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Sapete d’altronde che la mia passione edilizia è più forte che mai e alcun terremoto ha potuto distruggere tanti edifici quanti noi ne erigiamo. Costruire è una cosa incantevole: divora il denaro, ma più costruisci più hai voglia di costruire. È una malattia o forse, come l’alcolismo, una sorta di vizio. Caterina II a Melchior Grimm Non di rado la storia, per ritrovarsi e motivare se stessa, deve indietreggiare ricorrendo alla sua memoria più remota, facendo emergere più nitidamente le movenze profonde, i segni e gli atti pri- migeni da cui ha preso vita un’intera vicenda. Questo è tanto più vero nei confronti dell’epopea “classicista” che è il simbolo più evidente e concreto dello sforzo compiuto dalla Russia all’avvento del Settecento, il secolo dei lumi, per modernizzarsi in senso europeo. Nell’osservare i primi episo- di di questa vicenda, la fondazione nel 1703, a seguito di un lungo viaggio attraverso l’Europa, da parte di Pietro I il Grande della nuova capitale dell’impero, San Pietroburgo, in un non-luogo – che susciterà una leggendarietà negativa da parte di poeti e scrittori russi – sulle rive della Neva, scelto allo scopo di consolidare le nuove terre conquistate e assicurare, oltre allo sbocco sul Mar Baltico, anche un futuro commerciale e militare di grande potenza navale alla Russia, rivolgendosi nel con- tempo allo scenario europeo, a lungo trascurato e anzi subordinato al fronte orientale, la storia del- la nuova Russia, che prende avvio con questa fondazione, pare proprio assumere un’eloquenza sen- za eguali. Non si può affermare lo stesso per altre nazioni e altre grandi capitali europee: non per Parigi, che è la culla del “secolo filosofico” da cui scaturisce la modernità, radice della società civi- le aperta e plurale che a tutt’oggi caratterizza l’intera Europa; non per Londra, dove si attuano i pri- mi eventi modernisti in ambito artistico, né per Madrid, splendidamente passatista, neppure per la grande e polimorfa e contraddittoria Vienna o la magica Praga, ma neanche per la bella Monaco o per il modello di riferimento più vicino a San Pietroburgo sotto il profilo ambientale che è Amster- dam, il grande porto fluviale, oppure anche, per venire all’Italia, il portale d’oriente, la Serenissima repubblica marinara di Venezia. Quest’ultima è una città-mare immersa in un microclima che si pre- senta in modo molto simile all’ambiente in cui sorge il nucleo primitivo di San Pietroburgo, costi- tuito attorno alla Fortezza e alla Cattedrale dei Santi Pietro e Paolo opera di Domenico Trezzini. A conferma di un qualche lecito legame con la Serenissima, si ricordi come dai documenti d’archivio si può apprendere che Pietro volle visitare la città lagunare, sia pure per poche ore e in assoluta clan- destinità o in incognito. Il fatto straordinario che dà avvio a questa storia è costituito proprio dalla nascita, voluta da Pietro il Grande, di una nuova capitale del suo impero, il vasto impero russo, che viene edificata dove le acque della Neva dominano selvagge, in un’area fangosa, battuta dai venti artici, deserta e inospi- tale, piegando in tal modo la natura alla volontà dell’uomo, con tipico spirito illuminista. San Pie- troburgo, città programmata, è predestinata e sarà dunque per vocazione e non solo anagrafica- mente e fisicamente la città più moderna del Settecento, in virtù di questo atto apparentemente Costruire è una cosa incantevole Letizia Tedeschi XXI

Costruire è una cosa incantevole, in N. Navone, L. Tedeschi (a cura di), Dal mito al progetto. La cultura architettonica dei maestri italiani nella Russia neoclassica, Mendrisio -

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Sapete d’altronde che la mia passione edilizia è piùforte che mai e alcun terremoto ha potuto distruggere tanti edifici quanti noi ne erigiamo. Costruire è una cosa incantevole: divora il denaro, ma più costruisci più hai voglia di costruire. È una malattia o forse, come l’alcolismo, una sorta di vizio.

Caterina II a Melchior Grimm

Non di rado la storia, per ritrovarsi e motivare se stessa, deve indietreggiare ricorrendo alla suamemoria più remota, facendo emergere più nitidamente le movenze profonde, i segni e gli atti pri-migeni da cui ha preso vita un’intera vicenda. Questo è tanto più vero nei confronti dell’epopea“classicista” che è il simbolo più evidente e concreto dello sforzo compiuto dalla Russia all’avventodel Settecento, il secolo dei lumi, per modernizzarsi in senso europeo. Nell’osservare i primi episo-di di questa vicenda, la fondazione nel 1703, a seguito di un lungo viaggio attraverso l’Europa, daparte di Pietro I il Grande della nuova capitale dell’impero, San Pietroburgo, in un non-luogo – chesusciterà una leggendarietà negativa da parte di poeti e scrittori russi – sulle rive della Neva, sceltoallo scopo di consolidare le nuove terre conquistate e assicurare, oltre allo sbocco sul Mar Baltico,anche un futuro commerciale e militare di grande potenza navale alla Russia, rivolgendosi nel con-tempo allo scenario europeo, a lungo trascurato e anzi subordinato al fronte orientale, la storia del-la nuova Russia, che prende avvio con questa fondazione, pare proprio assumere un’eloquenza sen-za eguali. Non si può affermare lo stesso per altre nazioni e altre grandi capitali europee: non perParigi, che è la culla del “secolo filosofico” da cui scaturisce la modernità, radice della società civi-le aperta e plurale che a tutt’oggi caratterizza l’intera Europa; non per Londra, dove si attuano i pri-mi eventi modernisti in ambito artistico, né per Madrid, splendidamente passatista, neppure per lagrande e polimorfa e contraddittoria Vienna o la magica Praga, ma neanche per la bella Monaco oper il modello di riferimento più vicino a San Pietroburgo sotto il profilo ambientale che è Amster-dam, il grande porto fluviale, oppure anche, per venire all’Italia, il portale d’oriente, la Serenissimarepubblica marinara di Venezia. Quest’ultima è una città-mare immersa in un microclima che si pre-senta in modo molto simile all’ambiente in cui sorge il nucleo primitivo di San Pietroburgo, costi-tuito attorno alla Fortezza e alla Cattedrale dei Santi Pietro e Paolo opera di Domenico Trezzini. Aconferma di un qualche lecito legame con la Serenissima, si ricordi come dai documenti d’archiviosi può apprendere che Pietro volle visitare la città lagunare, sia pure per poche ore e in assoluta clan-destinità o in incognito. Il fatto straordinario che dà avvio a questa storia è costituito proprio dalla nascita, voluta da Pietroil Grande, di una nuova capitale del suo impero, il vasto impero russo, che viene edificata dove leacque della Neva dominano selvagge, in un’area fangosa, battuta dai venti artici, deserta e inospi-tale, piegando in tal modo la natura alla volontà dell’uomo, con tipico spirito illuminista. San Pie-troburgo, città programmata, è predestinata e sarà dunque per vocazione e non solo anagrafica-mente e fisicamente la città più moderna del Settecento, in virtù di questo atto apparentemente

