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Storia della società e della famiglia nel medioevo Paolo Pirillo 2014/2015
La costruzione del dominio cittadino sulle campagne
Italia centro-‐settentrionale, secoli XII-‐XIV
Andrea Cenerelli
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Saggio 1 Francesco Panero: Il controllo del popolamento degli uomini nell’Italia settentrionale (secoli XI-‐XIII) In età carolingia e post-‐carolingia una struttura economica territoriale fondamentale era la curtis, questa nei secoli IX e X fu uno strumento formidabile di controllo degli uomini. Ma alla metà del secolo XI l’azienda curtense apparve molto cambiata tanto da non incidere più in modo marcato sul controllo del popolamento. Solo il domocoltile curtense riuscirà ad esercitare una pressione significativa qualora sia incastellato o il villaggio fortificato, spesso coincidente invece con l’abitato del massaricio che in molte regioni italiane è definito come Castrum. È in sostanza il castello inteso come villaggio fortificato, o come fortezza signorile soprattutto nell’Italia occidentale, che nei secoli XI e XII attrae la popolazione, come hanno dimostrato gli studi di Aldo Settia nell’Italia settentrionale. Senza voler generalizzare, l’incastellamento è il risultato dell’azione della nuova signoria rurale che luogo per luogo prende il sopravvento nei confronti dei signori fondiari, che a volte controllano frammenti di antiche curtes, ma non hanno saputo potenziare il ruolo insito potenzialmente in ogni grande proprietà orientata a imporsi come signoria locale in grado di controllare giurisdizionalmente un intero territorio. Nel secolo XI per esercitare la giurisdizione su u territorio locale non era indispensabile possederne la maggior parte delle terre; era invece indispensabile avere il controllo del suolo abitativo in cui si concentravano le famiglie contadine che lavoravano in quel territorio. Quindi i processi di incastellamento, di aggregazione dell’abitato attorno a una fortezza, di fondazione di nuovi insediamenti delimitati da un fossato, fra XI e XIII secolo hanno un tratto comune: sono infatti finalizzati a riordinare le competenze giurisdizionali del dominatus loci o, se si vuole, a controllare il popolamento in un dato territorio. In altri termini, chi si insedia nello spazio delimitato dalla signoria locale è soggetto alla sua giurisdizione per tutto il tempo che abiterà sui sedimi che gli sono stati assegnati e che appartengono ala signoria rurale stessa. Diventa invece di importanza secondaria l’appartenenza delle terre che vengono coltivate da quei residenti. Non è la nozione di territorio di castello che serve a stabilire le competenze giuridiche del dominatus, ma la nozione di “insediamento accentrato”. Il problema principale dei detentori della giurisdizione, allora, è quello di incentivare la permanenza dei residenti nel sito così individuato e opportunamente delimitato, e insieme quello di attrarre in loco popolazione esterna attraverso incentivi di natura fondiaria o fiscale. Le forme più semplici di pattuizione signorile con vecchie e nuove comunità volte a stabilizzare un insediamento e a potenziare la giurisdizione locale, sono quelle di concessioni di terre da disboscare e da mettere a coltura, attraverso patti orali o con un richiamo alla consuetudine del luogo, ma sono anche le meno sicure per il signor, perché possono, in quanto patti di natura economica, persistere anche se il contadino si trasferisce in un altro villaggio soggetto a un signore di banno diverso. L’emigrazione, non rescindendo necessariamente le obbligazioni di natura economica, interrompe il legame giurisdizionale con il signore di banno per tutti coloro che non sono soggetti a legami servili tradizionali. Il modo più sicuro per il signore è quello di concedere sgravi fiscali per chi si insedi nel gruppo di sedimi che gli appartengono (questi possono comprendere un determinato quartiere oppure un intero villaggio). Il fatto che l’immigrato costruiva la propria casa sul sedime signorile, rappresentava di per sé un legame sufficientemente forte per stabilizzare l’insediamento e controllarne gli abitanti. Infatti il contadino in caso di emigrazione, poteva portare con sé solo i materiali che si era procurato al di fuori della proprietà signorile. Ancora più forte è il vincolo che viene a crearsi attraverso la pattuizione con la comunità locale: quest’ultima funge da garante infatti per ciascuna famiglia residente nei confronti del dominus loci. Sono le carte di franchigia che il signore pattuirà con le comunità. Con l’inizio del XII secolo, quantunque non si faccia riferimento a un’organizzazione di tipo comunale nella maggior parte dei villaggi del contado, si moltiplicano le carte di consuetudini scritte o di franchigia concesse da signori laici ed ecclesiastici per favorire la messa a coltura di nuove terre, per attrarre immigrati e creare luoghi di mercato e infine per fondare borghi nuovi comunali e città. Fra il XII e il XIV secolo il controllo del popolamento da parte delle città comunali verrà condotto con gli stessi strumenti e le stesse finalità signorili. I comuni urbani però, oltre a concedere terre da dissodare o bonificare, intervengono nel contado attribuendo atti di cittadinatico1 collettivo alle comunità rurali o istituendo borghi franchi in vecchi e nuovi insediamenti: sono, questi ultimi, due importanti strumenti che legano fiscalmente e militarmente le comunità alle città promotrici delle iniziative e servono a controbilanciare i patti via via stipulati delle città stesse con i signori del contado. Le comunità rurali dunque possono di volta in volta essere pedine in mano a signori e città, ma anche protagoniste nel processo di controllo del popolamento e degli uomini del contado.
1 Cittadinatico: con il giuramento del cittadinatico si costituiva un obbligo reciproco tra i soggetti che si impegnavano nei confronti del comune e il comune stesso: i primi riconoscevano l'autorità del comune, si obbligavano a periodi di residenza, pagavano oneri; il secondo fregiava del prestigio conseguente da tali clientele, riconosceva ai cittadini diritti e privilegi.
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Saggio 2 Paolo Pirillo: Città e nuove comunità nell’Italia centro-‐settentrionale Nella fondazione di centri abitati e nella concentrazione di popolazione in nuove comunità da parte di città e Comuni dell’Italia medievale, in particolare di quella centro settentrionale, possiamo individuare delle linee generali. Il filo rosso cronologico tracciato da Aldo Settia, è rappresentato dalla transizione tra l’incastellamento dei secoli compresi tra il X e il XII ed i due successivi corrispondenti alla grande diffusione di borghi nuovi comunali. Inizialmente e per lungo tempo, la fondazione di centri abitati fu appannaggio dei grandi signori, che in assenza di antagonisti, conobbero positive che affermazioni (ricordiamo alcuni progetti liguri dei Clavesana, Doria, Alberti, degli Aldobrandeschi dei Del Carretto e dei Guidi per la Toscana). Dalla fine del XII secolo l’iniziativa uscì dalle mani dei signori divenendo prerogativa delle città. Per esempio negli anni 80’ del XII secolo, il tentativo da parte degli Alberti di fondare il centro valdelsano di Semiforte venne vanificato da Firenze che nel 1202 rase al suolo il nuovo abitato, disperdendone gli abitanti. Dalla fine del 200’ molte città avrebbero portato a maturazione esperienze ormai bisecolari, finalizzando le nuove fondazioni al progressivo consolidamento dell’intero districtus civitatis, in un processo concomitante con la formazione di un sistema territoriale cittadino e comunale sviluppatosi dal pragmatismo iniziale fino ai primi seni di una strategia territoriale che col tempo andò rivelando le caratteristiche di un progetto globale. Riferendoci all’esperienza fiorentina, vi era la necessità di proteggere e salvaguardare la componente umana del territorio considerata magis utilior, constatazione che costituiva uno dei principi guida della politica territoriale proprio per le caratteristiche che in essa potevano essere riconosciute, quali elementi valorizzanti di un determinato contesto dal punto di vista produttivo, economico, fiscale, militare e sociale, ivi compresa la possibilità di attirare nella sfera cittadina una parte degli strati più alti della società comitatina. Nel secondo incastellamento, quello databile in pineo 200’, la progettazione e la realizzazione di un centro abitato consistente e con caratteristiche urbane, insieme all’organizzazione di un ampia universitas divennero le nuove poste in gioco sulle quali misurare le capacità di controllo su uomini e comunità da parte dei fondatori. Era questo il clima in cui stava prendendo vita quell’accentramento dell’abitato destinato ad accomunare tutte le villenove fondate in età comunale. Città e centri fondati Queste nuove e consistenti comunità nascevano spesso dall’aggregazione di altre di più ridotte dimensioni, come Pordenone e Bientina. In questa fase nacquero anche centri di dimensioni ragguardevoli come Cuneo, Cherasco o la veneta Cittadella, dimostrazioni della volontà di promuovere vere e proprie piccole città con caratteristiche prese ad imitazione dalle grandi, come la divisione in terzieri, quartieri, la moltiplicazione dei luoghi di culto, ecc. Sul piano della distribuzione geografica del fenomeno, i centri di nuova fondazione sembrano, com’è noto, prerogativa di alcune regioni dell’Italia centro settentrionale: Piemonte, Liguria, Veneto, Emilia, Toscana, Umbria. Non tutte le città parteciparono in egual misura a queste iniziative di fondazione di nuovi centri abitati. In linea generale il fenomeno si sarebbe manifestato con maggiore intensità dagli ultimi decenni del XII secolo. A scandire i tempi delle fondazioni, intervennero senza dubbio anche le alterne vicende dell’Impero nella penisola. Antonio Pini ha indicato la pace di Costanza come una tappa fondamentale per l’inizio di una prima ondata di fondazioni nell’area padana, e il discorso non sembra mutare successivamente, a sud degli Appennini dove la scomparsa di Enrico VI e la crisi successiva alla morte di Federico II sembrano aver segnato punti di svolta sul piano della maggior capacità operativa delle città sui territori. Vi erano forti diversità regionali; per esempio nell’area piemontese sud-‐occidentale caratterizzata da una relativa rarefazione dei centri urbani, la possibilità di successo per ristrutturare il popolamento con un centro fondato, si rivelavano molto alte mentre, per limitarsi ad un solo esempio, nella più popolosa area veneta, non ci sarebbe stato un nuovo abitato in grado di sovvertire la forte e preesistente rete dei territori cittadini. La natura “urbana” delle nuove fondazioni non è limitata alle dimensioni degli abitati ma interessa anche le connotazioni politiche delle universitates che vi si aggregavano. Comunità che, nelle fasi di costruzione della propria identità sembrano rivelarsi sensibili alle istanze politiche, istituzionali e sociali sviluppate in contesti definibili come cittadini, dal momento che i modelli mutuati erano o avrebbero dovuto essere quelli della città madre. Questo costituisce uno, ma non il solo, degli elementi che accelerarono lo sviluppo locale di istituzioni comunali in seno a centri fondati ex novo, talvolta destinate addirittura a mutare i rapporti tra una universitas e chi l’aveva fondata. Gli esiti di simili vicende sono compresi in un ampia casistica che va dalla tentata o raggiunta autonomia, all’immediata e continuativa soggezione al fondatore, città o signore che fosse. D’altro canto, figlia di compromessi realizzati proprio con i fondatori in fasi di forte antagonismo, l’organizzazione istituzionale dei centri fondati finiva poi per riflettere la natura, la qualità e l’articolazione della società sviluppatasi al loro interno. Le città progetteranno essenzialmente centri abitati destinati a realizzarsi su grande scala, anche se sul piano della loro caratterizzazione documentaria, le fonti avrebbero alluso ad una situazione intermedia tra un castello ed un centro fornito di una consistente popolazione. Per limitarsi a un esempio di area fiorentina, pare
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avere origine la doppia denominazione di castrum sive Terra quale riferimento ad una nuova fondazione reperibile nella documentazione: si tratta di una sorta di indecisione iniziale che, talvolta, attendeva gli esiti del progetto prima di operare una scelta definitiva in un senso o nell’altro. Nel caso di un successo del suo popolamento l’abitato assumeva la definitiva denominazione di Terra o, nel caso opposto, si limitava a proseguire la propria esistenza documentaria come castrum, perdendo spesso qualsiasi riferimento al suo particolare status talvolta contenuto nella denominazione attribuitagli. Questa constatazione pone oggi diversi problemi di identificazione di queste realtà. Strategie Quanto visto conduce agli scopi che erano alle origini di ogni nuova fondazione e al dibattito sollevato alla fine degli anni 80’ da Aldo Settia in polemica con una storiografia incline a semplificazioni monotematiche di natura militare come scopo primario di un centro fondato. Secondo Pirillo per uno stesso insediamento le finalità potevano mutare sia durante la progettazione che nel corso della sua realizzazione. Es. le Terre nuove fiorentine di San Giovanni e di Castelfranco 14 anni prima della loro nascita effettiva, erano state ipotizzate come insediamenti aperti e privi di fortificazioni che il ricorso ad un lessico appropriato definì in quel frangente, delle ville e non Terre o castelli. Sui pregiudizi strategici sembra aver pesato la natura delle testimonianze della documentazione pubblica che lasciano prevalere l’elemento militare proprio per le necessità cittadine di difesa del nuovo insediamento. Sul terreno però l’istanza militare può apparire sensibilmente diversa e anche nelle Terre nuove fiorentine elementi strutturali quali fossati, mura, torri, porte si rivelano di realizzazione assai lenta, talvolta con tempi valutabili in due, tre, fino a cinque decenni successivi all’anno di fondazione, al punto da rafforzare i dubbi sull’esclusiva loro funzionalità strategica, se non come semplice base di appoggio per guarnigioni mobili. Secondo Panero per l’area subalpina, l’elemento fondamentale non sembra essere la presenza di fortificazioni costruite con materiali non deperibili, che avrebbero potuto comunque essere erette in un momento successivo, sostituendone altre provvisorie, ma ciò che veniva effettivamente offerto in concessione ai futuri abitanti. In questo senso mura e fossati costituivano degli elementi validanti, anche se solo progettati e disegnati sul terreno in previsione di essere realizzati, in quanto landmarks destinati a legittimare gli spazi di franchigia, di esenzione fiscale e di tutte le prerogative che costituivano la dote di ogni nuovo centro. Certo tra le finalità perseguite da una nuova fondazione rimane un movente di prim’ordine la sottrazione di uomini che l’aggregazione di una nuova universitas riusciva o tentava di realizzare ai danni di un vicino potere territoriale antagonista: con una simile strategia si mosse ad esempio il comune di Albenga, entrando in concorrenza con i domini del vescovo cittadino. Genova avrebbe fatto altrettanto contro i Malaspina ed esempi potrebbero continuare fino alle ultime esperienze comunali destinate a drenare uomini dai vicini territori comitali che città come Firenze si sforzavano di piegare al loro dominio. È inoltre evidente che molti Comuni ricorsero ad una ridistribuzione di popolazione per legittimare la propria autorità se aree contermini ai rispettivi contadi. Per la Toscana si ricorda il ruolo giocato da Bientina nella ridefinizione dei confini tra Pisa e Lucca, quello di Montevarchi e Laterina tra i contadi di Firenze e Arezzo. Il risultato finale era l’aggregazione di preesistenti comunità, di individui e famiglie in un “loco et una vicinantia”, grazie alla quale oltre ad esigenze economiche, strategiche e politiche si doveva favorire, un riassetto giurisdizionale, istituzionale, fiscale destinato, per quanto possibile, a sedare o eliminare definitivamente motivi di contenzioso, attriti ed ostilità aperte tra due poteri antagonisti, sia nel caso di signorie territoriali, sia di giurisdizioni cittadine. Così alla metà del XIII secolo, la rifondazione di Montevarchi, sotto l’egida fiorentina, ma ad opera del conte Guido Guerra di Marcovaldo Guidi, di stretta fede guelfa a differenza di altri rami della famiglia comitale, sembrava consolidare, in maniera chiara, un’area di demarcazione con il vicino territorio aretino. Prova ne sia che, pochi anni dopo, venne intrapreso il progetto speculare a quello montevarchino con la rifondazione, da parte del Comune aretino del centro di Laterina, nella pianura alluvionale dell’Arno. La necessità di una chiara definizione della distribuzione della popolazione in quest’area avrebbe inoltre spinto, otto decenni dopo gli eventi appena evocati, alla decisione di aggregare ex novo, sul versante fiorentino del confine con la giurisdizione aretina, una nuova comunità i cui residenti dovevano essere reclutati da entrambi i territori. Il progetto si arenò quasi all’inizio, ma significativo e vedere come la fondazione congiunta del centro sarebbe potuta servire per la pacificazione delle parti in contrasto. È plausibile pensare che tra le principali finalità di un centro fondato ex novo, ci fosse quella di definizione del districtus, di vero e proprio tracciamento dei limiti del potere territoriale. Tema aperto sono gli effetti sul territorio circostante. Siamo meno informati su quanto accadeva alle aree concomitanti a un nuovo abitato, per quanto riguarda il popolamento e l’assetto insediativo in prossimità di una nuova fondazione.
