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La musica nel cinema italiano 1960-1964 di Sergio Bassetti Prologo: Venezia 1959 Nell’accostarci all’indagine sulla produzione musicale italiana del quinquennio cinematografico 1960-1964, con particolare attenzione ai macrofenomeni che l’hanno segnata, crediamo vantaggioso assumerne a prologo, in un certo senso anticipatore, quella Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia del 1959 che per consuetudine è considerata il punto di transizione dall’involuzione del post-neorealismo al fervore ideativo e produttivo degli anni ’60, destinato a siglare una stagione di tra- sformazione e rigoglio del cinema non più eguagliati, tanto al di qua che al di là dei confini nazionali. Proprio in occasione del Festival veneziano del ’59, peraltro, si tiene il Congresso Internazionale “Musica e Film”, organizzato congiuntamente dalla stessa Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica e dal Festival Internazionale di Musica Contemporanea: un evento che, al di là della prevedibile sterilità di certe dissertazioni, rende testimonianza della vitalità della questione “cinemusicale” e della sua incidenza nella vita culturale di quegli anni; a tal proposito non va neppure dimenticato che il convegno veneziano seguiva, a nemmeno un decennio di distanza, quel VII Congresso Internazionale di Musica che, nell’ambito del Maggio Musicale Fiorentino del 1950, aveva autorevolmente fatto il punto sui molteplici aspetti dell’articolato rapporto tra musica e film: a ulteriore conferma della centrali della materia anche in seno al di- battito musicale “alto”. Attribuendo il Leone d’oro ex aequo a Il generale della Rovere (1959) di Roberto Ros- sellini e a La grande guerra (1959) di Mario Monicelli, la XX Mostra veneziana decretò, come è noto, una sorta di resurrezione e riscossa del cinema italiano, del quale veniva così confortata e sancita la ritrovata determinazione tanto a misurarsi ad armi pari con la produzione hollywoodiana, pervasiva e all’epoca vincente, quanto quella di 1

La musica nel cinema italiano 1960-1964

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La musica nel cinema italiano 1960-1964di Sergio Bassetti

Prologo: Venezia 1959

Nell’accostarci all’indagine sulla produzione musicale italiana del quinquennio

cinematografico 1960-1964, con particolare attenzione ai macrofenomeni che l’hanno

segnata, crediamo vantaggioso assumerne a prologo, in un certo senso anticipatore,

quella Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia del 1959 che per

consuetudine è considerata il punto di transizione dall’involuzione del post-neorealismo

al fervore ideativo e produttivo degli anni ’60, destinato a siglare una stagione di tra-

sformazione e rigoglio del cinema non più eguagliati, tanto al di qua che al di là dei

confini nazionali. Proprio in occasione del Festival veneziano del ’59, peraltro, si tiene il

Congresso Internazionale “Musica e Film”, organizzato congiuntamente dalla stessa

Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica e dal Festival Internazionale di Musica

Contemporanea: un evento che, al di là della prevedibile sterilità di certe dissertazioni,

rende testimonianza della vitalità della questione “cinemusicale” e della sua incidenza

nella vita culturale di quegli anni; a tal proposito non va neppure dimenticato che il

convegno veneziano seguiva, a nemmeno un decennio di distanza, quel VII Congresso

Internazionale di Musica che, nell’ambito del Maggio Musicale Fiorentino del 1950,

aveva autorevolmente fatto il punto sui molteplici aspetti dell’articolato rapporto tra

musica e film: a ulteriore conferma della centrali tà della materia anche in seno al di-

battito musicale “alto”.

Attribuendo il Leone d’oro ex aequo a Il generale della Rovere (1959) di Roberto Ros-

sellini e a La grande guerra (1959) di Mario Monicelli, la XX Mostra veneziana

decretò, come è noto, una sorta di resurrezione e riscossa del cinema italiano, del quale

veniva così confortata e sancita la ritrovata determinazione tanto a misurarsi ad armi pari

con la produzione hollywoodiana, pervasiva e all’epoca vincente, quanto quella di

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arrestare la indiscriminata emorragia di spettatori indotta dall’avvento della televisione,

che stava gradualmente stremando il mercato cinematografico. Dal nostro punto di vista

i due film hanno in comune una analoga, e per il momento larvale, avvisaglia di

svecchiamento d’un atteggiamento musicale da tempo fossilizzato nella ritualità di

partiture sostanzialmente “burocratizzate”, indifferenti cioè all’evolvere dei linguaggi e

al mutare dei contenuti: era stato questo, per certi aspetti, il problema dei musicisti della

stagione neorealista, la cui incapacità di sintonia e adeguamento linguistico, se non

ideologico, a quei rivoluzionari testi visivi, non meno della miopia nel misurarne la

portata culturale, ebbero il valore di intima contraddizione e di sottile tradimento delle

novità più originali di quel “movimento”.

Nella fase del dopoguerra e sino alla vigilia degli anni ’60, infatti, continuano ad essere

praticati linguaggi e tendenze musicali in auge già nel cinema d’anteguerra: si va da un

sinfonismo forbito, importante, nel cui strumentale sono avvertibili vaghi influssi della

“generazione dell’Ottanta”, Respighi e Casella in primis, ad un folclorismo bozzettistico

di impronta tipicamente italiana e oscillante tra remote influenze veriste e certo

colorismo mediterraneo ancora di ascendenza caselliana; ci si imbatte poi in espressioni

del facile melodismo popolare di stampo canzonettistico, ben presenti soprattutto nella

commedia rosa, accanto a slanci “modernisti” appena abbozzati che elaborano,

stemperandolo, quel jazz sbarcato nel nostro paese con gli eserciti di liberazione; e

sorvolando sui fermenti riformatori ancora embrionali che animano musicisti come

Nascimbene e, soprattutto, Fusco, sui quali ci soffermeremo più oltre, si giunge infine ai

contributi occasionali e diversamente rimarchevoli di compositori di area colta prestati al

cinema, tra cui Ildebrando Pizzetti, Mario Zafred, Ennio Porrino, Goffredo Petrassi e

Gino Gorini, i cui apporti, benché variamente raffinati ma non necessariamente

appropriati ad un impiego eteronomo, modificano di poco e anzi amplificano un quadro

generale desolante tanto nella sua stagnazione estetica e linguistica quanto nel

conservatorismo applicativo; l’unico elemento di novità musicale, se così è lecito

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definirla, è legato all’insorgente fenomeno del “cinema di genere”, inaugurato verso la

metà degli anni ‘50 dal filone mitologico e giunto al suo zenit negli anni ‘60, con una

fioritura di tipologie spettacolari mediate da modelli germinativi d’oltreoceano. Queste

produzioni casalinghe a basso costo – ci riferiamo innanzitutto al peplum, al film

avventuroso e all’epico-mitologico –, indirizzate a platee dal palato facile, per

consuetudine fanno pesante affidamento su un wagnerismo raccogliticcio e tonitruante,

ma formalmente rifinito, preso a prestito da modelli linguisticamente e culturalmente

artificiali e del tutto incongrui alla nostra identità, come appunto l’eredità musicale

romantica tedesca riletta da Hollywood: soluzione, questa, giudicata necessaria dai

produttori, e subito istituzionalizzata, per garantire confezioni cinematografiche allineate

alle attese di un pubblico avvezzo ai modelli d’origine statunitensi, e perciò ibride, sotto

il profilo musicale, sprovviste di autenticità estetica e grossolanamente “faraoniche”.

