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Studia Ephemeridis Augustinianum 127 ISBN: 978-88-7961-102-2

La polisemia del silenzio nel mondo latino tra politica, diritto e religione

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Stud ia Ephemer id is August in ianum 127

ISBN: 978 -88 -7961-102-2

SILENZIO E PAROLANELLA PATRISTICA

XXXIX Incontro. di Studiosi dell'Antichità Cristiana

(Roma, F8 maggio 2010)

Institutum Patristicum AugustinianumVia Paolo VI , 25 - 00193 Roma

20t2

INDICE GENERALE

Prcsentazione

t .

TEùfA TICHE CI]NERALI

Girrlia Piccaluga, Aspclt ndo che il lagos st incami Paî[are e tacere nelb religioni

del mùnda classico

Jcan-Noèl Guinot, ,er srbn.es de l'éúiture au sibnce de L'exégète

Philipp Gabricl Ren.r.es, The Patistic Notion oI "Dntine C'ratz" on lhe Htnzon

al ApoPhatìc T heoLog;

lrancesca Roùana \occhi, Serrno lacitus ed eloquentla cotpoÎts, &n)ero

l'elJìcacia retorita rlcl sik:nzzo

Chiara Somenzi, ''v-ocibus et cordibus": la dial?tlica rocesiknzio nel canlo

L'ristiano. L)ibattito e ÍtoLl+lic.tà tli soluzioni tra N e V secolo .

Nlarianna Ccrno, It sik:nzic det maúire: alcuni esèrnpi n?\L'dgíografft dell'ItaLia

alton4diarale

Alba lf:rria Orselli, I"equililrio lra sllznzio e parota nella comuni'azione

9

2 t

39

55

7 l

9 t

monar l i t o latdù44tt tn l ly ' ' \ J 'P,o la '

Felix Albrecht, Jesut chrìtlus Wotl atLs Schucjgm. Zur MolHgeschichte nnes

I I ,

FONTT tsIBLICìHI] - GNOSIICISMO _ FILOSOFIA ANTICA

ùlario Cimosa - Gillian Bonncy,./'oD Betuem "Wonls antl Silmu": In the Bihlz

anl in the Exegesis of Some Falheîs of the Church

Donrenico Ciarlo, Inleintazioni e citazíoni Palristiche dr qo J,7ór temPo 'tt

lacere e temPo di Parlare^ugusto Cosentino, Slghè c l-ogos nello gnosticismo

Roberto Romano, IL sitmzio del ftosrlo Secowlo. Dal mondo pagano al mondo

úxlllano

Emmanuelc VimercaLl, Dal non esseÍe aLla trtncmdmza: I'euoluzione deL tetmine

arrhetos i11 età medíoqllttonicLt .

Elena Gritti, OIIre il rit?nzía della ra$one. li1L\cendmza e icena Jilasofca ìn un

inno neoqlatonim

109

1 1 9

135

Ì55

175

r87

197

2 1 5

INDICI

L

PADzu ARMENI

Alessandro Orengo, & ragioni det. siknzio nella [.etteratura anre1ra da pnmrsercli (V-VII secola) 237

IV.

PAI)RI GRECI

Bourlcwljn f)ehandschuttcr, Sì[tnce and Speeù in lgnatius, To the Magne-s ians 8 , 2 . 251

Nlalteo lvlonfrinotti. II stbnzto pret)t're Ia I'arola: Clemente d'Al6sandnal'rot. 10,1) 25J

llnrrnanucl A)bato, ()rigene etl. i sitn\i delle SÍitture 2i3

Rocco Sclrembra, Sìknzìa e larola nel l ' In epistola Jacobi cathoììca brcrisenarrafio di Dìdìmo íl Oieco 285

Robcrto Osculati, (]ioranni ariílbma: paroLa dialogt stlaz,io neLI? Omclir: sLrSau Giovanni 305

Ilaria lrabace, Ln 'retorìca tld silznziri n?gli soitti mrcniastici 1.1 I'adicallpatlotl 323

l'raneoisc Vinel, Le silntte, un argum?nt théologiqx.c deTL\ la lutte .antre Eunonuchcz Les Peres calrpadadens 341

Cliovanni Antonio Nigro, 1l silzn:io come strategia d,i camunìozione egli scnuttli Basilio tli C,estnea. . 35t

Ilaria Ranrelli, Stlenzio aqaJatiú in Gregono dí Nissa: ún canfranto t)n I'lotinoe unlrLtTagine d,eLlz asrmdenze oigennne . 361

Carmelo Crimi, La tlìmcnsione pubbLi.a de[ stllrúio;n C,regorìo Nazianzma 389

.Jean Pauì Lieg9i, "Un monum?nl(i farl,anle del nostra silenzio ". ll .arne II, l,)18 tli C'regnrio dì Nazianzo 397

(ljovanni'foset(i, Paroltr Poetica e síbnzio in Cregorío di Nazianzo: considarazrowsloricoreLigiose su alcuw ibfhlre d.i Odìssea 4)g

Arianna Rotonrlcr, II "silenzto eLoquente" nelLtl Parat'rasi dt Nanno dì Panopolì .131

Lia tlaflaella Crcsci, DíalÌttica parcla silrnzio aa contaci di Romano il trIektdo 153

I PAI)RI LATINI

Arduino Maiuri, La polisemta tLel silcnzìa nd mondo latún ba PoLittú.L, dliltoe relig;ow . 465

Paul Mattei, l\,[aior est omni sermone. la tmnscmdance inefable de Diru selon|ioaatim, Dc Trinitate. a/h? tlúobgie lìblique mtv pLobtuism? et slalàsme .187

Aìcxey Fokin, Elawnts of Apùphalit Theolog in Wr"tings af Marius Viclorínus 509

I\DI(JE GF,N!,R{I,E 7{3

Chiara Ombretta Tonrmasi Nloreschini, SitetLzio, ttoce, annunzio la Trinità

v'ando .\ laiu \- ir toó qo Jl l

Emanucle Di Santo, Sermo si lens et si ìentìuÌr loquens (À}/. 21,5): Lz d. ia'

kttrca sil"nzrc/parokt nelL'insagname to osceli.o (Li San Girolamo 537

Maria Veronese, Si tacuero, cr iminosus cro; si responclcro, maledicus (I /rPr' ,

adv. Rtìfìn. J, )). lI (nsliano satto acnua al biùo |rd sibnzío e parola . 553

Klans Zelzer, Wort und Sttlb: I':in Illiù auÍ Allgrstinus und Ambrosius 571

John t'eler Kenney, llnrd and Silence at Cassialù1tn. 5il5

Francesc<r Coîs t(). Porah e tìknzi.o nella uisione agnslúiana di Oslia (Conî. IX,

lat t) 593

Parrl van Gccsr, La lensione tra il. (l()\er parlare rji 1)io s il volcr tàcer e ù fronleo Dío. Alntne ctssantazioni s?ll I)e [.ini(aîe ù Agosftno 603

Lisania Giordano, l'ocme etl essere, iLirc e non e'.\fie: linee ìntetPref\tilre in

Oregorio trÍagno 615

Andrea Cavallini, Parakr dt!1ùa e parola umana in C'regùria ÌVagno AsPeIti

gnoseologtci (lell.4 Rnek\ione 625

V I .

T!-S rlN'lONIANZFARCHEOT.OCICHE E ItìON-OGRAFICHE

Alessandra }filella, /']orolar I'orgnnizzazione rLeLlo spazìo nelL'auh dì tuLlo pcî 12

.elebrazioní liturglch.. lra tarda antichità e altamedioma. 647

Marglrerita Cecchelli, /- brgi?n izz azione delLo spazio P"r 12 îebbrdzíoni lútrliche

ne 'aula tli otl.lo tra tarda antichità e alto mediomo: I'area preshiteàale . 659

f)aniele Iozzia, CI'AóH LIQIIQIA: Ia gusttjnzíone del nlolo delh fltruru nn

lhdri îappadacz 675

Renate Pillirrgcr, I'anlr: e silznzio nell'arte l)aleaÍistidna fìil5

V I I .

ASPETTI I,EGISI-{TN'I

Thomas Graumann. Das khutàgen der Ahlen: \'etbale untl nonlohak Interakliùn

auI dm Konzilrm der Altm Kìrche 693

Esteban Morcno Rcsano, -81 silezcio preceptìlo de las lnó.ti.as adilrinatoîias en

la le$slactón ocàdmtal (Lc (ì)nskn.jo II rleL ano J57: formus nonnalit)as)

reLóica canciLlerescn I l)olílì.a im4eîial 709

N D I C I

Indice dei nomi aùtichi e dcl le opere. 723

Indice dei nomi m()dcrni . 727

lndice generale 711

LA POLISEMIA DEL SILENZIO NEL MONDO LATINO TRA POLITICA, DIRITTO E RELIGIONE*

aut tace/ aut loquere meliora/ silentio

(Salvator Rosa, motto dipinto sul suo autoritratto)

Nella moderna società occidentale il silenzio viene tendenzialmente percepito come una condizione negativa, un dark side del rumore, del suono, della parola. Simbolo ora di diversità o non essere, ora di paura tradotta in supina e remissiva sottomissione, in un’epoca in cui l’assenza di linguaggio è costretta a subire spietati attacchi individuali e collettivi, il silenzio si caratterizza come una scomoda alternativa rispetto all’ufficialità vigente e vincente, affidata alla parola lecita, studiata e ratificata1.

* Nel redigere il mio contributo ho ripreso alcuni degli spunti emersi dal gravido dibattito interdisciplinare intrattenuto con gli studiosi presenti al Convegno: mi dichiaro, pertanto, particolarmente grato (in ordine rigorosamente alfabetico) a Giuliano Crifò, Concetta Giuffrè Scibona, Antonio V. Nazzaro e Giulia Piccaluga per i loro preziosi consigli. Le parole riportate in epigrafe mi sono state ispirate dalla gentile collega Anna Lisa Ranzo, che nella sua tesi di laurea le ha degnate di un’ampia analisi.