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La concentrazione di popolazione in un solo abitato poteva far collassare il tessuto insediativo circostante come, ad esempio, avvenne nel territorio vicino al nuovo abitato di Pergola, fondato alla metà del XIII secolo dal Comune di Gubbio. Questa eventualità era reale al punto che, in alcuni casi, era sufficiente la minaccia di un nuovo abitato a far scendere i signori locali antagonisti a più miti consigli. Spesso i signori per evitare la costruzione di un nuovo centro abitato ad opera di un Comune, concedevano prerogative territoriali. Come avvenne quando sempre nella seconda metà del XIII secolo durante l’avvio della fondazione da parte del Comune di Spoleto dell’abitato di Acquafranca nel bel mezzo della signoria degli Alviano, la cui previsione di spostamento di popolazione nel nuovo centro bastò a convincere quei signori a rinunciare a numerose delle loro prerogative territoriali. A questo riguardo, le conseguenze del riassetto demografico innescate da un nuovo centro abitato coinvolgevano, in varia misura, anche l’organizzazione della cura d’anime. La Chiesa esercitava un controllo stretto nei confronti di ogni nuova realtà. Spesso per la fondazione di una pieve o di una parrocchia all’interno di un nuovo centro non poteva realizzarsi dall’oggi al domani. Il luogo di culto edificato nel nuovo centro era destinato a rimanere in attesa dell’ottenimento del titolo di parrocchia. Nei lunghi tempi di attesa potevano inserirsi gli ordini religiosi come gli Agostiniani o i Francescani ad assicurarsi la cura animarum nei nuovi centri. Sul piano economico, la promozione di una nuova universitas rispondeva anche all’esigenza di controllare un punto centrale di snodo viario, di mercato e di servizi nel tentativo di soddisfare le esigenze di una rete territoriale urbano-‐centrica al cui interno erano inscritti i nuovi abitati, le loro comunità, i loro luoghi di mercato. Infatti i riferimenti al transito su queste piazze, di beni provenienti dall’esterno in direzione della città principale sembrano abituali. Vi è anche una relativa concomitanza tra un centro fondato e l’apertura o l’incentivazione di una piazza di mercato dentro o nell’area immediatamente esterna ad esso. Talvolta è proprio questa la vocazione principale dichiarata in maniera esplicita dalla documentazione relativa alla nascita di un centro: per esempio la fondazione del Comune di Novara (XII-‐XIII secolo) ed alle forti motivazioni economiche presenti nella classe dirigente cittadina che le aveva promosse. La fondazione di centri abitati poi poteva avere lo scopo di mettere a coltura aree circostanti ad essi. Le nuove fondazioni del Comune perugino, come Castiglion del Lago, ebbro lo scopo di incrementare il popolamento delle aree pianeggianti dell’area sud orientale del territorio cittadino, del Trasimeno e del Chiugi che in breve tempo divennero il vero e proprio granaio della città. E così facendo Perugia riuscì anche a frenare le continue usurpazioni dei nobili ancora presenti nella zona. In uno loco et una vicinantia Se il progetto di nuova fondazione non si arenava nel corso dei primi e più difficili anni di vita, il risultato era rappresentato dall’aggregazione di una comunità, in precedenza inesistente, le cui componenti erano stato fino ad allora nebulizzate in una serie di insediamenti minori. Una nuova universitas, dunque, intorno alla quale può essere proficuo porsi degli interrogativi, uno dei quali concerne la volontà, da parte dei fondatori, di programmare la natura sociale, economica e politica dei componenti. Spesso i nuovi sedimi potevano essere assai articolati dal punto di vista sociale, coagulando in un unico centro, pur distinto in “quartieri” distinti, contadini proprietari, braccianti ma anche artigiani e mercanti. In alcuni centri la presenza di cittadini in un nuovo centro era limitata ai proprietari di terre e lotti edilizi come nella fiorentina Casaglia nata negli anni 80’ del XIII secolo. In linea generale vi era difficoltà nell’esercitare un efficace controllo politico e militare sulle nuove comunità: ne è possibile esempio un’insorgenza anti fiorentina nella Terra nuova di San Giovanni Valdarno, pochi decenni dopo la sua fondazione. Il timore di simili rischi spiega l’applicazione di limiti di accesso ai nuovi centri per alcuni settori della società (milites, magnati, ecc.), tesa ad evitare la formazione di forti gruppi egemoni locali. Il regime popolare fiorentino per esempio avrebbe proibito ai magnati l’accesso alle Terre nuove. La maggior parte delle variabili comunque, aveva come presupposto che il nuovo insediamento mantenesse stretti rapporti con il proprio contesto territoriale e evidentemente, con la città-‐madre. Quindi vi erano diversi tipi di mediazione che furono alla base dei rapporti tra i Comuni fondatori e le nuove o rinnovate comunità locali ed i loro ceti eminenti. Nel corpus della documentazione concernente alle nuove fondazioni, si manifesta una ricchezza non soltanto di apparati normativi ma anche di pacta stipulati tra i fondatori ed i futuri e potenziali aderenti alla nuova universitas. Questa produzione documentari pattizia, la sua distribuzione spaziale e cronologica, può aiutarci a cogliere le fasi di sviluppo della politica territoriale dei Comuni e anche degli strumenti di controllo a loro disposizione. Spesso i giochi si rivelano abbastanza chiari, con un Comune che tende a inserirsi come terzo elemento, spesso incomodo, nella relazione tra signori territoriali ed i loro dipendenti. Asti legava a sé gli uomini del proprio contado i quali soltanto in subordine a questa dipendenza sarebbero rimasti vincolati anche ai loro domini.
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In questo caso, uno degli strumenti maggiormente utilizzati si rivela il cittadinatico, diffuso in area piemontese con punte di impiego massiccio, come nel caso di Alba. Questo istituto rappresentava un elemento di riequilibrio nell’ambito del potere comunale ed instaurava un legame apparentemente bilaterale, legittimando la città al vertice della gerarchia dei rapporti con le comunità. Il Comune si presentava in veste di mediatore tra signori e comunità, attribuendosi una funzione legittimante ed ottenendo un nuovo abitato che soltanto dal punto di vista ufficiale sembra nato spontaneamente, per decisione autonoma e non per volontà dello stesso Comune egemone.
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Saggio 3 Priverno, breve storia:
La Campagna e Marittima nella galleria delle carte geografiche del Vaticano. Le origini di Priverno risalgono al periodo protostorico laziale. Benché vi siano testimonianze che fanno risalire la fondazione dell'antica Privernum ad almeno quattro secoli prima di Roma, quindi al XII secolo a.C. (restano alcuni ruderi di tale centro), le prime notizie storiche certe sono ad opera di Tito Livio. Egli descrive Priverno come un potente centro Volsco del IV secolo a.C. che, a seguito di lunghe lotte, venne sottomesso da Roma ad opera di Lucio Emilio Mamercino Privernate e Gaio Plauzio Deciano, che grazie a questa vittoria furono eletti entrambi consoli. Nel 329 a.C. il centro venne completamente distrutto, e la ricostruzione del nuovo abitato avvenne ad opera dei Romani nella piana di Mezzagosto, dando origine alla Privernum romana. Come colonia romana, Privernum divenne una città ricca e molto sviluppata, nel periodo che va dalla Repubblica al primo secolo dell'impero; ricchezza testimoniata dai numerosi reperti archeologici ritrovati, coma la Villa di Seiano ed il Castel Valentino. Nel 312 a.C. Roma iniziava la costruzione della via Appia, grazie al censore Appio Claudio Cieco, il che diede a Privernum un'importanza strategica per il commercio, visto che sulla via Appia si svolgeva quasi tutto il traffico tra Roma, la Magna Grecia e l'Oriente. Privernum divenne una colonia militare romana con accampamento fortificato, che dominava sul territorio. Intorno al 161 a.C. iniziarono i lavori per la costruzione delle mura della Privernum romana ancora oggi visibili, insieme all'acquedotto, e le fognature, e sempre in questo periodo fu costruita la diga sul fiume Amaseno, per irrigare i campi e ad uso civile. Nel 140 a.C. venne realizzata la villa del senatore romano Marco Giunio Bruto, notizia che ci arriva grazie a Cicerone, nel 133 a.C. il tempio Tholos, di cui sono visibili i resti, ed il Castel Valentino, in contemporanea al Capitolium. Nel 58 a.C., mentre a Roma governava il Primo triumvirato formato da Cesare, Pompeo e Crasso, venne coniato un denario d'argento in memoria della presa di Privernum da parte di Lucio Emilio Marmecino Privernate II e Gaio Plauzio Deciano. Nel 48 a.C. Privernum diventa municipium. In questo periodo, che precede di poco la fine della Repubblica, Privernum contava circa 3000 cittadini e 4000 schiavi. Intorno al 15 d.C. veniva costruito il teatro romano. Gran parte dei reperti rinvenuti di questo periodo si trovano nei Musei Vaticani. Sotto l'imperatore Adriano l'Italia venne divisa in quattro distretti, governati da un ex console; Privernum entrò a far parte del distretto di Roma. Il magistrato curatore del municipio privernate venne premiato da Adriano con la corona aurea per essersi distinto in combattimento. La città di Privernum continuò a crescere anche sotto Lucio Vero e Marco Aurelio. Nel 189 d.C. arrivò la peste bubbonica; in tre mesi di contagio si stima che morirono circa 1200 persone.
