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Quaderni Asiatici 110 – giugno 2015 M. Caterina Mortillaro IL BHARATANĀṬYAM E IL CRISTIANESIMO Aspetti e problemi dell’adattamento della danza classica indiana alla liturgia cattolica l Bharatanāṭyam, uno degli otto stili di danza classica indiana, è una forma teatrale 1 complessa che include movimenti ritmici del corpo, ma anche posizioni delle mani e una mimica altamente codificati. Legata fin dalle sue origini all’induismo, come spiega il Nāṭyaśāstra, ritenuto dai mie interlocutori 2 il più accreditato testo teorico in merito, è un’arte devozionale volta a rappresentare narrazioni mitologiche aventi per protagoniste le divinità del pantheon indù. Tuttavia, negli ultimi trent’anni, un gruppo di teologi e danzatori cristiani 3 ha I 1 Forme coreutiche e teatrali nella tradizione testuale sanscrita sono parzialmente coincidenti. Per comodità traduco qui con “danza” o, altrove, “teatro-danza” il termine nāṭya. 2 Questo articolo nasce da un periodo di ricerca sul campo condotta secondo la metodologia antropologica. Per interlocutori intendo le persone che ho intervistato. Tra di loro vi sono danzatori e danzatrici, insegnanti di danza, sacerdoti più o meno coinvolti nella sperimentazione riguardante il Bharatanāṭyam e il cristianesimo, teologi, ma anche semplici fedeli cristiani, studenti di college e persone comuni di fede indù. 3 Mi riferisco principalmente all’opera di Francis Barboza, ritenuto colui che ha adattato per primo il Bharatanāṭyam al cristianesimo in modo sistematico sulla base dei suoi studi di teologia e filosofia, dedicando a questo tema la sua tesi di dottorato. Tuttavia anche il lavoro di monsignor George, fondatore del Kalai Kaviri College of Fine Arts di Tiruchirappalli, è da considerarsi basilare a questo riguardo. Altro personaggio di rilievo è stato padre Thomas Dsa, che ha lavorato inizialmente all’interno dell’NBCLC (National Biblical, Catechetical and Liturgical Centre) di Bangalore e poi ha dato vita a una troupe di 85

Il Bharatanatyam e il cristianesimo. Aspetti e problemi dell'adattamento della danza classica indiana alla liturgia cattolica

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Quaderni Asiatici 110 – giugno 2015

M. Caterina Mortillaro

IL BHARATANĀṬYAME IL CRISTIANESIMO

Aspetti e problemi dell’adattamento della danzaclassica indiana alla liturgia cattolica

l Bharatanāṭyam, uno degli otto stili di danza classicaindiana, è una forma teatrale1 complessa che includemovimenti ritmici del corpo, ma anche posizioni delle

mani e una mimica altamente codificati. Legata fin dalle sueorigini all’induismo, come spiega il Nāṭyaśāstra, ritenuto dai mieinterlocutori2 il più accreditato testo teorico in merito, è un’artedevozionale volta a rappresentare narrazioni mitologiche aventiper protagoniste le divinità del pantheon indù. Tuttavia, negliultimi trent’anni, un gruppo di teologi e danzatori cristiani3 ha

I

1 Forme coreutiche e teatrali nella tradizione testuale sanscrita sonoparzialmente coincidenti. Per comodità traduco qui con “danza” o,altrove, “teatro-danza” il termine nāṭya.

2 Questo articolo nasce da un periodo di ricerca sul campo condottasecondo la metodologia antropologica. Per interlocutori intendo lepersone che ho intervistato. Tra di loro vi sono danzatori e danzatrici,insegnanti di danza, sacerdoti più o meno coinvolti nella sperimentazioneriguardante il Bharatanāṭyam e il cristianesimo, teologi, ma anchesemplici fedeli cristiani, studenti di college e persone comuni di fedeindù.

3 Mi riferisco principalmente all’opera di Francis Barboza, ritenuto coluiche ha adattato per primo il Bharatanāṭyam al cristianesimo in modosistematico sulla base dei suoi studi di teologia e filosofia, dedicando aquesto tema la sua tesi di dottorato. Tuttavia anche il lavoro dimonsignor George, fondatore del Kalai Kaviri College of Fine Arts diTiruchirappalli, è da considerarsi basilare a questo riguardo. Altropersonaggio di rilievo è stato padre Thomas Dsa, che ha lavoratoinizialmente all’interno dell’NBCLC (National Biblical, Catechetical andLiturgical Centre) di Bangalore e poi ha dato vita a una troupe di

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Il significato religioso della danza classica indiana e delBharatanāṭyam in particolare emerge fin dalle sue origini mitiche.Nel Nāṭyaśāstra si afferma che essa fu creata per volere diBrahmā con scopi eminentemente educativi. Bharata, illeggendario autore del trattato, spiega che, poiché la conoscenzadei Veda non poteva essere appannaggio degli śūdra, i membridel quarto varṇa, Brahmā dichiarò di voler creare un quinto Veda,il Nātya Veda, il cui scopo sarebbe stato di condurre gli uominiall’esercizio della virtù. Nelle intenzioni del dio, esso avrebbeavuto infatti una funzione didattica e sarebbe stato una guida pertutte le attività umane, mostrando ogni genere di arti e mestieri(Bharatamuni, 1981, pag. 2). Ogni possibile situazione dovevaessere imitata. Dovevano esserci riferimenti al dharma, all’artha,alla pace, al riso, alle lotte e persino all’omicidio e al sesso.Secondo il Nāṭyaśāstra, assistere a queste rappresentazioniavrebbe indotto il pubblico a osservare il dovere, ad acquisirefama, ad avere una lunga vita, a migliorare il proprio intelletto(1981, pag. 9).

