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M. Bernabò, Ossessioni bizantine e cultura artistica in Italia. Tra D'Annunzio, fascismo e dopoguerra (Napoli 2003)

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Nuovo Medioevo 65

Collana diretta da Massimo Oldoni

Massimo Bernabo

Ossessioni bizantine e culturaartistica in Italia

Tra D’Annunzio, fascismo e dopoguerra

Liguori Editore

Questa opera è protetta dalla Legge 22 aprile 1941 n. 633 e successive modificazioni. L�utilizzo del libro elettronico costituisce accettazione dei termini e delle condizioni sta-bilite nel Contratto di licenza consultabile sul sito dell�Editore all�indirizzo Internet http://www.liguori.it/ebook.asp/areadownload/eBookLicenza.Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riprodu-zione in qualsiasi forma, all�uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati. La duplicazione digitale dell�opera, anche se parziale è vietata. Il regolamento per l�uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa Editrice Liguori è disponibile all�indirizzo Internet http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=legal

Liguori EditoreVia Posillipo 394 - I 80123 Napoli NAhttp://www.liguori.it/

© 2003 by Liguori Editore, S.r.l.Tutti i diritti sono riservatiPrima edizione italiana Marzo 2003

Bernabò, Massimo:Ossessioni bizantine e cultura artistica in Italia. Tra D�Annunzio, fascismo e dopoguerra/Massimo BernabòNuovo MedioevoNapoli : Liguori, 2003 ISBN-13 978 - 88 - 207 - 5723 - 6

1. Critica figurativa del Novecento 2. Storia dell�arte contemporanea I. Titolo

Aggiornamenti:�����������������������������������������12 11 10 09 08 07 06 05 04 03 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

INDICE

Premessa ......................................................................... 1

Parte I - L’Ottocento, D’Annunzio, Teodora e Basiliola

Capitolo 1 - Teodora ..................................................... 7

a. Da Belisario a Teodora ........................................ 7

b. La Theodora di Sardou ......................................... 11

c. Condanna e apologia di Teodora ........................ 15

d. Teodora in Italia: da Sardou alla Bizantina ........ 18

e. Teodora, odalisca, a dispense .............................. 21

Capitolo 2 - Basiliola ..................................................... 25

a. Basiliola, Teodora italianizzata ............................. 26

b. Teodora alla esposizione di Venezia .................... 34

c. Teodora la divina ................................................. 38

d. Psicologia di Teodora .......................................... 41

Capitolo 3 - Viaggiatori ottocenteschi .............................. 43

a. Costantinopoli ottomana. ..................................... 44

b. La Costantinopoli – Babilonia di De Amicis ....... 47

c. Un racconto sugli ultimi giorni di Costantinopoli 50

d. Taine su Ravenna, una voce dissonante .............. 51

INDICE

Capitolo 4 - Primi studi in Italia ................................... 55

a. Seroux D’Agincourt e Garrucci ........................... 58

b. Cristi improsciuttiti e Madonne color cioccolata ... 60

c. Una fioritura effimera di studi ............................. 62

Parte II - Roma o Bisanzio, Roma o Parigi

Capitolo 5 - L’apogeo di Bisanzio e l’assalto all’arte italiana 71

a. L’apogeo novecentesco di Bisanzio ...................... 71

b. Parigi, cioe Bisanzio ............................................. 75

c. Strzygowski, moderno Attila ................................. 79

d. Bisanzio futurista e cubista .................................. 83

Capitolo 6 - La difesa dell’arte patria ............................ 87

a. La reazione antigermanica e antifrancese ............. 88

b. La definizione di un’arte nazionale ...................... 92

c. Contro l’Oriente, contro i barbari, contro Strzy-

gowski ................................................................... 96

d. Il nemico e a Oriente: conformismi, idiozie e vergo-

gne bizantine ........................................................ 100

e. Soffici, Vasari moderno ........................................ 108

f. Cezanne italiano, Matisse bizantino: plasticismo

contro colorismo ................................................... 111

Capitolo 7 - Il fronte interno filobizantino: Pietro Toesca ... 117

a. Pietro Toesca ....................................................... 118

b. Toesca orientalista ................................................ 121

c. Il Medioevo bizantino: le origini dell’arte cristiana ed

i mosaici di Ravenna ...........................................

124

d. Il Medioevo bizantino: dai mosaici romani a Giotto 129

Capitolo 8 - Gli altri filobizantini (Berenson, Lionello

Venturi), gli allineati, i manuali ................................... 131

a. Bernard Berenson, filobizantino ........................... 132

b. Lionello Venturi, anticlassico ............................... 138

c. Programmi scolastici ed altri studiosi allineati ..... 145

INDICE

Capitolo 9 - Bisanzio e la politica fascista delle arti ....... 149

a. L’ala filobizantina del regime ............................... 150

b. Severini, il muralismo ed i mosaici bizantini ....... 156

c. La Mostra Augustea della Romanita ................... 162

d. La colonizzazione romanista dell’Adriatico e della

Sicilia 166

e. Epiloghi razzisti .................................................... 170

f. Folklore bizantino ................................................. 172

Capitolo 10 - Giotto: Bisanzio o Italia ........................... 175

a. Prima del 1937 .................................................... 175

b. La mostra giottesca del 1937 .............................. 179

c. Il “Giudizio” antibizantino di Longhi .................. 182

Capitolo 11 - L’enciclopedia orientalista .......................... 189

a. Ojetti alla direzione della Sezione Arte ................ 189

b. L’incarico a Toesca .............................................. 194

c. Il debole spirito romanista dell’Enciclopedia Italiana 196

d. “Iconografia”, “Musaico”: due voci metodologiche 203

e. Le voci altomedievali e duecentesche .................. 206

f. La voce romanista “Bizantina, Civilta” ed il “Medio-

evo bizantino” di Pasquali ................................... 207

Parte III - Crociani, comunisti e ravveduti 217

Capitolo 12 - Il riassetto dopo il conflitto ........................ 219

a. La restituzione a Bisanzio delle conquiste romaniste 221

b. Il giudizio italiano su Longhi ............................... 224

c. Contini e Garrison su Longhi ............................. 227

d. Bianchi Bandinelli ed i Princetoniani ................... 233

Capitolo 13 - Stile contro iconografia .............................. 241

a. Il pericolo crociano .............................................. 242

b. La Mostra Storica Nazionale della Miniatura ...... 249

c. L’entrata ed uscita di scena della Siria ............... 253

d. L’Iliade Ambrosiana come problema metodologico 260

INDICE

e. I Bizantini a Castelseprio ..................................... 266

f. La reazione italiana e l’intervento sovietico su Ca-

stelseprio ............................................................... 269

Epilogo: studi sull’arte bizantina 1960-2000 ................. 275

Tavole ............................................................................. 279

Bibliografia ...................................................................... 399

Indice dei luoghi e dei nomi ............................................. 443

PREMESSA

La trama di questo libro segue due fili conduttori: uno e la storia

della critica d’arte in Italia nell’Ottocento e nel Novecento, percorsa

attraverso la vicenda del rapporto di amore episodico e di ossessivo

odio verso l’arte bizantina, frutto decaduto della civilta romana;

l’altro e la contemporanea storia degli studi sull’arte bizantina. Sino

agli anni Dieci del Novecento i due fili si intrecciano occasional-

mente; negli anni Venti e Trenta, quando Bisanzio diventa l’anti-

Roma, cioe la civilta antitetica alla romanita dell’ideologia fascista, i

due fili si riuniscono: la demonizzazione dell’arte bizantina fu allora

anche pretesto per attaccare quel gruppo di intellettuali ed artisti,

anche fascisti, che cercavano rapporti con l’arte internazionale e

soprattutto con l’arte della rivale Francia democratica. A sfavore

dell’arte bizantina giocavano proprio l’accento anti-tradizione ita-

liana che veniva messo nel suo apprezzamento da parte delle avan-

guardie novecentesche, da Monet a Matisse, e la sua denigrazione da

parte dei sostenitori di un’arte accademica e di un arte nazionale

italiana, conservatrice e rurale (Soffici fu l’idolo di questi ultimi) che

si richiamasse ai valori plastici di Giotto, Masaccio o Paolo Uccello,

contrapposti al decorativismo o al preziosismo dei bizantini.

Gli antefatti di questa romanizzazione antibizantina sono presen-

tati attraverso la fortuna di Teodora, incarnazione femminile della

cattiveria e della immoralita, demone bizantino per eccellenza, ed

attraverso quella della sua figlia in arte, Basiliola, la bizantina nemica

e corruttrice del libero popolo dei Veneti, creata da D’Annunzio per

La nave. Per i capitoli sul periodo tra le due guerre i giudizi e le

interpretazioni storico-artistiche di Pietro Toesca, figura limpida ed

appartata di storico dell’arte non piegatosi alle banalita della critica

di regime, sono stati scelti come guida, contrapponendo quel tipo di

moralita intellettuale alla ambizione, coltivata da tanti storici del-

l’arte del periodo, ad entrare nella corte del principe, specialmente

OSSESSIONI BIZANTINE E CULTURA ARTISTICA IN ITALIA

con l’apparente trionfo internazionale di Mussolini negli anni

Trenta. Nonostante che gli studiosi abbiano di regola voluto tenere

la storia dell’arte ed i suoi protagonisti fuori dalle vicende dei propri

tempi, come se quella disciplina fosse attivita dello spirito umano

vergine di contaminazioni secolari, atti, documenti e pubblicazioni

delineano l’aspettato quadro di compromissioni non imposte con il

potere. Fatto, del resto, gia descritto per gli antichisti. Oltre a

Toesca, tra i maggiori che scelsero altre strade al prezzo dell’isola-

mento o dell’esilio, vanno ricordati Bernard Berenson e Lionello

Venturi, ai quali e intitolato uno dei capitoli del libro. Per i capitoli

sul secondo dopoguerra, caratterizzati, per l’ambito degli interessi del

libro, dalla metamorfosi dei critici d’arte emersi nel ventennio mus-

soliniano in crociani dichiarati, dal dominio quasi monopolistico

della storia dell’arte come disciplina che studi i valori formali delle

opere e dalla concezione dell’arte come mondo a se isolato dai fatti

contemporanei della storia, e stata presa come figura guida l’archeo-

logo Ranuccio Bianchi Bandinelli, che fu tra i pochi che dal crocia-

nesimo passarono al marxismo, nello stesso tempo incorporando nel

suo approccio metodologico i criteri d’indagine del contenuto delle

opere e della trasmissione iconografica elaborati a Princeton. Le

citazioni dai suoi scritti appariranno forse banalita agli studiosi di

archeologia, ma sono probabilmente poco note al di fuori della loro

cerchia. Citazioni da D’Annunzio, Boccioni, Carra, Croce od altri

possono avere lo stesso difetto. Le pagine su Soffici si addentrano, al

contrario, nei suoi scritti protorazzisti: la lunghezza di citazioni che

ne viene e dovuta al ruolo svolto nell’ideologia artistica del fascismo

dalle numerose pubblicazioni del pittore toscano, che dettero im-

pulso alla polemica contro la Francia ed anche, di conseguenza,

contro Bisanzio: all’opposto, nei discorsi elogiativi del mondo conta-

dino e della tradizione italiana di Soffici letti in monografie e catalo-

ghi delle sue opere che mi sono passati sotto gli occhi, mai ho trovato

l’onesta ed il dovere di studioso di mettere a conoscenza il lettore che

si appresta a vedere i suoi quadri del retroterra di razzismo e

volgarita che Soffici scriveva su donne, omosessuali e drogati. Aver

ricordato di passaggio che chi professava idee contrarie al regime,

storico dell’arte o altro, subiva intimidazioni e chi faceva invece parte

della grande maggioranza dei consenzienti aveva studi e carriera

facilitati e apparsa una menzione doverosa e necessaria per l’intendi-

mento degli avvenimenti descritti.

L’ampiezza dell’arco cronologico, la varieta degli argomenti toc-

PREMESSA

cati e lo stato degli studi dovrebbero scusare il fatto che piu argo-

menti di questa storia delle ossessioni bizantine sono soltanto abboz-

zati e sono quindi inevitabili generalizzazioni, difetti e lacune.

Purtroppo, a parte l’antologia di Paola Barocchi, sono stati pubbli-

cati solo studi su singoli storici dell’arte, quasi sempre monografie

agiografiche. Il libro non ha, tra l’altro, una discussione dei restauri

di monumenti del periodo bizantino condotti negli anni presi in

esame; per tutti, quelli di San Vitale a Ravenna e quelli del Battistero

di San Giovanni a Firenze. Un mio articolo, che racconta la campa-

gna della stampa fascista contro gli orientalisti, nel 1930, riassunta in

questo libro al capitolo sesto, e da poco pubblicato sulla veterana

Byzantinische Zeitschrift, e risultato il primo contributo lı accettato

sulla storia della disciplina: attestazione che mi rende piu sereno di

fronte a prevedibili critiche. Per non assillare il lettore zeppando le

frasi di numeri esponenziali di note ho cercato di raggrupparle in una

unica nota complessiva alla conclusione di ciascun argomento intro-

dotto, anche a scapito, forse, della praticita. Il tono narrativo e la

brevita dei capitoli sono voluti per l’analogo fine di leggibilita del

testo.

Origine remota del libro e stata la ricerca di risposte alle do-

mande: perche a Bisanzio si associano sempre valori negativi e, piu

specificamente nel campo della storia degli studi, perche le testimo-

nianze di arte bizantina, che l’Italia ha piu numerose ed importanti

che ogni altro paese dell’Occidente, non hanno indotto l’affermarsi

di una scuola e tradizione di studi consistente? Al destino sfavorevole

dei termini bizantineggiare, bizantinerie, bizantinismi, fatti divenire

sinonimi, rispettivamente, di argomentare con eccessiva sottigliezza,

di ragionamenti cavillosi e inconcludenti, di preziosismi ed estetismi

raffinati e decadenti, corrisponde l’assenza di biblioteche pubbliche

italiane che possiedano in misura confortante i libri su Bisanzio di

studiosi stranieri pubblicati almeno nei primi settanta anni del Nove-

cento. Solo due istituzioni straniere in Italia sopperiscono a questo

vuoto bibliografico 1900-1970: la Biblioteca Vaticana e la Biblioteca

Berenson. Piu prosaicamente, la genesi di questo libro ha come

progenitrice la mia passione per l’arte bizantina che si e scontrata

con la formazione in un ateneo, quello fiorentino, dove due celebri

docenti avevano sentenziato la noiosita ed il disvalore artistico della

letteratura e delle arti figurative bizantine con inconfutata autorevo-

lezza. La lusinghiera proposta di uno dei maestri indiscussi dell’arte

bizantina del Novecento, Kurt Weitzmann, a trascorrere un lungo

OSSESSIONI BIZANTINE E CULTURA ARTISTICA IN ITALIA

periodo con lui all’Universita di Princeton alla realizzazione di una

opera vasta e da tanto attesa, pubblicata infine nel 1999, mi ha

concesso fortuna e privilegio di frequentare la piu autorevole scuola

metodologica del Novecento sulla illustrazione dei manoscritti me-

dievali e mi ha permesso di vedere con chiarezza i limiti degli studi di

arte bizantina in Italia – ovvia eccezione alcuni singoli avveduti

studiosi. Soprattutto, i motivi storici di questa assenza mi si comin-

ciarono a inserire nel percorso della cultura italiana.

Di lı, l’ideazione di un lavoro sulla demonizzazione dell’arte

bizantina nell’Italia tra le due guerre mondiali e sulla incapacita degli

studi dell’immediato dopoguerra in Italia di uscire da autarchia di

giudizio e approssimazioni sull’arte bizantina superate da tempo

dalla bizantinistica internazionale. I primi risultati di questo lavoro

furono da me presentati a un convegno a Urbino nel 1998 ed accolti

con molto calore dagli studenti e dai colleghi coetanei presenti. Il

sostegno e l’apprezzamento di coloro a cui piacque la problematica

storica da me allora proposta (per primo quello di Giulia Orofino,

poi di Massimo Oldoni, curatore della collana, di Luciano Canfora,

fonte autorevole di notizie e chiarimenti, Marcello Barbanera, che ha

fornito tra l’altro la foto inedita di Bianchi Bandinelli, Rita Tara-

sconi, alla quale si deve buona parte della ricerca, e altri colleghi

stranieri, sorpresi dalla rivelazione dell’ostracismo inflitto in Italia

all’arte bizantina, che pure collimava con intuizioni avute) mi ha

spinto a far conoscere in forma piu estesa, con questo libro, il molto

materiale che avevo raccolto sull’amore e sull’odio in Italia verso

Bisanzio. Oltre alle persone elencate sopra, un ringraziamento parti-

colare va a Ilaria Toesca ed al personale della Biblioteca Berenson di

Villa I Tatti, a Sandra Bianchi Bandinelli, Gianfranco Morandi,

Valentino Pace, Anna Pontani, Niccolo Zorzi.

agosto 2001 Massimo Bernabo

PARTE I

L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO,

TEODORA E BASILIOLA

1

TEODORA

Fino al Settecento i personaggi della storia bizantina erano noti

solamente ad antichisti, eruditi ed uomini di chiesa, fatta eccezione

per un piccolo gruppo di imperatori, imperatrici e generali, protago-

nisti del teatro di prosa e dell’opera lirica. Nell’Ottocento, i romanzi

storici fecero conoscere i luoghi di Costantinopoli, mentre teatro ed

opera resero popolari prima Belisario, poi, in maniera incomparabil-

mente piu viva e diffusa, Teodora, moglie dell’imperatore Giusti-

niano. La scenografia per eccellenza dove questi personaggi furono

immaginati e la chiesa di Santa Sofia, non nell’aspetto, perduto, della

basilica bizantina giustinianea scintillante di mosaici e marmi, ma in

quello esotico e ridondante di arredi della moschea ottomana dell’e-

poca. Parallelamente alla costruzione della immagine storica di Bi-

sanzio fatta dai primi studi ottocenteschi, spettacoli, riviste e moda

foggiarono una immagine volgare di Bisanzio come patria di lusso,

sensualita, corruzione, intrighi, le cui fila erano tirate da figure

femminili, delle quali Teodora era l’archetipo. In Italia, la Bisanzio

di Teodora ebbe la sua apoteosi all’inizio del Novecento, quando i

tratti dell’imperatrice furono fusi con quelli di Salome e furono presi

come modello sulle scene per molte altre donne fatali, storiche e di

fantasia.

a. Da Belisario a Teodora

Teodora fu preceduta sul palcoscenico da Giustino, Teofane e Beli-

sario. Un dramma per musica Giustino, che ha per protagonisti il

militare di umili origini divenuto imperatore dal 518 al 527, Ariadne,

la vedova del suo predecessore Anastasio, che Giustino sposa dive-

PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

1H. Weinstock, Donizetti and the World of Opera in Italy, Paris, and Vienna in the First

Half of the Nineteenth Century (New York, 1963), pp. 113-119 e 350. S. Cammarano,

Belisario. Tragedia lirica in tre parti. Parte Prima, Il trionfo. Parte Seconda, L’esilio. Parte Terza,

La morte, da rappresentarsi nell’imp. e real teatro in via della Pergola, la primavera del

1836, sotto la protezione di S. A. Imp. e R. Leopoldo II Gran-Duca di Toscana (Firenze

[1836]). Notizie su Giustino, Teofane e Belisario si trovano in The New Grove Dictionary of

Opera, a cura di S. Sadie (London – New York, 1992), alle rispettive voci.2

J.-F. Marmontel, Belisaire (Paris, 1767); traduzione italiana, Belisario (Venezia, 1768).

nendo cosı imperatore, e generali fedeli e ribelli, fu musicato da

Giovanni Legrenzi su libretto di Nicolo Beregan e fu messo in scena

al Teatro San Salvatore di Venezia nel 1683, per poi passare al

Teatro San Giovanni Grisostomo. Con le sue ricche architetture ed i

costumi bizantini, le battaglie terrestri ed una naumachia, l’opera

ebbe un grande successo e fu rappresentata varie volte in Italia fino

al 1699. Dal Giustino di Beregan derivo il Giustino opera in tre atti di

Georg Friederich Handel, data al Covent Garden Theatre di Londra

nel 1737. Le peripezie a lieto fine con nozze finali di Teofano,

principessa bizantina, con Ottone II, furono invece messe in scena a

Dresda nel 1719 col Teofane, dramma per musica in tre atti di

Antonio Lotti su libretto di Stefano Benedetto Pallavicino, per le

nozze del principe elettore Federico Augusto II di Sassonia. Mag-

giore fortuna ebbe Belisario, il generale di Giustiniano: dopo le opere

di Philodor (1796), Saint-Lubin (ca 1827) e Maurer (1830), nel

1836 Gaetano Donizetti compose Belisario, tragedia lirica in tre atti

con libretto di Salvatore Cammarano, la cui prima fu alla Fenice di

Venezia il 4 febbraio 1836. L’opera fu ridata a Napoli, Firenze,

Londra, Berlino, Filadelfia, Parigi, New York, Vienna tra il 1836 e il

18371. Il libretto di Cammarano riprende la storia raccontata nel

Belisaire di Jean-Francois Marmontel, pubblicato in italiano a Vene-

zia nel 1768 con l’aggiunta di alcune incisioni che mancano nella

edizione francese. Marmontel dichiara di seguire la tradizione popo-

lare per il Belisario cieco e mendico e Procopio per il resto della

storia, senza pero aver riguardo a “quel calunnioso libello, che gli

viene attribuito sotto titolo di Aneddoti o Storia Secreta. E cosa per me

evidente, che questo ammasso informe d’ingiurie e palpabili falsita,

non e suo, ma di qualche declamatore malvagio e sciocco”2.

La storia del Belisario di Marmontel si svolge in uno degli ultimi

anni dell’impero di Giustiniano, quando l’imperatore e restato solo a

governare, dopo che Teodora e morta; Belisario vaga accompagnato

dalla figlia Eudocia e finisce ospite nella capanna di un contadino,

che e in realta Gelimero, il vecchio re dei Vandali da lui sconfitto e

TEODORA

3T. Gautier, Italie (Paris, 1852), p. 119. Valery, Voyages historiques et litteraires en Italie,

pendant les annees 1826, 1827 et 1828; ou l’indicateur italien, vol. 3 (Paris, 1832), p. 240.4

Revue archeologique 7/1 (1850), pp. 351-353. Per Seroux d’Agincourt vedi al Capitolo 4,

paragrafo a.

portato a Costantinopoli; nella capanna Belisario incontra anche un

gruppo di persone, tra le quali, in incognito, e il futuro imperatore

Tiberio; e poi la volta di Giustiniano, anche lui in incognito, a recarsi

da Belisario; l’imperatore capisce di aver accusato ingiustamente il

suo generale, lo abbraccia e lo riabilita di fronte ai suoi cortigiani

corrotti; Eudocia e promessa sposa a Tiberio. Le incisioni del Belisa-

rio della versione veneziana di Marmontel hanno costumi e monu-

mentali ambientazioni genericamente antichi, niente di esotico (fig.

1): Bisanzio e un prolungamento dell’antichita, non appartiene an-

cora all’Oriente. Parallelamente, ancora nel 1840, Delacroix nella

“Presa di Costantinopoli” (ora al Louvre) dipinge i bizantini sconfitti

dai Crociati di Baldovino vestiti di simili costumi latini davanti a

portici romani. Nel libretto per l’opera di Donizetti, Cammarano si

dichiara debitore non di Marmontel, ma di una tragedia di Holbein,

ridotta per le scene italiane dall’attore e drammaturgo fiorentino

Luigi Marchionni. Il racconto di Cammarano si svolge nel 580 e

comincia con il trionfo di Belisario a Costantinopoli con il re Alarico

suo prigioniero; seguono l’accusa di fellonia, la prigione, l’esilio del

generale cieco con la figlia, durante il quale Belisario riesce a sven-

tare un assalto inaspettato dei barbari di Alarico; nel frattempo

Giustiniano ha avuto da Antonina la prova della innocenza del suo

generale, che i veterani gli portano sui loro scudi morente, colpito da

una freccia; l’opera si chiude con la morte di Belisario.

Fino agli anni ottanta dell’Ottocento, Teodora e conosciuta a

pochi eruditi, per i quali lei e le altre cortigiane del tardo impero

sono emule di Salome; “lussuriose, lascive, crudeli” le definı Theo-

phile Gautier in Italia (1852), descrivendo il mosaico con la danza di

Salome nella basilica di San Marco a Venezia. Per Valery (pseudo-

nimo di Antoine-Claude Pasquin), che visito l’Italia tra il 1826 e il

1828, nel mosaico di San Vitale a Ravenna “les traits de Theodora,

de cette comedienne, passee d’un trone de theatre sur le trone du

monde, ont encore un certain air lascif qui rappelle ses longues

prostitutions”3. Qualche immagine di Teodora dal pannello musivo

di San Vitale e presentata nelle incisioni nei primi studi ottocenteschi

sull’arte medievale, come nell’opera monumentale di Seroux d’Agin-

court o sul fascicolo della Revue archeologique del 1850 (fig. 2)4. Dopo

PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

5F. A. Isambert, ANEKDOTA ou Histoire secrete de Justinien traduite de Procope. Geogra-

phie du VIe siecle et revision de la numismatique d’apres la livre de Justinien (Paris, 1856). Un

caso di discussione di Teodora come personaggio storico e non come prostituta che fa

carriera e, ad esempio, in A. Marrast, La vie byzantine au VIe siecle (Paris, 1881), pp.

44-85. Il commento di Gibbon su Teodora e al Capitolo 40 della sua Storia: E. Gibbon,

Storia della decadenza e rovina dell’impero romano (Lugano, 1841), pp. 370-379, spec. p. 374

nota 2.6

Caesar Baronius, Annales ecclesiastici, a cura di A. Theiner, vol. 9, 500-545 (Ludovicus

Guerin et Socii, 1867), citazione nel testo da p. 477 (= anno Christi 535, par. 63).

la nuova edizione della Storia segreta pubblicata in traduzione fran-

cese nel 1856 da Francois Andre Isambert ed illustrata da alcune

incisioni dai mosaici di Ravenna (fig. 3), il giudizio degli storici fu di

aspra condanna, se cattolici – Teodora aveva deposto un papa ed

aveva sostenuto il monofisismo – oppure, se antipapali, di difesa del

suo operato e di rigetto delle pagine della Storia segreta come cumulo

di calunnie falsamente attribuite a Procopio: a Teodora fu attribuito

il merito della salvezza di Giustiniano quando con il suo intervento

risolutivo fece desistere il sovrano dalla fuga durante la rivolta del

“Nika” del 5325. Come antesignano della condanna di Teodora sono

citati gli Annales ecclesiastici del cardinale Cesare Baronio, che era

ricorso, per descrivere la donna, a paragoni con le figure di donne

bibliche piu negative (Teodora come Eva, Dalila, Erodiade), al

dizionario infernale, alle personificazioni della mitologia pagana

(Teodora, nuova Erinni, alla pari di Aletto, Megera, o Tisifone,

femmina diabolica che si nutre del sangue dei martiri):

“Tanta haec mala ordita est pessima femina quae altera Eva serpentiobaudiens facta est viro malorum omnium causa; novaque DalilaSamsoni, ejus vires dolosa arte enervare laborans, Herodias alterasanctissimorum virorum sitiens sanguinem; petulansque summi sacer-doti ancilla, Petri negationem sollicitans: sed parum sit ipsam hujusce-modi sugillasse nominibus, quae reliquas impietate feminas antecelluit:accipiat potius nomen ab Inferis, quod Furiis fabulae indiderunt,femina furens, Alecto potius, vel Megera, aut Tisiphone, nuncupando,civis inferni, alumna daemonum, Satanico agitato spiritu, oestro per-cita diabolico, initiaeque summo labore inimica concordiae, pacisqueredemptae sanguinem martyrum et sudoris confessorum partae fuga-trix: quanta enim haec Ecclesiae Catholicae mola invexerit, quaedicenda erunt ostendent.”

6.

La lettura della Storia segreta di Procopio forniva svariati elementi

diffamatori sulla imperatrice. In sintonia, Hyppolite Taine parlava

del lusso mostruoso della imperatrice ritratta nel mosaico di San

TEODORA

7H. Taine, Voyage en Italie, 2 voll. (Paris, 1866; 2a ediz. 1874), citazione da p. 222. La

descrizione di Teodora data da Procopio e in Storia segreta 10:11; la traduzione italiana e di

F. M. Pontani (Procopio di Cesarea, Storia segreta, a cura di F. M. P. [Roma, 1972], p. 71).8

Theodora. Dram en cinq actes fu pubblicato per la prima volta come fascicolo monogra-

fico in L’illustration theatrale 66 (7 settembre 1907), con una introduzione dalla quale sono

prese le citazioni di giudizi sul dramma in francese nel testo (p. i); alcune incisioni di scene

del dramma e dei mosaici di Ravenna apparvero in L’illustration. Journal universel 43, n 85

(3 gennaio 1885) insieme alla recensione dello spettacolo di M. Savigny, p. 15. Fotografie

di Sarah Bernhardt come Teodora scattate da Paul Nadar sono riprodotte in Sarah

Bernhardt. Sculptures de l’ephemere, a cura di G. Banu (Paris, 1955).

Vitale: “la prostituta del circo”, figura pallida e distrutta, libertina

tisica dagli occhi enormi, dallo sguardo ardente, con l’energia feb-

brile della cortigiana sazia e magra; un giudizio che riprende, travi-

sandola partigianamente, la descrizione di Teodora data da Proco-

pio, pur acerrimo detrattore della imperatrice : “bella di viso e certo

graziosa, ma piccola e, se non proprio gracile, un po’ pallidina;

l’occhio mobile e aggrottato”:

“on voit l’imperatrice Theodora, l’ancienne sauteuse, la prostituee ducirque, apportant les offrandes avec ses femmes: figure pale et presquedetruite, comme d’une lorette poitrinaire; rien que des yeux enormes,des sourcils joints et une bouche (...). Il n’y a plus en elle que le regardardent, l’energie fievreuse de la courtisane rassasiee et maigre, mainte-nant enveloppee et surchargee du luxe monstrueux de l’imperatrice.”

7.

b. La Theodora di Sardou

Il successo di Theodora, dramma in cinque atti e sette quadri di

Victorien Sardou, la cui prima fu data a Parigi al Teatro Porte-Saint-

Martin il 26 dicembre 1884 con la regia di Duquesnel e musiche di

scena di Massenet, rese definitivamente popolare l’imperatrice (figg.

4-7) . Come altre eroine di Sardou, Teodora fu interpretata da Sarah

Bernhardt (figg. 8-9). Il testo della Theodora, ambientata nel 532

durante la rivolta del “Nika”, rimase, comunque, inedito fino al

19078. Sardou dichiaro di essersi rifatto alla Teodora della “leggen-

da”, ma anche ai Dialoghi delle cortigiane di Luciano. Anche se alcuni

episodi sono evidentemente ispirati a Procopio, le calunnie della

Storia segreta sono inattendibili per Sardou. Tre soli fatti della biogra-

fia della donna sono inoppugnabili: il matrimonio con Giustiniano e

la parte che Teodora prende nel governo dell’impero, il suo atteggia-

mento energico che salva Giustiniano nel 532, la sua morte per

PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

cancro nel 548. Il dramma di Sardou e il romanzo di un amore

impossibile che scoppia improvviso nel cuore della gelida impera-

trice: nei primi quadri nelle stanze imperiali con le cupole di Santa

Sofia che appaiono attraverso le finestre, l’eunuco Euphratas rievoca

per accenni con il parigino Caribert la giovinezza di Teodora gioco-

liera nel circo; Teodora umilia poi Belisario, costringendolo a ricon-

ciliarsi con l’infedele Antonina; annoiata dagli incontri di corte,

Teodora si reca in seguito all’Ippodromo a trovare Tamyris, un’an-

ziana donna egiziana da lei conosciuta quando dava spettacolo ad

Alessandria, capace di preparare filtri amorosi che l’imperatrice le

commissiona per riconquistare Giustiniano (ma Tamyris dara a Teo-

dora un filtro avvelenato per vendicare la morte del figlio). Nel

quadro successivo avviene l’incontro tra Teodora e un certo Andrea,

un giovane nel quale vive ancora lo spirito di Roma e dell’antica

Grecia, venuto da Atene a Costantinopoli a cospirare con l’amico

Marcello per uccidere la coppia dei tiranni, Giustiniano e, appunto,

Teodora. Ignaro della vera identita della donna, Andrea se ne inna-

mora. Nelle stanze di Giustiniano ricoperte di mosaici e d’oro, la

congiura viene pero scoperta e Marcello e arrestato, mentre Andrea

riesce a sfuggire proprio grazie all’aiuto di Teodora; quest’ultima, per

evitare che Marcello tradisca sotto tortura il suo amato Andrea, lo

uccide con la spilla d’oro che tiene tra i capelli. All’Ippodromo,

Andrea si pone a capo del popolo in rivolta che va ad assediare il

palazzo imperiale. Infine, dopo vari avvenimenti, Andrea, ferito, e

trasportato per ordine di Teodora nel Palazzo; qui la incontra e,

pieno di collera contro di lei, si impadronisce del filtro preparato da

Tamyris e lo beve, morendo avvelenato. Il dramma si chiude con

Costantinopoli in fiamme e l’arrivo di Giustiniano che, vedendo

Teodora con il cadavere dell’amato stretto a se, ordina al carnefice di

strangolarla con un laccio di seta rossa.

Charles Diehl, uno dei padri della bizantinistica, descrisse alcune

scenografie e costumi della messinscena del dramma di Sardou:

“Je sais peu d’evocations plus vivantes de la cour et du Palais Sacre deByzance que ce tableau sur lequel s’ouvre Theodora, ou, sous les voutesde la Chalce tapissees de mosaıques etincelantes, se groupe autour del’imperatrice le pompeux cortege des dignitaires vetus de soie et d’or,des gardes empanaches, des femmes joliment parees de brocarts auxbroderies multicolores. Et pareillement le tableau de la loge imperialea l’Hippodrome est une merveille de reconstitution historique ou toutest a louer, les details et l’ensemble, la splendeur des costumes etl’arrangement des corteges, et la verite des gestes rituels que prescit le

TEODORA

9C. Diehl, “Byzance dans la Litterature”, La vie des peuples, aprile 1922, ristampato in

Choses et Gens de Byzance (Paris, 1926), pp. 231-248, citazione da pp. 236-238.10

Vedi Capitolo 4, premessa.11

C. Diehl, Figures byzantines (Paris, 1906), pp. 305-306.

ceremonial. (...) Mais les costumes etaient en general d’une rigoreuseexactitude, et l’archeologue le plus difficile put admirer sans arriere-pensee la splendeur des parures de Theodora, la magnificence desbijoux et des orfevreries, dont quelques-uns avaient ete dessines parLalique.”

9.

Nel dramma di Sardou Giustiniano e personaggio senza spessore.

Teodora, invece, grazie a Sardou diventa nell’immaginario comune

donna crudele redenta dall’amore. La Theodora fu “bien une des

pieces le plus souvent jouees et avec les plus d’eclat, dans le monde

entier”; il suo successo a Parigi, scrive Diehl, fu “prodigioso” e rivelo

al pubblico un mondo bizantino inimmaginato che era stato presen-

tato con falsita e totale “ignoranza dei suoi costumi” (un riferimento

forse ai giudizi di Montesquieu e Voltaire)10

e che era, invece, uno

dei periodi piu interessanti e drammatici della storia:

“Le succes fut prodigieux. Cette evocation de Byzance etait unerevelation pour les spectateurs, a qui on ne l’avait jamais presente quesous le jour les plus faux, avec une ignorance parfaite des ses mœurs,les auteurs dramatiques ayant toujours neglige l’etude de ce que l’on adedaigneusement appele «le Bas-Empire», et qui est en realite une desperiodes les plus curieuses et les plus dramatiques de l’histoire.”.

I costumi di Teodora erano stati ideati da Thomas “d’apres les

meilleurs documents”, mentre i gioielli erano di Rene Lalique. Nelle

incisioni dalla messa in scena e nelle foto d’epoca, la Bernhardt porta

sulla testa piu tipi di corone imperiali, una delle quali e una corona a

casco sormotata da una mezzaluna e da una raggiera; la parte

inferiore del volto e coperta da un velo trasparente, un dettaglio

probabilmente inaspettato, ma che l’elogio funebre scritto dall’eru-

dito bizantino Michele Psello per la madre Teodoto e da poco

pubblicato da Rambaud diceva indossato comunemente dalle don-

ne11

. Le scenografie mescolano dettagli romani, bizantini e moreschi,

quasi sempre con sovrabbondanza di decorazioni: le pareti sono

coperte da decorazioni vegetali, le porte contengono medaglioni

istoriati, file di statue sormontano gli architravi, le colonne sono

decorate con figure di santi e sostengono capitelli corinzi, il letto di

PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

12V. Sardou, “Theodora. Dram en cinq actes”, L’illustration theatrale 66 (7 settembre

1907).13

C. Diehl, Justinien et la civilisation byzantin au VIe siecle (Paris, 1901), pp. vii, 37.14

Diehl, Figures byzantines.

Teodora e abbellito da grandi sculture dorate di pavoni agli spigoli e

una testata a penne di pavone. Questo eclettismo orientale di sceno-

grafie e costumi e la presenza come protagonista di una donna dai

capelli rossi come la Bernhardt, fatale, perversa e crudele, divengono

tratti identificativi di Bisanzio nell’immaginario comune. Il successo

della Theodora di Sardou (“le Napoleon de l’art dramatique”) eccito

gli eruditi che si accanirono a criticare l’esattezza storica di orna-

menti, mobili e accessori. In una lunga intervista a Sardou che

apparve su L’illustration theatrale del 1907, seguita da una discussione

tra Sardou e Darcel, direttore della manifattura dei Gobelins, Darcel

puntigliosamente rimarco le assurdita della forchetta che usa Teo-

dora nella scena della visita a Tamyris, dei vetri alla finestra della

stanza di Giustiniano, della cupola nella prima scena, della forma

della loggia imperiale del Cathisma e delle costruzioni simili a mina-

reti che davano un aspetto turco a Santa Sofia12

.

Teodora fu solamente uno dei protagonisti della storia bizantina

che offrirono una collezione di figure per la letteratura ottocentesca,

le quali, se donne, furono perverse, fatali, appassionate, perfide o

sanguinarie, ma anche abili e intelligenti. Diehl definı Teodora figura

enigmatica ed energica, di rara intelligenza, vero uomo di stato,

personalita originale, potente e dispotica, di complessita spesso scon-

certante e di profondo interesse psicologico13

. Dei dodici capitoli

delle sue Figures byzantines Diehl ne dedica otto a personaggi femmi-

nili: “La vie d’une imperatrice a Byzance”, “Athenaıs” (cioe Eudo-

cia, la moglie di Teodosio II), “Theodore” (la moglie di Giustinia-

no), “L’imperatrice Irene” (la vedova di Leone IV), “Theoctista, une

burgeoise de Byzance au VIIIe siecle”, “La bienhereuse Theodora”

(la moglie di Teofilo), “Theophano” (la moglie di Romano II), “Zoe

la porphyrogenete” (la figlia di Costantino VIII), “Anne Dalassene”

(la figlia di Isacco Comneno); e ugualmente il capitolo “Une famille

de bourgeoisie a Byzance au XIe siecle” ha tra i suoi protagonisti la

madre di Psello14

. La Bisanzio popolare nacque come mondo femmi-

nile. Lo stesso Diehl sottolineo piu volte come l’esplosione della

fortuna di Bisanzio sia legata al suo successo in teatro, all’opera e nei

romanzi storici. Di Bisanzio interessarono ai romanzieri intrighi, lotte

politiche e religiose, fazioni del circo, corruzione, lusso, sensualita,

TEODORA

15Diehl, “Byzance dans la Litterature”, rist., pp. 233-248.

raffinatezza, cerimoniale, costumi, titoli evocativi dei dignitari (silen-

ziari, cubicolari, ostiari, prepositi, sincelli, ecc.). In un elenco som-

mario, nel 1922, Diehl ricordo tra i romanzi su Bisanzio il Belisaire

(1767) di Marmontel, dalla cui trama lui disse derivare il Belisario

(1836) di Donizetti; il Count Robert of Paris (1832) di Walter Scott,

ispirato all’Alessiade di Anna Comnena; i drammi dati al teatro

d’Atene, tra i quali Herakleios (1885) e Theodora (1884) di Cleone

Rankabes (figg. 10-11); il dramma Bizanc (1904) di Ferenc Herczeg;

Byzance (1891) di Jean Lombard; Amants byzantins (1897) di Hu-

gues Le Roux; Princesses byzantines (1893), Basile et Sophia (1900),

Irene et les Eunuques (1906) di Paul Adam (figg. 12-13)15

.

c. Condanna e apologia di Teodora

L’anno successivo alla messa in scena di Sardou, 1885, sono pubbli-

cati vari scritti su Teodora, non indagini storiche, ma enunciazioni

polemiche di principio sulla sua figura. Da parte cattolica si attinge

senza novita al solito repertorio di accuse appreso da Procopio:

Teodora e corrotta e corruttrice, ambiziosa e prepotente, augusta

immoralissima che calpesta freddamente i deboli e gli onesti, genio

audace di intrighi dalla sete indicibile di oro. Alla condanna dell’im-

peratrice si affianco la condanna generale di Bisanzio (eretica, sci-

smatica, ortodossa), alla quale venne opposta Roma (cattolica), una

contrapposizione che divento un motivo ricorrente nei giudizi poste-

riori su Bisanzio anche in Italia. Cosı, in un articolo ferocemente

antiteodoriano su Nuova Antologia del 1885, Dionigi Largajolli de-

scrisse Bisanzio, “incadaverita moralmente”:

“Un cristianesimo, fonte di moralita e di idealita nella vita (...) non ecertamente nella Bisanzio del VI secolo, ne in seno al paese greco-orientale che bisogna cercarlo: in fondo la grande citta, sotto quellasua impudente vernice di ascetismo, era sempre pagana, tutta vitareligiosa esteriore; cioe con tutti i vizi dell’antichita, senza le sue virtu.Attraversando quella indicibile corruzione bizantina, il cristianesimonon che potere rinnovare quella societa incadaverita moralmente, siera sinistramente trasformato in palestra di cavilli indigesti e di prati-che pesanti; come, attraversando la Grecia, si era, direi quasi, umaniz-zato, ed era divenuto operoso e pratico fra i latini. Non dimentichiamo

PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

16D. Largajolli, “Teodora. Un’augusta bizantina del VI secolo”, Nuova Antologia, ser. 2,

50 (1885), pp. 210-244; i brani sono da pp. 225 e 226.17

A. Debidour, L’imperatrice Theodora (Paris, 1885), citazioni da pp. 5 e 10.18

Sardou cita proprio Debidour e Diehl in difesa della esattezza storica della sua Teodora

(L’illustration theatrale, cit. p. iii).

che il numero minore di martiri e stato dato appunto dal paesegreco-orientale.”.

Vengono poi le lodi del papa che opera in opposizione al Cristia-

nesimo di facciata dei Bizantini:

“Il vescovo di Roma, con le sue tendenze latine e pratiche alla unita,agendo dall’antichissima e veneranda citta come da un centro operosoed attraente, sentiva chiaramente la missione papale che era quella diorganizzare e disciplinare saldamente in un solo l’Impero spirituale,l’Occidente barbarico e l’Oriente riluttante; (...).”

16.

Da parte francese, il giudizio sulla figura di Teodora e completa-

mente differente. Nello stesso 1885, ad esempio, escono piu testi

polemici in difesa dell’imperatrice, ne avventuriera, ne eroina del

circo: se ritornasse in vita, scrisse Antonin Debidour, non avrebbe da

ringraziare certamente Sardou per come la fa apparire nel suo

dramma:

“Depuis quelques mois on a beaucoup parle en France et surtout aParis de l’imperatrice Theodora. De son vivant le theatre, dit-on, luiavait valu un trone. Le theatre aujourd’hui lui vaut une notorieteposthume qu’elle eut peut-etre souhaitee si elle n’eut ete qu’uneaventuriere et une heroıne de cirque. Comme elle fut probablementtout autre chose, il y a gros a parier que, si elle revenait en ce monde,elle n’irait pas remercier M. Sardou du role qu’il lui fait jouer dans saderniere piece.”

17.

L’ultima frase parafrasa un giudizio analogo di Diehl, riportato

dallo stesso Sardou nell’intervista pubblicata su L’illustration theatrale

del 1907:

“Si Theodora, dit-il [Diehl], revenait au monde, elle ne serait pasflattee du role que lui fait jouer Sardou et de la gloire posthume qu’illui a value. Il nous monstre une imperatrice gardant sur le trone desfacon d’aventuriere, courant les rues de Byzance la nuit, menant avecle bel Andreas une intrigue amoreuse! Une femme si soucieuse del’etiquette n’eut pas ete, comme la Theodora de Sardou, s’encanaillera l’Hippodrome et se lacher au style familier qui lui prete le drame.”

18.

TEODORA

19H. Houssaye, “L’imperatrice Theodora”, Revue des deux mondes 67 (1885), pp.

568-597, citazioni da pp. 568 e 573.

E Henry Houssaye nello stesso anno 1885:

“A entendre Montesquie et tous les historiens occidentaux s’indignercontre le despotisme, la degradation, «le tissu de crimes et de perfidies»de l’empire d’Orient, on croirait que les peuples de l’Occident avaientalors recouvre les vertus de l’age d’Or, sous le regne de la justice et dela liberte. Or, quel tableau presente l’Occident pendant ce VIe siecleou vecut Justinien? C’est la barbarie dans sa plus affreuse expression,la barbarie qui a perdu ses mœurs simples et ses quelques vertus aucontact des races qu’elle a vaincues. Ce sont tous les exces de l’etatsauvage combines avec tous les vices d’une civilisation finissante. C’estpartout le desordre, l’arbitraire, la violence, la dissolution morale, lamisere publique.(...) ce gouvernement si corrupteur, ce peuple si corrompu, cetteadministration si mauvaise, cette armee si miserable, ont fait durerl’empire pendant, plus des neuf cents ans, qu’ils ont resiste a vingtpeuples, retarde de longs siecles l’invasion des Turcs, donne le chri-stianisme aux Slaves, la civilisation aux Arabes et a l’Occident le tresordes lettres grecques.”.

Teodora, giudicata quasi sempre con sfavore nella storiografia,

non era stata ancora difesa da nessuno e pochissimi avevano accolto

alcune giustificazioni in sua difesa, prendendo per buono quanto

narrato nella Storia segreta. Quasi eroina di un romanzo veristico

ottocentesco, Teodora e stata una povera filatrice di lana da giovane;

divenuta imperatrice, costruisce chiese ed edifici pubblici per i biso-

gnosi19

.

Come le accuse a Teodora da parte italiana divennero in Italia

condanna di tutta Bisanzio ed apologia di Roma, la polemica in

difesa di Teodora, donna, imperatrice e cristiana, divenne in Francia

apologia di Bisanzio e condanna di Roma: se per Teodora bisogna

ricorrere a una storia segreta, ad accusare delle loro nefandezze i

vescovi italiani e la storia pubblica di Gregorio di Tours. Mentre

l’Occidente medievale e in situazione di anarchia, in preda ai barbari

ed in uno stato selvaggio combinato con i vizi di una civilta alla sua

fine, in Oriente c’e una organizzazione statale, con citta, scuole e

tribunali che si rifanno al codice di leggi giustinianeo; i Bizantini

sono stati i bibliotecari del genere umano e Bisanzio fu per gli Slavi

quello che Roma fu per il mondo occidentale. Questa difesa di

Bisanzio e un luogo comune negli studi francesi dell’Ottocento.

PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

Curiosamente, se Teodora diventa il centro del dibattito sul valore

storico della civilta bizantina, Giustiniano resta al confronto nell’om-

bra.

d. Teodora in Italia: da Sardou alla Bizantina

La Theodora di Sardou non fu salutata trionfalmente in Italia, almeno

dalla critica. Una recensione alla prima italiana al Teatro Manzoni di

Milano, apparsa nel maggio 1885 sull’Illustrazione italiana, ne parla

come di una mediocre interpretazione della Compagnia Nazionale,

“un drammone ad effetto, da circo”, “un misero lavoro” a confronto

di altri di Sardou, che fa sbadigliare e puo ottenere successo solo in

tempi in cui nell’arte “si cerca la pompa, lo sfarzo, lo spolvero di

similoro per acciecare i gonzi”. Il recensore non obietto alla inesat-

tezza storica delle scenografie e dei costumi; piuttosto, invece di far

morire Teodora “lagrimata da Giustiniano”, Sardou fa di lei “una

sgualdrina, che scappa dal palazzo, di notte, per isfogare un capriccio

erotico”. Trasformato Giustiniano in “una specie di Claudio, un

imbecille”, Teodora e

“una di quelle ragazze che, nate in infimo stato, cresciute mangiandopomi crudi, colle pianelle nel fango, scarmigliate, sono invano portate,un giorno, dalla loro bellezza, dal vizio e dalla fortuna in sale dorate dapremurosi protettori, – invano, che ne scappano appena lo possono,sia pure ad intervalli, per ritornare alle loro casupole, alle loro vecchieconoscenze, alle loro minestre divorate sulle ginocchia, fra le risate. LaTeodora della storia e bensı nata da un custode di orsi, e bensıcommediante, etera e si da a molti, ma ama uno solo, il suo cuore ecapace di elevazione.”.

A differenza della “fraschetta pettegola” di Sardou, la vera Teo-

dora, giunta al trono, aveva mostrato le sue capacita, diventando la

sovrana di fatto dell’impero:

“Ella vede tutto, sa tutto, fa tutto. La sua mente e acuta, capace d’ogniastuzia di governo: il suo cuore e saldo, virile, chiuso alla pieta. Non epiu Giustiniano che regna, e lei con Giustiniano; o, meglio, lei sola. –La Teodora del Sardou, non e che una fraschetta pettegola.”.

In conclusione, nulla di bizantino e nella Teodora di Sardou; la

vera Teodora e quella italiana di San Vitale, conosciuta solo dagli

eruditi:

TEODORA

20R. Barbiera, “Teodora”, L’illustrazione italiana 12, n 20 (17 maggio 1885), pp.

307-310.21

Sui ‘Bizantini’ e la Cronaca bizantina, vedi: S. Slataper, “Quando Roma era Bisanzio”,

in S. S., Scritti letterari e critici raccolti da G. Stuparich (Roma, 1920), pp. 161-167; F.

Flora, “La «Cronaca Bizantina»“, Pegaso 2 (1930) , pp. 681-698; M. Praz, La carne, la morte

e il diavolo nella letteratura romantica (Milano-Roma, 1930; seconda edizione accresciuta

Torino, 1942), pp. 289-403, in particolare sulla Teodora di Fiorentino p. 378; A. Somma-

ruga, Cronaca Bizantina (1881-1885). Note e ricordi (Milano-Verona, 1941); G. Squarcia-

pino, Roma bizantina. Societa e letteratura ai tempi di Angelo Sommaruga (Torino, 1950); E.

Scarano, Dalla ‘Cronaca Bizantina’ al ‘Convito’ (Firenze, 1970); Cronaca Bizantina, a cura

di V. Chiarenza (Treviso, 1975); Roma bizantina, a cura di E. Ghidetti (Milano, 1979).

“La pagina autentica di Bisanzio, di Giustiniano, di Teodora, l’ab-biamo noi, italiani, nell’antica cappella di San Vitale (...). Quella solavale tutte le Teodore della scena, francese e inglese; e noi siamo ingrado di presentarvela riprodotta da un nostro artista.(...) Quante nuvole d’incensi salirono a quella immagine di artista dacirco incoronata!... Ora non attira che quelli degli eruditi d’occasione.E, domani, dimenticata la Teodora del Sardou, sara dimenticata anchelei.”

20.

Negli stessi anni in cui si svolse la polemica su Teodora apparve

la rivista Cronaca bizantina. Periodico letterario – sociale – artistico di

Angelo Sommaruga (figg. 14-15). La Cronaca bizantina, o la Bizan-

tina tout cour, constava di una dozzina di pagine ed ebbe alta

tiratura, ma vita difficile (Sommaruga finı sotto processo per le

battute allusive sui governanti). Uscı in due serie: la prima quindici-

nale dal 15 giugno 1881 al primo febbraio 1885 sotto la direzione di

Sommaruga; la seconda rinacque settimanale nel novembre 1885,

sotto la direzione di Gabriele D’Annunzio, ma chiuse, definitiva-

mente, col numero del 28 marzo 1886. Il carattere della rivista era a

meta strada tra il giornale letterario – vi pubblicarono i maggiori

scrittori italiani del tardo Ottocento – e il giornale scandalistico di

cronaca mondana: intrighi, ricevimenti, moda, amori della buona

societa del tempo. Una gran quantita di pubblicita di profumi,

abbigliamento, vini, e libri seri, esotici ed eccitanti della casa editrice

Sommaruga accompagnava gli articoli. La Bizantina, sulla prima

pagina, portava nella prima serie di Sommaruga i due versi finali

dell’ode postuma di Giosue Carducci, del 1871, dedicata al patriota

Vincenzo Caldesi, che fa parte dei Giambi ed epodi:

“Impronta Italia dimandava Roma:Bisanzio essi le han dato.”

21.

PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

22La conoscenza approssimativa di Bisanzio della Cronaca bizantina e il livello degli studi

bizantini di quegli anni sono commentati in G. Pasquali, “Medioevo bizantino”, Civilta

moderna 13 (1941), pp. 289 sgg., che trascrisse e commento il pezzo della Bizantina

riportato nel testo. Vedi inoltre R. Drake, Byzantium for Rome: The Politics of Nostalgia in

Umbertian Italy, 1878-1900 (Chapel Hill, 1980).

L’opposizione tra Bisanzio, simbolo di decadenza, e Roma, sim-

bolo di auspicata rinascita, diventa luogo comune; il titolo Cronaca

bizantina alludeva appunto alle trame della corte di Costantinopoli,

paragonabili a quelli di Roma neocapitale d’Italia. Di fatto, la rivista

non pubblico mai niente a favore o contro la vera Bisanzio, sulla

quale probabilmente si avevano ben poche notizie esatte. La cita-

zione degli imperatori Basilio e Michele nella spiegazione del titolo

fornita nel primo numero della rivista non chiariva a quali Basilio e

Michele ci si riferisse:

“Il nostro titolo. Non ha nulla a che fare con l’argomento. E risaputache Bisanzio da piu di quindici secoli si chiama Costantinopoli; che aCostantinopoli, ora come ora, c’e il padiscia, mentre – per nostraimmeritata fortuna – qui a Roma c’e sempre il papa, vicario volonta-riamente invisibile di quel dio che tutti vede; che i successori diNiceforo non hanno niente, ma quel che si dice niente di comune co’discendenti di Bertoldo – e tanto meno di Bertoldino; e che, infine, glieunuchi di Basilio e di Michel Paflagonico non possono, secondo ogniprobabilita, aver fatto razza (...).”

22.

La Cronaca bizantina era impaginata a somiglianza di un codice

medievale, ma le decorazioni sono spesso grottesche rinascimentali e

altre volte cineserie. La grafica delle pagine e un misto di elementi

medievali ed esotici. Accanto al titolo, nei fascicoli dei primi due

anni (1881-1882), appaiono due incisioni a inchiostro rosso, en-

trambe ispirate genericamente all’arte medievale, che raffigurano

Daniele in abito militare romano nella fossa tra due leoni araldici,

sopra l’iscrizione DANIHEL, e un contadino in abiti medievali che

zappa la terra tra le sue pecore. Col primo numero del 1883 spari-

scono le scene medievali dalla testata e le lettere del titolo e dei versi

di Carducci imitano i caratteri cinesi; dal giugno 1883, terza annata,

il titolo ha per sfondo una processione con giovani cantori e mona-

che che portano una icona della crocifissione, mentre sulla destra,

dopo una colonna tortile, e deposto un cadavere (l’incisione e fir-

mata da Giulio Aristide Sartorio); dal gennaio 1884 (sempre a firma

di Sartorio) la processione e sostituita da una scena erotica con una

TEODORA

23I. Fiorentino, Teodora (Roma, 1886); i brani riportati piu sotto nel testo sono dalle pp.

22, 23-24, 45, 69; il trafiletto e a p. 8 del numero della Cronaca bizantina del 29 novembre

1885.

giovane schiava procace, a seni nudi, baciata sulla spalla da un

efebico adolescente nero in un chiostro con colonne tortili; infine,

con la nuova serie sotto la direzione di D’Annunzio, la rivista riduce

il formato e tutta la prima pagina e occupata da un grande scudo su

cui sono tre figure femminili, intrecci agli angoli e due clipei circolari

con una testa femminile e un giovane arciere; intorno allo scudo

l’iscrizione “tristis gratia non ridet”.

e. Teodora, odalisca, a dispense

Nel numero del 22 novembre 1885, nel periodo della direzione di

D’Annunzio, la Cronaca bizantina annuncio l’uscita imminente di

Teodora. Romanzo storico bizantino di Italo Fiorentino, illustrato con

quaranta incisioni di Giuseppe Pigna (poi apparso col titolo Teodora.

Scene bisantine); il romanzo sara posto in vendita a puntate, a due

dispense la settimana, presso i rivenditori di libri e giornali. Un

trafiletto diceva:

“Teodora. – Una donna che, uscita dall’infimo strato della plebe,pervenne a sedere imperatrice sul maggior trono del mondo, chepresenta in se stessa uno strano miscuglio di abbiezione e di grandezza,di crudelta, di magnificenza, di magnanimita, e un soggetto non menodegno di studio, che di ammirazione.La societa bisantina di tredici secoli or sono, con le sue disputeteologiche, le sue volutta feroci, e con una strana turba di eunuchi, evescovi, e capitani, e cocchieri, frammisti e avviluppati intorno al tronoimperiale, forma una corona degnissima a quella bizzarra figura.Della Teodora si pubblicheranno due dispense alla settimana a cent.10 cadauna. – L’opera sara di 40 dispense. – (...)”

23.

Il romanzo di Fiorentino e un feuilleton che ripropone, sulla scia

del rumore provocato dal dramma di Sardou, le vicende di Teodora

narrate da Procopio nella Storia segreta ampliandole di dettagli san-

guinari, crudeli, melodrammatici e soprattutto erotici (che mancano

nella Theodora) in ripetitive puntate: quasi ogni dispensa prende la

scusa dalle pagine di Procopio per descrivere amori di Teodora o

Antonina e le esibizioni di Teodora e della sorella maggiore Comi-

PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

tone (cioe Comito) nel circo (figg. 16-20). Dopo la disgrazia della

morte del padre, addetto alla alimentazione degli orsi, il nuovo

matrimonio della depravata madre e altre vicissitudini della giovi-

netta Teodora, al Capitolo IV (“In teatro”) avviene l’entrata in

societa della sorella maggiore e poi quella della protagonista:

“L’esordio di Comitone ebbe un felice successo. (...) Questo trionfoartistico della giovinetta non ando lungamente scompaginato dallarovina della sua virtu. In quel tempo le donne di teatro cumulavanoall’arte loro quella della cortigiana, esercitata piu o meno nobilmente.Non v’era eccezione possibile.”.

Dopo l’inizio come ancella di Comitone, male abbigliata, Teo-

dora

“prese cura del suo abbigliamento, e con precoce malizia lo dispose inmodo che rimanessero esposte senza velo agli sguardi della moltitudinealcune porzioni del suo corpo atte ad accendere l’immaginazione.”.

Crebbero i trionfi di Teodora, coronati da un successo completo

e inaspettato. Inevitabilmente, la ragazza si fa cortigiana:

“Teodora, mima danzante il giorno, cortigiana alla notte, passava conindifferenza dalle braccia d’uno a quelle d’altro amatore, senza prefe-renza e senza ripugnanza, con una suprema indifferenza. Cio che laschiero di slancio fra le cortigiane di primo ordine fu appunto quellaimpassibilita sua ad ogni prova, quell’obblio d’ogni pudore, che lafaceva somigliare a una sfinge, splendida di bellezze, gelida come ilmarmo.”.

Sirena incantatrice, Teodora

“non faceva altra distinzione fra gli amanti se non che dal piu al menoricco, e che non rifuggiva dalle ultime laidezze, innanzi alle quali siarretravano le piu imperterrite sue compagne.”.

Riesce, comunque, a sfondare e a diventare l’amante di Ipparco,

nipote dell’imperatore Anastasio, che pero Teodora rifiuta di seguire

nella catastrofe e nella fuga:

“Orbene rimani. Vedo ora qual sei. Tu non mi hai amato mai, tu nonsei che una volgare meretrice.”.

Ed Ipparco si porta via il figlio loro, Giovanni, senza che Teo-

TEODORA

dora, gelida madre, glielo impedisca in alcuna maniera; il figlio

riapparira piu tardi, nobile giovane che ignora chi sia sua madre

(l’episodio e raccontato da Procopio al Capitolo 17 della Storia

segreta: che il padre sia questo Ipparco e pero una invenzione di

Fiorentino, dato che Procopio non dice il nome del padre di Gio-

vanni, il quale e poi fatto sparire da Teodora quando le si presenta a

corte divenuto ragazzo). L’incisione dal titolo “Cuor di pietra” (di-

spensa 7) ritrae Teodora che guarda impassibile verso il mare e la

didascalia commenta: “Teodora li vide dall’alto d’un balcone, ne si

curo di dare un ultimo bacio a quel bimbo che forse non rivedrebbe

mai piu” (anche questi sentimenti di Teodora sono invenzione di

Fiorentino).

Viene poi l’episodio della schiava Aglae (altra invenzione), fatta

bastonare per rabbia da Teodora perche, pettinandola, le avrebbe

tirato i capelli cosı da farle male:

“Ne preghiere, ne pianti giovarono. Teodora comando che Aglae fossetratta nel sottoposto cortile, e battuta sulle carni ignude con venti colpidi verga. Essa medesima si affaccio al balcone per accertarsi che il suocomando fosse eseguito. Vide correre il sangue dell’infelice, udı le suestrida disperate, ma non fu paga finche il ventesimo colpo non fucaduto. Le carni delicate di Aglae, erano lacerate, e quelle spalle, careai baci degli amanti, sarebbero d’allora in poi deformate dalle cicatri-ci.”.

Seguono altre crudelta verso i nemici, derisioni di nobili, ca-

pricci, intrighi ed anche il drammatico giuramento di Giustiniano sul

libro (le Scritture, presumibilmente) all’Ippodromo durante la rivolta

del “Nika”, l’intervento di Teodora contraria alla fuga, e via dicendo.

Le scenografie delle incisioni di Pigna sono un pastiche di archi-

tetture e costumi medievali o moderne, ispirati in parte alle immagini

della Theodora di Sardou: soldati in armature da crociati, letti a

baldacchino barocchi, mobili gotici, bagni stile impero, capitelli egizi,

finestre ottomane, archi moreschi; ma anche dignitari vestiti in ma-

niera genericamente bizantina, monogrammi giustinianei, tralci d’a-

canto e santi ascetici dipinti alle pareti (sono anche nel bagno di

Amalasunta, la figlia di Teodorico uccisa da sicari), patriarchi dalla

lunga barba materializzatisi da qualche mosaico bizantino per con-

vincere il perplesso Giustiniano della questione del filioque. In ap-

pendice, sono pubblicati “brani della storia segreta di Procopio nella

parte che riguarda Teodora”, usati come scusa per riproporre altre

incisioni erotiche di Teodora.

PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

24C. Rankabes, Θεïδωρα. Πïιηµα δραµατικïν ει µερη πεντε (Leipzig, 1884), pp. 3, 13, 53.

Di fatto, la maggior parte delle incisioni e delle leggende tratte

dal testo che le accompagnano insistono sulle nudita di Teodora e

compagne con presumibili finalita di vendita delle dispense (simili

incisioni con Teodora giovinetta seminuda, odalisca e piangente

accompagnano la Theodora di Rankabes, uscita nello stesso 1885)

(figg. 10-11)24

. Tutte queste figure femminili non hanno niente di

storicamente bizantino, non sono riprese da mosaici: sono odalische,

il cui modello sono i dipinti esotici di Ingres e Delacroix, in gran

voga, anche se di qualche decennio anteriori, o la pittura storica

italiana contemporanea, come quella di Hayez, Morelli od Ussi.

Nella incisione della prima dispensa Teodora e ritratta come una

odalisca a seno nudo pettinata da serve di colore (la ricca turca

pettinata dalla schiava nel bagno turco e una scena tipica del reperto-

rio orientale ottocentesco), con la corona imperiale ai suoi piedi e lo

stendardo con l’aquila di Roma accanto (dice la didascalia: “In

mezzo a quel lusso orientale per le sue forme scultorie, i suoi sguardi

procaci risplendevano in tutta la loro possanza”), danza con un

tamburello su un tappeto tra rose e specchi; con alti stivali e nuda

tranne che per la vita nella quarta dipensa (Teodora mima: “Fu

impiegata in una parte che oggi si chiamerebbe di pantomima buffa.

Poco vestita anzi presso che ignuda ...”); si scioglie tra le braccia

dell’amato a petto nudo nella quinta dispensa (Amori di Teodora:

“Amato mio diceva ella, guardandolo cogli occhi socchiusi – io son

divenuta brutta e non ti piacero piu – Tu mi sembri cento volte piu

bella”: anche qui il modello potrebbero essere stati i quadri di

Ingres); e cosı via fino al riassunto della vita nella dispensa trenta-

treesima, dove suona e danza a petto nudo davanti a un muscoloso

negro che ha delle ali di farfalla attaccate alla schiena (Rimembranze:

“... quando si mostrava quasi nuda sul teatro, facendo arrossire fino

le cortigiane ...”), e nella trentanovesima, dove e nuovamente tra le

braccia di un amante sotto una rudimentale tettoia (Primi amori:

“Ma ad ognuno che si presentasse e la trovasse bella di tutta la

persona faceva copia”). All’occasione, sono gratuitamente seminude

anche anche altre giovani donne, come le schiave di Teodora fatte

frustare per minime inadempienze o la barbara Amalasunta, che vede

arrivare nel bagno i suoi assassini seduta nella posa di una bagnante

orientale di Ingres.

2

BASILIOLA

“(...) le non diro vecchie, ma giudiziosamente maturesignore adorne di sardanapaleschi orecchini da 50.000lire l’uno (detti nel Salgari «nocciuole di brillanti») (...).Il «buonasera Anselmo» largito al passaggio pioveva giudal fastigio di una pellicciosa e margaritante regalita,come sguardo di eccelsa Teodora o di Caterina alloscriba genuflesso (...)”.Carlo Emilio Gadda, “Quando il Girolamo ha smesso...”, in L’Adalgisa. Disegni milanesi, 1944, p. 21.

Tra la fine dell’Ottocento ed il primo decennio del Novecento il

gusto bizantino si afferma in Italia. Sulle orme di Klimt e Mucha, la

ricchezza della decorazione bizantina ispira artisti: Galileo Chini, nei

dipinti per la esposizione di Venezia del 1908, incorona Bisanzio

come una delle grandi civilta artistiche umane, alla pari della Grecia,

Roma ed il Rinascimento. Ancora una volta e un drammaturgo,

D’Annunzio, a creare un personaggio simbolo di Bisanzio: Basiliola,

la bizantina protagonista de La nave, unisce agli attributi di Teodora

quelli anch’essi orientali di Salome. Dopo Teodora, personaggio

femminista per Diehl, Bisanzio corrotta e lussuriosa e nuovamente

impersonata da una donna. Questa volta, pero, invece di un vacil-

lante Giustiniano, le e contrapposto un coraggioso e virile Marco

Gratico, veneto di sangue romano, che prima e stregato dal fascino

della donna, poi se ne libera e la doma: nonostante ne sia stato

inizialmente corrotto, nell’epilogo della tragedia dannunziana l’Occi-

dente latino ha ragione dell’Oriente bizantino.

PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

1C. Ricci, Ravenna (Bergamo, 1902), citazioni da pp. 29 e 12.

a. Basiliola, Teodora italianizzata

Nella Teodora di Italo Fiorentino, la vita dell’imperatrice raccontata

da Procopio e presa come scusa per un romanzo erotico che ha per

protagonista una donna dissoluta. Anche gli storici dell’arte raven-

nate degli inizi del Novecento, di fronte alla sua immagine nel

mosaico di San Vitale, ripeterono sull’imperatrice il giudizio cattolico

tratto da Procopio; Corrado Ricci, nel 1902, la descrisse come

dissoluta e sanguinaria (fig. 21):

“E ben essa, in questo vecchio tempio, la celebre donna, che dalla vitaistrionica del circo fu portata sul trono d’Oriente; che, gettati i falsiornamenti di comica, cinse il prezioso diadema bizantino stellante digemme; che dalla commedia, che dilettava i popoli, passo alla tragediache li fece sanguinare; che dal peccaminoso giaciglio, aperto a chipagava, salı alla gloria delle absidi sacre. La figura, alta, magra, i suoiocchi larghi, rotondi le danno proprio quell’aspetto di nervosismoisterico e sfrontato che sembra risultare dalla storia e dal suo enormesuccesso in una societa raffinata e corrotta.”.

A Teodora Ricci contrappose la virtuosa Galla Placidia, “la

donna piu straordinaria di tutta un’epoca”, “il centro dei destini piu

tragici dell’impero romano agonizzante”; Galla, figlia di Teodosio, e

obbligata a sposare Ataulfo, del quale resta vedova, ed e respinta a

Ravenna, “dopo indegni trattamenti”, presso il fratello Onorio; qui

sposa Costanzo, che muore lasciandola con due figli, ed e esiliata a

Bisanzio, da dove ritorna per mettere sul trono d’Occidente il figlio

Valentiniano. Galla ha ornato Ravenna di grandi monumenti:

“il suo mausoleo appare come la tomba della potenza dei Cesari, nellasua potenza di raccoglimento di colibro, desta sensi di raccoglimentostorico piu che il mausoleo d’Augusto e quello d’Adriano. Ogni poe-tica tradizione. ogni fantasia contempla in lei sola la gloria d’unperiodo di tempo e di vicende straordinarie.”

1.

Tutti, cosı, tra il popolo ricordano Galla Placidia, con sensi

ancora vivi di ammirazione. Diversamente, Carlo Cecchelli, nel

1932, per l’Enciclopedia Italiana, traccio un ritratto negativo della

donna, imputandole leggerezza nel favorire gli intrighi di corte,

complicita nell’assassinio di Serena, moglie di Stilicone, relazioni

BASILIOLA

2C. Cecchelli, “Galla Placidia”, in E. I., vol. 16 (1932), pp. 286-287.

3C. Diehl, Justinien et la civilisation byzantin au VIe siecle (Paris, 1901); id., Theodora

imperatrice de Byzance (Paris [1904]), p. 113 (traduzione italiana, Teodora imperatrice di

Bisanzio [Firenze, 1939 – XVII], p. 82):

“Depuis que Sardou, dans son drame, nous a monstre Theodora amoureuse et coureuse

d’aventures, on admet volontiers que l’imperatrice, gardant sur le trone les libres de sa

jeunesse, ne se prive point, en courtisane qu’elle etait restee, de retourner a ses vieux

peches. Je ne voudrais point me donner le ridicule de me faire le champion trop resolu de la

vertu de Theodora apres son mariage.” L’accenno al ridicolo sembra una risposta alle

contestazioni di Sardou delle critiche di Diehl pubblicate sull’Illustration theatrale, cit., p. iv.

Non sono stato in grado di rintracciare copia della edizione di Theodora di Diehl con le

incisioni di Orazi.4

P. Adam, Irene et les eunuques, illustrazioni di M. Orazi (Paris, 1906).

colpevoli della figlia Giusta Grata Onoria con il maggiordomo di

palazzo Eugenio2.

A differenza dell’immagine italiana di Teodora, quella francese

resta complessivamente positiva, quantomeno non viziata dal suo

presunto apprendistato di cortigiana; le pagine di Procopio non

fanno lı testo. Nel 1901 Diehl pubblica Justinien et la civilisation

byzantin au VIe siecle, con numerose incisioni in bianco e nero di

accompagnamento; seguono nel 1904 Theodora imperatrice de By-

zance, in edizione di lusso con sessanta grandi composizioni a colori

e oro di Manuel Orazi, che e proposta anche in edizione piu sobria

ed e poi tradotta in italiano nel 1939, e, nel 1906, il gia citato Figures

byzantines con un capitolo dedicato a Teodora3. Nella monografia

sull’imperatrice Diehl riparte dalla Teodora “sempre in cerca di

avventure amorose” di Sardou, ma nel capitolo “La virtu di Teo-

dora” sostiene che i fatti sono piuttosto a favore di Teodora, nono-

stante non si possa giurare sulla sua moralita dopo il matrimonio con

Giustiniano. Teodora e una prostituta famosa, ma, abbandonata

dall’amante, si ravvede e passa a frequentare i circoli cristiani di

Antiochia; era pero anche donna, pertanto mobile, appassionata,

ambiziosa, avida di rifarsi una fortuna; di qui l’incontro con Giusti-

niano e la sua ascesa fino a diventare imperatrice. Tre capitoli,

infine, sono dedicati al femminismo, alla pieta ed alla religiosita di

Teodora. Quasi contemporaneamente esce Irene et les eunuques di

Paul Adam (1906), un drammone storico, anch’esso con illutrazioni,

insipide, di Orazi (figg. 12-13), che ha per protagonista Irene, una

colta ateniese che sposa l’imperatore Leone IV: donne di corte ed

eunuchi iconoduli sono contrapposti ad uomini, tra cui l’imperatore,

iconoclasti4.

Nell’ultimo decennio dell’Ottocento Orazi realizzo anche manife-

PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

5V. Sardou e P. Ferrier, Teodora, musica di X. Leroux, editore P. Choudens (Milano,

1907).6

Per la trama e la critica su questi film: A. Bernardini, Il cinema muto italiano. I film dei

primi anni 1905-1909 (Torino, 1996) p. 411 (Teodora, Imperatrice di Bisanzio); V. Martinelli,

“Il cinema italiano muto. I film degli anni venti 1921-1922”, BN. Bianco e nero, 42/1-3

(gennaio-giugno 1981), pp. 505-506 (Teodora del 1913 e Teodora di Carlucci).7

La notizia e presa da L’illustrazione italiana 35, n 12 (22 marzo 1908), p. 279. Le

citazioni sono dalla recensione alla prima dello spettacolo firmata Leporello, “La nave di

Gabriele D’Annunzio”, L’illustrazione italiana 35, n 3 (19 gennaio 1908), pp. 58-64.

sti e altre immagini dalla Theodora di Sardou (fig. 22), dove la

Bernhardt indossava un abito dorato ed ha un nimbo di tessere

musive pure dorate. La Theodora fu ripresa con un successo eclatante

nel 1902 e da essa fu tratta nel 1907 un’opera lirica in italiano,

Teodora, dove sono introdotte alcune varianti nella trama rispetto

all’originale (tra queste, Andrea che, ferito, dichiara il suo amore per

Teodora, dopo averla riconosciuta come l’imperatrice)5. In Italia, nel

1909, apparve un primo film muto Teodora, Imperatrice di Bisanzio,

con la regia di Ernesto Maria Pasquali; la trama e una parafrasi di

Sardou, senza prestiti da Procopio: Giustiniano si innamora di Teo-

dora, bellissima fanciulla, la quale, salita al trono, senza rivelare la

sua identita diventa amante di un certo Eraclio, che cospira insieme

ad altri per uccidere l’imperatrice; Eraclio, al momento di colpire

Teodora, la riconosce e si inginocchia davanti a lei. Un secondo film

su Teodora fu prodotto nel 1913; poi, nel primo dopoguerra (1921),

da Sardou fu tratto un altro film italiano di grande successo di

pubblico, con la regia di Leopoldo Carlucci, proiettato prima negli

Stati Uniti (1921) e poi in Italia (1922) (fig. 23); la trama e qui

fedele al dramma di Sardou: Teodora appare sulla scena indossando

costume e copricapo imperiali ispirati alla Tedora di San Vitale o alla

imperatrice Arianna del dittico d’avorio del Bargello6.

Negli stessi anni della riduzione a opera del dramma di Sardou,

dissolutezza, morbosita e intrighi di Bisanzio vengono messi in scena

anche da D’Annunzio ne La nave (figg. 24-28), la cui prima a Roma,

al Teatro Argentina, l’11 gennaio 1908, stabilı il record di incassi per

il teatro di prosa italiano; alla Fenice di Venezia ne furono date piu

di cento rappresentazioni7. La tragedia e ambientata nell’anno 552 e

racconta le vicende che precorrono la fondazione di Venezia: un

gruppo di cittadini di Aquileia si rifugia su una isola della laguna

veneziana per sfuggire alle invasioni barbariche e qui costruisce una

basilica e una nave (la Totus Mundus), con la quale salpare per

recuperare ad Alessandria il corpo dell’evangelista Marco. Gli attori

BASILIOLA

8D. Angeli, “Lo scenografo della ‘Nave’: Duilio Cambellotti”, Il Marzocco 12, n 52, 29

dicembre 1907, p. 2. Per le scenografie di Cambellotti per La nave: Nemi, “Tra libri e

riviste. «La Nave» di G. D’Annunzio”, Nuova Antologia, ser. 5, n 133 (1908), pp. 162-167;

per le musiche di Pizzetti: Valetta, “Rassegna musicale”, ibid., pp. 132-138.9

Cf. C. Sforza, L’Italia dal 1914 al 1944 quale io la vidi (Roma, 1944), pp. 104-105.

della Compagnia stabile del teatro erano diretti da Ferruccio Garava-

glia, con Basiliola interpretata da Evelina Paoli (alla Fenice invece

Basiliola sara Emilia Varini) (figg. 27-28), i cori erano diretti dal

maestro Ildebrando Pizzetti, scenografie e costumi erano di Duilio

Cambellotti, che con “pazienza di certosino” trasse ispirazione dal

“tesoro di Brescia [la lipsanoteca del Museo Civico di Brescia], dal

museo Laterano [forse la croce di Giustino II in San Pietro], dagli

avori del South Kensington [il Victoria and Albert Museum di

Londra] o del Louvre, dagli argenti milanesi di San Nazario [il

reliquiario in argento di San Nazaro a Milano], dalle rosse miniature

del codice di Rossano [l’Evangeliario purpureo di Rossano Calabro],

da tutti i documenti sincroni o di poco anteriori e posteriori”8.

Nella tragedia sono contrapposti personaggi di due differenti

moralita e razze: da una parte Marco e Sergio Gratico ed i loro

seguaci, che impersonano la romanita, virile e combattiva; dall’altra

parte sta Basiliola, “la bizantina”, la bellissima, seducente figlia del

corrotto Orso Faledro, deposto ed accecato. Il lavoro di D’Annunzio

fu visto come “un monito di poeta civile che guarda oltre le miserie,

le vergogne, le vilta, i bizantinismi dell’ora corrente”, “un grande

soffio di italianita” dai recensori, una lotta antesignana tra Italia e

Bisanzio. Carlo Sforza, il ministro degli esteri di Giolitti nel primo

dopoguerra, parlando de La nave giudico D’Annunzio un contraffat-

tore delle idee di Nietzsche e un precursore del fascismo, avendo

cominciato

“a volgarizzare per i giovani borghesi italiani il vangelo di una novellavita che non aveva di romano altro che una messa in scena di cartone(. ..). Nel 1908, una delle sue tragedie, La Nave, fu rappresentata aRoma; un verso ne era il Leitmotiv:Arma la prora e salpa verso il mondo.Il verso non significava nulla; o tutt’al piu un vago appetito di conqui-sta; ma, agli studenti e giovani impiegati sbadiglianti all’universita oall’ufficio, esso parve un programma di grandezza e di guerra; (...). Lacorruzione mentale fascista comincio allora.”

9.

L’opposizione morale tra i seguaci di Sergio e Marco Gratico e

PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

10Come si vede in una foto pubblicata su La Domenica del Corriere 10, n 3 (19-26

gennaio 1908), p. 8 e in Illustrazione popolare. Giornale per le famiglie 39, n 23 (7 giugno

1908), p. 356; qui a p. 357 altre due foto dei protagonisti della rappresentazione, una delle

quali con le sette danzatrici che accompagnano Basiliola. Altre foto e disegni dello

spettacolo in “Gabriele D’Annunzio e il varo della «Nave»”, Natura ed arte 1907-1908, pp.

329-335, e in L’illustrazione italiana 35 (1908), p. 419 (Emilia Varini come Basiliola).

quelli di Basiliola emerge gia dal prologo, al loro ritorno dalla

spedizione con la quale hanno ripreso le urne sacre dei tutelari ai

barbari; Marco si dichiara discendente dei Veneti, liberi perpetua-

mente perche nelle loro vene scorre il sangue di Roma:

“(...) la giovinezza vostra senza giogo,la Liberta perpetua dei Veneti!L’antichissimo sangue grida in voi?Romana era la forza d’AquileiaRomane l’arche ove seppelliremoi nostri morti; e son romane quellecolonne che porremo ai quattro cantidel nostro altare, sopravi il ciborio.”

All’opposizione sta la fazione grecanica, i Greci (i Bizantini):

“corrotti d’eresia nelle midolle!”, che nel nome di Giustiniano hanno

smunto e spolpato i Veneti con tasse, espropri e decime e che

volevano offrire i Veneti all’impero come sudditi. Sono i seguaci di

Basiliola – che nelle foto apparse sulla stampa dall’allestimento

all’Argentina portava un costume bizantino: lunghi orecchini a piu

pendenti e tunica senza maniche con una stola davanti decorata con

motivi a palmette (fig. 27)–10

, che la fazione gratica vorrebbe cacciare

via:

“Sia rimessa in marela Bisantina!

Al largo la Grecastra!”

Basiliola, come calunniano i Gratici, sarebbe stata portata dal

fratello maggiore Giovanni a Salona da Narsete, pio e casto eunuco

comandante dei Greci, “da esporre a mal uso”, da prostituire “a

tutta l’oste”, per aiutare le sue trame; Basiliola finira

“sopra le carra delle meretriciche cigolano dietro l’accozzagliadei Bulgari degli Unni e degli Alani.”.

BASILIOLA

Dopo la sua apparizione, Basiliola reca all’altare una ampolla

votiva con una (improbabile) immagine di

“San Marco orante tra i cammelli, pienadell’olio che arde sopra il suo sepolcronella piaggia d’Egitto.”.

D’Annunzio fa confusione tra l’iconografia di Marco e quella di

Menas, che e di solito raffigurato appunto come un orante a braccia

aperte tra due cammelli in ampolle e avori copti, dei quali uno al

Museo del Castello Sforzesco, che puo essere stato visto da D’An-

nunzio: Menas e un santo venerato in Egitto come Marco, le cui

spoglie erano ad Alessandria. Poi Basiliola, resa folle dall’acceca-

mento col quale sono stati puniti il padre e i quattro fratelli, “all’uso

di Bisanzio”, e una volta che Sergio Gratico e stato proclamato

nuovo vescovo e Marco Gratico nuovo tribuno, promette distruzione

per la fazione gratica. Basiliola si prepara a una danza sacra di

vittoria, si profuma e chiede una spada, una fiaccola, il velo serpen-

tino e una stoffa di porpora su cui danzare, ma cadra poi a terra

senza farlo; lei bellissima e desiderata da tutto il popolo, promette di

offrirsi come dono a Marco, il vincitore, quanto basta al popolo per

apostrofare Basiliola come nuova Teodora:

“Danza! Danza!La Grecastra

appreso ha l’arte dell’Imperatrice!Danza, danza, o Faledra!

Nei quadriviidi Bisanzio, nel circo!E bella! E bella!

Basiliola!

Basiliola diventa concubina di Marco Gratico; “bellissima belva”,

appare ai suoi precedenti oppositori, ora prigionieri in una fossa fuia

e melmosa, vestita alla bizantina come la Teodora di San Vitale:

“Col passo tacito e lieve della lonza, ecco, la Faledra si mostra inprossimita dell’ara. Porta una tunica molle che scende fino ai piedicalzati di porpora, verde come le alghe divelte; su cui larga fimbrial’arte del ricamatore greco opero la trasfigurazione delle piante e deglianimali come in un sogno visibile. Traspariscono le bianche braccia atraverso le maniche fatte d’un tessuto reticolare che svaria come ilcollo dell’anatra selvatica. La grande capellatura (...) le scende piu giu

PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

11Questo ed i precedenti brani riportati dal Prologo de La nave sono, nell’ordine, alle pp.

64, 37, 51, 68, 84, 102, 137-138 di G. D’Annunzio, La nave (Milano, 1908).

della cintola ricca, piu giu dei lombi potenti, insino al poplite, costrettada una lista purpurea intorno alla fronte imperiale.”.

Basiliola uccide di sua mano i prigioneri a tiri di freccia. A questo

punto entra in scena il monaco Traba, vestito come un eremita del

deserto, con l’aria ascetica di un santo bizantino:

“Egli porta intorno ai lombi un cilicio fatto di setole di cavalloannodate; del rimanente e ignudo (...). Calvo come Eliseo, vellosocome Elia, cinto di corda il cranio come un battelliere siriaco, ossuto enocchiuto (...).”.

Di fronte a Marco Gratico, Traba accusa Basiliola di idolatria

pagana e di essere l’amante non solo di Marco, ma anche di suo

fratello, il vescovo Sergio Gratico. Basiliola riesce a vincere anche

questa volta, incantando Marco per mezzo della sua bellezza e

rendendolo obbediente al suo volere.

Il secondo episodio ha per scenario la basilica in costruzione, che

e un pastiche di elementi tratti da chiese ravennati: sul frontone e un

mosaico con il Cristo imberbe di San Vitale tra due spezzoni delle

teorie delle vergini e dei martiri di Sant’Apollinare Nuovo, mentre

dei capitelli bizantini stanno sopra le colonne dell’atrio:

“Appare costrutto di marmi raccogliticci l’atrio quadrilatero dellaBasilica, (...); [sulla facciata] biancheggia e brilla d’opera musaica inalto, sopra gli embrici del nartece, il duplice ordine dei Martiri e delleVergini che procedenti dalle due mistiche Citta fra gli alberi di palmealzano con le mani velate il simbolo del premio eterno verso ilRedentore imberbe coronato del nimbo crucifero in mezzo a una nubeovale.(...) La porta maggiore della Basilica e spalancata: e si discopre pellargo vano tutta la nave centrale fino all’abside: la cattedra del Ve-scovo, il tabernacolo dell’altare, la scola dei cantori chiusa dai plutei dimarmo, l’ambone dell’Epistola e quello dell’Evangelio. Sospese per lecatenelle alla pergola e agli architravi tra colonna e colonna splendonole lampade numerose in forma di corone, di delfini, di navicelle,recanti il monogramma del Cristo, la croce equilatera, il vaso eucari-stico, l’effige di San Pietro a poppa col timone e di San Paolo a prorain vigilia.”

11.

Emula di Salome al banchetto di Erode, Basiliola danza accom-

BASILIOLA

12Vedi sopra alla nota 9.

13O. Wilde, Salome. Poema drammatico, unica versione italiana consentita dall’Autore di

G. G. Rocco (Napoli, 1906). Sulla figura di Salome e la sua fortuna figurativa tra Ottocento

e Novecento: E. Bairati, Salome. Immagini di un mito (Nuoro, 1998), pp. 151-194.

pagnata dalle ancelle, coperte solo da veli trasparenti, davanti al

vescovo Sergio Gratico quasi ebbro, mentre gli altri commensali

intingono le dita nelle vivande e bevono dai calici colmi. Con due

grappoli di perle che le discendono fino ai lati della bocca, di fronte

all’ara dei Naumachi Basiliola seduce con i suoi movimenti il popolo

che la implora di denudarsi. E a questo punto che appare sulla porta

della basilica la processione con alla testa il presbitero Teodoro che

porta una croce “equilatera” (greca), “fasciata d’auree lamine e

costellata di pietre incise” (incastonata di gemme ad imitazione di

una croce altomedievale, come le croci di Agilulfo e Berengario nel

Tesoro del Duomo di Monza o come la croce di Giustino II nel

Tesoro di San Pietro a Roma); altri chierici portano “monogrammi

compresi nel nimbo”, “le immagini di Maria dipinte su le tavole con

l’arte arcana di San Luca” (cioe la Odegetria, la Vergine col Bam-

bino che si credeva dipinta dall’evangelista Luca), “le immagini

metalliche degli Apostoli”, “le teche delle reliquie, le fiale degli olii

santi, gli evangeliarii, i dittici”. In una foto d’epoca pubblicata sulla

Domenica del Corriere dopo la prima sono radunati insieme la grande

croce greca, un codice con la coperta dorata, quattro cassette a urna

con figure sbalzate di tipo limosino, uno smalto con un Cristo

frontale, un secondo smalto con una figura, forse un evangelista, una

corona, una croce latina, una spada, un calice di pietra dura con base

metalllica, un’icona con la Madonna col Bambino, un’icona con un

santo orante, un alto candelabro12

.

Scoppiano ora la violenta discussione e poi la rissa durante la

quale i due gruppi di oppositori si accapigliano sui dogmi della fede,

i Tre Capitoli di Giustiniano, la natura degli angeli, la Resurrezione,

il sinodo di Calcedonia, la deposizione di papa Vigilio. Basiliola,

ripetutamente chiamata “la meretrice”, appare sempre piu come una

creatura demoniaca, un po’ Teodora, un po’ Salome di Oscar Wilde

– Salome era stata pubblicata in francese nel 1893 e tradotta in

italiano nel 190613

– o quella dei quadri di Gustave Moreau (1876) –

cosı amati da Des Esseintes nel quinto capitolo di A rebours di

Huysmans (1884) –, un po’ Cleopatra; oppure come la grande

meretrice dell’Apocalisse, vestita di porpora e di scarlatto e adorna di

gioielli d’oro, pietre preziose e perle, con la quale i re della terra

PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

14Cambellotti (1876-1960), Roma, Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contempora-

nea, 24 settembre 1999 – 23 gennaio 2000, catalogo della mostra (Roma, 1999), p. 224.15

Illustrazione popolare. Giornale per le famiglie 45, n 2 (12 gennaio 1908), p. 26. Nel

successivo fascicolo 3 del 19 gennaio e pubblicata una recensione della prima de La nave

(p. 38); e nel fascicolo 5 del 2 febbraio e un grande disegno del varo della nave

dall’allestimento del dramma con lungo commento. Per gli abiti bizantini versioni ricche

come quello di Basiliola sono disegnati da Alphonse Mucha per la Bernhardt o per

pubblicita come nel manifesto per Moet et Chandon del 1899: Alphonse Mucha 1860-1939,

Darmstadt, Mathildehohe, 8 giugno – 3 agosto 1980, catalogo della mostra (Munchen,

1980), n 109 p. 158; vedi anche sotto alla nota 21.

hanno fornicato e con il vino delle cui prostituzioni i popoli si sono

inebriati.

Irrompe, infine, Marco Gratico, il tribuno, coi suoi soldati, che

rifiuta gli inviti di Basiliola e si batte a duello col fratello Sergio.

Marco uccide Sergio; il virile tribuno italiano trionfa sul fratello

corrotto dall’Oriente. Arrivano i soldati bizantini di Narsete guidati

da Giovanni Faledro, fratello di Basiliola, ma sono respinti dai

Veneti. Basiliola viene legata all’altare della Vittoria, al quale era

solita portare sacrifici; terrorizzata, e condannata all’accecamento,

nonostante le sue accorate suppliche; riesce pero a darsi la morte

gettandosi nel fuoco. La storia si conclude con la partenza di Marco

ed i suoi che salpano per Alessandria con la Totus Mundus per

prendere le spoglie dell’evangelista Marco.

b. Teodora alla esposizione di Venezia

Il costume della Basiliola di D’Annunzio, con la stola davanti, era il

cosiddetto costume bizantino della moda dell’epoca. Cambellotti, lo

scenografo de La nave, realizzo costumi bizantini, maschili e femmi-

nili, ispirati a mosaici anche per i personaggi del film Giuliano

l’Apostata (1919), figurazione storica in quattro visioni di Ugo Falena

dal poema sinfonico per archi soli e cori di Luigi Mancinelli14

. Nella

copertina del fascicolo del 12 gennaio 1908 della Illustrazione popolare

con la recensione de La nave, D’Annunzio e ritratto nel suo studio

tra cuscini e mobili moreschi, alla vigilia della prima (fig. 29); la

copertina del fascicolo successivo e occupata da una grande imma-

gine del “varo della Totus mondus, la gran nave dei primi Vene-

ziani” (fig. 30); ancora nel fascicolo di gennaio, stole ‘bizantine’ di

nastro azzurro ricamate d’oro accompagnano vestiti gialli di crespo

con pizzi d’argento, grande eleganze del tempo (fig. 31)15

. Modelli

BASILIOLA

16La notizia su Adelina Patti e presa da R. Levi Pisetzky, Storia del costume in Italia, vol. 2

(Milano, 1964), p. 329.17

Per la ripresa del 1938 vedi gli articoli apparsi su Il Tevere del 6-7 e del 15-16 dicembre

1938, quest’ultimo a firma di A. Righetti, “Il successo della «Nave» di Montemezzi e

D’Annunzio al reale dell’Opera” (p. 3).18

Il testo del commento di “Grecia e Italia” diceva invece:

“III. Grecia e Italia. Il grave etrusco assiso stringe fra le mani un’urna cineraria; ma Eros

con stola ‘bizantina’ appaiono gia nella moda italiana del periodo

umbertino. La famosa cantante lirica Adelina Patti indosso nel 1891

un abito da ballo, creato apposta per lei dalla sarta parigina Maria

Blossier, di raso bianco, ricamato a disegni di stella, con sei raggi in

perle vere e di cristallo, con alte bordure e stola bizantina16

.

La nave fu musicata da Italo Montemezzi sulla riduzione di Tito

Ricordi; l’opera fu data in prima a Milano alla Scala nel 1918 e fu

ripresa nel 1938 per inaugurare la stagione lirica al teatro Reale di

Roma, con la regia di Carlo Piccinato, Gina Cigna nella parte di

Basiliola, il tenore Paolo Civil in quella di Marco Gratico, il baritono

Mario Basiola in quella di Sergio Gratico, scene di Ettore Polidori su

bozzetti di Cipriano Efisio Oppo17

. Nel 1909, l’anno successivo della

apparizione teatrale del testo di D’Annunzio, La nave e Teodora

servirono di ispirazione per i dipinti realizzati da Galileo Chini nella

Sala della Cupola per la VIII Esposizione d’Arte di Venezia del 1908

(figg. 32-33). Chini dipinse le otto vele della cupola con una fascia a

tappeto decorativo, sopra la quale erano otto episodi delle civilta

dell’arte. Alcuni endecasillabi di Antonio Fradeletto, segretario gene-

rale della Biennale dettano il programma degli episodi delle varie

civilta. Dopo “Le origini” (“La Bellezza, portata dalle Muse e gui-

data da Amore, va verso l’uomo”), “Le arti primitive” (Egitto,

Babilonia, Assiria), “Grecia e Italia” (cioe Etruschi e Roma, con un

etrusco con un’urna, un Eros, simboli dell’Arte, la Forza e La

Grazia, la Lupa di Roma, un uomo che regge il mondo), la quarta

vela era occupata dall’“Arte bizantina”. Il programma diceva:

“IV. Arte bizantina. Paganesimo e cristianesimo, opulenza orientale emisticismo s’accostano e talora si confondono: questo dicono le raffi-gurazioni del quarto campo. Un sarcofago istoriato di immagini pa-gane ha il coperchio santificato dalla croce. Nel musaico di Sant’Apol-linare di Ravenna si svolge con ritmo divino la teoria delle Verginipurissime; dal musaico di San Vitale ci muove incontro Teodora,imperatrice e teologhessa. Intanto i rudi lavoratori latini dell’estuarioveneto s’accingono alla conquista del mare. La leggenda esprimel’antitesi:«Sogno a Ravenna e da Venezia salpo»”

18.

PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

giovinetto gli porge fiori e fiori porge alla Grecia, simboleggiata da un fregio prefidiaco.

Passano trionfalmente i simulacri della Vittoria di Samotracia, della Vittoria virile, della

Vittoria femminile, a raffigurare l’Arte, la Forza, la Grazia. Cresce gagliarda la lupa di

Roma; e un lembo di architettura latina, un uomo che regge la sfera del mondo annunciano

la potenza dell’Urbe. L’Arte e serena come la natura e come l’anima: «Lieta rifulgo al greco

italo sole».”19

Su questi dipinti vedi: VIII Esposizione Internazionale d’Arte della citta di Venezia 1909,

catalogo illustrato (Venezia, 1909), con la descrizione delle scene e gli endecasillabi; L.

Bortolatto, “Sulla cupola «ridonata alla luce» come Galileo Chini «la dono a Venezia» nel

1909”, in XLII Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia. Arte e scienza,

catalogo generale 1986 ([Venezia] 1986), pp. 21-30; F. Benzi, “Galileo Chini affreschista e

decoratore”, in Galileo Chini. Dipinti Decorazioni Ceramiche opere 1895-1952, catalogo della

mostra, Montecatini Terme, 5 agosto – 31 ottobre 1988, a cura di F. Benzi e G. Cefariello

Grosso (Milano, 1988), pp. 72-73. Grandi riproduzioni degli spicchi della cupola e della

vela di Bisanzio per intero sono in F. Fenzi, “La cupola di Galileo Chini alla biennale di

Venezia del 1909”, in Galileo Chini e l’Oriente. Venezia Bangkok Salsomaggiore, catalogo della

Il verso finale parafrasa il motto de La nave: “Arma la prora e

salpa verso il mondo”. Seguivano “Medioevo e Rinascimento”, “Mi-

chelangelo”, “L’Impero del barocco”, “La civilta nuova”. Durante il

fascismo i dipinti di Chini nella cupola non suscitarono piu alcun

entusiasmo: per l’allestimento della Biennale del 1928 la cupola

venne ricoperta con una controcupola di Gio Ponti ed e stata

riportata alla luce solo nel 1986.