E’ dunque tanto più singolare che al tramonto degli anni ‘50 un impulso confusamente e

inconsapevolmente innovatore venga non da outsider o da forze fresche appena entrate

nell’arena musicale cinematografica, bensì da specialisti eccellenti e di lungo corso

come Renzo Rossellini e Nino Rota, responsabili musicali dei due film vincitori a

Venezia, la cui “compromissione” con liturgie formalistiche e consuetudini applicative

dell’ancien régime musicale era ben documentata e, all’apparenza, nient’affatto conflit-

tuale. Ma tant’è: Il generale Della Rovere si avvale di una partitura insolitamente sobria,

sorvegliata, i cui interventi rispondono a criteri di discrezione drammaturgica più che

alle prolissità e ai turgori non infrequenti in Rossellini, per altri versi musicista di fluente

scrittura melodica e intenso gusto del colore, ma animato altresì da una disposizione per

il teatro musicale manifesta e talora invasiva. E sebbene la partitura non sia immune da

cadute melodrammatiche, sarebbe ingiusto non riconoscere ai due Rossellini mano

sicura nell’aver neutralizzato la gran parte dei trabocchetti retorici ed effusivi annidati

nel tessuto narrativo, tanto da fare di quest’opera, pur così lontana da modi e registri cari

al cinema resistenziale dell’immediato dopoguerra, uno degli esiti musicali più

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autenticamente “neorealisti” per controllo e puntualità espressivi (1), e in questo senso

un simbolico e infine adeguato congedo da quella stagione felice ma del tutto irrealizzata

sotto l’aspetto musicale.

A suggellare il capitolo veneziano di una transizione musicale ormai nell’aria, giunge

anche la momentanea resipiscenza – ma preferiamo credere alla scrupolosa adesione a

un taglio narrativo naturalistico e antiretorico – di un compositore dall’eloquio

abitualmente dovizioso e di vena lussureggiante, quel Nino Rota che nella partitura per

La grande guerra sfiora al contrario l’afasia compositiva privilegiando canti tradizionali

della guerra ‘15-‘18 agli interventi giocati sulle proprie pagine, peraltro più disadorne ed

economizzate che d’abitudine e che per di più vengono affidate a strumenti umili, come

la fisarmonica, o ad organici ridotti alieni da ogni tentazione amplificatoria. Ne derivano

uno sguardo e una prospettiva d’ascolto insolitamente “dal basso”, popolari, ad altezza

di fantaccino, in cui la magniloquenza musicale di circostanza – vi si narra pur sempre

dell’unica epopea patriottica italiana di questo secolo – trova sfogo relativo e tutto

sommato laconico soltanto nell’impennata orchestrale consegnata al tutti sulle immagini

corali dell’assalto conclusivo: viatico celebrativo a una narrazione che ha gli accenti

della ballata popolaresca più che dell’epinicio osannante. Benché non esente a sua volta

da qualche modesto squilibrio stilistico-espressivo, la scrittura di Rota rivela qui

esattezza di toni ed è pressoché immune dalla esuberanza d’eloquio che questo

compositore è portato d’istinto a dispensare anche quando la fluidità affabulatoria della

sua indole non è legittimata da drammaturgie di espressività più scarna: col risultato, per

troppo voler dire, di soffocare talvolta ogni residua verità sotto una sin troppo distesa

discorsività melodica (2).

Antonioni e Fusco (e l’altro)

Ma di Rota torneremo a ragionare più avanti e in termini assai meno severi. Limitiamoci

qui a ribadire la singolare e del tutto accidentale circostanza che fa coincidere la

realizzazione delle due partiture di Rossellini e Rota stesso con l’incipit di una stagione

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di vigoroso rinnovamento nella musica del cinema italiano. Un rinnovamento che si

attua senza clamore ma con sotterranea energia attraverso le pagine musicali e gli

scenari sonori de L’avventura, innanzitutto, uno dei tre film, insieme a La dolce vita e

Rocco e i suoi fratelli, che nel 1960 sanciscono la definitiva svolta dal respiro corto dello

strapaese e della vacuità post-neorealista verso un cinema pronto a misurarsi con

contenuti esistenziali, sociali e culturali più densi e profondi, dei quali una società in

tumultuosa trasformazione come quella dei primi anni ‘60 comincia ad avere consape-

volezza e desiderio di rappresentazione. Il processo di sprovincializzazione e di

“addensamento” concettuale del cinema italiano prende dunque l’avvio per mano di

registi i cui esordi, in varia misura lontani dagli anni ‘60, corroborano la tesi di una

spinta innovatrice che non nasce già preformata, ma è frutto graduale di una pregressa

adesione a modelli di tradizione dai quali le differenti personalità espressive e stilistiche

si sono poi emancipate. E non dissimile è il travaglio di maturazione attraverso cui deve

passare Giovanni Fusco, compositore di riferimento di Michelangelo Antonioni, il cui

debutto cinematografico data addirittura alla metà degli anni ‘30: dopo un tirocinio di

basso artigianato, più che altro per film sentimentali o d’avventura dove la sua indole

riformatrice resta in ombra, Fusco incontra nel 1948 Antonioni che gli affida le cure

musicali dei suoi primi corti e poi dei lungometraggi. In questi ultimi il regista appare

ancora incerto, sul piano musicale, tra ragioni del mercato e proprie intransigenze,

indugiando a metà del guado tra rassegnazione a modelli musicali di stampo industriale,

di puro mestiere, e intima vocazione al silenzio musicale. Nel difficile dilemma lo

soccorre Fusco che per parte sua essenzializza il proprio apporto a questo cinema

inusuale, già distante da tutti gli altri, dove l’inespresso sopravanza l’esplicito: così dagli

indistinti, anonimi impasti orchestrali allora in voga il compositore isola e mette in ri-

salto formulazioni timbriche raccolte, minimaliste, coerenti col linguaggio di Antonioni,

che rivelano salutari capacità di riconsegnare ai singoli strumenti d’orchestra integrità di

vigore espressivo e ritrovata verginità semantica. Sotto il profilo strutturale, le

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architetture musicali dei primi lungometraggi di Antonioni e Fusco rimangono ancorate,

in una fase iniziale, ai principi di un tematismo discontinuo, elastico, dove la melodia,

benché non ripudiata e comunque affrancata da ogni valenza referenziale esatta e biu-

nivoca, lascia ampi spazi a suoni astratti, fraseggi sospesi e abbozzi motivici incompiuti:

in altre parole, a un frammentarismo inquieto e, soprattutto, ad un silenzio musicale via

via più esteso. A questo proposito è davvero sorprendente come in campo

cinematografico gli atteggiamenti musicali più originali degli anni ‘60, di segno tra loro

antitetico, siano emanazione di personalità autoriali segnate da un disagio confesso nel

proprio rapporto privato con la musica. Nella testimonianza di Fusco, Antonioni

«intrattiene con la musica dei rapporti molto personali: la detesta e non può farne a meno

[…] vorrebbe spingersi oltre: abolirla del tutto o accettarla soltanto se è richiesta dalla si-

tuazione […] nei confronti della musica si comporta come un uomo che odia una donna

perché l’ama troppo (3)». Federico Fellini, per parte sua, ammette: «Al di fuori del mio

lavoro la musica preferisco non sentirla. Mi condiziona, mi allarma, ne vengo posseduto.

Mi difendo rifiutandola, scappando via come un ladro dalle occasioni (4)». Personalità

dunque soggiogate e al medesimo tempo circospette verso la natura ipnotica e

trasfiguratrice delle note musicali, alla quale ciascuno troverà poi il proprio antidoto:

Fellini cavalcando la tigre, trasferendo cioè, coi buoni uffici di Rota, quell’irresistibile

seduzione sullo spettatore indifeso; fagocitando quindi la musica e sottomettendola alle

proprie necessità espressive, sino a consegnare a quelle pagine “dettate” al compositore

– o da questi modellate miracolosamente sotto la suggestione delle folgorazioni

felliniane – il ruolo di pietre angolari imprescindibili e di cifra stessa del proprio

universo poetico. Antonioni, al contrario, sterilizzando progressivamente le sue imma-

gini di ogni valore sentimentale aggiunto e spurio: egli relativizza drasticamente, quindi,

tanto la presenza che il peso “persuasivo”, empatogeno e mistificante della musica, che

viene raffreddata e oggettivata e, insieme a suoni ambientali, rumori, elementi pae-

saggistici, dettagli scenografici e, più avanti, al colore stesso, riorganizzata – e riabilitata

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– con funzione di indizio, di specchio e diagramma del male di vivere dei personaggi.