1 Giudicata fin da Platone un elemento strutturale della condizione umana. Nel Cratilo (399c) il termine a[nqrwpoç è fatto scendere da e[narqon e[cein e[poç (“avere parola articolata”). Anche ammesso che si tratti di una paretimologia, il semplice fatto che Platone l’abbia richiamata depone in favore della straordinaria importanza della facoltà espressiva per l’essere umano (cf. W. Prellwitz, Griech. a[nqrwpoç, eJlikwpeç und die Wörter auf ai. añc- besonders im Griechischen und Lateinischen, in Glotta 15 [1926], 128-138). Il discorso cambia radicalmente se ci si sposta in Oriente, in cui il silenzio rappresenta una condizione privilegiata rispetto alla parola, giudicata, al contrario, un’entità polimorfa e cangiante: si pensi alla perfezione del cammino per praticare il silenzio ed entrare nel vuoto mostrato dallo Zen. Si può pacificamente asserire, cioè, che nelle principali culture orientali l’equazione essere = pensiero = parola non valga come un efficace criterio di indagine del reale. Indicazioni di partenza per la cultura giapponese in G. Jisō Forzani, I fiori del vuoto. Introduzione alla cultura giapponese, Torino 2006, 22 ss. Per la Cina, A. Cheng, Histoire de la pensée chinoise, Paris 1997, tr. it. Storia del pensiero cinese, Torino 2000, 199 ss. Anche Nāgārjuna, il grande teorico indiano che diffuse il buddhismo mahāyāna in Estremo Oriente, nelle sue Mūla Madyamaka Kārikā (Stanze del Radicale Cammino di Mezzo) porta alle estreme conseguenze la critica di qualsiasi definizione pensabile e dicibile della realtà. La tradizione ascetica indiana, del resto, prevede esplcitamente il voto del silenzio, che la Chāndogya-Upaniṣad (VIII, 5,

2 ARDUINO MAIURI

Eppure, le numerose espressioni proverbiali della lingua italiana relative al tacere ripetono in genere il senso della nota massima “la parola è d’argento, il silenzio è d’oro”: da “chi parla rado, è tenuto a grado” a “chi sempre tace, brama la pace”, fino al cantilenante “parla poco, ascolta assai, e giammai non fallirai”. Si tratta, è chiaro, di un ramo distinto della ricezione di un fenomeno che solo in apparenza è semplice da definire, anche semplicemente e contrario, mentre nella realtà si presenta ricco di sfumature, molte delle quali anche in patente disarmonia: così, se si esaminano le principali accezioni del suo senso basilare di antagonista della parola, fin da una prima sommaria ricognizione si evidenziano realtà del tutto eterogenee: dall’impossibilità, oggettiva perché fisiologica, di articolare fonemi, all’inidoneità alla lingua dello straniero, ignaro dell’idioma allotrio, alla ritrosia a pronunciarsi per timore del giudizio altrui, alla privazione della libertà di espressione indotta da coercizione esterna, alla cessazione per resa o appagamento delle proprie facoltà argomentative; e ancora, il cosiddetto silenzio-dissenso, volontaria e polemica presa di distanza da posizioni non condivise, o il silenzio-assenso, sinonimo di tacita accettazione; ovvero, il silenzio come costruttiva ricerca di attenzione e concentrazione, requisiti necessari per comprendere validamente le parole dell’interlocutore; e infine la sua più solenne epifania, volta all’incondizionata disponibilità per l’inaudito, resa poi quasi subito condizionata dall’impossibilità di esprimersi, che può trasmutare in elitarie scelte estatiche o ascetiche. A seconda delle circostanze cambiano anche le modalità “espressive”, se così può dirsi, del silenzio, variamente connesse con il pudore, la timidezza, il riserbo, il segreto, l’omertà, la reticenza, la sofferenza, la costrizione, la pietà o la dignità: ora struggente anelito di pace, ora sdegnosa manifestazione di cocente disapprovazione.

Tuttavia, per rimanere ancorati alla prospettiva ermeneutica prescelta, una simile esemplificazione consente in più casi di apprezzare un interessante processo di rivalutazione, che implica un radicale ribaltamento delle premesse anteriori alla diffusione del cristianesimo nella romanità: così, se nei testi della letteratura latina di età repubblicana e protoimperiale normalmente la nozione di silenzio riveste il suddetto significato negativo di non essere, vuoto, assenza, la parola al contrario si carica di un senso positivo di riempimento, sostanza, realtà costituente. È il linguaggio che detiene la leadership, nel suo rapporto biunivoco con la

2) assimila per certi versi a quello di castità (cf. C. Malamoud, Fémininité de la parole. Études sur l’Inde ancienne, Paris 2005, tr. it. Femminilità della parola. Miti e simboli dell’India antica, Roma 2008, 92).

LA POLISEMIA DEL SILENZIO NEL MONDO LATINO 3

realtà2, mentre il silenzio sembra titolare, tutt’al più, di un senso subordinato, qualora il loquens lo utilizzi come strumento espressivo non verbale, ma coscientemente significante3.

A fronte di queste considerazioni preliminari, è possibile asserire, quindi, che anche nel mondo latino il silenzio possa essere inteso come un’esperienza polisemica, variegata e multiforme, sia dal punto di vista sincronico che diacronico. Parte integrante della vicenda esistenziale umana, come tale esso va di volta in volta esplorato, perché si intenda correttamente la specifica valenza delle sue singole ricorrenze testuali.

2 «Per il soggetto parlante, fra la lingua e la realtà vi è una completa

adeguazione: il segno copre e domina la realtà; o meglio, è questa realtà (nomen omen, parole tabu, potere magico del verbo, e così via)» (É. Benveniste, Problèmes de linguistique générale, Paris 1966, tr. it. Problemi di linguistica generale, Milano 1971, 65). Illuminante anche la correlazione individuata da Emilio Betti tra la coppia aristotelica e[rgon-ejnevrgeia (eth. Nic. 1094a), allusiva nei suoi due termini rispettivamente all’agire e all’opera come risultato di quel processo, e quella praticamente consustanziale di lingua-discorso, nel senso che «la lingua […] si attualizza nel discorso, come pensiero e presa di posizione, e il discorso converte la lingua in una presenza vivente» (E. Betti, Teoria generale dell’interpretazione, Milano 1955, ed. corretta e ampliata da G. Crifò, Milano 1990, 168). Sull’importanza della teoria dell’atto linguistico in Betti insiste il ricco studio di C. Danani, La questione dell’oggettività nell’ermeneutica di Emilio Betti, Milano 1998 (max. al cap. IV, 59-96, significativamente intitolato La parentela: il linguaggio). Altrove l’Autore avvisa che la «concezione del linguaggio come spontanea energia spirituale, anziché artificioso sistema di segni» è una straordinaria intuizione vichiana, poi «ripresa da W. v. Humboldt e svolta dalla linguistica moderna fino a F. De Saussurre» (E. Betti, I principi di Scienza Nuova di G. B. Vico e la teoria dell’interpretazione storica, in Nuova rivista di diritto commerciale, diritto dell’economia, diritto sociale 10 [1957], 58 = Id., Diritto Metodo Ermeneutica. Scritti scelti, a cura di G. Crifò, Milano 1991, 484). Il punto di partenza nel mondo romano si può fissare nell’Institutio oratoria quintilianea (cf. V, 10, 12, per l’intrinseca evidenza di ciò che, come il linguaggio, ricade sotto la nostra diretta esperienza sensoriale: pro certis autem habemus primum, quae sensibus percipiuntur, ut quae videmus, audimus, qualia sunt signa, deinde ea ad quae communi opinione consensum est).

3 Si veda il ricco florilegio di testimonianze prodotto da H. Bardon, Le silence, moyen d’expression, in Revue des Études Latines 21-22 (1943-44), 102-120. Sulla virtuale voluntas loquendi del tacens risultano particolarmente illuminanti le parole di Jules Marouzeau, riportate da Bardon nella prima pagina di quell’articolo e dotate quasi di valore programmatico: «nous savons nous faire comprendre en ne disant rien. Que faut-il pour cela? Que, une question étant posée, une situation donnée, qui suppose de notre part une réaction et la fait attendre, nous nous abstenions précisément de cette réaction: nous conduisons ainsi l’auditeur à interpréter un silence, qui le surprend, et notre but est atteint: c’est comme si nous avions parlé. C’est mieux parfois que si nous avions parlé».

4 ARDUINO MAIURI

Una tassonomia esaustiva, per la verità, esigerebbe una ricognizione ben più ampia di quella che è dato realizzare e produrre in questa sede, per cui mi limiterò a riferire una casistica puramente orientativa, traendola dagli ambiti attigui della politica, del diritto e della religione, senza neppure trascurare, ove suggerito dalle pieghe del discorso, la stimolante opportunità del confronto con il complementare campo semantico della parola4.

Una partizione generale del lessico latino del silenzio permette subito di isolare due coppie parallele, sileo-silentium e taceo-taciturnitas5. Anche in greco si ha un analogo binomio6 in sigavw-sighv e siwpavw-siwphv7. Alcuni

4 Nettamente più ricco e articolato, proprio in virtù della sua specifica valenza

affermativa. Si noti, en passant, che il sostantivo italiano, in accordo con la prassi evolutiva delle lingue romanze, non ripete il classico verbum (relegato alle formazioni aggettivali, come ‘verbale’ o ‘verboso’), ma come il francese parole, lo spagnolo palabra o il portoghese palavra deriva dall’evoluzione del termine della Umgangssprache parabola, rimasto circoscritto, in quanto tale, al senso religioso di insegnamento morale. In latino la parola può essere indicata anche con i participi sostantivati dictum e scriptum, omologhi dei greci toV legovmenon e toV grafovmenon, il primo riservato alla comunicazione orale (sovente contrapposto a factum, che indica l’azione rappresentata dalle parole, cioè la res; l’opposizione è ampiamente attestata anche al plurale: e. g. Cic., Lael. 10, Tac., ann. I, 72, 2), il secondo al segno grafico. A differenza del greco, poi, in cui lovgoìç indica sia le singole parole che il loro insieme, cioè il discorso, in latino questo si dice sermo (preferibilmente se scritto) o oratio (se orale, collegato, appunto, con la bocca, os, organo principale della fonazione): l’arte della parola declamata, di conseguenza, è l’oratoria, nel cui lessico tecnico trovano accoglimento numerosi esponenti dell’altra grande famiglia etimologica relativa al parlare, quella legata al radicale *loq- di loquor: eloquium, elocutio, eloquentia, eloquens (tutti caratterizzati dal prefisso perfettivizzante e-, indice della buona qualità performativa dell’azione). Al radicale *fa- proprio anche del greco fhmiv si raccordano, invece, il verbo for, il sostantivo fabula, gli aggettivi (originariamente gerundivi) nefandus e infandus, ma anche, significativamente, la fondamentale coppia antagonista della religiosità arcaica fas e nefas, nella convinzione che ciò che sia lecito sia anche esprimibile, mentre ciò che non lo è risulta, appunto, ‘ineffabile’. Partecipa dello stesso etimo il sostantivo fama, vox media che in italiano mantiene solo il senso edificante, mentre in latino equivale a rumor, ‘diceria’: in pratica, la vox populi. Infine nuncupo (letteralmente ‘prendo nome’, formazione arcaica da nomen e capio) è termine tecnico dell’ambito sacrale per indicare la presa di auspicia e la formulazione di vota tramite un solenne augurio, mentre nel diritto trova il suo campo di applicazione elettivo nel lessico dell’istituzione di erede.