Bisanzio ricevette da Chini un’importanza pari a quella delle

civilta della antichita o del Medioevo e Rinascimento insieme. La

vela di Bisanzio contiene la raffigurazione di due delle vergini di

Sant’Apollinare Nuovo di Ravenna; poi, al centro davanti a un

sarcofago ravennate con due palme e due pavoni sulla fronte, sta

Teodora ritratta nella posa e nel costume del mosaico di San Vitale,

ma ringiovanita cosı da diventare una florida ragazza bruna, dai

lineamenti mediterranei e regolari; sulla destra, bambini e ragazze,

nudi e in pose maliziose, spingono una nave in mare. La spiegazione

della vela della civilta di Bisanzio fa riferimento a l’esotico, il cri-

stiano ed il pagano (“Paganesimo e cristianesimo, opulenza orientale

e misticismo s’accostano e talora si confondono”); Teodora e impe-

ratrice e teologa. Alcuni temi sono presi da La nave: Bisanzio

simboleggiata da una donna (Basiliola-Teodora), i mosaici di Ra-

venna come scenografia, “i nudi lavoratori latini dell’estuario veneto”

che sono in procinto di salpare con una nave (Chini ha dipinto in

realta delle ragazze nude a destra di Teodora); il sarcofago dietro a

Teodora, che avrebbe dovuto avere nel programma simboli pagani e

non cristiani, ricorda l’ara alla quale viene legata Basiliola nell’epi-

logo drammatico de La nave19

.

BASILIOLA

mostra, Salsomaggiore, Terme Berzini, 20 maggio – 20 giugno 1995, a cura di M. Bonatti

Bacchini, introduzione di R. Bossaglia (Parma, 1995), pp. 41-61.20

A. Soffici, “L’esposizione di Venezia”, La Voce 1 (1909), p. 195.21

Riproduzioni in Alphonse Mucha 1860-1939, pp. 123-125 per le “Byzantinische Kopfe”

e passim per le immagini della Bernhardt.

La critica conservatrice espresse un giudizio favorevole sulle vele

di Chini: Ugo Ojetti vi vide un “vigore di stile tanto italiano”, la cui

freschezza gli ricordava le realizzazioni dei secoli d’oro dell’arte

italiana. La critica d’avanguardia lo boccio: Ardengo Soffici definı i

dipinti “un’arte che puo utilmente alluminar vasi e piatti, illustrar

libri e riviste (...); ma che, per l’amor di Dio non sconfini – checche

possan cantare i critici pappagalli e i cortigiani del talento”; “An-

diamo, cari signori! Lasciamo da parte tutta questa fraseologia [dei

programmi] da callisti indannunziati, e dateci un po’ di buona

pittura (...)”; e sulla Teodora:

“(...) senonche io vedo, qui, nella cupola, cattivo disegno, membrabistorte, falsita di attitudini, comunalita infinita d’invenzione, malapittura e morte. Pigliamo, per esempio, questa Teodora impalata nellasua vestaglia, attonita, geometrica: vi par ch’essa rifletta, come parevolesse l’autore, la solennita e l’incanto della divinissima arte di Bisan-zio, di quell’arte che ha prodotto proprio qui a Venezia, dei capolavorieterni, impregnati di realita e di spiritualita – di poesia entusiasmantecome la faccia del sole? O non somiglia piuttosto, questa Teodora, enelle pieghe dure, manierate dell’abito, e nella impersonalita dellafaccia, e nel gesto inespressivo, e nel colore, e nel disegno, uno deitanti cartelloni di Mataloni, di Mucha o, tutt’al piu, di Grasset,raccomandanti una compagnia di assicurazioni, un nuovo modello dilampada elettrica, un’acqua minerale o – prosa definitiva – un energicopurgante? Potrei anche sbagliare, ma a me questa basilissa e tutta lapittura che ricopre gli otto spicchi della cupola ha fatto l’impressionedi roba da cartellone e di copertina di calendario (...).”

20.

Soffici ha ragione: nel dipinto di Chini non c’e che qualche

aspetto esteriore di Bisanzio, come le figure simboliche della impera-

trice e delle vergini di Ravenna o lo splendore delle decorazioni

soprattutto dei tappeti a mosaico della fascia della vela sotto le

figure, che Chini puo aver ripreso, piuttosto che direttamente da

Bisanzio, da Klimt, da manifesti pubblicitari, da locandine per gli

spettacoli della Bernhardt, o dalle “Teste bizantine” di Alphonse

Mucha del 189721

. L’arte bizantina esiste solo come arte ravennate

del VI secolo, che viene citata con le due vergini e Teodora, espres-

PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

22Sulla prima versione cinematografica: A. Bernardini e V. Martinelli, “Il cinema muto

italiano. 1912. Seconda parte. I film degli anni d’oro”, Rivista del Centro Sperimentale di

Cinematografia “Bianco e nero”, numero speciale (Roma, 1955), pp. 8-13; sulla seconda

versione di Gabriellino D’Annunzio: Martinelli, “Il cinema italiano muto”, pp. 215-218.

sione delle convenzionalita dell’immaginario comune; Teodora e una

figura carnale, opposta alla immaterialita della Teodora di San Vi-

tale. Curiosamente, pero, la presentazione di Bisanzio di Chini

inverte figurativamente il giudizio morale dato ne La nave di D’An-

nunzio: la bizantina Basiliola, femmina corrotta e orientale, e sosti-

tuita da una Teodora etnicamente italianizzata, mentre i virili mari-

nai di sangue romano che fanno salpare la nave in D’Annunzio, sono

trasformati in seducenti ragazze corruttrici. Anche qui, come in

D’Annunzio, Bisanzio e simboleggiata per il pubblico italiano da una

immagine femminile, l’imperatrice Teodora; il suo compagno di

impero, Giustiniano, figura per eccellenza della storia bizantina, e

invece ignorato. Un’ultima nota riguarda le lodi di Soffici per l’arte

bizantina (“capolavori eterni, “arte divinissima”, “poesia entusia-

smante come la faccia del sole”): da ricordare per confronto alle

offese che Soffici e altri getteranno su Bisanzio nel periodo tra le due

guerre mondiali.

c. Teodora la divina

La nave fu tradotta in pellicola una prima volta nel 1912 da Eduardo

Bencivenga e una seconda volta nel 1921 da Gabriellino D’Annunzio

con la solita immagine dell’Oriente luogo di depravazione e di

passioni (fig. 34)22

. Teodora, meta odalisca, meta donna di potere,

dai lunghi capelli rossi (come la Bernhardt), danzatrice seducente,

sanguinaria e crudele da far frustare altre donne, rivali o schiave, per

sua volonta – come nelle dispense di Fiorentino uscite con D’Ann-

nunzio direttore della Cronaca bizantina o ne La nave –, divenne il

modello, insieme a Salome, di altre donne immorali del cinema

storico degli inizi del Novecento. Nel 1911, il film Le tentazioni di

Sant’Antonio, con la regia di Frusta, ispirato a La tentation de Saint

Antoine di Flaubert, mise in scena la storia del ricco Antonio e di

Yarba, una bella prostituta dai capelli rossi raccolta da Antonio in un

postribolo, la quale fa frustare ingiustamente la sua schiava etiope,

tradisce Antonio e infine, dopo che lui si e fatto anacoreta, si

converte e muore. In Marcantonio e Cleopatra (1913), con la regia di

BASILIOLA

23Le schede di questi film si leggono, nell’ordine del testo, in A. Bernardini e V.

Martinelli, Il cinema muto italiano. I film degli anni d’oro. 1911, 2 (Torino, 1996), pp.

201-202 (Le tentazioni di Sant’Antonio); A. Bernardini, e V. Martinelli, Il cinema muto

italiano. I film degli anni d’oro. 1913 (Torino, 1994), pp. 41-46 (Marcantonio e Cleopatra), pp.

286-288 (Tersicore); V. Martinelli, Il cinema muto italiano. I film degli anni d’oro. 1914

(Torino, 1993), pp. 102-103 (Christus; la frase e dalla recensione di Olleja, apparsa su La

Cine-Fono, Napoli, 16-29 gennaio 1915, e riportata nel libro di Martinelli a pp. 102-103).

Enrico Guazzoni, Cleopatra, perfida e crudele, esegue una danza del

ventre e fa frustare e poi uccidere la schiava Agar, della quale si era

innamorato Marco Antonio. In Tersicore (Oriente e Occidente) (1913),

con la regia di Giuseppe Gray, la danzatrice Tersicore, accompa-

gnata da altre odalische, esegue la danza “Oriente e Occidente” alla

festa di fidanzamento di Susanna e Gerard, che poi giunge quasi a

cedere alla seduzione della stessa Tersicore. Un Christus (o La sfinge

dello Ionio), con la regia di Giuseppe De Liguoro, tratto da Leggenda

siracusana dell’anno 1000 di Victor de Lussac, che ha per trama

l’amore tra Christus e la regina Xenia (“corrotta e furba, feroce e

autoritaria”), secondo la critica ebbe il merito di mostrare al pub-

blico l’epoca bizantina, bella, ma trascurata cinematograficamente,

dopo tanti film su Roma (“Giuseppe De Liguoro a avuto il merito

d’aver saputo comprendere, una buona volta, che i gusti del pubblico

non esigono i piu o meno tenebrosi drammoni storici dell’epoca

romana, a base di Cesari, Neroni, Attilii Regoli, Agrippine, ecc.”); i

costumi erano “confezionati su stampe e modelli dell’epoca bizanti-

na”23

.

Teodora fu mitizzata, un’ultima volta, come ideale dannunziano

di donna e di bellezza in un panegirico su Bisanzio scritto da Angelo

Pernice nella rivista Studi bizantini del 1924: avventuriera passata dal

lupanare alla reggia, conosciuta da tutti attraverso “il meraviglioso

mosaico di San Vitale”, dove “e rappresentata in tutto lo splendore

della sua maesta imperiale”, Teodora possiede gli elementi della

bellezza divina secondo i canoni dannunziani del Trionfo della morte:

“C’erano in lei i tre elementi di bellezza che D’Annunzio nel «Trionfodella morte» chiama divini: la fronte, gli occhi, la bocca. La fronteliscia e superba; gli occhi, sotto l’arco perfetto delle sopraciglia, grandineri pieni di luce e di profondita; pieni di sogno e di passione, chenessuno poteva fissare senza turbamento; una bocca piccola dallelabbra rosee e armoniose di un disegno perfetto.”

Piu che alla Teodora di San Vitale, la descrizione rimanda alla

PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

24A. Pernice, “Imperatrici bizantine”, Studi bizantini, ser. 2, 5 (1924), pp. 3-22; i brani

riportati sono a p. 12. Pernice scrisse piu tardi (1937) la voce “Teodora” nel vol. 33 del

1937 dell’Enciclopedia italiana, pp. 508-509, dove ripropose Teodora come figura positiva e

pia, che affascina Giustiniano con la sua bellezza ed intelligenza: “Sul trono T. si mostro

una donna veramente superiore. Essa parve nata per regnare, tanta fu la dignita che mise

nei suoi atti e l’attivita che spiego negli affari politici.” Giustiniano ne esalto la fedelta.

Dopo la sua morte l’attivita di Giustiniano avrebbe subito un arresto a conferma della

“parte grandissima che T. ebbe nel governo del grande imperatore”. Nella stessa Enciclope-

dia Italiana, alla sezione “Storia dell’impero bizantino” della voce “Bizantina, Civilta”, nel

vol. 9 (1930), p. 122, Pernice definı Teodora “donna di grande animo e di acuta

intelligenza”.25

Per i giudizi sull’arte bizantina di Bendinelli, Galassi, Toesca vedi al Capitolo 7,

paragrafo c. D. Amato, Teodora imperatrice di Bisanzio (Roma, 1927). Un capitolo su

Teodora si trova in G. Manacorda, Medaglioni. Con un autoritratto (Milano, 1941), pp.

7-12. Un film intitolato Teodora, Imperatrice di Bisanzio, con Teodora ritratta come donna

saggia, caritatevole, populista e democratica, e con scene davanti ai mosaici di San Vitale, e

stata realizzata nel 1953 come coproduzione italo-francese con la regia di Riccardo Freda.

florida Teodora di Galileo Chini. Per il resto, l’articolo ripete luoghi

comuni sulla civilta bizantina, dove si leggevano e commentavano i

classici mentre in Occidente trionfava la barbarie; le donne bizantine

avrebbero goduto di liberta e ruolo sociale, a confronto degli harem

arabi e dell’eta moderna; una situazione migliore della presente

quando per la scelta della consorte dell’imperatore

“si facevano dei veri concorsi di bellezza che avevano un piu serio eutile risultato (...) di quelli che di tanto in tanto indicono le nostregazzette di provincia in cerca di reclame e di abbonati.”

Si indicava anche il numero di scarpe che doveva avere la nuova

imperatrice24

.

Infine, una vita di Teodora tratta da Procopio, sullo stile del libro

di Fiorentino, ma castigata dei particolari spinti, e pubblicata nel

1927 in un piccolo volume tascabile, a carattere popolare, da Dome-

nico Amato. Qui, Teodora e donna di rara bellezza, orgogliosa e

crudele, “maestra di prostituzione”, che sa governare Bisanzio “con

sagacia, con intelligenza e con fermezza piu che virile”. La storia

dell’imperatrice, che doveva essere soggetto di facile vendibilita,

apparve anche in una collana di monografie accanto a volumi sulle

piu strampalate curiosita: Bagni e toeletta presso i Romani, Le cortigiane

nella Roma antica, La morte e il suo mistero, Calzolai e calzature

nell’antica Roma, L’amore omosessuale, Le vite anteriori, L’Atlantide, Il

culto fallico nell’antichita, Filosofia delle psicopatie sessuali25

.

BASILIOLA

26G. Nicco, “Ravenna e i principi compositivi dell’arte bizantina”, L’arte 28 (1915), p.

263.27

P. Toesca, Storia dell’arte italiana, vol. 1, Il Medioevo, Parte 1, Dalle origini cristiane alla

fine del secolo VIII, Parte 2, Dalla fine del secolo VIII al secolo XI, Parte 3, Dal principio del

secolo XI alla fine del XIII (Torino, 1927), p. 198.

d. Psicologia di Teodora

Una storica dell’arte, Giusta Nicco, nel 1925, non vide, invece, nella

solennita ieratica di Teodora a San Vitale “nessuna di quelle caratte-

ristiche che la storia maldicente ripete sul suo conto”, ne segni di

bellezza particolari; Giustiniano riguadagna prestigio e superiorita

sulla moglie:

“Il musaico di Teodora e poco compositivo, s’abbandona al capriccioe all’improvvisazione nel gioco dei colori, fervido di fantasia. Fermezzacompositiva e nell’altra parete. E le qualita ritrattistiche [sottolineateda altri bizantinisti, ad esempio Oskar Wulff] non sono altro che lavivezza del colore; il colore fa brillare l’occhio e ne rende squillante lanota, ma senza che l’occhio per questo acquisti sguardo umano e riveliun’anima.”

26.

Per altri storici dell’arte che scrivono negli anni Dieci e Venti del

Novecento, come Toesca, Galassi o Bendinelli non esiste una Teo-

dora come figura bizantina della cui moralita discutere, ma un’opera

d’arte bizantina su cui discutere. Di Teodora, Toesca sottolineo le

sfumature psicologiche che fu capace di esprimere con la sua arte

l’autore del mosaico:

“La figlia di un guardiano d’orsi del circo imperiale, che giovinettadanzava nel teatro di Bisanzio, si mostra nobile, altera: e viva imma-gine del fasto della corte bizantina.”

27.

Sulla ricerca psicologica nel mosaico di Teodora, giudicato ben

superiore come qualita a quello di Giustiniano, Toesca ritorno nella

introduzione a una raccolta di tavole a colori dei mosaici di San

Vitale pubblicata nel 1952 (fig. 35) (in essa sono ripetuti sintetica-

mente i giudizi sui mosaici ravennati de Il Medioevo); il brano che

segue, tratto dalla introduzione, e una bella lettura della poetica di

quei mosaici:

“Eccezionali sono le qualita psicologiche dell’artista: nella rappresenta-zione che avrebbe potuto ridurre a una cerimonia di corte parallela al

PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

28P. Toesca, S. Vitale di Ravenna. I mosaici (Milano, 1952), pp. 19-20.

mosaico di Giustiniano, egli ha introdotto, facendoli campeggiare sututto lo splendore mondano che li circonda, ritratti di squisita, mor-bosa sensibilita.Teodora e figura indimenticabile. Pur se nulla si sapesse di lei, il suoaspetto delicato, quasi esausto, sotto il pesante diadema, e l’atto decisodella sottile persona nel grave paludamento, potrebbero accendereappassionatamente tutte le fantasie. La sua storia non si puo tuttaaccettare quale fu narrata in un famoso libello dallo scrittore coevoProcopio da Cesarea (...).Nel mosaico, che precedette di poco la sua morte, i suoi lineamentirivelano una sensibilita acuta e insieme il freddo dominio della volontanello sguardo chiaro eppur instabile. Ne meno penetrante e il ritrattodella sua vicina [che e forse da identificare con Antonina], di piu eta, ilcui atteggiamento, non cosı riservato come nelle altre seguaci, neaccenna l’autorita presso l’imperatrice (...). Ingenuo, ma personale, ilcarattere della seconda giovane patrizia, che si vorrebbe identificare inuna figlia della supposta Antonina (...)

28.’’.

1T. Gautier, Italia (Paris, 1852), p. 97. La definizione di San Marco come Santa Sofia in

miniatura e in Constantinople (Paris, 18562), p. 269.

3

VIAGGIATORI OTTOCENTESCHI

Costantinopoli, Venezia e Ravenna furono mete bizantine di viaggia-

tori e studiosi nel periodo romantico. Di Venezia sono note le lodi di

Ruskin e di Gautier; quest’ultimo vide in San Marco “una Santa

Sofia in miniatura”, un tempio incoerente, dove il pagano ritrove-

rebbe l’altare di Nettuno con i suoi delfini, tridenti e cocchi marini, il

maomettano potrebbe credersi nella sua moschea vedendo le scritte

nelle volte come sure del Corano, il greco-ortodosso vi incontrerebbe

la sua Panagia incornata come una imperatrice di Costantinopoli, il

suo Cristo barbaro con il monogramma a intrecci, i santi del calen-

dario disegnati alla maniera dei monaci-pittori del Santo Monte

dell’Athos:

“(...) temple incoherent, ou le paıen retrouverait l’autel de Neptuneavec ses dauphines, ses tridents, ses couques marines servant debenitier, ou le mahometan pourrait se croire dans le mihrab de samosquee en voyant les legendes circuler aux parois des voutes, commedes Suras du Coran, ou le chretien grec rencontrerait sa Panagiacouronnee comme une imperatrice de Constantinople, son Christbarbare au monogramme entrelace, les saints speciaux de son calen-drier dessines a la maniere de Panselinos et des moines-peintres de lamontaigne saint (...).”

1.

Diehl definı Ravenna una Pompei italo-bizantina, piu greca an-

cora che italiana, una citta dove, meglio che in Oriente e a Costanti-

nopoli stessa, si puo studiare l’arte bizantina del V e VI secolo; e

dove si puo vedere meglio che a Roma l’influsso dell’arte orientale

PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

2C. Diehl, Ravenne. Etudes d’Archeologie byzantine (Paris, 1886), pp. 1-2.

3E. De Amicis, Costantinopoli, 2 voll. (Milano, 1877-1878; edizione illustrata da Cesare

Biseo, Milano, 1912), pp. 3-4.4

A. Baratta, Costantinopoli nel 1831 ossia notizie esatte e recentissime intorno a questa capitale

ed agli usi e costumi de’ suoi abitanti (Genova, 1831; La citazione riportata nel testo e tratta

dalle pagine vi-viii); id., Costantinopoli effigiata e descritta con una notizia su le celebri sette

Chiese dell’Asia Minore ed altri siti osservabili del Levante (Torino, 1840).

sull’Italia2. Quanto a Costantinopoli, fin dagli inizi dell’Ottocento, da

quando l’impero turco venne alla ribalta della scena politica, la citta

fu meta esotica alla moda, dove i viaggiatori europei calarono alla

ricerca di avventure e segreti, senza spesso sapere niente della citta e

neppure conoscere qualcosa delle lingue parlate dalla sua popola-

zione. Altre volte, la rapacita degli archeologi spoglio e degrado i

monumenti bizantini. Tuttavia, Santa Sofia e la piu bella e la piu

maestosa fra le tante chiese cristiane viste da Gautier. La citta appare

bellissima a chi vi arriva dopo il lungo viaggio per mare, “sterminata,

superba, sublime”, “il piu bel luogo di tutta la terra, a giudizio di

tutta la terra”, come la definı De Amicis; “umme-dunia”, la madre

del mondo per arabi e Turchi; di fronte a lei

“il Perthusier balbetta, il Tournefort dice che la lingua umana eimpotente, il Pouqueville crede d’essere rapito in un altro mondo, il LaCroix e innebriato, il visconte di Marcellus rimane estatico, il Lamar-tine ringrazia Iddio, il Gautier dubita della realta di quello che vede(...). Il solo Chateaubriand descrive la sua entrata in Costantinopolicon un’apparenza di tranquillita d’animo che reca stupore; ma nontralascia di dire che e il piu bello spettacolo dell’universo (...)”

3.

Ma anche una citta seduta su immani rovine, come fosse una

odalisca sopra un sepolcro che aspetta la sua ora.

a. Costantinopoli ottomana

Angelo Baratta, avvocato e “impiegato” del Consolato Generale del

Regno di Sardegna a Costantinopoli, in un libro del 1831 di piccolo

formato, con notizie, “esatte e recentissime” sulla citta di Costanti-

nopoli (Costantinopoli nel 1831 ossia notizie esatte e recentissime intorno a

questa capitale ed agli usi e costumi de’ suoi abitanti), dette un ritratto

dei visitatori della capitale ottomana, ignoranti e numerosi4:

“mille penne hanno scritto sulla Capitale dell’Impero Ottomano. Unanuvola di viaggiatori-scrittori attraversa giornalmente Costantinopoli.

VIAGGIATORI OTTOCENTESCHI

Ma oltrecche queste erudite cavallette non posseggono le cognizionispeciali necessarie per ben vedere, quali sarebbero almeno le linguelocali, esse non hanno ne il tempo, ne la pazienza per vedere conesattezza. (...). Pure ognuno di essi non manca mai, tosto giunto inpaese dove sia un torchio, di stampare un’opera in quattro o cinquevolumi sopra Costantinopoli (...). Novelli Vampiri, sono penetratinelle Moschee, in Santa Sofia, entro alle Sette Torri, ne’ pozzi delTesoro, e persino nei boudoirs delle Sultane del Serraglio Imperiale(...).”.

Nel 1840, l’opera di Baratta fu ristampata come volume di

grande formato con un nuovo titolo (Costantinopoli effigiata e descritta

con una notizia su le celebri sette Chiese dell’Asia Minore ed altri siti

osservabili del Levante) e “adorna di cento eleganti intagli in acciaio”

(figg. 36-39). Precursore dell’edizione del 1840 e dichiarata la Co-

stantinopoli antica e moderna di Fischer, da poco apparsa a Londra e

poi a Parigi, la cui parte scritta, “incompleta e negletta”, non var-

rebbe pero la pena di una traduzione italiana; altri libri usciti su

Costantinopoli sono poi brevi e superficiali e non considerano i

cambiamenti e le riforme introdotte nell’impero negli ultimi ven-

t’anni. Si decide cosı di utilizzare solo le incisioni dal volume del

Fischer.

L’interesse librario del pubblico europeo per Costantinopoli e

spiegato dalle “attuali vertenze politiche le quali attraggono verso

l’Oriente l’animo d’ogni colta persona”; se una volta la Turchia

offriva soltanto “il consueto spettacolo del suo limpido cielo, delle

sue ridenti campagne delle sue peregrine e magnifiche pompe”, ora

l’Oriente, “fatto teatro delle piu straordinarie vicende che abbiano,

da secoli, fissato gli sguardi degli uomimi, e prediletto argomento di

tutti i discorsi, scopo a cui tendono tutti gli occhi tutti i pensieri”. Il

sultanato ottomano era all’inizio dell’Ottocento al centro della poli-

tica internazionale e la capitale Costantinopoli era senz’altro meta di

viaggiatori attratti piuttosto dal suo fascino esotico, che dalle anti-

chita bizantine. Il libro di Baratta ha, cosı, non l’antica metropoli

bizantina come oggetto, ma la contemporanea capitale ottomana.

Quasi trecentocinquanta delle ottocento pagine del volume sono

dedicate alle vite degli imperatori ottomani, con ampia biografia del

sultano regnante, Mahomud, e con appendice sul Giannizzerato, i

cui “fasti (...) sono tanta parte delle cose turchesche”, e sulla sua

distruzione, evento quasi contemporaneo al libro del Baratta. Segue

il prospetto cronologico dei “principi che tennero il seggio di Costan-

tinopoli da Costantino il Grande sino alla caduta della citta in mano

PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

5Baratta, Costantinopoli, p. 391; il testo prosegue cosı:

“E se qualcuno volesse negarlo, noi lo proveremmo facilmente e colle sacrileghe rapine

dell’Elgin e coll’esempio dell’Oriente universo, divenuto omai vuota ed insipida landa, dopo

i crudeli spigolamenti fattivi da cento scientifiche arpie, sue degne seguaci. – Ma la

controversia e, grazie al Cielo, fuori affatto dal nostro assunto, e noi siam lieti di poterne

lasciare ad altri il franco e ragionato recidimento. Solo noteremo che il doloroso tema in

discorso fu svolto con nobile coraggio ed irresistibile potenza di argomenti dallo Slade nel

suo bellissimo viaggio in Levante: opera che teniamo in sommo pregio ed amore e che

inchiude quadri pieni di verita ed evidenza intorno alle cose ed alle persone, primeggianti,

attualmente, in quelle contrade.”6

L’anno successivo Baratta pubblico un volume gemello intitolato Bellezze del Bosforo.

Panorama del maraviglioso Canale di Costantinopoli dello Stretto dei Dardanelli e del Mar di

Marmara. Opera destinata a far seguito alla Costantinopoli effigiata e descritta, e nella quale, con

l’aiuto di ottanta finissimi intagli eseguiti dal vero dai migliori artisti dell’Inghilterra, offresi

l’impareggiabile quadro di luoghi unanimemente acclamati siccome capo-lavoro della natura, ...

(Torino, 1841). Le incisioni sono su disegni di W. H. Bartlett. Tra le incisioni ne

compaiono alcune di monumenti di Costantinopoli, anche bizantini, come lo Tchenberle o

colonna bruciata (tra p. 316 e p. 317); corrispondentemente, compaiono descrizioni di

monumenti bizantini, come Santa Sofia (pp. 464-467). Alcune delle incisioni pubblicate dal

Baratta furono ristampate nel 1928, senza indicarne la fonte, da G. A. Borgese, Autunno di

Costantinopoli. Pagine d’Atlante con 16 vecchie stampe (Milano, 1928).

de’ Turchi”. La parte seconda e la descrizione della capitale e dei

dintorni con i monumenti antichi bizantini, ignorati dai Turchi e

depredati dagli Europei:

“Nasce qui, del resto, fra gli scrittori una seria e delicata quistione:quella, cioe, di definire se alla conservazione degli antichi monumentipiu rescisse funesta la magnificata barbarie turca, o la svenevoletenerezza europea. Poiche gli e un fatto doloroso bensı, ma incontra-stabile che su cento monumenti distrutti o riformati, novantanove,almeno, dovettero il loro sfacelo alla dotta rapacita degli scienziatinostrani, i quali, purche arricchiscano i propri o gli altrui musei conqualche capo recato dall’Asia o dall’Africa, poco badano ad ogni piurispettabile avanzo.”

5.

I monumenti bizantini sono descritti sommariamente in quaranta

pagine: mura, porti, le sette torri, colonne, cisterne, acquedotti,

tombe, il convento di Studius, l’ippodromo, l’obelisco di Teodosio,

la piramide murata, Santa Sofia, la Piccola Santa Sofia, Sant’Irene, il

palazzo detto di Costantino, il palazzo detto di Belisario. La descri-

zione dei monumenti turchi occupa invece il triplo di spazio, appros-

simativamente centoventi pagine: questo e l’interesse maggiore del-

l’autore e quello supposto del suo pubblico. Le descrizioni di

monumenti, cristiani e turchi, sono corredate da notizie conosciute

personalmente dal Baratta o ricavate da fonti antiche6.

Parallelamente, la maggior parte delle incisioni raffigurano Co-

VIAGGIATORI OTTOCENTESCHI

7De Amicis, Costantinopoli, citazioni nel testo dalle pagine 27, 31, 36-37, 57-58,

245-246, 258, nell’ordine.

stantinopoli turca; anche quando il tema e un monumento bizantino,

come la antica cisterna di Yere’-Batan-Serai, l’obelisco di Teodosio

sull’ippodromo, o Santa Sofia, si tratta di vedute panoramiche con i

monumenti in lontananza; l’interesse, piuttosto che archeologico (i

rilievi dell’obelisco di Teodosio, ad esempio, sono appena tratteg-

giati) e etnografico, verso i costumi e le attivita dei Turchi che

stanno lı intorno. Santa Sofia fa la parte del leone tra i monumenti

cristiani: appare nello sfondo in piu vedute dal Bosforo, ma c’e anche

una veduta dell’interno con i musulmani in preghiera. Baratta pre-

mette che sono tante le notizie e descrizioni del tempio che ripeterle

sarebbe noioso per il lettore. Santa Sofia, comunque, “esteticamente

considerata, non e capo che voglia darsi a modello”, anche se

andrebbe giudicata una volta rimossi i cento piccoli edifici che i

sultani hanno addossato all’originario. La smisurata cavita della

rotonda centrale e la tanta celebre cupola stupiscono il viaggiatore,

“con immenso e pittorico effetto”; quali fossero le preziosita interne

di Santa Sofia lo possiamo solo leggere nelle cronache antiche (qui

Baratta elenca le varieta dei marmi usati per le colonne) ed e

testimoniato dalla storia di Maometto II che, meravigliato della

bellezza e ricchezza dell’edificio, uccide il soldato che si accaniva a

rompere il lastricato di marmo della chiesa. Di questa ricchezza di

marmi e colonne molto e stato rimosso e le tessere dei mosaici alle

pareti sono state asportate come reliquie dai Cristiani con la compia-

cenza dei Turchi.

b. La Costantinopoli – Babilonia di De Amicis

Una quarantina di anni dopo il libro di Baratta, Costantinopoli

divenne popolare in Italia grazie a Edmondo De Amicis7. I resoconti

di viaggio di De Amicis uscivano a puntate in anteprima sulla rivista

Illustrazione Italiana dei Fratelli Treves di Milano ed erano poi

pubblicati dallo stesso editore come volumi a se. I primi di questi

volumi ad uscire furono su Spagna, Olanda (entrambi nel 1873) e

Londra (1875); Marocco, annunciato come strenna natalizia nel

1876, uscı in una edizione con incisioni di Stefano Ussi e Cesare

Biseo nel 1877. Su Turchia e Bulgaria, che erano teatro della guerra

PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

russo-turca del 1877-1878, apparvero resoconti di cruenti massacri

quasi su ogni numero della rivista di quegli anni, spesso accompa-

gnati da incisioni. Nel 1877 sulla rivista fu pubblicato in anteprima

un brano del libro Costantinopoli, il cui primo volume appare nello

stesso anno, mentre il secondo volume e del 1878. Costantinopoli fu

ristampato numerose volte, in piu lingue, senza illustrazioni; solo nel

1912 apparve una edizione italiana con incisioni di Biseo.

Il resoconto di De Amicis su Costantinopoli e colorito ed entu-

siastico. La maggior parte del libro e a carattere etnografico, con

descrizioni della vita e dei tipi che popolano la citta (il modello sono

i capitoli di Constantinople di Gautier, del 1853): il cimitero, il caffe,

il bazar, i cani, gli eunuchi, l’esercito, i teatri, la cucina, il bagno

turco, le moschee, le turche, i dervisci, i turchi. Etnie balcaniche e

asiatiche convivono a Costantinopoli (Turchi, Armeni, Greci, Ebrei,

Albanesi, Circassi, Siriani, Bulgari, Georgiani, oltre a missionari e

altre minoranze europee) e fanno della citta una Babilonia:

“La visione di stamattina e svanita. Quella Costantinopoli tutta luce etutta bellezza e una citta mostruosa, sparpagliata per un saliscendiinfinito di colline e di valli; e un labirinto di formicai umani, dicimiteri, di rovine, di solitudini; una confusione non mai veduta dicivilta e di barbarie, che presenta un’immagine di tutte le citta dellaterra e raccoglie in se tutti gli aspetti della vita umana.”“A chi ci domandasse improvvisamente che cos’e Costantinopoli, nonsi saprebbe rispondere che mettendosi una mano sulla fronte perquetare la tempesta dei pensieri. Costantinopoli e una Babilonia, unmondo, un caos.”“Le figure che dan piu nell’occhio in quella folla, sono i Circassi chevanno per lo piu a tre, a cinque insieme, a passo lento; pezzi d’uominibarbuti, dalla faccia terribile, che portano un grosso berrettone di peloalla foggia dell’antica guardia napoleonica, un lungo caffetano nero, unpugnale alla cintura e un cartucciere d’argento sul petto; vere figure dibriganti, ognuno dei quali pare che sia venuto a Costantinopoli pervendere una figliuola o una sorella, e debba avere le mani intrise disangue russo. Poi i siriani col loro vestito in forma di dalmaticabizantina e il capo ravvolto in un fazzoletto rigato d’oro; i bulgari,vestiti d’un saio grossolano, con un berretto incoronato di pelliccia; igiorgiani con un caschetto di cuoio verniciato e la tunica stretta allavita da un cerchio metallico; i greci dell’arcipelago coperti da capo apiedi di ricami, di nappine e di bottoncini luccicanti.”.

Come per Baratta, i monumenti antichi non sono il primo inte-

resse di De Amicis, ne il suo libro e concepito come una guida alle

antichita; tra i monumenti prevalgono i luoghi musulmani e le

VIAGGIATORI OTTOCENTESCHI

bellezze naturali sui siti archeologici bizantini: in un elenco di mera-

viglie di Costantinopoli, che il visitatore e ansioso di vedere, De

Amicis fa figurare Santa Sofia, l’antico Serraglio, i palazzi del sul-

tano, il castello delle sette torri, Abdul-Aziz, il Bosforo. Le descri-

zioni di questi monumenti sono impressioni soggettive, con qualche

rievocazione da letture fatte, ma nessuna notizia storica. De Amicis

piange su quel che resta dei monumenti bizantini, su chiese, palazzi

di marmo, colossi equestri, terme, portici, cupole dorate scomparsi,

statue di bronzo fuse per fare cannoni, rivestimenti di rame degli

obelischi trasformati in monete, sarcofagi di imperatrici adibiti a

fontane, Sant’Irene ridotta ad arsenale, la cisterna di Costantino ad

officina, il piedestallo della colonna d’Arcadio a bottega di mani-

scalco, l’Ippodromo a mercato di cavalli:

“l’edera e le macerie coprono le fondamenta delle reggie, sul suolodegli anfiteatri cresce l’erba dei cimiteri, e poche iscrizioni calcinatedagli incendi o mutilate dalle scimitarre degl’invasori rammentano chesu quei colli vi fu la metropoli meravigliosa dell’impero d’Oriente. Suquesta immane rovina siede Stambul, come un’odalisca sopra unsepolcro, aspettando la sua ora.”.

Santa Sofia prende, naturalmente, l’interesse maggiore di De

Amicis e ad essa, un misto di barbaro e di classico (come San Marco

per Gautier), si riservano alcune pagine di descrizione stupefatta:

“Il primo effetto, veramente, e grande e nuovo.Si abbraccia con uno sguardo un vuoto enorme, un’architettura arditadi mezze cupole che paion sospese nell’aria, di pilastri smisurati, diarchi giganteschi, di colonne colossali, di gallerie, di tribune, di portici,su cui scende da mille grandi finestre un torrente di luce; un non soche di teatrale e di principesco, piu che di sacro; una ostentazione digrandezza e di forza, un’aria d’eleganza mondana, una confusione diclassico, di barbaro, di capriccioso, di presuntuoso, di magnifico; unagrande armonia, in cui, alle note tonanti e formidabili dei pilastri edegli archi ciclopici, che rammentano le cattedrali nordiche, si me-scono gentili e sommesse cantilene orientali, musiche clamorose deiconviti di Giustiniano e d’Eraclio, echi di canti pagani, voci fioched’un popolo effeminato e stanco, e grida lontane di Vandali, d’Avari edi Goti; una grande maesta sfregiata, una nudita sinistra, una paceprofonda; un’idea della basilica di San Pietro raccorciata e intonacata,e della basilica di San Marco ingigantita e deserta; un misto non maiveduto di tempio, di chiesa e di moschea, d’aspetti severi e d’orna-menti puerili, di cose antiche e di cose nuove, e di colori disparati, ed’accessori sconosciuti e bizzarri; uno spettacolo, insomma, che destaun sentimento di stupore insieme e di rammarico (...).”.

PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

8A. D. Furse, Umme-Dunia (Roma, 1884).

La chiesa e ora ridotta a un immenso sepolcro, nel quale bisogna

reimmaginare il fasto delle cerimonie e dei riti che vi si svolgevano:

“fra i canti dei poeti e i clamori degli araldi che gridavano evviva intutte le lingue dell’impero, veniva innanzi l’Imperatore, colla tiarasormontata da una croce, imperlato come un idolo, seduto sopra uncarro d’oro dalle tende di porpora, tirato da due mule bianche, ecircondato da un corteo di monarca persiano; e gli andava incontro ilclero pomposo nell’atrio della basilica; e tutta quella turba di corti-giani, di scudieri, di logoteti, di protospatari, di drongarii, di conesta-bili, di generali eunuchi, di governatori ladri, di magistrati venduti, dipatrizie spudorate, di senatori codardi, di schiavi, di buffoni, di casisti,di mercenari d’ogni paese, tutta quella canaglia fastosa, tutto quelputridume dorato irrompeva per ventisette porte nella navata illumi-nata da seimila candelabri (...).”.

c. Un racconto sugli ultimi giorni di Costantinopoli

A differenza di Constantinopoli di De Amicis, Umme-Dunia (madre

del mondo), del 1884, di Alberto D. Furse, ufficiale britannico,e un

romanzo storico, con note ben documentate, sui luoghi e la societa

di Costantinopoli (figg. 40-41). Il romanzo e ambientato nei giorni

precedenti la presa della citta da parte di Maometto II nel 1453 e

nella trama si intrecciano vicende di piu personaggi, greci e latini

venuti a difendere la capitale bizantina: l’epigrafe dopo il titolo del

libro (“Che il leggere le gloriose gesta degli antenati ispiri ai posteri

quegli alti sensi di virtu che servono a render grande la Patria!”) e

altre in testa ai capitoli (al Capitolo I i versi di Leopardi: “O patria

mia, vedo le mura e gli archi, / E le colonne e i simulacri e l’erme /

Torri degli avi nostri, / Ma la gloria non vedo, / Non vedo il lauro e il

ferro ond’eran carchi / I nostri padri antichi. Or fatta inerme / Nuda

la fronte e nudo il petto mostri”) si riferiscono ai Veneziani e

Genovesi che combattono eroicamente contro i Turchi8.

Ogni capitolo si svolge in una zona diversa della citta, spesso con

nuovi personaggi e in occasioni storiche, cosı da fornire motivo per

una descrizione accurata, attraverso le fonti, della societa e della

storia bizantina e dei monumenti di Costantinopoli. Il Capitolo I

racconta di uno stilita e un vignaiolo che guidano il popolo dalla

colonna di porfido di Costantino alla porta aurea crollata; il Capitolo

VIAGGIATORI OTTOCENTESCHI

9Valery, Voyages historiques et litteraires en Italie, vol. 3, p. 240. Cf. R. Chevallier, “Quatre

siecles de voyageurs et d’antiquaires francais a Ravenne (1500-1900)”, in XX Corso di

II, “Hebdomon”, racconta il ritorno della fallita ambasceria presso i

Turchi (con occasionale lamento in nota per il degrado dei mosaici

del palazzo imperiale che venivano asportati pezzo a pezzo al tempo

dell’autore) e contiene una lunga descrizione dei funzionari bizantini,

basata sul trattato dello pseudo-Codino; il Capitolo III, “La Peghe”,

racconta dell’arrivo di alcuni cavalieri latini e una leggiadra ragazza

per la porta aurea; poi i capitoli “Blacherne”, “Bucoleone”, “Ippo-

dromo”, con la gara tra la quadriga dei verdi e quella degli azzurri,

“Embolos”, “Il Foro di Teodosio”, “Santa Sofia”, con la descrizione

della chiesa all’ingresso stupefatto di Calliroe, mima del teatro di

Embolos (“muta, estatica, credevasi trasportata in Paradiso, ed am-

mirava con tutti i sensi di un’anima facilmente eccitabile le maravi-

glie accumulate da secoli nel gran santuario della Cristianita”), il 12

dicembre del 1452, al momento della cerimonia della messa in rito

latino per l’unione delle Chiese, con il popolo che insorge contro la

formula eretica del filioque; e, infine, la giornata del 24 maggio con

l’irruzione dei Turchi nella citta, il saccheggio, la divisione delle

spoglie, l’uccisione dei prigionieri e l’orgia finale. Varie incisioni

originali di Santa Sofia e di altri monumenti bizantini abbandonati

accompagnano il testo.

d. Taine su Ravenna, una voce dissonante

I viaggiatori francesi settecenteschi dettero un giudizio a volte pes-

simo dei monumenti di Ravenna: i mosaici di Galla Placidia e San

Vitale sono detestabili, del peggior gusto; San Vitale e una costru-

zione bizzarra, un insieme confuso e barbaro, anche se prezioso nei

dettagli; le sue colonne di marmo greco sono sprecate per una

costruzione cosı pesante e triste. Tuttavia, nell’Ottocento il giudizio

era mutato: i mosaici di San Vitale sono ora superbi, le figure

veramente vive. Negli anni 1820, Valery (gia citato al capitolo prece-

dente) scrive di San Vitale che e un “magnifique et hardi monument

de l’architecture des Goths, monument capital pour l’histoire de

l’art, offre le style bysantin dans toute sa purete, dans tout son eclat

oriental”; e che Ravenna e piu Costantinopoli di Costantinopoli

stessa, “dont la barbarie et le fanatisme ottoman ont du bien davan-

tage changer l’aspect”9. Fu stabilito definitivamente che i personaggi

PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

cultura sull’arte ravennate e bizantina, Ravenna, 11-24 marzo 1973 (Ravenna, 1973), pp.

195-216, ristampato in E. e R. Chevallier, Iter italicum. Les voyageurs francais a la decouverte

de l’Italie ancienne (Paris – Geneve, 1984), pp. 200-217.10

“Mosaiques de l’eglise de Sain-Vital de Ravenne”, Revue archeologique 7/1 (1850), pp.

351-353, con due incisioni di C. Saunier (tavv. 145-146); cf. J.-M. Spieser, “Hellenisme et

connaissance de l’art byzantin au XIXe siecle”, in ÎΛΛΕΝΙΣΜÃΣ. Quelques jalons pour

une histoire de l’identite grecque, Actes du Colloque de Strasbourg, 25-27 octobre 1989, a

cura di S. Saıd, (Leiden – New York, 1991), p. 350 e figg. 4-5.

imperiali rappresentati nei due pannelli musivi di San Vitale sono

Giustiniano e Teodora, contro altre interpretazioni che vedevano

nella imperatrice Sofia, moglie di Giustino II, e vennero pubblicate

incisioni a volte non molto fedeli dei due pannelli10

.

L’amore per Bisanzio e la sua arte non fu tuttavia universale.

Una voce dissonante su Ravenna in particolare, di un positivista, fu

quella di Hyppolite Taine (del quale e stato gia riportato il giudizio

su Teodora al capitolo precedente), in questo continuatore del giudi-

zio negativo dell’illuminismo sulla decadenza di Bisanzio. Piu volte

attaccato dalla critica italiana che si erge a difesa dei monumenti

ravennati, Taine pubblico le sue impressioni sfavorevoli all’arte bi-

zantina vista durante un viaggio in Italia del 1864 in Voyage en Italie

(1866). Per Taine l’arte bizantina e arte da malato, inferma e

paradossale, con figure accosciate, scimmie idrocefale; Bisanzio offre

lo spettacolo di un mondo che trascina per mille anni la civilta antica

sotto un cristianesimo guasto e tra importazioni orientali, un mo-

mento unico dell’anima e della cultura umana che non ha paralleli

nella storia: una degenerazione cosı lunga e complicata, una muffa di

mille anni in un vaso chiuso, acido di fermenti di spezie numerose e

contrastanti. Nelle figure degli uomini e delle donne un po’ tristi nei

mosaici di Sant’Apollinare Nuovo e una dignita quasi antica; ma a

questo si limitano le reminescenze degli artisti che hanno disimpa-

rato l’osservazione del modello vivo; i Padri lo hanno loro proibito;

copiano tipi accettati, ripetono venti volte di seguito lo stesso gesto e

lo stesso abito e spesso i tratti del viso sono barbarici, come le prove

di disegno di un bambino; i colli sono diritti, le mani di legno, le

pieghe dei drappeggi meccaniche; i personaggi sono degli abbozzi di

uomini piuttosto che uomini; non vi e uno dei personaggi che non

sia un idiota inebetito, appiattito, malato, che non abbia una cera

VIAGGIATORI OTTOCENTESCHI

11H. Taine, Voyage en Italie, (Paris, 1866). I giudizi riportati nel testo sono presi dalla

introduzione alla traduzione italiana del 1915: Viaggio in Italia (Il paese – l’arte – la nazione),

pagine scelte a cura di P. Arcari (Lanciano, 1915), p. 10; qui sotto e il giudizio su Ravenna

nel testo francese pubblicato alle pp. 210-212 della seconda edizione del 1874 (cf. pp.

59-61 della traduzione italiana del 1915):

“(...) les figures de les femmes, regulieres, un peu longues, calmes, quoique triste, ont

une dignite presque antique; les chevaux tombent en tresses et se relevent au sommet du

front comme dans la coiffure des nymphes; leur stole descend en long plis graves. Aussi

grave se developpe la file des grandes figures viriles, et pres du Christ et de la Vierge, des

anges prient en grands vetements blancs, le front ceint d’une bandelette blanche. Mais la

s’arretent les reminescences (...). Ils [les artistes] ont desappris l’observation du modele

vivant, les Peres la leur ont interdite; ils copient des types acceptes (...). D’artistes ils sont

devenus ouvriers (...) ils repetent vingt fois de suit le meme geste et le meme vetement (...).

Nulle physionomie; souvent les traits du visage sont aussi barbares que les dessins d’un

enfant qui s’essaye. Le col est roide, les mains sont en bois, les plis de la draperie sont

mecaniques. Les personnages sont des ebauches d’hommes plutot que des hommes (...) En

effet, il n’y a pas un de ces personnages qui ne soit un idiot hebete, aplati, malade.”.

Giudizi di Taine sui mosaici di San Marco sono alle pp. 274-279 della seconda edizione

francese. Vedi inoltre i giudizi simili sull’arte bizantina espressi in Philosophie de l’art (Paris,

1864), quinta edizione (1890), pp. 351-352. Una sintesi dei giudizi su San Vitale di

Ravenna si trova in S. Foschi e C. Franzoni, “Artisti, eruditi, viaggiatori: le interpretazioni

di San Vitale”, in La basilica di San Vitale a Ravenna, a cura di P. Angiolini Martinelli

(Modena, 1997), pp. 135-155.

smorta, una floscia rassegnazione, senza piu azione, volonta, pen-

siero, anima: per quanto lo siano non sanno stare in piedi11

.

1Sulla nascita degli studi bizantini in Francia vedi A. Rambaud, Etudes sur l’histoire

byzantine, prefazione di C. Diehl (Paris, 1912), pp. xiii-xxiii; C. Diehl, “Introduction a

l’histoire de Byzance” e “Les etudes byzantines en France au XIXe siecle”, in C. D., Etudes

byzantines (Paris, 1905), pp. 1-20 e 21-37 rispettivamente (il primo gia apparso in Byzanti-

nische Zeitschrift 9 [1900], pp. 20-37); P. Lemerle, “Presence de Byzance”, Journal des

Savants (1990), pp. 250-254.

4

PRIMI STUDI IN ITALIA

La nascita degli studi bizantini si fa risalire alla pubblicazione della

cosiddetta ‘Bizantina del Louvre’. Questa serie di studi dei testi dei

Padri, della storia dei dogmi e della storia della Chiesa, curata

soprattutto da eruditi gesuiti, domenicani e benedettini francesi,

ebbe l’incoraggiamento di Luigi XIV e di Colbert, come risposta agli

studi sull’Antico e Nuovo Testamento promossi dalla Riforma prote-

stante. Il primo volume della serie apparve nel 1648. Nel Settecento,

diversamente, alcuni degli studiosi piu acuti del secolo dei lumi

dettero un giudizio negativo senza appelli su Bisanzio: prima Monte-

squieu nelle Considerations sur les causes de la grandeur des Romaines et

de leur decadence, del 1734, poi Voltaire nell’Essai sur les mœurs, dove

della storia di Bisanzio si domando “Quelle histoire de brigands

obscurs est plus horrible et plus degoutante?”, ed infine Edward

Gibbon in The History of the Decline and Fall of the Roman Empire, del

1776.1. Il moderno interesse per Bisanzio nacque nell’Ottocento,

frutto della espansione coloniale europea in Oriente e della afferma-

zione del Romanticismo. Pionieri ne furono nuovamente studiosi e

artisti francesi; ad essi vennero dietro gli inglesi ed i tedeschi. In

Grecia le spinte nazionalistiche furono determinanti per la crescita

dell’interesse per Bisanzio nella seconda meta dell’Ottocento. In

Russia furono piuttosto l’antibonapartismo, il nazionalismo slavofilo

PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

2La storia delle origini della bizantinistica e ormai tracciata. Uno sguardo generale e in

D. T. Rice, The Appreciation of Byzantine Art (London, 1972), Capitolo II, “The Western

Attitude towards Byzantine Studies”, pp. 20-42; per l’atteggiamento prima ostile e poi

favorevole dei Greci verso Bisanzio nell’Ottocento vedi C. Mango, “Byzantinism and

Romantic Hellenism”, Journal of the Warburg and Courtauld Institutes 28 (1965), pp. 24-43.

Una buona panoramica e nell’introduzione di Armando Saitta alla versione italiana di C.

Diehl, Les grandes problemes de l’histoire byzantine (Paris, 19472): I grandi problemi della storia

bizantina (Bari, 1957), pp. 5-45. Al contrario, La storia della bizantinistica e ancora da

scrivere per Spieser, “Hellenisme et connaissance de l’art byzantin”, nota 9 p. 340.3

Istoriia vizantiiskago iskusstva i ikonografii po miniatiuram’ grecheskikh’ rukopisei (Odessa,

1876); traduzione francese, Histoire de l’art byzantin considere principalement dans les miniatu-

res, a cura di K. Travinskii e con una prefazione di A. Springer, 2 voll., (Paris – London,

1886 e 1891), pp. 49, 51-57. Su Kondakov vedi: W. E. Kleinbauer, “Nikodim Pavlovich

Kondakov: The First Byzantine Art Historian in Russia”, in Byzantine East, Latin West. Art

Historical Studies in Honor of Kurt Weitzmann, a cura di D. Mouriki et alii (Princeton, N.J.,

1995), pp. 637-643.

e l’espansionismo verso l’impero turco a fomentare la riscoperta

nazionalistica della storia nazionale della Russia come erede di Bi-

sanzio2. Il gusto romantico di Francesi ed Inglesi fece apprezzare

nella storia e nell’arte bizantina quanto vi e di non-classico, di

irrazionale e di gotico. Gautier e Ruskin assimilarono i monumenti

bizantini di Costantinopoli e Venezia all’arte barbarica. Al contrario,

la rivalutazione di Bisanzio in Grecia ed in Russia ricerco l’eredita

classica in quella civilta. La Storia dell’arte e dell’iconografia bizantina

di Nikodim Kondakov, il primo trattato moderno complessivo sul-

l’arte bizantina, pubblicato nel 1877 in russo e poi tradotto in

francese nel 1886-1891, rivendico ai bizantinisti russi una migliore

metodologia e comprensione dell’arte bizantina rispetto ai bizantini-

sti degli altri paesi (francesi e tedeschi, soprattutto), in quanto di essa

l’arte russa avrebbe conservato molti elementi; ma, insieme, Konda-

kov giudico come eta d’oro dell’arte bizantina i tre periodi in cui

prevalse il legame con l’arte antica: il periodo formativo fino a

Giustiniano, il periodo della dinastia macedone, il periodo della

dinastia paleologa3. Nello stesso tempo, dopo la fondazione della

Societa Archeologica Russa (1846), si procedette al restauro delle

antiche icone di Novgorod e delle altre scuole russe; nel 1904 fu

restaurata la “Trinita” di Rublev; nel 1913 si aprı l’esposizione di

arte antica russa a Mosca.

L’Italia partecipo marginalmente all’espansionismo coloniale e

alla rinascita di interessi eruditi verso Bisanzio. Il giudizio degli

studiosi italiani su Bisanzio nell’Ottocento e nei secoli precedenti

non fu univoco e ando quasi sempre parallelo al giudizio sui primitivi

e sul Medioevo. Da Giorgio Vasari, fazioso alfiere dei preconcetti

PRIMI STUDI IN ITALIA

4Cosı la miniatura a piena pagina con il profeta Geremia nel cod. plut. 5.9 della

Biblioteca Laurenziana riprodotta in A. M. Bandini, Catalogus Codicum Manuscriptorum

Bibliothecae Mediceae Laurentianae varia continens opera Graecorum Patrum (Firenze, 1764),

vol. 1, incisione dopo p. 82. G. P. Bellori, Veterum illustrium philosophorum poetarum rhetorum

et oratorum imagines ex vetustis nummis, gemmis, hermis, marmoribus, aliisque antiquis monu-

mentis desumptae (Roma, 1635; 2a edizione Roma 1739), incisioni a pp. 91-92.5

La fortuna critica dell’arte medievale prima di Giotto e stata esaurientemente studiata

da G. Previtali, La fortuna dei primitivi. Dal Vasari al Neo-classico (Torino, 1964); vedi in

particolare le pp. 88 sgg. sul ramo filo-bizantino della critica in Italia che va da Lami fino a

Lionello Venturi. Notizie dettagliate sulla valutazione dell’arte bizantina nel Sette e Otto-

cento in B. Pace, “Pensiero romantico ed arte bizantina”, in Universita degli Studi di Pisa,

Istituto di Archeologia e di Storia Antica, Studi classici e orientali, vol. 2 (Pisa, 1953), pp.

85-99.

italiani verso l’arte bizantina, a Filippo Baldinucci e Luigi Lanzi

esisteva una ostilita ereditaria contro i bizantini ed i barbari nella

storiografia artistica italiana. A questo filone si contrapposero Giulio

Mancini e, piu tardi, il muratoriano Giovanni Lami insieme ad un

gruppo di studiosi settecenteschi che espressero un giudizio favore-

vole sull’arte bizantina, superiore all’arte di Cimabue e di altri pittori

del Duecento. Sporadicamente, opere bizantine sono riprodotte ad

incisione come corredo di cataloghi di biblioteche (ad esempio il

catalogo del Bandini della Biblioteca Laurenziana), o come docu-

mentazione iconografica di soggetti antichi conosciuti attraverso co-

pie bizantine posteriori (i ritratti di farmacologi nel Dioscoride di

Vienna usati da Giovanni Pietro Bellori, nel 1685, nelle Veterum

illustrium philosophorum poetarum rhetorum et oratorum imagines)4. Non

interessano, tuttavia, ne la lunga storia artistica bizantina, ne l’esoti-

smo orientale o l’anticlassicismo di Bisanzio, ma la misura in cui

Cimabue, Giotto e contemporanei furono debitori dei maestri bizan-

tini del Duecento; a differenza di quanto avviene in Grecia e Russia,

il nazionalismo ottocentesco in Italia gioca contro l’apprezzamento

dell’arte bizantina: i versi del Carducci in testa alla Cronaca bizantina

(“Impronta Italia dimandava Roma: / Bisanzio essi le han dato”) e

quelli della prima strofa della stessa ode a Caldesi (“De’ subdoli e

de’ fiacchi oggi e l’istoria / E de i forti l’oblio”) riassumono perfetta-

mente la percezione comune ed il biasimo nei confronti di Bisanzio

in Italia. Le origini dell’arte cristiana, poi, sono poste nelle pitture

delle catacombe romane: il ruolo svolto dall’Oriente nelle origini

dell’arte cristiana, che fu riconosciuto dalla storiografia artistica

estera di fine Ottocento, e una scoperta ancora da venire, una spina,

appunto, con la quale gli studiosi italiani si confronteranno a lungo

nel Novecento5.

PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

6J.-B.-L.-G. Seroux d’Agincourt, Histoire de l’art par les monuments, depuis sa decadence au

IVe siecle jusqu’a son renouvellement au XVIe

siecle (Paris, 1823), traduzione italiana, Storia

dell’arte dimostrata coi monumenti dalla sua decadenza nel IV secolo fino al suo risorgimento nel

XVI, a cura di S. Ticozzi, 8 voll. (Prato, 1826); un elenco abbreviato delle incisioni

comprende, secondo l’ordine di citazione nel testo, le tavole: scultura tavv. iii (dittico

Barberini dato come raffigurante Costantino e del IV secolo) , x (obelisco di Teodosio), xi

(colonna di Teodosio), xii (pannelli d’avorio di cassetta con Adamo ed Eva; Ariadne),

xiii-xx (porta di San Paolo f.l.m.); pittura tavv. xvi (mosaici ravennati), xviii (il Logos che

estrae la costola ad Adamo nella prima cupola dell’atrio di San Marco a Venezia), xix

(Genesi di Vienna), xxvi (Dioscoride di Vienna), xxvii (Evangeliario di Rabbula), xxviii-xxx

(Rotulo di Giosue), xxxi-xxxiii (Menologio di Basilio II), xxxiv (Cosma Indicopleuste), xlvi

(Catena sui Profeti Maggiori, cod. Vat. gr. 755), xlvii (Salterio di Basilio II), xlviii (raccolta

ippocratica, Laur. plut. 74.7), l-li (Omelie di Giacomo Coccinobafo della Vaticana), lii

(Giovanni Climaco, cod. Vat. gr. 394), lviii (Panoplia dogmatica di Eutimio Zigabeno della

Vaticana), lix (Evangeliario, Urb. gr. 2 della Vaticana), lxii (Ottateuco, cod. Vat. gr. 746

della Vaticana), lxxxii-xciii, ic, cvi, cxi-cxiii (varie icone).

a. Seroux D’Agincourt e Garrucci

Poco prima della descrizione di Costantinopoli e del Bosforo nei libri

del Baratta, un buon numero di immagini di monumenti bizantini

erano stati riprodotti in incisioni nella edizione italiana del 1826

della Storia dell’arte di Seroux D’Agincourt (figg. 42-43). Le incisioni

includevano avori (tra i quali il dittico d’avorio Barberini del Louvre

e placchette da cassette), bassorilievi (tra i quali la colonna di

Teodosio e le quattro facce della base dell’obelisco di Teodosio a

Costantinopoli), alcuni mosaici di San Vitale e Sant’Apollinare

Nuovo a Ravenna, una considerevole selezione di miniature in ma-

noscritti bizantini, una ventina di icone, tavole duecentesche italiane,

ecc.6.

Questa scelta di Seroux D’Agincourt era senz’altro ricca come

immagini di miniature, ma aveva solo pochi esempi di mosaici ed

alcuni non ben riprodotti; le incisioni dei pannelli di Ravenna (quello

di Giustiniano e la corte, il Sacrificio di Abramo e l’offerta di

Melchisedek) erano piccole, imprecise e poco leggibili. Nonostante il

gran numero di monumenti bizantini, mancavano i mosaici siciliani,

c’erano solo pochi particolari da Venezia e niente da fuori d’Italia;

Costantinopoli figurava solo come scultura tardoantica ed era as-

sente la chiesa di Santa Sofia. La scelta dei monumenti riprodotti

dipende dal gusto neoclassico di Seroux d’Agincourt, che scrisse i

suoi volumi in pieno neoclassicismo, prima della rivoluzione fran-

cese, anche se poi essi uscirono nell’Ottocento; una traduzione

italiana fu pubblicata nel 1826, tre anni dopo l’edizione originale. Il

suo giudizio sull’arte bizantina e che si tratti di arte degenerata

PRIMI STUDI IN ITALIA

7Seroux d’Agincourt, Storia dell’arte, pp. 256-257.

8R. Garrucci, Storia della arte cristiana nei primi otto secoli della Chiesa, 6 voll. (Prato,

1872-1881). J. Labarte, Histoire des arts industriels au Moyen Age et a l’epoque de la

Renaissance, 4 voll. (Paris, 1864-1866).

rispetto a quella antica. Parlando di un manoscritto miniato della

Biblioteca vaticana, l’Ottateuco Vat. gr. 746, da lui datato al secolo

XIV (oggi lo si ritiene della meta circa del XII), D’Agincourt cosı

spiega l’impossibilita di una rinascita dell’arte bizantina tarda:

“Se dietro questi indizj, per deboli che essi siano, si puo credere cheverso il principio del decimoquinto secolo, il gusto era sul punto dirinascere presso i Greci, ben si comprende per altra parte, che questinuovi progressi non potevano estendersi al di la del momento fatale,che opero la distruzione dell’impero di Oriente colla presa di Costanti-nopoli.E dunque con quest’ultimo monumento che mi bisogna terminare lastoria di questa branca della Pittura, ed anche quella dell’arte in tuttele sue diramazioni considerata della Grecia. Abbandoniamo questodisgraziato paese ad esempio dei Greci occupati in arti, o di lettere,che si trovarono obbligati in questa dolorosa epoca della storia, acercare in Italia un rifugio. Ritorniamo a Roma, e riprendiamo lepitture dei manoscritti latini all’epoca in cui le abbiamo lasciate, vale adire nel duodecimo secolo. Noi vedremo come dopo aver continuato adecadere questa branca dell’Arte si miglioro nel decimoquarto secolo,e si perfeziono nel decimoquinto, nel tempo stesso della pittura ingrande; e noi acquisteremo egualmente la prova, che all’epoca delrinascimento, l’arte di eseguire grandi quadri ebbe qualche obbliga-zione alle pitture dei manoscritti, e che l’Italia in generale fu debitricedi una parte dei suoi successi agli artisti greci, che essa aveva accolti,non ostante la debolezza, e l’ignoranza di questi artisti degenerati.”

7.

Cinquant’anni piu tardi apparve la Storia dell’arte cristiana nei

primi otto secoli della Chiesa di Raffaele Garrucci, in sei volumi

pubblicati tra 1872 e 1881, l’altra enciclopedia ottocentesca di arte

medievale includente molte opere bizantine, insieme ai volumi sulla

Histoire des arts industriels au Moyen Age et a l’epoque de la Renaissance

di Jules Labarte del 1864-18668. A differenza di Seroux d’Agincourt,

Garrucci e un positivista: non esprime giudizi partendo da una idea

prefissata di bello – anche se e entusiasta di una opera classicheg-

giante quale il Rotulo di Giosue della Biblioteca Vaticana –; elenca

piuttosto i monumenti, ripartendoli tra i volumi secondo criteri

oggettivi di luogo o di materiale di esecuzione; fornisce descrizioni e

notizie, ma non commenti, di ogni singola opera (figg. 44-46).

PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

9Nell’ordine del testo: vol. 3, tavv. 112-123 (Genesi di Vienna), 124-125 (Genesi

Cotton), 157-167 (Rotulo di Giosue), 142-153 (Cosma Indicoleuste), 128-140 (Evangelia-

rio di Rabbula); volume 4, tavv. 226-228 (Battistero Ursiano), 229-233 (Galla Placidia),

241 (Battistero degli Ariani), 242-252 (Sant’Apollinare Nuovo), 258-264 (San Vitale),

265-267 (Sant’Apollinare Nuovo), 268 (Sinai), 276 (Parenzo).

Garrucci tende a presentare i cicli figurativi al completo, non fa

selezioni di immagini: nel terzo volume include le pitture cimiteriali,

nel quarto i mosaici cimiteriali e non cimiteriali. Dipendendo in

molto dalle scelte del materiale fatto conoscere da Seroux d’Agin-

court, Garrucci presenta tutte le miniature della Genesi di Vienna,

tutti i frammenti superstiti della Genesi Cotton di Londra e gli

acquerelli anteriori all’incendio da lui rintracciati a Parigi, tutti gli

spezzoni del Rotulo di Giosue, molte miniature del Cosma Indico-

pleuste vaticano e dell’Evangeliario di Rabbula. Tra i mosaici molti-

plica il numero di quelli italiani e ravennati in particolare: appaiono

buone riproduzioni del Battistero Ursiano, del Mausoleo di Galla

Placidia, del Battistero degli Ariani, di Sant’Apollinare Nuovo, di

San Vitale (sia Giustiniano, sia Teodora), di Sant’Apollinare in

Classe; ed inoltre alcuni mosaici fuori d’Italia, come il mosaico

absidale della chiesa del Monastero di Santa Caterina al Sinai e

quelli della Cattedrale di Parenzo9.

b. Cristi improsciuttiti e Madonne color cioccolata

Mentre il neoclassico Seroux D’Agincourt ed il positivista Garrucci

aprivano la strada alla scoperta di Bisanzio nella storiografia artistica

in Italia, trattati meno dotti accennavano all’arte bizantina con luo-

ghi comuni vasariani e con espressioni che oggi fanno sorridere. Nel

1839 Giovanni Rosini, nei suoi sette volumi sulla storia della pittura

italiana, che hanno vari riferimenti a Seroux D’Agincourt, fa appena

degli accenni a Bisanzio, inserendo una unica riproduzione a inci-

sione di una miniatura con Eusebio e Carpiano in un manoscritto a

Lucca, testimonianza della perfezione delle miniature bizantine. Gio-

vanni Battista Toschi, in un saggio in quattro puntate sulla “Fisiolo-

gia della pittura trecentistica” apparso nella Nuova Antologia del

1878, fa partire dai Cosmati, Cimabue e Duccio la rinascita dell’arte

italiana, accusando i pittori bizantini di copiarsi servilmente l’uno

con l’altro, facendo delle Madonne identiche, piuttosto che somi-

glianti fra di loro, brutte e a volte “bruttissime sotto ogni aspetto” e

PRIMI STUDI IN ITALIA

10G. Rosini, Storia della pittura italiana esposta coi monumenti, 7 voll. (Pisa, 1839-1848),

vol. 1, Epoca prima da Giunta a Masaccio (1839): le miniature di Eusebio e Carpiano

“adornano un Evangeliario del Secolo X, il quale dalla casa Bonvisi passo ad ornare la

Biblioteca Sovrana di Lucca” (p. 11); G. B. Toschi, “Fisiologia della pittura trecentista”,

Nuova Antologia, ser. 2, 9 (1878), pp. 453-476; 10 (1878), pp. 228-250, 617-637; 11

(1878), pp. 29-45, citazioni da p. 468 della prima puntata e p. 235 della seconda; il brano

di P. Tedeschi, Storia delle arti belle (architettura – pittura- scultura) raccontata ai giovinetti

(Milano, 1872), pp. 127-128, dice:

“Maestro: “(...) dall’epoca della caduta di Roma la pittura s’era andata sempre piu

corrompendo. E nota bene, peggiori dei barbari furono i Greci. Questi, dopo essere stati ai

tempi di Pericle i maestri del buon gusto, erano caduti sempre piu al basso; ne valse a

rialzarli la protezione di Costantino il grande. (...) Sorse quindi una questione della piu alta

importanza per la pittura. I vescovi greci sostenevano che Gesu Cristo, per insegnarci con

suo esempio il disprezzo del mondo, era stato il piu brutto degli uomini; i latini, invece, con

piu buon senso, affermavano tutto il contrario. I pittori greci, cosı ispirati dal clero

cominciarono quindi a dipingere certe brutte figure, certi Cristi improsciuttiti, che facevano

e fanno tuttora paura. Pigliando poi alla lettera le parole della Scrittura «Nigra sum sed

formosa» Sono nera, ma bella, presentavano alla venerazione dei fedeli madonne d’una tinta

olivastra o nera, come se Maria di Nazaret non fosse stata discendente del re di Giuda, ma

di qualche capo della razza tartara o etiopica. Cosı sorse la cosı detta scuola bizantina, con

la quale denominazione si comprendono tutti i quadri de’ pittori greci, o degli italiani loro

imitatori, che dipinsero santi e madonne nella detta maniera.”.

dalle “carni color cioccolatte”; in questo giudizio, Toschi, che do-

veva amare la pittura accademica ottocentesca, accomuna autentiche

tavole bizantine (“la prima tavola della galleria degli Uffizi e una

Madonna di Rico di Candia color di rame, ma in fondo mesta,

maestosa, non sgradevole”) con tavole di primitivi del Duecento

toscano, come la Maddalena della Galleria dell’Accademia (“La

prima tavola della Galleria delle Belle Arti pure in Firenze e una

Santa Maria Maddalena col viso macchiato di bianco, turchino e

rosso proprio in natura, ma considerandone solo i contorni non

sarebbe brutta; ha una cert’aria che non dispiace. Intorno a lei sono

dipinte varie storiette della sua vita, nelle quali le scorrezioni raggiun-

gono il massimo grado”) ed i Berlinghieri (“Nella stessa galleria

[dell’Accademia] si vedono figure orribili di un tal Berlinghieri”).

Infine, Paolo Tedeschi, in un dialogo sulle belle arti tra il maestro ed

il giovane Giovannino, del 1872 (fig. 47), descrive Costantinopoli

come una citta e una corte piena di servi, femmine e cortigiani, e

l’arte bizantina come un’arte alla base delle quali e la civilta romana,

ma corrotta dalla abbondanza degli ornati e della ricchezza, e nella

quale i pittori, per volonta dei preti, facevano Cristi brutti e “impro-

sciuttiti” che fanno paura e Madonne nere come fossero donne

tartare o etiopiche10

.

PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

11L. Chirtani, L’arte attraverso ai secoli (Milano, 1878), citazioni da pp. 202-203, 211.

c. Una fioritura effimera di studi

L’idea di Bisanzio come erede corrotta di Roma e un luogo comune

dei trattati d’arte italiani degli ultimi decenni del secolo. Nel 1878

Luigi Chirtani pubblica con la casa editrice Treves di Milano (la

stessa della Costantinopoli di De Amicis) L’arte attraverso i secoli, un

volume illustrato da alcune incisioni di monumenti bizantini, tra le

quali Santa Sofia, San Marco a Venezia ed i pannelli di Giustiniano e

Teodora a San Vitale (figg. 48-49). Per Costantinopoli Chirtani

riporta ampi passi dal libro di De Amicis e per l’arte bizantina in

generale riporta il giudizio di che Taine aveva dato per i mosaici di

Ravenna: Bisanzio fu una diga isolata contro i barbari, la quale, nel

mezzo della inondazione generale “divenne un centro di putrefazione

che si ando corrompendo per 1148 anni”, una deformita, un gon-

fiore, una pustola dell’umana natura. Bisanzio e “fantasma orientale

dell’impero romano”; in Santa Sofia alla semplicita greca e suben-

trata la profusione, l’ingombro disordinato; la magnificenza ha sosti-

tuito l’arte, il “fasto che abbarbaglia” ha sostituito il bello. Curiosa-

mente – ma, giustamente, vista l’impressione che ricava dalle opere

bizantine, che e la stessa dei viaggiatori romantici della prima meta

dell’Ottocento –, l’arte bizantina e orientale e “barbara”, aggettivi

che per Chirtani hanno valore negativo; gli Italiani, al contrario,

hanno la tendenza a restare nella tradizione classica: “Roma, corsa

dai barbari e impoverita, non potendo essere ricca, sembra si stu-

diasse di parer bella, colla parsimonia degli ornamenti e la semplicita

delle linee” e grazie alla “indole del genio italico portato alle cose

chiare evidenti, e che non potea rimanere offuscato dalla farraginosa

indole della decorazione bizantina”11

. Moralmente, Bisanzio e perfida

rispetto alla virtuosa Roma (Chirtani la accusa di aver deviato le orde

barbariche verso Roma per salvarsi).

Anche se la visione di Bisanzio che certamente prevalse tra i

classicisti e i conservatori filoromani e quella di una civilta in deca-

denza, dagli anni 1880 e fino al 1910 circa furono pubblicati in Italia

un buon numero di volumi con un approccio all’arte bizantina privi

di tali pregiudizi, aggiornati sui risultati della bizantinistica estera

contemporanea (Diehl, Kondakov, Krumbacher, Schlumberger); al-

tre volte, lavori di studiosi stranieri sono proposti in traduzione

italiana, come nel caso del secondo volume del manuale di storia

PRIMI STUDI IN ITALIA

12A. Springer, Manuale di storia dell’arte, vol. 2, Arte del Medio Evo, riveduto dal dr. G.

Neuwirth, 1a edizione italiana a cura di C. Ricci (Bergamo, 1906); 2aedizione, di nuovo

tradotta ed ampliata sulla 8a edizione tedesca a cura del dr. A. Munoz (Bergamo, 1911). La

definizione di Ricci e da M. Pittaluga, “Arte e studi in Italia nel ’900. Gli storici dell’arte”,

La Nuova Italia 1 (1930), p. 413.13

La basilica di San Marco in Venezia illustrata nella storia e nell’arte da scrittori veneziani, a

cura di C. Boito (Venezia, 1888) contenente P. Saccardo, “Mosaici e loro iscrizioni”, pp.

299-388. G. T. Rivoira, Le origini dell’architettura lombarda e delle sue principali derivazioni nei

paesi d’oltr’alpe, 2 voll. (Roma, 1901 e 1907). A. Colasanti, L’arte bizantina in Italia,

prefazione di C. Ricci (Milano, 1912). Su Corrado Ricci si e da poco tenuto un convegno:

Corrado Ricci storico dell’arte tra esperienza e progetto, Convegno di studi, Ravenna 27-28

settembre 2001.

dell’arte di Springer, curato nelle due edizioni italiane (1906 e 1911)

da due esperti di Bisanzio, rispettivamente Corrado Ricci (“certo il

piu popolare degli scrittori d’arte italiana”), e Antonio Munoz, ma

con notizie a volte clamorosamente errate (per Springer nella cupola

di Santa Sofia si sarebbe ancora trovato raffigurato Cristo tra apostoli

e santi)12

. Da studiosi italiani appaiono la descrizione dei mosaici di

San Marco nella Basilica di San Marco in Venezia di Camillo Boito

(1888), aggiornatissima sulle origini iconografiche dei mosaici delle

cupole dell’atrio da un manoscritto della Genesi proposte dal finlan-

dese Johan Jakob Tikkanen, le pagine sulla architettura bizantina nel

primo volume delle Origini dell’architettura lombarda di Giovanni

Teresio Rivoira (1901) e le cento tavole fotografiche di grande

formato de L’arte bizantina in Italia di Arduino Colasanti (1912) con

poche pagine introduttive e una prefazione di Ricci (fig. 50)13

. Que-

st’ultimo aveva pubblicato nel 1902 una monografia su Ravenna dal

carattere di guida turistica, che fu piu volte ristampata e che contiene

in nuce la differenza, divenuta poi luogo comune, tra interesse per la

forma, proprio della tradizione artistica occidentale romana, per la

quale Ricci parteggia, e interesse per la decorazione, proprio del

gusto orientale bizantino. Esempio di questa “evidentissima” diffe-

renza, “sfuggita per tanto tempo agli storici ed ai critici dell’arte”, tra

valori antagonisti occidentali e orientali sono i mosaici della navata di

Sant’Apollinare Nuovo, che risalgono in parte (i profeti) al periodo

della dominazione gotica di Teodorico, che chiamo ad operare arte-

fici romani, e in parte al successivo periodo della dominazione

orientale bizantina:

“La differenza, ad esempio, che passa tra i musaici eseguiti in Ravennasotto i dominii occidentale e gotico, e quelli eseguiti dopo il ristabili-mento del dominio orientale e la istituzione dell’Esarcato, e palese a

PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

14Ricci, Ravenna, citazioni dalle pp. 18-20.

chi li consideri nelle forme, nel sentimento nella tecnica, nella stessasostanza materiale (...). Lascieremo per ora in disparte l’esame deglialtri monumenti ravennati nei quali le forme tradizionali romaneprevalgono su tutto, come nel Mausoleo di Galla Placidia, nel Batti-stero della Cattedrale, ecc., per rimanerci al semplice confronto deidue stili, quali si mostrano in Sant’Apollinare Nuovo. La parte, percosı dire, romana sfugge a ogni ornamento e sembra derivare dallastatuaria. Le figure de’ profeti, di prospetto ravvolti nel manto, collibro o col rotolo in mano, sembrano vere e proprie riproduzioni distatue (... ). Ben piantate sopra un piano prospettico, che ritrae labase, variano l’atteggiamento delle mani e il giro del manto con gestiche si hanno tutti nelle statue antiche. Le loro teste sono ben mossesui forti colli. Le pieghe, stupendamente ombreggiate, a varie grada-zioni di toni, rivelano le forme, che ravvolgono con esattezza.”.

Diverso invece lo stile orientale delle teorie di martiri e vergini:

“Ben altri metodi e ideali d’arte dimostrano le due file (...) delleVergini e dei Martiri. Ogni amore per la forma sembra attutito dinanzialla preoccupazione dell’effetto decorativo. Le figure si succedonosenza varieta, come se fossero levate dallo stesso stampo. (...) Le mani[dei martiri] sono tutte uguali; i piedi grevi, pesanti, talora deformi. Leteste, mal costrutte, sono coperte di capelli che sembrano sottilicalotte. Le carni non hanno varieta cromatica (...).Diverso effetto fanno certo le opposte Vergini, ma non perche le formesiano migliori. Sorprendono, abbagliano per lo splendore delle stoffeaurate e fiorate, dei diademi, dei monili, dei cinti, tutti fregiati d’oro edi gemme. (...)Ma e bellezza quasi unicamente decorativa, non di forma. Si direbbeche, come gli artisti italici sentivano per le loro figure l’influenza dellasevera scoltura classica, i bizantini sentissero invece quella delle sma-glianti stoffe orientali.”.

Lo stile romano e, in conclusione, piu bello, quello bizantino e

piu fastoso e decorativo:

“Conviene pero riconoscere che se, come disegno e, a cosı dire, nellasostanza, il musaico di tradizione romana e piu solido e bello, quellobizantino, con l’esaltazione d’un lusso sfrenato, e piu fastoso e quindipiu decorativo.”

14.

Alcuni dei contributi piu all’avanguardia furono pubblicati nel-

l’Archivio storico dell’arte di Domenico Gnoli (poi divenuto L’arte),

PRIMI STUDI IN ITALIA

15J. J. Tikkanen, “Le rappresentazioni della Genesi in S. Marco a Venezia e loro

relazione con la Bibbia Cottoniana”, Archivio storico dell’arte 1 (1888), pp. 212-23, 257-67,

348-63; cf. id., Die Genesismosaiken von S. Marco in Venedig und ihr Verhaltnis zu den

Miniaturen der Cottonbibel nebst einer Untersuchung uber den Ursprung der mittelalterlichen

Genesisdarstellung besonders in der byzantinischen und italienischen Kunst (Helsingfors, 1889).

H. Graeven, “Il Rotulo di Giosue”, L’Arte 1 (1898), pp. 221-230; id., “Adamo ed Eva nei

cofanetti d’avorio bizantini”, L’Arte 2 (1899), pp. 297-315; cf. “Antike Vorlagen byzantini-

scher Elfenbeinreliefs”, Jahrbuch der koniglichen preussischen Kunstsammlungen 18 (1897), pp.

3-23. Sull’Archivio storico dell’arte e L’arte vedi G. Agosti, La nascita della storia dell’arte in

Italia. Adolfo Venturi: dal museo all’universita 1880 – 1940 (Venezia, 1996), pp. 75-79 e

140-143. Notizie sui primi studiosi di arte italiani degli inizi del secolo si trovano in

Pittaluga, “Arte e studi in Italia nel ‘900”, e in L. Venturi, “Gli studi di storia dell’arte

medievale e moderna”, in Cinquant’anni di vita intellettuale italiana 1896-1946. Scritti in onore

di Benedetto Croce per il suo ottantesimo anniversario, a cura di C. Antoni e R. Mattioli

(Napoli, 1950), 2, pp. 175-189. Quanto agli studi sull’arte in Italia visti dall’estero, Diehl

nel 1905 (“Les etudes byzantines en 1905”, in C. D., Etudes byzantines. Introduction a

l’histoire de Byzance. Les etudes d’histoire byzantine en 1905. La civilisation byzantine. L’empire

grec sous les Paleologues. Les mosaıques de Nicee, Saint-Luc, Kahrie-Djami, etc. [Paris, 1905],

pp. 38-106) menziona solo Venturi e Rivoira. Una sintesi degli studi stranieri e italiani di

inizio Novecento e in Nicco, “Ravenna e i principi compositivi dell’arte bizantina”, pp.

195-203. Per lo studio delle antichita cristiane vedi G. Wataghin Cantino, “Roma sotterra-

nea. Appunti sulle origini dell’archeologia cristiana”, Ricerche di storia dell’arte 10 (1980),

pp. 5-14; R. Giordani, “Lo studio dell’antichita cristiana nell’Ottocento”, in Lo studio storico

del mondo antico nella cultura italiana dell’Ottocento, Acquasparta, Palazzo Cesi, 30 maggio –

1˚ giugno 1988, a cura di L. Polverini (Napoli, 1993), pp. 335-358.16

Di Munoz vedi: “Descrizioni di opere d’arte in un poeta bizantino del secolo XIV

(Manuel Philes)”, Repertorium fur Kunstwissenschaft 27 (1904), pp. 390-400; I codici greci

miniati delle minori biblioteche di Roma (Firenze, 1905); “I musaici di Kahrie Giami”,

Rassegna Italiana, marzo 1906; Il codice purpureo di Rossano e il frammento Sinopense (Roma,

anche come riproposizione di articoli di contenuto simile gia apparsi

altrove in lingua straniera; tra questi il lungo articolo di Tikkanen sui

rapporti iconografici tra i mosaici della Genesi nell’atrio di San

Marco e le miniature del manoscritto della Genesi Cotton, a cui si

faceva riferimento nel volume di Boito, e quelli di Hans Graeven sul

Rotulo di Giosue e sulle cassette d’avorio bizantine15

. Il piu attivo

scrittore di cose bizantine sembra Munoz, abile nel tener dietro ai

soggetti su cui dibatteva al momento la bizantinistica (i manoscritti

del Serraglio, i mosaici di San Salvatore in Chora a Costantinopoli,

gli Ottateuchi miniati, ecc.) e a riproporli al pubblico italiano. Nono-

stante l’eclettismo metodologico dei suoi testi, che variano da descri-

zioni tout court degli oggetti a pubblicazioni di fonti scritte di opere

bizantine ed a studi iconografici, va riconosciuta in ogni caso a

Munoz la rilevanza del lavoro fatto con la riproduzione dell’Evange-

liario purpureo miniato di Rossano Calabro (che stava per essere

illegittimamente venduto nel 1889 dai canonici del capitolo di Ros-

sano) e la descrizione dei manoscritti nelle biblioteche minori di

Roma e delle icone vaticane16

.

PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

1907); “Nella Biblioteca del Seraglio a Costantinopoli”, Nuova antologia 130 (1907), pp.

314-320; Le icone bizantine gia nel Museo Cristiano della Biblioteca Vaticana (Roma, 1924);

“Alcuni dipinti bizantini di Firenze”, Rivista d’arte 6 (1907), pp. 113-120; “Alcune

osservazioni intorno al Rotulo di Giosue e agli Ottateuchi illustrati”, Byzantion 1 (1924),

pp. 475-483. Quanto agli Ottateuchi Strzygowski aveva pubblicato uno studio su alcuni

Ottateuchi bizantini, tra i quali il codice 8 della Biblioteca del Serraglio presentato da

Munoz (J. Strzygowski, Der Bilderkreis des griechischen Physiologus, des Kosmas Indicopleustes

und Oktateuch nach Handschriften der Bibliothek zu Smyrna [Byzantiniches Archiv, Heft 2.

Leipzig, 1899]) e pubblicato poi da F. Uspenskii (Konstantinopolskii Seral’skii kodeks

Vos’mikniziia (L’Octateuque de la Bibliotheque du Serail a Constantinople) [Izvestiia Russkago

Arkheologicheskago Instituta v Konstantinopolie / Bulletin de l’Institut archeologique russe a

Constantinople, 12 1907], Sofia, 1907; Al’bom, Munich, 1907). Quanto al Rossanense erano

usciti O. von Gebhardt e A. Harnack, Evangeliorum Codex Graecus Purpureus Rossanensis

(Leipzig, 1880) e A. Haseloff, Codex Purpureus Rossanensis. Die Miniaturen der griechischen

Evangelien-Handschrift in Rossano (Berlin – Leipzig, 1898): Munoz sottolinea inesattezze e

deficienze nelle tavole di entrambe le edizioni. La notizia del tentativo di vendita dell’evan-

geliario purpureo da parte dei canonici di Rossano Calabro e data in Archivio storico dell’arte

2 (1889), pp. 93-94.17

A. Venturi, Storia dell’arte italiana, 11 voll. (Milano, 1901-1940); vol. 1, Dai primordi

dell’arte cristiana al tempo di Giustiniano (1901); vol. 2, Dall’arte barbarica alla romanica

(1902).18

Cosı nella commemorazione del 4 maggio 1942 al Reale Istituto d’Archeologia e Storia

dell’Arte: P. Toesca, Adolfo Venturi, commemorazione tenuta il 4 maggio 1942-XX al Reale

Istituto d’Archeologia e Storia dell’Arte (Roma, 1942-XX), p. 14. Invece, nella commemo-

razione di Venturi apparsa in Le arti, a proposito della Storia dell’arte italiana, Toesca scrive

soltanto (p. 311): “Superate le origini del Medioevo, in cui pure ricerco problemi fra le

tenebre dell’arte barbarica, riaffermando la sua convinzione nel sopravvivere dell’arte

discesa da Roma; quando fu giunto nell’eta romanica al definirsi di un’arte italiana (...)”;

id., “Adolfo Venturi”, Le arti 3 (1940-1941), pp. 309-312.

L’eclettismo di Munoz ha le sue radici nei volumi della Storia

dell’arte italiana del suo maestro Adolfo Venturi, i cui due primi

volumi, che trattano l’arte medievale fino al romanico, uscirono nel

1901 e nel 1902 (figg. 51-57)17

. Le lezioni romane di Venturi furono

seguite da molti dei protagonisti delle discussioni su Bisanzio e l’arte

contemporanea nella prima meta del Novecento; tra questi, oltre a

Munoz, Pietro D’Achiardi, Giuseppe Fiocco, Gustavo Giovannoni,

Federico Hermanin, Mario Salmi, Pietro Toesca. Commemorandolo

nel 1942, Toesca sottolineo come Venturi cercasse le origini dell’arte

italiana nell’antichita, vedesse nell’arte etrusca il preludio dell’arte

toscana e asserisse la persistenza dell’eredita romana nell’arte medie-

vale, risalendo oltre Roma a cercare le radici dei caratteri della stirpe

italiana; nel Medioevo “ancora non gli si affacciava distintamente

l’arte italiana, mentre intorno gli insistevano, quale piu eletta, quale

piu rude ma vigorosa, l’arte bizantina e la carolingia e la barbarica”18

.

Venturi e il primo studioso italiano a cimentarsi in una esposi-

zione generale dell’arte bizantina, destinato a rimanere pressoche

PRIMI STUDI IN ITALIA

19J. J. Tikkanen, Die Psalterillustration im Mittelalter (Helsingfors, 1903).

20I giudizi dalla Storia dell’arte italiana di Venturi riportati nel testo sono dal vol. 1, pp.

309-328, 340-344, 379, e dal vol. 2, pp. 478-485.

l’unico. I suoi due volumi includono un buon numero di manoscritti

miniati tardoantichi e bizantini, tra i quali il Virgilio Vaticano della

Biblioteca Vaticana, l’Iliade Ambrosiana (questi tre manoscritti

erano rimasti fino ad allora quasi sconosciuti agli studiosi italiani), la

Genesi Cotton, la Genesi di Vienna, il Rossanense, il Dioscoride di

Vienna, un buon numero di salteri tra i quali il Salterio di Parigi (per

questi dipendendo molto da recenti studi di Tikkanen)19

e altri

manoscritti bizantini gia noti. Venturi parte da un punto di vista

classico nel giudicare le opere e, di fatto, non ama le arti per lo piu

decadenti del periodo barbarico e del periodo bizantino: si stupisce

della bellezza delle figure e della vivezza dei colori nelle miniature del

Dioscoride di Vienna, che “riflettono le forme classiche” ancora agli

inizi del VI secolo, “quantunque eseguite a Bisanzio”. Mentre la

presentazione del Virgilio Vaticano, che Venturi data al IV secolo,

occupa ben diciassette pagine del primo volume con le sue miniature

di tradizione antica, al contrario le miniature piu medievali del

Virgilio Romano non sono considerate: “Non teniamo conto del

Virgilio romano (n. 3867) della Vaticana, perche le illustrazioni che

reca sono certo un esercizio di fanciullo barbaro, o di barbaro

ignorante quanto un fanciullo”. Non gli piace il Rotulo di Giosue,

copia da opera del X secolo di mano di un “calligrafo” e “improvvi-

sato miniatore”, ma il Salterio di Parigi, copia anch’esso dall’antico,

mostra un “vero fiorire dell’arte classica (...) nella seconda eta d’oro

bizantina”.

Altri giudizi di Venturi sono invece liberi da condizionamenti

classici, come nelle lodi delle miniature del Rossanense (fig. 52),

anticipatrici dell’arte di Giotto, e della Scala paradisiaca di Giovanni

Climaco della Vaticana (cod. Vat. gr. 394) (fig. 57) – “di una finezza

senza pari”, “non la decadenza di un’arte, ma un rinascimento” –

che restano uniche nella critica italiana:

“il miniatore vince le convenzioni, profonde sentimenti umani, sor-prende la vita. Questo capolavoro della miniatura proclama la forza ela grandezza dell’arte bizantina, che si considera gia avvolta dal buioalla fine dell’eta d’oro: era quell’arte civile che si diffondeva nel secoloXII sulle nostre coste, nelle nostre isole, fecondando l’arte occidenta-le”

20.

PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

21A. Munoz, L’Art Byzantin a l’exposition de Grottaferrata (Roma, 1906).

22Il Rotulo di Giosue, a cura di P. Franchi de’ Cavalieri (Codices e Vaticanis selecti, 5.

Milano, 1905); Il Menologio di Basilio II (cod. vat. gr. 1613) (Codices e Vaticanis selecti

phototypice expressi, 8. Torino, 1907); C. Stornajolo, Le miniature della Topografia Cristiana

di Cosma Indicopleuste. Codice Vaticano Greco 699 (Codices e Vaticanis selecti phototypice

expressi, 10. Milano, 1908); C. Stornajolo, Miniature delle Omilie di Giacomo Monaco (Cod.

Vatic. Gr. 1162) e dell’Evangeliario Greco Urbinate (Cod. Vatic. Urbin. Gr. 2) (Codices e

Vaticanis selecti phototypice expressi, Series Minor, 1. Roma, 1910); B. D. Filow, Les

miniatures de la Chronique de Manasses a la Bibliotheque du Vatican (cod. Vat. Slav. II)

(Codices e Vaticanis selecti, 17. Sofia, 1927). Homeri Iliadis pictae fragmenta ambrosiana

phototypice edita, a cura di A. M. Ceriani e A. Ratti (Milano, 1905).

L’arte bizantina era quindi ben lontana dal sonno di morte;

anche Duccio doveva essersi ispirato a un evangeliario bizantino

simile al cod. Vat. gr. 1156 (che e datato alla seconda meta del

secolo XI).

La prima esposizione di oggetti d’arte bizantini in Italia fu alle-

stita a Grottaferrata nel 1905 in occasione del nono centenario dalla

fondazione dell’abbazia da parte di San Nilo; il catalogo fu curato da

Munoz21

. Nella mostra, caso unico in Italia che non avra seguito per

almeno cinquant’anni, furono esposte miniature, icone, stoffe, orefi-

cerie provenienti per lo piu dal Museo Cristiano della Biblioteca

Vaticana. Il materiale esposto era comunque eterogeneo ed ordinato

per tipologie, non era presentato alcun percorso storico dell’arte

bizantina. Erano esposti anche dipinti pregiotteschi toscani, attribuiti

a Duccio o Cimabue, manoscritti miniati italo-greci e latini da

Montecassino, oltre al Rossanense e due evangeliari di proprieta

dell’abbazia. La Biblioteca Vaticana aveva frattanto iniziato a pubbli-

care i cicli miniati completi dei propri manoscritti bizantini e slavi in

una serie in cui apparvero il Rotulo di Giosue (1905), il Menologio

di Basilio II (1907), la Topografia cristiana di Cosma Indicopleuste

(nel 1908) le Omelie del monaco Giacomo e l’Evangeliario Urbinate

gr. 2 (1910), la Cronaca di Manasse (1927). Contemporaneamente,

furono completamente pubblicati i fogli superstiti dell’Iliade Ambro-

siana con il commento di Antonio Maria Ceriani e Achille Ratti,

quest’ultimo poi divenuto papa Pio XI (1905)22

. Dal 1890, i fotografi

Alinari cominciarono a documentare le opere d’arte in Italia, com-

prese le opere bizantine; Alinari non fece mai campagne fotografiche

su monumenti all’estero, salvo, per i possedimenti e le colonie

acquisiti dall’Italia in Istria (in particolare Parenzo) e in Dalmazia,

nel 1922, e nel Mare Egeo, nel 1936.

PARTE II

ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

5

L’APOGEO DI BISANZIO E L’ASSALTO

ALL’ARTE ITALIANA

‘‘Fino all’anno 1200, la pittura in tutta Europa fucostantinopolitana, come negli ultimi cent’anni, in cifratonda, e stata parigina’’.

Bernard Berenson, ‘‘Due dipinti’’, 1922

Tra l’inizio del Novecento e la seconda guerra mondiale la fortuna di

Bisanzio e in veloce ascesa e la bizantinistica, nata da una costola

dell’antichistica, si consolida come disciplina autonoma. La rivaluta-

zione di Bisanzio e della sua arte sono parallele, negli studi e nella

produzione artistica contemporanea, alla svalutazione dell’arte ro-

mana. Soprattutto in Francia, l’amore di impressionisti e postimpres-

sionisti per la natura ed i colori porta all’abbandono dell’arte accade-

mica e dell’arte classica suo modello ed al favore verso la spiritualita

ed il cromatismo di primitivi e bizantini. Nello stesso tempo, un

bizantinista, Strzygowski, cancella il ruolo di Roma come genitrice

dell’arte medievale e ne fa risalire i caratteri innovativi all’Oriente, in

un primo tempo alle metropoli del Mediterraneo orientale, poi alle

razze ariane dell’Iran e del Nord Europa.

a. L’apogeo novecentesco di Bisanzio

Alla fine dell’Ottocento ed agli inizi del Novecento le avanguardie

europee, soprattutto in Francia a partire dai simbolisti, si ispirarono

a mosaici bizantini e ad icone russe, quest’ultime rese famose dalla

esposizione Deux siecles d’art russe organizzata da Sergej Diaghilev al

Salon d’Automne di Parigi del 1906. Kandinsky, in Sullo spirituale

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

1W. Kandinsky, Uber das Geistige in der Kunst (Munchen, 1912); traduzione italiana,

Della spiritualita nell’arte particolarmente nella pittura, prima versione italiana a cura di G. A.

Colonna di Cesaro (Roma, 1940), pp. 107-108 e tavv. 2 e 6. W. Kandinsky e F. Marc, Der

blaue Reiter (Munchen, 1912), traduzione italiana, Il Cavaliere azzurro (Bari, 1967), p. 36.

nell’arte del 1912, porta il mosaico di Teodora a San Vitale e le

bagnanti di Cezanne come esempio di composizione ‘‘melodica’’;

riproduzioni da un mosaico di Venezia apparirono nell’almanacco

del Cavaliere azzurro1. Bisanzio trionfo tra artisti e critici anglosassoni

(soprattutto Roger Fry, Matthew Stewart Prichard e William Morris,

per il quale Santa Sofia era ‘‘the crown of all the great buldings in

the world’’) negli anni immediatamente precedenti la prima guerra

mondiale, che sono anche gli anni in cui ebbero inizio indagini

archeologiche e grandi progetti di restauro di monumenti bizantini.

