detto Stato;

(c) Che la persona interessata sia sempre stata apolide.

Articolo 2

Un/a bambino/a trovato/a abbandonato/a nel territorio di uno Stato Contraente sarà da

considerarsi, in assenza di prova contraria, come nato/a in quel territorio da genitori che

hanno la cittadinanza di detto Stato.

Articolo 3

Ai fini della determinazione degli obblighi degli Stati Contraenti ai sensi della presente

Convenzione, i bambini nati a bordo di una nave o di un aereo rispettivamente battente

bandiera o immatricolato in uno Stato Contraente saranno considerati, a seconda dei

casi, come nati nel territorio di quello Stato.

Articolo 4

203

1. Uno Stato Contraente concederà la cittadinanza a una persona che non è nata nel

territorio di quello Stato e che sarebbe altrimenti apolide, laddove al momento

della sua nascita uno dei genitori avesse la cittadinanza di detto Stato. Se al

momento della sua nascita i genitori non possedevano la medesima cittadinanza,

la questione se la persona interessata debba acquisire la cittadinanza del padre o

quella della madre sarà determinata dal diritto nazionale di detto Stato

Contraente. La cittadinanza concessa ai sensi del presente paragrafo dovrà essere

concessa:

(a) Alla nascita, per operazione di legge, oppure

(b) Previa presentazione di un’istanza presso l’autorità competente, da o

per conto della persona interessata, secondo le modalità prescritte dalla

legge nazionale. Fatte salve le circostanze previste al par. 2 di questo

articolo, nessuna di tali istanze potrà essere respinta.

2. Uno Stato Contraente può stabilire che la concessione della cittadinanza ai sensi

della lettera (b) del paragrafo 1 di questo articolo sia soggetta a una o più delle

seguenti condizioni:

(a) Che l’istanza sia presentata prima che il/la richiedente raggiunga una

determinata età, non inferiore ai ventitré anni, fissata dallo Stato in

questione;

(b) Che la persona interessata abbia soggiornato abitualmente nel

territorio dello Stato Contraente per un periodo di tempo che può essere

fissato dallo Stato interessato, che non superi i tre anni immediatamente

precedenti alla presentazione dell’istanza;

(c) Che la persona interessata non sia stata condannata per un reato

contro la sicurezza nazionale;

(d) Che la persona interessata sia sempre stata apolide.

Articolo 5

1. Se la legge di uno Stato Contraente comporta la perdita della cittadinanza a

seguito di una qualsiasi variazione dello status personale di un individuo, tra cui

matrimonio, cessazione del matrimonio, legittimazione, riconoscimento o

adozione, tale perdita sarà subordinata al possesso o all'acquisizione di un'altra

cittadinanza.

2. Se, in base alla legge di uno Stato Contraente, un/a bambino/a nato/a al fuori dal

matrimonio perde la cittadinanza di tale Stato in seguito a un riconoscimento di

filiazione, egli/ella avrà la facoltà di recuperare tale cittadinanza su

presentazione di istanza scritta all'autorità competente, e le condizioni cui tale

istanza è sottoposta non dovranno essere più rigide di quelle previste al par. 2

dell'art. 1 della presente Convenzione.

204

Articolo 6

Se la legge di uno Stato Contraente prevede la perdita della cittadinanza per il coniuge o

i figli di una persona come conseguenza della sua perdita o privazione di quella

cittadinanza, tale perdita sarà subordinata al possesso o all'acquisizione di un'altra

cittadinanza.

Articolo 7

1. (a) Se la legge di uno Stato Contraente prevede la perdita o la rinuncia alla

cittadinanza, tale rinuncia non comporterà la perdita della cittadinanza a meno

che l'interessato non possieda o acquisisca un'altra cittadinanza.

(b) Le disposizioni di cui alla lett. (a) di questo paragrafo non si applicheranno

nel caso in cui l’istanza possa risultare incompatibile con i principi sanciti agli

artt. 13 e 14 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani approvata il 10

dicembre 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

2. Un/a cittadino/a di uno Stato Contraente che chieda la naturalizzazione in un

paese straniero non perderà la sua cittadinanza, a meno che non acquisisca o

riceva la garanzia di acquisire la cittadinanza di quel paese straniero.

3. Fatto salvo quanto disposto nei parr. 4 e 5 del presente articolo, un/a cittadino/a

di uno Stato Contraente non perderà la sua cittadinanza, diventando così apolide,

in ragione di allontanamento dal territorio, residenza all’estero, mancata

registrazione o per altre ragioni simili.

4. Una persona naturalizzata può perdere la propria cittadinanza in ragione della

residenza all'estero per un periodo non inferiore a sette anni consecutivi, come

specificato dalla legislazione dello Stato Contraente interessato, nel caso in cui

non riesca a dichiarare alle autorità competenti la propria intenzione di

mantenere la sua cittadinanza.