Il trattato sottolinea la sacralità di quest’arte anche quandodescrive le modalità di costruzione degli edifici in cui il teatro-danza avrebbe avuto luogo, indicando i tempi propizi perl’edificazione, le proporzioni e l’orientamento spaziale piùconsoni e persino i colori adatti per dipingerne le varie parti. Inzone specifiche del palco dovevano essere posizionate divinitàben precise4. In onore di questi dei si sarebbero svolti rituali,sarebbero stati recitati mantra e sarebbero stati offerti cibo e fiori(Bharatamuni, 1981, pagg. 9–13).

Molti miei interlocutori, per sottolineare l’aspetto religioso diquest’arte, si sono richiamati anche alle devadāsī. Stando aDavesh Soneji nelle devadāsī sarebbero confluite differentifigure, tra cui anche quella della cortigiana (Soneji, 2011, pos.179–184). In genere, le persone da me intervistate hanno

4 Ciò, peraltro, non stupisce se si fa riferimento all’arte del vāstu, o yogadella casa, che prevede che ogni edificio, sacro o profano, sia costruitosecondo regole codificate nel Vāstuśastra e dedicando ogni parte dellacostruzione a uno specifico dio.

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utilizzato questo termine nel senso di danzatrici templari il cuiruolo era per l’appunto danzare di fronte al dio e occasionalmenteesibirsi di fronte ai pellegrini. Al tempo stesso, tuttavia, quasitutti hanno concordato sul fatto che, nei secoli, si fossero corrottee fossero diventate prostitute, perdendo il loro carattere sacrale.Non è questo il luogo per entrare nel dibattito sull’argomento, cherichiederebbe una trattazione a parte5. Mi pare comunqueimportante notare che, negli anni Trenta del secolo scorso,Rukmini Devi, di casta brahmanica nonché moglie del presidentedella Società Teosofica Internazionale, nel suo sforzo direstaurare la danza classica indiana per renderla adatta arappresentare la nuova nazione indiana e i suoi valori,profondamente radicati nella tradizione sanscrita e brahmanica,abbia preso nettamente le distanze dalle devadāsī, alle quali eraormai associato uno stigma sociale, e abbia eliminatosistematicamente tutti i tratti sensuali. Peraltro, reclamòl’autenticità e l’antichità della danza da lei riformulata o, forse,ricreata, associandola proprio all’antica sadir6 delle danzatricitemplari, ma richiamandosi a un tempo lontano, in cui non eranoancora corrotte.

In pratica, ci troviamo di fronte a ciò che Eric Hobsbawm eTerence Ranger chiamano “invenzione della tradizione” ovvero“un insieme di pratiche, in genere regolate da norme apertamenteo tacitamente accettate, e dotate di una natura rituale o simbolica,che si propongono di inculcare determinati valori e norme dicomportamento ripetitive nelle quali è automaticamente implicitala continuità col passato. Di fatto, laddove è possibile, tentano ingenere di affermare la propria continuità con un passato storicoopportunamente selezionato” (Hobsbawm & Ranger, 2002, pagg.1–2). O ancora, usando le parole di Richard Schechner,potremmo definirlo un “restored behaviour”, ovvero l’esito di unprocedimento simile a quello di colui che, per montare un film,

5 Al riguardo si veda l’ampia bibliografia in merito. Segnalo alcuni autori:Kersenboom, 1987; Singh, 1990; Soneji, 2011; Whitmer, 2004.

6 Sadir è il termine generico usato nel sud dell’India per indicare la danzapraticata nei templi.

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seleziona alcune scene e fotogrammi e li ricombina. In questomodo la verità originale viene apparentemente onorata eosservata, ma nella realtà essa viene rielaborata e distorta dal mitoe dalla tradizione (Schechner, 2005, pag. 235).

L’operazione di restaurazione o rinnovamento della danzaclassica indiana incluse anche la creazione di un nuovo nome,Bharatanāṭyam, e il suo allontanamento dai templi per portarlanei teatri. Tuttavia, restarono vivi i riferimenti religiosi, che eranoil nutrimento stesso della danza. Sui palchi furono collocate leimmagini sacre di Gaṇeśa e di Śiva Naṭarāja, in modo da simulareun contesto devozionale (Allen, 1997, pag. 79). Peraltro, sarebbeerroneo dire che il Bharatanāṭyam è stato completamenteeliminato dai templi. Quando ho chiesto a Chandrasekhar, unfamoso maestro di danza, se il Bharatanāṭyam potesse tornare neitempli, mi ha risposto che la danza non ne era mai uscita. L’unicadifferenza era che mentre un tempo dovevi recarti al tempio pervederla, ora puoi assistere a un’esibizione sul palco teatrale7. Ineffetti ancora oggi, durante alcune feste, si organizzano esibizionicoreutiche negli atri dei luoghi di culto. Io stessa ho assistito auno spettacolo di musica e danza a Pondicherry, presso il tempiodi Akkā Sāmi Maḍam, in occasione della festa di Navaratri.Anche nel tempio di Bṛadiśvara, a Thanjavur, era previsto unricco programma coreutico per la stessa occasione. A Milano,l’Unione Induista, in occasione di Diwali, la cosiddetta Festadella luce, nel 2014, ha proposto uno spettacolo di danza peraccompagnare la cerimonia religiosa. E anche nei templi inInghilterra pare che si tengano cerimonie accompagnate da danze(David, 2009). Come ha osservato una mia interlocutrice, ladanza non ha più la funzione di una pūjā, cioè una preghiera, unatto di culto vero e proprio. La pūjā viene officiata dai brahmaninel sanctum, la danza, invece, si svolge sempre a latere8, tuttaviaè ritenuta un importante momento della festa. Come mi ha dettoun mio interlocutore, Arimamalams Padmanabhan, docente di

7 Intervista, 2 novembre 2013.8 Krithiga, intervista, 9 ottobre 2013.

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storia all’Università di Pondicherry, “non c’è alcuna attivitàreligiosa senza musica e danza”9.