Boris Anrep, sostenuto da Fry, cerco di riproporre l’arte del mosaico

bizantino in Inghilterra. Nella undicesima edizione della Encyclopæ-

dia Britannica del 1910-1911, la voce ‘‘Byzantine Art’’, scritta dal-

l’architetto William Richard Lethaby ed illustrata solamente con

architetture (Santa Sofia, la Piccola Cattedrale di Atene, la chiesa del

monastero di Dafni, capitelli di Ravenna e Venezia), parlava entusia-

sticamente dell’arte bizantina e asseriva la sua enorme influenza

sull’arte dell’Europa e dell’Oriente durante il Medioevo; diversi edi-

fici in Italia sarebbero da chiamare propriamente bizantini. In Au-

stria, Alphonse Mucha e Gustav Klimt seguiti in Italia da Chini e

Vittorio Zecchin, imitarono l’arte bizantina nella giustapposizione e

nell’estetismo dei colori. Nei paesi occidentali furono erette chiese in

stile neobizantino; negli Stati Uniti, gli stili bizantino e romanico

erano sentiti piu adatti che lo stile gotico alle chiese e cattedrali

nazionali cattoliche e ortodosse di Washington: il National Shrine of

the Immaculate Conception, la chiesa di Haghia Sophia e la Catte-

drale di San Matteo Apostolo, ebbero piante architettoniche model-

late su Santa Sofia di Costantinopoli e San Marco di Venezia e pareti

decorate con mosaici di stile bizantino. Di Carlo Wostry, pittore

triestino emigrato nel 1925 negli Stati Uniti, La Rivista illustrata del

‘‘Popolo d’Italia’’ fece un panegirico nazionalistico nel 1936 rico-

struendo la sua attivita americana: dalla prima commissione di dieci

quadri con scene per la Vergine nella chiesa di Notre Dame di

Lourdes a New York al trasferimento a Hollywood, dove il parroco

di Sant’Andrea a Pasadena lo invita a decorare la sua chiesa, appena

eretta ‘‘in stile bizantino o neo-cristiano, ispirandosi precisamente

alla basilica di Santa Maria Sabina in Roma’’, con quattordici dipinti

L’APOGEO DI BISANZIO E L’ASSALTO ALL’ARTE ITALIANA

2R. Fry, “Modern Mosaic and Mr. Boris Anrep”, The Burlington Magazine 42 (1923),

pp. 272-278. W. R. Lethaby, “Byzantine Art”, in Enciclopædia Britannica (Cambridge,

191011

), pp. 906-911. Sui rapporti tra artisti moderni e arte bizantina vedi C. Greenberg,

“Byzantine Parallels”, in C. G., Art and Culture: Critical Essays (Boston, 1965), pp. 169-171

(traduzione italiana Arte e cultura. Saggi critici [Torino, 1991], pp. 165-167). L’apprezza-

mento dell’arte bizantina in Francia, Inghilterra e Stati Uniti e sintetizzato in Rice, The

Appreciation of Byzantine Art, cap. 2, pp. 20-42, dal quale e presa la definizione di Santa

Sofia di Morris; J. B. Bullen, “Byzantinism and Modernism 1900-1914”, The Burlington

Magazine n 141, novembre 1999, pp. 665-675. Sulla fortuna di Bisanzio, la formazione

delle collezioni di oggetti e l’inizio degli studi di bizantinistica negli Stati Uniti vedi K.

Weitzmann, “Byzantine Art and Scholarship in America”, American Journal of Archaeology

51 (1947), pp. 394-418. Delle chiese di Washington, il progetto del National Shrine of the

Immaculate Conception (la cattedrale cattolica di America) risale al 1919, la chiesa di San

Matteo Apostolo fu consacrata nel 1913, la chiesa ortodossa di Haghia Sophia riproduce la

struttura ed i mosaici di San Marco di Venezia; agli esempi di questo revival neomedievale

va aggiunto il Monastero Francescano a Washington con decorazioni musive e repliche di

catacombe di Roma. Per Carlo Wostry: A. B., “Affermazioni italiane in America”, La

Rivista illustrata del “Popolo d’Italia” 14 n 3 (marzo 1936), pp. 33-35. Modelli di architet-

tura e decorazione bizantina in senso lato si trovano utilizzati in Italia, ad esempio, per

chiese ortodosse, come la chiesa russa di Firenze del 1902: G. Gobbi, Itinerario di Firenze

moderna. Architettura 1860-1975 (Firenze, 1976), p. 32.

delle stazioni della Via Crucis ed altre dieci scene della vita di Gesu,

un Pantocrator con una teoria di santi e sante alternati alla maniera

di Sant’Apollinare di Ravenna nell’abside, scene della vita di San-

t’Andrea nell’arco trionfale, altre storie della Vergine e Santi nelle

cappelle (fig. 58)2.

Ai pionieri della bizantinistica ottocentesca successe una genera-

zione folta di studiosi, che si ramifico nei paesi europei e in America.

L’indagine delle radici ellenistiche e della continuita o delle rina-

scenze classiche dell’arte bizantina fu al centro degli studi in Francia

(Diehl), Russia (Dimitri V. Ainalov, scolaro di Kondakov), Austria e

Germania (Franz Wickhoff, Adolf Goldschmidt, Kurt Weitzmann),

dove i corsi di arte bizantina erano accoppiati nel curriculum studen-

tesco agli studi sull’archeologia classica. A Monaco fu fondata nel

1892 la Byzantinische Zeitschrift, la prima rivista di bizantinistica,

seguita in Russia da Vizantjskij Vremennik nel 1894 e a Bruxelles da

Byzantion nel 1925. L’impostazione filologica e archeologica germa-

nica impronto, come caratteristica costitutiva, la bizantinistica ameri-

cana (Howard Crosby Butler, Earl Baldwin Smith, Charles R. Mo-

rey, Albert M. Friend Jr) che si adopero in questo periodo

soprattutto nella ricerca delle origini dell’arte bizantina in Siria, Asia

Minore e Alessandria. Quasi sempre, comunque, l’interesse si con-

centro sui secoli formativi dell’arte bizantina, per la loro prossimita

con il mondo classico, o sul regno della dinastia macedone (IX-XI

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

3S. Bettini, La pittura bizantina, 1 (Firenze, 1937-XV); 2, I mosaici, 2 voll. (Firenze,

1939-XVII); id., La scultura bizantina, 2 voll. (Firenze, 1944). O. M. Dalton, Byzantine Art

and Archaeology (Oxford, 1911); id., East Christian Art (Oxford, 1925). C. Diehl, Manuel

d’art byzantine, 2 voll. (Paris, 1910; seconda edizione 1926); id., L’art chretien primitif et l’art

byzantin (Paris e Brussels, 1928). H. Peirce e R. Tyler, Byzantine Art (London, 1926). J.

Ebersolt, La miniature byzantine (Paris – Brussels, 1926). A. Goldschmidt e K. Weitzmann,

Die byzantinischen Elfenbeinskulpturen des X.-XIII. Jahrhunderts, 1, Kasten, 2, Reliefs (Berlin,

1930 e 1934). G. Millet, Recherches sur l’iconographie de l’Evangile au XIVe, XVe et XVIe

siecles (Paris, 1916). P. Muratov, La pittura russa antica (Praga – Roma, 1925); id., La

pittura bizantina (Roma, 1928). K. Weitzmann, Die byzantinische Buchmalerei des 9. und 10.

Jahrhunderts (Berlin, 1935). O. Wulff, Altchristliche und Byzantinische Kunst, 1, Die altchristli-

che Kunst von ihren Anfangen bis zur Mitte des ersten Jahrtausends, 2, Die byzantinische Kunst

(Berlin – Neubabelsberg, 1914 e 1918); id., Die Byzantinische Kunst von der ersten Blute bis

zu ihrem Ausgang: Handbuch der Kunstwissenschaft, a cura di F. Berger e A. E. Brinckmann

(Potsdam, 1924).4

Ojetti, tuttavia, riconobbe il debito verso Bisanzio dell’arte italiana nella prefazione al

catalogo della mostra parigina di arte italiana da Cimabue a Tiepolo del 1925: U. Ojetti,

“Preface”, in Exposition de l’art italien de Cimabue a Tiepolo, Paris, Petit Palais, 1935,

secolo), il periodo durante il quale avvenne una ripresa di modi

classici tale da meritare la definizione di ‘Rinascenza macedone’.

Apparvero in questi anni studi iconografici complessivi (le ricer-

che sulla iconografia del Vangelo di Gabriel Millet, 1916), studi

storico-artistici, compendi generali sull’arte bizantina (i manuali di

Diehl del 1910 e del 1928, di Ormond M. Dalton del 1911 e del

1925, di Oskar Wulff del 1914-1918 e del 1924, di Hayford Peirce e

Royall Tyler del 1926, di Jean Ebersolt sulle arti sontuarie e sulla

miniatura, rispettivamente del 1923 e 1926, di Weitzmann sulla

miniatura dei secoli X-XI, del 1935), repertori (di Goldschmidt e

Weitzmann sugli avori). In italiano uscirono i libri di Pavel Muratov

sulla pittura bizantina e sulla pittura russa nel 1925 e nel 1928, ma i

primi manuali di studiosi italiani (fatta eccezione per le pagine su

Bisanzio nella Storia dell’arte italiana di Adolfo Venturi) furono i

volumetti di Sergio Bettini sulla pittura, i mosaici e la scultura

bizantina rispettivamente del 1937, 1939, 19443

La fortuna di Bisanzio ebbe il suo apogeo con la prima esposi-

zione internazionale di arte bizantina a Parigi, aperta in maggio e

giugno del 1931 al Musee des Arts Decoratifs, nel Pavillon de

Marsan al Louvre. Il comitato scientifico era presieduto da Diehl ed

aveva Georges Duthuit come segretario generale; oltre ai maggiori

bizantinisti francesi (Louis Brehier, Ebersolt, Millet), vi partecipa-

vano studiosi di Austria , Belgio, Germania, Gran Bretagna, Grecia,

Italia, Spagna, Stati Uniti; per l’Italia vennero Corrado Ricci, Carlo

Cecchelli, Giuseppe Mercati, Antonio Munoz, Ugo Ojetti (senz’altro

di gusti piu classici e accademici che bizantini)4, Pietro Toesca,

L’APOGEO DI BISANZIO E L’ASSALTO ALL’ARTE ITALIANA

catalogo della mostra, p. xiii:

“(...) l’influence byzantine qui, profonde et durable en France, s’exerca en Italie, de

Ravenne a Rome, de Palerme a Sienne, pendant plus de six cents ans, jusqu’a la deuxieme

periode d’or de l’art byzantin, et jusq’aux Toscans de l’epoque de Duccio qui admira et prit

dans la sculpture francaise la sinuosite des plis, mais qui tira de l’art byzantin la musique

des lignes et l’eclat des couleurs.”5

Exposition internationale d’art byzantin, Paris, Musee des Arts decoratifs, Palais du

Louvre, Pavillon de Marsan, 28 maggio – 9 luglio 1931, catalogo della mostra (Paris

[1931]); i testi di Diehl, Tyler e Ebersolt sono rispettivamente alle pp. 19-24, 25-29 e

45-53, 31-43. A seguito della mostra e basato sugli oggetti lı esposti uscı Art byzantin. Cent

planches reproduisant un grand nombre de pieces choisies permi le plus representatives des diverses

tendances ..., a cura di F. Volbach e G. Duthuit, introduzione di G. Salle (Paris [1933]). Nel

1936, la Biblioteca Apostolica Vaticana aprı una mostra di manoscritti bizantini, tra i quali

furono esposti gli Ottateuchi cod. Vat. gr. 746 e cod. Vat. gr. 747, il Giobbe cod. Vat. gr.

749, i Libri di Samuele e dei Re cod. Vat. gr. 333, il Cosma Indicopleuste cod. Vat. gr. 699,

il Menologio di Basilio II cod. Vat. gr. 1613, la Bibbia della Regina Cristina cod. Regin. gr.

1, le Omelie di Giacomo Monaco cod. Vat. gr. 1162: Catalogo della mostra di manoscritti e

documenti bizantini disposta dalla Biblioteca Apostolica Vaticana e dall’Archivio Segreto in

occasione del V Congresso Internazionale di Studi bizantini, Roma, 20-26 settembre 1936

(Citta del Vaticano, 1936).

Adolfo Venturi e Roberto Paribeni (che di Bisanzio era un denigra-

tore; fu forse mandato a mo’ di capomanipolo a controllare Toesca e

Venturi che erano ostili al fascismo). Il catalogo ebbe introduzioni di

Diehl, decano degli studi su Bisanzio, e di Tyler, collezionista e

conoscitore di opere bizantine, che lamentarono il poco materiale

riprodotto di Bisanzio e il giudizio corrente dato con occhi occiden-

tali sulla sua arte di essere inumana, immobile, rigida nelle formule

espressive. Ebersolt sottolineo invece il gusto del colore nell’arte

bizantina, cosı amato dagli artisti contemporanei. La mostra presento

un insieme straordinario di opere bizantine; due sezioni espositive

con una quarantina di manoscritti furono aperte nello stesso Louvre

e nella Biblioteca Nazionale; ad esse l’Italia, alla ricerca di prestigio

internazionale (l’anno prima Mussolini aveva inviato alla mostra di

arte italiana di Londra alcuni dei piu celebri capolavori dei musei

italiani), contribuı con un piccolo gruppo dei piu preziosi manoscritti

conservati nelle sue biblioteche, tra i quali il Giobbe di Napoli, il

Rossanense ed i Cinegetica di Venezia5.

b. Parigi, cioe Bisanzio

L’apoteosi dell’arte bizantina si svolse dunque in Francia. Non piu

apprezzata soltanto per il suo esotismo e la sua ricchezza come

avevano fatto i simbolisti, l’arte bizantina era amata per la sua

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

6M. Denis, “Notes sur la peinture religieuse”, in Theories 1890-1910 (Paris, 1920), p. 37.

7G. Duthuit, Byzance et l’art du XIIe siecle (Paris, 1926), p. 13; la citazione di Renoir,

ripresa da A. Vollard, La vie et l’œuvre de Pierre-Auguste Renoir (Paris, 1919), e alla nota 3 p.

104. Di Strzygowski Duthuit parla alle pp. 37 sgg.

capacita di tradurre in immagini sentimenti mistici e conferire imma-

terialita alle figure. Maurice Denis proclamo che la pittura bizantina

aveva portato il linguaggio figurativo cristiano alla espressione piu

alta6. Scrivendo nel 1926 su Bisanzio e l’arte del XII secolo, Duthuit

– che fu forse lo scrittore piu bersagliato dalla critica italiana anti-

francese ed antibizantina a causa della sua antipatia per l’arte ita-

liana, che era provocata in massima parte dal disgusto per il cromati-

smo ‘‘sgraziato’’ e ‘‘cacofonico’’ dei dipinti italiani – fece notare

come Renoir, viaggiando in Italia, avesse lasciato precipitosamente

Roma e Firenze, per la tristezza degli edifici e la freddezza delle

chiese; annoiato dal nero e bianco del Rinascimento forentino, Re-

noir si fermo invece a Venezia a rendere omaggio alla cattedrale

bizantina di San Marco, vero tempio adorno di magnifici mosaici del

quale e impossibile supporre la bellezza finche non vi si entra al suo

interno:

‘‘Et la basilique de Saint-Marc, voila qui m’a change des froids eglisesitaliennes de la Renaissance, et surtout de cette cathedrale de Milano,dont les Italiens sont si fiers, avec son toit en dentelle de marbre, desbetises, quoi! ... A Saint-Marc, et des l’entree, on sent qu’on est dansun veritable temple: cet air doux et tamise, et ces magnifiques mosaı-ques, ce grand Christ byzantin, avec un cerne gris! Impossible desoupconner, lorsqu’on n’est pas entre dans Saint-Marc, combien c’estbeau, les piliers lourds, les colonnes sans moulures! ...’’.

Il colore parla al cuore, scrisse Duthuit citando Ruskin. Duthuit

sposo le tesi orientaliste di Strzygowski (questo ‘‘vecchio professore’’

che lavora in maniera ‘‘prodigiosa’’ da piu di vent’anni, ‘‘etnologo,

sociologo, architetto, esegeta a pretese profetiche’’): era giunto il

momento di rigettare l’‘‘ipotesi di propaganda’’ dell’archeologia eu-

ropea del predominio artistico dell’arte di Roma nell’antichita e

sostituirla con l’ipotesi del predominio delle componenti asiatiche

diffuse dalle grandi citta del Mediterraneo orientale7.

Dai pittori delle avanguardie l’arte greco-romana era sentita

come fredda, ufficiale e falsa nel suo tentativo di simulare una

impossibile perfezione: la sosituı come modello l’arte espressiva e

L’APOGEO DI BISANZIO E L’ASSALTO ALL’ARTE ITALIANA

8Cf. A. Clutton-Brock, “The ‘Primitive’ Tendency in Modern Art”, The Burlington

Magazine 19 (1911), pp. 226-228.9

H. Bouchot, Les primitifs francais (1252-1500). Complement documentaire au catalogue

officiel de l’exposition (Paris, 1904); i passi completi (pp. 9, 37-38, 41, 65 rispettivamente)

recitano:

“Les Italiens avaient sous les yeux les redites grecques ou romaines rencontrees partout;

les Francais n’avaient que la nature naıve et sincere, et s’ingeniaient a l’imiter de leur

mieux.” “Aussi tandis que les peuples de l’Italie, qui demeuraient soumis a la tradition

antique deformee et abımee, se confinent dans la copie plus au moins adroite de neo-grecs

de Byzance, et, de decadence en decadence, aboutissent a Cimabue, les barbares du Nord,

livres a eoux-memes, se cherchent un canon particulier, et prennent un rang individuel et

original.” “Des avant Cimabue dont les vierges exclusivement orientales, figees et sans

grace, n’ont d’etonnant que leur conservation, les vieux Francais cherchent l’expression de

nature, la verite.” “[A confronto con] les attitudes mornes, rigides, sans ame, le vieux

Francais a voulu exprimer la vie; il a reellement trouve la note sublime dans un geste, un

imple mouvement d’un naturalisme exquis.”. Cf. E. Castelnuovo, “«Primitifs» e «fin de

siecle»”, in Storia dell’arte e politica culturale intorno al 1900. La fondazione dell’Istituto

Germanico di Storia dell’Arte di Firenze. Per i cento anni dalla fondazione del Kunsthistorisches

Institut in Florenz, Convegno Internazionale, Firenze, 21-24 maggio 1997, a cura di M.

Seidel (Padova, 1999), p. 49.

viva dei primitivi occidentali e dei bizantini8. Lo sciovinismo artistico

antitaliano ebbe un suo picco alla mostra dei primitivi francesi del

1904: qui gli Italiani del Medioevo, popoli e artisti, furono visti come

sottomessi alla tradizione antica ‘‘deformee et abımee’’ e come cattivi

copisti dei neogreci di Bisanzio; al contrario, i Francesi, non avendo

che la natura ‘‘naıve et sincere’’, s’ingegnano di imitarla (evidenta-

mente un punto di vista impressionistico), cercando un loro canone

originale: le vergini di Cimabue sono ‘‘mornes, rigides, sans ame’’,

quelle francesi esprimono la vita, trovano ‘‘la note sublime dans un

geste’’, con un ‘‘naturalisme exquis’’; lo stesso Giotto, ’’byzantin de

gouts et de pratique’’, avrebbe imparato la tecnica pittorica da

Etienne d’Auxerre, chiamato a Roma da Bonifacio VIII nel 12989.

La scelta dei pittori dell’avanguardia per una pittura senza terza

dimensione trova come antesignane le qualita pittoriche dell’arte

bizantina, in primo luogo il suo cromatismo e lo svolgersi dei soggetti

raffigurati su superfici piane; il cromatismo trionfo cosı sul plastici-

smo della tradizione italiana. I Fauves, soprattutto Georges Rouault

e Henri Matisse, furono gli artisti piu indebitati con il mondo

orientale. Matisse, secondo Duthuit, che di Matisse divenne genero,

era oggetto delle stesse critiche che gli Italiani del Rinascimento

avevano fatto alla maniera greca. Il senso che Matisse ha dei colori,

scrive Duthuit in Les Fauves del 1949, e lo stesso degli orafi bizan-

tini: nelle loro figure a smalti cloisonnee, se cessiamo di guardarle

nelle minuzie da archeologo, i verdi, i rossi, gli azzurri, i marroni e i

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

10G. Duthuit, Les Fauves. Braque Derain Van Dongen Dufy Friesz Manguin Marquet

Matisse Puy Vlaminck (Geneve, 1949), p. 211 (citato anche in Matisse. “La revelation m’est

venue de l’Orient”, Roma, Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori, 20 settembre 1997 –

20 gennaio 1998, catalogo della mostra, a cura di C. Duthuit, A. Kostenevich, R. Labrusse,

J. Leymarie [Firenze, 1997], p. 108 n 6).11

La recensione di Longhi apparve su Paragone 1 (1950), pp. 63-64.

rosa perdono la loro funzione narrativa e compongono con il loro

supporto d’oro, proprio come in Matisse, una ‘‘orchestrazione colo-

rata’’; ‘‘questi timbri di smalto, infine, non sono che un accordo nel

coro liturgico, nelle icone, nei costumi, nel ciborio, nelle lampade,

ecc. e figure infine di una danza solenne’’:

‘‘Sur une croix chaque email et, dans chaque email chaque surfacecloisonnee ont ete sentis et eprouves a l’echelle de l’œuvre qui lesrecoit. Si elles peuvent encore rappeler la neige d’une robe de colombeou l’incarnat d’une joue d’archange, les teintes ne s’en apparient parmoins aux harmonies voisines, assez hardiment transposees pour qu’iln’y ait dans cette union trace de mesalliance; pour qui cesse de scruterles medaillons en archeologue, comme on trie des lentilles, les verts,les rouges, les bleus, les bruns et les roses se delestent de leur fonctionnarrative et composent avec les bras d’or, tojours comme chez Ma-tisse, une «orchestration coloree». Cet timbres des email enfin ne sonteux-memes qu’un accord dans les chœur liturgique, edifice, iconogra-phie, costumes, ciboire, lampadaires, etc., et figures enfin de la dansesolennelle’’

10.

Ancora nel 1950, gli storici dell’arte italiani non avevano perdo-

nato questi giudizi a Duthuit: nella recensione a Les Fauves, Roberto

Longhi disse che Duthuit ‘‘giace sui vecchi testi fondamentali della

sua cultura, un generico orientalismo, uno specifico bizantinismo

rutilante nel quale e versatissimo’’; del museo immaginario di Du-

thuit resterebbe fuori tutto l’Occidente artistico e, come principale

responsabile, l’Italia11

.

Matisse, e noto, si interesso a Bisanzio soprattutto stimolato dalla

amicizia con Prichard e con Thomas B. Whittemore, che stava

riportando alla luce i mosaici di Santa Sofia a Istanbul. Nell’autunno

1911 Matisse visito la Russia su invito del mercante d’arte e suo

collezionista Sergej Sciukin; entusiasta delle icone russe, le descrisse

come le opere d’arte dove piu e rivelato il sentimento mistico, ‘‘uno

dei piu interessanti campioni della pittura primitiva’’: ‘‘Da nessuna

parte mai ho visto una tale ricchezza, una tale purezza di colori, una

tale spontaneita di rappresentazione’’:

L’APOGEO DI BISANZIO E L’ASSALTO ALL’ARTE ITALIANA

12Il lungo rapporto tra Matisse e l’arte dell’Oriente e ricostruito in A. Kostenevich, “Un

dialogo lungo mezzo secolo: incontri con l’Oriente”, in Matisse. “La revelation m’est venue de

l’Orient”, pp. 23-79; e, nello stesso catalogo G. Duthuit, “Matisse e lo spazio bizantino”,

pp. 322-335. Inoltre: A. Chastel, L’Italie et Byzance, a cura di C. Lorgues-Lapouge (Paris,

1999), pp. 10-12 sulla Bisanzio di Duthuit e Matisse; P. Schneider, Matisse (Paris, 1984;

traduzione italiana, Milano, 1985), pp. 14-25, 155-185; A. G. Kostenevich e N. Semio-

nova, Matisse v Rossii (Moskva, 1993), traduzione francese Matisse et la Russie (Parigi,

1993). Da quest’ultimo, pp. 25-26, e la citazione di Matisse nel testo, tratta da una

intervista al pittore del corrispondente di Rousskie viedomosti, del 27 ottobre 1911.13

Su Strzygowki vedi: F. W. F. von Bissing, Kunstforschung oder Kunstwissenschaft? Eine

Auseinandersetzung mit der Arbeitweise Josef Strzygowskis, 2 voll. (Munchen, 1950-1951); H.

J. Spross, “Die Naturauffassung bei Alois Riegl und Josef Strzygowski”, Diss., Saarbrucken,

Universitat des Saarlandes, Philosophische Fakultat, 1989, pp. 173-189. Il profilo dato nel

testo dipende ampiamente da: A. Kingsley Porter, “Strzygowski in English”, The Arts 7

(1925), pp. 139-140; E. Strong, “L’art romain et ses critiques”, Formes n 8, ottobre 1930,

pp. 2-4; M. S. Dimand, “In memoriam Josef Strzygowski (1862-1941)” Ars Islamica 7

(1940); E. E. Herzfeld, W. R. W. Koehler e C. R. Morey, “Josef Strzygowski”, Speculum 17

(1942), pp. 460-461.

‘‘Les Russes ne soupconnent meme pas de quels tresors artistiques ilsdisposent. Je connais l’art religieux de plusiers pays, mais nulle part jen’ai vu une telle revelation du sentiment mystique, parfois meme del’effroi religieux. (...) Les icones, quant’a elles, sont un echantillon desplus interessants de la peinture primitive. (...) Je n’ai vu nulle part unetelle richesse, une telle purete des couleurs, une telle spontaneite de larepresentation. C’est le meilleur patrimonie de Moscou. Il faut venirici pour s’istruire, car c’est chez les primitifs qu’il convient de chercherl’inspiration’’

12.

c. Strzygowski, moderno Attila

Le idee dell’austriaco, nativo della Slesia, Josef Strzygowski sulle

origini orientali e non occidentali di Bisanzio e del Medioevo latino

raccolsero entusiastici seguaci ed irriducibili avversari. Presentazioni

di suoi libri e necrologi (Strzygowski morı nel gennaio del 1941)

concordano nel definirlo lo studioso che piu scosse le certezze acqui-

site degli storici dell’arte antica e medievale13

. Strzygowski studio

archeologia classica e storia dell’arte a Vienna, Berlino e Monaco. La

sua tesi dottorale discusse l’iconografia del battesimo di Cristo. Le

sue prime pubblicazioni indagarono l’arte tardoantica, paleocristiana

e bizantina, con approccio filologico e iconografico. Sul Repertorium

fur Kunstwissenschaf, sulla Byzantinische Zeitschrift, sulla serie di mo-

nografie a questa collegata del Byzantinische Archiv e su altre riviste

apparvero alla fine dell’Ottocento suoi studi sulla miniatura tardoan-

tica e bizantina: il Calendario del 354, il ciclo bizantino dei mesi, i

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

14J. Strzygowski, “Die Monatscyclen in der byzantinischen Kunst”, Repertorium fur

Kunstwissenschaft 11 (1888), pp. 23-46; Der Calenderbilder des Chronographia vom Jahre 354

(Berlin, 1888); Der Bilderkreis des griechischen Physiologus, des Kosmas Indicopleustes und

Oktateuch nach Handschriften der Bibliothek zu Smyrna (Byzantiniches Archiv, 2. Leipzig,

1899), seguito poco dopo da “Der illustrierte Physiologus in Smyrna, Byzantinische Zeit-

schrift 10 (1901), pp. 218-222; “Eine trapezuntische Bilderhandschrift vom Jahre 1346”,

Repertorium fur Kunstwissenschaft 13 (1890), pp. 241-63. Gli interessi di Strzygowski per gli

influssi dell’arte bizantina su altre culture lo portarono a pubblicare nel 1906 Die Miniaturen

des serbischen Psalters der Konigl. Hof- und Staatsbibliothek in Munchen nach einer belgrader

Kopie erganzt und im Zusammenhange mit der syrische Bilderredaktion des Psalters untersucht

(Denkschriften der Kaiserlichen Akademie der Wissenschaften in Wien. Philosophisch-

historische Klasse, 52. Wien, 1906).

manoscritti miniati di Cosma Indicopleuste, del Fisiologo e dell’Ot-

tateuco conservati nella Biblioteca della Scuola Evangelica di Smir-

ne14

.

Il libro che lo rese celebre fu Orient oder Rom. Beitrage zur

Geschichte der spatantiken und fruhchristlichen Kunst del 1901 (figg.

59-60); qui, fino dalla introduzione, Strzygowski contesto la predo-

minanza di Roma sull’arte cristiana dei primi secoli che Wickhoff

aveva enfatizzato nella parte da lui scritta del libro sulla Genesi di

Vienna del 1895. Strzygowski fu cosı il primo a richiamare l’atten-

zione sull’importanza del ruolo avuto dall’arte dell’Oriente nella

formazione dell’arte cristiana, fatto poi accettato da tutti gli studiosi:

l’arte paleocristiana e l’arte medievale, ritenute fino ad allora meta-

morfosi dell’arte romana, furono ripensate come derivazioni dell’arte

orientale. Nel 1920 Strzygowski scrisse che prima di Orient oder Rom

le ricerche sull’arte cristiana avevano creduto di trovarne le origini a

Roma; fino al 1880 l’orizzonte degli storici dell’arte antica non

superava l’Italia e si pensava che le catacombe fossero gli inizi

dell’arte cristiana. Tutto puntava a Roma e l’unico problema era se

la trasformazione dell’arte era dovuta alla decadenza interna della

cultura romana o alla vittoria della barbarita germanica da fuori. Con

Orient oder Rom Alessandria, Antiochia, Efeso vennero in prima fila

nella formazione dell’arte cristiana. La vecchia archeologia con la sua

visione romano-centrica – scrisse in una recensione Arthur Kingsley

Porter – era crollata come un castello di carte: il Mediterraneo

orientale divenne nettamente la moda archeologica e nessuno parlo

piu di arte medievale senza connetterla a influssi orientali. Nono-

stante i tentativi di controbattere le sue tesi, la sua reputazione

crebbe velocemente ed i manuali di arte bizantina divennero di fatto

riepiloghi dei suoi scritti: dalle novita da essi introdotte dipesero,

come lo stesso Strzygowski fece notare, i manuali di Diehl, Dalton,

L’APOGEO DI BISANZIO E L’ASSALTO ALL’ARTE ITALIANA

15W. Rittel von Hartel e F. Wickhoff, Die Wiener Genesis (Prag – Wien – Leipzig, 1895).

J. Strzygowski, Orient oder Rom. Beitrage zur Geschichte der spatantiken und fruhchristlichen

Kunst (Lepzig, 1901), introduzione pp. 1-10; Ursprung der christlichen Kirchenkunst. Neue

Tatsachen und Grundsatze der Kunstforschung (Leipzig, 1920), pp. 4 sgg. La definizione di

Strzygowski come il piu profetico archeologo ed altre espressioni nel capoverso sono da

Kingsley Porter, “Strzygowski in English”, pp. 139-140.16

Per le opere di Strzygowski vedi in bibliografia. Quanto alla dottrina del ‘ritorno al

Nord’ vedi la lettera di Strzygowski a Focillon del 1932 e la risposta di Focillon a

Strzygowski del 1934 entrambe pubblicate in Civilisations. Orient – Occident. Genie du Nord

– Latinite. Lettres de Henri Focillon, Gilbert Murray – Josef Strzygowski – Robindranath Tagore

(Societe des Nations, Institut International de Cooperation Intellectuelle, 1935).

Kauffmann, Toesca, Wulff. Dai suoi contemporanei Strzygowski fu

definito ‘‘il piu profetico, il piu intuitivo, il piu ispirato e il piu

sconcertante degli archeologi’’15

.

Dopo Orient oder Rom, Strzygowski sposto la sua attenzione

all’arte copta (1904) e soprattutto all’arte dell’Asia con i suoi lavori

sull’Asia Minore come nuova regione della storia dell’arte (1904), su

Mschatta (1904), su Amida (1910) e sull’architettura degli Armeni

(1918). Ulteriori campagne di esplorazione lo convinsero che il

Mediterraneo orientale era stato solo il canale attraverso il quale era

giunta in Occidente l’arte delle regioni interne dell’Asia Minore, in

particolare quella iranica. La sua idea guida divenne quella di una

decisa predominanza dell’arte dell’Iran, il ‘‘cuore dell’Asia’’, sull’arte

delle regioni limitrofe, Cina, India e Mediterraneo. Nel crogiolo

culturale iranico sarebbero stati recepiti i modi artistici dell’Asia

orientale, trasformati e ritrasmessi in specie al mondo ellenistico. La

popolazione iranica, inoltre, fu la seconda grande fonte dell’energia

ariana, che avrebbe unito le sue forze con gli abitanti del Nord e con

le tribu nomadi pastorali per sviluppare lo spirito medievale dell’arte

cristiana; il triangolo Edessa-Amida-Nisibi avrebbe rappresentato per

le nazioni dell’Asia interna (Siria, Armenia, Anatolia, Mesopotamia,

Persia, Iran) quello che il Mediterraneo fu per il mondo greco-

romano. Infine, la Cristianita ariana orientale avrebbe portato attra-

verso l’Armenia i suoi modi artistici al mondo mediterraneo. Tempo

dopo, Strzygowski definı tre zone culturali dell’umanita corrispon-

denti a tre razze distinte: la zona calda meridionale, abitata dalla

razza negra, che non avrebbe contribuito in nulla all’arte, la zona

settentrionale fredda collegata alla cultura dell’Iran, abitata da popoli

di razza ariana, la quale avrebbe fecondato con la sua cultura pura la

zona mediana (mediterranea, dove l’arte era prostituita al servizio di

sovrani e chiesa) dando vita alle arti classica e gotica, vinte poi dal

Rinascimento16

.

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

17B. Berenson, Aestethics, Ethics and History in the Arts of Visual Representation (London,

1948), introduzione datata 1941, pp. 25-26; qui sotto la traduzione italiana:

“Questo Attila della storia dell’arte sembra aver avuto negli ultimi trenta anni della sua

vita lo stesso odio amaro di tutto cio che la civilta mediterranea implica che ispiro il barbaro

unno che i suoi contemporanei chiamarono ‘il flagello di Dio’. Egli finı col persuadere i suoi

seguaci che niente di buono poteva giungere dall’Egeo e dal Sud. Solamente nel Nord c’era

arte, e quell’arte era ariana e germanica, senza debiti a razze contaminate con sangue

negroide, come i Greci e i Semiti. Cosı, col professor Strzygowski il razzismo comincio a

predicare il suo vangelo antiumanistico, molto prima che la parola ‘Nazismo’ fosse nem-

meno immaginata, e mentre i suoi capi erano ancora bambini.”

Le dottrine di Strzygowski corrisposero bene e anticiparono

quelle del Nazionalsocialismo, come scrisse Berenson nel 1941:

‘‘This Attila of art history seems to have had in his last thirty years ofhis life the same bitter hatred of all that Mediterranean civilizationimplies which inspired the Hunnish barbarian whom his Christiancontemporaries called ‘the scourge of God’. He ended by persuadinghis followers that nothing good could come from the Aegean and fromthe South. Only in the North was there art, and that art was Aryan andGermanic, owing nothing to races tainted with Negroid blood as wereGreeks and Semites. So with Professor Strzygowski racialism began topreach its anti-humanistic Gospel, long before the word ’Nazism’ wasas much as imagined, and while its chiefs were still children’’

17.

Autori italiani, comunque, emularono le sue dottrine razziste,

rovesciandole contro semiti e ‘‘semiasiatici’’ (classificazione che

comprendeva bizantini e orientali) nel periodo di gestazione e in

quello successivo all’emanazione delle leggi razziali del 1938 (vedi

Capitolo 9, paragrafo e). La tesi di Strzygowski del distacco da Roma

(la sua scuola archeologica fu chiamata del ‘‘Los von Rom’’), ne-

gando importanza formativa all’arte romana, fece di lui la bestia nera

degli studiosi italiani della prima meta del Novecento. Nel 1915

Giuseppe Galassi, uno degli studiosi italiani anti-Strzygowski, noto

che l’‘‘amletico dilemma dello Strzygowski Orient oder Rom’’ era

‘‘gravido di minaccia per la romanita’’. Delle tesi di Strzygowski fu

data a volte una versione edulcorata e accettabile in Italia, con parita

di ruoli tra Roma e l’Oriente nella formazione dell’arte bizantina: nel

1912 Colasanti, nella introduzione al suo album di fotografie di

opere bizantine in Italia, propose di mutare la domanda ‘‘Orient oder

Rom?’’ (il punto interrogativo e una aggiunta di Colasanti) nella

affermazione ‘‘Roma e Oriente’’. Soprattutto con il nazionalismo

culturale tra le due guerre mondiali negare validita alle tesi strzygow-

L’APOGEO DI BISANZIO E L’ASSALTO ALL’ARTE ITALIANA

18G. Galassi, “Scultura romana e bizantina a Ravenna”, L’arte 18 (1915), p. 29. Sul ‘Los

von Rom’ e le apprensioni che suscitava vedi S. Muratori, “Il «Los von Rom» e l’arte

bizantina”, Felix Ravenna, n. s., 3, gennaio-aprile 1932, pp. 44-49. A. Colasanti, L’arte

bizantina in Italia, prefazione di C. Ricci (Milano, 1912). Un riassunto della questione

Strzygowski si trova in C. Cecchelli, “Le varie teorie sulle origini dell’arte bizantina”, 1,

“Oriente o Roma?”, 2, “Oriente, o Bisanzio?”, in Corsi di Cultura sull’Arte Ravennate e

Bizantina, Universita degli Studi di Bologna, Ravenna, 31 marzo – 13 aprile 1957 (Ra-

venna, 1957), pp. 51-52, 53-55.19

S. Slataper, “Quando Roma era bizantina”, La Voce 3 (1911), pp. 552-553, ristampato

in S. S., Scritti letterari e critici raccolti da G. Stuparich (Roma, 1920), pp. 158-171 e in

particolare la testimonianza riportata alle pp. 161-162:

“Oggi [1910] si accenna spesso con ammirazione e invidia all’epoca bizantina. Par epoca

d’arte, di passione, di liberta, di ricchezza, di spensieratezza in contrapposto storico alla

nostra che si raccoglie severamente per poverta, ed e critica, frigida, logica, vigile, bronto-

lona. Dicono. E si sdraiano sul deserto divano e sognano: – Cavalcavano allora! Uno se

n’andava per diporto al mare; c’era il plenilunio; montava in barca ed eccolo, senza neanche

una camicia di ricambio, in Sardegna. E s’amava! il braccio sinistro intorno alla colma Lalla

agreste, l’altro fra i capelli o sotto le gonne della nobildonna romana Livia. E intanto, agli

scocchi dei raddoppiati baci, si poetava. Si beveva vino rosso, e non caffe. Sommaruga

pagava. Eran tempi di Saturno, di Venere e di Plutone.”.

skiane divenne imperativo negli scritti italiani sull’arte romana e

medievale (vedi Capitolo 6, paragrafo c)18

.

d. Bisanzio futurista e cubista

Ancora negli anni immediatamente precedenti e seguenti la guerra

1914-1918 l’atteggiamento in Italia verso l’arte bizantina non era

sfavorevole, nonostante l’idea di decadenza e corruzione di Bisanzio

divenuta luogo comune. Gli anni ‘bizantini’ di fine Ottocento furono

anzi ricordati in testimonianze di scrittori dell’epoca come periodo di

passione, spensieratezza e liberta morale e artistica rispetto al gri-

giume dominante dal secondo decennio del Novecento19

. Come visto

prima, Soffici, uno dei piu drastici antagonisti dell’arte filobizantina

negli anni decisivi del primo dopoguerra, criticando la Teodora

dipinta da Chini nella cupola della Biennale con la rappresentazione

di Bisanzio, sostenne che essa non rifletteva la ‘‘solennita e l’incanto

della divinissima arte di Bisanzio’’, che ha prodotto ‘‘capolavori

eterni, impregnati di realita e di spiritualita – di poesia entusiasmante

come la faccia del sole’’ (vedi Capitolo 2, paragrafo b). Nel 1911,

alla Esposizione Internazionale di Belle Arti a Valle Giulia a Roma,

allestita per celebrare il cinquantenario dell’unita d’Italia, i padiglioni

stranieri che riscossero piu successo furono quello germanico e

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

20G. Piantoni, “Nell’ideale citta dell’arte”, in Roma 1911, Roma, Galleria d’Arte Mo-

derna, Valle Giulia, 4 giugno – 15 luglio 1980, catalogo della mostra, a cura di G. P.

(Roma, 1980), pp. 77, 80-81.21

U. Boccioni, “Per l’ignoranza italiana. Sillabario pittorico”, Lacerba 1 (1913), p. 179.

soprattutto quello austriaco grazie alla presenza di alcune tra le piu

famose opere di Klimt, in molto debitrici dell’arte bizantina, il quale

era gia stato presentato con grande successo alla Biennale di Venezia

del 191020

.

Umberto Boccioni, in uno schema riassuntivo dell’evoluzione

dell’arte in un breve articolo pubblicato su Lacerba del 1913 col

titolo ‘‘Sillabario pittorico’’, suddivise il cammino dell’arte in tre

grandi periodi che avrebbero precorso la ‘‘astrazione plastica futuri-

sta’’: la ‘‘astrazione plastica greca’’, con ‘‘l’esterno fisico centro

dell’universo’’, suddivisa in quattro fasi dagli Egizi all’arte bizantina,

che ne rappresenterebbe lo stadio ultimo; la ‘‘astrazione plastica

cristiana’’, con il ‘‘passaggio dall’esterno all’interno’’, con quattro

stadi, dagli inizi nell’arte romana e bizantina ai Gotici, a Michelan-

gelo, ai Veneziani, allo stadio ultimo con Rembrandt; la ‘‘astrazione

plastica naturalista’’, con la ‘‘esteriorizzazione dell’interno’’, da Rem-

brandt al cubismo. I futuristi (Boccioni, Russolo, Carra, Severini,

Balla, Soffici), sintetizzarono nella loro arte le coppie antagoniste

colore e forma, sensazione ed intelletto, della pittura moderna (dove

colore e sensazione sono rappresentati da impressionisti, divisionisti

e Matisse, e forma e intelletto da Cezanne, Degas, Gauguin, Van

Gogh, Picasso, Braque e i cubisti)21

.

La stessa contrapposizione tra plasticismo e colorismo – un luogo

comune delle discussioni postbelliche su arte romana e arte bizantina

– fu proposta da Galassi in un curioso articolo sulla scultura del

basso Impero nel 1915, nel quale la scultura tardoantica e bizantina

e letta in termini cubisti e descritta con termini e stile di scrittura

futuristi. In particolare, la lettura attualizzata e condotta su un

gruppo di teste del VI secolo (figg. 61-62); le piccole riproduzioni

fotografiche fanno apparire quasi novecentesche (cubiste) le teste,

che sono descritte con le espressioni ‘‘materia organica disfatta che

ha compiuto la rielaborazione organica’’ ‘‘senza moto e senza vita’’,

‘‘atomi liberi dall’energia vitale assestatisi nelle armonie metriche di

cristalli’’, ‘‘sfere dei volti, precisione di curve, raccordi che addolci-

scono l’acutezza delle congiunzioni’’, ‘‘tubi che rientrano gli uni

negli altri, sfere ed anelli che intercidono a vicenda’’. Una testa

femminile, conservata al Civico Museo d’Arte Antica al Castello

L’APOGEO DI BISANZIO E L’ASSALTO ALL’ARTE ITALIANA

22G. Galassi, “Dall’antico Egitto ai Bassi Tempi (A proposito di un monumento artistico

del sec. VI)”, L’Arte 18 (1915), pp. 286-295, 321-342; le citazioni sono da pp. 286-288; la

testa di Teodora a Milano e descritta a p. 289 e riprodotta alla fig. 5. Galassi aveva

pubblicato sullo stesso fascicolo de L’arte “Scultura romana e bizantina a Ravenna”, pp.

29-57. Per la testa del Castello Sforzesco vedi ora Age of Spirituality: Late Antique and Early

Christian Art, Third to Seventh Century, New York, Metropolitan Museum of Art, Novembre

1977 – Febbraio 1978, catalogo della mostra, a cura di K. Weitzmann (New York, 1979), n

27 p. 33.

Sforzesco di Milano, considerata un ritratto di Teodora seguendo

Diehl (una identificazione accettata anche dalla critica recente, per la

quale la testa e databile agli anni 530-540), e cosı descritta:

‘‘Altissima la mitra bicorne, lunghissimo il viso incassato della impera-trice Teodora, nel ritratto del Museo Archeologico di Milano: angustocono rovescio che si addentra in un cono grandioso svettato, ricintoalla base come da lingue assiderate, ripetute intorno con matematicauguaglianza. Due calotte sfuggono dietro e lasciano immaginare unamoltiplicazione nascosta di globi. Non un moto, non un brivido, nonun segno di vita: materia rigida e inerte, freddo impero della normageometrica’’

22.

1Per la sentenza sugli iconografi non storici dell’arte vedi R. Longhi, Recensione a A.

Munoz, “La scultura barocca a Roma: Iconografia – Rapporti col teatro”, Rassegna d’Arte,

ottobre 1916, L’Arte 1917, pp. 60-61. Per la critica di Croce alle interpretazioni contenuti-

stiche degli storici dell’arte vedi, ad esempio, La critica e la storia delle arti figurative.

Questioni di metodo (Bari, 1934), p. 8.

6

LA DIFESA DELL’ARTE PATRIA

Lo scoppio della guerra contro Germania e Austria, il nazionalismo e

l’antagonismo con la Francia negli anni successivi all’armistizio ed al

trattato di pace di Versailles travolgono le aperture verso l’apprezza-

mento e lo studio dell’arte di Bisanzio i cui semi erano stati gettati

nei primi anni del Novecento. Stare al passo della bizantinistica

internazionale significava ammettere la bonta delle ricerche contenu-

tistiche impostate sulla filologia germanica, della quale si erano

nutriti gli studi bizantini; attribuire importanza e apprezzare l’arte

bizantina significava essere additato come antipatriottico e filofran-

cese. Le indagini filologiche vennero giudicate pedanti e saccenti,

inutili ai fini dell’apprezzamento del valore dell’opera d’arte, compito

primo della critica. L’estetica crociana provvide i presupposti ideali

per l’estromissione dalle fila degli storici dell’arte degli studiosi di

iconografia, che si occupano del contenuto delle rappresentazioni

artistiche e astraggono da forma ed espressione1. Con poche ecce-

zioni di grande prestigio, i critici italiani di Bisanzio, artisti e storici

dell’arte, avevano una conoscenza dell’arte bizantina approssimativa,

limitata quasi ai soli mosaici ravennati del tempo di Giustiniano e

pregiudicata dai luoghi comuni vasariani e ottocenteschi: bello in

arte e cio che e naturalistico e plastico e tali sono le opere della

classicita e del Rinascimento; la bellezza non si trova, invece, nel-

l’arte bizantina, i cui valori sarebbero dati piuttosto da astrazione,

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

cromatismo, linearismo. Di un’arte bizantina espressiva e delle sue

varie rinascenza classiche non si conosceva pressoche nulla.

L’allineamento degli studi sugli orientamenti ideologici del fasci-

smo produsse una demonizzazione acritica di Bisanzio, vista come

l’anti-Roma dell’antichita; mentre Parigi fu definita la nuova Bisan-

zio artistica, la moderna anti-Roma. Le teorie artistiche dell’impres-

sionismo e delle avanguardie novecentesche contenevano una espli-

cita svalutazione dell’arte accademica, classica e italiana. La contesa

per il primato artistico tra Italia e Francia fu il riflesso nella cultura

del conflitto nazionalistico tra l’Italia fascista, che cercava una affer-

mazione internazionale come grande potenza, e la Francia democra-

tica sua antagonista. In Italia, questo periodo di reazione antifrancese

in arte si svolse parallelo al periodo della repressione antioperaia, del

ritorno all’’ordine e del colpo di stato fascista e faceva parte del clima

generale di vittoria mutilata degli anni successivi alla pace di Versail-

les e all’impresa di Fiume. La contesa artistica con la Francia ebbe

tre campi principali di battaglia, tutti coinvolgenti Bisanzio: le origini

romane o bizantine dell’arte cristiana e medievale nei termini propo-

sti da Strzygowski; le origini italiane o bizantine dell’arte del Due-

cento e di Giotto; la superiorita del plasticismo virile dell’arte ro-

mana e dell’arte contemporanea italiana o del cromatismo sensuale

dell’arte bizantina e dell’arte contemporanea francese.

a. La reazione antigermanica e antifrancese

La reazione italiana alle tesi di Strzygowski fu preceduta dalla rea-

zione al primato germanico negli studi durante gli anni della grande

guerra. In un pamphlet nazionalistico intitolato L’Italia e la civilta

tedesca del 1915, Ojetti lamento il poco patriottismo della subordina-

zione culturale degli studi alle metodologie germaniche:

‘‘Quasi tutti i popoli d’Europa sono in piedi, coperti d’arme e disangue, tesi a difendere o a riconquistare con uno sforzo supremo iloro confini politici e forse a raggiungere i loro confini etnici o naturali.E lecito a noi italiani definire almeno i confini ideali dell’arte nostra edella nostra civilta?’’.

Dunque, dopo l’invasione del romanticismo tedesco e la reazione

classica ‘‘calda, franca e convinta’’ e il momento di respingere le altre

mode filogermaniche: persino i classici latini ed il greco vengono fatti

LA DIFESA DELL’ARTE PATRIA

2U. Ojetti, L’Italia e la civilta tedesca (Milano, 1915); i brani riportati sono alle pp. 5 e

25.3

Su Paquali e De Sanctis vedi G. Mastromarco, “Il neutralismo di Pasquali e De

Sanctis”, in Matrici culturali del fascismo (Bari, 1977), pp. 125-141. Sulle posizioni degli

intellettuali, soprattutto degli antichisti, negli anni prima e durante la grande guerra e nel

periodo del fascismo: M. Pavan, “Gli antichisti e l’intervento dell’Italia nella prima guerra

mondiale”, Rassegna Storica del Risorgimento 51 (1964), pp. 71-78; L. Canfora, “Classicismo

e fascismo”, in Matrici culturali del fascismo, pp. 85-111; M. Cagnetta, Antichisti e impero

fascista (Bari, 1979). Un’altra reazione alla filologia germanica nella critica d’arte e in P.

Mastri, “Le due critiche”, Il Marzocco 1, n 14 (3 maggio 1896), p. 1, citato da E. Garin, La

cultura italiana tra ‘800 e ‘900 (Bari, 1962):

“La vera indiscutibile superiorita della critica soggettiva [sulla critica oggettiva o storica] e

data da un’altra differenza anche piu sostanziale – questa: che essa e immensamente piu

sincera, quindi piu sicura. Il critico che si limita a descrivere se stesso in contatto con

l’opera d’arte e molto meno soggetto ad errori, per la ragione che noi siamo molto piu sicuri

delle nostre impressioni che non dei nostri giudizi.”.

imparare sulle edizioni e le grammatiche tedesche (tipo Curtius).

Seguendo i colleghi tedeschi, i professori universitari espongono, non

giudicano, gli scolari credono inutile e pericoloso il giudizio, cioe il

gusto, l’arte e un documento non opera dello spirito:

‘‘Anzi, spesso odiano l’arte, stanchi, che nessuno ha mai detto loro cheuna poesia o un quadro sono individui vivi, prossimo loro, spirito delloro spirito. L’arte e tutt’al piu un documento, e i documenti sonoun’opportuna materia di tesi. Testi senza errori, bibliografie senzalacune, monografie senza divagazioni: ecco le norme. (...) L’universitaitaliana e oggi una colonia tedesca.’’

2.

Gli intellettuali piu legati alla cultura tedesca, come Benedetto

Croce, Gaetano De Sanctis e Giorgio Pasquali, non seguirono Ojetti

e gli altri ne nell’interventismo ne nelle forme antigermaniche del

nazionalismo culturale postbellico. Reazioni alle indagini filologiche

delle opere d’arte non erano comunque una novita di Ojetti3. Soffici,

pure definito da Croce ‘‘in fondo, un bravo giovane, facile all’entu-

siasmo e al controentusiasmo’’, e esempio di sciovinismo e protoraz-

zismo; in ‘‘Relativismo e politica’’ del 1922 mette in guardia dal

‘‘subdolo lavorio che si sta facendo dall’armistizio in qua presso di

noi ed in alcuni paesi stranieri, da sedicenti letterati ed artisti per

ricondurre in onore teorie e forme letterarie e pittoriche di pura

derivazione germanica’’; una offensiva filosofica complementare alla

palese offensiva industriale, della quale la punta sarebbe rappresen-

tata dall’introduzione e diffusione rapida della ‘‘dottrina del relativi-

smo, fondata da un gruppo di tedeschi e d’ebrei, o d’ebrei tedeschi,

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

4A. Soffici, “Relativismo e politica”, Gerarchia 1 n 1 (1922), p. 29. Per il giudizio di

Croce su Soffici, vedi La critica e la storia delle arti figurative, pp. 164-166.5

A. Maraini, “Influenze straniere sull’arte italiana d’oggi”, Bollettino d’Arte del Ministero

della Pubblica Istruzione 1 (1921-1922), pp. 511-527. Della relativamente ricca bibliografia

su questo periodo artistico vedi: C. Maltese, Storia dell’arte in Italia 1785-1943 (Torino,

1960), Parte III, pp. 319 sgg. ; R. Bossaglia, Il Novecento Italiano. Storia, documenti,

iconografia (Milano, 1979. 2a ediz., Milano, 1995); P. Fossati, “Pittura e scultura fra le due

guerre”, in Storia dell’arte italiana, Parte seconda, Dal Medioevo al Novecento, 3, Il Novecento

(Torino, 1979), pp. 173-259 e “Intorno al 1920”, Prospettiva nn 57-60 (aprile 1989 –

ottobre 1990), pp. 468-484; i saggi che accompagnano il catalogo della mostra Il futuro alle

spalle. Italia Francia – L’arte tra le due guerre, Roma, Palazzo delle Esposizioni, 22 aprile – 22

giugno 1998, a cura di Federica Pirani (Roma, 1998) e in particolare M. G. Messina,

“Valori plastici, il confronto con la Francia e la questione dell’arcaismo nel primo dopo-

guerra”, pp. 19-25; inoltre: G. Armellini, “Fascismo e pittura italiana. I: Carra, Sironi,

Rosai”, Paragone 23, n 271 (settembre 1972), pp. 51-68; E. Pontiggia, “L’idea del classico.

Il dibattito sulla classicita tra pittori, critici e riviste”, in L’idea del classico 1916 – 1932,

Milano, Padiglione d’arte contemporanea, 8 ottobre – 31 dicembre 1992, catalogo della

mostra (Milano, 1992), pp. 9-43, spec. pp. 10-11; F. Tempesti, Arte dell’Italia fascista

(Milano, 1976), pp. 11-28. La citazione di Boccioni e da “Per l’ignoranza italiana.

Sillabario pittorico”, p. 179.

con a capo Einstein’’4. Ancora nel 1921, tuttavia, Londra, Parigi e

Vienna erano considerate le citta dalle quali dipende l’arte italiana

contemporanea, la capitale austriaca soprattutto per via di Klimt.

Pochi anni prima della guerra, anche il primato parigino era stato

messo in discussione dagli artisti italiani, in primo luogo da Marinetti

e futuristi, Carra e Soffici; Boccioni ammetteva invece il disprezzo

con cui si parlava dell’arte italiana all’estero:

‘‘Da troppo tempo l’Europa si rifiuta di considerarci come contempo-ranei. Confessiamo il disprezzo con cui si parla dell’arte italianaall’estero. Quattro secoli di oscurita politica ed estetica ci hanno resocompletamente estranei ad ogni evoluzione artistica.’’

5.

Avversione per la Francia e per i movimenti artistici prodotti da

Parigi, nuova Babilonia, nuova Babele, moderna Bisanzio, fu provata

da Carra subito dopo la fine della guerra:

‘‘Dall’altra parte, lasciando da parte ogni altro discorso, riteniamo che,per quanto riguarda i suddetti attributi [dolcezza, soavita e profonditadi costruzione], l’ideologia francese e quella germanica abbiano nonpoco abusato putrefacendosi, la prima nel «joli», che si potrebbedefinire la degenerazione della grazia, e l’altra nella mania di fareprofondo – cose del resto comuni anche agli artisti italiani. (...)Non occorre dilungarsi sui contrasti di gusto che esistono fra noi e ifrancesi, ancorche ci potesse sembrare giusta la calata dei Fauves edegli altri ottentotti di Montmartre, ma non possiamo non riconoscere

LA DIFESA DELL’ARTE PATRIA

6C. Carra, “L’arte parigina. Rousseau, Matisse, Derain”, La ronda 1, n 7 (novembre

1919), p. 86. Vedi anche la lettera di Carra a Soffici del 7 febbraio del 1918 (“La lettera che

ti avevo scritto voleva appunto affermare il nostro bisogno di italianita. Abbasso il cosmopo-

litismo artistico! abbasso il mal francioso! (...) Abbasso i giovani alla francese con tutte le

loro imbecillita provinciali!.”) e quella di Soffici a Carra del 6 dicembre successivo (“La

Francia, incomprensibilmente per me, si comporta malissimo verso l’Italia (che l’ha salvata)

in questo momento. Avrai saputo qualcosa circa alle loro trame con i serbi per crearci dei

pasticci e darci dei gatti a pelare.”), pubblicate in C. Carra e A. Soffici, Lettere 1913 / 1929,

a cura di M. Carra e V. Fagone (Milano, 1983), pp. 110 e 122 rispettivamente.7

Corra elenco poi le dissolutezze di Parigi nella critica dei moralisti e ben pensanti e

passo alle lodi della citta: B. Corra, Per l’arte nuova della nuova Italia (Milano, 1918),

citazione da p. 105. Tra i critici della Francia e anche A. Savinio, “Fini dell’arte”, Valori

plastici 1, nn 6-10 (giugno-ottobre 1919), pp. 17-21.8

Soffici, Periplo dell’arte, pp. 27-33; brani nel testo da pp. 32-33.

che opinioni mal fondate trovano sempre grande seguito nella Bisanziomoderna, per cui addimostrano soverchia ingenuita coloro che da noicontinuano a dare importanza a certi movimenti che cola sorgonoperiodicamente per ragioni mercantili.’’

6.

Questa avversione per Parigi e l’affermazione che l’arte francese

era ormai in decadenza divenne un topos tra gli italiani, tanto che

Bruno Corra, un futurista, scrisse controcorrente nel 1918 che

‘‘Esiste uno schema fatto, indubbiamente noto ad ogni lettore di gior-nali, per un articolo sulla Francia. Parte prima: descrizione di Parigi,citta dissoluta e babelica; (...); parte quarta: Parigi non e che unprodotto della corruzione internazionale (...).’’

7.

Dopo l’iniziale innamoramento per la pittura francese, Soffici si

unı al gruppo dei piu accaniti e rozzi critici della Francia contempo-

ranea. Il suo Periplo dell’arte. Richiamo all’ordine, del 1928, ha un

capitolo sul ‘‘Decadimento dell’arte francese’’:

‘‘la Francia, custoditrice gelosa per tutto il XIX secolo della immortalefiamma del genio latino, per non avere, come e detto, saputo poiattenersi alla propria essenza spirituale, trovasi ad essere in pienasoggezione di una forza nemica. (...) Invasa da intere legioni di pittorimetechi-tedeschi, scandinavi, svizzeri, russi, polacchi, balcanici, ar-meni, americani, giapponesi, affricani, in gran parte ebrei, dominatadal ciarlatanismo universale, percorsa da tutte le correnti dell’errorebarbarico, come un paese di conquista fatto crogiolo per le esperienzepiu stolide e disperate, essa non ci presenta ormai se non lo spettacolodi una piena e totale decadenza creativa.’’

8.

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

9A. Soffici, Ritratto delle cose di Francia (Roma, 1934-XII), p. 103:

“Al francese di Francia si mescola cosı nel crogiuolo parigino, oltre che il russo, il

tedesco, l’inglese, l’italiano, lo spagnuolo, ecc., l’immigrato dall’estremo Oriente, dall’Ame-

rica del Nord e del Sud, dalla Patagonia, l’ebreo levantino, il pellirossa, il cafro, genıa

composita che l’ospite battezza col nome spregiativo di metechi senza peraltro evitarne la

contaminazione, e magari l’ascendente”. Le altre citazioni nel testo sono dalle pp. 11 e 93. I

capitoli “Trafila del meretricio” e “Sfruttamento del meretricio” sono alle pp. 67-71 e

72-78 rispettivamente.10

M. Sarfatti, Dux (Milano, 1926). Sulla Sarfatti: R. Lambarelli, “Margherita Sarfatti e

la supremazia dell’arte italiana”, in Il futuro alle spalle, pp. 71-74; Da Boccioni a Sironi: il

mondo di Margherita Sarfatti, Brescia, Palazzo Martinengo, 13 luglio – 12 ottobre 1997,

catalogo della mostra, a cura di E. Pontiggia (Milano, 1997).

In Ritratto delle cose di Francia, del 1934, Soffici ripete nei con-

fronti dei Francesi l’accusa di popolo bastardo (qui i metechi francesi

sono ‘‘l’ebreo levantino, il pellirossa, il cafro’’, oltre a vari popoli

europei); ossessionato dal dimostrare la decadenza morale dei Fran-

cesi dopo la guerra, Soffici li definı freddi, crudeli, brutali, corrotti,

maneschi, crapuloni. Piu capitoli sono dedicati agli omosessuali, alle

prostitute, ‘‘insensibili ed utilitaristiche’’, ed alle donne in genere,

che, perverse eroticamente, praticano il tribadismo, abusano di afro-

disiaci e stupefacenti; abbondano le coppie lesbiche, le eteromani, le

fumatrici d’oppio e la mangiatrici d’haschisch; le donne usano anche

la coca; mentre tra gli uomini ‘‘sono legione i pederasti, i sodomiti’’.

Un capitolo e poi dedicato alla ‘‘Trafila del meretricio’’, un altro allo

‘‘Sfruttamento del meretricio’’. In conclusione, ‘‘quel che di meglio

realizza l’arte francese non e una pura espressione del genio nazio-

nale, sibbene il riflesso, il prodotto dello studio (sagacissimo, intelli-

gentissimo, fecondissimo, invero) delle manifestazioni del genio stra-

niero’’, come si puo vedere in David, Delacroix, Daumier, Cezanne,

Degas, Rodin, tutta gente d’ispirazione aliena e remota dalla naturale

francese (e tutti artisti non della generazione contemporanea)9.

b. La definizione di un’arte nazionale

L’avvento del fascismo porto al trionfo il nazionalismo culturale. Il

‘‘Convegno per le istituzioni fasciste di cultura’’ o ‘‘Convegno per la

Cultura Fascista’’ di Bologna, del 27-30 marzo 1925, fu presieduto

da Giovanni Gentile ed ebbe interventi dell’archeologo Giulio Qui-

rino Giglioli (‘‘Sviluppi e tendenze delle ricerche in relazione alle

finalita storiche e nazionali del Fascismo’’), della giornalista e critica

d’arte Margherita Sarfatti, fascista della prim’ora e futura autrice

della popolare biografia di Mussolini Dux10

, (‘‘L’arte nell’economia

LA DIFESA DELL’ARTE PATRIA

11Gli elenchi delle adesioni al Convegno di Bologna e al Manifesto crociano sono in E.

R. Papa, Storia di due manifesti. Il fascismo e la cultura italiana, con un saggio di F. Flora

(Milano, 1958), pp. 45-47 e 97, rispettivamente.12

Marinetti et alii, Arte fascista. Elementi per la battaglia artistica (Torino [dopo il 1927]),

sopratutto pp. 13-15. Lo stesso scritto apparve col titolo “L’arte fascista sara futurismo piu

o meno audace”, L’arte fascista 2 (1927), pp. 5-6.

nazionale’’), di Ardengo Soffici (‘‘Il fascismo e l’avvenire dell’arte’’),

di Giuseppe Bottai, il futuro ministro fascista (‘‘Sulla funzione e

finalita dei centri nazionali di cultura’’), di Filippo Tommaso Mari-

netti (che propose la creazione di un sistema di credito finanziario

per gli artisti), di Ojetti e del grecista Ettore Romagnoli, personaggi

la maggior parte dei quali parteciparono alla polemica su Bisanzio e

Roma degli anni Venti e Trenta. Tra gli studiosi che aderirono al

convegno furono Pericle Ducati, Lionello Venturi e Gioacchino

Volpe; aderı anche Giovanni Treccani il futuro patrono della Enciclo-

pedia Italiana.

Varie adesioni di antichisti e storici dell’arte ebbe il ‘‘Manifesto

degli intellettuali fascisti’’ che uscı dal convegno. Molti piu intellet-

tuali e maggiormente titolati, come riconobbe la stessa stampa filofa-

scista, seguirono invece Croce e aderirono al ‘‘Manifesto degli intel-

lettuali antifascisti’’ da lui promosso, che fu pubblicato su Il Mondo il

primo maggio 1925; tra questi figurarono Pasquali ed Emilio Cec-

chi11

. Per il suo neutralismo, antifascismo e germanofilia, Croce

divenne uno dei bersagli preferiti degli artisti nazionalistici; in questa

denigrazione Marinetti si distinse per epiteti villani, quali ‘‘stonato

filofesso e germanofilo’’:

‘‘Benedetto Croce fu neutralista e germanofilo, consacro dei pomposiarticoli inutili a Goethe, mentre noi ci battevamo al fronte contro itedeschi. Fu e rimane lo stonato filofesso senza fiuto carico di libri epovero d’idee.’’

12.

Lo stesso Marinetti, tuttavia, che cercava di porre il futurismo

come arte del fascismo fu a sua volta ripetutamente contestato e

ingiuriato dagli artisti fascisti: Marinetti ‘‘faceva colazione a Milano

ma cenava a Parigi’’; la svolta italiana non era certo iniziata col

‘‘parolibero futurista’’, ma con l’impresa libica, con la ‘‘marcia dei

bersaglieri verso la morte gloriosa di Sciara Sciat’’; l’Europa invidio e

insidio allora l’Italia:

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

13Le frasi, due fra molte simili pubblicate in questo periodo, sono tratte da G. Manzella

Frontini, “L’arte fascista non sara l’arte futurista”, L’arte fascista 1 (1926), pp. 116-117, e

C. Bonavia, “Padri del fascismo”, L’arte fascista 1 (1926), pp. 76-77.14

Il telegramma di Mussolini, le adesioni, i resoconti dei discorsi e dei lavori del

convegno si trovano in forma estesa in Il Popolo d’Italia del 29 e 31 marzo e La Nazione del

2 aprile 1925.

‘‘Il fascismo nell’Uomo che lo ha plasmato – puro spirito umanistico,quasi dalla rinascita trasferito ai nostri giorni – (...) e classicismo, l’artenuova non sara che classica.’’.‘‘Il Fascismo e ordine, chiarezza, forza e virilita. L’arte futurista edisordine, oscurita espressiva, quindi debolezza, femminilita.’’

13.

Nell’ideale di un’arte fascista nuova, classica e virile, antifemmi-

nile, la Bisanzio di Teodora e Basiliola diveniva uno dei nemici

naturali. Il convegno fascista, tuttavia, non produsse che alcune

indicazioni generiche di rivalsa nazionalistica nella cultura, nono-

stante la stampa fascista lo propagandasse come ‘‘solenne afferma-

zione di fede e di intellettualita’’ e usasse titoli promettenti e retorici,

quali ‘‘Tempus edificandi’’, per i resoconti. Lo stesso Mussolini nel

telegramma inviato al convegno si augurava semplicemente che l’ini-

ziativa smentisse ‘‘in pieno e per sempre la stolta leggenda di una

pretesa incompatibilita fra intelligenza e Fascismo’’. Gentile ri-

chiamo i fascisti alla consapevolezza della forza e della necessita della

patria in tutti i campi della cultura. Fu promessa una enciclopedia

italiana che soppiantasse il primato del Larousse francese. Emilio

Bodrero, storico della filosofia e deputato fascista, lamento che nel

passato fosse stata scritta e insegnata una storia che abbassava se non

addirittura denigrava la romanita:

‘‘La nostra alta cultura alla vigilia della guerra’’ – come documentato,fu detto, da un libro memorabile di Romagnoli – ‘‘non e altro che unpallido riflesso della «kultur» germanica, la quale era essenzialmentenazionalistica e imperialistica e contribuı non poco a stringere ilpopolo tedesco intorno alle bandiere della Patria e a rafforzare in Italiail movimento neutralista e germanofilo. (...) Bisogna dunque fascistiz-zare la cultura, cioe nazionalizzarla, cioe sottrarla alle influenze e allesudditanze straniere.’’

14.

Come simbolo di vergogna nazionale, Giglioli, allora rettore

dell’Universita di Pisa, ricordo la tristissima condizione di avere il

catalogo dei musei capitolini affidato a un inglese e quello dei musei

vaticani a dei tedeschi, quando gli studiosi italiani non mancano:

LA DIFESA DELL’ARTE PATRIA

15Cf. J. T. Schnapp, “Epic Demonstrations. Fascist Modernity and the 1932 Exhibition

of the Fascist Revolution”, in Fascism, Aesthetics, and Culture, a cura di R. J. Golsan

(Hanover, 1992), pp. 1-37.16

Mostra del Novecento italiano (1923 – 1933), Milano, Palazzo della Permanente, 12

gennaio – 27 marzo 1983, Catalogo della mostra (Milano, 1983). B. Mussolini, Discorso

sul Novecento, in Il Popolo d’Italia, 16 febbraio 1926, p. 3 (“La Mostra del «Novecento

Italiano» inaugurata a Roma dall’on. Mussolini”).

Romagnoli, ad esempio, ‘‘uno dei piu insigni rappresentanti che

onora questo congresso’’.

Al Convegno di Bologna seguirono i primi passi del fascismo nel

campo della cultura, la fondazione dell’Istituto Nazionale di Cultura

Fascista nel 1925, della Accademia Italiana, dell’Opera Nazionale

Balilla e della rivista Critica fascista nel 192615

. In questo stesso anno,

Mussolini lodo la nuova arte italiana che appariva dalla Mostra del

Novecento a Milano nel suo discorso inaugurale riferito su Il Popolo

d’Italia del 16 febbraio (‘‘Il segno degli eventi c’e. Basta saperlo

trovare’’). Il Popolo d’Italia riporto poi anche la ottimistica nota

editoriale del filofascista Il Tevere dello stesso giorno:

‘‘(...) Ma e proprio vero che traccia non vi sia di Fascismo nella vitaartistica nazionale? (...) Ma questo ritorno alla classicita questo sforzoverso un linguaggio italiano, questa nausea della moda forestiera etutte le crisi che abbiamo visto vivere e gli esami di coscienza cheartisti maturi hanno compiuto strappandosi poi di dosso ricchissimeesperienze per ridursi poveri e semplici, non e questo Fascismo,almeno Fascismo come noi lo intendiamo? Se non altro per la volontadi essere italiani, esclusivamente italiani, a costo di apparire provin-ciali, il che ieri era colpa da far arrossire una statua.’’

16.

Una definizione dei principi di un’arte fascista fu tentata ancora

da Soffici nel gia citato Periplo dell’arte, che ebbe due edizioni nello

stesso anno (1928), la seconda raddoppiata di pagine. Nel capitolo

‘‘Arte fascista’’ Soffici propose un decalogo che contenesse ‘‘i prin-

cipi fondamentali, sostanziali e i caratteri spirituali propri di questo

grandioso moto spirituale che si chiama Fascismo’’; bastera per

individuarli ‘‘riferirsi ai discorsi ed alle norme fondamentali del

Duce, i quali e le quali insomma costituiscono i testi e le genuine

espressioni della dottrina fascista’’, che sono: la realta imprescindi-

bile della Patria; lo spirito di religione da opporre al materialismo,

che per gli italiani deve essere il cattolicesimo; la tradizione che

significa anche orgoglio di stirpe e continuita di storia; il Fascismo

come ritrovamento dell’ordine del popolo italiano quale creato da

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

17A. Soffici, Periplo dell’arte. Richiamo all’ordine (Firenze, 1928-VII

2), citazioni nel testo

dalle pp. v-vi, 151-154; i capitoli “Del colore” e “Arte fascista” sono alle pp. 211-218 e

237-245 rispettivamente; alcune pagine di “Arte fascista sono ristampate in P. Barocchi,

Storia moderna dell’arte in Italia. Manifesti polemiche documenti, 3/1, Dal Novecento ai dibattiti

sulla figura e sul monumentale 1925 – 1945 (Torino, 1990), pp. 26-29.

latinita e cattolicesimo; il Fascismo come realismo e non misticismo

visionario, chiarezza e non barbarica infatuazione; il Fascismo come

ruralismo nemico del panindustrialismo. Poste queste premesse mus-

soliniane, stilo la lista dei principi dell’estetica fascista:

1) l’arte fascista e arte nazionale italiana, non internazionalista,

distinta da quella che si ispira a forme estetiche straniere e

che e fondata su astrattezze (estranee alla mentalita naziona-

le);

2) l’arte fascista e animata da religiosita e austerita spirituale;

del cattolicesimo rispecchia grandiosita, nobilta morale, bel-

lezza di forme, equilibrio e misura nell’espressione plastica; le

e estraneo il materialismo, cioe il sensualismo cromatico;

3) l’arte fascista e fedele alla tradizione italiana e non si trastulla

in arcaismi, primitivismi, bubbole accademiche;

4) l’arte fascista ritrova i caratteri propri dell’italianita quali

permangono dall’epoca dell’arte greco-romana al secolo

XIX.

Seguono altri punti che qui non interessano17

. Vista come orto-

dossa (non cattolica), forestiera, sensuale e cromatica, primitiva,

mistica e visionaria, l’arte bizantina non poteva corrispondere ai

requisiti estetici di Mussolini e Soffici.

c. Contro l’Oriente, contro i barbari, contro Strzygowski

Subito dopo l’incendio di Smirne del 1922, ultimo episodio della

disfatta del corpo di spedizione greco nella guerra greco-turca, Mus-

solini commento la vittoria kemalista su Gerarchia, la rivista politica

da lui fondata, accostando Russia e Grecia all’impero di Costantino-

poli, sinonimo di caos, crudelta, paradosso, squilibri e rassegnazione.

Nella stessa rivista, sulla scia dell’annessione del Dodecanneso, altri

articolisti inneggiavano alla via italiana verso l’Oriente. Tuttavia,

l’ostilita verso la Grecia non fu il motivo primo della ostilita culturale

LA DIFESA DELL’ARTE PATRIA

18B. Mussolini, “La luna crescente”, Gerarchia 1 (1922), p. 477 e 479: “Nemmeno il piu

fantasioso ed estremista fra gli imperialisti greci puo, ora [cioe dopo la presa di Smirne da

parte delle truppe kemaliste], pensare a un ritorno della Grecia a Smirne, o, come si

vagheggiava, a Costantinopoli. (...) Dietro la Russia dei Romanoff, affiorava Bisanzio – con

il caos, la crudelta, il paradosso, gli squilibri, la rassegnazione di Bisanzio – dietro la Russia

di Oulianoff [Lenin], spunta la grinta senza baffi del capitano d’industria occidentale.”. La

via italiana a Oriente e auspicata, ad esempio, sullo stesso fascicolo di settembre di

Gerarchia da A. Signorelli, “La guerra nell’Asia Minore”, p. 488 e da F. Di Pretoro, “L’Asia

Minore e l’Italia attraverso la storia”, sul fascicolo di novembre della rivista, p. 613. Il

giudizio di Croce e dai Marginalia alla terza edizione di B. Croce, Teoria e storia della

storiografia (Bari, 1927), pp. 313-314: “Alla critica storica accade spesso d’apparire non

abbastanza amica del patriottismo o nazionalismo, e di ricevere pero cattive accoglienze e

maltrattamenti. Per non andar lontano, se alcuno volesse provarsi oggi, in Italia, a

rammentare che la storia di Roma non e la storia d’Italia, che gl’italiani odierni non sono i

figli di Roma, che la Roma dell’Impero non puo fungere da ideale di forza e di grandezza

perche rappresenta invece la lenta e indarno infrenata decadenza di una societa e di un

organismo statale, e simili ovvie verita della critica storica, si sentirebbe subito attorniato e

avvolto da un coro musicale tutt’altro che di lieto suono.”.19

Exhibition of Italian Art 1200-1900, London, Royal Academy of Arts, Burlington

House, Piccadilly, 1 gennaio – 8 marzo 1930, catalogo della mostra (London, 1930); F.

Haskell, “Botticelli, Fascism and Burlington House. The ‘Italian Exhibition’ of 1930”, The

Burlington Magazine 141 (1999), pp. 462-472.20

Il primo numero di Documents. Doctrines Archeologie Beaux-arts Ethnographie uscı

nell’aprile 1929.

verso Bisanzio e l’Oriente: il motivo fu l’affermazione della suprema-

zia sull’Oriente di Roma antica, della quale i fascisti proclamavano

l’Italia moderna emula ed erede; uno sbandieramento di patriottismo

che offendeva la verita della critica storica, come ribadı Croce18

.

Il primo gennaio del 1930 fu inaugurata a Londra, alla Royal

Academy, la grande mostra Exhibition of Italian Art 1200-1900, per

la quale Mussolini, alla ricerca di prestigio internazionale per il

fascismo, invio alcuni tra i piu celebri capolavori delle gallerie italia-

ne19

. Il Giornale d’Italia pubblico ampi resoconti della mostra tra

gennaio e febbraio e, contemporaneamente, sfrutto il successo mon-

diale che la mostra stava riscuotendo per lanciare una campagna di

stampa a sostegno dell’arte italiana antica e moderna e contro i suoi

denigratori interni ed esterni. Questi denigratori furono indicati in

Strzygowski, Toesca, Lionello Venturi e la redazione di Documents,

una rivista di etnografia, musica e arti, dalla africana a quelle sumera,

cinese, popolare e contemporanea di impressionisti e postimpressio-

nisti, alla quale collaboravano studiosi e artisti di varia estrazione e

interessi: oltre a Strzygowski e Toesca, Georges Bataille, Carlo

Carra, Jean Ebersolt, Carl Einstein, Erwin Panofsky, Andre Malraux,

Fritz Saxl, Royall Tyler, Georges Wildenstein20

. L’archeologo Ro-

berto Paribeni (che fu forse l’ispiratore degli attacchi su Il Giornale

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

21La serie di articoli pubblicati sul Giornale d’Italia sono: G. Bellonci, “L’arte italiana

assalita e difesa”, 21 gennaio, p. 3, dal quale sono tratti i seguenti due brani:

“Uno storico inglese, pochi giorni innanzi che fosse aperta al pubblico la Mostra di

Londra, credette necessario ricordare ai suoi lettori che «la pittura non era un’arte perduta

prima del secolo XII» quando i toscani si vantarono d’averla riscoperta. E soggiunse le lodi

dell’arte bizantina, la forza della quale, egli diceva, dovrebbe essere compresa facilmente

«oggi che assistiamo a Parigi e altrove alla rinascita di un’arte non naturalista, di conven-

zione, e di origine senza dubbio orientale». E a Parigi, infatti, vede la luce da qualce mese

una rivistuola di archeologia e di arte – Les documents – che ha per direttori e collaboratori

tutti i piu illustri studiosi dell’oriente bizantino, del mezzogiorno affricano, e di quanti altri

punti cardinali abbia l’arte non romana e non italiana antica e moderna. E questi uomini di

buona volonta, dallo Strzygowski al Contenau, dall’Einstein ai critici dell’impressionismo e

del postimpressionismo continuano concordi quella guerra a Roma e all’Italia che dura

ormai da alcuni decenni e che vorrebbe toglierci un primato riconosciutoci da molti secoli.

Alti, su le loro cattedre, vigilate dalla dea Scienza, gridano al mondo che i romani non

ebbero nessuna originalita, bensı presero dai greci e poi dagli alessandrini e finalmente dai

popoli dell’Asia Minore, della Siria e della Mesopotamia tutte le loro diverse forme di

architettura scultura o pittura; che gli italiani del Medioevo furono gli allievi provinciali dei

bizantini dei barbari e poi dei «gotici» di Francia (...). Via via, cancellate dalla storia i

capitoli su l’arte romana e su l’arte italiana medievale e sostituiteli con altrettanti capitoli su

l’ellenismo, l’arte cristiana d’oriente, il bizantinismo, il gotico, e, se volete esser proprio

d’Italia) e invece promosso ad esempio di studioso ’’coraggioso,

antimaniaco, dalla fine arguzia’’ da opporre a Strzygowski ed ai

’’maniaci nostrali’’. Le accuse di antiitalianita rivolte ai denigratori

espongono i capisaldi della critica nazionalistica antiorientalista e

antifrancese, che possono essere cosı riassunti:

1) da alcuni decenni Strzygowski ed i sostenitori dell’impressio-

nismo e postimpressionismo conducono una guerra a Roma

e all’Italia che vorrebbe togliere ad esse un primato ricono-

sciuto da secoli;

2) secondo costoro, i Romani non avrebbero avuto alcuna origi-

nalita, ma avrebbero preso dai Greci, dagli Alessandrini e dai

popoli dell’Asia Minore, della Siria e della Mesopotamia e in

particolare dagli Armeni tutte le loro diverse forme di archi-

tettura scultura o pittura;

3) costoro sostengono anche che gli Italiani del Medioevo sa-

rebbero stati gli allievi provinciali dei bizantini, dei barbari ed

infine dei «gotici» di Francia;

4) invece: la Francia moderna non e maestra all’Italia in arte;

5) una quinta colonna interna, che ha i suoi rappresentanti piu

noti in Toesca e Lionello Venturi ha adottato l’orientalismo e

le tesi di Strzygowski e considera l’arte moderna francese

come modello da seguire21

.

LA DIFESA DELL’ARTE PATRIA

precisi, gli stili sassanide copto mazdaista anticocroato (...). La piccola Armenia ebbe una

potenza di creazione artistica che Roma non ebbe.”. “L’arte «non naturalista, di conven-

zione, e di origine orientale», che fanno a Parigi, e che dovrebbe diventare, per forza di

moda, l’arte di tutto il mondo contemporaneo, ha una propria estetica, una propria critica,

una propria storia: se l’accettate dovete accettare anche le teorie del signor Strzygowski sui

romani antichi e su gli italiani del medioevo; e d’altra parte se riconoscete giuste queste

teorie dovete necessariamente dare alla Parigi dei nostri giorni la dignita di maestra. ” U.

Antonielli, “Dalli all’arte italiana”, 24 gennaio, p. 3, dal quale e tratto il seguente brano:

“Dunque, lo strzygowskianismo e un male di piu larga vibrazione. Quanto alla persona

dell’austriaco-slavo, o che so io, non preoccupiamoci, Roberto Paribeni, uno dei piu

coraggiosi ... antimaniaci, con fine arguzia ha detto che c’e da sperare bene; siccome quel

signore in caccia del berceau sta da tempo compiendo un affannoso viaggio, dalla Siria alla

Persia, dall’Egitto alla Cappadocia, all’Armenia, all’altopiano del Tibet..., considerando la

longitudine del suo viaggio, c’e da sperare che attraverso altre terre estreme esso finisca per

ritornare nel nostro Occidente! Non e il messianico orientalista che ci fa paura; ma sono i

maniaci di casa che ci fanno pena, e non per le loro corporali figure, ma per quel che ne

risulta, che piu delittuoso «disfattismo» io non saprei concepire.”. G. Bellonci, “Scienza

storica e spirito nazionale (L’arte italiana assalita e difesa)”, 25 gennaio, p. 3; C. Tridenti,

“L’arte italiana non va a scuola a Parigi”, 5 febbraio, p. 3 (quest’ultimo contro l’idea di

Venturi che gli artisti italiani dovessero soggiornare a Parigi come una volta facevano gli

artisti francesi a Roma). La campagna lanciata dal Giornale d’Italia e discussa estesamente

in M. Bernabo, “Un episodio della demonizzazione dell’arte bizantina in Italia: la campagna

contro Strzygowski, Toesca e Lionello Venturi sulla stampa fascista del 1930”, Byzantini-

sche Zeitschrift 93/2 (2001), pp. 1-10.22

La lettera e del 24 novembre 1930 ed e conservata nella Biblioteca Berenson di Villa I

Tatti, Settignano (Firenze).

Al tempo della mostra e della campagna di stampa Lionello Venturi

si era ormai trasferito a Parigi. Scrivendo a Berenson, Toesca com-

mento:

‘‘C’e stata nel Giornale d’Italia, una serie di articoli in cui ero presen-tato come un denigratore di Roma a beneficio di ... Bisanzio; e questacampagna scientifica – di liberazione dallo straniero – ha trovato la suapiu alta espressione in un volume di un certo Galassi (Roma o Bisan-

zio) edito dalla ... Libreria dello Stato. Sarei forse gia messo al confinose cio fosse in podesta di questi messeri che trascinano cosı vilmentegli studi nella politica, e a un certo punto sembrano far opera di agentiprovocatori. Per fortuna queste provocazioni, come i latrati dietro ilcancello, mi lasciano indifferente sebbene non favoriscano di certo ilmio desiderio di serenita. Ne, d’altra parte, io posso entrare in polemi-che con persone di mala fede e di nessuno studio.’’

22.

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

d. Il nemico e a Oriente: conformismi, idiozie evergogne bizantine

‘‘Erodoto parla dell’usanza di certi Sciti, che cavavano gliocchi agli schiavi perche nulla potesse distrarli dal battere illoro latte. Noi siamo come quelli schiavi, ai quali unmiracolo avesse ridonato la vista. Ne la frase sembri tropporetorica o eccessiva: giacche non e da valutarsi mai troppoalto il danno che la costrizione e il conformismo hannofatto in questi anni allo sviluppo intellettuale e spirituale.Danno tanto piu grave, male tanto piu profondo, se chi losubisce perde per atrofia la facolta di rendersene conto e dimisurarlo. Ed e con amarezza che bisogna riconoscere conquanta supina acquiescenza l’Universita abbia contribuito aquesto male. L’Universita ha una colpa ben piu profonda diquanto non si possa riparare con isolati atti di epurazione eio non esito a dire che vedo con preoccupazione quantinell’Universita non sembrano avere altra aspirazione cheriprendere la loro consueta vita, riannodare le fila delpassato, ritessere la vecchia trama, solo con qualche colorediverso.’’.Ranuccio Bianchi Bandinelli, ‘‘A che cosa serve la storiadell’arte antica?’’, 1945, pp. 10-11.

In breve, Il Giornale d’Italia ribadı soltanto alcuni assiomi della critica

fascista, conosciuti da tempo e che vennero ora gridati a gran voce

cercando di imporli ai recalcitranti critici italiani, grazie al buon

vento che spirava dopo il successo espositivo di Londra: Roma

antica, madre dell’Occidente, incarno ogni valore positivo; l’Oriente

(Bisanzio per prima) ed il Nord ogni valore negativo; Oriente e

protestantesimo nordico si contendono il titolo di anti-Roma. Com-

memorando, nell’ottobre del 1932, i fascisti del Gruppo Sciesa

caduti durante l’assalto alla sede dell’Avanti!, Mussolini affermo:

“Siamo circondati da nemici: ci sono i nemici palesi e quelli occulti.(...) Ci vogliono gli italiani ed in genere gli occidentali a bucare con glispilli della loro logica e della loro critica le grottesche vesciche delsocialismo internazionale. Forse, viste le cose sotto l’aspetto storico, euna lotta fra l’Oriente e l’Occidente: fra l’Oriente famoso [= fumoso],caotico, rassegnato (vedi la Russia) e noi, popolo occidentale, che nonci lasciamo trasportare eccessivamente dai voli della metafisica e chesiamo assetati di concreta, dura realta. Gli italiani non possono esserea lungo mistificati da dottrine asiatiche, assurde e criminose nella loroapplicazione pratica e concreta. Questo e il senso del fascismo italia-no.”.

Le polemiche pero degenerarono. Qualche pensatore fascista si

LA DIFESA DELL’ARTE PATRIA 101

23C. Galassi Paluzzi “Roma e antiroma”, Roma 5 (1927), pp. 437-441; l’albero genealo-

gico e a p. 441. L’attivita propagandistica della cultura fascista promossa dell’Istituto di

Studi Romani appare anche solo dall’elenco delle sue pubblicazioni (per il quale sono

debitore a Luciano Canfora): Istituto di Studi Romani, Catalogo delle pubblicazioni. Indice

analitico (Roma, 1941-XIX2). La frase di Mussolini e da: B. Mussolini, “Il discorso della

vigilia alla «Sciesa» di Milano”, La Rivista illustrata del “Popolo d’Italia” 10 n 10, ottobre

1932, pp. 8-11.24

Piu volte si tento di superare il conflitto tra Romanita e Germanesimo dopo la

proclamazione dell’asse Roma-Berlino; vedi, ad esempio, Romanita e Germanesimo. Letture

tenute per il Lyceum di Firenze, a cura di J. De Blasi (Firenze, 1941); con un farneticante

intervento della curatrice (“Romanita e Germanesimo”, pp. 391-400); tra gli altri interventi

quello di R. Longhi, “Le arti”, pp. 209-239. Vedi inoltre: J. von Schlosser, Magistra

Latinitas und Magistra Barbaritas (Sitzungsberichte der Bayerischen Akademie der Wissen-

schaften, Philosophisch-historische Abteilung, 1937/2. Munchen, 1937).

spinse a proclamare l’ebraismo come malattia originaria dell’Oriente

e l’illuminismo, il positivismo, la socialdemocrazia ed il comunismo

come progenie del protestantesimo nordico. I ragionamenti con cui

si argomentano queste tesi appaiono oggi servilismo intellettuale,

propaganda estranea ad ogni critica seria, deliri di pochi fanatici; in

verita, questi deliri sono costanti e frequenti nelle pubblicazioni

dell’epoca. L’albero genealogico riportato qui sotto fu tracciato da

Carlo Galassi Paluzzi, direttore della rivista Roma dal 1925 e diret-

tore ed animatore dell’Istituto di Studi Romani23

:

Strzygowski, il campione dell’Oriente contro Roma e dello spirito

dei popoli barbari del Nord che avrebbe fecondato i popoli mediter-

ranei divenne il nemico per eccellenza, il diavolo da esorcizzare.

Monotona dichiarazione d’apertura, la ricusazione di Orient oder Rom

e posta in testa alle trattazioni sulla romanita, l’Oriente e le invasioni

barbariche da ogni autore che voglia mostrare la propria condivisione

del decalogo culturale nazionalistico24

. Binomi alternativi furono pro-

posti in sostituzione a quello strzygowskiano Oriente o Roma: Roma

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

25G. Giovannoni, La tecnica della costruzione presso i Romani (Roma [1925]); L’architettura

come volonta costruttiva del genio romano e italico (Quaderni di Studi Romani. La Civilta di

Roma e i problemi della razza. [Roma] 1939-XVIII); discorso inaugurale in Atti del I˚

Congresso Nazionale di Storia dell’Architettura, [Firenze, Palazzo Vecchio,] 29-31 ottobre

1936-XV (Firenze, 1938-XVI), p. ix; G. De Angelis D’Ossat, “Sugli edifici ottagonali a

cupola nell’antichita e nel Medio Evo”, ivi, pp. 13-24.

o Bisanzio, Roma e Oriente, Oriente e Ellenismo, Oriente e Bisanzio;

italo-bizantino e italo-greco furono suggeriti in sostituzione di neoel-

lenistico per l’arte duecentesca. Molta colpa dell’attacco alla roma-

nita poteva essere attribuita a un qualche complotto giudaico-

sionista, bolscevico o protestante. La mancanza di valore critico di

queste trattazioni potrebbe farle ignorare, ma una succinta antologia

di esse serve a documentazione del provincialismo e in piu casi del

servilismo culturale degli studiosi del tempo. Va notato che la quasi

totalita delle trattazioni non cita passi dai libri di Strzygowski, i cui

testi sembrano conosciuti solo indirettamente:

- Gustavo Giovannoni, La tecnica della costruzione presso i Romani,

1925, uno dei suoi primi scritti sull’architettura romana ed in parti-

colare sulla tecnica di costruzione delle volte e cupole, esaltanti il

genio architettonico dei Romani, che ‘‘non si arresta a criteri astratti

e a quisquilie sofistiche, non fa filosofia per la filosofia e l’arte per

l’arte, ma tende sempre a scopi pratici e positivi’’, con rivendicazione

a Roma della invenzione degli schemi costruttivi degli edifici raven-

nati, bizantini, romanici, ecc. Le visioni romaniste in architettura di

Giovannoni, in particolare sulla origine romana degli edifici a cupola

in Oriente e nel Medioevo occidentale, sono riprese da vicino da

Guglielmo De Angelis D’Ossat. Nel 1938 Giovannoni, come presi-

dente del Primo Congresso Nazionale di Storia dell’Architettura in

Firenze, rendera omaggio ‘‘al sentimento di italianita che mai come

ora, al risorgere dell’Impero, vibra nei nostri animi’’, dileggiando il

‘‘gracchiare dei partigiani studiosi stranieri di origini ultramontane’’

come Gillet, Frey, Schlosser ed il farneticante Strzygowski. Giovan-

noni entro alla fine degli anni Trenta nelle file dei sostenitori del

genio della razza romana e italica e del razzismo in arte25

.

- Pietro D’Achiardi, ‘‘Roma e Oriente’’, 1926: ‘‘A questa impo-

stazione, errata, a nostro parere [di Oriente o Roma] noi sostituiamo

l’altra meno esclusivista Roma e Oriente, gia proposta dal nostro

illustre direttore alle Belle Arti Arduino Colasanti nella prefazione

alla sua grande opera sull’Arte Bizantina pubblicata nel 1912 [cioe

L’arte bizantina in Italia]’’. ‘‘Dall’Oriente pervennero a Roma ele-

LA DIFESA DELL’ARTE PATRIA

26P. D’Achiardi, “Roma e Oriente”, Roma 4 (1926), citazioni dalle pp. 3, 11-13.

27Galassi Paluzzi “Roma e antiroma”, citazioni dalle pp. 439, 441.

menti di altissimo valor decorativo, che portarono soprattutto ad una

grande preziosita di stile e ad un grande raffinamento nella policro-

mia. (...) Ma dall’Oriente vennero anche quei principi di immobilita,

di fissita, di esteriorita formale’’ che non avrebbero permesso la

fioritura del Duecento in Italia. ‘‘Fortunatamente, le infiltrazioni di

orientalismo nel mondo latino (...) troppo esteriori e sensuali, non

hanno mai modificato a fondo i caratteri peculiari della romanita’’.

Ora gli studiosi tedeschi pretendono di dimostrare che ‘‘dalle razze

barbariche deriva tutta la forza rigeneratrice e rinnovatrice di tutta

l’arte medievale’’. ‘‘Questa dell’Orientalismo era una delle teorie ri-

nunciatarie piu mortificanti, inventata dai dotti stranieri ad umilia-

zione della nostra romanita’’. Oggi purtroppo l’Italia e assente in

Oriente, mentre le altre nazioni vi hanno scuole archeologiche. ‘‘E

tutto cio in nome di una civilta nuova, di un nuovissimo orientalismo

anglicano-protestante, giudaico-sionista e greco-scismatico’’; dob-

biamo far risorgere i valori della nostra stirpe in nome della Roma-

nita; dobbiamo ‘‘porre un argine al bolscevismo della cultura e

dell’arte’’26

.

- Carlo Galassi Paluzzi, ‘‘Roma e antiroma’’, 1927: e il testo dal

quale e stato tratto l’albero genealogico riprodotto sopra; Galassi

Paluzzi da l’allarme di fronte al pericolo rappresentato dalla potenza

dell’oro ebraico; ‘‘che oggi, concretamente, il movimento giudaico

sia un caposaldo del piu vasto movimento «antiromano» e cosa

palese’’; ‘‘l’antiromanita e degli ebrei e non dell’ebraismo’’; ‘‘gli ebrei

si sono affiancati, ed hanno favorito il piu vero movimento antiro-

mano rappresentato dall’individualismo protestante’’27

.

- Roberto Papini, ‘‘L’Italia, l’arte e la critica’’, 1927: ’’Curiose

intromissioni politiche a fondo nazionalistico avevano finito per do-

minare nella storia dell’arte. Parallela al tentativo germanico d’espan-

sione verso Oriente era stata la svalutazione sistematica del ruolo di

Roma nell’eta imperiale e nel Medio Evo in favore dei centri artistici

d’Oriente, dall’Ellade alla Persia. L’arte romana e l’arte italica non

dovevano esistere se non come propaggini provinciali o pallidi riflessi

di quella dell’Oriente da cui veniva una luce obbligatoria’’. Ora

l’Italia, fatta di studiosi umanisti, non e caduta nell’eccesso opposto,

ma ‘‘ogni giorno contrappone la serieta e la pacatezza dell’indagine e

dell’osservazione alle intemperanze straniere nell’intento di rivalutare

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

28R. Papini, “L’Italia, l’arte e la critica”, Nuova Antologia 62, n 1316 (1927), citazioni

dalle pp. 144-145.

cio che era stato con ingiustizia mortificato’’. Strzygowski non fa

archeologia, ma ‘‘scienza politica’’. Seguono lodi a Pericle Ducati,

Alessandro Della Seta e Gustavo Giovannoni e critiche a Toesca e

Lionello Venturi28

.

- Giuseppe Galassi, Roma o Bisanzio, 1929. Questo fu forse il

lavoro piu impegnato nel ridimensionamento e nella romanizzazione

delle tesi di Strzygowski, citato in seguito, anche dopo la seconda

guerra mondiale, come manuale antistrzygowskiano di riferimento. Il

fatto che il libro di Galassi sia stato pubblicato dalla Libreria dello

Stato conferisce anche un crisma di ufficialita alle sue idee, come ben

chiaro a Toesca. Il libro fu stampato nel 1929-1930 (e datato solo

col computo fascista all’anno VIII e. f.), col sottotitolo I musaici di

Ravenna e le origini dell’arte italiana. Galassi individuo due correnti

contrapposte a Ravenna, una romana l’altra bizantina; da Giusti-

niano a oltre il Mille si sarebbe consolidata gradualmente la corrente

romana, ‘‘che divenne poi tutt’una cosa con l’arte romanica’’; dopo

Giustiniano l’arte dei Romani volse sempre piu al concreto e rimase

figurativa, mentre quella dei Bizantini trascese sempre piu l’espres-

sione visiva a vantaggio di un linguaggio ‘‘metafisico’’ (qui Galassi

allude senz’altro all’arte moderna: contro la pittura metafisica, a

favore del ritorno alla tradizione italiana); Roma assorbe il bizantini-

smo e continua il gusto dell’arte antica romana, cosı da costituire il

fondamento del linguaggio di Giotto e Dante (le letture di Galassi

dell’arte bizantina sono frutto di palese ignoranza o travisamento dei

fatti artistici fatto al fine di controbattere ogni interpretazione del

Medioevo artistico come periodo dominato da Bisanzio, tesi che e

frutto della ‘‘stranezza mentale del Toesca’’); il romanesimo dell’arte

romana e occidentale e dunque esaltazione della forma, volonta

costruttiva, gravitazione verso il concreto, ricerca di un mondo sta-

bilmente determinato (piu che una descrizione dell’arte romana,

sembra un ritratto degli ideali del fascismo); l’arte di Bisanzio e

dell’Oriente, invece, e esaltazione del colore, aspirazione decorativa,

gravitazione verso il sogno, ricerca di apparenze favolosamente e

musicalmente irreali. Un capitolo finale dal titolo ‘‘Roma o Bisanzio?

