Nuove considerazioni sulla scultura eburnea veneziana di età gotica alla luce di un pezzo del Museo...

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Studia Oliveriana

DirezionePiergiorgio Parroni, direttoreFederico Condello, condirettoreMarcello Di Bella, condirettoreRiccardo Paolo Uguccioni, direttore responsabile

Comitato scientifico redazionaleGianfranco Agosti - RomaAnna Cerboni Baiardi - UrbinoAndrea Balbo - TorinoDaniele Bianconi - RomaGiuseppina Brunetti - BolognaTommaso di Carpegna Falconieri - UrbinoGiovanni Alberto Cecconi - FirenzeFrancesco Citti - BolognaFederico Condello - BolognaRoberto Danese - UrbinoAnna Falcioni - UrbinoGiorgio Ieranò - TrentoMassimo Magnani - Parma Ermanno Malaspina - TorinoAlfredo Mario Morelli - CassinoMichele Napolitano - CassinoSilvia Orlandi - RomaLucia Pasetti - BolognaMartina Treu - Milano

Comitato scientifico internazionaleGuido Arbizzoni - UrbinoAndrea Battistini - BolognaNicole Belayche - ParisAntonio Brancati - PesaroGiovanni Brizzi - BolognaMarco Cangiotti - UrbinoLuciano Canfora - BariFilippo Delpino - RomaIvano Dionigi - BolognaDenis Feissel - ParisJean-Luc Fournet - ParisLuigi Lehnus - Milano† Mario Luni - UrbinoRoberto Nicolai - RomaSilvia Ronchey - SienaLuca Serianni - RomaAlfredo Serrai - Roma

Segreteria di direzioneMaria Grazia Alberini - PesaroBrunella Paolini - Pesaro

Segreteria di redazioneDaniele Pellacani - Bologna

Tutti i contributi vanno inviati in formato documento di testo (.doc, .docx, etc.) e in formato .pdf all’indirizzo studia.oliveriana@oliveriana.pu.it.La rivista adotta i principali criteri valutativi riconosciuti dall’ANVUR e dalla comunità scientifica internazionale, a partire dalla double-blind peer review. Tutti i contributi inviati alla rivista saranno pertanto sottoposti ad almeno due valutatori anonimi esterni. In caso di valutazione discorde dei due valutatori, sarà richiesto il giudizio di un terzo valutatore. I giudizi dei valutatori saranno ac-quisiti dal Direttore e dai Comitati scientifici, che ne trasmetteranno il testo, corredato di ulteriori osservazioni, all’autore/autrice. In caso di valutazione positiva, l’autore/autrice sarà eventualmente pregato/-a di restituire una versione rivista del suo contributo entro e non oltre trenta giorni (salvo eccezioni, espressamente concordate). I valutatori anonimi saranno sempre scelti a partire dal tema del contributo proposto, che ne detterà – al variare del suo taglio – anche il numero, comunque mai inferiore a due.

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Bononia University Press

Quarta serie, Vol. I, Anno MMXIII-MMXV

Ente Olivieri - Biblioteca e Musei Oliveriani

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Studia OliverianaAutorizzazione del Tribunale di Pesaro n. 588 del 3 maggio 2011Quarta serie, Vol. I, Anno MMXIII-MMXVISSN 0562-2964ISBN 978-88-6923-054-7

© 2015 Ente OlivieriVia Mazza 97, 61121 Pesarotel. (+39) 0721 33344www.oliveriana.pu.itbiblio.oliveriana@provincia.ps.it

PresidenteRiccardo Paolo Uguccioni

Consiglio di amministrazioneChiara Agostinelli, Chiara Delpino, Lucia Ferrati, Elio Giuliani, Ernesto Preziosi, Ercole Romagna, Emanuela Scavolini, Dante Trebbi

Collegio dei sindaci revisoriStefania Di Mauro, Raffaele Iannopollo, Alessandro Pieri

Direttore VicarioMaria Grazia Alberini

SegretarioEnnio Braccioni

© 2015 Bononia University PressVia Ugo Foscolo 7, 40123 Bolognatel. (+39) 051 232 882fax (+39) 051 221 019www.buponline.cominfo@buponline.com

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o par-ziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

In copertina: Cippo del lucus Pisaurensis, III sec. a.C. Pesaro - Museo Archeologico Oliveriano

Progetto di copertina: Alberto BarbadoroProgetto grafico e impaginazione: Silvia PastorinoStampa: Editografica (Rastignano, Bologna)

Prima edizione: ottobre 2015

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SOMMARIO

Presentazione 9La direzione

Saggi

Le iscrizioni della tomba dei Cvenle di Montaperti (SI) nella letteratura del XVIII e XIX sec.: nuove acquisizioni 11Valentina Belfiore

Un Adriano improbabile 37Luciano Canfora

Catone e Regolo. Note sulla ripresa di esempi repubblicani tra IV e VI secolo 43Stefano Costa

Remixing Classics for the Screen: Woody Allen and the Classical Tradition 55Anna Foka

In the Midst of Philosophers and Technicians: Guidobaldo dal Monte (1545-1607) and his Scholarly Environment 77Martin Frank

Eustathe de Thessalonique: le seul grammairien considéré comme un Saint 101Georgia Kolovou

L’immeritato insuccesso del latino dryadae 109Simone Mollea

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Nuove considerazioni sulla scultura eburnea veneziana di età gotica alla lucedi un pezzo del Museo della Biblioteca Oliveriana di Pesaro 121Chiara Pallucchini

La collezione numismatica della Biblioteca Oliveriana di Pesaro 151Adriano Savio

Ricordo di Italo Mariotti 169Marco Scaffai

Per i 220 anni della Biblioteca Oliveriana

Marcello Di Bella, Per i duecentoventi anni dell’Oliveriana 177

Guido Arbizzoni, Temi umanistici per l’Oliveriana 185

Mario Luni, Alle origini del Museo Oliveriano 193

Piergiorgio Parroni, Filologia in Oliveriana 197

Riccardo Paolo Uguccioni, Le origini dell’Ente Olivieri. Ovvero comevanificare un lascito testamentario 203

Massimo Bray, Chi non ricorda, non vive 209

Remo Bodei, La gratuità del sapere 213

Mario Perniola, Biblioclastia. Dai roghi cinesi del 213 a.C. all’attuale misologia italiana 219

Alfredo Serrai, Inattualità di una biblioteca storica 231

Tavole 241

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Nuove considerazioni sulla scultura eburnea veneziana di età gotica alla luce di un pezzo

del Museo della Biblioteca Oliveriana di Pesaro

AbstractThe article deals with the debated and problematic Venetian production of ivory carvings in the second half of the 14th century (before the well known one by the Embriachi workshop), moving from the little tryptich at the Victoria and Albert Museum in London, which has been recognized as a Venetian work by Paul Williamson and Michele Tomasi, and to which other carvings have been brought close together. After it examinates a numerous group of crosiers, already partially identified as Venetian by the critics, establishing distinctions betwe-en the Siculo-Arabic, central Italian and Venetian ones. To the latter group more pieces are assigned, showing its wide diffusion comprehending also the area of Marche and Umbria (Pesaro, Cagli, Gubbio). Later on a knife-handle with Adam and Eve, conserved at the Biblioteca Oliveriana in Pesaro, is attributed to a Venetian atelier of the third quarter of the 14th century; in it the composition of the Original Sin sculpted by Filippo Calendario on the South-West corner of Venice’s Ducal Palace (1341-1355) is quoted. This gives the rise for an iconographic examination of the profane subjects illustrated on gravoirs, knife-handles, forzierini (little coffers) and combs, that are present also in the production of the Embriachi workshop.

Keywords: Venice, ivory, 13th-14th centuries, crosiers, central Italy, Pesaro, Venice’s Ducal Palace, knife-handles, gravoirs, profane subjects.

1. La produzione veneziana e il trittichetto di Londra

La produzione eburnea italiana di età gotica, lungi dall’essere stata chiaramente messa a fuoco dalla critica, si configura come un settore in cui regnano ancora grandi incer-tezze. Numerosi e importanti passi avanti sono stati compiuti dai tempi di Raymond Koechlin, che nei suoi tre monumentali volumi dedicati agli avori gotici francesi ten-

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deva a riferire quasi l’intera produzione eburnea del XIII e XIV secolo alla Francia, e nello specifico alla sola Parigi, reagendo alla tendenza ottocentesca di attribuire all’Ita-lia la produzione dei più pregevoli oggetti eburnei d’età gotica1, e di Charles Morey, che nella sua analisi degli avori gotici del Museo Sacro Vaticano dovette confrontarsi con il monumentale corpus del suo predecessore2. Lo studioso americano rimproverava a Koechlin «il carattere artificioso» della «sua suddivisione in officine (ateliers), la cui ipotetica esistenza è dovuta solo a certi comuni aspetti iconografici, o a certi tipi di bordure architettoniche, o a determinati motivi ornamentali»3. Morey tuttavia utiliz-zava i medesimi criteri per tentare di enucleare all’interno dell’opera di Koechlin dei gruppi di oggetti riconducibili ad aree geografiche differenti dalla Francia. A lui si deve infatti uno dei primi tentativi, prendendo le mosse dagli oggetti eburnei vaticani, di identificare gli avori gotici italiani scolpiti alla maniera francese, quelli che Michele Tomasi ha definito «franco-italiani»4. Lo studioso americano proponeva di distinguere all’interno della produzione italiana due gruppi: un primo gruppo sostanzialmente coincidente con quello individuato da Koechlin e da lui riferito al cosiddetto «atelier del dittico di Soissons», un’opera con storie della Passione ora conservata al Victoria and Albert Museum di Londra (inv. 211-1865)5, e un secondo gruppo di tabernacoli

1 Cfr. R. Koechlin, Les ivoires gothiques français, i, Paris, Picard, 1924, pp. 3s. Lo studioso ammetteva l’esistenza di botteghe non francesi attive nella produzione di oggetti eburnei che avrebbero preso a modello gli avori francesi ma al tempo stesso sottolineava la difficoltà di distinguere le ‘copie’ dagli ‘originali’, finendo per propendere per un’origine francese di quasi tutta la produzione eburnea di età gotica. Per una messa a fuoco recente dei limiti dell’impostazione di Koechlin cfr. D. Gaborit-Chopin, Gothic ivories: realities and prospects, in C. Hourihane (a c. di), Gothic art & thought in the later medieval period: essays in honor of Willibald Sauerländer, Princeton-Philadelphia, Princeton University-Penn State University Press, 2011, pp. 157-175.2 Cfr. C.R. Morey, Gli oggetti di avorio e di osso del Museo Sacro Vaticano, Città di Castello (Perugia), 1936.3 Ibid., pp. 25s.4 Cfr. ibid., pp. 25-37. Nella sua catalogazione Morey faceva riferimento allo studio condotto da un suo allievo, da lui stesso coinvolto nell’impresa vaticana, D.D. Egbert (North Italian gothic ivories in the Museo Cristiano of the Vatican Library, «Art studies» 7, 1929, pp. 169-206: pp. 169-171, 185s.) che, analizzando alcuni esemplari vaticani del XIV secolo e dei primi del XV, proponeva una loro attribu-zione all’Italia settentrionale e una loro suddivisione in due gruppi: un primo gruppo di avori da lui definito «tipically North Italian in style», costituito da una grande varietà tipologica di oggetti databili in gran parte al primo Quattrocento e riferiti da Egbert a una generica produzione veneziana o di influs-so veneziano e alla cosiddetta bottega degli Embriachi, e un secondo gruppo da lui individuato come «North Italian ivories that imitate Transalpin models». All’interno di quest’ultimo raggruppamento lo studioso operava un’ulteriore distinzione tra quegli avori realizzati a imitazione di modelli francesi, la cui influenza in Italia settentrionale sarebbe stata particolarmente forte tra il tardo Duecento e il primo Trecento, e quelli invece, cronologicamente successivi, che avrebbero risentito di influenze tedesche, le quali avrebbero rimpiazzato quelle francesi nel corso del Trecento, quando le arti in Francia avrebbero subito un declino in seguito alla Guerra dei Cento Anni scoppiata nel 1337. Cfr. M. Tomasi, Contributo allo studio della scultura eburnea trecentesca in Italia: Venezia, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Classe di Lettere e Filosofia» 4 /1, 1999, pp. 221-246: p. 222.5 Cfr. Koechlin, Les ivoires, cit., i, pp. 75-91; Morey, Gli oggetti, cit., pp. 25-31. Sul dittico di Soissons, un’opera oggi ritenuta di produzione parigina della fine del XIII secolo, su cui in questa sede non è però il caso di soffermarsi, cfr. D. Gaborit-Chopin, cat. 82, in Ead.-J.-R. Gaborit (a c. di), L’art au temps des rois maudits: Philippe le Bel et ses fils, 1285-1328, Catalogo della Mostra, Paris, Galeries Nationales

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e polittici ad ante6. Morey individuava come opera più importante, come sorta di ca-postipite, del suo primo gruppo un dittico con scene della Passione e dell’Infanzia di Cristo conservato nel Museo Sacro Vaticano, opera inserita da Koechlin nel già men-zionato gruppo di avori da lui riferito all’«atelier del dittico di Soissons» e dallo studio-so americano invece attribuita all’Italia in base a labili criteri di carattere iconografico e in base a discutibili argomentazioni su dettagli sia formali (una concezione più solida della forma) che architettonici7. Attorno al dittico vaticano Morey riuniva un gruppo di 19 avori, da lui riferiti a «un’officina» italiana «quasi del tutto immune dai manieri-smi infantili della decadenza francese»8. Tale gruppo delineato dallo studioso non ha trovato tuttavia consenso nella critica successiva9. Anche il secondo raggruppamento di ben 32 avori, già in parte individuato da Semper e poi incrementato da Koechlin, co-stituito da tabernacoli e polittici a sportelli, viene dallo studioso ritenuto italiano in base ad alcune generiche affinità con il modo di ‘costruire’ i trittici ad ante e i dossali della bottega degli Embriachi (con piccoli pannelli d’osso o d’avorio montati su un telaio in legno e con intarsi lignei), in base alle forme slanciate delle figure e ad alcune particolarità di carattere iconografico10. Anch’esso tuttavia, come ha chiarito la critica successiva, è un gruppo privo di omogeneità, all’interno del quale sono state successi-vamente riconosciute opere effettivamente riconducibili ad una produzione italiana ed opere invece francesi11. Come scrive Paul Williamson, l’individuazione di avori italiani che prendono a modello avori francesi è particolarmente ardua, dal momento che «è proprio la somiglianza con il modello che rende difficile per queste opere l’identifica-zione della loro origine italiana» che, viceversa, risulta tanto più evidente quanto più

d’Exposition du Grand Palais, 17 marzo-29 giugno 1998, Paris, Réunion des Musées Nationaux, 1998, pp. 141-143.6 Cfr. Morey, Gli oggetti, cit., pp. 31-37.7 Cfr. Koechlin, Les ivoires, cit., i, pp. 81s., ii. Catalogue, p. 17 cat. 37; Morey, Gli oggetti, cit., pp. 26s., 31 (in cui lo studioso, dopo aver analizzato l’opera, parla proprio di «atelier del dittico vaticano»), 76 cat. A 82. Oggi il dittico vaticano viene ritenuto dalla critica un’opera della Francia del Nord e datato verso il 1250-1270, cfr. D. Gaborit-Chopin, Elfenbeinkunst im Mittelalter, trad. ted. Berlin, Mann, 1978 (ed. or. Ivoires du Moyen Âge, Fribourg, Office du Livre, 1978), p. 208 cat. 152.8 Cfr. Morey, Gli oggetti, cit., p. 28. Lo studioso sottolineava in particolare, da un punto di vista stili-stico-formale, come questi avori fossero connotati da un «senso dei volumi» più accentuato rispetto alle opere francesi che avrebbero funto da modelli. La presenza inoltre negli avori di questo gruppo di certe presunte peculiarità iconografiche induceva Morey ad ipotizzare una loro produzione in una «regione dell’Italia specialmente soggetta all’influsso germanico durante il periodo gotico», ovvero in Italia set-tentrionale.9 Già L. Grodecki (Ivoires français, Paris, Larousse, 1947, pp. 90s.) rigettava l’idea di Morey sul dittico vaticano come capostipite del primo gruppo di avori italiani, ritenendolo invece un’opera parigina del 1275-1300 circa; P. Toesca (Il Trecento, Torino, UTET, 1951, p. 924 n. 167), da parte sua, scriveva che le idee di Morey apparivano «convincenti in parte» e soprattutto affermava di non riuscire a cogliere nel primo gruppo «l’asserito senso del volume per cui si è pronunciato perfino il nome di Giotto» e che era stato per Morey un indizio a favore dell’origine italiana di questi avori.10 Cfr. Koechlin, Les ivories, cit., i, pp. 116-146; Morey, Gli oggetti, cit., pp. 31-33.11 Cfr. P. Williamson, Avori italiani e avori francesi, in V. Pace-M. Bagnoli (a c. di), Il Gotico europeo in Italia, Napoli, Electa, 1994, pp. 293-298: p. 296.