Infine, il legame con l’induismo è garantito dai temirappresentati, tratti dal Mahābhārata e dal Rāmāyaṇa. Sonomolto comuni performance che hanno per protagonista Kṛṣṇa e legopi o Kṛṣṇa e Radha. Numerosi sono i temi mitologici, come lazangolatura dell'oceano di latte da parte degli dei e dei demoni10.

Questo apre uno dei grandi problemi posti da un adattamentodel Bharatanāṭyam al cristianesimo. Da un lato, infatti, la suanatura religiosa e devozionale rende quest’arte adatta a essereinserita nella liturgia. Dall’altra, però, c’è il timore di introdurrein essa un corpo estraneo, appartenente a una spiritualitàincompatibile con quella cristiana. Peraltro, il cristianesimoindiano raramente presuppone un cambiamento totaledell’identità sociale e un abbandono deciso e definitivo delle

9 Intervista, 22 settembre 2014. 10 Alcuni coreografi hanno cercato di discostarsi dalle tematiche

mitologiche tradizionali, ma non hanno abbandonato del tutto l’aspettosacrale. Chandralekha, per esempio, considerato il pioniere della danzaindiana contemporanea, ha adottato un atteggiamento “secolare”inserendo movimenti astratti e ha rigettato l’iconografia religiosa trattadall’epica del Mahābhārata e del Rāmāyaṇa, tuttavia si è focalizzato sulcorpo come spazio sacrale, un veicolo, come nello yoga, per un reamesuperiore. Altri, come Anita Ratnam e Hari Krihsnan hanno reinventato imiti e le storie epiche per dare loro una rilevanza contemporanea, legataalle problematiche di genere, persino femminista. Ratnam, in particolare,recupera le figure femminili e soprattutto le dee nelle sue coreografieanche se queste incarnano un nuovo tipo di sacralità diversa dalla bhakti,che la coreografa e danzatrice definisce “femminino trascendente”. Nelsuo articolo su questi temi, Katrak cita le sue parole, che confermanocome non vi sia stato un abbandono deciso del bagaglio indù legato alladanza. Comunemente, nella cosiddetta danza contemporanea indiana siintrecciano la danza classica indiana con altri “vocabolari” sia indiani,sia appartenenti alla sensibilità globale, come lo yoga, le arti marziali, ladanza moderna e postmoderna, il balletto, l’hip-hop, il jazz ed elementiteatrali. Queste coreografie ibride usano le mudra per crearerappresentazioni astratte ma anche per reinterpretare l’epica e lamitologia (Katrak, 2013, pagg. 47–48).

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appartenenze e degli stili di vita precedenti, ma è fruttodell’incontro, della sovrapposizione e talora del conflitto tra piùappartenenze (Clémentin-Ojha, 2008, pag. 49).

Strettamente connesse a tali questioni sono l’aspetto relativo allinguaggio specifico del Bharatanāṭyam e le dinamiche di potereche si sono venute a creare tra il centro, ovvero la Chiesa diRoma, e la periferia, cioè quelle che un tempo venivano dette“terre di missione” e ora rivendicano un ruolo più importante.

Per quanto concerne il primo aspetto, cioè il linguaggio delladanza classica indiana, è necessaria una digressione, al fine dipotere più chiaramente mostrare come venga adattata alcristianesimo dal punto di vista tecnico. Del secondo aspetto,invece, parlerò più diffusamente quando mi addentrerò nellequestioni politiche e sociali sottese a questa sperimentazione.

Come dicevo questa forma artistica è molto complessa. Includemovimenti ritmici del corpo, ma anche posizioni delle mani e unamimica altamente codificati. Soprattutto attraverso le mudra ohasta (i gesti delle mani) il danzatore-attore narra degli episodidel mito, esprime la propria devozione alle divinità, accompagnacanti religiosi. L’elevato numero di mudra, alcune delle qualidotate anche di trentacinque significati, e la relativa libertàlasciata al coreografo di reinterpretare e modificare quelleesistenti o persino di aggiungerne di nuove, da un lato rendeardua la decodifica da parte di un pubblico di profani, dall’altroapre alla possibilità di adattare il Bharatanāṭyam a nuovi contestie situazioni non previsti originariamente.

Grazie a questa particolare caratteristica, padre FrancisBarboza, ex prete cattolico, teologo e danzatore, ha iniziato più ditrent’anni fa un’opera sistematica di adattamento al cristianesimo,creando mudra specifiche per la danza cristiana. In particolare hacreato dei deva hasta ovvero mudra inequivocabilmente legate auna divinità o a un concetto religioso. Il suo metodo è stato quellodi combinare i gesti tradizionali con concetti teologici di grandeprofondità. Ciò purtroppo ha portato ad alcune ambiguità,laddove movimenti atti a raffigurare gli dei indù sono statiintegrati nella rappresentazione di personaggi o passi biblici. La

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creatività espressiva di alcuni coreografi cristiani, che non siattengono sempre ai gesti di Barboza e introducono variazioni perrendere le esibizioni meno monotone, ha portato a un’ulterioreconfusione per lo spettatore.

