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OSSERVATORIO DIRITTI UMANI LA DICHIARAZIONE DELLE NAZIONI UNITE SUI DIRITTI DEI POPOLI INDIGENI VALENTINA ZAMBRANO SOMMARIO. 1. Considerazioni introduttive. – 2. Il lungo processo di elaborazione della Dichiarazione ONU sui diritti dei popoli indigeni. – 3. Il contenuto della Dichiarazione. La definizione di popoli autoctoni e la natura collettiva dei loro diritti. – 4. Segue: le questioni più spinose: il diritto all’autodeterminazione ed i diritti sulle terre e sulle risorse naturali. – 5. Segue: la tutela della cultura, delle tradizioni e della proprietà intellettuale dei popoli indigeni. – 6. Il valore de lege ferenda della Dichiarazione alla luce della giurisprudenza internazionale. 1. La data del 13 settembre 2007 rappresenta una tappa storica nel cam- mino dell’affermazione dei diritti dei popoli indigeni 1 perché, dopo 25 anni di lavori, studi e negoziati, l’Assemblea Generale ha adottato la Dichiara- zione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni con 143 voti favo 1 Sul tema si è già formata una consistente letteratura, cfr., HANNUM, New Developments in Indigenous Rights, in AJIL, 1986, 649 ss.; CRAWFORD, The Rights of Peoples, Oxford, 1988; TURPEL, Indigenous Peoples’ Rights of Political Participation and Self-determination: Recent International Legal Developments and Continuing Struggle for Recognition, in Cornell ILJ, 1992, 579 ss.; BARSH, Indigenous peoples in the 1990s: From Object to Subject of International Law?, in Harvard HRJ, 1994, 33 ss.; AA. VV., The new world order, Oxford, 1996; PALMISANO, Nazioni Unite ed autodeterminazione interna. Il principio alla luce degli strumenti rilevanti dell’ONU, Milano, 1997; GURUSWAMY, ROBERTS, DRYWATER, Protecting the Cultural and Natural Heritage: Finding Common Ground, in Tulsa LJ, 1999, 713 ss.; ALFREDSON, STAVROPOULOU, Justice Pending: Indigenous People and Other Good Causes. Essays in Honour of Erica-Irene A. Daes, London-New York, 2002; KREIMER, Indigenous Peoples’ Rights to Land, Territories and Natural Resources: A Technical Meeting of the OAS Working Group, in Human Rights Brief, 2003, 13 ss.; PATERSON, KARJALA, Looking Beyond Intellectual Property in Resolving Protection of the Intangibile Cultural Heritage of Indigenous Peoples, in Cardozo JICL, 2003, 634 ss.; ANAYA, Indigenous Peoples in International Law, II ed., Oxford, 2004; DUNBAR-ORTIZ The First Decade on Indigenous Peoples at the United Nations, in Peace and change, 2006, 58 ss.; ERRICO, The Draft UN Declaration on the Rights of Indigenous Peoples: An Overview, in HRLR, 2007, 3 ss.; ID., La Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni, in DUDI, 2007, 167 ss.; LENZERINI (ed.), Reparations for Indigenous Peoples: International and Comparative Perspectives, New York, 2008; WESTRA, Environmental Justice and the Rights of Indigenous Peoples: International and Domestic Legal Perspectives, London, 2008. LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE FASC. 1/2009 pp. 55-80 EDITORIALE SCIENTIFICA SRL

La Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni

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OSSERVATORIO DIRITTI UMANI

LA DICHIARAZIONE DELLE NAZIONI UNITE

SUI DIRITTI DEI POPOLI INDIGENI

VALENTINA ZAMBRANO

SOMMARIO. 1. Considerazioni introduttive. – 2. Il lungo processo di elaborazione della Dichiarazione

ONU sui diritti dei popoli indigeni. – 3. Il contenuto della Dichiarazione. La definizione di popoli autoctoni e la natura collettiva dei loro diritti. – 4. Segue: le questioni più spinose: il diritto all’autodeterminazione ed i diritti sulle terre e sulle risorse naturali. – 5. Segue: la tutela della cultura, delle tradizioni e della proprietà intellettuale dei popoli indigeni. – 6. Il valore de lege ferenda della Dichiarazione alla luce della giurisprudenza internazionale.

1. La data del 13 settembre 2007 rappresenta una tappa storica nel cam-

mino dell’affermazione dei diritti dei popoli indigeni1 perché, dopo 25 anni di lavori, studi e negoziati, l’Assemblea Generale ha adottato la Dichiara-zione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni con 143 voti favo

1 Sul tema si è già formata una consistente letteratura, cfr., HANNUM, New Developments

in Indigenous Rights, in AJIL, 1986, 649 ss.; CRAWFORD, The Rights of Peoples, Oxford, 1988; TURPEL, Indigenous Peoples’ Rights of Political Participation and Self-determination: Recent International Legal Developments and Continuing Struggle for Recognition, in Cornell ILJ, 1992, 579 ss.; BARSH, Indigenous peoples in the 1990s: From Object to Subject of International Law?, in Harvard HRJ, 1994, 33 ss.; AA. VV., The new world order, Oxford, 1996; PALMISANO, Nazioni Unite ed autodeterminazione interna. Il principio alla luce degli strumenti rilevanti dell’ONU, Milano, 1997; GURUSWAMY, ROBERTS, DRYWATER, Protecting the Cultural and Natural Heritage: Finding Common Ground, in Tulsa LJ, 1999, 713 ss.; ALFREDSON, STAVROPOULOU, Justice Pending: Indigenous People and Other Good Causes. Essays in Honour of Erica-Irene A. Daes, London-New York, 2002; KREIMER, Indigenous Peoples’ Rights to Land, Territories and Natural Resources: A Technical Meeting of the OAS Working Group, in Human Rights Brief, 2003, 13 ss.; PATERSON, KARJALA, Looking Beyond Intellectual Property in Resolving Protection of the Intangibile Cultural Heritage of Indigenous Peoples, in Cardozo JICL, 2003, 634 ss.; ANAYA, Indigenous Peoples in International Law, II ed., Oxford, 2004; DUNBAR-ORTIZ The First Decade on Indigenous Peoples at the United Nations, in Peace and change, 2006, 58 ss.; ERRICO, The Draft UN Declaration on the Rights of Indigenous Peoples: An Overview, in HRLR, 2007, 3 ss.; ID., La Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni, in DUDI, 2007, 167 ss.; LENZERINI (ed.), Reparations for Indigenous Peoples: International and Comparative Perspectives, New York, 2008; WESTRA, Environmental Justice and the Rights of Indigenous Peoples: International and Domestic Legal Perspectives, London, 2008.

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revoli, 4 contrari ed 11 astensioni2. L’adozione della Dichiarazione è stato infatti un obiettivo a lungo perseguito dai rappresentanti dei popoli au-toctoni3

come primo passo verso l’affermazione dei diritti in questione al-l’interno di uno strumento giuridicamente obbligatorio.

È noto che gruppi indigeni sono presenti in quasi tutti i continenti, an-che se la maggiore concentrazione si trova nel continente americano, in par-ticolare in America Latina con i Boroco, Xavante e Yanomani del Brasile, i Quechua, Aymara e Mapuche in Cile ed in Bolivia o, ancora, i Wayuu, Paez ed Embera in Colombia. Numerosi sono anche i gruppi indigeni del Messico e dell’Ecuador. Nell’America settentrionale un gruppo particolarmente con-sistente è rappresentato dagli Inuit che vivono sui territori della Groenlandia, del Canada, dell’Alaska e della Federazione russa. Nel continente africano, oltre a varie comunità residenti in Sud Africa, si possono ricordare i Masai in Kenya e Tanzania, i Tuareg in Burkina Faso, Libia, Mali e Niger e gli Ogoni della Nigeria. Nel continente asiatico particolarmente rilevante è il caso delle Filippine dove più del 15% della popolazione è rappresentato da gruppi in-digeni che vivono sulle isole di Mindanao e Luzon. Infine, sono da menzio-nare i Maori della Nuova Zelanda4. Si tratta, come evidente, di indicazioni solo parziali, ma ben esemplificative della realtà sociale che la Dichiarazione mira a regolare.

Obiettivo del presente scritto è di esaminare, dopo un breve excursus storico-giuridico sul processo di elaborazione, la portata della Dichiarazione, confrontandola anche con quella del Progetto adottato dal Consiglio ONU sui diritti dell’uomo il 30 giugno del 20065.

2. Un ruolo fondamentale nell’elaborazione del documento è da attri-

buire al Gruppo di lavoro sulle popolazioni indigene, istituito fin dal 1982

2 A/Res/61/295. Hanno votato contro: Australia, Canada, Stati Uniti e Nuova Zelanda,

mentre si sono astenuti: Colombia, Azerbaigian, Bangladesh, Georgia, Burundi, Federazione russa, Samoa, Nigeria, Ucraina, Buthan e Kenya.

3 Nel presente scritto si utilizzerà il termine “autoctoni” ed “indigeni” come sinonimi dal momento che, negli strumenti internazionali rilevanti in materia, non è ravvisabile una dif-ferenza nell’uso dell’uno o dell’altro aggettivo. In effetti, confrontando la versione inglese e quella francese del testo della Dichiarazione delle Nazioni Unite, si nota che la prima versione si riferisce agli “indigenous peoples” mentre la seconda parla di “peuples autochtones”.

4 Cfr. Rapporto del Relatore Speciale Stavenhagen sulla situazione dei diritti e delle libertà fondamentali dei popoli indigeni – Missione in Messico, UN Doc. E/CN.4/2004/80/Add.2 del 23 dicembre 2003; Rapporto del Relatore Speciale Stavenhagen sulla situazione dei diritti e delle libertà fondamentali dei popoli indigeni – Missione in Ecuador, UN Doc. A/HRC/4/32/Add.2 del 28 dicembre 2006; Rapporto del Relatore Speciale Stavenhagen sulla situazione dei diritti e delle libertà fondamentali dei popoli indigeni – Missione in Sud Africa, UN Doc. E/CN.4/2006/78/Add.2 del 15 dicembre 2005; Rapporto del Relatore Speciale Stavenhagen sulla situazione dei diritti e delle libertà fondamentali dei popoli indigeni – Missione nelle Filippine, UN Doc. E/CN.4/2003/90/Add.3 del 5 marzo 2003.

5 Cfr. UN Doc. HRC/Res/1/2 del 29 giugno 2006.

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dal Consiglio Economico e Sociale quale organo sussidiario a carattere tec-nico dell’allora Sottocommissione per la prevenzione delle discriminazioni e la protezione delle minoranze (poi Sottocommissione per la promozione e la protezione dei diritti umani)6. Il Gruppo era composto da cinque esperti indi-pendenti, uno per ogni regione geo-politica del mondo (Asia, Africa, Ameri-ca Latina, Europa dell’Est e Paesi occidentali)7 ed il suo mandato iniziale prevedeva due compiti: a) esaminare gli sviluppi nazionali relativi alla pro-mozione e protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali delle popolazioni indigene, presentando le proprie conclusioni alla Sottocom-missione8; b) rivolgere un’attenzione speciale all’evoluzione degli standard internazionali relativi ai diritti dei popoli autoctoni.

Nel 1985 la Sottocommissione ha precisato il mandato del Gruppo di lavoro chiedendogli di occuparsi dell’elaborazione di un corpo di principi in materia. Da quel momento tale organo si è dedicato essenzialmente alla stesura del Progetto di Dichiarazione universale sui diritti dei popoli indi-geni. Nello stesso anno è stato istituito il Fondo di contribuzione volontaria per le popolazioni indigene con il compito di prestare assistenza finanziaria a quei gruppi autoctoni che, privi di mezzi, volessero partecipare alle sessioni del Gruppo di lavoro, divenuto così il principale forum internazionale in cui detti popoli potevano rivendicare i loro diritti e denunciare le azioni e politiche ad essi contrarie9.