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essi si discostano dai modelli francesi12. In Italia esistono opere che attestano la pratica della lavorazione dell’avorio: tra queste spicca la Madonna col Bambino del Museo dell’Opera del Duomo di Pisa, resto di una più ampia composizione in avorio e legno, di cui facevano parte anche due Angeli cerofori e due scene della Passione di Cristo, realizzata documentatamente da Giovanni Pisano nel 1298. La Madonna col Bambino trae libera ispirazione da un piccolo prototipo parigino in avorio a noi sconosciuto ma che doveva essere familiare allo scultore, come ha correttamente ricostruito Max Seidel che ha individuato stringenti affinità con una serie di avori parigini della seconda metà del XIII secolo13. Ma l’Italia degli ultimi decenni del Trecento e dei primi del Quattro-cento conosce anche la vastissima produzione quasi ‘seriale’ di oggetti prevalentemente in osso ma anche in avorio, sia sacri (trittici a sportelli, dossali) che profani (soprattut-to cofanetti), della bottega di proprietà di Baldassarre Ubriachi o Embriachi14. Non è

12 Ibid., p. 296.13 Per la composizione pisana e la Madonna col Bambino cfr. M. Seidel, La Madonna eburnea nel Te-soro del Duomo di Pisa, in Id., Arte italiana del Medioevo e del Rinascimento, ii. Architettura e scultura, trad. it. Venezia, Marsilio, 2003 (ed. or. Die Elfenbeinmadonna im Domschatz zu Pisa: Studien zur Her-kunft und Umbildung französischer Formen im Werk Giovanni Pisanos in der Epoche der Pistoieser Kanzel, «Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz» 16/1, 1972, pp. 1-50), pp. 345-388. Più di recente lo studioso è tornato sull’argomento, sottolineando come già Nicola Pisano traesse ispirazione per le sue sculture in marmo da avori gotici francesi, cfr. Id., Padre e figlio: Nicola e Giovanni Pisano, i, Ve-nezia, Marsilio, 2012, pp. 363-375, ii, pp. 287-309. A Giovanni Pisano M. Seidel (“Opus heburneum”, in Id., Arte italiana, cit., ii, trad. it. [ed. or. “Opus heburneum”: die Entdeckung einer Elfenbeinskulptur von Giovanni Pisano, «Bruckmanns Pantheon» 42, 1984, pp. 219-229], pp. 389-406) ha convincentemente attribuito anche un frammentario crocefisso in avorio in collezione privata svizzera. Invece un altro cro-cefisso frammentario in avorio, conservato al Victoria and Albert Museum di Londra, per il quale J.W. Pope-Hennessy (An ivory by Giovanni Pisano, «Victoria and Albert Museum bulletin» 1/3, 1965, pp. 9-16) aveva proposto l’attribuzione a Giovanni Pisano, respinta poi da Seidel nel 1984, è stato di recente riferito a Marco Romano da A. Baldinotti (Un crocifisso in avorio di Marco Romano, «Amici dei musei» 27, 2001, pp. 64-67). Sul crocefisso londinese cfr. anche Id.-M. Vezzosi, Il “Crocifisso” eburneo del Victo-ria and Albert Museum di Londra: una proposta per Marco Romano, «Prospettiva» 115-116, 2004 (2005), pp. 105-109; S. Spannocchi, Il “Crocifisso” eburneo di Marco Romano nel Victoria and Albert Museum di Londra, in A. Bagnoli (a c. di), Marco Romano e il contesto artistico senese fra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento, Catalogo della Mostra, Casole d’Elsa, Museo Civico Archeologico e della Collegiata, 27 marzo-3 ottobre 2010, Cinisello Balsamo (Milano), Silvana Editoriale, 2010, pp. 140-147.14 Non è questa la sede appropriata per affrontare le numerose problematiche poste dalla produzione della bottega embriachesca, per le quali mi limito a rinviare alla bibliografia principale: H. Semper, Über ein italienisches Beintriptychon des XIV. Jahrhunderts im Ferdinandeum und diesem verwandte Kunstwerke, «Zeitschrift des Ferdinandeum für Tirol und Vorarlberg» 40, 1896, pp. 145-178; J. von Schlosser, Die Werkstatt der Embriachi in Venedig, «Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen des Allerhöchsten Kaiserhauses» 20, 1899, pp. 220-282; R.C. Trexler, The Magi enter Florence. The Ubriachi of Florence and Venice, in Id., Church and community, 1200-1600: studies in the history of Florence and New Spain, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1987, pp. 75-168; Id., The Ubriachi at Santa Maria Novella, «Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz» 32/3, 1988, pp. 519-521; E. Merlini, La “Bottega degli Embriachi” e i cofanetti eburnei fra Trecento e Quattrocento: una proposta di classificazione, «Arte cristiana» n.s. 76/727, 1988, pp. 267-282; Ead., I trittici portatili della “Bottega degli Embriachi”, «Jahrbuch der Berliner Museen» n.s. 33, 1991, pp. 47-62; M. Tomasi, La bottega degli Embriachi, Fi-renze, Museo Nazionale del Bargello, 2001; Id., Baldassarre Ubriachi, le maître, le public, «Revue de l’art» 134, 2001, pp. 51-60; Id., Miti antichi e riti nuziali: sull’iconografia e la funzione dei cofanetti degli Embriachi, «Iconographica» 2, 2003, pp. 126-145; Id., Gli Embriachi: l’‘avorio’ per il mercato, in E. Ca-

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il caso di soffermarsi qui sull’analisi della variegata e discussa produzione di questa bottega che ci condurrebbe troppo lontano dall’argomento che intendo trattare. Ci si è domandati anche se esista una produzione veneziana pre-embriachesca e quali opere possano esserle riferite, e su questo argomento, di recente trattato da Tomasi, vorrei qui soffermarmi alla luce di un pezzo conservato nel Museo della Biblioteca Oliveriana di Pesaro. Il primo a sfiorare l’argomento di una produzione eburnea veneziana di età gotica è stato nel 1905 Pompeo Molmenti nel suo monumentale lavoro in tre volumi su tutti gli aspetti della vita privata dei Veneziani del passato, incluse dunque la moda e le ‘arti industriali’. Lo studioso riproduceva, sebbene quasi senza commento, due disegni, realizzati nel 1754 da Jan Grevembroch, di una custodia di specchio e di un pettine tardo-gotici e le foto di tre ricci di pastorale, conservati rispettivamente nel Museo del Seminario Vescovile di Chioggia, nel Museo Diocesano di Treviso e nel Museo Provinciale di Torcello, segnalando inoltre come oggetti in avorio fossero spesso menzionati in inventari del Trecento, da lui stesso riportati in appendice15. Solo più di recente tuttavia si è tentato in modo più coerente di definire i caratteri della produzio-ne eburnea veneziana di età gotica. Williamson, seguito da Tomasi, ha convincente-mente proposto di riferire a una bottega veneziana attiva tra 1360 e 1380/90 circa un trittico ad ante, oggi conservato al Victoria and Albert Museum di Londra (inv. 143-1866), con l’Incoronazione della Vergine nello scomparto centrale e l’Annunciazione e figure di Angeli e Santi nelle ante laterali (fig. 25). I due studiosi hanno posto l’accen-to sul vocabolario architettonico tipicamente veneziano dell’arco inflesso e delle corni-

stelnuovo (a c. di), “Artifex bonus”: il mondo dell’artista medievale, Roma, Laterza, 2004, pp. 207-214; Id., Monumenti d’avorio: i dossali degli Embriachi e i loro committenti, Pisa, Edizioni della Normale, 2010. 15 P. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata dalle origini alla caduta della Repubblica, i, Berga-mo, Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 19054, p. 32, figg. alle pp. 292s., 336s. Negli inventari, pubblicati in appendice (pp. 438-449), vi sono alcune voci relative ad oggetti in avorio e osso, non esplicitamente segnalate da Molmenti, che illustrano efficacemente quali generi di oggetti si trovassero nelle abitazioni e nei tesori delle chiese di Venezia, così come fra le merci trasportate dai Veneziani sulle navi. Non è però ovviamente possibile stabilire su tali basi se questi oggetti fossero prodotti a Venezia o importati da altro-ve, anche se la prima possibilità appare plausibile. In un inventario del 1308, fra i bagagli fatti trasportare su una nave veneziana dal podestà di Loreto, è menzionato «potem j. elefanti», cioè probabilmente un corno potorio; in un altro inventario non datato dei beni di proprietà del convento domenicano di San Nicolò a Treviso, custoditi all’epoca della sua redazione nella casa di un tale Costantino a Venezia, figura fra l’altro «una chaseta de avolio cum reliquiis intus»; nell’inventario del 1362 dei beni del monastero di San Giorgio Maggiore a Venezia compaiono «fustos ij eburneos ab episcopo», cioè due pastorali da vescovo; nell’inventario dei beni lasciati dal doge Francesco Dandolo alla sua morte, avvenuta nel 1339, troviamo «quatuor cutelli a tabula a manicis lefanti cum varetis de argento» e «quatuor alii cutelli a tabula a manicis nigris de bufalo cum varetis argenteis», cioè quattro coltelli con manici d’avorio e quattro con manici di corno di bufalo, tutti con lame d’argento, e più oltre «duo peteni de lefanto», cioè due pettini d’avorio; nell’inventario dei beni lasciati dal nobile veneziano Giorgio Ruzzini, morto nel 1453 durante un viaggio da Venezia ad Alessandria, incontriamo fra l’altro «tres pecteni eburnei ligati in una carta. Unum ligazetum cum pectenis duobus ligneis et duobus eburneis ligatis in una carta cum aliquibus acubus ligatis in una carta» e più oltre «duo stelle eburnee pro pectene non laborate. Unus pectenellus eburneus», cioè diversi pettini d’avorio e probabilmente dei gravoirs (se così può essere interpretato il ter-mine «acubus» che alla lettera significa aghi). Quanto ai tre ricci illustrati da Molmenti, mentre quelli di Torcello e Treviso sono riconducibili alla produzione siculo-araba del XII-XIII secolo, quello di Chiog-gia, come vedremo, è probabilmente da riferire proprio alla Venezia della seconda metà del Trecento.

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ci dentellate, sul carattere bizantino dei Santi guerrieri Michele Arcangelo e Giorgio e sull’iconografia dell’Incoronazione della Vergine alla presenza di un coro di Angeli musicanti, ricorrente nella pittura veneziana da Paolo Veneziano e Guariento fino a Gentile da Fabriano16. Al pezzo di Londra è stato convincentemente accostato da Ran-dall un trittichetto in osso, conservato alla Walters Art Gallery di Baltimora (inv.

16 Il trittico era stato già riconosciuto come opera veneziana del XIV secolo da W. Maskell (A description of the ivories ancient & mediaeval in the South Kensington Museum, London, Chapman & Hall, 1872, pp. 61-62 cat. 143. ‘66), la cui opinione è stata ripresa da W. Griggs (Portfolio of ivories, London, 1904-1907, tav. xxxvi) e da M.H. Longhurst (Catalogue of carvings in ivory, ii, London, Victoria and Albert Museum, 1929, p. 61) che precisava però la datazione al tardo Trecento, seguita da J. Natanson (Gothic ivories of the 13th and 14th centuries, London, Tiranti, 1951, p. 39). P. Giusti (Lavorazione e diffusione degli avori gotici, in Ead.-P.L. De Castris [a c. di], Medioevo e produzione artistica di serie: smalti di Limoges e avori gotici in Campania, Catalogo della Mostra, Napoli, Museo Duca di Martina, ottobre 1981-aprile 1982, Firenze, Centro Di, 1981, pp. 35-54: p. 35) vede nel trittico londinese un forte influsso della cultura figurativa di Guariento. R.H. Randall (Masterpieces of ivory from the Walters Art Gallery, New York, Hudson Hills Press, 1985, p. 234 cat. 351) riconosce nel trittico di Londra, per il quale ribadisce il riferimento a Venezia, il modello per un altro trittico di minore qualità conservato nella Walters Art Gal-lery di Baltimora. Una più ampia e articolata analisi dell’opera si deve a Williamson (Avori italiani, cit., p. 293; Id., cat. 49, in P. Barnet [a c. di], Images in ivory: precious objects of the gothic age, Catalogo della Mostra, Detroit, The Detroit Institute of Art, 9 marzo-11 maggio 1997, Baltimore, Walters Art Gallery, 22 giugno-31 agosto 1997, Princeton, Princeton University Press, 1997, pp. 213s.; Id., cat. 64, in Id.-G. Davies, Victoria and Albert Museum: medieval ivory carvings 1200-1550, i, London, Victoria and Albert Museum, 2014, pp. 200-203: pp. 201s.) che ribadisce il riferimento a Venezia e avanza una datazione al terzo quarto del Trecento. Lo studioso sottolinea come l’elegante sagoma inflessa dell’arco nel pannello centrale, le turgide volute fogliacee disposte lungo i profili verticali della cuspide, la ricca policromia, l’iconografia e lo stile delle figure rientrino perfettamente nella cultura artistica veneziana di età gotica. Se da un lato Williamson propone un suggestivo confronto tra l’arco inflesso del trittico e la duecentesca Porta dei Fiori che si apre sul fianco Nord di San Marco (sulla Porta dei Fiori e sugli altri portali con archi inflessi in San Marco cfr. da ultimo G. Tigler, La maestranza della Porta dei Fiori e gli interventi di decora-zione scultorea promossi a San Marco dai dogi Morosini (1249-1253) e Zen (1253-1268), «Quaderni della Procuratoria», 2006, pp. 47-53), dall’altro sottolinea come l’Incoronazione della Vergine alla presenza di un coro di Angeli musicanti rifletta un tipo iconografico molto diffuso nella pittura veneziana del terzo quarto del Trecento. Lo studioso avanza inoltre un confronto tra il trittico eburneo, con le sue esuberanti volute fogliacee ed eleganti incorniciature, e i due tabernacoli realizzati da Jacobello e Pierpaolo Dalle Masegne in San Marco (per i quali cfr. W. Wolters, La scultura veneziana gotica (1300-1460), i. Testo e catalogo, Venezia, Alfieri, 1976, pp. 215s. cat. 137), dove però dal fogliame sporgono busti di Dio Padre e di Profeti. Williamson ipotizza proprio che ai lati della cuspide potessero trovarsi, come fanno pensare i fori sulle due zoccolature che la fiancheggiano, due piccole torri, sul tipo di quelle del già menzionato trittico di Baltimora, o due statuette di Profeti stanti, sul tipo di quelli visibili ad esempio in un trittico della bottega degli Embriachi del Museo Nazionale del Bargello (cfr. Merlini, I trittici portatili, cit., pp. 51 fig. 3, 53s.), e che all’estremità della cuspide, che reca un foro, potesse esservi la mezza figura di Dio Padre emergente dal cespo di fogliame, fiancheggiato forse, in corrispondenza dei due gattoni intermedi (anch’essi forati), da busti di Profeti, similmente ai tabernacoli marciani. Nelle figure del trittico nota inoltre affinità stilistiche con i rilievi che ornano alcuni ricci di pastorale ritenuti dalla critica di produ-zione veneziana. I confronti e le ipotesi di Williamson sono stati accolti e ribaditi da Tomasi (Contributi, cit., p. 229) e da P. Grosse (cat. 23, in R. Panzanelli [a c. di], The color of life: polychromy in sculpture from antiquity to the present, Catalogo della Mostra, Los Angeles, J. Paul Getty Museum, 6 marzo-23giugno 2008, Los Angeles, J. Paul Getty Museum, 2008, pp. 142s.) che analizza i caratteri della policromia, ritenuta ancora quella originale.

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71.101), da lui ritenuto opera veneziana della fine del Trecento17. Esso presenta nelle ante laterali la stessa iconografia e composizione del pezzo di Londra, mentre nello scomparto centrale si susseguono, dall’alto verso il basso, la Crocefissione, la Deposi-zione dalla croce e la Deposizione di Gesù nel sepolcro. L’opera, ritenuta da Tomasi più bizantineggiante di quella di Londra ma al tempo stesso da lui riferita alla stessa mano, si connota per un’esecuzione assai più corsiva e grossolana tipica di un contesto di collaborazione di bottega18. Alla bottega autrice del trittico londinese Tomasi ha pro-posto plausibilmente di riferire un dittico con la Dormizione e l’Incoronazione della Vergine al Victoria and Albert Museum (inv. A. 566-1910) e un’anta di dittico con l’Incoronazione della Vergine conservata al Metropolitan Museum di New York (sezio-ne dei Cloisters, inv. 1971.49.4), opere di alta qualità fra di loro molto simili, per le cui incorniciature architettoniche, decorate da nicchie conchigliate, lo studioso ha avanza-to convincenti confronti con le architetture dipinte di Guariento e Altichiero e con le carpenterie dei polittici di Paolo e Lorenzo Veneziano19. A questo raggruppamento di

17 Randall (Masterpieces, cit., p. 234 cat. 351) sottolinea come le ante del trittico di Baltimora siano una copia di quelle del trittico londinese. Lo studioso, notando delle discrepanze qualitative tra le due opere, rimane incerto sull’attribuzione del pezzo alla medesima bottega veneziana autrice dell’intaglio del Victoria and Albert Museum, ammettendo sia la possibilità che si tratti di una ‘copia’ realizzata in un contesto diverso sia quella di una produzione ‘più economica’ della stessa bottega del trittico londinese. Seguendo Randall, Williamson (cat. 49, cit., p. 214; Id., cat. 64, cit., p. 202) ritiene il trittico di Balti-mora di produzione veneziana, definendone le ante una copia di quelle del trittico di Londra. Lo studio-so accosta inoltre al pezzo di Baltimora un trittico, pure in osso, già nella collezione Gibson-Carmichael e poi in quella Wernher, ritenendo entrambi «cheaper versions» della tipologia del trittico londinese.18 Tomasi (Contributi, cit., p. 230) confronta le capigliature ricciolute dei personaggi dei trittici di Londra e Baltimora con quelle della pittura veneziana di influsso bizantino, in particolare di Paolo Veneziano, e con quelle dello scultore Andriolo de’ Santi. A ben guardare tuttavia esistono delle forti dif-ferenze fra le gonfie capigliature, simili a parrucche, della tradizione bizantina, in parte ripresa dai pittori veneziani del Trecento, comunque aperti anche a suggestioni occidentali, e quelle ben più naturalistiche e mosse del filone gotico che sta alla base della cultura figurativa di Andriolo.19 Tomasi, Contributi, cit., pp. 230s. Sul dittico di Londra cfr. Longhurst (Catalogue, cit., ii, p. 61) che lo riteneva un’opera italiana, probabilmente veneziana, databile tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo, notandone la somiglianza con il trittico ad ante già menzionato. Invece l’anta, oggi conservata al Metropolitan Museum ma proveniente dalla collezione Kofler-Truniger di Lucerna, era stata riferita all’Italia settentrionale, e con qualche dubbio a Venezia, e datata al tardo XIV secolo da H. Schnitzler-W.F. Volbach-P. Bloch (Skulpturen: Elfenbein, Perlmutter, Stein, Holz; europäisches Mittelalter. Sammlung E. und M. Kofler-Truniger, Luzern, i, Luzern-Stuttgart, Räber, 1964, p. 30 cat. S 103). Williamson (Avori italiani, cit., pp. 293, 298 n. 13), pur riconoscendo le affinità tra il già menzionato trittico del Victoria and Albert Museum, il dittico di Londra e l’anta di New York, ha espresso dei dubbi sull’ori-ginalità di queste ultime due opere, per la presenza «di un approccio alquanto rozzo all’architettura», da lui notato soprattutto nella scena della Dormizione della Vergine del dittico londinese, e di «alcune stranezze iconografiche» che tuttavia lo studioso tralascia di specificare. Di recente la Davies (cat. 106, in Williamson-Ead., Victoria and Albert Museum, cit., pp. 314s.) ha ribadito l’autenticità del dittico londinese, assegnandolo a una produzione veneziana del 1360-70 circa e accostandolo, oltre che all’anta di dittico di New York, a un cofanetto con placchette in avorio e osso del Museo del Castello Sforzesco di Milano. Per il confronto con i già menzionati trittico (vedi nota 16) e dittico londinesi, la studiosa (cat. 107, ibid., pp. 316s.) ha convincentemente proposto di assegnare a una produzione veneziana della seconda metà del Trecento (1360-90 circa) un’anta destra di dittico con la Crocefissione conservata sempre al Victoria and Albert Museum.

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quattro avori di recente Benedetta Chiesi, nella sua inedita tesi di dottorato, ha propo-sto plausibilmente di collegare il frammento di una formella con la Crocifissione, con-servato al Museo Nazionale del Bargello a Firenze, avanzando una datazione tra il 1360 e il 1400 e un cauto riferimento al Veneto20.