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Con la caduta dell'Impero romano tutto il resto delle colonie attraversò periodi di crisi. Nel 455 d.C. Roma venne saccheggiata; in questo periodo cessarono le opere di manutenzione della via Appia, che tornò in buona parte allagata e impraticabile, così il traffico commerciale si trasferì sulla strada pedemontana. Privernum divenne un punto di sosta, in cui si poteva ritirare e spedire la posta, e ristorarsi prima di proseguire il cammino. Iniziava così il regno di Odoacre. In Italia, dopo la caduta di Roma, i cittadini perdevano solo i diritti politici, conservando tutti i diritti civili. La vita di Privernum fu interrotta nel IX secolo, si ritiene a causa delle invasioni barbariche, ma alcune testimonianze lasciano supporre che la città venne distrutta nel IX secolo ad opera dei Saraceni. A seguito di queste invasioni i cittadini abbandonarono il sito dell'antica Privernum e, secondo la tradizione, fondarono nuovi centri sui colli e monti circostanti, tra le quali l'attuale Priverno sul Colle Rosso, ed i centri di Sonnino, Roccasecca, Maenza e Roccagorga. Priverno è storicamente appartenuta allo Stato Pontificio, e fa parte del Lazio fin dalla presa di Roma (1870). Dalla fondazione di Latina (fino al 1946 Littoria) appartiene alla provincia omonima. Aneddoto : Fra Reginaldo da Piperno, segretario e confessore di san Tommaso d'Aquino, nasce a Priverno nel XIII secolo. Alba Pagani: Economia e società Marittima nel tardo medioevo: il caso di Priverno Piperno. Priverno secondo la denominazione medievale, sorge sulle propaggini settentrionali dei Colli Seiani. L’occupazione dell’attuale sito risale al secolo X e fu determinata dal clima di insicurezza e di pericolo provocato dalle incursioni saracene nel corso del IX secolo, quando l’abitato romano di Privernum, ubicato nella piana, i località Mezzagosto, subì devastazioni e saccheggi. Il centro medievale era ubicato lungo l’itinerario della via pedemontana che, passando attraverso i principali centri dei Lepini, raccordava Cisterna a Terracina e costituiva la principale alternativa di terra all’Appia, ormai inagibile in quel tratto. Nei secoli centrali del medioevo, Priverno fu uno dei pochi centri dei Lepini che, mantenutosi autonomo dai signori locali, sviluppò con una certa libertà le proprie istituzioni comunali. In mancanza di una documentazione suscettibile di interpretazioni economiche e sociali, le pregevoli architetture urbane e le opere pittoriche risalenti ai secoli XII-‐XIII testimoniano di una piccola ma fiorente città, le cui sorti sembrano declinare nella seconda metà del XIV e nel XV secolo, quando le attività artigianali e la produzione artistica subirono un netto ridimensionamento. In considerazione della vocazione produttiva del territorio una particolare attenzione è stata riservata all’agricoltura e all’allevamento. La base documentaria sono due protocolli notarili conservati presso l’Archivio di Stato di Latina e contenenti circa 440 stipule di varia natura, risalenti tra il 1462 e il 1495. L’ordinamento politico e amministrativo della comunità Il comune di Priverno era annoverato nei ranghi delle terrae dello stato pontificio direttamente soggette alla Sede Apostolica, e quindi esercitava la propria giurisdizione sul territorio di propria pertinenza, confinante con i comuni di Sezze e Terracina, anch’essi soggetti alla Sede Apostolica e con alcuni castelli appartenuti ai Caetani e ai Conti. Nel 400’ i Conti manifestarono interesse per i pascoli della Marittima e intrecciarono relazioni di natura economica con alcuni cittadini di Priverno. L’assetto istituzionale di Priverno non risulta avere subito modifiche formali rispetto al periodo comunale: il principale ufficiale era il podestà, che poteva assumere anche la funzione di iudex, egli era affiancato da almeno un miles, cui era riservata una camera nel palazzo comunale. Sappiamo anche dell’esistenza di un camerario, responsabile della gestione dei beni del comune, e di un cellarius, addetto alle scritture pubbliche. Per il 1474 è attestata una balia di otto magistrati che affiancavano il podestà nell’amministrazione della giustizia. Gli unici podestà conosciuti per il periodo in esame non appartenevano alla grande nobiltà, ma erano esponenti aristocratici dei comuni marittimani e campanini (Sezze e Altari). La sussistenza di margini piuttosto esigui di autonomia locale si evince dai numerosi interventi giurisdizionali del governatore e del giudice provinciale, sia dal mancato riconoscimento del diritto di nomina del podestà. La Camera apostolica possedeva s Priverno una domus in porta Paolina e forse esercitava direttamente alcuni poteri in materia di danno dato attraverso un proprio caballarius. La sede delle autorità locali era invece il palazzo comunale, situato nell’omonima piazza, vicino alla chiesa cattedrale. Qui vi era anche il bancum iuris e le carceri, mentre gli ambienti sottostanti erano occupati dalle botteghe. Struttura sociale e ricchezza economica Durante l’età comunale la società era divisa in milites e pedites o maxarii; dal tardo Quattrocento non è più evidente una distinzione sociale riconducibile al ceto dei milites, la struttura della società era allora caratterizzata dalla preminenza di un ceto di professionisti (medici e notai) e, a un livello più basso, di artigiani e operatori commerciali, che affiancavano al proprio mestiere il possesso della terra e l’allevamento del bestiame;
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ai vertici della società si collocavano i membri del clero. Troviamo poi grazie alle stipule altri mestieri come dei ferrarii, due pignatarii, un barbiere, un fornaio, un bottaio, un macellaio, alcuni calzolai, un sarto, nonché alcuni magistri attivi nel campo dell’edilizia. Appaiono anche attività di finanza e credito, il commercio dei panni sembra essere appannaggio del ceto notarile. I personaggi he si profilano come esponenti più agiati della comunità si spartivano la proprietà o l’affitto delle numerose botteghe che i affacciavano sulla piazza del comune e sulla via Maior. Queste botteghe oltre ad animare il mercato degli affitti erano anche il luogo privilegiato per la stipulazione dei contratti. Quando non si trovano indizi che indicano la professione, troviamo dei titoli qualificativi. Tra i magistri ci sono alcuni che esercitano un arte meccanica. Il titolo di Nobilis scarsamente diffuso, è adottato per alcuni notai, mentre quello di dominus, oltre a essere utilizzato in riferimento ai membri del clero secolare è utilizzato per designare alcuni esponenti del patriziato privernese. Altrettanto distintivo risulta l’attributo egregius, equivalente a quanto sembra a nobilis, mentre l’appellativo providus pare riferibile a una distinzione derivante da una particolare credibilità sociale, infatti providi viri sono normalmente qualificati gli esperti chiamati a giudicare sulla stima dei terreni e gli arbitri cui viene demandata la composizione delle controversie. Per le donne la qualifica di domina è usata per le monache e per le donne del patriziato locale. L’appellativo frequente per le donne è quello di honesta. Con l’attributo provida, troviamo designata sia la moglie di un nobile notaio, sia una donna ebrea. La presenza di una comunità ebraica a Priverno è documentata dal 1481, quando in seguito alla guerra e alla peste abbandonarono il territorio per rifugiarsi a Roma. Le poche testimonianze pervenuteci li vedono attivi nel campo del credito e dell’oreficeria. In mancanza di una documentazione catastale è impossibile fornire dati puntuali circa la struttura della proprietà. Tuttavia dai dati emersi è possibile affermare che una capillare diffusione della proprietà della terra, faceva riscontro l’assenza di possessi estesi e compatti. Le 1613 unità fondiarie menzionate erano distribuite tra 582 proprietari. Quindi facendo un calcolo, la maggior parte dei proprietari possedeva uno o due appezzamenti, trentasei fra sette e dodici mentre solo sette possedevano oltre dodici appezzamenti. La proprietà era frammentata. Tra i grandi possessori di terre vi erano i fratelli Angelo e Cola Ciambelli, altri erano il providus vir Antonius Caporitius e il nobile Aloisius Rosa. Il paesaggio agrario e l’ordinamento produttivo L’ordinamento produttivo del territorio di Priverno nel tardo medioevo era caratterizzato dal primato del frumento, coltivato sia sui seminativi nudi sia sui campi vignati e olivati dell’area pedecollinare vicina all’insediamento. Un posto non marginale avevano anche la viticoltura e l’olivicoltura, sebbene la massiccia introduzione degli olivi dati soltanto dalla fine del XVIII secolo. Gli oliveti specializzati erano un eccezione, mentre non di rado gli olivi erano coltivati in consociazione con la vigna, talvolta unitamente ad alberi di fico o ad altre specie non precisate o ai margini degli arativi. Con il termine campi uniti alla specificazione della località si indicavano i terreni pianeggianti, che erano adatti a ospitare i seminativi. La topografia del territorio era stata profondamente modificata dagli interventi di canalizzazione della acque, indispensabili per rendere coltivabili quelle terre basse soggette al divagare delle acque. Le struttura ausiliare stabili o temporanee dovevano servire agli agricoltori nei momenti principali della stagione agricola. Al monotono susseguirsi di seminativi nudi si sostituiva nell’area più vicina all’abitato un paesaggio modulato che assecondava la natura dei terreni, frammentandosi in un parcellario di vigne, di seminativi arborati e talvolta prati. Gli olivi e più raramente altre specie arboree, registravano un paesaggio tutt’altro che marginale e pur non addensandosi in formazioni compatte aggiungevano ai fondi un valore puntualmente segnalato dalle stipule. Sulle alture a sud e a ovest dell’abitato, dove si collocavano alcune proprietà del comune di Priverno, esistevano porzioni private di bosco denominate foreste, la cui composizione è esplicitata solo occasionalmente per segnalare la presenza di castagni. Nella stessa area trovano posto anche alcuni seminativi, mentre la vite conosceva una certa diffusione, perlopiù in consociazione con l’olivo, nella valle Cagnana e , più a sud, sul colle di S. Giovanni. Gli oliveti specializzati si concentravano invece sul Colle Menardo. In prossimità dell’abitato il paesaggio assumeva i connotati del giardino mediterraneo, grazie alla presenza di alberi di agrumi negli orti intra moenia e di olivi negli orti situati al di fuori delle mura. Gli orti avevano un ruolo fondamentale nelle economie domestiche tradizionali. A Priverno gli appezzamenti ortivi erano ampiamente diffusi intra moenia (tra le mura), spesso annessi alle case di abitazione; essi qualificavano l’immediato suburbio a ridosso delle mura e il prospicente colle di S. Lorenzo. Gli orti urbani erano protetti con muri a secco o altre chiusure. È possibile, anzi, che la sola presenza della recinzione determinasse la qualifica di ortus degli appezzamenti, indipendentemente dalla loro effettiva destinazione: non sembra possibile infatti, interpretare altrimenti la menzione di un ortus annesso a uno stabulum destinato all’allevamento di capre. Le stipule esaminate non citano le colture stagionali praticate negli orti. Tuttavia non mancano di sottolineare la presenza arborea. Accanto a piante da frutto tradizionali a Priverno è attestata la diffusione della varietà bifera di S. Pietro,
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particolarmente adatta all’essicagione e il melo, gli agrumi costituivano le colture di maggior pregio. Oltre ai cedri e forse alle lumìe sono documentati gli aranci amari, poiché la specie a frutto dolce fu introdotta in Sicilia soltanto sul finire del XV secolo. Sebbene è impossibile quantificare la presenza degli aranci a Priverno, l’impressione suggerita dalle fonti è che essi connotassero in modo non marginale il paesaggio urbano e che fossero utilizzati anche a scopo ornamentale: nella piazza davanti al palazzo comunale erano situati, infatti, oltre a un olmo, almeno due citranguli, no dei quali di dimensioni contenute, era probabilmente di impianto recente. Risultano invece occasionali melograni e gelsi. Gli olivi marcavano invece la loro presenza negli orti extra moenia. Una vocazione produttiva policolturale (orticola e olivicola) sembra caratterizzare le contrade situate sul mons Piperni, un toponimo che non risulta attestato nella cartografia moderna, ma che dovrebbe identificare il colle di S. Lorenzo, prospicente l’insediamento. Le notizie in merito all’ordinamento produttivo per i secoli anteriori al XV, provengono dalle indagini archeologiche. Nelle strategie databili ai secoli XI-‐XII si sono riscontrati la presenza di sili destinati all’immagazzinamento di legumi, grano, farro e miglio. Il quadro configurato non pare invece confermato periodo successivo. Le transazioni registrate lasciano intendere una modesta commercializzazione dei prodotti agricoli, concentrata nei momenti di crisi alimentare e limitata ai prodotti di largo consumo. Ne emerge un quadro di prevalenza del frumento al quale si affiancava una presenza molto modesta di orzo, avena, e quanto alle leguminose, di fave e cicerchie. Bisogna anche constatare il rafforzamento del primato del frumento che aveva caratterizzato il Lazio meridionale nei secoli XIII-‐XIV, con al conferma della presenza dell’orzo e avena, e la scomparsa della spelta. Un’isolata attestazione circa la commercializzazione del fieno conferma la presenza colturale dei prati da sfalcio, mentre la menzione della linicoltura è testimoniata dalla menzione del linum nei lasciti testamentari e nelle costituzioni dotali. L’elenco dei prodotti soggetti a pedaggio con la relativa tariffa prospetta la circolazione nel territorio di grano, legumi, in primis fave, fieno canapa, lino, mortella e olio. Contratti agrari e concessioni fondiarie Lo studio dei rapporti di produzione è stato condotto privilegiando l’esame dei contratti e il profilo sociale dei contraenti. Per la conduzione dei fondi nel periodo considerato si ricorreva sia a contratti di lunga durata sia contratti a breve termine. I primi risultano adottati esclusivamente per la locazione dei vigneti degli enti ecclesiastici e religiosi. Le locazioni brevi concernenti terreni arativi avevano per la maggior parte una durata triennale, mentre quelle aventi per oggetto dei vigneti variavano da un massimo di nove a un minimo di un anno, con una prevalenza dei patti triennali. Congiuntamente ai contratti agrari, si è giudicato opportuno esaminare anche i contratti di lavoro finalizzati all’aratura dei terreni destinati alla semina, in cui il tempus contracti non superava l’anno. La coltivazione dei seminativi I contratti che investono i terreni seminativi hanno una durata prevalentemente triennale. Due anni di semina consecutivi di colture erbacee, seguiti da un anno di maggese lavorato. La consuetudo o ritum terre Piperni garantiva che le parti avessero sufficientemente chiari gli obblighi colturali. Una cura particolare era riservata alle opere di sistemazione dei terreni consistenti nella manutenzione o nella realizzazione dei fossi di scolo. La coltivazione di vigneti e oliveti I sistemi di conduzione degli appezzamenti vitati presentano apparentemente differenze consistenti rispetto a quelli utilizzati per i seminativi. I contratti pervenuti direttamente o indirettamente sono per la maggior parte concessioni di lunga durata (tre generazioni) che prevedono la corresponsione di canoni prevalentemente parziari. Per i sistemi di conduzione in linea generale prevalgono, tanto per le concessioni di lunga durata che per quelle brevi, le corrisposte parziarie che variano da un quarto alla metà del prodotto. Per i vigneti da impiantare sono richiesti canoni meno gravosi, mentre per gli appezzamenti già produttivi l’onere è maggiore. In alcune concessioni sono richiesti canoni monetari. Alcune appezzamenti ospitavano, oltre alla vigna, anche altri alberi da frutto (olivi, fichi o altri alberi generici), queste presenze talvolta venivano esplicitate nel contratto, talaltra si desumono esclusivamente dalla definizione della corrisposta parziaria, che si attestava prevalentemente sulla quarta parte dei frutti degli alberi e sulla metà dei frutti degli olivi. Il ricorso al sostegno morto per sorreggere i tralci delle viti induce a ritenere che gli alberi da frutto si collocassero ai margini dei filari. Sebbene gli oliveti specializzati conoscessero una certa diffusione in alcune località del territorio di Priverno, non è attestato il ricorso alle locazioni per la loro coltivazione. L’unico contratto di locazione pervenuto concernente un appezzamento olivato è di durata triennale e prevede un canone pari alla terza parte dell’olio. Nelle locazioni che prevedono la corrisposta della metà dei frutti per gli appezzamenti vignati il conduttore è tenuto a lavorare la vigna, rinnovare i pali e zapparla tre volte l’anno. La zappatura è l’operazione più importante, non a caso la negligenza delle tre zappature può comportare un aumento della corrisposta dalla metà ai due terzi. Un dato che emerge è il carattere pressoché esclusivamente ecclesiastico della proprietà degli appezzamenti vignati concessi in locazione.