Nell’elaborare il Progetto, il Gruppo si è concentrato sulle questioni ritenute più importanti dai rappresentanti delle comunità considerate: a) la natura peculiare dei diritti collettivi dei popoli autoctoni; b) la centralità dei diritti relativi alla terra per la sopravvivenza di queste collettività; c) il

6 Tale Sottocommissione era a sua volta organo della Commissione sui diritti dell’uomo

che, attualmente, è stata sostituita nelle sue funzioni dal Consiglio ONU sui diritti dell’uomo con risoluzione 65/251 del 3 aprile 2006 dell’Assemblea Generale. Esso è costituito da 47 Paesi così distribuiti: 13 Stati africani, 13 asiatici, 6 dell’Europa Orientale, 8 dell’America Latina e dei Carabi e 7 dell’Europa Occidentale e di altre aree. Sull’argomento si veda ZANGHÌ, La reforma de las Naciones Unidas y la Cumbre Mundial 2005: el nuevo Consejo de Derechos Humanos, in REDI, 2005, 695 ss.; BARTOLINI, Commissione dei diritti umani. Le attività e le prospettive di riforma, in questa Rivista, 2006, 731 ss.

7 I primi cinque provenivano dalla Norvegia, dalla Jugoslavia, dal Sudan, da Panama e dalla Siria.

8 Nell’adempiere a tale compito il Gruppo di lavoro doveva analizzare le informazioni scritte provenienti dai governi, dagli organismi dell’ONU, dalle organizzazioni non governa-tive dei popoli indigeni, ecc., ma non era autorizzato a considerare denuncie concrete di presunte violazioni dei diritti umani con l’obiettivo di adottare raccomandazioni o decisioni.

9 Tra i gruppi e le organizzazioni rappresentative dei popoli indigeni che hanno partecipato ai lavori del Gruppo si possono indicare: Saami Council, Aboriginal and Torres Strait Islander Commission, Inuit Circumpolar Conference, Movimiento Indio Tupaj Amaru, International Indian Treaty Council, American Indian Law Alliance, Indigenous World Association, The International Organization of Indigenous Resources development. Cfr. http://www2.ohchr.org.

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riconoscimento del loro diritto all’autodeterminazione; d) la protezione giuridica internazionale dei loro diritti.

Esaminiamo rapidamente i principali aspetti di tali questioni. Il diritto collettivo ad esistere come popoli culturalmente distinti è stata

sicuramente una delle rivendicazioni espresse con maggiore insistenza dai rappresentanti indigeni fin dal 1982. Il Progetto approvato dal Gruppo faceva riferimento al concetto di “diritti collettivi” come principio basilare della Dichiarazione ed elemento inerente ed essenziale degli “indigenous rights”10. L’obiettivo era di garantire a tali popoli l’esistenza come collettività distinte in una data comunità, consentendo loro di mantenere e sviluppare le caratte-ristiche etniche, culturali e sociali proprie delle loro tradizioni, lingue, reli-gioni e sistemi educativi. Si mirava, così, a tutelare detti popoli dall’etno-cidio, inteso come qualsiasi atto avente lo scopo o l’effetto di privarli delle loro caratteristiche etniche o dell’identità culturale attraverso l’assimilazione o l’integrazione forzata.

Altra questione particolarmente dibattuta all’interno del Gruppo è stata quella del diritto dei popoli autoctoni a controllare e possedere le terre che tradizionalmente hanno abitato o posseduto. I rappresentanti indigeni hanno sempre evidenziato la doppia valenza che per detti popoli hanno le terre e le risorse naturali: da un lato, elementi economici e produttivi indispensabili alla loro sopravvivenza ed esistenza, dall’altro, fattori indissociabili dalla tu-tela della loro cultura data la speciale relazione culturale e spirituale esistente tra queste comunità e la terra. D’altra parte, il riconoscimento dei diritti col-lettivi degli indigeni non ha valore senza l’affermazione dei corrispondenti diritti (collettivi) ad occupare (o riacquisire) i territori che tradizionalmente hanno abitato o posseduto. Ne è derivato, quindi, il riconoscimento del di-ritto di tali popoli a possedere e sfruttare liberamente le terre ancestrali e le risorse naturali ivi presenti quale elemento indispensabile alla loro sopravvi-venza come popoli e a quella delle loro culture, religioni, tradizioni e sistemi sociali.

Inoltre, questo diritto è stato considerato come strettamente connesso a quello all’autodeterminazione, che ha rappresentato il tema più discusso nell’ambito del Gruppo. Non a caso, il primo Progetto presentato dalla Relatrice speciale Erica Irene Daes nel 1988 ometteva di fare riferimento alla garanzia dell’autodeterminazione, a causa della forte contrapposizione tra i rappresentanti dei popoli autoctoni e quelli governativi11. Il Gruppo si è, quindi, inizialmente concentrato sugli aspetti meno controversi, tra i quali non rientrava, evidentemente, il diritto all’autodeterminazione. Infatti, men-tre le organizzazioni indigene hanno chiesto fin dall’inizio che tale diritto fosse menzionato nella Dichiarazione e ne costituisse il fondamento, gli Stati

10 In questo senso si è espressa la Relatrice speciale Daes, come riportato nel Report of the

Working Group on Indigenous Population on its Sixth Session, UN Doc. E/CN.4/Sub.2/1988. 11 Ibid.

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si sono decisamente opposti per il timore che tale riconoscimento potesse rappresentare una minaccia per la loro unità ed integrità territoriale. A sostegno di questa posizione si sottolineava che l’autodeterminazione è rico-nosciuta dalla Dichiarazione sulla concessione dell’indipendenza ai Paesi e popoli coloniali solo ai popoli sottoposti a regime coloniale, a segregazione razziale o a dominazione straniera12, mentre i gruppi autoctoni non andavano considerati popoli a pieno titolo, bensì entità assimilabili alle minoranze. I rappresentanti indigeni, a loro volta, affermavano quale loro obiettivo principale non la secessione, ma il diritto all’autonomia e all’autogoverno all’interno degli Stati cui appartenevano (anche se questo non significava escludere a priori la possibilità dell’indipendenza in circostanze particolari).

Nel 1990 il Gruppo si è poi diviso in tre gruppi informali, a ciascuno dei quali è stata affidata la redazione di una determinata parte della dichiara-zione. Il secondo gruppo, che si è occupato dei diritti civili e politici, ha proposto di dedicare all’autodeterminazione un articolo specifico che acco-gliesse il diritto dei popoli indigeni di determinare liberamente il proprio status politico, ricercare il proprio sviluppo economico, sociale, religioso e culturale e determinare le proprie istituzioni. Tale proposta, a lungo discussa nella sessione 1991, condusse all’adozione, in prima lettura, del preambolo e dei primi diciassette principi, tra i quali quello relativo al diritto all’autode-terminazione13.

La decisione di inserire un articolo specifico in tal senso è derivata anche dalle sollecitazioni emerse durante due incontri di esperti delle Nazioni Unite. Nel primo, tenutosi a Ginevra nel 1989, i rappresentanti indigeni, sottolineando che l’autodeterminazione costituiva un elemento essenziale per il godimento dei diritti umani da parte dei popoli autoctoni, raccomandavano che questi ultimi fossero riconosciuti come soggetti di diritto internazionale e che la loro relazione con gli Stati fosse basata sul consenso libero e informato e la cooperazione. Nel corso del secondo, svoltosi a Nuuk, in Groenlandia, nel settembre del 1991 nell’ambito del Secondo decennio per la lotta contro il razzismo e la discriminazione razziale delle Nazioni Unite, destava particolare attenzione la tesi sostenuta da Willemsen-Diaz, secondo cui l’autonomia e l’autogoverno sono forme di autodeterminazione per i popoli indigeni, che non mettono in pericolo l’integrità territoriale e l’unità politica dello Stato.

Durante la sessione del 1992 del Gruppo, la posizione di taluni Stati è andata poco a poco modificandosi. Così, Canada e Norvegia si dichiaravano

12 In effetti, l’Assemblea Generale ha affermato il diritto dei popoli all’autodetermi-

nazione, inteso come diritto a rendersi indipendenti, nei casi in cui essi subiscano una situazione di dominio e di dipendenza da un altro popolo o Stato. Prova ne è il fatto che la su citata Dichiarazione riconosce che il principio di autodeterminazione (sempre nel senso suddetto) è applicabile a tre categorie di popoli: quelli soggetti a regime coloniale, a dominazione straniera o a segregazione razziale.

13 Detto diritto era affermato sia nel Preambolo che nell’art. 1 del Progetto.

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favorevoli ad accettare una disposizione sull’autodeterminazione, purché risultasse in modo chiaro che l’esercizio di tale diritto avvenisse all’interno dei confini statali, nel rispetto della loro integrità territoriale ed unità politica14. Questa soluzione di compromesso circa la dimensione di “auto-nomia rafforzata” è stata ritenuta accettabile perché in grado di garantire, da un lato, il diritto dei popoli autoctoni a determinare la propria organizzazione politica, economica, istituzionale e sociale, e, dall’altro lato, la tutela del-l’unità ed integrità degli Stati. La maggioranza dei Paesi ha quindi accettato di qualificare i gruppi indigeni come “popoli” e di riconoscere loro il diritto all’autodeterminazione, intesa come garanzia che riconosce a tutti i popoli, indipendentemente dalle loro caratteristiche, e durante tutta la loro esistenza, il diritto di esprimere in via permanente la propria volontà circa l’organizza-zione politica, economica e sociale. In tale senso, gli Stati non avrebbero semplicemente l’obbligo di rispettare la volontà popolare ma anche, e soprat-tutto, quello di garantire che l’ordinamento ponga in essere tutte le misure necessarie affinché tale volontà possa esprimersi e, quindi, l’autonomia realizzata15.

Nel 1993 il testo definitivo del Progetto, articolato in 19 paragrafi preambolari e 45 articoli divisi in 9 sezioni16, è stato approvato dal Gruppo e,

14 Proprio allo scopo di placare le preoccupazioni degli Stati, la Relatrice speciale Daes

affermò esplicitamente che il principio era considerato nella sua dimensione interna, al di fuori di qualsiasi accezione che potesse incoraggiare la formazione di Stati indipendenti.

15 Bisogna tenere in considerazione che l’espressione di tale volontà non ha l’indipen-denza come unica e possibile conseguenza. Infatti, in diritto internazionale si tende a tutelare il principio dell’integrità territoriale e, quindi, la possibilità di raggiungere l’indipendenza si riconosce essenzialmente a quei popoli che nella loro interezza vi aspirano perché soggetti al controllo di uno Stato straniero che non li considera parte dell’intera comunità. Nel caso, in cui sia una parte della popolazione ad impedire ad un’altra di esprimere pienamente la propria volontà allora si afferma il diritto per quest’ultima parte di raggiungere un’autonomia interna ai confini dello Stato considerato, così da poter liberamente esprimere il proprio volere in relazione all’organizzazione politico-socio-economica della comunità. Cfr. sul principio di autodeterminazione e di autodeterminazione interna, CONDORELLI, Le droit international face à l’autodétermination du Sahara Occidental, in questa Rivista, 1978, 396 ss.; MERIBOUTE, Le droit des peuples à disposer d’eux-mêmes et la Convention de Vienne de 1978 sur la succession d’Etats en matière de traités, in questa Rivista, 1983, 682 ss.; GUARINO, Autodeterminazione dei popoli e diritto internazionale, Napoli, 1984; CRAWFORD, op. cit.; TURPEL, op. cit.; ZANGHÌ, Tutela delle minoranze e autodeterminazione dei popoli, in Riv. int. dir. uomo, 1993, 404 ss.; PALMISANO, op. cit.; TANCREDI, La questione nord-irlandese tra autodeterminazione ed integrità territoriale, in questa Rivista, 1996, 528 ss.; IOVANE, L’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa e la tutela del principio di autodeterminazione, ivi,1998, 460 ss.