2. I ricci di pastorale centro-italiani e veneziani

Tomasi assegna alla stessa bottega veneziana, attiva attorno al 1360-1390, autrice delle formelle con scene sacre sopra esaminate, un gruppo di ricci di pastorale in avorio e in osso che da tempo una parte della critica aveva riconosciuto come di produzione ve-neziana. Già nel 1936 Parker Lesley constatava il carattere veneziano del riccio in osso della Walters Art Gallery di Baltimora (contenente la scena della Dormizione della Vergine, inv. 71.484) e di quello in avorio del Victoria and Albert Museum di Londra (contenente un’Adorazione dei Magi, inv. A. 547-1910), proveniente da Volterra. Lo studioso rintracciava confronti nella scultura e architettura veneziana, notando la pre-senza dei tipici archi inflessi lagunari nelle micro-architetture del nodo del pastorale di Londra, ponendo a confronto la Dormizione di Baltimora con il rilievo di identico soggetto che orna la fronte del monumento sepolcrale del doge Francesco Dandolo, morto nel 1339, nella sacrestia dei Frari a Venezia21, e le volute fogliacee che inglo-bano busti di Profeti nello stesso riccio con opere della scultura veneziana, tra cui il portale di San Lorenzo a Vicenza, realizzato dallo scultore Andriolo de’ Santi e data-to documentatamente 1342-134422. Nel 1939 Perry Cott, accogliendo l’opinione di

20 B. Chiesi, Catalogo degli avori gotici del Museo Nazionale del Bargello, Tesi di Dottorato in Storia dell’Arte, Università degli Studi di Firenze, 2008-2010, pp. 519s. cat. 42.21 Sul monumento sepolcrale del doge Francesco Dandolo cfr. Wolters, La scultura, cit., i, pp. 163s. cat. 32.22 Sul portale della chiesa francescana di San Lorenzo a Vicenza cfr. Wolters, La scultura, cit., i, pp. 167s. cat. 39. Sui due pastorali di Londra e Baltimora cfr. P. Lesley, Two triptychs and a crucifix in the Museo Cristiano of the Vatican Library, «The art bulletin» 18/4, 1936, pp. 465-479: pp. 477s. Lo studioso riteneva che il motivo delle volute fogliacee disposte lungo gli estradossi dei ricci di pastorale fosse apparso in Italia nel XIII secolo e, riprendendo un’idea di Schlosser (Die Werkstatt, cit., p. 249), ribadiva l’origine lagunare di tale motivo. Inizialmente si sarebbe trattato di semplici foglie prive di busti di figure; più tardi però, all’estremità superiore del riccio, la figura del Cristo avrebbe cominciato a sostituire la semplice voluta fogliacea. Per esemplificare tale evoluzione lo studioso menzionava il riccio del Victoria and Albert Museum (nel quale il Cristo è circondato da due Profeti), da lui ritenuto opera veneziana del secondo quarto del XIV secolo (datazione basata su un’indicazione erronea poi corretta da Williamson, vedi di seguito nota 28). Lesley vedeva nel riccio di Baltimora un ulteriore sviluppo del motivo decorativo delle mezze figure: qui infatti i Profeti appaiono completamente avvolti dal fogliame che disegna intorno a loro dei cerchi. Lo studioso proponeva un suggestivo confronto con i busti cir-condati da volute fogliacee che ornano la cuspide triangolare del pannello centrale di un trittico ligneo conservato al Museo Cristiano Vaticano di Roma, riferito anch’esso ad una produzione veneziana, ipo-tizzando una stretta relazione tra l’autore del riccio di Baltimora e quello del trittico. Menzionava inoltre, per il medesimo motivo, la decorazione con girali, le cui volute inglobano busti di Profeti, che si snoda lungo l’archivolto del portale di San Lorenzo a Vicenza, decorazione che, a suo dire, avrebbe dimostrato l’esistenza di una vera e propria tradizione nell’uso decorativo delle mezze figure entro tralci tra gli artisti

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Lesley sul riccio di pastorale di Londra, riconduceva ad una produzione nord-italiana anche quello conservato al Museo Nazionale del Bargello a Firenze, proveniente da Acerenza in Basilicata (con Commendatio alla Madonna col Bambino del vescovo com-mittente da parte di due Santi, inv. 13 A), e stabiliva convincentemente la derivazione compositiva di questi ricci da quelli siculo-arabi del XII-XIII secolo23. A tal proposito Tomasi nota come almeno due esemplari siculo-arabi siano presenti ab antiquo nel Veneto, cioè quello del Museo Diocesano di Treviso e quello del Museo Provinciale di Torcello, rinvenuto nella tomba del vescovo Buono Balbi, morto nel 121524. Nel

veneziani del Trecento. Per quanto concerne il pastorale del Victoria and Albert Museum, già E. Moli-nier (cat. 90, in F. Spitzer-E. Müntz [a c. di], La collection Spitzer: Antiquité, Moyen-Âge, Renaissance, i, Paris, Quantin, 1890, pp. 55s.) lo riteneva opera italiana del XIV secolo, ipotesi poi ribadita da Griggs (Portfolio, cit., tav. xx), da W.W. Watts (Catalogue of pastoral staves, London, Victoria and Albert Mu-seum, 1924, p. 32 cat. 28), da Koechlin (Les ivoires, cit., i, p. 277) e dalla Longhurst (Catalogue, cit., ii, pp. 60s.) che proponeva confronti con una serie di pastorali dai ricci contenenti scene figurative, da lei ritenuti italiani e leggermente successivi rispetto a quelli col semplice Agnus Dei, conservati oggi in collezione privata newyorkese (col Battesimo di Cristo, proveniente da San Giusto alle Balze a Volterra), nel Museo dell’Opera del Duomo di Siena (due esemplari rispettivamente con il Battesimo del Cristo e l’Annunciazione), nel Seminario Vescovile di Chioggia (con due figure di vescovo), nell’abbazia di Klosterneuburg (con l’Annunciazione), al Louvre (frammento con busto di Profeta entro un tralcio, già posto sull’estradosso di un riccio). A questi pezzi, alcuni dei quali assegnati successivamente dalla critica a Venezia, la studiosa aggiungeva anche un frammento di riccio con testa di serpente nella collezione Carrand del Museo Nazionale del Bargello a Firenze, per il quale la Chiesi (Catalogo, cit., pp. 521s. cat. 43) rimane condivisibilmente in dubbio tra una produzione italiana o francese, e un pastorale, già nella collezione Soltikoff, battuta all’asta nel 1861, che purtroppo non sono riuscita a rintracciare. Dopo il saggio di Lesley l’attribuzione a Venezia è stata accolta, salvo che da Natanson (Gothic ivories, cit., p. 39) che riferisce genericamente l’opera all’Italia del XIV secolo, dalla critica successiva, cfr. P.B. Cott, Siculo-Arabic ivories, i, Princeton, Princeton University Press, 1939, pp. 57s. cat. 179 (che propone una datazione al primo XIV secolo); Gaborit-Chopin, Elfenbein, cit., p. 212 cat. 179; Williamson, Avori italiani, cit., p. 293; Id., cat. 50, in Barnet, Images, cit., pp. 215s. Quest’ultimo studioso ha istituito cal-zanti confronti, soprattutto per il motivo delle volute fogliacee con busti di figure, tra il riccio di Londra, quello della Walters Art Gallery di Baltimora, quello del Museo Nazionale del Bargello (vedi di seguito nota 27) e un esemplare in collezione privata newyorkese (vedi di seguito nota 26), notandovi affinità, per quanto concerne lo stile delle figure e la policromia, con il già menzionato trittico del Victoria and Albert Museum, da lui datato al 1360-1370 circa (per il quale vedi nota 16). Il riferimento a Venezia per il pezzo londinese è stato accolto anche da Tomasi (Contributi, cit., pp. 231-236) e da M. Collareta (cat. 101, in M. Burresi-A. Caleca [a c. di], Volterra d’oro e di pietra, Catalogo della Mostra, Volterra, Palazzo dei Priori-Pinacoteca Comunale, 20 luglio-1 novembre 2006, Ospedaletto (Pisa), Pacini, 2006, p. 146). Di recente Williamson (cat. 152, in Id.-Davies, Victoria and Albert Museum, cit., pp. 434-441: p. 440) ha proposto di assegnare alla stessa bottega veneziana autrice del pezzo di Londra un riccio coll’Agnus Dei conservato sempre al Victoria and Albert Museum (vedi nota 47) e i pastorali di Klosterneuburg (vedi di seguito nota 34), di Siena (con il Battesimo di Cristo, vedi di seguito note 39, 41), del Bargello, di Balti-mora e di collezione privata newyorkese. Sul pastorale di Baltimora, il cui nodo e stelo sono perduti, cfr. Randall, Masterpieces, cit., p. 232 cat. 344 (che lo ritiene opera veneziana del terzo quarto del Trecento); Tomasi, Contributi, cit., pp. 231-236.23 Cott, Siculo-Arabic ivories, cit., i, pp. 20-24 (per la filiazione dei citati pastorali da quelli siculo-arabi), 58 cat. 181 (per il pastorale del Bargello). L’idea di una filiazione dei pastorali gotici italiani da esemplari siculo-arabi del XII-XIII secolo, dei quali avrebbero ripreso anche i caratteri della policromia e doratura, è stata ribadita più di recente anche dalla Gaborit-Chopin (Elfenbein, cit., p. 162).24 Tomasi, Contributi, cit., pp. 234s. n. 61. Sul pastorale di Torcello, assegnato da Schlosser (Die Werk- statt, cit., p. 249) all’ambito lagunare ma poi considerato più plausibilmente da O. von Falke (Ein

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1985 Randall propone convincentemente per il riccio di Baltimora un’attribuzione a bottega veneziana del terzo quarto del Trecento25, mentre nel 1993 pubblica un riccio dello stesso tipo (con il Battesimo di Cristo) in collezione privata newyorkese, proveniente dall’abbazia di San Giusto alle Balze a Volterra (fig. 29), ritenendolo però contraddittoriamente toscano del secondo o terzo quarto del Trecento, influenzato in questa sua idea dalla provenienza del pezzo26. Nel 1988 Danielle Gaborit-Chopin a proposito del menzionato riccio del Bargello ha suggerito un’esecuzione entro il 1343 in Italia centrale o meridionale, dal momento che il pezzo, come già detto, proviene dalla Cattedrale di Acerenza in Basilicata e che l’arcivescovo-committente – che nella scena di Commendatio figura presentato da due Santi, uno dei quali è riconoscibile come San Pietro mentre l’altro è un non meglio precisabile Santo guerriero – sarebbe identificabile secondo la studiosa, che riprende un’idea formulata precedentemente da Umberto Rossi, con Pietro di Monte Caveoso, in carica fra 1334 e 134327. Nel 1997

Bischofsstab islamischer Arbeit und seine Verwandten, «Pantheon» 16, 1935, pp. 266-270: p. 270) opera dell’Italia meridionale di inizio XIII secolo, seguito in questa sua opinione da Cott (Siculo-Arabic ivo-ries, cit., i, p. 53 cat. 149) che lo ascrive al raggruppamento degli avori siculo-arabi, cfr. da ultimo R. Polacco, cat. 105, in H. Fillitz-G. Morello (a c. di), Omaggio a San Marco: tesori dall’Europa, Catalogo della Mostra, Venezia, Palazzo Ducale, 8 ottobre 1994-28 febbraio 1995, Milano, Electa, 1994, p. 225. 25 Vedi nota 22.26 L’opera è stata pubblicata per la prima volta in occasione dell’asta in cui fu venduta da J. Sambon (Description des ivoires de la ville de Volterra: dont la vente aux enchères publiques aura lieu dans les salles de l’Entreprise des Ventes à Florence […], Florence, 1880, pp. 17-20 cat. 3) come opera italiana della seconda metà del XIII secolo. R.H. Randall (The golden age of ivory: gothic carvings in North American collections, New York, Hudson Hills Press, 1993, p. 135 cat. 205) nota affinità, a mio avviso poco stringenti, tra le figure di Apostoli che ornano il nodo architettonico e la scena col Battesimo del Cristo nella voluta e le opere di Giovanni del Biondo e di pittori fiorentini del Trecento. Per quanto concerne i pastorali, lo studioso pone correttamente a confronto l’esemplare newyorkese con i già menzionati ricci del Victoria and Albert Museum (Adorazione dei Magi) e della Walters Art Gallery di Baltimora (Dormizione della Vergine), da lui stesso assegnato qualche anno prima a Venezia e datato al terzo quarto del Trecento (vedi nota 22). Individua però i confronti più stringenti nel pastorale del Bargello, proveniente da Acerenza, per il quale, seguendo le opinioni della Gaborit-Chopin (vedi di seguito nota 27), accoglie l’attribuzione alla Toscana e una datazione ante 1343. Su tale base lo studioso propone di anticipare la cronologia di tutti e quattro i pastorali, ponendola nel secondo quarto del XIV secolo. Williamson (cat. 50, cit., p. 216) mostra invece condivisibilmente di ritenere il pastorale in collezione privata newyorkese, assieme ai menzionati esemplari di Londra, Baltimora e Firenze, opere veneziane della seconda metà del Trecento. Il riferimento a Venezia è stato ribadito da Tomasi (Contributi, cit., p. 235), che pone a confronto la scena col Battesimo di Cristo all’interno del riccio con un bassorilievo di analogo soggetto conservato al Museo Vetrario di Murano, e da M. Collareta (cat. 102, in Burresi-Caleca, Volterra, cit., pp. 146s.). Recente-mente Williamson (cat. 152, cit., p. 440) ha proposto di assegnare il pezzo newyorkese, assieme ad altri pastorali, alla stessa bottega veneziana autrice del riccio del Victoria and Albert Museum (vedi nota 22).27 Cfr. U. Rossi (Il Museo Nazionale di Firenze nel triennio 1889-1891, «Archivio storico dell’arte» 6/1, 1893, pp. 1-24: p. 22 n. 1) che propone di identificare l’arcivescovo-committente presentato alla Ver-gine da San Pietro e da un Santo guerriero con Pietro di Monte Caveoso, da lui ritenuto a torto l’unico presule acheruntino di tal nome nei secoli XIV e XV, quando nessun altro arcivescovo della città lucana avrebbe avuto il nome di un santo guerriero. I.B. Supino-U. Rossi (Catalogo del R. Museo Nazionale di Firenze [Palazzo del Potestà], Roma, Tipografia dell’Unione Cooperativa Editrice, 1898, pp. 367s.) ritengono il pastorale opera italiana del XIV secolo. Cott (Siculo-Arabic ivories, cit., i, p. 58 cat. 181), nonostante la provenienza del pezzo da Acerenza, lo giudicava condivisibilmente opera dell’Italia set-tentrionale del XIV secolo. M. Bárány-Oberschall (Contributi alla tipologia dei pastorali in osso dei secoli

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Williamson ribadisce la produzione veneziana per il riccio di Londra, proveniente da Volterra, per il quale riesce a precisare una datazione al 1370 circa sulla base degli stem-mi che ne ornano la custodia in cuoio, identificabili con quelli del vescovo di Gubbio Giovanni Benci Carrucci Aldobrandini, in carica fra il 1370 e il 137528. Tomasi, che identifica il vescovo-committente del riccio di Acerenza, oggi al Bargello, con Pietro Giovanni de Baraballi, in carica fra 1392 e 1395, ribadisce la produzione veneziana per tutti e quattro i ricci menzionati29. Essi sono infatti accomunati, oltre che da un’analo-ga policromatura e doratura parziale, da un identico schema compositivo che prevede un complesso nodo architettonico ornato da edicole cuspidate e trilobate popolate da figure di Santi, cui si sovrappone una testa di serpente, allusiva alla verga di Aronne, dalle cui fauci fuoriesce il riccio, circondato lungo il bordo esterno da volute fogliacee da cui emergono busti di Profeti, talvolta racchiusi entro girali, e in alto al centro da un fiorone o cespo da cui fuoriesce il busto del Pantocratore. Per questi avori Tomasi propone vari confronti, sia pure non troppo stringenti, con opere scultoree veneziane dei decenni centrali del Trecento, fra cui il rilievo col Battesimo del Cristo del Museo Vetrario di Murano per il riccio di New York e il sarcofago con la Dormizione della Vergine della Collezione Cini nel Castello di Monselice per il riccio di Baltimora30. Nota inoltre l’affinità compositiva dei vivaci busti di Profeti che emergono da cespi di fogliame con motivi analoghi presenti, già nella prima metà del Trecento, in alcune opere di oreficeria veneziane e più tardi, nella seconda metà del secolo, nella scultura

XIII-XIV, «Corvina» s. 3, 2/1, 1953, pp. 23-36: pp. 34s.) invece, sulla base dei luoghi di provenienza e di attuale collocazione di alcuni pastorali (gli esemplari del Victoria and Albert Museum e di collezione privata newyorkese già conservati a Volterra, tre pastorali del Museo dell’Opera del Duomo di Siena, due della Galleria Nazionale dell’Umbria a Perugia e quello del Bargello proveniente da Acerenza), ipotizza-va l’esistenza nel XIII e XIV secolo di «officine specializzate in questo ramo di attività artistica […] in Umbria e in Toscana». La studiosa assegnava a tali officine una nutrita serie di opere, secondo lei databili tra il XIII-XIV secolo e i primi del XV, tra cui proprio il pastorale del Bargello, per il quale avanzava una datazione alla fine del XIV secolo. Più di recente D. Gaborit-Chopin (Avori medievali, Firenze, Museo Nazionale del Bargello, 1988, pp. 73-75 cat. 20), pur sostenendo per il pastorale di Acerenza una data-zione ante 1343, ha proposto di inserirlo in «una serie assai coerente di pezzi dello stesso tipo, per lo più datati verso la metà o nel terzo quarto del XIV secolo e quasi tutti originari dell’Italia centrale e meri-dionale» (è probabile che la studiosa faccia riferimento agli esemplari di Londra, Baltimora e New York).28 Williamson (Avori italiani, cit., pp. 293, 298 n. 9; Id., cat. 50, cit., p. 216; Id., cat. 152, cit., p. 440) ha precisato come la nomina alla sede eugubina di Giovanni Benci Aldobrandini sia avvenuta nel 1370; precedentemente gli studiosi, a partire da Sambon (Description, cit., pp. 21-24 cat. 4), avevano datato il pastorale al 1331, muovendo dall’idea erronea che un precedente membro della famiglia Aldobrandini fosse stato vescovo di Gubbio proprio in quell’anno.29 Tomasi, Contributi, cit., p. 234.30 Ibid., p. 235. G. Tigler (L’apporto toscano alla scultura veneziana del Trecento, in G. Valenzano-F. To-niolo [a c. di], Il secolo di Giotto nel Veneto, Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 2007, pp. 235-275: pp. 263s.) pubblica un rilievo col Battesimo di Cristo in collezione privata che riferisce ad uno scultore veneziano, attivo nella seconda metà del Trecento, vicino all’autore dell’arca di San Nazario nel Duomo di Capodistria (per la quale vedi nota 64), considerandolo influenzato dai rilievi del secondo maestro della facciata del Duomo di Orvieto del 1330 circa, in particolare da quello con lo stesso sogget-to che è inscritto in un girale d’acanto. Tale tipologia compositiva, secondo lo studioso, preannuncerebbe la struttura dei ricci di pastorale italiani del Trecento con il Battesimo entro la voluta.