Nel cinema di Antonioni degli anni ‘60 lo scenario sonoro, e con esso quello più

genericamente espressivo, si arricchisce di un tassello, la musica, di straordinaria

capacità riflettente, avvalorativa e rappresentativa, e dunque significante, cui vengono

però sottratte ogni valenza descrittiva e portata affettiva: soluzione peraltro congruente

con una poetica che postula la precarietà dei sentimenti. Già ne L’avventura (1960)

dunque, Antonioni e Fusco avviano questo processo di smaltimento delle note superflue,

dotando contestualmente la fonosfera non musicale del film di senso e densità espressiva

sino a quel momento sconosciuti: così i suoni naturali, accuratamente selezionati da

Antonioni, finiscono per dire più di quanto la musica stessa sia chiamata a esplicitare,

mentre l’articolato mosaico simbolico-informativo offerto dal sonoro fa appello a una

sensibilità ripristinata, che rinneghi i pigri codici interpretativi vigenti (5); una sensibilità

peraltro agevolata dal processo di straniamento che le invenzioni espressive e stilistiche

proposte dal regista e da Fusco mettono in atto, quantomeno nello spettatore disponibile.

Alla musica diegetica o realistica, nel nostro caso canzonette e ballabili provenienti da

fonti sonore inquadrate e comunque riferibili allo spazio narrativo, Antonioni affida la

cruciale funzione di rivelatori dello “spirito del tempo”, quello Zeitgeist che avvolge i

personaggi e sembra influenzarne atteggiamenti e azioni. Ne La notte (1961) Antonioni

tradisce temporaneamente Fusco, ma non il proprio credo musicale, e affida a Giorgio

Gaslini e alle sue esecuzioni dal vivo – con l’eccezione della musica elettronica che si

dispiega indifferente sui titoli di testa – il compito di riflettere nel testo sonoro il senso di

algido distacco e smarrimento dei valori che impregna la trama dei rapporti tra i due

protagonisti, e tra questi e la società borghese nel cui seno si muovono; e il jazz

elegantemente raggelato di Gaslini, depurato d’ogni scoria passionale, si dimostra

oltremodo funzionale e aderente, vuoi per congruenza ambientale vuoi per la raffinata

astrazione che lo scandisce e ne fa l’epitome sonora dell’assunto di Antonioni. Ne

L’eclisse (1962), poi, questo senso della prevalenza oggettuale su sentimenti malati e le-

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gami precari trova nel sonoro accenti ancor più icastici e persuasivi: la rarefazione della

parola, il dilatarsi dei silenzi, un progressivo sfaldamento sintattico che accorcia la

distanza tra suoni musicali e bruitismo – sorta di partitura concrète –, l’urgenza espres-

siva dei rumori tanto come ultimi interpreti d’una comunicazione forse già impossibile

quanto in veste di voce fisica delle cose stesse (6), sono altrettante testimonianze

suggestive di un rifiuto sempre più netto delle gerarchie sonore tradizionali e della

musica nel film in funzione di “motore degli affetti”. Solo due anni dopo, in Deserto

rosso (1964), Antonioni radicalizza ulteriormente la sua riflessione sulla musica e nel

contempo mira a scioglierne talune ambiguità latenti, pervenendo a una bipartizione

fonica che raddoppia e rafforza la dicotomia ideologica del film. Le sonorità musicali del

passato, della tradizione, non sembrano avere più cittadinanza in un mondo in cui ogni

valore umano è stato reificato e sostituito dalle logiche del profitto e di un presunto

progresso, un mondo i cui lineamenti appaiono distorti e sfigurati per effetto delle ma-

nipolazioni dell’uomo, che lo intossicano e snaturano: per analogia i suoni musicali resi

irriconoscibili, cambiati di natura appunto, e manipolati da Vittorio Gelmetti – i cui

suoni elettronici affiancano qui quelli più tradizionali di Fusco –, stanno simbolicamente

agli apocalittici scenari industriali di Ravenna come il canto muto e astratto che

accarezza l’episodio del sogno sta a una arcadia primigenia, a un paradiso perduto e

crudelmente irrecuperabile. Questo schematismo di segno manicheo proposto da Anto-

nioni ha tutta l’aria di un passo indietro rispetto alle sue lucide riflessioni e libera

elaborazione ideologica sulla sfera sonora, innanzitutto per le troppo facili e rigide

associazioni concettuali dei diversi lessici musicali adottati, e poi per quella che suona

come una riapertura di credito a un melodismo – meglio ancora, melodiosità – con tutta

evidenza irrinunciabile, ma che sino a quel momento il regista sembrava aver sospinto,

capitolo dopo capitolo, nel territorio dell’inopportunità, se non della assoluta

impraticabilità. Resta comunque all’attivo, in questa tetralogia di Antonioni, una ri-

definizione del rapporto tra narrato e musica, dove questa non è più sussidio didascalico

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a una immedesimazione sentimentale o espediente descrittivo o, peggio, superfetazione

cosmetica, bensì voce stessa delle cose, dalle quali emana materializzandosi in forma di

lamento sommesso e a tratti rabbioso: espressione oggettiva di un male del mondo che

non risparmia né anime né cose. E all’attivo di Antonioni e Fusco restano, non meno

importanti, un lavoro di sottrazione ed astrazione a carico del testo musicale e,

soprattutto, una ininterrotta indagine tanto sulla espressività dei suoni ambientale e

oggettuale che sulla dissoluzione dei confini – tendente all’indifferenziato – tra questi e i

modelli più estremi del linguaggio musicale occidentale: non più irrelati, suono musicale

e non musicale si integrano in un sincretismo fonico fondato su un teorema estetico e

funzionale che rimedita le gerarchie sonore, e che proprio in Deserto rosso trova la sua

illustrazione più compiuta, anche se solo parzialmente persuasiva. Negli stessi anni

Giovanni Fusco ha modo di proporre altrove le sue soluzioni quasi sempre sorrette da un

acuto istinto drammaturgico, senza tuttavia riuscire a proseguire, in film sostanzialmente

dispersivi e conservatori sotto i profili estetico e funzionale, le sperimentazioni condotte

con il regista ferrarese, né poterne neppure mettere a frutto i risultati (7): di sicuro la

disorganicità di Fusco, benché illuminata da intelligenza del cinema e delle sue esigenze

meno esplicite, trova essenzialmente nell’azione catalizzatrice e fecondamente ri-

voluzionaria di Antonioni – e, oltreconfine, nella poetica di Alain Resnais – la lucida

incoscienza e l’energia per imboccare strade inesplorate e impervie, non più al riparo di

melodismi consolatori né di un descrittivismo corrivo e meccanicamente sottoscritto.

Nino Rota: tra razionalismo e irrazionalismo

Di problemi di disgregazione della sintassi musicale, di distanziamento dalla tonalità o

di economie espressive quasi autolesionistiche non si cura affatto, invece, Nino Rota, al

quale vanno ascritte le fluenti partiture per gli altri due film-manifesto del 1960, La

dolce vita di Federico Fellini e Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti.

L’atteggiamento musicale di questo compositore nei confronti dei due cineasti appare

fortemente differenziato, scandito com’è, in linea di massima, dalle bipartizioni ra-

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zionalità/irrazionalità o, se si preferisce, oggettivismo/soggettivismo, che possono essere

assunte, sia pure per schematizzazione e con i dovuti distinguo, a cifre ideologiche ed

espressive dell’opera di Visconti e Fellini, rispettivamente. Quel che ci sembra del tutto

evidente, al di là dell’indiscutibile magistero di scrittura di Rota, cui certo non di-

fettavano bagaglio ed eclettismo per conformarsi – magari come puro esercizio di stile –

anche a poetiche a lui estranee o indifferenti, è il diverso grado della sua sintonia coi

sistemi di pensiero ed estetici dei due cineasti. E quanto più è vissuta visceralmente la

connivenza scanzonata e autoironica, quasi monellesca, col soggettivismo felliniano, via

via più barocco nella sua turbinosa e sontuosa deformazione, tanto più appare compunta

e beneducata, da “salotto buono”, l’adesione al ricercato e severo razionalismo – per di

più colorato ideologicamente – cui obbedisce Visconti.