16 Le nove sezioni riguardavano: 1) il diritto all’autodeterminazione, la partecipazione dello Stato e la libertà dalla discriminazione; 2) la questione della sopravvivenza dei popoli indigeni come popoli distinti; 3) l’identità spirituale, linguistica e culturale dei popoli indigeni; 4) i diritti all’educazione, informazione e lavoro; 5) i diritti economici e sociali; 6) il diritto alle terre e alle risorse; 7) l’esercizio dell’autodeterminazione e le istituzioni indigene; 8-9) l’effettiva realizzazione della Dichiarazione e le disposizioni conclusive. Cfr. UN Doc. E/CN.4/1995/2-E/CN.4/Sub.2/1994/56.

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nel 1994, dalla Sottocommissione. Il documento è, quindi, passato al vaglio della Commissione delle Nazioni Unite sui diritti dell’uomo che, però, nei successivi 12 anni, non è riuscita a concludere l’iter di approvazione e a presentare il documento all’Assemblea Generale.

Il 3 aprile 2006 è intervenuta l’istituzione del Consiglio ONU sui diritti dell’uomo che ha sostituito la preesistente Commissione. Proprio questo nuovo organo nella sua prima sessione, il 29 giugno 2006, ha approvato il Progetto di Dichiarazione17, corrispondente, nella sostanza, a quello del 1994, e lo ha presentato all’Assemblea Generale. È, però, interessante sotto-lineare che l’art. 5 del testo del 2006 menziona esplicitamente l’“autodeter-minazione” dei popoli autoctoni anziché parlare di diritto di “disporre di loro stessi”, come affermato nel Progetto del 1994. Ugualmente rilevante è il riferimento al diritto dei popoli autoctoni a stabilire e controllare i loro sistemi scolastici nonché al dovere degli Stati di adottare misure contro lo sfruttamento economico dei minori indigeni, riferimenti del tutto assenti nella precedente elaborazione. Nel testo del 2006 è, inoltre, più esplicito il dovere degli Stati di avviare, di concerto con i popoli autoctoni, un processo di gestione delle risorse naturali equo, indipendente, imparziale e fondato sulle loro tradizioni. Sempre in relazione alla gestione delle risorse, il testo del 2006 non riprende invece il diritto di tali popoli ad essere tutelati dai rispettivi Stati rispetto a qualsiasi ingerenza tesa ad ostacolare l’affermazione dei loro diritti in materia.

L’adozione della Dichiarazione da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite è intervenuta dopo un anno perché, su insistenza del gruppo africano, si è ritenuto opportuno esaminare più approfonditamente il documento e raccogliere il più ampio consenso possibile18.

3. Il primo aspetto riguardante il contenuto della Dichiarazione sul

quale occorre soffermarsi è costituito dall’assenza di una definizione della nozione di “popoli indigeni”.

Si tratta di una questione largamente dibattuta fin dai primi momenti in cui la Comunità internazionale ha iniziato ad occuparsi dei popoli indigeni. Infatti, da un lato, gli Stati consideravano tali collettività popolazioni e non popoli, per evitare qualsiasi implicazione concernente il diritto all’autodeter-minazione, dall’altro, tali gruppi chiedevano di essere riconosciuti come popoli in quanto uniti dalle stesse tradizioni storiche, da un’identità culturale (e spesso anche etnica e religiosa), uno stesso territorio, una vita economica e politica comune, e così via.

17 Il Consiglio ha adottato il suddetto Progetto con 30 voti favorevoli, due contrari (Cana-

da e Federazione russa) e 12 astensioni (Algeria, Argentina, Barhein, Bangladesh, Ghana, Giordania, Marocco, Nigeria, Filippine, Senegal, Tunisia ed Ucraina). Cfr. UN Doc. A/HRC/1/L.3.

18 In realtà, questo obiettivo è stato raggiunto solo parzialmente poiché non è stato pos-sibile adottare la Dichiarazione per consensus.

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Un primo passo significativo è stato fatto nel 1987 con lo Studio del problema della discriminazione contro le popolazioni indigene, della cui redazione si è occupato Josè R. Martinez Cobo19, nominato Relatore speciale dalla Sottocommissione per la prevenzione delle discriminazioni e la pro-tezione delle minoranze. Al riguardo, questo documento sottolineava quanto segue: «indigenous communities, peoples and nations are those which, having a historical continuity with pre-invasion and pre-colonial societies that developed on their territories, consider themselves distinct from other sectors of the societies now prevailing in those territories, or part of them. They form at present non-dominant sectors of society and are determined to preserve, develop and transmit to future generations their ancestral territories, and their ethnic identity, as the basis of their continued existence as peoples, in accordance with their own cultural patterns, social institutions and legal system»20. Per la prima volta, quindi, si utilizzava l’espressione “popoli autoctoni” anziché popolazioni, termine che non compare affatto nel documento ed è sostituito da quello di “comunità” o “nazioni”.

Da tale definizione, come da quelle contenute in strumenti successivi, quali la Convezione OIL n. 16921 ed il progetto di Dichiarazione inter-americana sui diritti dei popoli indigeni22, è quindi possibile ricavare alcuni

19

COBO, Study of the Problem of Discrimination Against Indigenous Populations, UN Doc. E/CN.4/Sub.2/1986/7/Add.4. In realtà, tale studio venne condotto quasi esclusivamente da Augusto Willemsen Diaz, incaricato delle questioni indigene al Centro per i Diritti Umani delle Nazioni Unite. Il testo fu pubblicato nella sua interezza nel 1987.

20 COBO, op. cit., vol. V, 29. 21 La Convenzione n. 169 sui popoli indigeni e tribali, che revisionava la precedente

Convenzione OIL n. 107 del 1957, è stata adottata a Ginevra nel giugno del 1989 durante la 76° sessione della Conferenza internazionale del lavoro. Già nel settembre del 1990 erano stati depositati due strumenti di ratifica (quello della Norvegia, il 19 giugno 1990, e quello del Messico, il 5 settembre dello stesso anno), cosa che permetteva alla Convenzione di entrare in vigore dodici mesi dopo, ossia il 5 settembre 1991, come stabilito dal par. 2 dell’art. 38. Attualmente è stata ratificata da 19 Paesi: Argentina, Bolivia, Brasile, Colombia, Costa Rica, Danimarca, Ecuador, Fiji, Guatemala, Honduras, Messico, Nepal, Norvegia, Olanda, Paraguay, Perù, Repubblica Domenicana, Spagna e Venezuela. La definizione di popoli indigeni contenuta nel suddetto documento è la seguente: «on account of their descent from the populations which inhabited the country, or a geographical region to which the country belongs, at the time of conquest or colonization or the establishment of present state boundaries and who, irrespective of their legal status, retain some or all of their own social, economic, cultural and political institutions» . Cfr. SWEPSTON, A New Step in the International Law on Indigenous and Tribal Peoples: ILO Convention n.169 of 1989, in Oklahoma CULR, 1990, 677 ss.; BARSH, op. cit., 33 ss.; WOLFRUM, The Protection of Indigenous Peoples in International Law, in ZaöRV, 1999, 369 ss.; ANAYA, International Law and Indigenous Peoples, Trowbridge, 2003.

22 Il Progetto è stato approvato il 19 settembre del 1995 dalla Commissione inter-americana sui diritti umani (IACHR) affinché il testo fosse analizzato dai governi, organizzazioni, altre istituzioni interessate ed esperti. Sulla base delle loro risposte, l’IACHR ha preparato le proposte finali che sono state presentate all’Assemblea Generale dell’Organizzazione degli Stati Americani nel 1997 che da allora sta continuando a lavorare sul testo senza, però, giungere alla sua approvazione definitiva. La definizione presente nel

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elementi che consentono di chiarire la nozione in oggetto. Anzitutto, viene in rilievo la continuità storica con i gruppi che hanno abitato un determinato territorio prima dell’arrivo di popolazioni straniere che sono poi divenute la parte dominante della società. Detta continuità, come indicato dal Relatore speciale, consiste nella presenza (anche attualmente) di almeno uno dei se-guenti elementi: occupazione di terre ancestrali; ascendenza comune con gli occupanti originari di tali terre; conservazione delle tradizioni, della cultura, della lingua dell’organizzazione religiosa ed economico-politico-sociale tipi-ca delle società presenti sul territorio prima delle invasioni o della coloniz-zazione.

Altro elemento che può concorrere alla definizione di “popolo indige-no” è la circostanza che il popolo stesso si consideri distinto dagli altri settori della società. Ciò significa che il suo obiettivo non è l’“assimilazione” al gruppo dominante all’interno dello Stato, bensì l’affermazione, la tutela e la sopravvivenza delle caratteristiche peculiari della sua cultura ed organizza-zione sociale23 (sebbene questo non significhi certo vivere in una sorta di “apartheid”).

Al di là di questi due elementi (la continuità storica con le società pre-coloniali e la “distinzione” rispetto al resto della società nazionale) non è possibile indicare ulteriori caratteristiche che possano permettere di indivi-duare i popoli autoctoni. Stabilire criteri più precisi e specifici potrebbe por-tare a non includere tutti i gruppi indigeni, date le notevoli differenze esi-stenti tra essi. In effetti, si è avuta a lungo una contrapposizione tra gli Stati favorevoli ad una definizione ufficiale, chiara e precisa, di “popolo indige-no”, ed i rappresentanti di tali gruppi che invece sostenevano il principio del-l’“auto-identificazione”, vale a dire il diritto di ogni popolo di stabilire chi e che cosa fosse da considerare indigeno. Le collettività considerate erano con-trarie ad una definizione oggettiva, ufficialmente stabilita, per il timore che, attraverso questa, si potessero escludere dalla tutela persone o gruppi che, pur essendo indigeni, non presentavano le caratteristiche richiamate dalla de-finizione. Infatti, considerate le differenze tra i popoli autoctoni del mondo, difficilmente si sarebbe potuti giungere ad una definizione onnicomprensiva.

Così, la Convenzione OIL n. 169, da un lato, fa esclusivo riferimento al fatto che i popoli in questione discendono dagli abitanti che, originaria- progetto è la seguente: «In this Declaration indigenous peoples are those who embody historical continuity with societies which existed prior to the conquest and settlement of their territories by Europeans; (alternative one) as well as peoples brought involuntarily to the New World who freed themselves and re-established the cultures from which they have been torn; (alternative two) as well as tribal peoples whose social, cultural and economic conditions distinguish them from other sections of the national community and whose status is regulated wholly or partially by their own customs or traditions or by special laws or regulations».

23 A questo si ricollega anche la definizione che Cobo da di “persona indigena”, ossia: «one who belongs to these indigenous populations through self-identification as indigenous (group consciousness) and is recognized and accepted by these populations as one of its members (acceptance by the group)». Cfr. COBO, op. cit., vol. V, 4.

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mente, risiedevano in una determinata regione o area e conservano alcune delle loro specifiche istituzioni politiche, sociali, culturali o economiche, e, dall’altro lato, riconosce l’unicità dell’identità culturale dei popoli indigeni affermando l’importanza del criterio dell’auto-identificazione per individua-re dette collettività24. La Dichiarazione delle Nazioni Unite, invece, non defi-nisce in alcun modo cosa debba intendersi per popolo indigeno. Al riguardo, è da ritenere che, data la mancanza di una definizione, sarebbe stato au-spicabile il riferimento al principio di auto-identificazione25 per limitare la discrezionalità degli Stati26 nello stabilire se all’interno dei loro confini esistano o meno popoli indigeni27.