5 Cf. A. Pagliaro, Il segno vivente, Napoli 1952, 295 ss. 6 In greco si designa il silenzio anche con il termine hJsuciva, che però riveste un

senso più propriamente figurato, definendo uno stato di benessere e pace interiore. Di qui il suo impiego elettivo nel lessico della spiritualità, tanto che con il

LA POLISEMIA DEL SILENZIO NEL MONDO LATINO 5

studiosi vi hanno scorto il bipolarismo tra una nozione statica, propria di taceo e dei suoi corradicali, e una dinamica, tipica della famiglia di sileo8. D’altra parte, però, spesso la gamma di taceo si caratterizza per un senso più sbiadito e indeterminato, mentre quella di sileo si carica di una valenza deteriore, definendo la mancanza di parola come un fattore pregiudizievole e penalizzante. Si prenda l’aggettivo silens: a partire dalla sua originaria funzione participiale, esso si è presto ammantato di un senso lugubre, passando a designare per traslato i defunti, come nel sesto libro dell’Eneide9; Stazio nella Tebaide lo riferisce all’Avernus10, e nelle Silvae a Pluton11. Il medesimo rapporto con gli Inferi è postulato da Ovidio, che presenta Aeacus impegnato a ius dicere tra i silentes12, ossia le ombre dei morti, silenziose per definizione13. Richiama, invece, le tenebre notturne la suggestiva sinestesia attivata con la luna, in quanto allusiva all’opacità tipica del novilunium14.

sostantivo esicasmo (hJsucasmovç) si intendono sia lo stato interiore che apre alla contemplazione dell’invisibile, sia il movimento ascetico elaborato dottrinalmente fin dai grandi Padri cappadoci e tuttora abbracciato da non pochi monaci dell’Oriente cristiano (inquadramento in E. Montanari, La fatica del cuore. Saggio sull’ascesi esicasta, Milano 2003).

7 Segnalo di scorcio la suggestiva analogia con l’evidenza onomatopeica suggerita da Paul. Fest., 465 L., s.v. silere (tacere significat, ficto verbo a S littera, quae initium et nota silentii est).

8 Così, per esempio, M.S. Goretti, Il problema giuridico del silenzio, Milano 1982, 60. Sulla varietà delle accezioni del verbo taceo e dei suoi corradicali, con particolare riferimento ai contesti di ordine giuridico, si veda W. Muehl, Tacere, tacitus und taciturnitas im Bereich des Vocabularium Iurisprudentiae Romanae und im Codex Justinianus, Diss. Erlangen 1962. La specifica problematica del segreto è stata studiata, invece, da R. Orestano, Sulla problematica del segreto nel mondo romano, in Il segreto nella realtà giuridica italiana, Atti del Convegno nazionale (Roma 26-28 ottobre 1981), a cura di P. Auteri, Padova 1983, 96-144. Lo studioso indica proprio in tacita e silenda due importanti variazioni del participio sostantivato secreta, a sua volta destinato ad affermarsi negli esiti romanzi.

9 Verg., Aen. VI, 264 (umbrae silentes). 10 Stat., Theb. XII, 645 (silentis Averni). 11 Id., silv. III, 28 s. (silentis/… domini). 12 Ov., met. XIII, 25 s. (iura silentibus…/ reddit). 13 Sen., Med. 740 (vulgus silentum). 14 Cato, agr. 40, 1 (luna silenti); Colum., II, 10, 12 (silente luna, in ablativo

assoluto, quindi con silens in funzione verbale). Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia fornisce una glossa “illuminante”: quem diem alii interlunii, alii silentis lunae appellant (XVI, 190). A parte simili casi, in cui l’espressione pertiene legittimamente al lessico tecnico proprio dell’agricoltura, l’immagine della luna silenziosa si presta anche a fecondi sviluppi poetici, stante la sua vivida forza evocatrice. Cito su tutti il caso di Verg., Aen. II, 255 (tacitae per amica silentia lunae),

6 ARDUINO MAIURI

Il sostantivo silentium, a sua volta, può indicare un’omissione, in congiunzione con il verbo praetereo, come in Cicerone15, o transmitto, in Tacito16. Nei testi giuridici si è specializzato in questo senso con riferimento all’esclusione dall’asse ereditario, come testimoniano Gaio e Claudio Trifonino (in Ulpiano invece compare in congiunzione con la variante sinonimica exheredo)17. Altre volte indica il desiderium causato in cui l’aggettivo tacitus viene rinforzato dall’originale iunctura ‘amica silentia’, che rende straordinariamente l’idea della complicità prestata dalla natura alla proditoria incursione degli Achei. Per un’analisi dettagliata del passo rinvio alla ricca trattazione di A. N. Nazzaro, Lo sbarco notturno dei Greci (Aen. 2, 250-67) e l’ambigua immagine della tacita luna, in Prime Giornate Virgiliane, S. Giorgio del Sannio 2008, 72-108 (max. 82 ss.).

15 Cic., leg. I, 63 (silentio praeterire). 16 Eam sententiam (il riferimento è alla magnanima proposta di Elvidio Prisco di

restaurare l’area del Capitolium a spese pubbliche) modestissimus quisque silentio, deinde oblivio transmisit: fuere qui et meminissent (Tac., hist. IV, 9, 2). Sugli scontri che danneggiarono lo spazio sacro dell’arx Capitolina, cf. A. Barzanò, La distruzione del Campidoglio nell’anno 69 d.C., in I santuari e la guerra nel mondo classico, a cura di M. Sordi, Milano 1984, 107-120, da integrare con G. Zecchini, La profezia dei druidi sull’incendio del Campidoglio nel 69 d.C., ibid., 121-131. Elvidio, allora pretore, ebbe un ruolo di primo piano nella vicenda, presiedendo alla lustratio dell’area che avrebbe ospitato il nuovo tempio di Iuppiter Capitolinus (Tac., hist. IV, 53, 3; Suet., Vesp. 15) e invocando a viva voce la superiorità della decisione del senato rispetto a quella imperiale in merito alla delicata questione (analisi dettagliata della vicenda in M. Sordi, L’opposizione nel mondo antico, Milano 2000, 220 s.). Tacito dispensa continue critiche contro i tentativi umani di operare “congiure del silenzio” (si vedano i casi giudiziari ricordati in ann. XIV, 48 ss.): il suo pronunciamento più celebre resta comunque quello sull’episodio di Cremuzio Cordo, i cui libri furono dati alle fiamme, tranne poche copie nascoste dalla figlia Marcia (Suet., Cal. 16, 1; Sen., dial. 6, 22, 6) e poi rimesse in circolazione in seguito. Secondo lo storico, infatti, i governi dispotici non possono occultare ai posteri le testimonianze dei loro oppositori distruggendone l’opera, poiché in questo modo non fanno che amplificarne fama ed autorevolezza (ann. IV, 35, 5: quo magis socordiam eorum inridere libet, qui praesenti potentia credunt exstingui posse etiam sequentis aevi memoriam. Nam contra punitis ingeniis gliscit auctoritas, neque aliud externi reges aut qui eadem saevitia usi sunt nisi dedecus sibi atque illis gloriam peperere). Paradossalmente, commenta Tacito con una punta di sarcasmo, nelle vicende umane può darsi anche l’esatto contrario, nel senso che quando c’è una proibizione, essa viene scientemente disattesa, mentre quando c’è tolleranza mancano anche gli stimoli esterni e cala il silenzio, come accadde per i probrosi libri di Fabrizio Veientone: Nerone ordinò di bruciarli, ma furono ricercati e letti con avidità solo finché fu rischioso farlo, mentre in seguito tale moda sarebbe inesorabilmente tramontata (ann. XIV, 50, 2: mox licentia habendi oblivionem attulit).

17 Dal manuale di Gaio: qui filium in potestate habet, curare debet, ut eum vel heredem instituat vel nominatim exheredet; alioquin si eum silentio praeterierit, inutiliter testabitur

LA POLISEMIA DEL SILENZIO NEL MONDO LATINO 7

dall’assenza di notizie: in Livio per questo è detto maestum18. Nel Brutus la struggente espressione silentium de re publica viene usata da Attico nell’intento di non esacerbare l’afflizione di Cicerone19. Coerentemente, il termine può denotare oscurità, anche in endiadi con oblivio20. Plinio il Giovane, parlando di Pergamo al suo amico Tacito, gli confida che ut paucos in lucem famamque provexit, ita multos e tenebris et silentio protulit21: oppone così, con felice antitesi, al radioso nesso in lucem famamque, in cui il moto in ingresso denota speranza, la coppia antagonista e tenebris et silentio. Da una parte sta la fama, che brilla di luce diffusa; dall’altra il silenzio, che è buio, tenebre, oscurità.

La fase successiva all’oscurità è quella del disprezzo. Nell’incipit del De Catilinae coniuratione Sallustio ci dona un’immagine tanto bella quanto famosa (omnis homines, qui sese student praestare ceteris animalibus, summa ope niti decet ne vitam silentio transeant, veluti pecora, quae natura prona atque ventri oboedientia finxit)22, che il Vico, e non solo lui23, ebbe ben presente. La mancanza di parola è un tratto bestiale, indegno degli esseri umani, il cui abbrutimento è marcato proprio da una deliberata volontà di tacere, che in definitiva si traduce in abominio e sottomissione. Strettamente collegata con questo punto è l’espressione del silenzio come passività, specie se vi è sottesa la mancata partecipazione alla vita politica: campeggia in tal senso

(II, 123); ad liberos, qui ab hereditate parentis se abstinuerunt, nihilo minus tamen bona Latinorum pertinent; scilicet quia exheredati nullo modo dici possunt, non magis quam qui testamento silentio praeteriti sunt (III, 67). Claudio Trifonino, Dig., XXIX, 1, 41, 3 (= Tryph., XVIII disputationum): si miles exheredaverit filium vel sciens eum filium suum esse silentio praeterierit, an legatum a substituto eius dare possit, quaesitum est. Ulpiano, Dig., XXXVIII, 2, 12 pr. (= Ulp., XLIV ad edictum): si patronus testamento iure militari facto filium silentio exheredaverit, debebit nocere ei exheredatio: verum est enim hunc exheredatum esse.