Al di là del rapporto privilegiato con questi due maestri, quel che sembra altrettanto

manifesta, in Rota, è una predilezione per soggetti e prospettive distanti dalla

quotidianità, dalla realtà puramente fenomenica e cronachisticamente riferita, o

quantomeno per vicende reinterpretate con accenti bizzarri, trasognati, fuori dalle righe,

comunque antinaturalistici: in altri termini la scrittura di Rota sembra più a suo agio a

mano a mano che i confini del realismo e dell’attualità si allontanano, mentre trasfi-

gurazione fantastica e rilettura poetica ne prendono il posto. E dunque il legame tra Nino

Rota e Fellini, col quale collaborerà dal ‘51 al ‘78, anno della sua scomparsa, è di natura

antitetica rispetto a quello che lo accomuna a Visconti – cui sarà cinematograficamente

legato a vario titolo dal ‘54 al ‘63, in un arco di 5 film – e, soprattutto, assai diffor-

memente vissuto, come la stessa differente persistenza dei due rapporti sembra testi-

moniare. Una affinità di natura intellettuale, nel segno di una koinè culturale comune, è

certamente all’origine del sodalizio tra Visconti e Rota, al quale emblematicamente il

regista chiede, nel 1954, di sovraintendere al complesso adattamento di pagine della

Sinfonia n. 7 di Bruckner alle immagini di Senso: è al musicista coltivato e filologo che

Visconti fa appello, e Rota non delude le attese, tanto che nei film successivi verrà

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promosso a compositore ufficiale dell’atelier viscontiano, sempre sotto il segno della

sua enciclopedica cultura e competenza musicale, cui il regista farà riferimento e ricorso

in più d’una occasione. E’ invece alla comune fede in convinzioni di stampo irra-

zionalistico, emotivo e visionario, riferibili a una trascendenza profana, e a una attenzio-

ne al magico e all’onirico, che potrebbe essere ricondotta l’intesa istintiva, quasi

biologica, che corre tra Rota e Federico Fellini, come peraltro tutto il loro rapporto

musicale sembra suggerire e come i protagonisti stessi hanno suffragato in svariate testi-

monianze.

Non si pensi che nel quinquennio 1960-1964 il compositore si sia limitato ai sodalizi fel-

liniano e viscontiano: collabora al contrario ad altri film, con registi come Castellani,

Pietrangeli, Petri, per citare solo i più accreditati; ma nessuno degli esiti si rivela

altrettanto esemplare, in positivo come per i tratti più discutibili, nonché denso sotto il

profilo espressivo quanto le pagine scritte per Visconti e Fellini. Per quest’ultimo Rota

licenzia, nel periodo, tre partiture, per La dolce vita, per Le tentazioni del Dottor Antonio

– episodio di Boccaccio ‘70 (1962) – e infine per 8 1/2 (1963), capitoli successivi del

graduale processo di trasfigurazione espressionistica della poetica felliniana.

Diversamente dall’episodio “boccaccesco”, affidato integralmente ai registri ora ironici

ora cantilenanti e fatati ma sempre “felliniani” del compositore, le partiture de La dolce

vita e di 8 1/2 appaiono sotanzialmente affini, osmotiche, sino a una intercambiabilità

possibile, accogliendo ambedue alla rinfusa e senza pertinenza leitmotivica, in realtà con

puntualità ed efficacia persino subliminale, tutto un corredo di canzoni, marcette, orche-

strine, ballabili, cavalli di battaglia del repertorio classico-leggero in aggiunta,

naturalmente, a brani originali: una minuteria espressiva fatta di reperti esistenziali e

livres de chevet musicali, quintessenze sonore di una stravagante mappa figurativa e

musicale del mondo rimodellata da Fellini a immagine di una personalissima estetica

della ridondanza del messaggio e dei sovratoni espressivi. Nelle pieghe di questo

arbitrario bric-à-brac sonoro, dotato di straordinario rilievo soggettivo e “sensuale” ma

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di qualità estetiche e formali assai sfumate, Rota depone come un cuculo le proprie uova

musicali, mimetizzandole con la chincaglieria del vissuto felliniano sino a renderle

pressoché omogenee ad essa e indistinguibili, almeno a un orecchio non particolarmente

discriminante. In realtà la parentela tra brani originali di Rota e pagine di diario musicali

di Fellini è tutta esteriore, giocata su identità di tempo, ritmo e tono epidermiche più che

sostanziali; è piuttosto Rota che, in nome di una superiore unità espressiva, si presta a

far sue le ossessioni musicali felliniane ritoccandole e trasformandole più o meno

impercettibilmente, quel tanto che basta a renderle di Rota senza che cessino d’essere di

Fellini: il procedimento non è nuovo, è stato già adottato da altri musicisti e lo sarà

ancora, ma qui assimilazione e immedesimazione sono esemplari; e la sapiente inte-

grazione con brani originali rotiani – spesso di ben più densa complessità strutturale ma

di carattere consonante, per così dire – completa il mosaico. Di qui la sensazione d’una

continuità musicale e d’una congruenza interna vere e fittizie a un tempo, e comunque

saldamente funzionali oltreché rappresentative delle mitologie estetiche e sentimentali

del regista. Questa divulgazione psicoanalitica su pentagramma che Rota compie, con

partecipe precisione d’accenti, a carico dell’universo interiore del suo ispiratore è, come

già affermato, frutto d’una affinità elettiva spontanea, più vicina alla complicità che ai

rapporti pur cordiali e variamente confidenziali intrattenuti da questo garbato composi-

tore con altri autori: e proprio in questa immedesimazione, che è compenetrazione candi-

damente e ironicamente sbilanciata in senso privato ed emotivo ancor più che estetico o

tradizionalmente descrittivo, in questa messa in scena musicale di fantasmi benevoli e

feticci sonori che si agitano nel mondo interiore felliniano sta una ulteriore novità che il

cinema della prima metà degli anni ‘60 ci consegna. Novità la cui natura è assai distante

dalle trasformazioni linguistiche e funzionali elaborate dal binomio Antonioni/Fusco,

tanto inclini a un oggettivismo di segno sonoro quanto questa è imbevuta di soggettività

e di umori introspettivi e poetici: al punto di non poter essere facilmente trasferita su una

scala d’uso più ampia e universale, pena il sospetto del ricalco pedissequo d’una

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cosmogonia estetica così inequivocabilmente strutturata e personale. E proprio in questo

senso sarebbe più appropriato parlare di originalità di carattere poetico – anche nella ac-

cezione funzionalista di Jakobson – piuttosto che di autentica innovazione foriera di più

generali ripercussioni applicative o linguistiche.

Non altrettanto originale, e certo non nuovo, può dirsi l’atteggiamento estetico e funzio-

nale che regola il rapporto tra Rota e il cinema di Luchino Visconti, dove può accadere

che una più squisita e alata prassi musicale sospinga paradossalmente le pagine rotiane

verso i territori della gravezza, o quatomeno del sussiego, peraltro nel rispetto di una

tersa e assai ortodossa funzionalità; una gravezza che non affliggeva invece le

“musichette” per Fellini, protese naturalmente verso l’alto, verso una sorta di

fanciullesca e felice sublimazione – e di lì a non molto anche verso l’autoreferenzialità e

il cliché devitalizzato: ma questo non riguarda i primi anni ‘60. E’ dunque a una vasta

cultura condivisa e alla versatile competenza di Rota che va ricondotto il sodalizio tutto

intellettuale che unisce il musicista a Visconti: qui piuttosto che a una personalità

ribollente, sfaccettata e lucidamente bizzarra, Rota deve fare da sponda a un

temperamento di segno opposto, colto e letterario, aristocratico e riflessivo, segnato da

contraddizioni irrisolte e influenzato da una chiara propensione per il melodramma e i

suoi toni. La comune ascendenza dall’alta borghesia milanese contribuisce forse ad

avvicinare le due personalità, che dopo un rodaggio artistico tutt’altro che infecondo – vi

si annoverano la supervisione della partitura bruckneriana per Senso (1954) e le pagine

originali per Le notti bianche (1957) – approdano alla collaborazione per Rocco e i suoi

fratelli, dove la disgregazione da inurbamento della famiglia lucana Parondi viene risolta

da Rota ricorrendo a un singolo tema musicale, ubiquitario, elaborato strumentalmente e

trasformato di carattere – sorta di motivo del destino – per aderire a un ventaglio di

varianti narrative, con chiara predilezione per le nuances più scopertamente sentimentali

e passionali. A completare il discorso musicale intervengono una canzone mediata da