Conclusione: origini dell’arte italiana’’ riassume il problema della

italianita dell’arte medievale, cercandone i caratteri etnografici e

culturali e religiosi; sono indicati come italiani i caratteri della civilta

LA DIFESA DELL’ARTE PATRIA

29G. Galassi, Roma o Bisanzio, 1, I musaici di Ravenna e le origini dell’arte italiana (Roma,

a. VIII e.f. [1929-1930]), citazioni dalla Prefazione, da p. 264, da nota 12 p. 297 e passim.

Nel 1915 Galassi aveva invece usato per l’arte bizantina i termini spazio bidimensionale,

discentramento compositivo, effetto pittorico, visione antiplastica; la visione romana era

definita plastico-costruttiva (“Scultura romana e bizantina a Ravenna”, p. 29). Per il

giudizio di Toesca su Galassi vedi al Capitolo 7, paragrafo b.30

P. Marconi, La pittura dei Romani (Roma, 1929).

della forma e della tradizione cattolico-umanistica incarnati in

Giotto, Masaccio e Michelangelo e presenti in nuce nell’arte del

Medioevo; non e da dubitare, comunque, che ‘‘i modi costanti della

tradizione italiana’’ avessero avuto la loro origine in Roma, dove essi

furono ‘‘simbolicamente magnificati’’ dalle figure di Bruto, Scipione,

Catone e Cesare:

‘‘un mondo emerse [tra il Trecento e il Seicento] che aveva leggiorganiche non confondibili e severe. Precisione ed ordine; distinzione earticolazione; isolamento e compendio: definizione e gerarchia delleesistenze individuali: tali i modi costanti della tradizione italiana.[Questi caratteri erano gia apparsi in Roma] simbolicamente magnifi-cati in alcune figure d’uomini eminenti, diversi fra loro ma comple-mentari nella costituzione della «romanita», come quelle di Bruto e diScipione, di Catone e di Cesare. Basterebbe una tale identita, concessain sede teorica, per ravvisare in Roma la vera generatrice dell’arteitaliana.’’

29.

- Pirro Marconi, La pittura dei Romani, 1929: ‘‘E di molti il

lamento della posizione di dipendenza in cui e tenuta l’arte romana e

della sua sistematica svalutazione; e molti esprimono il desiderio che

si possa fissarne decisamente i valori ed i tanto alti risultati. Non

possiamo attendere che altri lo faccia; di noi italiani deve essere

questa opera di rivalutazione, la creazione di una base indipendente

agli studi della Romanita (...), noi italiani, che finora siamo stati

troppo reverenti di opinioni negatrici e volutamente denigratrici’’.

Seguono le lodi della genialita di Wickhoff e della sua (obsoleta)

valutazione dell’arte romana30

.

- Il I Congresso Nazionale di Studi Romani, 1929, con segretario

Carlo Galassi Paluzzi, ora Preside dei Corsi Superiori di Studi

Romani, con un intervento di Carlo Cecchelli su ‘‘Il problema

dell’«Oriente o Roma» alla luce delle scoperte e degli studi attuali’’:

uno studioso di archeologia cristiana e bizantina che, caso singolare,

disprezza l’arte di Bisanzio negando alcun valore a quella civilta,

‘‘grande emporio di residui’’, ‘‘fantasmagoria di luce che non illumi-

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

31C. Cecchelli, “Il problema dell’«Oriente o Roma» alla luce delle scoperte e degli studi

attuali (sunto di comunicazione)”, in Atti del I˚ Congresso Nazionale di Studi Romani (Roma,

1928-VII), 1, pp. 669-682, in particolare, p. 672:

Veramente, chi bene osservi la civilta bizantina, s’accorge che essa e una civilta di riflessi e

d’artificio. Roma sorge quando erano ancora intatti i valori delle civilta primitive. Bisanzio si

elevo a grande centro quando le antiche civilta sono nella parabola discendente ed hanno

maturato i loro frutti migliori. Bisanzio e un grande emporio di residui, una fantasmagoria

di luci che non illumina, un insieme originale per se stesso (dato il suo aspetto poliedrico)

ma non depositario di fermenti nuovi. Bisanzio tutt’al piu ridistribuisce i favori ricevuti

dall’Oriente e da Roma. Sotto questo aspetto potrebbero avere ragione quanti parlano di

un’arte cristiana orientale, anziche di arte bizantina.”.

Inoltre: Roma segnacolo di reazione della stirpe alle invasioni barbariche (Quaderni di Studi

Romani. La Civilta di Roma e i problemi della razza. [Roma] 1939-XVIII). La questione

ebraica e il sionismo (Quaderni di Studi Romani. La civilta di Roma e i Problemi della Razza

[Roma: Istituto Nazionale di Cultura Fascista, 1939-XVII]).32

N. Borgia, “La romanita di una badia greca”, in Istituto di Studi Romani, Atti del II˚

Congresso Nazionale di Studi Romani (aprile 1930), a cura di C. Galassi Paluzzi (Roma,

1931-IX), 2, pp. 79-86. Cf. G. M. Croce, La Badia Greca di Grottaferrata e la rivista “Roma

e l’Oriente”. Cattolicesimo e ortodossia tra unionismo ed ecumenismo (1799-1923) (Citta del

Vaticano, 1990).33

P. D’Achiardi, “Neoellenismo e neoromanita nella pittura medievale italiana”, in

Istituto di Studi Romani, Atti del III Congresso Nazionale di Studi Romani, a cura di C.

Galassi Paluzzi (Bologna, 1935-XIII), 2, pp. 30-38.

na’’: ‘‘Bisanzio puo tutt’al piu ridistribuire i favori ricevuti dall’O-

riente e da Roma’’; alla fine degli anni Trenta, anche Cecchelli

scrivera volumi razzisti per esaltare la stirpe romana31

.

- Il II Congresso Nazionale di Studi Romani, 1930: tra gli inter-

venti quello di Nilo Borgia, monaco della Badia greca di Grottafer-

rata, dal titolo ‘‘La romanita di una badia greca’’, nel quale viene

garantita la fede romana dei monaci della Badia32

.

- Il III Congresso Nazionale di Studi Romani, 1934, con inter-

vento di D’Achiardi su ‘‘Neoellenismo e neoromanita nella pittura

medievale italiana’’: da ‘‘Roma o Oriente?’’ si e passati a ‘‘Roma e

Oriente’’ ed anche a ‘‘Oriente o Ellenismo?’’ e meglio a ‘‘Oriente o

Bisanzio?’’ e ‘‘Ellenismo o Romanita?’’; si e dato nome di ellenistica

a tanta arte romana del periodo imperiale ed ora si vuole qualificare

come neoellenistica, da parte di Muratov, l’arte verso il secolo XII,

che e invece emancipazione dall’arte bizantina e prima arte italiana:

‘‘si vuol cacciare l’arte romana fuori di casa con i gendarmi del

prebizantino e del neoellenistico’’; per l’arte del secolo XII meglio

dire italo-greca o italo-bizantina, piuttosto che neoellenistica)33

.

- Il IV Congresso Nazionale di Studi Romani, del 1935, un

congresso oceanico, i cui atti occupano cinque volumi, intitolato ‘‘I

rapporti intercorsi nei secoli tra Roma e l’Oriente’’ fu dedicato per lo

piu al problema strzygowskiano ‘‘Orient oder Rom’’, con interventi

LA DIFESA DELL’ARTE PATRIA

34A. Munoz, Roma di Mussolini (Milano, 1935-XII); L’Urbe, 1 (1936).

35Istituto di Studi Romani, Atti del IV Congresso Nazionale di Studi Romani (I rapporti

intercorsi nei secoli tra Roma e l’Oriente) (Roma, 1935-XIII), 5 voll., a cura di C. Galassi

Paluzzi (Roma, 1938-XVI): G. Q. Giglioli, “L’arte di Roma e l’arte dell’Oriente nell’Anti-

chita”, 1, pp. 9-16; A. Munoz, “L’arte di Roma e l’arte dell’Oriente nel periodo paleo-

cristiano e medievale”, 1, pp. 18-25; P. D’Achiardi, “Neoellenismo e neoromanita nella

pittura medievale italiana”,, 2, pp. 30-38; C. Galassi Paluzzi, “Per l’organizzazione meto-

dica e per l’incremento degli studi riguardanti i rapporti intercorsi nei secoli tra Roma e

l’Oriente”, 2, pp. 54-59. Di Galassi Paluzzi vedi anche, pubblicato l’anno successivo al

congresso, “Gli studi romani e i rapporti tra Roma e l’Oriente”, Roma 14 (1936-XIV), pp.

303-316. Cito soltanto in nota, per la loro marginalita, alcune frasi da Cornelio Di Marzio,

“Il concetto romano nell’ordinamento delle professioni”, Roma 14 (1936-XIV), pp.

397-416:

di Giglioli (divenuto nel frattempo ordinario a La Sapienza), ‘‘L’arte

di Roma e l’arte dell’Oriente nell’Antichita’’ (Costantinopoli eretta

sul modello di Roma; la chiesa di Santa Sofia come sintesi di Oriente

e Occidente; Giustiniano emana in latino il Corpus juris, che e un

compendio di leggi romane; la civilta di Costantinopoli era pretta-

mente romana), Munoz, ‘‘L’arte di Roma e l’arte dell’Oriente nel

periodo paleo-cristiano e medievale’’ (discussione del problema ‘‘O-

rient oder Rom?’’; carrellata di opere medievali per asserire che nella

maggior parte dei casi non sono bizantine, che le opere bizantine si

distinguono facilmente dalle altre, che e meglio dire Oriente e Roma

piuttosto che Oriente o Roma per la formazione dell’arte bizantina

medievale – una soluzione gia nota –, che anche nel Duecento gli

influssi bizantini sono limitati ad alcune opere, che non si puo

parlare di bizantino per Duccio e Cavallini, che dei crocifissi toscani

non ce ne e uno che possa essere definito bizantino – rispetto ai suoi

scritti anteguerra pro-Bisanzio, anteriori agli incarichi ufficiali avuti

sotto il fascismo, Munoz appare uno dei casi piu palesi di apostasia,

oltre che di entusiasmo mussoliniano, come espresso nel libro Roma

di Mussolini del 1935 e nella rivista L’Urbe, da lui diretta dal 1936,

che vantava nel fascicolo inaugurale foto e dedica di Mussolini e

articolo di apertura scritto da Bottai34

–; infine ‘‘in ogni modo e da

compiacersi che il nostro amato Presidente abbia voluto porre questo

problema a base del nostro congresso’’), Galassi Paluzzi, ‘‘Per l’orga-

nizzazione metodica e per l’incremento degli studi riguardanti i

rapporti intercorsi nei secoli tra Roma e l’Oriente’’ (’’il nostro atteg-

giamento [verso gli studi sui rapporti tra Roma e l’Oriente] puo

riassumersi nella formula «Roma e l’Oriente» e non gia in quella che

antiscientificamente si e voluta creare di «Roma o l’Oriente»’’, che e

una formula antiromana dettata da ‘‘astiosi e partigiani apriorismi’’

che vuole negare a Roma il contributo dato all’umanita)35

.

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

“Non bisogna pensare che la storia di Roma, come Impero, finisca in quel famoso anno

in cui Romolo Augustolo scomparve. C’e, dopo, Giustiniano e tutto l’Impero bizantino.

Nelle nostre scuole, quando si studia l’Impero bizantino, si bada solo alle lotte degli

Iconoclasti e a quelle contro i Macedoni [sic]; mentre che tutto l’Impero bizantino e di

religione cristiana, spesso cattolica [sic], e di legislazione completamente romana. L’arte

bizantina e un’arte che deriva strettamente dai Romani”. Seguono critiche a Strzygowski; il

destino aveva voluto che le corporazioni bizantine istituite da Leone il Saggio [cioe il Libro

del Prefetto] corrispondessero non come terminologia, ne come attribuzioni, ma almeno

significativamente come numero (ventidue) alle ventidue corporazioni fasciste. Per quanto

possa apparire incredibile le analogie numeriche tra corporazioni bizantine e fasciste sono

riproposte tre anni dopo Di Marzio da A. P. Torri, “Corporazioni romane e corporazioni

bizantine”, Roma 17 (1939-XVII), p. 255: “Le corporazioni bizantine elencate nel «Libro

del Prefetto» sono ventidue – per strana coincidenza anche le corporazioni fasciste sono

ventidue”.

e. Soffici, Vasari moderno

‘‘[Soffici] Vasari moderno (...) interventista intervenuto(...), e certo l’artista, il maestro, cui si deve il rinnovamentodelle arti e della loro comprensione in Italia’’.

La Nazione, 1 marzo 1933-XI, p. 5

Ardengo Soffici e l’artista che piu incarno gli ideali artistici del

fascismo, o almeno di una delle sue anime, per tutto il ventennio.

Soffici fu il maestro e il precursore, il piu mussoliniano dei pittori

italiani, di cui la stampa fascista lodo la ‘‘dirittura di mente vigile, la

forza di carattere’’; oltre a proporre basi teoriche e decaloghi di

principi per l’arte fascista, ispirati alla pittura toscana, come un

Vasari della storiografia artistica contemporanea, Soffici fu l’artista

militante, l’interventista intervenuto; aveva aderito al fascismo fin dal

1918, scriveva sul giornale di Mussolini, Il Popolo d’Italia, ed aveva

ricevuto il Premio Mussolini dell’Accademia d’Italia. I suoi dipinti

erano esempio di naturalezza che Soffici oppone all’artificio ed all’ar-

bitrio. Fu il campione della rinascita della pittura italiana ed esem-

pio, con la toscanita della sua pittura, di ‘‘quella fedelta espressiva

che per intenderci con una frase d’obbligo, e chiamata italiana’’;

‘‘l’esperienze parigine di Soffici, come le esperienze di Carra, sono

una riconquista di elementi italiani, nell’orbita del gusto «europeo»’’;

dopo gli anni in cui la salvezza per l’arte pareva venire dalla Francia

‘‘venne la guerra a mettere un fermo nell’ordine temporale allo

sbandamento’’ e Soffici ritrovo nelle sue radici contadine toscane la

via alla pittura; ‘‘Don Chisciotte in Toscana’’ che combatte ‘‘contro i

mulini paesani che macinano farina forestiera’’, mostrando ‘‘un se-

LA DIFESA DELL’ARTE PATRIA

36Le citazioni sono tratte da L. Dami, “Il pittore Ardengo Soffici”, Dedalo 1 (1920), pp.

209, 212, G. Cioli, “Carra, Soffici e la rinascita della pittura italiana”, Il Giornale d’Italia, 6

febbraio 1930, p. 3, e “Ardengo Soffici. Vasari moderno”, La Nazione, 1 marzo 1935-XI, p. 5.

vero impegno di fedelta alla razza in cui affiorano antichi motivi

etruschi e mediterranei’’36

.

In Periplo dell’arte Soffici lamento il progressivo decadere dell’Eu-

ropa verso l’imbarbarimento ‘‘balcanico’’, elevo per dovere d’artista

e di cittadino un ‘‘richiamo all’ordine, all’ordine italiano’’, ed attacco

il primitivismo in arte, rappresentato da ‘‘le pitture tombali egiziane,

le miniature persiane, i pannelli cinesi e giapponesi, le grandi compo-

sizioni dei bizantini’’, composizioni emancipate dal realismo, nelle

quali si usano campi di colore uniformi delimitati da linee’’, con

‘‘esaltazione cromatica, musicalita, liricita’’:

‘‘il primitivismo (...) e nella totalita delle sue manifestazioni piu carat-teristiche, arte orientale, nata nel piu profondo oriente, continuatanell’oriente piu prossimo a noi, e importata nel nostro occidente soloin un periodo di decadenza, di transizione, di travaglio e lotta fra duemondi – il barbaro e il latino – quale fu l’alto medioevo.’’

Il primitivismo e ‘‘mera ornamentazione, ‘‘strumento di fasto, di

superstizione e di magia sepolcrale’’, ‘‘specchio di misticismo e di

simbologia teologica’’. Il primitivismo e di origine orientale ed oppo-

sto alla pittura italiana: ‘‘la pittura occidentale (ed in ispecie quella

italiana) comincia dove quello finisce, ed anzi ha origine proprio

dalla sua negazione.’’.

Quanto al colore, al quale e dedicato un capitolo a se, solo con il

crollo del mondo antico

‘‘l’esuberanza e la smaglianza coloristica fu introdotta dall’Orientebacchico nella decadente Bisanzio, e di qui nel nostro Occidentetravagliato dalla barbarie e deromanizzato dal Cristianesimo.’’.

Seguendo Vasari, Soffici pensava che Cimabue avesse dato i

primi lumi alla pittura:

‘‘la sua originalita ed italianita consistono in qualcosa che e in perfettocontrasto, ed anzi in opposizione, con le caratteristiche dell’arte bizan-tina e dei suoi maestri.’’.

Dopo Cimabue, Giotto lascio ‘‘le formule ieratiche e lo stilismo

fantastico della pittura bizantina’’: ‘‘il realismo, la plasticita, la verita,

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

naturale, l’oggettivismo inteso in senso latino e classico, ecco quello

che Giotto introdusse d’un colpo nella pittura’’; questi sono ‘‘i valori

dello spirito della nostra stirpe’’. Contadino d’origine, radicato nella

nostra razza millenaria, Giotto si riallaccia ‘‘per disopra la barbarie

occidentale’’ alla civilta greco-latina sommersa: ‘‘rigetta il bizantini-

smo e la sua barbarica pompa’’, restaura lo spirito e le forme

dell’antichita autoctona. Gli artisti che si richiamano ai primitivi

‘‘barattano l’anima e la tradizione occidentale per l’orientale’’, coo-

perano

‘‘a quello smantellamento dell’unita ideale europea, che e in atto dacirca un secolo e che rappresenta il delitto storico della nostra epoca.Ma se questa cosa e ammissibile per taluni popoli bastardi, inammissi-bilissima e, certo, e persino mostruosa per gli artisti italiani.’’.

Soffici getto cosı le basi ideologiche e storiche dei valori che

avrebbero dovuto perseguire gli artisti contemporanei per perpetuare

i valori della razza italiana di fronte all’imbastardimento di altri

popoli stranieri (in prima fila, chiaramente, i Francesi): antiprimitivi-

smo e antiorientalismo (soprattutto antibizantinismo, per via del

ruolo e delle responsabilita rivestite da Bisanzio nei confronti del-

l’arte occidentale), ritorno alla pittura contadina di Giotto (anche

questa come linguaggio latino che rigetta il bizantinismo), naturali-

smo e plasticismo opposti a ornamentazione, misticismo, ecc.

Ancora nel 1943 i valori reazionari della pittura di Soffici furono

additati come esemplari in un articolo firmato da Aniceto Del Massa

pubblicato sulla rivista Domus; sullo stesso numero della rivista

apparve anche, in contrapposizione, un panegirico dell’arte bizantina

come fonte dell’arte moderna francese sul quale si tornera piu avanti

(vedi Capitolo 9, paragrafo a). Nell’articolo (fig. 63) la toscanita

della pittura di Soffici e descritta come ispirata da schiettezza, spon-

taneita, rigetto delle ‘‘componenti ibride a tipo intellettualistico’’ che

fanno da surrogati dell’originalita; lode ai macchiaioli italiani che non

hanno da invidiare nulla agli impressionisti francesi nonostante certa

critica ‘‘sopraffina e miope’’ (probabilmente si allude tra gli altri

all’antipatriottico Lionello Venturi); fedelta al reale, ‘‘fedelta agli

spiriti e alle forme della tradizione italiana (intesa in senso vivo e non

libresco); in una parola: classicismo’’:

‘‘Niente di piu falso della fama di reazionario che gli hanno creatoalcuni settatori di un modernismo non soltanto internazionalizzantenel senso piu meschino, ma devirilizzato e straccione. A ridurre le

LA DIFESA DELL’ARTE PATRIA

37A. Del Massa, “Ardengo Soffici”, Domus n 184 (aprile 1943-XXI), pp. 189-191; la

citazione nel testo e da pp. 190-191. Il panegirico dell’arte bizantina e nell’articolo di R.

Giolli, “Espressionismo dei bizantini”, pp. 182-188. Su questi due articoli vedi M. Bernabo,

“L’arte bizantina e la critica in Italia tra le due guerre mondiali”, Romische Historische

Mitteilungen 41 (1999), pp. 42-44.38

A. Del Massa, “Ardengo Soffici”, Domus n 184, aprile 1943-XXI, pp. 189-191. Del

Massa era un critico nazionalista che, ad esempio, aveva scritto su La Nazione del 24 aprile

1937 un articolo dal titolo “Giotto e l’eta nuova” in cui lodava la classicita del pittore.

anarchie artistiche che mandano in estasi gli snobs aderenti a tutte leavanguardie, ai loro equivalenti morali, apparirebbe chiaro il sudi-ciume che si nasconde sotto i belletti, il marcio che si occulta sotto leapparenze piu seducenti’’

37.

Tra i quadri di Soffici riprodotti nell’articolo e Cucina toscana, un

piccolo poema con odor casalingo, ‘‘un altro buon pezzo di pittura,

(...) il povero contadino che ritorna alla terra dalla trincea con l’unica

ricchezza costituita dalla sua mantellina grigioverde al tempo in cui si

sfogava la canaglieria disfattista e bolscevica’’38

.

f. Cezanne italiano, Matisse bizantino: plasticismocontro colorismo

‘‘Siamo nella provincia italiana: un pittore (Costetti)consiglia un altro di disegnare, come fa lui da qualchetempo, con la sinistra, perche il segno venga piu incerto, ildisegno meno convenzionale e meno puro, creando errori,«si avvicini di piu ai primitivi».(...) La storiella del disegno fatto con la sinistra da ragione alcafonismo critico di Ugo Ojetti. Ma perche in Italia nessunocapisce o, meglio, vuol capire, che le cosiddette‘deformazioni’, il ‘primitivismo’, ecc. dell’arte modernaeuropea nascono da uno dei piu profondi tormenti spirituali,da una delle piu sofferte esperienze umane che la storiaregistri (...)? E mai possibile che in Italia tutto cio sia statospento dal conformismo tridentino perpetuatore, fino adoggi, dei languori alla Guido Reni e degli idilli alla Palizzi esoffocato dalle imbecillita che si seguitano a dire, e adessocon marchio ufficiale, sulla ‘tradizione’, sulla ‘stirpe’,ripetendo fino all’ottusita un repertorio dannunziano, delquale le nostre classi dirigenti non hanno ancora avvertito illezzo di cafone sudato, profumato di acqua di Colonia ed’incenso?’’Ranuccio Bianchi Bandinelli, Dal diario di un borghese, p. 31(febbraio 1929).

Mentre Cezanne fu sempre elogiato in Italia per i valori plastici della

sua pittura, Matisse, i Fauves, Van Gogh, Picasso, e quasi tutti i

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

39A. Soffici, “Bilancio dell’arte francese contemporanea”, Rete mediterranea 1, n 3

(settembre 1920), pp. 261-272; 1, n 4 (dicembre 1920), pp. 364-371; i giudizi riportati nel

testo sono alle pp. 272, 364, 368, 268.

pittori dell’avanguardia europea furono invece oggetto di denigra-

zione. I giudizi piu articolati sui pittori dell’avanguardia furono dati

su Cezanne e Matisse. La faziosita antifrancese porto a liquidare gli

altri pittori novecenteschi con ottusita di giudizio quasi incredibile:

di Van Gogh, ‘‘pittore mediocre’’, Soffici, in un ‘‘Bilancio dell’arte

francese contemporanea’’ del 1920 apparso sulla sua rivista Rete

mediterranea, profetizzo che sarebbe restato, ‘‘forse, tra i fenomeni

interessanti della decadenza artistica; ma la storia non lo mettera mai

neanche alla coda di qualche gruppo di veri maestri moderni. E, se

ce lo mettera, avra torto’’; Gauguin gli parve invece ‘‘il piu spiace-

vole equivoco’’, e Matisse ‘‘un delizioso, elegante decoratore’’ come

’’Benozzo Gozzoli rispetto a Giotto e a Michelangiolo’’, rimanendo

infine incerto su Picasso. Al contrario, Soffici ammira Cezanne e il

suo essere erede della ‘‘maschia solidita e succosita della pittura di

Poussin, di Courbet, di Millet, di Daumier e di Chardin, e che, con

termine generico ma abbastanza significativo, e percio comodo, si e

detta italiana’’39

. Le ottusita di Soffici furono condivise da altri;

Francesco Arcangeli si distinse per inadeguatezza critica e presun-

zione: Van Gogh, Gauguin e Picasso ‘‘non sono grandi pittori’’; per

fortuna, continua, oltre a lui stesso anche altri (cioe un tale Piero

Torriano) avanzano

‘‘dubbi assai fondati sulla portata dell’opera di Gauguin; ma, che iosappia, nessuno ha colto l’occasione per segnalare l’inconsistenza arti-stica di Van Gogh. (...) Egli resta il primo e maggiore responsabile deifenomeni di questo momento: la piu tenace, la piu dannosa radicemalata della giovane pittura italiana’’

I quadri di Van Gogh sono ‘‘incroci pressoche mostruosi tra

naturalismo e fantasia’’:

Chi buttasse all’aria il piumaggio di un volatile spennato otterebbe,all’incirca, l’effetto del ‘Boschetto dei cipressi’ del 1889. (...) Varra lapena, ancora, di infierire sul ‘Caffe ad Arles’, in alcune parti non piucommovente delle paglie intrecciate d’una seggiola?La sincerita piu alta, quella dell’opera, Van Gogh l’ebbe in misuratroppo scarsa per essere annoverato fra i grandi’’.

LA DIFESA DELL’ARTE PATRIA

40F. Arcangeli, “Della giovane pittura italiana e di una sua radice malata”, Proporzioni 1

(1943), pp. 85-98; citazioni dalle pp. 94, 96-98.41

F. Arcangeli, “L’alfabeto di Van Gogh”, Paragone 3, n 29 (maggio 1952), pp. 21-51;

“Picasso, ‘voce recitante’“, Paragone 4, n 47 (novembre 1953), pp. 45-77. Longhi, maestro

di Arcangeli, nel 1954 giudico invece Matisse genio unico come Picasso in “Matisse”,

L’Europeo 14 novembre 1954.42

G. Severini, Ragionamenti sulle arti figurative (Milano, 1936, 2a edizione aumentata,

1942), il brano riportato e a p. 215.

Lo stesso andrebbe detto per Gauguin e Picasso:

‘‘Un’altra volta, per la penna mia o di altri, dovra pur essere vuotato ilsacco anche su di lui [Picasso]. (...) nient’altro che il piu rapidoconiatore di cifre e di mode che per ora abbia veduto il nostro secolo.Un artigiano metafisico; un simulatore di genio’’

40.

Dopo la conclusione della guerra, Arcangeli torno davvero a

vuotare il sacco su Van Gogh in Paragone (la rivista di Longhi) del

1952 e su Picasso, ‘‘voce recitante’’, in Paragone del 1953, con

osservazioni che non vale la pena riportare nel testo, ma compiendo

un voltafaccia suggerito dalla mutata situazione dopo la disfatta del

fascismo: Van Gogh fu allora elogiato, mentre su Picasso rimase

‘‘una grave insoddisfazione, ancor piu che estetica, morale’’ (che

significa: sarebbe bravo, ma e comunista)41

. Anche se altri critici

espressero simili denigrazioni verso i pittori dell’avanguardia, le

opere di Cezanne e Matisse furono quelle piu problematiche e

meditate, come detto sopra. Severini giudicava Matisse artista di

tradizione bizantina, forse il piu grande pittore del suo tempo:

‘‘(...) il suo costante sforzo di mantenersi in unione di spirito e di‘mezzi’ con una lontana tradizione (che potrebbe essere quella diBisanzio) e la sua ‘qualita’ profonda francese, fanno di lui forse il piugrande pittore del nostro tempo, senza dubbio il piu ricco di sanoinsegnamento’’

42.

Quello che si detestava nell’arte bizantina come antiitaliano (o lo

si apprezzava) era soprattutto la sua astrazione, il suo cromatismo, il

suo antiplasticismo, che appaiono simili nelle opere di Matisse. I

critici nazionalistici giudicarono questi valori negativi; positivi, in-

vece, erano in primo luogo plasticismo e naturalismo. Le caratteristi-

che negative dell’arte orientale sono, per Soffici, luminosita, linee

soavi, calligrafiche e melodiose, vaporosita elegante, finezza, eleganza

di tratti, ricchezza cromatica; le caratteristiche positive in arte sono

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

43A. Soffici, “Cubismo e oltre”, Lacerba 1 (1913), pp. 10-11, 18-19, 30-32, specialmente

pp. 10 e 18. C. Carra, “Da Cezanne a noi futuristi”, Lacerba 1 (1913), pp. 99-101,

specialmente p. 100.44

M. Tinti, “Italianismo di Cezanne”, Pinacotheca 1 (1928-1929), p. 349. M. G[rassini]

Sarfatti, Storia della pittura moderna (Collezione “Prisma”, diretta da M. Sarfatti. Roma,

1930-VIII), citazioni da pp. 28, 31-32. Sull’apprezzamento di Cezanne in Italia: Longhi,

“L’Impressionismo e il gusto degli Italiani”, prefazione a J. Rewald, Storia dell’Impressioni-

smo (Firenze, 1949), pp. v-xxix.45

U. Ojetti, “Lettera a Lionello Venturi”, Pegaso 1/2 (1929), pp. 728-732. L. Venturi,

“Risposta a Ugo Ojetti”, L’arte 33, n. s. 1 (1930), pp. 93-97. Per Lionello Venturi vedi al

capitolo 8.

all’opposto sodezza di corpi e oggetti, peso, chiaroscuro, tragicita.

Per Carra, i Bizantini si limitarono al concetto di pure zone cromati-

che entro forme geometriche43

. Le caratteristiche positive in arte

sono realizzate da Cezanne, del quale si rivendica – necessariamente

– una genealogia italiana; la Sarfatti ne ufficializzo la italianita,

definendolo ‘‘un francese del Sud, di sangue semi-italiano (il nonno,

emigrando, aveva mutato in «Cezanne» il nome del suo paese d’ori-

gine, Cesena) inspirato dalle voci ataviche e dagli aspetti della sua

Provenza ellenica e romana’’. La stessa Sarfatti decreto l’italianita

anche di Picasso: ‘‘pittore dalla ascendenza latina curiosamente ve-

nata: Pablo Picasso, nato in Spagna di famiglia italiana e cresciuto a

Parigi’’, cosı da poter concludere che i migliori rappresentanti della

pittura moderna erano l’italo-francese Cezanne e l’italo-spagnolo

Picasso. Se non il cognome di Cezanne, comunque, la plasticita delle

figure, l’architettonicita e concretezza dei volumi, le espressioni eroi-

che e severe dei personaggi, venne fatta risalire all’Italia e alla grande

tradizione di Giotto Masaccio e Michelangelo. Cezanne e, insomma,

l’erede di Giotto e della migliore (piu plastica) pittura italiana; la

discussione su di lui va di pari passo in quegli anni con quella su

Giotto stesso. Cezanne, inoltre, fu detto cattolico di fede, non

panteista, ateo o materialista come gli impressionisti44

.

La polemica di stampa contro Toesca e Venturi sul Giornale

d’Italia su arte italiana e arte francese ed orientale, si svolse contem-

poranea ad una discussione sull’arte contemporanea tra Lionello

Venturi e Ugo Ojetti45

. Fu quest’ultimo ad aprirla con una ‘‘Lettera a

Lionello Venturi’’ pubblicata sulla rivista da lui diretta, Pegaso, nel

fascicolo del 1929. Ojetti, che aveva in mente gli interventi di

Venturi sull’arte contemporanea, tra i quali Pretesti di critica, uscito

nello stesso 1929, e Il gusto dei primitivi, uscito nel 1926 – riporto le

lodi di Venturi per Cezanne e la sua affermazione che, invece,

LA DIFESA DELL’ARTE PATRIA

46U. Ojetti, Bello e brutto (Milano, 1930).

47U. Ojetti, “Lettera a Lionello Venturi”, Pegaso 1/2 (1929), pp. 728-732, citazioni dalle

pp. 728 e 731; L. Venturi, “Risposta a Ugo Ojetti”, L’arte 33, n. s. 1 (1930), pp. 93-97,

citazioni dalle pp. 94-95 e 97. Di Venturi vedi inoltre: “Paesaggio e figura. Un problema

della mostra del Novecento”, Il secolo, 2 marzo 1926; Pretesti di critica (Milano, 1929); “Per

una critica dell’arte contemporanea”, Solaria 7, n 3 (marzo 1932), pp. 36-40.

‘‘cubismo e futurismo non hanno prodotto un’opera d’arte’’; Ven-

turi, inoltre, si sarebbe lamentato che ‘‘noi [italiani] non ci si sia

francamente messi alla scuola dei francesi, cioe degli Impressionisti

francesi; e che in Italia non vi sieno «ne l’interesse ne l’ammirazione

per l’arte francese, a causa dell’orgoglio che noi sentiamo per la

nostra grande arte passata»’’. Ojetti, a cui piacciono le masse definite

e i contorni netti di Cezanne, prosegue:

‘‘Io invece sono convinto che l’Impressionismo francese e oggi lapeggiore delle scuole cui un pittore italiano possa attendere; (...) cheCezanne e (...) non un impressionista ma il primo e saldo oppositoredell’Impressionismo di Monet, di Renoir, di Pizzarro, di Sisley, e dellostesso Manet (...).‘‘Il mondo degli Impressionisti e un mondo tutto aria e luce, senzapeso e il mondo dell’accidentale; il mondo invece della pittura italianae un mondo fatto di volume e di peso, di piani definiti e di ritmiequilibrati.’’.

Ojetti espresse piu ampiamente le sue idee sull’arte in Bello e

brutto del 193046

. Venturi ebbe facile gioco a citare alcuni tra i piu

ascoltati critici contemporanei (tra cui Roger Fry) per demolire l’idea

di Ojetti delle masse definite e dei contorni netti di Cezanne: nei suoi

quadri manca il disegno, mancanza che lo stesso artista persegue.

L’errore di Ojetti era, secondo Venturi, di carattere generale: Ojetti

pone volume e peso come concetti eterni (quindi come arte) e l’aria

e la luce come caratteri accidentali (quindi come non arte), concetti

che corrispondono alla opposizione stigmatizzata ne Il gusto dei primi-

tivi tra costruzione dei Greci e Romani (arte) e decorazione dei

Bizantini (non arte). Dunque:

‘‘Ci sono due modi di essere buoni italiani: l’uno e di parlar bene ditutte le cose nostre e male di tutte le cose straniere; l’altro e diassimilare tutto quello che si puo delle cose straniere per diveniremigliori di prima e migliori degli altri. Preferisco il secondo’’

47.

Nel frattempo Venturi si era rifugiato in Francia.

1Per le opere della manifattura Chini nel fiorentino vedi D. Salvadori Guidi, Guida alla

scoperta delle opere d’arte del ‘900 nella Provincia di Firenze (Firenze [1999?]) e S. Guerrini, I

Chini all’Antella. Opere di Dario, Galileo, Leto, Tito Chini e Manifattura Fornaci di San

Lorenzo nel Cimitero monumentale della Confraternita di Misericordia ([Firenze,] 2001). Sul

mosaico di D’Achiardi: C. Cecchelli, “Un mosaico”, Roma 3 (1925), pp. 23-24.

7

IL FRONTE INTERNO FILOBIZANTINO:

PIETRO TOESCA

Mentre sul piano pubblico della retorica e delle grandi manifesta-

zioni la grande maggioranza degli storici dell’arte proclamavano il

loro sostegno alla politica culturale del regime, alcune personalita

espressero la loro opposizione nei loro scritti. Tra gli storici dell’arte i

piu coraggiosi a rifiutare compromessi e acquiscenza furono Toesca,

Berenson e Lionello Venturi. Sul piano della ricerca scientifica que-

sta opposizione si manifesto appunto nel negare a Roma la suprema-

zia artistica sull’Oriente nel Medioevo e sulla Francia nell’eta con-

temporanea. E necessario, in questo capitolo e nel successivo,

addentrarsi quindi in dettaglio nel contenuto dei loro scritti.

Dopo la prima guerra mondiale, con il periodo del ritorno all’or-

dine e l’avvento del fascismo, l’arte bizantina passo i suoi giorni piu

neri in Italia, relegata a modello di spiritualita artistica quasi solo per

edifici religiosi, privati e marginali: la manifattura Chini di Borgo San

Lorenzo realizzo mosaici in stile bizantino nei cimiteri nei dintorni di

Firenze; in Romagna, per le cappelle religiose divennero di moda

decorazioni nello stile dei mosaici di Ravenna; in Terra Santa, Pietro

D’Achiardi fornı disegni per il mosaico pavimentale con vasi e tralci

ispirati alle composizioni paleocristiane per la basilica del Tabor (fig.

64)1. Dalla crescente adesione e a volte entusiastica adulazione verso

il fascismo restarono indenni pochi critici d’arte; di essi Pietro

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

2La definizione di Toesca e dall’annuncio della morte apparso negli Atti della Accademia

Nazionale dei Lincei 359 (1962), ser. 8, Rendiconti. Classe di Scienze Morali, Storiche e

Filologiche, 17, fasc. 3-4 (marzo-aprile 1962), p. 186.3

Vedi il Capitolo 6, paragrafo c.

Toesca, ‘‘uomo tanto modesto nella vita quanto eminente negli

studi, devoto e pur originale continuatore dell’opera di Adolfo Ven-

turi’’, fu quello che ricoprı le cariche di maggior prestigio e detenne

la massima autorevolezza (fig. 65)2. Toesca fu coerente assertore del

primato dell’arte bizantina sull’arte occidentale nel medioevo. La sua

autorevolezza e la sua assenza dalle polemiche artistiche del tempo lo

resero difficilmente attaccabile da parte dei critici nazionalisti. Ebbe

un atteggiamento riservato verso la societa artistica del tempo e non

si espose in polemiche pubbliche, nonostante le cariche indubbia-

mente prestigiose che ricopriva. L’orientalismo dei suoi studi sul

medioevo dovette essere sopportato a malapena dai fascisti piu

integralisti e fu attaccato allusivamente o garbatamente (salvo l’epi-

sodio del Giornale d’Italia) in piu occasioni dai vari piaggiatori acca-

demici del potere3, per i quali la sua visione orientalistica di Bisanzio,

che giudicava il modello dell’arte medievale dell’occidente, fu sentita

come uno svilimento delle radici romane dell’arte europea.

a. Pietro Toesca

Scolaro di Adolfo Venturi a Roma, Toesca insegno Storia dell’Arte

Medievale e Moderna all’Universita di Torino da dove passo a

Firenze; poi, dal 1926, ricoprı la cattedra di Storia dell’Arte Medie-

vale all’Universita di Roma e dal 1931 tenne anche quella di Storia

dell’Arte del Rinascimento e Moderna. Dal 1929 successe a Ugo

Ojetti nella direzione della sezione Storia dell’Arte dell’Enciclopedia

Italiana. Con lui si formo la parte piu autorevole degli storici dell’arte

italiana che tennero campo negli anni del fascismo e del dopoguerra

e che saranno coinvolti nelle polemiche su Bisanzio e Roma. Lionello

Venturi e Roberto Longhi furono tra i primi suoi studenti torinesi;

Emilio Cecchi e Paolo D’Ancona parteciparono alla discussione su

Giotto e i primitivi; Geza De Francovich e Giulio Carlo Argan,

scolaro quest’ultimo di Lionello Venturi, lavorarono con lui all’Uni-

versita di Roma ed all’Enciclopedia Italiana. Oltre che dai suoi scritti,

molte informazioni sulle idee di Toesca, soprattutto in merito a

questioni storico-artistiche, ai rapporti con colleghi e scolari e all’as-

IL FRONTE INTERNO FILOBIZANTINO: PIETRO TOESCA

4Una biografia di Paribeni e stata scritta da Gugliemo De Angelis D’Ossat negli Studi in

onore di Aristide Calderini e Roberto Paribeni (Milano, 1956), 1, pp. lxiii-lxvi.

servimento della critica alle mode del tempo ed alla ideologia del

fascismo, sono contenute nel suo fitto epistolario: solo quello con

Bernard Berenson, suo ‘‘socio’’ in arte, consta di oltre 300 lettere

dagli anni Venti alla fine degli anni Cinquanta.

Toesca e indignato dalla immoralita e dalla poverta critica della

generazione piu giovane di storici dell’arte. Non apprezza Croce:

‘‘S’Ella – scrive a Berenson – deplora lo stato degli studi tra noi, che

dovrei dire io che sono per forza a contatto di gomiti con questa

gente? Il Croce di certo ha guastato i cervelli’’; tantomeno, chi ha

abbracciato il fascismo, come Gentile, il ‘‘piccolo satrapo’’, o Cor-

rado Ricci e Roberto Paribeni, gli ‘‘eunuchi dell’arte’’, come li

definisce in una lettera a Berenson del 25 maggio 1931, nella quale

fa invece le lodi di Lionello Venturi, incontrato esule a Parigi,

‘‘mirabile’’ davvero nella sua infaticabilita:

‘‘Ed io ebbi a dirglielo pubblicamente quando gli presentai in quellaultima lezione un ricordo dei suoi vecchi scolari: e lo dissi con tantomaggior calore poiche erano presenti gli eunuchi dell’arte, Ricci eParibeni. Di quest’ultimo dovro poi dirle lungamente’’

4.

E convinto della mediocrita della critica italiana patriottica del

periodo fascista:

‘‘Ora se l’imparzialita corrispondesse a indifferenza non ci sarebbenello studio dell’arte un difetto peggiore; ma per me essa dovrebbeessere quella serenita che lascia scoprire anche le cose lontane, eimpreviste: ed e una qualita invidiabile, che si fa sempre piu rara, tranoi specialmente per un malinteso patriottismo. Bisognerebbe a questoproposito vedere il numero di ottobre [1930] della ‘‘revue’’ ‘‘Formes’’con un articolo ‘‘Ex Roma lux’’ [di Waldemar George] in mezzo amolti altri della mediocrita culturale italiana e forestiera.’’

Spesso e ‘‘disgustato’’ dalle manovre che si svolgono alle sue

spalle. Per il Premio Mussolini, al quale pensava di partecipare con Il

Medioevo rinuncia a ‘‘muovere un dito o spendere una parola: altri-

menti ci rimetterei ancora qualcosa’’. Di una voce di una sua promo-

zione alla Accademia d’Italia nel 1932 lamenta l’origine calunniosa e

malevola e l’atmosfera di sospetti, simile a quella di uno che si trovi

tra ‘‘banditi in una boscaglia’’:

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

5La bibliografia su Toesca, raccolta dalla moglie Elena Berti, e pubblicata nel fascicolo di

necrologio di E. Lavagnino, Pietro Toesca (Atti dell’Accademia Nazionale di San Luca, n. s.,

Note commemorative di accademici defunti, 3. Roma, 1962). Su Toesca vedi: E. Castel-

nuovo, “Introduzione”, in Toesca, La pittura e la miniatura nella Lombardia, pp. xxiii-lv; G.

Romano, “Pietro Toesca a Torino”, Ricerche di Storia dell’arte n 59, 1996, pp. 5-16 (alla

nota 1 p. 12 bibliografia su Toesca); id., Storie dell’arte. Toesca, Longhi, Wittkower, Previtali

(Roma, 1998); M. Aldi, “Pietro Toesca: tra cultura tardo-positivista e simbolismo. Dagli

interessi letterari alla storia dell’arte”, Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di

Lettere e Filosofia, ser. 4, 2/1 (1997), pp. 145-191. Le lettere di Toesca a Berenson sono

conservate nella Biblioteca Berenson di Villa I Tatti, Settignano (Firenze); le notizie ed i

brani riportati nel testo sono in lettere datate 17.1.1928, 7.11.1928, 16. 1.1929, 3.4.1929,

26.6.1929, 29.12.1930, 4.2.1931, 19.2.1931, 25.5.1931, 8.5. 1931, 16.11.1931,

10.3.1932, 22.7.1934, 16.10.1934, 11.3.1935, 4.8.1935, 8.9. 1935, 10.11.1935, 2.9.1937,

29.1.1938, 17.10.1938, 1.11.1939, 25.3.1945, 12.5.1945, 11.8.1945, 30.7.1945, 8.4.1946,

7.6.1946, 19.12.1947, 26.9.1949, 26.11.1949. Quanto a Bottai e Longhi, va ricordato che

Bottai volle come collaboratori al ministero alcuni tra i migliori critici d’arte del momento,

anche se non devotamente allineati sulle posizioni del fascismo, oltre a Longhi, Cesare

Brandi e Giulio Carlo Argan: A. J. De Grand, Bottai e la cultura fascista (Bari, 1978), p. 263.

‘‘La nostra [casa] avrebbe dovuto essere devastata da una specie ditifone di calunnie, d’insinuazioni e di malvagita scatenatosi in questigiorni contro di me quando si seppe che qualcuno pensava alla miacandidatura all’Accad. reale. Io l’ignoravo: me ne porto iersera unaventata l’amico Farinelli portandomi una delle tante insidiose lettereanonime ricevute da lui e dai suoi colleghi nei giorni scorsi. E giapassata una notte; ci ho dormito sopra: e non ci penso piu. Ma quellalettera avrebbe potuto portare l’intestazione della Direz. Gen. delle B.Arti [cioe di Paribeni]. Intanto, com’e naturale, di me non si e parlato:e i pochi amici non hanno potuto far nulla. Ojetti di certo Le sara largodi particolari al suo ritorno. Ma qui e peggio che stare tra i banditi inuna boscaglia!’’

La figura di Toesca e stata finora studiata solo per gli anni della

formazione e del primo insegnamento a Torino. Un suo apprezza-

mento benevolo dei due focosi scolari Longhi e Lionello Venturi e

dato per scontato nelle rievocazioni di Toesca e, soprattutto, nelle

rievocazioni degli anni giovanili di Longhi fatte dagli scolari di

quest’ultimo; questa agiografia longhiana con ricostruzioni idilliache

dei rapporti Longhi-Toesca (ed anche Longhi-Berenson) e smentita

dall’epistolario di Toesca, almeno per tutto il periodo del fascismo.

Di Longhi Toesca non critica il suo contributo storico, ma ha in

fastidio i suoi modi arrivistici: il rinnegare i vecchi maestri per

opportunita di carriera, l’essere diventato ‘‘la ninfa Egeria’’ del mini-

stro Bottai, avere una presenza accentratrice nella rivista Le arti, una

creatura di Bottai5. Per la cattedra vacante di Storia dell’Arte del

Rinascimento di Roma, per la quale era stato posto dal governo

IL FRONTE INTERNO FILOBIZANTINO: PIETRO TOESCA

6Le citazioni sono da lettere di Toesca a Berenson conservate nella Biblioteca Berenson

di Villa I Tatti e datate 21.2.1928, 28.8.1928, 14.10.1928, 20.12.1928, 22.1.1930,

27.1.1931, 26.4.1931, 17.8.1931, 23.8.1933, 26.1.1934, 2.8.1936, 17.11.1937, 22.7.1947,

19.2.1948, 7.6.1948, 25.2.1949, 12.12.1949, 13.5.1950.

fascista un veto alla candidatura di Lionello Venturi per via, fu detto,

dei rapporti di quest’ultimo con l’industriale antifascista Gualino,

piuttosto che esporla alle ambizioni di Longhi, Munoz o Colasanti,

Toesca preferisce passarvi lui stesso ricoprendo per incarico la sua

vecchia cattedra di Storia dell’Arte Medievale. Solo dopo la fine della

seconda guerra mondiale Toesca accetta le avances di Longhi per un

riavvicinamento. Ma anche di Lionello Venturi Toesca e poco soddi-

sfatto, nonostante abbia sostenuto ‘‘il figlio di Adolfo’’ per la catte-

dra romana. Toesca ha un giudizio negativo anche verso tutti quegli

studiosi emersi dopo la liberazione e di poco valore ai suoi occhi,

soprattutto Ragghianti; apprezza dichiaratamente solo due giovani

studiosi: Giulio Carlo Argan, che gli pare ‘‘un giovane intelligente, di

tempra assai diversa dagli altri ragghianti («fama mia ti raccomando –

al somier che va ragghiando» Jacopone), ma e stato guastato dalle

influenze lionellesche, a Torino, che ora si vanno dissolvendo’’; e

‘‘l’amico’’ Ranuccio Bianchi Bandinelli, del quale dice di avere

‘‘molta fiducia in lui, sperando che non lo abbia guastato la condire-

zione di «La critica d’arte» con il famigerato Ragghianti’’ (che poi

fara ‘‘sloggiare’’ Bianchi Bandinelli dalle stanze al Ministero con

disappunto di Toesca).

b. Toesca orientalista

Lo spirito filobizantino di Toesca salta subito agli occhi nei suoi

scritti e nell’epistolario con Berenson, che condivideva con lui l’inte-

resse per Bisanzio. Toesca mette a parte Berenson di letture, mostre,

congressi e restauri che toccano Bisanzio6. Consiglia Berenson di

vedere i manoscritti bizantini miniati della biblioteca delle Missioni

Urbane a Genova; desidera leggere La miniature byzantine di Eber-

solt; parla della Pittura bizantina di Muratov; non trova alcuni dei

manoscritti miniati visti ad Atene nel catalogo di Paul Buberl; rac-

conta dei codici bizantini portati dall’Asia Minore e in particolare da

Smirne da profughi greci ed esposti al Musee des Arts Decoratifs di

Parigi; menziona l’evangeliario bizantino della Biblioteca Palatina di

Parma (cod. 5) le cui foto ha rifiutato ‘‘al caro Lazarev’’; parla di un

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

volume dello Strzygowski sull’arte in Asia (probabilmente Asiens

bildende Kunst in Stichproben del 1930); e entusiasta della mostra di

fotografie della Grande Moschea di Damasco allestita a Ravenna e di

cio che quei mosaici provano per le influenze orientali sull’arte

occidentale; e disgustato dal volume Roma o Bisanzio? ‘‘di un certo

Galassi’’ che ha l’imprimatur della Libreria dello Stato; racconta di

essere salito sulle impalcature di Santa Maria Maggiore a vedere i

mosaici; visita la mostra di arte bizantina a Parigi nel 1931; e colpito

dalla bellezza dei manoscritti armeni di San Lazzaro a Venezia (‘‘dei

capolavori’’, ‘‘tra le cose piu belle della maniera aulica bizantina’’); si

lamenta dei ‘‘pessimi restauri’’ fatti dal Ricci nel duomo di Torcello;

non e convinto che il rapporto sui restauri dei mosaici di Santa Sofia

di Costantinopoli contenga delle novita; chiede a Berenson, che e a

Sarajevo, di procurargli fotografie di affreschi bizantini; si preoccupa

dei lavori di restauro nella chiesa di San Vitale e nel mausoleo di

Galla Placidia di Ravenna; segue appassionatamente la scoperta degli

affreschi di Castelseprio che a prima vista gli ricordano Mistra, ma

sono senz’altro piu antichi, forse del VI-VII secolo, e costantinopoli-

tani tranne il Cristo che e di altra tradizione; menziona un incontro

con Andre Grabar a Roma per il congresso bizantino nel 1948 al

quale non potra partecipare; richiede e poi riceve il libro di Otto

Demus Byzantine Mosaics Decoration del 1948 (‘‘abbastanza interes-

sante’’); compra Les peintures de l’Evangeliaire de Sinope di Grabar; si

emoziona nello sfogliare pagina per pagina l’Evangeliario di Rossano

(‘‘dove sara stato immaginato, con tanta raffinatezza, questo capola-

voro? ’’, un giudizio simile a quello del suo maestro Adolfo Venturi);

legge la monografia di Weitzmann su Castelseprio, ma non ne

condivide le tesi (‘‘per me punto persuasivo’’).

L’interesse per Bisanzio fu trasmesso a Toesca da Adolfo Ven-

turi. Su L’arte, diretta appunto da Venturi, dove appaiono in quegli

stessi anni altri articoli su Bisanzio, Toesca scrisse nel 1906 un

articolo dal titolo ‘‘Cimeli bizantini’’, nel quale sono discussi un

calamaio metallico sbalzato con figure di divinita pagane nel Tesoro

del Santo a Padova (fig. 66), che l’epigrafe alla base dice donato a un

certo Leone scriba e che Toesca data al IX-X secolo, e una cassetta

eburnea ad Anagni con scene mitologiche, che Venturi vorrebbe del

IV-V secolo, mentre Toesca propone una data molto distante, il XIII

secolo. Caso singolare tra gli storici dell’arte italiani del suo tempo,

Toesca utilizza insieme analisi tecnica, lettura stilistica e studio

paleografico dell’iscrizione greca; agli sbalzi del calamaio, inoltre,

IL FRONTE INTERNO FILOBIZANTINO: PIETRO TOESCA

7P. Toesca, “Cimeli bizantini”, L’Arte 9 (1906), pp. 35-44.

collega stilisticamente miniature bizantine in manoscritti quasi sco-

nosciuti a quel tempo (i Cinegetica di pseudo-Oppiano alla Marciana

di Venezia, ad esempio). I riferimenti bibliografici sono aggiornati

sulle pubblicazioni recenti di Kondakov, Schlumberger, Tikkanen. Il

giudizio sul ruolo di Bisanzio nel medioevo, col quale Toesca chiude

l’articolo, e apologetico:

‘‘Coscientemente, e non per vano gioco di decoratore, l’artefice ri-trasse immagini classiche intorno al calamaio di uno di quei calligrafibizantini ormai oscuri, ma per sempre benemeriti, trasmettitori a noidel pensiero e della bellezza antica.’’

7.

Ancora prima di ‘‘Cimeli bizantini’’, Toesca aveva mostrato di

recepire quanto la bizantinistica estera stava costruendo in quegli

anni ed aveva espresso la sua inclinazione per una interpretazione

orientalistica dell’arte medievale italiana in un lungo lavoro del 1902

sugli affreschi medievali di Anagni (figg. 67-68). Qui, Toesca intro-

duce nuovamente manoscritti miniati bizantini per confronto (il

Dioscoride di Vienna, l’Evangeliario di Rabbula della Laurenziana, il

Cosma Indicopleuste della Vaticana). Tra la bibliografia citata com-

paiono i lavori di Strzygowski. Toesca si lamenta che fino ad allora si

e voluto ‘‘adunare in poche linee la storia dell’arte di tutto un impero

che dall’Asia Minore giungeva sino all’Italia’’ e si sono volute met-

tere insieme nel giudizio ‘‘opere create a dilettare gli ozi dei porfiro-

geniti e iconi riprodotte a soddisfare la folla dei credenti’’. Proce-

dendo parallelo alla tesi di Krumbacher dei tre tipi della letteratura

bizantina – ‘‘una produzione per dotti che sognavano antiche bellez-

ze’’, ‘‘una letteratura popolare (...) la quale non risentiva che di

lontano l’influenza di tanti studi’’, ed infine ‘‘il parlare volgare [che]

andava sempre piu diversificandosi e diventando estraneo alla lingua

fittizia delle persone piu colte’’ –, Toesca propone tre diversi maestri

per gli affreschi della cripta di Anagni: un Frater Romanus di Su-

biaco, il piu colto dei tre, che e forse un bizantino (avrebbe latiniz-

zato il nome greco Romanos), che probabilmente copio le sue pitture

da un manoscritto miniato e lavoro anche in altri monumenti laziali,

tra i quali il Sacro Speco di Subiaco; il ‘Pittore delle Traslazioni’, che

usa una ‘‘tecnica’’ bizantina, ma con alcuni caratteri che lo fanno

supporre un artista campano, bizantineggiante, che opero alla corte

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

8P. Toesca, “Gli affreschi nella Cattedrale di Anagni”, Le Gallerie Nazionali Italiane.

Notizie e documenti 5 (1902), pp. 116-187, citazioni sono da pp. 151, 155, 157.9

Una bella e giusta definizione de Il Medioevo e stata data da Carlo Bertelli in “Traccia

allo studio delle fondazioni medievali dell’arte italiana”, in Storia dell’arte italiana, parte II,

Dal Medioevo al Novecento, vol. 1, Dal Medioevo al Quattrocento (Torino, 1983), p. 13:

“All’estrema soggettivita della storiografia risorgimentale, la storiografia del Novecento ha

opposto un mondo di certezze, costruito su analogie stilistiche evidenti e su documenti

esterni accertati. La mappa di questo mondo di verita e Il Medioevo di Pietro Toesca,

grande e inarrivabile monumento che un uomo solo e solitario, attraverso l’esame diretto di

ognuno degli infiniti oggetti commentati, ha dato alla propria patria, scavalcando in uno

sforzo senza eguali ritardi pluridecennali di studi e di istituzioni. Se, a distanza di decenni e

malgrado correzioni di molti particolari, Il Medioevo resta il punto di riferimento piu sicuro,

un quadro generale di valutazioni sostanzialmente intatto, e perche non sono stati messi in

discussione, se non in maniera arbitraria – per esempio, nel trasferimento da noi della

polemica strzygowskiana su Oriente e Occidente – i fondamenti stessi della storia dell’arte

come scienza di fatti verificabili.”.10

Toesca, Il Medioevo. A nota 3 pp. 1021-1022, Toesca elenca una quarantina di

manoscritti miniati bizantini: 3 della maniera classicheggiante (tra cui il Salterio Vat. gr.

381, il Giobbe Marciano gr. 540 [538]), 27 della maniera propriamente bizantina su fondo

classico (tra cui la Catena sui Profeti, plut. 5.9, e l’Ottateuco plut. 5.38 della Laurenziana; i

due Ottateuchi vaticani, Vat. gr. 746 e Vat. gr. 747; l’evangeliario Urb. gr. 2; il Menologio

di Basilio II, Vat. gr. 1613, ed il Salterio di Basilio II, Marc. gr. 18; l’evangeliario di Parma,

Palat. 5); 8 della maniera tormentata (tra cui il Giovanni Climaco Vat. gr. 394, gli

evangeliari vaticani Vat. gr. 1156, Vat. gr. 1158 e Vat. gr. 1208, le Vite dei Padri del deserto

Vat. lat. 375); 3 della maniera popolare (l’Ambrosiano D 67 sup., il Vat. gr. 1754, il

Marciano cl. I, XXII).

di Federico II; il ‘Pittore ornatista’, il piu debole del gruppo, che

tento invano di animare i suoi modelli bizantini e che doveva essere

un pittore attivo a Roma o Subiaco8.

c. Il Medioevo bizantino: le origini dell’artecristiana ed i mosaici di Ravenna

Il Medioevo di Toesca, che uscı in dispense tra il 1913 e il 1924 (figg.

69-74), contiene un articolato giudizio su Bisanzio basato su di un

corpus di monumenti ben piu ampio di quello fatto conoscere dalla

Storia dell’arte italiana di Adolfo Venturi, i cui tre volumi sull’arte

paleocristiana e medioevale erano usciti tra il 1901 e il 19049.

Rispetto a Venturi, Toesca include un alto numero di manoscritti

miniati bizantini suddividendoli tra un esiguo gruppo della ‘‘maniera

classicheggiante’’ (fig. 70), un secondo gruppo, il piu numeroso,

della ‘‘maniera propriamente bizantina su fondo classico’’, un terzo

gruppo della ‘‘maniera volgente a modi sempre piu tormentati’’, e un

quarto della ‘‘maniera dalle forme piu popolari e trasandate’’10

. Il

IL FRONTE INTERNO FILOBIZANTINO: PIETRO TOESCA

11W. R. von Hartel e F. Wickhoff, Die Wiener Genesis (Prag – Wien – Leipzig, 1895); A.

Riegl, Spatromische Kunstindustrie (Wien, 1927), traduzione italiana Arte tardoromana, a cura

di L. Collobi Ragghianti (Torino,1959), spec. pp. 73 sgg.

giudizio di Toesca sull’arte bizantina non era sempre entusiastico,

ma era vicino a quello di Berenson e filobizantino senza ambiguita

nei tre punti caldi della polemica sul primato di Roma o di Bisanzio e

l’Oriente che si svolgera negli anni Venti e Trenta in Italia: le origini

dell’arte cristiana, l’arte dell’alto medioevo in Italia, la pittura del

Duecento e le origini artistiche di Giotto.

Per le origini dell’arte cristiana Toesca respinge la visione del-

l’arte antica a primato romano espressa dai due caposcuola viennesi

Franz Wickhoff e Alois Riegl. In Die Wiener Genesis del 1895,

Wickhoff aveva proposto l’idea di un’arte romana che estende la sua

area di influenza in tutto il mondo antico e dalla quale nacque l’arte

cristiana; Alois Riegl, invece, analizzando in Spatromische Kunstindu-

strie del 1927 la scultura del periodo tardoromano ed in particolare i

rilievi dell’arco di Costantino, vi aveva visto non una decadenza, ma

la ricerca di effetti coloristici intesi a dare una impressione di superfi-

cie ottica ai rilievi, piuttosto che di superficie tattile come nel periodo

classico, preludendo cosı all’arte medievale11

. Toesca propose una

versione moderata della interpretazione orientalista di Strzygowski,

piu volte citato nelle note, di un’arte romana dipendente dall’arte

dell’Oriente ellenistico, una idea che fu uno dei bersagli polemici dei

critici italiani schierati con il fascismo. Il Medioevo inizia cosı con la

dichiarazione esplicita che nella trasformazione dell’arte nel periodo

delle origini cristiane, le regioni orientali ebbero ‘‘un’azione assai piu

viva e preponderante’’ che le occidentali; Asia Minore, Egitto e Siria

‘‘ebbero parte prevalente nell’elaborazione di un’arte nuova, prepara-

rono i procedimenti tecnici, le tendenze stilistiche, l’iconografia al-

l’arte bizantina, che doveva svolgersi, e predominare dovunque essa

fu nota, durante tutto il Medioevo’’. Fino al IX secolo le regioni

orientali ebbero quindi il primato nella formazione e nello svolgi-

mento dello stile e della iconografia cristiane. Distinguendosi da

Strzygowski, Toesca affermo tuttavia che Bisanzio ed i centri artistici

piu orientali dell’impero, come i conventi della Mesopotamia dove a

quel tempo si credeva realizzato l’Evangeliario di Rabbula, furono

largamente influenzati dalle tradizioni ellenistiche di Egitto ed Asia

Minore; l’azione dell’arte orientale, anteriore e diversa da quella

ellenistica, non sarebbe invece determinabile con uguale chiarezza:

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

12Toesca, Il Medioevo, pp. 14, 156-157, 159-162 e figg. 91-92.

13Ivi, pp. 181-198.

14Toesca, S. Vitale, p. 20.

da essa probabilmente derivarono alcuni dei caratteri principali del-

l’arte bizantina che la differenziano da quella ellenistica, come ‘‘la

tendenza a figurazioni trascendenti della realta’’, ‘‘la semplificazione

del tutto convenzionale di molti modi di espressione’’, ‘‘la predile-

zione di composizioni simmetriche’’, ‘‘la fredda severita ieratica delle

rappresentazioni tanto lontana dall’umano realismo dell’arte classi-

ca’’. Come esempi, Toesca porto l’Evangeliario di Rabbula e l’Evan-

geliario di Rossano12

.

Toesca fu parimenti perentorio sulla paternita bizantina dei mo-

saici di Ravenna, relativamente ai quali focalizzo le differenze stilisti-

che tra opere di secoli differenti. I mosaici di Galla Placidia non

trascendono ne nell’astratto ne nel convenzionale, il paesaggio ha un

sentimento pittoresco che proviene dall’arte classica; il colorito e

impressionistico. A Sant’Apollinare Nuovo i soggetti narrativi la-

sciano il campo a figurazioni ideali: nella teoria di martiri sulla parete

destra della navata la realta e immiserita, le forme sono prive di vita,

povere, senza rilievo, struttura e movimenti, ed il colore impressioni-

stico e scomparso; nella teoria delle vergini, di qualita molto piu alta,

sulla parete sinistra, le figure hanno caratteri personali e sono variate

con finezza; qui si procede verso l’ascetismo allontanandosi dalla

realta. Quanto a San Vitale, i mosaici di Giustiniano e Teodora non

hanno carattere naturalistico, come quelli di Sant’Apollinare Nuovo,

ma decorativo; il colorito non e impressionistico ed i ricordi classici

si sono attenuati13

.

Toesca individuo nei mosaici di San Vitale l’affermazione del

primato di Bisanzio su Roma: in un secolo in cui andava risolvendosi

l’unita di cultura e arte del Mediterraneo a favore dell’Oriente, questi

mosaici

‘‘piuttosto che lo scadimento di concezioni e forme antiche dell’arte, illoro vivace tramutarsi nelle nuove che nella pittura bizantina matura-rono sempre piu, delle quali non i due mosaici di Giustiniano eTeodora, ma gli altri [a San Vitale stessa] rivelano la grandezzamonumentale, il senso del colore e gia il formarsi di certe stilizzazionipoi lungamente mantenute.’’

14.

Cosı, per Toesca, lo stile bizantino che dominera il medioevo e

IL FRONTE INTERNO FILOBIZANTINO: PIETRO TOESCA

15G. Bendinelli, Compendio di storia dell’arte dal Quattrocento ai tempi nostri (Milano –

Roma – Napoli, 1926), citazioni da p. 54 e pp. 51-52.

quello che mantiene la plasticita e il naturalismo dell’antichita e li

proporra come modelli agli artisti del medioevo occidentale. L’indi-

pendenza e determinatezza del giudizio di Toesca sulle qualita dei

mosaici di San Vitale risalta al confronto con le interpretazioni date

nei manuali italiani di storia dell’arte in uso negli anni Venti e

Trenta. Nel piu diffuso tra questi, il Compendio di storia dell’arte di

Goffredo Bendinelli, professore di archeologia all’Universita di To-

rino, sono annotati difetti, bizzarie, stucchevolezze dei mosaici giudi-

cati secondo i criteri classici della verosimiglianza. Le teorie dei santi

danno a Bendinelli ‘‘una impressione di monotonia che sostanzial-

mente si riceve dalla ripetizione stucchevole, gia annunziatasi in

monumenti precedenti, di schemi figurativi, in cui gli aspetti della

realta sono ridotti a geometriche combinazioni di linee’’; se si vo-

gliono riconoscere in questo le impronte di un’arte nuova, detta

bizantina (qui e probabilmente una polemica con Toesca), quest’arte

si presenta ‘‘priva di vitalita e di avvenire, incapace di lottare con i

residui della grande arte classica’’; insomma, siamo di fronte all’ul-

timo capitolo della gloriosa arte antica piuttosto che al preludio di

un’arte nuova, che si sarebbe ‘‘cristallizzata e fossilizzata al suo

primo apparire’’. Negata, di fatto, l’esistenza di un’arte bizantina,

Bendinelli liquida anche i mosaici dei cortei imperiali di San Vitale,

dove le figure sono semplicemente disegnate da incompetenti, inebe-

tite e con gli occhi sbarrati, fantasmi sospesi a mezz’aria che si

pestano i piedi:

‘‘contro alle piu elementari leggi prospettiche e naturali, le figure sonodisegnate esattamente tutte di fronte e sopra un medesimo piano, privedi espressione in quei volti dagli occhi sbarrati e prive affatto di rilievonel contorno piatto delle membra e delle vesti, prive di reale consi-stenza nella mancanza pressoche completa delle ombre. Sembranoquasi fantasmi sospesi a mezz’aria, poiche l’artista ha collocato unosull’altro i piedi delle figure, come per insufficienza di spazio.’’

15.

Questi commenti di Bendinelli, che possono oggi far sorridere,

erano condivisi dagli storici dell’arte con idee piu conservatrici o

accademiche. Luigi Serra, ad esempio, ripete giudizi negativi del

repertorio ottocentesco sulla pompa orientale nei mosaici di Ra-

venna, dove il lusso bizantino avrebbe corrotto l’arte romana, sottoli-

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

16L. Serra, Storia dell’arte italiana, 1 (Milano, 1924), p. 94.

17R. Longhi, “Piero dei Franceschi e lo sviluppo della pittura veneziana”, L’Arte 17

(1914), pp. 198-221, 241-256 (ristampato in R. L., Scritti giovanili. 1912 – 1922 [Firenze,

1961], pp. 61-106).

neando la insensibilita e mancanza di espressioni e di affetti delle

figure bizantine e l’’aspetto mostruoso e terrificante della divinita nei

mosaici di Ravenna:

‘‘[A Ravenna] Nel secolo VI le grandiose forme romane si decompon-gono a contatto del lusso e della rigidita jeratica delle figurazionibizantine, spoglie di ogni grazia corporea, insensibili ad ogni espres-sione di affetti. Per esprimere appieno l’essenza del divino se nerinnega ogni carattere umano, lo si rende terrificante e quasi mo-struoso, lo si avvolge in una spettacolosa ricchezza intesa con alti spiritiornamentali. Nella Basilica di Sant’Apollinare Nuovo, in sostituzionede’ musaici del tempo di Teodorico, si dispiega un ciclo in cui leultime manifestazioni musive improntate di classicita si accompagnanoalle prime espressioni dell’’abbagliante decorativa pompa orientale.’’.

‘‘Abbagliante pompa orientale’’ e una delle frasi fatte che veni-

vano usate per l’arte bizantina in questi anni; la terribilita della

divinita, invece, non si capisce dove sia a Ravenna: e possibile che

Serra forse confonda le immagini divine dei mosaici ravennati con i

pantocratori delle chiese siciliane16

.

Le conclusioni della discussione di Toesca sui mosaici di Ra-

venna ne Il Medioevo furono che essi sono tutti bizantini, dai piu

antichi del Mausoleo di Galla Placidia del secolo V, che erano

comunemente collegati all’arte romana o dati di scuola ravennate,

fino a quelli del secolo VI di San Vitale, che erano collegati a

Costantinopoli. La schematizzazione vigente nella critica del primo

Novecento e del periodo fascista intendeva bizantino come astratto e

incorporeo e romano come plastico; Longhi, ad esempio, pur allievo

di Toesca, scrive senza animosita, nel 1914, dei mosaici di San Vitale

come capolavoro del colorismo bizantino, con figure su di un solo

piano, senza forma ne spazio, da contrapporre allo stile plastico dei

mosaici romani17

. Non solo i due pannelli imperiali di San Vitale

sono bizantini e gli altri occidentali, ma, al contrario, Toesca dichiara

che ‘‘non si puo concludere che soltanto quei due mosaici apparten-

gano all’’orbita dell’arte orientale e bizantina, tutti gli altri invece ad

una tradizione classicheggiante, nostra, in contrasto con quell’arte’’.

Le differenze tra i mosaici di Ravenna, che pure sono grandi, non

IL FRONTE INTERNO FILOBIZANTINO: PIETRO TOESCA

18Toesca, Il Medioevo, pp. 193-199.

19Toesca, Il Medioevo, pp. 394-401.

permettono di rintracciare lo svolgimento di una tradizione locale,

ma riflettono tendenze diverse nell’arte bizantina; questi mosaici

mostrano una continua importazione di forme artistiche dall’esterno

e sono dovuti ad artisti venuti da Costantinopoli o educati all’arte

orientale18

.

d. Il Medioevo bizantino: dai mosaici romani a Giotto

La pittura bizantina e stata cosı multiforme da accogliere insieme la

tradizione del naturalismo ellenistico e forme del tutto opposte.

Come a Ravenna, anche negli affreschi di Santa Maria Antiqua a

Roma, la varieta di maniere che si susseguono cronologicamente va

collegata alle tendenze di stile che l’arte bizantina accolse in se –

anche se alcune di quelle pitture furono opera di artisti romani. Una

scuola artistica romana con proprie caratteristiche unitarie fiorira

solamente nel secolo IX e realizzera i mosaici dei Santi Nereo ed

Achilleo, Santa Maria in Domnica, Santa Prassede (fig. 71), Santa

Cecilia, San Marco. Anche in questo caso, pero, non si tratto di un

rinnovamento dell’arte paragonabile a quanto avvenne contempora-

neamente nella pittura carolingia, ma di una variante secondaria

della pittura medievale, una imitazione del tutto superficiale di forme

piu antiche: questi artisti di scuola romana appiattirono il modellato,

tolsero al colorito ogni valore plastico, ridussero l’arte a intenti di

decorazione. La stessa definizione di stile, insomma, che altri critici

usavano per le opere d’arte bizantina, Toesca usa per l’arte romana

altomedievale: l’arte di Roma come negazione della tradizione pla-

stica antica che Bisanzio conservo e che quei critici attribuivano

propagandisticamente a Roma19

.

La capacita dell’arte bizantina di mantenere e rinnovare la classi-

cita nella sua arte ed il suo primato sull’arte occidentale sono temi

ripetuti ne Il Medioevo per i monumenti piu discussi e qualitativa-

mente piu alti, come le figure a stucco del tempietto di Santa Maria

in Valle a Cividale. La pittura dei secoli XI e XII in Italia e giudicata

da Toesca ‘‘aliena quasi in tutto ai concetti ornamentali d’oltralpe’’ e

‘‘piu intimamente consona ai bizantini’’; le Bibbie romane del secolo

XI e XII, come la Bibbia di Perugia (fig. 72), hanno iconografia e

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

20Toesca, Il Medioevo, pp. 918-919, 927-928, 989. Sulle Bibbie romane vedi anche P.

Toesca, “Miniature romane dei secoli XI e XII. Bibbie miniate”, Rivista del R. Istituto di

Archeologia e Storia dell’Arte 1 (1919), pp. 69-96.21

Toesca, Il Medioevo, pp. 969-1005.22

Vedi il Capitolo 11.

manierismi stilistici bizantini; le pitture murali del periodo ‘‘si pos-

sono classificare, piu ordinatamente che con altri criteri, secondo il

vario grado dell’influsso bizantino’’, che cresce con l’inoltrarsi nel

secolo XII; in Toscana l’azione bizantina fu profonda e crescente e

variata piu che altrove per molteplicita di temperamento20

. Una

lettura simile da Toesca per il Duecento in Toscana (figg. 73-74),

dove ‘‘opero a fondo il fattore bizantino’’ in tutti i centri artistici e la

cui ‘‘azione crescente fu accompagnata da un crescente potere degli

artisti nostri, prima nel comprenderlo e modificarlo, poi in proprie

individualita, liberandosene’’; l’influsso bizantino ebbe la massima

intensita nel periodo che precedette Giotto, ‘‘quasi fosse necessario

elevarsi a possedere le forme bizantine (come un Cimabue, Duccio,

Torriti e Cavallini) prima di sorpassarle per una pittura tutta no-

stra’’:

‘‘Altri, troppo impazienti di questa – scrive polemicamente Toesca –,non riconosce appieno quel fatto, e si trattiene a osservare tra noi idivari dello stile bizantino e le tradizioni locali. Ma quell’influsso, giaavviato e perenne nei secoli anteriori, si puo accertare in modo oggetti-vo.’’

21.

La posizione di Toesca non muto negli anni seguenti, sia nelle

voci da lui redatte per l’Enciclopedia italiana, sia nella monografia su

Giotto del 1941, sia infine nel volume Il Trecento del 195122

.

8

GLI ALTRI FILOBIZANTINI

(BERENSON, LIONELLO VENTURI),

GLI ALLINEATI, I MANUALI

Berenson intervenne solo una volta negli anni Venti nella discussione

su Bisanzio e l’Italia con posizioni vicine a quelle di Toesca. Citta-

dino americano, Berenson resto defilato rispetto allo scontro sulla

romanita dell’arte medievale; tuttavia, per la sua autorevolezza inter-

nazionale, la sua raccolta di opere d’arte e la sua biblioteca di Villa I

Tatti a Settignano, sulle colline nei dintorni di Firenze, che fu punto

di riferimento per le ricerche per molti storici dell’arte, soprattutto

quelli non allineati con i facinorosi romanisti, Berenson risulto una

seconda spina nel fianco, accanto a Toesca, per i critici nazionalisti;

con la dichiarazione di guerra tra Italia e Stati Uniti i suoi nemici

fiorentini richiesero inutilmente il suo arresto come spia e la confisca

di Villa I Tatti e degli altri suoi beni.

Lionello Venturi fu il critico filofrancese e filobizantino piu esposto

negli anni del fascismo, perche in prima linea nella fondazione dei fasci

torinesi e per via del prestigio del padre, Adolfo; fu anche il piu coin-

volto nelle polemiche figurative in corso, soprattutto a motivo della sua

idea del primato dell’arte francese contemporanea su quella italiana, e

per questo fu ripetutamente attaccato da futuristi, nazionalisti e fascisti

sulla stampa, sulle riviste d’arte e durante le sue lezioni universitarie,

un copione gia sperimentato con altri accademici oppositori della dit-

tatura, intimiditi e percossi insieme ai loro studenti dai manganellatori

del Partito Nazionale Fascista. La perdita della cattedra universitaria

per il rifiuto al giuramento richiesto nel 1931 ai docenti universitari di

formare cittadini “devoti alla patria e al Regime Fascista” e l’emigra-

zione dall’Italia furono l’esito della sua apostasia del fascismo.

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

1Le notizie riportate sulla vita di Berenson sono tratte dalle biografia scritta dalla sua

segretaria Nicky Mariano, Forty Years with Berenson, con una introduzione di K. Clark

(New York, 1966); altre notizie in E. Samuels, con la collaborazione di J. N. Samuels,

Bernard Berenson. The Making of a Legend (Cambridge, Mass. – London, 1987).2

K. Weitzmann, Sailing with Byzantium from Europe to America. The memoirs of an art

historian (Munchen, 1994), p. 237:

“This was the only time I would meet Berenson, who impressed me with his acquain-

tance with my writings, though they hardly touched his special fields of interests. He

graciously invited me to visit him at I Tatti, but I never had the chance to accept this

tempting offer.”.

Sergio Bettini fu il primo studioso italiano a fornire un panorama

complessivo dell’arte bizantina; a differenza di Berenson e Venturi

dette brutta prova di coerenza e morale scientifica: aderı alla retorica

romanista del regime e scredito l’immagine di Bisanzio come centro

artistico.

a. Bernard Berenson, filobizantino

Berenson e conosciuto principalmente come storico dell’arte del

Rinascimento fiorentino (fig. 75). Negli anni Venti, discutendo due

tavole con immagini della Madonna da Costantinopoli, Berenson

dichiaro che la pittura bizantina non faceva parte del suo mestiere e

ne parlava solamente sulla base della intuizione derivata dalla sua

esperienza pluridecennale con l’arte: “negli studi medievali sono un

neofita”1. La sua formazione internazionale fece di Berenson, tutta-

via, un grande estimatore dell’arte dei primitivi, dell’arte bizantina e

russa e dell’arte dell’estremo Oriente. Weitzmann, nelle sue memo-

rie, ricorda lo stupore per le sue conoscenze bibliografiche su Bisan-

zio, quando i due si conobbero durante una visita in anteprima alla

Mostra Storica Nazionale della Miniatura2. Anche i viaggi di Berenson

testimoniano l’interesse per l’Oriente: nell’autunno del 1928 passo

un lungo periodo a Costantinopoli, si sposto poi nell’Anatolia e

quindi ando a Salonicco a vedere chiese e mosaici bizantini (rimase

entusiasta del Cristo di Hosios David); nel 1936 visito Sarajevo e le

chiese ed i monasteri serbi (tra i quali Pec, Decani, Mileseva,

Studenica); nel 1937 visito i monumenti bizantini nelle isole egee

occupate dall’Italia (tra le quali Rodi e Cipro). Piu volte, nelle lettere

di Toesca, Berenson si mostra appassionato di opere bizantine; nel

1928, in preparazione del viaggio in Turchia, cerco di procurarsi con

l’aiuto di Toesca un permesso per visitare la Biblioteca del Serraglio

GLI ALTRI FILOBIZANTINI

3B. Berenson, Valutazioni 1945 – 1956, a cura di A. Loria (Milano, 1957), citazioni da

pp. 102-103, 100-101.4

P. P. Muratov, La pittura russa antica (Praga – Roma, 1925); id., La pittura bizantina

(Roma, 1928); V. Lazarev, Istoriia vizantiiskoi zhivopisi, 2 voll. (Moskva, 1947-1948;

seconda edizione 1986) , traduzione italiana Storia della pittura bizantina (Torino, 1967).

a Costantinopoli e vedere l’Ottateuco miniato lı conservato, cosa che

finalmente gli riuscı; cosı Berenson rievoco la visita anni dopo:

“(...) il piu famoso di tutti gli harem, quello annesso al Yildiz Kiosk, lavecchia residenza dei sultani a Costantinopoli. Anelavo di vedere unoctateuco bizantino custodito nella sua biblioteca ... Alla fine il Soprin-tendente alle Belle Arti si scomodo di persona di mostrarmi il prezio-sissimo libro, sı, ma anche a garantirsi che nessuno dei meravigliosicodici islamici e tanto meno alcuni tizianeschi ritratti di antichi sultanimi venissero fatti vedere.”.

Anche la visione dell’Evangeliario di Rossano fu per Berenson,

cosı come per Toesca, un sogno raggiunto; Berenson si reco a

Rossano Calabro in macchina, superando grandi difficolta di sposta-

mento da Cosenza a quello che era, secondo i suoi accompagnatori,

un “covo di briganti”:

“Un codice che io ho per anni desiderato di aver sott’occhio e il«Codex Purpureus Rossanensis». Insieme col frammentario «CodexSinopensis» di Parigi va posto tra le piu belle e rivelatrici produzionidella tarda arte antica, non ancor bizantina. Ne eistono riproduzioniabbastanza buone, e vero, la mia biblioteca le possiede.”

3.

L’immagine di Berenson come dedito esclusivamente al Rinasci-

mento e un limite tracciato postumo che non da conto dell’orizzonte

geografico e cronologico degli interessi da lui coltivati in vita. La sua

raccolta di libri, fotografie e opere d’arte del medio ed estremo

Oriente rappresento un caso senza confronti in Italia agli inizi del

secolo. Nella sua corrispondenza, un buon numero di lettere arrivano

da bizantinisti. Oltre a Toesca, con il quale scambiava informazioni

con frequenza, gli scrivono il francese Gustave Schlumberger, gli

italiani Bettini e De Francovich, gli americani Ernest T. De Wald e

Charles R. Morey, i russi Mikhail Alpatov, Pavlov Muratov e Viktor

Lazarev, che gli chiese aiuto nella ricerca di un editore per la sua

Storia della pittura bizantina, pronta dal 1925 e ferma presso la

Pantheon dal 1932 (sara poi stampata in russo in due volumi nel

1947-1948)4.

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

5R. Longhi, “Giudizio sul Duecento”, Proporzioni 2 (1948). Il giudizio di Ojetti e tratto

da una lettera a Berenson datata 10.8.1921. Una ricostruzione piu rosea dei rapporti

Berenson – Longhi e data in F. Bellini, “Una passione giovanile di Roberto Longhi:

Bernard Berenson”, in L’arte di scrivere sull’arte. Roberto Longhi nella cultura del nostro tempo,

a cura di G. Previtali (Roma, 1982), pp. 9-26. Longhi aveva dato giudizi entusiastici su

Berenson: R. Longhi, Recensione a B. Berenson, The Study and Criticism of Italian Art

(London, 1916), L’Arte 1917, p. 297.

Americano, antifascista ed ebreo, Berenson non ebbe vita facile

durante il fascismo. Anche con i critici italiani i rapporti furono tesi

ed alterni; Longhi, ad esempio, che Berenson non sopportava (come

si legge nella corrispondenza tra Berenson e Toesca) e che pure

tradusse The Italian Painters of the Renaissance di Berenson (“una

famosa, anzi famigerata traduzione”, come fu definita da Ojetti),

doveva avere proprio Berenson in mente quando ironizzo nel “Giudi-

zio sul Duecento” sulla “estrema squisitezza del miliardario che non

fara mancare alla propria raccolta una Madonna dei Berlinghieri o

del Rubliev, un Crocefisso romanico spoletino o uno scortecciato

antependio di Catalogna” ed imputo la provocazione di “spasimi

artificiali” per quelle pitture a “certi studiosi da transatlantico di

lusso”5. La riconciliazione tra Longhi e Berenson avvenne solo in eta

avanzata, con i ripensamenti di Longhi dopo il crollo del fascismo.

Come Toesca, Berenson non nutrı alcuna simpatia per il regime; le

velleita italiane di superpotenza e le pretese di ingrandimenti territo-

riali gli erano odiose. Dopo il colpo di stato fascista divennero tesi i

suoi rapporti con gli intellettuali sostenitori del regime e questi lo

evitarono (anche Ojetti, dopo le sviolinature degli anni precedenti,

non si fece piu vedere ai Tatti). Ospitando il rappresentante della

Banca Morgan venuto a negoziare un prestito all’Italia, Berenson

fece del suo meglio per metterlo in contatto con antifascisti e convin-

cerlo a non finanziare Mussolini. Amici di Berenson furono Gaetano

Salvemini, al quale consiglio di lasciare l’Italia (Salvemini, poi, fuggı

effettivamente all’estero), e Giovanni Amendola (che fu ucciso dai

fascisti nel 1926); Bianchi Bandinelli fu suo compagno di viaggio e

corrispondente. Con la dichiarazione di guerra italiana agli Stati

Uniti arrivarono minacce di requisizione di Villa I Tatti e manifesta-

zioni di fascisti fiorentini che reclamavano l’arresto di Berenson

come spia americana.

L’ingresso di Berenson nella polemica bizantina avvenne nel

1920, quando Ojetti lo invito a mandare un suo scritto per Dedalo, la

rivista da lui diretta. Berenson consegno un testo inglese (“un gran

GLI ALTRI FILOBIZANTINI

6B. Berenson, “Due dipinti del decimosecondo secolo venuti da Costantinopoli”, Dedalo

2 (1921-1922), pp. 285-304; ristampato in inglese come “Two Twelfth-Century Paintings

from Constantinople”, in B. B., Studies in Medieval Paintings (New Haven, 1930), pp. 1-16.

La citazione di Ojetti e da una sua lettera a Berenson del 15.8.1921; dalle lettere di Ojetti

risulta che piu volte furono discussi problemi sorti nella traduzione italiana di alcune

espressioni inglesi del testo di Berenson.

bell’articolo,” – gli scrisse Ojetti – “esempio d’equilibrio perfetto tra

la sensibilita e la logica, tra la dottrina e il gusto”); tradotto in

italiano in modo pedestre, il testo apparve sulla seconda annata di

Dedalo (1921-1922) con il titolo goffo e cacofonico “Due dipinti del

decimosecondo secolo venuti da Costantinopoli”6. Nell’articolo Be-

renson discusse due tavole con la Madonna col Bambino allora in

possesso dei collezionisti americani Otto Kahn e Carl Hamilton di

New York, passate poi entrambe alla National Gallery di Washing-

ton (figg. 76-77); Berenson giudico costantinopolitane le tavole e le

dato non piu tardi dell’anno 1200 (entrambe le Madonne sono ora

datate alla seconda meta del XIII secolo).

L’articolo su Dedalo comincia proclamando il primato di Bisanzio

per tutto il Medioevo: “fino all’anno 1200, la pittura in tutta Europa

fu costantinopolitana, come negli ultimi cent’anni, in cifra tonda, e

stata parigina”. Gli studiosi di arte medievale, scrive Berenson, dopo

aver reagito alla tradizione vasariana per la quale tutto prima di

Giotto era bizantino, sono ora tornati a pensare che Vasari avesse

ragione: i molti tentativi fatti per provare che l’arte medievale deriva

da fonti indigene – italiane, nordiche o altro – hanno provato sola-

mente che queste energie provinciali riuscirono a impedire la diffu-

sione della autorita e delle maniere della capitale Costantinopoli.

L’arte bizantina non e unitaria ed il termine “bizantino” e ormai

insoddisfacente allo stato delle conoscenze: nel mondo orientale si

distinguono, oggi, provincia da provincia, epoca da epoca. Una

difficolta enorme per gli studiosi e data dal fatto che di Bisanzio e

sopravvissuto molto poco ed in cattive condizioni; e come se tutti i

quadri francesi dell’Ottocento fossero scomparsi e dovessimo accon-

tentarci delle imitazioni; fanno eccezione le due Madonne newyor-

kesi che sono rare testimonianze di altissima qualita dell’arte della

capitale bizantina:

“Immaginate che tutti i quadri dipinti da francesi a Parigi fosseroscomparsi e che noi per tentar d’indovinare i loro caratteri nonavessimo niente di meglio che le tele superstiti di imitatori (pernominare i piu famosi), come Sargent o Zorn o Libermann o Sickert o

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

7Le citazioni sono dalle pp. 285, 286, 292-293, 304.

Mancini o Sorolla. Che rivelazione sarebbe scoprire un capolavoro diManet o di Degas! Una rivelazione altrettanto grande sarebbe, perl’arte medievale, se oggi venisse in luce qualche capolavoro realmenteeseguito in Costantinopoli.”

La sentenza era doppiamente irritante per la critica italiana,

perche dava per indubbia la preminenza degli artisti orientali su

qualunque occidentale nel Medioevo; e perche ricordava il dominio

artistico francese nell’arte moderna, che critici e pittori italiani cerca-

vano di demolire in quegli anni. Berenson, dunque, presenta le due

Madonne come opera di uno stesso artista di Costantinopoli, ne

descrive la innegabile qualita estetica, superiore senza confronti a

quella delle opere contemporanee dell’Occidente; nelle Madonne

non e “nessun punto in cui voi possiate dire, come spesso vi capita

davanti a pitture occidentali prima di Giotto: Vedo quel che l’artista

intende dire, ma mi fa pensare che egli non riesca a dirlo meglio”. E

poco piu avanti:

“Niente prima di Giotto, conosco in Italia di paragonabile alla bellezzadi forma e di colore e alla perfetta tecnica di questo pittore.Sarebbe assurdo tentare di confrontargli qualunque artista italiano,anche Cimabue e Duccio, lasciando da parte Margaritone, Guido, iBerlinghieri, Giunta e Coppo. La loro capacita del disegno e, comelinea, troppo meno ferma, meno rapida, e meno sicura; e, per laminore efficacia della tecnica pittorica, il loro colore appare, al con-fronto, o sporco o superficiale o sbiadito.”

In conclusione, nella scuola alla quale appartiene il maestro che

dipinse le due Madonne troviamo gli antenati di Cavallini e di

Giotto. Se intendeva provocare i fanatici della supremazia dell’arte

italiana, Berenson era senz’altro riuscito nell’intento7.

Berenson aveva scritto una sola volta in precedenza di opere di

un periodo cosı alto (e non vi ritornera piu sopra), quando sull’an-

nata 1919-1920 di Art in America discusse tre pannelli raffiguranti

Cristo, San Pietro e San Giovanni nella collezione Hamilton, per i

quali alla attribuzione originaria a Margaritone d’Arezzo sostituı

quella, in seguito anch’essa contestata, a Cimabue (i tre pannelli, che

facevano parte di un polittico comprendente anche un San Giovanni

Battista e una Sant’Orsola, sono passati poi nella collezione Duveen

GLI ALTRI FILOBIZANTINI

8B. Berenson, “A Newly Discovered Cimabue”, Art in America 8 (1919-1920), pp.

251-271; ristampato in B. B., Studies in Medieval Paintings, pp. 17-31.9

B. Berenson, Aestethics, Ethics and History in the Arts of Visual Representation (London,

1948); poi ristampato come Aesthetics and History (London, 19553); traduzione italiana

Estetica, etica e storia nelle arti della rappresentazione visiva (Firenze, 1948); id., L’arco di

Costantino o della decadenza della forma (Milano – Firenze, 1952); edizione inglese The Arch

of Constantine or the Decline of Form (London, 1954).

di New York)8. Berenson esamino la possibilita di attribuzione a

pittori romani, che pero escluse: non rimanevano cosı che la Toscana

o Bisanzio (“‘the Byzantine question’”); esclusa anche quest’ultima,

l’autore dei pannelli non poteva essere quindi che un pittore cosı

bizantineggiante come Cimabue. La datazione proposta per i pan-

nelli fu il 1272 circa.

Nonostante la sua passione per l’Oriente cristiano, posto come

modello del Medioevo occidentale, e la sua attenzione verso i libri di

Strzygowski, Berenson non fu mai, tuttavia, strzygowskiano. Anzi.

Nel 1941 Berenson porto a conclusione Estetica, etica e storia nelle arti

della rappresentazione visiva, uno scritto la cui pubblicazione fu ri-

mandata per la dichiarazione di guerra italiana agli Stati Uniti (ap-

parve nel 1948) e che era stato inteso come introduzione a L’arco di

Costantino (apparso nel 1952)9; Berenson riprende qui da Strzygow-

ski l’idea di un’area culturale eccezionalmente fertile nel Medio

Oriente del IV-VI secolo costituita dal triangolo geografico delle

regioni di Edessa e Nisibi, citta entrambe sedi di universita. Dopo

questo periodo d’oro intervengono per Berenson le “follie metafisi-

che” del governo bizantino, che antepose la teologia alla politica:

“sfondano sassanidi, arabi, selgiuchidi e ottomani”. Un’arte propria-

mente medievale non comincia prima di Giustiniano: mentre a

Occidente le soldatesche barbare ridussero la civilta a uno stadio

troppo basso perche le arti visive potessero prosperare, Costantino-

poli, grazie alla corte ed alla Chiesa, conservo un tono di vita che

altrove scomparve ed influenzo l’arte dell’Occidente fino al tardo

Duecento. Seguono le lodi della tecnica ingegneristica delle chiese di

Santa Sofia, Sant’Irene, Santi Sergio e Bacco e San Vitale, alla quale

non e confrontabile quella della Cappella Palatina di Aquisgrana e

degli altri edifici occidentali. Berenson ama Bisanzio come continua-

trice della civilta antica, idea che risale ai primordi ottocenteschi

della bizantinistica, ha la sua prosecuzione tra gli studiosi russi ed e

egemone tra gli americani: Costantinopoli attrae artigiani da Antio-

chia, Alessandria, Damasco, Efeso, Tralles, cosı come Parigi attrae

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

10Vedi Capitolo 5 paragrafo c.

11Vedi Capitolo 12 paragrafo a.

12P. D’Ancona, Les primitifs italiens du XI

eau XIII

esiecle (Paris, 1935), prefazione pp.

9-10; sui rapporti tra arte italiana ed arte bizantina vedi soprattutto il Capitolo 1, pp. 11-39.

Per Sironi vedi Capitolo 9 paragrafo a.

artisti da tutto il mondo. L’arte dell’impero d’Oriente andrebbe

allora chiamata “arte ellenistica medievale”, piuttosto che “arte bi-

zantina”, un termine pieno di pregiudizi:

“D’altra parte, se si lasciasse fare a me, abolirei la parola «bizantina» ela sostituirei con «ellenistico medievale» per designare l’arte del mondodi lingua greca, almeno fino alla presa di Costantinopoli da parte deibarbari di razza latina.”.

Quanto al panorientalismo ariano di Strzygowski, il giudizio di

Berenson e gia stato riportato10

. L’ultima volta che Berenson inter-

venne sull’arte bizantina fu in un articolo su due colonne in terza

pagina del Corriere della Sera, nel settembre del 1954, dal titolo “San

Marco Tempio e Museo Bizantino”11

.

b. Lionello Venturi, anticlassico

Poche persone sembrano essere state legate a Toesca negli anni del

fascismo e averne condiviso la visione controcorrente dell’arte me-

dievale. Dei suoi allievi, Paolo D’Ancona seguı Toesca nel libro sui

primitivi italiani dall’XI al XIII secolo, pubblicato in francese a

Parigi nel 1935, dove D’Ancona affermo la necessita di rimuovere gli

ostacoli al riconoscimento del valore dell’arte bizantina e dei primi-

tivi, dovuti al predominio della dottrina di fede classica e realista

vasariana, e lodo la nuova base estetica data all’arte medievale da

Lionello Venturi con Il gusto dei primitivi. Anche Emilio Cecchi fu

sostanzialmente con Toesca e Venturi su Giotto (“bizantino – tosca-

no”) nella monografia del 1937; e Mario Sironi, uno degli artisti piu

attivi a favore del fascismo, fece dell’arte bizantina lo stelo da cui

fiorirono Giotto e l’arte del Trecento italiano in “Racemi d’oro” del

193512

.

Lionello Venturi, figlio di Adolfo, fu una delle bestie nere dei

fascisti, attaccato alla pari dell’austriaco Strzygowski. Nel 1930, Il

Giornale d’Italia pubblico una serie di articoli contro quelli che

GLI ALTRI FILOBIZANTINI

13Vedi Capitolo 6 paragrafo c.

considerava i denigratori antipatriottici dell’arte italiana: Toesca,

Strzygowski e, appunto, Venturi (fig. 78)13

. Partito volontario per il

fronte nella prima guerra mondiale, Venturi divenne, tornato dalla

guerra, uno dei fondatori dei fasci di Torino. Figura nell’elenco dei

partecipanti al Convegno per la Cultura Fascista del 1925; aderı al

Manifesto degli intellettuali fascisti (Cecchi invece aderı al manifesto

degli intellettuali antifascisti di Croce). Venturi si avvicino in seguito

a Riccardo Gualino, l’industriale antifascista della SNIA – Viscosa.