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lapidea della città lagunare31. Nel 2003 la Gaborit-Chopin ha ulteriormente incre-mentato questo raggruppamento, pubblicando un frammento di riccio costituito da una mezza figura di Profeta entro girale, conservato al Louvre (inv. OA 2767), da lei assegnato alla Toscana o a Venezia e datato al secondo quarto del XIV secolo32, ma da ritenersi con ogni probabilità, in base alle considerazioni di Williamson e Tomasi sopra esposte, opera veneziana del terzo quarto del secolo (fig. 30).

Per il confronto con i quattro ricci di Baltimora, Londra, Firenze e New York, To-masi ne aggiudica a Venezia altri tre33, connotati da schemi compositivi leggermente diversi e semplificati e da una qualità esecutiva più corsiva: quello in osso dell’abbazia di Klosterneuburg in Austria (con la scena dell’Annunciazione)34, quello frammentario del Museo Nazionale di Ravenna (con l’Incoronazione della Vergine, inv. n. 1069), proveniente da Sant’Apollinare in Classe35, e quello del Kunsthistorisches Museum di

31 Tomasi, Contributi, cit., p. 235.32 D. Gaborit-Chopin (Ivoires médiévaux, V e-XV e siècle, Paris, Réunion des Musées Nationaux, 2003, p. 447 cat. 197) ipotizza plausibilmente la provenienza del pezzo dal riccio di un pastorale di struttura analoga a quello del Bargello.33 Tomasi, Contributi, cit., p. 236.34 Il riccio doveva essere in origine ornato lungo il suo estradosso da volute fogliacee da cui emergevano busti di Profeti e del Cristo. Attualmente solo la mezza figura del Cristo si trova nella sua posizione originaria in alto al centro e si conservano solo due busti di Profeti, applicati successivamente lungo il tratto superiore del bastone, ai lati del serpente, mentre gli altri sono andati perduti e sono stati sostituiti lungo il riccio da più piccole foglie, cfr. C. Theuerkauff, Elfenbein in Klosterneuburg, Klosterneuburg, Klosterneuburger Buch- und Kunstverlag, 1962, pp. 35s. cat. 4. A. Ilg-W. Boeheim (Die Schatzkammer und die Kunstsammlung im Lateranensischen Augustiner-Chorherrnstifte Klosterneuburg, Wien, Verlag des Klosterneuburger Chorherrn-Stiftes, 1889, pp. 37s.) si limitavano a riportare la tradizione, risalente a un inventario dei beni del Tesoro del 1773, secondo cui il pastorale sarebbe appartenuto al preposto di Klosterneuburg Pabo, in carica fra il 1279 e il 1292. Lesley (Two triptychs, cit., p. 478), seguito da Cott (Siculo-Arabic ivories, cit., i, p. 57 cat. 175), proponeva confronti con il riccio del Victoria and Albert Museum e un’attribuzione alla Venezia del primo Trecento. H. Klapsia (Katalog der Kunstsammlungen im Stifte Klosterneuburg, iv. Bildwerke aus Elfenbein, Holz, Perlmutter, Stein und Blei, Wien, Verlag des Vereines der Museumsfreunde, 1942, pp. 9s. cat. 7), pur riportando la menzionata tradizione relativa all’appartenenza del pastorale al preposto Pabo, lo ritiene opera veneziana della prima metà del Trecen-to, ponendolo a confronto con un pastorale del Kunsthistorisches Museum di Vienna (vedi di seguito nota 36), con l’esemplare del Victoria and Albert Museum di Londra e con quelli, già confrontati dalla Longhurst con quest’ultimo, dell’Opera del Duomo di Siena e del Seminario Vescovile di Chioggia (vedi nota 22). Theuerkauff (ibid., pp. 35s. cat. 4) ribadisce i confronti avanzati da Klapsia, cui aggiunge i frammenti di pastorale del Louvre e del Museo Nazionale del Bargello e l’esemplare già nella collezione Soltikoff, pure posti a confronto dalla Longhurst con il pastorale di Londra, e, sulla base della presunta datazione al 1331 di quest’ultimo (vedi nota 28), conferma il riferimento alla Venezia della prima metà del Trecento per il pezzo di Klosterneuburg. Tomasi (Contributi, cit., p. 236) propone invece convincen-temente di posticiparne la datazione all’ultimo terzo del Trecento, datazione accolta di recente anche da F. Kirchweger (cat. 14, in W.C. Huber [a c. di], Die Schatzkammer im Stift Klosterneuburg, Dößel, Steko-vics, 2011). Williamson (cat. 152, cit., p. 440), da parte sua, inserisce l’esemplare di Klosterneuburg in un raggruppamento di pastorali da lui ritenuti opera della stessa bottega veneziana autrice del riccio con l’Adorazione dei Magi del Victoria and Albert Museum (vedi nota 22).35 L. Martini (cat. 31, in Ead.-C. Rizzardi [a c. di], Avori bizantini e medievali nel Museo Nazionale di Ravenna: catalogo, Ravenna, Longo, 1990, pp. 103-105) confronta l’Incoronazione della Vergine, unico elemento superstite di un riccio di pastorale, con l’esemplare di Klosterneuburg, assegnato dalla critica a Venezia (vedi nota 34), e con un trittichetto con la Madonna e Santi del Metropolitan Museum di

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Vienna (con l’Incoronazione della Vergine, inv. KK 8785, fig. 31), proveniente dalla cosiddetta Collezione Estense, costituita da oggetti in gran parte di provenienza ve-neziana raccolti all’inizio dell’Ottocento da Tommaso Obizi nella sua villa del Catajo presso Padova36. A questi ultimi tre ricci, in parte già riconosciuti come veneziani dalla critica precedente, lo studioso propone di collegare un pannello, in origine facente parte probabilmente di un cofanetto, con le figure di quattro Apostoli, conservato ai Musei Vaticani37. Può essere inoltre riferito ad una produzione veneziana della se-conda metà del Trecento, sebbene molto più corsiva e semplificata, anche il pastorale conservato nel Museo del Seminario Vescovile di Chioggia, l’unico ad essere rimasto in area lagunare (fig. 32)38. Esso presenta un nodo architettonico ornato da edicolette con archi a pieno centro sormontate da pinnacoli angolari e da fioroni, entro le quali si trovano i simboli degli Evangelisti, e un riccio, circondato da semplici foglie vivacizzate da fori di trapano, contenente due statuette di Vescovi difficilmente giudicabili.

Tomasi rimane invece incerto sul riferimento a Venezia di altri tre ricci, fra di loro simili e confrontabili con quelli finora esaminati, ubicati due nel Museo dell’Opera del Duomo di Siena (aventi al centro rispettivamente il Battesimo di Cristo e l’Annuncia-zione, fig. 33), ritenuti di manifattura toscana dalla Gaborit-Chopin39, e uno nel Mu-

New York, ritenuto da Egbert (North Italian gothic ivories, cit., pp. 177s.) opera di produzione veneziana del tardo Trecento, proponendo per il pezzo ravennate una datazione successiva alla metà del Trecento, precisata in seguito dalla stessa studiosa con l’attribuzione a una bottega veneziana attiva tra il 1370 e il 1390 circa, cfr. L. Martini, La collezione degli oggetti in avorio e osso, in Ead. (a c. di), La collezione degli oggetti in avorio e osso: Museo Nazionale di Ravenna, Roma, Novamusa, 2004, pp. 13-48: pp. 38s.; Ead., Elenco degli avori esposti al Museo Nazionale di Ravenna, ibid., pp. 57-61: p. 58 cat. 31.36 Cfr. H. Fillitz (Katalog der Sammlung für Plastik und Kunstgewerbe, i. Mittelalter, Wien, Kunsthi-storisches Museum, 1964, pp. 46s. cat. 120) che assegna l’opera alla Venezia della fine del Trecento, ponendola a confronto con il pastorale di Klosterneuburg e con un’esemplare del monastero benedettino femminile di Nonnberg a Salisburgo, che è invece a mio avviso centro-italiano. Sul pastorale viennese cfr. da ultimo M. Tomasi, cat. 53, in A. Tartuferi-G. Tormen (a c. di), La fortuna dei Primitivi: tesori d’arte dalle collezioni italiane fra Sette e Ottocento, Catalogo della Mostra, Firenze, Galleria dell’Accademia, 24 giugno-8 dicembre 2014, Firenze, Giunti, 2014, pp. 334s.37 Il pezzo è stato pubblicato da Egbert (North Italian gothic ivories, cit., pp. 183s.) che lo assegnava all’Italia settentrionale e lo datava alla metà del Quattrocento sulla base di un fuorviante confronto, come sottolineato da Tomasi (Contributi, cit., p. 236), con una delle miniature, nello specifico con quella raffigurante l’Ascensione, realizzate da Girolamo da Cremona nel messale oggi conservato nel Museo Diocesano di Mantova (1466).38 La Longhurst (Catalogue, cit., ii, p. 60) inseriva l’esemplare di Chioggia in un gruppo di pastorali da lei posti a confronto con quello del Victoria and Albert Museum, per i quali, rimanendo incerta sulla località di produzione, proponeva una generica origine italiana. Klapsia (Katalog, cit., iv, pp. 9s. cat. 7), basandosi sulla Longhurst, lo citava a confronto per l’esemplare di Klosterneuburg, da lui ritenuto opera veneziana della prima metà del Trecento (vedi nota 34). Un’improbabile origine centro-italiana per il pezzo è stata invece sostenuta dalla Bárány-Oberschall (Contributi, cit., p. 35) che propone una generica datazione al XV secolo.39 Cott (Siculo-Arabic ivories, cit., i, pp. 57 cat. 178, 58 cat. 180) proponeva di assegnare i due pastorali di Siena col Battesimo di Cristo e l’Annunciazione all’Italia settentrionale dell’inizio del Trecento. La Bárány-Oberschall (Contributi, cit., p. 35) invece riferiva a officine dell’Italia centrale attive nel XIII e XIV secolo non solo i due pastorali citati ma anche un terzo esemplare con l’Agnus Dei. La Gaborit-Chopin (Elfenbein, cit., pp. 164, 212 cat. 179) ritiene i pastorali col Battesimo e l’Annunciazione di manifattura toscana in base all’idea che la caratteristica più tipica della produzione veneziana sarebbe

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seo Nazionale del Bargello a Firenze, proveniente dalla chiesa di Santa Maria Novella e appartenuto a Jacopo Altoviti, vescovo di Fiesole tra 1392 e 1408, ritenuto da Tomasi un’opera dai caratteri intermedi tra i pastorali veneziani e quelli senesi40. Quest’ultimo, ornato al centro da una frammentaria Annunciazione, presenta un nodo con archi del quarto ordine ruskiniano, dalla sagoma esternamente inflessa e internamente trilobata, tipici dell’architettura profana veneziana dalla metà del Trecento alla metà del Quattro-cento, che mi fanno propendere per una produzione lagunare. Nel Museo dell’Opera del Duomo di Siena sono esposti un pastorale in osso, dal riccio contenente un’aquila sovrapposta ad un Agnus Dei, e due pastorali in avorio, nei cui ricci sono raffigurati ri-spettivamente il Battesimo del Cristo e l’Annunciazione, quest’ultima con figure rifatte in età barocca41. La recente pubblicazione degli inventari della sacrestia del Duomo di Siena consente di appurare che il pastorale coll’aquila e l’Agnus Dei è sicuramente an-teriore al 1389, essendo registrato nell’inventario di quell’anno che è il più antico degli inventari superstiti42, che quello col Battesimo del Cristo fu donato all’Opera del Duo-

stata la presenza dei busti di figure emergenti da volute fogliacee, elemento di cui sono appunto privi i due esemplari senesi. Si tratta a mio avviso di un elemento non sufficiente per negare l’origine veneziana delle due opere che può essere invece spiegato con la coesistenza nella stessa Venezia di produzioni legger-mente differenti, anche sotto un profilo qualitativo. L’attribuzione a Venezia del pastorale col Battesimo è stata sostenuta di recente anche da Williamson, cat. 152, cit., p. 440 (vedi nota 22).40 Cfr. Tomasi, Contributi, cit., pp. 236s. Sul pastorale del Bargello cfr. anche Supino-Rossi (Catalogo, cit., p. 369) che già lo ricordano come appartenuto al vescovo di Fiesole Jacopo Altoviti.41 I pastorali coll’Agnus Dei e col Battesimo di Cristo sono stati pubblicati da V. Lusini (Il Duomo di Siena, i, Siena, Tipografia Editrice S. Bernardino, 1911, pp. 140, 149 n. 127) che propone una data-zione tra il XIII e il XIV secolo e identifica infondatamente i quattro Santi nel nodo del pastorale col Battesimo con i quattro protettori di Siena (Ansano, Savino, Crescenzio e Vittore). Lo studioso ritiene di poter documentare l’esistenza a Siena di un’attività di intaglio dell’avorio all’inizio del Quattrocento sulla base di due documenti da lui però palesemente fraintesi: il pagamento nel 1412 alla moglie di Cenni di Francesco di «una tavoletta d’avorio figurato co’ Magi e chol Crocifisso» e l’acquisto nel 1419 da parte dell’Opera del Duomo di una pace d’avorio dal frate Bartolomeo di Pietro Ciardi. Con ogni probabilità il pittore fiorentino Cenni di Francesco di Ser Cenni (ancora in vita nel 1413, quando si trovava a San Gimignano) non intagliò la tavoletta d’avorio ma si limitò a policromarla, così come il frate fu semplicemente il proprietario e non l’autore della pace eburnea. Tutti e tre i pastorali sono menzionati nel catalogo del Museo dell’Opera del Duomo di E. Carli (Il Museo dell’Opera e la Libreria Piccolomini di Siena, Siena, Ticci, 1946, pp. 30s.) che li data al XIV secolo e che ritiene che quello col Battesimo, da lui datato verso la metà del Trecento, fosse appartenuto a un vescovo della famiglia Malavolti. Lo segue G. Cecchini, L’Opera Metropolitana e il suo Museo, Siena, Edizioni Tipografia Ex Cooperativa, 1952, p. 22. Cfr. anche E. Carli (Il Duomo di Siena, Genova, Sagep Editrice, 1979, p. 160; Id., Il Museo dell’Opera del Duomo [di Siena], Sinalunga (Siena), Arti grafiche Viti-Riccucci, 1989, pp. 45s.) che a proposito del pastorale col Battesimo scrive: «è tradizione che sia appartenuto al vescovo Donusdeo Malavolti e pertanto dovrebbe essere datato verso il quinto decennio del sec. XIV». Il vescovo Donusdeo Malavolti era in carica fra 1316 e 1350. B. Tavolari (Siena: Museo dell’Opera, guida, Livorno, Sillabe, 2007, p. 44), che mostra già di avere conoscenza degli inventari, data il pastorale col Battesimo al primo decennio del Quattrocento, in quanto appartenuto al vescovo Antonio Casini, e lo attribuisce a un officina senese.42 Cfr. M. Butzek (a c. di), Gli inventari della sagrestia della Cattedrale senese e degli altri beni sottoposti alla tutela dell’operaio del Duomo (1389-1546), Firenze, Edizioni Polistampa, 2012, pp. 24, 37, 55, 101, 140, 187, 244, 299, 363, 419, 460, 517, 556, 606. Nell’inventario del 1389 non è menzionato il soggetto raffigurato nel riccio ma il pastorale viene descritto come «d’avorio in sei peççi co’ la chasa di legnio di-pinta», dizione che è ripetuta nell’inventario del 1391 e nelle aggiunte del 1408 all’inventario del 1397.

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mo dal cardinale Antonio Casini nel 140943 e che quello coll’Annunciazione, registrato fra i beni della sacrestia solo dal 1467, appartenne al vescovo Carlo Bartali, in carica fra 1427 e 144444. Il primo riccio, circondato da volute fogliacee e contenente al suo inter-no un’aquila che sovrasta e sembra quasi avventarsi sull’Agnus Dei, appare ancora diret-tamente influenzato da prototipi siculo-arabi del XII-XIII secolo45. Esso è imparentato tipologicamente col frammento di un riccio, tuttavia privo di foglie, recante una pic-cola aquila che vola sopra ad un Agnus Dei con le corna (cioè un ariete) sul cui dorso poggia un corvo e davanti al quale si trova una volpe, conservato al British Museum di Londra (inv. 1856, 0623.33)46, il quale è a sua volta strettamente confrontabile con un riccio integro, circondato da foglie e recante sempre una piccola aquila che vola sopra ad un Agnus Dei, del Victoria and Albert Museum (inv. 604-1902, in entrambi i casi, così come in quello di Siena, le croci degli Agnus Dei si sono spezzate)47. Il riccio coll’A-

Nell’inventario del 1429, per distinguerlo dal pastorale col Battesimo del Cristo, l’oggetto è descritto più precisamente come «uno pasturale d’osso bianco con uno Agnusdeo da capo di musayco al’antica, messo a oro», dizione ripresa negli inventari del 1435, 1439, 1446 e 1449. In quest’ultimo si specifica che il bastone era ormai stato sostituito in parte con un’asta di legno, dal momento che il pastorale risultava costituito allora da quattro pezzi di osso e da uno di legno. Nell’inventario del 1458 l’oggetto è descritto come «uno pasturale da vesscovo, d’Angnusdeo d’osso biancho, con uno Angnusdeo inn una chasettina rossa da capo, di musaico al’anticha, in quattro peççi et uno di lengnio», dizione ripetuta negli inventari del 1467, 1473, 1482, 1506, 1520 e 1529.43 Cfr. Butzek, Gli inventari, cit., pp. 63, 101, 140, 187, 244, 299, 363s., 419, 460s., 517, 556, 606. Nelle aggiunte del 1409 all’inventario del 1397 figura «uno pasturale da veschovo, in cinque pezi, d’avo-rio» che ricompare nell’inventario del 1429 come «uno pasturale d’avorio bianco col battesmo in meço di sancto Giovanni, messo di musayco a oro, el quale lassò al’Opera monsignore di Sancto Marcello». Negli inventari del 1435, 1439, 1446, 1458, 1467, 1473, 1482, 1506, 1520 e 1529 viene ripetuta la stessa frase ma il donatore è definito in maniera diversa. Nell’inventario del 1435 egli è chiamato «Car-dinale di San Marciello», in quello del 1439 è definito «misser Antongno, cardinale di Sancto Marciello» e si specifica che lasciò il pastorale all’Opera «quando fu vescovo qui», frase quest’ultima ripetuta con qualche variante negli inventari successivi. Antonio Casini, nato a Siena intorno al 1378, fu vescovo di quella città dal 1409 al 1427, quando venne trasferito alla sede di Grosseto, per poi diventare governato-re di Bologna e della Romagna, dal 1426 fu anche cardinale titolare della chiesa di San Marcello al Corso a Roma. Col testamento rogato a Firenze nel 1439 egli dispose il lascito di codici miniati e paramenti al Duomo di Siena, a quello di Firenze e alla chiesa di San Petronio a Bologna.44 Cfr. Butzek, Gli inventari, cit., pp. 364, 419, 461, 517, 556, 606. Nell’inventario del 1467 l’oggetto è descritto come «uno pasturale tutto d’avorio a nmusaicho, in meço con l’Annuntiata, in sei peçi, cor l’arme di misser Charlo», frase ripetuta nell’inventario del 1473 con la seguente postilla: «rotto in più pezzi». Le medesime notizie, con minime varianti, si trovano negli inventari del 1482, 1506, 1520 (nei quali il proprietario è sempre definito «vescovo Carlo») e del 1529. L’unico vescovo di nome Carlo in carica a Siena nei secoli XIV e XV è stato, fra 1427 e 1444, Carlo Bartali da Siena, precedentemente spedalingo dell’Ospedale di Santa Maria della Scala.45 Cfr. Cott (Siculo-Arabic ivories, cit., i, p. 57 cat. 174) che lo assegnava all’Italia settentrionale e propo-neva una datazione tra XIII e XIV secolo.46 Già O.M. Dalton (Catalogue of the ivory carvings of the Christian era […] of the British Museum, London, British Museum, 1909, p. 136 cat. 399) riferiva l’opera all’Italia del XIV secolo e la poneva a confronto con due ricci di pastorale conservati un tempo nella collezione Soltikoff e nella collezione Stein (quest’ultimo è identificabile con quello con agnello e aquila nella voluta pubblicato da Cott, Siculo-Arabic ivories, cit., i, p. 55 cat. 162, ii, tav. lxiii) e con un terzo esemplare con Agnus Dei e aquila del Victoria and Albert Museum (per il quale vedi nota 47).47 La Longhurst (Catalogue, cit., ii, pp. 59s.) riteneva l’opera italiana e proponeva una datazione tra XIII