una ninna nanna pugliese, un nervoso motivo di jazz metropolitano e un valzerino

13

delegato a evocare la nostalgia per un passato irrecuperabile. Risulta evidente, nel

passaggio di mano da Fellini a Visconti, una più prevedibile strategia di interventi, che

giungono con puntalità consumata e non disdegnano la sottolineatura telegrafica e

pleonastica (il furto della camicia, la seduzione della proprietaria della lavanderia): tutte

le pagine appaiono più stilizzate, più “professionali” ma, benché dotate di una maggiore

consistenza compositiva nonché di respiro sinfonico ed elaborazione più ampi, si presen-

tano come riconducibili a una teatralità sostanzialmente artificiosa che non sempre porta

beneficio alla tensione narrativa; non ci sembra un caso che gli episodi più stagliati e

vigorosi (lo stupro, l’omicidio) risultino quelli sottolineati pudicamente solo da rumori

ambientali di meditata essenzialità espressiva o quelli avviluppati dal silenzio. Affine

tempestività d’interventi e inclinazione per i toni del melodramma – qui comunque mai

fuori registro, giacché il carattere nobile e il taglio non cronachistico della sfarzosa

messinscena li legittimano – è possibile individuare nelle musiche per Il gattopardo

(1963), dove accanto a forbiti mimetismi tardo-romantici e ammiccamenti all’innodia

risorgimentale, trova appagamento anche l’antica e inesauribile predilezione di Visconti

per le pagine di letteratura musicale colta, cui il suo cinema successivo farà riferimento

ancor più esteso e diretto: ecco dunque un valzer inedito di Verdi, fortunosamente

scovato in una libreria antiquaria – così almeno recita la leggenda –, che viene registrato

per il film e utilizzato dal vivo, in forma diegetica, nell’articolato episodio del ballo a

palazzo Ponteleone accanto a mazurke, galop e valzer di Rota. Il quale, a corroborare il

carattere “colto” riverberato dalla acquisizione dell’inedito verdiano, con l’approvazione

del regista travasa nella partitura de Il gattopardo temi ricavati da un suo lavoro

sinfonico antecedente (8), e la messinscena viscontiana trae il previsto beneficio tanto

dalla sensibile ascendenza nobile che dalla finezza formale di quelle pagine trasferite nel

film. Al di là dei dietro le quinte più o meno pittoreschi, sulla filigrana dei rapporti tra

Rota e Visconti grava l’impressione di un affettato, splendido artigianato musicale

intessuto di ricercatezze stilistiche e speculare tanto al “gusto squisito” che al

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manierismo della rappresentazione viscontiana: ma la sensazione latente è quella di un

esercizio raggelato, per così dire, povero di autentico palpito e della vitalità necessaria

per – e verosimilmente della intenzione stessa di – rimettere in discussione l’ortodossia

estetico-funzionale consolidata. Nel cinema di Visconti la musica, elemento saliente

della autobiografia affettiva e culturale del regista, appare assimilata tanto a penetrante

congegno emotivo che a prezioso ornamento nobilitante incaricato di arricchire e

suggellare la grazia formale dell’opera nel suo complesso: quasi una sovrastruttura

fonica di décor provvista di molteplici rinvii sentimentali e culturali, designata a placare

le ansie perfezionistiche della regia prima ancora che a trasmettere suggestioni – e una

sottile, ammirata soggezione – allo spettatore. Certo, in questa concezione musicale e

applicativa gli elementi di novità, se individuabili, si dimostrano men che marginali, non

essendo l’impulso riformista, ma piuttosto la lealtà alla tradizione, il baricentro

ideologico più o meno espresso di Visconti, quantomeno negli anni ‘60.

Palingenesi di un genere

E’ invece all’insegna della “impertinenza” il nuovo corso linguistico, estetico e

funzionale determinato dal debutto del binomio Sergio Leone-Ennio Morricone (9) col

film Per un pugno di dollari (1964): tra quelli sin qui evocati il più avvertibile e colorito,

e di sicuro il più gradito alle platee. E’ a nostro avviso legittimo parlare di rivoluzione

per questo lavoro musicale, e non di sola novità, per quanto significativa, giacché le

ripercussioni del fenomeno risulteranno sensibili negli anni a seguire, e la stessa

“normativa” della scrittura musicale per lo schermo ne risentirà tangibilmente,

accogliendo soluzioni e stilemi fortemente semantizzati che produrranno sciami di

epigoni a buon mercato e contraffattori; per di più il ragguardevole successo di vendite

del microsolco discografico tratto dalla partitura del film farà lievitare il sin lì moderato

interesse che l’industria della musica aveva mostrato per le colonne sonore

cinematografiche, senza averne però ricavato, sino a quel momento, risultati economici

apprezzabili (10). Non è comunque inesatto attribuire proprio a questa partitura musicale

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il ruolo di inconsapevole primum movens delle successive e sempre più spregiudicate

interferenze e alleanze tra industrie discografica e cinematografica, finalizzate a dar

l’assedio di pari passo a botteghini e hit parades.

Si diceva della “impertinenza” che può essere assunta a sigla del fenomeno Per un

pugno di dollari: il termine va qui assunto nella duplice accezione lessicale di “non

pertinente all’argomento trattato” e di “atteggiamento che manca intenzionalmente di

discrezione e di tatto, sfacciato”; entrambi i significati sono pertinenti – ci si passi il

bisticcio – e aiutano a meglio definire novità e tono di questa pagina musicale e a

individuarne le possibili ragioni di tanta popolarità. Come è noto sia Leone che

Morricone traghettano il genere western dalle secche di una rappresentazione iper-

codificata e cristallizzata verso la scommessa di una riprogettazione tanto estetica che

linguistica fondata sulla assimilazione della anomalia, dell’eccesso, della deviazione

dallo statuto: in altri termini, del non pertinente alla materia. Il processo, audace e lecito

solo a chi, pur riconoscendo il mito del West, è capace di rimetterne in discussione

l’oleografia tramandata, tanto iconica che musicale, viene avviato all’indomani di una

sequela europea di riletture del western, che tali però non si erano dimostrate, essendosi

accontentate di riproporre, nella più rigida ortodossia mimetica, convenzioni e limiti del

genere. La rilettura autentica, e poi rifondazione, viene dunque attuata da Leone, e

Morricone lo fiancheggia transcodificando in termini musicali le infrazioni normative

messe in atto dalla regia, e compiendone di proprie: prima fra tutte una inusitata

concessione di responsabilità drammaturgica e informativa alla partitura musicale, cui

spesso, con la scontata complicità di Leone, vengono delegati spazi e compiti di in-

consueta portata narrativa. Tra le tante reinterpretazioni del modello, tuttavia, il regista

mantiene in vigore un nocciolo duro di archetipi della tradizione (11) deputati a farsi ga-

ranti di continuità nella trasformazione, e solo al cui confronto ci è possibile classificare

come difformi, e dunque “non pertinenti”, gli elementi di violazione introdotti: e la parti-

tura morriconiana ripercorre fedelmente il medesimo schema di rimodellamento. Nel

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western all’italiana l’ironia e l’iperbole si fanno strada, innanzitutto per vie musicali, in

un genere sin lì virato verso il dramma – o la farsa aperta – e non avvezzo a ironizzare

su di sé; ciò che è sottratto sotto il profilo drammaturgico classico e “passionale” è re-

stituito in termini di violenza esacerbata e veemenza balistica; per parte loro i registri

musicali aggressivi e sarcastici compensano con secchezza la latitanza di qualunque

valore lirico o sentimentale, peraltro ancora rinvenibile nei coevi western statunitensi. I

fischi, i rumori in partitura, le soluzioni sfacciate e rodomontesche, le frasette musicali

impertinenti (12) e tutti gli espedienti accessori di cui è costellato il pentagramma non

sono soltanto interpunzioni decorative o bizzarrie gratuite, bensì segni tra loro coerenti,

organici ai cambiamenti narrativi e rappresentativi in atto: a tali strutture sonore, di

norma autoriflessive e icastiche quanto aforistiche, è demandata una attività di

segnalazione e prevenzione esercitata dal musicista che, su delega dell’autore e forte

della sua posizione di intermediario onnisciente tra narrato e platea, dà di gomito allo

spettatore, lo scuote quanto basta dalla sospensione d’incredulità – sorta di improprio