Probabilmente a seguito dell’assassinio di Matteotti nel 1925 e della

successiva sterzata dittatoriale data dal regime fascista dal 1926 ed

influenzato dalle posizioni prese da Croce, Venturi passo tra gli

antifascisti. A Torino, il 28 novembre 1925, un gruppo di futuristi,

tra i quali Fillia (pseudonimo di Luigi Colombo), attacco Venturi

verbalmente durante una sua lezione universitaria alla Pinacoteca e

venne alle mani con i custodi: il motivo, secondo i futuristi, che

erano fascisti, era il rifiuto opposto da Venturi a una studentessa

nella sua pretesa di sostenere un esame con programma sul futuri-

smo italiano. Cosı La Stampa di Torino riferı l’evento nella cronaca

cittadina del 29 novembre:

“Ieri mattina un piccolo gruppo di pittori futuristi ha fatto una dimo-strazione di protesta contro il prof. Lionello Venturi, nelle sale stessedella Pinacoteca, al termine della sua lezione. Il prof. Lionello Venturiha rifiutato ad una studentessa un argomento d’esame sopra l’artefuturista (...). La discussione si accaloro rapidamente, data la presenzadi un grande numero di studenti e genero ben presto in una vivacecolluttazione tra i futuristi ed i custodi accorsi. Il pittore Fillia, che inun primo tempo era stato trattenuto per ribellione alla forza pubblica,e stato in seguito rilasciato.”.

Il giorno successivo, 30 novembre, ancora la cronaca cittadina de

La Stampa, che aveva deplorato l’atto dei futuristi, ospito una lettera

di Venturi che si concludeva dicendo “altri puo credere che basti

studiare la pittura futurista per imparare la storia dell’arte. Io non lo

credo. E la mia opinione vale almeno quella degli altri”. Infine, il

primo dicembre apparve una replica di Fillia, con il succo della

polemica futuristi-Venturi:

“Noi crediamo che si debba anche studiare la pittura futurista perconoscere la storia dell’arte. Quest’incompetenza e in poca armonia

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

14I brani riportati nel testo sono dalle pagine della cronaca cittadina de La Stampa dei

giorni 29 novembre, 30 novembre e 1 dicembre 1929.15

L. Venturi, “Polemica con Ugo Ojetti sul «gusto francese»”, L’arte 33, n.s. 1 (1930), pp.

93-97. Ojetti scrisse a Venturi una lettera aperta pubblicata sulla rivista Pegaso del 1929 alla

quale Venturi rispose su L’Arte del 1930. Su questi punti vedi Capitolo 11 paragrafo a e

Capitolo 6 paragrafi f e c.16

A. Dragone, “Lionello Venturi a Torino: Gualino e i «Sei»”, in Da Cezanne all’Arte

Astratta. Omaggio a Lionello Venturi, Verona, Galleria Comunale d’Arte Moderna, Palazzo

Forti, marzo – aprile 1992; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, giugno – settembre

1992, catalogo della mostra (Milano, 1992), pp. 88-94. Su Casorati e Gobetti: P. Gobetti,

“Un artista moderno: Felice Casorati”, L’ordine nuovo 19 giugno 1921 e Il popolo romano 19

giugno 1921, ristampato in Per Gobetti. Politica arte cultura a Torino 1918 / 1926 (Firenze,

1976), pp. 85-89 e in Opere complete di Piero Gobetti, vol. 2, Scritti storici, 1969, pp. 627-631;

P. Gobetti, Felice Casorati pittore (Torino [1923]), ristampato in Per Gobetti, pp. 90-104 e in

Opere complete di Piero Gobetti, vol. 2, pp. 634-647; vedi inoltre L. Carluccio, “Gobetti e

Casorati”, in Per Gobetti, pp. 105-113; A. Dragone, “Gobetti critico d’arte”, ivi, pp. 121-134.

L. Venturi, “Il pittore Felice Casorati”, Dedalo 4 (1923-1924), pp. 238-261.

con la sua carica di professore. Inoltro con piena responsabilita l’ac-cusa di incompetenza perche Lionello Venturi, durante l’incidente, si eespresso in termini ben diversi da quelli ora adottati a sua difesa. Eglisostenne che impediva un argomento di esami sull’arte futurista per-che non vi era ancora in merito sufficiente possibilita di preparazionecritica. Non abbiamo dunque colpa alcuna se Lionello Venturi ignorale infinite e importanti pubblicazioni nazionali ed estere sul futurismoitaliano. Egli, in ogni modo accettando argomenti di esame su pittoriviventi e moderni, ma non futuristi (e sui quali vi sono molto menopossibilita di preparazione critica), contraddice le proprie parole.”

14.

Venturi, dunque, negava valore al futurismo ed invece, secondo

Fillia, accettava di far sostenere esami su altre correnti contemporanee

(presumibilmente francesi). Nello stesso tempo il conservatore Ojetti

accusava Venturi di tenere lezione sui pittori francesi e non sugli

italiani e di non capire che Cezanne, il pittore francese piu amato ed

inattaccabile, era tornato al gusto plastico della pittura italiana (Ojetti,

comunque, riteneva solo Venturi e Toesca affidabili come storici

dell’arte in Italia)15

. Venturi era sostenitore del Gruppo dei Sei, i

pittori torinesi antifascisti allievi di Felice Casorati, vicino anche lui a

Gualino e che Piero Gobetti aveva sostenuto in piu scritti16

. Dopo il

processo sommario a Gualino voluto dal regime con la scusa del

fallimento della SNIA – Viscosa nel 1931, che si concluse con la

condanna a cinque anni di confino a Lipari, Venturi rifiuto di firmare

l’adesione al fascismo richiesta dal regime ai docenti universitari

(solamente in dodici scelsero di non giurare) e lascio la cattedra di

Torino, emigrando prima in Francia, dove gia era fuggito il figlio

Franco, aderente a “Giustizia e Liberta”, poi negli Stati Uniti; qui,

GLI ALTRI FILOBIZANTINI

17Per queste notizie vedi G. C. Argan, “Le polemiche di Venturi”, Studi Piemontesi 1, n 1

(1972), pp. 118-124; id., “L’impegno politico per la liberta della cultura”, in Da Cezanne

all’Arte Astratta, pp. 11-12; H. Goetz, Der freie Geist und seine Widersacher (Frankfurt am

Main, 1993), traduzione italiana Il giuramento rifiutato. I docenti universitari e il regime fascista

(Milano, 2000), pp. 155-166, con bibliografia alla nota 536 p. 166; G. Boatti, Preferirei di no.

La storia dei dodici professori che si opposero a Mussolini (Torino, 2001), pp. 153-171; ed inoltre,

S. Lodovici [Samek Ludovici], Storici, teorici e critici delle arti figurative (1800 – 1940) (Roma,

1946). La corrispondenza di Lionello Venturi con Berenson e conservata a Villa I Tatti. Sulla

storia della cattedra romana vedi al Capitolo 7 paragrafo a.18

Secondo Giovanni Previtali, “Roberto Longhi, profilo biografico”, in L’arte di scrivere

sull’arte, pp. 141-170, Il gusto dei primitivi rappresento per Longhi una sintesi di tutti gli

idola polemici della sua gioventu: rozzo contenutismo, misticismo estetico, snobismo

primitivistico (pp. 160-161). R. Longhi, “L’Impressionismo e il gusto degli Italiani”,

prefazione a J. Rewald, Storia dell’Impressionismo (Firenze, 1949), pp. v-xxix. Sul libro di

Venturi vedi anche il giudizio contemporaneo di Pittaluga, “Arte e studi in Italia nel ‘900”,

pp. 460-461.

con Salvemini (che aveva lasciato gia anni prima la cattedra di Storia

Moderna all’Universita di Firenze, denunziando la mancanza di

dignita e “la servile adulazione del partito dominante” che il fascismo

voleva imporre ai docenti), Cantarella e altri, fondo l’organizzazione

antifascista Mazzini Society. Negli Stati Uniti, tuttavia, ebbe grosse

difficolta a trovare una posizione, come risulta dalle sue lettere con

richieste di aiuto a Berenson, finendo poi ad insegnare alla Johns

Hopkins University di Baltimora. Infine, nel 1945, subito dopo la

liberazione, torno in Italia dove insegno all’Universita di Roma17

.

Lionello Venturi fu spesso in rotta con Longhi: Il gusto dei

primitivi (1926) sembro a quest’ultimo una raccolta di errori metodo-

logici nella lettura delle opere d’arte medievali, tra i quali il peso dato

da Venturi alla spiritualita, alla religione ed alla interpretazione del

Medioevo come trionfo dello stato mistico. Longhi, nella introdu-

zione alla Storia dell’impressionismo di John Rewald, che uscı in

traduzione italiana nel 1949, con un titolo, “L’Impressionismo e il

gusto degli Italiani”, che richiamava quello del libro di Venturi,

accuso “Venturi junior nel suo libro di principı sul Gusto dei primitivi,

fondato sulla speciosa unificazione dei fatti artistici piu varı sotto

l’impresa di un eterno primitivismo che ha qui sapore di mistica

rivelazione”, di aver confuso insieme macchiaioli e impressionisti e di

aver inserito Fattori tra gli ultimi18

. Venturi fu anche consulente di

Gualino negli acquisti per la sua collezione; nel catalogo di questa,

del 1926, da lui curato, figuravano una Madonna di Cimabue (fig.

79), una Madonna attribuita a Guido da Siena, una tavola con

quattro santi di arte toscana del Duecento, una Ascensione di

Giotto, oggetti di oreficeria medievale dalla collezione Stroganov,

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

19L. Venturi, La Collezione Gualino (Torino – Roma, 1926); M. M. Lamberti, “Riccardo

Gualino: una collezione e molti progetti”, Ricerche di storia dell’arte 12 (1980), pp. 5-18.20

L. Venturi, “Per una critica dell’arte contemporanea”, Solaria 7, n 3 (marzo 1932), pp.

36-40, citazione nel testo da pp. 37-39.

oggetti di arte cinese e giapponese, una placchetta di un dittico

d’avorio bizantino raffigurante Cristo (fig. 80) e un cofanetto d’avo-

rio italo-bizantino anch’esso dalla collezione Stroganov, oltre a qua-

dri di impressionisti francesi. Con il fallimento di Gualino la colle-

zione fu presa in pegno e confiscata e poi venduta; fu rimessa

insieme solo in parte dopo la guerra. Longhi era invece consulente

dell’altra notissima collezione privata di Alessandro Contini Bona-

cossi, il nobile fiorentino grande sostenitore del fascismo19

.

Nel 1932, in un commento alla prima Quadriennale di Roma

organizzata a suo parere per contrastare la tendenza impressionistica

in arte, Lionello Venturi sostenne, come poi Sironi, che la tradizione

artistica italiana ha vari aspetti, da Wiligelmo a Michelangelo, non e

solo classicita (una affermazione gia fatta da Croce); l’arte classica

antica non e romana: il contributo romano all’arte antica fu, in

reaalta, anticlassico e impressionistico; gli artisti italiani hanno preso

da greci, bizantini, borgognoni, fiamminghi, ecc.20

:

“La Quadriennale romana e stata indetta come una affermazionevittoriosa della tradizione italiana nell’arte e per opporsi al gustoimpressionistico d’origine estera, come esempio del nuovo freno intel-lettuale nell’arte, per correggere il libero abbandono alla sensibilita ealla fantasia. (...)L’uomo della strada chiede a questo punto: di grazia che cosa e latradizione italiana? (...)La tradizione italiana e cosı ricca e complessa che comprende in se igusti piu opposti; e pero nessuno ha il diritto di esaurire la tradizioneitaliana. Si pensi a Viligelmo e a Giovanni Pisano, a Cimabue e aSimone Martini, a Paolo Uccello e a Donato, a Pollaiuolo e a Tinto-retto, a Tiepolo e a Guardi, perfino ai piu profondi capolavori diMichelangelo e di Tiziano: e difficile comprenderli sotto lo schema diarte classica nel suo significato consueto. Che se poi classico vuolsignificare arte perfetta, si puo fare a meno di citarlo, per evitare gliequivoci.”.

Il plasticismo come motivo costitutivo e ideale dell’arte italiana

era stato gia preso di mira da Venturi nel 1926 in un articolo

intitolato “Paesaggio e figura. Un problema della mostra del Nove-

cento”, pubblicato sul quotidiano Il Secolo il 2 marzo (cioe due

GLI ALTRI FILOBIZANTINI

21L. Venturi, “Paesaggio e figura. Un problema della mostra del Novecento”, Il secolo, 2

marzo 1926, ristampato in L. V., Pretesti di critica (Milano, 1929), pp. 191-196, citazioni nel

testo da p. 194.

settimane dopo che Il Popolo d’Italia aveva pubblicato il discorso di

Mussolini sulla riscossa artistica italiana provata dalla Mostra del

Novecento di Milano ed Il Tevere aveva incensato i nuovi artisti

italiani che tornavano al classicismo. Venturi giudica il plasticismo

solo come una strada dell’arte italiana che viene imposta come la

migliore e l’unica dal dopoguerra:

“(...) la moda trionfante si basa sul volume, sul rilievo e sulla terzadimensione. E una strada non migliore ne peggiore di tante altre; ma ipittori che vi camminano sopra devono credere appieno che essa e lamigliore, perfettissima e unica, divina piu che umana, capace di ogniprodigio. Cosı hanno creduto gli artisti italiani di dopo la guerra, perl’interpretazione classica sopraggiunta (...).”.

Questa strada del classicismo, tra l’altro, lascia irrisolto il pro-

blema della raffigurazione del paesaggio; questa si origina col senti-

mento cristiano della natura che e specchio del valore infinito di Dio;

il mosaico absidale di Sant’Apollinare in Classe rappresenta allora la

“prima, meravigliosa e perfetta pagina paesistica” in arte (fig. 81):

“L’origine dell’arte del paesaggio si deve dunque rintracciare semplice-mente nel sentimento cristiano, nella necessita cristiana d’intendere ilvalore infinito di Dio. E a chi obiettasse che, quando la pittura dipaesaggio si e diffusa, il cristianesimo esisteva da molto tempo ed eraanzi invecchiato, risponderei che tale innegabile contingenza non im-pedisce che la prima meravigliosa e perfetta pagina paesistica risalga alVI secolo: e se non ci credete, andate a vederla in S. Apollinare inClasse presso Ravenna.”

21.

Nello stesso 1926 uscı Il gusto dei primitivi, il lavoro metodologi-

camente piu complesso e piu criticato di Venturi, un libro che si rifa

ampiamente a Croce, il quale, tuttavia, se aveva apprezzato il primo

Venturi degli anni Dieci (dove – dice Croce –si era “avvicinato alla

schietta forma di critica che veniamo definendo”), aveva poi preso le

distanze dal metodo di Venturi (che si era lasciato “allettare, come

egli stesso dichiara, dai concetti del Berenson e del Longhi”) e da Il

gusto dei primitivi. Questo libro costituı una summa del pensiero di

Venturi su medioevo e classicita, anche qui considerata come uno

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

22L. Venturi, Il gusto dei primitivi (Bologna, 1926; ristampa Torino, 1972, con prefazione

di Giulio Carlo Argan); la descrizione di Santa Sofia di Costantinopoli e le citazioni nel

testo sono alle pp. 39-40, 7, 9, 10, 34-35 della ristampa. Sul significato de Il gusto dei

primitivi e sulla accoglienza datagli dalla critica italiana vedi l’introduzione di Argan alla

seconda edizione del libro e brani, note e bibliografia raccolti in P. Barocchi, Storia moderna

dell’arte in Italia. Manifesti polemiche documenti, vol. 3/1, Dal Novecento ai dibattiti sulla figura

e sul monumentale 1925 – 1945 (Torino, 1990), pp. 37-59. Il commento di Croce e in La

critica e la storia delle arti figurative. Questioni di metodo (Bari, 1934), pp. 183-187; Croce

parla delle teorie e delle opere di Venturi in varie altre parti del libro: pp. 17-18, 29-34,

139-146, 169-172. Per una critica alla individuazione di un cambiamento di gusto come

causa della rottura nella tradizione artistica dell’ellenismo e della nascita della nuova

tradizione formale del medioevo, vedi R. Bianchi Bandinelli, “L’archeologia come scienza

storica”, Atti della Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di Scienze morali, storiche e

filologiche. Rendiconti delle adunanze solenni 8, fasc. 9 (1973), ristampato in R. B. B.

Introduzione all’archeologia classica come storia dell’arte antica, a cura di L. Franchi dell’Orto

(Bari, 1976), p. xviii.

stadio dell’arte, non la perfezione (“se si crede che greci e romani

abbiano raggiunta «la» perfezione dell’arte, anzi che «una» loro perfe-

zione, si disconosce il valore della personalita in arte”). Venturi

oppone l’antichita come trionfo della ragione al medioevo come

trionfo dello stato mistico. L’arte e “colloquio tra l’uomo e Dio” e

c’e analogia tra creazione artistica e processo mistico. L’affermazione

su Santa Sofia di Costantinopoli di Procopio di Cesarea (qui “Dio

non e lontano”) e la descrizione di Paolo Silenziario dei colori e delle

luci, nei quali consiste la divinita che si sente presente nella chiesa,

sono brani apologetici sull’arte bizantina. Venturi mise due sole

riproduzioni etichettate come opere bizantine: il mosaico absidale di

Sant’Apollinare in Classe (fig. 81), che aveva usato come esempio di

pittura di paesaggio cristiana, e il mosaico absidale della Vergine

orante nella chiesa di Murano22

. Le sue affermazioni contro il gusto

corrente romano nell’arte antica e nell’arte moderna furono davvero

coraggiose. Venturi pose in antitesi, senza prendere appunto posi-

zione a favore dei valori romani, i valori artistici della classicita con

quelli bizantini (costruzione contro decorazione, forma contro colo-

re); per lui si doveva rinunciare a “Roma madre” per “Parigi amica”,

al classicismo romano per la pittura moderna francese anticlassica,

alla costruzione e alla forma degli artisti greci per la decorazione e il

colore degli artisti bizantini. La nostra cultura e satura di cultura

greco-romana; di qui il classico storico della civilta antica sentito

come classico filosofico universale: se l’arte antica e perfetta, si

spinge alla imitazione e si mortifica la creativita; nasce il ragazzino

che veste da soldato romano, che e alla pari dell’artista che copia

marmi antichi.

GLI ALTRI FILOBIZANTINI

23I programmi per l’esame di maturita secondo la Legge Gentile sono pubblicati sul

Supplemento della Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia n 267 del 14 novembre 1923,

“Approvazione degli orari e dei programmi per le Regie scuole medie”; i brani riportati dalle

Avvertenze per l’esame di maturita del Liceo Classico sono alle pp. 14-15. Cf. M. Cagnetta,

“Le letture controllate”, in Lo spazio letterario di Roma antica (Roma, 1991), 4, pp. 399-427,

spec. pp. 406 sgg. L’intervento di Adolfo Venturi per l’inserimento della storia dell’arte

come materia d’insegnamento e riferito da L. Grassi, “Insegnamento di Storia dell’Arte nei

c. Programmi scolastici ed altri studiosi allineati

L’interpretazione data da Toesca dell’arte bizantina e del suo in-

flusso sull’arte medievale dell’occidente era troppo orientalistica e

non si ritrova in altri lavori su Bisanzio pubblicati in Italia. D’An-

cona, che dette una lettura dei rapporti tra Bisanzio e l’Italia derivata

da Toesca, pubblico in Francia. L’interpretazione di regime dell’arte

bizantina e sostanzialmente quella di Galassi apparsa per i tipi della

Libreria dello Stato. Nel programma di storia dell’arte del liceo

classico secondo la riforma Gentile del 1923, il cui insegnamento

Adolfo Venturi era riuscito faticosamente a rendere obbligatorio,

tutta l’arte dell’altomedioevo e l’arte bizantina si riducevano a capi-

toli del periodo paleocristiano: “L’influenza bizantina e i suoi carat-

teri – Monumenti ravennati dei secoli V e VI – Le pitture delle

catacombe – I mosaici a Roma e a Ravenna nei secoli V e VI”. Dopo

i mosaici di Roma e Ravenna era un salto di circa 400 anni di storia

artistica ed il programma riprendeva dal periodo romanico con i

“Caratteri della scultura romanica in Italia – Il fantastico e geniale

senso plastico-decorativo – I Cosmati – Le porte di bronzo – Mosaici

nell’Italia meridionale e in Sicilia – Jacopo Torriti – Pietro Cavallini

– Cimabue – Duccio”, per poi passare al gotico. Nelle avvertenze

premesse ai programmi d’esame del liceo classico si istruivano i

docenti a riferirsi ai cenni di storia dell’estetica dati per il programma

di italiano; l’approccio alle opere d’arte doveva essere formale, lo

scolaro doveva conoscere la storia del gusto delle varie epoche, senza

preoccuparsi di altro che non fosse il valore estetico delle opere:

“le opere d’arte devono essere guardate con animo sgombro da ognipreoccupazione che non sia quella del valore estetico, del valoreumano dell’opera stessa.”“(...) Gli scopi che si propone l’insegnamento della storia dell’artesono la conoscenza delle grandi civilta artistiche e il raffinamento dellaconoscenza estetica. L’esaminatore si accertera quindi se lo scolaro haconoscenza della storia del gusto comune agli artisti (architetti, scul-tori, pittori, tessitori, vetrai, miniatori, incisori) d’una data epoca(...).”

23.

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

Licei”, in Atti del Primo Convegno Internazionale per le arti figurative, Firenze, Studio Italiano

di Storia dell’Arte, Palazzo Strozzi, 20-26 giugno 1948 (Firenze, 1948), pp. 201-203.24

U. Ojetti e L. Dami, Atlante di storia dell’arte italiana, 1, Dalle origini dell’arte cristiana

alla fine del Trecento (Milano – Roma [1925]), citazione da p. 17. L’opposizione tra senso

della forma e dello spazio (plasticismo) dell’arte classica, romana, e senso del colore

(colorismo) dell’arte bizantina e accettata come distintiva dell’antichita e di Bisanzio in

storici dell’arte ben piu avveduti come Longhi e da lui risolta a favore del primo: il

colorismo dei Bizantini a San Vitale (che pero e qualita apprezzata: “capolavoro di stile

puramente coloristico”) fu “puro tappeto”; a superare questo stadio rudimentale fondendo

colore e forma servirono i senesi, mentre fu Paolo Uccello che raggiunse il “sintetismo

prospettico di forma e colore”: R. Longhi, “Piero dei Franceschi e lo sviluppo della pittura

veneziana”, L’Arte 17 (1914), p. 199: “La larghezza di un grande riposo coloristico era stata

raggiunta una volta dai bizantini del VI secolo, a San Vitale. (...) Il colorismo bizantino

negli esempi di San Vitale aveva raggiunto un delizioso accostamento di superficie late di

colore, ma cio era avvenuto a tutto detrimento del senso per la forma e per lo spazio: era il

colorismo piu genuino ma anche piu rudimentale: il puro tappeto’’.

E p. 201: “Paolo Uccello giungeva di nuovo all’intarsio che nel colore equivale al tappeto;

ma non era piu il tappeto bizantino stesso [steso?] su forme incorporee e superficiali, ma il

tappeto che zonava di colore le superfici di forme vieppiu lontane riportate a galla dalla

prospettiva. Era per la prima volta, per quanto segmentato, frammentato e toppato il

sincretismo prospettico di forma-colore.”.

Osservazioni simili sul colore nell’arte bizantina si trovano nelle dispense del corso del

1914, raccolte e pubblicate col titolo Breve ma veridica storia della pittura italiana (Firenze,

1980), pp. 16-17: “Vi esorto a considerare come capolavoro di stile puramente coloristico i

musaici di San Vitale a Ravenna: dove l’artista bizantino, mirabilmente noncurante della

convenzione plastica, ha immaginato Giustiniano e i suoi cortigiani, Teodora e le sue dame,

come semplici accostamenti di late stole rettangolari fasciate largamente di croci, placcate di

borchie e di gemme, sovra un sol piano’’. E inoltre, pp. 42-44, San Vitale rappresenta “lo

stile coloristico puro”, “un mondo artistico affatto nuovo ed opposto al precedente”, cioe lo

stile plastico dei mosaici romani, che si vede anche nel Buon Pastore di Galla Placidia; “lo

spazio e abolito, o almeno e uno spazio a due dimensioni”, i corpi “non sono forma ma

fantasma appiattito e superficiale”.25

S. Bettini, “Padova e l’arte cristiana d’Oriente”, Atti del Reale Istituto Veneto di scienze,

lettere ed arti. Parte seconda (scienze morali e lettere) 96 (1936-1937), pp. 203-297.

Nei manuali scolastici di storia dell’arte l’arte bizantina fu de-

scritta nei termini galassiani: l’Atlante di storia dell’arte italiana di Ugo

Ojetti e Luigi Dami – entrambi sostenitori dell’arte italiana alla

Soffici – usa per l’arte bizantina i luoghi comuni di rinunzia alle

forme plastiche e realistiche, forme appiattite contro le superfici,

senso del colore astratto, figure assorte, gesti fissi; ma, pure, con il

riconoscimento che “con le supreme e raffinate armonie delle sue

linee e delle sue zone di colore essa ha toccato, per certi lati, uno dei

culmini della pittura”24

.

Bettini si era occupato inizialmente di Jacopo Bassano, di arte

moderna, di Giusto de’ Menabuoi e arte veneta del Trecento; poi, a

seguito degli incarichi a Creta per l’Istituto Veneto di Scienze,

Lettere ed Arti, era passato alla pittura cretese-veneziana e ai rap-

porti tra Padova, Romagna e Bisanzio25

. Con i volumi su pittura e

GLI ALTRI FILOBIZANTINI

26Vedi Capitolo 9 paragrafo d. Nel 1936, in “Padova e l’arte cristiana d’Oriente”, da cui

e presa la citazione riportata nel testo tra parentesi, Bettini cerco di tenersi in equilibrio tra

Bisanzio e Roma quanto al problema del primato della due citta nelle origini dell’arte

cristiana (p. 213):

“Concludendo: un fatto allo stato attuale delle ricerche appare, secondo me, certo, a chi

non abbia la visione viziata da preconcetti: ed e questo. I procedimenti costruttivi esaminati

scultura bizantine usciti negli anni 1937, 1939 e 1944, fornı la prima

storia generale di quell’arte, che arriva fino al periodo paleologo e

comprende anche l’arte russa, greca, serba e cretese, scritta da un

italiano e aggiornata sui risultati della bizantistica internazionale del

periodo. Pavel Muratov nel 1925 e 1928 e Wolfang Fritz Volbach

nel 1935 avevano gia pubblicato in italiano storie generali, rispettiva-

mente, della pittura bizantina e russa e dell’arte bizantina. All’arte

bizantina, “opposta per senso alla classica” – una banalita che Bettini

avrebbe potuto evitare –, viene riconosciuto un primato nel raggiun-

gimento di una “nuova, perfetta unita di costruzione e decorazione”,

fondata “non sopra un’obiettiva rappresentazione di spazio, ma so-

pra una radicale negazione dello spazio obiettivamente rappresenta-

to”.

Scrivendo a Berenson nel 1942, quando era Direttore del Museo

Civico di Padova, Bettini confesso di sentirsi isolato in Italia nei suoi

studi sull’arte bizantina, “da noi in genere negletta”, mentre altrove

essa e coltivata in ambienti “troppo a fondo ammalati del morbo

strzygowskiano”, e di aver trovato “aderenze mentali” solo a Vienna

in Julius von Schlosser:

“tanto piu che, come sapete, quest’argomento [dell’arte bizantina] eda noi in genere negletto; e percio io finora ho dovuto lavorarepiuttosto in solitudine – senza trovare vera comprensione in quegliambienti che, come Voi giustamente dite, sono troppo a fondo amma-lati del morbo strzygowskiano. Aderenze mentali trovai soltanto allascuola di Vienna, e sopra tutto nell’amico e mai abbastanza compiantoGiulio Schlosser.”.

Bettini, che gia nei primi lavori su Bisanzio aveva considerato

l’arte bizantina con occhio romanista (“non bisogna dimenticare che,

dicendo Oriente, si dice una parte dell’Impero di Roma”), negli

scritti piu tardi si scaglio contro l’originalita dell’arte bizantina,

facendo dei suoi piu noti conseguimenti nella archittetura e nel

mosaico (ad esempio, lo stile coloristico dei mosaici ravennati del

tempo di Giustiniano) solo una derivazione da Roma e da altri centri

dell’Italia tardoantica26

. Passata la guerra, nuovamente con Beren-

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

dianzi [relativi alla impostazione di una cupola su una base quadrangolare] si trovano in

tutti i paesi del tardo Impero romano (...). Il senso obbiettivo della giustizia storica deve

tuttavia far riconoscere anche a noi che furono Oriente e Bisanzio ad appropriarsi di essi

con piena coscienza, a svilupparli dando loro un significato tecnicamente ed esteticamente

pieno, a sfuttarne fino alle ultime conseguenze l’importanza nella risoluzione del problema

d’impostare la cupola su base quadrangolare, soluzione che poi trasmisero all’Occidente.

Bisogna rendere giustizia all’Oriente; ma non bisogna dimenticare che, dicendo Oriente, si

dice una parte dell’Impero di Roma.”.27

S. Bettini, La pittura di icone cretese-veneziana e i madonneri (Padova, 1933-XI); La

pittura bizantina, 1 (Firenze, 1937), da cui, a p. 7, le citazioni; 2, I mosaici, 2 voll. (Firenze,

1939-XVII); Pittura delle origini cristiane (Novara, 1942-XX); La scultura bizantina, 2 voll.

(Firenze, 1944). P. P. Muratov, La pittura russa antica (Praga – Roma, 1925) e La pittura

bizantina (Roma, 1928); W. F. Volbach, L’arte bizantina nel Medioevo (Biblioteca Apostolica

Vaticana, Museo Sacro. Guida 1. Roma, 1935). Le lettere di Bettini a Berenson sono

conservate presso la Biblioteca Berenson di Villa I Tatti, Settignano, Firenze; le citazioni

sono prese da due lettere del 10 dicembre 1942, del 21 gennaio e del 26 maggio 1948.

Notizie su Bettini sono ricavate dal necrologio scritto da Giovanni Mariacher ed apparso su

Archivio veneto 130 (1988), pp. 169-171. Cf. E. Bordignon Favero, Sergio Bettini. Docenza

universitaria e attivita museale (Loreggia, PD, 1997).

son, nel 1948, Bettini si lamento che l’Italia non avesse istituti

specializzati di ricerca sull’arte bizantina, all’estero sostenuta invece

da “fiorenti e ben avviati” istituti specializzati universitari, soprat-

tutto americani:

“E davvero vergognoso che, mentre tutte le Universita straniere, e leamericane in particolare, hanno istituti fiorenti e ben avviati per lostudio dell’arte bizantina (...), solo in Italia, cioe nel paese che do-vrebbe avere maggiore interesse a questo studio, non se ne sia ancoracapita l’importanza, anzi la necessita. (...) in questo campo da noi chivuol lavorare fa tutto da se.”.

L’istituzione della cattedra padovana di Archeologia Cristiana

alla Facolta di Lettere di Padova gli aveva tuttavia permesso di

rimanere a Padova per mettere su una biblioteca specializzata sul-

l’arte bizantina. La non avvenuta nascita di una bizantinistica ita-

liana, comunque, non era attribuibile certamente solo alla mancanza

di fiorenti finanze disponibili27

.

1Vedi L. Malvano [-Bechelloni], Fascismo e politica dell’immagine (Torino, 1988), Capi-

tolo 4, pp. 175-195.

9

BISANZIO E LA POLITICA FASCISTA

DELLE ARTI

Oltre a Toesca, Berenson e Lionello Venturi, in Italia ci fu una parte

filofrancese e filobizantina, che contava tra i suoi personalita del

regime (Sarfatti) e artisti (Sironi, De Chirico, Severini) aderenti o

vicini al fascismo. Questa parte ebbe il suo trionfo intorno alla meta

degli anni Trenta, con la fortuna riscossa dal muralismo, la cui

estetica era vicina piuttosto a Bisanzio che a Roma, e con l’effimero

riavvicinamento tra Italia e Francia sancita dagli accordi del 7 gen-

naio 1935 siglati come argine alle mire hitleriane su Austria e

Oriente. Anche l’impresa dell’Enciclopedia italiana, nelle voci artisti-

che del Medioevo, non rispecchio affatto alcun nazionalismo romani-

sta e antiorientalista. La mostra della romanita e la mostra giottesca

agli Uffizi, entrambe aperte nel 1937, furono invece due decisivi

punti a favore degli antibizantini. Sepolto il riavvicinamento alla

Francia, anche la primavera bizantina prodotta dal muralismo e

spazzata via. Archeologia e storia dell’arte si adattarono alla retorica

imperiale, soprattutto dopo lo scoppio della guerra contro l’Etiopia,

le sanzioni internazionali che seguirono e la proclamazione dell’Im-

pero dopo la vittoria italiana.

L’arte italiana andava difesa da positivismo, materialismo, cubi-

smo, surrealismo, espressionismo, ebraismo internazionale; e la ro-

manita delle sue radici andava potata della asserita componente

bizantina. Il crollo di serieta nell’approccio a Bisanzio negli studi

della seconda meta degli anni Trenta e impressionante1.

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

a. L’ala filobizantina del regime

Il piu grande patrocinatore dell’ala esterofila, in arte, del regime fu

probabilmente Bottai, che sotto il fascismo ricoprı alcune delle piu

alte cariche politiche e governative (Ministro delle Corporazioni,

Governatore di Roma e Ministro dell’Educazione Nazionale), oltre

ad essere professore ordinario all’Universita di Pisa dal 1930. Le sue

aperture moderniste non mitigarono il suo zelo nella proscrizione dei

docenti ebrei dalle universita italiane nel 1938. Bottai tento nel 1939

di tenere insieme razzismo in arte, pluralita di tradizioni artistiche

italiane, ostilita verso la cultura artistica francese moderna e classici-

smo come unica vera tradizione italiana (come sosteneva Ojetti):

“Il postulato piu recente della dottrina fascista e, come e noto, quellodi razza” [che implica] “tutte le definizioni che, con progressivachiarezza, dal Comune all’Impero, la civilta italiana ha dato dellaforma politica della societa (...).Il placido fiume dell’estetica e stato deviato in mille rigagnoli a irrigareorticelli privati; si e inaridito e non corre piu al mare, mediterraneo,della politica fascista; mentre dal cielo pieno di nembi altri vedevanoscendere minacciosi sulle ordinate culture dell’arte italiana gli apocalit-tici cavalieri del cubismo, del surrealismo, dell’espressionismo, dell’e-braismo internazionali. (...)Attaccarsi alla tradizione per definire il contenuto artistico del com-plesso raz[z]iale italiano era, certo, il consiglio piu a buon mercato.Non il piu giusto. (...) e assurdo tipizzare la tradizione, circoscriverla adeterminate categorie formali. Quando si dice che la tradizione arti-stica italiana e quella classica, si e solo parzialmente nel vero. AncheGiotto, Donatello, Masaccio, Michelangelo e Caravaggio, con centoaltri, appartengono alla nostra esperienza storica, cioe compongono equalificano la tradizione.”.

Che l’arte classica si incroci a un certo punto con la potenza

politica nel primo impero romano, concluse Bottai, non giustifica che

quella situazione zenitale sia la stella polare buona per tutte le rotte

artistiche. La dichiarazione aveva la massima autorevolezza, rico-

prendo Bottai in quel periodo, dal 1936 al 1943, la carica di Ministro

dell’Educazione Nazionale. Ojetti pubblico nel 1942 In Italia, l’arte ha

da essere italiana?, nella cui prefazione sostenne che doti dell’arte

italiana sono la romanita, la continuita, l’umanita (il termine romanita

era stato preferito a classicita per escludere l’arte greca); Bottai rispose

a Ojetti nello stesso 1942, presentando su Le arti (Rassegna bimestrale

d’arte antica e moderna a cura della Direzione Generale delle Arti, che

aveva cominciato a uscire nel 1938) la nuova legge sulle arti figurative,

BISANZIO E LA POLITICA FASCISTA DELLE ARTI

2Di Bottai vedi: “Modernita e tradizione nell’arte italiana d’oggi”, Le arti 1

(1938-1939-XVII), pp. 230-234, dalle cui pp. 230-231 sono le citazioni; Politica fascista delle

arti (Roma, 1940-XVIII); “Fronte dell’arte”, Primato 2, n 4, (15 febbraio 1941-XIX), pp. 3-5;

“Presenza della cultura”, Primato 2, n 24 (15 dicembre 1941-XX), pp. 1-2; “La legge sulle arti

figurative”, Le arti 4 (1942-XX), pp. 243-249. U. Ojetti, In Italia, l’arte ha da essere italiana?

(Milano – Verona, 1942), pp. 14-15:

“Diciamo romanita e non classicita perche questa seconda parola comprende l’arte greca e

il suo soprumano idealismo nel cui fulgore abbagliante si rifugiano i deformatori (...) del

vero.”. La risposta di Bottai fu (“La legge sulle arti figurative”, p. 245) : “Quando, dopo

vent’anni di rivoluzione ne univoca ne equivoca, si sente chiedere se l’arte in Italia abbia da

essere italiana, non e piu il caso di discutere sul piano teorico e di ripetere per la centesima

volta che non soltanto e l’Italia a far l’arte italiana, ma anche l’arte italiana a fare l’Italia: e che,

insomma, a voler storicamente pensare bisogna risalire dai fatti all’idea e non dall’idea

discendere all’esame pregiudicato dei fatti. (...) Ma le tendenze? In linea di principio

potremmo rispondere che una politica, la quale facesse propria l’una o l’altra tendenza,

sarebbe una politica di opzione e non di giudizio. (...) Tutte le tendenze hanno lo stesso

limitato valore: ne alcuna di esse puo, piu degnamente dell’altre, rappresentare lo Stato.”.3

Usciti su La Rivista illustrata del “Popolo d’Italia” 12, n 3 (marzo 1934), pp. 27-34 (“Arte

ignorata”), 13, n 3 (marzo 1935), pp. 33-41 (“Racemi d’oro”), 14, n 2 (febbraio 1936), pp.

39-47 (“Antellami”). Le citazioni da “Arte ignorata” sono a p. 34 e p. 32 rispettivamente.

che lo Stato non poteva scegliere come sua propria arte ufficiale tra una

tendenza artistica e l’altra2. Le posizioni di Bottai erano vicine a quelle

per le quali si era battuto Sironi descrivendo le varie tradizioni dell’arte

italiana testimoniate nei monumenti della penisola in una serie di

articoli su La rivista illustrata del “Popolo d’Italia”, tra i quali: “Arte

ignorata”, “Racemi d’oro” e “Antellami”, pubblicati tra il 1934 e il

1936. In “Arte ignorata”, che e illustrato con dettagli di affreschi di

Giotto a Padova, Sironi pose come “maestri giganteschi della nostra

arte maggiore” le opere di Pompei, Ravenna, Assisi, Padova, Firenze,

avvicinandosi in questo punto a quanto sosteneva Lionello Venturi.

“Dobbiamo credere che quest’arte sia sorpassata e valga solo per

snobistiche contemplazioni? [l’accusa di snobismo, come gia visto, era

gettata ripetutamente contro gli esterofili, ad esempio da Longhi].

Dobbiamo compiangerla perche ignora il fotografismo della pittura

moderna, e il «trompe l’oeil» dell’impressionismo? Impariamo a cono-

scerla. E facile sbirciare una pittura primitiva e dichiararla fuori

concorso per i tempi moderni”3. Ancora su “Arte ignorata”,poche

pagine prima, Sironi aveva scritto:

“Lasceremo noi latini dalle maschere d’oro, dall’anima apollinea che irussi, i soli bolscevichi tentino audaci commenti scultorei e pittoricialla loro rivoluzione? Ci lasceremo imporre una fredda bardaturaprotestante e internazionale che teme dell’arte, il calore aperto dellavita, il tumulto, il colore, l’ornato, per crearci una veste snobistica,

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

corretta e triste sotto le lucidature banali ed eleganti, i cristalli gelidi, imuri clinici, lo sfarzo feroce del lusso elementare? Il salotto dell’Otto-cento e la critica razionalista! Due sfere che minacciano di toccarsi nelfilesteismo comodo e confortevole, nell’odio per l’arte, per il suo sole,per la sua musica, per la sua anima.”.

Un’altra citazione da Sironi, che conviene riportare per esteso,

riguarda nuovamente la sua posizione vicina a Bottai sulla moltepli-

cita di componenti che costituiscono la tradizione artistica italiana

(comprese le opere del periodo “che si dice bizantino”) e sulla

necessita di difendere l’arte etrusca e quella romana dalla soggezione

all’arte greca e dalle mode francesi; e presa dal commento alla III

Quadriennale romana del 1939 e fu pubblicata anch’essa su La

Rivista illustrata del “Popolo d’Italia”:

“(...) il neotradizionalismo, la volonta cioe di ritrovare nel nostrogrande passato le sorgenti stesse di un nuovo vastissimo sperare nonper via di imitazioni e di plagio, ma per una comprensione che erastata abilmente addormentata dal prevalere dell’arte e del movimentoartistico d’oltralpe. Le mode francesi si arrestano infatti ai confinidell’arte italiana. Si fermano a Teotocopulos [El Greco], mentrel’entusiasmo del principio dell’ottocento per gli italiani, sparisce e sidissolve senza lasciar traccia (...). Si vede oggi che la conoscenza delnostro passato, oltre i noti cliche del turismo, ha ancora moltissimastrada da fare. Rimettere in onore la scultura romana ed etrusca,liberandole dal fantasma di una soggezione alla Grecia, riaffermare lagrandezza dei mosaicisti italiani del periodo che si dice bizantino, mache fu anche una grande e essenziale affermazione del genio italiano,rivedere le posizioni dell’arte romanica, genialissima e completa affer-mazione dopo i romani (...), tutte queste tappe, che sono necessarieperche l’arte italiana si riveli nella sua vera grandezza e nella suaimmensa estensione, sono in parte gia percorse.”.

“Racemi d’oro” e lo scritto piu elogiativo dell’arte bizantina

apparso in Italia negli anni Trenta (fig. 82-83). Le riproduzioni che

lo accompagnano sono dettagli dei mosaici di Sant’Apollinare Nuovo

e San Vitale a Ravenna e delle chiese veneziane di Torcello e San

Marco. Sironi ha cura di attaccare le regole imposte dalla critica

accademica, nazionalista, che pregiudicano l’apprezzamento della

bellezza di queste opere bizantine. Il loro valore e in elementi che

Soffici ed i critici nazionalisti avevano messo all’indice; quella bizan-

tina e un’arte che “sdegna le calligrafie realistiche che si vanno

sostenendo indispensabili alla nostra pittura contemporanea”. Sironi

ammira audacia e splendore degli accostamenti coloristici, cromati-

BISANZIO E LA POLITICA FASCISTA DELLE ARTI

smo, ermetismo, inaccessibilita, grandezza misteriosa ed ardua ele-

mentarita del mosaico bizantino, “cosı al di la delle buone regole

veristiche ottocentesche, cosı antica, e quindi per i nostri fabbricanti

di calcomanie, arbitraria”. In quei mosaici e corruzione e decadenti-

smo, ma anche eternita. E dall’arte bizantina che dipende tutta la

pittura moderna: Cezanne, i divisionisti, Van Gogh, Seurat, fino alla

musica e la linea ritmica di Kandinsky. I Bizantini, diversi dai Latini,

sono gli elementi modernisti dell’arte antica, una sentenza che suona

eretica per quei tempi:

“Si rimane stupefatti a contemplare l’audacia, lo splendore degli acco-stamenti coloristici [dei mosaici bizantini].La maggior parte dei visitatori si sente piu imtimidita che rispettosa,piu sbalordita che ammirata ed esaltata, piu oppressa che confidentesotto ai catini smaglianti. E cosı difficile, questa lontana meraviglia,cosı ermetica e inaccessibile nella sua ardua elementarita, cosı al di ladelle buone regole veristiche ottocentesche, cosı antica, e quindi per inostri fabbricanti di calcomanie, arbitraria, e «per quei tempi»!.La splendente creazione del mosaico bizantino ebbe le sue premessenell’arte ellenistica e romana, ma fu espressione non solo di un mondoorientale contrapposto all’occidentalismo di Roma [riferimento a Strzy-gowski], ma pure di una nuova epoca colma di vita e di movimento.”.

E pure eretico l’accostamento di Cezanne ai Bizantini, la cui

pittura, in quanto plastica, la si sarebbe aspettata piuttosto contrap-

posta alla bizantina; ma a Sironi lo sforzo di allineare tessere di vetro

in mosaici faceva pensare a Cezanne che impiegava giorni e giorni a

ripassare una pennellata.

In precedenza, anche la Sarfatti aveva espresso il suo amore per

l’arte bizantina tentando l’italianizzazione di un altro pittore, El

Greco, all’apice della sua fortuna critica gia da tempo, ma in quegli

anni particolarmente amato per la sua espressivita anche in Italia,

soprattutto da Scipione e Osvaldo Licini. Sarfatti scrisse di El Greco

sul primo numero de La Rivista illustrata del “Popolo d’Italia”, del

gennaio 1925, un articolo intitolato “Spagna mistica” (fig. 84). Le

figure di El Greco, “lunghe, allampanate sono figure di mosaico

bizantino, per le volte delle chiese nello sfondo d’oro sopra l’altare”:

“Il piu celebre dei suoi quadri, L’inumazione del conte d’Orgaz, enettamente diviso in due parti, come i mosaici nelle lunghe nicchiebizantine, senza fuoco centrale unico. I colori del Greco sono colori dimosaico bizantino, brillanti, vitrei, gemmati, opalescenti e iridati,come le tessere di prezioso smaltato vetro; senza calore e tono.”

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

4B. Bandini, “El Greco e l’arte italiana contemporanea: 1930 – 1950”, in El Greco of

Crete. ΠρακτικÀ τïυ διεθνïà επιστεηµïνικïà συνεδρÝïυ πïυ ïργανñθηκε µε αæïρµÜ τα 450

øρÞνια απÞ τη γÛννησε τïυ úωγρÀæïυ. ΗρÀκλειï 1-5 ΣεπτεµâρÝïυ 1990 / Proceedings of the

International Symposium held on the occasion of the 450th anniversary of the artist’s birth,

Iraklion, Crete, 1-5 September 1990, a cura di N. Hadjinicolaou ([Iraklion] 1995), pp.

499-505. Una mostra di pittori spagnoli nella Collezione Contini – Bonacossi, con molte

tele di El Greco fu aperta nel 1930; alla redazione del catalogo partecipo anche Longhi che

era consulente prediletto del collezionista e amante dell’arte di El Greco: Gli antichi pittori

spagnoli della Collezione Contini – Bonacossi, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna a

Valle Giulia, maggio – luglio 1930, catalogo della mostra, a cura di R. Longhi e A. C.

Mayer (Milano-Roma, 1930-VIII). M. G[rassini] Sarfatti, “Spagna mistica. Dal Monsal-

vato a Toledo”, La Rivista illustrata del “Popolo d’Italia” 1, n 1 (gennaio 1925), pp. 45-49; le

citazioni riportate nel testo sono da p. 48. Sulla Sarfatti vedi: Da Boccioni a Sironi: il mondo

di Margherita Sarfatti, Brescia, Palazzo Martinengo, 13 luglio – 12 ottobre 1997, catalogo

della mostra, a cura di E. Pontiggia (Milano, 1997).5

R. Giolli, Felice Casorati (Milano, 1925); cf. L. Venturi, “Il pittore Felice Casorati”,

Dedalo 4 (1923-1924), pp. 238-261. A Giolli e dedicato il volume Arte italiana del nostro

tempo, a cura di S. Cairola (Bergamo, 1946), che ha la dedica: “Raffaello Giolli che, artista e

critico, difese e sostenne apertamente l’arte italiana contemporanea come un movimento

rivoluzionario della cultura, nella storia di quella rivoluzione sociale per la quale sacrifico la

vita.” Le notizie su Giolli sono raccolte in R. Giolli, L’architettura razionale, a cura di C. De

Seta (Bari, 1972), prefazione pp. xi-lxvii.

El Greco e un “mosaicista bizantino in ritardo, che si innamoro

della figlia del mosaico bizantino, la pittura veneziana”, dunque

semiitaliano. A parte il giudizio della Sarfatti, un bizantinista avvici-

nerebbe senz’altro El Greco all’ultima fase dell’arte bizantina, l’arte

del periodo paleologo, che ne lei ne quasi nessuno in quel momento

in Italia sembra conoscere4.

Nel 1943, nel fascicolo di Domus contenente l’elogio di Soffici

pittore toscano, fu pubblicato “Espressionismo dei bizantini” (figg.

85-86), un articolo di Raffello Giolli, un critico che in precedenza

aveva usato parole di lode per il pittore antifascista Felice Casorati,

sulla scia di quanto scriveva Lionello Venturi. Giolli dopo aver

partecipato a molte discussioni sull’architettura a l’arte negli anni

Trenta con scritti su Casabella, Domus e altre riviste, passo all’antifa-

scismo; fu arrestato una prima volta, poi, liberato, continuo a scri-

vere per riviste clandestine della resistenza milanese; arrestato nuova-

mente e torturato dai fascisti a San Vittore, fu spedito al campo di

concentramento di Mauthausen dove si ammalo di polmonite ed

insieme ad altri prigionieri malati fu finito dai nazisti col gas nel

gennaio 19455. Mentre l’articolo su Soffici di Del Massa riassumeva

vent’anni di apprezzamento del pittore da parte dell’ala piu conserva-

trice della critica fascista, l’articolo di elogio verso l’arte bizantina

riassumeva i motivi del favore verso Bisanzio e l’arte moderna fran-

BISANZIO E LA POLITICA FASCISTA DELLE ARTI

6R. Giolli, “Espressionismo dei bizantini”, Domus n 184 (aprile 1943-XXI), pp.

182-188. Sul quadro La signora Matisse in madras rosso di Matisse vedi Kostenevich, “Un

cese dell’ala piu esterofila. L’articolo sembra quasi una diretta conti-

nuazione di “Racemi d’oro” di Sironi. Giolli l’aprı con tre riprodu-

zioni di quadri di pittori francesi accompagnate da didascalie:

- Cristo e la folla di Georges Rouault, con la didascalia: “Ad

abbandonare ogni plasticismo ottocentesco l’espressionismo e stato

anche persuaso dalla meditazione dei bizantini: come in questo

«Cristo e la folla» di G. Rouault”;

- un modello per arazzo di Rouault, con la didascalia: “Un altro

evidente ricordo bizantino: un modello per arazzo di Rouault”;

- Mme Matisse: madras rouge di Matisse, del 1907, che era stato

esposto al Salon d’Automne del 1907 (ora Merion, Pennsylvania,

The Barnes Foundation): un dettaglio delle mani incrociate della

donna, con la didascalia “Particolare di un ritratto di Matisse del

1907; qui il fauve ha gia abbandonato la terza dimensione”.

In accordo con Sironi, Giolli provo a convincere i lettori che

Bisanzio aveva ispirato Rouault, Matisse e Kandinsky. Per confronto,

mise foto di dettagli degli smalti della Pala d’Oro di Venezia in modo

da mostrare figure dal contorno mosso, espressive, fornendo una

immagine inconsueta rispetto a quelle trasmesse dai manuali di storia

dell’arte tipo Bendinelli, dove Bisanzio era santi su fondi oro, gesti

ripetuti nella “inevitabile cadenza gregoriana”, “vita imperturbabile

in un paradiso ritmato” (due allusioni ai mosaici della navata di

Sant’Apollinare Nuovo), “immagini scorporate” di un’arte “immo-

ta”, un mondo “incantato e disumanato”. Grazie all’impressionismo

francese, per Giolli questa immgine di Bisanzio era stata riletta al

Salon del 1906 dai Fauves Matisse, Rouault e Vlaminck, “scambiati

da selvaggi dall’istinto belluino”, ed era stata tradotta in espressioni-

smo moderno, in “colorazioni splendenti oltre ogni inquietudine

plastica”, in un “mondo a due dimensioni” dove “la linea, non piu

descrittiva, tornava ad avere il suo liberato linguaggio di ritmo” e

dove “il colore si frange in placche immobili, estatiche, allusive”: “la

piattaforma bizantina d’una pittura senza peso era appunto la piatta-

forma necessaria all’estrema mobilita del brivido espressionista”.

Una lettura senz’altro innovativa: guardati da vicino, corpi e volti

delle figure a smalto della Pala d’Oro rivelano “pupille inquiete”,

“angelicita morbose”, asimmetrie, arabeschi, ritmi astratti, “un

espressionismo gia teso alla allucinazione”6.

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

dialogo lungo mezzo secolo”, p. 44 e nota 50 p. 77. La discussione sull’articolo di Giolli

riprende quanto espresso in Bernabo, “L’arte bizantina e la critica in Italia”, p. 43.7

G. Severini, “La peinture murale. Son esthetique et son moyens”, in Nova et vetera

(Freiburg, 1927), ristampato in G. Severini, Ecrits sur l’art (Paris, 1987), pp. 184-191,

citazione nel testo da p. 184. Il giudizio di Guttuso e dalla critica alla XXII Biennale di

Venezia: “Pittori italiani alla XXII Biennale”, Le arti 2 (1939-1940-XVIII), pp. 366-370.8

G. Severini, “Lettera a «Quadrante»: Sul mosaico come modo di espressione e di

tecnica”, Quadrante 1 n 2 (1933), p. 31.

b. Severini, il muralismo ed i mosaici bizantini

Gino Severini (il piu bizantino degli artisti italiani secondo Guttuso)

scrisse nel 1927 di preferire Ravenna alla Cappella Sistina, perche la

pittura murale deve far corpo con l’architettura, non deve impiegare

la prospettiva, ne simulare il rilievo:

“J’estime donc qu’entre la chapelle Sistine ou les eglises italiennes desXVIe et XVIIe siecles, dont les fausses perspectives enlevent lesplafonds, et les eglises de Ravenne, il y a interet a preferer, commeexample et comme base, l’esprit des celles-ci. Cet art ornamental estvraiment le plus pur et le plus grandiose que je connaisse.”

7.

Severini amava i mosaici bizantini anche perche vi vedeva uniti

maestria tecnica e valori poetici e metafisici:

“l’umilta operaia che non esclude affatto il dono di poesia e trascen-denza, come si vede appunto chiaramente negli anonimi mosaicisti diRavenna, del Battistero di Venezia, o del Duomo di Torcello.”

8.

Argomentazioni contrarie alla prospettiva e al rilievo nella pittura

murale sono riproposte nel Capitolo XII dei Ragionamenti sulle arti

figurative che Severini pubblico nel 1936 (figg. 87-88). I confronti tra

mosaici bizantini ed arte moderna sono uno dei motivi guida del

libro; Severini accosto Cezanne, usato come garanzia inoppugnabile

di qualita artistica, ai mosaici di Ravenna – un’idea singolare per

quei tempi –, riproducendo uno di seguito all’altro la testa dell’arci-

vescovo Massimiano del corteo di Giustiniano a San Vitale (con la

didascalia: “Come tutti i volti dei mosaici ravennati, questo esempio,

malgrado le degradazioni del tempo e del restauratore, mostra il

modo largamente pittorico e costruttivo caro a Cezanne”) e l’autori-

tratto di Cezanne ora alla Tate Gallery di Londra (con la didascalia:

“E questa testa di Cezanne potrebbe essere un mosaico di Raven-

na’’); ed inserı Matisse nella tradizione di Bisanzio (“costante sforzo

BISANZIO E LA POLITICA FASCISTA DELLE ARTI

9G. Severini, Ragionamenti sulle arti figurative (Milano, 1936; seconda edizione aumen-

tata 1942); il Capitolo XII, “Pittura murale: sua estetica e suoi mezzi”, e alle pp. 77-93; su

Cezanne vedi il Capitolo XX, “Cezanne”, pp. 197-213 e il commento alla tav. xxiii; su

Matisse vedi il Capitolo XXI, “Henri Matisse”, pp. 215-217; le citazioni nel testo sono alle

pp. 277-278, 281. Valutazioni simili sulla pittura murale, ma meno favorevoli su Bisanzio,

sono ripetute in G. Severini, Discussione sulla relazione di Gustavo Giovannoni, “I rapporti

tra l’architettura e le arti della pittura e della scultura nei vari periodi dell’arte italiana”, in

Reale Accademia d’Italia, Fondazione Alessandro Volta, Atti dei Convegni, 6, Convegno di

Arti. 25-31 ottobre 1936-XIV. Tema: Rapporti dell’architettura con le arti figurative (Roma,

1937-XV), pp. 37-38. Una scelta dai numerosi testi di Severini sul mosaico e in bibliografia.

di mantenersi in unione di spirito e di ‘mezzi’ con una tradizione che

potrebbe essere quella di Bisanzio”) – un luogo comune, ormai,

come abbiamo visto. Aggiunse che il migliore modo di rappresentare

il volume pittoricamente e

“quello dei mosaicisti dal IV al VI secolo, i quali risolvono il problemacol colore, e cioe con contrasti audaci e sapientissimi. (...) Peroanch’essi non disdegnano di ricorrere talvolta ad una descrizione delvolume per mezzo di un cerchio o arco di cerchio (...). Secondo me, equesta l’epoca nella quale l’arte pittorica esprime una piu grande unitaontologica.Il secondo modo [di rappresentare il volume pittoricamente] e quellopiu lineare, piu astratto, adottato dai Bizantini, che domandano laforza espressiva all’idea religiosa, al contenuto, piu che ad una potenzapropriamente pittorica. Per i Bizantini le linee che racchiudono leforme, prima di ‘rappresentare’ le cose, sono ‘segni’, invece dopo diloro, e gradatamente, le linee sono prima ‘rappresentazione’ e poi‘segno’.(...) Non succede spesso ai Bizantini di raccontare avvenimenti estorie, ma se li raccontano, lo fanno in modo cosı anti-descrittivo, conuna elevatezza e perfezione di ‘mezzi’ cosı propriamente integra chenon sara mai piu ritrovata.”.

Come esempi, Severini mise tavole commentate dei mosaici

dell’abside di Sant’Apollinare in Classe – del quale aveva discusso

Venturi ne Il gusto dei primitivi –, di San Vitale (la testa dell’arcive-

scovo Massimiano), di Sant’Apollinare Nuovo (la Madonna tra an-

geli), dell’abside di Santa Pudenziana a Roma, di volte barocche e

delle pitture delle chiese elvetiche che Severini stesso era stato

chiamato a dipingere dal 1924: la chiesa parrocchiale di Semsales e

la chiesa di Notre Dame di Valentin (Lausanne). Nel 1933, Severini

scrisse poi una lettera sul mosaico pubblicata sulla rivista Quadrante

contenente lodi della trascendenza dei mosaici di Ravenna, Torcello,

San Marco9.

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

10”Pittura murale scultura e decorazione alla Quinta Triennale”, in La Quinta Triennale

di Milano, numero speciale de La Rivista illustrata del “Popolo d’Italia” 11 (agosto 1933 –

XI), citazione da p. 25.11

M. Sironi, “Pittura murale”, Il Popolo d’Italia 1 gennaio 1932, ristampato su L’arca 3,

n 1 (aprile 1932) e su Domus 5, n 1 (gennaio 1932), pp. 248-249 (con presentazione di Gio

Ponti). Sulla Triennale vedi il fascicolo monografico La Quinta Triennale di Milano de La

Rivista illustrata del “Popolo d’Italia”; L. Vitali, “Le pitture murali alla Triennale”, Domus n

66 (giugno 1933), pp. 286-291. La definizione del mosaico come arte italianissima e da

“L’arte del mosaico alla Triennale”, Domus n 65 (maggio 1933), pp. 228-229; sulla stessa

rivista, alle figg. a pp. 228 e 229, sono riprodotti i murali esposti alla Triennale. Sul

muralismo: 1935. Gli artisti nell’Universita e la questione della pittura murale. Universita degli

Studi di Roma «La Sapienza», [Roma,] Palazzo del Rettorato, 28 giugno – 31 ottobre 1985,

Catalogo della mostra, a cura di S. Lux e E. Coen (Roma, 1985); Avanguardia, tradizione,

ideologia: itinerario attraverso un ventennio di dibattito sulla pittura plastica murale, a cura di S.

Negli anni Trenta la fortuna di Bisanzio fu legata a quella del

muralismo, che ebbe il suo manifesto nell’articolo di Sironi “Pittura

murale” del 1932 e la sua consacrazione alla V Mostra Triennale

delle Arti Decorative di Milano del 1933:

“La «pittura murale», che orna l’interno del «Palazzo dell’arte», intendereagire contro le prevalenti tendenze della costruzione «razionalista»; laquale, ormai ridotta senza volto e carattere, si e irrigidita, senzapossibilita di ulteriori sviluppi, in un punto morto. La «pittura murale»vuol umanizzare, riscaldare le squallide mura utilitarie della correntematerialista derivata dal positivismo del nord e tende a riallacciare learti figurative italiane alla nostra decorativa tradizione latina.Ma la parola «decorazione», durante il basso ottocento, stava adindicare un’arte superficiale tutt’al piu abile e virtuosa. I suoi svolazzifloreali, le sue leziosita ed esteriorita ornative avevano cosı fatto dege-nerare una delle nostre maggiori espressioni. Ora la Triennale intenderiportare la decorazione murale all’altezza della grande arte umana chein passato ha dato fantasia e spiritualita ai nudi e grandi spazi dellepareti costruttive.”

10.

Il muralismo in pittura e in mosaico, “tecnica italianissima”,

domino l’esposizione milanese, alla cui presidenza erano Gio Ponti e

lo stesso Sironi. Tra le pitture murali Massimo Campigli espose “Le

madri, le contadine, le lavoratrici”, Carlo Carra “L’Italia romana”

(fig. 89), Achille Funi “Giochi atletici italiani” (fig. 90), Sironi “Il

lavoro” (fig. 91); tra i mosaici Leonora Fini espose “Cavalcata di

amazzoni” su cartone di Funi (rimasto in situ), Severini una natura

morta con maschera tragica ispirata ai mosaici pompeiani e “Le

arti”, un mosaico (anch’esso ancora in situ) eseguito su suo disegno

dalla bottega Salviati di Murano che fu inserito come riquadro

centrale de “La cultura italiana” di Giorgio De Chirico (fig. 92)11

.

BISANZIO E LA POLITICA FASCISTA DELLE ARTI

Lux (Roma, 1990); A. Monferini, “Mario Sironi e Margherita Sarfatti. Alle origini della

pittura murale”, in Mario Sironi 1885 – 1961, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, 9

dicembre 1993 – 27 febbraio 1994, Catalogo della mostra (Milano, 1993), pp. 66-71; Muri

ai pittori. Pittura murale e decorazione in Italia 1930-1950, Milano, Museo della Permanente,

16 ottobre 1999 – 3 gennaio 2000, catalogo della mostra (Milano, 1999).12

M. Sironi, “IIA

Quadriennale d’Arte Nazionale”, La Rivista illustrata del “Popolo

d’Italia”, 13, n 2 (febbraio 1935), pp. 31-39. V. Guzzi, “La XX Biennale di Venezia”,

Nuova Antologia 71, n 4 (1936-XIV), pp. 65-73. Sulla XXII Biennale: Guttuso, “Pittori

italiani alla XXII Biennale”, pp. 366-370. “Il Palazzo di Giustizia di Milano. Architetto

Marcello Piacentini / Der Mailander Justitzpalast”. Architettura. Rassegna di architettura, 1,

gennaio-febbraio 1942-XX, p. 42.

Nel 1935 Severini espose “Natura morta” alla II Quadriennale

d’Arte Nazionale di Roma, presentata da Sironi su La Rivista illu-

strata del “Popolo d’Italia” (fig. 93); l’anno seguente, 1936, Severini

espose altri mosaici alla XX Biennale di Venezia, che furono attac-

cati per la “oggettiva, fotografica rappresentazione del vero”, per

“l’intellettualistico amore per le decorazioni bizantine”. Altre opere

filobizantine di Severini furono esposte alla XXII Biennale del 1940,

ma non piacquero a Renato Guttuso, che noto che Severini s’era

fatto piu chiuso nella sua torre d’avorio; le sue premesse andrebbero

dai bizantini a Van Gogh. Nella stessa Biennale furono esposte opere

di Carra, il piu elogiato nel commento di Guttuso, tra cui Ragazzi al

mare (“mirabile equilibrio del piccolo poema pittorico”), e due

donne a mosaico di Campigli (fig. 94). Carra fu anche autore de

“L’imperatore Giustiniano che libera uno schiavo” nel Palazzo di

Giustizia di Milano, dell’architetto Marcello Piacentini, una opera

realizzata a seguito della legge del due per cento, che imponeva la

destinazione di tale quota dell’importo previsto per il progetto di

edifici pubbliche allo loro ornamentazione artistica (quanto al tema

del murale, Giustiniano ed il suo codice di leggi erano stati definiti

ufficialmente come appartenenti alla civilta romana)12

.

Anche Campigli fu dichiarato bizantino per il ritmo dei suoi

affreschi nell’atrio del Liviano a Padova (fig. 95). Sul fascicolo del

1939-1940 de Le Arti, la rivista di Bottai il cui gruppo di redazione

era guidato da Longhi, lo storico dell’arte Rodolfo Pallucchini critico

l’aspetto decorativo delle grandi composizioni padovane di Campigli

(le scene della erezione della colonna, dei costruttori, degli studenti,

degli eroi antichi sepolti, degli archeologi) in quanto mancanti di

dramma (sentenzio: Campigli non e Carra), ma vi vide, retorica-

mente, “l’antichita classica, o meglio la coscienza della romanita,

[che] nutre la vita e la civilta del nostro tempo. Su di essa si

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

1 3R. Pallucchini, “Affreschi padovani di Massimo Campigli”, Le arti 2

(1939-1940-XVIII), pp. 346-350, citazioni da pp. 346-347 e 348. A proposito di Longhi

direttore redazionale de Le Arti, Toesca scrisse a Berenson il 17 ottobre del 1938: “Siamo in

piena fissazione di unita delle arti, e temo che la nuova rivista “Le Arti” ne esca molto

confusa e pletorica. Il gruppo di redazione e guidato dal Longhi; e s’intende che il Consiglio

direttivo del quale faccio parte, non ha funzione che nominale.”. La frase sulla unita delle

arti si riferisce a dibattiti in corso a meta degli anni Trenta, suscitati da esposizioni come la

Triennale di arti decorative e applicate all’industria di Milano, sulla quale vedi, tra gli altri, il

commento di M. G[rassini] Sarfatti, “Onesta delle arti applicate”, La Stampa 4 luglio

1936-XIV, p. 3, e, della stessa, “Arti decorative, ovvero: L’oggetto corre dietro alla propria

ombra”, Nuova Antologia 71, n 4 (1936-XIV), pp. 57-64.

innalzano i valori della civilta contemporanea”. Continuita della

civilta romana in quella moderna e attuale; esaltazione di simboli di

vita, di virtu eroica, di studio e di lavoro: continuita espressa nel

racconto di Campigli, pittore nutrito di un umanesimo non tanto

classico quanto mediterraneo:

“(...) trasposizione di un mondo d’immagini arcaiche, generalizzatenell’esasperazione di motivi ripetuti, in un ritmo il quale assume lostesso compito che gia aveva avuto per i bizantini (...). Cio non vuoldire che la personalita del Campigli non abbia i suoi limiti: certo il suoatteggiamento dinnanzi al problema figurativo manca di dramma,rimane cioe essenzialmente decorativo [bizantino?]. Ma saremmo in-giusti chiedendo a Campigli cio che e di Carra: poiche si rischierebbedi fraintenderlo in pieno.”

13.

Alla VI Triennale di Milano, nello stesso 1936, fu esposto il

mosaico di Sironi “Italia costruttrice”, eseguito da Salviati, che fu

chiamato anche “Il lavoro fascista” e trovo poi sede nell’allora

Palazzo de Il Popolo d’Italia a Milano (fig. 96). Il mosaico e una

allegoria del regime, dove la personificazione seduta dell’Italia e

attorniata dalle personificazioni del lavoro, della famiglia (Adamo ed

Eva), del governo e dell’impero. Cosı fu presentata ne La rivista

illustrata del “Popolo d’Italia”:

“[Sironi e] artista veramente «nostro», del nostro tempo, esprimentenelle sue figurazioni il travaglio costruttivo di una generazione in unacompostezza rude e arcaica e dalla quale si disserrano le spirali delsogno e l’ansito avvampante delle conquiste. Questa «Nuova Italiacostruttrice» piu che ai grandi modelli bizantini del mosaico, smagliantie policromi, s’accosta a quelli nudi e drammatici del primo Cristiane-simo, di cui si ha un esempio classico nel «Catino absidale di SantaPudenziana» in Roma. Quella del mosaico e un’arte annunziatrice dicivilta, e Sironi interpreta la nostra come forse pochi artisti hannosaputo fare.”.

BISANZIO E LA POLITICA FASCISTA DELLE ARTI

14F. F., “L’arte della nuova Italia alla Sesta Triennale”, La Rivista illustrata del “Popolo

d’Italia” 14, n 6 (giugno 1936), pp. 37-45, citazione da p. 38. M. G[rassini] Sarfatti, “Arti

decorative”, citazioni da pp. 62 e 64. La Sarfatti parlo negli stessi termini entusiastici del

mosaico di Sironi in “Onesta delle arti applicate”, p. 3. Sul mosaico di Sironi, nell’odierno

Palazzo dei Giornali in piazza Cavour a Milano, vedi Racemi d’oro: il mosaico di Sironi nel

Palazzo dell’Informazione, a cura di E. Braun (s. l., 1992).15

Sironi aveva parlato in maniera apparentemente provocatoria dell’adesione di Casorati

alle esposizioni artistiche fasciste in “IIA

Quadriennale d’Arte Nazionale”, pp. 31-39.

Dell’opera di Sironi scrisse entusiasta anche la Sarfatti avvicinan-

dolo ai mosaici del mausoleo di Galla Placidia (oltre che alle Tombe

Medicee di Michelangelo e all’Incendio di Borgo di Raffello nelle

Stanze Vaticane): “Il lavoro fascista di Sironi” e “colossale e stu-

pendo, allucinante e robusto”, eseguito in “modo solenne e sempli-

ce”, con “nostalgia di fondi d’oro bizantini tradotti in bruni e

d’intonazione dorata”. La Sarfatti invece attacco il mosaico di Caso-

rati “Maternita”, perche imitazione della pittura “nelle tinte e nelle

prospettive” (fig. 97):

“Il mosaico non puo, non deve aspirare alla creazione della terzadimensione di profondita e di spazio; deve avere valori di tappezzeria edi superficie piana. (...) [I mosaici di Tiziano e di Tintoretto a SanMarco a Venezia] sono antimusivi e brutti; mancano anch’essi alrispetto della natura; percio appaiono insinceri, superficiali e persinogoffi a furia di scioltezza, accanto agli ieratici bizantini, i quali sape-vano disporre le composizioni con apparente arcaismo, ma con so-stanza sapiente, frontalmente e in primo piano, abolendo gli effetti dilontananza e di movimento.”

14.

Il lavoro di Casorati non era dunque riuscito, un giudizio influen-

zato verosimilmente dal passato antifascista del pittore15

.

Quanto ai riferimenti a Galla Placidia, la lettura della Sarfatti e

dilettantesca: i mosaici di Casorati piuttosto che quelli di Sironi

sembrano ispirati dall’impressionismo del pastore di Galla Placidia; a

Sironi interessano modelli musivi con figure piu plastiche, con ombre

e contrasti cromatici piu forti. In generale, l’ispirazione di tutte

queste opere murali non furono il pannello di Teodora a San Vitale,

la teoria delle Vergini nella navata di Sant’Apollinare Nuovo o il

mosaico absidale di Sant’Apollinare in Classe; piuttosto, il plastici-

smo e la monumentalita delle figure della pittura murale degli anni

Trenta imita i mosaici pregiustinianei ravennati e romani. E interes-

sante osservare che l’asserzione dei valori cromatici e decorativi, che,

secondo la Sarfatti, il mosaico deve avere a differenza dei valori

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

16Vedi Capitolo 11, paragrafo c.

17Mostra della Rivoluzione Fascista. I˚ Decennale della Marcia su Roma, Roma, Palazzo

della Quadriennale 1932, a cura di D. Alfieri e L. Freddi (Bergamo, 1933). Mostra augustea

della Romanita (Bimillenario della nascita di Augusto), 23 settembre 1937-XV – 23 settembre

1938-XVI, catalogo della mostra (Roma, 1937); M. Pallottino, “La Mostra Augustea della

Romanita”, Capitolium. Rassegna mensile del Governatorato 12 (1937-XV), pp. 519-528; A.

M. Liberati Silverio, “La Mostra Augustea della Romanita”, in Roma Capitale 1870 – 1911.

Dalla mostra al museo. Dalla Mostra archeologica del 1911 al Museo della Civilta Romana,

Roma, Museo della Civilta Romana, giugno – dicembre 1983, catalogo della mostra, pp.

77-80; E. Braun, “Political Rhetoric and Poetic Irony: The Uses of Classicism in the Art of

Fascist Italy”, in On Classic Ground. Picasso, Leger, De Chirico and the New Classicism 1910 –

1930, London, Tate Gallery, 6 giugno – 2 settembre 1990, catalogo della mostra, pp.

345-354; G. Pisani Sartorio, “La Mostra Augustea della Romanita (1937-1938), il Palazzo

delle Esposizioni e l’ideologia della romanita”, in Il Palazzo delle Esposizioni. Urbanistica e

architettura. L’esposizione inaugurale del 1883. Le acquisizioni pubbliche. Le attivita espositive,

Roma, Palazzo delle Esposizioni, 12 dicembre 1990 – 14 gennaio 1991, catalogo della

mostra; G. Bandelli, “Le lettere mirate”, in Lo spazio letterario di Roma antica (Roma, 1991),

4, pp. 361-397.

plastici e naturalistici propri di altre forme d’arte, e in sintonia con il

testo della voce “Musaico” scritta da Toesca per il volume 34

dell’Enciclopedia Italiana, appena pubblicato (1934)16

.

c. La Mostra Augustea della Romanita

L’esaltazione della romanita propagandata dal regime ebbe il suo

apogeo nella Mostra Augustea della Romanita, esposizione celebrativa

del bimillenario della nascita di Augusto, che fu aperta a Roma nel

1937, contemporaneamente alla Mostra giottesca degli Uffizi, e che

tenne dietro alla Mostra della Rivoluzione Fascista, allestita a Roma

nel Palazzo della Quadriennale nel 1932, decennale della marcia su

Roma17

. La mostra augustea (figg. 98-99) fu il terzo bimillenario

celebrato negli anni Trenta: nel 1930 era stata la volta di Virgilio, nel

1935 di Orazio. Massimo Pallottino vi vide “il sentimento della

continuita e della grandezza della nostra stirpe”; una mostra che,

attraverso la documentazione della grandezza della Roma antica,

della Roma dell’antico impero e di quella Roma “onde Cristo e

romano”, arrivava alla sua continuatrice, l’Italia del nuovo impero; lo

spirito ed il programma della mostra erano quelli “compendiati nelle

parole del Duce: «Fate che le glorie del passato siano superate dalle

glorie dell’avvenire»”. Giulio Quirino Giglioli, uno degli oratori al

Convegno per la Cultura Fascista di Bologna e il presidente dell’Isti-

tuto di Studi Romani, lesse il discorso di apertura, nel quale per

BISANZIO E LA POLITICA FASCISTA DELLE ARTI

prima cosa ringrazio il duce che aveva “ordinato” di allestire la

mostra in onore di Augusto; ad essa si era atteso “con il massimo

rigore scientifico e ardore fascista”. Per merito del Duce era stato

raccolto “tutto il piu insigne patrimonio di memorie d’arte e di storia

a noi giunto col tempo Romano”, cosa che “non poteva farsi che in

Roma e dall’Italia Fascista”. La mostra proponeva duecento plastici,

piu di tremila calchi di opere, fotografie, piante, iscrizioni, che

provavano come “fin nelle piu lontane regioni del mondo allora

conosciuto” giungesse il “benefico impulso di Roma, come tutto

l’Occidente e il Settentrione europeo debbano a lei l’origine del loro

viver civile”. Le sale erano dedicate alla storia dell’impero romano,

alle “ferree legioni”, alla “Marina dominatrice del «mare nostrum»”,

al diritto, agli edifici pubblici e privati, alle opere di bonifica e di

igiene, all’artigianato, al commercio, alle lettere, scienze, arti, scuola,

istituzioni giovanili, opere assistenziali (il confronto col presente

dell’impero fascista e delle sue opere e evidente). Sessanta sezioni in

tutto. Poi l’oratore aggiunse:

“Due sezioni voglio ancora ricordare: una e quella della Chiesa Cri-stiana studiata nei primi cinque secoli, quando a Roma ebbe il suggellodella sua universalita; l’altra e quella che ricorda il tramandarsi dell’i-dea imperiale romana attraverso gli spiriti magni, fino alla risurrezionedell’Italia come Nazione unita e indipendente e alla risurrezione, dopoquindici secoli, dell’impero stesso di Roma, per opera Vostra, o Du-ce.”.

Le azioni del Duce, “civis romanus”, vanno spontaneamente e

inevitabilmente riavvicinate a quelle dei piu grandi Romani: la stessa

sua regione natale, la Romagna, come testimonia il nome, conserva

“piu di altre inalterati il sangue e lo spirito” dei Romani.

Nella presentazione nel catalogo, Giglioli (che si attribuisce il

merito di aver proposto al Duce l’idea della mostra) riprende dalla

orazione al Duce la definizione degli scopi e dei confini della mostra

e ne specifica i limiti cronologici, definendo l’arco di tempo della

civilta romana nella visione del fascismo:

“La Mostra ha pertanto il nome di Augustea: essa e pero anche dellaRomanita, di tutta la Romanita, dalle umili origini leggendarie del-l’VIII secolo av. Cr., fino alla codificazione del diritto romano eall’affermazione della Chiesa trionfante come erede spirituale di Roma,nella prima meta del VI secolo di nostra era.”.

Nella introduzione alla sala XXV, poi, “Cristianesimo e Roma-

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

18Vedi Capitolo 11, paragrafo e.

nita finiscono, nel tramonto dell’Impero, per costituire un elemento

solo di resistenza contro la pressione dei barbari”. Sulla parete di

fondo della sala era disegnata una carta dell’Impero, “sulla quale una

croce getta un fascio di vivida luce”. Nella sala erano esposte ripro-

duzioni e fotografie di opere dal IV al VI secolo: sarcofagi e iscrizioni

da piu parti dell’Impero, una scena graffita al Museo di Algeri con

una riproduzione del Ponte Milvio portata in trionfo degli inizi del

IV secolo, un ritratto di papa Silvestro, la basilica ed il monastero di

Tebessa, altre basiliche e battisteri cristiani, una donna orante, ri-

tratti di Sant’Ambrogio e Sant’Agostino, un plastico della basilica di

San Salvatore a Spoleto, rilievi di sarcofago con il Passaggio del Mar

Rosso e l’Arca di Noe, il mosaico della basilica di Teodoro ad

Aquileia, “trenta denari” d’argento dalla Palestina, pissidi eburnee e

argenterie con scene cristiane, le lipsanoteche di Brescia e di Pola.

Sulla balaustra della sala era data, a lettere in rilievo, la traduzione

dell’Editto di Milano, che “chiude l’era delle persecuzioni e inaugura

quella della pace tra la Chiesa e l’Impero – 13 giugno 313 d. Cr.”.

La successiva e ultima sala XXVI era dedicata alla immortalita

dell’idea di Roma ed alla rinascita dell’impero nell’Italia fascista e

mostrava, tra l’altro, tre archi di trionfo: quello di Costantino, quello

dell’architetto e accademico d’Italia Marcello Piacentini a Bolzano

(“il primo dell’Italia risorta”), quello dell’Ara dei Fileni in Cirenaica,

dell’architetto F. Di Fausto, “ricordante il trionfale viaggio del Duce

in Libia e l’inaugurazione della strada litoranea, opera di romana

grandezza”. Concludono il catalogo i testi delle iscrizioni inneggianti

alla gloria dell’Italia (da Dante in poi) e al Duce, con molte citazioni

da D’Annunzio e tra di esse “Arma la prora e salpa verso il mondo”,

il celebre verso de La Nave. Con il discorso di Giglioli, la mostra

augustea sanziono ufficialmente il prolungamento della civita romana

al VI secolo, recuperando Ravenna e Giustiniano all’Italia (senz’al-

tro, non c’era interesse nel recupero della bizantina Teodora). Que-

sto recupero era stato posto da Giorgio Pasquali come fulcro della

sua voce “Letteratura bizantina” nella Enciclopedia Italiana18

– Gi-

glioli sembra riprendere piu concetti da Pasquali – e la sua ufficializ-

zazione si riflette sugli studi bizantini contemporanei.

La retorica romanista e colonialista del regime si propago ad

archeologi e storici dell’arte e da questi fu sostenuta. Gli antichisti

furono in prima fila nell’applaudire la politica coloniale del fascismo

BISANZIO E LA POLITICA FASCISTA DELLE ARTI

19Le considerazioni sono di Mariella Cagnetta, della quale vedi il gia citato “Appunti su

guerra coloniale e ideologia imperiale «romana»”, in Antichisti e impero fascista (Bari, 1979),

specialmente pp. 9-11, e “Il mito di Augusto e la ‘rivoluzione’ fascista”,in Matrici culturali

del fascismo (Bari, 1977), pp. 153-184. Inoltre di Luciano Canfora: “Classicismo e fasci-

smo”, in ivi, pp. 85-111, Ideologie del classicismo (Torino, 1980) e Le vie del classicismo (Bari,

1989), qui specialmente i Capitoli 14 e 15, “Cultura classica e «usurpazione moderna»” e

“Sul posto del classicismo tra le matrici culturali del fascismo”, pp. 237-252 e 253-277

rispettivamente. R. Visser, “Fascist Doctrine and the Cult of the Romanita”, Journal of

Contemporary History 27 (1992), pp. 5-22; i contributi nel volume Fascist Visions. Art and

Ideology in France and Italy, a cura di M. Affron e M. Antliff (Princeton, N.J., 1997).20

Roma “Onde Cristo e romano”. Conferenze radiotrasmesse tenute nell’Anno Accademico

1936-XIV dei Corsi Superiori di Studi Romani (Roma, 1937).

e ne diventarono portavoce qualificati; la componente romana di-

venne l’anima ideale dell’Italia fascista19

. Con la vittoria nella guerra

etiopica e la proclamazione del ritorno all’impero fatta dal Duce dal

balcone di Palazzo Venezia, il 9 maggio del 1936, retorica e simboli

imperiali di Roma pervasero ideologia e propaganda. La compenetra-

zione tra fascismo, tradizione romana e tradizione cattolica, che era

stata soggetto di una delle sale della mostra della romanita, fu

ribadita l’anno successivo della mostra, 1937, in una serie di confe-

renze radiotrasmesse dell’Istituto di Studi Romani dal titolo Roma

“Onde Cristo e romano”, con interventi di vari cardinali (tra i quali

Eugenio Pacelli, poi papa Pio XII) e del solito Galassi Paluzzi20

.

Anche la pubblicita si adeguo alla proclamazione dell’impero: statue

di Augusto e Traiano, da foto riprese dai servizi della Rivista illustrata

del “Popolo d’Italia” per la Mostra della Romanita, garantivano quali

“tessuti dell’impero” fibre sintetiche autarchiche della SNIA Viscosa,

la fabbrica gia di Gualino, in occasione della XVIII Fiera Campiona-

ria di Milano dell’aprile 1937 (fig. 100); sullo sfondo di una imma-

gine di Traiano ed una di un gruppo di soldati italiani la Banca

Commerciale Italiana (fig. 101) faceva stampare le parole del suo

presidente inneggianti all’impresa di Etiopia con l’esercito e le cami-

cie nere marcianti al comando del Capo a ripulire da predoni e

mercanti di schiavi l’incorreggibile Etiopia, nella quale ora, con

l’alloro della vittoria intrecciato alla corona imperiale, e tutto un

fervore di cantieri e nuove strade; un senatore ed una giovinetta

pubblcizzavano la Montecatini; un soldato romano le Aziende Car-

boni Italiane; la FIAT, al servizio della patria in armi in Africa

orientale, faceva vedere il passaggio della nuova “1500” sotto l’arco

trionfale della Sirte (l’arco dei Fileni) della litoranea libica, appena

inaugurata. Alla presenza di Mussolini si giravano le riprese del film

Scipione l’Africano di Carmine Gallone. Contemporaneamente, La

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

21”La Fiera di Milano”, La Rivista illustrata del “Popolo d’Italia” 15 n 4 (aprile 1937), pp.

79-105; le pubblicita dei tessuti della SNIA Viscosa alle pp. 102 e 104. Tra gli articoli

imperiali pubblicati sulla medesima rivista vedi, ad esempio, S. Aurigemma, “Romanita di

Velleia”, 15 n 2, febbraio 1937, pp. 33-41; e C. Pertile, “Orme di Roma nell’Egeo italiano”,

15, n 1, gennaio 1937, pp. 31-35; il fascicolo speciale su Italia imperiale e del marzo 1937.22

Come, del resto, Cronache bizantine di letteratura e di arte, quindicinale dell’Universita

di Napoli, direttore R. De Gerardis, che comincio ad uscire a Napoli nel 1907.23

Studı bizantini (Pubblicazioni dell’ “Istituto per l’Europa Orientale” in Roma. Istituto

di Studi Bizantini e Neoellenici); nei pochi volumi pubblicati vedi A. Munoz, “Studi di arte

bizantina in Italia”, Studi bizantini, ser. 2, 5 (1924), pp. 207-216; inoltre: A. Giannini, “Gli

studi bizantini a Roma”, in Istituto di Studi Romani, Atti del IV Congresso Nazionale di Studi

Romani, vol. 1, pp. 361-364. C. M. De Vecchi di Val Cismon, Bonifica fascista della cultura

(Milano, 1937), pp. 126-127. Contemporaneamente al congresso, la Biblioteca Vaticana

allestı una mostra di manoscritti e documenti bizantini: Catalogo della mostra di manoscritti e

documenti bizantini disposta dalla Biblioteca Apostolica Vaticana e dall’Archivio Segreto in

rivista illustrata del “Popolo d’Italia” si riempiva di articoli di archeolo-

gia dai titoli e dal contenuto imperiali, accompagnati dai rilievi

dell’Ara Pacis, da statue di Germanico, Livia e altri personaggi della

casa Giulio-Claudia, e di servizi sulla Mostra Augustea della Roma-

nita e sulla riapertura della Mostra del Fascismo per il decennale

della Marcia su Roma; ed infine stampava un fascicolo speciale Italia

imperiale21

.

d. La colonizzazione romanista dell’Adriaticoe della Sicilia

Nel 1936 si svolse a Roma il quinto Congresso Internazionale di

Studi Bizantini, organizzato dall’Istituto per l’Europa Orientale che

pubblicava la rivista Studi bizantini dal 1924, oltre a Studi albanesi,

Studi baltici, Studi romeni, Ricerche slavistiche. L’Istituto non ebbe vita

facile: prefazioni in testa ai suoi volumi bizantini menzionano diffi-

colta economiche; la rivista Studi bizantini di fatto non decollo mai22

.

Il quadrumviro e ministro dell’Educazione Nazionale Cesare Maria

De Vecchi, nel discorso inaugurale del Congresso del 1936 (che fu

pubblicato insieme ad altri suoi testi nel volume Bonifica fascista della

cultura), cerco uno spazio di sopravvivenza per Bisanzio nell’onda

vincitrice della romanita imperiale, giocando a suo favore alcune

carte romane: l’appellativo di ‘Nuova Roma’ dato alla nuova capitale

inaugurata da Costantino, la definizione di Bisanzio come erede di

Roma, “lo spirito romano che rivive nella romanita universale di

Giustiniano che eterna nei documenti sapienti del diritto la sapienza

millenaria dell’antica patria”23

. Nello stesso anno della mostra della

BISANZIO E LA POLITICA FASCISTA DELLE ARTI

occasione del V Congresso Internazionale di Studi bizantini, Roma, 20-26 settembre 1936

(Citta del Vaticano, 1936).24

Vedi Capitolo 11, paragrafo b.25

S. Bettini, “Rapporti tra l’arte bizantina e l’arte italiana prima di Giotto”, in Istituto

Nazionale per le relazioni culturali con l’estero, Italia e Grecia. Saggio su le due civilta e i loro

rapporti attraverso i secoli (Firenze, 1939), pp. 273-295, citazioni nel testo da pp. 276-277,

280, 288, 291.26

Queste sentenze di Bettini sono state sottolineate da P. Lemerle, “L’archeologie

paleochretienne en Italie. Milano et Castelseprio, «Orient ou Rome», Byzantion 22 (1952),

pp. 203-204, che da una bibliografia degli scritti di Bettini a nota 2 p. 203.

romanita, dopo la romanizzazione di Giustiniano e Ravenna, nel

volume 35 della Enciclopedia Italiana Venezia e definita figlia di

Ravenna e di radice romana anch’essa24

. Della romanita dei mosaici

di Ravenna, di Parenzo e di Venezia si disse convinto anche Bettini

nel 1939, che scrisse con ardore romanista contro il panbizantinismo

dell’arte medievale, del quale Toesca era il campione. Era necessario,

proclamo Bettini, rivedere sotto nuova luce il problema delle in-

fluenze bizantine in Italia: un nuovo studio farebbe probabilmente

limitare alquanto la loro portata. Oltre a queste sorprendenti affer-

mazioni antitoeschiane e antibizantine, Bettini vide a Bisanzio

“risolvere la rappresentazione artistica sopra una superficie sempremeno spaziale e invece (...) sempre piu cromatica. Quella superficieaspaziale cromatica che sara, con estrema evidenza, il fondamentoassoluto di tutta l’arte del Medioevo”

25

soprattutto a Bisanzio. Il cromatismo bizantino e opposto alla spazia-

lita romana. In altri studi degli anni Quaranta Bettini proclamo che

la ceramica bizantina e di origine ravennate, che l’architettura cri-

stiana non e nata in Oriente, ma a Roma, che gli edifici a volte e

cupole nelle regioni orientali sono d’importazione romana, che gli

edifici di Giustiniano a Costantinopoli sono occidentali, che il cro-

matismo dei mosaici giustinianei di Ravenna si era originato a Mi-

lano e Ravenna. Perche Bettini, che pure aveva gia scritto i suoi

compendi dell’arte bizantina, desse triste prova di serieta di studioso

svendendo Bisanzio per Roma negli anni della retorica imperiale

mussoliniana, potremmo forse ricostruirlo, se fosse negli interessi di

questo libro26

.

L’appartenenza di Ravenna a Roma e la superiorita dell’arte

romana a confronto della intontita, compassata e fredda arte bizan-

tina, fase finale del classicismo, e anche il pensiero di Pericle Ducati,

nel volume della Storia di Roma dell’Istituto di Studi Romani L’arte

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

27P. Ducati, L’arte in Roma dalle origini al sec. VIII (Istituto di Studi Romani. Storia di

Roma, vol. 26. Bologna, 1938-XVII), citazioni nel testo dalle pp. 390, 401.28

G. Fiocco, “L’architettura esarcale di Aquileia”, Aquileia nostra 11 (1940), coll. 3-18; la

citazione nel testo e da col. 3. Nell’articolo Fiocco contestava la definizione di “arte esarcale

deuterobizantina” data da Giuseppe Gerola (I monumenti di Ravenna bizantina [Milano, s.

in Roma dalle origini al sec. VIII, pubblicato nel 1938: il Medioevo e

“letargo della romanita”, il bizantinismo e antitesi del classicismo; in

esso al carattere plastico si sostituisce la piattezza delle forme. Men-

tre a Roma la vigoria non e mai annullata

“in Bisanzio essa vigoria da luogo ad un intontimento espressivo nellapompa dell’oro e dei colori e tutto acquista un carattere di superbadecorazione, e le formule plastiche divengono formule decorative eornamentali, preannunciando infine quanto si designa col nome diarabesco.”.

Il bizantinismo, che pure e evidente a Roma, Ravenna e Parenzo,

non annulla interamente, tuttavia, la tradizione romana: magnanime-

mente, consente Ducati, continuano a sopravvivere “tracce sempre

piu pallide del tramontato mondo romano” a San Vitale a Ravenna,

dove, nei mosaici romani del presbiterio, e vigoria e movimento, ma,

si badi, nei mosaici della tribuna e “raffinata compostezza” e “solen-

nita fredda”: una contrapposizione tra l’elemento romano-barbarico

non ancora spento e l’elemento “curiale-bizantino” (lo sposalizio tra

romano e barbarico, che non sappiamo dove scorgere a San Vitale, e

frutto, probabilmente, della nuova politica di allineamento tra Roma

e Berlino). Insomma, per il trionfo del bizantinismo fu decisiva la

conquista di Roma da parte di Totila e la distruzione e strage che ne

seguı: “l’anno 546 segna uno degli ultimi crolli di Roma imperiale,

ma e nel tempo stesso il punto di partenza per un rinnovato ardore

nella affermazione della Roma papale”27

.

Nel 1940, Giuseppe Fiocco, in un articolo su Aquileia nostra,

replico alla definizione coniata da Giuseppe Gerola di “arte esarcale

deuterobizantina” (nella discussione entro poi anche Mario Salmi),

sentenziando che non poteva essere avvenuta una seconda fioritura

dell’arte bizantina nella romana Ravenna; la citta

“rimase sempre nell’ambito della tarda antichita romana, anche sottola dominazione bizantina sino alla meta dell’VIII secolo. La criticasostituisce la romanita del basso impero, che aveva fatto di Ravenna lasua capitale, alla bizantinita; le incursioni di Bisanzio vanno restrintenei limiti di un episodio, non di un predominio.”

28.

BISANZIO E LA POLITICA FASCISTA DELLE ARTI

d.]); Fiocco ritorno sull’argomento in “A proposito di arte esarcale”, Le arti 3

(1940-1941-XIX), pp. 373-375. Il primo articolo di Fiocco fu contestato da Salmi in una

recensione (Recensione a Giuseppe Fiocco, “L’architettura esarcale di Aquileia”, Aquileia

nostra 11, 1940, coll. 3-18, Palladio 5 [1941-XIX], pp. 94-95), alla quale Fiocco replico

(Replica a Mario Salmi, Le arti 4 [1941-1942-XX], pp. 46-47); una messa a punto

accomodante di Salmi fu pubblicata accanto alla replica di Fiocco (“A proposito di arte

«esarcale»”, Le arti 4 [1941-1942-XX], pp. 45-46).29

L. Coletti, I primitivi, 1 (Novara, 1941-XX), citazione da p. vi.

“Di arte deuterobizantina si dovra, se mai, far parola per Costan-

tinopoli e per i Balcani, non gia per Ravenna e per l’Esarcato”:

Venezia e la nuova Ravenna, proprio come Ravenna era stata la

nuova Roma. Aquileia, poi, ebbe una sua rivista di studi patrii,

appunto la gia citata Aquileia nostra, del cui consiglio facevano parte

Gentile e Paribeni. Nel programma presentato sul primo numero

della rivista del gennaio 1930, la citta era definita “romana e patriar-

cale”, popolata di uomini che hanno lavorato e lavorano con purita

di cuore per il proprio paese, posta sotto le ali d’Italia della cui

tradizione e parte (definizioni che ricordano la Aquileia de La nave di

D’Annunzio), con un suo museo italianamente rinnovato e con una

basilica riconsacrata alla pieta degli avi.

Per ultimo, Luigi Coletti tento la riconquista, sulla base delle

polverose idee antistrzygowskiane, anche dei manoscritti miniati bi-

zantini normalmente attribuiti alla Siria: “cosa c’e di piu romano,

nella radice, dell’Evangeliario siriaco di Rabula, o di quelli greci di

Sinope o Rossano?”. L’arte paleocristiana, non quella orientale e la

fonte dell’arte italica, la quale e lontana

“dalle allucinazioni che in una sorta di surrealismo tentano di svinco-lare l’espressione figurativa da ogni servitu semantica, facendo delcolore e della linea allegorie di stati d’animo.”

29.

La critica d’arte cedeva alla retorica del regime, cadendo in deliri

panromanisti e antibizantini e partorendo frasi, come questa di

Coletti, di nessun significato.

Curiosamente, i mosaici siciliani sfuggono alla colonizzazione

romanista fino agli anni Quaranta. Restano marginali nelle discus-

sioni su Italia e Bisanzio, come se viaggi e studi nella lontana Sicilia

non fossero agevoli o non fossero inclusi nel curriculum del critico

d’arte. I piu antichi studi monografici su di essi sono di Roberto

Salvini, il primo dei quali, sui mosaici di Monreale, uscı sul volume

de Le arti del 1941 – 1942. Salvini introdusse i mosaici monrealesi

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

30R. Salvini, “I mosaici del Duomo di Monreale”, Le arti 4 (1941-1942-XX), pp.

311-321. Piu tardi, Salvini scrisse “I mosaici della Cappella Palatina”, preparato per la

Rivista del Regio Istituto di Archeologia e Storia dell’Arte 9 (1943) e mai apparso per

l’interruzione del periodico durante la guerra e negli anni immediatamente successivi.