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Le locazioni di opere I contratti di locatio operarum pervenuti hanno una durata da uno a due anni e prevedono il pagamento di un salario compreso tra un fiorino e otto fiorini l’anno. Le mansioni dei salariati sono indicate perlopiù genericamente, ma non mancano specifiche attestazioni circa l’impiego della manodopera nel settore artigiano o per la custodia degli animali. I dipendenti erano talvolta minorenni, come dimostra il fatto che il contratto viene stipulato da un parente, ma poteva accadere che fossero invece uomini adulti non residenti a Priverno: in questo caso il datore di lavoro forniva anche l’alloggio per la moglie e la famiglia del lavoratore. Il ricorso a forestieri in età adulta si spiega forse con la specializzazione del lavoro richiesto. L’impiego nelle botteghe artigiane comportava un salario più alto rispetto a quello pagato per la custodia degli animali. Il datore di lavoro provvedeva perlopiù ai fornimenta, che comprendevano anche gli indumenti, taluni dei quali, come la capa o la camicia potevano essere espressamente esclusi dagli oneri a suo carico. Circostanze peculiari sono quelle in cui l’assunzione in servizio comporta il saldo totale o parziale, dei debiti del famulo da parte del datore di lavoro. È il caso di Lucas de Fractis, residente a Priverno, imprigionato per insolvenza e scarcerato grazie all’intervento del dominus Gulinus, un famulus del cardinale di Pavia, che, motus amore et pietate, ne riscatta i debiti ammontati a 48 carlini e lo assume per un salario mensile di 10 carlini. Tra i compiti di alcuni salariati assunti per la custodia del bestiame, sembrano rientrare anche operazioni di carattere commerciale che implicavano una certa responsabilità finanziaria. Il bestiame I processi che portarono all’incremento dell’allevamento nel tardo medioevo sono ben noti ed è altrettanto conosciuta la naturale vocazione pascoliva delle basse terre pontine. L’analisi delle fonti ha consentito di ricostruire alcuni aspetti della pratica allevatizia nel territorio di Priverno. Il bestiame grosso (bovini e bufali) non era destinato solo all’aggiogamento: sebbene nulla possa dirsi sulla commercializzazione dei capi per la macellazione o sulla produzione di latte e formaggio, la diffusione degli animali da frutto e l’organizzazione dell’allevamento lasciano supporre un’incidenza economica non trascurabile per questo settore zootecnico, cui è peraltro verosimilmente collegata la presenza dei numerosi artigiani del cuoio documentati. Un ruolo rilevante era svolto altresì dalla suinicoltura, che trovava nella disponibilità di ghiande un supporto indispensabile al pascolo brado. La proprietà degli ovini era poco diffusa, un incidenza limitata conosceva a quanto sembra anche l’allevamento di bestiame caprino. Circa l’organizzazione dell’allevamento sembra che alcuni allevatori di professione cui i notabili privernesi proprietari di bestiame affidavano i propri animali da frutto. Con l’aiuto dei mandriani che avevano alle loro dipendenze, costoro sovrintendevano all’organizzazione del pascolo brado e si facevano carico dei costi dell’allevamento. Alcuni di questi allevatori dovevano inoltre svolgere un ruolo importante nel commercio del bestiame. Connesse alla pratica aratoria e al trasporto, le locazioni di bestiame da lavoro e da soma, pervenute in numero di sei possono essere raggruppate in locazioni ad granum per i buoi, locazioni ad servitia per i bufali e locazioni ad meliorandum per le bestie da soma. Non vi sono differenze sostanziali tra le locazioni di buoi e di bufali, trattandosi, per quelle reperite, tutti casi di forme contrattuali riconducibili alla tradizionale tipologia del collatico o giogatico. Le locazioni esaminate, hanno durata molto breve, perlopiù inferiori di poco all’anno, investono sempre un singolo capo di bestiame e prevedono il pagamento di una quantità fissa di grano per il lavoro svolto dall’animale. Le bestie aratorie sono sempre stimate di comune accordo dei contraenti, sebbene nulla so dica dell’animale al termine della stipula. Le locazioni di buoi prevedono, in caso di morte dell’animale, la suddivisione a metà del danno in base alla stima iniziale, ma in una delle stipule si precisa, qualora la morte fosse dovuta alla negligenza del locatario egli avrebbe dovuto risarcire il locatore dell’intero valore del capo. Altre informazioni, specialmente per le locazioni di bufali erano probabilmente lasciate alla consuetudine. Ad altri strumenti contrattuali si ricorreva per l’allevamento degli animali da frutto, in particolare alla soccida2. La durata di questi contratti variava da uno a sei anni, a seconda del bestiame affidato: i due soli contratti di soccida pervenuti per il bestiame bovino e caprino risultano avere una durata quadriennale, mentre le soccide di maiali avevano una durata più breve, compresa fra un anno e un anno e mezzo, probabilmente a causa della prevalente destinazione alimentare e soprattutto della prolificità del bestiame suino. In tutti i casi allo scadere del contratto era prevista la spartizione sia dei capi forniti all’inizio della soccida sia della prole. Circa i danni arrecati dagli animali a beni di terzi e quelli derivati dalla perdita del bestiame, si può osservare che essi ricadevano sulle spalle di coloro che avevano in custodia il bestiame stesso. Il risarcimento del danno comportava sforzi finanziari notevoli per le classi più deboli, per i quali poteva rendersi necessario ipotecare beni di importanza vitale come l’orto. L’insolvenza determinava la carcerazione, alla quale solo la pratica solidaristica poteva porre un rimedio.
2 Soccida: diretto a costituire un’impresa agricola a natura associativa, nella quale si attua una collaborazione economica tra colui che dispone del bestiame (soccidante, concedente) e chi debba allevarlo (soccidario, allevatore).
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I locatari delle bestie da tiro erano i piccoli allodieri che non disponevano della forza animale necessaria alla lavorazione dei propri terreni. I locatori di animali da lavoro appartenevano a famiglie notabili. Il profilo sociale dei soccidari bovini doveva rientrare nella categoria degli allevatori di bestiame. Sotto il profilo sociale la caratterizzazione dei proprietari di bestiame suino è piuttosto disomogenea invece. Per quanto concerne i prezzi del bestiame bovino e bufalino, i dati in nostro possesso sono di non facile interpretazione, in primo luogo a causa delle differenti valute utilizzate. Un bue adulto poteva valere 12-‐16 fiorini o 5-‐8 ducati, un giovenco bovino 8-‐16 fiorini, un bufalo adulto 8-‐10,5 fiorini o 4-‐7 ducati, un giovenco bufalino 5 ducati, mentre nettamente inferiore doveva essere il valore dei capi bovini di sesso femminile, 2-‐4 ducati. Nella gerarchia delle preferenze i buoi riscuotevano maggiore gradimento rispetto ai bufali, nonostante il fatto che anche i secondi trovassero impiego nel tiro dell’aratro. La scarsa domesticità dei bufali, la loro forza e la loro preferenza per gli ambienti paludosi della piana, ne consigliavano l’utilizzo per attività quali il traporto di pesanti carri lungo i malsani tragitti della pianura, ma anche per lo spurgo dei canali e per un particolare tipo di pesca. L’avvenuta addomesticazione era allora sancita, attraverso l’utilizzo di un nome proprio (Quagliocza), oltre a indicare l’avvenuta domesticazione, dimostra il valore attribuito dai proprietari alle bestie battezzate; si trattava, proprio degli animali non destinati al consumo alimentare, quanto piuttosto al trasporto, al lavoro nei campi e, nel caso delle femmine, anche alla riproduzione. I cavalli erano più cari, abbiamo un esempio di costo che si attesta sui 9 ducati. In linea generale è noto che i cavalli erano diffusi presso i ceti sociali più agiati, e non a caso le uniche due selle, sono documentate a Priverno nell’inventario di Gaspar Urselli. Per gli asini i prezzi oscillavano tra i 4 e i 10 fiorini e tra i 30 e 44 carlini. L’estrema diffusione per il trasporto non consente nessuna conclusione circa il profilo dei proprietari. È noto che il possesso di un asino era estremamente diffuso anche nei ceti meno abbienti proprio in virtù del ruolo insostituibile che essi avevano come bestie da soma. Un allevamento non del tutto marginale doveva conoscere l’allevamento delle api nel territorio di Priverno. Il possesso di alveari, denominati cupelli, è documentato per la cappella di S. Bernardino. I beni comunali e i pascoli Le acque costituivano una componente importante dei demani comunali e signorili, specialmente in un’area paludosa come quella pontina, dove la pesca costituiva un’attività di grande rilievo per l’economia locale. La consistenza delle acque demaniali del comune di Priverno non è nota. Alla fine del Quattrocento, comunque, esso risulta proprietario della pescheria di Capocavallo, una località che doveva avere una funzione nodale per il commercio ittico. La peschiera del comune era concessa in locazione a un privato imprenditore che si faceva carico dei costi di manutenzione e ne curava la conduzione. Sebbene non siano noti i termini che regolavano la concessione, sappiamo però che lo sfruttamento della peschiera da parte del locatario del comune, il magister Petrus Pauline, era attuato ricorrendo a contratti di locatio operarum che prevedevano non il pagamento di un salario, bensì la corresponsione di un canone parziario. Le risorse boschive e i pascoli del comune di Priverno non dovevano essere particolarmente consistenti. Un’ampia fascia del territorio a sud dei Colli Seiani, la “tenuta di Fossanova”, apparteneva al monastero cistercense, sebbene i privernesi vi esercitassero gli usi civici. La modesta estensione dei boschi di proprietà del comune, che dovevano essere concentrati sui Colli Seiani, trova conferma nel documento all’affitto del ghiandatico comunale. Nel 1487 quando il providus vir Luciano di Francesco, locatario delle glandes comunis Piperni, sublocò per un anno il ghiandatico a Prosperus Mancinus di Carpineto, il canone richiesto ammontava soltanto a 15 ducati e tre porci. Non possiamo sapere se, oltre ai boschi, il comune disponesse anche di pascoli parziali. Il documento relativo all’affitto dei pascoli di Fossanova risale al settembre del 1485. La locazione dell’erbatico, investiva le terre a maggese e l’incultum dell’abazia, escluso le terre coltivate e prevedeva il libero sfruttamento dei pascoli, con la possibilità di fidare il bestiame, eccettuate però le bestie bufaline armentitie, cioè le mandrie di bufali.
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Saggio 4 Irma Naso: Spazi agricoli nel contesto urbano. Gli orti nel Piemonte tardomedievale Durante tutto il medioevo la tipologia orticola era molto diffusa ovunque e immancabile nelle aziende signorili, sia ecclesiastiche sia laiche, non meno che all’interno della media e piccola proprietà allodiale. Se l’orto si configura come elemento costitutivo dell’unità di insediamento, ragione per la quale nell’ambito della signoria rurale, lo si ritrova spesso affrancato dal prelievo sulla produzione, i terreni ortivi appartenenti alle famiglie contadine rappresentano una presenza molto elusiva, pressoché inafferrabile anche nelle fonti tardomedievali, a fronte delle molteplici attestazioni di horti nel contesto urbano. Che cosa si intendeva con il termine hortus nel medioevo? Indubbiamente indicava un appezzamento di terreno, recintato, adibito alla produzione di erbe e piante destinate alla tavola, ma anche agli usi medicinali. Tale realtà colturale, che si presentava con caratteristiche diverse per dislocazione, estensione, proprietà, tipo di conduzione e finalità, poteva essere definita anche con altre voci, tra cui quella di curtilis, che in ambito sabaudo-‐piemontese, sembra utilizzata in special modo per indicare l’orto signorile presso la corte sabauda. Quanto all’antico vocabolo gallico brolium, in Piemonte lo si ritrova unicamente nel settore orientale della regione, area che in momenti diversi conobbe la dominazione dei signori di Milano. L’esempio più tipico riguarda il grande brolo degli aromatarii, allestito a spese degli speziali e affidato alle cure di un esperto herborarius. Tale orto, voluto dalle influenti associazioni corporative dei dottori in medicina per garantire la regolare disponibilità di erbe e di piante officinali autoctone da utilizzare a scopo farmacologico, non sembra documentato per i territori piemontesi controllati dai Savoia. È possibile che l’orto degli speziali, in cui potevano crescere anche alberi da fruttiferi, debba essere interpretato come il probabile precursore dell’orto botanico: quest’ultimo, che comparirà in alcune città universitarie da metà del Cinquecento in poi, si presenta però più propriamente come collezione di piante anche esotiche, funzionale all’insegnamento universitario e alla ricerca. Non sempre l’orto si distingue nettamente da un altro spazio verde chiuso e curato dalla mano dell’uomo, indicato come iardinus. Nell’Europa dell’alto medioevo le due tipologie appaiono infatti largamente assimilabili, tanto nelle curtes carolinge quanto in ambito monastico dove l’orto, o giardino, “dei semplici” tradizionalmente non solo riforniva la mensa comune e l’infermeria, ma fungeva anche da luogo di piacere per l’anima, sul modello del “locus amoenus”. Nella documentazione piemontese di età bassomedievale poi l’orto e il giardino, lungi dal designare aree destinate a soddisfare rispettivamente bisogni materiali ed esigenze estetiche, possono in taluni casi confondersi, integrarsi o coesistere, anche se il giardino, inteso specificatamente nell’accezione attuale, viene indicato preferibilmente con il termine viridarium, vale a dire l’area verde per antonomasia. La difficoltà di pervenire a una distinzione è dovuta anche a definizioni ibride quali orto-‐giardino, orto-‐frutteto e persino viridario-‐giardino. Non è dunque corretto trasferire tout-‐court l’orto al mondo dell’utilitas, in risposta alle necessità materiali dell’alimentazione quotidiana, e il giardino a quello della voluptas, per la soddisfazione di finalità prevalentemente ricreative. La documentazione sabauda tardomedievale conferma che il viridarium non aveva soltanto una valenza estetica, ma nella sua articolata struttura ospitava alberi da frutta e pergolati di vite, accanto a fiori ed essenze ornamentali, e poteva accogliere anche voliere e ricoveri per animali da cortile. D’altra parte nell’orto crescevano non solo verdure per il consumo diretto ed eventualmente per il circuito commerciale, ma spesso anche piante fruttifere e fiori da recidere; per non parlare della presenza di animali di bassa corte, soprattutto pollame. In ambedue le accezioni si trattava di spazi polifunzionali, eterogeni per le loro caratteristiche e variamente implicati nelle strutture produttive. Il giardino e l’orto presentano comunque peculiarità proprie che li differenziano: innanzi tutto la connotazione sociale dei proprietari e, di conseguenza, la loro diffusione sul territorio, oltre all’estensione. Iardini e viridaria risultano in genere adiacenti a strutture abitative di prestigio e mediamente hanno dimensioni più estese rispetto agli orti; questi ultimi sono invece diffusi ovunque, anche a livelli socialmente più modesti, mentre la loro superficie appare di solito abbastanza ridotta. L’indeterminatezza del confine semantico tra orto e giardino, rintracciabile ancora nella documentazione tardomedievale, non impedisce di riconoscere con una certa chiarezza quantomeno la realtà orticola, mentre più problematica continua a risultare la definizione di iardinus, senza dubbio più generica: infatti a tale termine può riferirsi anche a tipologie colturali assimilabili più probabilmente all’idea di orto, ovvero a unno spazio destinato a coltivare ortaggi e legumi. Nelle campagne piemontesi l’orto è spesso uno degli elementi di colture promiscue, variamente combinato non solo con il giardino propriamente inteso, ma ancora di più con vigna, alteno, arativo, bosco, prato, canapaia. Superfici orticole tra le case Come noto le città e i borghi nel tardo medioevo si caratterizzavano per le numerose aree verdi all’interno delle mura. Abitazioni sontuose e comuni domus erano provviste di orto. Cosi questi, giardini, alberi sparsi e piccole vigne si insinuavano tra le case, accanto ai sedimi, cortili interni, stalle, tettoie e altre pertinenze contribuendo a caratterizzare il paesaggio urbano di una marcata fisionomia rurale. I centri urbani piemontesi non fanno eccezione. Nei quartieri cittadini la presenza di spazi a destinazione agricola è di solito inversamente proporzionale alla densità delle strutture abitative, per cui essa s modifica in relazione all’insediamento