Costruire è una cosa incantevoleLetizia Tedeschi

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tanto paradossale e capace di prefigurare lo sviluppo dell’inurbamento aggressivo nei confronti del-l’ambiente che caratterizza tutti i secoli che seguono. La nuova capitale della Russia sarà dunquel’autentica capitale illuminista e neoclassica tra tutte le città d’Europa e proprio per questo potràessere paragonata, più di ogni altra, alla città che vanta invece le più cospicue e remote radici stori-che, Roma. San Pietroburgo viene infatti a proporsi come una nuova Roma risorgente al “norte” eparimenti capace, come l’Urbe, di dare vita a una nuova classicità. Contribuiscono a ciò, nell’ordine,prima la figlia di Pietro il Grande, Elisabetta Petrovna, poi e in misura assai maggiore e con nuovoslancio, dopo il colpo di stato che depone Pietro III per eleggere al suo posto la consorte, la princi-pessa di Anhalt-Zerbst, la quale, divenendo nel 1762 imperatrice di tutte le Russie, prende il nomedi Caterina II. È quest’ultima la figura chiave della nostra vicenda, e dunque è con il 1762 che può prendere effet-tivamente il via – stringendo sui fatti che ci premono – la nostra storia, dal momento che è proprioquesta straordinaria zarina colei che promuove un vasto programma teso a modificare il volto archi-tettonico della capitale, delle altre città, delle residenze imperiali, un programma che si farà semprepiù ambizioso e verrà a compiersi soltanto dopo di lei, sotto il regno del nipote Alessandro I, il gran-de avversario di Napoleone che governerà fino al 1825, ricevendo dalla sua impostazione l’impron-ta fondamentale. In questo generale rivolgimento che si realizza con il coinvolgimento di tutta Euro-pa, vale a dire grazie alla presenza di architetti e costruttori francesi, inglesi, olandesi, tedeschi,italiani e ticinesi, autori di tante straordinarie fabbriche in ogni parte dell’impero, un ruolo primarioè recitato dalla cultura architettonica italiana, con la realizzazione per esempio a Mosca di nuovi edi-fici, dopo il nucleo monumentale del Cremlino cui avevano dato già apporti significativi architetti emaestranze di tradizione italiana. In questo volume, frutto di una ricerca triennale promossa dall’Archivio del Moderno dell’Accade-mia di architettura di Mendrisio, ci occupiamo unicamente dell’apporto della cultura architettonicaitaliana all’edificazione della capitale e delle altre città russe secondo i nuovi orientamenti neoclassi-ci, senza alcuna pretesa di esaustività o compiutezza che richiederebbe ancora molti altri sforzi e altrianni di studio. Si tenta egualmente di portare qualche elemento conoscitivo nuovo, pubblicandodocumenti inediti non solo per l’Occidente ma anche per gli studiosi russi. Ci auguriamo di concor-rere così, al seguito del confronto ravvicinato e diretto consentito dal convegno internazionale di stu-di dedicato a La cultura architettonica italiana in Russia da Caterina II ad Alessandro I (svoltosi indue sessioni: Ascona, 6-7 aprile 2000, e Venezia, 20-21 aprile 2001), che ha preceduto e avviatoquesta pubblicazione, all’arricchimento dell’intreccio sempre fecondo dei diversificati approcci meto-dologico-critici. Speriamo cioè di accendere ulteriormente il dibattito presso la comunità scientificae, parimenti, di sollecitare l’interesse e la curiosità per questa frontiera architettonica ancor oggi inlarga misura scarsamente esplorata, presso il grande pubblico. Infatti, si è tentato di svolgere uncomplessivo e articolato, plurale e diversificato – fino all’urto tra differenti “letture” di un medesi-mo tema o soggetto – approfondimento del neoclassicismo russo, caso unico in Europa, dalmomento che alla stessa stregua delle idee degli enciclopedisti esso viene ad assumere il caratteredi cultura ufficiale dello stato, contribuendo con mezzi straordinari alla modificazione della culturarussa di metà Settecento e primo Ottocento in senso filo-europeista. In effetti, però, anche se ci limitiamo ad un solo aspetto dell’intero fenomeno, quello relativo allacomponente italiana dovuta sia ad architetti e maestranze italiane e ticinesi sia a quant’altri si sonoformati su tale cultura (il caso dello scozzese Charles Cameron, per citare il più eclatante), ciò nonsignifica che possiamo ignorare come e quanto il “classicismo russo” sia connotato da un plurali-smo di linguaggi e di tradizioni artistiche e architettoniche che chiamano in causa l’Europa, nazionedietro nazione. Né che, proprio per questo, esso è anche l’esito felice, ma indubbiamente comples-so, nella misura in cui finisce per proporre un lessico architettonico originale rispetto al resto d’Eu-ropa, che è frutto di una straordinaria coralità di difficile decifrazione o lettura proprio in virtù dellemolteplici ibridazioni che lo caratterizzano. Viene poi a sommarsi a ciò anche la mai del tutto dimen-