Infine, dopo la guerra, Salvini pubblico Mosaici medievali in Sicilia (Firenze, 1949).

come capolavori sconosciuti, nonostante fossero citati in tutti i ma-

nuali (stranieri) di arte bizantina, “a meno che non si voglia gabellare

per conoscenza di essi la consueta sommaria descrizione dell’organi-

smo iconografico e la loro quasi adiaforica attribuzione al mondo

bizantino”. I cicli musivi di Monreale, Palermo e Cefalu sono consi-

derati rappresentanti della pittura bizantina del XII secolo; ma “in

tempi recentissimi la critica ha mostrato che non si puo parlare di

pittura bizantina per Monreale” e Bettini ha recisamente affermato

che i mosaici monrealesi sono opera di mosaicisti veneziani “facendo

piazza pulita e della tradizionale opinione della bizantinita dei mo-

saici monrealesi e dell’ozioso problema della partecipazione al lavoro

di elementi locali”. Mentre nemmeno nei mosaici di Palermo si puo

riconoscere uno stile schiettamente bizantino, quelli di Monreale

vanno inseriti decisamente nella storia della pittura romanica del-

l’Occidente30

.

e. Epiloghi razzisti

Nell’intervento del 1939 contro Ojetti e quella che lui considerava la

tradizione artistica italiana, Bottai respinse il riferimento alla tradi-

zione come criterio per definire il contenuto artistico del complesso

razziale italiano. La menzione da parte del Ministro dell’Educazione

Nazionale di un’arte della razza italiana e connessa con la dichiara-

zione del Gran Consiglio fascista del 6 ottobre 1938 sul “migliora-

mento qualitativo e quantitativo della razza italiana, miglioramento

che potrebbe essere gravemente compromesso, con conseguenze

politiche incalcolabili da incroci e imbastardimenti”; il Gran Consi-

glio stabilı quindi norme antiebraiche che furono trasformate in legge

con i decreti regii del 15 e 17 novembre; la conseguente espulsione

dei docenti ebrei dall’universita avvenne con decreto di Bottai del 30

novembre 1938. I riflessi della politica razziale sulla critica d’arte in

Italia sono ben evidenti negli ultimi anni del fascismo: l’attribuzione

alla sola Germania hitleriana di un razzismo in arte e un’illusione o

un travisamento smentiti dalla lettura dei martellanti articoli antise-

BISANZIO E LA POLITICA FASCISTA DELLE ARTI

31G. Volpe, “Su la soglia del nuovo Impero mediterraneo”, Le arti 2 (1940-XVIII), pp.

293-298.

miti su Quadrivio, Il Tevere e Difesa della razza e degli scritti di

Telesio Interlandi, Giuseppe Pensabene e loro colleghi negli anni

intorno al 1938.

Anche se gli sviluppi della politica razzista in arte non possono

essere seguiti qui, alcuni riflessi coinvolsero la valutazione dell’arte

bizantina e devono essere accennati anche sommariamente. Molte

pagine di Soffici sui Francesi avevano anticipato dagli anni Venti il

razzismo in arte; dopo le leggi razziali, Gioacchino Volpe – lo storico

che in Parlamento denigro Salvemini che aveva denunziato come il

fascismo negava la liberta di insegnamento ed era poi fuggito all’e-

stero – affermo che i Bizantini non appartenevano alla razza ariana,

come i semiti di Cartagine, ma facevano parte dei semiasiatici in-

sieme ad Arabi e Turchi31

. La rivista Quadrivio ospito i discorsi di

Hitler sull’arte degenerata e trentotto articoli a sostegno del razzismo

e dell’antisemitismo tra gennaio e ottobre scritti da Pensabene e da

un secondo autore che si firmo sempre con le sole iniziali G. H. La

serie era intitolata “La composizione razzista del popolo italiano” ed

al capitolo VI su “Il Marxismo e i Preasiatici” (uscito sul fascicolo

del 21 febbraio 1937) si riporta la “verita profonda” di Hein, che

Roma fu “consumata dal veleno ebraico”; i Bizantini sono qui invece

“preasiatici” (che come caratteristica sono diabolici, demogoghi,

bravi in politica e nel commercio, ipocriti, plutocrati):

“Tutta la lenta gradazione da Roma a Costantinopoli, dai Consoli agliEsarchi, dal Senato alla burocrazia bizantina non fu che l’aspettoesterno d’un fatto sostanziale: il passaggio della ricchezza, della cul-tura, del potere religioso e politico, da una razza all’altra. I Preasiaticisi sostituirono lentamente ai Mediterranei. Questa sostituzione sotter-ranea ed astuta, era cominciata dapprima nei culti e nelle idee: poi finı,com’era inevitabile, nelle persone. Anatolici ed Armeni sedettero suquel seggio ch’era stato occupato da principio dai Flavii e dai Giulii.”.

Con le invasioni barbariche, “i Preasiatici e gli Orientali riflui-

rono da Roma, invasa da tempo, a Bisanzio, Antiochia e altre citta

dell’Oriente: lato benefico di tanti mali.” Con la riscossa delle popo-

lazioni romane il plasticismo, supremo valore nell’arte, soppianto il

gusto bizantino:

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

32I brani nel testo sono presi da Quadrivio 5, n 17 (21 febbraio 1937-XV) e 5, n 19 (7

marzo 1937-XV), p. 2.33

G. Dell’Isola, “Storia senza astrazioni”, La difesa della razza 3, n 19, 5 agosto XVIII

[1940], pp. 33-35.34

Difesa della razza, 1 n 2 (20 agosto XVI [1938]), pp. 32 e 33.

“Non fu certamente un caso che l’autonomia politica riconquistatadopo il Mille, dalle popolazioni romane delle citta, portasse allascomparsa del gusto bizantino, e al ritorno del senso plastico dellapittura, perduto otto secoli prima, per la prevalenza che avevano presonelle alte gerarchie dell’Impero, gli uomini originari del Caucaso.”.

La pittura giottesca fu il prodotto di una rivoluzione di razza:

“L’affermarsi di Giotto e della sua tendenza, oltre che un fatto arti-stico, fu l’indice di un fatto politico, e d’una grande rivoluzione dirazza.”

32.

Su Difesa della razza del 5 agosto 1940, un tale Dell’Isola si

scaglio minacciosamente contro la dipendenza dei mosaici ravennati

e siciliani dalla Siria e da Bisanzio, “di cui abbiamo sentito discorrere

assai spesso i nostri”33

. Opere d’arte sono utilizzate come esempi

figurativi per sostenere tesi razzistiche; Difesa della razza, nel fasci-

colo del 20 agosto 1938, pubblico affrontati su due pagine una testa

nel Palazzo dei Conservatori ed il cosiddetto Colosso di Barletta

(oggi ritenuto una statua dell’imperatore Marciano fatta a Costanti-

nopoli tra il 450 e il 457), ponendo sotto il ritratto romano la

didascalia “La nobile e chiara fisionomia di un console romano” e

sotto la statua bizantina “L’ottuso volto dell’Imperatore Valentiniano

I, di oscura famiglia della Pannonia” (fig. 102)34

f. Folklore bizantino

La presenza italiana nelle isole del Dodecaneso e nelle altre isole

dell’Egeo che furono occupate militarmente nel maggio 1912, poi

assegnate all’Italia col trattato di Sevres nel 1920, dette impulso agli

studi italiani di documenti archeologici e artistici bizantini, soprat-

tutto a Rodi e Patmo, sotto la direzione della Missione Archeologica

esistente dal 1914: “I lavori compiuti dall’Italia sono di tale grandio-

sita e importanza da far pensare a opera di piu decenni. (...) I

monumenti sono stati studiati e restaurati con tutta cura; a Rodi

BISANZIO E LA POLITICA FASCISTA DELLE ARTI

35L. V. Bertarelli, Possedimenti e Colonie. Isole Egee, Tripolitania, Cirenaica,Eritrea, Somalia

(Guida d’Italia del Touring Club Italiano. Milano, 1929-VII); la citazione nel testo e da p.

33; altre notizie generali a p. 49. G. Jacopi, “Le miniature dei codici di Patmo”, Clara

Rhodos 6-7 (1932-1933), pp. 573-591; id., Patmo, Coo e le minori isole italiane dell’Egeo

(Bergamo, 1938-XVI). Le corrispondenze su La rivista illustrata del “Popolo d’Italia”,

firmate S. B., una sigla che non sono stato in grado di sciogliere, sono, in ordine

cronologico: “Progetto d’inutile saccheggio”, 16 n 3 (marzo 1934), pp. 65-67; “«Megalis

ecclisias»”, 12, n 10 (ottobre 1934), pp. 78-81; “Dove entrarono gli Ottomani”, 13, n 4

(aprile 1935), pp. 42-47; “Sopravvivenze bizantine”, 14, n 2 (febbraio 1936), pp. 29-31;

“Sceker bayram”, 16, n 1 (febbraio 1938), pp. 71-73.

sono stati fondati un importantissimo Museo Archeologico e un

pregevole Museo Etnografico e un Istituto Storico Archeologico, e a

Coo un locale Museo Archeologico, mentre tanto a Rodi che a Coo

continuano con ogni attivita gli scavi archeologici” (cosı il volume

Possedimenti e Colonie del Touring Club Italiano del 1929). La rivista

Clara Rhodos pubblico descrizioni e riproduzioni di pitture, ricami,

paramenti e altri oggetti artistici del Monastero di San Giovanni

Teologo a Patmo; soprattutto, ad opera di Giulio Jacopi, furono

descritti i manoscritti miniati della biblioteca, tra i quali la Catena su

Giobbe, cod. 171, uno dei manoscritti miniati bizantini piu antichi

pervenutici, rimasto fino ad allora pressoche sconosciuto, della quale

furono riprodotte tutte le miniature, alcune in tavole a colori. Lo

stesso Jacopi curo nel 1938 il volume Patmo, Coo e le minori isole

italiane dell’Egeo di taglio etnografico, con ritratti di donne in costumi

tradizionali e pose ‘bizantine’ (figg. 103-104). Tra il 1934 e il 1938,

La Rivista illustrata del “Popolo d’Italia” pubblico una serie di corri-

spondenze che descrivevano curiosita etnografiche ed esotiche di

Istanbul, monumenti bizantini da visitare (Santa Sofia trasformata in

museo, Sant’Irene, le mura per le quali esisteva un progetto di

demolizione, San Salvatore in Chora), ed aberrazioni della locale

comunita greca (il baciamano al cadavere del patriarca ortodosso e la

zuffa tra i sostenitori di due patriarchi antagonisti)35

.

10

GIOTTO: BISANZIO O ITALIA

Anche per l’opera di Giotto e soprattutto per le sue origini artistiche

si ripete la contrapposizione tra i due fronti antagonisti dei romanisti,

che videro riemergere nel pittore la tradizione italiana dopo il buio

del Medioevo, e dei filobizantini che videro in lui l’erede di una

tradizione dominata da Bisanzio. L’apice della fortuna critica di

Giotto arrivo nel 1937, in occasione della mostra giottesca di Fi-

renze. Tra la fioritura di recensioni alla mostra e di pubblicazioni su

Giotto, Longhi scrisse il suo celebre “Giudizio sul Duecento”, che

rappresento una sorta di manifesto contro l’arte bizantina, una con-

danna senza attenuanti (e senza scienza) che fu presa come modello

interpretativo da numerosi dei suoi allievi.

a. Prima del 1937

“[la veduta di Arezzo negli affreschi di Assisi] potrebbeessere il vangelo di un pittore cubista.”

P. Toesca, “Gioventu di Giotto”, 1942, p. 30

Il giudizio dato da Toesca nel 1942 di Giotto come precursore dei

pittori cubisti non fu sua invenzione. Fin dagli anni Dieci, insieme a

Masaccio, Paolo Uccello e altri primitivi e preraffaelliti, Giotto fu la

musa ispiratrice del cosiddetto ‘ritorno all’ordine’ ed alla ‘tradizione

italiana’. Tutti amano Michelangelo e Raffaello nelle aule della

accademie, scrisse Carra su La voce nel 1916, ed ignorano la bellezza

costruttiva dell’Adamo ed Eva del Carmine e dell’Adamo di Paolo

Uccello a Santa Maria Novella. Di Giotto, Carra lodo l’unita co-

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

1C. Carra, “Parlata su Giotto”, La voce 8 (1916), pp. 162-174, citazione nel testo da p.

168. Alcuni critici contemporanei misero mettere in guardia da una interpretazione cubista

di Giotto: M. Marangoni, Giotto. La Cappella degli Scrovegni (Bergamo, 1937-XVI), p. 3; V.

Mariani, Giotto (Roma, XVI [1937]), pp. 9-11.2

C. Carra, Giotto (Roma, 1924), citazioni nel testo da pp. 22 e 23. Sul San Francesco di

Pescia: C. Carra, “Il San Francesco di Berlinghieri a Pescia”, L’Ambrosiano 26 luglio 1933.3

C. Carra, “Difesa della mia generazione”, [1930] ristampato in C. Carra, Segreto

professionale, a cura di M. Carra (Firenze, 1962), p. 86. U. Ojetti, Bello e brutto (Milano,

1930).

struttiva, la realta, la concretezza della forma, i valori puri della sua

arte, “ossatura cubista” dei dipinti che prende come insiemi plastici:

“Oggi si parla di costruzione di valori puri (...). In Giotto, io, ammirol’ossatura cubista dei suoi dipinti che io prendo come insiemi plastici.Le teologie le abbandono ai metafisici”

1.

Nuovamente nel 1924, Carra elogio di Giotto valori opposti a

quelli bizantini, come il dolore concentrato, cosı lontano da quello

egoistico e barbarico dei bizantini:

“In quelle pitture [scilicet: gli affreschi a Padova] non si manifestanopiu i segni della caparbieta, rozzezza e durezza bizantine. Ma le formecorporee rivelano tuttavia la resistenza tenace che i lineamenti e i segniopposero prima di piegarsi all’espressione della pieta. Il dolore [negliartisti pregiotteschi] si chiude e si concentra nelle regioni dello spirito,senza trascendere nella maniaca violenza dei bizantini, radicati nell’e-goismo indurito e nella barbarie, ma ancora non acquista quel valoredi sostanziosa realta e di umanita che ritroviamo nelle opere di Giot-to.”.

La pittura bizantina avrebbe avuto un peso crescente in Italia nel

Duecento; Carra tolse pero dal suo alveo i piu bei dipinti toscani del

periodo, tra i quali la tavola di San Francesco a Pescia. Per allonta-

nare ancor piu Giotto da Bisanzio, Carra insistette che “nella pittura

bizantina non si scorge neppure l’ombra dell’osservazione diretta

della realta, mentre Giotto proprio da questa ricava la materia della

sua arte”. Sembrava assurdo a Carra che “critici occhialuti senza

paura del ridicolo” avessero potuto sostenere che Giotto dovesse

molto a Cavallini, “uno dei tanti mediocri artisti romani”; casomai la

verita inversa e che Cavallini si provo ad imitare Giotto2. Infine, nel

1930, Carra uso Giotto contro l’idea di bello che Ojetti aveva

provato a imporre in Bello e brutto uscito quell’anno: se l’anatomia e

la prospettiva sono le basi dell’arte, si dica che Giotto e inferiore a un

qualunque cinquecentista3.

GIOTTO: BISANZIO O ITALIA

4C. Gamba, Giotto (L’arte per tutti, Istituto Italiano L.U.C.E., Roma, 1930), special-

mente p. 4: “Giotto crea un tipo d’arte nuova e originale e italiana perche fuori dalla

tradizione bizantina e dall’influenza gotica.”. “Ardengo Soffici. Vasari moderno”, p. 5. M.

G[rassini] Sarfatti, Storia della pittura moderna (Collezione “Prisma”, diretta da M. S. Roma,

1930-VIII), p. 14.5

A. Soffici, “Romanita della pittura italiana”, L’illustrazione del medico, n 26 (marzo

1936), pp. 27-30, citazioni nel testo da pp. 29-30.6

M. Salmi, “I mosaici del «Bel San Giovanni» e la pittura del secolo XIII a Firenze”,

Dedalo 11 (1930-1931), pp. 543-570.

Giotto e il campione della pittura italiana, nuova e originale, che

nasce portandosi fuori dalla tradizione bizantina: quest’idea di Va-

sari, alla quale aderı Carra, fu fatta propria da vari critici, come

scrisse anche Berenson in “Due dipinti del decimosecondo secolo

venuti da Costantinopoli” nel 1920-1921, da Carlo Gamba a Soffici,

il “Vasari moderno”. La Sarfatti fu su questa linea interpretativa

nella sua Storia della pittura moderna del 19304. Soffici, in “Romanita

della pittura italiana”, insiste che l’Oriente “ripudia l’imitazione, odia

la attuale rappresentazione di qualunque oggetto in natura, e lo

spirito imitativo dell’Occidente” (Soffici dice di citare qui Oscar

Wilde), e che – riprendendo Vasari – l’arte italiana nasce dalla

reazione al manierismo e al convenzionalismo orientale (bizantino),

dallo studio della natura fondato sulla realta plastica e poetica del

mondo; Cimabue e Giotto ad Assisi si ricollegano e si ispirano cosı

alla romanita passando sopra ai secoli barbari ed aberranti. Concluse

Soffici bellicosamente, additando i non pochi nemici dell’Italia arti-

stica:

“(...) ripudiare lo spirito animatore della civilta romana e latina del-l’Occidente europeo (...). Chi lo fa e nostro nemico. Tragicamentecurioso e pero che non pochi italiani si trovino, anche oggi, nelnumero di costoro.”

5.

Altri critici si astennero da schierarsi su Giotto con l’uno o l’altro

partito; Salmi cito di passaggio il bizantinismo degli artisti dei mo-

saici del Battistero fiorentino di San Giovanni6. Sul fronte opposto,

filobizantino, quello dei nemici della patria secondo Soffici, figurano

anche questa volta Toesca e Lionello Venturi. Quest’ultimo, nella

“Introduzione all’arte di Giotto”, uscito su L’arte del 1919 e poi

ristampato in Pretesti di critica nel 1929, osservo che il maggior

problema di Giotto era stato adattare e subordinare il colore alla

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

7L. Venturi, “Introduzione all’arte di Giotto”, L’arte 22 (1919), pp. 49-56 (ristampato in

L. V., Pretesti di critica [Milano, 1929]), citazione nel testo da p. 53.8

P. Toesca, Storia dell’arte italiana, vol. 2, Il Trecento, (Torino, 1951), pp. 442, 455, 444.

Vedi inoltre P. Toesca, La pittura fiorentina del Trecento (Verona, 1929).

forma, essendo il colore la maggior gloria e la qualita centrale della

civilta artistica bizantina che egli andava distruggendo7.

Le pagine su Giotto negli scritti di Toesca (Il Medioevo, del 1927,

La pittura fiorentina del Trecento del 1929, le voci redatte per la

Enciclopedia Italiana, specialmente “Giotto” sul volume 17 del 1933,

Giotto del 1941, “Gioventu di Giotto” del 1942 e Il Trecento del

1951), definirono implacabilmente il Duecento italiano come un

periodo dominato dall’arte bizantina, dalla quale derivano, emanci-

pandosene, sia i pittori romani – Cavallini, Torriti e gli altri –, sia i

pittori toscani – Duccio, Cimabue e, appunto, Giotto. Quest’ultimo

prese la modellazione delle sue figure non dalla pittura gotica, ma

dalla bizantina o bizantineggiante; dipinse capolavori che “sorgono

da un complesso storico nel quale occupano, come il poema di

Dante, il nodo principale tra l’antico e il moderno”; nel formarsi,

Giotto dovette rimuovere le convenzioni pittoriche del periodo pre-

cedente, derivando dalla pittura bizantineggiante, ma recandovi

grandi variazioni per giungere a un risultato del tutto nuovo. Tutti i

pittori del tempo di Giotto vengono considerati da Toesca nell’orbita

bizantineggiante, chi “in umili modi popolari” e chi “tentando sfere

piu alte”; mentre Cimabue traeva dagli esemplari bizantini “l’accento

piu appassionato e la nobilta classica”, Giotto, che riprese da Bisan-

zio l’utilizzazione delle lumeggiature, ebbe da smuovere in gioventu

“il cumulo delle tradizioni bizantineggianti, grave di esperienze seco-

lari, imponente per altezza di concetti”8.

In “Gioventu di Giotto” del 1942, Toesca lascia in sospeso il

problema della paternita degli affreschi di Assisi (e qui che la veduta

di Roma di Cimabue gli pare fatta di profili ritagliati, mentre la

veduta di Arezzo di Giotto potrebbe essere il vangelo di un pittore

cubista) (fig. 105). Giotto, drammaturgo e bizantineggiante, viene

fuori da una tradizione senza salti: Cavallini, Maestro di Isacco,

affreschi delle storie di San Francesco ad Assisi:

“E palese che il pittore [delle storie di San Francesco] non conoscevaaffatto, ne s’immaginava, il tormento critico degli artisti odierni sulvalore del «contenuto» e su quello della forma pura: nella sua artecontenuto e forma sono una sola cosa, fusi insieme nell’atto creativo

GIOTTO: BISANZIO O ITALIA

9P. Toesca, “Gioventu di Giotto”, Civilta. Rivista trimestrale della Esposizione Universale di

Roma, gennaio 1942-XX, pp. 29-50.10

I giudizi di Toesca su Giotto sono dalla voce “Giotto” della Enciclopedia Italiana, vol.

17 (1933), p. 212, e da Giotto (I Grandi Italiani. Collana di biografie diretta da Luigi

Federzoni, 18. Torino, 1941-XIX), pp. 13, 41, 49; vedi inoltre, su Giotto, La pittura

fiorentina del Trecento (Verona, 1929), pp. 5-40. La lettera di Toesca a Berenson e

conservata nella Biblioteca Berenson, Villa I Tatti, Settignano (Firenze).11

La lettera di Toesca a Berenson e del 7 giugno 1937 ed e conservata nella Biblioteca

Berenson, Villa I Tatti, Settignano (Firenze).

che alla figura e alle azioni del Santo da la grave e potente umanitach’e la sola conveniente al modo di vedere del pittore, cioe alla suaforma, grave, raccolta, di potente rilievo.Sia Giotto, o non lo sia, il pittore della Vita di S. Francesco e maestrograndissimo. A riguardare nella pittura italiana tra il Dugento e ilTrecento il suo posto non puo essere che tra la vecchia manierabizantineggiante, di Cimabue e dei suoi compagni, della quale mantienequalche ricordo, e la nuova che Giotto tenne nell’Arena di Padova.”

9.

A Toesca, inoltre, non piace affatto il giudizio di Carra; scrive a

Berenson nel 1945:

“Un editore milanese ha ora pubblicato un fascicolo di tricomie dellaCappella degli Scrovegni con 10 pagine di Carra – che non si sapreb-bero immaginare piu sciocche.”

10.

b. La mostra giottesca del 1937

Nel 1937, fu allestita a Firenze alla Galleria degli Uffizi una esposi-

zione celebrativa del sesto centenario della morte di Giotto, che

rimase aperta da aprile ad ottobre. Le opere elencate nel catalogo

erano 316, in stragrande maggioranza pitture, con l’aggiunta di un

piccolo gruppo di sculture e di oggetti di arte minore (figg. 106-109),

e ripartite per scuole locali: mentre per il Trecento figuravano solo

dipinti della scuola di Giotto, gli esempi duecenteschi erano ripartiti

come scuola lucchese, pisana, senese, aretina, umbra, giuntesca,

fiorentina, e quest’ultima era suddivisa in scuole dei singoli artisti.

Sembra che la mostra avesse poco successo di pubblico; scrivendo a

Berenson, Toesca la disse “deserta a tutte le ore”11

. Il catalogo del

1937 riportava solo notizie schematiche sulle opere senza commenti

(autore, titolo, luogo di conservazione, dimensioni, due parole sulla

attribuzione e da chi era stata fatta); in apertura dichiarava che la

mostra era una rassegna della pittura toscana prima di Giotto,

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

12Mostra giottesca, Palazzo degli Uffizi, aprile – ottobre 1937-XV, catalogo della mostra

(Citta di Firenze, onoranze a Giotto nel VI centenario della morte. Bergamo, 1937); Pittura

italiana del Duecento e Trecento. Catalogo della mostra giottesca di Firenze del 1937, a cura di G.

Sinibaldi e G. Brunetti (Firenze, 1943), citazione da p. 7; i dipinti citati sono riprodotti alle

figg. 13 e 14.

comprendente sia maestri della corrente nella quale Giotto si formo,

sia maestri delle correnti bizantineggianti alle quali Giotto reagı:

“Questa mostra e fatta per celebrare Giotto e l’arte sua; ed e fatta inun momento in cui maggiormente fervono gli studi sulle scuole to-scane del sec. XIII e sulla giottesca nella sua piu larga espansione.Onde questa mostra vuole essere una adeguata rassegna della pitturatoscana prima di Giotto, e offrire anzitutto i capolavori dei maestrilucchesi pisani senesi aretini umbri fiorentini, rappresentanti tanto lacorrente artistica nella quale, attraverso Cimabue, Giotto si formo,quanto le correnti bisantineggianti, a cui Giotto reagı (...).”.

Una seconda edizione del catalogo, molto arricchito di pagine e

di dettagli fotografici delle opere, uscı nel 1943 a cura di Giulia

Sinibaldi e Giulia Brunetti; questa volta le schede discutevano lunga-

mente la fortuna critica delle opere e le attribuzioni avanzate dagli

studiosi. La lettura della pittura duecentesca presentata dalla mostra

abbraccio la tesi dell’interpretazione di Giotto come antibizantino;

nel gruppo dei precursori di Giotto mise, tra gli altri, Giunta Pisano

del Crocifisso di San Domenico di Bologna (fig. 106); nel gruppo dei

bizantineggianti Enrico di Tedice del Crocifisso di San Martino di

Pisa (fig. 107). Non sono negati e sono discussi con competenza gli

elementi bizantini nei dipinti duecenteschi: allo stile di Berlinghiero

Berlinghieri (Crocifisso della Pinacoteca di Lucca, n 2 del catalogo),

ad esempio, si da il nome di romanico per via del suo carattere

plastico e coloristico, ma il suo colore costruttivo e ispirato da una

raffinata conoscenza dell’arte bizantina, nella quale, pero, la linea e

la forma sono piu mobili e ritmiche12

.

Indipendentemente dall’insuccesso o meno di pubblico, la mo-

stra degli Uffizi suscito un fiume di saggi e commenti su Giotto e la

sua italianita. Ancora prima della apertura, la rivista Quadrivio, una

delle piu squallide riviste del fascismo, bandı un “referendum” tra gli

artisti contemporanei dal titolo “Giotto 1937: Omaggio al Padre

della pittura italiana”; si chiedeva di rispondere alla domanda “Come

vedono Giotto, a sei secoli dalla sua morte i pittori che vivono e

lavorano nel 1937?”. Risposero Severini (“Giotto 1937”, 31 gen-

GIOTTO: BISANZIO O ITALIA

13A Giotto, numero speciale della Illustrazione toscana, 15, n 4 (aprile 1937): M. Salmi,

“Giotto pittore”, pp. 1-21; R. Salvini, “Giotto architetto”, pp. 33-35; O. H. Giglioli, “La

mostra giottesca in Firenze”, pp. 36-42. “Giotto 1937. Come vedono Giotto, a sei secoli dalla

sua morte, i pittori che vivono e lavorano nel 1937? ... Omaggio al Padre della pittura

italiana”, in Quadrivio, gennaio-febbraio 1937-XV: G. Severini, “Giotto 1937”, 31 gennaio,

p. 1; M. Tozzi, “Il piu vivo di tutti i pittori”, 7 febbraio, p. 1; C. Socrate, “W Giotto ma

abbasso il Giottismo”, 14 febbraio, p. 1. A. Del Massa, “Giotto e l’eta nuova”, La Nazione, 24

aprile 1937, p. 3.14

M. Salmi, “La mostra giottesca”, Emporium 43 (1937-XV), p. 349. L. Coletti, “La

Mostra Giottesca”, Bollettino d’arte, ser. 3, 31 (1937-XV), pp. 49-72, citazioni nel testo da

pp. 49 e 55.

naio), Mario Tozzi (“Il piu vivo di tutti i pittori”, 7 febbraio), Carlo

Socrate (“W Giotto, ma abbasso il Giottismo”, 14 febbraio). L’Illu-

strazione toscana pubblico in aprile un numero speciale “A Giotto”, al

quale contribuirono Salmi (“Giotto pittore”), il giovane Salvini

(“Giotto architetto”) e Odoardo H. Giglioli (“La mostra giottesca in

Firenze”). Quanto alla stampa quotidiana, La Nazione pubblico un

articolo di Del Massa che definiva la classicita una forza vitale e

risorgente in Giotto, corrispondente al concetto di Giotto imitatore

della natura tramandato dalla critica d’arte antica13

.

Recensioni della mostra furono scritte da Salmi e da Coletti.

Quest’ultimo, con accenti patriottici e propagandistici, parlo di affol-

lamenti del pubblico nelle sale, esalto il maschio e popolano Giotto

(in contrasto, come simbolo di Bisanzio in quel periodo potrebbe

essere presa Teodora, femmina e cortigiana) e si scaglio contro l’idea

che “questa nostra terra non debba essere stata altro che il campo

delle contrastanti ondate d’oltralpe e d’oltre mare”; vale a dire,

iconografia, schemi morfologici e vocabolario di quest’arte di Giotto

sono “bizantini, carolingi, ottoniani, francesi e tedeschi”, ma “lo

spirito di quest’arte”, “la poetica di questa gente” e cosa tutta diversa

“una schiettezza maschia e popolana, una serieta che impegna nellaespressione artistica tutta integra la personalita umana.”

14.

Piu spazio dedico a Giotto l’immancabile Ojetti nella prolusione

in Palazzo Vecchio per la mostra giottesca; narrativo e poetico, Ojetti

inaspettatamente non nego il primato di Bisanzio nel Duecento:

“Anche dopo la meta del dugento la pittura bizantina solenne eimpassibile, dai gesti e dagli attributi regolati su canoni fissi, dallerigide pieghe a ventaglio lineate d’oro, continuo a tenere il campo. Lasua tecnica smaltata e lucente aggiungeva anche alle Madonne un che

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

15U. Ojetti, Giotto. Discorso letto il 27 aprile 1937-XV a Firenze in Palazzo Vecchio ...

(Reale Accademia d’Italia. Celebrazioni e Commemorazioni, 23. Roma, 1937-XV), ristam-

pato in Nuova Antologia 72 (1937-XV), pp. 137-145, citazione nel testo da p. 138.16

E. Cecchi, Giotto (Collezione Valori Plastici. Milano, 1937-XV). P. Toesca, “Giotto

pittore e San Francesco”, Frate Francesco 10 (1937-XV), p. 145. M. Salmi, “Le origini

dell’arte di Giotto”, Rivista d’arte 19 (1937-XV), pp. 193-220. R. Salvini, Giotto. Bibliografia

(Roma, 1938-XVII); Salvini aveva gia pubblicato “Medioevo e Rinascimento nell’arte di

Giotto”, Civilta moderna 7 (1935-XIII), pp. 3-17. S. Bettini, “Rapporti tra l’arte bizantina e

l’arte italiana prima di Giotto”, in Istituto Nazionale per le relazioni culturali con l’estero,

Italia e Grecia. Saggio su le due civilta e i loro rapporti attraverso i secoli (Firenze, 1939-XVIII),

pp. 273-295.17

Croce, La critica e la storia delle arti figurative, p. 8. Sul libro di Croce e Longhi vedi L.

Grassi, “Benedetto Croce e la critica d’arte”, Rivista dell’Istituto Nazionale di Archeologia e

Storia dell’Arte, n. s., 1 (1952), pp. 328-335.

di metallico e di gemmato che agli occhi della folla ne aumentava ilpregio, il prestigio e la maesta.”

15.

Sempre nel 1937 uscirono una monografia di Cecchi di ascen-

denze toeschiane (Giotto di formazione bizantino-toscana, con i

profeti di Assisi che mostrano la piu drammatica aderenza al bizanti-

nismo di Cimabue), un articolo di Toesca su San Francesco inter-

pretato da Giotto e dai pittori bizantineggianti, un articolo di Salmi

sulle origini di Giotto. L’anno successivo, Salvini pubblico la biblio-

grafia su Giotto e nel 1939 Bettini scrisse “Rapporti tra l’arte

bizantina e l’arte italiana prima di Giotto”16

.

c. Il “Giudizio” antibizantino di Longhi

Inviso ai non allineati con il regime, in primis Toesca e Berenson,

l’uno suo maestro a Roma, l’altro suo maestro ideale, per via delle

sue compromissioni con il gruppo di Bottai e le sue riviste, Longhi fu

lo scrittore che piu influenzo la critica artistica italiana degli anni

Trenta. Cosı Croce ne riconobbe il fascino nel 1934:

“(...) gli scritti finora dati in luce dai nuovi critici e storici, dei qualiricordero tra i piu recenti e audaci il Longhi, che per le sue molteconoscenze di arte, e soprattutto per essere uno scrittore (per dirla allatedesca) temperamentvoll, esercita una notevole efficacia sui recentistudı italiani di storia dell’arte.”

17.

E Toesca, piu tardi, nel 1945, in una lettera a Berenson uso per

Longhi espressioni simili a quelle di Croce:

GIOTTO: BISANZIO O ITALIA

18Lettera di Toesca a Berenson del 30 luglio 1945, conservata nella Biblioteca Berenson,

Villa I Tatti, Settignano (Firenze).19

R. Longhi, “Giudizio sul Duecento”, Proporzioni 2 (1948), pp. 5-54 (“Giudizio sul

Duecento 1939”, pp. 5-22; Corollario 1947, pp. 23-29; Note, pp. 30-54).20

Vedi Capitolo 11, paragrafo e.

“mi son trovato costretto a rileggere lo scritto del Longhi su Masaccio eMasolino, petulante e ingegnoso, ma inzuppato anche di falsita, e.g.:rapporti di Giovanni da Milano con Masolino; Giusto Menabuoi inLombardia ecc. Pure, bisogna riconoscere che Longhi ha per i giovani laqualita di un seduttore: e non soltanto per i giovani se si pensa che il bar-bogio Coletti e giunto a paragonare il Redentore di Tivoli al «bolero» diRavel.”

18.

Longhi scrisse un esteso commento alla Mostra giottesca degli

Uffizi, che abbraccia tutta la pittura duecentesca italiana, dal titolo

“Giudizio sul Duecento”, il quale venne pubblicato, con la data 1939,

solo nel 1948 su Proporzioni con un Corollario datato quest’ultimo

194719

. Longhi appose accanto al titolo la dedica, riferita all’anno di

pubblicazione, “Al mio maestro Pietro Toesca per il suo 70˚ anno e per

il termine del Suo insegnamento”. Forse influenzato dalle sentenze

antibizantine di Pasquali, Longhi nel “Giudizio” e nel Corollario

mostro per Bisanzio una repulsione generale come se l’arte bizantina

fosse il demone che assomma in se tutti i valori da lui ritenuti negativi

nell’arte. Longhi definı Pasquali, che era annoiato da Bisanzio20

, “vero

studioso”; ai bizantinisti, invece, furono appiccicate definizioni nega-

tive e ironiche, cosı che il Corollario appare non un pezzo di critica

d’arte, ma una dichiarazione di fede, uno sfogo acido contro tutti di chi

vede rientrare in campo i suoi avversari di un tempo: Duthuit e un

estetista decadente, il suo apprezzamento di Bisanzio e un manifesto

dell’automatismo surrealistico; Diehl, Dalton e Millet sono solenni

eruditi; per Schlumberger e Prichard crea l’espressione “misticismo

prichardiano”; Bettini viene attaccato ed anche di Toesca non e

passato sotto silenzio il suo amore per il Salterio di Parigi; per De

Chirico parla di “similarte” e di “origine levantina delle contraffazioni

tecniche” della sua pittura; i pochi soggetti dei quadri dei pittori

moderni – natura morta astratta, chitarrista, ecc. – gli sembrano frutto

di un annebbiamento linguistico comune con il Duecento.

La valutazione negativa di Longhi su Bisanzio era gia apparsa in

“Viatico per la mostra veneziana dei cinque secoli”, del 1946:

“Che il primo letto della cultura dei trecentisti veneti sia l’arte conge-lata e autocratica del tardo bizantinismo, non par dubbio. Deferentis-

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

21R. Longhi, “Viatico per la mostra veneziana dei cinque secoli”, La Rassegna d’Italia 1 n

1 (gennaio 1946), pp. 66-81; 1 n 4 (aprile 1946), pp. 32-49; le citazioni sono dalla prima

parte, p. 66. Per buona parte questo paragrafo sul “Giudizio” di Longhi ripete quanto

scritto in Bernabo, “L’arte bizantina e la critica in Italia”, pp. 58-60.

simi al pregio delle piu lussuose materie adoperabili, tecnologi perfetti,artigiani aristocratici che sembrano lavorare i loro dipinti in tartaruga,pelle di ramarro e oro, difettano di tenerezza come difettano dienergia. Poco umani, consegnano all’arte locale una severita di con-trolli tecnici che non sara, moralmente, dimenticata, ma che nonpotrebbe da sola stabilire una tradizione sensibile di valori poetici.”

L’espressione “poco umani” sembra riadattata dalla definizione

“forma di governo disumana” riferita da Pasquali a Bisanzio in

“Medioevo bizantino”; il richiamo ai valori poetici fa gruppo con

molte altre espressioni crociane usate nel “Giudizio” e soprattutto

nel Corollario. Poco oltre in “Viatico”, Longhi aggiunge un collega-

mento ironico tra aspirazioni imperiali di Mussolini e studi italiani su

Bisanzio e Venezia, che e la prima frecciata di Longhi sulla critica

d’arte al servizio del fascismo, dal quale Longhi sembra prendere ora

le distanze (“Viatico” esce dopo la caduta del fascismo):

“Piuttosto che farne [dei trecentisti veneti] soltanto i fondatori dellascuola cretese-veneziana (e anche questo e stato fatto quando piacevadimostrare che Venezia con la pittura, sia pur meccanica e nulla, dei‘madonneri’, aveva mantenuto per secoli, poco meno che da Minossea Mussolini, l’impero culturale dell’oriente mediterraneo), meglio avvi-sare quando, fra le peripezie di un ornato quasi mussulmano, unfianco insolitamente greve, una manica squadrata a piombo, oppureun’intrecciatura piu fluida dei ritmi, dimostrino, in codesti artisti, undesiderio di trarre dall’arnia dorata e polverosa del bizantinismo unasmelatura, se non d’italiano vero, almeno di franco-veneto.”

21.

Il “Giudizio” fu pubblicato due anni dopo il “Viatico”. Il punto

di partenza fu la dichiarazione d’intenti del catalogo della mostra

giottesca che separava in due correnti la pittura duecentesca, la

corrente in cui si formo Giotto attraverso Cimabue e la corrente

bizantineggiante; esisterebbe, dunque, un gruppo di opere che gli

studiosi mettono tra i capolavori ed esiste un percorso storico della

pittura che porta a Giotto. Longhi, quindi, va alla ricerca dei capola-

vori promessi tra le opere esposte in mostra palesando il suo giudizio

estetico. Il colorito prontuario longhiano del “Giudizio” di espres-

sioni demolitorie sulla pittura bizantina e bizantineggiante ha fatto da

GIOTTO: BISANZIO O ITALIA

22Le citazioni nel testo dal “Giudizio sul Duecento” sono dalle pp. 10, 6, 6-7, 24, 29, 7.

modello di prosa a studiosi piu recenti: “sottigliezze neoattiche” per

il Crocifisso del Museo Civico di Pisa; “bacata squisitezza” per il

Crocifisso del Museo di Villa Guinigi di Lucca; “fuorviate acutezze

dell’artigianato di fonte palatina orientale” e gesti di manichino

classico per il San Francesco della chiesa di San Francesco di Pisa;

“grammatica metallizzata, ora classicista, ora geroglificamente deco-

rativa”, “aridi gherigli delle luci incassulate”, “riflessi mimici del

sentimento [che] si scompongono come in lettere di un alfabeto

congelato, in cifre di un abbaco meccanico” per i Berlinghieri ed il

San Francesco di Pescia di Bonaventura in particolare; “invasori

artigiani «greci» o addirittura «balcanici» e «greco-asiatici»”, “bizanti-

nismo congelato e testuale”, “plasticita meccanizzata dell’accademi-

smo orientale”, “bizantineggiarsi con aliossi di un sentimento nume-

rato in un’indifferenza quasi fachirica”, “«burocratica» sintassi

orientale”, “bizantinismi esanimi”, “pedanteria bizantina”, “Ma-

donne costantinopolitane sott’aceto” per altre opere. Principale ad-

debito alla pittura bizantina e avere “sterilizzato” la pittura italiana,

estraniandola dal contemporaneo risveglio della scultura e della ar-

chitettura duecentesca, con il “maleficio” della sua diffusione in

Italia; la scultura lombarda ed emiliana parlava gia da tempo un

buon volgare: a distanza di un secolo dall’Antelami, il Battistero di

Parma e decorato da un “balcanico” che non stabilisce alcun ac-

cordo di fantasia con l’architettura e la scultura dell’edificio. Il

maggior pittore del Duecento e per Longhi il pittore della cripta di

Anagni “molto bene gia apprezzato dal Toesca”, nonostante la spie-

gazione esclusivamente orientale data da quest’ultimo. Il “Giudizio”

e, insomma, una valutazione complessiva del Duecento avversa a

quella di Toesca del primato in Italia della pittura bizantina, dalla

quale Giotto avrebbe preso la modellazione delle sue figure.

Compito dello storico dell’arte, secondo Longhi, e potare dal

tronco italiano questo ramo bizantino della pittura duecentesca:

“Se questa e pittura fatta da italiani vorra dire che parecchi dei nostris’erano «balcanizzati» a un bel segno; se l’opera e di un immigrato, ilgiudizio non cambia: sempre un inserto alieno e sforzato nel corpodell’arte nostra.Il compito dello storico e percio di potare dal tronco italiano questoramo, non perche alieno, ma perche arrivato secco e senza capacitad’innesto.”

22.

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

23Cf. Barocchi, Storia, 3/1, p. 390 nota 8. I commenti di Longhi andrebbero messi a

confronto con quanto pensava un altro crociano, Bianchi Bandinelli, protagonista della

questione bizantina nel secondo dopoguerra: “Oggi una decorazione lineare e indubbia-

mente piu sentita di un rabesco a fogliami o di una grottesca piena di figure (...). La ricerca

di una semplicita primitiva, che porta spesso a imitare l’analfabetismo artistico dei selvaggi,

non e dunque una artificiosita snobistica, ma il modo piu facile di seguire una profonda

aspirazione del nostro tempo verso la semplicita e la schiettezza.”. Il brano e da R. Bianchi

Bandinelli, Dal diario di un borghese e altri scritti (Verona, 1948), p. 19, ed e datato 5 maggio

1921.

Longhi ha in mente critici suoi avversari quando fa ironia sugli

studi su Bisanzio ed i primitivi:

“l’ammirazione si avvolge nel manto dell’incomprensibilita e si pro-fuma di quel misticismo estetico che non puo che aborrire dallespiegazioni nette. E un fatto che oggi l’estrema squisitezza del miliar-dario sara nel non far mancare alla propria raccolta una Madonna deiBerlinghieri o del Rubliev, un Crocefisso romanico spoletino o unoscortecciato antependio di Catalogna; e piu l’opera somigliera a unavecchia zattera ai rinforzi di metallo rugginoso, piu terra del relitto,altro che esoterico; e meglio sara. Che alla provocazione di codestispasimi artificiali abbiano collaborato negli ultimi tempi certi studiosida transatlantico di lusso, non ci meraviglia.”.

Come detto altrove, l’allusione allo snobismo di critici e collezio-

nisti potrebbe riguardare Berenson, Venturi e Gualino23

.

C’e poi, per Longhi

“(...) l’altra forma di confusione che accomuna nelle chiacchiere delgran mondo i dugentisti e le forme streme del decadentismo pittoricodell’ultimo trentennio: nessun dubbio che, da Bloomsbury a Montpar-nasse, Enrico di Tedice e Matisse, Coppo di Marcovaldo e Rouault,gli antependia catalani e Picasso si pronunzino d’un fiato. La ragionedi questa curiosa combutta sta probabilmente nell’annebbiamentolinguistico comune ai due periodi; nel loro analogo uso di un gergoconvenzionale; nella stessa incapacita di risalire per forza di entusia-smo etimologico al seme espressivo di una forma; nella loro analogapoverta iconografica. Non e forse vero che il restringersi di queimoderni ai pochi motivi della natura morta astratta, del chitarrista, delritmo d’oggetti, e straordinariamente simile, anche per fissita quasiidoleggiata e, poco manca, di pretesa acheropitica, alla insistenza delDuecento sui tre o cinque tipi di Madonna, o di Cristo vivo o morto?”.

Nessuna riproduzione di dipinti bizantini accompagna il “Giudi-

zio” di Longhi; nel Corollario, invece, Longhi pubblica la foto di una

icona in una collezione privata fiorentina, per mostrare come il

GIOTTO: BISANZIO O ITALIA

24Per il commento al “Giudizio” di Longhi vedi Capitolo 12, paragrafo b. Nel “Giudi-

zio” e nel Corollario Longhi ha anche alcune sortite prive di senso sull’arte bizantina:

Margaritone d’Arezzo, ad esempio, avrebbe ripreso dagli “antichissimi modelli copto-

siriaci” (S. Bettini, “Studi recenti sull’arte bizantina”, La critica d’arte, ser. 3, 8

[1949-1950], p. 147).

rianimarsi dell’arte bizantina, che lui vi vede, sia avvenuto “in collu-

sione con lo spirito dell’Occidente italiano”; il Cristo e il San France-

sco nell’icona dipenderebbero dalla pittura riminese. L’icona fu di-

pinta probabilmente in una delle zone di Bisanzio limitrofe

all’Occidente e dell’arte bizantina rappresenta solo una delle maniere

provinciali24

.

Con espressioni che hanno per matrice l’estetica di Croce (“l’i-

dealismo in cui tutti crescemmo”), nel Corollario Longhi definı l’arte

bizantina come “disvalore” e “similarte”, ovvero “il paradigma piu

illustre di produzione «similare» che pero all’arte non appartiene”;

una similarte inferiore come valore artistico alla pittura delle caverne,

fomentata dall’arte islamica e la cui produzione fu “tutto limite”,

“illimitatamente asservita”:

“Quanto piu libero il pittore delle caverne preistoriche assediato daibisonti che li dipinge tuttavia senza che noi possiamo intendere loscopo (magico? rituale?) della sua attivita, in confronto al pittorebizantino che, erede di una tecnica impeccabile, la costringe nelpolmone meccanico delle prescrizioni dell’ortodossia, applicandolecome un automa che non puo sgarrare!”.

Le icone veneto-cretesi sono “tonnellate di cadaveri congelati da

non valere il legno su cui pure furono dipinti”. I manoscritti bizantini

sono “facsimili”, le miniature sono “poco meno di una riproduzione

fotomeccanica” di originali; aggiunge poi che la ripetizione iconogra-

fica e segno di mancanza di liberta e che gli iconografi non sono che

dei compilatori di “tabelle di concordanza” che trovano pascolo

abbondante in secoli di decadenza:

“(...) e impossibile negare che l’irretimento iconografico [della Ma-donne e dei Cristi duecenteschi bizantineggianti] non sara mai segnodi quella autonomia fantastica che e buona premessa d’ogni epocaliberamente operante. Ma che i puri iconografi abbian trovato nelDuecento pascolo cosı abbondante per le loro tabelle di concordanzasignifica qualcos’altro in piu: che cioe all’irretimento tematico va delpari un irretimento tecnico, che e un’altra prova di insufficienzaespressiva.”.

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

Quanto alla Pala d’Oro di San Marco a Venezia, la ricchezza del

materiale fa sorgere a Longhi “una diffidenza di principio”: “il critico

d’arte non e un esperto di preziosi” e la Pala d’Oro ha un valore

venale, ma non un valore artistico. El Greco, “convertitosi all’Occi-

dente”, “uno dei piu grandi poeti della pittura occidentale”, e l’unico

a essere salvato da Longhi (giudizi che demoliscono l’interpretazione

di El Greco come figlio di Bisanzio data dalla Sarfatti nel 1925). Il

motivo di tanto veleno di Longhi verso Bisanzio resta ancora oscuro.

Forse il rientro in Italia dopo la guerra dell’odiato rivale Lionello

Venturi, amante dell’arte bizantina, e una spiegazione. La sua lettura

ostentatamente crociana delle opere d’arte va invece interpretata

come candidatura a porsi sotto le bandiere ideologiche del filosofo,

cosı come fece la quasi totalita degli storici dell’arte italiani dopo la

sconfitta del fascismo.

11

L’ENCICLOPEDIA ORIENTALISTA

Per le voci artistiche l’Enciclopedia Italiana non fu allineata con la

riscossa nazionalistica del fascismo. La direzione di Pietro Toesca

delle voci artistiche medievali ne fece anzi un punto dolente per i

romanisti e la pubblicazione sull’arte piu indipendente di quegli anni.

Le voci sull’arte medievale dettero a Bisanzio il primato sull’Occi-

dente latino e le voci sui pittori duecenteschi non accettarono l’idea

dell’antitesi Giotto-Bisanzio. La maggior parte di queste voci sono

firmate da Toesca stesso. Nei volumi dell’Enciclopedia usciti dopo la

meta degli anni Trenta trovo spazio la retorica romanista del regime.

a. Ojetti alla direzione della Sezione Arte

Come anticipato da Gentile al convegno per la cultura fascista del

1925, una delle imprese culturali su cui si impegnarono di piu il

fascismo e Gentile in prima persona fu la realizzazione della Enciclo-

pedia Italiana, la cui prima edizione fu pubblicata in trentasei volumi

tra il 1929 ed il 1936. Tentativi anteriori fatti da Gentile di pubbli-

care una enciclopedia nazionale erano falliti; solo con l’intervento

dell’industriale tessile e conte Giovanni Treccani degli Alfieri (fig.

110), uno dei personaggi di maggior spicco partecipanti al Convegno

per la Cultura Fascista di Bologna, fu disponibile il capitale necessa-

rio all’impresa. Nel 1923 Treccani sottopose a Mussolini, capo del

governo, il progetto per l’enciclopedia, ma Mussolini spinse Treccani

a utilizzare la somma messa da parte, con una cospicua aggiunta, per

l’acquisto della Bibbia di Borso d’Este, che costo cinque milioni di

lire. L’inizio dei lavori per l’Enciclopedia fu di conseguenza ritardato.

L’atto costitutivo dell’Istituto Treccani per l’Enciclopedia Italiana e

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

1Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti, 36 volumi (Roma: Istituto Giovanni

Treccani, poi Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani,

1929-1936); Appendice I, 4 volumi (Roma, 1938). Appendice II 1938 / 1948, 2 volumi

(Roma, 1948-1949). Appendice III 1950 / 1961, 2 volumi (Roma, 1961). Enciclopedia

Italiana Treccani. Idea esecuzione compimento (Milano [1939-XVII]). Per la campagna sul

Giornale d’Italia vedi Capitolo 6, paragrafo c.

le presentazioni ufficiali dei volumi dell’Enciclopedia furono poi pub-

blicati, insieme con foto dedicatorie al camerata Treccani di Musso-

lini, Guglielmo Marconi, Gabriele D’Annunzio – che era stato desi-

gnato come presidente dell’Istituto Treccani, ma morı prima di

assumere la carica – e altri gerarchi fascisti, nel volume Enciclopedia

Italiana Treccani. Idea esecuzione compimento, che Treccani invio come

omaggio agli abbonati sottoscrittori della Enciclopedia (fig. 111).

L’atto costitutivo del 1925 prevedeva trentadue volumi, quattro in

meno rispetto a quelli poi pubblicati, ed il completamento dell’opera

nel 1936, data che fu rispettata. Suo modello furono l’autorevole e

antica Encyclopædia Britannica inglese (la prima edizione di questa e

del 1768-1781), con le sue voci a carattere di saggio monografico

che si intendeva riprendere solo per alcune voci della Enciclopedia, ed

il piu recente Dictionnaire Larousse francese (la prima edizione e del

1864); e lecito immaginare che quest’ultimo fosse anche l’antagoni-

sta diretto dell’Enciclopedia.

Gentile tenne la direzione scientifica fin dall’atto costitutivo del

1925; fu affiancato per i compiti editoriali da Calogero Tumminelli.

Al comitato tecnico, come direttori di sezioni connesse in qualche

maniera con Bisanzio, parteciparono Alessandro Della Seta e Ro-

berto Paribeni (archeologia), Gustavo Giovannoni (architettura), Sil-

vio Giuseppe Mercati (letteratura bizantina e neoellenica), Tammaro

De Marinis (libro e manoscritto), Ugo Ojetti e Pietro Toesca (arte

medievale e moderna), Arduino Colasanti (arte contemporanea).

Nella redazione, alla storia dell’arte fu preposto dal 1928 Geza De

Francovich, che firmo anche una parte della voce “Armeni” e che da

comparsa divenne uno dei primi attori delle discussioni postbelliche

sull’arte bizantina. Della Seta e Giovannoni sono due degli studiosi

opposti per il loro spirito nazionalistico a Toesca nella campagna di

stampa del Giornale d’Italia del 1930; Paribeni e l’archeologo fascista

che Toesca riteneva ordisse trame contro di lui dalla sua posizione

governativa alla direzione delle belle arti1.

Direttore iniziale della Sezione Arte, fino al dicembre 1928, cioe

fino a quando ancora non era stato pubblicato alcun volume, fu Ugo

L’ENCICLOPEDIA ORIENTALISTA

2Le minute delle lettere di Ojetti a Gentile e le lettere di Gentile ad Ojetti citate nel testo

sono conservate presso la Biblioteca Nazionale di Firenze (manoscritti da ordinare 250,

cartella “Partecipazione alla vita pubblica” 3, 19 II). Tra le difficolta incontrate fu,

nell’aprile del 1926, il divieto papale rivolto ai prelati cattolici di firmare articoli per

l’Enciclopedia. In data 5 aprile 1926 Ojetti esterna a Gentile le sue preoccupazioni per

“l’attacco, diremo, vaticano all’Enciclopedia” pubblicato sulla stampa; due note de L’osser-

vatore romano e del Corriere della Sera davano infatti notizia del veto papale e della futura

pubblicazione della Enciclopedia cattolica; Ojetti suggerisce a Gentile di parlarne col Ponte-

fice. Il 15 aprile Gentile risponde che “l’incidente col Vaticano” poteva considerarsi chiuso:

“I prelati che si erano personalmente impegnati a collaborare, e che intendono infatti

collaborare, hanno insistito presso il Pontefice perche li sciogliesse dall’obbligo, che io non

potevo accettare, di non firmare. E il pontefice, malgrado la sua ostinatezza, ha finito con

l’arrendersi all’evidenza delle ragioni che gli erano addotte.”. Su questo episodio vedi M.

Bernabo e R. Tarasconi, “L’epistolario Gentile-Ojetti ed un attacco vaticano all’Enciclopedia

Italiana”, Quaderni di storia 53 (gennaio-giugno 2001), pp. 155-167. Tra le voci redatte da

Ojetti e, ad esempio, “Appiani, Andrea”, in E. I., vol. 3 (1929), pp. 757-759.

Ojetti, al quale venne dato il merito di aver preparato gli elenchi di

tutte le voci e i materiali sull’arte dei primi volumi. Ojetti comincio

compilando l’elenco provvisorio di tutte le voci artistiche dell’Enciclo-

pedia e quello definitivo per le lettere A-C, si adopero per reperire i

collaboratori, superando insieme a Gentile un gran numero di diffi-

colta incontrate e redasse anche alcune voci di artisti minori2. A

marzo del 1928 Ojetti scrisse a Gentile inviandogli un elenco di

artisti stranieri da inserire nell’Enciclopedia, gli chiese se inserire l’arte

in Abissinia sotto l’Etiopia, gli comunico i nomi dei redattori di varie

voci sull’arte orientale e aggiunse che aveva sperato di convincere

Lionello Venturi ad assumersi la direzione della Sezione Arte per

l’Asia, ma non vi era riuscito (Venturi era gia stato incaricato della

voce Antonello da Messina):

“Speravo di convincere Lionello Venturi che in questi ultimi anno hamolto studiato l’arte dell’Estremo Oriente ad assumersi la direzionedella Sezione d’arte per l’Asia. Ma non sono riuscito nel mio intento.Egli sta lavorando per noi alla voce Antonello da Messina, non so se tel’ho scritto. Ora ti chiedo di sollevarmi da questo peso e di affidare adaltri la direzione della Sezione d’arte per l’Asia e anche per l’Africa,meno, s’intende, nell’Africa l’arte musulmana dall’Egitto al Marocco.E necessario, si capisce, rispettare i nostri impegni con egregi scienziaticome Victor Goloubeff per l’arte in Birmania, nel Cambodge, nelSiam, nella Malesia; col Sarre per l’Arte Persiana; col Binyon per l’arteCinese e l’arte Giapponese.L’arte in Abissinia va sotto Etiopia?”.

Nel luglio del 1928 appaiono nella corrispondenza i primi dissa-

pori tra Ojetti e Gentile su scelta dei collaboratori e stesura delle

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

voci. Gentile, il 7 luglio 1928, scrive giudicando troppo povero,

spropositato e breve l’articolo “Arte figurativa” di Eva Tea e chie-

dendo a Ojetti di affidare gli articoli di carattere generale a studiosi

sicuri; chiede anche di ritoccare o meglio sostituire l’articolo di

Giulio Chiarugi sull’anatomia nell’arte. Il giorno successivo Ojetti

risponde di rimandargli indietro gli articoli in questione, ricordando

a Gentile che in Italia, comunque, gli unici storici dell’arte affidabili

sono Toesca e Lionello Venturi, curiosamente i meno allineati tra gli

storici dell’arte del momento:

“Ma quando tu mi consigli «di affidare questi articoli di caratteregenerale a studiosi sicuri e che conoscano a fondo l’argomento», tuimmagini che in Italia ne esistano tanti da poter scegliere e che ioabbia, al solito, trascurato di farlo. Tra gli insegnanti universitari diStoria dell’Arte non v’e da fidarsi, in argomenti generali, che diLionello Venturi e di Pietro Toesca. Ora il mio carteggio e qui aprovarti la mia fatica per convincere L. Venturi a scrivere di Antonello(e ho dovuto rimandargli due volte il ms. che era troppo breve e, comedire?, distratto) e per convincere P. Toesca ad accettare le biografie diGiotto, Masaccio e Michelangelo.Per indurre Mario Salmi e Giuseppe Fiocco, tra i piu giovani e valentidi questi insegnanti, a far le poche voci dell’A e del B che avevo loroassegnato ho lottato fino a ieri; e il Fiocco aveva finito, senza scrupoli,a tradurre per Bellotto il Thieme e Becker. La voce e stata rifatta dalTarchiani e da me. Posso continuare per dieci pagine gli esempi.Hai tu nomi da proporre? Dammeli o scrivi loro direttamente eavvertimi. Restituiro io i mss.”.

Ojetti difende poi calorosamente Chiarugi e ricorda a Gentile di

avere solo per le lettere A e B 550 e 800 voci rispettivamente, “che

non e un’inezia”: si sforza “lavorando talvolta per voialtri otto o dieci

ore al giorno”, avvedendosi della “fiacchezza, svogliatezza e spesso

incapacita dei collaboratori”. Allora, conclude, se Gentile ha dubbi

non esiti: “mi sembra inevitabile la conclusione cui ero giunto,

s’intende, per altre ragioni: sostituirmi”.

Gentile, il 9 luglio, rassicuro Ojetti, gli espresse il suo rammarico

per l’impressione data, con “assoluta innocenza”, con la sua ultima

lettera e lo prego di continuare nell’incarico all’Enciclopedia:

“Quello che non potrei in alcun modo ammettere, e che essi potesserocomunque dar motivo alle tue dimissioni; sulle quali spero bene chenon vorrai insistere. Intendo che la fatica, che ti e stata addossata, etroppo grande; intendo che i fastidi che noi ti diamo, per necessita,

L’ENCICLOPEDIA ORIENTALISTA

3R. Longhi, “Marcantonio Andreucci”, in E. I., vol. 3 (1929), p. 215, e “Giovanni

Baglioni”, in E. I., vol. 5 (1930), pp. 851-853.

colla nostra quotidiana corrispondenza, vanno oltre il limite del tolle-rabile; ma ci sara modo d’intendersi.”.

Il 13 luglio Gentile riprese il problema dei collaboratori e pro-

pone di sostituire alla Tea (“che mi ha, ti dico la verita fatto cascare

le braccia”) Longhi (“Potrei pregarlo io stesso, che ricevo non di

rado preghiere sue”). Longhi potrebbe anche entrare per “Anatomia

nell’arte”; la voce “Anatomia artistica” fu poi redatta da Chiarugi,

mentre Longhi ebbe l’incarico per due artisti secondari, Marcantonio

Andreucci e Giovanni Baglione, ben poco a confronto dell’odiato

Lionello Venturi che scrisse, prima dell’esilio, la voce Antonello da

Messina e la parte “Il concetto di arte figurativa” della voce “Arte”3.

Quanto al peso del lavoro, Gentile suggerı a Ojetti di ridurre la sua

direzione a solo una parte della Sezione Arte (Ojetti propose un

incarico a Emilio Cecchi per la revisone dei testi, in data 9 dicem-

bre). Il 10 ed il 21 dicembre Gentile rinnovo il rammarico per il

troppo peso sulle spalle di Ojetti (le sezioni arte e archeologia erano

rimaste indietro nei tempi di consegna del materiale) e insiste per la

condivisione del peso tra Ojetti ed una seconda persona, che non

puo essere pero, purtroppo, Lionello Venturi che si e gia fatto

“troppo pregare per l’articoletto sulle “Arti figurative” (un diploma-

tico rifiuto, presumibilmente, a ulteriori coinvolgimenti di Venturi

nella Enciclopedia); Gentile propose Colasanti. Lamentele sui colla-

boratori (soprattutto De Francovich) e sullo sperpero di denaro per

le illustrazioni, proposte di dimissioni, suggerimenti per condirettori

di sezione da affiancare a Ojetti (Colasanti) sono riportati in un gran

numero di lettere dell’epistolario Gentile-Ojetti del 1928-1929.

Nel gennaio del 1929 avvenne l’incidente definitivo tra Gentile e

Ojetti, o, forse, meglio sarebbe dire, il fatto che Ojetti prese come

scusa per ritirarsi dall’impresa dell’Enciclopedia. Il 3 gennaio Gentile

si lamento di due pagine in Pegaso, una rivista diretta da Ojetti,

“la prima insolente nel modo piu intollerabile, e la seconda scema finoall’inverosimile. Possibile che tu mi stampi di queste sciocchezze?”

Ojetti rispose il 4 gennaio difendendo le pagine in questione e

ritenendosi offeso dal tono e linguaggio inammissibili di Gentile e

della sua voluta e insolente dimenticanza di quanto lui aveva scritto

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

4Sul rapporto tra Gentile e Ojetti nell’impresa dell’Enciclopedia vedi Bernabo e Tara-

sconi, “L’epistolario Gentile-Ojetti”, pp. 155-167.

altrove sullo stesso fascicolo della rivista; concluse rassegnando le

dimissioni da direttore di sezione della Enciclopedia e lamentandosi

delle ingiurie subdolamente insinuate a lui da parte dei dirigenti della

Enciclopedia e della “impossibilita in Italia di noi scrittori liberi di

collaborare con la cosı detta scienza ufficiale”. Gentile provo a

ricucire i rapporti il 5 gennaio, ma Ojetti si mostro intransigente

nuovamente il 6; inutili anche gli interventi epistolari di Treccani. Il

9 gennaio Gentile rinuncia a convincere Ojetti e prende atto delle

sue dimissioni4.

b. L’incarico a Toesca

Ad Ojetti subentrarono, dunque, Toesca e Colasanti, dividendosi i

compiti rispettivamente per l’arte medievale e moderna e per l’arte

contemporanea e valendosi a loro volta di collaboratori, come, ad

esempio, per tutte le voci sull’arte veneta. Il coinvolgimento nella

impresa dell’Enciclopedia Italiana non fu cercato da Toesca, nono-

stante Ojetti lo dicesse molto indaffarato a lavorare per le voci:

“Non mi meraviglio della tesi grottesca di Ojetti: lui, e Gamba, e glialtri rinnegherebbero la luce del sole, tanto sono cuciti insieme con ilpiccolo satrapo. Mi meraviglio, invece, che Ojetti creda ch’io sia moltooccupato per l’Enciclopedia Treccani! Per accontentarlo, mi assunsitre voci soltanto – Giotto, Masaccio, Michelangiolo (...).”.

Ma nel 1929 Toesca fu messo nelle condizioni di non poter

rifiutare di succedere al dimissionario Ojetti nella direzione della

Sezione Arte Medievale e Moderna della Enciclopedia dopo l’inci-

dente degli articoli su Pegaso. Scrive a Berenson il 16 gennaio di

quell’anno:

“La terza novita (e non piacevole) l’ho avuta iersera. Mi e stato offertocon molta insistenza e con larghezze ... economiche di sostituireappunto Ojetti nel dirigere la sezione di storia dell’arte medioevale emoderna nella Enciclopedia Treccani. Ho accettato soltanto quandoson stato certo che Ojetti s’era ormai dimesso in modo irrevocabile.Forse Ojetti potra credere ch’io abbia, in qualche modo, desiderato disostituirlo: invece (ed io prego Lei di dirglielo) ho veduto con grande

L’ENCICLOPEDIA ORIENTALISTA

5I brani riportati nel testo sono da due lettere di Toesca a Berenson del 17 gennaio del

1928 e del 16 gennaio 1929, conservate entrambe nella Biblioteca Berenson di Villa I Tatti,

Settignano (Firenze).6

Su De Sanctis, gli antichisti, il fascismo e l’Enciclopedia Italiana vedi Cagnetta,

Antichisti e impero fascista; ead., Antichita classiche nell’Enciclopedia Italiana (Roma, 1990).7

P. Toesca, “Cavallini, Pietro”, vol. 9 (1931), pp. 546-547; “Cimabue”, vol. 10 (1931),

pp. 245-246; “Civate”, vol. 10 (1931), p. 509; “Duccio di Buoninsegna”, vol. 13 (11932),

pp. 245-247; “Guido da Siena”, vol. 18 (1933), pp. 255-256; “Giotto”, vol. 17 (1933), pp.

211-219; “Giunta Capitini detto Pisano”, vol. 17 (1933), p. 331; “Iconografia. Arte

medievale e moderna”, vol. 18 (1933), pp. 699-700; “Musaico”, vol. 24 (1934), pp. 80-85;

“Nicola Pisano”, vol. 24 (1934), pp. 784-786; “Normanna. Arte”, vol. 24 (1934), p. 932;

“Romanica. Arte”, vol. 30 (1936), pp. 41-55; “Sant’Angelo in Formis”, vol. 30 (1936), p.

774; “San Vincenzo al Volturno”, vol. 30 (1936), pp. 803-804; “Wiligelmo”, vol. 35

(1937), p. 749. La voce “Torriti, Jacopo”, vol. 34 (1937), p. 71 e anonima. Cf. G.

Ragionieri, “Pietro Toesca nell’Enciclopedia Italiana”, Prospettiva nn 57-60 (aprile 1989 –

ottobre 1990), pp. 485-488, dove, in appendice, e riportato un elenco delle voci scritte da

Toesca per l’Enciclopedia.

affanno il suo ritiro poiche mi poneva nella inevitabile necessita dinegare la mia opera, creandomi percio delle ostilita, oppure di conce-derla, ponendomi sulle spalle un duro peso che soltanto le spallequadrate di Ojetti potevano sostenere. Intanto io ho diminuito il pesochiedendo che sia assegnato a Colasanti – un disoccupato [Colasantiera in pensione] – tutta la parte contemporanea, dal 1850 in poi. Ilmotivo delle dimissioni di Ojetti e stato un contrasto personale conl’on. Gentile dopo la pubblicazione del primo numero di “Pegaso”,dove Papini non aveva risparmiato il Gentile mentre un altro collabo-ratore aveva riportato qualcosa che non favoriva l’“Enciclopedia”. Iosuppongo che Ojetti cosı avveduto, abbia proprio procurato di avereun’occasione per quel contrasto e per togliersi di dosso il peso – chepurtroppo ricadra su di me.”

5.

Toesca fu cosı cooptato da Gentile alla direzione di una delle

sezioni della Enciclopedia Italiana, pur non essendo studioso organico

al fascismo e non amando satrapi e studiosi organici al fascismo; una

vicenda parallela a quella dell’antichista Gaetano De Sanctis, diret-

tore della Sezione Antichita Classiche e dal 1947 direttore scientifico

dell’Enciclopedia, che fu tra i pochissimi che rifiutarono il giuramento

di fedelta al fascismo e persero la cattedra universitaria, e che pure

resto direttore di sezione nell’Enciclopedia6. Toesca si sobbarco molte

impegnative voci: alcune voci generali come “Iconografia” e, in

parte, “Musaico”, tutte le voci piu significative per la esposizione dei

caratteri dell’alto Medioevo (“Civate”, “Normanna. Arte”, “Roma-

nica. Arte”, “Sant’Angelo in Formis”, “San Vincenzo al Volturno”,

“Wiligelmo”), del Duecento e del Trecento (“Cavallini”, “Cima-

bue”, “Duccio di Buoninsegna”, “Giotto”, “Giunta Capitini detto

Pisano”, “Guido da Siena”, “Nicola Pisano”)7, le voci di alcuni dei

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

8Vedi le lettere di Ojetti a Gentile del 9 giugno 1928.

9O, se fosse stata disponibile ad accettare, aggiunse per lusinga, a Nicky Mariano, la

segretaria di Berenson. Le lettere di Toesca a Berenson sono del 3 aprile e del 26 giugno del

1929 e sono conservate nella Biblioteca Berenson di Villa I Tatti, Settignano (Firenze).10

E. I., vol. 1 (1929), pp. xi-xv.

maggiori artisti del Rinascimento (Masaccio, Masolino, Michelan-

gelo, Piero della Francesca, Antonio e Piero del Pollaiolo), e la stessa

voce Rinascimento. Affidata la sezione Arte contemporanea a Cola-

santi e tenuta per se Arte medievale e moderna, Toesca fu comun-

que in difficolta a reperire esperti italiani per le voci orientali,

soprattutto per le regioni ed epoche musulmane, per l’Egitto cri-

stiano e la Palestina (pure Ojetti era stato in difficolta per voci

extraeuropee, come “Africana, Arte”, per la quale aveva contattato

Carl Einstein, lo studioso bersagliato nel 1930 in uno degli articoli

de Il Giornale d’Italia, che poi non redasse la voce8: per quest’ultime,

come scrisse a Berenson, aveva pensato di ricorrere ai padri domeni-

cani di Gerusalemme9.

c. Il debole spirito romanista dell’Enciclopedia Italiana

Nella dichiarazione d’intenti e di metodo contenuta nella prefazione

al primo volume, l’opera e definita “una enciclopedia italiana, tutta

italiana, nata dalla stessa scienza e dalla stessa letteratura nostra,

originale insomma e da potersi paragonare a quelle che dal secolo

XVIII in poi hanno avute le altre grandi nazioni di Europa e di

America”. Il merito dell’impresa e attribuito alla rinascita nazionale

esplosa col fascismo:

“Il clima che ha reso possibile un’opera come questa, alla quale nonparve in passato possibile in Italia pensare, e il nuovo spirito esplosocon l’avvento del Fascismo, che scosse idee e sentimenti e accese unapassione inestinguibile di rinnovamento e di affermazione della po-tenza dell’Italia nel mondo.”

10.

La riforma della scuola, gentiliana, prosegue la prefazione, va

vista come impresa nazionale parallela. Per la scelta dei collaboratori

si e ricorso agli studiosi italiani salvo casi particolari. Le voci rispec-

chieranno “un ragionevole eclettismo e una scrupolosa imparzialita”.

Questa “concordia discors”, “discorde concordia”, implica “nessuna

L’ENCICLOPEDIA ORIENTALISTA

11G. Volpe, “L’«Enciclopedia Italiana» e compiuta”, Nuova Antologia, ser. 8, n 394

(1937-XVI), pp. 5-18.12

Volpe trasferı nella cultura la politica razziale del fascismo: nel suo “Su la soglia del

nuovo Impero mediterraneo”, apparso in Le arti 2 (1940-XVIII), pp. 293-298, inneggio alla

grandezza di Roma antica, che aveva dato unita spirituale e politica alle genti del Mediterra-

neo, e degli Italiani che avevano conservato a quello il carattere di mare europeo contro “i

semiti di Cartagine, i semiasiatici di Bisanzio, gli Arabi e Turchi d’Asia e d’Africa” (citazioni

da p. 293).

intolleranza, nessuna ombrosa angustia di menti”; le voci avranno

una “esposizione obiettiva e pacata”. Nelle avvertenze e norme

redazionali ai collaboratori si dichiara che “sono bandite dall’Enci-

clopedia le polemiche”; Treccani piu volte ribadı in atti formali che

la politica e bandita dall’Enciclopedia.

Nel 1937, su Nuova Antologia lo storico Gioacchino Volpe,

direttore della Sezione Storia Medievale e Moderna e uno degli

intellettuali fascisti che parteciparono al convegno di Bologna e che

dopo le leggi razziali caccera i Bizantini dal gruppo dei popoli di

razza ariana, scrisse del compimento dell’Enciclopedia Italiana, soste-

nendo l’italianita per nove decimi dell’impresa: solo pochi studiosi

stranieri erano stati chiamati a collaborarvi “pur non togliendole

nulla della sua italianita”, affermazione non vera per i primi volumi

le cui voci artistiche erano state decise da Ojetti; tra gli stranieri

Volpe cita Charles Diehl “maestro di fatto di arte bizantina”, Julius

von Schlosser e Fritz Volbach, l’autore della voce arte copta. Non e,

dice Volpe, l’enciclopedia del fascismo; ogni voce non e coordinata e

subordinata a una determinata filosofia. Tra i contributi di cui tutti

parlerebbero con lode, curiosamente Volpe mette “Letteratura bizan-

tina” di Giorgio Pasquali della voce “Bizantina, Civilta”; cita poi

come opera di italiani anche “Storia dell’impero bizantino” della

stessa voce, firmata da Angelo Pernice docente a Firenze11

. Questa

dichiarazione di panitalianita della Enciclopedia non calza in realta per

le voci artistiche orientali, per l’archeologia e le arti figurative: lo

stesso accento posto da Volpe nella citazione di esse come italiane

lascia sospettosi. Va aggiunto che la voce “Arte. Il concetto di arte

figurativa” nel volume 4 e dell’eretico Lionello Venturi, ma, va

notato, il volume fu pubblicato nel 1929 prima della fuga di Venturi

in Francia12

.

Toesca non fu toccato dalla retorica imperiale degli anni Trenta

e non romanizzo le voci dell’Enciclopedia di arte medievale e mo-

derna, ne ricorse a studiosi italiani e di fede fascista, come avrebbero

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

13Sulla retorica romana e gli studiosi vedi M. Cagnetta, “Appunti su guerra coloniale e

ideologia imperiale romana”, in Matrici culturali del fascismo, pp. 185-207, specialmente pp.

202-204.

voluto suoi colleghi, l’allineato Paribeni o Volpe, ad esempio13

. In

linea di massima, le voci di Toesca ripetono tesi sue gia note:

l’affermazione del primato di Bisanzio nella produzione artistica

medievale non e attenuata nell’Enciclopedia rispetto a Il Medioevo del

1927. Questo infastidı gli ortodossi romanisti: lo storico dell’arte

Federico Hermanin nella parte “Roma. Roma medievale. Arti figura-

tive”, nel volume 29 del 1936, inserı una sorprendente premessa che

sembra un proclama contro Il Medioevo; Hermanin dichiara infatti

che l’arte medievale di Roma e filiazione naturale dell’arte classica

romana, ribadendo il concetto in due frasi quasi consecutive, e di

essa conserva le qualita pittoriche impressionistiche anche in quei

periodi, come l’VIII secolo, che Toesca dichiarava piu bizantini:

“L’arte medievale a Roma si distingue da quella delle altre cittaitaliane per essere una diretta e spontanea filiazione dell’arte romana,uno svolgimento naturale delle forme che questa aveva acquistatedurante i primi secoli cristiani; e tale fenomeno si palesa specialmentenella pittura, che e la vera e grande arte di Roma durante il Medioevo.In essa per molto tempo resta viva la maniera impressionistica, che fuil carattere piu chiaro della pittura delle catacombe, figlia diretta diquella classica, rinnovata nello spirito, ma uguale ad essa nelle forme.Da quest’arte profondamente cristiana nasce la pittura medievaleromana e cosı gli affreschi del tempo di Giovanni VII (705-707) sicollegano strettamente alla pittura cemeteriale e attraverso questa allapittura classica romana, e non diversi sono quelli del tempo dei suoisuccessori.”.

A questo punto Hermanin avverte i lettori delle divergenze inter-

pretative tra lui e altri critici, in primis, cioe, il direttore della Sezione

Arte Medievale dell’Enciclopedia; la gravita del fatto o il desiderio di

rendere pubblica la propria fede ideologica giustificava evidente-

mente l’eccezione al bando alle polemiche che le norme redazionali

per i collaboratori prescrivevano:

“E giusto nondimeno avvertire che una parte della critica vede levicende della pittura a Roma in continue e complesse relazioni con lapittura bizantina e dell’Oriente cristiano, pur ammettendo che qui lacontinuata attivita abbia sviluppato tradizioni proprie, risorgenti piuforti nei periodi di piu alta originalita. Gli affreschi del tempo di

L’ENCICLOPEDIA ORIENTALISTA

14F. Hermanin, “Roma. Roma medievale. Arti figurative”, in E. I., vol. 29 (1936), pp.

774-777; citazioni nel testo da p. 774; id., L’arte in Roma dal sec. VIII al XIV (Istituto di

Studi Romani. Storia di Roma, vol. 27. Bologna, 1945), pp. 177-178:

“[dalle pitture delle catacombe a Cavallini abbiamo a Roma monumenti] che dettero ai

nostri maestri la forza per resistere, spesso vittoriosamente, all’invasione artistica bizantina

da prima e a quella barbarica in seguito e per gettare le basi di quella nuova arte italiana,

che e gloria immortale della nostra patria.”.

Giovanni VII in Santa Maria Antiqua, secondo alcuni [scilicet: Toe-sca], mostrerebbero forte l’influsso delle forme bizantine piu classi-cheggianti: e cosı i musaici di S. Agnese fuori le Mura, di S. Lorenzofuori le Mura, ecc.”.

Nonostante la disfatta fascista, nel volume su Roma medievale

della Storia di Roma pubblicata dall’Istituto di Studi Romani, uscito

nel 1945, Hermanin non demorse sulle lodi ai pittori medievali

romani che continuavano eroicamente la tradizione classica contro

bizantini e barbari, base “di quella nuova arte italiana, che e gloria

immortale della nostra patria”14

.

Scorrono invece piane, con “esposizione obiettiva e pacata”

come richiesto ai collaboratori nella prefazione nel primo volume

dell’Enciclopedia, non faziose e affidate in buona parte a stranieri le

voci “Armeni” (Giorgio Rosi, De Francovich e altri), “Arte” (Gen-

tile, Lionello Venturi, Emanuel Loewy e Julius von Schlosser dell’U-

niversita di Vienna, con l’ultimo che discute ampiamente dell’este-

tica e dell’arte bizantine), “Athos” (Georges A. Sotiriou), “Bibbia”

(De Marinis e Louis Brehier su codici miniati e Bibbia nell’arte),

“Bizantina, Civilta” (che sara discussa oltre) “Cezanne” (Jean Ala-

zard) , “Colore”, con panegirico del colore nell’arte bizantina (Carlo

Alberto Petrucci), “Copti” (Volbach per l’arte), “Costantinopoli”

(Diehl), “Dura-Europo” (Rene Mouterde di Beirut, che pero non

parla dei nuovi ritrovamenti che sono descritti e discussi nell’Appen-

dice del 1938 da Michael Rostovzev, allora alla Yale University di

New Haven), “Ebrei” (senza parte sull’arte), “Edessa” (Guillaume

De Jerphanion, Giorgio Levi Della Vida), “Kiev” (Miron Malkiel-

Jirmounski), “Matisse”, pittore che si ispira all’arte orientale e cerca

di restaurare “selvaggiamente” la grande tradizione classica francese

(Andree R. Schneider), “Mesopotamia”, con citazione dei ritrova-

menti di Dura-Europo ed esaltazione della grande missione della

potenza romana di avvicinare e propagare civilta diverse e gettare le

basi della civilta moderna (Pietro Romanelli), “Miniatura” (Paolo

D’Ancona ed Ernst Kuhnel direttore dei musei di Stato di Berlino, il

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

15G. De Francovich, “Armeni. Pittura e scultura” e G. Rosi, “Armeni. Architettura”,

vol. 4 (1929), pp. 435-440 e pp. 440-443; G. Gentile, “Arte”, L. Venturi, “Arte. Il concetto

di arte”, E. Loewy, “Arte. L’arte greco-romana”, J. von Schlosser, “Arte. L’arte medievale e

moderna”, vol. 4 (1929), pp. 631-633, 633-634, 639-643, 643-660; G. A. Sotiriou,

“Athos”, vol. 5 (1930), pp. 204-205; L. Brehier, “Bibbia. La Bibbia nell’arte” e T. De

Marinis, “Bibbia. Codici ed edizioni”, vol. 6 (1930), pp. 919-922 e 922-925; J. Alazard,

““Cezanne”, vol. 9 (1931), p. 910; C. A. Petrucci, “Colore”, vol. 10 (1931), p. 882; F.

Volbach, “Copti. Arte copta”, vol. 11 (1931), pp. 335-339; C. Diehl, “Costantinopoli. I

monumenti”, vol. 11 (1931), pp. 616-620; R. Mouterde, “Dura-Europo”, vol. 13 (1932),

p. 290; G. De Jerphanion e G. Levi Della Vida, “Edessa”, vol. 13 (1932), p. 457; M.

Malkiel-Jirmounski, “Kiev. Monumenti”, vol. 20 (1933), p. 195; A. R. Schneider, “Matis-

se”, vol. 22 (1934), pp. 569-570; P. Romanelli, “Mesopotamia”, vol. 22 (1934), pp.

937-938; P. D’Ancona, “Miniatura. La miniatura nei codici” e E. Kuhnel, “Miniatura. La

miniatura nell’arte islamica”, vol. 23 (1934), pp. 363-371, 374-376; C. Cecchelli e P.

Toesca, “Musaico”, vol. 24 (1934), pp. 76-80 (Cecchelli, “Il musaico nell’arte antica”, pp.

76-80; Toesca, “Il musaico nell’arte medievale e moderna”, pp. 80-85); M. Malkiel-

Jirmounski, “Novgorod”, vol. 25 (1935), pp. 1-2; M. Guidi, “Oriente cristiano”, vol. 25

(1935), pp. 550-552; E. Kuhnel, “Persia. Arte”, vol. 26 (1935), pp. 834-839; M. Malkiel-

Jirmounski, “Russia. Arte”, vol. 30 (1936), pp. 314-319; G. De Jerphanion, “Siria”, vol. 31

(1936), pp. 903-906; V. Mole, “Studenica”, vol. 32 (1936), p. 889; C. Cecchelli, “Cata-

combe. Arte”, vol. 9 (1931), pp. 399-400.

quale ultimo e autore di tutte le voci di arte islamica), “Musaico”

(Carlo Cecchelli, Toesca), “Novgorod” (Malkiel-Jirmounsky), “O-

riente cristiano” (Michelangelo Guidi), “Persia” (Kuhnel), “Russia.

Arte”, con la parte antica che sottolinea i rapporti con Bisanzio

(Malkiel-Jirmounski), “Siria”, con appendice su Dura-Europo (De

Jerphanion), “Studenica”, con elementi bizantini e occidentali in-

sieme (Vojeslav Mole). Invece, per “Catacombe. Arte”, Cecchelli

cita due volte con reverenza Toesca, ma non rinuncia a una desueta

dichiarazione ottocentesca e antistrzygowskiana che nell’arte della

catacombe “si deve ricercare la radice dell’arte bizantina”15

.

A meta degli anni Trenta, nel clima della Mostra Augustea della

Romanita che affermo l’appartenenza di Giustiniano e di Ravenna

alla tradizione romana, il tono di alcune voci si fece nazionalistico e

la politica entro apertamente nelle pagine artistiche della Enciclope-

dia, nonostante le dichiarazioni contenute nella prefazione del 1929.

I centri artistici adriatici vengono riconquistati alla storia patria, cosı

come avviene in altre pubblicazioni di questi ultimi anni del fasci-

smo. Le voci “Aquileia”, “Parenzo” e “Ravenna”, rispettivamente

nei volumi 3 del 1929, 26 e 28 del 1935, contengono esposizioni

descrittive dei monumenti, con una vena filobizantina probabilmente

campanilistica: ad Aquileia gli affreschi nella cripta della basilica si

dice ripetano vivamente i modi bizantini, a Parenzo capitelli, stucchi

e mosaici “riflettono l’agile fantasia decorativa dell’Oriente, piena di

L’ENCICLOPEDIA ORIENTALISTA

16G. Brusin, “Aquileia. Monumenti artistici”, in E. I., vol. 3 (1929), pp. 803-804; F.

Forlati, “Parenzo. Monumenti”, in E. I., vol. 26 (1935), p. 324.

slancio e di colore”16

. Nella voce “Venezia”, invece, contenuta nel

volume 35 pubblicato nel 1937 l’arte altomedievale veneziana viene

romanizzata da Gino Fogolari, il cui testo cosı comincia:

“Venezia non nacque bizantina come si ripete generalmente, mabizantina diventa quando piu da povera diventa ricca e potente. Comeil Tribuno delle isole dipende da Bisanzio non direttamente, maattraverso l’Esarca, cosı anche in arte Venezia dipende da Ravenna,almeno fino al secolo XI, con quel tanto e non piu di bizantino cheattraverso quest’ultima e comune a tutta l’architettura dell’Alto Adria-tico, da Parenzo ad Aquileia e a Grado.”.

Seguono le prove archeologiche:

“L’altare a mensa su colonne, scoperto nella basilica di Torcello, e dicarattere piuttosto romano che orientale. All’infuori dei mosaici pavi-mentali, che si credono del secolo IX, nessuna rivelazione bizantinahanno dato gli scavi a S. Zaccaria, vantata fondazione imperiale diLeone X l’Armeno; e la primitiva S. Marco dei Partecipazio, compiutanell’832, finita di decorare nell’883, risulta, dalle fondazioni rimaste,in tutto simile alla chiesa di Pomposa, sorta in quei tempi su esempiravennati (...).”.

L’immaginario de La nave col tribuno di romano-veneto Marco

Gratico, che prima e sedotto da Basiliola, poi si libera di lei e del suo

partito filobizantino, a vent’anni di distanza e ancora parte delle

fantasie fasciste. L’arte bizantina appare come un’arte da popoli

ricchi e decadenti, l’arte sana e quella italica. Se per le arti figurative

i dogi si rivolgono a maestri bizantini, per l’architettura quello che di

antico rimane a Sant’Eufemia della Giudecca, a San Giovanni De-

collato e a San Giacometto di Rialto dimostra che poco dipende da

Bisanzio nei primi secoli. Anche per San Marco, per la quale c’e la

tradizione antica di maestri e disegni bizantini impiegati per ripro-

durre la chiesa costantinopolitana dei SS. Apostoli, “bisogna inda-

gare l’essenza architettonica, prescindendo dai rivestimenti marmo-

rei, dai musaici, da tutta l’immensa pompa orientale bizantina”. Il

“sagacissimo odierno proto della Basilica Luigi Marangoni afferma

che la struttura e romanica”; i Bizantini non potevano ispirare la

novita e la bellezza della chiesa, che debbono venire necessariamente

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

17S. Muratori, “Ravenna. Monumenti e arti”, vol. 28 (1935), pp. 870-874; G. Fogolari,

“Venezia. Arti figurative”, vol. 35 (1937), pp. 60-67, citazioni nel testo da p. 60.

dall’antichita e in particolare dall’epoca di Costantino: lo schema di

San Marco e cosı nuovo anche rispetto alla architettura latina che

“solamente l’esempio dell’antichita poteva ispirarlo. Non chiese edifi-cate dal sec. X all’XI a Costantinopoli e nell’Ellade, che pur con lecinque cupole hanno tutt’altro carattere; ma opere costantiniane egiustinianee di tanti secoli prima e di tanta gloria, servirono all’archi-tetto di S. Marco d’incitamento per raggiungere coi suoi mezzi quellaperfezione architettonica. Certo, se non avesse dominato l’Oriente,Venezia non avrebbe S. Marco.”

17.

Della voce “Roma”, che e del 1936, si e detto sopra a proposito

della opposizione ideologica dichiarata dal romanista Hermanin

verso il suo direttore di sezione orientalista, Toesca. Va aggiunto, che

anche per la scultura del IV e V secolo a Roma, all’irrigidimento

dell’ideale umano nel dogma e nel protocollo, che sono mostrati dai

volti della statuaria bizantina e alla successiva trasformazione della

figura umana in icona, sono contrapposti lo spirito e il libero volere

dell’uomo di Roma e dell’ambiente italico, che ancora apparira nei

mosaici di Ravenna; inaspettatamente, questa parte della voce e

firmata da Bianchi Bandinelli (forse bisogna pensare a un ritocco del

testo da parte della redazione o del direttore di sezione Paribeni):

“(...) nel ritratto si puo trovare ancora una volta un rivivere dellecaratteristiche romane. Se infatti il classicismo costantiniano e lesopraggiunte influenze orientali hanno definitivamente portato a unirrigidirsi dei corpi, rendendoli inorganici, lignei, scarsi di ritmo econcepiti con funzione essenzialmente decorativa (il che fu sempre inogni tempo l’effetto precipuo dell’influsso orientale), ancora una voltatorna questa rigidita a dissolversi almeno nei volti, per darci una serieben individuata di ritratti. (...) Abbiamo qui veri precedenti di quelbizantinismo che trasformera la figura umana in icone, la formacorporea in geometria, secondo un preciso ideale morale ed estetico(...). [Dopo il 476] abbiamo ancora esempi di ritratti i quali, puravendo assunto in parte il geometrismo canonico di Bisanzio, riman-gono piu ricchi di modellato e di elementi espressivi individualistici. Ementre in Oriente l’ideale umano andava sempre piu irrigidendosi eugualmente andava irrigidendosi nel dogma e nel protocollo lo spiritoe il libero volere dell’uomo, da Roma e dall’ambiente italico partivasempre qualche scintilla di individualita, che si manifesta appuntonell’arte sotto forma di espressione caratteristica e di colorismo e

L’ENCICLOPEDIA ORIENTALISTA

18R. Bianchi Bandinelli, “Roma. Arti figurative. Da Teodosio alla fine dell’Impero

d’Occidente (476 d. C.)”, vol. 29 (1936), pp. 729-745, citazione e da p. 744.

cooperera a produrre i meravigliosi ritratti musivi di Ravenna, che inmezzo a tante reminiscenze classiche fioriranno sulla rigidita bizantinadei corpi geometrizzati.”

18.

d. “Iconografia”, “Musaico”: due voci metodologiche

In due voci, “Iconografia” e “Musaico”, Toesca e determinato a

fornire un testo controcorrente rispetto alla interpretazione di moda.

Sull’approccio iconografico alle opere d’arte medievali e moderne il

suo giudizio positivo e senza titubanze; l’iconografia e parte inte-

grante degli studi che considerano l’opera d’arte in ogni aspetto e

soprattutto nell’interezza del suo stile (Toesca stesso aveva dato

interpretazioni iconografiche di opere d’arte nei suoi lavori); un

procedimento d’indagine legittimo e necessario, perche introduce a

conoscere i fattori spirituali della concezione artistica non avvertiti in

altra maniera:

“Questi studi iconografici non si identificano con quelli che conside-rano le opere d’arte in ogni aspetto e soprattutto nell’interezza del lorostile; ne sono tuttavia parte integrante. Essi hanno un oggetto partico-lare – i modi e gli elementi figurativi derivati da tradizioni – che isolanonelle opere d’arte, considerandole analiticamente: procedimento legit-timo d’indagine, a cui non si possono negare nemmeno i prodottid’arte, e necessario perche esso introduce a conoscere fattori spirituali,altrimenti inavvertiti, della concezione artistica.

Le ripetizioni di schemi iconografici prestabiliti implicano una

tradizione iconografica che viene trasmessa e rispettata dagli artisti

medievali ed anche rinascimentali, non solamente in prodotti artistici

meccanici, privi di ispirazione viva, ma perfino in altissime creazioni

come gli affreschi di Giotto a Padova (ad esempio nella scena della

Resurrezione di Lazzaro), nella Sant’Anna di Leonardo e nella Pieta

vaticana di Michelangelo:

“A chi, osservando in codesto modo parziale, ricerchi nelle opered’arte certi tratti generici nel rappresentare le immagini (composizionegenerale delle figure, gesti e loro espressione; particolarita di vestiario,di sfondi, ecc.) si presenta ovvio un fatto importante: quando unsoggetto ricorra di frequente nell’arte, le sue rappresentazioni, se pur

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

di tempi, di luoghi, di artisti diversi, mostrano somiglianze e ripeti-zioni, ora limitate ad alcune parti, ora piu vaste, spesso cosı estese dadimostrare l’accettazione di uno schema iconografico prestabilito. Nequesto si vede soltanto in quei prodotti inferiori d’arte dove si po-trebbe spiegare come ripetizione meccanica, fuori d’ogni ispirazioneviva; si verifica perfino in altissime creazioni: per esempio gli affreschidi Giotto a Padova (p. es.: Resurrezione di Lazzaro, il cui schemaiconografico e gia in una miniatura del secolo VI nel codice purpureodi Rossano); nella S. Anna di Leonardo, con una sovrapposizione difigure gia usata da un secolo; nella Pieta vaticana di Michelangelo, cheha precedenti di composizione fin dal Trecento.Da cio si potrebbe dedurre che a nulla giovino gli studı iconografici neldefinire il carattere e il valore delle opere d’arte, anzi che essi loavversino, tutte eguagliandole in somiglianze di soggetto e di trattigenerici; e per contrario, col porre in evidenza cio che vi e di tradizio-nale nelle opere d’arte, quegli studı fanno risaltare quanto esse hannodi piu individuale, in altre parti a cui gli artisti stessi, ideandole,intesero assai piu che all’invenzione iconografica.In questa, per diversi motivi gli artisti non rifuggirono da quelleripetizioni, e spesso si adattarono a vere tradizioni iconografiche.Motivo non raro furono la scarsa facolta o l’inerzia dell’immaginare,favorite dall’uso frequente delle copie e di serbar memoria di composi-zioni e di particolari d’opere d’arte in taccuini di disegni. Ma unmotivo assai piu forte, e d’arte, fu che i soggetti ripetutamente e alungo trattati, dopo essere giunti, anche attraverso una lenta elabora-zione, a comporsi in un insieme estremamente chiaro, o soddisfacente,o decifrabile subito da tutti, furon poi mantenuti appunto percio inquelle loro compiute linee iconografiche (...).”

Risultato “non trascurabile” degli studi iconografici e il decifra-

mento dei soggetti, che, se puo apparire indifferente alla piu pura

contemplazione dei valori piu profondi e universali dei capolavori,

porta a uno dei risultati piu notevoli nello studio delle opere d’arte:

trovare tra opere e cultura del tempo relazioni altrimenti sconosciute,

dalle quali l’opera e spiegata ed acquista nuovo valore per la storia

del pensiero:

Risultato non trascurabile degli studı iconografici e spesso il sicurodeciframento dei soggetti, anche se possa essere indifferente alla piupura contemplazione dei capolavori, intenta a cio ch’essi hanno di piuprofondo e universale. Quel deciframento puo condurre l’iconografia auno dei suoi risultati piu notevoli: a ritrovare tra le opere d’arte e lacultura del loro tempo relazioni altrimenti non sospettate, o non beneaccertate, dalle quali l’opera d’arte e chiarita e acquista nuovo valoreper la storia del pensiero (...).”.

L’ENCICLOPEDIA ORIENTALISTA

19I brani riportati nel testo sono dal vol. 18, del 1933, della E. I., pp. 699-700.

20Vedi Capitolo 8, paragrafo b.

Asserzioni esemplari, coraggiose e solitarie in Italia, molto attente

a procurare risposte inoppugnabili a critiche aspettate, niente affatto

scontate nel clima antigermanico e crociano del tempo, che scaval-

cano qualche decennio, dagli inizi del secolo al secondo dopoguerra,

di ostilita e sufficienza in Italia verso i contributi iconografici alla

storia dell’arte: la ostilita nei confronti delle metodologie connesse

con la filologia germanica, e in particolare contro gli iconografi, il cui

campo di interesse e il contenuto, non la forma dell’arte, era stata

mostrata da intellettuali nazionalisti come Ojetti e storici dell’arte,

come Longhi, seppure allievo di Toesca, che aveva proposto di

depennare gli iconografi dalla categoria degli storici dell’arte19

.

Nella voce “Musaico” Toesca afferma il valore non normativo

della classicita in arte. Il mosaico e la forma con cui il Medioevo

meglio espresse i concetti religiosi in uno stile sempre piu “purifi-

cato” da quanto restava della classicita, intento ora ad astrazioni e

simboli:

“Ma l’arte cristiana del Medioevo, e fino dal sec. IV al VI, diede nuovisviluppi al musaico murale, formandone la piu insigne veste dellechiese soprattutto nelle absidi, in cui essa doveva adombrare in formapiu schietta le nuove credenze sotto specie di visibile rivelazione. Peresprimere i nuovi concetti religiosi l’arte trovo allora uno stile semprepiu purificato dai residui della classicita, intento ognora piu ad astra-zioni e simboli (...).”.

La specifica citazione dei mosaici absidali e parallelo alla defini-

zione di Lionello Venturi del mosaico absidale di Sant’Apollinare in

Classe come “prima, meravigliosa e perfetta pagina paesistica” in

arte20

. Il messaggio trasmesso al lettore dal concetto di purificazione

dall’arte classica, che conferisce pari valore artistico alla astrazione e

simbolismo del Medioevo ed al naturalismo della classicita, era una

eresia nell’Italia quegli anni.