5. Nel caso di un/a cittadino/a di uno Stato Contraente nato/a al di fuori del

territorio di detto Stato, la legge nazionale può subordinare il mantenimento

della propria cittadinanza al fatto che, trascorso un anno dal compimento della

maggiore età, la persona in questione sia in quel momento residente nel territorio

dello Stato o che si sia registrata presso l'autorità competente.

6. Fatte salve le circostanze di cui al presente articolo, laddove la perdita della

cittadinanza di uno Stato Contraente rendesse una persona apolide, egli/ella non

perderà la sua cittadinanza, anche qualora tale perdita non fosse espressamente

vietata da ogni altra disposizione della presente Convenzione.

Articolo 8

1. Uno Stato Contraente non priverà una persona della sua cittadinanza, qualora

tale privazione rendesse tale persona apolide.

2. Fatte salve le circostanze di cui al par. 1 del presente articolo, una persona può

205

essere privata della cittadinanza di uno Stato Contraente:

(a) Nei casi in cui, a norma dei parr. 4 e 5 dell'art. 7, è ammissibile che una persona

perda la sua cittadinanza;

(b) Laddove la cittadinanza sia stata ottenuta per mezzo di dichiarazioni false o frodi.

3. Fatte salve le circostanze di cui al par. 1 del presente articolo, uno Stato

Contraente può mantenere il diritto di privare una persona della sua cittadinanza

qualora, al momento della firma, della ratifica o dell’adesione, esso specifichi

l’intenzione di conservare tale diritto sulla base di uno o più dei seguenti motivi,

già previsti dalla legislazione nazionale in vigore a quel tempo:

(a) Nel caso in cui, incompatibilmente con il suo dovere di lealtà verso lo Stato

Contraente, la persona:

(i) In violazione di un divieto esplicito dallo Stato Contraente, abbia reso o continuato a

rendere servizi, oppure abbia ricevuto o continuato a ricevere emolumenti da un altro

Stato, oppure

(ii) Si sia comportata in modo da recare grave pregiudizio agli interessi vitali dello

Stato;

(b) Nel caso in cui la persona abbia prestato un giuramento, o reso una dichiarazione

formale di fedeltà ad un altro Stato, o dato prova definitiva della sua determinazione a

ripudiare la sua fedeltà allo Stato Contraente.

4. Uno Stato Contraente non potrà esercitare il potere di privazione ai sensi dei

parr. 2 e 3 del presente articolo, se non in conformità con la legge, che dovrà

prevedere per l'interessato il diritto ad un equo processo dinanzi a un tribunale o

ad altro organo indipendente.

Articolo 9

Uno Stato Contraente non può privare alcuna persona o gruppo di persone della loro

cittadinanza per motivi razziali, etnici, religiosi o politici.

Articolo 10

1. Ogni trattato tra gli Stati Contraenti a disciplina dei trasferimenti di territorio

dovrà contenere disposizioni intese a garantire che nessuna persona diventi

apolide a seguito di tale trasferimento. Ogni Stato Contraente si adopererà per

garantire che nessun trattato da esso concluso con Stati che non sono parte della

presente Convenzione includa disposizioni di questo genere.

2. In mancanza di tali disposizioni, uno Stato Contraente a cui venga trasferito un

territorio o che si trovi invece ad acquisire un territorio, dovrà concedere la

cittadinanza alle persone che diventerebbero altrimenti apolidi a seguito del

trasferimento o dell’acquisizione.

Articolo 11

206

Non appena possibile, a seguito del deposito del sesto strumento di ratifica o di

adesione, gli Stati Contraenti promuoveranno l'istituzione di un organismo nell’ambito

delle Nazioni Unite competente ad esaminare l’istanza delle persone che intendano

avvalersi della presente Convenzione e ad assistere le stesse nella presentazione

dell‘istanza presso le autorità competenti.

Articolo 12

1. Con riferimento a uno Stato Contraente che non conceda la cittadinanza alla

nascita per operazione di legge ai sensi del par. 1 dell'art. 1 e dell'art. 4 della

presente Convenzione, le disposizioni di cui al par. 1 dell'art. 1 e all'art. 4 si

applicheranno, a seconda dei casi, tanto alle persone nate prima quanto a quelle

nate in seguito all'entrata in vigore della presente Convenzione.

2. Le disposizioni di cui al par. 4 dell'art. 1 della presente Convenzione si

applicheranno sia alle persone nate prima che a quelle nate in seguito alla sua

entrata in vigore.

3. Le disposizioni di cui all'art. 2 della presente Convenzione si applicheranno solo

ai bambini abbandonati trovati nel territorio di uno Stato Contraente dopo

l'entrata in vigore della Convenzione in quello Stato.