Verfremdungseffekt brechtiano – e gli trasmette gli anticorpi dell’ironia; così

depotenziate e defraudate di ogni insita tensione – e quindi partecipazione emotiva –, le

deformazioni narrative, come pure la pletora di “caricature” e improbabili eccessi che a

quelle fanno da corollario, cadono vittime del mutato registro espressivo e possono es-

sere osservate con un distacco che le disinfetta di ogni eccesso di segno nichilistico e po-

tenzialmente eversivo. Una sorta di autoironico richiamo al buonsenso, insomma, e un

invito (13) a non essere presi troppo sul serio, malgrado il continuo digrignar di denti e

le mattanze: salvaguardato da questo diaframma autocritico, il processo di

iperstilizzazione può svolgersi senza rischi pedagogici e inoltrarsi anche al di là dei

limiti tradizionali “di sicurezza”. Questo armamentario sonoro-musicale si rivela dunque

nel medesimo tempo conservatore e garante sotto il profilo etico, e rivoluzionario sotto

quello estetico-funzionale. Le altre novità della partitura sono squisitamente musicali:

pensiamo innanzitutto al ricorrente tema dei titoli, col suo andirivieni diatonico

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sull’ottava – che sembra rimandare al viavai del pistolero-Arlecchino tra i due padroni

rivali – e col concomitante ingresso, in sequenza e per addizione, di flauto di pan, frusta,

incudine, campana e coro “ringhiante”; queste voci vanno a sommarsi al fischio, che

rientra a pieno titolo nelle tradizioni musicali del western, e alla chitarra elettrica, la cui

estraneità al formulario del genere, anche soltanto in termini di anacronismo o di

coloratura giovanilistica, rasenterebbe l’eresia estetica; e tuttavia l’adozione di questo

nuovo timbro, che infrange peraltro una “filologia” di ordine storico-musicale del tutto

immaginaria e pretestuosa – per coerenza le partiture a commento dei peplum dovrebbe-

ro essere affidate esclusivamente ad aulós e citare –, ha tutta l’aria di una strizzata

d’occhio di Morricone a espressioni e colori della pop music allora di moda ed enorme-

mente popolari: di qui, è lecito ipotizzare, una delle ragioni della straordinaria acco-

glienza tributata dal grande pubblico a questo brano oculatamente iconoclasta. E dunque

la spiccata eccentricità timbrica e formale, a prima vista troppo eterodossa, storicamente

“inattendibile" e fuori delle righe rispetto a “proporzioni auree” e convenzioni del

genere, assurge invece a novità lessicale ed estetica, e genera un nuovo archetipo

musicale forte con cui il western non potrà in seguito non fare i conti.

Più tardi la revisione musicale avviata da Morricone perverrà a una più articolata e mani-

festa compiutezza, laddove sottolineature musicali di valore segnaletico e barocchismi,

così come l’apparato stesso di connotazioni autoironiche, perderanno gradatamente im-

patto funzionale e carica trasgressiva – consacrando così una nuova e diversa normalità

e “pertinenza” – a mano a mano che il cinema di Leone acquisterà consapevolezza di sé

e del nuovo ordine narratologico ed estetico che ha fondato e consegnato al

riconoscimento planetario.

Musica di poesia

Al di là dei macrofenomeni musicali – e sonori tout court – di cui s’è detto finora,

destinati a influenzare in diversa misura il cinema degli anni successivi, con riflessi

difformi su codici funzionali e consuetudini audiovisive, nel quinquennio ‘60-‘64 si

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segnalano, in mezzo al mare magnum del mestiere musicale più o meno pedante, e

variamente sconfortante, un certo numero di esiti salienti che per quanto significativi in

sé sono riconducibili, per il loro stesso isolamento, a un’idea di singolarità poetica e/o

applicativa, senza poter ambire a risultati organici, e tantomeno a intenzionalità, di segno

riformatore.

In questo circoscritto panorama una posizione preminente spetta a Pier Paolo Pasolini,

che nel suo esordio cinematografico, Accattone (1961), e nella successiva produzione

sino a Il vangelo secondo Matteo (1964) privilegia apparati musicali fondati su pagine

della grande letteratura dal barocco al ‘900. Allorché si accosta al cinema, Pasolini

elabora un suo idioletto formale fondato su necessità d’espressione private e

approssimativamente ispirato a referenti autoriali nobili – Bresson, Dreyer, Chaplin, tra i

principali – per i quali egli avverte affinità: su questi il poeta-regista modella una tecnica

e uno stile originali e in certo senso sgrammaticati, che però di lui rispecchiano

inclinazioni espressive e pensiero figurativo. Analogo procedimento autodeterminante

avvia a carico dei testi musicali che impiegherà nel suo cinema, dei quali sottoscrive e

anzi valorizza l’antinaturalismo – così come sarà per il doppiaggio – e sulla scelta dei

quali, rifiutati i modelli applicativi esterni di riferimento, pesano in pari misura

soggettivismo impressionistico – frutto di ascolti non sistematizzati ma condotti con

acutezza – e un sistema ideologico-musicale rigoroso, anche se non allineato

all’ortodossia esegetica della musicologia. Interpretazioni, connotazioni ed equivalenze

che Pasolini ricava dai suoi ascolti privati di musica colta ed extracolta le ritroviamo

puntualmente trasferite, in veste di bagaglio fortemente concettualizzato, nell’apparato

musicale dei suoi film, di cui compongono il mosaico sonoro provocatorio e affa-

scinante, di lettura tanto estetica che semantizzata. Il pensiero musicale di Pasolini,

all’apparenza rapsodico e talvolta di impervia definizione, fornisce comunque

indicazioni tutt’altro che accessorie per l’interpretazione del messaggio filmico globale,

che proprio dell’impianto musicale si giova per acquisire un’integrazione estetica e

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concettuale densa e stratificata: su di essa in diverse circostanze il regista stesso farà

chiarezza affidandosi a dichiarazioni esplicative e “istruzioni per l’uso”.

Alla base di questo impiego della grande letteratura musicale, con funzione primaria di

ossimoro (14) allegorizzante, va individuata innanzitutto una visione liberamente

combinatoria e contaminativa del rapporto tra musica e immagine, per cui non

sussistono tabù formali o di senso che non possano essere violati se ciò si dimostra

funzionale al progetto sinestetico e simbolico dell’autore; poi, collegata a questa stessa

idea-guida, riposa l’ideologia di quel “cinema di poesia” postulato da Pasolini stesso,

che, per quanto non esplicitamente, tende ad assegnare alla musica nel film un carattere

spiccatamente autoriflessivo: finalizzato, in altri termini, a calamitare su di sé

l’attenzione dello spettatore in virtù di un esercizio di straniamento, di infrazione

normativa ottenuta appunto con accostamenti scandalosi, e non solo (15), senza però che

tale autoriflessività implichi la rinuncia a una transitività indispensabile alla

comunicazione dei contenuti ideologici. Proprio per la loro eccentricità radicale, cui

tuttavia il tempo ha smussato le punte più aguzze, le soluzioni musicali individualistiche

del primo Pasolini rimangono un unicum destinato a non avere eredi, almeno entro i con-

fini nazionali.