Ad esempio il gesto per raffigurare Dio Padre è composto dadue mudra: la mano sinistra, sopra la sommità del capo, è intripataka, per indicare una corona e di conseguenza un re, il piùgrande. La destra, invece, in śikhara, allude a primo e padre. La

stessa mudra è utilizzataanche per indicare lavittoria sulla morte e sulmale nella resurrezione diGesù. (Barboza, 1990,pagg. 198–199). Tuttavia,durante un’intervista, SirThomas11, insegnante eattore di fede cristiana nellaprestigiosissima scuola diKalakshetra, fondata daRukmini Devi, mi ha fattonotare che śikhara indicanon solo la sommità delcapo di Śiva ma è anche ildeva hasta per lo Śivaliṅga, il fallo di Śiva.Secondo il suo parere,questa è una commistionedi simboli inaccettabile.

La stessa ambiguità si può riscontrare in altri casi. Duranteun’intervista con un insegnante12 del Kalai Kaviri College of FineArts di Tiruchirappalli, una delle istituzioni più prestigiose per ladiffusione della danza indiana cristiana, è emerso ancora unavolta il forte carattere sincretico di questa sperimentazione. Unafrase come “Gesù è il sole che illumina il mondo” viene11 Intervista, 27 agosto 2014.12 Intervista, 30 settembre 2014.

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rappresentata con i deva hasta creati da Barboza per Gesù, seguitida quello per il dio Sūrya, il Sole. Se fosse possibile tradurrequesti gesti con una frase ne risulterebbe “Gesù è Sūrya”.

L’opinione di suor Margaret, direttrice del centro, è che non sicorra alcun pericolo di creare confusione negli spettatori, chesono consapevoli del significato vero dei gesti. In verità, però,non ne sono del tutto convinta. Se l’ambiguità non viene colta dachi assiste alla danza non è perché costui è consapevole che inquella particolare circostanza non si vuole suggerireun’identificazione tra Sūrya e Gesù, quanto perché egli non è ingrado di decodificare i gesti. Durante il mio lavoro di campo,infatti, ho potuto constatare che, come mi aveva detto Sivaselvi,insegnante di danza Bharatanāṭyam13, questa forma artistica, adispetto di quanto affermato nel Nāṭyaśāstra, e cioè che dovrebbeessere un’arte volta ad educare tutti indipendentemente dallacasta, è in verità riservata a coloro che sono stati istruitiapprofonditamente in essa. È quindi da ritenersi in molti casielitaria. Peraltro, persino le danzatrici che si erano esibite al KalaiKaviri durante la messa non conoscevano tutti i significati deigesti che avevano eseguito e che avevano imparatomeccanicamente dai loro maestri e coreografi.

Se questa constatazione allontana per certi versi il problemadell’ambiguità dei simboli (i fedeli non possono essere sviati daciò che non comprendono), dall’altro pone un’altra questione ecioè quella della partecipazione attiva del fedele alla danzadurante la messa.

Le due più grandi preoccupazioni espresse duranteun’intervista dal vescovo di Guntur, Gali Bali, Presidente dellaConferenza Episcopale dell’Andhra Pradesh, infatti, erano il“forte colore di induismo” del Bharatanāṭyam e l’impossibilitàper i fedeli di capire che cosa stesse avvenendo durante la danza.Ciò avrebbe fatto di loro degli spettatori e non dei partecipanti alculto e avrebbe portato con sé il rischio che l’esibizione di belle

13 Intervista, 30 marzo 2013.

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ragazze, truccate e ingioiellate, costituisse una distrazione se nonaddirittura una tentazione14.

Una simile obiezione, pur senza il riferimento all’aspetto dellatentazione costituita dalle esibizioni coreutiche, si trovanell’“Introduzione allo spirito della liturgia” di Ratzinger: “Ladanza non è una forma di espressione della liturgia cristiana. (...)Le danze cultuali nelle diverse religioni hanno diverse finalità –scongiuro, incantesimo analogico, estasi mistica; nessuna diqueste forme corrisponde all’orientamento interiore della liturgiadel ‘sacrificio conforme alla parola’. E’ del tutto contraddittorio,nel tentativo di rendere la liturgia più ‘attraente’, introdurvi dellepantomime in forma di danza – dove è possibile tramite gruppi diprofessionisti -, che spesso finiscono poi negli applausi (cosaperaltro corretta se rapportata al loro talento artistico). Là, doveirrompe l’applauso per l’opera umana nella liturgia, si è di frontea un segno sicuro che si è del tutto perduta l’essenza della liturgiae la si è sostituita con una sorta di intrattenimento a sfondoreligioso” (2001, pagg. 194–195). Il testo non è da ritenersivincolante, tanto più che risale a quando Ratzinger non era ancorapapa, ma la carica che allora ricopriva di Prefetto dellaCongregazione per la Dottrina della Fede rende di certoautorevole la sua opinione.

I fautori della danza in genere ribattono dicendo che il fedele,pur non comprendendo i singoli gesti, sa bene ciò che accade sulpalco o sull’altare perché è guidato dai testi delle canzonidevozionali e, di conseguenza, vi partecipa attivamente. Questaprecisazione, però, non è condivisa da tutti, dal momento che,come sappiamo, in India vi sono numerose lingue e non semprecoloro che assistono alla rappresentazione o al cultoappartengono al medesimo gruppo linguistico. Al Kalai KaviriCollege of Fine Arts alcune danzatrici provenivano da altri stati enon sono state in grado di dirmi di che cosa parlava l’inno cheavevano appena rappresentato. Ad ogni modo, anche ammettendoche i fedeli comprendano, resta aperta l’altra questione: colui che

14 Intervista, 23 gennaio 2013.

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assiste a una danza sacra può essere considerato un partecipanteattivo o resta spettatore passivo? La Costituzione sulla sacra

liturgia Sacrosanctum Concilium del 4 dicembre 1963, infatti,ritiene che l’inculturazione abbia come obiettivo unapartecipazione attiva dei fedeli al rito. Si auspica che essi “nonassistano più come estranei o muti spettatori”. Tuttavia, nonbisogna cadere nell’errore di identificare la partecipazione esternacon quella attiva e quella interna con qualcosa di passivo(Girardi, 2010, pagg. 226–228). Ne discende che anche ilguardare può essere considerato un’azione sacra e tutt’altro chepassiva. In India, infatti, una parte del rituale consiste proprio nelguardare o darśan. “Nella tradizione indù, si riferiscespecialmente al vedere religioso, alla percezione del sacro (…)L’azione centrale del culto indù, dal punto di vista del laico, èstare alla presenza della divinità” (Eck, 1998, pag. 3)15.