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demografico: se infatti lo sviluppo urbanistico dei secoli XII-‐XIII si era compiuto inizialmente a scapito dei lotti liberi inframezzati alle case, le tendenze regressive che dal pieno Trecento in poi accomunano l’Occidente rendono nuovamente disponibili molti appezzamenti entro la cerchia delle mura. L’analisi della topografia orticola di alcune situazioni locali mostra come tale categoria colture possa diventare uno degli elementi chiave nel processo di organizzazione del suolo urbano e suburbano. Torino. Qui in particolare durante il tardo secolo XIV si assiste ad un incremento degli spazi orticoli, come evidenziano alcune fonti di natura giudiziaria, dalle quali si desume che vi crescevano alberi da frutta e, tra gli ortaggi, si coltivavano principalmente diverse varietà di cavoli, ma anche navoni, spinaci, rape e varie “bone herbe”, oltre a zafferano e legumi. Le registrazioni catastali anche nel secolo successivo mostrano una notevole diffusione degli orti all’interno delle mura. Gli estimo torinesi tre-‐quattrocenteschi elencano di solito le particelle ad orto tra i beni accessori dell’abitazione. La dimensione della superficie, nei rari casi in cui è menzionata, è in genere di modesta estensione. Nel primo centro di Torino sono attestate “domus cum orto” che appartenevano a proprietari di varia connotazione sociale e consistenza economica, compresi piccoli artigiani e bottegai, mentre le famiglie più facoltose ne avevano talora due o più, dislocati in diverse parti della città. I grandi e complessi palacia posseduti dai rappresentanti del ceto dirigente, politico e intellettuale, della città, specie del pieno Quattrocento in poi, ne avverano tra le loro pertinenze anche più di uno, in genere di dimensioni maggiori rispetto ai comuni orticelli. Il possesso di un orto in città doveva rappresentare un’autentica ricchezza per l’economia familiare. In genere conventi, confraternite e ospedali possedevano n orto contiguo ai loro edifici o nelle immediate vicinanze: uno spazio utilizzato sia per le esigenze alimentari della comunità, sia per la coltivazione di piante medicinali. Le stesse chiese cittadine vi distinguevano per lo più una superficie recintata limitrofa al luogo di culto, spesso adiacente al cimitero; ma in alcuni casi esse detenevano la proprietà di più orti concessi in affitto, non di rado a donne, che pare fossero le principali protagoniste delle colture orticole di città. Gli enti ecclesiastici torinesi avevano orti anche extra moenia, in prevalenza a ridosso delle mura. Per quanto concerne l’interno del perimetro murario, la presenza di orti era più diffusa negli isolati periferici, a minore densità abitativa, o laddove la rarefazione del tessuto urbano faceva emergere numerosi lotti non edificati. Non a caso alcuni individui, indicati come ortolani nei registri catastali del secolo XV, risiedevano in grande maggioranza, al pari dei lavoratori rurali, quali margari e vaccari, negli isolati più esterni della città, in particolare nel quartiere sud-‐orientale di Porta Marmorea. Nel primo Cinquecento a Torino si riscontrano ancora ben 190 unità orticole all’interno del nucleo urbano. Si tratta di evidente indizio della persistente crisi edilizia conseguente alla difficoltà di compensare le perdite demografiche a seguito delle ricorrenti epidemie che periodicamente si ripresentavano. Ma tale permanenza è anche inequivocabile segnale di un’economia sempre saldamente “integrata” che non poteva emarginare le attività agricole, nonostante il ruolo politico, amministrativo che Torino andava assumendo sollecitata dai duchi di Savoia. Quanto alla concimazione, operazione fondamentale per le colture orticole, la vicinanza con i quartieri residenziali molto probabilmente favoriva l’uso degli escrementi umani come fertilizzante: una pratica “tradizionale” senza dubbio discutibile sotto il profilo igienico, che non a caso alcune città come Milano vietarono formalmente dall’inizio del Cinquecento, con riferimento a tutela della salute pubblica. Era in ogni caso consueto ovunque il ricorso allo sterco degli animali allevati, merce preziosa non a caso oggetto di frequenti furti. Gli orti fuori porta Dal primo 400’ in avanti il territorio torinese conosce una continua espansione delle coltivazioni. La fascia di campagna subito al di là delle mura si riempie di prati, canapaie, modesti impianti viticoli, qualche frutteto e numerosi orti, raggruppati soprattutto nelle zone più ricche di acqua. L’importanza degli orti fuori porta era riconosciuta negli statuti cittadini almeno dal secolo precedente: una norma del 1360 allude infatti alla nomina di due guardie campestri con l’incarico specifico di sorvegliare i terreni adibiti a quelle colture. La documentazione segnala l’appartenenza di molti appezzamenti orticoli extraurbani a chiese e ad influenti famiglie cittadine, che proprio allora andavano acquisendo proprietà nei dintorni dell’abitato, diversificando così i propri interessi economici, anche con investimenti finalizzati alla rendita fondiaria. In tal modo si modificavano anche l’assetto e l’organizzazione della proprietà terriera, insieme con il rafforzamento del dominio torinese sull’area suburbana: era la stessa domanda di derrate alimentari da parte della città ad influenzare le forme di sfruttamento del suolo, contribuendo a modificare profondamente il paesaggio delle campagne circostanti. Anche a Torino “la città influiva direttamente sulle scelte colturali, finalizzandole al rifornimento del mercato urbano”. La politica di investimento in impianti orticoli doveva essere molto interessante: lo sfruttamento intensivo del suolo, abbondantemente concimato e irrigato, assicurava assieme alla coltivazione scaglionata una continuità di produzione pressoché tutto l’anno, mentre i consumi cittadini ne garantivano un sicuro assorbimento. Il vantaggio assicurato dall’orticoltura da reddito sembra comprovato dal ricorso alla locazione di orti da parte di esponenti dell’oligarchia urbana, i quali tendevano così a concentrare nelle proprie mani le terre più fertili, in molti casi appartenenti alla città o ad enti religiosi.
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L’esistenza in città di individuai indicati come ortolani, dovrebbe confermare che una parte secondaria della produzione ortofrutticola, destinata al mercato urbano, proveniva da appezzamenti a coltura specializzata, che erano di estensione mediamente abbastanza ampia e mai troppo lontani dalle stesse mura. Infatti mentre i piccoli orti domestici di città, o appena oltre la cinta muraria, provvedevano prioritariamente all’approvvigionamento di “erbe e radici” fresche per l’autoconsumo ed erano spesso affidati al lavoro femminile, la figura dell’ortolano, che poteva coltivare fondi propri oppure occuparsi della conduzione di terreni altrui, costituisce di per se stessa la prova certa di un’attività praticata come occupazione principale e perciò chiaramente indirizzata ad una più abbondante produzione per il circuito commerciale. La figura del contadino produttore di ortaggi è documentata per le località piemontesi, almeno dal 300’ in poi. Gli orti della campagna torinese erano dunque concentrati nei sobborghi appena fuori la Porta Secusina, verso occidente, ma anche sulle rive della Stura, nonché nei terreni irrigui compresi tra le mura urbane e la Dora. In quella fascia appena fuori porta avevano a loro volta un proprio orto anche chiese e comunità religiose. La concentrazione di orti privilegiava le zone pianeggianti e ricche di risorse idriche. Respinte ai margini dell’agglomerato insediativo, sul finire del Trecento le colture orticole avevano oramai saturato l’anello compreso tra la prima cerchia muraria e quella nuova più ristretta, da poco costruita, riproponendo il modello della cintura di orti: modello abbastanza consueto nel paesaggio di molte realtà urbane del tardo medioevo e non estraneo come si è osservato alla situazione torinese. Cuneo. Nel caso di Cuneo la contrazione demografica, che aveva ridotto la popolazione di un quarto, anziché liberare superfici nel concentrico creando soluzioni di continuità all’interno del tessuto abitativo, andava restituendo suolo coltivabile nella fascia estrema. Oltre alle emergenze epidemiche nel XIV secolo la villa di Cuneo si era trovata ad affrontare anche azioni belliche che ne avevano irrimediabilmente compromesso in alcuni rioni una parte consistente delle strutture edilizie, al punto di sconsigliarne la ricostruzione. I numerosi edifici diroccati avevano consentito così l’avanzata di campagne e orti: quella riconquista orticola delle rovine, che del resto all’epoca non era affatto inconsueta, determinò una metamorfosi del paesaggio urbano che si sarebbe rivelata irreversibile, complice di un prolungato trend demografico negativo. Il cosiddetto Borgato, ovvero lo spazio non abitato compreso tra le due linee di fortificazione sul lato meridionale, era ormai pressoché confuso con la campagna circostante per il suo ambiente fortemente ruralizzato e contrassegnato, oltre che da significative presenze artigianali, anche da molti terreni coltivati, con un prevalenza per l’appunto di orti. La vasta diffusione di unità orticole nella prima periferia cuneese segnala indubbiamente la loro importanza nell’economia locale, in concomitanza con una domanda più differenziata di derrate alimentari; la concentrazione degli orti nelle mani di alcuni ricchi borghigiani ne conferma poi la sicura connotazione di colture molto redditizie, con produzioni evidentemente non limitate a soddisfare il fabbisogno alimentare del nucleo famigliare, ma ancora una volta destinate anche a procacciare utili. Nel tardo 300’ a Cuneo vigevano rigide e dettagliate regole in materia di sfruttamento e ripartizione delle risorse idriche a scopo irriguo. Un fitto reticolo di piccoli canali e fossati, collegati ad alcune bealere che a loro volta provenivano dai fiumi Stura e Gesso, distribuivano acqua mediante deviazioni programmate per rigorosi turni orari, secondo una consuetudine successivamente perfezionata. Come è stato dimostrato per altre parti d’Italia, proprio la razionale e coordinata gestione dell’utilizzo delle acque per l’irrigazione, sotto il controllo della civica amministrazione, dovrebbe costituire la conferma dell’avanzato livello di qualificazione raggiunto dall’orticoltura cuneese. Colture protette Nel Piemonte tardomedievale, gli statuti cittadini e di comunità rurali riservavano agli orti privati una particolare considerazione, commisurata all’importanza attribuita a un settore produttivo, che in tutta Europa era uno dei cardini dell’economia agraria e risorsa fondamentale per l’approvvigionamento delle città. Nell maggior parte delle raccolte statutarie compaiono rubriche indirizzate a tutelare sia le strutture materiali, sia i prodotti dell’orto contro danneggiamenti e furti. Tra le norme più diffuse si segnalano l’obbligo di mantenere la proprietà “bene clausa” allo scopo di proteggerla da malintenzionati e animali vaganti. La stessa iconografia coeva rappresenta l’orto come un lotto delimitato da palizzate, steccati di canne, giunchi, vimini e rami secchi intrecciati, sarmenti spinosi, ma anche da siepi vive e più raramente da muriccioli: dunque si trattava della clausura per eccellenza, protetta in verità da barriere precarie che, all’atto pratico, si rivelavano facilmente violabili. A difesa degli orti, frutteti e di ogni altro spazio coltivato protetto da una chiusura, in quanto tipologie colturali vulnerabili, la legislazione locale fissava una serie di sanzioni pecuniarie molti dettagliate, con punizioni severe per chi ne avesse manomesso l’accesso e varcato la recinzione. Contro le intrusioni e i saccheggi notturni le disposizioni erano ancora più severe, raddoppiate rispetto alle ore diurne. Una punizione curiosa, in alternativa alla sanzione pecuniaria, colpiva ad Alba i ladri degli orti: quattro ore di gogna nella pubblica piazza, con gli ortaggi o i frutti rubati appesi al collo, una sanzione che sfruttava tutto il proprio potenziale dissuasivo ed esemplare di pena infamante. In taluni casi venivano addirittura istituiti controlli speciali per quanti, non essendo titolari di proprietà nel contado, fossero stati sorpresi a entrare in città con prodotti della terra, tra cui frutta e ortaggi che si doveva presumere fossero stati rubati. La inconsueta frequenza e la costante reiterazione delle norme in materia di protezione degli orti, fra tardo medioevo e prima età moderna, rivelano in tutta