Un’altra questione riguarda la distinzione tra la nozione di minoranza e quella di popolo autoctono. L’assonanza che la menzionata definizione di Cobo presenta con quella data da Capotorti del concetto di minoranza28 non deve portare a confondere questi concetti. Infatti, come evidenziato nel Working paper on the relationship and distinction between the rights of persons belonging to minorities and those of indigenous peoples29, sebbene non si possa stabilire una netta separazione tra le due nozioni, è comunque possibile individuare alcune differenze importanti tra esse. Anzitutto i diritti riconosciuti ai membri delle minoranze sono essenzialmente individuali ed hanno lo scopo di assicurare il pluralismo all’interno della società, favorendo

24 La Convenzione all’art. 1 par. 2 stabilisce che «self-identification as indigenous or

tribal shall be regarded as a fundamental criterion for determining the groups to which the provisions of this Convention apply».

25 Si consideri che, a differenza della Dichiarazione, il Progetto del 1994 all’art. 8 stabiliva esplicitamente che i popoli indigeni hanno il diritto ad identificare se stessi come indigeni e ad essere riconosciuti in quanto tali.

26 Nelle dichiarazioni di voto numerosi Stati hanno affermato di rifarsi alla definizione data dalla Convenzione OIL n. 169. Cfr. UN Doc. A/61/PV.108.

27 D’altra parte, non è possibile non rilevare che anche il principio di auto-identificazione può essere un’arma a doppio taglio poiché i governi potrebbero negare i diritti qui analizzati a quelle comunità autoctone che non si definiscono “indigene” pur essendo tali.

28 La definizione in questione afferma che la minoranza è: «un gruppo che è numeri-camente inferiore al resto della popolazione di uno Stato ed è in una posizione non dominante, i cui membri possiedono caratteristiche etniche, religiose o linguistiche che differiscono da quelle del resto della popolazione e che, anche se implicitamente, mantengono un senso di solidarietà che mira a preservare la loro cultura, tradizioni, religione e lingua». Cfr. CAPO-TORTI, Étude des droits des personnes appartenant aux minorités ethniques, religieuses et linguistiques, UN Doc. E/CN. 4/Sub. 2/1979/384. Un discorso approfondito sul rapporto e le differenze tra popoli autoctoni e minoranze esula dai limiti del presente scritto. Sull’argo-mento cfr., in particolare, ANAYA, International Law and Indigenous peoples, Oxford, 1996; KYMLICKA. Theorizing Indigenous Rights, in U Toronto LJ, 1999, 281 ss.; Working paper on the relationship and distinction between the rights of persons belonging to minorities and those of indigenous peoples, UN Doc. E/CN.4/Sub.2/2000/10.

29 UN Doc. E/CN.4/Sub.2/2000/10. Sulla questione della definizione di “popolo indi-geno” e sulla differenza tra quest’ultimo e la minoranza si veda anche il Working paper by Chairperson-Rapporteur, Mrs Erica-Irene A. Daes, on the concept of indigenous peoples, UN Doc. E/CN.4/Sub.2/AC.4/1996/2, 10 June 1996.

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l’inclusione e l’effettiva partecipazione degli appartenenti ai gruppi minori-tari alla vita politica, sociale, economica, culturale dello Stato in cui risie-dono. Invece, gli strumenti internazionali attinenti alle collettività autoctone affermano il loro diritto all’autodeterminazione, vale a dire a decidere libe-ramente l’organizzazione politica, economica e sociale che meglio tuteli la loro identità, e il potere di amministrare autonomamente le questioni che li riguardano, compresa la facoltà di rafforzare, se del caso, la loro “distin-zione” rispetto al resto della società.

Inoltre, il fatto che solo ai popoli autoctoni sia riconosciuto il diritto all’autodeterminazione comporta un’ulteriore differenza tra i due concetti. Negli strumenti a tutela dei popoli indigeni svolgono un ruolo centrale i diritti concernenti il possesso, il controllo e l’amministrazione delle terre e delle risorse naturali (anche perché il loro modo di utilizzarle e di disporne è strettamente connesso al mantenimento della loro cultura), mentre non altrettanto è previsto dagli strumenti relativi alle minoranze.

La Relatrice speciale Daes ha evidenziato che nel caso delle minoranze l’elemento fondamentale sono le esperienze di discriminazione vissute dal gruppo o dagli individui che lo compongono (e, quindi, la rivendicazione del diritto a partecipare pienamente alla vita sociale, politica ed economica del Paese, pur mantenendo la loro specifica cultura), mentre per i popoli indigeni gli elementi fondamentali sono: l’essere originari di un determinato territorio che continuano ad abitare; l’aver scelto di mantenere un’identità culturale distinta ed una differente organizzazione sociale e politica rispetto a quella predominante.

Infine, a differenza dei documenti relativi alle minoranze, dove la tutela è data al singolo individuo facente parte del gruppo minoritario e non a quest’ultimo in quanto tale e considerato nel suo insieme, quelli concernenti i popoli indigeni evidenziano il carattere collettivo dei diritti ad essi attribuiti in qualità di popoli. Le rivendicazioni in questione concernono quasi sempre la comunità e non i singoli, se si escludono quei diritti che necessariamente sono individuali, quale, ad esempio, il diritto all’istruzione. Ciò dipende, chiaramente, dall’impostazione culturale di tali gruppi, che ha come punto di riferimento non tanto, o non solo, il singolo, quanto la collettività nel suo complesso, la quale, per continuare ad esistere come popolo, caratterizzato da determinate tradizioni e da uno specifico sistema socio-politico, deve go-dere come tale dei diritti in questione. Così si afferma il diritto del gruppo a disporre delle terre ancestrali e delle risorse naturali ivi presenti, a tra-mandare la propria cultura ed il proprio sistema educativo, a godere dei di-ritti di proprietà intellettuale. In particolare, tali diritti permettono di ben comprendere il significato delle pretese dei popoli indigeni, i quali riven-dicano la proprietà della loro eredità culturale, che include tutto il sapere derivante dai loro avi, come eredità collettiva appartenente alla comunità.

Questa concezione fa sì che i normali mezzi a tutela della proprietà intellettuale, come il copyright, non rappresentino una garanzia sufficiente a

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salvaguardare i diritti dei popoli autoctoni, per i quali l’eredità culturale è espressione delle generazioni passate e non di un singolo. Ulteriore elemento che rende inapplicabile la tutela offerta dai regimi interni a protezione della proprietà intellettuale è da collegare al fatto che la maggior parte dei lavori artistici indigeni sono tramandati in forma orale. Infine, nella Convenzione di Berna del 1886 si stabilisce un termine temporale di 50 anni per la tutela dei diritti di proprietà dei lavori artistici, quando invece le tradizioni autoctone si riferiscono ad una protezione indefinita30.

La Dichiarazione riconosce, quindi, il carattere collettivo dei diritti e-nunciati, ed allo scopo di meglio sottolineare tale caratteristica, fa costante-mente riferimento ai “popoli indigeni” come destinatari delle garanzie ivi ri-conosciute, specificando altresì in taluni casi che il diritto è attribuito a titolo collettivo, cioè alla comunità nel suo insieme31. Nei rari casi in cui il diritto ha come destinatari i singoli individui, e non il gruppo considerato nella sua totalità, la Dichiarazione si riferisce semplicemente agli “autoctoni” senza menzionare il popolo32.

4. Fin dal preambolo la Dichiarazione riconosce l’uguaglianza tra i popoli autoctoni e tutti gli altri popoli ed afferma la necessità di garantire loro i diritti concernenti le terre, i territori e le risorse naturali sui quali sono insediati e la possibilità di guidarne lo sviluppo, così da mantenere e rafforzare le loro istituzioni, culture e tradizioni, nonché di promuovere il progresso in linea con le proprie aspirazioni e necessità.

È significativo sottolineare che il paragrafo del preambolo relativo al diritto dei popoli autoctoni di determinare liberamente i loro rapporti con gli Stati in uno spirito di coesistenza, di mutuo interesse e di pieno rispetto33, presente nel Progetto approvato dal Consiglio, è stato poi espunto dal testo della Dichiarazione approvata dall’Assemblea Generale. Pochi dubbi vi sono in relazione al fatto che il suddetto paragrafo sia stato eliminato per il timore

30 La Convenzione di Berna è stata oggetto di diverse revisioni: Berlino (1908), Roma

(1928), Bruxelles (1948), Stoccolma (1967) e Parigi (1971). 31 Cfr. art. 7.2 : «Les peuples autochtones ont le droit, à titre collectif, de vivre dans la

liberté, la paix et la sécurité en tant que peuples distincts et ne font l’objet d’aucun acte de génocide ou autre acte de violence, y compris le transfert forcé d’enfants autochtones d’un groupe à un autre».

32 Cfr. art. 6: «Tout autochtone a droit à une nationalité» e art. 7.1: «Les autochtones ont droit à la vie, à l’intégrité physique et mentale, à la liberté et à la sécurité de la personne». Il carattere collettivo dei diritti in questione può essere ben descritto dalla concezione di autode-terminazione (interna) espressa da Palmisano secondo il quale oggetto della tutela del suddet-to principio è il popolo visto nella sua «natura unitaria di entità semplice, e non invece nella prospettiva della dimensione sociale dell’individuo». Ciò che riceve protezione è il popolo in quanto tale, e solo «indirettamente e di fatto l’individuo». Cfr. PALMISANO, op. cit., 148.

33 Il paragrafo in questione così enunciava: «Considérant que les peuples autochtones ont le droit de déterminer librement leurs rapports avec les États, dans un esprit de coexistence, d’intérêt mutuel et de plein respect».

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che gli Stati ancora nutrono in relazione al riconoscimento del principio di autodeterminazione dei popoli autoctoni. Infatti, affermare il loro diritto di determinare liberamente i rapporti con gli Stati, seppur all’interno di uno strumento non vincolante, avrebbe “indebolito” il carattere interno dell’auto-determinazione, quasi ponendo detti popoli su un piano di parità con gli Stati all’interno dei quali si trovano a vivere. Questa interpretazione viene raf-forzata da due elementi. Anzitutto, il documento approvato contiene, all’art. 46, par. 1, la specificazione che nessuna disposizione della Dichiarazione po-trà essere interpretata come un’autorizzazione o un incoraggiamento a realiz-zare atti che possano distruggere o limitare, totalmente o parzialmente, l’in-tegrità territoriale o l’unità politica di uno Stato sovrano ed indipendente34. Tale specificazione era assente nel Progetto adottato dal Consiglio ONU.

Il secondo elemento che suffraga tale tesi è rappresentato dalle dichiarazioni di numerosi Paesi35 il cui voto favorevole all’approvazione della Dichiarazione era condizionato al fatto che l’autodeterminazione fosse intesa come diritto di queste collettività ad autogovernarsi all’interno e nel rispetto dell’integrità territoriale di Stati indipendenti e sovrani.

In particolare, l’Australia (che, lo ricordiamo, ha votato contro l’appro-vazione del documento in esame) ha affermato che il diritto all’autodeter-minazione si applica solamente alle situazioni di decolonizzazione e non ad un “sotto-gruppo”36 della popolazione. Ha, inoltre, precisato che la Dichia-razione non è vincolante e non rappresenta, per il Governo australiano, una base da cui partire per l’elaborazione di ulteriori strumenti giuridici.

Detta preoccupazione trova riscontro in maniera evidente negli articoli 3 e 4, che affermano il diritto all’autodeterminazione dei popoli autoctoni, in base al quale essi possono determinare liberamente il loro status politico e li-beramente perseguire il loro sviluppo economico, sociale e culturale nonché governarsi in autonomia nelle materie attinenti ai loro affari interni e locali37. Proprio per superare l’opposizione di molti Stati si è insistito sull’aspetto “interno” dell’autodeterminazione, esplicitato dall’art. 4. Tale dimensione

34 Il paragrafo suddetto così statuisce: «Aucune disposition de la présente Déclaration ne

peut être interprétée comme impliquant pour un État, un peuple, un groupement ou un individu un droit quelconque de se livrer à une activité ou d’accomplir un acte contraire à la Charte des Nations Unies, ni considérée comme autorisant ou encourageant aucun acte ayant pour effet de détruire ou d’amoindrir, totalement ou partiellement, l’intégrité territoriale ou l’unité politique d’un État souverain et indépendant» (corsivi aggiunti).