18 Liv., XXV, 35, 3. 19 Tum Atticus: “Eo – inquit – ad te animo venimus, ut de re publica esset silentium et

aliquid audiremus potius ex te, quam te adficeremus ulla molestia” (Cic., Brut. 11). 20 Cic., de orat. II, 7 (ab oblivione hominum atque a silentio). Notevole anche il loro

concorso nella celebre trasposizione liviana del discorso di Coriolano: auferat omnia inrita oblivio, si potest: si non, utcumque silentium tegat (XXVIII, 29, 4). Qui, infatti, si coglie la netta distinzione semantica dei due termini, l’oblivio integrando una condizione perentoria, lo stadio definitivo della cancellazione del ricordo, il silentium invece l’omissione di qualcosa che non necessariamente sia stato abolito, ma magari soltanto eluso.

21 Plin., ep. IX, 14. 22 Sall., Cat. 1, 1. 23 Già Seneca, per esempio, la tenne in somma considerazione: hos itaque, ut ait

Sallustius, “ventri oboedientes” animalium loco numeremus, non hominum, quosdam vero ne animalium quidem, sed mortuorum (ep. 60, 4).

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il famoso passo dell’Agricola in cui Tacito, descrivendo il dispetto provato da Domiziano per i ripetuti successi militari dell’illustre suocero, commenta amaramente che nell’ottica malata del principe frustra studia fori et civilium artium decus in silentium acta, si militarem gloriam alius occuparet24. Qui il silenzio, ovviamente, è coattivo, non dipende dalla negligenza dei cives, ma dalla dura sterzata impressa dal tiranno in senso autocratico25. Del resto, la connessione tra silenzio e mancato svolgimento delle attività pubbliche, di per sé intuibile, è ampiamente attestata anche durante la repubblica. Nelle Verrinae, ad esempio, compare la lista dei principali atti mancati che tradiscono un preoccupante ristagno della vita pubblica: abesse a foro magistratum, non ius dici, non iudicia fieri […] in foro silentium esse summum causarum atque iuris26. Sempre in ambito politico, tuttavia, la scelta del silenzio poteva darsi anche a parte agentis: non solo, quindi, come strumento di coercizione e persecuzione da parte del potere centrale, ma anche in senso inverso, come forma virtuosa di espressione del dissenso. Si potrebbero citare innumerevoli esempi di una simile condotta: qui mi limito a ricordare la vicenda emblematica del patavino Trasea Peto, che chiude il testo superstite degli Annales di Tacito27. Vir

24 Tac., Agr. 39, 3. Si tratta, com’è noto, di un cruccio centrale in Tacito,

perfettamente espresso da Curiazio Materno nel Dialogus de oratoribus (39, 2): quo modo nobilis equos cursus et spatia probant, sic est aliquid oratorum campus, per quem nisi liberi et soluti ferantur, debilitatur ac frangitur eloquentia. Gli oratori sono accostati ai cavalli di razza per il loro comune bisogno di spazi liberi.

25 Tacito dové patire molto la tirannide domizianea, come mostra il suo urlo di liberazione all’inizio dell’Agricola (3, 1-2): nunc demum redit animus […] Quid, si per quindecim annos, grande mortalis aevi spatium, multi fortuitis casibus, promptissimus quisque saevitia principis interciderunt? L’avverbio demum rivela qui la sua insofferenza per l’obbligo del silenzio imposto da Domiziano; analisi dei casi coevi di crimen maiestatis in R.S. Rogers, A group of Domitianic Treason-Trials, in Classical Philology 55 (1960), 19-23. Nel secolo scorso, tuttavia, si è tentata una complessiva riabilitazione della figura del princeps: cf. B. Walker, The Annals of Tacitus, Manchester 1952, 167 ss.; H.W. Pleket, Domitian, the Senate and the Provinces, in Mnemosyne 14 (1961), 296-315; K.H. Waters, The Character of Domitian, in Phoenix 18/1 (1964), 49-77. Alcuni studiosi, come H. Nesselhauf, Tacitus and Domitian, in Hermes 80 (1952), 222-245, e A. Briessman, Tacitus und das flavische Geschichtsbild, Wiesbaden 1955, sostengono che in larga parte il giudizio tacitiano risenta del suo forte coinvolgimento personale nella vicenda di Agricola.

26 Cic., Verr. II, 5, 31 (si noti il rilievo dato al nesso dall’allitterazione). Cf. anche Id., Pis. 32 (silentium perpetuum iudiciorum ac fori), in cui l’ulteriore riferimento al foro ne attesta l’ingente significato programmatico di fulcro della libertas repubblicana.

27 Tac., ann. XVI, 21 ss. Fino alla n. 32 le prossime citazioni sintetiche si intendono tutte tratte dal testo degli Annales.

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consularis attivo e intraprendente nelle dinamiche politiche coeve28, in un primo momento non dové osteggiare apertamente Nerone, aderendo forse alla linea collaborazionistica del gruppo di Seneca29. Con la svolta in deterius della politica autarchica del principe evidentemente il suo animo mutò, se il suo accusatore in senato gli contesta di aver disatteso sia i suoi doveri religiosi (religiones) che quelli civici (leges)30: nel primo caso, per essersi astenuto dal solenne giuramento di inizio anno e non aver accettato di riconoscere la divinità di Poppea31; nel secondo, per aver disertato tutte le riunioni dei patres degli ultimi tre anni32. Trasea, tuttavia, pur manifestando la sua opposizione da stoico con una dissociazione aperta e clamorosa dalla linea ufficiale di governo, non intese contrapporle una reale proposta alternativa, ma si limitò a una mera scelta di disimpegno, una tattica astensionistica fine a sé stessa: per questo Tacito, che pure ne ammira la magnitudo animi, si mostra scettico sulla concreta attuazione del suo dissenso33.

28 Così nel 66, per esempio, a giudizio dello stesso Tacito la sua vibrante arringa

in senato avrebbe propiziato la condanna di due inlustriores, P. Anteio e Ostorio Scapula, giudicati rei di oscure consultazioni astrologiche: libertas Thraseae servitium aliorum rupit, et postquam discessionem consul permiserat, pedibus in sententiam eius iere, paucis exceptis (XIV, 49, 1).

29 Cf. M.A. Levi, Nerone e I suoi tempi, Milano-Varese 1949, 147 ss.; B.H. Warmington, Nero. Reality and Legend, London 1969, tr. it. Nerone. Realtà e leggenda, Roma-Bari 1973, 34 ss.; E. Cizek, L’époque de Néron et ses controverses idéologiques, Leiden 1972, 94 ss.; D. Shotter, Nero, London-New York 20052, 26 ss.

30 Si veda l’icastico spernit religiones, abrogat leges (XVI, 22, 3). A sostenere l’accusa in senato è Cossuziano Capitone, famigerato genero di Tigellino, il quale aveva forti motivi di risentimento personale contro Trasea, a causa del quale alcuni anni prima era stato accusato e condannato per repetundae (quod auctoritate eius incidisset, ibid., par. 1: cf. XIII, 33, 2).

31 Cum deum honores Poppaeae decernuntur sponte absens, funeri non interfuerat (XVI, 21, 2).

32 Triennio non introisse curiam (XVI, 22, 1). 33 L’opposizione a Nerone si attuò in forme più ostruzionistiche che operative,

organizzandosi in circoli di ispirazione stoica (ampia panoramica in E. Cizek, Néron, Paris 1982, tr. it. La Roma di Nerone, Milano 1986, 198 ss.). Si sofferma in particolare sulla figura di Trasea Peto l’Appendice sul catonismo di Trasea di V. Tandoi, Morituri verba Catonis, II, in Maia 18 (1966), 37-41. L’interesse del senatore patavino per Catone è confermata dal fatto che ne curò la biografia (Plut. Cato min. 25; 37): cf. J. Geiger, Munatius Rufus and Thrasea Paetus on Cato the younger, in Athenaeum 57 (1979), 48-72.

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A parte i casi più o meno letterariamente elaborati di megaloyuciva, va detto, comunque, che la forma di espressione del silenzio più diffusa nella realtà politica del principato fu di natura verticistica.

La manifestazione più eclatante di questa repressione autoritativa fu la damnatio memoriae, espressione alquanto popolare, di cui però non c’è traccia nelle fonti (tutt’al più si trova l’affine memoria damnata)34. Il procedimento è noto: un soggetto indesiderato veniva radiato dalla vita civile del popolo romano attraverso il radicale azzeramento del suo nome, della sua immagine pubblica e della sua attività politica, quindi con un’imposizione del silenzio operante sia a livello fisico che morale35. A onor del vero, tuttavia, la pratica è molto più antica, poiché la si incontra già in Egitto (il caso più clamoroso fu quello della regina Hatshepsuth, che nel XV secolo fece distruggere tutti i ritratti e le iscrizioni del suo consigliere, caduto in disgrazia)36 e in Grecia (Licurgo ricorda il caso del pisistratide Ipparco, che nel 487 si rifiutò di convenire al processo intentatogli dagli Ateniesi, e per questo fu punito in contumacia con la rimozione delle sue statue dall’Acropoli)37. A Roma, tuttavia, la fattispecie fu regolamentata con estrema precisione, comportando fin dalla prima età imperiale delle sanzioni molto severe: al damnatus veniva negato il diritto al funus legitimum38; ai suoi parenti era interdetto lo iustitium, ossia il giusto

34 Inst. Iust., III, I, 5 (memoria damnata); IV, 18, 3 (memoria damnatur); Cod. Iust.,

VII, 2, 2 (memoria damnata); IX, 8, 6, 2 (memoria damnetur); Dig., XXIV, 1, 32, 7 (memoria damnata); XXVIII, 3, 6, 11 (memoria damnata); XXXI, 76, 9 (memoriam damnatam). Cf. F. Vittinghoff, Der Staatsfeind in der römischen Kaiserzeit. Untersuchungen zur damnatio memoriae, Berlin 1936, 66 ss.; T. Pekáry, Das römischen Kaiserbildnis in Staat, Kult und Gesellschaft, Berlin 1985, 185.

35 Cf. E.R. Varner, Mutilation and Trasformation: Damnatio Memoriae and Roman Imperial Portraiture, Leiden 2004, 1: «this process […] is the first widespread example of the negation of artistic monuments for political and ideological reasons and it has inexorably altered the material record of Roman culture». L’autore fa riferimento alla pratica ancora più drastica di decapitare le statue dei principi caduti in disgrazia, per sostituirle con le teste degli attuali regnanti (Hier., In Abacuc 2, 3, 14-16, 984-988: […] si quando tyrannus obtruncatur, imagines quoque eius deponuntur, et statuae, et vultu tantummodo commutato, ablatoque capite, eius qui vicerit, facies superponitur, ut manente corpore, capitibusque praecisis, caput aliud commutetur). Anche se Girolamo scrive tra la fine del IV e l’inizio del V secolo, la sua testimonianza sembra rispecchiare una consuetudine inveterata.