Nelle opere musive il Medioevo raggiunse la maggiore altezza,

rispettando la natura del materiale impiegato nei mosaici, traendone

cosı effetti di trascendente semplificazione della forma. Nel mosaico

bizantino di Sant’Apollinare in Classe sono pienamente sviluppati gli

intenti dell’arte medievale; ogni riflesso classico vi perde vigore e vi si

vedono le concezioni piu nuove in una forma simbolica che da al

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

21Vedi Capitolo 9, paragrafo b.

22Le citazioni sono dal volume 24 del 1934, pp. 80 e 81.

mosaico l’aspetto di prezioso tappeto: le “schematiche semplifica-

zioni” ed i “moltiplicati splendori cromatici (...) affascinano l’occhio

e liberano dal sensibile la fantasia”. Infine, un’opera musiva e riuscita

quando tende a effetti decorativi e cromatici ed evita di simulare con

il plasticismo ed il naturalismo delle figure i modi di affreschi e

dipinti a olio. Toesca sembra tener conto del dibattito sul muralismo

– il manifesto sul muralismo di Sironi e del 1932 –21

, quando esprime

il suo giudizio sulle caratteristiche che debbano avere, per essere

considerati riusciti, i mosaici antichi e, appunto, quelli moderni:

“Questa [scilicet: la tecnica musivaria], scindendo il colorito in staccateunita cromatiche, doveva favorire il semplificare la forma plastica, iltrasporla in modi lineari, il prevalere delle schematizzazioni decorativesugl’intenti di rappresentazione naturalistica. E per vero, senza volerelimitare nessuna possibilita all’arte e alla tecnica dinnanzi ai numerosimonumenti dell’arte musivaria del Medioevo e moderna, bisognariconoscere che le opere in cui essa raggiunse una propria maggiorealtezza sono quelle in cui piu rispetto la natura del proprio materialepittorico senza forzarne la capacita di fusione cromatica, anzi valendosiappunto del frazionamento del colore nelle tessere, della loro diversainclinazione sulla superficie muraria e del conseguente vario rifrangersidella luce nella materia vitrea, per trarne suoi particolari effetti dileggerezza, di vibrazione, di trascendente semplificazione della forma.Le pareti a musaico degli altari della basilica Vaticana, condottelevigatamente con innumerevoli gradazioni di tinte per simulare esostituire dipinti a olio o affreschi, sono monumento d’ingrata laborio-sita; i musaici del sec. IX nelle basiliche romane, apparentemente rozzientro i loro limiti di veste decorativa, sono invece improntati a sottilesenso d’arte.”

22.

e. Le voci altomedievali e duecentesche

Nelle voci altomedievali, Toesca ripropose l’interpretazione filobi-

zantina del Medioevo. Gli stucchi di Civate sono “finemente bizanti-

neggianti” e i pittori degli affreschi si rivolgono ai modi bizantini; a

Sant’Angelo in Formis, gli affreschi sul portale sono da attribuire a

pittore bizantino o a qualche immediato discepolo degli artisti bizan-

tini chiamati a Montecassino dall’abate Desiderio, gli affreschi con le

storie degli eremiti sono forse di un pittore bizantineggiante del

L’ENCICLOPEDIA ORIENTALISTA

23La citazione su Giotto e presa dal volume 17 del 1933, p. 212.

secolo XIII, gli affreschi dell’interno derivano dall’arte bizantina

modifcata con accenti propri nel colore e nelle espressioni. Per il

Duecento, Cimabue “osserva la maniera bizantina nella composi-

zione, nella fattura pittorica e nell’effetto totale”, possiede a fondo le

formule bizantine, modifica, “ma non altera lo stile bizantino intera-

mente posseduto” e ne ricrea la grandezza e l’attrazione religiosa; la

pittura romana del Duecento e sempre piu penetrata di influssi

bizantini, Cavallini e Torriti scelgono dalla pittura bizantina le forme

piu classicheggianti; Giunta accetta “i canoni idealistici della pittura

bizantina, che allora esprimeva una sua tensione patetica” in modi

astratti e convenzionali; Duccio riesce a intendere con nuova fre-

schezza i modi piu eletti dell’arte bizantina ed i suoi colori rammen-

tano la gamma delle miniature bizantine piu delicate, liberata dalle

lumeggiature frastagliate; e anche Giotto, che pure piega le formule

bizantineggianti a esprimere il suo senso plastico,

“a guardare intorno, non dalla pittura gotica, che attenuava all’estremoo sopprimeva ogni valore plastico, e nemmeno dalla scultura – troppodiversa nei suoi mezzi – poteva avere avviamento, ma sı dalla pitturabizantina, o bizantineggiante, che insisteva nella modellazione, anchese mediante formule.”

23.

f. La voce romanista “Bizantina, Civilta” ed il

“Medioevo bizantino” di Pasquali

L’affidamento delle parti della voce “Bizantina, Civilta” cadde, dun-

que, sotto il periodo di direzione di Ojetti. Scrivendo a Gentile il 20

ottobre del 1925 della parte “Arte bizantina”, Ojetti dice di non

avere, come Gentile, una grande stima di Diehl; l’ideale redattore

della parte sarebbe stato per lui Dalton, che, per ragioni di anzianita,

aveva pero rifiutato nonostante calorosi inviti. Quanto a Millet, un

altro dei nomi fatti, non era riuscito a vederlo a Parigi. Dunque, a

Diehl aveva raccomandato di scrivere solo di arte bizantina fuori

d’Italia e di

“non seguire la moda recente che forma l’arte bizantina quasi solosugli stampi orientali, perche sarebbe strano che proprio l’EnciclopediaItaliana accettasse questa diminuzione della incontrastabile origineromana dell’architettura bizantina.”.

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

Diehl aveva accettato le due condizioni poste da Ojetti. La data

prevista per la conclusione del lavoro della voce era il 1926, ma non

fu rispettata. Il 21 novembre 1927 Ojetti informo Gentile che l’archi-

tettura bizantina era rientrata nella parte “Arte” di Diehl, dopo una

prima idea di affidarla a Ugo Monneret de Villard, sul quale fu

messo un veto da Giovannoni in quanto “ultra-strzygowskiano”; per

“Arte bizantina” era previsto Munoz che dava fiducia in quanto

ormai convertito al romanesimo; in ogni caso, rammenta Giovan-

noni, teniamo conto che “noi romanisti affermiamo derivata dall’Im-

pero” e non dall’Oriente l’architettura bizantina:

“A Milano il Tumminelli purtroppo non m’ha mostrato i contrattipreparati dal Giovannoni per l’architettura armena con lo Zurabian,per l’architettura bizantina con il Monneret de Villard. Io darei alloZurabian tutta l’arte armena [redatta poi, con la direzione di Toesca,da De Francovich]. Se siamo d’accordo, fagli mandare pure il con-tratto. Ma prima ti prego di meditare questo passo d’una lettera che ilGiovannoni mi scriveva il 25 d’ottobre:«Per la Enciclopedia trovo che il nome di Munoz come titolare del-l’arte bizantina puo andar molto bene, se egli esca dal torpore per cuioggi conclude poco o nulla. Non certo la coltura gli manca, e quantoalle tendenze orientalistiche parmi che recentemente le abbia moltoattenuate per rivolgersi al romanesimo.Ma sara il caso di trattare anche l’Architettura? I monumenti bizantinisono, piu ancora dei romani, organismi costruttivi ideati con grandesapienza statica e frutto di una grande tradizione tecnica (che noiromanisti affermiamo derivata dall’Impero), su cui si e sovrapposta laricchissima decorazione, come un arazzo. Tutto un primo capitolodeve quindi essere tecnico, come ad es. sono stati tecnici gli studi delloChoisy, del Rivoira, dello Zurabian pilota dello Strzygowski. Perquesta parte dunque Munoz non e a posto.Con chi sostituirlo? Proprio non saprei tanto sono indietro questi studitra noi. Il Monneret de Villard lo potrebbe se avesse la testa a posto enon fosse ultra-strzygowskiano (bella parola!). Forse meglio ricorrere aqualche giovanotto serio e colto, come ad esempio il Reggiori, chelavori un po’ di ricompilazione.».”.

Ojetti, dunque, escluse lo Zurabian, perche piu ostinato dello

Strzygowski nel vedere nell’architettura romanica e bizantina una

derivazione da quella armena,

“invece che dall’architettura nostra, cioe romana. E proprio noi dob-biamo lasciarglielo dire nell’Enciclopedia Italiana?”.

Giovannoni, da parte sua, ebbe comunque a recriminare ancora

L’ENCICLOPEDIA ORIENTALISTA

24Discorso inaugurale in Atti del I˚ Congresso Nazionale di Storia dell’Architettura, [Firenze,

Palazzo Vecchio] 29-31 ottobre 1936-XV (Firenze, 1938-XVI), p. ix.25

La lettera di Ojetti a Gentile e conservata alla Biblioteca Nazionale di Firenze come le

precedenti dell’epistolario Gentile-Ojetti.26

”Bizantina, civilta”, in E. I., vol. 7 (1930), pp. 120-167: A. Pernice, “Storia dell’im-

pero bizantino”, pp. 120-141; G. Ferrari, “Diritto”, pp. 141-148; G. Pasquali, “Letteratu-

ra”, pp. 148-154; C. Diehl, “Arte”, pp. 154-165; E. Wellesz, “Musica”, pp. 165-167. M.

Aubert, “Carolingia, Arte”, vol. 9 (1931), pp. 119-121; G. Farina, “Egitto. Arte”, vol. 13

(1932), pp. 565-570; G. Giovannoni e R. Bianchi Bandinelli, “Roma. Roma Antica.

Architettura classica, Architettura cristiana, Arti figurative”, vol. 29 (1936), pp. 714-745.27

E. Wellesz, Byzantinische Musik (Leipzig, 1927); “Lo stato attuale delle ricerche nel

nel 1938 sulla lesa romanita di alcuni autori di voci: Schlosser

afferma, “purtroppo nella Enciclopedia Italiana, che la cupola di S.

Maria del Fiore e di derivazione orientale”24

.

Ojetti propose di tornare a una sua proposta del 1925 e di

assegnare l’arte bizantina fuori d’Italia a Diehl, “che e ancora tra i

piu moderati nel favorire la tesi anti-romana dello Strzygowski e che

ho gia ‘ammonito’” al riguardo, e l’arte bizantina in Italia al Munoz;

e poi vedere se aggiungere architettura bizantina come tecnica co-

struttiva dandola allo stesso Giovannoni25

.

Conclusa la purga antiorientalista di Ojetti-Gentile, la voce “Bi-

zantina, civilta” apparve alla fine suddivisa in cinque parti, redatte da

tre studiosi italiani e due stranieri: Angelo Pernice, libero docente

della Universita di Firenze e autore di altre voci bizantine per

l’Enciclopedia, scrisse “Storia dell’impero bizantino”; Giannino Fer-

rari, rettore della Universita di Padova, “Diritto”; Giorgio Pasquali,

professore all’Universita di Firenze, “Letteratura”; Charles Diehl,

“Arte”; Egon Wellesz, storico della musica e compositore viennese,

“Musica”. La voce “Bizantina, Civilta” occupa quasi cinquanta pa-

gine del settimo volume del 1930, un’estensione che e testimonianza

di una insolita preoccupazione. Delle cinquanta pagine dodici sono

dedicate all’arte; a confronto, “Arte carolingia”, nel volume 9, ne

occupa tre, “Egitto. Arte”, nel volume 13, ne occupa sei, “Roma.

Arte” (dalle origini alla tardoantichita), nel volume 29, ne occupa

trentadue, “Roma. Roma medievale. Arti figurative”, nello stesso

volume 29, ne occupa quattro26

. I due studiosi stranieri erano ben

autorevoli: l’anziano Diehl era ormai un decano degli storici dell’arte

bizantina; Wellesz, invece, era conosciuto come studioso di storia del

canto, dell’innografia, delle sacre rappresentazioni e, soprattutto,

della musica bizantina; su quest’ultima aveva pubblicato nel 1927 un

manuale in tedesco; nel 1936, Wellesz partecipo con un contributo

sulla musica al V Congresso di Studi Bizantini di Roma27

.

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

campo della musica bizantina”, Estratto dal V Congresso Internazionale di Studi Bizantini,

Roma, 20-26 settembre 1936, Studi bizantini e neoellenici 6 (1936) (Roma, 1939).

Diehl comincia la sua parte dichiarando l’arte bizantina mal

compresa e giudicata; “organismo vivo”, l’arte bizantina e stata

giudicata come continuazione e decadenza dell’arte romana fino a

cinquant’anni prima e come arte immobile e statica nel tempo:

“L’arte bizantina – che forse converrebbe chiamare arte cristianad’Oriente – e stata per lungo tempo mal compresa e mal giudicata.Fino a cinquant’anni fa’ era considerata spesso come continuazione edecadenza dell’arte romana classica; soprattutto, era rappresentatacome un’arte immobile, incapace di progressi e di cambiamenti, e chesi sarebbe limitata, per secoli, a ripetere servilmente le formule e i temicreati nel sec. VI da qualche artista di genio. Oggi sull’arte bizantina cisono idee piu esatte e piu giuste.”.

Diehl assegno all’arte bizantina una precoce data di nascita nel

IV secolo e propose un periodo di formazione dal IV al VI secolo:

per questo periodo “per lungo tempo e stata attribuita a Roma una

influenza preponderante e quasi esclusiva; ma oggi, senza voler

negare assolutamente questa influenza, molti inclinano, dopo gli

studı dello Strzygowski, nel risolvere la questione delle origini del-

l’arte bizantina nell’Oriente” (quell’inciso del non negare assoluta-

mente l’influenza romana non si sa se pensarlo una concessione alla

direzione dell’Enciclopedia o una inserzione spuria). Diehl accetto

pero la tesi di Ainalov e altri di tradizioni dell’antichita classica

ancora vive nelle metropoli del Mediterraneo orientale. Segue una

prima eta d’oro con Giustiniano, poi un periodo di crisi con la lotta

iconoclastica, una seconda eta d’oro, “forse la piu brillante che abbia

mai avuta la storia bizantina”, dal X al XII secolo, nella quale

diviene “l’arte regolatrice d’Europa”; infine, una ultima rinascenza

con i Paleologi dal XIV al XVI secolo. Diehl fornı anche un pano-

rama della miniatura bizantina, in questo ampiamente indebitato con

la divisione, che era stata data da Ainalov e poi da Millet, Morey e

Friend Jr, tra arte alessandrina, “tutta penetrata di spirito antico”, e

“tradizione orientale, piu realistica, piu drammatica e anche piu

infatuata dell’ornamentazione elegante e ricca”. Anche nella icono-

grafia degli episodi del Vangelo si vedono contrapposte la tradizione

alessandrina e quella antiochena. Toesca stesso, sembra aver parteci-

pato alla scelta delle illustrazioni, alcune anche a colori, per la parte

L’ENCICLOPEDIA ORIENTALISTA

28Citazioni da p. 154.

29C. Cecchelli, “Bizantina, civilta. Arte”, in E. I. Appendice I (1938), pp. 281-284; vedi

Capitolo 11, paragrafo a.30

Sui contributi di Pasquali alla Enciclopedia Italiana vedi Cagnetta, Antichita classiche

nell’Enciclopedia Italiana, Capitolo II, “Pasquali, i filologi e il ‘vestito di Arlecchino’, pp.

29-89, e p. 70 sulla voce “Bizantina, Civilta”.

sull’arte: tra di esse sono una raffinata serie di architetture poco

conosciute (Arta, Dafnı, San Luca in Focide, Meteora, Mistra,

Salonicco, Stilo, il Palazzo di Costantino Porfirogenito e le mura di

Costantinopoli: quasi tutte queste foto sono dalle Staatliche Bild-

stelle di Berlino), inevitabili dettagli dei mosaici ravennati di Teo-

dora (Teodora e figure del seguito) e Giustiniano (solo figure del

seguito), i mosaici di Monreale e Dafnı, un buon gruppo di minia-

ture (la Bibbia Regin. gr. 1, le Omelie di Giacomo Coccinobafo, il

Cosma Indicopleuste ed il Menologio di Basilio II della Biblioteca

Vaticana; la Genesi di Vienna), oggetti di oreficeria dal tesoro di San

Marco e avori, tra i quali ultimi sono due riproduzioni del calamaio

del tesoro del Duomo di Padova che Toesca aveva analizzato in

“Cimeli bizantini” del 190628

.

L’arte bizantina fu la sola parte della voce “Bizantina, civilta” ad

avere un aggiornamento nella Appendice I del 1938 dell’Enciclopedia

Italiana, la cui stesura fu affidata a Cecchelli che si era convertito da

denigratore della civilta bizantina, ai tempi del Primo Convegno

Nazionale di Studi romani del 1929, a suo studioso. Cecchelli si

limito nell’aggiornamento a citare l’approfondito esame che le nuove

scoperte di opere bizantine in quegli anni imponevano per l’arte del

tardo impero, cosı da obbligare a riconsiderare con piu organici e

documentati orientamenti il problema formativo dell’arte bizantina29

.

La parte storica di Ferrari sulla civilta bizantina e una trattazione

“obiettiva e pacata”, che parte dalla inaugurazione della nuova Roma

nel 330 e si conclude con la conquista ottomana nel 1453. La parte

letteraria di Pasquali e invece polemica30

. In una premessa nella

quale divaga dal suo tema dando un giudizio complessivo su Bisanzio

e specialmente sulla sua forma politica (che sarebbe spettato piutto-

sto alla parte storica di Ferrari), Pasquali rifiuto l’idea che la storia

bizantina cominci con la fondazione di Costantinopoli (come scrive

Diehl nel suo pezzo sull’arte) e rivendico alla latinita i secoli IV-VI,

facendo di Giustiniano l’ultimo sovrano della romanita; Pasquali

anticipo di qualche anno con questa posizione quanto fu stabilito

dalla Mostra della Romanita del 1937:

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

“Si suol chiamare bizantino quel periodo della letteratura greca che siestende dall’ascesa al trono di Giustiniano (527 d.C.) alla caduta diCostantinopoli in mano dei Turchi Osmanli.”.

Il termine di letteratura alessandrina, al posto di letteratura

bizantina, che e usato da alcuni, sembra a Pasquali inadeguato:

“mentre durante il periodo ellenistico riescono a mantenersi in vita e

a esercitare forte influsso centri di cultura indipendenti da Alessan-

dria”, tra i quali, sottolinea Pasquali (polemicamente), “da un certo

punto in poi anche e principalmente Roma”, durante l’era bizantina

tutta la vita culturale gravita verso Costantinopoli e la corte impe-

riale. Se il limite cronologico inferiore della civilta bizantina e indi-

cato senza esitazione nel 1453, il limite superiore e invece dubbio.

Krumbacher lo pose all’eta di Costantino, una idea “teoricamente

legittima”. Eppure il secolo IV e dominio indiscusso della filologia

classica, gli spiriti classici sono ancora rigogliosi, la letteratura e

congiunta con quella del passato con continuita e buona parte dei

letterati sono pagani. “Al tempo di Costantino lo stato e ancora

puramente romano; la lingua della stato e la latina”. Il confine tra

l’antichita e l’epoca bizantina e posto all’anno 529, che segna la

vittoria del Cristianesimo con la decisione di Giustiniano di chiudere

le scuole ateniesi dei filosofi,

“stabilendo cioe che la sola scienza riconosciuta dallo stato e quellacristiana e che scienza non cristiana non puo essere tollerata. Quest’av-venimento segna per davvero un rivolgimento di tempi, ed e quindisingolarmente atto a essere considerato come un confine tra due eta.”.

L’opera piu grandiosa di Giustiniano, pero, il Corpus e in latino

ed accoglie e codifica tutto il diritto romano precedente. Romani

sono stati sempre gli imperatori che lo precedettero: solo dopo

Giustiniano gli imperatori saranno tutti greci o orientali grecizzati e

l’elemento greco cresce “con rapidita di valanga” nella legislazione

posteriore al Corpus.

Cominciano ora le note di disprezzo per la decadenza di Bisan-

zio, regno di un dominio assoluto monarchico dove il sovrano non e

piu princeps, ma basileus, con il popolo “sempre piu rigorosamente

escluso da ogni partecipazione alla vita statale, ridotto sempre piu

alla merce degl’impiegati, i quali sono essi stessi alla merce dei

superiori, cioe della corte”; dominio assoluto di un unico e potere

preponderante di coloro che gli stanno vicino, elementi che ricor-

L’ENCICLOPEDIA ORIENTALISTA

dano gli imperi orientali: velate critiche e allusioni alla Roma musso-

liniana? Certamente, le lodi di Gioacchino Volpe del pezzo di Pa-

squali allontanano questa possibilita. Quanto alla Chiesa, quella

bizantina discute per secoli e secoli sulla natura umana e divina di

Cristo e resta impantanata in controversie che in Occidente erano

state superate; il monachesimo e fatto di monaci contemplativi e

intriganti che niente hanno a che spartire con i monaci e frati attivi e

popolari dell’Occidente:

“la Chiesa greca chiama se stessa «ortodossa»; ma questo nome di cuiessa va superba, non e, chi ben guardi, se non un testimonium pauperta-tis. (...) La devozione greca rimane rivolta verso il di la, rimanemeramente contemplativa; mentre gia i benedettini, i soli monacidell’Occidente, operano per l’agricoltura e per la cultura; mentre inuovi ordini non piu di monaci ma di frati, i domenicani e i france-scani, si rimescolano al popolo da cui sono usciti, operando e benefi-cando, il monachesimo greco cerca di guadagnarsi la vita eterna conl’ascesi e la preghiera, alle quali viene attribuito un potere quasimagico. I monaci bizantini sono stati spesso fior d’intriganti (... ).”.

Da queste considerazioni scaturiscono il giudizio di inferiorita

sulla civilta bizantina ed una domanda di fondo: “Merita ora questa

civilta rigida e arcaistica, questa civilta, diciamo pure inferiore, che

uno si affatichi a studiarla?” Pasquali decide che vale la fatica in

quanto la civilta bizantina e madre di tutte le civilta dell’Europa

orientale; essa ha invece solo

“venato leggermente di colori greci l’umanesimo, in origine tuttolatino, degl’Italiani, che era allora gia a buon punto; e ha specialmente,trasportandoli tra noi, salvato dalla distruzione i testi classici dei greci,rendendo cosı possibile il nuovo umanesimo, questo sı, veramentegreco, che incomincia col principio del sec. XIX e da alla cultura diquesto secolo la sua impronta.”.

Corollario della penetrazione della cultura bizantina nella Europa

orientale e il fatto che le civilta slave e dei Balcani sono erette su base

bizantina, cosa che spiega l’abisso tra Russia e Occidente, “che il

bolscevismo ha in questo ultimi anni scavato ancor piu profondo”.

Quanto alla letteratura bizantina – ora Pasquali viene alla esposi-

zione letteraria che sarebbe stata propriamente il suo tema –, non

vale la pena studiarla come “complesso di valori estetici, o come

espressione, documento di una cultura”, “nonostante le proteste

isolate di qualche bizantinista piu appassionato che giudizioso”. La

PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

31Citazioni nel testo da pp. 148-150.

32M. Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica (Milano – Roma, 1930;

seconda edizione accresciuta, Torino, 1942). F. Flora, “La «Cronaca Bizantina»”, Pegaso 2

(1930-VIII), pp. 681-698. A. Sommaruga, Cronaca Bizantina (1881-1885). Note e ricordi

(Milano – Verona, 1941).

letteratura bizantina manca di elementi personali, lirici, e rivolta

verso il passato: se vi e penetrato qualche cosa di moderno, cio e

avvenuto “contro le intenzioni dell’autore, un felice errore”31

.

Nel 1941, Pasquali pubblico su Civilta moderna un lungo articolo

intitolato “Medioevo bizantino”, che rievoca i tempi ‘bizantini’ di

fine Ottocento e la visione di Bisanzio come lussuria, fasto e crudelta

messa in scena da La nave dannunziana. Pasquali si giovo di letture

di testi da poco pubblicati, come La carne, la morte e il diavolo nella

letteratura romantica di Mario Praz, del 1930, dell’articolo di France-

sco Flora sulla Cronaca Bizantina, anch’esso del 1930, e, forse, del

libro di memorie di Sommaruga del medesimo anno 1941 del suo

articolo32

. In “Medioevo bizantino” Pasquali non muto il giudizio su

Bisanzio dato nella Enciclopedia Italiana, anche se lo espresse in

maniera piu narrativa e blanda, mitigata anche dalla constatazione

del sorgere in quegli anni di cattedre e centri di studio bizantini in

molte nazioni. La letteratura bizantina e detta da Pasquali “fra le piu

noiose del mondo”, sentenza divenuta celebre: ogni volta che noi

leggiamo uno scrittore bizantino, vi sentiamo “qualcosa di stantio”.

Lo studio di Bisanzio, che ebbe come madre la politica di espansione

dei paesi europei verso Oriente, ebbe come compare di battesimo il

positivismo, che nega il concetto di valore, che per Pasquali) Bisan-

zio non possiede. Il solo periodo della letteratura bizantina che

costituisce una eccezione e il XII secolo, l’eta dei Comneni (e in

particolare il periodo del regno di Manuele II), che rappresentano

proprio la dinastia di imperatori bizantini piu occidentalizzata. Bisan-

zio fu citta orientale, salvata nel giudizio di Pasquali solo per la

missione storica, “assolta prodigiosamente”, di baluardo militare per

l’Europa dall’assalto dall’Oriente di Persia e Islam; la sua forma di

governo “disumana” era la sola possibile in una fortezza assediata:

“A Bisanzio, almeno da Giustiniano in qua il cittadino e sostituito dalsuddito, il quale verso il sovrano e i suoi rappresentanti, i magistrati,ha soltanto il dovere dell’ubbidienza e non ha nessun diritto, cosı comegli stessi magistrati, onnipotenti di fronte al popolo, sono meri stru-menti della mano dell’autocrate. Questi a suo arbitrio sceglie i finidella propria politica e determina i mezzi per raggiungerli.

L’ENCICLOPEDIA ORIENTALISTA

33Pasquali introdusse anche considerazioni di critica figurativa: cito il Salterio di Parigi

come un prodotto del Monastero di Studio, confondendo questo manoscritto con i salteri a

illustrazioni marginali che erano stati effettivamente considerati collegati da piu studiosi allo

Studio, e lo ritenne “un tentativo di arte realistica”, “un fatto che rimane isolato”: giudizi

privi di competenza. G. Pasquali, “Medioevo bizantino”, Civilta moderna 13 (1941-XX),

pp. 289-320; ristampato in G. P., Stravaganze quarte e supreme (Venezia, 1951), pp. 93-129,

citazioni da pp. 99, 101, 104-105, 123-124.

Una tale forma di governo e disumana, ma e la sola possibile in unafortezza assediata da tutti i lati.

Riferimenti all’attualita del 1941? La discussione su Bisanzio fa,

comunque, con Pasquali un tonfo all’indietro, almeno al tempo della

formazione accademica del filologo: gli studiosi francesi sostenitori

della civilta bizantina della seconda meta dell’Ottocento avrebbero

legittimamente domandato quale sistema democratico e umano

avesse in mente Pasquali per l’altomedioevo occidentale da porre

come modello di democrazia e umanesimo non raggiunto dalla

civilta bizantina da lui giudicata cosı negativamente33

.

PARTE III

CROCIANI, COMUNISTI E

RAVVEDUTI

1F. Pertile, “Le opere d’arte in assetto di guerra”, La Rivista illustrata del “Popolo

d’Italia” 21, n 11 (novembre 1942), pp. 70-77. Cinquanta monumenti italiani danneggiati

dalla guerra, a cura di E. Lavagnino, prefazioni di B. Croce, C. R. Morey, R. Bianchi

Bandinelli (Roma, 1947).

12

IL RIASSETTO DOPO IL CONFLITTO

“(...) tanti altri, veramente colpevoli di piaggeria, divolgare procacciantismo, ora tornano a vita, e rientranoall’Universita”Pietro Toesca, da una lettera a Bernard Berensondatata 11 novembre 1945

“Pasquali aveva avuto, in passato, delle debolezze;infantili debolezze, che, senza dubbio, non gli feceroonore. Ma che il suo non fosse vero fascismo, lo hadimostrato meglio di tutto il fatto che oggi egli eratenuto in disparte dagli organismi ufficiali delle scuoleitaliane, dove tutti i mestatori e corruttori di ieri sonoritornati ai loro posti.”Ranuccio Bianchi Bandinelli, Necrologio di GiorgioPasquali, 1952, p. 566.

Con l’avvicinarsi della guerra in Italia ed il pericolo di bombarda-

menti si comincio a mettere al riparo le opere d’arte trasportabili e a

ridurre in assetto di guerra, proteggendoli con impacchettature di

sacchetti di sabbia, i monumenti. A Roma, Monreale, Ravenna,

Venezia colonne romane e mosaici medievali sparirono ricoperti

dalle protezioni (figg. 112-113). Nessuno dei piu celebri monumenti

bizantini subı danni particolarmente gravi1. Con la caduta del Fasci-

smo, la Liberazione e gli alleati in Italia cesso la denigrazione della

Francia. Cesso anche la retorica romanista che aveva viziato la

discussione su Bisanzio, salvo alcune appendici che i nostalgici ali-

PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

2C. Malaparte, La pelle. Storia e racconto (Roma – Milano, 1949), pp. 59-60.

3La frase di Bianchi Bandinelli, da “A che cosa serve la storia dell’arte antica”, pp.

10-11, del 1945, e riportata per esteso in epigrafe al Capitolo 6, paragrafo d. La frase su

Pasquali, messa in epigrafe al presente capitolo, continua, concludendo il necrologio, cosı:

“E che la stampa borghese quasi non ha preso nota della sua morte, e, se mai, ha posto in

evidenza le esteriori singolarita, non le qualita sostanziali che erano nella sua persona.”.

mentarono. Le dichiarazioni di appartenenza alla civilta occidentale

dei monumenti bizantini in Italia non comparvero piu nelle pubblica-

zioni postbelliche e furono annullate nei nuovi studi. Gli scrittori

continuarono a usare figure bizantine come stereotipi di donne

italiane; cosı fece Malaparte ne La pelle del 1949 descrivendo una

ragazza napoletana nell’episodio de “La vergine di Napoli”, come

aveva fatto Gadda nell’Adalgisa del 1944 paragonando a quello di

Teodora l’atteggiamento delle aristocratiche milanesi:

“Sedeva con le gambe penzoloni dal letto, e fumava assorta, in silen-zio, con i gomiti appoggiati sulle ginocchia e il viso raccolto fra lemani. Pareva giovanissima, ma gli occhi aveva antichi, e un po’ sfatti.Era pettinata con quell’arte barocca delle capere dei quartieri popolari,inspirata all’acconciatura delle Madonne napoletane del diciassette-simo secolo: i neri capelli, crespi e lucidi, gonfi di crine, di nastri, eimbottiti di stoppa, si alzavano a guisa di castello, quasi reggesse sullafronte un’alta mitra nera. Qualcosa di bizantino era nel suo visopallido, stretto e lungo, il cui pallore traspariva sotto lo spesso strato dibelletto, e bizantino era il taglio dei grandi occhi obliqui e nerissiminella fronte alta e piatta. Ma le labbra carnose, ingrandite da unviolento sfregio di rossetto, mettevano un che di sensuale e d’insolentenella delicata tristezza d’icona del viso.”

2.

Mentre alcuni artisti e critici, come Giolli, sostenitore del valore

dell’arte bizantina, si schierarono con l’antifascismo e persero la vita

per questa scelta, rimasero invece ai loro posti, come si lamento

appunto Toesca, persone che si erano fatte portavoce delle stupidag-

gini nazionaliste del fascismo e che avevano denigrato Bisanzio per

politica, colludendo moralmente con un regime infame colpevole di

tanti lutti anche tra i loro colleghi; si ritesse la vecchia trama, scrisse

Bianchi Bandinelli, solo con qualche colore diverso3. Parallelamente,

per quanto riguarda la nostra narrazione, restarono in piedi due

questioni sull’arte bizantina; la prima derivava dalle affermazioni

autorevoli di Pasquali e Longhi: l’arte bizantina e arte o no e vale la

pena di studiarla? La seconda riguardava gli strumenti di indagine:

gli studi iconografici con le loro “tabelle di concordanza” hanno

IL RIASSETTO DOPO IL CONFLITTO

4Le frasi di Toesca sono da lettere a Berenson del 25 marzo 1945, del 19 dicembre 1947

e del 26 settembre e 26 novembre 1949, conservate nella Biblioteca Berenson, Villa I Tatti,

Settignano (Firenze). La conferenza di Venturi all’Universita di Firenze fu pubblicata su Il

Mondo del 5 maggio 1945, col titolo “Le origini della pittura contemporanea” e con una

premessa nella quale si riportava il saluto di Calamandrei.

validita o l’unico approccio valido e quello stilistico indicato da

Croce, l’intuizione estetica prediletta da quasi tutti gli storici del-

l’arte?

Frattanto, Lionello Venturi torno dall’esilio, lesse conferenze a

Firenze (salutato dal rettore Piero Calamandrei come esule che

ritorna finalmente in patria) ed ando ad insegnare a “La Sapienza”,

appoggiato da Toesca, che cosı si giustifico con Berenson: “Ne si

meravigli di questo! Devo pensare alla mia successione per il 1947, e

preferisco lasciarla a L. V. [Lionello Venturi] che a R. L. [Roberto

Longhi]”. Venturi succedette cosı a Toesca; poi, quando Venturi

passo a Storia dell’Arte Moderna, De Francovich succedette a Ven-

turi (anche Toesca lo preferı a Coletti e altri). In seguito, anche

Salmi entro a “La Sapienza”, con l’appoggio di Venturi, nonostante

che Toesca gli preferisse Longhi “come antidoto al cosidetto ‘me-

todo’ di L. Venturi” e “per la troppo evidente superiorita del Longhi,

e la sua virtuale capacita di trattare del Medioevo, fin qui da lui poco

studiato”; tuttavia, Salmi, prosegue Toesca, ha vinto, ma la presenza

di Longhi, rimasto a Firenze, avrebbe giovato molto agli studenti per

il suo metodo che essi avrebbero messo a confronto con quello di

Venturi4.

Sfidano l’autarchia accademica italiana il ritorno di metodologie

d’indagine nate dalla archeologia e dalla filologia germaniche e riela-

borate soprattutto nelle universita americane, dove molti studiosi

antinazisti si erano rifugiati.

a. La restituzione a Bisanzio delle conquiste romaniste

Van Gogh, Cezanne, Matisse e Picasso, dopo le sciocchezze di

giudizio prebelliche loro indirizzate, furono riabilitati dalla critica

italiana; da non grandi pittori, dannosi, inconsistenti, mostruosi,

simulatori, come li aveva definiti l’Arcangeli fascista, divennero mae-

stri geniali per l’Arcangeli postbellico, salvo il problema morale con

Picasso che era comunista, come gia citato. Di Matisse in particolare

si parlo, finalmente, come di un genio che amava Bisanzio, citando

PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

5Longhi, “Matisse”. Vedi Capitolo 6, paragrafo f.

6A. Pertusi, “Bizantina, civilta”, in E. I. Appendice II 1938 / 1948 (1948), pp. 414-415. S.

Bettini, “Bizantina arte”, in Enciclopedia Cattolica, vol. 2 (Citta del Vaticano, 1949), coll.

1685-1696; la voce su Bisanzio, oltre ad arte, comprende nello stesso volume della

Enciclopedia cattolica: “Bizantina letteratura” di Martino Jugie (coll. 1696-1699), “Bizantina

liturgia” di Placido de Meester, “Bizantina musica” di Giuseppe Ferrari (coll. 1704-1709),

“Bizantino, diritto canonico” di Acacio Coussa (coll. 1709-1712). P. Verzone, V. Lazarev,

D. Talbot-Rice, “Bizantino”, in Enciclopedia Universale dell’Arte, vol. 2 (Venezia – Roma,

1958), coll. 623-712. “Bizantina, arte”, in Enciclopedia dell’arte antica classica e orientale, vol.

2 (Roma, 1959), pp. 108-114.

benignamente anche il malfamato Duthuit5. Quanto alla Enciclopedia

Italiana, gia nella Prima Appendice del 1938 la voce “Bizantina

civilta” era stata aggiornata per la sola sezione arte da Cecchelli che

premette che “il piu approfondito esame che da pochi anni si va

facendo dell’arte del tardo impero (secoli III-IV) obbliga a vedere

sotto nuove luci il problema formativo dell’arte bizantina. Vi sono

anche varie scoperte che concorrono a questi piu organici e docu-

mentati orientamenti”. Tra i nuovi studi e scoperte Cecchelli men-

ziono i lavori di De Jerphanion sulle chiese rupestri della Cappado-

cia, i restauri dei mosaici di Santa Sofia di Whittemore, i mosaici di

San Salvatore in Chora, Dafnı e Hosios Lucas, i lavori di Demus e

Monneret de Villard, la nuova edizione della Genesi di Vienna, i libri

di Ebersolt e Weitzmann sulla miniatura bizantina. Nella Seconda

Appendice, poi, uscita nel 1948 con Gaetano De Sanctis nuovo

direttore della Enciclopedia, alla voce “Bizantina, Civilta” Agostino

Pertusi fornı un repertorio di aggiornamenti bibliografici dichiarando

che l’evoluzione della civilta bizantina era stata in quegli anni

(1930-1947) oggetto di studio “intenso e proficuo” e che erano ora

disponibili delle sintesi per arte e musica. Bettini, unico italiano che

si occupava principalmente di arte bizantina, scrisse la voce “Bizan-

tina, Arte” per l’Enciclopedia cattolica, nel 1949. Nonostante il nuovo

fervore di studi, nella Enciclopedia Universale dell’Arte la voce “Bizan-

tino”, del 1958, fu redatta da due stranieri, Viktor Lazarev e David

Talbot Rice, e da un solo italiano, Paolo Verzone, mentre la voce

“Bizantina, Arte” nella Enciclopedia dell’arte antica classica e orientale,

del 1959, diretta da Bianchi Bandinelli, fu compilata dalla redazio-

ne6. I monumenti bizantini dell’Adriatico, annessi a Roma dalla

storiografia fascista, vennero restituiti a Bisanzio.

Passata la retorica nazionalistica che aveva dichiarato San Marco

opera di cultura completamente italiana, Berenson, nel 1954, scrisse

per Il Corriere della Sera “San Marco Tempio e Museo Bizantino”,

affermando l’integrale bizantinita del monumento:

IL RIASSETTO DOPO IL CONFLITTO

7B. Berenson, “San Marco Tempio e Museo Bizantino”, Corriere della Sera, 2 settembre

1954, p. 3.8

Vedi Capitolo 9, paragrafo d.9

O. Demus, The Mosaics of Norman Sicily (London, 1949); Die Mosaiken von San Marco

in Venedig, 1100-1300 (Baden bei Wien, 1935); Byzantine Mosaics Decoration. Aspects of

Monumental Art in Byzantium (London, 1948). E. Kitzinger, “The Mosaics of the Cappella

Palatina in Palermo: An Essay on the Choice and Arrangement of Subjects”, The Art

Bulletin 31 (1949), pp. 269-292; su Monreale Kitzinger pubblico poi la monografia I mosaici

di Monreale (Palermo, 1960). R. Salvini, Mosaici medievali in Sicilia, citazioni da pp. 10 e

71-77.

“Nelle opere di Storia dell’Arte e in attendibili [l’aggettivo originaleinglese e “serious”] libri di guida si parla di San Marco di Veneziacome di un edificio a caratteri prevalentemente bizantini, e non po-trebbe essere altrimenti. Tuttavia non saprei stabilire in quale misura ilpubblico colto, il pubblico cui sono destinati i seguenti paragrafi, abbiapreso cognizione di cio”.

San Marco e “il piu tipico, il piu completo e godibile edifizio

bizantino che ancora esista”, al cui confronto Santa Sofia di Costan-

tinopoli e “angosciosamente vuota”, un freddo museo “abbandonato

da Dio”. All’interno di San Marco “non v’e colonna, capitello,

rivestimento, pulpito, figura che non sia bizantina o, in rari casi,

bizantineggiante”. La Pala d’oro, che Longhi nel suo “Giudizio sul

Duecento” aveva disdegnato in quanto opera di valore venale, ma

non opera d’arte, e per Berenson la piu ricca e splendida opera di

smalto e la piu alta e raffinata illustrazione che in tale genere ci abbia

tramandato l’arte bizantina, di gran lunga superiore a tutti gli altri

smalti medievali7.

Sui mosaici siciliani uscirono nel 1949 il libro del bizantinista

austriaco Demus e un articolo di Ernst Kitzinger. Tra gli studiosi

italiani, Salvini, lodando piu volte i lavori di Bettini su Bisanzio, in

Mosaici medievali in Sicilia del 1949 mitigo l’appartenenza di quei

mosaici all’Occidente e la loro realizzazione da parte di maestranze

locali da lui sostenuta anni addietro8; alla civilta romanica lascio i

mosaici di Monreale, ma considero la Martorana, Cefalu e la Cap-

pella Palatina dominati dall’arte bizantina “nelle sue molteplici for-

me”; sarebbe quindi erroneo il diffuso concetto “alimentato da

meschino campanilismo” di uno “svolgimento del mosaico siciliano

da uno stile prettamente bizantino verso una maniera sempre piu

italo-bizantina o magari addirittura siculo-bizantina, ossia in sostanza

verso uno stile fortemente colorato di occidentalismo”9.

Toesca riconfermo la sua convinzione della paternita bizantina

PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

10F. Di Pietro, La Cappella Palatina di Palermo. I mosaici (Milano, 1954), nota 26 pp.

66-67: i veloci cambiamenti di opinione contro i quali protesta l’autore per lo piu

riguardano la datazione dei mosaici.11

P. Toesca, La Cappella Palatina di Palermo. I mosaici (Milano, 1955), citazioni da pp.

22 e 23.

dei mosaici della Cappella Palatina nella introduzione ad una pubbli-

cazione con gran numero di riproduzioni del 1955. La monografia

era gia stata pubblicata in edizione fuori commercio l’anno prece-

dente con introduzione di Filippo Di Pietro, che lamentava espressa-

mente come certi scrittori avessero cambiato velocemente opinioni

sui mosaici siciliani10

. Per Toesca, le differenze stilistiche all’interno

dei mosaici o in rapporto agli altri mosaici siciliani del periodo, che

potrebbero far supporre maestranze di estrazione diversa, si ritrovano

ugualmente nella miniatura bizantina:

“(...) che l’opera e non soltanto da principio, sia stata condotta damaestri bizantini non sembra dubbio: e dimostrato dalla presenza difondamentali qualita stilistiche; ne questa e contraddetta dalla varietadi fattura, d’interpretazione e anche di iconografia nei mosaici stessi, oin rispetto degli altri mosaici di Palermo di Cefalu di Monreale,mentre varieta anche maggiori si ritrovano nelle miniature bizantine.”.

Questi maestri dovevano provenire dai centri artistici bizantini

piu attivi, “non certamente da Roma”, i cui mosaici hanno maniere

diverse anche se bizantineggianti, e “nemmeno da Venezia, dove non

si trova alcun mosaici che abbia con i mosaici siciliani piu che le

affinita derivate dal ceppo comune” bizantino. La frase finale della

monografia e una dichiarazione di bizantinita dei mosaici e di gran-

dezza dell’arte bizantina:

“nei mosaici della Cappella Palatina quella varieta di maniere che vi sitrova, profondamente concordi nel loro essere, non sembra che ildiramarsi, nell’opera di diversi maestri, della grande Arte bizantina.”

11.

b. Il giudizio italiano su Longhi

Nel dopoguerra Salvini scrisse anche “Coralita dell’arte bizantina”

per Il Mondo, nel 1946, e “Apologia di Bisanzio” per La Rassegna

d’Italia, nel 1948, scritti che sono i migliori e piu documentati

tentativi di interpretazione di Bisanzio di quel decennio in Italia; in

IL RIASSETTO DOPO IL CONFLITTO

12R. Salvini, “Coralita dell’arte bizantina”, Il Mondo, n 19, 5 gennaio 1946, p. 10;

“Apologia di Bisanzio”, La Rassegna d’Italia 3 (1948), pp. 1132-1141, citazioni da pp.

1132, 1133, 1135-1136.13

S. Bettini, “Studi recenti sull’arte bizantina”, La critica d’arte, ser. 3, 8 (1949-1950),

pp. 135-147, citazioni dalle pp. 146-147; “Gli studi sull’arte bizantina”, in Universita degli

Studi di Pisa, Istituto di Storia dell’Arte Medievale e Moderna, Atti del Seminario di Storia

dell’Arte, Pisa – Viareggio, 1-15 luglio 1953 (Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa.

essi Salvini difese l’arte bizantina dai pregiudizi sul suo valore

espressi a chiare lettere da Longhi e Pasquali. Di fronte alla scomu-

nica pronunciata per secoli dalla storiografia umanistica, si trattava di

demolire per Salvini due capisaldi critici su Bisanzio: quello della

mancanza di immaginazione degli artisti e quello della tradizione

classica presa come metro su cui giudicare il valore dell’arte bizan-

tina (Salvini cita Italienische Forschungen di Carl Friedrich von Rum-

hor, del 1827-1830, poi Byron, Duthuit, Rice e Berenson); dal

secondo discendeva che solo i periodi di rinascita classica a Bisanzio

erano apprezzati:

“Si trattava [per quei critici] di condurre una battaglia su due fronti;sia contro la tradizionale negazione d’ogni capacita artistica al pittorebizantino – gia assurto ad esponente dell’indigenza immaginativa edella carenza e della barbarie artistica dell’«oscuro» Medioevo –, siacontro l’apprezzamento di maniera e gli attestati d’obbligo che l’ar-cheologia bizantina era avvezza ormai a rilasciare (...) a tutto cio cheapparisse resurrezione – o magari riesumazione – dell’ellenismo.”.

Salvini e uno dei pochi studiosi italiani che si scaglia apertamente

contro il “Giudizio” di Longhi su Bisanzio: “un critico della misura

di Roberto Longhi” propone oggi “di fare «retroso calle» postulando

poco meno che un ritorno alle posizioni totalmente negative della

critica degli umanisti”; per Longhi l’arte bizantina finisce con il

trionfo dell’iconoclastia, alla proibizione seguendo la prescrizione

delle ricette; di qui, l’arte bizantina e per lui similarte, in perfetta

analogia, conclude Salvini, con il giudizio di Pasquali sulla letteratura

artificiosa e pedantesca di Bisanzio12

.

Bettini, piu volte citato da Salvini come autorita nel campo

dell’arte bizantina, scrisse nel 1949-1950 e poi nel 1953 due reso-

conti sugli studi bizantini in Italia. Nel secondo lodo in particolare

l’attivita dei centri di ricerca su Bisanzio negli Stati Uniti, il Dumbar-

ton Oaks Center for Byzantine Studies e il Department of Art and

Archaeology della Princeton University: “in ogni paese ci si occupa

di arte bizantina piu che in Italia”13

. L’attenzione del primo reso-

PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

Classe di Lettere e Filosofia, 1-2 [1954]), pp. 13-32. Su Bisanzio e la pittura romagnola

Bettini aveva letto un intervento dal titolo “Il rinnovamento dell’iconografia bizantina nel

suo ultimo periodo, anche per influenza della pittura romagnola” alla Decade Bizantina di

Ravenna, 27 aprile – 8 maggio 1937: A. A. Bernardy, “Studi bizantini a Ravenna nei Corsi

dell’Istituto Interuniversitario Italiano dal 1932 al 1937”, in Atti del V Congresso Internazio-

nale di Studi Bizantini, p. 21.14

Atti del Primo Convegno Internazionale per le arti figurative, Firenze, Studio Italiano di

Storia dell’Arte, Palazzo Strozzi, 20-26 giugno 1948 (Firenze, 1948), che contengono, fra

gli altri contributi: C. Savonuzzi, “Roberto Longhi critico d’arte”, pp. 25-29; P. Meller,

“Iconologia e critica d’arte”, pp. 29-32; W. Weidle, “Critique d’art et histoire de l’art”, pp.

conto, invece, era andata in buona parte a ribattere il “Giudizio” di

Longhi e quello di Pasquali; Bettini sembra comunque molto timo-

roso, a differenza di Salvini, ad attaccare Longhi:

“Qualche esagerazione [nel giudicare l’arte bizantina similarte] nonmanca in queste parole: se dovessimo prenderle alla lettera, dovremmoconcludere che la civilta bizantina non ebbe addirittura arte (come delresto, dicesi, non ebbe vera poesia). (...)Il prof. Longhi declassa quest’opera famosa [scilicet: i mosaici di SanSalvatore in Chora] a favore d’una tavola con una crocefissione deri-vata dai giotteschi romagnoli [scilicet: il Cristo e San Francesco dellacollezione privata fiorentina], forse per il tramite di maestro PaoloVeneziano: opera la cui provincialita e occidentalita, probabilmentedalmatica, e attestata se non altro dalla scritta in caratteri cirilliani (chetradisce quindi l’ambiente slavo) ancora in buona parte leggibile sulbraccio trasversale della croce.”.

Bettini, che si era occupato molti anni prima degli influssi roma-

gnoli sull’arte bizantina, invita cortesemente Longhi a fare un viaggio

a San Salvatore in Chora per vedere la bellezza di quei mosaici. Poi

una sviolinata inaspettata verso Longhi: la sua critica e geniale ed

esemplare per gli studiosi della generazione di Bettini, che prosegue

ricordando gli studiosi che non si sono lasciati offuscare ne dai miti

di Strzygowski, ne da quello “russo-princetoniano” (sic!) ed attac-

cando Duthuit, il fine delle cui pubblicazioni sull’arte orientale

sarebbe rivalutare l’aspetto economico della sua collezione di opere

copte (un argomento che Bettini avrebbe fatto meglio a lasciar

perdere). Bettini e il solo bizantinista a dedicare tanta benevola

attenzione alla critica di Longhi, non certamente, comunque, il solo

storico dell’arte: al Primo Convegno Internazionale per le Arti Figu-

rative tenuto a Firenze nel 1948 con organizzazione di Ragghianti,

dove fu reso omaggio all’opera di Berenson, due sezioni furono

dedicate a problemi di estetica e metodologia e Longhi emerse in

esse come il critico piu di grido del momento14

.

IL RIASSETTO DOPO IL CONFLITTO

32-34; G. Nicco Fasola, “Precisazione sulla critica d’arte attuale”, pp. 40-43; M. L.

Gengaro, “Metodo per una storia dell’arte”, pp. 45-48. Su Longhi vedi anche O. Morisani,

“Gli studi di storia dell’arte in Italia”, in Universita degli Studi di Pisa, Istituto di Storia

dell’Arte Medievale e Moderna, Atti del Seminario di Storia dell’Arte, Pisa – Viareggio, 1-15

luglio 1953 (Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia 1-2

[1954]), pp. 82-85; e, piu in generale, su Longhi e la questione del Duecento italiano: P. J.

Nordhagen, “Roberto Longhi (1890-1970) and His Method”, Konsthistorisk Tidsckrift 68/2

(1999), pp. 99-116; id., “Byzantium and the Duecento: Remarks on a Story with No End”,

in Kairos. Studies in Art History and Literature in Honour of Professor Gunilla Ükerstrom-

Hougen, a cura di E. Piltz e P. Üstrom (Jousered, 1998), pp. 66-77; una valutazione

distaccata sul “Giudizio sul Duecento” e in G. Castelnuovo, “Mille vie della pittura

italiana”, in La pittura in Italia. Il Duecento e il Trecento, a cura di E. C. (Milano, 1986), vol.

1, pp. 8-9.15

G. Contini, “Sul metodo di Roberto Longhi”, Belfagor 4 (1949), pp. 205-210, citazioni

da pp. 205-206 e 207; vedi inoltre: Roberto Longhi. Discorso commemorativo pronunciato dal

Linceo Gianfranco Contini nella Seduta ordinaria del 13 gennaio 1973 (Roma, 1973).

c. Contini e Garrison su Longhi

A parte la confusione generata da Salvini che attacco Longhi e lodo

Bettini e da Bettini che lodo Longhi, due altre recensioni al “Giudi-

zio” vanno riferite: quella di Gianfranco Contini del 1949, che fu la

piu acuta e apologetica, e quella di Edward B. Garrison, che fu la piu

aspra. Contini elenco quattro punti del “Giudizio” che avevano

sconvolto teorie precedenti:

- “il blocco della pittura bizantina, almeno consecutiva alla di-

sputa iconoclastica, sottratto alla poesia e devoluto alla non-poesia”;

- “le infrazioni italiane alla giurisdizione costantinopolitana ricon-

dotte a cultura antica”;

- l’antitesi Firenze – Siena con Duccio derivato da Cimabue;

- “l’ipostasi di Siena (cioe proprio della Bisanzio in partibus)”

radicalmente eliminata “con la soggezione dei suoi inizi al fiorentino,

prigioniero di Montaperti, Coppo di Marcovaldo”.

Posizioni rivoluzionarie nei confronti del “corredo di erudizione

che si allestisce nei ginnası”. Alla domanda perche Longhi non

capisca l’arte bizantina, Contini trovo la risposta piu calzante nel

metodo stesso di Longhi, crociano, che e inapplicabile all’arte bizan-

tina:

“Se Longhi repelle la cultura bizantina non sara perche non le puoapplicare (e nessuno potrebbe) quella misurazione serrata dello «spa-zio» storico che durante tutta la sua carriera provoca i leggendarigiudizı del tipo: questa e cultura del 1280, o del 1520, o del 1610? Larisposta potra essere solo affermativa, sulla giustificazione che quellacultura si pone fuori della storia.”

15.

PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

16E. B. Garrison, Italian Romanesque Panel Painting. An Illustrated Index (Firenze, 1949);

il testo originale della prefazione dice (p. 1):

“The present Illustrated Index of Italian Romanesque Panel Painting has been compiled

with the conviction that, at our present stage of knowledge, progress toward a correct

history of painting in Italy will best be served through concentration upon the elementary

problems of attribution and dating (. ..). The spate of attribution, historical inductions and

aesthetic judgement has been unending. But it is obvious that many of the attributions have

been mere play with the scarse material, and that many of the inductions have been, from

the very standpoint of logic, weak, since the instances from which they derived have been so

few. And to attempt an aesthetic evaluation of a painter without knowing precisely which

painting are his is a patent inanity.”.

Longhi aveva posto in dubbio la validita degli studi iconografici,

cioe sul contenuto, come metodo di indagine sulle opere d’arte, alla

pari degli studi sullo stile, cioe sulla forma. Garrison, verso i cui studi

era indirizzata l’espressione “tabelle di concordanza” del “Giudizio”,

fu ben deciso nel collegare le chiusure metodologiche di Longhi al

nazionalismo fascista. Scolaro di Richard Offner e un ammiratore di

Toesca, Garrison stava allora lavorando a Italian Romanesque Panel

Painting, uscito nel 1949, un inventario di 705 dipinti romanici

formato da succinte schede, con una essenziale proposta di datazione

senza discussione critica, ciascuna delle quali corredata di una foto-

grafia di pochi centimetri quadrati di dimensione, certamente utile ai

fini della catalogazione completa propostasi da Garrison, ma inutiliz-

zabile ai fini di una lettura formale delle opere presentate. L’ondata

di piena delle attribuzioni, delle induzioni storiche, che dall’analisi di

una singola opera risalivano a giudizi generali, e dei giudizi estetici

era stata senza fine; e chiaro, premette Garrison al suo libro, che

molte delle attribuzioni erano state un mero giocare con lo scarso

materiale disponibile; e tentare una valutazione estetica di un pittore

senza conoscere precisamente quali pitture siano sue e patente inani-

ta16

. Pochi anni piu tardi, attaccando Longhi in “The Role of Criti-

cism in the Historiography of Painting” uscito nel 1950-1951, Garri-

son sostenne che il danno maggiore alla critica storica era stato fatto

dalla critica idealistica: Croce vuole determinare se un oggetto A e

un’opera d’arte, se ha valore estetico lo e, se no, non lo e; Longhi

attacca il filologismo in maniera crociana; entrambi dimenticano

fatica e risultati degli studi filologici (come quelli del suo maestro

Offner ed i suoi). Conseguenza di quell’approccio idealistico sono

l’inconsistenza, gli sbagli clamorosi e le attribuzioni cosı cattive (“so

bad”) fatti su Cimabue e altri artisti dalla critica italiana e soprattutto

da Longhi, il piu volatile di tutti, il quale, dopo aver sparato contro i

IL RIASSETTO DOPO IL CONFLITTO

17E. B. Garrison, “The Role of Criticism in the Historiography of Painting”, College Art

Journal 10 (1950-1951), pp. 110-120, citazioni da pp. 110, 112 nota 15, 115, 117, 119.

collezionisti miliardari, con le sue attribuzioni di opere mediocri

rende loro oggettivamente un servizio:

“This inconsistency is not alone in this most volatile of all writers.After railing against the «collezionisti miliardari», he proceeds by hisexaltory attributions of several mediocre works to render the mostobject servitude to them.”.

I critici alla Longhi debbono rifarsi necessariamente ai lavori dei

filologi. Le esortazioni di Croce a considerare l’artista, ma a non

perdere tempo in attribuzioni, hanno condotto i critici idealisti a

scrivere contro pittori dei quali hanno solo una vaga idea di quali

opere siano effettivamente da attribuire loro. Tutta questa scuola di

critica idealistica e oggi in stato caotico: il concetto di pura esteticita

di Croce e vuoto di contenuto come quello di dovere morale di

Kant; e mera espressione di gusti personali. I bizzarri, personali

criteri di giudizio applicati da Longhi nella sua diatriba contro il

Duecento ne sono esempio eccellente. Poi, Garrison punto il dito

sulle collusioni di Longhi con il fascismo: il “Giudizio” va inteso

riferendolo al razzismo autarchico-idealista che prevaleva in politica

nel 1939, l’anno nel quale fu scritto; esso prova che anche nella

critica d’arte era penetrato qualcosa di razzistico; dato che in questa

critica, nonostante Longhi protesti esplicitamente il contrario, la

principale obiezione all’arte bizantina e proprio il suo bizantinismo,

al quale Longhi da gli epiteti piu scurrili:

“It attests that something similar had penetrated even unto the sanctaof art history, for its chief critical objection to Byzantine artisticexpression in Italy is, I believe, in spite of his explicit protest to thecontrary, its very Byzantinism, to which he affixes all manner ofscurrilous epithets.”.

Cosı, Longhi aveva trionfato in Italia grazie alla capacita di

incantare propria dei suoi scritti (“the genius and eloquence of the

judge may enchant us”); la critica di Longhi prefigura una “Dark

Age”, e una triste testimonianza delle qualita della storia e della

critica dei nostri tempi17

.

Punto sul vivo, Longhi dette a Garrison una acida e risentita

PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

18R. Longhi, “Prima Cimabue, poi Duccio”, Paragone 2, n 23 (novembre 1951), pp.

8-13, citazioni da pp. 11-12.

risposta, quasi immediata, in “Prima Cimabue, poi Duccio” del

1951:

“[Garrison] nega al mio metodo, perche (a sua detta) crociano eidealistico, la facolta di raggiungere risultati effettivi di «storia descrit-tiva» (...); (...) da parte mia, non neghero mai che anche con quel suo‘metodo del sagomaio’ non possano ritrovarsi nuovi maestri o almenonuovi artigiani del peso di un pittore di Montajone o di quello diCastellare. Ad ognuno i suoi.”.

E spiega come allusione politica al presente il suo attacco a

Bisanzio nel “Giudizio”: l’arte bizantina, cioe, come paradigma anti-

mussoliniano di un’arte che si lascia asservire a un regime totalitario:

“Ma, ripeto, non e per tanto poco che occorre far cenno di codestostoriografo ‘descrittivo’. Egli merita ben altra citazione per un diversopunto del suo saggio, quello dove intende spiegare agli americani ilsignificato, per nessuno incondito, della mia cosiddetta ‘stroncatura’dell’arte bizantina tarda. Qualcuno forse ha in mente che quel mioattacco recava un giudizio, inevitablmente anche etico-politico sul casostoricamente piu illustre di un’arte che si lascia vessare e totalmenteasservire dai dettami di un regime totalitario, cosı da ridursi in breve amero automatismo tecnico. (...)Che dire? la mia difesa di un’arte che sappia conquistarsi e conservarsiil margine necessario di liberta creativa, la mia esaltazione, pertanto,della grande cultura d’occidente in confronto al ‘polmone meccanico’del tardo artigianato orientale, e, nello stesso tempo, il riconoscimentoche i maggiori dugentisti italiani amarono semmai di rifarsi diretta-mente dai tempi in cui l’oriente artistico era stato di lievito anche perRoma, diviene, poco manca, l’espressione di un mio odio personalecontro le razze del Mediterraneo orientale. E perche non addiritturaun parallelo fiancheggiante dell’impresa di Mussolini contro la Grecia.Ora, e pur vero, noi contiamo in Italia, nel nostro campo di studı, sutaluni ipocriti, parecchi sopraccio, molti sufficienti, o sgonfiori, odulcamara, o venditori di fumo, ecc.; ma, neppure fra di essi, ci e maiavvenuto di dover scansare un simile spurgo di luridume morale. E ciconforta, almeno, che non si tratti di un esempio italiano.”

18.

Longhi giustifico cosı i suoi giudizi antibizantini e rivelo accenti

critici verso il regime contenuti nei suoi scritti, dei quali, comunque,

ne Toesca ne altri oppositori del regime si erano accorti. Anche in

IL RIASSETTO DOPO IL CONFLITTO

19R. Longhi, “Le arti”, in Romanita e Germanesimo, pp. 209-239; “Omaggio a Benedetto

Croce”, Paragone 3, n 35 (novembre 1952), pp. 3-9, specialmente p. 5, dove Longhi

afferma di aver respinto “tutti i conati di estetiche a fondamento climaterico, ambientale e,

soprattutto, razzistico (si noti che cio avveniva in un volume quasi ufficioso di fiancheggia-

mento dell’‘Asse’)” L. Venturi, “Gli studi di storia dell’arte medievale e moderna”, in

Cinquant’anni di vita intellettuale italiana 1896-1946. Scritti in onore di Benedetto Croce per il

suo ottantesimo anniversario, a cura di C. Antoni e R. Mattioli (Napoli, 1950), vol. 2, pp.

175-189.20

R. Longhi, “Omaggio a Pietro Toesca” e “Un ignoto corrispondente del Lanzi sulla

Galleria di Pommersfelden”, Proporzioni 3 (1950), pp. v-ix e 216-230 rispettivamente; G.

Matthiae, “Tradizione e reazione nei mosaici romani dei secc. VI e VII”, pp. 10-15; E.

Kitzinger, “On the Portrait of Roger II in the Martorana in Palermo”, pp. 30-35.21

Longhi, “Omaggio a Pietro Toesca” citazione da p. IX.

“Omaggio a Benedetto Croce”, uscito l’anno seguente (1952) su

Paragone, Longhi vanto la critica verso l’ideologia fascista, scoppiata

soprattutto dopo le leggi razziali, che era contenuta nel suo saggio

pubblicato in Romanita e Germanesimo e cito come testimone a suo

favore proprio Croce, che questa critica avrebbe recepito e apprezza-

to19

. Longhi, comunque, cerco il riavvicinamento sia a Toesca, per

primo (a lui dedico, oltre al “Giudizio”, l’intero terzo volume del

1950 di Proporzioni, una delle riviste dirette da Longhi, per l’occa-

sione del ritiro di Toesca dall’insegnamento e per i cinquant’anni dal

suo primo scritto pubblicato a stampa), sia, piu tardi, a Berenson,

con la mediazione di Toesca, sia infine a Croce, dopo la morte, con

l’“Omaggio” del 1952. Agli scritti per Croce, del 1950, era stato

pero invitato a contribuire, come storico dell’arte, Lionello Venturi e

non Longhi. In Proporzioni Longhi raccolse una trentina di saggi per

Toesca, tra gli autori dei quali, oltre che lui stesso, compaiono

medievalisti (Gugliemo Matthiae), bizantinisti (Kitzinger) e storici

dell’arte rinascimentale e moderna20

. Nell’introduzione di omaggio al

maestro, Longhi rimarco l’atteggiamento di Toesca di tranquilla di-

gnita, mai di acquiescenza verso il fascismo:

“E, perche si parla qui di anni difficili, non e da tacere che al Suosentire schiettamente italiano, perche inteso in accezione altamenteculturale e non di vano nazionalismo, fu sempre congiunto un atteg-giamento di tranquilla dignita, mai di acquiescenza. Piace cosı ricor-dare, fra i tanti casi, che si deve alle Sue dichiarazioni autorevolissimese pote frustrarsi il desiderio «fascistico» di spedire all’estero la «Pieta»palestrinese di Michelangelo, oggi a Firenze.Questo, in breve, l’uomo, il conoscitore e lo storico al quale, dopo iltermine della Sua lunga attivita d’insegnante, e a cinquant’anni precisidal Suo primo scritto a stampa, si rende omaggio con questo volu-me.”

21.

PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

22I brani di Toesca riportati sono da tre lettere a Berenson, datate 8 aprile 1946, 26

settembre 1949 e 26 novembre 1949, conservate nella Biblioteca Berenson, Villa I Tatti,

Settignano (Firenze).

Toesca aveva scritto a Berenson: i giovani vogliono seppellire gli

anziani loro maestri, salvo qualche resipiscenza quando invecchiano

anche loro; “cosı e avvenuto a me, giorni fa, quando ho ricevuto una

affettuosissima lettera da Roberto Longhi (ma perche? e c’e da

fidarsene?)”. Toesca perdono Longhi ed invito Berenson a un riavvi-

cinamento:

“Di quest’ultimo [scilicet: Longhi] io non Le scrissi mai, sapendo chel’argomento Le era molesto; ma intanto anche per Longhi gli annisono passati e alla acerbita ha fatto seguito – mi sembra – una certaequanimita: e a me egli si e riaccostato, e io molte cose ingrate gli hoperdonato.”“Ne ella si meravigli della mia parzialita per il Longhi. Gli anni sonopassati, e molti: anche il Longhi ha perduto la sua acerbita; dopo moltiscrezi e dispetti, si e riavvicinato anche a me; ne io posso dimenticareche lo ebbi primo tra i miei studenti. E a questo proposito, perche nonsi dovrebbe ora, il Longhi, riavvicinare anche a B. B.? So ch’egli, puravendone colpa, non sa darsi ragione delle relazioni punto cordiali incui si trova con Lei: ed io mi auguro ch’egli trovi modo di riavvicinarsianche a Lei.”

22.

Anche se la valutazione data nel “Giudizio” su Bisanzio risulto

opposta a quella data da Toesca, a dispetto dei tentativi che scolari

di Longhi fecero poi per smussare i contrasti, quel testo costituı il piu

incisivo ed influente scritto di uno studioso italiano sull’arte del

Duecento e sull’arte bizantina di quegli anni e fu preso come deca-

logo dagli scolari di Longhi e da altri studiosi che a lui si avvicina-

rono. Ferdinando Bologna, in La pittura italiana delle origini del 1962,

demolı con espressioni longhiane l’apprezzamento per i primitivi di

Lionello Venturi, unico critico italiano che Bologna si dilunga a

screditare, e la “filologia descrittiva” di Garrison:

“Abbiamo avuto cosı, recentemente, da un lato un «corpus» di pitturemedievali italiane, quello del Garrison, che e a suo modo un «master-piece» di filologia distaccatamente descrittiva, un capolavoro di indiffe-renza per altro che non sia pura classificazione sulla scia dell’insegna-mento di Richard Offner; dall’altro, invece, un puro elogio mistico,quello di Lionello Venturi, che, mosso dal folle amore per un principiopoco circostanziato, anzi addirittura astratto, di partecipazione inte-

IL RIASSETTO DOPO IL CONFLITTO

23F. Bologna, La pittura italiana delle origini (Roma, 1962), citazioni da pp. 6-7, 55-56.

24C. Brandi, Duccio (Firenze, 1951), citazione da p. 7. C. Volpe, “Preistoria di Duccio”,

Paragone 5, n 49 (gennaio 1954), pp. 4-22, citazione da p. 8.

grale all’ora corrente, ha finito col rifugiarsi in un esoterismo ambiguoe profondamente antistorico, di vecchia marca ruskiniana.”.

Vide poi la luce il “Giudizio sul Duecento”, che fece giustizia di

questi errori metodologici. Piu volte Bologna trova il modo di rivol-

gere elogi a Toesca. De Francovich e invece introdotto da Bologna

per le intuizioni sul presunto monopolio siriaco sull’arte medievale:

Bologna fa cosı risalire a influssi siriaci quanto di espressionistico

incontra nell’arte dell’Occidente, come gli affreschi di Santa Sofia a

Benevento o di San Vincenzo al Volturno. Viceversa, ripetendo

Longhi, Bologna dichiara la sua fede sulla nullita del valore dell’arte

bizantina posticonoclastica, coniando per essa espressioni senza spes-

sore: “intima sterilita”, “aulicita vuota e formalmente rituale”, “arti-

ficiale disumanizzazione che caratterizza si puo dire per intero la

produzionedi questa particolare orbita della civilta medievale”.

Come era nelle premesse – ed il lettore non avrebbe certamente

dubitato –:

“la posizione piu feconda e certamente quella assunta ripetutamenteda Longhi tra il 1937 e il 1947.”

23.

Sul fascicolo Arte del 1954 di Paragone, la rivista diretta da

Longhi, Carlo Volpe nego poi il “retroterra comune” di natura

bizantina di Cimabue e Duccio. Al contrario, Cesare Brandi, che

non aveva da accattivarsi Longhi, echeggiando la definizione di

Berenson “fino all’anno 1200 la pittura in tutta Europa fu costanti-

nopolitana”, comincio la sua monografia su Duccio del 1951 dichia-

rando che “fino a tutta la meta del Duecento la pittura in Europa fu

pittura bizantina”24

.

d. Bianchi Bandinelli ed i Princetoniani

Giuseppe Bovini sulla Rivista di archeologia cristiana del 1947-1948 e

Cecchelli su Doxa del 1951 recensirono Illustrations in Roll and Codex,

un libro di metodologia sulla illustrazione dei testi nell’antichita e nel

medioevo, scritto da Weitzmann, lo studioso tedesco che durante il

PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

25K. Weitzmann, Illustrations in Roll and Codex. A Study of the Origin and Method of Text

Illustration (Princeton, N.J., 1947). G. Bovini, Recensione a Kurt Weitzmann, Illustrations in

Roll and Codex. A Study of the Origin and Method of Text Illustration (Princeton, N.J.:

Princeton University Press, 1947), Rivista di Archeologia Cristiana 23-24 (1947-1948), pp.

389-392. C. Cecchelli, “Archeologia ed arte cristiana dell’antichita e dell’alto medioevo”,

Doxa 4 (1951), pp. 5-10. La discussione su Weitzmann e Bianchi Bandinelli in questo

paragrafo ricalca quanto da me gia scritto nella “Introduzione al testo” in K. Weitzmann,

Le illustrazioni nei rotoli e nei codici. Studio della origine e del metodo della illustrazione dei testi

(Scritti di Kurt Weitzmann, 1: Illustrations in Roll and Codex. A Study of the Origin and Method

of Text Illustration), a cura di M. B. (Firenze, 1983), pp. i-xlii. Su Bianchi Bandinelli vedi

Ranuccio Bianchi Bandinelli e il suo mondo, [Roma] Universita degli Studi “La Sapienza”,

Museo dell’Arte Classica, 5 dicembre 2000 – 20 febbraio 2001, catalogo della mostra, a

cura di M. Barbanera (Bari, 2000).26

Su questi punti, vedi M. Bernabo, “Lo studio dell’illustrazione dei manoscritti greci del

Vecchio Testamento ca. 1820-1990”, Medioevo e Rinascimento 9, n. s. 6 (1995), pp. 278

sgg.27

In particolare, Cecchelli non accetto la ricostruzione dell’aspetto dell’archetipo della

Genesi di Vienna proposta da Weitzmann, introdusse una classificazione di schemi illustra-

nazismo si era rifugiato a Princeton su invito di Morey25

. La metodo-

logia del libro di Weitzmann, riconosciuto come la base per gli studi

di storia dell’illustrazione dei testi medievali, bizantini e occidentali,

codificava la tradizione dell’archeologia e della filologia germaniche a

cavallo del 1900 e l’enorme lavoro sulla nascita e sviluppo della

illustrazione cristiana che veniva svolto a Princeton da Morey, Friend

Jr e lo stesso Weitzmann per il Corpus of the Illustrations in the

Manuscripts of the Septuagint, varato negli anni Venti, e per l’Index

of Christian Art, fondato nel 191726

. Bovini riassunse il libro di

Weitzmann sottolineando come il lavoro fosse “una indagine sui vari

metodi e principi che possa permettere in seguito di scrivere una

storia sistematica della miniatura”; in realta, Bovini non concepiva il

lavoro di Weitzmann, che aveva gia dedicato e dedichera in seguito

gran parte dei suoi oltre sessanta anni di ricerca alla miniatura, come

una storia sistematica della miniatura, dato che la sua era una storia

iconografica e non stilistica. Cecchelli sollevo riserve sulla “costru-

zione dottissima e ammirevole” di Weitzmann e in particolare sulla

sua ricostruzione della storia della illustrazione dei testi; l’arte cri-

stiana non e un “mediocre ricalco dell’arte classica” – idea che

Cecchelli attribuisce erroneamente a Weitzmann –, “ma veramente

una creazione che si avvale di parecchie scaturigini” – cioe, per

Cecchelli, ellenismo, romanita, Oriente – “per esprimere una idea

nuova. E c’e un segno distintivo assolutamente suo di cui gli storici

dell’arte non si sono mai accorti: la composizione di due storie

umane, quella del popolo ebraico e quella del popolo nuovo uscito

dalle acque del Battesimo”27

.

IL RIASSETTO DOPO IL CONFLITTO

tivi per i dipinti della sinagoga di Dura Europos e infine anche una classificazione – di

scarso spessore – delle illustrazioni di rotoli e codici suddividendole in decorazioni episodi-

che marginali, decorazioni episodiche centrali, narrazioni continue, composizioni di piu

episodi in uno o due ordini sovrapposti, grandi scene di soggetto unico.28

R. Bianchi Bandinelli, “Schemi iconografici della miniature dell’Iliade Ambrosiana”,

Atti della Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di Scienze morali, storiche e filologiche.

Rendiconti, ser. 8, 6 (1951), pp. 421-453; “Continuita ellenistica nella pittura di eta medio-

e tardo-romana”, Rivista dell’Istituto Nazionale d’Archeologia e Storia dell’Arte, n. s., 2 (1953),

pp. 77-161; “Recensione e ricostruzione del codice dell’Iliade Ambrosiana”, Atti della

Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di Scienze morali, storiche e filologiche. Rendiconti, ser. 8,

8 (1953), pp. 466-484; Hellenistic-Byzantine Miniatures of the Iliad (Ilias Ambrosiana) (Olten,

1955).29

La lettera e conservata nella Biblioteca Berenson, Villa I Tatti, Settignano (Firenze).

Diverso fu l’atteggiamento di alcuni archeologi e soprattutto di

Bianchi Bandinelli verso gli studi di Weitzmann e del gruppo di

Princeton. Il confronto tra gli approcci metodologici dei due studiosi

avvenne sulle miniature dell’Iliade Ambrosiana, le malridotte pitture

sui fogli superstiti del codice F. 205 inf. della Biblioteca Ambrosiana

di Milano. Nel 1955 Bianchi Bandinelli pubblico Hellenistic-

Byzantine Miniatures of the Iliad (Ilias Ambrosiana). Il libro era stato

preceduto dalla pubblicazione del facsimile dell’Iliade Ambrosiana

nel 1953 e da tre saggi in italiano di Bianchi Bandinelli che, in

versione inglese, costituirono altrettante sezioni del libro del 1955,

cioe “Schemi iconografici della miniature dell’Iliade Ambrosiana”

(1951), “Continuita ellenistica nella pittura di eta medio- e tardo-

romana” (1953) , “Recensione e ricostruzione del codice dell’Iliade

Ambrosiana” (1953)28

. Scrivendo il 21 gennaio 1955 a Berenson,

Toesca giudico “interessante” il lavoro di Bianchi Bandinelli sull’I-

liade Ambrosiana – Bianchi Bandinelli era uno dei pochi studiosi

stimati da Toesca per la sua serieta e capacita – e commento:

“Sembra che, mutato il momento politico, ora la pittura ‘romana’ vadaritornando ‘ellenistico-romana’ come diceva il nostro povero G. E.Rizzo. Ma bisognera attendere ancora.”

29.

Toesca, d’altra parte, si era gia espresso, quanto alla storia della

illustrazione dei testi, alla copiatura dei cicli miniati da un modello a

una nuova edizione e a metodologia di studio, a favore di un

approccio simile a quello dei princetoniani (o degli archeologi e

storici dell’arte medievale di formazione germanica) nella voce “Ico-

nografia” dell’Enciclopedia Italiana e ne Il Medioevo:

PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

30Toesca, Il Medioevo, p. 297.

31R. Bianchi Bandinelli, “Virgilio Vaticano 3225 e Iliade Ambrosiana”, Nederlands

Kunsthistorisch Jaarboek 5 (1954), pp. 225-240; “Discussione sull’Iliade Ambrosiana”, in

Seminario di Archeologia e Storia dell’Arte Greca e Romana dell’Universita di Roma, Studi

miscellanei, 1 (Roma, 1961), pp. 1-9; “Conclusioni sull’origine e la composizione dell’Iliade

Ambrosiana”, Dialoghi di archeologia 7 (1973), pp. 86-96. K. Weitzmann, Recensione a R.

Bianchi Bandinelli, Hellenistic-Byzantine Miniatures of the Iliad (Ilias Ambrosiana), Olten: Urs

Graf-Verlag, 1955”, Gnomon 29 (1957), pp. 606-616. C. Bertelli e V. Bartoletti, Recen-

sione a R. Bianchi Bandinelli, Hellenistic-Byzantine Miniatures of the Iliad (Ilias Ambrosiana),

Olten-Lausanne, Urs Graf-Verlag, 1951, La parola del passato 12 (1957), pp. 459-474

(Bertelli, pp. 459-472; Bartoletti, pp. 472-474).

“(...) sebbene finora non sia noto alcun libro miniato, classico, cherisalga oltre il secolo IV d.C., e da credere che in molti codici piurecenti le miniature ripetono quelle di esemplari ellenistici: poichementre i calligrafi trascrivevano da codici antichi i testi classici, eraovvio che i miniatori esemplassero sulle miniature di quelli le loroillustrazioni, seguendo il procedimento di ripetizione di tipi iconogra-fici, comune ad ogni periodo dell’arte, normale nell’eta classica. Anzi,le miniature di alcuni testi classici persino nel Medioevo inoltratoripeterono quelle di codici di eta assai remota, quantunque con altera-zioni, cagionate dal divario dello stile o anche di false interpretazionidei particolari dei loro modelli.”

30.

Valutazioni che potrebbero figurare in scritti di Weitzmann. Di

Bianchi Bandinelli, oltre agli articoli poi tradotti in inglese come

capitoli del libro sull’Iliade Ambrosiana, apparvero un articolo su

Iliade Ambrosiana e Virgilio Vaticano (cod. Vat lat. 3225), “Discus-

sione sull’Iliade Ambrosiana”(1961) e “Conclusioni sull’origine e la

composizione dell’Iliade Ambrosiana” (1973). Nel 1957 Weitzmann e

Carlo Bertelli pubblicarono le loro recensioni a Hellenistic-Byzantine

Miniatures of the Iliad31

.

In precedenza Bianchi Bandinelli si era occupato degli ultimi

secoli dell’arte romana, ma a spingerlo verso l’illustrazione dei testi e

in particolare verso problemi metodologici dell’origine e la trasmis-

sione dei cicli illustrativi dei testi dovette essere stato quasi certa-

mente l’incontro con i princetoniani Morey e Teodoro (Doro) Levi.

Le metodologie sbarcate in Italia dopo la liberazione dovettero appa-

rirgli come uno strumento di emancipazione da Croce, del quale

Bianchi Bandinelli riconobbe il ruolo di faro morale negli anni del

fascismo, ma del quale nello stesso tempo capı anche la apparte-

nenza al passato:

“L’unica luce che in questi anni ha sorretto e guidato gli intellettualiitaliani, e specialmente i cultori di scienze morali, non e partita

IL RIASSETTO DOPO IL CONFLITTO

32Il riconoscimento di Bianchi Bandinelli a Croce, ben noto, apparve in “A che serve la

storia dell’arte antica?”, la prolusione tenuta nel riassumere la cattedra di Archeologia e

Storia dell’Arte Antica all’Universita di Firenze, il 13 novembre 1944, e poi pubblicata su

Societa 1, nn 1-2, (gennaio-giugno 1945), p. 11.33

C. R. Morey, “Il Rinascimento bizantino”, in Atti del Primo Convegno Internazionale per

le arti figurative, pp. 90-100. D. Levi, Antioch Mosaics Pavements (Princeton, N.J., 1947).

dall’Universita: e stata quella della parola e del pensiero di BenedettoCroce. Noi tutti gli siano debitori, se non abbiamo disperato e se nonabbiamo abbandonato il nostro posto: questo debito non possiamodimenticarlo. Ma anche quello del Croce e stato, in certo modo e pernecessita di circostanza, un monopolio, un assolutismo intellettuale.Oggi che siamo usciti da quel carcere, nel quale la sua era la sola luceche polarizzava i nostri sguardi, essa ci e apparsa meno intensa, menoviva. Noi la vediamo ancora brillare nel fondo dell’oscurita dalla qualeuscimmo; ma intorno a noi la vita e il sole son tornati a fremere conrinnovata potenza e il grande vecchio non sta piu dinanzi a noi comeuna meta o un faro. Se lo scorgiamo ancora, con uno sguardo diaffetto, e quando ci rivolgiamo indietro.”

32.

Morey aveva riassunto la sua interpretazione delle origini del-

l’arte bizantina, della continuita dell’arte ellenistica in essa e della

Rinascenza Macedone in un intervento al Convegno Internazionale

per le Arti Figurative di Firenze del 1948. Levi, dopo l’esonero dalla

cattedra di Archeologia e Storia dell’Arte Classica a Cagliari in

seguito al decreto di proscrizione razziale di Bottai, era stato fatto

venire su raccomandazione di Morey all’Institute for Advanced

Study di Princeton, come era avvenuto con lo stesso Weitzmann, ed

era stato poi invitato da Morey a scrivere uno studio generale sui

mosaici portati alla luce ad Antiochia negli anni Trenta, che apparve

nel 194733

.

Come anticipato sopra, Morey aveva raccolto a Princeton, in-

sieme a Weitzmann e Friend Jr, una vastissima collezione di mate-

riale fotografico sui manoscritti bizantini e sull’arte cristiana fino

all’anno 1400. A differenza delle raccolte fotografiche d’arte in Italia

basate sulla storia stilistica, arrangiate cioe per periodi, scuole e

singoli artisti, l’Index di Morey, che nel 1942 possedeva circa 50.000

fotografie, per le quali erano state redatte 261.000 schede, e un

catalogo iconografico, arrangiato secondo il soggetto dell’opera

d’arte, che segue come ordine, dove possibile, la successione degli

eventi come narrati nei libri biblici, indipendentemente da luogo,

data e materiale di esecuzione. Il Corpus of the Illustrations in the

Manuscript of the Septuagint, l’altro progetto di Morey sui mano-

PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

34Le notizie sull’Index si trovano in H. Woodruff, The Index of Christian Art, con una

prefazione di C. R. Morey (Princeton, 1942). L’attivita di Morey e in generale la fortuna di

Bisanzio negli Stati Uniti furono discussi da Weitzmann nel 1947 in “Byzantine Art and

Scholarship in America”.35

Vedi, ad esempio, Cinquanta monumenti italiani danneggiati dalla guerra.

scritti, era una serie di volumi che voleva fornire un repertorio

iconografico dalle illustrazioni nei manoscritti biblici (nell’idea origi-

naria doveva avere per oggetto sia i manoscritti dell’Antico Testa-

mento sia quelli del Nuovo Testamento, greci e latini), anche questo

non basato su criteri di raggruppamento per stile in periodi o scuole;

ciascuno dei volumi previsti doveva fornire la riproduzione completa

di un libro o gruppo di libri biblici: Genesi, Ottateuco, Libri Storici,

Salmi e Odi, Profeti, Giobbe e Libri Sapienzali34

.

A dispetto delle opposte ideologie (l’uno funzionario d’amba-

sciata americano, l’altro dirigente comunista), ci furono tra Morey e

Bianchi Bandinelli grande stima e collaborazione. Bianchi Bandinelli

celebro l’attivita in Italia e le ricerche di Morey nel necrologio dopo

la morte avvenuta nel 1955. Finita la guerra, Bianchi Bandinelli fu

nominato Direttore Generale delle Antichita e Belle Arti ed ebbe cosı

piu occasioni di lavorare con Morey che era presidente del Comitato

Americano per il Restauro dei Monumenti Italiani35

Morey, inoltre,

aveva ricoperto per sette anni la carica di addetto culturale presso

l’ambasciata statunitense in una situazione, scrive Bianchi Bandinelli

nel necrologio,

“per la quale occorreva molto tatto, molta umanita ed un sensoequilibrato per giudicare uomini e cose in un paese, l’Italia, sconvoltoda una crisi politica profonda, e che anelava, nella appena riconqui-stata liberta civile ad aggiornare la propria cultura dopo anni diisolamento e di controllo autoritario, ma anche a riprendere unapropria autonoma via di ricerca e di progresso.”.

Morey si era adoperato anche per far riconoscere all’Italia il

diritto di restituzione delle opere d’arte trafugate. Riassumendo il

contributo scientifico di Morey, Bianchi Bandinelli rammento anche

la vicenda del conflitto ideologico del ventennio trascorso imperniato

su Orient oder Rom:

“il suo campo preferito fu l’indagine sul trapasso tra arte ellenistica earte medievale bizantina: un campo nel quale egli ha contribuito asradicare vecchi pregiudizi (come quello che separava in due discipline

IL RIASSETTO DOPO IL CONFLITTO

36R. Bianchi Bandinelli, “Charles Rufus Morey”, in Atti della Accademia Nazionale dei

Lincei. Classe di Scienze morali, storiche e filologiche. Appendice. Necrologi di soci defunti nel

decennio dicembre 1945 – dicembre 1955, fasc. 1 (Roma, 1956), citazioni da pp. 52, 53-54.37

U. Monneret de Villard, Le pitture musulmane al soffitto della Cappella Palatina di

Palermo (Roma, 1950).

distinte l’arte tardoromana pagana e l’arte paleocristiana). (...) La suadivisione in due correnti, neo-attica e alessandrina, dell’arte ellenistico-tardoromana potra apparire troppo schematica e forse i due terminipotranno apparire piuttosto dei simbolici termini tecnici, che delle vereentita storiche. Cio non toglie nulla alla utilita che hanno avuto ehanno tuttora per articolare e condurre innanzi la ricerca in un campocosı pieno di incertezze e cosı tenacemente ostruito da tesi precon-cette, incrostatesi attorno all’antistorica polemica “Oriente o Roma”che non avrebbe dovuto sorgere se il metodo di una concreta indaginestorica fosse stato piu adeguatamente usato dagli studiosi d’arte.”

36.

Alle iniziative menzionate da Bianchi Bandinelli, andrebbe ag-

giunto il supporto a pubblicazioni su soggetti d’arte orientale; fu

Morey che raccolse i fondi, provenienti per lo piu da universita

americane (tra le quali la sua stessa universita di Princeton), per la

monografia di Monneret de Villard su Le pitture musulmane al soffitto

della Cappella Palatina di Palermo, del 1950. Nella prefazione Monne-

ret de Villard lamento la scarsita di sussidi librari per lo studio

dell’archeologia e della storia dell’arte orientale di cui disponevano le

biblioteche italiane; ringraziamenti, oltre a Morey, furono rivolti a

Toesca, presidente dell’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia

dell’Arte, per il patrocinio del lavoro presso l’editore, la Libreria

dello Stato37

.

13

STILE CONTRO ICONOGRAFIA

“In Italia non ho potuto vedere che tali minacce siano

effettivamente evidenti, e quel paese mi sembra meno

nervoso del nostro di fronte alla minaccia comunista

(...). Davvero, riguardo a Croce, e se un significato piu

gioviale potesse essere accordato alla parola ‘minaccia’,

si potrebbe includere lui nei fattori che condizionano e,

in un certo senso, pongono limiti alla produzione di

scritti italiani nel campo della storia dell’arte al tempo

presente.”

C. R. Morey, “Art and the History of Art in Italy”,

1950, pp. 219-220.

Negli anni Trenta e subito dopo la seconda guerra mondiale, una

serie eccezionale di scoperte e restauri di opere d’arte tardoantiche,

bizantine ed altomedievali costrinsero gli storici dell’arte italiani a

misurarsi con l’arte bizantina su nuovi terreni di studio. Tra le opere

entrate nella discussione, la cui presenza divenne poi abituale nei

manuali di storia dell’arte, sono gli affreschi di Castelseprio, i mo-

saici di Antiochia, di Piazza Armerina, di Santa Sofia e del Gran

Palazzo degli imperatori a Costantinopoli, le icone ed i mosaici del

monastero di Santa Caterina al Sinai, i dipinti della sinagoga di Dura

Europos, i piatti d’argento dell’Hermitage: questi ritrovamenti, molti

dei quali, come i mosaici del Gran Palazzo ed i piatti d’argento, sono

opere che mostrano una persistenza dello stile ellenistico ancora

almeno nel VII secolo, distolsero l’attenzione dal problema delle

origini orientali dell’arte bizantina e la trasferirono sulla tradizione

ellenistica nell’arte bizantina e in particolare sul ruolo avuto da

Costantinopoli come centro artistico e come custode della cultura

antica; suscitarono, inoltre, il problema della genesi dell’iconografia

PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

1Alcuni dei ritrovamente qui citati sono discussi piu avanti in questo capitolo; per gli

altri vedi: L. Matzulewitsch, Byzantinische Antike. Studien auf Grund der Silbergefasse der

Ermitage (Archaologische Mitteilungen aus Russischen Sammlungen, 2. Berlin – Leipzig,

1929); i resoconti dei lavori a Santa Sofia di Thomas Whittemore furono pubblicati da

Oxford University Press nel 1933, 1936 e 1942 ( The Mosaics of Haghia Sophia at Istanbul.

First Preliminary Report. The Mosaics of the Nartex; Second Preliminary Report. The Mosaics of

the Southern Vestibule; Third Preliminary Report. The Imperial Portraits of the South Gallery);

per i mosaici del Gran Palazzo: The Great Palace of the Byzantine Emperors, Being a First

Report on Excavations Carried out in Istanbul on Behalf of the Walker Trust (The University of

St. Andrews) 1935-1938 (Oxford – London, 1947); The Great Palace of the Byzantine

Emperors. First Report, a cura di G. Brett, W. S. Macaulay e R. B. K. Stevenson (Oxford,

1947); Second Report, a cura di D. T. Rice (Edinburgh, 1958); sulla sinagoga di Dura

Europos: C. H Kraeling, “The Synagogue,” in The Excavations at Dura-Europos. Preliminary

Report of the Sixth Season of Work. October 1932 – March 1933, a cura di M. I. Rostovtzeff, A.

R. Bellingen, C. Hopkins, C. B. Welles (New Haven, 1936), pp. 337-383, e C. Kraeling,

The Synagogue (The Excavations at Dura-Europos. Final Report, a cura di A. R. Bellinger, F.

E. Brown, A. Perkins e C. B. Welles, Vol. 8/1. New Haven, 1956).

cristiana e del suo debito verso la iconografia ebraica1. In Italia, il

vecchio problema delle origini orientali dell’arte bizantina ebbe una

fortuna tardiva ed effimera negli anni Cinquanta nella interpreta-

zione pansiriaca dell’arte bizantina e occidentale sostenuta da De

Francovich, mentre il problema della esistenza di un’arte figurativa

ebraica e del contributo dato da questa alla nascente arte cristiana –

un problema di iconografia piuttosto che di stile – fu ignorato dagli

studiosi. Al fervore di studi che questi nuovi materiali provocarono

va aggiunta la fioritura di ricerche sui manoscritti miniati, favorita

dalla mostra sulla miniatura italiana di Palazzo Venezia del

1953-1954 e dalla pubblicazione dei facsimile dell’Iliade Ambrosiana

e dell’Evangeliario di Rabbula della Laurenziana. La metodologia,

stilistica o iconografica, con cui affrontare le opere d’arte, ora che

erano finita l’autarchia fascista e i deliri panromanisti, emerse come

problema primario; la discussione, da opposizione politica di princi-

pio tra romanisti filoregime ed orientalisti afascisti, rientro nei confini

di un confronto interno alla disciplina e si sposto sui temi specifici

delle opere d’arte medievale.

a. Il pericolo crociano

In La critica e la storia delle arti figurative del 1934, dove aveva

esaminato le tendenze della critica d’arte contemporanea, discutendo

in dettaglio scritti di Soffici, Longhi, Berenson e soprattutto Lionello

Venturi, Croce aveva cosı riassunto la sua lettura delle opere d’arte

figurativa:

STILE CONTRO ICONOGRAFIA

2Croce, La critica e la storia delle arti figurative, p. 8.

3L’appello di Croce, scritto a Sorrento il 15 dicembre 1944, fu pubblicato col titolo

“Considerazioni sul problema morale del tempo nostro”, in Quaderni della “Critica” 1,

marzo 1945, pp. 1-15.4

La frase e una parafrasi dalla prefazione alla edizione italiana del libro di Frederick

Antal, Florentine Painting and Its Social Background, pubblicata da Einaudi nel 1960 col

titolo La pittura fiorentina ed il suo ambiente sociale nel Trecento e nel primo Quattrocento (p.

xxii).

“nella pittura e nelle arti figurative bisogna cercare, gustare e intenderesolo cio che e veramente artistico, solo la forma estetica, e non gia lamateria variamente interessante che nella forma e stata risoluta eoltrepassata. Donde la polemica contro le interpretazioni filosofiche esimboliche e storiche della pittura, e contro quelle passionali edoratorie. Chi innanzi a una pittura ripensa ai concetti adombrati,ricorda la storia commemorata (...) non e giunto ancora ad accoglierein se la pittura in quanto pittura, ossia in quanto arte”

2.

Gran parte degli studiosi del dopoguerra si ritrovarono intorno

all’appello per la rinascita morale italiana e contro il marxismo,

comunismo ecc. scritto da Croce a Sorrento nel 19443. Tra gli storici

dell’arte l’adesione fu quasi plebiscitaria. Frederick Antal, nell’edi-

zione italiana de La pittura fiorentina ed il suo ambiente sociale nel

Trecento e nel primo Quattrocento del 1960, di fronte a quella che lui

definı la tirannia dell’approccio esclusivamente formalistico all’arte

vigente tra gli studiosi italiani, dedico quasi integralmente la prefa-

zione a difendersi dalle aspettate critiche e incomprensioni che

avrebbe incontrato in Italia il suo lavoro che “cercava di spiegare

l’arte di un periodo, ed i diversi stili di essa, in stretta connessione

con la storia, il pensiero, il gusto di quello stesso periodo”:

“Non credo infatti che la storia dell’arte debba eternamente soggia-cere, sia pure inconsciamente, alla tirannia, tuttora cosı forte dellaconcezione dell’arte per l’arte: una concezione, com’e noto, che fuelaborata piu di un secolo fa’ da un gruppo di poeti e romanticifrancesi e che isola l’arte dalle idee del tempo, esaltandone i valorimeramente formali (o, come si usava dire, assoluti ed eterni).”

4.

Il contendere tra gli storici dell’arte italiani postbellici sembra

quasi sia stato su a chi doveva spettare il ruolo di autentico tradut-

tore del pensiero di Croce nella critica d’arte; e, parallelamente, su

chi dovesse essere considerato il vero erede di Toesca tra le progenie

antagoniste dei suoi primi discepoli, Longhi e Lionello Venturi. In

questa lotta per una autorevolezza, un peso ed anche il primato tra

PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

5L. Venturi, “Gli studi di storia dell’arte medievale e moderna”, in Cinquant’anni di vita

intellettuale italiana 1896-1946. Scritti in onore di Benedetto Croce per il suo ottantesimo

anniversario, a cura di C. Antoni e R. Mattioli (Napoli, 1950), vol. 2, pp. 175-189; id.,

“Croce e la storia dell’arte”, Commentari 4 (1953), pp. 3-6. C. L. Ragghianti, Profilo della

critica d’arte in Italia (Firenze, 1942) e L’arte e la critica. Connessioni e problemi: discorso

estetico (Firenze, 1951). L. Grassi, “Benedetto Croce e la critica d’arte”, Rivista dell’Istituto

Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte, n. s., 1 (1952), pp. 328-335; id., “Dommatismo di

un ‘discorso estetico’”, Paragone n 21 (settembre 1951), pp. 56-64. Nelle sezioni IA e IB

degli Atti del Primo Convegno Internazionale per le arti figurative sono pubblicati interventi

degli italiani C. Savonuzzi (“Roberto Longhi critico d’arte”, pp. 25-29), G. Nicco Fasola

(“Precisazione sulla critica d’arte attuale”, pp. 40-43), M. L. Gengaro (Metodo per una

storia dell’arte”, pp. 45-48), L. Grassi (“Insegnamento della storia dell’arte nei Licei”, pp.

201-203. R. Salvini, “Coralita dell’arte bizantina” e “Arte e socialismo”, Il Mondo n 23 (2

marzo 1946), p. 8. Saggi di altri autori sono discussi piu avanti in questo stesso capitolo.

gli storici dell’arte, sembra non conti che Croce e Toesca, nel

ventennio mussoliniano, fossero stati schierati su una trincea diversa

da quella di molti loro neoseguaci e contendenti di ora.