Altra questione, che meriterebbe un approfondimento, è quelladella percezione del corpo femminile come fonte di peccato.Purtroppo non posso addentrami in questo tema in questa sede,ma vorrei sottolineare che la preoccupazione circa una possibiletentazione veicolata dalla presenza in chiesa di belle ragazze chesi esibiscono è emersa nelle interviste con molti interlocutori,laici o religiosi che fossero16.

15 In originale: “In the Hindu ritual tradition it refers especially to religiousseeing, or the perception of the sacred. (…) The central action of Hinduworship, from the point of view of the lay person, is to stand in thepresence of the deity.”

16 Il Bharatanāṭyam non è una danza per sole donne, ma bisogna ammettereche gli uomini sono molto rari. Mentre la rappresentazione cui hoassistito al santuario di Velankanni era eseguita anche da un buonnumero di giovani uomini, al Kalai Kaviri College of Fine Arts diTiruchirappalli ho visto un solo ragazzo allenarsi e poi esibirsi durante lamessa e al Kala Darshini di Vijayawada non c’era alcun danzatore disesso maschile. Ciò probabilmente si ricollega in parte con l’eredità delledevadāsī: Nel sistema degli antichi templi in genere gli uomini eranomaestri di danza e musicisti, mentre erano le donne a esibirsi davanti aldio e ai pellegrini.

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Tra le motivazioni a favore della danza liturgica, troviamoinvece i numerosi passi biblici che vi fanno riferimento, tra cui ipiù famosi sono certamente i salmi. Durante un’intervista, ilpastore Prakash, che pure era molto scettico rispetto a certe formedi sincretismo religioso, me ne fornì un elenco17. Ho ritrovato glistessi riferimenti in una tesi di laurea, discussa alla FacoltàTeologica dell’Italia Settentrionale di Milano, con l’aggiunta diun’analisi filologica dei termini ebraici e greci (Tomasello, 1993).Infine, Elena Bartolini ha dedicato un suo libro alla danzatradizionale ebraica, mostrando che essa non appartiene solo a unlontano passato ma è ancora praticata dai gruppi ortodossi(Bartolini, 2000).

Per quanto concerne eventuali testimonianze di danzeliturgiche nel cristianesimo, Monsignor Claudio Magnoli,responsabile del Servizio per la Pastorale Liturgica di Milano, miha spiegato che inizialmente esse erano presenti nella liturgiacristiana, probabilmente come retaggio di quella ebraica. Unesempio è la semplice danza in cerchio che i bambini eseguivanoper il giovedì santo nel rito ambrosiano. Furono i concili dellatarda antichità e del Medioevo a condannare il corpo e a porrel’accento su una devozione basata sull’interiorità a detrimentodelle espressioni corporee. La conseguenza è stata un’esclusionedell’aspetto coreutico dalla messa in Occidente18.

Oggi queste forme non sono che un ricordo lontano,sconosciuto ai più, e di fatto la discussione sulla reintroduzionedella danza liturgica non si muove sul binario del recupero di unatradizione occidentale, ma è strettamente connessa al temadell’inculturazione del cristianesimo e di conseguenza dellaliturgia stessa. Sostanzialmente si tratta di stabilire fino a chepunto il rito debba restare fisso e immutabile, per conservare lesue caratteristiche e la sua forza, o possa essere modificato,

17 Intervista, 25 gennaio 2013. Il pastore Prakash è un ministro del cultobattista di Vijayawada (Andhra Pradesh) dove ho condotto la prima partedella mia ricerca sul campo. In genere ho osservato che la posizioneprotestante è molto più rigida rispetto a quella cattolica.

18 Colloquio, 5 giugno 2012.

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attraverso l’introduzione di nuovi elementi, alcuni dei qualiappartenenti ad altre culture. Nella Sacrosanctum Concilium vi èuna notevole apertura in tal senso, tuttavia, da un entusiasmo checaratterizzò gli anni immediatamente successivi al ConcilioVaticano II e vide fiorire numerose sperimentazioni, si è passatigradualmente a una maggiore prudenza. Inoltre, secondo AldoNatale Terrin, bisogna inserire queste indicazioni ufficiali nellaloro dimensione storica. Per comprendere il Concilio Vaticano IIe i suoi documenti, infatti, occorre analizzare attentamente le“tendenze”, le “aspettative”, i “modi di pensare” della stagionestorica che li ha prodotti (Terrin, 2010, pag. 34). A suo parere,essi sarebbero il frutto di un periodo in cui predominava unatendenza alla secolarizzazione: “A partire dal Vaticano II ci

sarebbe stata una certa accondiscendenza alla modernità e alla

riforma liturgica legata anche alla ‘modernizzazione del rituale’