36 Cf. V. Farinella, Memoria damnata: la distruzione delle immagini, del nome e del ricordo, in Civiltà dei Romani. Il potere e l’esercito, a cura di S. Settis, Milano 1992, 183.

37 Lyc., Contra Leocr. 117. 38 I funera legitima si dividevano in ordinari (communia, translaticia), se destinati

alle persone comuni, e pubblici (indictiva), per i personaggi illustri: in questo caso le spese venivano sostenute dallo Stato e l’intera cittadinanza era invitata a

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lutto spettante ai cives39; si impediva per il futuro ai discendenti di assumerne il praenomen40; infine, veniva completamente abolito il suo ricordo tramite l’abolitio nominis, cioè l’erasione del suo nome dalle iscrizioni pubbliche e private, dalle monete e da ogni documento, e l’abolitio effigium, ossia il divieto assoluto ai familiari di tenere suoi ritratti in

partecipare. Invece le esequie dei soldati caduti in battaglia (funera militaria) erano a carico dei loro commilitoni, che a tal fine stanziavano un contributo fisso dal proprio stipendium (Veg., mil. II, 20).

39 Gellio (XX, 1, 43) definisce il termine, palese corradicale di ius, come una iuris […] quasi interstitionem quandam et cessationem, ovvero una sorta di accantonamento dell’assetto giuridico ordinario disposto dal magistrato più alto in carica (o da un tribuno della plebe) in occasione di eventi eccezionali.

40 La prima attestazione del provvedimento risale addirittura all’inizio del IV sec. a.C., in occasione della Manliana seditio, ossia il tentativo di rivolgimento politico messo in atto da Manlio Capitolino nel 385 a.C. Al termine del suo resoconto Livio soggiunge: adiectae mortuo notae sunt: publica una, quod, cum domus eius fuisset ubi nunc aedes atque officina Monetae est, latum ad populum est ne quis patricius in arce aut Capitolio habitaret; gentilicia altera, quod gentis Manliae decreto cautum est ne quis deinde M. Manlius vocaretur (VI, 20, 13-14). Queste due importanti notizie, nonostante le autorevoli riserve espresse da G. De Sanctis, Storia dei Romani, II (La conquista del primato in Italia), Firenze 19602, 185, si possono sostanzialmente giudicare attendibili: così crede, tra gli altri, A. Valvo, La sedizione di Manlio Capitolino in Tito Livio, in Memorie dell’Istituto Lombardo. Accademia di Scienze e Lettere. Scienze morali e storiche 38/1 (1983), 53 s. La statuizione qui in questione ovviamente è la seconda, che interdice espressamente ai membri della gens Manlia di assumere per il futuro il praenomen di Marco. Non sfugge però la sottile precisazione di Livio, secondo cui l’abitazione di Capitolino si trovava proprio nel luogo in cui, ai suoi tempi, sorgevano aedes atque officina Monetae, cioè il tempio di Iuno e l’officina materiale del conio, che per effetto dell’adiacente struttura templare si venne a trovare sotto la diretta protezione della dea (la quale per questo, in virtù di un suggestivo accostamento metonimico, nel corso del tempo sarebbe divenuta l’eponima dei dischetti metallici dotati di valore pecuniario, secondo l’uso tuttora osservato nella lingua italiana). L’appellativo Moneta, ricevuto da Iuno in seguito all’episodio delle oche del Campidoglio (Plut., Camill. 36, 9), ha infatti lo stesso radicale *mon- di moneo, ‘avverto’, in quanto ‘faccio venire in mente’ (al grado medio in men-s, o me-min-i, con successiva apofonia latina; il ridotto invece è visibile in greco: mnhv-mh, mi-mnhv-skw), e quindi rientra a pieno titolo nella sfera della memoria. Si avverte, quindi, come particolarmente stridente il contrasto con la perentoria cancellazione del ricordo comminata a Capitolino (devo la suggestione a G. Crifò, Esempi di esclusione e rifiuto in Roma antica, in Tracce dei vinti, a cura di S. Bertelli e P. Clemente, Firenze 1994, 118 ss., 123). Sull’episodio di Manlio cf. anche T.P. Wiseman, Topography and Rhetoric: the Trial of Manlius, in Historia 28 (1979), 32-50 (= Roman Studies: Literary and Historical, Liverpool 1987, 225-243); M.K. Jaeger, Custodia Fidelis Memoriae: Livy’s Story of Manlius Capitolinus, in Latomus 52 (1993), 350-363; Id., Livy’s written Rome, Ann Arbor 1997, 57-93.

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casa. Si aggiunga, tra l’altro, che il provvedimento suona ancora più esiziale qualora si consideri la speciale simbologia sacrale legata allo ius imaginum nel culto domestico41.

Paradossalmente, questa coercitio si prestava ottimamente alla strumentalizzazione politica anche in direzione opposta, ovvero come attestazione di magnanimità da parte del vincitore, che grazie ad essa poteva dare una decisiva dimostrazione della sua capacità di parcere subiectis: sempre Tacito ci informa che Augusto, una volta stornato definitivamente il pericolo di Antonio, pensò bene di reintegrarne il nome nelle liste dei Fasti consulares, per offrire al popolo un’immagine di clemenza a buon mercato42. Lo stesso Augusto, del resto, abilissimo stratega della propaganda politica, sapeva bene come avvalersi della strategia del silenzio: nelle Res Gestae scrisse tutta la verità e nient’altro che la verità, ma solo quella ufficiale, evitando ad arte tutti i nomi e i fatti che desiderava espiantare dalla memoria collettiva43: per esempio, omise ogni riferimento alla campagna condotta contro Sesto Pompeo, o al più celebre padre Gneo, in modo da realizzare una personalissima damnatio memoriae di quella famiglia tanto ostile alla gens Iulia44.

41 Sullo ius imaginum cf. Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, Leipzig 18873, 442

ss. A partire dall’analisi giuridica, passa ad indagare la specifica valenza storico-religiosa del culto delle imagines funerariae E. Montanari, Phersu e persona, in Studi e materiali di storia delle religioni 63 (1997), 5-22 (= Categorie e forme nella storia delle religioni, Milano 2001, 155-174).

42 Marco Antonio era stato dichiarato due volte hostis rei publicae, nel 44 e nel 32 a.C., e come tale radiato dai fasti consolari; il fatto che in seguito vi sia stato riammesso si ricava indirettamente da Tac., ann. III, 18.

43 La bibliografia in materia è considerevole, specie in area tedesca: a parte la nota monografia di P. Zanker, Augustus und die Macht der Bilder, München 1987, tr. it. Augusto e il potere delle immagini, Torino 1989, che smaschera impietosamente i meccanismi propagandistici della politica augustea, si segnalano H. Braunert, Zum Eingangssatz der res gestae Divi Augusti, in Chiron 4 (1974), 343-358; A. Heuss, Zeitgeschichte als Ideologie. Bemerkungen zur Komposition und Gedankenführung der Res Gestae divi Augusti, in Monumentum Chiloniense. Studien zur augusteischen Zeit, a cura di E. Lefèvre, Amsterdam 1975, 55-95; R. Urban, Tacitus und die Res gestae divi Augusti. Die Auseinandersetzung des Historikers mit der offiziellen Darstellung, in Gymnasium 86 (1979), 58-80. H.J. Diesner, Augustus und sein Tatenbericht. Die Res gestae Divi Augusti in der Vorstellungswelt ihrer und unserer Zeit, in Klio 67 (1985), 35-42. E.S. Ramage, The Nature and Purpose of Augustus’ “Res Gestae”, Stuttgart 1987; H. Funke, Was Augustus verschweigt: Interprätationen zu den res gestae, in Grazer Beiträge 24 (2005), 121-133.

44 Cf. M.V. Ronnick, Res Gestae 25. Damnatio memoriae as a strategy of Rhetoric, in Maia 49 (1997), 383 s.

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Un’altra pratica intimamente connessa con il silenzio, sia pure per altre ragioni, è l’amnistia (oblivio, qui intesa stricto sensu). Scorrendo la letteratura tardo-repubblicana, questa fattispecie si presenta, con debito rimando alla prassi greca, all’inizio della Prima Filippica di Cicerone: in quo tempore45, quantum in me fuit, ieci fundamenta pacis Atheniensiumque renovavi vetus exemplum; Graecum etiam verbum usurpavi quo tum in sedandis discordiis usa erat civitas illa, atque omnem memoriam discordiarum oblivione sempiterna delendam censui46. L’allusione è all’applicazione del procedimento ad Atene nel 403 a. C., quando Trasibulo abbatté il famigerato governo dei Trenta47. L’istituto, ancora molto diffuso negli ordinamenti giuridici contemporanei, viene sovente applicato, tuttavia, in forme e modi alquanto discutibili48.

Spostando il ragionamento giuridico su un piano più squisitamente dottrinale, il problema del silenzio è stato ampiamente discusso dai romanisti, soprattutto per verificare se si possa ipotizzare l’esistenza di un suo autonomo statuto. Al riguardo, sono state avanzate fondamentalmente due ipotesi: da una parte, la teoria del silenzio come quaestio facti, incapace di integrare una manifestazione rilevante di volontà49; dall’altra, quella più insidiosa e complessa del silenzio come quaestio iuris, secondo la quale il tacens esprimerebbe ora una volontà “anomala” (Bonfante)50, ora

45 Cioè in occasione dell’adunanza senatoria del 17 marzo del 44 a. C., quando

furono confermati gli acta Caesaris e si rinnovarono le speranze di una pacificazione generale (si vedano, sempre nella Prima Filippica, i par. 31 ss.).

46 Cic. Phil. I, 1. Il Graecum verbum è ajmnhstiva, mantenutosi praticamente intatto nel sostantivo italiano.

47 Xen., Hell. II, 3, 42 ss. 48 Si pensi al caso del Guatemala, dove la Comisión para el Esclarecimiento Histórico,

costituitasi dopo l’accordo di Oslo del 1996, con il suo rapporto finale “Guatemala: Memoria del Silencio”, ha dettato i termini dell’accordo di pace tra la Unidad Revolucionaria Nacional Guatemalteca e il governo locale, ponendo così fine alla lunga guerra civile che ha funestato lo Stato americano per ben trentasei anni. Le direttive emanate dalla Commissione sono state recepite all’interno della Ley de Reconciliación Nacional, che, approvata dal governo nel dicembre del 1996 (Decr. 145-1996), ha disposto l’estinzione delle responsabilità penali per chi abbia perpetrato durante il conflitto armato delitti politici o collegabili direttamente, oggettivamente, intenzionalmente e causalmente ad azioni di guerra. In sostanza, dunque, si è trattato di una spietata sanatoria, nonostante l’apparentemente nobile intento di eliminare «qualsiasi forma di rivalsa e vendetta», promuovendo «una cultura di concordia e rispetto reciproco» (così M. Rossi, Guatemala: il silenzio della memoria, in F. Francioni, M. Gestri, N. Ronzitti, T. Scovazzi, Accesso alla giustizia dell’individuo nel diritto internazionale e dell’Unione Europea, Milano 2008, 479),.