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ticata cultura orientale. Sennonché quello italiano resta – dicevamo – un contributo fondamentalee anzi primario, quanto meno nell’arco temporale qui preso in considerazione, dall’ascesa al tronodi Caterina II, nel 1762, alla morte dell’amato nipote Alessandro I, avvenuta nel 1825, concorrendoa modificare tanto radicalmente la scena culturale, artistica e architettonica russa. Tra le pagine che seguono, si possono leggere come ideale viatico all’incontro con l’architetturacostruita che documenta in sé questa svolta e la progressiva affermazione del nuovo orientamentoneoclassico, che aggiorna l’impero russo adeguandolo ai parametri europei, per di più secondo laspecifica accezione da noi affrontata, almeno i saggi a firma di Sergej O. Androsov, La società russaalla fine del Settecento e il nuovo gusto, che offre un’inquadratura generale di ampio respiro; Dmi-trij O. S̆vidkovskij, Da Caterina II ad Alessandro I: la volontà dei sovrani e lo sviluppo dell’architettu-ra russa all’epoca dei lumi, che svolge un’ampia e articolata disamina tesa a definire il complessointreccio intercorso tra le aspirazioni e i programmi degli zar e la loro traduzione in fatti concreti;infine Howard Burns, La città bianca: continuità e innovazione nell’architettura di San Pietroburgo,1762-1825, il quale ultimo consente di ripercorrere la storica vicenda secondo le trame che concor-rono alla sua autentica attuazione, dando nel contempo un ricco affresco in cui campeggia l’archi-tettura e pare svelare ogni suo segreto. Inoltre, per l’architettura Gianni Mezzanotte, La bâtissoma-nie di Caterina. Italianisti a San Pietroburgo e Mosca; per finire, Anna Maria Matteucci Armandi, Iltrionfo dell’antico nella decorazione degli interni, che inquadra il tema collocandolo entro le coor-dinate storiche che debbono essere rintracciate per cogliere fino in fondo il significato e il valore diquesta problematica, e La musique des yeux. Fantasie in scena e a corte, un affascinante viaggio trale arti e il fantasmatico mondo teatrale, colto quale polo attrattivo di una tematica affrontata secon-do una ricchezza di spunti e di rilievi che concorrono a recuperare il clima del tempo, fremente disuggestioni. Per ultimo si dovrà leggere anche il saggio di Nicola Navone, Tra corte e cantiere. Archi-tetti e costruttori ticinesi nella Russia neoclassica, poiché in esso si penetra nelle fitte maglie di even-ti che si svolgono tra i centri del potere e i cantieri disseminanti in ogni parte dell’impero, mettendoa fuoco tecniche, ideologie, frammenti di cronaca e ritrovando così il sapore di un’epoca. Questi sag-gi si integrano e si completano l’un l’altro, fungendo da direttrici generali su cui posizionare gli altridifferenti e particolari contributi che sono presentati sia in saggi specifici sia in ampie schede tema-tiche come pure, infine, in schede tecniche, concorrendo volutamente al corale esito complessivo. Da dove iniziare tuttavia? Il primo nodo da sciogliere concerneva proprio questo, la possibile crono-logia da prendere in considerazione entrando nei fatti di cronaca più decisivi. Si è finito per darepriorità al ruolo svolto da Caterina II, la quale, appena nominata imperatrice, già nel 1764 rifondal’Accademia di Belle Arti, aggiornandola secondo modelli europei, nel 1768 ordina a Rinaldi il sun-tuoso Palazzo di Marmo, infine nel 1779 chiama a sé da ogni parte d’Europa forze nuove. Fra que-ste ultime in particolare Charles Cameron, formatosi a Roma dove aveva rilevato le Terme di Agrip-pa e la Domus aurea dandone a stampa i risultati, in un volume subito apprezzato, The Baths of theRomans, e i due architetti italiani da cui, idealmente, prende avvio la filatura neoclassica italiana, nonsolo per l’intervento tanto incisivo di Giacomo Quarenghi, tra i firmatari del volto neoclassico di SanPietroburgo, ma anche per il significato che viene ad assumere la richiesta formulata da Caterina IIin persona. Giungono appunto nel 1779, dall’Italia, sostanzialmente da Roma, il bergamasco Gia-como Quarenghi e il parmigiano Giacomo Trombara. La loro chiamata coinvolge naturalmenteJohann Friedrich Reiffestein, antiquario romano e agente della sovrana nella “città eterna”. Costo-ro vengono ingaggiati per edificare la Pietroburgo neoclassica concepita da Caterina come città sim-bolo di questo rivolgimento generale, addirittura, nelle intenzioni dell’imperatrice, novella Roma. Dalsaggio di Christoph Frank, L’arte e l’architettura romane nella corrispondenza di Caterina II di Rus-sia e dalla sua appendice documentaria, risalta con tutta l’evidenza e la forza indiscutibile del docu-mento inedito quanto l’imperatrice che più di ogni altro ha fatto sì che il classicismo divenisse espres-sione della cultura, dell’architettura e dell’arte russa tra XVIII e XIX secolo, fosse alla ricerca di artistie architetti europei. Così come, quanto ella tenesse a identificare la “sua” Pietroburgo con la “città

eterna”, secondo un’interpretazione che muoveva da Raffaello le cui Logge Vaticane, si apprende,sono oggetto di un’autentica passione, e veniva ad aggiornarsi direttamente sui resti antichi, moti-vo di incessanti studi, di “scavi” e nuove scoperte. Infine, quale parte avessero in tutto ciò anche ledirettive scaturite dall’entourage di Villa Albani nei confronti dell’antico, grazie alla triade Winckel-mann, Mengs, Piranesi. Un argomento che occorreva affrontare immediatamente è pertanto il rapporto con l’antico che siviene affermando in questo momento storico in Russia. Si può venire in tal modo a motivare anchela prima parte di quest’opera, dedicata a Caterina, l’Italia e l’antico, sulla scia della mitica identifica-zione di San Pietroburgo come nuova Roma al “norte”, per dirla con le parole di Algarotti, per il ruo-lo giocato proprio dalla sovrana nel raggiungimento di tale obiettivo. Perché mai, Caterina II vagheg-gia una tale simbolica rifondazione? Perché vuole questa investitura per la nuova capitaledell’impero russo? Che cosa vuol dire nei confronti dell’antico e che ricaduta può avere sul costrui-to? Può, o no, incidere sull’interpretazione, unica rispetto al resto d’Europa, del neoclassicismo qua-le si viene a manifestare con rinnovato vigore sin dai primi mesi del 1779, in Russia? Il confronto conl’antico sembra filtrato attraverso la sua riattualizzazione storica avvenuta nel Cinquecento e soprat-tutto attraverso Raffello e la sua scuola – la vicenda delle Logge Vaticane riproposte in scala 1:1 nelPalazzo dell’Ermitage ne è prova eclatante – e, nel contempo, parrebbe riferirsi pure all’interesse cre-scente per lo “scavo” archeologico. Sembrerebbe fare appello anche alle reiterate misurazioni effet-tuate sulle monumentali rovine dell’Urbe e dei dintorni, a muovere da Villa Adriana a Tivoli, da Fra-scati e altri siti che diverranno meta costante delle esplorazioni fatte in Italia, durante il lorosoggiorno formativo, dai pensionnaires russi, che poi scenderanno nel napoletano, per Pompei eErcolano, e dopo una certa data visiteranno anche l’antica Trinacria, la Sicilia. Si somma a tutto que-sto la più aggiornata elaborazione della complessa eredità greco-romana più volte filtrata e rielabo-rata dai reiterati revivals verificatisi nel corso della storia e ricalcanti una lunga pratica. Essa è fon-data sulla libera manipolazione, sull’audace interpretazione dei modelli antichi, delle icone piùpreziose, dando agio alle licenze che motivano l’attingimento inesauribile ai reperti di una classicitàremota, di una storia perduta e mitizzata e nel contempo condannata, paradossalmente, da un latoall’eterna invariabile vitalità, innanzitutto formale, proporzionale, dall’altro all’aggiornamento senzatregua e dunque all’alterazione continua che non di rado ne stravolge profondamente il lessico. Èda tale pratica, ampiamente motivata dall’autorità dell’antico, per la carica di significati simbolici cheesso emana dando valore aggiunto all’intera operazione, che scaturirà il “restauro” restitutivo gra-zie al quale verranno illustrate le ricostruzioni virtuali più varie, dalle filologiche alle fantastiche, deipiù significativi monumenti, delle più emblematiche vestigia dell’antichità. Ma perché tutto questofervore, quest’alacre attività, questo interesse incontenibile per i resti romani, greci, etruschi, italicie, dopo la famosa campagna d’Egitto di Napoleone, anche egizi? Sovviene, per una possibile motivazione, un efficace esempio rilasciato da Erwin Panofsky: il doppiocapitello corinzio di Monreale dove le volute s’incurvano a sostenere un sacerdote che sacrifica untoro, invenzione derivante da un rilievo antico raffigurante una tauroctonia di Mitra. Ricorda Panof-sky che in questo aggiornamento lo scultore ha sostituito il berretto frigio presente nel modelloromano con una specie di turbante che sta a rappresentare, simbolicamente, una figura precristia-na. Anche Salvatore Settis in riferimento a questo stesso capitello – scrivendone nel 1986 – sidomanda: sarà venuto prima, in questo caso, il contenuto, innescante la ricerca di una rappresen-tazione iconografica adeguata, o la forma che provoca la ricerca di un contenuto tale che consental’inserimento di quella figura in un programma predeterminato? Ma quale programma? Verrebbeda dire, sulla scorta di una moltitudine di elementi: far rivivere, eternare l’antico. D’altra parte, nel-l’identificazione di San Pietroburgo come novella Roma si può intercettare il segno di un grande pro-getto, corrispondente a un grandioso programma che va ben oltre quanto si è sommariamente det-to. In cui forma e contenuto, intese nel senso testé richiamato, siano compresenti e debbano agiresimultaneamente anche in relazione a vari aspetti e ambiti, differenti soluzioni iconografiche, stili-