Outsider e specialisti

Non si può tacere poi di altre pagine del periodo, come quelle di Valentino Bucchi per

Banditi a Orgosolo (Vittorio De Seta, 1961) e di Goffredo Petrassi per Cronaca familia-

re (Valerio Zurlini, 1962): risultati musicali di alto valore formale e, il secondo, di

modernità linguistica inusitata per il cinema, realizzati entrambi all’ombra di quella

Titanus che, per la sua politica musicale tanto illuminata quanto scaltra, sembra aver

raccolto il testimone della agonizzante Lux Film (16). Il lavoro di Bucchi aderisce con

sensibilità al carattere spoglio e rigoroso della scelta documentaristica e anti-spettacolare

di De Seta: la musica è reticente, scabra, impastata di risonanze arcaiche, e lo stru-

mentale sfrondato ed essenziale introduce accenti misurati senza inquinare né

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prevaricare la verità antropologica del documento; con qualche cliché tensivo e talune

pennellate descrittive in meno la partitura avrebbe potuto aspirare alla mirabile economia

di interventi conseguita dal sonoro non musicale nel conflitto a fuoco tra carabinieri e

banditi, dove echi di raffiche di mitra e secche detonazioni riverberate sostituiscono

pudicamente, per metonimia, una violenza che il regista rifiuta eticamente di tea-

tralizzare. Dal canto suo Goffredo Petrassi, in Cronaca familiare, opta per il rigore di

linguaggio della sua produzione “alta”. Contrariamente a sue precedenti fatiche

cinematografiche nelle quali aveva più che altro rielaborato, con le prevedibili perizia e

aderenza, materiali musicali preesistenti (17), qui Petrassi ricorre a pagine proprie

improntate a un melodizzare frammentario, a una severità di inflessioni e a un

sentimento elegiaco schivo e spigoloso che ben si intonano al registro espressivo stu-

diato e riflessivo di Zurlini; l’unico addebito che si può muovere a questo lavoro

altrimenti esemplare è la sterile parafrasi dell’Adagio di Giazotto-Albinoni che il regista

aveva sollecitato a Petrassi per sostenere gli empiti lirici di maggiore intensità: malgrado

il compositore vi metta mano da par suo, eludendo quanto possibile la capitolazione al

sentimentalismo, nondimeno la perorazione enfatica di questa discutibile pagina

mimetica mal si armonizza con uno scenario musicale altrove austero e scevro da

epidermiche palpitazioni espressive.

Resta da registrare, nel quinquennio in esame, una serie di conferme, tanto in positivo

che di segno opposto, offerte da quel solido specialismo “cinemusicale” italiano le cui

file dagli anni ‘40-‘50 si erano andate affollando vistosamente. Tra i più laboriosi c’è

sicuramente Carlo Rustichelli, musicista senza fronzoli, dall’innato senso melodico

disteso e trasparente, le cui generose radici popolari sono nutrite di passione per il

melodramma, verista innanzitutto. Una doviziosa tavolozza espressiva lo predispone a

tonalità diverse, dal dramma bellico fino alle ironie pepate del grottesco, registri

intermedi compresi: tra i risultati di rilievo – almeno Kapò (G. Pontecorvo, 1960) e

Divorzio all’italiana (P. Germi, 1961) meritano la citazione –, il più persuasivo e

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trascinante di quegli anni Rustichelli lo riporta con Le quattro giornate di Napoli (Nanni

Loy, 1962) dove, pur con qualche ridondanza forse indotta da omologhe cadute

narrative, e grazie alla sintonia con una cifra popolaresca che gli è congeniale, egli

elabora una partitura imbevuta dei valori epico-corali dell’insurrezione partenopea, cui

presta accenti una vigorosa tarantella permeata di rabbia dolente e di scarno lirismo.

Pur impegnato anch’egli su fronti molteplici e assai disparati, nei primi anni ‘60 Mario

Nascimbene estrae ulteriori succhi dalla sua ricerca fonologica privata, fondata sulla

esplorazione timbrica, e da un atteggiamento curioso e orientato verso soluzioni

originali, inconciliabili col dejà entendu, alle quali sono spesso sottese intenzioni

concettuali nitide e congruenti; benché poi di tanto in tanto accada che l’invenzione

stessa, reiterata, perda vitalità trascolorando gradualmente, a sua volta, in maniera.

Caratteristico dell’approccio antiretorico e poco indulgente al sentimentalismo del

miglior Nascimbene è il disadorno scenario sonoro – sarebbe improprio parlare di

commento musicale – per Il processo di Verona (Carlo Lizzani, 1963) dove la

risoluzione di spogliare l’intero arco narrativo di ogni calore musicale viene suggellata

dal silenzio che avvolge la fucilazione conclusiva, rotto solo dal ronzio, espressioni-

sticamente amplificato, di una cinepresa tedesca che documenta l’esecuzione, da pedali

d’archi laceranti che eclissano ogni parola grido e suono reale, e dal secco detonare dei

colpi. Dello stesso periodo va ricordata la pagina, più tradizionalmente musicale – ma

anche qui suono ambientale ed effetti sonori riflettono il diagramma drammaturgico –,

per La ragazza con la valigia (V. Zurlini, 1961) dove si segnala l’intuizione di un casto

dialogo tra clavicembalo e chitarra in forma di emanazioni sonore della coppia

protagonista: sulle note sparse di una ballata provenzale i due strumenti esteriorizzano

l’infatuazione, e l’idealizzazione, di un sedicenne per una giovane ballerina, arricchendo

di screziature discrete il tratteggio psicologico dei due personaggi.

Una menzione va riservata a Piero Piccioni, forse il più indaffarato di tutti nel periodo,

ma verosimilmente non il più interessante né il più controllato; a lui, oltre che

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all’elegante Armando Trovaioli e al più fatuo e anodino Piero Umiliani, si deve

soprattutto l’impiego dell’idioma jazzistico cui sempre più spesso il cinema fa appello in

quegli anni, di solito per tratteggiare convenzionalmente ambienti moderni,

metropolitani, borghesi e non di rado venati di cinismo. L’incontro con l’asciutto

cronachismo di denuncia di Francesco Rosi, tuttavia, persuade Piccioni ad abdicare a

una poco sorvegliata facondia a favore di una nuova e più disciplinata economia espres-

siva e d’un più ponderato ricorso a stilemi di facile effetto, come sembrano mostrare i

suoi risultati laconici e necessari per Salvatore Giuliano (1962) e Le mani sulla città

(1963).

Per concludere, citando di volata gli esiti mai scontati e formalmente assai interessanti,

benché sporadici, di musicisti completi e sottovalutati come Ivan Vandor (I giorni

contati - Elio Petri, 1962) e Fiorenzo Carpi (Leoni al sole - Vittorio Caprioli, 1961;

Parigi o cara - V. Caprioli, 1962), e ancora gli interventi umorosi e deliberatamente

banalizzati di un Teo Usuelli “ostaggio” di Marco Ferreri, e infine il sapiente, brillante

colorismo di Angelo F. Lavagnino, possiamo affermare, a mo’ di sommario bilancio

della nostra ricognizione, che le spinte propulsive e riformatrici che agitano lo scenario

culturale all’avvio degli anni ‘60 trovano risonanza immediata nel cinema e per traslato

in uno degli “strumenti” più sensibili e rivelatori di cui questo dispone, la musica. E

dunque nel campo musicale cinematografico italiano del periodo la ricerca tanto di

sistemi estetici e applicativi più aderenti e diversamente espressivi, che di una identità

meno equivoca e passatista, si dimostrano le direttrici di elaborazione più coraggiose e

imperativamente avvertite dagli apripista di cui abbiamo detto, anche se quella del con-

formismo musicale più o meno acritico rimane l’area più gremita; e tuttavia quell’ormai

lontano impulso di revisione e adeguamento, dettato ad autori diversi da simultanee e

salutari urgenze espressive piuttosto che da calcoli mercantili o intenzioni manipolative,

ha ispirato quello che a tutt’oggi rimane, nel nostro cinema, il processo di

trasformazione del linguaggio musicale e dei codici sonori più profondo, articolato e

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ripercussivo – nonché di maggiore portata innovatrice sotto il profilo espressivo – della

seconda metà del ‘900.

NOTE(1) In opere successive, condotte a compimento con il fratello Roberto, Renzo Rossellini non saprà ritrovare la

medesima misura, appesantendo con ampie pagine descrittivistiche á la Respighi e con slanci lirici da dramma musicale tanto Era notte a Roma (1960), quanto – ma qui se non altro con maggiore pertinenza drammaturgica – il successivo, stendhaliano Vanina Vanini (1961), e saturando poi Viva l’Italia (1960) con un petulante pastiche sinfonico che assembla suggestioni popolaresche, pagine descrittive e rielaborazioni di canti patriottici: scelte estetiche non sempre confortate da corrispondenti indirizzi di regia, peraltro pericolosamente indecisa tra intenzioni didascaliche e tentazioni spettacolari, realismo e melodramma, do-cumentazione e tableau vivant.