e della liturgia; mentre, al contrario, in questi ultimi anni sembra

che vi sia una controtendenza: diventa forte un movimento di

critica alla modernità, accompagnato da un certo tipo di de-

secolarizzazione”19. Terrin parla di una “ritirata nel sacro” chemetterebbe in crisi la stessa riforma liturgica del Vaticano II. Daquesto ragionamento ne conseguirebbe che alle istanze“democratiche” e “moderne” innescate dall’apertura del VaticanoII oggi farebbe da “contro-altare” una tendenza contraria chevorrebbe restituire al mondo della fede il “senso dell’arcano” epotrebbe fare apparire la riforma di allora come una“contraffazione della liturgia”. Stando all’autore, alcuni sisarebbero persino posti le seguenti domande: “la liturgia hadavvero bisogno di ‘incontrare il popolo’, c’era davvero bisognodi girare l’altare verso i fedeli, vi era davvero bisogno dicomunicare in lingua volgare il mistero per viverlo piùprofondamente?” (2010, pagg. 36–37). Anche Girardi nota che, aun entusiasmo iniziale, caratterizzato da una “promozioneappassionata”, ha fatto da contraltare in un secondo tempo unacura per il formalismo liturgico che è parsa orientata a “un nuovo

19 Il corsivo è nel testo.

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cerimonialismo, che legittima una disattenzione al contesto realedei soggetti e al loro coinvolgimento” (Girardi, 2010, pag. 242).

Non mi soffermerò sull’uso di concetti controversi come“secolarizzazione” e “de-secolarizzazione”, soprattuttoconsiderato che ci riferiamo a contesti non occidentali. Tuttavia,sembra che in India si sia assistito proprio a un ritorno allatradizione, un fatto che mi è stato confermato, tra gli altri, da suorBenigna, segretaria della CCBI (Conference of Catholic Bishopsof india), giornalista di Asia News e collaboratrice di liturgisti.Durante una delle nostre uscite mattutine a Vijayawada, la suorami ha espresso tutta la sua disapprovazione per le iniziative chealcuni sacerdoti portavano avanti in campo liturgico. “Dopo ilVaticano II c'è stata molta sperimentazione ma ora abbiamoadottato il Lezionario inglese e non è ammesso più nulla, tranneall'ingresso e all'offertorio. La liturgia è strettamente latina”.Inoltre, a suo parere, la danza era un elemento non approvato daidocumenti ufficiali e quindi da ritenersi proibito20.

In effetti, nella Sacrosanctum Concilium vi sono riferimentialla musica ma non alla danza (Montini, 1963, artt. 119–121). Eanche papa Francesco, a dispetto dei fatti di cronaca chesembrano vederlo favorevole ai balli in situazioni a caratterereligioso, non si esprime sulla danza nel culto, ma si limita a faredelle osservazioni sul carattere universale e non esclusivamenteoccidentale del cristianesimo, riaprendo, nell’esortazioneapostolica Evangelii gaudium, il grande dibattitosull’inculturazione.

Tuttavia, i miei interlocutori appartenenti al clero siappropriano delle retoriche dei documenti ufficiali del VaticanoII, richiamandosi allo spirito di questi testi e approfittando delloro carattere generale per interpretarli alla luce dei loro obiettivi.Il loro scopo è infatti quello di ottenere un rito indiano che vadaoltre i dodici punti di adattamento della liturgia in India approvatinel 1969.

20 Intervista, 7 dicembre 2012

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Bisogna ricordare, però, che sulla possibilità di sperimentare idocumenti conciliari sono tutt’altro che vaghi. All’articolo 22,infatti, la Sacrosanctum Concilium è molto chiara: solo la SantaSede e le sedi episcopali territoriali hanno il potere di operarecambiamenti, “nessun altro, anche se sacerdote, osi, di suainiziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materialiturgica”. C’è quindi da chiedersi come mai la ricerca vadaavanti e sia possibile assistere a messe danzate, in taluni casi inpresenza di vescovi.

La risposta più semplice è che spesso la Chiesa di Roma nonsa. Il tema dell’incapacità da parte della Santa Sede di controllaree quello dell’abilità delle Chiese locali nell’eludere il controlloritorna spesso nelle mie interviste e nelle interazioni informali coimiei interlocutori. Durante una chiacchierata a Tiruchirappalli,relativa alla messa danzata che si stava organizzando presso ilKalai Kaviri College of Fine Arts, ricordo distintamente di avereosservato: “Mi risulta che questo non sia permesso.” La rispostadi uno degli organizzatori, accompagnata da una risata ironica, èstata. “Qui sì.” In quegli stessi giorni, un sacerdote, sullo stessoargomento, mi ha detto: “Roma non può controllare tutto. Nonconoscono neppure la lingua. Non possono insegnare il tamil aisacerdoti, così si servono dei nostri seminaristi. E loro sono deinostri.” Il tono era allegro, come se ci fosse un certocompiacimento a sfuggire al “vasto impero”, per citareAmalorpavadass (1975, pag. 17)21.

Aldo Natale Terrin dà una lettura molto chiara di questofenomeno che lui chiama “movimenti revivalisti”. A suo parerenon sono che una reazione e un’appropriazione del cristianesimoda parte di chi ha subito l’acculturazione coloniale cristiano-occidentale, in cui la cristianizzazione del mondo è andata a

21 “The local Church is not a mere administrative part or territorialsubdivision of the universal Church (…) It is the concrete incarnation,actualisation and localisation of all that we mean by the Church. It is anevent. The aspect which sets on relief the Church as an event is itsdynamism towards incarnation towards incorporation and integration inthe area of contemporary world, history and culture.”

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braccetto e si è servita della modernizzazione occidentale delmondo (Terrin, 2009).