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stiche e segniche che investono i singoli edifici, o intere aree urbane e suburbane, ferma restandola possibilità di attingimento a un passato aulico, quello romano appunto, indiscutibilmente autore-vole e nel contempo sufficientemente lontano da non suscitare alcun problema. Tanto più che talelontananza viene fossilizzando e ammutolendo ogni possibile suggestione rivoluzionaria e soprat-tutto viene a fugare tutte le ansie che agitano la scena contemporanea, confermando la forza e labontà di quei valori; gli stessi valori assoluti ed eterni che proprio quel remotissmo passato garanti-sce. Ma anche facendo in modo che si evidenzi la possibilità di andare oltre il mito, ritrovando la sto-ria nella concretezza indiscutibile dei reperti, nella loro accertata consistenza reale, nella loro neces-saria accessibilità. Ecco perché gli artefici della nuova Roma dovevano simultaneamente formarsi sulle barricate dellapiù sfrenata e trainante modernità, Parigi, quella stessa Parigi che è patria degli enciclopedisti (allafin fine, i teorici del grande programma di rinnovamento petrino-cateriniano) e contemporanea-mente sulle vestigia della romanità più rappresentative e certe, Roma, la Roma archeologica e monu-mentale, peraltro sulla scorta di antesignani significativi. Nel 1752 Vallin de la Mothe, andrà ricor-dato, aveva visitato l’Urbe e gli scavi di Pompei ed Ercolano, a conferma di un costumearcheologizzante già attivo in anni non sospetti, ma che naturalmente verrà ad assumere in questomomento altra veste e nuovo significato. Sovviene pure l’eredità di Lessing e di altri, che si basanosull’erudizione antiquaria che li precede come pure sulle interpretazioni offerte dal Quattrocento inpoi dagli umanisti, in particolare da autori come Leon Battista Alberti, fonte anche per Raffaello San-zio, fulcro del revival cinquecentesco che rilancia in grande stile l’antico, come ci viene suggerito daRolando Bellini nel suo intervento, e che è pure, come attesta l’impresa della replica delle “sue” Log-ge all’Ermitage, un cardine dell’intero sistema cateriniano. Si può spiegare così almeno una parte diverità storica, e cioè il programma “formativo” cui sono sottoposti, in ossequio al Reglément del1764 che ha rifondato l’Accademia Imperiale di Belle Arti di San Pietroburgo, i futuri artisti e archi-tetti della nuova Russia i quali, infatti, debbono soggiornare in entrambe le città, per aggiornarsi aParigi e per visionare, studiare e misurare i resti antichi, dalle sculture alle architetture, e familiariz-zare in tal modo con l’antico, a Roma. L’aggiornamento disinvolto dell’antico era pratica corrente nel Seicento, secolo dal quale potevanovenire molteplici esempi cui, tuttavia, i neoclassici si opponevano polemicamente anche quando fini-vano per ricalcarne le orme. Basterà riferirsi, per una verifica, alla conclamata Collezione Ludovisi,un campionario unico sotto vari aspetti. In gran parte essa raggruppava opere provenienti dalle Col-lezioni Cesio, Cesarini, Altemps e Colonna, fatte restaurare, com’è noto, dal cardinal Ludovisi tra1621 e 1631, che si servì per questo di Algardi, Buzzi, Rondoni e naturalmente Bernini. Quest’ulti-mo restaurò il Marte acquistato nel 1622, con l’aggiunta della testa, il braccio sinistro, l’elsa dellaspada e parte del braccio destro, nonché il piccolo Cupido, accovacciato tra le gambe del dio, un’in-venzione tutta berniniana che ha acquisito la sua cifra stilistica, ricordando da vicino, è stato giu-stamente rilevato dalla critica, la testa di Ascanio nel gruppo di Enea e Anchise che Gian Lorenzoaveva scolpito da poco per i Borghese. Più ancora del grande Gian Lorenzo Bernini, tuttavia, spettaad Algardi la palma di colui che è riuscito a realizzare, con il recupero della testa di Atena, “pezzoveramente eccezionale”, il restauro che, come scrive nel 1986 la Rossi Pinelli, effettivamente “puòessere considerato il ‘manifesto’ delle teorie del restauro seicentesco”, che si poneva in competizio-ne con l’antico. La cui autorità suggerisce questo costante ricorso ai suoi modelli plastici, architet-tonici o altro ogniqualvolta le circostanze contingenti suggeriscono un azzeramento e una rifonda-zione della vita culturale di una società. Cui segue il riassetto di un mondo, riaccendendo così,ancora una volta, il mito della rinascita di una leggendaria arcadia che, con l’illuminismo prima e iltrionfante neoclassicismo subito dopo, diventa la parola d’ordine del momento. All’antico si atten-gono tutte le corti europee, tutte le nazioni che aspirano a ruoli di primo piano sulla scena interna-zionale negli stessi anni in cui Caterina II opera il riposizionamento della Russia nei riguardi dell’Eu-ropa, dopo la parentesi della guerra contro l’impero Ottomano. Una guerra che aveva paralizzato