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gnus Dei del Victoria and Albert Museum è stato assegnato plausibilmente da Margaret Longhurst a un’officina italiana attiva tra XIII e XIV secolo, opinione che mi sembra valida anche per quelli del British Museum e di Siena, sebbene quest’ultimo esemplare mostri già un maggiore risalto volumetrico nelle figure zoomorfe. Al medesimo ambito culturale dei pezzi sopra menzionati propongo di ascriverne altri, caratterizzati dalla presenza di iscrizioni lungo le volute e da un ancor più marcato plasticismo nella resa della figura dell’agnello, elemento quest’ultimo che può indurre ad ipotizzare una loro datazione leggermente successiva, forse già al primo Trecento. Si tratta di un pastorale col riccio contenente un Agnus Dei conservato nel monastero benedettino femmi-nile di Nonnberg a Salisburgo (fig. 26)48 e di un altro, molto simile e col medesimo soggetto, del Metropolitan Museum di New York (inv. 53.63.4, fig. 27)49 che presen-

e XIV secolo. La studiosa sottolineava come i caratteri della policromia e doratura dell’esemplare fossero tipici di un gruppo di pastorali riferiti dalla critica all’Italia e in particolare avanzava confronti con il pastorale di Torcello, appartenuto al vescovo Buono Balbi (per il quale vedi nota 24), e con una serie di esemplari con l’Agnus Dei nella voluta conservati nel Museo Diocesano di Treviso (un tempo nel Tesoro della Cattedrale), nel Museo Nazionale di Ravenna, nel convento femminile di Notre-Dame a Namur, all’Ermitage (già nella collezione Basilewsky, nella quale si trovavano tre pastorali con l’Agnus Dei per i quali cfr. A. Darcel-A. Basilewsky, Collection Basilewsky: catalogue raisonné, i, Paris, Vve A. Morel, 1874, pp. 24s. catt. 76-78), al Metropolitan Museum (già nella collezione Hoentschel, con Agnus Dei di cui rimangono però solo i mozziconi delle zampe) e con uno già nella collezione Schevitch (probabilmente identificabile con quello, poi passato nella collezione Hoentschel e oggi conservato al Metropolitan Museum, con Agnus Dei e riccio privo di foglie, pubblicato da Cott, Siculo-Arabic ivories, cit., i, p. 56 cat. 169). La Longhurst inseriva l’esemplare del Victoria and Albert Museum in un gruppo di pastorali caratterizzati dalla presenza di foglie lungo gli estradossi dei ricci e di iscrizioni sulle volute, dalla studiosa ritenuti leggermente più tardi rispetto a quelli sopra menzionati. In particolare citava a confronto per il pezzo londinese il pastorale con Agnus Dei e aquila del Museo dell’Opera del Duomo di Siena, quello del monastero di Nonnberg a Salisburgo, due esemplari della Galleria Nazionale dell’Umbria a Perugia (vedi di seguito nota 50) e uno custodito nell’abbazia di Zwettl in Austria, a cui aggiungeva un pastorale rinvenuto nel 1898 nella tomba del vescovo Hardouin de Bueil (1373-1439) nella Cattedrale di Angers. Cott (Siculo-Arabic ivories, cit., i, p. 57 cat. 176) precisava l’attribuzione e datazione della Longhurst, assegnando il riccio di Londra all’Italia settentrionale del primo XIV secolo. Williamson (cat. 151, in Id.-Davies, Victoria and Albert Museum, cit., pp. 430-433: pp. 430s.), notandovi delle affinità col pasto-rale con l’Adorazione dei Magi dello stesso Victoria and Albert Museum, da lui datato attorno al 1370 (vedi note 22, 28), propone, a mio avviso poco plausibilmente, di assegnare l’opera a una produzione veneziana del 1350-70 circa.48 Il pastorale di Salisburgo presenta affinità con quello di soggetto analogo dell’Opera del Duomo di Siena: questi sono infatti caratterizzati da un simile modo di trattare le piccole foglie disposte lungo l’estradosso del riccio, con quella in alto al centro dalla sagoma quasi bipartita e le altre dalle estremità frastagliate e movimentate. Sul pastorale di Salisburgo cfr. von Falke (Ein Bischofsstab, cit., p. 270) che lo attribuisce all’Italia settentrionale del 1300 circa; Cott (Siculo-Arabic ivories, cit., i, p. 56 cat. 170) che condivide tale opinione, datando l’opera tra XIII e XIV secolo. Come riporta quest’ultimo studioso, alle badesse del monastero di Nonnberg fu concesso di recare il pastorale solo a partire dal 1242, data che funge dunque da terminus post quem per l’opera.49 J.J. Rorimer (Acquisitions for the Cloisters, «The Metropolitan Museum of Art bulletin» n.s. 11/10, 1952-1953, pp. 265-285: p. 279) assegnava l’opera all’Italia settentrionale e proponeva una datazione al primo XIV secolo. Le opinioni di quest’ultimo studioso sono state accolte da M.E. Frazer (Medieval church treasuries, «The Metropolitan Museum of Art bulletin» n.s. 43/3, 1985-1986, pp. 34, 37 fig. 41). E. von Philippowich (Elfenbein, Braunschweig, Klinkhardt & Biermann, 1961, p. 130) invece non avanzava alcuna attribuzione e datazione per l’opera ma sosteneva una sua dipendenza dal riccio conser-

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ta però, a differenza del pastorale di Nonnberg, un nodo architettonico che sarebbe poi diventato una caratteristica peculiare dei successivi pastorali veneziani. Di questo raggruppamento doveva far parte anche un frammentario riccio di pastorale in osso acquistato nel 2010 dal Louvre (inv. OA 12 319) e schedato da Élisabeth Antoine che lascia sostanzialmente aperta la questione dell’inquadramento cronologico e geografico del pezzo, proponendo una generica datazione al XIV secolo e rimanendo in dubbio tra una produzione lagunare e una dell’Italia centrale50. Personalmente propenderei per una localizzazione del centro di produzione in Italia centrale, considerato che nella Galleria Nazionale dell’Umbria a Perugia si conservano due ricci con l’Agnus Dei (in un caso all’interno del riccio e nell’altro insolitamente al suo esterno tra il fogliame) – uno dei quali (quello con l’agnello all’esterno, fig. 28) proveniente dal monastero cistercense femminile di Santa Giuliana, fondato nel 1253 – entrambi ascrivibili al medesimo ambito culturale degli esemplari sopra menzionati51. A favore di un’origine centro-italiana di questi ricci di ispirazione siculo-araba sembrerebbero deporre inoltre due pastorali con Agnus Dei nelle volute, strettamente confrontabili tra di loro, conser-vati, verosimilmente ab antiquo, nella chiesa di San Gregorio Magno a Roma e a Rieti (oggi nel Museo Diocesano)52. Essi presentano caratteri formali e schemi compositivi

vato nel monastero di Nonnberg a Salisburgo. Sono in effetti molto stringenti le affinità che legano i due pastorali: l’Agnus Dei all’interno dei due ricci ha forme plastiche e ben tornite e le foglie, dalle frastagliate estremità, si dispongono non solo intorno al riccio ma anche lungo il tratto superiore del bastone, ai lati della bocca del serpente da cui fuoriesce la voluta. Sebbene nel pastorale di Salisburgo, lungo questo tratto, vi sia attualmente una sola foglia, è probabile che, analogamente a quello del Metropolitan, ve ne fosse un’altra disposta simmetricamente.50 É. Antoine, cat. 19, in F. Avril-M. Medica (a c. di), Bologne et le pontifical d’Autun: chef-d’oeuvre inconnu du premier Trecento, 1330-1340, Catalogo della Mostra, Autun, Musée Rolin, 12 settembre-9 dicembre 2012, Langres, Guéniot, 2012, pp. 150-154. Il pastorale in osso del Louvre si presenta oggi privo del pro-babile Agnus Dei centrale e delle foglie, la cui originaria presenza è però attestata dai fori lungo l’estradosso del riccio. La studiosa avanza dei confronti con i pastorali di Nonnberg (per il quale dubita dell’attendi-bilità del terminus post quem 1242), del Metropolitan Museum di New York (qui menzionato nel testo), dell’Ermitage (proveniente dalla collezione Stroganoff) e con un esemplare frammentario del Museo Civi-co Medievale di Bologna (appartenuto alla collezione di Pelagio Pelagi, per il quale cfr. S. Giorgi, cat. 80, in M. Medica [a c. di], Duecento: forme e colori del Medioevo a Bologna, Catalogo della Mostra, Bologna, Museo Civico Archeologico, 15 aprile-16 luglio 2000, Venezia, Marsilio, 2000, pp. 267s.).51 Cott (Siculo-Arabic ivories, cit., i, pp. 56s. cat. 173, 57 cat. 177) riferiva entrambi i pastorali di Peru-gia all’Italia settentrionale e proponeva una datazione tra XIII e XIV secolo per quello con l’Agnus Dei all’interno del riccio e una leggermente successiva, già al primo XIV secolo, per quello con l’Agnus Dei posto all’esterno della voluta. La Bárány-Oberschall (Contributi, cit., p. 35) proponeva invece convin-centemente di assegnare i due pastorali a officine dell’Italia centrale attive nel XIII e XIV secolo. Sebbene concordi con quest’ultima studiosa sull’attribuzione dei due pezzi all’Italia centrale, ritengo però convin-cente la datazione leggermente successiva suggerita da Cott per l’esemplare con l’Agnus Dei all’esterno del riccio. L’esemplare con l’Agnus Dei all’interno, strettamente confrontabile con il riccio del Victoria and Albert Museum (vedi nota 47), si presenta oggi privo delle foglie che in origine circondavano il riccio, di cui sopravvivono però i perni per il loro ancoraggio. Il secondo esemplare invece rivela strette affinità con i pastorali di Salisburgo e del Metropolitan Museum (per i quali vedi note 48-49), con i quali condivide un analogo modo di trattare il fogliame e la figura dell’agnello.52 Per l’esemplare di Roma cfr. Bárány-Oberschall (Contributi, cit., pp. 28-31, tav. ii fig. 1) che lo as-segnava all’Italia meridionale della metà del XIII secolo, inserendolo in un più ampio raggruppamento di pastorali, anche piuttosto diversi tra loro, già in parte individuato da von Falke (Ein Bischofsstab, cit.,

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più semplici rispetto ai pezzi sopra esaminati che ne rendono plausibile una datazione ancora al pieno Duecento. Invece per il pastorale in avorio col Battesimo, per il quale Tomasi, seguendo le opinioni della Gaborit-Chopin, sembra propendere per un’origi-ne centro-italiana53, si può a mio avviso fondatamente sostenere un’attribuzione a Ve-nezia, come dimostrano il nodo architettonico con archi inflessi, il rigoglioso fogliame di un tipo diffuso nelle opere architettonico-scultoree veneziane della seconda metà del Trecento e dei primi decenni del Quattrocento, fra cui la tomba del doge Michele Morosini in San Zanipolo e i coronamenti di San Marco54, i caratteri della policromia e doratura e in particolare dell’epigrafia, che richiamano quelli dei ricci già riferiti dalla critica a Venezia, per finire proprio con lo schema compositivo e iconografico della sce-na del Battesimo inserita nella voluta che fuoriesce dalle fauci di un serpente e termina in quelle di un secondo serpente. A sostegno di tale attribuzione è da ricordare che Antonio Casini, che donò il suo pastorale al Duomo di Siena quando divenne vescovo di quella città, precedentemente, fra 1406 e 1408, era stato vescovo di Pesaro55, città in

pp. 266-270) e da lui attribuito a una bottega siciliana attiva intorno al 1200, per la presenza nei ricci di alcuni motivi figurativi secondo lui derivati direttamente dal repertorio iconografico dell’arte islamica del XII-XIII secolo. A tale raggruppamento la studiosa proponeva di aggiungere una serie di pezzi, tra cui quello di Roma e quello oggi conservato nel Museo Diocesano di Treviso. Alcuni pastorali del raggrup-pamento individuato da von Falke sono stati inseriti qualche anno dopo da Cott (Siculo-Arabic ivories, cit., i, pp. 53-56) nel suo repertorio degli avori siculo-arabi e datati al XII secolo. Per il pastorale di Rieti cfr. L. Mortari (Opere d’arte in Sabina dall’XI al XVII secolo, Roma, De Luca, 1957, p. 69 cat. 50; Ead., Il Tesoro del Duomo di Rieti, Roma, Centenari, 1974, p. 29 cat. 18) che si limita ad avanzare una generica datazione al XIV secolo. Un riccio di pastorale con l’Agnus Dei con le corna (un ariete) strettamente confrontabile con quello di Rieti è custodito nel Tesoro della Cattedrale di Fermo, nella quale si trovano altri due ricci frammentari recanti rispettivamente una coppia di uccelli disposti simmetricamente e un’aquila (quest’ultima faceva parte probabilmente di una più ampia composizione con l’Agnus Dei, come sembrerebbe potersi dedurre dai piccoli mozziconi tutt’ora visibili delle zampe dell’animale). Le affinità che legano l’esemplare di Rieti a quello di Fermo risultano evidenti nei simili motivi arabescati, oggi estremamente frammentari, che in origine dovevano ornare i due ricci, così come nell’analoga posa dell’animale, che con una zampa anteriore regge una croce astile, e del mostruoso drago-serpente dalle fauci spalancate con denti aguzzi dalle quali fuoriesce una lingua lunga e appuntita che sfiora il dorso dell’animale. Sui tre pastorali di Fermo cfr. A. Monelli (cat. 74, in G. Morello [a c. di], Libri di pietra: mille anni della Cattedrale di Ancona tra Oriente e Occidente, Catalogo della Mostra, Ancona, Mole Vanvitelliana, 1 maggio-30 settembre 1999, Milano, Electa, 1999, p. 88) che propone una datazione alla metà del Trecento, avanzando confronti, a mio avviso poco stringenti, con due pastorali del Museo Diocesano Albani di Urbino, con il pastorale del Duomo di Cagli, con quello del vescovo Casini a Siena e con un non precisato esemplare del Metropolitan Museum di New York. Lo stile dei tre ricci, ancora direttamente influenzato da prototipi siculo-arabi, rende a mio avviso plausibile una loro datazione nei decenni centrali del XIII secolo e una loro esecuzione in Italia centrale. Ai due esemplari di Fermo (riccio integro con Agnus Dei) e di Rieti è accostabile un riccio con l’Agnus Dei conservato al Louvre, per il quale la Gaborit-Chopin (Ivoires, cit., pp. 225s. cat. 70) ha proposto un’attribuzione a Venezia o all’Italia centrale e una datazione ancora all’inizio del Duecento, avanzando convincenti confronti, tra l’altro, con un riccio di pastorale dell’Ermitage di San Pietroburgo e con il già menzionato riccio di San Gregorio Magno a Roma.53 Cfr. Gaborit-Chopin, Elfenbein, cit., pp. 164, 212 cat. 179; Tomasi, Contributi, cit., pp. 236s.54 Su queste opere cfr. Wolters, La scultura, cit., i, pp. 205s. cat. 121, 242-248 cat. 175.55 Cfr. A. Amatori-D. Simoncelli, La Chiesa pesarese dalle origini ai nostri giorni, Roma, Herald, 2003, p. 128.

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quegli anni gravitante artisticamente su Venezia (basti pensare alle opere di Jacobello del Fiore, incluso il Crocifisso ligneo di Antonio Bonvexin policromato dal pittore veneziano a Casteldimezzo). È dunque probabile che Casini, celebre committente di Masaccio e Jacopo della Quercia, che donò all’Opera del Duomo di Siena anche un codice miniato realizzato a Sansepolcro56, avesse commissionato a Venezia, quando era ancora vescovo di Pesaro, il proprio pastorale, per poi farne dono alla Cattedrale di Siena. Quanto al terzo pastorale senese, appartenuto al vescovo Bartali, successore del Casini, esso sembra pure riferibile ad una produzione veneziana, seppure più tarda e meno raffinata, probabilmente già dei primi decenni del Quattrocento, come induco-no a pensare la struttura compositiva dell’insieme, il nodo architettonico dalle com-plesse forme polilobate e inflesse e i caratteri della policromia e doratura, così come quelli dell’epigrafe, che rivelano affinità con la decorazione dipinta del pastorale del vescovo Casini. A differenza di quest’ultimo però, circondato da vivaci volute fogliacee come mosse dal vento, nel pastorale del vescovo Bartali le foglie che corrono lungo l’estradosso del riccio appaiono nettamente più semplificate e stilizzate.