49 Valga per tutti S. Perozzi, Istituzioni di diritto romano, I, Roma 19282, 135. 50 P. Bonfante, Il silenzio nella conclusione dei contratti, in Rivista di Diritto

Commerciale 4 (1906), 222-230. L’Autore dedica alla questione anche un’ampia

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“attenuata” (Donatuti)51, ora ispirata a “necessità sociali” (Ranelletti)52. Il punto di partenza resta un frammento di Paolo dal libro LVI ad edictum, De confessis et indefensis, alla base del noto brocardo medievale qui tacet videtur consentire (in sostanza, il nostro “chi tace acconsente”): qui tacet non utique fatetur: sed tamen verum est eum non negare53. Trovo sagge, in proposito, le parole di Arnaldo Biscardi, il quale invoca l’opportunità di degnare del giusto rispetto quella che a tutta prima sembra porsi come la compiuta elaborazione classica di una vera e propria teoria del silenzio giuridico: «il famoso testo paolino […] definisce l’atteggiamento di chi esprime la propria volontà di non voler assumere posizione né in un senso né un altro, volendo invece innalzare fra sé e gli altri la barriera del suo silenzio: di qui il problema della sua responsabilità, che va ricercata nella stessa volontà di tacere»54. Comunque sia, nell’ordinamento giuridico romano il principio della formalizzazione verbale è centrale, nel senso che la parola ha un rilievo definitorio, di entità caratterizzante e identificativa55. Lo sezione del suo capitolo relativo alla manifestazione di volontà nei contratti: Id., Corso di diritto romano, IV, Le obbligazioni (dalle lezioni), a cura di G. Bonfante e G. Crifò, Milano 1979, 292-308. Sempre con specifico riguardo alla realtà contrattuale, va ricordata anche la testimonianza di E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, ristampa corretta della II edizione a cura di G. Crifò, Napoli 1994, 45 n. 4, sulla narrazione di Her., IV, 196 dei contatti commerciali tra i Cartaginesi e le tribù africane sull’Atlantico, singolarmente affine al resoconto del navigatore veneziano del XV secolo Cà da Mosto. La nota bettiana è stata recentemente ripresa in considerazione da G. Benedetti, Diritto e linguaggio. Variazioni sul «diritto muto», in Studi in onore di Pietro Rescigno, V, Responsabilità civile e tutela dei diritti, Milano 1998, 703.

51 G. Donatuti, Il silenzio come manifestazione di volontà, in Studi in onore di Pietro Bonfante, IV, Milano 1930, 459-484 (= Studi di diritto romano, a cura di R. Reggi, I, Milano 1976, 391-420).

52 O. Ranelletti, Il silenzio nei negozi giuridici, in Rivista Italiana per le scienze giuridiche 13 (1892), 5.

53 Dig., L, 17, 142. Lo spirito del frammento è stato sostanzialmente recepito nel vecchio Codice di procedura civile, all’interno dell’istituto della ficta confessio (art. 218: «quando la parte rifiuti di rispondere, si hanno come ammessi i fatti dedotti»).

54 A. Biscardi, Prefazione a M. S. Goretti, Il problema giuridico del silenzio, cit., XI. Giova in proposito ricordare anche l’opportuna distinzione nei singoli ambiti del diritto operata da Giuliano Crifò: «se nel diritto canonico si è fissato il principio qui tacet consentire videtur, in quello civile e nella prassi degli affari si è avuto invece il contrario, pur se con la limitazione della massima relativa tramite la specificazione ubi loqui potuit ac debuit, si loqui debuisset ac potuisset» (G. Crifò, «Honeste vivere» et alia, in Hommages à Henry Bardon, a cura di M. Renard et P. Laurens, Bruxelles 1985, 80).

55 Ancora fondamentali al riguardo le riflessioni di R. Orestano, I fatti di normazione nell’esperienza romana arcaica, Torino 1967, 189 ss. Cf. anche, sotto una diversa angolazione, A. Pagliaro (supra, n. 5), 283.

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prova, tra l’altro, la stessa logica delle legis actiones arcaiche, procedimenti giudiziari dotati di carattere di immutabilità proprio in forza di legge, anzi – sottolinea Gaio – proprio per la loro stretta connessione con le parole della legge56. Pertanto esse esigevano un assoluto rispetto del formalismo orale e gestuale, pena la nullità degli effetti giuridici desiderati. Inoltre erano tipiche, nel senso che gli atti non rientranti nella loro struttura formale erano giudicati inammissibili e inefficaci57.

56 Actiones, quas in usu veteres habuerunt, legis actiones appellabantur vel ideo, quod legibus proditae erant […] vel ideo, quia ipsarum legum verbis accommodatae erant et ideo immutabiles proinde atque leges observabantur (Gaius, inst. IV, 11). Una parte della dottrina, per la verità, ha contestato il riferimento alla lex, collegando piuttosto questi antichi istituti al mos, cioè la fase primigenia dell’ordinamento romano, anteriore all’attività normativa statale (G. Crifò, Lezioni di storia del diritto romano, Bologna 20105, 166 ss.). Quel che conta, tuttavia, è il fortissimo peso riservato ai verba fin dagli albori della tradizione giuridica romana. Lege agere equivale, in sostanza, ad agere certis verbis, ossia pronunciando parole determinate, requisito indispensabile per integrare la fattispecie. Del resto, non è neppure escluso che ago qui corrisponda, piuttosto che al verbo classico, all’antichissimo aio (“dico”), attestato nella lingua latina solo in rare sopravvivenze e per questo catalogato dalle grammatiche tra i cosiddetti verbi difettivi (cf. A. Traglia, La flessione verbale latina, Torino 1950, 215. 234 ss.). La presenza della gutturale in aio sarebbe infatti testimoniata da composti come adagium o prodigium, ipotesi che, nella chiave di lettura proposta, si rivela decisamente stimolante. Anche l’etimo del sostantivo lex, del resto, potrebbe ricondurre alla radice *leg/log di levgw/lovgoç (in proposito A. Ernout – A. Meillet, Dictionnaire Étimologique de la langue latine, Paris 19594, 350, postula l’esistenza di «quelque ancien sens technique, sans doute religieux et politique»). Il collegamento, tuttavia, non è pacifico, se si considera che il latino lego è passato precocemente a designare la pratica della lettura, in base a una specializzazione semantica poi mantenuta dalle lingue romanze.

57 Una loro importante applicazione, per questo, si ebbe nei negozi immaginari, come l’in iure cessio, modalità di acquisto della proprietà a titolo derivativo applicabile indifferentemente alle res mancipi e nec mancipi. In questo antico istituto, come in effetti nella mancipatio, il silenzio sembra aver avuto un ruolo giuridicamente rilevante (il Betti, Istituzioni di diritto romano, I, Padova 19472, 101 n. 1, in proposito parla di «silenzio stilizzato»; sui modi formali di acquisto derivativo, ibid., 395 ss.). La cessio, infatti, in quanto atto di imaginaria venditio, si basava sulla legis actio sacramento: il trasferente e l’acquirente fingevano di contestare ciascuno per sé la proprietà della cosa determinata, che costituiva il reale oggetto di vendita. L’alienante, giunto il suo turno, evitava di proferire la formula precedentemente pronunciata dalla controparte (prior vindicans), concedendole così il diritto di acquistare la proprietà del bene fittiziamente conteso. Tuttavia il loro eccessivo carattere di astrattezza rese presto le legis actiones inidonee a rappresentare la complessità del reale: per questo il sistema arcaico venne progressivamente in odio e si iniziò a litigare per concepta verba, id est per formulas (Gaius, inst. IV, 30). Cambiava la forma, non la sostanza: ancora una volta

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In diritto romano, tuttavia, la questione del silenzio non si risolve nella mera opposizione tra una valenza affermativa e un’attitudine omissiva. Entrano in gioco, infatti, tonalità molto più sfumate, che consentono di apprezzare una sua specifica polisemia anche se si limita l’indagine al contesto giuridico: «il silenzio come indizio di consenso o di mancanza di argomenti o, viceversa, come allusivo alla disponibilità di più forti argomenti, il silenzio ipocrita o fraudolento, il silenzio del saggio o il silenzio come effetto di intimidazione o di reverenza vengono infatti tutti in questione, quale più quale meno, nel campo del diritto (e si pensi all’occultamento dei vizi della res vendita58 o al tacitus consensus capace di dar vita a istituti giuridici anche contra Duodecim tabulas, come attesta Gell. Noct. Att. XX, 10, 9 o al ‘diritto al silenzio’)59».

Religione e diritto furono due realtà costitutive dell’esperienza romana

arcaica, oltre che accomunate, per certi versi, da singolari affinità. Una delle più evidenti riguardava proprio il formalismo, ovvero l’aderenza al dettato letterale delle formule, sia a livello normativo che cerimoniale. In entrambi i casi venivano eliminate rischiose alternative di senso che intaccassero la correttezza dell’atto, poiché l’obiettivo comune era la ricerca della massima espressività linguistica con la minima possibilità di equivoco. Come ha rilevato G.R. Cardona, «una delle caratteristiche dell’uso sacrale è la minima o nessuna scelta linguistica possibile, il che è permesso dal fatto che non c’è scambio comunicativo e quindi c’è pochissima richiesta di informazione»60. I verba devono essere certa61 perché i sacra avvengano rite62.

la parola restava centrale, ma al rigido formalismo dei certa verba si sostituiva la realtà cangiante dei concepta verba, espressioni formulari adattate di volta in volta alla lite concreta dal pretore giusdicente, in forma di documento scritto da trasmettere all’organo giudicante, mentre le legis actiones erano orali (per l’affermazione del nuovo ius honorarium sul tradizionale ius civile, in ispecie nel sistema giudiziario, resta fondamentale il quadro tracciato da V. Arangio-Ruiz, Storia del diritto romano, Napoli 19506, 151 ss.).

58 Oggetto di primaria considerazione per A. Michel, Philosophie grecque et libertés individuelles dans le De officiis de Cicéron, in La filosofia greca e il diritto romano, I [Accademia Nazionale dei Lincei. Quaderni, 221], Roma 1976, 83 ss., 94. Cf. anche Goretti, 69 ss.

59 G. Crifò, «Honeste vivere», 81. 60 G. R. Cardona, Introduzione all’etnoliguistica, Bologna 1976, 225 s. 61 Per l’evidente corrispondenza terminologica con il mondo del diritto, cf.

supra, alle nn. 56 e 57. 62 Cioè, mantenendo l’impianto etimologico, “a regola d’arte” (cf. Fest., 337 L.:

bene ac recte).