ogni riforma assorbendo tutte le risorse disponibili, ma che si conclude positivamente per la Russia,dandole la visibilità agognata sul palcoscenico europeo, con la ben nota battaglia di C̆esme (25 giu-gno 1770) che apre lo sbocco russo sul Mediterraneo. Frattanto però la peste aveva colpito e depau-perato Mosca, impedendo pure la realizzazione del progettato grandioso Cremlino – sorta di rein-venzione ideale di un foro romano mescolato a basilica neopalladiana ed altro ancora – di Baz̆enov,mentre invece la sanguinosa rivolta del 1773-1774 guidata da Pugac̆ev, verrà soffocata solo a segui-to della pace con i turchi, siglata a tutto vantaggio dei russi nel luglio del 1774. L’antico si fa strumento politico e manifesta molti altri significati e valori, finendo con il giustificare,attraverso non solo opere quali il Palazzo di Marmo, ma anche altre meno vistose e tuttavia signifi-cative, una serie di iniziative che vengono a sottolineare la decisiva svolta neoclassica. Aggiungiamo,di pari passo con quello che, in questo volume, dice Howard Burns: l’affermarsi di “un nuovo tipodi architettura in Russia: razionale, classica (più che classicheggiante o anticheggiante), priva di par-ticolari sapori nazionali (sia francesi, sia inglesi o russi, se per russi si intendano quelli dell’architet-tura pre-petrina): quindi, nella visione di Caterina, un’architettura veramente adatta alla Russia,impero erede di Roma, che lei stava munendo di un sistema legale e amministrativo di carattereuniforme e razionale basato su principi universali”, approfittando del periodo di crescita economicae di pace che succede agli affanni richiamati, a partire dal 1775. Il saggio di Burns andrà letto a chiasmo con altri contributi, con quello di Gianni Mezzanotte, soprat-tutto con i testi di Dmitrij O. S̆vidkovskij e di Sergej O. Androsov. Lo si dovrà rivedere all’insegna del-la complessità che erompe dallo scenario russo, tanto più che esso viene a toccare anche la querel-le sull’antico, che va riconsiderata implicando nella sua globalità l’ambizioso programma caterinianoe il suo impegno sul fronte architettonico. Dunque è in tutto questo il senso della mitica rifondazio-ne di Roma voluta dall’imperatrice come simbolica investitura della rinnovata San Pietroburgo. Neparla nel suo saggio Rosanna Casari, così come Vittorio Strada. Del resto, la querelle così richiamatafa riferimento, forse anche implicitamente, all’origine del topos medievale della “Roma seconda”,alimentato, come si sa, dalla tradizione delle laudes Romae e dalla disseminazione e moltiplicazionedelle sedi del potere nel tardoantico. Come ognuno ricorderà una seconda Roma doveva essere, nel-le intenzioni di Carlomagno, Aquisgrana; una più salda e corposa seconda Roma era sul Bosforo – lasi è già richiamata sia pure implicitamente e in estrema sintesi: è Costantinopoli – e così, come ricor-da Eginardo nella sua ben nota Vita Caroli, nel tesoro di Carlo Magno vi erano tre mensae argen-teae: una con la descriptio urbis Costantinopolitanae, un’altra con l’effigies Romae urbis e una terzacon una descriptio totius mundi, tutte e tre derivanti da prototipi antichi e riecheggianti, ai nostriocchi, gli scenari, altamente evocativi e simbolici, degli edifici voluti da Caterina e in particolare del-la sua residenza di Carskoe Selo. Ma si potrebbe insistere, sollecitati dal saggio di Piervaleriano Ange-lini, Caterina II e la cultura dell’antico, incentrato sul laboratorio di Carskoe Selo e allora si potrà ricor-dare anche la seconda Roma medievale interpretata da Pavia, poco oltre da Pisa (grazie al capolavorodi Buscheto), per non dire di Siena che si appropria del mito della lupa che allatta i fondatori di Roma,lupa che, infatti, ancora una volta compare, manipolata all’uopo, come simbolo aulico ai piedi delBuon Governo in una Biccherna del 1344 o sulle mura di Palazzo Pubblico; per finire, restando anco-rati alla filatura comunale, con Firenze, “Tamquam Romam sedet semper ductura trumphos”, primadell’epopea rinascimentale, e cioè attorno agli anni di Montaperti, che cade nel 1260. Vi è poi tuttaun’altra storia, quella incentrata sulla Roma religiosa, che vede in Avignone una nuova “secondaRoma” e infine una “terza” rivolta piuttosto alle pretese imperiali che concerne proprio l’ambito rus-so di cui stiamo argomentando poiché si tratta di Mosca e del suo Cesare (zar). Può essere così sve-lato l’arcano, Caterina II si appropria di tale ultimo riferimento giocando anch’essa, ma questa voltaa tutto vantaggio di San Pietroburgo, impegnata ancora in una sorda competizione con Mosca, ungioco sottile a cui partecipavano la nobilità, l’esercito, altri soggetti, coinvolgendo una fitta rete d’in-teressi, la carta della traslatio imperii. Una carta che, giova sottolineare, viene rilanciata in prima istan-za da Pietro e ancora da sua figlia Elisabetta e nuovamente, appunto, e con rinnovata veemenza, da

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Caterina, attraverso un crescente impegno che si traduce nell’arricchire la nuova città, la capitale delnuovo impero di monumenti e di pubblici stabilimenti e di palazzi privati munificamente adorni dirivestimenti lapidei, come il Palazzo di Marmo. Palazzo esibente con enfasi persino eccessiva unosfarzo, una ricchezza da parte della committenza paragonabile solo a quella remotissima dei Cesari,pertanto senza possibilità di confronto con qualsiasi scenario europeo e tale da riecheggiare anchein questo l’auctoritas dell’Urbe, potenziandone implicitamente il prestigio. La competizione più vol-te richiamata dalla storiografia con la Prussia di Federico II significa inoltre un investimento ulterioredi San Pietroburgo di quei segni che abbondano nella città dei papi, molteplici “segnali” (perciò, inquanto tali, ripetibili), tra cui campeggiano le grandi fabbriche romane, le colonne istoriate, l’auc-toritas della statua equestre del Marco Aurelio, quella di Costantino, tanto scopertamente in contat-to, come modelli ideali, con la statua simbolo di San Pietroburgo dedicata a Pietro il Grande, operadi Etienne-Maurice Falconet. In ogni caso, per dirla con le parole di Salvatore Settis, il richiamarsi “a una qualche memoria del-l’architettura antica non è casuale”, non lo è stato nei secoli che precedono e non lo è adesso, “mariflette un ordine di valori basato ora sulla topografia del potere, ora invece sulla sapienza tecnica eartigianale”, rimettendo in gioco nientemeno che “l’eredità di Roma”, finalmente recuperata, siaggiunga, facendo ricorso a quanto emerge dal ricco carteggio di Caterina con i suoi “agenti” e“consiglieri”, i suoi “architetti” e “artisti”, in molte delle sue trame e motivazioni profonde. La spo-liazione che, nei secoli, ha tolto a Roma molti suoi simboli, ma per riproporli altrove, facendone rivi-vere simbolicamente i fasti, finisce per alimentarne la leggenda e per sollecitare il pellegrinaggio ver-so l’Urbe, restituendo la sua gloria alla città dei papi. Questo, allora, può ricondurci all’ultima delleRomae secundae e cioè “la prima Roma, la Roma dei Cesari e dei Papi, come venne a ricomporre lapropria immagine, già nel secolo XII preoccupandosi di conservare il ‘Costantino’ lateranense e laColonna Traiana”, o di “Romae veterem renovare decorem, come nella Casa di Crescenzo”. Andràricordato, contestualmente, che Roma stessa aveva garantito le sue vestigia, ogni memoria storicadell’antica capitale, preservando in più modi e occasioni le “sue incombenti vestigia”, dopo Petrar-ca, o il ritorno dei papi da Avignone. È attivo anche a San Pietroburgo, dunque, “il colossale sforzodi recuperare un’identità e una memoria che apparivano perdute ma ancora s’incarnavano nellegigantesche rovine, d’integrare la Roma pagana a quella cristiana in una sola città, di presentarne eaccrescerne l’assetto monumentale e urbano con una nobiltà e – secondo le parole di Cola – una‘maiestate’ degna della Roma antica”. Ed è proprio questa Roma il modello a cui tutta l’Europa neo-classica guarda con indicibile insistenza, ma a cui fa appello in modo particolare la Russia, perchédeve sostenere lo sforzo di riallacciare le trame di una storia interrotta. Rivitalizzandola e nobilitan-do un presente in cui l’utopia, il mito sono parte integrante di un concreto programma politico edunque assumono la stessa consistenza del necessario supporto tecnico-pratico che è, tutto som-mato, il nerbo dei grandi cantieri pietroburghesi e d’ogni altro cantiere aperto nelle città dell’impe-ro, da Mosca a Odessa. In merito alle modificazioni in atto in quest’ultima area si legga il saggio diMarija B. Michajlova, Le città meridionali dell’impero russo: il contributo degli architetti italiani. Inaltre parole, si tratta proprio di un programma che viene legando direttamente, indissolubilmente,San Pietroburgo a Roma. Ed effettivamente si vedrà affermare sulle rive della Neva “l’auctoritas nondel solo motto delfico, ma della sapienza antica, che – come insiste a dire Settis – induce il pio Wibal-do a riprodurre su un architrave della sua abbazia l’epigrafe del tempio di Apollo” e tant’altri sum-menzionati a trarne “spolia da esibire a testimonianza e sigillo di ogni loro pretensione sull’ereditàdi Roma”.Dicevamo che sin dall’atto fondativo di San Pietroburgo si è trattato di un’affermazione della scien-za edificatoria moderna in virtù proprio del rivolgimento in atto, soprattutto della tecnica, rivestitadi nuovo significato grazie agli enciclopedisti, come ricorda nel suo saggio Fabio Minazzi. È questoun argomento cruciale, unitamente al dibattito suscitato dalla trattatistica che viene assimilata anchetramite traduzioni importanti (basti pensare al lavoro svolto in questo senso da L’vov), la quale è mes-