35 UN Doc. A/61/PV.108. 36 Nella sua Dichiarazione di voto il rappresentante dell’Australia parla espressamente di

“sous-groupe”. Ibid. 37 I due articoli così recitano: «Art. 3. Les peuples autochtones ont le droit à

l’autodétermination. En vertu de ce droit, ils déterminent librement leur statut politique et assurent librement leur développement économique, social et culturel. Art. 4. Les peuples autochtones, dans l’exercice de leur droit à l’autodétermination, ont le droit d’être autonomes et de s’administrer eux-mêmes pour tout ce qui touche à leurs affaires intérieures et locales, ainsi que de disposer des moyens de financer leurs activités autonomes».

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permette, infatti, di tutelare la libertà di scelta (innanzitutto dell’ordine politico) e di salvaguardare le istituzioni politiche, sociali, culturali, econo-miche dei popoli considerati all’interno, però, dei confini statali38. Ciò, im-plica l’obbligo per i Paesi coinvolti di rispettare l’identità nonché di garantire un regime effettivamente rappresentativo delle collettività in questione.

All’interno della Dichiarazione si è così affermato un concetto di auto-determinazione che si discosta dalla concezione “classica” di diritto a ren-dersi indipendenti da uno Stato oppressore e a costituire un proprio Stato o unirsi ad uno di già esistente, e che si traduce piuttosto nella libertà di de-terminare, attraverso procedure liberamente prescelte, l’organizzazione poli-tica, economica e sociale che meglio corrisponda alla specifica identità del popolo autoctono considerato39. Ciò si può esprimere in varie forme di au-tonomia amministrativa, che permettono di garantire sia l’integrità terri-toriale e l’unità statale che i diritti dei popoli autoctoni40.

L’altra questione che ha suscitato l’opposizione di alcuni Paesi (tra cui Canada, Australia, Nuova Zelanda e Federazione russa) è stato il ricono-scimento del diritto a possedere, utilizzare e controllare le terre ancestrali e le risorse naturali ivi presenti. Relativamente a tale aspetto, vengono in rilie-vo gli articoli da 25 a 32. Il primo riconosce il diritto delle comunità consi-derate a mantenere e a rafforzare la speciale relazione spirituale con le terre, le acque, le risorse tradizionalmente possedute, occupate ed utilizzate41. L’art. 26 afferma esplicitamente che detti popoli hanno diritto di possedere,

38 In tale senso, è rilevante anche l’art. 5: «Les peuples autochtones ont le droit de

maintenir et de renforcer leurs institutions politiques, juridiques, économiques, sociales et culturelles distinctes, tout en conservant le droit, si tel est leur choix, de participer pleinement à la vie politique, économique, sociale et culturelle de l’État». In tal modo si sottolinea che il diritto dei popoli autoctoni a mantenere le loro istituzioni non deve essere un mezzo attraverso cui isolarli dal resto della popolazione, ma deve essere uno strumento per permettere loro di salvaguardare la loro cultura distinguendosi dal resto della comunità nazionale, solo nel caso in cui così desiderino.

39 Questo legame tra diritto all’autodeterminazione interna e specifica identità dei popoli è evidenziato in particolare da Palmisano, il quale intende detto diritto come la possibilità per tutti i popoli (e, chiaramente, non solo quelli indigeni) di determinare le forme organizzative che meglio rappresentano la loro identità specifica di popolo. L’Autore evidenzia, cioè, il fatto che questo diritto ha lo scopo di tutelare l’identità nazionale dei popoli in quanto tali, «visti nella loro natura unitaria di entità semplici». Cfr. PALMISANO, op. cit.

40 In tale ambito è significativo l’esempio del Canada dove nel 1993 è stata approvata la legge federale che ha permesso la creazione, nel 1999, dello Stato di Nunavut, governato dai nativi Inuit, facente parte della federazione canadese e dotato di autonomia nell’amministra-zione locale (anche delle questioni finanziarie), nell’educazione e nella giustizia.

41 L’articolo su menzionato statuisce: «Les peuples autochtones ont le droit de conserver et de renforcer leurs liens spirituels particuliers avec les terres, territoires, eaux et zones ma-ritimes côtières et autres ressources qu’ils possèdent ou occupent et utilisent traditionnelle-ment, et d’assumer leurs responsabilités en la matière à l’égard des générations futures».

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utilizzare, sviluppare e controllare le terre, i territori e le risorse che tra-dizionalmente hanno posseduto, occupato o utilizzato42.

Negli articoli seguenti la Dichiarazione specifica che gli Stati, in collaborazione con i popoli in questione, dovranno dare vita ad un processo indipendente, equo e imparziale tendente a riconoscere le leggi, le tradizioni ed il sistema di proprietà delle collettività considerate. D’altra parte, si specifica che spetta a detti gruppi determinare ed elaborare le priorità e le strategie di sviluppo e di utilizzo delle terre e risorse naturali, tanto che lo Stato ha l’obbligo di ottenere il loro consenso, libero ed informato, prima di approvare ogni progetto che possa avere incidenza su tali terre, territori o risorse43. Gli Stati che si sono opposti all’approvazione della Dichiarazione hanno in particolare sottolineato che il suddetto obbligo, attribuendo un vero e proprio potere di veto alle collettività considerate, conferisce loro una facoltà troppo ampia, anche in rapporto al resto della comunità nazionale.

Ai popoli autoctoni è ugualmente riconosciuto il diritto di fare ritorno alle terre ancestrali e di riprendere possesso delle risorse che hanno tradizionalmente utilizzato e posseduto e che sono state confiscate, sottratte, utilizzate o danneggiate senza il loro consenso libero, preventivo ed informato44. Qualora ciò non sia possibile, essi avranno diritto ad ottenere un

42 L’articolo afferma: «1. Les peuples autochtones ont le droit aux terres, territoires et

ressources qu’ils possèdent et occupent traditionnellement ou qu’ils ont utilisés ou acquis. 2. Les peuples autochtones ont le droit de posséder, d’utiliser, de mettre en valeur et de contrôler les terres, territoires et ressources qu’ils possèdent parce qu’ils leur appartiennent ou qu’ils les occupent ou les utilisent traditionnellement, ainsi que ceux qu’ils ont acquis. 3. Les États accordent reconnaissance et protection juridiques à ces terres, territoires et ressources. Cette reconnaissance se fait en respectant dûment les coutumes, traditions et régimes fonciers des peuples autochtones concernés».

43 Cfr. art. 32: «1. Les peuples autochtones ont le droit de définir et d’établir des priorités et des stratégies pour la mise en valeur et l’utilisation de leurs terres ou territoires et autres ressources. 2. Les États consultent les peuples autochtones concernés et coopèrent avec eux de bonne foi par l’intermédiaire de leurs propres institutions représentatives, en vue d’obtenir leur consentement, donné librement et en connaissance de cause, avant l’approbation de tout projet ayant des incidences sur leurs terres ou territoires et autres ressources, notamment en ce qui concerne la mise en valeur, l’utilisation ou l’exploitation des ressources minérales, hydriques ou autres. 3. Les États mettent en place des mécanismes efficaces visant à assurer une réparation juste et équitable pour toute activité de cette nature, et des mesures adéquates sont prises pour en atténuer les effets néfastes sur les plans environnemental, économique, social, culturel ou spirituel». È interessante notare come nel terzo paragrafo dell’articolo appena menzionato sia stato inserito l’aggettivo “adéquates” riferito alle misure che gli Stati devono adottare per limitare gli effetti negativi delle attività sviluppate nei territori autoctoni, aggettivo che nel Progetto approvato dal Consiglio ONU diritti dell’uomo non compariva.

44 In tale ambito è significativo il caso dell’Ecuador che, a partire dal 2002, ha restituito quasi 4 milioni di ettari di “terre ancestrali” ai popoli indigeni che vivono nelle zone costiere e dell’Amazzonia e ha cominciato a riconoscere il carattere inalienabile ed imprescrittibile della proprietà delle terre indigene delle aree montane. Cfr. Rapporto del Relatore Speciale Stavenhagen sulla situazione dei diritti e delle libertà fondamentali dei popoli indigeni – Missione in Ecuador, UN Doc. A/HRC/4/32/Add.2 del 28 dicembre 2006. Ugualmente significativa è stata l’approvazione nel 2006 da parte del Presidente brasilianio Lula di due

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equo indennizzo. In connessione viene in rilievo l’art. 10 che afferma il diritto di queste collettività a non essere forzosamente allontanate dalle loro terre o territori e a non essere trasferite in altri luoghi se non con il loro consenso (sempre fornito preventivamente, liberamente e consapevolmente) e a seguito di un accordo con le autorità governative che garantisca un indennizzo giusto ed equo ed il riconoscimento del diritto a farvi ritorno, qualora ciò sia possibile45. Il diritto ad un indennizzo giusto ed equo è riconosciuto anche nel caso in cui i popoli autoctoni siano privati dei loro mezzi di sussistenza e di sviluppo46.

Detta garanzia di possesso e controllo dello sviluppo delle terre e ri-sorse naturali è intimamente legata al diritto alla protezione e conservazione dell’ambiente e della capacità produttiva dei territori e risorse in questione. A questo scopo, la Dichiarazione afferma l’obbligo degli Stati di realizzare programmi d’assistenza che siano espressione della volontà delle comunità considerate e di adottare tutte le misure necessarie per garantire che nessuna sostanza dannosa sia stoccata o scaricata sui territori autoctoni senza il consenso, preventivo, libero ed informato della popolazione (art. 29).

Le garanzie appena evidenziate sono fondamentali, non solo dal punto di vista economico e dell’affermazione del diritto all’autodeterminazione economica dei gruppi indigeni, ma anche, e soprattutto, per la tutela della loro cultura ed esistenza in quanto popoli, considerato l’intimo legame esistente tra il possesso e la tutela delle terre e dell’ambiente e le religioni, gli usi e le tradizioni autoctone.

Le dichiarazioni di voto dell’Australia, del Canada e della Nuova Ze-landa sono significative in quanto espressione del timore degli Stati di perde-re, almeno parzialmente, il controllo sulle risorse naturali, per decenni sfrut-tate senza il coinvolgimento dei gruppi autoctoni nel processo decisionale o nella condivisione degli introiti conseguenti. Tali Stati hanno, infatti, affer-mato la loro contrarietà al riconoscimento dei diritti di cui discutiamo perché

decreti che hanno riconosciuto a varie comunità indigene il titolo di proprietà sulla terra Raposa/Terra do Sol e Tabalascada nello Stato di Roraima (particolarmente ricco dal punto di vista minerario e del legname). Non si può, però, non evidenziare che, nonostante questi segnali positivi, il processo di riconoscimento delle rivendicazioni dei popoli indigeni sulle terre procede molto lentamente.

45 L’articolo su indicato così recita: «Les peuples autochtones ne peuvent être enlevés de force à leurs terres ou territoires. Aucune réinstallation ne peut avoir lieu sans le consente-ment préalable – donné librement et en connaissance de cause – des peuples autochtones concernés et un accord sur une indemnisation juste et équitable et, lorsque cela est possible, la faculté de retour».

46 Cfr. art. 20: «1. Les peuples autochtones ont le droit de conserver et de développer leurs systèmes ou institutions politiques, économiques et sociaux, de disposer en toute sécurité de leurs propres moyens de subsistance et de développement et de se livrer librement à toutes leurs activités économiques, traditionnelles et autres. 2. Les peuples autochtones privés de leurs moyens de subsistance et de développement ont droit à une indemnisation juste et équitable».