Effettivamente, l’insofferenza verso il potere centrale di Romaserpeggia in quasi tutti i discorsi dei miei interlocutoriappartenenti al clero e favorevoli alla riforma liturgica. In alcunicasi emergono affermazioni esplicite: “Già qualcuno ha espressoa Roma a vari livelli questo bisogno di una messa con ritoindiano, ma sono stati messi a tacere dalla Chiesa. (…) MichaelAmaladoss è uno di questi. Ha scritto libri e articolisull'argomento e gli hanno tappato la bocca [L’intervistato fa ilgesto di uno che piazza lo scotch sulla bocca]. Hanno messo isuoi libri all'indice. Sai che cos'è l'indice? (…) La Chiesa cerca dicontrollare tutti ma non ci riesce sempre. (…) La Chiesa nonvuole i cambiamenti perché altrimenti non ha più il controllo. Livuole tenere tutti in pugno. [Fa il gesto] Il problema è che nonsiamo uniti nel fare le nostre richieste. Io la penso in un modo,suor Benigna in un altro. A chi dovrebbe dare retta il Vaticano?(…) La Chiesa centrale, le chiese coloniali hanno sradicato lechiese locali e ci hanno messo sopra quelle occidentali. E' comeritagliare un pezzo da questa camicia e metterci un altro pezzo distoffa diversa. E' un patchwork. Si vedrà sempre che è una toppa.La Chiesa indiana è solo un patchwork. Così bisogna fare capireche la Chiesa indiana deve crescere spontanea dentro le suetradizioni”22.

Tengo a precisare che l’Indice dei Libri Proibiti fu abolito inseguito alle riforme del Concilio Vaticano II, nel 1966, sotto papaPaolo VI. Tuttavia citarlo era di sicuro effetto. Stesso dicasi perun presunto decreto della Santa Sede contrario allasperimentazione, di cui in realtà non vi è alcuna traccia.

A questo punto, però, mi pare necessario fare un ulteriorepasso. Se, infatti, appare evidente che le motivazioni teologichenon sono le sole a muovere questo gruppo di riformatori, vi è unadomanda che ancora non è stata esplicitata: perché la danza? Eperché la danza classica e non le danze folk o tribali?

22 Intervista, 7 gennaio 2012.

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Per rispondere è necessario considerare il valore sociale epolitico che la danza classica ricopre soprattutto dal punto di vistadell’identità indiana. Il fatto che il governo abbia affidato aistituzioni come l’ICCR, Indian Council for Cultural Relations, ela Sangeet Natak Akademi il compito di controllare che nonvengano violati alcuni principi formali relativi a queste formeartistiche la dice lunga sul valore che viene loro attribuito. D’altraparte sono parte della vita quotidiana e dell’identità degli Indiani.Ogni manifestazione laica o religiosa include uno spettacolocoreutico. In televisione ci sono numerosi programmi dedicati agare di danza e le danzatrici sono presenti sulle brochure e suidepliant dell’Ente del Turismo Indiano. Le scuole di ogni ordinee grado offrono corsi di Bharatanāṭyam o di altri stili, al puntoche vi sono università e corsi di dottorato dedicati a questamateria. Per non parlare delle numerose scuole private dove lamaggior parte delle ragazze (ma anche alcuni ragazzi) vanno aperfezionarsi. D’altra parte essere bravi danzatori offre popolaritàtra i coetanei e non solo.

Come spesso accade, i legami tra “indianità” e Bharatanāṭyamsi delineano in modo ancora più evidente in terra di migrazione,dove esso è percepito come un potente veicolo dei valoritradizionali e culturali indiani. Negli USA, dove ho svolto unaparte della mia ricerca sul campo, molte ragazze mi hanno riferitodi essere state portate dai familiari a scuola di Bharatanāṭyamcontro la loro volontà e numerose madri l’hanno confermato. Nelcorso delle interviste hanno spiegato che in un Paese stranierocon valori molto diversi da quelli della tradizione indiana eranecessario un modo per inculcare nelle figlie la modestia, lacastità e più in generale la mentalità proprie dell’India. Questanecessità era avvertita sia dai cristiani che dagli indù.

La danza classica, avendo per oggetto episodi esemplari dellamitologia indiana ed essendo una pratica atta a disciplinarefortemente i corpi di chi la pratica, è considerata massimamenteadatta allo scopo. Le ragazze, negli scantinati delle case dellevarie maestre o maestri, inoltre, si ritrovano tra membri dellastessa comunità etnica e socializzano. Per allenarsi devono

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indossare gli abiti tradizionali e per esibirsi devono apprendere lenorme estetiche della cultura indiana. Il metodo d’insegnamento èpeculiare e molto diverso da quello degli insegnanti della scuolaamericana. Gli allievi imparano a rivolgersi al guruinginocchiandosi e toccandogli i piedi con la fronte prima di ognilezione, per ricevere la benedizione. Non c’è diritto di replica enon ho mai visto alcuna ragazza o ragazzo porre domande alguru. Le lezioni comprendono esercizi fisici ardui ma anchesforzi mnemonici in sanscrito oltre che la conoscenza delle varielingue dell’India, a seconda dei canti scelti dal maestro o dallamaestra. Il Bharatanāṭyam torna quindi a ricoprire il ruoloeducativo per cui era nato e svolge la funzione di plasmare lementi e i corpi.

Questo aspetto si accorda perfettamente con le esigenze degliIndiani cristiani, i quali cercano di ribadire la loro identità inun’India che, secondo la logica dell’hindutva, li percepisce comeospiti. Come mi ha spiegato un padre gesuita, il cristiano è spessovisto come uno straniero, un outsider e un antinazionalista perchéha scelto di aderire a una religione che viene dall’esterno. In certicasi la sua scelta di fede ha comportato la rinuncia alla propriacultura, al modo di vestire, al nome. Sente quindi il bisogno diessere simile ai suoi vicini indù. Con loro vuole condividere ivalori, le forme di devozione e le arti, in modo da configurarsicome amico e non estraneo23. La questione della danzarientrerebbe in questo quadro, come potente simbolo diun’identità rivendicata con forza.