Analogamente sarà da riferire a Venezia il pastorale, custodito nel Duomo di Ca-gli, privo di nodo architettonico ma circondato da foglie, oggi conservate solo ai lati del tratto superiore del bastone sopra al nodo ma in origine disposte verosimilmente anche sull’estradosso del riccio (fig. 34), che rivelano strette affinità, nella loro stilizza-zione lineare e nell’uso ornamentale dei fori di trapano, con quelle del già menzionato pastorale del vescovo Bartali a Siena. Il pastorale di Cagli, analogamente a quello del vescovo Bartali, conteneva al centro del riccio un’Annunciazione di cui sopravvive la sola Vergine stante, oggi spostata al centro del riccio, mentre è andato perduto l’Angelo annunciante che in origine era probabilmente genuflesso57. Questo riccio rivela alcune affinità con quelli del secondo raggruppamento individuato da Tomasi, in particolare con quello di Vienna, con cui condivide l’analogo uso ornamentale del trapano per vi-vacizzare le superfici. Si può quindi affermare che fra Tre e Quattrocento vari pastorali in avorio e osso, di differente qualità esecutiva, abbiano raggiunto, attraverso la costa adriatica, l’Italia centrale, essendo appartenuti a vescovi di Pesaro, Cagli e Gubbio (cit-tà quest’ultima che dal 1384 faceva parte dei domini dei Montefeltro), e che solo in un secondo momento il pastorale del vescovo di Pesaro Casini sia giunto a Siena così come

56 Per il mecenatismo del cardinale Casini cfr. A. Galli, cat. A. 37, in M. Seidel (a c. di), Da Jacopo della Quercia a Donatello: le arti a Siena nel primo Rinascimento, Catalogo della Mostra, Siena, Santa Maria della Scala-Opera della Metropolitana-Pinacoteca Nazionale, 26 marzo-11 luglio 2010, Milano, Motta, 2010, pp. 112s.; L. Cavazzini, cat. A. 38, ibid., pp. 114s.; L. Simonato, cat. A. 39, ibid., pp. 116s.; Id., cat. A. 40, ibid., pp. 118s.57 Cfr. L. Serra (L’arte nelle Marche, ii. Il periodo del Rinascimento, Roma, Arti Grafiche Evaristo Armani, 1934, p. 517) che proponeva per l’opera una datazione non anteriore al XV secolo; B. Montevecchi (Arti minori, in S. Papetti [a c. di], Atlante del Gotico nelle Marche: Pesaro-Urbino e provincia, Milano, Mazzotta, 2004, pp. 111-130: p. 129 cat. 32) che confronta, a mio avviso in modo poco convincente, il pastorale di Cagli con quello con l’Agnus Dei conservato al Metropolitan Museum di New York, proponendo di assegnarlo a una «bottega dell’Italia settentrionale» del XIV secolo, datazione che può forse essere posticipata agli inizi di quello seguente per le affinità che lo legano all’esemplare senese del vescovo Bartali.

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quello appartenuto al vescovo di Gubbio Aldobrandini a Volterra. Analogamente si può ipotizzare che anche il secondo pastorale trecentesco di Volterra (quello coll’Ado-razione dei Magi) sia pervenuto in quella città in epoca successiva alla sua commissio-ne, di cui però non si ha alcuna notizia. Un caso ancora diverso è poi quello del più tardo esemplare commissionato o acquistato nel secondo quarto del Quattrocento dal vescovo senese Bartali che, forse per spirito di emulazione del suo predecessore, avrà voluto possedere anche lui un pastorale veneziano. A questa produzione veneziana della seconda metà del Trecento e dei primi decenni del Quattrocento, dalle forme ricche ed esuberanti, non sono però facilmente aggregabili i due più semplici ricci con la scena dell’Annunciazione, con figure entrambe genuflesse, conservati nel Museo Diocesano Albani di Urbino, dei quali l’uno, di proprietà del capitolo della Cattedrale, è oggi privo di foglie all’esterno del riccio e reca solo alcune lettere dorate dell’iscrizione che in origine correva lungo la voluta, mentre l’altro, con un nodo ornato da busti di figure, presenta piccole e semplici foglie ed è, almeno allo stato attuale, anepigrafo58.

58 Il riccio di proprietà del capitolo conserva ancora, seppure parzialmente, l’originaria policromia e doratura, mentre l’altro ha perduto la sua policromia e reca solo tracce di doratura nelle due teste di serpente e nella figura dell’Angelo annunciante, cfr. B. Montevecchi, cat. 24, in P. Dal Poggetto (a c. di), Fioritura tardogotica nelle Marche, Catalogo della Mostra, Urbino, Palazzo Ducale, 25 luglio-25 ottobre 1998, Milano, Electa, 1998, p. 109; Ead., Arti, cit., pp. 121-123 catt. 12-13. Nel primo esemplare all’in-terno del riccio si trovava l’Annunciazione, oggi sostituita da un gruppo di analogo soggetto realizzato in legno, cfr. Ead., Arti, cit., p. 123 cat. 13; D. Tonti-S. Bartolucci, Pastorale, in La stanza degli avori: prezio-se creazioni eburnee sacre e profane tra Pesaro e Urbino, Catalogo della Mostra, Pesaro, Museo Diocesano, 8 maggio-16 settembre 2012, Pesaro, Museo Diocesano, 2012, pp. 34-36: p. 36. Nel secondo esemplare un recente restauro condotto nel 2009 da Vincenzina Tancini ha consentito di leggere con chiarezza le parti originali e le integrazioni successive, frutto di antichi interventi di restauro: qui le piccole foglie disposte lungo l’estradosso del riccio sono state ricostruite in legno, così come lo è stato, seppure par-zialmente, il nodo ornato da mezze figure, nel quale un solo busto è originale, cfr. Tonti-Bartolucci, Pastorale, cit., p. 36. Per quanto riguarda lo stile e la datazione dei due pastorali, la Montevecchi (cat. 24, cit., p.109) ritiene l’esemplare con il nodo ornato da mezze figure opera centro-italiana della metà del XIV secolo e propone confronti, sia tipologici che formali, oltre che con l’altro esemplare di Urbino, con i pastorali di Cagli, del vescovo Casini a Siena (ritenuto appartenente al vescovo Malavolti, vedi nota 41) e del Metropolitan Museum di New York (dove vi è l’Agnus Dei, vedi nota 49), da lei definiti «tutti affini stilisticamente e cronologicamente al pastorale di Urbino». L’attribuzione dei due pastorali urbinati all’I-talia centrale della metà del Trecento è stata ribadita anche più di recente dalla studiosa (Ead., Arti, cit., pp. 121-123 catt. 12-13), che tuttavia cambia opinione sul pastorale di Cagli, proponendo di assegnarlo all’Italia settentrionale (vedi nota 57). Sui due esemplari urbinati cfr. da ultimo Tonti-Bartolucci (Pasto-rale, cit., pp. 34-36) che per il pastorale con il nodo ornato da busti di figure ribadiscono l’attribuzione e alcuni dei confronti avanzati dalla Montevecchi, mentre ritengono l’altro esemplare più antico e lo pongono a confronto con il cosiddetto pastorale di Sant’Isidoro conservato nel Museo di Santo Stefano a Bologna, a mio avviso ben diverso, per il quale S. Giorgi (cat. 79, in Medica, Duecento: forme e colori, cit., pp. 266s.) ha proposto l’attribuzione all’Italia settentrionale del quinto-sesto decennio del XIII se-colo, avanzando il confronto con un riccio di pastorale con l’Annunciazione (della quale oggi si conserva solo la figura stante dell’Angelo) del Detroit Institute of Arts che Randall (The golden age, cit., p. 134 cat. 202) assegna genericamente a un’officina italiana del XIII secolo. La Giorgi, in relazione al pastorale bolognese, menziona anche l’esemplare dell’abbazia di Nonnberg a Salisburgo e quello conservato nella Galleria Nazionale dell’Umbria a Perugia (con l’Agnus Dei all’esterno della voluta), sottolineandone però le differenze, soprattutto nella resa più elaborata del fogliame, dal manufatto bolognese, da lei spiegate con una presunta anteriorità cronologica di circa quattro decenni di quest’ultimo. A mio avviso invece

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Essi, sicuramente attribuibili ad una stessa bottega, forse attiva nella seconda metà del Trecento, rivelano comunque qualche affinità con i più complessi e raffinati esempla-ri veneziani (di cui alcuni presenti, verosimilmente ab antiquo, in un’area geografica prossima ad Urbino), come dimostra la presenza delle due fauci di serpente all’inizio e alla fine della voluta e quella, in uno dei due pastorali, dei busti che emergono dal fogliame, applicati tuttavia non all’estradosso del riccio bensì al nodo.

3. Manici di coltelli e scriminatoi per capelli

Per rimanere nell’ambito dell’attuale provincia di Pesaro-Urbino, vorrei passare adesso ad analizzare una piccola opera eburnea, finora quasi del tutto trascurata dagli studi, per la quale, anche alla luce di quanto detto sopra, non è affatto da escludere una pre-senza ab antiquo sul territorio. Nel Museo della Biblioteca Oliveriana di Pesaro si con-serva infatti una scultura eburnea a tutto tondo (cm 11,5 x 3,5) con le figure di Adamo ed Eva (inv. 3851 (3705)) che poggiano su una base lievemente smussata lungo il bor-do superiore e che fiancheggiano l’Albero della conoscenza dalle cui radici si dipartono verticalmente due rami con le cui foglie i due Progenitori coprono, dopo aver com-messo il Peccato originale, le loro nudità (figg. 12-13). Dal punto di vista iconografico il pezzo è interessante per l’assenza del serpente che può essere spiegata con il fatto che è rappresentato il momento immediatamente successivo alla consumazione del frutto proibito e precedente alla loro Cacciata dall’Eden. Per quanto concerne la funzione, Filippo Alessandroni, nella scheda di catalogo recentemente dedicata all’intaglio, ha correttamente notato come esso in origine potesse fungere da manico di pugnale o, a mio avviso più plausibilmente, da utensile da tavola, sul tipo di un forchettone o di un coltello per arrosti, proprio per la presenza di un foro al di sotto della base per l’inserimento di una parte metallica59. Nella scheda citata l’avorio è stato assegnato a un’officina dell’Italia settentrionale della prima metà del Quattrocento influenzata dal Nord Europa. Chiaramente mi sono posta il problema se non potesse trattarsi di un

le foglie che circondano il riccio di Sant’Isidoro, oggi purtroppo prive della policromia che in origine doveva vivacizzarle, non sono così diverse nella loro sagoma frastagliata, seppure più semplificata, da quelle che ornano proprio gli estradossi dei ricci di Nonnberg e di Perugia (con l’Agnus Dei all’esterno del riccio), per i quali condivido la datazione tra tardo Duecento e primo Trecento proposta da Cott (Siculo-Arabic ivories, cit., i, pp. 56 cat. 170, 57 cat. 177), datazione che a mio avviso può essere avanzata anche per l’esemplare bolognese, le cui affinità con il pastorale di Detroit sono assai generiche, in primo luogo per l’assenza in questo manufatto delle slanciate e frastagliate foglie che corrono lungo la voluta. Non riesco inoltre a cogliere le affinità stilistiche, sottolineate da Tonti e Bartolucci, tra l’esemplare ur-binate con l’Annunciazione rifatta, per il quale condivido l’attribuzione all’Italia centrale e il confronto con l’altro pastorale di Urbino avanzati dalla Montevecchi, e quello di Detroit, il cui stile, pienamente duecentesco, è assai distante da quello che connota entrambi i pastorali del Museo Albani, per i quali mi sembra verosimile una datazione nel corso della seconda metà del Trecento.59 F. Alessandroni, Manico con Adamo ed Eva, in La stanza degli avori, cit., pp. 24s. Precedentemente l’o-pera era stata menzionata unicamente da A. Brancati (cat. VIII.2.1, in Id. [a c. di], Un ricordo di Annibale degli Abbati Olivieri Giordani (1708-1789), Catalogo della Mostra, Pesaro, Palazzo Almerici, 27 settem-bre-30 novembre 1994, Pesaro, Annesio Nobili, 1994, p. 52) che l’assegnava alla Toscana del XV secolo.

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falso, eventualità tutt’altro che remota, come vedremo, nel caso degli avori; tuttavia tale dubbio è accantonabile prima di tutto per ragioni stilistiche ma anche perché l’og-getto, sulla cui provenienza non disponiamo di alcuna indicazione documentaria, fino a prova contraria doveva far parte della collezione dell’erudito pesarese Annibale degli Abbati Olivieri, collezione alla quale sono ascrivibili con certezza gli altri avori medie-vali, tutti originali, del Museo della Biblioteca Oliveriana. All’epoca dell’Olivieri, la seconda metà del Settecento, non risulta che si fabbricassero falsi in stile, un fenomeno sviluppatosi solo a partire dall’Ottocento. Per il pezzo di Pesaro non è stato ancora notato che la composizione e la stessa articolazione plastica delle figure, così come l’i-dea dei rami con le foglie di fico che si dipartono direttamente dalle radici dell’albero, costituiscono una citazione diretta dal rilievo angolare di analogo soggetto di Palazzo Ducale a Venezia (fig. 35), opera di Filippo Calendario (1341-1355)60, dove tuttavia è presente il serpente e i rami con le foglie hanno un tratto iniziale in comune, quasi a disegnare una ‘Y’. Tale confronto, che dimostra ancora una volta il dialogo serrato tra la scultura di grandi dimensioni e la produzione di oggetti eburnei61 e che mi sembra essere il confronto più preciso tra quelli finora avanzati fra la scultura lapidea veneziana di età gotica e gli avori riferibili a botteghe coeve della stessa città, mi spinge ad ipo-tizzare una produzione lagunare per il nostro avorio. Esso sembra costituire dunque un ulteriore appiglio per la problematica ricostruzione di una scuola veneziana attiva nel corso della seconda metà del Trecento, prima della nota produzione della ‘ditta’ di Baldassarre Ubriachi. Che non si tratti di una tarda derivazione bensì di un’opera compartecipe dello stesso milieu stilistico delle sculture lapidee di Filippo Calendario e dei suoi più stretti collaboratori e seguaci in Palazzo Ducale a Venezia e altrove è dimo-

60 Non è questa la sede per affrontare le problematiche relative a Filippo Calendario, del quale una parte della critica aveva messo in dubbio l’attività di scultore recentemente però confermata da un ritrova-mento documentario. Sull’argomento cfr. V. Lazzarini, Filippo Calendario: l’architetto della tradizione del Palazzo Ducale, «Nuovo archivio veneto» s. 2, 4/7 parte 2, 1894, pp. 429-446; Wolters, La scultura, cit., i, pp. 40-48, 172s., 173-178 cat. 48, 178s. cat. 49; Id., Scultura, in U. Franzoi-T. Pignatti-Id., Il Palazzo Ducale di Venezia, Treviso, Canova, 1990, pp. 117-224: pp. 119-134; Id., La scultura (1300-1460), in R. Pallucchini (a c. di), Storia di Venezia: temi; l’arte, i, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1994, pp. 305-341: pp. 316-324; L. Puppi, Geografia di un crinale: Filippo Calendario tra storia e leggenda, in F. Valcanover-W. Wolters (a c. di), L’architettura gotica veneziana, Atti del Convegno Internazionale di Studio, Venezia, 27-29 novembre 1996, Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 2000, pp. 99-103; W. Dorigo, Venezia romanica: la formazione della città medioevale fino all’età gotica, i, Verona, Cierre Edizioni, 2003, p. 622; Tigler, L’apporto toscano, cit., pp. 237s.61 Un così fedele riecheggiamento di un prototipo lapideo monumentale in una micro-scultura in avo-rio non rappresenta affatto un’eccezione: nel caso degli avori parigini della seconda metà del Duecento con la Madonna stante col Bambino in braccio la critica ha chiarito la talvolta puntuale derivazione dai prototipi lapidei dei trumeaux dei portali gemini delle grandi cattedrali gotiche francesi, quali quelli del transetto Nord di Notre-Dame di Parigi e del transetto Sud di Notre-Dame di Amiens, ma anche l’ancor più stringente confrontabilità tra statue lapidee di dimensioni medio-piccole, come la Madonna di Saint-Jacques di Compiègne, e Madonne in avorio, come quelle del Taft Museum di Cincinnati, del Metroplitan Museum di New York e del Louvre, ascrivibili a una produzione seriale alla quale sembra essersi ispirato anche Giovanni Pisano (vedi nota 13). Su tali argomenti cfr. R. Suckale, Studien zu Stil-bildung und Stilwandel der Madonnenstatuen der Ile-de-France zwischen 1230 und 1300, München, 1971; Seidel, “Opus heburneum”, cit., pp. 377-381.

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strato dalle stringenti affinità che legano i tipi facciali, come inebetiti, con voluminose capigliature striate pettinate all’indietro, dell’avorio pesarese a quelli delle sculture lapi-dee. Per quanto riguarda le migliori sculture di Palazzo Ducale, riferibili ad una stessa mano, identificata plausibilmente da Wolfgang Wolters con quella del «proto» (diret-tore del cantiere) Filippo Calendario, si prestano ad un confronto con il nostro avorio le teste delle figure di Noè ebbro e dei figli nel rilievo angolare Est, che fa da pendant a quello già menzionato con Adamo ed Eva, quella del rilievo con la personificazione di Venezia sotto forma di Giustizia nella facciata Ovest del palazzo e le teste del capitello, posto all’angolo Sud-Ovest proprio sotto al rilievo con i Progenitori, sui cui otto lati sono raffigurati la Creazione di Adamo e i Segni zodiacali (il cui originale è oggi con-servato nel Museo di Palazzo Ducale). I capitelli di Palazzo Ducale sono databili poco prima del 1344, data inscritta su uno di essi (quello con i rappresentanti delle sette Arti liberali e Re Salomone), ed entro il 1348, quando il cantiere subì un’interruzione a causa della peste62. I volti delle figure di Adamo ed Eva nell’avorio di Pesaro, dalle espressioni quasi imbronciate e con le piccole bocche chiuse a fessura, ricordano anche quelli dei Re e Imperatori di un altro capitello di Palazzo Ducale, riferito da Wolters a un collaboratore del Calendario, e quelli dei busti di Profeti e Santi dell’incorniciatura superiore del monumento sepolcrale del patriarca Bertrando nel Battistero di Udine, per la quale Guido Tigler propone condivisibilmente l’attribuzione a Filippo Calenda-rio, a cui riferisce anche il capitello veneziano63. Anche il turgido e frastagliato fogliame dell’alberetto eburneo richiama quello, certo più dettagliato e opulento, degli alberi, rispettivamente di fico e di vite, dei due rilievi angolari di Palazzo Ducale, così come quello, dalle sagome polilobate, di alcuni capitelli dello stesso palazzo e della già men-zionata incorniciatura di Udine. Per i volti e le capigliature si possono ravvisare inoltre affinità con le figure angolari degli Arcangeli Michele e Raffaele, poste in corrispon-denza del primo piano di Palazzo Ducale, proprio sopra ai già menzionati rilievi con Noè ebbro e i Progenitori, opere databili dopo l’interruzione causata dalla peste del 1348 e prima della congiura ordita da Marin Faliero nel 1355 e riferibili a uno scultore veneziano seguace del Calendario. A questo scultore, identificato ipoteticamente da

62 Nel capitello è la figura di Pitagora che reca una tavoletta sulla quale è inscritta la data 1344 (data che in verità è stata variamente letta e interpretata dalla critica). Wolters (La scultura, cit., i, p. 175) ipotizza plausibilmente che la realizzazione dei capitelli fosse iniziata poco dopo l’inizio dei lavori di costruzione del palazzo nel 1341 e che essi fossero sostanzialmente terminati nel 1348. Sui capitelli di Palazzo Ducale cfr. anche A. Manno, Il poema del tempo: i capitelli del Palazzo Ducale di Venezia; storia e iconografia, Ve-nezia, Canal & Stamperia Editrice, 1999; A. Lermer, Der gotische “Dogenpalast” in Venedig: Baugeschichte und Skulpturenprogramm des Palatium Comunis Venetiarum, München, Deutscher Kunstverlag, 2005.63 Sul capitello e l’arca del Beato Bertrando cfr. Wolters, La scultura, cit., i, pp. 178 (che assegna il capi-tello a uno scultore collaboratore del Calendario, con il quale avrebbe condiviso l’interesse per i dettagli alla moda dell’abbigliamento), 185s. cat. 69 (che ritiene la tomba un’opera di collaborazione fra uno scultore di formazione milanese, cui riferisce le «sarcofore» e i rilievi della cassa, che risentono anche dell’‘espressionismo’ della coeva pittura e miniatura bolognese, e un maestro veneziano, a cui assegna i simboli del Tetramorfo agli angoli e la cornice superiore con busti di Profeti e Santi); G. Tigler, Riesame del cantiere del Duomo di Gemona (1280-1337), in P. Cammarosano (a c. di), Gemona nella patria del Friuli: una società cittadina nel Trecento, Atti del Convegno di Studio, Gemona del Friuli, 5-6 dicembre 2008, Trieste, CERM, 2009, pp. 155-211: p. 177.