Articolo 13

La presente Convenzione non andrà interpretata nel senso di modificare le disposizioni

più favorevoli in materia di riduzione dell’apolidia che possono essere contenute nelle

leggi, in vigore o di futura emanazione, di uno Stato Contraente o che possono essere

contenute in qualsiasi altra convenzione, trattato o accordo, in vigore al momento o in

futuro, tra due o più Stati Contraenti.

Articolo 14

Ogni controversia tra gli Stati Contraenti in merito all'interpretazione o all'applicazione

della presente Convenzione, laddove non possa essere risolta in altro modo, dovrà

essere presentata di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia, su richiesta di una delle

parti coinvolte nella controversia.

Articolo 15

1. La presente Convenzione si applicherà a tutti i territori non autonomi, fiduciari,

coloniali e agli altri territori non metropolitani che abbiano uno Stato Contraente

responsabile delle loro relazioni internazionali; fatte salve le disposizioni di cui

al par. 2 del presente articolo, tale Stato Contraente dovrà, al momento della

firma, della ratifica o dell’adesione, dichiarare il territorio o i territori non

metropolitani ai quali si applicherà ipso facto la Convenzione come conseguenza

di tale firma, ratifica o adesione.

207

2. In tutti i casi in cui, in materia di cittadinanza, un territorio non metropolitano

non abbia lo stesso trattamento del territorio metropolitano, o in tutti i casi in cui

le leggi o le prassi costituzionali dello Stato Contraente o del territorio non

metropolitano richiedano il previo consenso di un territorio non metropolitano

affinché tale Convenzione trovi applicazione in tale territorio, lo Stato

Contraente si adopererà per ottenere il consenso necessario da parte del territorio

non metropolitano entro il termine di dodici mesi dalla data della firma della

Convenzione da parte dello stesso Stato Contraente, e quando tale consenso sarà

stato ottenuto lo Stato Contraente lo notificherà al Segretario Generale delle

Nazioni Unite. La presente Convenzione si applicherà al territorio o ai territori

indicati in tale notifica a partire dalla data di ricevimento da parte del Segretario

Generale.

3. Dopo la scadenza del periodo di dodici mesi di cui al par. 2 del presente articolo,

gli Stati Contraenti interessati informeranno il Segretario Generale dei risultati

delle consultazioni con quei territori non metropolitani di cui sono responsabili

in materia di relazioni internazionali e che possono aver negato il consenso

all'applicazione della presente Convenzione.

Articolo 16

1. La presente Convenzione sarà aperta alla firma dal 30 agosto 1961 al 31 maggio

1962 presso la sede delle Nazioni Unite.

2. La presente Convenzione sarà aperta alla firma da parte di:

(a) Tutti gli Stati Membri delle Nazioni Unite;

(b) Ogni altro Stato invitato a partecipare alla Conferenza delle Nazioni Unite

per l'eliminazione o la riduzione di futuri casi di apolidia;

(c) Ogni Stato invitato dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite a

sottoscrivere o ad aderire alla presente Convenzione.

3. La presente Convenzione sarà ratificata e gli strumenti di ratifica saranno

depositati presso il Segretario Generale delle Nazioni Unite.

4. Gli Stati di cui al par. 2 del presente articolo possono aderire alla presente

Convenzione. L'adesione dovrà essere effettuata con il deposito di uno strumento

di adesione presso il Segretario Generale delle Nazioni Unite.

Articolo 17

1. Qualsiasi Stato al momento della firma, ratifica o adesione può apporre riserve

agli artt. 11, 14 o 15.

2. Non sono ammesse altre riserve alla presente Convenzione.

Articolo 18

1. La presente Convenzione entrerà in vigore due anni dopo la data del deposito del

208

sesto strumento di ratifica o di adesione.

2. In ogni Stato che ratifica o aderisce alla presente Convenzione dopo il deposito

del sesto strumento di ratifica o di adesione, essa entra in vigore il novantesimo

giorno successivo al deposito da parte di detto Stato dello strumento di ratifica o

di adesione o, se successiva, alla data in cui tale Convenzione entra in vigore in

conformità con le disposizioni di cui al par. 1 del presente articolo.

Articolo 19

1. Ogni Stato Contraente può denunciare la presente Convenzione in qualsiasi

momento mediante notifica scritta indirizzata al Segretario Generale delle

Nazioni Unite. La denuncia avrà effetto per lo Stato Contraente interessato un

anno dopo la data del suo ricevimento da parte del Segretario Generale.

2. Nei casi in cui, conformemente alle disposizioni di cui all'art. 15, la presente

Convenzione sia diventata applicabile a un territorio non metropolitano di uno

Stato Contraente, detto Stato può, in qualsiasi momento successivo, con il

consenso del territorio interessato, dare comunicazione al Segretario Generale

delle Nazioni Unite denunciando la presente Convenzione separatamente per

quanto concerne tale territorio. La denuncia avrà effetto un anno dopo la data di

ricevimento della notifica da parte del Segretario Generale, che informerà gli

altri Stati Contraenti di tale comunicazione e della data in cui è stata ricevuta.