D’altra parte, durante la stessa intervista, questo sacerdote miha fatto notare ciò che avevo già osservato nei santuari e nellechiese indiane da me visitati, ovvero che vi sono altre forme diinculturazione dal basso, volute dagli stessi fedeli, nell’ambitodella devozione popolare. Secondo l’opinione del miointerlocutore, sarebbero questi i modi più efficaci di superare lebarriere tra indù e cristiani, non la danza classica, che da Rukmini

23 Intervista, 24 agosto 2014.

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Devi in poi è un’arte specificamente legata alla casta deibrahmani.

In effetti, dai miei numerosi incontri e interviste con i fedeli, èemerso che pochi erano al corrente del fatto che il Bharatanāṭyamvenisse adattato al cristianesimo allo scopo di introdurlo nelculto. La maggior parte mi ha detto di gradire le danze cristianema solo in contesti paraliturgici, mentre esse dovrebbero restarefuori dalle chiese. Alcuni interlocutori si sono scandalizzatiquando hanno saputo che suore e preti danzavano truccati eingioiellati. Solo una minima parte conveniva sul fatto chel’introduzione del Bharatanāṭyam nel culto fosse effettivamenteuno strumento efficace per ribadire la propria “indianità”. Misono quindi formata l’opinione che si tratti di un’iniziativa legataa un’élite piuttosto ristretta.

L’aspetto castale, che permea ancora oggi la vita degli Indiani,siano essi indù o cristiani, a detta del padre gesuita, potrebbeessere un’altra chiave di lettura efficace per comprendere comemai un ristretto gruppo di teologi e danzatori stia portando avanticon tanta decisione questo progetto. Secondo la sua opinione, ilcristianesimo è in India l’unico modo per liberarsi della casta eascendere socialmente. Molti sacerdoti appartengono alla castadegli intoccabili e, tramite la Chiesa, hanno avuto la possibilità distudiare e di accedere a posti di rilievo. Il solo fatto di essere pretifa sì che siano rispettati e stimati da tutti. Tuttavia, sentono ilpeso delle loro origini e lottano per appropriarsi di tutti i simbolidelle caste più alte, inclusa la danza.

Questa interpretazione psicologica data dal padre gesuita è inparte suffragata da un’intervista con un altro sacerdote, padreAlan, dell’Institute for Inculturation and Tamil Culture aChennai. Padre Alan mi ha raccontato di un progetto, da luidiretto, il cui scopo è insegnare il Bharatanāṭyam alle donne dalit(intoccabili) delle baraccopoli di Chennai. A suo parere,apprendendo un’arte legata alle caste più alte, queste donneacquisiscono dignità e consapevolezza del loro valore. L’istitutosostiene le spese, dal momento che in genere imparare la danza

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classica è piuttosto costoso, e organizza tournée24. In effetti,anche il Kalai Kaviri College of Fine Arts e il Kala Darshinihanno adottato una politica simile, offrendo l’opportunità a chinon può permetterselo di imparare la danza classica.

Concludendo, possiamo dunque affermare che lacristianizzazione della danza classica indiana e in particolare delBharatanāṭyam coinvolge molti aspetti diversi. Analizzarla da unpunto di vista tecnico è importante, in quanto evidenzia lenumerose ambiguità cui ha dato luogo, nonostante ormai lasperimentazione vada avanti da oltre trent’anni. Tuttavia non èsufficiente. Neppure la lettura alla luce della riflessione sullaliturgia, per quanto ricca di spunti, esaurisce il problema. Infattiuna molteplicità di rapporti e tensioni si cela dietro quello chepotrebbe apparire come un innocuo tentativo di inserire alcuniaspetti culturali locali nel rito. Come abbiamo visto, vi sonocoinvolti aspetti politici, rivendicazioni anticoloniali nei confrontidel Vaticano, percepito come un’emanazione dell’occidente, euna lotta da parte dei cristiani per rivendicare la loro identitàindiana, opponendosi alla logica dell’hindutva che li dipingecome estranei in casa loro.

Inoltre, la mia ricerca mostra che c’è ancora molta confusione enon tutti i fedeli sono consapevoli o favorevoli a questasperimentazione, condotta di fatto da un’élite colta di sacerdoti ecoreografi. D’altronde si tratta di un’arte che da Rukmini Devi inpoi è stata patrimonio delle caste più alte. Non è quindi daescludere che, tra le varie motivazioni sottese a questoadattamento del Bharatanāṭyam al cristianesimo, ci siaeffettivamente anche una rivendicazione castale, considerato tral’altro che molti cristiani fanno parte delle caste più basse evedono nella conversione un mezzo di ascesa sociale.

24 Intervista, 24 agosto 2014.

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L'Autore

M. Caterina Mortillaro, laureata in Lettere Classiche

all’Università Cattolica del S. Cuore di Milano. Traduttrice

dall’inglese per Mondadori e Baldini e Castoldi, come

giornalista pubblicista ha collaborato con riviste e giornali

che si occupano di intercultura, popoli e missionarietà (“Italia

Missionaria”, “Popoli”, “Mondo e Missione”, “Avvenire”).

Insegna Lettere nella Scuola Statale e ha pubblicato due

romanzi. Ha conseguito una seconda laurea magistrale nel

2012 in Scienze Antropologiche ed Etnologiche all’Università

di Milano Bicocca con una tesi sulla “Costruzione dell’identità

cristiana ad Antiochia – Turchia”. Attualmente è dottoranda in

antropologia presso la stessa università.

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