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Tigler col successore del Calendario, il «proto» Enrico (documentato nel 1351), lo stu-dioso propone di attribuire l’arca di San Nazario a Capodistria, i cui fianchi sono ornati da rilievi con Angeli cerofori genuflessi dalle ondulate e striate capigliature affini anche a quelle del nostro avorio64. Il dialogo scultura lapidea-eburnea non fu univoco ma si svolse in entrambe le direzioni, come dimostra nello stesso Palazzo Ducale un capitello, attribuito da Wolters a un collaboratore di Filippo Calendario, sulle cui otto facce è raffigurata la storia di una coppia innamorata che culmina tragicamente nella morte del loro bambino. Lo scultore sembra aver utilizzato come modello per le scene del corteg-giamento, della dichiarazione d’amore, della ‘consegna’ del cuore all’amata (che peral-tro mostra di fraintendere raffigurando al posto del cuore un pomo) e del bacio avori francesi con immagini di amor cortese e in particolare custodie circolari per specchi, di cui un esemplare è tutt’ora conservato al Museo Correr di Venezia65. Che l’adozione dell’iconografia del Peccato originale nel pezzo pesarese non sia un caso isolato è dimo-strato da un altro manico di coltello, in osso, riadattato successivamente a impugnatura di sigillo, esposto nel Museo Civico Medievale di Bologna (inv. 103) e ascrivibile, come reca il cartellino, all’Italia settentrionale della seconda metà del Trecento.

I manici di coltello in avorio potevano avere un utilizzo liturgico o profano: nel primo caso i soggetti sono di carattere sacro (profeti, santi, vescovi, monaci o frati), nel secondo troviamo singole figure di animali, scene di caccia, figure di cavalieri, singole figure maschili e femminili vestite alla moda, colte talvolta nell’atto di suonare uno strumento musicale o di reggere un falcone, e anche coppie di figure in atteggiamenti erotico-amorosi66. Il manico di coltello con i Progenitori di Pesaro rientra in qualche misura in quest’ultima categoria, così come intende rientrarvi quello del Museo Civico di Torino (inv. 153/AV, fig. 38), già accostato al nostro da Alessandroni67. Tuttavia nell’avorio torinese le due figure, solo con estrema cautela identificabili con Adamo ed Eva, sono colte nell’insolito atto di stringersi davanti all’albero e di reggere insieme un piccolo uccello che copre il sesso di lui, mentre la donna, i cui capezzoli sono costituiti da puntini d’argento, è completamente nuda. Questo pezzo, riferito da Mallè all’Ita-lia settentrionale e datato alla seconda metà del XV secolo, desta perplessità per i fin

64 Cfr. G. Tigler, Precisazioni sull’arca di San Nazario, «Arte in Friuli, arte a Trieste» 21-22, 2003, pp. 49-62: pp. 58, 62 n. 23.65 Già Wolters (La scultura, cit., i, p. 178) si era accorto dell’esemplarità di avori francesi di soggetto profano per alcuni dei capitelli di Palazzo Ducale, tra cui quello qui analizzato con scene della vita dell’uomo, e aveva proposto per le scene amorose il confronto con alcune miniature di un codice francese del Roman de Troyes conservato a Venezia. Si deve tuttavia a G. Tigler (Le facciate del Palazzo, l’ispirazione dell’artista: la cultura figu-rativa di ‘Filippo Calendario’, in Manno, Il poema, cit., pp. 17-33: pp. 23-25) l’aver individuato precisi confronti con avori francesi, come dittici e custodie di specchi, per le prime quattro scene del capitello, le cui restanti immagini appaiono del tutto estranee al repertorio iconografico della produzione eburnea francese di soggetto profano d’età gotica, e di aver capito la valenza di monito delle raffigurazioni contro l’amore extraconiugale e il concubinaggio. Il dialogo con gli avori francesi e tale interpretazione iconografica del capitello sono stati ribaditi anche dalla Lermer, Der gotische “Dogenpalast”, cit., p. 182.66 Per questa mia ricognizione delle impugnature di coltello e di gravoir mi sono servita dell’utilissimo repertorio on-line “The Gothic Ivories Project” realizzato dal Courtauld Institute di Londra (www.gothi-civories.courtauld.ac.uk).67 Alessandroni, Manico, cit., pp. 24s.

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troppo espliciti riferimenti erotici di cui è caricato il soggetto, che solo con cautela può essere identificato col Peccato originale68. A mio avviso, proprio alla luce della singolare iconografia, non è da escludere che possa trattarsi di un falso ottocentesco, considerato anche che l’avorio reca incisa ai piedi dell’albero, a tergo, una scritta ottocentesca con le seguenti parole: «Amor coniugale». Tornando all’avorio di Pesaro, l’idea di porre l’immagine del Peccato originale su un’impugnatura di coltello, verosimilmente di uso profano, può forse essere spiegata con l’interpretazione, piuttosto diffusa nell’ambito della teologia e dell’immaginario collettivo medievale, dell’episodio biblico in chiave di peccato della carne e di seduzione femminile69. In tal senso appartiene alla stessa categoria iconografica un manico di coltello, conservato al Louvre e attribuito con-divisibilmente dalla Gaborit-Chopin all’Italia settentrionale della seconda metà del Trecento, costituito da un roseto attorno al quale si svolgono quattro scene di carattere amoroso (inv. OA 6267): un cavaliere inginocchiato dinnanzi alla sua dama, il quale poi le offre il suo cuore, una dama che intreccia una ghirlanda e una coppia che co-glie fiori e frutta, una coppia di amanti che si abbracciano e l’enigmatico soggetto di due donne stanti sulla schiena di un giovane uomo a gattoni70. Mentre le prime tre scene rientrano nel tradizionale repertorio iconografico dell’amor cortese, ricorrente nella produzione eburnea francese d’età gotica di carattere profano (dittici, custodie di specchi e pettini), che potrebbe aver costituito la fonte d’ispirazione per il manico di coltello, l’ultima scena esula da tale repertorio iconografico. Koechlin ipotizzava che si trattasse di una delle numerose rappresentazioni, tratte dal Lai d’Aristote di Henri d’Andeli, di Aristotele cavalcato da Fillide alla presenza di Alessandro Magno, opinio-

68 Già L. Mallé (Smalti-avori del Museo d’Arte Antica: catalogo, Torino, Museo Civico di Torino, 1969, p. 310) sottolineava la particolarissima iconografia del pezzo ma ciò nonostante scriveva: «Per quanto non mi risultino altri casi con tale soggetto, non credo si debba pensare ad imitazione, che sarebbe anzi fal-sificazione, del sec. XIX, limitandosi l’intervento aggiuntivo alla scritta». Lo studioso assegnava l’avorio a una «bottega padana assimilata agli Embriachi», se non addirittura alla «loro cerchia», e avanzava una datazione alla seconda metà del Quattrocento, pur notando il persistere di certi elementi ‘arcaizzanti’.69 Durante tutto il Medioevo, come scrive J. Le Goff (Il corpo nel Medioevo, trad. it. Bari, Laterza, 2010 [ed. or. Une histoire du corps au Moyen Âge, Paris, Liana Levi, 2003], p. 127), «Eva e Maria rappresenta-no i due poli della bellezza femminile […]. Da una parte, vi è Eva la tentatrice, e più specificamente la peccatrice, derivata da una lettura in chiave sessuale del peccato originale. Ma, contemporaneamente, il Medioevo non dimentica che il Dio della Genesi ha creato la donna perché essa sia la compagna dell’uomo, affinché egli non resti solo. Eva rappresenta quindi un aiuto per l’uomo, gli è necessaria». Sulla contrapposizione delle figure di Eva e Maria cfr. anche E. Guldan, Eva und Maria: eine Antithese als Bildmotiv, Graz, Böhlau, 1966; sull’interpretazione di Eva come colei che si è lasciata sedurre dal peccato e che ha tentato e sedotto a sua volta Adamo inducendolo a peccare cfr. M.T. D’Alverny, Come vedono la donna i teologi ed i filosofi, in M.C. De Matteis (a c. di), Idee sulla donna nel Medioevo: fonti e aspetti giuridici, antropologici, religiosi, sociali e letterari della condizione femminile, Bologna, Pàtron, 1981, pp. 259-303; e più di recente F. Colin-Goguel, L’image de l’amour charnel au Moyen Âge, Paris, Seuil, 2008, pp. 23, 27. In generale sulle differenti interpretazioni date attraverso i secoli, e in particolare nel Medioevo, dei passi del Genesi relativi alla Creazione di Adamo ed Eva e al Peccato originale cfr. K.E. Børresen, L’ordine della Creazione, in De Matteis, Idee sulla donna, cit., pp. 177-257; K. Flasch, Eva e Adamo: metamorfosi di un mito, trad. it. Bologna, Il Mulino, 2007 (ed. or. Eva und Adam: Wandlungen eines Mythos, München, C.H. Beck, 2004).70 Cfr. Gaborit-Chopin, Ivoires, cit., pp. 496s. cat. 229. Koechlin (Les ivories, cit., ii, p. 409 cat. 1140) aveva invece proposto di assegnare l’opera alla Francia della prima metà del Trecento.

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ne giustamente avversata dalla Gaborit-Chopin71. Probabilmente si tratta infatti, come ha evidenziato la studiosa, di una immagine che rientra nel repertorio dell’amore cor-tese e più specificamente nell’allegoria del concetto dell’uomo che si lascia soggiogare dal fascino femminile, concetto che del resto permea anche la stessa storia di Aristotele e Fillide che ha numerose testimonianze letterarie e figurative.

Si può notare in vari casi una coincidenza iconografica e compositiva tra le impu-gnature eburnee dei coltelli e quelle dei gravoirs, ovvero scriminatoi per capelli, che facevano parte della toilette femminile d’età gotica e tardo-gotica tra la fine del XIII e i primi decenni del XV secolo72. I prototipi di tale tipologia di oggetti sono parigini, dal momento che da lì si irradiavano in Europa occidentale le nuove mode. Data la loro funzione suntuaria, raramente i gravoirs presentano soggetti religiosi73, mentre preval-gono quelli profani, a partire dagli animali singoli o a coppie, tema frequente anche nelle impugnature di coltello74. Alla tematica della corruzione e del peccato della carne potrebbero alludere le demoniache figure maschili, ibridamente composte da parti umane e parti ferine, che ornano una serie di scriminatoi esclusivamente di produzione italiana, databili tra la seconda metà del Trecento e i primi del Quattrocento75. In nu-

71 Cfr. Koechlin, Les ivories, cit., i, pp. 418, 419 n. 1, 421, ii, p. 409 cat. 1140; D. Gaborit-Chopin, Aristote et les roses: sur un manche de couteau du Musée du Louvre, in P. Přibyl-M. Sošková (a c. di), In Italiam nos fata trahunt, sequamur…: sborník příspěvků k 75. narozeninám Olgy Pujmanové, Praha, Společnost přátel Národní Galerie v Praze, 2003, pp. 41-44.72 A proposito delle impugnature di coltello decorate con animali, la cui localizzazione è dibattuta tra Francia ed Italia, C.R. Beard (Gravoirs and knife-hafts: a nineteenth-century ‘fake’ exposed, «The connois-seur» 101, aprile 1938, pp. 171-175) ipotizzava che in molti casi potesse trattarsi di opere di un falsario che avrebbe creato dei pastiches, reimpiegando pezzi originali uniti a parti moderne o riutilizzando im-pugnature di gravoirs come manici di coltelli assemblandoli a lame originali trecentesche; tale operazione sarebbe stata condotta sotto la direzione di Jean-Baptiste Carrand, il padre di quel Louis Carrand che nel 1888 lasciò la sua collezione parigina al Museo Nazionale del Bargello a Firenze. Questa opinione, ripre-sa da vari studiosi, fra cui la Gaborit-Chopin (Ivoires, cit., pp. 570s. cat. 278), è stata ragionevolmente contraddetta dalla Chiesi (Catalogo, cit., p. 538) che, occupandosi di quattro impugnature di coltello della collezione Carrand del Bargello da lei ritenute originali, sottolinea l’impossibilità di interscambiare le impugnature di coltello con quelle degli scriminatoi per capelli, essendo di dimensioni differenti, e ritiene poco plausibile che Louis Carrand avesse donato al Museo Nazionale di Firenze quattro impugna-ture di coltello consapevole che si trattasse di falsi fatti eseguire dal padre, dal momento che le armi della stessa collezione, che erano davvero dei pastiches, furono da lui vendute alla morte del padre.73 Si possono ricordare un esemplare con la Trinità al Louvre, ritenuto di manifattura inglese della se-conda metà del XIV secolo (cfr. Gaborit-Chopin, Ivoires, cit., p. 491 cat. 224), e due con la Madonna col Bambino, di cui uno di produzione francese della metà del Trecento al Musée d’Art et d’Histoire di Ginevra (cfr. Koechlin, Les ivoires, cit., i, p. 417 n. 7, ii, p. 410 cat. 1144) e l’altro italiano nella Burrell Collection di Glasgow.74 Come si può vedere nello scriminatoio francese o fiammingo del XV secolo, conservato al Kunst-gewerbemuseum di Berlino, che presenta un ermellino, simbolo di purezza e verginità, e in quelli, riferiti ad una produzione italiana (settentrionale) della seconda metà del XIV secolo, del Louvre, che reca un grifone (cfr. Gaborit-Chopin, Ivoires, cit., p. 567 cat. 274), del Museo Nazionale di Ravenna, con un cervo (cfr. L. Martini, cat. 34, in Ead.-Rizzardi, Avori, cit., pp. 106s.; Ead., Elenco, cit., p. 58 cat. 34), e del Victoria and Albert Museum, dove si conservano due esemplari pendant, ornati l’uno con un leone singolo e l’altro con una coppia di leoni, cfr. Longhurst, Catalogue, cit., ii, pp. 61s.75 Si tratta degli esemplari del Kunstgewerbemuseum di Berlino, del Bargello, ritenuto opera italiana del XV secolo (cfr. Chiesi, Catalogo, cit., pp. 523s. cat. 44), della Art Gallery of Ontario di Toronto e di uno,

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merosi casi incontriamo figure femminili singole, spesso col capo ornato da coroncine o ghirlande, che reggono un cagnolino, iconografia questa che sembrerebbe essere sor-ta in Francia già alla fine del XIII secolo76; in altri scriminatoi le donne suonano invece strumenti musicali77, tengono cofanetti78 o reggono un falcone79, mentre solo in un caso di collezione privata di ubicazione ignota mi risulta essere attestata l’iconografia della donna nuda. Rari sembrano essere anche i casi di figure maschili singole vestite alla moda80 e quelli di figure femminili e maschili poste sui due lati dell’impugnatura81. Di gran lunga più frequente è la tematica della coppia di amanti in piedi teneramente affiancati, probabilmente originatasi in Francia intorno all’anno 130082 e poi adottata in Italia settentrionale nel corso della seconda metà del XIV secolo in esemplari dal contenuto però ben più esplicitamente erotico, con amanti che si abbracciano, si ba-

che suona un organo portatile, in collezione privata di ubicazione ignota, attribuito all’Italia del XIV secolo, cfr. M. Davenport, European dress, in The secular spirit: life and art at the end of the Middle Ages, Catalogo della Mostra, New York, Metropolitan Museum of Art-Cloisters, 26 marzo 1975-3 giugno 1975, New York, E.P. Dutton & Co., 1975, pp. 69-95: p. 94 cat. 106.76 Si possono ricordare infatti l’esemplare del Musée des Beaux-Arts di Angers, ritenuto francese e datato tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo (cfr. F. Comte-D. Gaborit-Chopin, Un gravoir médiéval au Faubourg de l’Évière d’Angers (Maine-et-Loire), «Revue archéologique de l’Ouest» 4, 1987, pp. 149-152), quello, rinvenuto presso la Senna, assegnato alla Francia della metà del XIV secolo, oggi di ubicazione ignota ma in passato conservato nella collezione Mutiaux e poi in quella Kofler-Truniger di Lucerna (cfr. Koechlin, Les ivoires, cit., i, pp. 417 n. 6, 418s., ii, p. 406 cat. 1122; Schnitzler-Volbach-Bloch, Skulpturen, cit., i, p. 20 cat. S 50), e quello di difficile attribuzione del Museo de Historia di Valencia.77 Ad esempio nell’esemplare francese del XV secolo del Musée de l’Hôtel Sandelin a Saint-Omer.78 Come si vede nell’esemplare del Museum Mayer van den Bergh di Anversa, assegnato alla Francia della metà del XIV secolo (cfr. J. De Coo, Museum Mayer van den Bergh: catalogus, ii. Beeldhouwkunst, plaketten, antiek, Antwerpen, Museum Mayer van den Bergh, 1969, p. 119 cat. 2111; S. Vandenberghe, Ivory in Bruges: treasures from museums, churches and monasteries, «Museum bulletin» 30/2, 2010, pp. 14s.), in quello conservato al Grand Curtius Museum di Liegi (cfr. ibid., pp. 14s.), in quello dello Ste-delijke Archeologische Dienst (Raakvlak) di Bruges, ritenuto opera francese o fiamminga della metà del XIV secolo (cfr. ibid., p. 14), e in quello sempre del XIV secolo già nel Bijlokemuseum di Gand. Per i gravoirs di Anversa, Liegi e Bruges è stata proposta l’identificazione delle figure femminili, che recano in capo dei diademi, con Pandora, cfr. ibid., p. 14.79 Come si può vedere in un gravoir conservato al Musée de Cluny di Parigi, assegnato alla Francia della seconda metà del Trecento (cfr. Koechlin, Les ivoires, cit., i, pp. 417 n. 6, 418 n. 1, ii, p. 406 cat. 1124). Il pezzo presenta una superficie assai consunta, di conseguenza non è del tutto chiaro se ciò che la dama regge con entrambe le mani sia un falcone.80 Si possono ricordare un gravoir conservato al Palais des Beaux-Arts di Lille con un giovane nell’atto di reggere un falcone, assegnato alla Francia della fine del XIII-inizio del XIV secolo (cfr. Koechlin, Les ivoires, cit., i, pp. 417 n. 6, 418s., ii, p. 405 cat. 1120; Comte-Gaborit-Chopin, Un gravoir, cit., p. 151), e un esemplare del Bargello, ritenuto di produzione nord-italiana e datato tra 1360 e 1400, cfr. Chiesi, Catalogo, cit., p. 525 cat. 45.81 Come si vede nel pezzo del Musée du Petit Palais di Avignone, ritenuto opera francese del XIV secolo, con un uomo coronato che regge un falcone su una faccia e sull’altra una donna che tiene un cagnolino, cfr. J. Thiriot, Le dépotoir du Petit-Palais, Avignon, in M. Fixot-L. Vallauri (a c. di), L’église et son environne-ment: archéologie médiévale en Provence, Catalogo della Mostra, Aix-en-Provence, Musée Granet, settembre-dicembre 1989, Aix-en-Provence, Laboratoire d’Archéologie Médiévale Méditerraneénne, 1989, p. 89.82 A quest’epoca viene infatti datato un gravoir del Louvre in cui l’amante offre un fiore alla sua amata che si ritrae pudicamente, cfr. Gaborit-Chopin, Ivoires, cit., p. 364 cat. 133.