Articolo 20

1. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite notificherà a tutti gli Stati Membri

delle Nazioni Unite ed agli Stati non membri menzionati all’art. 16 quanto

segue:

(a) Le firme, ratifiche ed adesioni previste all'art. 16;

(b) Le riserve di cui all'art. 17,

(c) La data in cui la presente Convenzione entrerà in vigore secondo quanto

stabilito all’art. 18;

(d) Le denunce di cui all'art. 19.

2. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite, al più tardi dopo che sarà stato

depositato il sesto strumento di ratifica o di adesione, porterà all'attenzione

dell'Assemblea Generale la questione dell’istituzione, ai sensi dell'art. 11,

dell’organismo ivi menzionato.

Articolo 21

La presente Convenzione sarà registrata dal Segretario Generale delle Nazioni Unite

alla data della sua entrata in vigore.

IN FEDE DI QUANTO SOPRA i sottoscritti plenipotenziari hanno firmato la presente

209

Convenzione.

FATTO a New York, il trenta agosto millenovecentosessantuno, in un unico esemplare,

di cui i testi cinese, inglese, francese, russo e spagnolo fanno ugualmente fede e che sarà

depositato negli archivi dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, e di cui le copie

certificate conformi saranno consegnate dal Segretario Generale delle Nazioni Unite a

tutti i Membri delle Nazioni Unite e agli Stati non membri di cui all'art. 16 della

presente Convenzione.

210

Ringraziamenti

Ringraziare quanti da tanti anni o da pochi mesi contribuiscono, ciascuno a

proprio modo, a rendere piena la mia vita donandomi ogni giorno un motivo nuovo per

sorridere nonostante tutto è forse il momento emotivamente più complesso, oltre che

impresa lunga e inevitabilmente incompleta.

Primi fra tutti i miei genitori per avermi sempre sostenuta, incoraggiata e

appoggiata, per avermi fatto comprendere quanto gli ostacoli occorsi durante il

cammino, per quanto difficili, fossero solo catalizzatori da usare per aumentare la mia

capacità di reazione, per avermi trasmesso bellissimi pregi, per avermi lasciato

l'occasione di coltivare i miei insopportabili difetti e commettere tantissimi errori, ma

soprattutto per avermi insegnato a guardare il cielo con i piedi per terra. Insieme a loro,

i miei due fratelli, che ogni giorno mi confermano che non vorrei essere figlia unica

nemmeno per tutto l'oro del mondo e grazie ai quali ho imparato non soltanto l'arte della

diplomazia ma prima fra tutte l'indispensabile arte della polemica.

Gli amici di una vita, senza i quali molto di tutto ciò che ho fatto finora non

avrebbe quasi senso, che hanno saputo aspettare sempre il momento adatto sia per

supportarmi sia per bacchettarmi e che nonostante il passare degli anni o l'aumentare di

impegni e distanze non smettono di avere il loro posto nel mio cuore.

I compagni di università, i compagni di viaggio, i coinquilini e le coinquiline, e in

generale tutti coloro che hanno scelto Trento per inciampare nella mia vita, perché mi

hanno concesso tanti buoni motivi per non sentirmi un pesce fuori dal mare, perché

sono stati la migliore coperta che potessi avere nelle giornate più fredde, perché mi

hanno sopportato diventando paracadute per le mie battute d'arresto e perché in un

momento che sembrava aver stravolto irrimediabilmente ciascuno dei cardini attorno ai

quali fino ad allora mi ero accinta a ruotare hanno saputo scuotermi in maniera

abbastanza forte da farmi ritrovare le energie per ritornare e terminare.

La mia fantastica esperienza Lausannoise della quale non dimenticherò mai la

grande ospitalità insieme alla generosità di tutte le bellissime persone che in quei mesi

ho avuto il piacere di conoscere, che hanno condiviso con me più di qualche fonduta e

che continuano da ogni parte del mondo ad arricchirmi sensibilmente la vita.

Da ultimo, ma chiaramente non per importanza, il mio Major Tom d'elezione che

con mia enorme sorpresa mi ha accolto, schiuso il cuore facendomi sorridere di vecchie

ferite, tenuta per mano e al quale devo la mia ritrovata capacità di respirare, e sognare.

Insomma, non volendo trascurare nessuno, ringrazio tutte le persone che finora

hanno scelto di starmi accanto illuminandomi il cammino, e finanche quelle che invece

intenzionalmente o accidentalmente vi hanno aggiunto tante ombre, perché in fondo è

anche per merito loro se sono qui adesso a ringraziare e se ho compreso che la vita va

presa come un gioco ma che non è affatto a somma zero.

211