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evidenza la difficoltà degli organi di governo locale di rendere applicative quelle stesse disposizioni, nonostante la sorveglianza delle guardie campestri e l’istituzionalizzazione del sistema delatorio, per cui all’accusatore segreto sarebbe spettata una quota dell’ammenda. Da quanto descritto, si dovrebbe trarre materia di riflessione sul ruolo che tale appropriazione indebita dei prodotti dell’orto e del frutteto doveva ricoprire in non rasi casi per i ceti più modesti come forma di approvvigionamento alimentare integrativa, più o meno diffusa, ma di fatto tutt’altro che trascurabile. L’orto signorile La documentazione lascia molti interrogativi riguardo alla superficie degli orti, le modalità della loro conduzione e la relativa produttività e non fornisce indicazioni circa le tecniche di coltivazione, le attrezzature utilizzate, le operazioni orticole effettuate secondo la scansione stagionale. Per quanto riguarda l’area subalpina, con particolare riferimento ai terreni controllati dai Savoia, dati abbastanza precisi sulle pratiche e sugli attrezzi agricoli, sul calendario dei lavori dell’orto, ma anche sulla tipologia di verdure coltivate, si possono reperire invece veri rendiconti delle spese per gli orti signorili, spese per lo più incluse nella contabilità riguardante le castellanie sabaude. Tale contabilità mostra come ai catelli piemontesi fossero annessi un orto e un giardino spesso. Gli orti dei castelli possono essere considerati come rappresentativi delle colture orticole praticate a quel tempo nei piccoli appezzamenti privati, non fosse altro che per le loro ragguardevoli dimensioni e per la disponibilità di risorse finanziarie. Anche se non vi è ragione di credere che i sistemi di coltivazione e le attrezzature utilizzate negli orti sabaudi si differenziassero sostanzialmente da quelli in uso nell’orticoltura specializzata, la disponibilità di un ortolanus signorile ne segnala un avanzato livello di organizzazione, difficilmente raggiungibile nell’orticoltura praticata a livello domestico. L’ortolanus signorile era un agente dotato di una speciale esperienza, e anche di un livello di alfabetizzazione adeguato a consentirgli di predisporre una qualche forma di contabilità, al fine di documentare le spese sostenute e, soprattutto, di denunciare la destinazione del raccolto. Alcuni “resoconti dell’ortolano” sono disponibili per il castello transalpino di Evian per gli anni 70’ del XIII secolo: di tale documentazione, la sola nel suo genere che si sia conservata, risulta che i prodotti potevano essere messi in vendita, ma anche lasciati marcire nei magazzini o addirittura non essere neppure raccolti, a dimostrazione di una certa cultura dell’abbondanza se non di un’amministrazione abbastanza malaccorta. Delimitato com’era consuetudine, da una palizzata di legno, dotata di porta con chiavistello, e difeso da un muro oppure da una barriera di pruni, l’orto signorile rappresentava un microcosmo tutto proiettato verso l’esterno, nel quale trovavano spazio anche magazzini e baracche di servizio, uomini e animali, rispettivamente con i loro capanni e i loro ricoveri; vi si svolgeva un’animata vita “rurale” che per gran parte dell’anno si sviluppava all’aria aperta. L’orto di Pinerolo, località di residenza privilegiata dei principi Savoia-‐Acaia per oltre un secolo, nel primo 300’ accoglieva una colombaia, dalla quale veniva prelevato il concime per le “tavole” coltivate, oltre a un rustico con copertura di paglia, che fungeva da ricovero per l’ortolano stesso, da deposito per gli attrezzi, nonché da magazzino per conservare le cipolle. All’orto del catello di Torino è legata inoltre la figura del falconiere, il quale occupava una baracca a fianco del pollaio, quest’ultimo costruito in tronchetti di castagno, ospitava le galline e i pulcini che dovevano nutrire i falconi del principe, e forniva anche pollina, usata come fertilizzante. Erbe, radici e piante aromatiche, in particolare salvia, prezzemolo e maggiorana, andavano a rifornire le cucine di corte con una certa regolarità. Ma gli ortaggi potevano essere immessi anche sul mercato, al pari degli stessi legumi, talora prodotti in grandi quantità. Agli e cipolle, al pari dei cavoli, dovevano essere tra gli ortaggi più coltivati presso le residenze sabaude, sia perché si prestano a colture distribuite nel corso dell’intero anno, sia perché possono essere conservati facilmente per un tempo abbastanza lungo. Tra i prodotti autunnali che non imponevano un consumo immediato, si segnalano anche i porri. Una presenza fissa negli orti signorili era rappresentata poi dai pergolati di vite, ma vi crescevano anche salici e canneti, oggetto a loro volta di assidue cure, in quanto gli uni e gli altri fornivano insostituibili materiali per alcune essenziali operazioni orticole: i vimini infatti servivano per fissare i tralci delle viti, oltre che per legare tra loro le canne intrecciate a creare graticci e steccati. Tra le spese disposte dai castellani sabaudi per i lavori dell’orto, in primo luogo compariva la quota ordinaria per il compenso annuale dell’ortolano, cifra che rappresentava l’esborso più cospicuo. Non indifferenti erano le somme per le sementi o per ripristinare le precarie recinzioni. Un'altra spesa impegnativa riguardava inoltre la provvista di letame da impiegare come fertilizzante, non essendo mai quasi sufficienti le pur abbondanti scorte di stallatico prodotto dalle scuderie, colombaie e pollai. Onerosi erano anche i costi della manodopera salariata, reclutata nelle fasi di più intensa attività agricola. Lavoratori a giornata erano ingaggiati per la vangatura, ma soprattutto per la sarchiatura, operazione lunga e delicata quasi sempre affidata a manovalanza femminile: le donne oltre a estirpare pazientemente le erbe infestanti fra le colture, non di rado erano adibite anche al trasporto della terra nuova che serviva per rigenerare il terreno prima della piantagione, nonché al trasferimento del concime dalle stalle all’orto, mediante grandi ceste.
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Saggio 5 Giovanni Cherubini: Le élites economiche e politiche tra campagna e città Può essere definito d’élite chi appartiene appunto all’élite, chi è distinto, superiore. Costituiscono delle élites le persone che occupano il primo posto, sia per la loro formazione che per la loro cultura. Ma il significato di élite è ampio e indeterminato, implicante l’idea del distacco dei pochi dai più. Il termine si può usare, più propriamente per il Cherubini, per alcuni aspetti o settori della società. Così può essere impiegato per indicare l’élite mercantile o bancaria, l’élite ecclesiastica, l’élite del sapere, ovvero i maestri delle università, oppure per indicare le élite della ricchezza e del denaro, cioè le poche famiglie e individui che si distaccano nettamente dal resto della popolazione, benestanti e ricchi compresi, oppure per indicare l’élite politica, cioè coloro che per la posizione reale occupata nel governo della città o dello Stato territoriale si distaccano dal resto dei cittadini che godono di diritti di governo in misura per così dire normale. Il significato complessivo di élite che qui ci interessa evoca dunque un gruppo ristretto, rispetto al complesso della popolazione, un gruppo che si distingue per la ricchezza, gli interessi, gli orientamenti e gli ideali, il prestigio sociale, le relazioni, le clientele, le attività economiche, le tradizioni familiari e la consistenza della stessa famiglia. Consistenza per un numero di maschi adulti, cioè in grado di portare le armi, perché questo fattore nelle litigiose città dell’Italia centro-‐settentrionale, costituiva un elemento di grande rilievo nel gioco politico cittadino. Per quanto variabile nel tempo e nello spazio. Quello appena tracciato è il profilo delle grandi famiglie magnatizie, che fattesi grandi in città, attraverso la mercatura e della banca, rifluirono poi, almeno in qualche misura, in contado acquistandovi beni fondiari e signorie e lentamente mutando status e comportamenti. Essendo il convegno dedicato alle campagne dell’Italia centro-‐settentrionale dal XII al XIV secolo, con un sottotitolo che richiama alla costruzione del dominio cittadino l’intervento del Cherubini cerca di chiarire o almeno enunciare in qual modo le élites economiche e/o politiche operanti tra campagna e città abbiano favorito oppure ritardato quel processo, oppure lo abbiano in qualche modo sfruttato. Identificando preliminarmente le élite cittadine distinte da quelle campagnole abbiamo da un lato, le famiglie che dalla loro importanza, godevano o godettero, sino ad un certo momento, di diritti signorili, più o meno larghi, nei territori che circondavano la città, se si vuole definibili come una élite politica, in mezzo alle popolazioni su cui le città e poi gli stati territoriali nati o nascenti all’ombra dei centri urbani maggiori imposero progressivamente le differenti forme del loro potere. (Forme che possiamo comprendere tra i due casi estremi della sopravvivenza integrale dei poteri signorili locali temperata dall’obbligo di fedeltà alla città o stato territoriale più o meno dominante, da un lato, e dalla distruzione totale di quei poteri dall’altro). Alla lunga resistenza cittadina si accompagnò una qualche forma di obbligata integrazione con il mondo cittadino da parte di queste élite di campagna. Questo avvenne attraverso il riconoscimento della supremazia politica cittadina, espresso in un rapporto sostanzialmente feudale, garantito da un giuramento e dei relativi obblighi, ed altrettanto concretamente attraverso un comportamento e relativi patti riguardanti il movimento di uomini e merci attraverso le campagne, l’integrazione avvenne anche per altra via, sia perché quei signori delle campagne, che non erano necessariamente e sempre i più importanti o i più nobili, si spostarono nelle città e là partecipando al gioco politico riuscirono a farsi signori, sia perché alcuni di quei signori e di quelle famiglie, indipendentemente dal loro più o meno recente conseguimento del loro status e del connesso potere, vedi i Malatesta e i Montefeltro, aggiunsero a questa ascesa la pratica del mestiere delle armi con truppe appositamente raccolte al servizio delle maggiori formazioni statali come Venezia, Milano o Firenze. Ma persino i più attaccati ai luoghi di origine, che appartenevano spesso alle famiglie di rango feudale più elevato e di più lungo esercizio del potere politico locale, vennero in qualche modo in contatto con le città, contraendo alleanze matrimoniali, intrecciando legami di affari, diventando clienti di banchieri. Per completare il quadro non si deve dimenticare il movimento inverso, quello cioè del riflusso, senza abbandonare del tutto la residenza e l’operatività politica anche in città, di quelle famiglie magnatizie che si costituirono delle signorie nel territorio, più o meno in accordo con la città. Più difficile da definire e da misurare è l’élite che potremmo dire cittadina o prevalentemente cittadina , soprattutto se la si considera nella prospettiva del lungo periodo al quale si riferisce il convegno. Ammesso che questo sia possibile, senza perdere la specificità presentate dalle élites dei diversi centri urbani, città marinare e città di terra ferma, grandi città e piccole città, centri di forti o specifiche produzioni manifatturiere e centri che potremmo dire di connotati più ordinari, e senza dimenticare che le diverse élite cittadine cambiarono anche nel corso del tempo. Per quest’ultimo aspetto come si possono, ad esempio, accostare gli evidenti e crescenti processi oligarchici che si andarono verificando, di fatto o formalmente, nei governi di diverse città, Venezia, Firenze? Quella che comunque, convenzionalmente chiamiamo in questa sede élite urbana, era costituita, almeno dal punto di vista economico, dallo strato più alto della borghesia e, da un certo momento, da quello che molti, mutuando poco opportunamente il termine dalla storiografia europea, amano chiamare il patriziato urbano. In questa élite possiamo inserire sii la vecchia, per quanto non larga, nobiltà, sia la nascente nuova nobiltà
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gravitante intorno alle corti signorili. Più difficile è stabilire quando l’élite economica coincidesse con l’élite politica. Tuttavia nei pochi casi in cui si disponi di significativi dati statistici qualcosa di preciso è possibile sapere. Valga il caso, particolarmente fortunato oltre che collocato un po’ fuori il confine cronologico cui facciamo riferimento, dei dati offerti dal Catasto fiorentino del 1427 per una delle città più ricche ed attive d’Italia, già sulle soglie o agli inizi del lento affermarsi della signoria larvata dei Medici. Entro le mura di Firenze abitavano quasi diecimila “fuochi”, per un totale di più di 37.000 abitanti. Essi disponevano di una fortuna mobile pari a quasi sei milioni di fiorini e di una fortuna totale di oltre dieci milioni, che costituisce un impressionante ammontare di ricchezza. Nel contado abitavano 26.000 fuochi, pari a quasi 127.000 persone, nel distretto un po’ più di 23.000 fuochi pari a oltre 99.000 persone. La fortuna mobiliare superava appena, nelle due zone, cioè nello Stato, che pur comprendeva città e vari centri , un milione di fiorini, la ricchezza globale quasi 5 milioni, vale a dire che la fortuna mobiliare era un sesto di quella di Firenze, e la ricchezza globale arrivava alla metà della città. Queste cifre sembrano abbastanza chiare per mettere in rilievo una diversissima composizione della ricchezza, statisticamente non scalfita dalla presenza di tanti cittadini di modesta o modestissima condizione dentro le mura della capitale. Ma la cosa impressionante e che a Firenze abitava una popolazione che era solo il sesto di quella del contado e del distretto. E la stessa detrazione imponeva ai cittadini cifre molto più alte rispetto a quelle del contado e del distretto. L’1% costituito dalle famiglie più ricche ( un centinaio in complesso) disponeva di un quarto della ricchezza totale della città, pari ad un sesto della ricchezza dello Stato! Da sola la quota di ricchezza di quel centinaio di famiglie superava la quota spettante all’87% dei contribuenti urbani. Le 3.000 famiglie fiorentine più ricche, pari al 5% del totale, detenevano da sole più ricchezza degli altri 57.000 contribuenti dello Stato fiorentino. Nelle campagne possiamo genericamente dire che l’élite cittadina manifestava, in modo appariscente, il suo potere economico e politico nel controllo della proprietà della terra, la terra migliore e più vicina al centro urbano, ad anche dell’allevamento, nella pratica del credito a privati e a comunità locali, nell’imposizione a quelle comunità di una politica annonaria, ed anche attraverso la presenza o l’influenza nei governi cittadini, nella creazione di nuovi abitati, nella distribuzione dei mercati, nella politica stradale e della sicurezza, negli orientamenti delle bonifiche, nell’amministrazione della giustizia, talvolta nella proprietà di signorie dotate di qualche livello di giurisdizione, e sempre in una diffusa manifestazione di superiorità culturale e di effettivo esercizio di clientele nei riguardi delle popolazioni locali. Questi poteri delle élites vanno inseriti in un contesto più ampio, vale a dire della complessiva conquista politica ed economica della campagna da parte della città. Conquista alla quale parteciparono, in maniera più limitata, anche i ceti borghesi, artigianali e professionali del centro urbano. A quella conquista si accompagnava la riduzione crescente della proprietà contadina, contribuirono anche i signori di rango minore, i ceti benestanti o i semplici proprietari che facendosi cittadini mantennero proprietà e interessi in contado. Al dominio delle città e ad una crescente integrazione tra città e territorio dettero infine un loro contributo quelle particolari élites economiche, in qualche misura culturali, presenti nei maggiori centri del territorio ai quali la città dominante o l’incipiente Stato territoriale decise di lasciare l’esercizio di qualche potere locale.