(2) Non è un caso, in questo senso, che la partitura per La grande guerra non sia di fatto quasi presa in considerazione nelle indagini critiche dedicate a Rota, a dispetto della popolarità che questo film ancor’oggi possiede e del valore ad esso riconosciuto: quasi che l’inconsueta, studiata parsimonia delle rare pagine originali presenti, come il pur prezioso lavoro compilativo e rielaborativo svolto da Rota, respingessero l’idea stessa di paternità, di compatibilità con un autore dotato di molteplici e raffinate virtù ma incline a colloquialità di scrittura e facilità comunicativa talvolta sin troppo accentuate. In margine annotiamo che Rota, assai più di altri suoi illustri colleghi attivi nel cinema, non ci sembra godere a tutt’oggi di un sereno ed equilibrato giudizio critico, oscillando fra trascorsi e diffusi biasimi aprioristici – contraddetti da un ristretto drappello di voci amiche – e una recente rivalutazione tanto indiscriminata e osannante da apparire francamente sospetta, non meno di quanto lo erano stati in passato i cori di disapprovazione.

(3) P. Leprohon, Michelangelo Antonioni, Paris, Seghers, 1961, pp. 161-163; poi riprodotto in A. Boschi, «La musica che meglio si adatta alle immagini»: suoni e rumori nel cinema di Antonioni in A. Achilli, A. Boschi, G. Casadio (a c. di), Le sonorità del visibile, Ravenna, Longo Editore, 1999, p. 85.

(4) F. Fellini, L’amico magico in E. Comuzio, P. Vecchi (a c. di) 1381/2 I film di Nino Rota, Reggio Emilia, Comune di R. Emilia Assessorato alla Cultura, 1986, p. 50.

(5) Non meno controcorrente, rispetto a una normativa pressoché comunemente adottata, sono le modalità dello spotting, ovvero dell’operazione di distribuzione e collocazione degli interventi musicali nella compagine del testo filmico: con Antonioni e Fusco, a questa procedura vengono restituite imprevedibilità e significatività che sottraggono il testo musicale alla funzione di ornamento pre-ubicato e del tutto prevedibile sulla base di schemi d’uso consolidati, e ne reintegrano la pienezza di potenzialità combinatorie ed espressive; risultato raggiunto anche in virtù sia della sensibile rarefazione degli interventi musicali che della loro ristabilita necessità.

(6) Pensiamo a quei telefoni che violano senza pietà il minuto di raccoglimento in Borsa; al ticchettio delle funi metalliche su pennoni orfani di qualunque bandiera; o al concertato di suoni naturali, rumori e voci lontane in quella sorta di sguardo sulle geometrie della solitudine che è l’epilogo del film.

(7) Così ne Il rossetto (D. Damiani, 1960) la visione estatica e idealizzata che una adolescente riserva a un bellimbusto di cui è invaghita, viene risolta argutamente con accenti di un motivo virile per tromba che si dipana su un coro femminile astratto e sognante; ne I delfini (Francesco Maselli, 1960) Fusco fa ampio ricorso a un blues che cattura con giustezza di toni la neghittosa gioventù borghese della provincia; ne L’oro di Roma (1961), forse poco pungolato da Carlo Lizzani, regista spesso passivo rispetto ai testi musicali dei suoi film, il compositore si limita ad accomodarsi in una confortevole routine affidata al patetismo di un tema di sapore ebraico, poi elaborato in un ventaglio di varianti espressive; più brillante e significativa la medesima tecnica della variazione ne I fuorilegge del matrimonio (Valentino Orsini, Paolo e Vittorio Taviani, 1963), dove è la filastrocca Frère Jacques a caricarsi di accenti ora beffardi ora lugubri sui casi esemplari di coppie dissestate.

(8) Si tratta di un Allegro maestoso, un Adagio e un Allegretto agitato tratti dalla Sinfonia sopra una canzone d’amore, che Rota aveva composto nella seconda metà degli anni ’40. Quella dei ricalchi o travasi tematici rappresenta una delle procedure più discusse di Rota, praticata come fu, sistematicamente e liberamente, tra produzione colta e pagine cinematografiche – e viceversa: senza distinzioni gerarchiche tra musica alta e pagine “di servizio” –, come pure tra film e film.

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(9) Ennio Morricone debutta già nel 1961, con il film Il federale (Luciano Salce); a questa segue una decina di altre partiture, tra le quali quella per un western del 1963, Duello nel Texas, passate tutte pressoché inosservate malgrado la cura formale e la pregevolezza di alcune di esse; analoga invisibilità affligge anche un’altra sua pagina western addirittura coeva di Per un pugno di dollari, ovvero Le pistole non discutono (Mario Caiano, 1964), peraltro assai più allineata all’ortodossia di scrittura del genere: a conferma di un talento e d’una originalità avviliti nell’anonimato di collaborazioni sbiadite, sino all’incontro “liberatorio” e risolutivo con Leone.

(10) Unica eccezione apprezzabile, il tema More (Riz Ortolani, Nino Oliviero) dal film Mondo cane (Gualtiero Jacopetti, Paolo Cavara, Franco Prosperi, 1962) che scala numerose classifiche di vendita in tutto il mondo e ottiene risultati economici ragguardevoli, senza però essere legittimamente classificabile come “commento musicale”, ma piuttosto come canzone, o pezzo chiuso, introdotta nel film.

(11) Lo psicopatico Ramon/Volonté è titolare di una raffigurazione musicale tutto sommato canonica – brevi fraseggi perentori e intimidatori di archi e ottoni su sottolineature consegnate a timpani e rullanti – e anche la parodia, in senso musicale, del De Guello risponde a un modulo baroccheggiante ma apertamente mediato da modelli tradizionali, come lo sono i ritmi galoppanti, certi colori e soluzioni orchestrali e il carattere stesso di gran parte degli episodi musicali più ortodossi.

(12) La sottolineatura musicale, pedissequo artificio di tanto ciarpame hollywoodiano e non solo, viene qui reiventata da Morricone e trasformata di senso grazie a una felice intuizione di regia. Si presenta come un glissando cromatico del flauto di pan che sigla le azioni più beffarde di Joe/Eastwood, in un dileggio sonoro – di nuovo l’impertinenza – che è anche scoperto ammiccamento allo spettatore.

(13) E’ lecito qui fare riferimento alla funzione conativa – per dirla ancora con Jakobson – che fa appello al destinatario del messaggio, e lo indirizza verso un preciso atteggiamento.

(14) Pensiamo agli accostamenti “estremi” tra pagine sublimi (Bach, Vivaldi) e immagini di degrado tanto esistenziale che sociale che paesaggistico; o, inversamente, tra motivetti triviali (Rogopag twist, Eclisse twist) e rappresentazioni oleografiche della deposizione di Cristo; o, infine, al più velato ossimoro che deforma arie operistiche accelerandole e irridendole (Sempre libera degg’io), o all’altro che vede pagine tradizionalmente nobili affidate a strumenti altrettanto tradizionalmente umili (la sequenza Dies irae Dies illa consegnata alla fisarmonica).

(15) Per una teoria sull’infrazione delle normative sintattica e funzionale del testo musicale in Pasolini, si veda S. Bassetti, Letteratura musicale tra passione e ideologia nel cinema di Pier Paolo Pasolini in S. Miceli (a c. di), Norme con ironie, Milano, Suvini Zerboni, 1998, pp. 36-39.

(16) Tra il 1935 e la fine degli anni ‘50 per la Lux Film erano transitati numerosi autori di musica colta guadagnati al cinema dall’azione persuasiva del musicologo Guido Maggiorino Gatti, dirigente della Lux stessa: tra questi Giorgio Federico Ghedini, Giuseppe Rosati, Vincenzo Tommasini, Ildebrando Pizzetti, Roman Vlad e lo stesso Petrassi.

(17) Per Riso amaro (Giuseppe De Santis, 1949) Petrassi aveva rielaborato canti tradizionali delle mondine; in Non c’è pace tra gli ulivi (G. De Santis, 1950) la rielaborazione era stata esercitata su canti popolari, mentre ne La pattuglia sperduta (Piero Nelli, 1954) era stata la volta di canti e inni risorgimentali.

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