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ciano o in evidenti atteggiamenti sessuali83. Soltanto nei gravoirs francesi del Trecento sembra essere attestata l’iconografia, frequente anche su dittici, custodie di specchi e pettini, dell’amante genuflesso dinnanzi alla sua amata, la quale talvolta lo incorona con un serto di fiori o tiene un cagnolino84, e quella, sicuramente più rara, della stessa scena alla presenza del Dio Amore85. La tirannia dell’amore è illustrata anche mediante il ricorso all’episodio di Aristotele cavalcato da Fillide che compare, a quanto mi è noto, in un solo esemplare francese86. Francesi sono anche due gravoirs in cui è presen-

83 Si tratta di un gravoir conservato al Museo Civico Medievale di Bologna, assegnato all’Italia settentrio-nale (Veneto?) della fine del Trecento (cfr. A. Marciano, Ludovico Savioli e gli “avorj dei bassi tempi”, «Arte a Bologna» 2, 1992, pp. 186-202: p. 190), di uno scriminatoio del Fitzwilliam Museum di Cambridge, attribuito all’Italia del XIV secolo (cfr. E. Maclagan [a c. di], Catalogue of an exhibition of carvings in ivory, London, Burlington Fine Arts Club, 1923, p. 88 cat. 150), di un esemplare del Museo Nazionale di Ra-venna, riferito all’Italia del Nord (Lombardia?) e datato intorno al 1370-1390 (cfr. L. Martini, cat. 33, in Ead.-Rizzardi, Avori, cit., p. 106; Ead., Elenco, cit., p. 58 cat. 33), e della coppia di scriminatoi del Museo Nazionale del Bargello, assegnati dalla Chiesi (Catalogo, cit., pp. 526s. cat. 46, 528s. cat. 47) a una produ-zione nord-italiana del 1360-1400 circa e da lei posti a confronto con il già menzionato gravoir di Bologna e con due esemplari delle Civiche Raccolte di Arte Applicata del Castello Sforzesco di Milano e dell’Ermitage di San Pietroburgo. A questi pezzi assegnati dalla critica all’Italia settentrionale della seconda metà del Tre-cento propongo di aggiungere un gravoir con coppia di amanti in atteggiamento erotico (l’uomo solleva la gonna alla donna) del Musée d’Art et d’Histoire di Ginevra, riferito dapprima ad una produzione parigina del 1300 circa (cfr. R.M. Mason, Acquisitions du Musée d’Art et d’Histoire en 1986, «Genava» n.s. 35, 1987, pp. 207-276: p. 251) e in seguito ritenuto da N. Piano (La collection d’ivoires médiévaux du Musée d’Art et d’Histoire de Genève, «Genava» n.s. 55, 2007, pp. 147-158: pp. 156s. cat. 12), che non esclude comunque la possibilità che si tratti di un falso, opera dell’Alsazia o della Renania del 1370-1400 circa.84 Come si può vedere in un esemplare del Louvre con l’amante inginocchiato dalle mani giunte come in preghiera, ritenuto opera parigina del 1320-1340 circa (cfr. Koechlin, Les ivoires, cit., i, p. 418, ii, p. 408 cat. 1134; Gaborit-Chopin, Ivoires, cit., p. 564 cat. 269), in uno di analogo soggetto del Williams Col-lege Museum of Art di Williamstown, assegnato alla Francia della prima metà del Trecento (cfr. Randall, The golden age, cit., pp. 120s. cat. 178), in un secondo pezzo del Louvre, dove la donna è colta nell’atto di incoronare l’amato, ritenuto opera francese della metà del XIV secolo (cfr. Koechlin, Les ivoires, cit., i, pp. 418s., ii, p. 408 cat. 1136; Gaborit-Chopin, Ivoires, cit., p. 564 cat. 270), in uno scriminatoio in collezione privata londinese, con lui inginocchiato e lei che regge un cagnolino, assegnato alla Francia del XIV secolo (cfr. Koechlin, Les ivoires, cit., i, p. 418 n. 4, ii, p. 408 cat. 1135), e in un pezzo con lo stesso soggetto, un tempo conservato nella collezione Duruy di Parigi e poi in quella Kofler-Truniger di Lucerna, riferito alla Francia della metà del Trecento (cfr. Koechlin, Les ivoires, cit., i, p. 418 n. 4, ii, p. 408 cat. 1134 bis; Schnitzler-Volbach-Bloch, Skulpturen, cit., i, p. 20 cat. S 49). In generale sul variegato reperto-rio di soggetti profani, costituito da scene di amor cortese ma anche da rappresentazioni tratte da opere letterarie come i romanzi cavallereschi, che caratterizza una parte importante della produzione eburnea, soprattutto francese, d’età gotica cfr. R.H. Randall, Popular romances carved in ivory, in Barnet, Images, cit., pp. 63-79; M. Tomasi, “Les fais des preudommes ausi com s’il fussent present”: gli avori cavallereschi tra romanzi e immagini, in E. Castelnuovo (a c. di), Le stanze di Artù: gli affreschi di Frugarolo e l’immaginario cavalleresco nell’autunno del Medioevo, Catalogo della Mostra, Alessandria, Complesso Conventuale di San Francesco-ex Ospedale Militare, 16 ottobre 1999-9 gennaio 2000, Milano, Electa, 1999, pp. 128-137.85 Attestata solo, a quanto mi è noto, da un esemplare del Louvre, ritenuto opera francese del secondo quarto del XIV secolo (cfr. Gaborit-Chopin, Ivoires, cit., p. 426 cat. 179). Koechlin (Les ivoires, cit., i, p. 417, ii, p. 410 cat. 1143), che aveva assegnato il pezzo alla Francia avanzando una datazione ancora alla fine del XIII secolo, aveva proposto di identificare i tre personaggi con la Madonna col Bambino alla presenza di un donatore, identificazione contraddetta dalla Gaborit-Chopin (ibid., p. 426 cat. 179) che vi vede condivisibilmente la rappresentazione di un soggetto di carattere profano.86 Si tratta di un gravoir conservato al Victoria and Albert Museum di Londra, assegnato alla Francia

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Nuove considerazioni sulla scultura eburnea veneziana di età gotica

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te, analogamente al manico di coltello di Pesaro, lo schema compositivo della coppia di figure ai lati di un albero: quello del Musée de Cluny a Parigi (inv. CL. 376), con una coppia di amanti, che reggono lui un falcone e lei un cagnolino, seduti su un trono sul cui retro si trova un albero la cui chioma è andata in gran parte perduta87, e quello del Museo Civico di Torino (inv. 158/AV), databile tra 1330 e 1360, con Tristano e Isotta stanti davanti a un albero e dinnanzi alla fontana in cui è riflessa la testa di Re Marco (fig. 39)88. Si può dunque ipotizzare che l’autore del nostro avorio, che si richiama, an-che da un punto di vista stilistico-formale, alla composizione messa a punto da Filippo Calendario per Palazzo Ducale, abbia potuto tener presente per la sua creazione una tradizione tipologica e compositiva attestata in Francia, almeno per quanto concerne i gravoirs, già nella prima metà del Trecento. In Italia, e nello specifico a Venezia, tale modulo compositivo, con coppie di figure disposte ai lati di un albero, risulta essere stato ripreso non solo nell’impugnatura di Pesaro ma anche in due frammenti in osso (in uno dei quali compare una fontana), montati in origine su un cofanetto tipolo-gicamente affine a quelli realizzati dalla bottega degli Embriachi, conservati al Museo Nazionale del Bargello (fig. 40)89. Essi sono stati riferiti da Tomasi a una produzione

della prima metà del Trecento, cfr. Koechlin, Les ivoires, cit., i, pp. 418, 427, 440, ii, pp. 408s. cat. 1138; Longhurst, Catalogue, cit., ii, p. 49; Gaborit-Chopin, Aristote, cit., pp. 41s.87 Cfr. Koechlin (Les ivoires, cit., i, p. 418, ii, p. 407 cat. 1131) che ritiene il gravoir un’opera francese e avanza una datazione alla prima metà del XIV secolo.88 Koechlin (Les ivoires, cit., i, p. 418, ii, p. 408 cat. 1137) aveva assegnato l’opera alla Francia della metà del Trecento, seguito da L. Vitali (cat. 23, in Id. [a c. di], Avori gotici francesi, Catalogo della Mostra, Milano, Museo Poldi-Pezzoli, aprile-giugno 1976, Milano, Electa, 1976, p. 37). Mallé (Smalti-avori, cit., pp. 298s.) lasciava invece aperta la possibilità di una produzione francese o nord-italiana per il pezzo, per il quale avanzava una datazione alla seconda metà del XIV secolo. In anni più recenti l’attribuzione del gravoir alla Francia della metà del Trecento è stata riproposta da M. Tomasi (cat. 27, in Castelnuovo, Le stanze di Artù, cit., p. 186).89 I cofanetti in osso prodotti dalla bottega degli Embriachi, così come i forzierini realizzati in altri mate-riali (fra cui legno e pastiglia dorata), venivano generalmente donati, dopo la stipula del contratto nuziale e prima dello scambio della promessa e degli anelli, dal fidanzato alla promessa sposa, cosa che ne spiega i programmi iconografici frequentemente incentrati su tematiche amorose o ad esse allusive, tematiche che connotano anche alcuni cassoni nuziali (si pensi a tre esemplari d’origine fiorentina, risalenti al 1330-1340 circa, conservati rispettivamente in collezione privata, al Victoria and Albert Museum di Londra e nella collezione Cini di Venezia, che rappresentano scene d’amor cortese, ovvero coppie di amanti ai lati di un albero e di una fonte e cavalieri e dame a cavallo) e talvolta i deschi da parto toscani (come il precoce esemplare, realizzato a Firenze intorno al 1370, conservato al Musée de la Chartreuse di Douai, sulla cui fronte è raffigurato il Giardino d’amore con nove giovani disposti attorno ad una fonte), cfr. P.F. Watson, “Virtu” and “voluptas” in cassone painting, Ph.D. Diss., New Haven, Yale University, 1970, pp. 14-18, 144-163; M. Seidel, Studi sull’iconografia nuziale del Trecento, in Id., Arte Italiana, cit., i. Pittura, trad. it. (ed. or. Hochzeitsikonographie im Trecento, «Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Flo-renz» 38/1, 1994, pp. 1-47), pp. 409-442: pp. 430-437; M. Tomasi, L’arredo della casa, in M. Seidel (a c. di), Storia delle arti in Toscana, ii. Il Trecento, Firenze, Edifir, 2004, pp. 251-274: pp. 262, 265, 268s. Nello specifico sui cofanetti degli Embriachi, sulla loro funzione e sui soggetti che vi sono raffigurati cfr. Tomasi, Miti antichi, cit., pp. 126-145. Il tema del Giardino d’amore e le sue trasposizioni figurative sono stati ampiamente indagati da P.F. Watson (The Garden of Love in Tuscan art of the early Renaissance, Philadelphia, The Art Alliance Press, 1979, pp. 61-75). Lo studioso sostiene che la presenza della fontana sarebbe stata un elemento distintivo delle rappresentazioni del Giardino d’amore, il quale, secondo lui, avrebbe ricevuto una codificazione a livello figurativo solo alla fine del Trecento. E. Neri-Lusanna (Per-

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pre-embriachesca del terzo quarto del Trecento, per la quale Elena Merlini ha coniato la definizione di «Gruppo a figure inchiodate» (data la presenza di grossi chiodi per il fissaggio delle placchette), proponendo di localizzarne il centro di produzione in Italia settentrionale, opinione ripresa dalla Chiesi per le due placchette del Bargello, per le quali Tomasi rimaneva invece incerto tra una produzione centro-italiana e una set-tentrionale, ma che a mio avviso, per le loro affinità con l’avorio pesarese, potrebbero essere riferite proprio a Venezia90.

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correndo Giardini di Virtù: affreschi e letteratura morale a Firenze nel primo Trecento, in Ead.-M. Branca-F. Carrara, Percorrendo Giardini di Virtù: affreschi del Trecento a Firenze nel Canto dei Pecori al Boldrone, Todi (Perugia), Ediart, 2005, pp. 13-32) tuttavia nota come una raffigurazione assimilabile a quella del Giardi-no d’amore, con una fontana e degli alberi, compaia già negli affreschi di Villa Pecori al Boldrone (presso Castello, in periferia di Firenze), da lei datati ai primi anni Quaranta del Trecento.90 Per il «Gruppo a figure inchiodate» cfr. Merlini (La “Bottega degli Embriachi”, cit., pp. 277-279) che giustifica il riferimento all’Italia settentrionale con la presenza «di influssi tematici d’Oltralpe». Nei cofa-netti da lei attribuiti a questa bottega nota il ricorrere di «rappresentazioni allegoriche, di cultura tardogo-tica, della Corte o del Giudizio del Dio Amore»: sono infatti assai frequenti coppie di figure che conversa-no o si abbracciano, così come elementi di gusto cortese, quali falconi, cervi, conigli, cani e fontane. Cfr. anche L. Martini (“Bottega degli Embriachi”: cofanetti e cassettine tra Gotico e Rinascimento, in Ead. [a c. di], “Bottega degli Embriachi”: cofanetti e cassettine tra Gotico e Rinascimento, Catalogo della Mostra, Brescia, Brixiantiquaria, 17-25 novembre 2001, Bagnolo Mella (Brescia), Grafica Sette, 2001, pp. 9-27: pp. 11-14) che propone invece di localizzare l’attività della bottega a Firenze e di datarne la produzione, sulla base dei caratteri della moda delle figure che ornano i cofanetti, tra il 1360 circa e la fine del secolo. La studiosa infatti, notando la diversità stilistica dei cofanetti dagli oggetti di carattere sia sacro che profano ricondotti da Tomasi a una produzione veneziana della seconda metà del Trecento e ritenendo i soggetti di tali co-fanetti estranei al clima gotico-cortese e cavalleresco d’Oltralpe e dell’Italia del Nord, istituisce confronti iconografici con i più antichi deschi da parto fiorentini, nei quali nota il ricorrere, come nei cofanetti, del Giardino d’amore con la fontana da dietro la quale o dentro la quale sorge l’albero, del falconiere simbolo della Caccia d’amore, delle coppie di amanti e di animali caricati di valenze simboliche, come il coniglio e il cervo. Tuttavia coppie di amanti disposte ai lati di fontane da cui fuoriescono alberi si ritrovano anche in un cofanetto d’avorio del Louvre ornato da placchette piatte con decorazioni dorate e policromate. La Gaborit-Chopin (Ivoires, cit., pp. 551s. cat. 259) ha proposto di assegnare genericamente questo cofanetto all’Italia della fine del XIV-inizio del XV secolo, ponendolo però a confronto con due esemplari conser-vati al Glencairn Museum di Bryn Attyn e al Museo Nazionale del Bargello a Firenze, assegnati entrambi ad una produzione dell’Italia settentrionale e datati l’uno, da Randall (The golden age, cit., p. 139 cat. 214), tra il 1390 e il 1410, e l’altro, nell’inventario degli avori del Bargello, all’inizio del XV secolo. La policromia del cofanetto, di lontana ascendenza siculo-araba, ricorda quella dei pastorali veneziani sopra esaminati e anche quella, sebbene più semplice, di un pettine con scene galanti del Bargello che Tomasi (Contributi, cit., pp. 243s.; Id., La bottega, cit., pp. 18s. cat. 1), basandosi su un raggruppamento di avori individuato da Egbert (North Italian gothic ivories, cit., pp. 182s.), assegna a una bottega veneziana, quella del cosiddetto gruppo ‘Innes’ (costituito da una serie di oggetti eburnei riuniti da Egbert che individuava nel dittico di Innes il pezzo chiave dell’intero gruppo), attiva intorno al 1360-1380, bottega alla quale lo studioso riferisce una serie di oggetti sia sacri che profani, fra cui alcuni pettini e valve di specchio, su cui in queste sede non posso intrattenermi. In anni più recenti Tomasi (Monumenti d’avorio, cit., pp. 166s., 283s.) ha tuttavia avanzato per il gruppo ‘Innes’ la possibilità che si tratti della produzione di un falsario, auspicando un riesame del gruppo. Per le placchette del Bargello cfr. Tomasi, La bottega, cit., pp. 20s. cat. 2; Chiesi, Catalogo, cit., pp. 532s. cat. 49.

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25. Londra, Victoria and Albert Museum, trittico ad ante con Incoronazione della Vergine

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26. Salisburgo, abbazia di Nonnberg, pasto-rale con Agnus Dei

28. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria, pastorale con Agnus Dei

27. New York, Metropolitan Museum, pa-storale con Agnus Dei

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30. Parigi, Louvre, frammento di riccio di pastorale con Profeta

29. New York, collezione privata, pastorale con Battesimo di Cristo

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31. Vienna, Kunsthistorisches Museum, riccio di pastorale con Incoronazione della Vergine

32. Chioggia, Museo del Seminario Vesco-vile, pastorale con due figure di Vescovi

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34. Cagli, Tesoro della Cattedrale, pastorale con Vergine Annunciata

33. Siena, Museo dell’Opera del Duomo, pastorali con Battesimo di Cristo e Annunciazione (rifatta)

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35. Venezia, Palazzo Ducale, rilievo angolare con Adamo ed Eva

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36-37. Pesaro, Museo della Biblioteca Oliveriana, manico di coltello con Adamo ed Eva, fronte e retro

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38. Torino, Museo Civico di Arte Antica, manico di coltello con coppia di amanti

39. Torino, Museo Civico di Arte Antica, impu-gnatura di gravoir con Tristano e Isotta

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40. Firenze, Museo Nazionale del Bargello, due placchette già parti di un cofanetto con coppie di amanti

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