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attribuirebbero alle comunità autoctone facoltà che non sono riconosciute a-gli altri gruppi nazionali. Si tratta di un’affermazione senza fondamento giu-ridico, poiché il diritto internazionale ammette le discriminazioni positive, vale a dire quelle azioni che, garantendo uno specifico trattamento agli indi-vidui appartenenti a determinati gruppi, permettono loro di raggiungere un regime di parità con gli altri individui47. Chiaramente queste discriminazioni, per essere ammissibili, devono avere carattere temporaneo, ossia venir meno nel momento in cui i gruppi (o gli individui) oggetto di tutela non ne ne-cessitano più. Nel medesimo senso va interpretata anche la dichiarazione delle Filippine nel punto in cui afferma che il voto positivo è comunque ba-sato sul principio che lo Stato detiene tutti i diritti in materia di possesso delle terre e delle risorse naturali.

5. Fin dall’art. 5 la Dichiarazione afferma il diritto dei popoli indigeni di mantenere e rafforzare le loro tradizionali istituzioni politiche, economi-che, sociali e culturali, di non essere vittime di assimilazioni forzate e di non subire la distruzione della loro cultura (art. 8)48. Gli Stati devono quindi a-dottare misure efficaci per impedire sia tutti gli atti che abbiano l’effetto di privare gli autoctoni della loro unicità in quanto popoli distinti, dei loro valori culturali ed identità etnica, sia tutte le forme d’assimilazione o integra-zione forzata e di propaganda discriminatoria indirizzata contro di essi.

In questo contesto è importante che l’art. 5 precisi che detti popoli mantengono il diritto di partecipare pienamente alla vita politica, economica, sociale e culturale del Paese, se così desiderano. Ciò, garantisce, infatti, che la volontà di conservare delle tradizioni e una cultura separate e distinte da quelle dal resto della popolazione non venga strumentalizzata per impedire loro di svilupparsi e di partecipare dei benefici del progresso o alla vita politico-economica della nazione.

A garanzia della tutela di tali culture, la Dichiarazione statuisce il diritto dei gruppi suddetti a mantenere e vivificare le loro tradizioni, i loro costumi e a sviluppare le espressioni passate, presenti e future della loro cultura,

47 Un esempio particolarmente significativo di questo tipo di azioni discriminatorie si ha

nell’ambito delle norme indirizzate a garantire l’uguaglianza tra uomini e donne. In effetti, la Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne (del 1979) ammette l’adozione di «misure temporanee speciali tendenti ad accelerare il processo di instaurazione di fatto dell’eguaglianza tra uomini e donne», le quali non sono discriminatorie purché vengano meno nel momento in cui si raggiungono gli obiettivi di uguaglianza (art. 4). Ugualmente, l’art. 141 del Trattato CE riconosce come lecite eventuali discriminazioni positive indirizzate a favorire il raggiungimento dell’uguaglianza tra i sessi nell’ambito lavorativo.

48 Si nota, in termini negativi, che mentre la lett. d) del par. 2 dell’art. 8 della Dichiara-zione adottata dall’Assemblea Generale vieta semplicemente tutte le forme di assimilazione o di integrazione forzata, la medesima lettera del Progetto adottato dal Consiglio ONU specificava: «Toute forme d’assimilation ou d’intégration forcées à d’autres cultures ou modes de vie, qui leur serait imposée par des mesures législatives, administratives ou autres».

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quali i siti archeologici e storici, l’artigianato, i riti, le tecniche, le arti figurative, lo spettacolo, e così via. Per rendere effettivo il riconoscimento di tale diritto, gli Stati hanno l’obbligo di fornire una riparazione nei casi in cui ci si sia impossessati di beni culturali, spirituali, intellettuali e religiosi ap-partenenti a detti popoli senza il loro consenso, riconoscendo a queste co-munità il diritto di manifestare, praticare ed insegnare i loro usi, le loro tradizioni ed i loro riti religiosi49.

Centrali per l’affermazione e la tutela culturale delle comunità in que-stione sono gli articoli 13, 14 e 15, che concernono il diritto delle comunità considerate a trasmettere alle generazioni future le loro tradizioni, culture, filosofie, religioni, lingue e a istituire e controllare il proprio sistema sco-lastico ed i metodi di insegnamento, riconoscendo agli individui appartenenti a tali gruppi, e in particolare ai minori, il diritto ad accedere a tutti i livelli di istruzione senza alcuna discriminazione e a ricevere, laddove possibile, tale insegnamento nella loro lingua e secondo la loro cultura.

Un aspetto particolare della tutela delle culture indigene concerne le garanzie che dette collettività richiedono a tutela dell’eredità culturale50.

49 In tale senso, vengono in rilievo gli articoli 11 e 12: «Art. 11. 1. Les peuples

autochtones ont le droit d’observer et de revivifier leurs traditions culturelles et leurs coutumes. Ils ont notamment le droit de conserver, de protéger et de développer les manifestations passées, présentes et futures de leur culture, telles que les sites archéologiques et historiques, l’artisanat, les dessins et modèles, les rites, les techniques, les arts visuels et du spectacle et la littérature. 2. Les États doivent accorder réparation par le biais de mécanismes efficaces – qui peuvent comprendre la restitution – mis au point en concertation avec les peuples autochtones, en ce qui concerne les biens culturels, intellectuels, religieux et spirituels qui leur ont été pris sans leur consentement préalable, donné librement et en connaissance de cause, ou en violation de leurs lois, traditions et coutumes»; «Art. 12. 1. Les peuples autochtones ont le droit de manifester, de pratiquer, de promouvoir et d’enseigner leurs traditions, coutumes et rites religieux et spirituels; le droit d’entretenir et de protéger leurs sites religieux et culturels et d’y avoir accès en privé; le droit d’utiliser leurs objets rituels et d’en disposer; et le droit au rapatriement de leurs restes humains. 2. Les États veillent à permettre l’accès aux objets de culte et aux restes humains en leur possession et/ou leur rapatriement, par le biais de mécanismes justes, transparents et efficaces mis au point en concertation avec les peuples autochtones concernés».

50 La Commissione sui diritti umani nei Principi e linee guida per la protezione del-l’eredità dei popoli indigeni afferma che quest’ultima ha un carattere collettivo e comprende tutti gli oggetti, i luoghi, le conoscenze (compresa la lingua), la cui natura ed il cui uso sono stati tramandati di generazione in generazione e che sono considerati appartenenti ad un particolare popolo o al suo territorio. L’eredità delle comunità indigene include anche: tutti i tipi di creazione artistica e letteraria come la musica, la danza, i canti, le cerimonie, la narrativa, la poesia; tutti i documenti relativi a tali popoli, ogni tipo di conoscenza scientifica, agricola, tecnica, medica, relativa alla biodiversità e all’ambiente (incluse le conoscenze e le sostanze terapeutiche derivanti dall’uso della flora e della fauna); i resti umani; i luoghi sacri o di rilevanza culturale, naturale e storica. Si afferma anche che la proprietà di detta eredità appartiene ai popoli autoctoni e dovrebbe essere collettiva, permanente, inalienabile ed amministrata secondo i loro costumi, leggi e tradizioni. Cfr. Report of the Seminar on the Draft Principles and Guidelines for the Protection of the Heritage of Indigenous Peoples. UN Doc. E/CN.4/Sub.2/2000/26.

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Infatti, la loro sopravvivenza e l’esercizio dei loro fondamentali diritti umani come popoli distinti dipendono dalla possibilità di conservare, sviluppare ed insegnare la scienza che hanno ereditato dai loro avi51. In questo ambito è centrale, come si è rilevato, il concetto di proprietà comune: l’eredità appar-tiene alla comunità che l’ha originata, per cui la proprietà culturale può es-sere divisa solo in base al consenso del gruppo. Si tratta di concezione molto diversa da quella occidentale52.

La circostanza che la Dichiarazione riconosca il diritto di tali popoli a mantenere, controllare, proteggere e sviluppare la loro eredità culturale e le loro conoscenze tradizionali, così come le capacità scientifiche e tecnologi-che concernenti le risorse genetiche, le sementi, le conoscenze farmaceu-tiche, la flora e la fauna53, è significativo anche per un altro aspetto, altret-

51 Ciò è stato affermato anche nello Studio sulla protezione della proprietà culturale ed

intellettuale dei popoli indigeni, della Sottocommissione sulla prevenzione delle discrimi-nazioni e la protezione delle minoranze, UN Doc. E/CN.4/Sub.2/1993/28.

52 Molto critica è la posizione dei popoli indigeni nei confronti dell’Accordo TRIPs (Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights), approvato nell’ambito dell’OMC al termine dell’Uruguay Round, in quanto ritengono che esso minacci il loro accesso alla varietà biologica ed il controllo sul loro sapere tradizionale e patrimonio intellettuale. L’art. 27 dell’Accordo riguarda i brevetti ed obbliga gli Stati membri a riconoscere la patentabilità di ogni tipo di invenzione, incluse quelle farmaceutiche, purché presenti il carattere della novità, implichi un’attività inventiva e si possa applicare industrialmente. Molto discusso è il par. 3b) dell’articolo il quale afferma che gli Stati possono escludere dalla brevettabilità i vegetali e gli animali diversi dai microrganismi e dai processi “essenzialmente biologici”, il che sembra indicare che solo i processi tradizionali di riproduzione, e non anche le tecniche di ingegneria genetica, possono essere esclusi dalla patentabilità. Ciò è criticato dai popoli indigeni perché ritengono che si tratti di forme di vita e di processi vitali che, in quanto sacri, non possono essere oggetto di proprietà privata. Essi hanno parimenti sottolineato che questo articolo appare incompatibile con la Convenzione sulla diversità biologica adottata a Rio de Janeiro nel 1992, la quale tende a promuovere la biodiversità, ad assicurare agli Stati ed ai popoli autoctoni il pieno controllo sulle loro risorse biologiche e genetiche ed il diritto di accedere ai benefici derivanti dall’utilizzo di queste loro risorse. Invece l’Accordo TRIPs non prevede nulla di tutto ciò. La stessa Sottocommissione dell’ONU sulla promozione e la protezione dei diritti umani, in una risoluzione del 17 agosto 2000 ha evidenziato che l’attuazione dell’Accordo TRIPs non riflette adeguatamente il diritto di ognuno ad usufruire dei benefici derivanti dal progresso scientifico, del diritto alla salute, al cibo ed all’autodeterminazione, ponendo, quindi, in conflitto la disciplina del diritto di proprietà intellettuale e le norme internazionali relative ai diritti umani. Cfr. Intellectual Property Rights and Human Rights, Risoluzione della Sottocommissione sulla promozione e la protezione dei diritti umani, UN Doc. E/CN.4/Sub.2/2000/7 (17 agosto 2000).

53 Cfr. art. 31: «Les peuples autochtones ont le droit de préserver, de contrôler, de protéger et de développer leur patrimoine culturel, leur savoir traditionnel et leurs expressions culturelles traditionnelles ainsi que les manifestations de leurs sciences, techniques et culture, y compris leurs ressources humaines et génétiques, leurs semences, leur pharmacopée, leur connaissance des propriétés de la faune et de la flore, leurs traditions orales, leur littérature, leur esthétique, leurs sports et leurs jeux traditionnels et leurs arts visuels et du spectacle. Ils ont également le droit de préserver, de contrôler, de protéger et de développer leur propriété intellectuelle collective de ce patrimoine culturel, de ce savoir traditionnel et de ces

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tanto sentito da queste comunità, quello della tutela dei diritti di proprietà intellettuale.