sa a confronto da un lato con la storia e il costruito, dall’altro con i progetti e i cantieri del giorno.Cosicché non potevamo esimerci dal creare una specifica sezione dell’opera: Idee e Teorie: moder-nità e retaggio rinascimentale, vestibolo all’incontro diretto con il costruito, ma anche momento diriflessione teso a percepire meglio la singolarità del costruito che supera ogni precettistica e svilup-pa una pluralità di linguaggi tale da suggerire un esame diretto di ogni singola architettura. In talmodo si torna a ricalcare l’esempio di questi stessi protagonisti quando, consci di tale complessità,hanno studiato l’antico salendo sui suoi resti e annullando così aprioristiche interpretazioni e ognivincolo riduttivo di carattere teorico. Come non potevamo non considerare, sempre subordinata-mente al taglio dato a questi studi, il portato effettivo di questa modernità e con esso un duplicetema di riflessione che incide profondamente sull’architettura: in primo luogo, la formazione acca-demica, basata sulla trattatistica, su un’erudizione che si avvale di specifiche biblioteche, di precettie d’altro, finalmente messa in chiaro grazie a Elena B. Ivanova nel saggio La Classe di architetturadell’Accademia di Belle Arti di San Pietroburgo nell’epoca del classicismo; così come rinviamo, perquanto concerne la trattatistica, agli approfondimenti di Maria Chiara Pesenti, di Giulio Lupo e diOlga A. Medvedkova. In secondo luogo, vale la pena di enfatizzare, il contributo delle idee illumini-ste all’architettura e all’arte ma anche alla scienza e alla tecnica e quanto ne discende in meritoall’apporto specifico delle tecniche, al saper costruire che connota le nuove grandiose fabbriche,dunque quello che ne deriva sul cantiere. Si tratta di un argomento che chiama in causa un nuovoruolo e valore della stessa prassi, questione nodale su cui insiste nel proprio saggio – già richiamato– Gianni Mezzanotte, La bâtissomanie di Caterina. Italianisti a San Pietroburgo e Mosca. Un fil rouge parrebbe correre, dunque, dalle tavole dell’Encyclopédie ai “cantieri” sparsi per tutta laRussia, da nord a sud, da est a ovest, dando al macchinismo tecnologico un ruolo primario, rive-stendo di altro e nuovo valore e significato i disegni presentati dai singoli architetti per illustrare allasempre più avvertita committenza i propri progetti; disegni e modalità di progettazione che riverbe-rano, sovente, l’iter formativo degli architetti, sia degli italiani sia degli altri che comunque attingo-no alla cultura architettonica italiana o la cui formazione si è venuta affinando tra Parigi e Roma.Torna anche utile aggiungere qui qualcosa in merito al come e al quanto le procedure restitutiveadottate nei confronti dei monumenti dell’antichità vengano a svolgere un ruolo formativo peculia-re, i cui effetti non mancano certo nella realtà edificatoria: basti considerare l’operato dei primi bor-sisti russi spediti in Italia, rispettivamente Vasilij I. Baz̆enov e Ivan E. Starov, ovvero quanto consen-tono di verificare, in tal senso, gli altri – e fino alle ultime generazioni dell’epoca neoclassica –pensionnaires russi che compiono il fatidico voyage d’Italie e l’inevitabile confronto con l’antico adesso strettamente legato. D’altra parte, i rilievi compiuti sui resti romani (e più tardi anche greci opre-romani) rivestono pure un carattere tecnico in quanto sono rivolti, scientemente – al di là dellemisure proporzionali, dei dettagli d’ogni elemento, dell’uso appropriato degli ordini, delle caratteri-stiche esibite dalle modanature architettoniche, dei modelli di piante e alzati offerti dalle monu-mentali vestigia antiche – all’esame delle soluzioni tecniche adottate dai grandi costruttori del pas-sato. Se a questo aggiungiamo la riflessione che viene a svolgersi in merito al dibattito teoreticoattivato dagli enciclopedisti e ripreso ed elaborato ulteriormente da Kant, e lo si riconsidera alla lucedi quanto viene offerto in questo volume dai vari studiosi che hanno differentemente approfonditole ragioni che sovrintendono al fervore dei reiterati cantieri, forse si può cogliere il diverso e nuovosapore che le singole fabbriche vengono a manifestare sia sul piano formale che su quello funzio-nale e abitativo, rispondente alle nuove esigenze. La committenza muta, infatti, nell’arco breve dipochi anni, la propria domanda non soltanto in relazione alla ratio illuminista ma anche in strettorapporto con un nuovo gusto e le sue imprevedibili “oscillazioni” (per dirla richiamando il titolo diun fortunato saggio di Gillo Dorfles), rivolgendosi, conseguentemente, ai costruttori con richiestesempre più esigenti e consapevoli sia sul fronte estetico e rappresentativo che sul piano della vitadomestica. Si tratta, infine, di mutamenti persino di umore, in relazione pure con le inquietudini ele turbolenze che emergono man mano che avanza il nuovo clima romantico. Senza contare, per