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Le formule vanno pronunciate alla perfezione per essere efficaci63, né basta il sacerdote, perché deve seguire la conferma formale da parte del magistrato64. La centralità della parola65 esige che solo un’invocazione precisa e formalmente impeccabile possa garantire l’accoglimento della richiesta inoltrata alla divinità e il suo intervento attivo e influente nei confronti del fedele66.

63 Significativa in tal s0enso la testimonianza di Livio (XLI, 16), per cui l’omissione da parte del magistrato lanuvino della menzione del popolo romano tra i partecipanti al grande sacrificio in onore di Iuppiter sul monte Albano, in occasione delle Feriae Latinae, rese necessario ripetere la cerimonia. Poteva darsi, peraltro, anche l’esatto contrario: poiché i sacerdoti romani, durante l’assedio di una città, ne invocavano il nume tutelare, assicurandogli che avrebbe goduto di un trattamento non inferiore nel loro pantheon (Plin., nat. XXVIII, 18), e ponendo a loro volta la massima attenzione a non pronunciare il nome della divinità protettrice di Roma, affinché i nemici non lo usassero in maniera impropria, una volta Valerio Sorano inopinatamente si lasciò sfuggire quell’occultum verbum e per questo pagò con la morte (luitque mox poenas: ibid., III, 65).

64 Questo è il senso di espressioni tecniche come carmen praefari (Liv., V, 41, 3; XXXIX, 15, 1) o verba praeire (Id., VIII, 9, 4; IX, 46, 6; X, 28, 14; Plin., nat. XXVIII, 11), nel senso di “suggerire le formule”, in modo da non compromettere la validità del rito; la ricorrenza del preverbio attesta la preminenza riconosciuta dalla civitas a queste importanti figure ufficiali. Sul rapporto tra oralità rituale e tradizione documentaria nei collegi sacerdotali romani si vedano E. Peruzzi, Aspetti culturali del Lazio primitivo, Firenze 1978, 172 ss., e F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, I, Libri e commentarii, Sassari 1983.

65 Confermata, ancora una volta nella preghiera cardinale della cristianità, dall’importante precisazione che il nome di Dio “vada santificato” (aJgiasqhvtw toV o[nomav Sou), il che induce, al di là di ogni interpretazione in senso meramente nominalistico, a conferirgli qualità ontologica.

66 Di qui la necessità, tipica della religione romana arcaica, di nominare correttamente le divinità invocate, ovvero se ciò non fosse possibile, di raggrupparle comunque in una formula dalla portata generale (cf. Macr., sat. III, 9, 10: Dis pater, Vediovis, Manes, sive quo alio nomine fas est nominare). Per l’analisi nominativa di queste divinità all’interno del terribile rituale arcaico della devotio (hostium), rinvio al mio Deductio-deletio. Strategie territoriali di Roma repubblicana: il caso Fregellae, in Studi e Materiali di Storia delle Religioni 75/1 (2009), 111 ss. La puntualità dell’esecuzione formulare, del resto, è un tratto che ricorre costantemente nelle civiltà umane. Nella cultura cristiana si può richiamare il fatto che il paternoster sia stato tramandato nei secoli nel modo esatto in cui è stato insegnato, circostanza che viene esplicitamente additata come elemento distintivo rispetto al fatuo vaniloquium pagano: proseucovmenoi deV mhV battologhvsete w{sper oiJ ejqnikoiv: dokousin gaVr o{ti ejn th/ polulogiva/ aujtwn eijsakousqhvsontai […] Ou{twç ou\n proseuvcesqe uJmeiç ktl. (Mt. 6, 7-9). Il termine battologevw viene reso nella Vulgata con multum loqui: propriamente, infatti, significa ‘chiacchierare a vanvera’. Si aggiunga che la precisione formulare è reputata essenziale per la felicità

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Il silenzio, invece, nell’esperienza religiosa romana è sentito come una “voce non voce”, cioè una sorta di modalità espressiva disponibile in via residuale solo alle ombre dell’aldilà. Come ebbe giustamente a rilevare Hermann Güntert, «nur in Totenreich ist alles still und schweigend, die Toten können nicht sprechen»67. Le ombre, ormai abbandonata l’esistenza terrena, attraversano anzitutto la realtà onirica, cioè un «anti-cosmo»68 che rovescia le regole della consistenza tangibile e in cui domina il silenzio69, unicamente intenzionate a trovare l’auspicata pace eterna (quies)70. Questo stato di cose comporta che il silenzio non sia altro che una rude e amorfa alternativa al linguaggio, questo sì espressione di un’umanità viva e (nelle sue forme più raffinate)71 civilizzata. Da ciò deriva un’altra fondamentale

ultramondana del defunto anche nel libro dei morti egiziano e nel Bar-do T‘os-grol tibetano, per non parlare della rigida normativa che regolamenta la recitazione dei mantra indiani.

67 H. Güntert, Von der Sprache der Götter und Geister. Bedeutungsgeschichtliche Untersuchungen zur Homerischen und Eddischen Göttersprache, Halle 1921, 55 n. 2. Il passo viene citato anche in quella che, a tutt’oggi, mi sembra la migliore trattazione moderna sul tema del silenzio nelle religione classiche, ossia l’ampio contributo di C. Bologna, Il linguaggio del silenzio. L'alterità linguistica nelle religioni del mondo classico, in Studi storico-religiosi 2/2 (1978), 313.

68 Desumo il termine, come particolarmente efficace, da A. Brelich, Il posto dei sogni nella concezione religiosa del mondo presso i Greci, in Il sogno e le civiltà umane, a cura di E. De Martino, Bari 1966, 85.

69 Splendida la descrizione di Ov., met. XI, 592-615 del recesso montano in cui dimora il dio Somnus, ai confini del mondo, quindi in una realtà remota ed estranea ai vivi (prope Cimmerios). La sua spelunca non è penetrabile né dalla luce (quo numquam radiis oriens mediusve cadensve/ Phoebus adire potest) né dai rumori (non vigil ales ibi cristati cantibus oris/ evocat Auroram, nec voce silentia rumpunt/ sollicitive canes canibusve sagacior anser;/ non fera, non pecudes, non moti flamine rami/ humanaeve sonum reddunt convicia linguae;/ muta quies habitat). Non si dimentichi, del resto, che il sogno, condizione sospensiva surreale ma irriducibile, ha un altro importante significato liminare nelle religioni del mondo classico, come tramite ideale per il reingresso del defunto nella realtà umana, il luogo da cui porge ai vivi le sue parole profetiche (si pensi, tra i vari esempi disponibili, al sogno che ha come protagonista Patroklos in Hom., Il. XXIII, 62 ss.).

70 CIL X, 7569: AETERNA QUIES DITISQ[UE] SILENTIA MESTI. Per la singolare coincidenza radicale tra il sostantivo quies, assai diffuso nelle epigrafi funerarie, l’aggettivo tran-qui-llus e il teonimo Qui-rinus (Serv., Aen. I, 292: Mars enim cum saevit Gradivus dicitur, cum tranquillus est Quirinus), rimando alla nota di G. Dumézil, La religion romaine archaïque, Paris 1974, tr. it. La religione romana arcaica, Milano 2007, 236.

71 Ad eccezione, quindi, della “non lingua” dei barbari, che si esprimono in maniera imperfetta e in sostanza equiparabile agli squittii delle ombre o ai versi degli animali (C. Bologna, 306 s., 312).

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implicazione, cioè che, ogni qual volta ci si trovi in presenza di una condizione potenzialmente nociva per la parola, e di conseguenza per la stessa civiltà72, scatti una prescrizione difensiva che ne decreta la sospensione, provvedimento reso necessario a fini di autotutela73. Un esempio di questa disciplina del silenzio è il divieto di proferire parola in prossimità dei siti sepolcrali, uso ampiamente attestato anche in Grecia74. Il

72 In questo caso, infatti, entra in gioco la naturalità informe e inespressiva, bandita e temuta come una grave minaccia per l’orizzonte culturale della civitas (E. Jobbe-Duval, Les morts malfaisants, Paris 1924, passim).

73 Per questo fin dall’epoca arcaica esiste addirittura una divinità, Angerona, deputata a presiedere al silenzio (praesul silentii: Sol., 1, 6). L’etimo del suo nome la collega alla mancanza di respiro, l’angor, che paralizza la lingua e angoscia le sue vittime. Questa potente dea, secondo Macrobio, digito ad os admoto silentium denuntiat (sat. III, 9, 4). L’invito a sigillare le labbra è inteso come un rimedio apotropaico contro gli effetti infausti delle preoccupazioni (angores ac sollicitudines animorum, ibid., I, 10, 7). Per la verità il caso di Angerona, oltre a non essere di semplice lettura (cf. G. Vaccaj, Le feste di Roma antica, Milano 19383, da me consultato nella rist. del facsim., Roma 1986, 202 ss.), non è l’unico nel complesso pantheon romano: gli si può infatti utilmente accostare quello non meno evidente, fin dal livello onomastico, di Tacita, che Ovidio definisce Muta (fast. II, 583) e identifica con la naiade Lara (Lala, ibid., 599 ss.), così detta dalla balbuzie, non a caso connotante un vitium oris: cf. E. Tabeling, Mater Larum. Zum Wesen der Larenreligion, Frankfurt am Main 1932, rist. anast. New York 1975. Secondo E. Cantarella, Passato prossimo: donne romane da Tacita a Sulpicia, Milano 1996, Tacita rappresenterebbe il simbolo della subalternità della donna romana, ma l’interpretazione non è esente da dubbi. Infine, all’interno del sincretismo di origine egizia spicca il caso di Harpocrates: se in Cat., 74, 4 “rendere qualcuno un Arpocrate” equivale di fatto a ridurlo al silenzio, in Ov., met. IX, 691 il dio appare in sogno a Teletusa con Isis, Anubis e Apis, e con il gesto universale del dito alle labbra invita la puerpera a tenere un silenzioso contegno di fronte al passaggio del corteo divino (quique premit vocem digitoque silentia suadet).