Spesso, infatti, le conoscenze medico-farmaceutiche autoctone relative alle qualità curative di animali, piante o minerali o riguardanti la conserva-zione della biodiversità sono state sfruttate dalle multinazionali che ne hanno isolato l’ingrediente attivo per trasformarlo in un nuovo farmaco. Dette aziende sono, quindi, divenute proprietarie del brevetto in questione senza avere neppure l’obbligo di condividere i profitti con le popolazioni da cui avevano tratto le informazioni che erano alla base della scoperta54. Ora, l’art. 31 afferma che le collettività indigene hanno il diritto di preservare, control-lare, proteggere e sviluppare la proprietà intellettuale collettiva del loro patri-monio culturale e del loro sapere tradizionale (che include le suddette risorse umane e genetiche, conoscenze medico-farmaceutico, e così via). Ci si sa-rebbe, però, aspettati che la Dichiarazione menzionasse anche la tutela della biodiversità dei territori indigeni, con un’affermazione esplicita del diritto dei popoli autoctoni di ricevere (o per lo meno condividere) i benefici e gli introiti derivanti dallo sfruttamento di tali conoscenze55.

expressions culturelles traditionnelles. 2. En concertation avec les peuples autochtones, les États prennent des mesures efficaces pour reconnaître ces droits et en protéger l’exercice».

54 Un esempio di quello che viene definito biocolonialismo è dato dalla storia della tribù dei Guajajara del Brasile che più di cento anni fa ha scoperto che la pianta del Pilocarpus jaborandi poteva curare il glaucoma e ha sviluppato l’uso medico di tale vegetale. Oggi il Pi-locarpus è esportato dal Brasile come medicina per il glaucoma, con un guadagno di 25 milio-ni di dollari, mentre la tribù dei Guajajara, oltre a non aver ottenuto alcuna partecipazione ai guadagni derivanti dalla sua commercializzazione, non può più farne uso liberamente.

55 D’altra parte, in questo ambito, non è possibile non ricordare che il terzo pilastro della Convezione sulla biodiversità è costituito dall’“access and benefit sharing”, vale a dire dall’accesso alle risorse genetiche (art. 15) e dalla condivisione dei benefici derivanti dal loro utilizzo. Così la Convenzione, oltre ad affermare che gli Stati parti faranno ogni sforzo per favorire l’accesso alle risorse genetiche, invita gli stessi a condividere i benefici derivanti dallo sfruttamento delle risorse genetiche, anche in termini di trasferimento delle tecnologie necessarie per la conservazione e l’uso durevole delle diversità biologica e di partecipazione alle varie attività di ricerca. Significativo è il fatto che la Conferenza delle Parti abbia poi istituito un Ad Hoc Open-ended Working Group on Access and Benefit-sharing il quale ha sviluppato delle linee-guida in materia (adottate nel 2002 dalla suddetta Conferenza) allo scopo di favorire l’attuazione degli articoli relativi all’accesso alle risorse genetiche e alla condivisione dei benefici. Cfr. LESSER, Sustainable Use of Genetic Resources under the Convention on Biological Diversity: Exploring Access and Benefit Sharing Issues, New York, 1998; JEFFERY, Bioprospecting: Access to Genetic Resources and Benefit-sharing under the Convention on Biodiversity and the Bonn Guidelines, in Singapore JICL, 2002, 747 ss.; HAHN, Implementation and Further Development of the Biodiversity Convention: Access to Genetic Resources, Benefit Sharing and Traditional Knowledge of Indigenous and Local Communities, in ZaöRV, 2003, 295 ss.; TULLY, The Bonn Guidelines on Access to Genetic Resources and Benefit Sharing, in Rev. Eur. Com. Int. Env. L, 2003, 84 ss.; SMAGADI, Analysis of the Objectives of the Convention on Biological Diversity: Their Interrelation and Implementation Guidance for Access and Benefit Sharing, in Columbia JEL, 2006, 221 ss.

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6. Da un punto di vista più generale, l’approvazione della Dichiarazione dopo un così lungo periodo di tempo, costituisce una tappa decisamente importante per il riconoscimento a livello internazionale dei diritti dei popoli autoctoni e dei principi che ne sono alla base, soprattutto in relazione a specifici aspetti di tale problematica.

Anzitutto, è importante sottolineare che l’atto esaminato rientra a pieno titolo nella categoria delle Dichiarazioni di principi dell’Assembla Generale, che possono affermare principi suscettibili di condizionare nel tempo il comportamento degli Stati56. In generale, le Dichiarazioni talvolta riflettono il contenuto di norme di diritto consuetudinario già esistenti, ma più spesso costituiscono un fattore decisivo per la cristallizzazione di norme non scritte in via di formazione; infine, esse possono rappresentare un punto di partenza per lo sviluppo del diritto internazionale e la successiva adozione di norme vincolanti nella materia cui si riferiscono. Ne deriva, quindi, che le Dichia-razioni contribuiscono a dare stabilità e a precisare norme consuetudinarie qualora esse siano ancora in gestazione e permettono di far emergere la posizione della Comunità internazionale in relazione ai principi di volta in volta considerati.

Ciò è particolarmente vero per la Dichiarazione sui popoli autoctoni, che ribadisce principi già presenti in strumenti internazionali precedenti, come la menzionata Convenzione OIL, il progetto di Dichiarazione inter-americana dei diritti dei popoli indigeni57 e la Dichiarazione su ambiente e sviluppo del 199258. Con particolare riferimento alla Convenzione, è neces-

56 Cfr. VIRALLY, La valeur juridique des recommendations des organisations interna-

tionals, in AFDI, 1956, 66 ss.; MALINTOPPI, Le raccomandazioni internazionali, Milano, 1958; FALK, On the Quasi-legislative Competence of the General Assembly, in AJIL, 1966, 150 ss.; ARANGIO-RUIZ, The normative role of General assembly of the United Nations and the Declaration of principles of friendly relations, in Rec. des Cours, 1972, III, 431 ss.; DUPUY R.-J., Declaratory law and programmatory law: from revolutionary custom to “soft law”, in Declarations on principles: a quest for universal peace, Leyden, 1977, 247 ss.; REISMAN, The concept and functions of soft law in international law, in Essays in honour of judge Taslim Olawale Elias, Dordrecht, 1992, 135 ss.; FRANCIONI, International “soft law”: a contemporary assessment, in Fifty years of the International Court of Justice. Essays in honour of Sir Robert Jennings, Cambridge, 1996, 167 ss.; MARCHISIO, ONU. Il diritto delle Nazioni Unite, Bologna, 2000, 165 ss.

57 Per quanto riguarda la tutela dei popoli autoctoni all’interno dell’Organizzazione degli Stati Americani, cfr. BARSH, op. cit., 33 ss.; ANAYA, GROSSMAN, The Case of Awas Tingni v. Nicaragua: A New Step in the International Law of Indigenous Peoples, in Arizona JICL, 2002, 1 ss.; KREIMER, Indigenous Peoples’ Rights to Land, Territories and Natural Resources: A Technical Meeting of the OAS Working Group, in Human Rights Brief, 2003, 13 ss.; SANSANI, American Indian Land Rights in the Inter-American System: Dann v. United States, ivi, 2 ss.; Final Written Arguments of the Inter-American Commission on Human Rights before the Inter-American Court of Human Rights: in the Case of Mayagna (Sumo) Indigenous Community of Awas Tingni Against the Republic of Nicaragua, in Arizona JICL, 2002, 327 ss.

58 La Dichiarazione di Rio all’art. 22 riconosce il ruolo fondamentale che i popoli autoctoni svolgono nella gestione dell’ambiente e dello sviluppo e insiste sul fatto che le

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sario evidenziare che, se la disciplina concernente le terre e le risorse naturali in essa contenuta è analoga a quella della Dichiarazione delle Nazioni Unite, lo stesso non può dirsi per ciò che concerne l’autodeterminazione. Infatti, la Convenzione specifica che il termine “popoli” non può essere interpretato come implicante i diritti ad esso collegati in base al diritto internazionale. Si può, quindi, affermare che in questo caso le disposizioni della Dichiarazione rappresentano il risultato di un’evoluzione che ha portato la Comunità internazionale a riconoscere a tali popoli il diritto all’autodeterminazione, sebbene intesa nella valenza interna precedentemente indicata59.

Inoltre, i principi enunciati nella Dichiarazione fungono da linee guida per l’attività che alcuni istituti specializzati delle Nazioni Unite svolgono nelle aree appartenenti alle collettività autoctone, quali la Banca Mondiale60 o l’Organizzazione mondiale della proprietà intellettuale (OMPI)61.

attività nazionali ed internazionali, che vogliono raggiungere uno sviluppo ecologicamente razionale e sostenibile, devono promuovere e rafforzare il peso di tali comunità. Ciò include misure giuridiche per la tutela del diritto di proprietà sulle tradizionali conoscenze ecologiche e sulle terre, nonchè per la protezione di quest’ultime da attività dannose per l’ambiente o che i gruppi autoctoni considerano socialmente e culturalmente inappropriate; il supporto tecnico e finanziario per i progetti, elaborati da tali gruppi, che mirano ad ampliare queste conoscenze o ad applicarle a nuovi problemi; l’ausilio logistico per costituire legami scientifici tra le comunità indigene. Inoltre il capitolo 26 del Programma d’azione riguarda espressamente il «riconoscimento ed il rafforzamento del ruolo dei popoli autoctoni e delle loro comunità» nella realizzazione di uno sviluppo sostenibile.

59 È significativo sottolineare, in relazione alla suddetta evoluzione, che il Progetto di Di-chiarazione inter-americana fa riferimento (all’art. 15) al diritto di tali popoli all’autogoverno, inteso come diritto a determinare liberamente il loro status politico e a perseguire altrettanto liberamente il loro sviluppo economico, sociale, culturale e spirituale, dando, quindi, una defi-nizione di “autogoverno” praticamente identica a quella di “autodeterminazione” derivante dall’art. 1 comune ai due Patti internazionali del 1966. Probabilmente è stato scelto un ter-mine differente da quest’ultimo per evitare qualsiasi implicazione concernente la secessione o l’indipendenza dallo Stato, impressione confermata anche dal fatto che nel Preambolo si afferma che dal termine “popoli” utilizzato nel Progetto non possono farsi discendere i diritti che ad esso sono collegati in base al diritto internazionale. Cfr. OEA/Ser.L/V/II.110.

60 La Banca Mondiale, a partire dagli anni ‘80, e ancor più dagli anni ‘90, si è preoccupata degli effetti che i progetti di sviluppo da essa finanziati venivano ad avere sui popoli au-toctoni. La Banca ha dato un nuovo indirizzo alla propria politica relativa a detti popoli nel 1991, ponendosi l’obiettivo di assicurare che il processo di sviluppo rispettasse pienamente la dignità, i diritti umani e l’unicità culturale di tali collettività e di garantire che gli effetti so-ciali ed economici di tale processo fossero compatibili con la loro cultura. L’Istituto ha quindi teso a coinvolgere i popoli indigeni attraverso una partecipazione informata, il che significa individuare le preferenze locali per mezzo di consultazioni dirette, ricorrere ad esperti, inclu-dere le conoscenze indigene nei progetti che coinvolgono i loro territori ed evitare di creare o aggravare la dipendenza di tali gruppi dagli organi o istituzioni che sono alla base del pro-getto, favorendo, invece, l’impegno diretto di queste comunità nell’amministrazione e realiz-zazione dei progetti.

61 Sull’argomento, cfr. Roundtable on intellectual property and indigenous peoples WIPO/INDIP/RT/98/4E (15 luglio 1998); Roundtable on intellectual property and indigenous peoples WIPO/INDIP/RT/98/4 A (13 luglio 1998); Wipo national seminar on intellectual property WIPO/IP/CAI/1/03/12 (17 febbraio 2003); La Dichiarazione di Mataatua sui diritti

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Ciò mostra che detti principi si stanno affermando con sempre maggior convinzione nell’ambito della Comunità internazionale, favorendo la loro futura trasposizione in uno strumento giuridico vincolante. Tale processo sembra confermato anche dalla giurisprudenza internazionale in materia.