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concludere, l’effetto sotto non pochi rispetti devastante e tale da segnare una sorta di generale cam-biamento, provocato dalla guerra napoleonica che tuttavia getta con più forza la Russia nell’agoràeuropea e ne riafferma, con il rilanciato orgoglio internazionale, anche lo spirito nazionale, finendoper sostenere un valore che verrà a consolidarsi fino al punto di diventare valore assoluto se ancoroggi tale sanguinosa, ma anche epica, vicenda è, per i russi, semplicemente “la guerra patriottica”. Altro sembra essere il patriottismo emanante dall’architettura russa neoclassica, venendo a scriverepiù puntualmente della sezione Architetture 1762-1825 che funge anche da ponte tra i due tomidell’opera. Qui pare agiscano modelli e vocaboli sopranazionali o universali. Meglio ancora: l’archi-tettura di questo momento sembra rifarsi, almeno dopo il 1780, al modello palladiano-quarenghia-no e a un’idea di attualizzazione o reificazione dell’antico che a suo modo pare attingere alla “lezio-ne” albertiana. Ne scaturisce l’impiego codificato ma nel contempo libero e flessibile, creativo efilologico al tempo stesso, a seconda dei casi e degli umori, di ordini, modanature, tipologie e morfo-logie, rispondenti in larga misura alle ragioni della tecnica, ma legati pure a forti vincoli formali, checaratterizzano il movimento neoclassico internazionale e ancor più, parrebbe, il movimento neo-classico russo. Qui si vengono livellando i vertici e nel contempo si innalza il livello minimo genera-le, portando a un grado di professionalità più alto l’edilizia moderna e garantendo così esiti mai infe-riori all’ordinarietà imposta dalla ratio illuminista che, naturalmente, anima ogni attività edile edunque governa l’intera galassia neoclassica. In ogni caso, se si vuole parlare di patriottismo archi-tettonico – e un tale assunto appare dotato di senso se e quando si voglia cogliere l’originalità diBaz̆enov o di Starov, di Rossi, di tanti altri ancora, nel confronto ravvicinato con la coeva architettu-ra, poniamo, francese o inglese o italiana – urge motivarne il senso. Si dovrà allora rilevare come equanto gli stessi architetti italiani e ticinesi attivi in Russia, a cominciare proprio da Luigi Rusca o Vin-cenzo Brenna, acquisiscano a poco a poco per così dire il lessico russo, senza rinunciare alla propriacultura architettonica e semmai enfatizzandola ed esaltando i propri modelli ideali, secondo l’esem-pio offerto dal bergamasco Giacomo Quarenghi nei confronti di Palladio. Da Carlo Rossi a Domeni-co Adamini, a Osip Bove e Domenico Gilardi, tutti costoro finiscono per avvicinarsi sempre di più aicolleghi autoctoni, condividendo con questi ultimi progetti, cantieri, idee. Ma è questione delicata.Giacomo Quarenghi docet, gli “abusi” derivanti, in molti casi, da Andrea Palladio, unitamente all’an-tico, l’altro alimento costante della sua architettura, finiscono per risentire, sia pure in modo del tut-to particolare, del clima russo. Ciò si palesa in questo o quell’elemento di dettaglio, per esempio nel-le cosiddette Botteghe del Gabinetto imperiale presso Palazzo Anic̆kov che si pongono come filtroarchitettonico magniloquente tra spazio esterno al perimetro del complesso architettonico e spaziointerno, e come segno del linguaggio aulico e filo-palladiano dell’autore commisurato però allo sce-nario pietroburghese. Lo stesso dicasi per altri architetti di cultura italiana, come lo scozzese Char-les Cameron. Quest’ultimo, nel suo esaltare i canoni classici e nel contempo la fantasia e libertà crea-tiva dell’architetto-artista, nel richiamare l’antico con puntigliosità filologica pari solo alla proprialibera interpretazione delle vestigia classiche, giocata nei dettagli più piccoli e sfuggenti, finisce perlasciarsi attrarre dall’unicità dello scenario russo, e addirittura per far sua tale eccezionalità, esiben-do una progettualità eccentrica, rispecchiamento della committenza russa. Gianni Mezzanotte riconduce alla centralità del problema della cultura italiana: un costruire più vici-no al gusto di Caterina II, nonché più concretamente disponibile rispetto alle condizioni reali in cuisi va ad operare, poiché più aperto e flessibile, per un verso, se pensiamo a Quarenghi, sulla scortadel vocabolario essenziale di Palladio che interpreta e aggiorna l’antico – per di più, si deve aggiun-gere, attraverso le tavole del suo trattato, finalmente tradotto dal colto Nikolaj A. L’vov in russo, chevengono prefigurando il linguaggio comunicativo esplicitato dalle planches dell’Encyclopédie – perl’altro, tornando alla prassi, facendo leva sulle potenzialità offerte dalla pratica di cantiere intesacome una capacità operativa che determina la stessa definitiva soluzione architettonica d’assieme.Viene dunque ad assumere rilievo la gestione del cantiere, il patrimonio di esperienze derivanti dal-la stratificata cultura architettonica italiana che fonda il proprio prestigio precisamente sulla bontà