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Saggio 6 Gabriella Piccinni: La politica agraria delle città Riflettere sulla politica agrari delle città dell’Italia centro settentrionale nei secoli dal XII al XV significa aderire a uno schema concettuale bipolare (la città e la campagna) e unidirezionale (dalla città alla campagna). La storiografia oggi si è mostrata più promettente quando si è occupata dell’articolazione dei poteri e dei processi politici di quanto non abbia fatto per quello economici e rurali, con il risultato che la descrizione degli effetti ( cosa succedeva, di contingente o strutturale, nei campi o nelle città italiane) non riesce sempre a connettersi con l’analisi delle motivazioni ( perché e per chi succedeva), nel nostro caso relegando di nuovo in ombra se, quanto e come il potere urbano, mediando tra i poteri economici e interpretando variamente le volontà dei ceti sociali, provasse a modificare e a indirizzare il sistema agrario. Utilizzando le fonti la Piccinni ripercorre la documentazione pubblica in crescita che, almeno dal pieno Duecento, fu prodotta dalle amministrazioni cittadine italiane e che ci consente di conoscere i provvedimenti messi in essere per controllare o disciplinare prima di tutto il sistema del rifornimento e la rete distributiva ( cioè soprattutto i sistemi di trasporto dalla campagna e di conservazione, l’organizzazione della vendita dei cereali e degli altri prodotti) ma anche per provare a orientare la produzione della terra, per regolamentare taluni aspetti del lavoro contadino, per controllare certi caratteri dei rapporti tra proprietari e lavoratori e per intervenire sul costo del lavoro. Vediamo quali furono le principali materie regolamentate dalle città:
1) Per l’organizzazione del sistema annonario, basta ricordare che, mentre verso il mercato urbano convergeva buona parte dei prodotti agricoli, la città si poneva come la sede delle direttive sulla distribuzione. Rispetto alle carestie tutte le città più grandi, e dunque più esposte all’azione degli speculatori, al rischio della fame e delle tensioni sociali interne, misero a punto leggi eccezionali. Un sistema noto era quello di predisporre i monti del grano, cioè tassare i cittadini per ottenere denaro bastante a importarne, al bisogno, dalle aree più produttive oppure laddove i prezzi erano più bassi. Le città impararono anche la pratica di conservazione e di stoccaggio nei granai e nelle fosse e quella di scacciare fuori dalle mura e talvolta addirittura di deportare gruppi di abitanti considerati “bocche inutili”, quali i forestieri o le prostitute o i mendicanti, per abbassare i consumi.
2) Se escludiamo dal ragionamento le politiche del popolamento, pur centrali, per governare l’agricoltura e per conservare e potenziare quella manodopera che era il principale strumento di lavoro e fonte di ricchezza per i cittadini, che nelle aree più urbanizzate, si avviavano a detenere la maggior parte della proprietà terriera, occorre almeno ricordare gli sforzi per asciugare acquitrini e mettere a coltura la terra, periodicamente rinnovati, e gli incentivi per coltivare tutto lo spazio che era coltivabile e necessario. Importante era anche le risposte che certe città dettero allo spopolamento e all’avanzata dell’incolto. Per formulare queste risposte le città intrecciarono complessi e qualche volta conflittuali rapporti di potere, economico e politico, con i signori del territorio e con le comunità contadine che in più dio un caso tentarono anche di ricontrattare i diritti d’uso sulla terra.
3) Passando agli interventi sulla qualità delle coltivazioni, un accenno meritano gli obblighi di fare orti o vivai, soprattutto per le aree urbane o suburbane, e la tradizionale disciplina sull’uso del bosco e di raccolta e commercio della legna e la salvaguardia degli argini, ricordando il rimboschimento e la promozione delle essenze adatte a far carbone, talvolta sottoposto a licenza di esportazione, o a costruire case o navi. La Piccinni poi si sofferma sui molti statuti duecenteschi che consentivano l’importazione del vino, facendo intendere come in quel tempo il rischio che si voleva evitare fosse semmai quello che la produzione locale non bastasse agli alti consumi urbani. Di fronte al calo della domanda invece molte città scelsero di tutelare gli interessi dei viticultori dalla concorrenza dei vini forestieri, a meno che questi non fossero di gran pregio e rispondessero ai gusti dei ceti superiori. Inoltre, pur nella solita varietà delle situazioni locali, alcune città iniziarono a imporre ai contadini nuove colture arboree o a imporre l’utilizzo di cereali inferiori per aggiungere al consueto raccolto, un supplemento, destinato a difendere la popolazione più povera. Fu anche sotto lo stimolo di una legislazione che da metà Trecento appoggiò la diffusione di patti mezzadrili, che i proprietari di poderi delle città di Toscana, Emilia, Umbria allargarono la coltivazione promiscua, e la politica li sorresse emanando ripetute disposizioni che obbligavano i lavoratori a piantare alberi da frutto, olivi, mandorli: la legge mentre accompagnava le modifiche del paesaggio, stimolava all’autosufficienza, individuale e collettiva, perché vivere del proprio era ritenuto conveniente e decoroso sia per il privato cittadino che per l’intera comunità, e dunque al di la delle stesse intenzioni, alla contrazione del mercato entro confini locali.
4) Una ricerca a tappeto nelle fonti deliberative e normative, potrebbe fornire dati su tempi e modi delle politiche di indirizzo verso le piante industriali, come robbia (che tingeva di rosso) e il guado (che tingeva di azzurro, lo zafferano (che tingeva di giallo), gelso per l’alimentazione del baco da seta, scotano, canapa, lino. Tra questi spunti alla Piccinni pare interessante offrire la storia del guado, in
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sensibile sviluppo da metà 300’ in alta tiberina, in Toscana e nel Genovese, poi in Lombardia e Emilia, incoraggiato dalla mutata domanda interna per la tintura dei tessuti in azzurro, dal fatto che lo si poteva coltivare in rotazione agraria tra la mietitura e l’aratura. Il guado, la cui coltura venne in certi casi incentivata dalle città e la cui esportazione fu, comunque, ben controllata attraverso interventi protezionistici, entrò anche nella politica dei Visconti di sfruttamento fiscale delle risorse industriali dei territori. Il guado è un esempio di come il sostegno pubblico ad una coltura si potesse saldare ad interessi economici e finanziari di vario tipo (del fisco, degli artigiani e dei mercanti). Poi, dato che preparare i “panni di guado” richiede molta manodopera, questo comportò una sorta di “industrializzazione” e una modifica abbastanza strutturale degli assetti sociali delle aree di coltivazione intensiva del prodotto.
5) Centrali sono poi le politiche di regolamentazione del lavoro agricolo. Gli statuti urbani garantivano la proprietà e le sue rendite, istituendo guardie segrete contro i furti di messi, punendo il taglio doloso delle vigne, imponendo alle comunità di adoperarsi per arricchire le coltivazioni, stilando elenchi di operazioni alle quali il contadino era obbligato prima della semina che sembrano dei trattati di agricoltura, disciplinando il calendario agricolo, con bandi per l’avvio della vendemmia, mietitura e semina, concedendo l’impunità dei debiti o di proseguire il lavoro in notturna, segno del riconoscimento dell’utilità sociale del lavoro della terra; affermando il diritto del padrone di sorvegliare i lavori di trebbiatura, vendemmia, vangatura e aratura e di essere avvisato con anticipo del loro inizio, prodotto dell’impostazione elaborata dal diritto romano che considera la locazione parziaria, così diffusa nelle campagne italiane, come un rapporto di società tra lavoratore e padrone.
6) L’impronta padronale è ben più evidente nella ricca normativa cittadina in materia di contratti agrari, scopertamente interessata a quelli stretti tra comitatini e proprietari cittadini, che regolò le modalità delle disdette, la restituzione delle terre, il pagamento dei canoni, pretese che il contadino desse precedenza al lavoro nella vigna padronale rispetto alla propria, e richiese che operasse in buona fede, cioè con lealtà nell’osservanza sia dei patti che aveva accettato esplicitamente sia degli accordi consuetudinari pena anche la rescissione. Questa lealtà era proposta come principio guida del comportamento del lavoratore. La politica, che si era occupata a lungo dei rapporti tra città e campagna, entrò poco a poco anche nella gestione dei rapporti diretti tra cittadini come proprietari della terra e contadini come coltivatori della stessa. La legge scendeva in campo per dirimere il conflitto di interessi tra le parti, esistente anche in precedenza, ma ben documentato soprattutto nella fase tardo trecentesca attraverso un braccio di ferro clausola per clausola. Allora gli interessi privati dei proprietari, come gruppo sociale, sono presentati come interessi della collettività.
7) Anche il tema del salario, venne alla ribalta nel 300’, quando !andare giornata” era meglio retribuito, almeno fino a quando molte città, anche su questi apportarono contro misure, vigilando con articolati tariffari contro il lucro incongruo che faceva abbandonare i campi; fissando massimi e mai i minimi salariali. La città si attivò per rendere più solida la posizione del padrone quando un rinnovato conflitto gli opponeva il suo lavoratore, quando i suoi interessi coincidevano con quelli dei proprietari prendeva invece le parti di quest’ultimo contro le comunità.
Insomma i problemi delle campagne erano di casa in città. Città che si attivarono per controllare le prime, sfruttarle, incentivarle. Città che alle prime, dovevano gran parte della propria sussistenza.
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Saggio 7 Silvio de Santis: Azione politica ed economica della Camera Apostolica ai confini meridionali dello Stato della Chiesa tra Due e Trecento: il caso di San Paterniano e del territorio cepranese. Il contesto documentario del Lazio meridionale non è particolarmente ricco di fonti in grado di illustrare in modo ampio e articolato la vita economica e sociale delle popolazioni che nell’arco del medioevo abitavano la regione. Ma alcune situazioni fortunate permettono di ovviare a tali limiti come nel caso di un registro custodito presso l’Archivio Segreto Vaticano. Il quaderno, conservato all’interno della serie delle Collectoriae, è un prezioso strumento in grado di descrivere in maniera esaustiva le vicende produttive di un’azienda religiosa e del territorio su cui insisteva, nel quarto decennio del XIV secolo. Si tratta per la precisione della chiesa di San Paterniano sita presso Ceprano ai confini meridionali dello Stato della Chiesa. A partire dal XII secolo, infatti, la chiesa capranese diventò una preziosa carta della politica pontificia giocata in quest’area proprio nel momento che vedeva il papato a gettare le prime timide basi di un controllo del territorio circostante Roma. Nella fase più antica (1173 circa-‐ 1296) la chiesa venne concessa in gestione all’ordine templare e divenne un prezioso strumento per difesa e il controllo della frontiera meridionale del nascente stato a presidio della via Latina, fondamentale strada che metteva in comunicazione Roma e Napoli nel medioevo. Nel corso del successivo trentennio la chiesa ritornò nelle mani della Camera Apostolica che ne concesse i frutti ad una serie di prelati di curia, successivamente la gestì attraverso al curia provinciale di Campagna e Marittima nella persona del Tesoriere provinciale e di un nutrito gruppo di collettori locali che si occupavano degli affari in loco. In relazione a quest’ultima fase è rimasta una preziosa testimonianza nelle carte di un registro camerale che conserva le informazioni sulla gestione del patrimonio rurale tra gli anni 1329 e 1337. Il documento contiene informazioni dettagliate riguardanti la gestione del patrimonio fondiario di San Paterniano comprendente le entrate in natura e in denaro ( i canoni in natura delle terre date in concessione ai laboratores locali, le decime riscosse e i cereali macinati nei mulini di proprietà della Camera Apostolica, i donativi e le operae) e le uscite (le spese per la manutenzione del mulino, dei granai e per il sostentamento delle persone incaricate alla gestione di tali beni). La chiesa Le fonti a disposizione scarse e frammentarie permettono di analizzare solo alcuni momenti della sua storia. Non conosciamo, ad esempio, la data della sua fondazione e non conosciamo il processo che ha consentito la formazione del suo patrimonio. È da aggiungere che la chiesa oggi non esiste più e non è possibile sapere con precisione quando sia stata abbandonata. L’edificio sorgeva lungo il percorso della via latina sulla riva destra del fiume Liri appena fuori dall’abitato cepranese. La chiesa sembrerebbe abbandonata già alla metà del secolo XVII al tempo di Antonio Vitagliano, prelato cepranese che descrive la chiesa al passato. L’importanza di san Paterniano era legata al controllo economico esercitato dalla Camera Apostolica sui beni in suo possesso ( le terre ed il mulino) e al ruolo politico-‐strategico che le fu attribuito nel corso degli anni. L prima menzione della chiesa risale al 1097 quando San Paterniano è descritto come un monasterum canonicarum. Negli anni successivi si ha menzione solo di un ecclesia governata da un arci canonico dipendente direttamente dal papato romano e autonomo dal presule verulano. La sua posizione geografica ai confini dello Stato della Chiesa la vide protagonista di alcuni importanti avvenimenti: nel 1114, quando Pasquale II conferì l’investitura del Regno di Sicilia a Guglielmo d’Altavilla o nel 1144, quando si svolsero le infruttuose trattative di pace tra Lucio II e Ruggero II. Ma il momento più eclatante per la sua storia è segnato dalla donazione che Alessandro III fece nel 1173 all’ordine dei Templari della chiesa con tutti i suoi possedimenti. Questa oltre ad essere la prima donazione diretta di una chiesa all’Ordine da parte di un pontefice in Occidente rientrava nel proposito di controllo della frontiera e delle comunicazioni con il Meridione, di cui Ceprano ed il suo territorio rappresentavano un caposaldo imprescindibile. I templari abbandonarono la chiesa tra il 1269 e il 1296. A questa data San Paterninao ritornò sotto il controllo diretto della Camera Apostolica che iniziò a concederne le rendite ad alcuni alti prelati della curia romana. Nel primo trentennio del XIV secolo la chiesa passò di mano in mano ad almeno altri 7 individui diversi, tra i quali si segnala Giacomo Colonna che ottiene la chiesa nel 1316 fino alla sua morte nel 1318 ad Avignone. In questa fase la gestione e la cura dei beni rimase nelle mani della Camera Apostolica attraverso il tesoriere provinciale. Dopo il 1337 si perdono le tracce e le notizie della chiesa fino ad un ultima informazione nel 1373, quando i beni della chiesa sono concessi dietro un censo di 30 fiorini l’anno a Gilberto de Montillis. Le terre e le colture Sono questi gli anni cui fa riferimento il registro camerale di cui abbiamo accennato in precedenza (1329-‐1337). La chiesa di San Paterniano, nel periodo in esame, possiede un patrimonio terriero situato principalmente nel territorio di pertinenza del castrum di Ceprano, soprattutto lungo il corso del Liri. Il territorio di Ceprano si trova alla confluenza tra il fiume Liri r il fiume Sacco, nel cuore della pianura estesa del Lazio interno. Il centro abitato,