74 Si vedano al riguardo i testi classici di E. Rohde, Psyche: Seelencult und Unsterblichkeitsglaube der Griechen, tr. it. Psiche: culto delle anime e fede nell'immortalità presso i Greci, Bari 1970, I, 226 n. 1; F. Cumont, After Life in Roman Paganism, New Haven 1923; Id., Lux Perpetua, Paris 1949 (recentemente riedito da A. Motte e B. Rochette, Torino-Roma 2009), passim. Sostanzialmente distinta da questa interdizione, che si può valutare benefica, è invece la pratica magica della ligatio linguarum (Ov., fast. II, 581: hostiles linguas inimicaque vinximus ora), assai diffusa nelle tabellae defixionum: spesso è la lamina stessa a scagliare la maledizione con il tecnicismo ommutesco (numerosi i casi segnalati nel repertorio di A. Audollent, Defixionum tabellae quotquot innotuerunt tam in Graecis Orientis quam in totius Occidentis partibus praeter Atticas in Corpore inscriptionum Atticarum editas, Paris 1904, rist. anast. Frankfurt am Main 1967, 292 ss.). Sulle singole implicazioni magiche dei sistemi di legatura, cf. R. Astori, Formule magiche. Invocazioni, giuramenti, litanie, legature, gesti rituali, filtri, incantesimi, lapidari dall’antichità al medioevo, Milano 2000, 34.

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punto è che sia nella realtà romana che in quella greca si avverte la cesura tra il mondo del linguaggio-esistenza terrena-normalità e quello del silenzio-dimensione ultraterrena-estraneità75. Le parole divine fanno parte di quest’ultima combinazione76: per questo sfuggono all’immediata comprensione e necessitano di specialisti per essere opportunamente decodificate e rese pubbliche. È il rito che realizza questa difficile transizione, accorciando il divario tra mondo umano e divino, tempo mitico e attualità culturale, presente storico e passato irreversibile77. Inoltre, puntando sulla contiguità semantica tra il greco siwphv e il latino pax (nel senso del silenzio derivante dalla concordia civium), entra qui in questione un’altra implicazione fondamentale del rapporto tra ciò che viene detto e si può dire (fas) e ciò che non si dice perché non si può (nefas): si tratta del fondamentale concetto giuridico-sacrale di pax deorum78, ossia la benigna approvazione della divinità, che rende necessario che gli operatori del sacro conoscano ed evitino con cura tutto ciò che possa incrinare questo stato privilegiato: in primis, ed è questo il punto, le parole da non proferire e gli atti da non commettere79.

75 Cf. A. Brelich, Aspetti della morte nelle iscrizioni sepolcrali dell’Impero romano, Budapest 1937.

76 Cf. R. Lazzeroni, Lingua degli Dei e lingua degli uomini, in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, II s., 26 (1957), 1-25.

77 Mi permetto di mutuare il termine, così icastico ed efficace, dal titolo di un bel lavoro di G. Piccaluga, Irruzione di un passato irreversibile nella realtà cultuale romana, in Studi storico-religiosi 1/1 (1977), 47-62.

78 Per la cui definizione si vedano i contributi di H. Fuchs, Augustinus und der antike Friedengedanke. Untersuchungen zum neunzehnten Buch der Civitas Dei, Berlin 1926, 186 ss.; P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 19 (1953), 49 ss. (= Scritti di diritto romano, I, Padova 1985, 226 ss.); J. Bayet, La religion romaine. Histoire politique et psychologique, tr. it. La religione romana. Storia politica e psicologica, Torino 1959, 59 ss.; M. Sordi, Pax deorum e libertà religiosa nella storia di Roma, in La pace nel mondo antico, Milano 1985, 146 ss.; G. Crifò, L’esclusione dalla città. Altri studi sull’exilium romano, Perugia 1985, 31ss.; R. Fiori, Homo sacer. Dinamica politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa, Napoli 1996, 167 ss.; E. Montanari, Il concetto originario di ‘pax’ e la ‘pax deorum’, in Concezioni della pace (Seminario 21 aprile 1988), Da Roma alla Terza Roma, Studi, VI, a cura di P. Catalano e P. Siniscalco, Roma 2006, 39 ss.

79 «In queste condizioni tutta la vita privata e quella pubblica erano dominate dall’assillo ansioso e ininterrotto di operare in accordo con queste “forze” o “deità”, di procurarsi il loro ausilio, di propiziarsi il loro assenso, di mettersi al riparo dalle loro influenze ostili, di non fare nulla che potesse suscitare il loro sfavore o una loro reazione. La paura di non soddisfare gli dèi o, peggio, che qualche atto o comportamento potesse rompere la pax deorum da cui dipendevano il benessere dell’individuo, della famiglia, della comunità, rendeva il romano continuamente attento a cercare in qualunque aspetto della natura i segni della

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Un rigido silenzio cerimoniale verrà costantemente osservato nei contesti più solenni anche nelle fasi più tarde della latinità, per poi trasfondersi spontaneamente nella civiltà bizantina80. Un contributo decisivo per la corretta definizione del senso positivo del silenzio in ambito rituale proviene dalla sfera divinatoria, un aspetto cruciale della vita pubblica e privata del civis, tanto che Cicerone riferisce testualmente che a Roma non si prendevano decisioni importanti nisi auspicato81. In realtà non si sa molto delle concrete modalità di consultazione degli auspici, sia in pubblico che in privato; tuttavia, per la realtà domestica, si dispone di un’importante testimonianza di Catone citata da Festo, che consente di estrapolare persino un principio generale: quod ego non sensi, nullum vitium mihi facit82. Catone sta parlando del pater familias. Nell’atrio, accanto al focolare, questo supremo sacerdote del culto domestico celebra i sacra delle divinità tutelari della casa, il Lar domesticus, i Penates, il Genius del Dominus e i Manes, cui imbandisce primizie fragranti, ornate di fiori profumati83.

L’aspetto apotropaico consiste nello stornare i fattori di contaminazione nociva, perché ogni rumore molesto può alterare la sacralità del rito84. Il

volontà divina» (R. Orestano, I fatti di normazione nell’esperienza romana arcaica, Torino 1967, 114).

80 Si pensi alla figura del silentiarius, l’usciere di corte che impediva che le udienze e i ricevimenti imperiali fossero disturbati dalle parole degli astanti: introdotto nella domus Caesarum fin dal II sec. d.C., già con Teodosio II divenne talmente influente che al termine del suo mandato era accolto in senato. Addirittura, in epoca giustinanea i silentiarii, ormai in numero di trenta, costituivano una schola e erano talmente incardinati nella struttura amministrativa centrale da accompagnare l’imperatore non solo nei concistori, ma anche in guerra (cf. R. Mancini, I guardiani della voce. Lo statuto della parola e del silenzio nell’Occidente medievale e moderno, Roma 2002, 40 s.). Nel sermo servilis, invece, il termine designava lo schiavo incaricato di imporre il silenzio ai suoi conservi (Sen., ep. 47, 3: at infelicibus servis movere labra ne in hoc quidem ut loquantur, licet; virga murmur omne compescitur, et ne fortuita quidem verberibus excepta sunt, tussis, sternumenta, singultus; magno malo ulla voce interpellatum silentium luitur).

81 Nihil fere quondam maioris rei nisi auspicato ne privatim quidem gerebatur, quod etiam nunc nuptiarum auspices declarant, qui re omissa nomen tantum tenent (Cic., div. I, 28).

82 Fest., 268 L. 83 A. De Marchi, Il culto privato di Roma antica, I, La religione nella vita domestica,

Milano 1896, 137 ss.; R. Lefévre, Les Sacra Privata en droit romain, Paris 1928, 11. 84 Esistevano operatrici appositamente destinate alla purificazione

dell’imprevisto, ossia le sacerdotesse incaricate dei purgamenta, variamente definite dalle fonti piatrices, expiatrices o simpulatrices (dal simpulum, il vaso usato per le libagioni di vino: cf. Fest., 232 L.; Paul. Fest., 455 L.).

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principio per cui “ciò che non si sente non corrompe” permette di fissare un punto fermo nella specifica considerazione del silenzio all’interno del rito religioso arcaico: esso, infatti, rivela un significato isolante, benefico, di tutela del sacro. Garantisce rispetto, deferenza, obsequium: anche nel mondo religioso, dunque, questa condizione così ricca di significati si tinge finalmente di una tonalità incontrovertibilmente positiva85.

Al termine di questa provvisoria rassegna, si può comunque avanzare la

conclusione che nel mondo latino la nozione di silenzio si caratterizzasse per una spiccata pluridimensionalità. Entità sconcertante e disarmante, ma allo stesso tempo suggestiva e affascinante, si tratta davvero del mezzo più possente con cui l’anima sa urlare le sue emozioni, dal senso di reverente sgomento di fronte al soprannaturale fino al rimbombo della disapprovazione di fronte al contegno più sconveniente, realtà antitetiche ma compresenti nella definizione del fenomeno; realtà che nei secoli a venire avrebbe saputo captare e rendere con maestria il principe dei poeti, Giacomo Leopardi86.

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85 Cic., div. II, 71: id enim silentium dicimus in auspiciis, quod omni vitio caret. Un altro passo di Festo (474 L.), pur se gravemente mutilo, conferma il senso di queste osservazioni. Qui la glossa è silentio surgere, atto arcano e avvolto dal mistero. Il pater si alza dal letto in piena notte, mentre tutti dormono, badando a non fare il minimo rumore e a non rovesciare alcun oggetto: perché, sottolinea l’autore del De verborum significatu, nella presa degli auspici il silentium equivale all’assenza di tutto ciò che possa viziarli (hoc enim est proprie silentium, omnis vitii in auspiciis vacuitas). Questa importante funzione isolante e protettiva del silenzio rappresenta in un certo senso il pendant acustico delle proprietà difensive possedute a livello visivo dal velo: cf. Plut., quaest. Rom. 10, secondo cui in origine esso contribuiva ad isolare l’officiante dalla realtà circostante, nella quale potevano vagare minacciose forze maligne, o magari anche solo parole inopportune e potenzialmente foriere di distrazione. Gli dei, infatti, esigevano che tutta l’attenzione del sacerdote fosse rivolta all’atto sacrale, per cui nulla d’umano poteva interferire nella cerimonia, interponendosi tra il medium umano e il mondo divino (sul punto cf. ancora Plut., Num. 14; quaest. Rom. 25).

86 Circa lo sgomento per il soprannaturale, valga per tutte la straordinaria coppia allitterante dell’Infinito, «sovrumani/ silenzi» (vv. 5-6), rilevata dall’enjambement ed iterata dall’espressione speculare «profondissima quiete» del v. 6. Per il carattere sanzionatorio, invece, si veda la disperazione di queste parole indirizzate al Giordani nell’epistola del 13 febbraio 1818, in un peraltro breve intervallo della loro prima, fervida corrispondenza epistolare: «perché avete lasciato di scrivermi, o carissimo? […] Ma se anche volete punirmi, punitemi altrimenti che col silenzio, e non vogliate usare con me l’estremo del rigore» (G. Leopardi, Epistolario, a cura di F. Brioschi e P. Landi, I, Torino 1998, 180; il corsivo è mio).