dei risultati raggiunti in economia di mezzi e con sorprendente rapidità. Esattamente quanto premealla committenza russa e dunque farà, sempre, la differenza, sia sotto l’esigente e impaziente Cate-rina, sia sotto Paolo I che, infine, durante il regno di Alessandro, sulle cui spalle pesa l’obbligo, incul-catogli dalla terribile nonna, di portare a compimento il suo grandioso disegno e con esso il pro-gramma edificatorio. Tutto questo presuppone, per esempio in Quarenghi, da un lato la capacità didefinire soluzioni applicabili in differenti occasioni, e quindi di saper risolvere proprio sul cantiere lepiù complesse situazioni contingenti senza mai rinunciare al proprio linguaggio, essenziale e sicuro,dall’altro di sapersi servire di collaboratori efficienti come, su tutti, Tomaso Adamini. È allora inevi-tabile e anzi necessario introdurre immediatamente un’altra essenziale sezione del volume, quelladedicata agli Architetti e costruttori ticinesi nella Russia neoclassica. Non solo “tra corte e cantiere”,e neppure soltanto sulle tracce degli “architetti e costruttori ticinesi” attivi nella Russia neoclassica,da Rusca agli Adamini, il saggio di Nicola Navone opera una ben più larga e articolata ricognizionee una riflessione critica assai più ricca riallacciandosi in buona sostanza al portato dell’esperienza edella perizia di cantiere, che per tradizione antica vede i ticinesi prevalere sugli altri e farsi valerecome onesti lavoratori o meglio come Giovanni Battista Gilardi, nelle parole di Francesco Campore-si, “très diligente et le plus grand praticien que nous avons jamais eu ici”. E si andrà allora, com’è stato detto in merito a Domenico Fontana (lo ricorda proprio Navone), aragionare con le cose piuttosto che con i concetti e le parole. Il riverberarsi in questa affermazione diuna procedura radicata all’esperienza e al cantiere che, stando anche a Mezzanotte, finisce per attri-buire grande rilevanza alla componente tecnico-empirica, pare dunque riaffermare una più genera-le tendenza che vede coinvolti e da protagonisti i ticinesi, ma vede anche implicati i russi, infine gliitaliani e suggerisce dunque che il successo schiacciante del bergamasco Quarenghi sia dovuto, inbuona misura, proprio a questo, alla sua indiscutibile capacità di gestione del cantiere e alla sua abi-lità procedurale. La capacità di risolvere ogni tipo di problema sul campo, nel vivo cioè dell’attivitàdel cantiere, senza dover mai né fermare i lavori né abdicare alle contingenze, sovente nell’inospita-le Russia straordinariamente invasive, subordinando o modificando la propria idea architettonica aivincoli concreti. Inoltre, c’è da rilevare un elemento messo in luce da Navone che aggiunge, tramitela menzione del berlinese Carl Ludwig Engel – attivo tra 1815 e 1816 – e del ticinese Luigi Rusca (chepubblica i suoi rilievi nel 1810), nonché del russo Nikolaj A. L’vov, precisazioni sulle procedure di can-tiere, chiarimenti in merito al ruolo assunto dagli imprenditori, producendo una situazione molto vici-na a quella odierna. Alla tecnica e alle ragioni della prassi che viene evolvendosi nel cantiere, ven-gono a dare altri contributi autori come Marija V. Nikolaeva, la quale affronta, pur succintamente,l’organizzazione dell’edilizia attraverso i capomastri italiani e ticinesi. Certo che il fervore dei cantie-ri che si aprono in ogni regione dell’impero e di cui Nicola Navone viene a dire con slancio e con dovi-zia di particolari, riallacciandosi idealmente non solo agli altri testi sin qui richiamati, più specifica-mente rivolti a tali problematiche, ma anche, per esempio, al saggio di Marija B. Michajlova,quest’incredibile fervore stupisce. Se vi sommiamo, poi, quanto viene scritto da coloro i quali si sonodedicati alle novità che concernono Mosca, rispettivamente Igor A. Bondarenko, che tratteggia laricostruzione di Mosca dopo l’incendio del 1812, Julija G. Klimenko, la quale approfondisce invece ilsorgere delle idee neoclassiche nell’architettura e nell’urbanistica moscovite e ancora quanto scriveAlessandra Pfister in merito a Domenico Gilardi, grazie all’intreccio consentito da questi interventiche arricchiscono di sempre nuovi elementi il quadro complessivo, si può avere una visione suffi-cientemente impressionante dello sforzo compiuto nella Russia neoclassica. Si tratta davvero di unimpegno straordinario attuato da schiere di architetti e maestranze mobilitate in ogni parte della Rus-sia. Un’attività che coinvolge tutte le province, ogni città, riallacciandosi idealmente e concretamen-te, proprio per la rilevanza che finisce per assumere quest’attivismo costruttivo, all’ossessione edifi-catrice da cui la storia dell’architettura neoclassica russa ha preso avvio e che accendeva l’animo diCaterina II; un’ossessione che, evidentemente, si è spenta solo all’esaurirsi della stagione classicista. A ben osservare in un microcosmo particolare come Carskoe Selo – su cui si hanno svariati apporti

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di Frank, di Angelini, di altri ancora –, un microcosmo che si modifica e si completa attraverso gliinterventi di molti autori al seguito di Cameron ma anche di Quarenghi, di Neelov, di Felt’en e tuttigli altri presenti al fianco di architetti e capomastri, si ha testimonianza indiscutibile di quanto e comecostoro offrano un repertorio emblematico e frammentario di tipologie e simboli finalizzati a reifica-re il mito dell’antico e appropriarsi così della sua eredità. Come pure intenti a reinventare fantastica-mente mondi lontani (Cina, India), ma anche le fantasie remote e arcaicizzanti di Bomarzo, oltre chei giochi d’acqua di Tivoli ed altro ancora, fino a superare la soglia della realtà e azzardare una purasurrealtà in cui possa dominare, sfrenatamente, la fantasia. Inoltre qui si attua una sottile quanto“parlante” allegoria, di cui scrive nel suo intervento Piervaleriano Angelini. Infatti, come viene a direquest’ultimo, il parco finisce per assumere una valenza allegorica suggestiva e in sé rivelatrice, la qua-le può aprire un varco inesplorato nei confronti della elaborazione concettuale e della stessa dispo-sizione mentale di Caterina, spiegando almeno in parte l’attenzione per ogni dettaglio non soloarchitettonico ma anche ornativo dedicato dall’imperatrice alle sue fabbriche. Questo, del resto, trova nuova conferma nei complessi apparati ornativi che traducono in un preci-so completamento simbolico e nel contempo capriccioso o frivolo e decisamente giocoso la deco-razione, le quadrature prospettiche, gli stucchi e quant’altro viene a suggello ed è necessario com-plemento di una tale suntuosa “residenza”. Il fenomeno non si limita a questa sola residenzaimperiale, ma è riscontrabile anche negli stabilimenti pubblici e nei privati palazzi della capitale, del-le altre città russe, dando nuovo significato e valore, pertanto, alla decorazione e in generale all’or-nato che si fa sempre più complesso e ricco. Studiarlo può voler dire esplorare quell’incredibile patri-monio decorativo tanto illuminante in merito al gusto e al ruolo sociale giocato dall’architetturarussa in età neoclassica. Anna Maria Matteucci Armandi approfondisce la decorazione e la sceno-grafia – dove si ha una tradizione d’eccellenza, risalente ai Bibiena, ad altri bei nomi – e apre tuttoun discorso particolare nei riguardi dell’attività teatrale e di quella musicale e in ultimo di altre mani-festazioni che, come la danza, diverranno un vanto russo. Interessandoci a decorazione e scenogra-fia andiamo, al seguito di questa studiosa, ad esplorare un vichiano “universo mondo” parallelo aquello architettonico ma non meno interessante, un mondo parallelo che si lega strettamente allerealtà architettoniche e non di rado ne svela i più reconditi significati, un mondo dove l’architetturacostruita è sostituita da quella rappresentata, provocando infine spunti di riflessione, di suggestionie di accattivanti aperture. Dunque questi saggi bene introducono, attraverso diversificate e comple-mentari analisi, ricche di documenti, alle rispettive sezioni, Tradizione italiana e innovazione classicanella decorazione degli interni e Il mondo teatrale. Nell’andare a rileggere, sollecitati pure da questi ultimi rilievi, i testi, rispettivamente, di Androsov edi S̆vidkovskij, in cui, attraverso un grand’angolo che ricollega tra loro una molteplicità di elementi,si delineano le trame che saldano la corte alla società del tempo e al paese, in cui ancora si perce-pisce in tutta la sua unicità la diversità della Russia neoclassica rispetto al resto d’Europa, si può final-mente intendere meglio entro quale scenario venga ad affermarsi questa attività edile che vedeimporsi l’esperienza e la cultura architettonica italiana. Forse sono sufficienti questi elementi per percepire la complessità dello scenario indagato, ma sipotrebbe insistere nel presentare l’eccezionalità di cui stiamo ragionando attraverso sparsi rilievi inmargine innanzitutto all’apporto iconografico del volume: vero e proprio testo nel testo, poi in rife-rimento ai molti approfondimenti presentati nell’insieme dei contributi critici, delle ampie schedetematiche, delle schede analitiche che si pubblicano.