In particolare, nel caso Awas Tingni vs. Nicaragua62 la Corte interame-ricana dei diritti dell’uomo, riconoscendo l’importanza del legame tra questo gruppo autoctono e le sue terre nonché il diritto di possederle, ha affermato, seguendo l’impostazione della Commissione, che il diritto di proprietà di cui tratta l’art. 21 della Convenzione interamerica sui diritti dell’uomo non è li-mitato a quello formalizzato nel diritto interno, ma include anche il diritto creato dalla pratica e dalle consuetudini dei popoli autoctoni. In tal senso, il concetto di “proprietà” secondo la Convenzione include la proprietà collet-tiva dei popoli autoctoni, poiché negli strumenti internazionali i diritti hanno un significato autonomo rispetto a quello dato dalle varie legislazioni nazio-nali. In senso analogo si era espressa del resto anche la Corte europea dei diritti dell’uomo63.

In tal modo, la Corte interamericana, nel ravvisare una violazione del diritto di proprietà della comunità in questione da parte del Nicaragua, ha u-tilizzato un metodo evolutivo di interpretazione, considerando rilevanti gli sviluppi normativi intervenuti a livello internazionale, sia all’interno che al di fuori del sistema interamericano, confermando tra l’altro implicitamente la posizione espressa dalla Commissione interamericana in relazione al va-lore consuetudinario della norma concernente il diritto di proprietà dei po-poli indigeni.

Conferma tale giurisprudenza anche la sentenza del 2005 della medesi-ma Corte sul caso della Comunità indigena Yakye Axa c. Paraguay64. Dopo aver sottolineato l’essenzialità del possesso delle terre ancestrali da parte delle collettività autoctone, non solo per motivi economici ma anche per la loro sopravvivenza in quanto popoli culturalmente distinti, la Corte ha affermato che un riconoscimento meramente giuridico del diritto considerato non ha alcun significato se la proprietà non è effettivamente garantita. Essa ha anche aggiunto che – ed è questo l’elemento di maggior interesse – in ca-so di contrasto tra diritto di proprietà delle comunità considerate e diritto di proprietà di singoli individui e in presenza di ragioni concrete e legittime che impediscono allo Stato di adottare misure per garantire alle comunità au-

di proprietà culturale ed intellettuale dei popoli indigeni (giugno 1993); Foglio n.12: WIPO e i popoli indigeni; PICONE, LIGUSTRO, Diritto dell’organizzazione internazionale del com-mercio, Padova, 2002, 397-437.

62 Awas Tingni vs. Nicaragua, Inter-Am. Ct.H.R. (Ser. C.) n. 79 (31 agosto 2001). 63 Nel caso Matos e Silva, Ltd v. Portugal (1997), 24 EHRR 573, la Corte ha sostenuto

che la nozione di possesso nell’art. 1 del Protocollo n. 1 ha un significato autonomo da quello dato dalle legislazioni nazionali.

64 Case of the Yakye Axa Indigenous Community v. Paraguay, Inter-Am. Ct.H.R. del 17 giugno 2005.

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toctone il possesso delle loro terre e risorse naturali, queste dovranno rice-vere un equo indennizzo. Inoltre, la scelta di attribuire loro altre terre dovrà ricevere il pieno consenso dei gruppi coinvolti in base ai loro meccanismi di consultazione nonché ai loro valori, usi e norme consuetudinarie.

Certo non meno significativa è la comunicazione della Commissione africana in relazione al caso The Social and Economic Rights Action Center and the Center for Economic and Social Rights vs. Nigeria65 concernente il popolo degli Ogoni e lo sfruttamento del petrolio presente nel loro territorio. Il reclamo è stato presentato alla Commissione a causa dell’inattività e del sostegno fornito dal Governo nigeriano alle azioni di sfruttamento portate avanti dalla Shell, per mezzo della Nigerian National Petroleum Company (impresa pubblica ed azionista di maggioranza nel consorzio con la Shell)66.

Entrando nel merito della questione, la Commissione africana ha stabi-lito che il Governo della Nigeria aveva violato il diritto degli Ogoni a di-sporre di un ambiente sano (art. 24) ed il loro diritto alla salute, permettendo alle compagnie petrolifere di danneggiare profondamente l’ambiente attra-verso l’inquinamento e non promuovendo un uso ed uno sviluppo sostenibile delle risorse naturali67. Ne derivava un attentato ai diritti umani anche per gli effetti negativi dell’inquinamento sulla qualità della vita dei singoli individui e sulla possibilità della comunità di garantire alle generazioni future un am-biente salubre ed in grado di rispondere alle loro necessità. Inoltre, sempre secondo la Commissione, la tutela dei cittadini non doveva essere perseguita solo attraverso un’adeguata legislazione, ma anche per mezzo di un’efficace protezione dagli atti dannosi perpetrati dal settore privato. Non agendo in tale senso la Nigeria aveva violato in ugual modo l’art. 21, relativo al diritto degli Ogoni di utilizzare e disporre liberamente delle loro risorse naturali.

La Commissione ha infine riconosciuto la violazione del diritto di detta collettività a possedere un’abitazione, quale diritto derivante da quello alla salute fisica e mentale, alla proprietà ed alla protezione della famiglia, e ad

65 Comunicazione n. 155/96, presentata alla Commissione il 14 marzo 1996. La pronuncia

della Commissione si è avuta nell’ottobre del 2001. 66 Tale sfruttamento è avvenuto in assenza di qualsiasi tutela per l’ambiente, la salute e

l’attività produttiva della comunità locale, mettendone così in pericolo la sopravvivenza, ed in mancanza di consultazioni e di condivisione dei benefici con detta popolazione. Le proteste da parte di quest’ultima hanno sovente provocato la reazione violenta e le esecuzioni di massa da parte dell’esercito nigeriano. Le istanze del popolo degli Ogoni sono state portate avanti dal Movement of the Survival of Ogoni People (MOSOP) il cui leader, Ken Saro-Wiwa, è stato condannato a morte insieme ad altri militanti, condanna eseguita il 10 novembre 1995 nonostante le pressioni internazionali e della Commissione africana affinché l’esecuzione fosse sospesa. Sulla questione cfr. International Pen, Constitutional Rights Project, Interights on behalf of Ken Saro-Wiwa Jr. and Civil Liberties Organization vs. Nigeria, Comunicazioni n. 137/94 del 28 settembre 1994, n. 139/94 del 9 settembre 1994, n. 154/96 del 6 novembre 1995 e n. 161/97 del 10 gennaio 1997. La Commissione si è pronunciata il 31 ottobre 1998.

67 Si ricorda che le pronunce della Commissione non sono vincolanti per gli Stati verso cui sono rivolte.

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avere cibo a sufficienza, altra garanzia che non è affermata in modo esplicito nella Carta ma che nasce dal diritto alla vita, alla salute ed allo sviluppo economico, sociale e culturale68.

L’importanza di tale decisione sta nel fatto che la Carta africana è stata interpretata in modo ampio, facendo riferimento anche a diritti che in essa non sono esplicitati e dando un’estesa interpretazione del diritto ad un am-biente sano. Ci si sarebbe, però, attesi un’affermazione più netta del diritto del popolo degli Ogoni a possedere le loro risorse naturali e controllarne lo sfruttamento, in particolare riconoscendo il dovere della Nigeria di agire per garantire alla comunità considerata la condivisione degli utili derivanti dallo sfruttamento del petrolio estratto dalle loro terre.

Secondo parte della dottrina69, poi, la prassi internazionale e nazionale, con particolare riferimento ai diritti riconosciuti a tali popoli dagli ordi-namenti interni e dalla giurisprudenza di vari Stati, mostrerebbe che il diritto di queste collettività a possedere e controllare le loro terre e risorse naturali ha ormai acquisito il carattere di norma di diritto internazionale generale. In effetti, tutti gli strumenti internazionali (e in alcuni casi nazionali) in materia riconoscono ai popoli indigeni tale diritto quale elemento indispensabile per la loro esistenza in quanto popoli culturalmente distinti dagli altri e, quindi, per l’effettiva realizzazione dell’insieme dei diritti ad essi garantiti. Ora, questo riconoscimento diffuso sembra riflettere l’affermarsi di un convin-cimento della Comunità internazionale circa l’obbligo di attribuire a tali collettività detti diritti.

D’altra parte, se è vero che nella prassi vi è ancora la tendenza a non rendere effettivi tali diritti, è altrettanto vero che occorre tenere presente due elementi: in primo luogo, spesso la prassi considerata si pone in violazione del diritto interno, che, sempre più frequentemente, contiene norme dirette a riconoscere i diritti di cui discorriamo; in secondo luogo, questa prassi viene giustificata non con l’argomentazione dell’inesistenza dell’obbligo in capo allo Stato di riconoscere tali diritti ai popoli autoctoni, bensì al fatto che la loro applicazione andrebbe a detrimento dei diritti del resto della popola-zione.

Inoltre, è indispensabile considerare che la facoltà di esercitare il con-trollo e di amministrare le terre e le risorse naturali è strettamente connesso ad uno dei principali diritti riconosciuti dalla Dichiarazione, quello all’auto-

68 La Commissione, al par. 68 della decisione, ha affermato che il diritto al cibo è

“inseparably linked to the dignity of human beings and is therefore essential for the enjoyment and fulfilment of such other rights as health, education, work and political participation”.

69 Cfr. WILLIAMS, Encounters on the Frontiers of International Human Rights Law: Redefining the Terms of Indigenous Peoples’ Survival in the World, in Duke LJ, 1990, 660 ss.; REISMAN, Protecting Indigenous Rights in International Adjudication, in AJIL, 1995, 350 ss.; WIESSNER, The Rights and Status of Indigenous Peoples: A Global Comparative and International Legal Analysis, in Harvard HRJ, 1999, 57 ss.; ANAYA, op. cit.

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determinazione (interna). In effetti, quest’ultima non può dirsi veramente realizzata se non quando è accompagnata dal controllo sulle terre e risorse naturali, e ciò vale tanto per l’aspetto economico che per quello politico del-l’autodeterminazione. Infatti, in assenza del suddetto controllo, i popoli, non solo non sono in grado di determinare gli indirizzi del proprio sviluppo eco-nomico, ma neppure dispongono dei mezzi e delle facoltà per raggiungere un’autonoma organizzazione istituzionale, sociale e politica che corrisponda alle loro caratteristiche precipue (valenza che, come visto in precedenza, il principio di autodeterminazione ha all’interno dell’atto qui analizzato)70.

Da tutto ciò è possibile dedurre che la Dichiarazione non solo ha enunciato i diritti dei popoli indigeni ma, in correlazione con la giurispru-denza internazionale, ha rappresentato un passo decisivo nella formazione di un vero e proprio sistema di tutela di detti diritti71.

In conclusione, nonostante l’esistenza di alcuni nodi da risolvere72, è condivisibile l’affermazione dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite sui diritti umani, Louise Arbour, secondo la quale l’adozione della Dichiara-zione ha rappresentato “a triumph for justice and human dignity”.

70 Non è certo un caso se nel periodo post-coloniale gli Stati di nuova formazione abbiano

affermato il loro diritto ad essere indipendenti non solo dal punto di vista politico ma anche e-conomico (e, quindi, di riacquisire il controllo sulle risorse naturali). Infatti, solo in tale modo essi avrebbero potuto effettivamente guidare il loro sviluppo, determinare la loro organiz-zazione politica, istituzionale ed economica e raggiungere, quindi, una reale indipendenza.

71 Significativo, in tal senso, l’impegno assunto da parte delle Nazioni Unite, dei loro organi e degli istituti specializzati, ad agire in modo da dare piena attuazione alla Dichia-razione anche attraverso la cooperazione tecnico-finanziaria e la creazione di organi dotati di una competenza speciale in questo campo e caratterizzati dalla partecipazione diretta dei popoli autoctoni, il che rappresenta uno strumento importante attraverso cui quest’ultimi potranno realizzare tali diritti.

72 Non è possibile sottacere il fatto che la Nuova Zelanda ed il Canada nelle loro dichia-razioni di voto abbiano affermato che la Dichiarazione in questione non rappresenta un testo di base da cui partire per giungere all’elaborazione ed approvazione di altri strumenti giuridici in materia. UN Doc. A/61/PV.108.