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l’unico dell’area a non essere arroccato sulla cima di un colle, sorge sull’ansa del Liri, bagnato da tre la ti da questo. La superficie pianeggiante e la presenza di numerosi minori oltre ai citati fiumi, favoriva le pratiche agricole ma poneva seri problemi per il controllo delle acque e favoriva la formazione di aree paludose che divenivano un veicolo per la diffusione della malaria, la cui endemicità ridusse la popolazione locale in maniera considerevole a partire dalla metà del XIV secolo. I possessi principali di san Paterniano si collocavano lungo il corso del Liri, a monte di un centro abitato su entrambe le rive ed erano destinati alla produzione policolturale dove accanto ai cereali, frumento in particolare, troviamo anche le colture tessili e le leguminose. Stesso destino anche per le terre poste tra un filare e l’altro del vigneto dove si seminavano cereali e leguminose. Si trattava di terreni articolati la cui messa a frutto si realizza attraverso la concessione delle terre a residenti di varia estrazione sociale che sono tenuti a versare canoni in natura in quote proporzionali o fisse rispetto al raccolto. La completa trasformazione delle prestazioni d’opera in censi monetari è un elemento a riprova dell’assenza di terre dell’assenza di terre gestite in economia. la curia rettorale pur sembrando disinteressata a gestire direttamente le terre di san Paterniano, manifesta un interesse nella scelta delle colture da praticare, come evidenza la grande varietà di cereali e di leguminose che vengono seminate in campo. Risulta un quadro complesso e articolato della produzione che potremmo definire di sussistenza creativa, incentrata soprattutto sulla cerealicoltura, ma nella quale trovano ampio spazio anche le leguminose, le colture tessili e la vite. Pur possedendo terre dalle caratteristiche produttive buone, appare chiaro come nemmeno il più piccolo fazzoletto di terra possa rimanere non lavorato e non messo a frutto. Per un rapido raffronto percentuale sui canoni versati nell’arco del periodo preso in considerazione (1329-‐37) il frumento rappresenta il 70% del totale, seguito dalla spelta al 12%, dall’avena all’8% e dall’orzo al 5%; il miglio e il sorgo superano di poco il 3%, il residuo 2% è costituito dalle leguminose, prime tra tutte le fave e i mochi. Tutto lo spaccato produttivo così delineato è da collegare alle scelte della Tesoreria provinciale di Frosinone che preferiva avere quote maggiori del cereale più pregiato da destinare al consumo dei suoi funzionari e forse al mercato romano, ma che imponeva la semina su superfici non marginali di cereali meno pregiati e di leguminose da destinare all’alimentazione umana e animale. In questa maniera si realizzava un progetto economico in grado di coltivare nei campi ceprenesi ogni anno otto specie di cereali e dieci leguminose. L’abbondanza di acque permetteva di coltivare intensivamente i terreni, senza che la produzione ne risentisse dal punto di vista quantitativo. Poi vi erano delle parcelle a destinazione policolturale intensiva denominate starze. Queste terre, definite anche orti, non erano delle vere e proprie clausure nel senso tradizionale del termine, m spazi cui erano destinate le stesse cure e attenzioni loro riservate. Fiore all’occhiello della proprietà di San Paterniano, le starze sono gli unici spazi per i quali venga richiesto un canone della metà del raccolto. Destinate prevalentemente a una cerealicoltura intensiva, al loro interno ospitavano anche le colture tessili, i legumi, i prodotti dell’orto, ed è testimoniata anche la presenza di alberi da frutto (peri, fichi, noci). Altro elemento di non secondaria importanza per l’economia locale è costituito dalla diffusione delle colture tessili. Lino e canapa erano coltivate su terre basse, ricche di fossi e di acque sorgive, quasi tutte in prossimità del Liri. In raccolti trasformati in loco, erano utilizzati per soddisfare le esigenze della chiesa come panni, sacchi, funi, capestri per cavalli. Vi è anche un interesse limitato per la viticoltura e quasi un totale disinteresse per l’olivicoltura. La chiesa controllava nel territorio Ceprano due mulini. Questi venivano affittati ogni anno dietro un canone di 80 tumuli di grano. San Paterniano non possedeva un granaio ma aveva in affitto alcuni edifici di cui curava la manutenzione. Le quote pagate per la gestione indiretta erano in natura, proporzionali o fisse. I canoni richiesti per i cereali maggiori oscillano tra la metà e la terza parte, ma si presentano anche casi di richieste lievi, fino all’ottava o alla quarta parte. Lo stesso avveniva per le leguminose e i cereali minori. Nelle terre soggette ad uno sfruttamento più intensivo, le startie, la richiesta della curia rettorale è precisa e sembra non lasciare dubbi sull’effettiva produttività di queste terre; qui i concessionari sono tenuti a consegnare la metà del raccolto. Il Tesoriere provinciale amministrava i beni cepranesi. Alcune osservazioni sul commercio dei cereali La gestione dei raccolti cerealicoli e la loro destinazione finale offre spunti di riflessione in relazione alla situazione politica ed economica della regione che nel decennio 1329-‐1337 attraversa u periodo difficile. Nel Lazio la grande crisi di metà secolo è preceduta da carestie che si ripetono a intervalli decennali. I dati che emergono dalle carte sono inequivocabili (si riferiscono al triennio 1329-‐ 31 e al 1337): i raccolti sono utilizzati soprattutto per i bisogni della curia rettorale o dei funzionari locali, come il castellano di Acquapuzza, in parte destinati al mercato locale e forse per soddisfare le richieste del mercato romano. Sembra emergere comunque una gestione dei raccolti attenta, quando è possibile a costituire scorte ma soprattutto a destinarle all’autoconsumo della piccola struttura burocratica provinciale. Il livello di commercializzazione appare modesto.
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Saggio 8 Massimo Montanari: la satira del villano fra imperialismo cittadino e integrazione culturale Imperialismo e integrazione: le due facce del rapporto città-‐campagna nei secoli centrali del Medioevo. Strettamente intrecciata agli aspetti politico istituzionali ed economico-‐sociali, la dimensione culturale del fenomeno non è meno importante da studiare, e anch’essa si muove nel segno di una forte ambiguità. Da un lato essa esprime il dominio della città sulla campagna, che nella fattispecie significa la costruzione di un modello ideologico di de-‐valorizzazione del contado e del contadino. Dall’altro, essa evidenzia la costruzione di un tessuto comune, che integra fortemente la cultura rurale in quella cittadina. Punto di partenza delle considerazioni di Montanari è la “satira del villano”, con riferimento a Merlini, il primo sullo sorcio del XIX secolo, a occuparsi dell’argomento, che raccolse una grande quantità di testi importanti, se non per il loro valore letterario, almeno per la luce che possono portare alla conoscenza dei rapporti fra le diverse classi sociali. Ma le contestualizzazioni storiche di Merlini sono generiche e talora ingenue. Lo osservava già Augusto Lizier. Merlini partiva da una bipartizione di fondo tra una corrente “negativa” e una “positiva” delle descrizioni letterarie di rustici e villani. Lizier insiste piuttosto sulla bipartizione tra una corrente “aulica” e una “cittadina”: la prima, prevalente fuori dall’Italia, espressione di un conflitto sociale tra signori e contadini; la seconda, tipica dell’Italia, espressione di un conflitto tra cittadini e contadini. Il fatto è che nella variante italiana, ossia cittadina, la satira del villano assume una connotazione di natura economica assolutamente originale. Il contadino continua a essere bestiale, immondo, immorale, ricettacolo di ogni vizio; ma soprattutto, diventa ladro. Il che implica una nozione diversa, tipicamente cittadina e “borghese”, dei rapporti con il mondo delle campagne. Rapporti di proprietà più che di potere. Di profitto più che di dominio. Diversi storici, in anni più recenti, hanno proposto nuove e più fini interpretazioni della “satira del villano”, inserita, in un contesto più preciso, sia cronologico, sia culturale, sia geografico: se il luogo d’elezione di questi studi è stata la Toscana, non è solo perché toscani sono la maggior parte dei testi in questione, ma anche perché quella dimensione (il rapporto e il conflitto tra città e campagna) emerge con particolare chiarezza nella Toscana mezzadrile, cioè cittadina. Il primo riferimento è a Giovanni Cherubini, che fin dall’inizio delle sue ricerche sulla società e l’economia rurale del pieno e basso medioevo prestò grande attenzione a valorizzare le fonti narrative a supporto della documentazione d’archivio. Cherubini è stato maestro nella sapienza di utilizzazione di queste fonti, lette come specchio della conflittualità ma anche dell’integrazione fra città e campagna, delle tensioni economiche e sociali di un mondo in trasformazione, che metteva il proprietario e il contadino a più stretto contatto e consentiva al contadino rapporti nuovi con la città, pur in una situazione di persistente subalternità: temi che costituiscono uno degli apporti più fecondi della storiografia contemporanea alla storia del medioevo italiano. Nel frattempo, anche gli storici della letteratura hanno continuato a lavorare su queste fonti. Dopo le felici incursioni medievali di Piero Camporesi, è significativo che il tema Città e campagna, in grandissima parte dedicato all’immagine del contadino nella letteratura cittadina e dunque alla satira del villano, sia stato incluso nel quinto volume della Letteratura italiana Einaudi (1986) con una approfondita analisi di Michel Plaisance, che in buona parte ripercorre i temi e le fonti di Merlini, collegandoli però, in modo più consapevole e avvertito, ai risultati del lavoro storiografico a cui è stato fatto riferimento. Su questa linea Montanari crede sarebbe opportuno lavorare e prova a indicare alcune possibili linee di ricerca. In primo luogo, costruire una sorta di repertorio dei testi della “satira del villano” una specie di “nuovo Merlini” che si potrebbe ordinare per tipologie di immagini. Immagini economiche (il contadino ladro), sociali (il contadino che deve, o dovrebbe stare al suo posto), culturali ( il contadino rozzo), fisiche (il contadino bestia) e via dicendo. Tornando al tema dell’imperialismo-‐integrazione. Montanari si è occupato della satira del villano, e più i generale dell’immagine del contadino, con specifico riferimento ai modelli alimentari. All’interno di tale quadro ha potuto verificare molte delle cose a cui prima accennavo: il mutamento di prospettiva fra alto e basso medioevo, le affinità e le diversità fra la variante “italiana” e quella d’oltralpe, con il definirsi da noi, di una contrapposizione forte tra città e campagna, che esplica anche nella compara del contadino ladro. Quest’ultimo aspetto, che mi sembra di particolare importanza, l’ho esaminato in ambito emiliano a partire da una novella di Sabadino degli Arienti (XV secolo) che ritrae un contadino della campagna bolognese, chiamato Zucco Padella, nell’atto di infrangere ogni notte i doveri del suo stato, andando a rubare le pesche nel giardino del padrone. Scoperto e catturato con una trappola per animali (il contadino è bestia e come bestia va preso), egli viene lavato ocn acqua bollente e assalito con due parole: “lassa stare le fructe de li miei pari e mangia de le tue, che sono le rape, gli agli, porri, cepolle e le scalogne con pan del sorgo”. La novella in tal modo conferma l’opposizione fra un modo di mangiare contadino e un modo di mangiare padronale (signorile/cittadino), a cui tutta la letteratura del tempo assegna un valore ideologico di importanza primaria, come definizione materiale di stili di vita e status socialmente diversi. Tale contrapposizione sociale è in effetti uno dei cardini dell’ideologia e dell’immaginario alimentare di questi secoli, simbolo di una fissità sociale non sempre garantita, in un’epoca di
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significativa, anche se non generalizzata mobilità. E dunque anche l’opposizione città-‐campagna trova appiglio in simboli alimentari di immediata lettura: pane bianco di frumento contro pani scuri e polente di cereali inferiori; carni fresche contro carni salate; carni di castrone e di vitella contro carni di maiale, e così via. La durezza di questa contrapposizione, frutto dell’imperialismo culturale delle classi dominanti e in questo caso soprattutto delle classi dominanti cittadine, è direttamente proporzionale al processo di integrazione culturale che contestualmente prende sviluppo. Nella fattispecie, è pari all’importanza dell’apporto delle campagne alla costruzione del patrimonio alimentare cittadino. Su questo schema interpretativo, Montanari, ha sostenuto l’idea che la cultura gastronomica italiana sia fondata sul doppio binario di un rapporto città-‐campagna che da un lato comporta il dominio cittadino sulla campagna ( con il controllo del lavoro contadino e l’appropriazione delle risorse del territorio), dall’altro la rielaborazione urbana di queste risorse e la loro “esportazione” attraverso i flussi del mercato. In questo quadro particolarmente interessante sembra il reciproco scambio fra cultura contadina e cultura cittadina, per quanto concerne gli usi alimentari e le pratiche di cucina. La stessa satira ci attesta processi di incontro e di contaminazione fra i due modelli e le due culture, nel senso di una imitazione, derisa dei modi “cittadini” dei “villani”. Più interessante poi, sembra rilevare la presenza di prodotti e sapori contadini nella cucina d’élite. La presenza di aglio, cipolle, rape, cavoli e ogni sorta di umili verdure a simboleggiare lo status di villano, nei ricettari italiani del basso medioevo evidenzia un’aporia, uno scarto fra codici alimentari “pensati” e “reali”. Lo stesso accade con molti prodotti e preparazioni, che sono chiaramente il portato di un’economia povera, un’economia di fame attenta per esempio, alle tecniche di conservazione degli alimenti, che ricompaiono sotto altra forma nei ricettari d’élite. Sotto altra forma perché questi mostrano una serie di accorgimenti, reali e simbolici, volti a far rientrare i cibi dei contadini nell’ambito sociale di privilegio; ad appropriarsene, insomma, cambiandone i connotati. Le tecniche di nobilitazione fondamentalmente sono due: l’accostamento del prodotto umile ad altri prodotti costosi; l’arricchimento del prodotto umile con ingredienti preziosi, solitamente le spezie. Nel momento che l’aglio è conficcato in un papero arrosto, la sua natura contadina artificiosamente si modifica. Morale: il disprezzo per il mondo contadino e l’appropriazione costante delle sue risorse non impediscono alle classi dominanti di assimilare contenuti e valori di quel mondo. Proprio da qui nasce l’asprezza della satira, il bisogno di fissare un limite simbolico fra i due mondi, contraddetto dall’esperienza quotidiana. Imperialismo e integrazione, appunto.