Longhi dette la sua adesione ideale a Croce nel Corollario al

“Giudizio sul Duecento” del 1947; ugualmente fecero Lionello Ven-

turi nel contributo per gli scritti in onore di Croce del 1950 e nel

panegirico del filosofo su Commentari del 1953; De Francovich nei

suoi scritti sull’arte siriaca del 1951; Salmi nei suoi scritti sulla

miniatura; De Capitan d’Arzago discutendo degli affreschi di Castel-

seprio nel 1948; Ragghianti in Profilo della critica d’arte in Italia (che

scrisse mentre si trovava nel carcere delle Murate di Firenze nel

maggio-giugno del 1942) e in L’arte e la critica del 1951; Luigi Grassi

recensendo quest’ultimo libro di Ragghianti; buona parte degli ora-

tori delle sezioni introduttive su estetica e metodologia del “Primo

Convegno Internazionale per le arti figurative” tenuto a Firenze, a

Palazzo Strozzi, dal 20 al 26 giugno 1948, e presieduto da Rag-

ghianti; Salvini, in parte, nella sua difesa dei valori spirituali ed

estetici dell’arte bizantina e nella affermazione dell’autonomia del-

l’arte dai totalitarismi politici, ecc.5. Anche chi era stato ampiamente

compromesso col fascismo ed era stato quindi apertamente o implici-

tamente avverso a Croce nell’anteguerra, aderı ora al partito cro-

ciano. Galassi, che aveva licenziato il suo manuale antistrzygow-

skiano Roma o Bisanzio nel 1929-1930, fu un esempio di conversione

senza rossori dallo spirito romanista del fascismo al crocianesimo;

nella premessa alla seconda edizione del libro del 1953, che ebbe un

secondo volume di aggiornamenti sui nuovi ritrovamenti artistici dal

sottotitolo Il congedo classico e l’arte nell’alto Medio Evo, Galassi di-

chiaro la sua fede nella ricerca della bellezza delle opere d’arte, fine

STILE CONTRO ICONOGRAFIA

6G. Galassi, Roma o Bisanzio, vol. 2, Il congedo classico e l’arte nell’alto Medio Evo (Roma,

1953), p. vi.7

G. De Francovich, “I mosaici del bema della chiesa della Dormizione a Nicea (Consi-

derazioni sul problema: Costantinopoli, Ravenna, Roma)”, in Scritti di Storia dell’Arte in

onore di Lionello Venturi, con premessa di M. Salmi (Roma, 1956), pp. 173-197.

supremo della critica, parafrasando Croce e pontificando senza auto-

revolezza sulla sterilita delle ricerche filologiche sul loro significato:

“mi sono tuttavia sforzato di non dimenticare che il mio campo distudio era e resta quello dell’arte, convinto che tutte le investigazionicosı dette «filologiche» siano destinate a rimanere sterili nel dominiostorico-artistico, se mai non trovino lo sbocco naturale nel riconosci-mento della bellezza, fine supremo della critica.”

6.

Le interpretazioni di singole opere proposte da Galassi nel libro,

come gli influssi dell’arte dell’India sui mosaici del Sinai o il ruolo

preminente di Alessandria sull’arte del VI secolo – interpretazioni

prive di spessore o desuete –, furono irrise da De Francovich, che

proveniva dalla scuola di Toesca e Lionello Venturi ed era probabil-

mente memore del passato filofascista e antitoeschiano di Galassi;

anche le critiche di De Francovich erano basate su letture delle opere

esclusivamente stilistiche7.

La scelta crociana di tanti studiosi avvenne in contrasto alle

lezioni metodologiche di Adolfo Venturi e di Toesca e proprio da

parte della generazione che stava succedendo alla Sapienza alle

cattedre ricoperte dai due fondatori della storia dell’arte italiana, loro

maestri. In pochi cercarono strade nuove, distanti dalla ricerca esclu-

siva della forma estetica e della sua evoluzione indicata dalla critica

crociana. Il caso piu famoso, Bianchi Bandinelli, uscı dalle file degli

archeologi. Cosı, nel 1955, Bianchi Bandinelli liquido la questione

“Oriente o Roma”, rifiutando di vedere la storia dell’arte come storia

di contatti e influssi artistici e riportandola ai termini marxisti (Bian-

chi Bandinelli era divenuto comunista) di emergenza di una nuova

classe sociale dominante nella tarda antichita:

“Resterebbero forse, da dire alcune parole sulla dibattuta questione«Oriente-Roma», la quale sembra che ancora costituisca il filo condut-tore per molti studiosi intenti a decidere se la trasformazione dell’arteantica fu dovuta in prevalenza agli elementi orientali penetrati in essa,oppure se essa si maturo per sviluppo di elementi tipicamente romani.La questione e, come ho detto, essenzialmente una questione malposta. Essa presume che lo svolgimento dell’arte avvenga solo per

PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

8R. Bianchi Bandinelli, “La crisi artistica della fine del mondo antico”, Societa 1 (1952),

pp. 427 sgg., citazioni da pp. 452-454.

contatti o per influenze di una civilta artistica sull’altra, di un artistasull’altro. Tre quarti delle monografie artistiche che si sono scritte eche si scrivono non hanno altro scopo alla loro ricerca che di stabiliretali influenze. Senza contare che influenze e imprestiti formali avven-gono solo quando un determinato problema, che nell’imprestito trovaun modo piu facile alla sua soluzione, e gia nato (...); se siamod’accordo che il mutamento della forma artistica e del suo contenuto estrettamente legato alle vicende della societa della quale e espressione,una questione come quella Oriente-Roma non ha motivo di esistere.(...) Quello che diviene primario e fondamentale e rendersi conto delleforze che agitano e trasformano la societa e che si esprimono in unlinguaggio nuovo. Non sono tanto i contatti delle scuole artisticheorientali, che valgono, quanto la situazione dell’impero romano e lasua profonda trasformazione strutturale, a determinare la crisi e latrasformazione. Elementi tradizionali ellenistici agiscono accanto aelementi «nazionali» romani (...); concezioni mistiche, filosofiche ereligiose di provenienza orientale trovano terreno favorevole e gettanonuove radici in occidente, motivi ornamentali e forme strutturaliorientali penetrano nella cultura artistica romana. (...) ma l’elementodeterminante in seno alla crisi resta il rivolgimento sociale, il giungereal potere di una classe nuova, che si accentra sui coloni e sui soldati, eche non e sostanzialmente diversa in occidente e in oriente.”.

In Occidente si ha il fenomeno stilistico della tarda antichita che

rompe la tradizione classica; in Oriente continua con piu coerenza lo

svolgimento dal naturalismo ellenistico al raffinato formalismo bizan-

tino senza l’impatto di correnti popolari. Dunque, la questione

“Oriente o Roma”, che deriva da una lettura esclusivamente formale

dello svolgimento artistico, diviene irrilevante per interpretare la

nascita dell’arte postclassica:

“Dobbiamo pertanto scartare anche la questione «Oriente o Roma»come irrilevante alla comprensione e determinazione del processostorico che abbiamo qui cercato di delineare, cosı come abbiamodovuto scartare le soluzioni puramente formalistiche, ancora correntinella storiografia artistica.”

8.

Piu che “ancora correnti”, come diceva Bianchi Bandinelli, le

soluzioni formalistiche erano ben vitali e divennero egemoniche nella

storia dell’arte. Qualunque valutazione sia data dell’estetica crociana,

l’idea del primato dello stile sul contenuto e estranea al mondo

STILE CONTRO ICONOGRAFIA

bizantino, essendo casomai lo stile usato dagli artisti una scelta

dipendente dal contenuto da raffigurare o dai modelli da riprodurre.

A Bisanzio, preoccupazione dei pittori era il soggetto, che doveva

seguire la tradizione antica stabilita dai padri della Chiesa, mentre il

pittore era libero soltanto nella pratica dell’arte; in breve, per princi-

pio l’interesse primario dei committenti di opere d’arte e degli artisti

bizantini (ma anche di quelli del medioevo occidentale) era il conte-

nuto delle opere; i problemi dello stile con cui rappresentare il

contenuto venivano dopo. La ricerca dei modi propri e originali

dell’arte, degli elementi formali, della creativita, di geni artistici nel

mondo bizantino nella quale si affannavano storici dell’arte italiani

era destinata a finire in vicoli ciechi.

L’estetica crociana rappresento uno dei maggiori pregiudizi alla

comprensione in Italia dell’arte bizantina. Garrison, come visto al

capitolo precedente, attribuı proprio alla vuotezza di contenuto del-

l’estetica di Croce l’incapacita interpretativa dell’arte bizantina che

Longhi aveva mostrato nel “Giudizio”: il nostro interesse e la storia e

la filologia; Croce puo sentenziare che bisogna considerare l’artista e

lasciar perdere le attribuzioni, ma senza le indagini filologiche delle

opere d’arte le valutazioni dei critici idealistici non potrebbero aver

luogo.

Anche Morey, decano degli storici dell’arte medievale americani,

imputava amichevolmente all’estetica di Croce le angustie della cri-

tica d’arte italiana. Il brano di Morey messo in epigrafe a questo

capitolo e tratto da una conferenza dello storico dell’arte di Prince-

ton letta a un convegno negli Stati Uniti, la quale rappresenta una

lucida spiegazione, non partigiana, dei nuovi percorsi della critica

artistica italiana, data da un testimone esterno, non certo marxista,

che aveva una esperienza privilegiata di anni di servizio come attache

culturale americano nell’Italia della ricostruzione postbellica. Morey

era stato invitato a spiegare a un pubblico americano quali fossero “i

problemi, le minacce e le possibilita nel campo internazionale della

storia dell’arte” e, avendo confessato di conoscere bene solamente la

situazione italiana, aveva dedicato il suo intervento unicamente a

questa. In Italia, dunque, non si respirava nervosismo di fronte alla

minaccia comunista, sebbene essa fosse molto piu specifica e ovvia

che negli Stati Uniti. L’atteggiamento generale al riguardo poteva

essere illustrato dal caso di Bianchi Bandinelli, descritto come un

aristocratico senese che aveva abbandonato il titolo di conte e aveva

trasformato le sue tenute in una cooperativa agricola per confermare

PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

la sua fede comunista, ricevendo cosı l’appellativo di “Conte Rosso”.

“Professor Bianchi Bandinelli, well known over here for his writings inthe ancient field, and especially for his recent book on the Historicityof Ancient Art. He is a Sienese aristocrat, quite the last person thatone would expect to see in Communist ranks, but he dropped his titleof count and converted his estate into a cooperative farm to confirmhis complete adhesion to the Communist faith, acquiring in the pro-cess the soubriquet of «Red Count».”.

Seguono poi le lodi della tolleranza politica del governo italiano:

il governo italiano non ha in realta tolleranza con il comunismo, ma

ha nozioni antiche sulla distinzione tra professione politica e profes-

sione accademica; grazie a cio, Bianchi Bandinelli mantiene ancora il

suo posto di professore all’Universita di Firenze. Quindi la constata-

zione che Croce e la minaccia piu grande per i buoni rapporti tra

storici dell’arte italiani e americani, la persona che con il suo influsso

condiziona in senso negativo i rapporti tra le due scuole di studi:

“Indeed as regards Croce, and if a more genial meaning be accordedto the word «threat», one might include him in the factors conditioningand restricting, in a certain sense, Italian writing in the field ofart-history at the present time.”.

Quasi ogni scrittore d’arte italiano si sente obbligato a identifi-

carsi come scolaro di Croce o, se e anticrociano, si sente obbligato a

giustificare la sua posizione non ortodossa. Il risultato e l’enfasi che

gli scrittori italiani pongono sull’atto creativo in arte secondo le

teorie di Croce e una corrispondente tendenza a minimizzare l’im-

portanza di contenuto, ambiente ed evoluzione storica. Questo atteg-

giamento nella critica d’arte e definito propriamente italiano dagli

Italiani, in contrasto con la disposizione americana a cercare nel

materiale e nelle condizioni storiche i fattori determinanti della

creazione artistica. Come conseguenza e difficile trovare nei giovani

studiosi italiani i successori di Adolfo Venturi e Pietro Toesca:

“Nearly every Italian who writes on art seems to feel himself in thenecessity of identifying himself as a pupil of Croce, or, if he is to anyextent anti-Croceian, he seems to feel the obligation of justifying firstof all his unorthodox position. In any case, the results is a prevalentemphasis in Italian writing on the creative act in the work of art inaccordance with Croce’s theory that therein lies the essential artisticfact, and a corresponding tendency to minimize the importance of

STILE CONTRO ICONOGRAFIA

9C. R. Morey, “Art and the History of Art in Italy”, College Art Journal 10 (1950-1951),

pp. 219-222, citazioni da pp. 219-220.10

A. Grabar, Les miniatures du Gregoire de Nazianze de l’Ambrosienne (Ambrosianus 49-50),

vol. 1, Album (Paris, 1943) ; il previsto secondo volume di commentario non e mai uscito.

K. Weitzmann, The Joshua Roll. A Work of the Macedonian Renaissance (Princeton, 1948).11

Mostra Storica Nazionale della Miniatura, Palazzo di Venezia, Roma [novembre 1953 –

luglio 1954], catalogo, a cura di G. Muzzioli (Firenze, 1953). La premessa di Salmi e alle

pp. xii-xvii ed il brano riportato nel testo e a p. xii. Su Salmi, vedi: Mario Salmi storico

dell’arte e umanista, Atti della giornata di studio, Roma, Palazzo Corsini, 30 novembre 1990

(Spoleto, 1991), ed in particolare sulla mostra di Palazzo Venezia e le sue finalita riflesse

nelle scelte espositive: M. G. Ciardi Dupre Dal Poggetto, “Il contributo di Mario Salmi alla

storia della miniatura: la Mostra Storica Nazionale della Miniatura”, pp. 45-64.

content, environment and historical evolution. In fact I have heard thisattitude defined by Italians as the characteristic Italian approach toart-criticism, in contrast to the «American» disposition to seek inmaterial and historical conditions the determinants of artistic creation.As a consequence, the History of Art as we conceive it, is likely toprosper better here than in Italy. It is difficult to find among theyounger Italian scholars the successors of Adolfo Venturi and PietroToesca.”

9.

b. La Mostra Storica Nazionale della Miniatura

Rispetto alla situazione dell’anteguerra l’interesse verso la miniatura

era ingigantito; con la ripresa della circolazione in Italia degli studiosi

stranieri dei paesi alleati gli anni Quaranta videro la pubblicazione di

nuovi studi e riproduzioni complete di manoscritti miniati conservati

in biblioteche italiane: Grabar, ad esempio, riprodusse il Gregorio

Nazianzeno della Biblioteca Ambrosiana di Milano, Weitzmann il

Rotulo di Giosue della Vaticana10

. L’evento maggiore fu certamente

l’apertura a Palazzo Venezia a Roma, dal novembre 1953 al luglio

1954, della Mostra Storica Nazionale della Miniatura, organizzata da

Salmi, che puo essere presa come inizio degli studi sulla miniatura in

Italia. Come scopo della mostra Salmi pose, nella premessa al cata-

logo,

“promuovere e potenziare gli studi di storia della miniatura, nonattraverso indagini contenutistiche ed erudite come si fece in passato,o non solo attraverso queste, bensı soprattutto mediante approfondi-menti storico-artistici volti a porre in evidenza i valori dello stile epertanto le personalita di primo piano che attesero alla decorazione dellibro, a somiglianza di quanto si e fatto e si fa per la pittura ma non si efatto ne si fa abbastanza per la miniatura.”

11.

PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

12La lettera, datata 29 dicembre 1953, e conservata nella Biblioteca Berenson, Villa I

Tatti, Settignano (Firenze).13

Tra questi l’Evangeliario siriaco di Rabbula, la raccolta ippocratica cod. plut. 74.7, i

Vangeli cod. plut. 6.23, i Vangeli cod. 6.28 ed il Cosma Indicopleuste cod. plut. 9.28 della

Biblioteca Laurenziana di Firenze; il frammento copto-sahidico di Giobbe (allora datato al

V secolo) ed il Dioscoride di Napoli; i Vangeli della Biblioteca Palatina di Parma, cod. 5;

l’Evangeliario purpureo di Rossano Calabro; il codice dei Profeti di Torino; la Catena su

Giobbe, il Salterio di Basilio II ed i Cinegetica di pseudo-Oppiano della Biblioteca Marciana

di Venezia.14

L’art byzantin art europeen, Athenes, Palais du Zappeion, 1964, catalogo della mostra

(Neuvieme Exposition sous l’egide du Conseil de l’Europe. Athenes, 1964). Le espressioni

dal catalogo della mostra di Palazzo Venezia si leggono nelle schede per i nn 10 a p. 10, 25

a p. 18, 27 a p. 19.

Crocianamente, Salmi spinse la ricerca sulla miniatura verso lo

stile, piuttosto che verso il contenuto iconografico. Toesca com-

mento scrivendo a Berenson nel dicembre del 1953:

“Il Salmi si propone di «potenziare» (vocabolo mussolinino) gli studisulla miniatura e di volgerli dalle ricerche «contenutistiche» alle inda-gini stilistiche, ignorando che da quasi un secolo gli studi sui codiciminiati (dal Wickhoff all’Haseloff all’Hermann ecc.) sono stati uno deirami piu vivi, fruttuosi e ammirevoli della storia dell’arte. Non si trattadi «potenziare» o di dar nuovi indirizzi ma di augurare che il seguitonon disdica il passato!”

12.

La mostra del 1953-1954 raccolse tanti dei tesori delle bibliote-

che italiane (furono esposti 748 manoscritti) nel tentativo di mo-

strare le connessioni della miniatura italiana sia con l’arte degli altri

paesi d’Europa, sia con quella dell’Oriente. Tra i manoscritti, una

trentina i manoscritti di area bizantina dal VI al XV secolo13

. Le

schede del catalogo, redatte da un paleografo, Giovanni Muzzioli,

riprendevano frasi in uso nella bizantinistica di fine Ottocento ed

inizi Novecento, con scarsa professionalita e con l’aggiunta di qual-

che definizione inventata ad hoc, come “stile bizantino del cosid-

detto secondo periodo aureo”, “corrente aulica della miniatura bi-

zantina del secolo XIV”, “arte tardo-bizantina adriatica del secolo

XV”. Dopo la mostra parigina del 1931, era comunque la prima

volta che un cosı grande numero di preziosi manoscritti bizantini

veniva presentato al pubblico; in questo l’esposizione fu eguagliata

solo da quella di Parigi Byzance et la France medievale del 1958-1959

e da quella di Atene del 1964 Art byzantin art europeen14

. In Italia, la

mostra di Palazzo Venezia aveva avuto come predecessori la mostra

degli Acquisti e Doni delle Biblioteche Italiane (Roma, 1934), la

STILE CONTRO ICONOGRAFIA

15L’elenco di queste mostre e fornito da Carlo Bertelli nella recensione alla mostra di

Palazzo Venezia (“La mostra della miniatura”, Societa 10 [1954], nota 4 p. 297). A questo

elenco va aggiunta la mostra di manoscritti bizantini del 1936 alla Vaticana: Catalogo della

mostra di manoscritti e documenti bizantini disposta dalla Biblioteca Apostolica Vaticana e

dall’Archivio Segreto in occasione del V Congresso Internazionale di Studi bizantini, Roma, 20-26

settembre 1936.16

R. Frattarolo, “La mostra della miniatura a Palazzo Venezia”, Bollettino d’arte, ser. 4,

39 (1954), pp. 341-347. A. A. [I. Toesca], “La Mostra storica nazionale della miniatura”,

Paragone n 51 (marzo 1954), pp. 32-38. Bertelli, “La mostra della miniatura”, pp. 296-303.

I. Toesca, “La mostra della miniatura a Palazzo Venezia”, Arte veneta 7 (1953), pp.

192-194; ead., “L’exposition de Rome”, Scriptorium 8 (1954), pp. 318-322; ead., “Miniatu-

res at the Palazzo Venezia”, The Burlington Magazine 96 (1954), pp. 22-23.

mostra della biblioteca di Lorenzo il Magnifico (Firenze, 1949), la

mostra di codici miniati del Rinascimento della Biblioteca Trivul-

ziana (Milano, 1952), la mostra dei codici del SS. Salvatore dell’A-

croterio, appartenenti alla Biblioteca Universitaria di Messina (Mes-

sina, aprile 1953), la mostra della Biblioteca Malatestiana (Cesena,

1953)15

.

Sul Bollettino d’arte del Ministero della Pubblica Istruzione uscı

una recesione encomiastica della mostra, definita rara e imponente,

che solo la sapienza e la pazienza di Salmi avevano potuto allestire,

accompagnata da un catalogo “sontuoso e severo”, “magnifico sag-

gio” di ricerche e studi (l’autore della recensione si dichiara uno degli

allestitori della mostra). Il recensore-allestitore negava una specificita

metodologica alle indagini sulla miniatura rispetto a quella sulla

pittura; ripetuto che scopo della mostra era promuovere e potenziare

gli studi sulla miniatura, attribuiva a questi valore “solo se fondati su

basi storico-estetiche” ed arrivava retorico ed entusiasta alla conclu-

sione, metodologicamente per noi sconsolante: “quante, in verita, di

queste miniature, non parrebbero proiettate su uno schermo, grandi

tavole o affreschi di gran taglio? ”. In tutte le altre recensioni, pur

apparse su riviste di tendenze ben diverse, come, ad esempio, Para-

gone di Longhi e Societa di Bianchi Bandinelli, la mostra fu giudicata

un fiasco16

. I difetti principali imputati agli ideatori riguardarono la

scelta dei pezzi esposti – che rendevano la mostra una lacunosa

esposizione di tesori delle biblioteche italiane, incapace di fornire un

percorso storico della miniatura –, l’equivocita della attribuzione di

un carattere “nazionale” alla mostra, l’assenza di alcune biblioteche

nazionali e di tutte quelle estere tra i prestatori dei manoscritti, la

preminenza data all’arte di alcune regioni, come la Toscana, e le

lacune negli esempi di altre, come il Veneto. Infine, fu criticata

PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

l’assenza di didascalie e pannelli esplicativi cosı che l’obiettivo di far

nascere nel pubblico l’interesse per la miniatura era fallito.

Soprattutto furono le scelte metodologiche ad apparire inade-

guate e ignare della strada percorsa dalla studi all’estero sulla minia-

tura. La dichiarazione iniziale sui valori dello stile e contro le inda-

gini contenutistiche fu bersagliata per la sua faciloneria e

presunzione: tra gli studiosi ignorati dai curatori della mostra si

elencarono Wickhoff, Schlosser, Dvorak, Laborde, Durrien, Winkler,

Hermann, Goldschmidt, Swarzenski, A. Venturi, P. D’Ancona, Ger-

stinger, Buchthal, Pacht. Le ricerche di questi studiosi – scrisse il

recensore di Paragone – erano state condotte con metodo di lavoro

tanto esatto e comprensivo da trovare difficilmente riscontro altrove

e non erano liquidabili con la semplicistica definizione di indagini

contenutistiche che il catalogo dava ad esse; lı si erano unite in

maniera assolutamente esemplare ricerca stilistica e filologica, cosı da

produrre una storiografia eccezionalmente attuale, includente un’in-

dagine vasta e complessa sui problemi della cultura nel senso piu

lato, senza la quale la sola indagine stilistica poteva risultare priva di

base, puramente formale. La mostra cercava cosı le personalita di

primo piano dell’arte della miniatura, piuttosto che il valore delle

relazioni tra immagine, testo e cultura di una societa.

La recensione di Carlo Bertelli apparsa su Societa si aprı con

l’affermazione che la mostra rischiava di non offrire neppure ele-

menti di giudizio, dato che ne apparivano confusi scopo, criteri e

consistenza: mancavano le ragioni di una esibizione cosı grandiosa e

costosa in patria, della quale sia il pubblico medio sia gli studiosi non

potevano ricevere vantaggi. Le schede del catalogo suggerivano una

subordinazione gerarchica della miniatura alla pittura e alla scultura,

con la prima che era considerata come una pittura in piccole dimen-

sioni capace nei casi piu felici di raggiungere la sorella maggiore.

Anche Bertelli lamentava la mancanza di bibliografia aggiornata e

soprattutto che non si tenesse conto degli studi iconografici e filolo-

gici condotti a Princeton da Weitzmann e Friend Jr; l’affermazione,

fatta nella premessa del catalogo da Salmi, sulla necessita del poten-

ziamento degli studi sulla miniatura in Italia non attraverso le inda-

gini contenutistiche ed erudite, ma attraverso le indagini formali e

“dichiarazione perentoria e troppo limitatrice, nella sua pretesa di

innovazione, di una tradizione di studi altissima”:

“Ora, a parte la considerazione, che pure e indicativa, che questi criteri«formali» – meglio diremmo formalistici – non sono serviti ad evitare

STILE CONTRO ICONOGRAFIA

errori gravi, ne hanno risparmiato la presentazione di un buon numerodi opere di qualita assai bassa, e di qualcuna di non provata autenti-cita, essi si rivelano inadeguati ad uno studio serio della miniatura,poiche non ne considerano i caratteri peculiari.”.

La miniatura non aveva necessita di rendersi intelligibile a un

pubblico indeterminato, cosı da mantenere in se un sempre maggiore

retaggio di cultura rispetto alla pittura monumentale, contribuendo

alla trasmissione per tutto il Medioevo di moduli e iconografie

classiche. La storia della miniatura non e dunque storia del libro

bello:

“Per tali ragioni la storia della miniatura, come non sempre coincidecon la storia della pittura, cosı non si presenta quale storia del «librobello» o dell’ «amore» per esso, ammesso che cio possa mai divenireargomento di storia, ma come concreta ricerca di storia della cultura.”.

Stile, personalita artistiche e tradizioni di cultura e di ambiente

possono essere separate solo astrattamente nella miniatura:

“Cosı e stato possibile, per il Weitzmann, dimostrare che il miniatorebizantino si comportava dinanzi alla tradizione pittorica manoscrittanon diversamente dal sapiente bibliotecario, collazionando, emen-dando e ricercando i lineamenti del prototitpo originario; al Friend eriuscito, dall’analisi stilistica e iconografica dei ritratti degli evangelistie del loro inquadramento architettonico, non solo di precisare l’attivitadi diversi scriptoria, ma anche di stabilire alcuni anelli della tradizionedei Vangeli, per altra via irreperibili.”.

c. L’entrata ed uscita di scena della Siria

Alla mostra del 1953 Salmi fece seguire nel 1955 la Storia della

miniatura italiana. Salmi stesso ricordo che dalla mostra romana era

venuta l’idea della pubblicazione del facsimile dell’Evangeliario di

Rabbula, un codice datato al 586 ed eseguito nel Convento di San

Giovanni di Zagba, a quel tempo erroneamente localizzata in Meso-

potamia, che apparve nel 1959 con commentari di Giuseppe Furlani

(sul manoscritto in generale), Cecchelli (sui particolari iconografici

delle miniature) e Salmi (sullo stile). Cecchelli confermo la sua

conversione da disprezzatore giovanile della civilta bizantina, nei

convegni dell’Istituto di Studi Romani, a suo studioso; la sua analisi

iconografica, pero, si limita a puntigliose notazioni prive di fonda-

PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

17The Rabbula Gospels. Facsimile Edition of the Miniatures of the Syriac Manuscript Plut. I,

56 in the Medicaean-Laurentian Library / Evangeliarii Syriaci, vulgo Rabbulae, in Bibliotheca

Medicea-Laurentiana (Plut. I,56) (Olten – Lausanne, 1959): G. Furlani, “The Manuscript

of Rabbula”, pp. 8-21; C. Cecchelli, “The Iconography of the Laurentiana Syriac Gospels”,

pp. 23-82; M. Salmi, “Problems of Style”, pp. 83-89.18

G. De Francovich, “L’arte siriaca e il suo influsso sulla pittura medievale nell’Oriente e

nell’Occidente”, Commentari 2 (1951), pp. 3-16, 75-92, 143-152. La bibliografia e un

profilo dell’opera di De Francovich si trovano in G. De F., Persia, Siria, Bisanzio nel

Medioevo artistico europeo (Napoli, 1984), a cura di V. Pace, pp. xi-xiii e xv-xvii.

menti metodologici generali. Salmi si concentro sulla distinzione tra

piu mani delle miniature, individuando quattro miniatori all’opera,

rappresentanti di due correnti stilistiche differenti, una piu elleni-

stica, l’altra piu astratta17

.

L’exploit dell’arte siriaca negli studi italiani era comunque gia

avvenuto nel 1951, per opera di De Francovich, che era stato

redattore all’Enciclopedia italiana alla fine degli anni Venti, poi stu-

dioso di scultura romanica, ed aveva pubblicato nel 1951 un lungo

saggio in tre parti “L’arte siriaca e il suo influsso sulla pittura

medievale nell’Oriente e nell’Occidente” in Commentari, la rivista

diretta da Venturi e Salmi18

. De Francovich fece della Siria il luogo

di origine e di diffusione per secoli di una corrente espressionistica di

origine microasiatica in seno all’arte ellenistica che sarebbe stata

determinante per Bisanzio e l’Occidente medievale (figg. 114-115).

Scrittore “temperamentvoll” di piglio longhiano, De Francovich era

insoddisfatto dei lavori princetoniani sui mosaici di Antiochia; man-

cava, a suo dire, una trattazione della storia stilistica dell’arte della

metropoli siriana. Cosı comincia il suo saggio in Commentari:

“I problemi cui accennero rapidamente in questo studio sull’artesiriaca mi si sono affacciati durante la lenta e laboriosa stesura di unlavoro sulle origini dell’arte medioevale, sull’arte cioe di quell’oscuro ecomplesso periodo che si estende dalla fine del sec. III e principio delIV fino all’epoca carolingia. Sono forzatamente accenni brevi e succintiche condensano in una forma assai sommaria i risultati cui credo diessere giunto nei riguardi della fisionomia artistica della Siria paleocri-stiana, che riveste, assieme a Costantinopoli, un’importanza fonda-mentale sia per lo svolgimento dell’arte paleocristiana in genere cheper le ulteriori vicende della pittura medioevale nell’Oriente e nell’Oc-cidente.”.

Anche De Francovich era convinto che l’approccio corretto alle

opere d’arte fosse unicamente quello stilistico; di fatto, i suoi scritti

oscillano tra presunzione e insulti verso ogni voce discorde dalla sua;

STILE CONTRO ICONOGRAFIA

da un punto di vista metodologico, comunque, sono un tentativo di

applicare l’estetica crociana alle opere d’arte dei primi secoli del

Cristianesimo in Oriente. Negli scritti in onore di Lionello Venturi,

del 1956, discutendo dei perduti mosaici nel bema della chiesa della

Dormizione a Nicea, De Francovich fisso la diversita di valore che

separa l’elemento stilistico nelle opere d’arte dagli aspetti esterni

iconografici, paleografici e storici; nella mancanza del riconosci-

mento del diverso valore di questi approcci stava il principale difetto

delle trattazioni sull’arte paleocristiana e bizantina:

“Ma la storia dei mosaici absidali della chiesa della Dormizione diNicea, oltre a rivelare la veramente incomprensibile trascuranza daparte degli studiosi di una delle piu importanti testimonianze dellacivilta pittorica bizantina dell’epoca paleocristiana, mette pure in ri-lievo il principale difetto di cui soffre buona parte delle trattazionid’arte di questo periodo: la mancanza cioe di un metodo che pongal’accento principale sull’elemento stilistico dell’opera d’arte anzichesugli aspetti esterni di essa quali l’iconografia, la paleografia e viadicendo. Il lettore avra infatti osservato che tutti gli studiosi, adeccezione del Delbruck, che si sono pronunciati contro o in favoredella tesi dello Schmit, sono ricorsi esclusivamente a considerazioni dicarattere iconografico, paleografico ed anche storico, che sono servite,a secondo dei casi, a confermare o ad escludere la data del secolo VI,assegnata dallo Schmit agli angeli della chiesa della Koimesis di Nicea,dimostrando in tal modo ad evidenza la scarsa attendibilita di siffattiragionamenti.Eppure e evidentissimo, a mio avviso, che l’impronta stilistica di questimosaici preclude perentoriamente la loro datazione ai secoli VIII-IX,sostenuta dal Wulff e dalla stragrande maggioranza degli studiosi.”.

Anche per i mosaici di Antiochia, la critica, in particolare in

questo caso Morey e Levi, aveva mancato di definire tendenze e

“gusto” (un termine che viene probabilmente da Lionello Venturi,

che insegnava a Roma come De Francovich) degli artisti antiocheni.

Andava colmata la lacuna dell’indagine stilistica dei mosaici, che non

era interessata ai due princetoniani, Morey e Levi, almeno nei

termini in cui De Francovich la intendeva. Per lui peculiare dello

stile della scuola antiochena era la “plasticita salda e forte dei corpi

contraddistinti da proporzioni massicce, atticciate ed avvolti in ampi

e grevi paludamenti”. Questa variante antiochena dell’arte ellenistica

perdurerebbe fino ad almeno il VI secolo, come provato dalle minia-

ture nel codice dei Vangeli syr. 33 della Biblioteca Nazionale di

Parigi e, soprattutto, in alcune delle miniature dell’Evangeliario di

Rabbula:

PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

“Pure le miniature principali dell’evangeliario del monaco Rabula dellaLaurenziana di Firenze, redatto nel 586 nel monastero di San Gio-vanni di Zagba in Mesopotamia, sono eseguite in un linguaggio figura-tivo tutto impregnato di suggestioni classicheggianti che si riflettononel muoversi e gestire delle figure, nel loro panneggiare, nella vigorosaplasticita dei corpi, nella ricerca, sia pur sporadica, di profonditaspaziali, nel fluido illusionismo pittorico delle miniature a piena pagi-na.”.

E, comunque, l’altra corrente siriaca, quella espressionistica, il

principale interesse di De Francovich; ad essa sono legate le minia-

ture del codice di Rabbula dallo stile piu innovativo:

“in altre miniature – e sono la maggioranza – si nota un intensodinamismo di movimenti che efficacemente si esprime, ad esempio,nella scena dell’Ascensione nel rapido accorrere dei due angeli verso ilCristo entro la mandorla sollevata da cherubini, nell’agitato gesticolaredegli apostoli, nel contorno, tormentato da risentite sporgenze e rien-tranze, delle figure.”.

Lo “spirito fortemente drammatico” ed il “veemente espressioni-

smo” di questa corrente artistica hanno la loro origine in Asia

Minore, nel mosso ed appassionato pathos espressivo affermatosi in

quelle zone gia con l’altare di Pergamo, nel vivace colorismo chiaro-

scurale dei rilievi dei sarcofagi di Sidamara e della scultura di Afrodi-

sia e di Efeso; poi, nel IV-VI secolo questa corrente artistica si

diffonde in Siria e diventa la caratteristica distintiva dell’arte siriaca,

come confermato da una serie di oggetti di argenteria rinvenuti nella

Siria settentrionale e dispersi in vari musei (specialmente le patene

d’argento di Stuma e di Riha del VI-VII secolo ed il cosiddetto calice

di Antiochia) e dai principali codici assegnati a quell’area, come la

Bibbia siriaca di Parigi (Bibliotheque Nationale, cod. syr. 341), il

Rossanense, il Sinopense, la Genesi di Vienna.

L’esame stilistico degli oggetti sicuramente della capitale Costan-

tinopoli porta invece a indicare due correnti caratteristiche dell’arte

della capitale bizantina – De Francovich esamina la miniatura dedi-

catoria con Anicia Juliana e altre miniature nel Dioscoride di Vienna,

i rilievi della base dell’obelisco di Teodosio a Costantinopoli ed altre

opere: la corrente classica ellenistica che si mostra particolarmente

viva proprio nelle miniature del Dioscoride viennese, nella “maniera

pittorica schiettamente impressionistica dai colori chiari, brillanti,

pastosi”, e “il fattore astratto trascendentale di origine orientale”,

STILE CONTRO ICONOGRAFIA

19De Francovich, “L’arte siriaca e il suo influsso”, citazioni nel testo da pp. 3 e 6-7. In “I

mosaici del bema della chiesa della Dormizione a Nicea”, p. 20 nota 39, De Francovich

dice che “il problema dell’arte alessandrina sara da me esaminato piu a fondo nel mio

saggio: L’arte iranica e l’origine del linguaggio figurativo bizantino e medievale, di prossima

pubblicazione nella Rivista dell’Istituto naz. d’archeologia e storia dell’arte.”.

visibile nell’oro degli sfondi, “che abolisce ogni accenno a uno spazio

realistico, sı che le figure sembrano librate nell’aria”, come nella

miniatura dedicatoria dello stesso codice. Anche altre opere costanti-

nopolitane presentano lo stesso contrasto tra elementi classico-

naturalistici ed elementi astratto-orientali, i quali ultimi derivano

dallo stile solenne e ieratico di origine orientale gia visto nel tempio

delle divinita palmirene di Dura Europos. Dunque, da elementi

attinti al mondo ellenistico di Alessandria, alla civilta orientale-

iranica e alla tradizione figurativa dell’Asia Minore sorge l’arte di

Costantinopoli, il cui gusto precipuo sarebbe da cercarsi nella “eurit-

mia che permea e pervade le opere piu schiettamente costantinopoli-

tane dell’epoca paleocristiana e che rimarra anche in seguito una

delle principali caratteristiche degli artisti bizantini”. De Francovich

tento cosı una sintesi delle idee orientaliste di Strzygowski (sulle

orme dell’austriaco, annuncio un articolo o un libro in cui promette

di dimostrare la decisiva influenza dell’arte iranica sull’arte copta) e

della idea dell’origine dell’arte bizantina dai centri ellenistici orientali

proposta da Ainalov e ripresa dal biasimato Morey.

De Francovich attacco focosamente nei suoi scritti studiosi in

disaccordo con lui sia quanto a letture stilistiche sia quanto a ap-

procci metodologici: Morey, Levi, Rice, Diehl e l’italiano Bettini

finiscono all’indice19

. Le espressioni di De Francovich sono frequen-

temente invettive polemiche, al limite dell’ingiuria, nei confronti di

altri studiosi quasi tutti giudicati incompetenti. Bettini, che fu tra i

suoi principali bersagli, rispondendo a De Francovich l’anno succes-

sivo in “Di San Marco e di altre cose” fece un elenco degli studiosi

dileggiati da De Francovich (a cui diede l’epiteto di “oracolo romano

in cose bizantine, orientali e meridionali”) nell’articolo in Commen-

tari: Brehier, Buberl, Buchthal, Dalton, Heisenberg, Morey, Norden-

falk, Rice, Swarzenski, Whittemore, Weigand, Weitzmann, Wulff tra

gli stranieri, cioe quasi tutta la bizantinistica, con la significativa

eccezione di Strzygowski; Bottari, Doro Levi, Fiocco, Morisani,

Ortolani, Salvini tra gli italiani. La polemica tra i due studiosi

decadde nelle offese tout court: Bettini stilo anche una lista di

stupidaggini scritte da De Francovich (la colonna invece che l’obeli-

PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

20S. Bettini, “Di San Marco e di altre cose”, Arte veneta 6 (1952), pp. 196-208. G. De

Francovich, “Della Siria e di altre cose”, Commentari 4 (1953), pp. 318-334.21

L. Venturi, “Si propone una tregua”, Commentari 5 (1954), p. 167.

sco di Teodosio, ad esempio), definı De Francovich uno studentello

appena laureato che ha bisogno per le sue tesi “di appoggi autorevoli:

l’ha detto il babbo!”; sottolineo il livore morale di essere etichettato

da lui tra i romanisti (accusa che irritava Bettini per la sua coda di

paglia nella questione); colpito nel segno, De Francovich replico in

“Della Siria e di altre cose” apparso nello stesso 1953, un articolo in

cui premetteva varie offese iniziali a Bettini, riconduceva a suo favore

una citazione da Weitzmann che Bettini aveva riadattato troncandola

a bella posta, riportava le recensioni ai libri di Bettini uscite all’estero

che davano al padovano dell’incompetente, si difendeva dall’accusa

che lui conoscesse la Storia della pittura bizantina di Lazarev solo da

riassunti apparsi su riviste tedesche ammettendo che – Bettini aveva

ragione – lui non conosceva il libro di Lazarev perche uscito nel

1951, cioe dopo il suo articolo su Commentari (una bugia, perche il

libro di Lazarev era uscito nel 1947-1948), e via dicendo su questo

tono20

. La polemica tra i due e cosı velenosa e piena di falsita

reciproche che non vale la pena di essere seguita oltre. Va detto che

il clima tra gli storici dell’arte in quegli anni era segnato da feroci e

rozze accuse. Lionello Venturi, di fronte a quello che la rivista Il

Mondo aveva definito cannibalismo critico, aprı il fascicolo di luglio-

settembre 1954 di Commentari con un corsivo in cui denunciava

l’impossibilita di proseguire nelle accuse reciproche tra storici del-

l’arte di essere imbroglioni, meretrici, falsari, truffatori, al quale pose

il grande titolo cubitale in mezzo alla pagina, a mo’ di manifesto

murale “Si propone una tregua”21

:

SI PROPONE UNA TREGUA

Alcuni colleghi stanno polemizzando tra loro con ferocia e si rinfac-ciano non solo di essere incompetenti ma persino imbroglioni, mere-trici, falsari, truffatori.L’atmosfera di questa nostra aiuola e diventata irrespirabile. Il Mondoci accusa di essere cannibali, e non abbiamo nemmeno piu la forza diprotestare.Si propone una tregua di un anno. Naturalmente le discussioni sui fattie sulle idee debbono continuare. Ma se per un anno si mettessero daparte gl’insulti personali, l’animo piu calmo e il cervello schiaritopolemizzerebbero in un modo piu decente.

STILE CONTRO ICONOGRAFIA

22Per altri studi di De Francovich sull’arte orientale vedi in bibliografia. Chi scrive ha

sottolineato piu volte l’importanza della cristianita di Siria nella formazione della cultura

figurativa bizantina, ma, a differenza di De Francovich, l’ha ritrovata nel campo della

formazione dell’iconografia biblica: vedi, tra gli altri, M. Bernabo, “Miniatura bizantina e

letteratura siriaca: la ricostruzione di un ciclo di miniature con una storia vicina alla Caverna

dei Tesori”, Studi Medievali, ser. 3, 34 (1993), pp. 717-737, e le pagine sul ruolo delle fonti

siriache nella formazione del ciclo degli Ottateuchi bizantini in K. Weitzmann e M.

Bernabo, con la collaborazione di R. Tarasconi, The Byzantine Octateuchs (Princeton, N.J.,

1999), pp. 317-318.23

G. De Francovich, “Osservazioni sull’altare di Ratchis a Cividale e sui rapporti tra

Occidente e Oriente nei secc. VII e VIII d.C.”, in Scritti di storia dell’arte in onore di Mario

Salmi, (Roma, 1961), vol. 1, pp. 173-236, citazioni da pp. 201 e 204. Anche la differenzia-

zione comune nella critica fascista tra arte romana plastica e arte bizantina ritorna nella

affermazione della struttura plastica e dei valori lineari dell’arte romana che reagisce alla

sensibilita cromatica e all’euritmia che contraddistinguono in sommo grado l’arte di

Costantinopoli (De Francovich, “I mosaici del bema della chiesa della Dormizione a

Nicea”, pp. 20-21). Altrove (ivi, p. 13), De Francovich definisce l’arte bizantina dopo il VI

secolo come caratterizzata da “un sempre piu accentuato processo di astrazione, basato sul

graduale prevalere del sistema lineare stilizzato”, una definizione che non corrisponde

all’arte bizantina di quel periodo. M. Mundell Mango, “Where was Beth Zagba?”, in

Okeanos. Essays presented to Ihor Sevcenko on his Sixtieth Birthday by his Collegues and

LIONELLO VENTURI

De Francovich ribadı con fervore le sue tesi sull’espressionismo

siriaco e sul suo ruolo determinante nella formazine dell’arte bizan-

tina e altomedievale dell’Occidente in vari articoli posteriori; e deter-

mino una ‘corrente pansiriaca’ all’interno degli studiosi italiani del-

l’arte medievale alla quale aderirono suoi allievi e collaboratori.22

Come Strzygowski, De Francovich cerco sempre piu in Oriente

l’origine delle correnti artistiche del Medioevo ed anche lui finı con

l’attribuire importanza nella trasmissione di modi artistici alle regioni

del Mediterraneo occidentale (in particolare la Spagna visigotica e

l’Italia longobarda) all’arte armeno-georgiana, discendente da quella

siro-mesopotamica, dove il retaggio classico era stato, secondo De

Francovich, sopraffatto dagli stilemi iranici dei Parti e dei Sasanidi;

un’area dove “dovettero incrociarsi e coesistere contemporanea-

mente, nei secoli VII e VIII, forme e stili di diversa origine –

siro-palestinese, ellenistica, persiana, bizantina”. L’idea di De Fran-

covich ricalca quella di Strzygowski dell’altopiano iranico come cro-

giolo dove sarebbero stati assorbiti e rielaborati gli influssi asiatici e

poi ritrasmessi al mondo ellenistico.

Le idee di De Francovich sulla Siria antica non sono considerate

dagli archeologi, i quali hanno una visione dell’arte della Siria omo-

genea a quella degli altri centri ellenistici del Mediterraneo orienta-

le23

. Anche l’insistenza sul determinante ruolo dell’espressionismo

PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

Students, a cura di C. Mango e O. Pritsak (Harvard Ukrainian Studies 7 [1983]), pp.

405-430; ead., Silver from Early Byzantium. The Kaper Koraon and Later Treasures (Balti-

more, 1986). Per una confutazione generale delle tesi di De Francovich e in particolare del

ruolo della Siria nello sviluppo dell’arte altomedievale italiana vedi P. J. Nordhagen,

“Italo-Byzantine Wall Painting of the Early Middle Ages: An 80-Year Old Enigma in

Scholarship”, in Bisanzio, Roma e l’Italia nell’Alto Medioevo, Settimane di Studio del Centro

Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 34, Spoleto, 3-9 aprile 1986 (Spoleto, 1988), pp.

622-623.24

Le due lettere di Bianchi Bandinelli a Berenson sono conservate presso la Biblioteca

Berenson, Villa I Tatti, Settignano (Firenze).25

Weitzmann, Illustrations in Roll and Codex, pp. 123 sgg.

siriaco non ha avuto mai grande eco nella bizantinistica internazio-

nale, indebolita dai rinvenimenti archeologici in Siria e recentemente

dalla localizzazione di San Giovanni di Zagba, il monastero dove fu

realizzato l’Evangeliario di Rabbula, che e uno dei caposaldi delle

tesi di De Francovich, non lontano da Antiochia e da Apamea invece

che in Mesopotamia come creduto negli anni Cinquanta.

d. L’Iliade Ambrosiana come problema metodologico

Come raccontato al capitolo precedente, Bianchi Bandinelli (fig.

116) collaboro a Roma con Morey nell’immediato dopoguerra. Bian-

chi Bandinelli ringrazio Morey insieme al prefetto dell’Ambrosiana,

monsignor Giovanni Galbiati, Berenson e, soprattutto, Weitzmann

per suggerimenti e aiuto nel fornirgli fotografie per il suo libro

sull’Iliade Ambrosiana. Lo stesso Bianchi Bandinelli riferı a Berenson,

in una lettera del 6 gennaio 1946, di star lavorando con Morey e con

Levi, mentre e a Roma al Ministero per organizzare gli istituti di

archeologia. Ancora nel 1946, Bianchi Bandinelli scrisse a Berenson

di voler fare un libro sulla Colonna Traiana e aggiunse:

“E poi spero ancora di fare l’edizione facsimile della Ilias Ambrosianaforse con un editore svizzero. I due argomenti, per quanto diversi sonomeno lontani di quanto possa sembrare, perche sono sempre piupersuaso della derivazione degli schemi del rilievo storico romano (eparticolarmente della colonna trajana) dalle illustrazioni pittoricheellenistiche.”

24.

Anche Weitzmann in Illustrations in Roll and Codex del 1947 si

occupo dei rilievi della Colonna Traiana e dei loro rapporti con la

illustrazione dei testi classici, formulando pero ipotesi diverse da

Bianchi Bandinelli25

. Ben piu della maggioranza dei colleghi archeo-

STILE CONTRO ICONOGRAFIA

26Weitzmann, Sailing with Byzantium from Europe to America, p. 101.

27La lettera e conservata nella Biblioteca Berenson, Villa I Tatti, Settignano (Firenze).

Sul comunismo di Bianchi Bandinelli scrisse Toesca a Berenson il 20 dicembre 1945:

“(...) il povero Bianchi Bandinelli. Il quale, a proposito, qualche tempo fa si lamentava

meco di una certa freddezza di B.B., che da un pezzo non gli scriveva. Sara perche Bianchi

Bandinelli e ... comunista?”.

logi europei Bianchi Bandinelli apprezzo i risultati degli scavi di

Antiochia, come ricorda Weitzmann nelle sue memorie26

. Il libro di

Bianchi Bandinelli sull’Iliade Ambrosiana fu pubblicato nel 1955, in

ritardo rispetto ai tempi di completamento dell’autore, a causa del

veto posto dal cardinale Mercati su Bianchi Bandinelli, in quanto

comunista; questo veto porto anche alla defenestrazione di Galbiati

da prefetto dell’Ambrosiana, come Bianchi Bandinelli stesso rac-

conto scrivendo a Berenson il 15 settembre 1951:

“Caro B.B.,sono molto contento che Lei sia d’accordo con la datazione fine V –inizio VI secolo che io propongo per le miniature dell’Iliade Ambro-siana. (La mia tendenza e sempre piu per la seconda data). Quella deiprecedenti editori al III, e assurda.Ma nella Sua lettera, per la quale La ringrazio molto, mi ha particolar-mente colpito l’accenno a pitture del Nord-Africa. Io ho trovato moltasomiglianza “di famiglia” con frammenti di vasi dipinti trovati aWadi-Sarga da R. Campbell Thomson, databili da monete che vannoda Giustiniano a Maurizio, cioe dal 530 al 602.Queste connessioni con il N. Africa, e altre cose, indicano Costantino-poli come luogo d’origine del codice. Credo di aver trovato sufficientispiegazioni al perche l’unico miniatore si sia ispirato a modelli icono-grafici diversi e di tempi diversi: ci dovevano essere edizioni separatelibro per libro, come per la Bibbia.Dove invece purtroppo, caro B. B., Lei non ha ragione, e quandocrede che il veto di Mercati contro di me non sia di ragione politica: ilCardinal Mercati ha avuto la franchezza (della quale gli sono grato) didirlo personalmente a me in un colloquio concessomi nel luglio scorso;lo ha poi ripetuto all’editore; e l’accordo fatto da Galbiati con me gli esembrato cosı grave, che il povero Galbiati, che si preparava a festeg-giare il proprio giubileo, e stato deposto dalla carica di Prefettodell’Ambrosiana. (Tutto questo, del resto, e in linea con lo spirito di«crociata» del recente messaggio pontificio). Io cerco, per il momento,di salvare il mio lavoro scientifico, che mi interessa molto e che ho,praticamente, gia pronto. Ma politicamente questi Signori Reverendis-simi mi hanno dato in mano delle carte contro di loro, che nonmanchero di usare, se non altro per mio divertimento.Grazie per l’invito a usare la Sua biblioteca anche in Sua assenza.”

27.

PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

28Bianchi Bandinelli, “Discussione sull’Iliade Ambrosiana”, pp. 1-2. G. Cavallo, “Osser-

vazioni di un paleografo per la data e l’origine dell’Iliade Ambrosiana”, Dialoghi di

archeologia 7 (1973), pp. 70-85.

La discussione sull’Iliade Ambrosiana (figg. 117-118) tocco

aspetti diversi, da quelli interni al manoscritto (datazione e luogo di

origine), a quelli storici generali (la storia della illustrazione dei testi

in eta romana e bizantina), a quelli metodologici (la definizione di

una metodologia con la quale affrontare lo studio dei manoscritti

miniati). Bianchi Bandinelli concluse che il manoscritto va datato

alla fine del V od agli inizi del VI secolo; quanto al luogo di

esecuzione, dopo la proposta di Costantinopoli avanzata nel libro,

Bianchi Bandinelli accetto in seguito quella di Alessandria fatta da

Weitzmann e confermata su base paleografica da Guglielmo Caval-

lo28

.

Bianchi Bandinelli aveva suddiviso le miniature dell’Iliade Am-

brosiana in quattro gruppi principali secondo il loro schema

iconografico-compositivo: un Gruppo A o ‘maniera del rotulo’, con

miniature a schemi compositivi “a figure isolate, quasi tratte una per

una da un repertorio e giustapposte senza intima connessione tra di

loro, e allineate senza alcun accenno a sfondo o ambiente” (che e

quasi la stessa definizione che Weitzmann da per le illustrazioni in

quello che chiama ‘stile del papiro’); un Gruppo B, o ‘maniera del

fregio dipinto o maniera delle grandi pitture e fregi del periodo

ellenistico’, con miniature a composizioni a “carattere piu com-

plesso, spiccatamente ellenistico” derivate da composizioni pittoriche

(fig. 117); un Gruppo C, o ‘maniera della pittura di tradizione

ellenistica in rielaborazione del III secolo in centro del Mediterraneo

orientale’ (probabilmente Alessandria) (fig. 118); un Gruppo D, o

‘maniera dei mosaici della navata di Santa Maria Maggiore a Roma’,

con miniature risalenti a composizioni della fine del IV – inizi del V

secolo. Un sottogruppo CE comprende le miniature dove appare la

prosecuzione bizantina della tradizione ellenistica: dato che le minia-

ture dell’Iliade Ambrosiana stanno ai confini tra l’arte antica e quella

bizantina, la cui arte si costituı a partire dal VI secolo con Giusti-

niano o al piu tardi con Eraclio dal VII secolo, alcune delle sue

miniature sono fuori dell’ellenismo, pur derivandone, ed apparten-

gono ad un mondo artistico diverso che sara quello bizantino.

Bianchi Bandinelli concluse che piu cicli di illustrazioni omeriche

erano confluiti nel codice milanese e che i nuclei piu importanti di

STILE CONTRO ICONOGRAFIA

29Bianchi Bandinelli, “Continuita ellenistica”, p. 149.

questi cicli si erano originati come pitture, non come illustrazioni di

testi, e vennero in seguito trasferiti nella illustrazione dei libri ome-

rici. Quindi:

“In tesi generale noi sappiamo che nell’eta carolingia e durante tuttal’eta medievale le miniature dei codici sono state un importanteveicolo di diffusione di iconografie e anche di modi artistici, e che daesse dipendono talora anche opere d’arte di grande formato e pitture(questa circostanza ha contribuito a far consistere le ricerche deglispecialisti soprattutto in raccolte iconografiche). Invece per il mondoantico dovremo concludere per il procedimento inverso: le miniature sidimostrano dipendenti iconograficamente dalla grande arte, e solorelativamente tardi esse palesano lo svilupparsi di un gusto artisticoproprio e di regole coloristiche e compositive particolari. (...) Il codiceambrosiano sta, con le sue illustrazioni, a meta strada fra la miniaturache e riduzione e adattamento di pitture e la miniatura autonoma; conprevalenza tuttavia della prima.”

29.

Bianchi Bandinelli piu volte rimarco la sua distanza dalle propo-

ste di Weitzmann. Scrisse nella “Dicussione sull’Iliade Ambrosiana”

del 1961:

“la differenza fondamentale nel modo di considerare i vari problemi,che e stato tenuto dal Weitzmann e da me, e che per il Weitzmann leminiature dell’Iliade Ambrosiana sono considerate esclusivamente uncapitolo di storia della illustrazione del libro, mentre per me sono inprimo luogo un documento della civilta artistica ellenistica e della suacontinuita in epoca cosı tarda, seconda meta del V o inizi del VIsecolo.”.

e nelle “Conclusioni sull’origine e la composizione dell’Iliade Ambro-

siana” del 1973:

“Si potrebbe rafforzare, percio, l’ipotesi che questo codice rappresentouna impresa isolata nella sua completezza, per la quale, come ci siispirava a modelli antichi per le forme della scrittura, si andaronoricercando modelli illustrativi, ma anche pittorici, di eta precedenti.(...) Il valore dell’Iliade Ambrosiana come documento per la storia dellapittura che io avevo cercato di porre in evidenza contro la tendenza avedervi solo un documento per la storia della illustrazione, acquistaimportanza. Viene confermato il processo dal modello pittorico all’illu-strazione nella tarda antichita, mentre poi in eta bizantina si avra il

PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

30Bianchi Bandinelli, “Discussione sull’Iliade Ambrosiana”, pp. 3; id., “Conclusioni”,

ristampa p. 176.31

Per le idee di Weitzmann sui manoscritti policiclici vedi Illustrations in Roll and Codex,

pp. 193-199. R. Bianchi Bandinelli, “La composizione del diluvio nella Genesi di Vienna”,

Mitteilungen des Deutsches Archaologischen Instituts. Romische Abteilung 62 (1955), p. 66-77.32

W. Rittel von Hartel e F. Wickhoff, Die Wiener Genesis (Prag – Wien – Leipzig, 1895);

C. R. Morey, “Notes on East Christian Miniatures. Cotton Genesis, Gospel of Etschmiad-

zin, Vienna Genesis, Paris Psalter, Bible of Leo, Vatican Psalter, Joshua Roll, Petropolita-

nus XXI, Paris gr. 510, Menologion of Basil II”, The Art Bulletin 11 (1929), pp. 5-103; H.

Gerstinger, Die Wiener Genesis (Wien, 1931); P. Buberl, “Das Problem der Wiener Gene-

sis”, Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen in Wien, n. s., 10 (1936), pp. 9-58, e Die

byzantinischen Handschriften, vol. 1, Der Wiener Dioskurides. Die Wiener Genesis, 2 voll.

(Illuminierten Handschriften in Osterreich, 8, 4. Leipzig, 1937-1938).

processo inverso, dall’illustrazione alla pittura o al mosaico. Ed el’abitudine a quest’ordine di derivazioni che rende spesso gli specialistidi miniature meno sensibili ai problemi storico-artistici generali.”

30.

Weitzmann pose varie obiezioni alla proposta di piu cicli di

illustrazioni omeriche come fonti delle miniature del codice mila-

nese; meglio pensare a un modello unico il cui ciclo avesse subito nel

corso dei secoli modifiche della struttura compositiva delle sue illu-

strazioni. Le tesi generali di Weitzmann sulla storia della illustrazione

dei testi in eta classica e medievale sono state confermate da molte

indagini posteriori su cicli miniati, ma non riguardano piu la nostra

narrazione; tuttavia, va detto che la collazione di piu cicli al fine di

produrre un nuovo ciclo miniato per la nuova edizione di un testo in

un codice – l’idea di Bianchi Bandinelli osteggiata da Weitzmann per

l’Iliade Ambrosiana – deve essere presa come metodo diffuso nella

produzione di nuove edizioni di manoscritti miniati – un processo

che e normale nella produzione di nuove edizioni di testi. Weitz-

mann stesso la ammise per molti cicli miniati medievali (i casi di

manoscritti miniati da lui definiti policiclici).

Bianchi Bandinelli sostenne nuovamente l’idea di una fusione in

un unico ciclo di illustrazioni provenienti da cicli diversi per la

Genesi di Vienna (fig. 119), un altro dei piu famosi manoscritti

bizantini, al quale dedico un saggio nel 1955 in molto basato sull’ap-

proccio alle illustrazioni bibliche medievali elaborato da Morey e

Weitzmann31

. La Genesi di Vienna era stato uno dei codici piu

discussi quanto a datazione e luogo di origine sin dalla fine dell’Otto-

cento; ad essa avevano dedicato studi dettagliati Wickhoff (1895),

Morey (1929), Buberl (1936 e 1937-1938) e Hans Gerstinger

(1931)32

. Bianchi Bandinelli si associo alla proposta di Buberl: il

STILE CONTRO ICONOGRAFIA

33Bianchi Bandinelli accetto le conclusioni degli studiosi di Princeton sulla nascita della

illustrazione narrativa della Bibbia con cicli molto estesi e dettagliati che furono poi

abbreviati in successive edizioni durante il medioevo: anche nell’Iliade Ambrosiana le

miniature che apparivano originatesi in epoca piu antica contengono piu episodi consecu-

tivi.34

La conclusione di un modello monumentale per il Diluvio parve a Bianchi Bandinelli

confermata dal confronto con altre illustrazioni del diluvio o dell’episodio simile dell’attra-

versamento del Mar Rosso nell’arte bizantina, in particolare nei manoscritti delle Omelie di

Gregorio Nazianzeno di Parigi (Biblohteque Nationale, cod. gr. 510) e del Salterio di Parigi

(cod. gr. 139 della medesima biblioteca). Inoltre, per Bianchi Bandinelli, la lettura stilistica

condotta sulle prime due miniature della Genesi di Vienna, che raffigurano il peccato

originale e la cacciata dal Paradiso e sembrano “quadri” piuttosto che “illustrazioni”, fa

ugualmente pensare, come per il diluvio universale, ad un modello antico costituito da un

ciclo di affreschi o di pitture su tavola.

codice di Vienna e una copia eseguita ad Antiochia nell’ultimo

quarto del VI secolo di un codice di eta giustinianea, che a sua volta

risaliva a un codice illustrato del IV secolo. Lo stile del codice, che e

rivolto all’astrazione e nega consapevolmente il rapporto realistico tra

figura e spazio, rappresenta la nuova arte aulica costantinopolitana,

espressione aristocratica della societa cristiana formatasi nella capi-

tale dell’impero d’Oriente. Nel modello del IV secolo, secondo

Bianchi Bandinelli, doveva essere un ciclo di illustrazioni della storia

di Noe, delle quali ci restano solo quattro miniature contenenti sei

scene nella Genesi di Vienna33

; di queste, la scena del diluvio univer-

sale ha una composizione prospettica e uno stile espressionistico che

devono riflettere la composizione grandiosa di una pittura murale del

III secolo elaborata in un qualche centro ellenistico che resta da

individuare34

.

Le relazioni tra pittura e miniatura e tra studiosi della pittura e

studiosi della illustrazione dei testi e dell’iconografia furono i princi-

pali problemi storici e metodologici sui quali l’Iliade Ambrosiana

costrinse Bianchi Bandinelli a prendere posizione contro le tesi dei

princetoniani e in particolare di Weitzmann. Bianchi Bandinelli insi-

ste ripetutamente contro la ricostruzione di Weitzmann dei processi

di trasmissione dei cicli illustrativi da modello a copia, che il filologo

figurativo di Princeton immaginava alla stregua del processo di

copiatura di un testo da un codice a un altro. Molte obiezioni a

Bianchi Bandinelli furono fatte da Bertelli nella sua recensione a

Hellenistic-Byzantine Miniatures of the Iliad. In particolare, Bertelli

respinse due dei capisaldi di Bianchi Bandinelli: il pregiudizio di un

livello qualitativo basso delle illustrazioni nei rotoli e l’idea della

derivazione delle miniature (arte minore) dalle pitture (arte mag-

giore) cosı come posta dall’archeologo:

PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

35Bertelli, Recensione a Bianchi Bandinelli, Hellenistic-Byzantine Miniatures of the Iliad,

pp. 463-464; per le critiche a Weitzmann vedi pp. 465-466 e 467 nota 1.36

Sull’arte bizantina Bertelli ritorno recensendo la mostra Byzance et la France medievale.

Manuscrits a peintures du IIe

au XVIe

siecle, Paris, Bibliotheque Nationale [1958-1959],

catalogo della mostra (Paris, 1958): C. Bertelli, “Riflessioni sulla mostra della miniatura

bizantina a Parigi”, Bollettino d’arte 44 (1959), pp. 85-91.

“qualche dubbio potrebbe sorgere sulla attendibilita di una visioneunilaterale della relazione tra pittura parietale e miniatura nell’‘illustra-zione’ omerica. Ritorna qui il presupposto che la miniatura non abbiaraggiunto, se non relativamente tardi, agli inizi del medioevo, livellod’arte, restando in eta ellenistica non soltanto nei limiti di un genereinferiore, il cui livello artistico potrebbe essere tuttavia altissimo, maanche in quelli di una qualita scadente, o al piu artigiana.”.

Bertelli porto gli esempi delle Imagines di Varrone con i ritratti di

uomini illustri e di bibliofili citati da Seneca:

“Insomma non si vedrebbe la ragione di ritenere che libri di cui sifaceva gran conto, e che venivano custoditi in “armaria e citro atqueebore”, non potessero essere illustrati da grandi pittori: in particolarenon mi sentirei di sostenere, con il Bianchi Bandinelli, che finche learti ‘fiorirono’ la miniatura, come “lesser artistic manifestation”, do-vette dipendere dalle arti maggiori, per emanciparsi soltanto con ilvenir meno di quelle e dei “social elements” che le avevano sostenu-te.”

35.

Le tesi di Bianchi Bandinelli sui rapporti tra pittura monumen-

tale e miniatura e sulla storia della illustrazione dei testi classici si

prestano a molteplici e sostanziali obiezioni; di fatto, esse non si

adattano alla storia della illustrazione dei testi e sono state accanto-

nate. Nella recensione a Bianchi Bandinelli, Bertelli espresse critiche

generali anche alle teorie di Weitzmann, perche troppe rigide nel

delineare la storia dell’illustrazione antica atraverso i pochi fram-

menti di rotoli illustrati sopravvissuti36

.

e. I Bizantini a Castelseprio

La scoperta degli affreschi di Santa Maria foris Portas di Castelseprio

avvenne nel 1944 con la rimozione di uno strato d’intonaco quattro-

centesco nell’abside della chiesa. La scoperta seguı un decennio di

ricerche archeologiche condotte sul sito da Gian Piero Bognetti, che,

STILE CONTRO ICONOGRAFIA

37G. P. Bognetti, G. Chierici e A. De Capitani d’Arzago, Santa Maria di Castelseprio

(Milano, 1948): Bognetti, “S. Maria foris Portas di Castelseprio e la storia religiosa dei

Longobardi”, pp. 11-511; Chierici, “L’architettura di S. Maria di Castelseprio”, pp.

513-535; De Capitani d’Arzago, “Gli affreschi di S. Maria di Castelseprio”, pp. 537-711.38

De Capitani d’Arzago, “Gli affreschi di S. Maria di Castelseprio”, pp. 655-656:

“Ma non chiediamo altro per ora all’iconografia: ad essa torneremo unicamente quando

l’esame stilistico avra condotto ad ipotesi cui il ricorso in sede iconografica potra rafforzare

con una conferma oppure svalutare, non mai negare, con una palese contraddizione: non

mai negare, perche l’elemento stilistico sovrasta quello iconografico. Prescindendo infatti

dall’estrema ed indiscutibile abitudine all’emigrazione insita nella materia iconografica,

osservo che se e ammissibile che l’artista appartenente ad una determinata corrente, mosso

da una o piu ragioni contingenti, abbandoni per una volta o addirittura per un lunga serie

di opere, la sua tradizione iconografica, non e per contro possibile che egli, si mantenga o

non si mantenga fedele a quest’ultima, muti l’arte sua: comunque: in tale teorico caso la sua

con la Fondazione Treccani per la Storia di Milano, pubblico nel

1948 una monografia sulla chiesa (figg. 120-121); qui, Gino Chierici

scrisse il capitolo sull’architettura, Alberto De Capitani d’Arzago

quello sugli affreschi, mentre Bognetti si riservo l’introduzione sto-

rica che occupa la gran parte del libro37

. La qualita degli affreschi e il

loro carattere ancora cosı ellenistico a una data che comunque

doveva essere compresa tra il VI e la prima meta del X secolo (due

termini cronologici forniti dai dati costruttivi della chiesa e dai

graffiti sugli affreschi) costituirono il problema interpretativo prima-

rio sollevato dalla scoperta. De Capitani, deceduto appena prima di

presentare gli affreschi al congresso di studi bizantini di Parigi del

1948, cerco di destreggiarsi nel suo capitolo del libro su Castelseprio

tra l’unicita degli affreschi all’interno del panorama dell’altome-

dioevo italiano e l’ignoranza degli sviluppi dell’arte bizantina nelle

regioni orientali durante i secoli VI-X. De Capitani scelse come

approccio la lettura formale e recito anche lui la sua professione di

fede contro la validita degli studi sul contenuto: gli studi iconografici

possono solamente “rafforzare con una conferma, oppure svalutare,

non mai negare, con una palese contraddizione” quanto emerso

dall’indagine stilistica, “perche l’elemento stilistico sovrasta sempre

quello iconografico”: un artista puo mutare la sua tradizione icono-

grafica, ma, al contrario, non puo mai avvenire che l’artista “muti

l’arte sua”, cioe il suo stile. La scarsa conoscenza nell’Italia del

periodo fascista e dei primi anni del dopoguerra delle vie percorse

dalla ricerca all’estero e la causa probabile di queste debolissime

asserzioni metodologiche: perche lo stile sia al di sopra delle terrene

mutazioni dell’iconografia De Capitani non lo spiego e puo essere

preso solo come dogma, lo stile presumibilmente corrispondendo

all’anima dell’artista38

. Tagliatasi cosı la strada per utilizzare nuove

PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

opera non rientrerebbe ai nostri occhi nel clima cui solo storicamente, se mai, appartenne;

ma andrebbe a schierarsi con quelle dell’ambiente cui l’artista avrebbe saputo uniformarsi:

il che del resto, non puo darsi mai. Tale predominio dello stile sull’iconografia intendo poi

come perentorio soprattutto quando, come nel nostro caso, non si tratta di un’opera stanca

uscita dalla mano di un artista fiacco e pedissequo, ma di un’opera fervidamente creata da

chi si dimostra padrone dei propri mezzi e sa esprimere ogni schema come suo riportandoci

comunque non mai ai margini ma nel vivo della sua corrente e della sua scuola.”.39

L’esempio piu celebre di questa tesi alessandrina di Morey erano gli affreschi di Santa

Maria Antiqua. Le idee di Morey sul ruolo di Alessandria come continuatrice della

tradizione artistica dell’ellenismo nel Medioevo non hanno piu seguito. Esse vennero

riassunte in C. R. Morey, Early Christian Art. An Outline of the Evolution of Style and

Iconography in Sculpture and Painting from Antiquity to the Eighth Century (Princeton, 1942)

ed in forma riassuntiva nell’intervento al convegno di storici dell’arte di Firenze del 1948:

“Il Rinascimento bizantino”, in Atti del Primo Convegno Internazionale per le arti figurative,

pp. 90-100. A sostegno di questo panalessandrinismo erano usciti in precedenza: C. R.

Morey, “The Sources of Mediaeval Style”, The Art Bulletin 7 (1924-1925), pp. 35-50; id.,

“Notes on East Christian Miniatures”; M. Avery, “The Alexandrian Style at Santa Maria

Antiqua, Rome”, The Art Bulletin 7 (1924-1925), pp. 131-149.40

Weitzmann aveva da poco pubblicato una monografia sul Rotulo di Giosue dimo-

strando la sua appartenenza all’arte della corte di Costantinopoli del X secolo, appunto,

interpretazioni e strumenti aggiornati di indagine su Bisanzio, De

Capitani cerco di barcamenarsi tra confronti con opere orientali e

con opere in Italia, affogando in citazioni di monumenti sparsi qua e

la nel Mediterraneo orientale; riemerse approdando all’idea di artisti

orientali in fuga dalle invasioni arabe, che si sarebbero rifugiati in

Occidente dando prova qui e altrove della loro arte di tradizione

ellenistica, idea che era stata di Morey39

. In conclusione, De Capitani

suggerı confronti iconografici con la Palestina e stilistici con la Siria;

esclusa Costantinopoli come patria dell’autore delle pitture, questo

sarebbe stato un profugo giunto in Occidente agli inizi del VII

secolo, attivo agli affreschi nello stesso periodo in cui si innalzava la

chiesa, cioe la prima meta di quel secolo.

Le conclusioni di De Capitani non ressero alle prime critiche dei

bizantinisti: i confronti con Siria e Palestina furono dimostrati infon-

dati con facilita dai vari studiosi intervenuti successivamente sugli

affreschi, fossero o no d’accordo con la sua datazione al VII secolo.

Nel 1951 Weitzmann pubblico una monografia sugli affreschi, le

conclusioni della quale furono anticipate da un articolo in italiano

sulla Rassegna Storica del Seprio del 1949-1950. Weitzmann punto

senza tentennamenti al X secolo per la datazione e indico l’autore in

uno dei pittori all’opera nelle miniature dei piu famosi manoscritti

classicheggianti (il Rotulo di Giosue e il Salterio di Parigi) di quel

periodo dell’arte bizantina che lui denomino Rinascenza Macedo-

ne40

. Weitzmann mise a frutto per la datazione tarda degli affreschi le

STILE CONTRO ICONOGRAFIA

contro una datazione suggerita da una parte della critica, tra cui Morey, al VII secolo, che

fu da allora accantonata: Weitzmann, The Joshua Roll.41

K. Weitzmann, “Gli affreschi di S. Maria di Castelseprio”, Rassegna Storica del Seprio,

fasc. 9-10, 1949-1950, pp. 12-27; The Fresco Cycle of S. Maria di Castelseprio (Princeton,

1951).42

G. P. Bognetti, “Aggiornamenti su Castelseprio”, Rassegna Storica del Seprio, fasc.

9-10, 1949-1950, pp. 28-66. C. Cecchelli, Recensione a K. Weitzmann, The Fresco Cycle of

S. Maria di Castelseprio, Princeton, New Jersey, Princeton University Press, 1951, id. , “Gli

affreschi di S. Maria di Castelseprio”, Rassegna Storica del Seprio, 1949-1950, fasc. IX-X,

pp. 12-27, A. De Capitani d’Arzago, “La scoperta di Castelseprio”, ivi, pp. 5-11, G.

Bognetti, “Aggiornamenti su Castelseprio”, ivi, pp. 28-66, Byzantinische Zeitschrift 45

(1952), pp. 97-104. G. Giacomelli, Recensione a G. P. Bognetti, G. Chierici, A. De

Capitani d’Arzago, Santa Maria di Castelseprio, Milano 1948, Felix Ravenna, ser. 3, fasc. 2

(agosto 1950), pp. 58-76. Il conflitto ideologico Roma – Oriente per il caso di Castelseprio

fu portato allo scoperto fin dal 1952 da P. Lemerle, “L’archeologie paleochretienne en

Italie. Milano et Castelseprio, «Orient ou Rome», Byzantion 22 (1952), pp. 165-206.

sue vastissime conoscenze iconografiche, ma rilevo anche, da una

parte, le loro affinita stilistiche con le miniature bizantine del X

secolo e, dall’altra, le loro differenze con gli affreschi romani di Santa

Maria Antiqua41

.

f. La reazione italiana e l’interventosovietico su Castelseprio

Sullo stesso fascicolo della Rassegna Storica del Seprio nel quale aveva

invitato Weitzmann ad anticipare il contenuto della sua monografia

inglese, Bognetti mise in discussione le conclusioni dello studioso di

Princeton; anche Cecchelli contesto la datazione al X secolo in una

recensione del libro di Weitzmann; altri recensori ricondussero all’I-

talia la paternita degli affreschi, supponendo, per spiegarne l’attacca-

mento alla tradizione pittorica ellenistica, una continuita dell’arte

romana da Roma alle nuove capitali d’Occidente, Milano e Ravenna.

Ancora una volta si riaffaccio l’idea della difesa del ruolo di Roma

nei confronti dell’Oriente nell’arte medievale42

. Anche Toesca, che

aveva scritto un colorito resoconto del suo viaggio a Castelseprio alla

scoperta degli affreschi per Il Nuovo Giornale d’Italia ed era poi

ritornato su di essi con un articolo sul volume de L’Arte del

1948-1951, non accetto, comuque, la datazione di Weitzmann. Nel

resoconto giornalistico Toesca rimase stupefatto dallo stile insolito

degli affreschi, dall’“impasto vigoroso del colore”, dalle vivaci espres-

sioni drammatiche e dall’insolito senso di profondita: in queste

pitture dai richiami pompeiani “ci si smarrisce a cercar confronti fra

PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

43P. Toesca, “Castel Seprio. Una nuova pagina della pittura medioevale”, Il Nuovo

Giornale d’Italia, 46, n 188 (10 agosto 1947); “Gli affreschi di Castelseprio”, L’arte 51, n. s.

18, (1948-1951), pp. 12-19. Toesca giudico punto convincenti le conclusioni della mono-

grafia di Weitzmann in una lettera a Berenson gia citata al Capitolo 7, paragrafo b.44

E. Arslan, “La pittura dalla conquista longobarda al Mille”, in Storia di Milano, vol. 2,

Dall’invasione dei barbari all’apogeo del governo vescovile (493-1002) ([Milano] 1954), pp.

631-654, specialmente pp. 638 sgg.

quanto si ricordi di pittura medievale”. Toesca nego richiami alla

miniatura carolingia e ottoniana; la freschezza della fattura gli fece

escludere come raffronti i manoscritti miniati bizantini del X secolo e

lo condusse alla proposta di un artista costantinopolitano del VI o

VII secolo. Su L’Arte, Toesca ripropose gli inizi del VII secolo come

datazione ed un pittore orientale come autore, negando ancora una

volta che il vigore classico degli affreschi potesse essere ricondotto

all’Occidente43

.

Non tutti gli storici dell’arte italiani degli anni Cinquanta furono

in disaccordo con Weitzmann. Edoardo Arslan nella Storia di Milano,

riconoscendo l’autorita ed il peso delle sue argomentazioni, rinuncio

alla sua precedente idea di una datazione degli affreschi al VII secolo

e, nonostante i pronunciamenti di critici italiani e stranieri, accetto le

opinioni “solidissime” di Weitzmann a favore dei contatti con il

Rotulo di Giosue, il Salterio di Parigi e altri manoscritti della Rina-

scenza Macedone: la ricerca di un monumento del VII secolo che si

ricongiungesse stilisticamente agli affreschi di Castelseprio parve ad

Arslan disperata; salomonicamente concluse per un datazione al IX

secolo con qualche dubbio44

. Al solito, il piu brusco degli italiani fu

De Francovich, che, nel suo saggio sull’arte siriaca in Commentari del

1951, in uno dei tanti sconfinamenti dal suo argomento, boccio,

sulla base di argomentazioni di principio contro la metodologia di

Weitzmann, la datazione degli affreschi di Castelseprio al X secolo;

la bocciatura cosı fu espressa:

“Non c’e dunque da meravigliarsi se qualche studioso come il Weitz-mann, intento generalmente a minuziose indagini di marca pretta-mente filologica (i cui risultati peraltro non sono sempre attendibili[...]), abbia assegnato gli affreschi di Castelseprio, per le concordanzemeramente esteriori con le miniature del Salterio di Parigi, del rotulodi Giosue e della cosiddetta Bibbia di Leone nella biblioteca vaticana,ad un artefice costantinopolitano della prima meta del secolo X (...). IlWeitzmann ha qui commesso lo stesso errore di valutazione qualitativaed estetica in cui incorse nei riguardi dell’autore dell’illustrazioni delrotulo di Giosue, non accorgendosi cioe del modesto valore di questo

STILE CONTRO ICONOGRAFIA

45De Francovich, “L’arte siriaca e il suo influsso”, citazione da p. 6 nota 1.

miniatore e traendo quindi da questa errata premessa conclusioniinaccettabili. ”

45.

Se la discussione su Castelseprio restava aperta, sul Rotulo di

Giosue De Francovich aveva sentenziato senza adeguato sapere. Nel

1953, su Sibrium, Bognetti riuscı a pubblicare in traduzione italiana

un articolo di Viktor Lazarev, del Presidium dell’Accademia delle

Scienze di Mosca, apparso originariamente in russo su Vizantijskij

Vremennik dello stesso anno. L’articolo voleva provare la datazione

alta, al VI-VII secolo, degli affreschi di Castelseprio, ma fu soprat-

tutto una invettiva contro Weitzmann e il suo metodo, come dichia-

rato senza velature nel sottotitolo “Critica alla teoria di Weitzmann

sulla Rinascenza Macedone”. Davvero, il tono fu dogmatico, le

espressioni usate furono offese personali: la scomunica idelogica

sovietica di uno studioso di parte americana nel periodo della guerra

fredda. Lazarev mise in luce l’alta qualita dello stile classico degli

affreschi e li attribuı ad un maestro orientale di passaggio; nel

contempo, il testo di Lazarev si dilungo in ripetitivi attacchi contro la

arbitrarieta e la pedanteria delle ricerche iconografiche di Weitz-

mann, basate su “comparazioni assurde e sforzate”; il suo metodo e

“puramente superficiale e meccanico”, “impoverisce infinitamente il

concetto di iconografia” ed “ha un’aria talmente artificiosa e poco

naturale, da sembrare una caricatura del metodo storico-

comparativo”; la sua datazione al X secolo non solo e inattendibile,

ma “frutto di un’errata interpretazione di tutto il processo di svi-

luppo della pittura bizantina”; “la sua teoria appare campata per

aria, dato che la sua infondatezza storica e subito evidente a ogni

studioso non dominato da preconcetto”; i suoi errori sono grosso-

lani, le sue affermazioni assurde, la sua teoria “alquanto «sui generis»

(per non dire di piu!)”; Weitzmann,

“che vuole a tutti i costi dare i dipinti di Castelseprio al X sec., rifiutacategoricamente la loro affinita con gli affreschi di S. Maria Antiqua.Tuttavia tale affinita non va neppur messa in discussione per chiunqueaffronti questo particolare problema senza preconcetti.”“Non si puo basare un’analisi iconografica solo sulla comparazione dipose e di gesti delle singole figure, esulando dal contenuto ideologicodi questa o di quella scena. Ma questo e quanto fa precisamenteWeitzmann.”.

PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

46V. Lazarev, “Gli affreschi di Castelseprio (Critica alla teoria di Weitmann sulla

Rinascenza Macedone)”, Sibrium 3 (1957), pp. 85-102; citazioni nel testo da pp. 91, 92,

94, 95, 97, 99 e da nota 8 p. 100.

Lazarev lancio anatemi contro tutta la scuola americana di Prin-

ceton prendendo come esempio le teorie di Weitzmann sul Rotulo di

Giosue come rielaborazione del X secolo di precedenti cicli icono-

grafici prodotta ad hoc nell’ambiente culturale della Rinascenza Ma-

cedone:

“E mai possibile pensare seriamente che il maestro del centro scritto-rio di corte del X sec. abbia seguito effettivamente quella via tortuosa eastrusa, escogitata con tanta leggerezza dalla ardente fantasia delprofessore di Princeton? (...). E chiaro che questa supposizione e unatipica espressione del modo in cui viene effettuato lo studio dell’artemedievale a Princeton, ma essa non regge affatto.”.

Seguono altri esempi dell’assurdita delle conclusioni di Weitz-

mann. Per Lazarev, la causa della straordinaria vitalita della tradi-

zione classica a Costantinopoli, testimoniata dai mosaici del Gran

Palazzo imperiale, dai perduti mosaici di Nicea, dagli affreschi di

Santa Maria Antiqua e di Castelseprio, e nella corrispondenza tra

classicismo in arte e struttura schiavistica della societa, che ancora

permaneva a Bisanzio:

“La causa di cio va ricercata nella lentezza del dissolversi dei rapportischiavistici a Bisanzio. In quel tempo, mentre in Occidente il processodi feudalizzazione si sviluppava abbastanza rapidamente, a Bisanzioesso si arresto per la relativa stabilita delle consuetudini schiavistiche,che Giustiniano in particolare si proponeva di consolidare in ognimodo. In base a vecchi rapporti schiavistici, la vecchia aristocraziasenatoriale conservo per lungo tempo a Bisanzio le sue posizionieconomiche e politiche. (...) In questa atmosfera l’arte classica conti-nuo a trovare i suoi amatori, mentre che in occidente trionfavano gia igusti barbarici. E la famigerata «Rinascenza Macedone», che si costi-tuiva sulla nuova base feudale, non era altro che un debole e nonoriginale riflesso di quella corrente classicheggiante che nel VI-VIIsecolo aveva radici sociali abbastanza salde sul suolo di Costantinopo-li.”

46.

Il tono e gli argomenti di Lazarev, come accademico delle scienze

di Mosca, erano davvero la manifestazione dei riflessi del confronto

postbellico tra Unione Sovietica e Stati Uniti. Perche sia stato richie-

STILE CONTRO ICONOGRAFIA

47Le notizie su Lazarev e Weitzmann sono tratte da Weitzmann, Sailing with Byzantium,

pp. 74, 134 e 382. K. Weitzmann, “Sinaiskaya Psaltir’s illyustratsiyami na polyakh”, in

Vyzantiya, Yuzhnye Slavyane i Drevnyaya Rus’, Zapadnava Evropa. Sbornik statei v chest’ N.

V. Lazareva (Mosca, 1973).

sto quell’articolo per la traduzione e perche Lazarev lo abbia scritto e

concesso resta ignoto; ma, affinche non si equivochi, va detto che tra

Lazarev e Weitzmann intercorreva dal 1931 una calorosa amicizia.

Weitzmann, oltre a essere americano, aveva probabilmente la colpa

agli occhi sovietici di aver dato suoi articoli a Seminarium Kondako-

vianum, la rivista di bizantinistica che veniva pubblicata a Praga dal-

l’esule russo Kondakov. Per un articolo apparso su quella rivista,

Leonid Matzulevitch, il bizantinista russo che aveva scritto il famoso

volume Byzantinische Antike sui piatti d’argento dell’Hermitage e

sulla sopravvivenza dell’arte classica a Costantinopoli, era stato eso-

nerato dal suo incarico di direttore del dipartimento bizantino del

museo di Leningrado. Weitzmann contribuı agli scritti in onore di

Lazarev e rimase in buoni rapporti con i suoi scolari anche dopo la

sua morte. Lazarev, in occasione del congresso di bizantinistica di

Istanbul del 1955, aveva ostentatamente evitato Weitzmann, ma nel

1967, al congresso di bizantinistica di Oxford, Lazarev lo avvicino

per invitarlo a farsi vivo a Mosca al suo indirizzo privato, con la

preghiera di evitare di cercarlo alla Accademia delle Scienze del-

l’URSS di cui era appunto membro47

.

1Ad esempio: Bisanzio, Roma e l’Italia nell’Alto Medioevo, Settimane di Studio del Centro

Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 34, Spoleto, 1988).2

Giotto. Bilancio critico di sessant’anni di studi e ricerche, a cura di A. Tartuferi, catalogo

della mostra, Firenze, Galleria dell’Accademia, 3 giugno – 30 settembre 2000 (Firenze,

2000). G. Previtali, “La periodizzazione dell’arte italiana”, in Storia dell’arte italiana, Parte I,

EPILOGO:

STUDI SULL’ARTE BIZANTINA 1960-2000

La valutazione dell’arte bizantina in Italia nella seconda meta del

Novecento richiederebbe una trattazione che esula dai confini di

questo libro. Qui e solamente proposta una scelta di pubblicazioni

apparse dopo il 1960, una semplice scorsa alle quali mostra che

l’interesse per Bisanzio non e fiorito anche in tempi piu vicini.

Nessun saggio generale sull’arte bizantina e stato pubblicato da parte

di uno studioso italiano ed i nuovi approcci metodologici e le nuove

interpretazioni elaborate dalla bizantinistica all’estero sono stati ac-

colti di norma solo passivamente. L’unico tentativo di aggiorna-

mento sistematico appare quello delle Settimane di Studio del Cen-

tro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo di Spoleto, dove in vari anni

sono stati trattati temi comuni ad Occidente latino e Bisanzio; in

grande maggioranza sono stati stranieri i relatori su argomenti bizan-

tini di queste Settimane1. Quanto a Giotto ed al Duecento, la

discussione e proseguita con l’egemonia dei pasticciati termini lon-

ghiani del “Giudizio sul Duecento”; le divergenze tra epigoni di

Longhi e di Toesca sono culminate nelle due antitetiche interpreta-

zioni delle origini dell’arte italiane proposte da Giovanni Previtali e

Carlo Bertelli nella Storia dell’arte italiana pubblicata da Einaudi dal

1979; il primo, portabandiera della idea di una contrapposizione tra

due mondi, latino e occidentale, nei secoli XII e XIII sul territorio

italiano, e della idea del periodo di Giotto come momento iniziale

dell’arte italiana; l’altro, accanito sostenitore dell’esistenza di istitu-

zioni artistiche inconfondibilmente italiane gia in eta altomedievale2.

PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

Materiali e problemi, Vol. 1, Questioni e metodi (Torino, 1979), pp. 3-95; C. Bertelli, “Traccia

allo studio delle fondazioni medievali dell’arte italiana”, in Storia dell’arte italiana, Parte II,

Dal Medioevo al Novecento, Vol. 1, Dal Medioevo al Quattrocento (Torino, 1983), pp. 3-163.3

O. Demus, The Mosaics of San Marco in Venice, Parte I, The Eleventh and Twelfth

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Cappella Palatina di Palermo. I mosaici del presbiterio (Palermo, 1992), 2, La Cappella Palatina

di Palermo. I mosaici della navata (Palermo, 1993), 3, Il Duomo di Monreale. I mosaici

dell’abside, della solea e delle cappelle laterali (Palermo, 1994), 4, Il Duomo di Monreale. I

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1986). E. Kitzinger, “Bizantina, arte”, in Enciclopedia dell’arte medievale, vol. 3 (Roma,

1992), pp. 517-534.

L’approccio formalistico, minoritario in campo internazionale

durante il periodo trattato in questo libro, e rimasto tale anche dopo.

Il compendio piu celebre sulla pittura bizantina, la Storia della pittura

bizantina di Lazarev, del quale Einaudi nel 1967 pubblico una

traduzione italiana, l’unica in una lingua occidentale, lamenta nella

premessa che “ancor oggi nello studio della pittura bizantina ci si

limita generalmente all’analisi del contenuto iconografico, trascu-

rando il lato artistico delle opere”. Nel torno di quei medesimi anni

la fortuna delle traduzioni italiane di opere su Bisanzio ha conosciuto

l’apice: nel 1966 Sansoni ha pubblicato L’arte bizantina di David

Talbot Rice, traduzione di Art of the Byzantine Era del 1963; di

nuovo Einaudi e nello stesso anno della Storia di Lazarev, il 1967, ha

pubblicato la traduzione de L’arte di Costantinopoli di John Beckwith.

Piu recentemente, nel 1986, UTET ha pubblicato il compendio

inedito di Anthony Cutler e John W. Nesbitt L’arte bizantina e il suo

pubblico, purtroppo in una versione italiana con grotteschi errori. Dei

grandi cantieri bizantini in Italia, i mosaici di San Marco a Venezia

sono stati interamente pubblicati da Demus, mentre Kitzinger ha

avuto appaltato il corpus dei mosaici siciliani del periodo normanno3.

Anche l’Enciclopedia dell’arte medievale dell’Istituto per l’Enciclo-

pedia Italiana di Treccani, ha affidato singole voci a studiosi italiani;

la voce “Bizantina, arte”, pero, contenuta nel volume terzo uscito nel

1992, e ancora di Kitzinger4. Quest’ultimo e emerso come il bizanti-

EPILOGO

5E. Kitzinger, L’arte bizantina. Correnti stilistiche nell’arte mediterranea dal III al VII secolo

(Milano, 1989), traduzione italiana di Byzantine Art in the Making. Main lines of stylistic

development in Mediterranean art 3rd – 7th century (London, 1977); Il culto delle immagini.

L’arte bizantina dal cristianesimo delle origini all’Iconoclastia (Scandicci, 1992), traduzione

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Berichte zum XI. Internationalen Byzantinisten-Kongress, Munchen 1958 (Munchen, 1958),

pp. 1-50.6

A lamentarsi della indifferenza verso i maggiori esponenti della bizantinistica iternazio-

nale sono, tra altri, G. Romano, “Per i maestri del Battistero di Parma e della Rocca di

Angera”, Paragone nn 419-423, 1985, p. 11; A. Tartuferi, La pittura a Firenze nel Duecento

(Firenze, 1990), p. 5. A. Giuliano, “L’illustrazione libraria di eta ellenistica e romana e i

suoi riflessi medievali”, in Vedere i classici. L’illustrazione dei testi antichi dall’eta romana al

tardo medioevo, catalogo della mostra, Salone Sistino, Musei Vaticani, 9 ottobre 1996 – 19

aprile 1997, a cura di M. Buonocore (s.l., 1996), pp. 39-50. Tre edizioni di una traduzione

italiana di Illustrations in Roll and Codex di Weitzmann hanno goduto di una discreta

fortuna: Le illustrazioni nei rotoli e nei codici. Studio della origine e del metodo della illustrazione

dei testi, a cura di M. Bernabo (Firenze, 1983, 19852

e 19913).

nista straniero piu corteggiato in Italia; di lui in traduzione italiana

sono apparsi L’arte bizantina. Correnti stilistiche nell’arte mediterranea

dal III al VII secolo nel 1989 e Il culto delle immagini. L’arte bizantina

dal cristianesimo delle origini all’Iconoclastia nel 1992. Questo quasi

monopolio italiano di Kitzinger sull’arte bizantina, esagerato rispetto

al peso goduto dai suoi lavori all’estero, appare dovuto alla facile

digeribilita della lettura formale che lo studioso applica alla produ-

zione artistica a Bisanzio, descrivendola, per i secoli trattati nei due

libri italiani, come sviluppo generale da una maniera naturalistica di

stampo ellenistico a una maniera sempre astratta, tipicamente bizan-

tina: una schematizzazione che molti documenti figurativi bizantini

del periodo invalidano; una analoga schematizzazione che interpre-

tasse tre o quattro secoli dell’arte dell’Occidente come evoluzione

una maniera stilistica al suo opposto non verrebbe nemmeno consi-

derata nella storiografia artistica moderna5. Invece, anche se studiosi

italiani si lamentano della indifferenza verso Belting, Buchthal, De-

mus e Weitzmann, interpretazioni che discutano l’iconografia alla

pari dello stile sono occasionali negli studi italiani del settore. Come

al tempo di Bianchi Bandinelli, a prendere in considerazione stru-

menti specifici di approccio alla illustrazione dei testi sono gli ar-

cheologi, come Antonio Giuliano, ad esempio, dipendendo ampia-

mente da Weitzmann per la sua traccia storica della illustrazione dei

testi classici, ed insieme a questi una frazione non maggioritaria degli

storici della miniatura6. Da parte di paleografi e storici della produ-

zione libraria e venuto il contributo piu originale su Bisanzio, che

PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

7Vedi soprattutto i lavori di Guglielmo Cavallo, tra i quali “La cultura italo-greca nella

produzione libraria,” in I Bizantini in Italia (Milano, 1982; 2a edizione, Milano, 1986), pp.

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edizione del facsimile e del commentario dell’Evangeliario di Rossano Calabro: Codex

Purpureus Rossanensis, a cura di G. Cavallo, J. Gribomont, W. C. Loerke (Roma, 1987).

coinvolge anche la produzione artistica, cioe la individuazione di una

produzione di manoscritti italo-greci, alcuni di essi miniati, nelle

zone bizantine dell’Italia meridionale7.

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INDICE DEI LUOGHI E DEI NOMI

Accademia d’Italia, 95, 108, 119-120Adam, Paul, Basile et Sophia, 15; Irene

et les Eunuques, 15, 27; Princessesbyzantines, 15

Afrodisia, 256Ainalov, Dimitri V., 73, 210, 257Alarico, 9Alazard, Jean, 199Alessandria (Egitto), 12, 28, 73, 80,

137, 245, 257, 262, 268 nota 39Aletto, 10Alinari, fotografi, 68Alpatov, Mikhail, 133Amalasunta (figlia di Teodorico), 23-24Amato, Domenico, 40Amendola, Giovanni, 134Amida, 81Anagni, cassetta d’avorio, 122Anagni, cattedrale, affreschi, 123, 185Anastasio, 7, 22Andreucci, Marcantonio, 193Anicia Juliana, 256Anna Dalassena, figlia di Isacco Com-

neno, 14Anna Comnena, Alessiade, 14Anrep, Boris, 72Antal, Frederick, 243Antelami, 151, 185Antiochia, 80, 137, 171, 254Antiochia, mosaici, 237, 241, 255, 261,

265Antonello da Messina, 191-192Antonina, moglie di Belisario, 9, 12, 21,

42Apocalisse, la grande meretrice, 33Aquileia, 28, 30, 169Aquileia, basilica di Teodoro, mosaici,

164, 200-201Aquileia nostra, rivista, 168-169

Aquisgrana, Cappella Palatina, 137Ara dei Fileni (Cirenaica), 164-165Arcangeli, Francesco, 112-113, 221Archivio storico dell’arte, 64Argan, Giulio Carlo, 118, 120 nota 5,

121Ariadne, 7Arianna, imperatrice, 28Armeni, 81, 99 nota 21, 122, 171, 190,

199, 208, 259Arslan, Edoardo, 270Arta, 211L’arte, rivista, 64, 177, 270Le arti, rivista, 120, 150, 159, 160 nota

13, 169Art in America, rivista, 136Assisi, chiesa di San Francesco, affre-

schi, 151, 178, 182Ataulfo, re ostrogoto, 26Atene, 12, 121Atene, Palazzo di Zappeion, mostra Art

byzantin art europeen, 250Atene, Piccola Cattedrale, 72Attila, 82Avanti!, giornale, 100

Babele, 90-91Babilonia, 47-48, 90Baglione, Giovanni, 193Baldinucci, Filippo, 57Baldovino, 9Balla, Giacomo, 84Baltimora, Johns Hopkins University,

141Bandini, Angelo Maria, 57Baratta, Angelo, 44-48, 58Barletta, Colosso di Barletta, 172Baronio, Cesare, Annales ecclesiastici, 10Bartlett, W. H., 46 nota 6

INDICE DEI LUOGHI E DEI NOMI

Basilio I, imperatore, 20Basiliola, 25-26, 29-34, 36, 94, 201Basiola, Mario, 35Bassano, Jacopo, 146Bataille, Georges, 97Beckwith, John, 276Belisario, 7-9, 12Bellori, Giovanni Pietro, 57Bellotto, Bernardo, 192Belting, Hans, 277Bencivenga, Eduardo, 38Bendinelli, Goffredo, 41, 127, 155Benevento, chiesa di Santa Sofia,

affreschi, 233Beregan, Nicolo, Giustino, 7-8Berenson, Bernard, 71, 82, 117,

119-122, 125, 131-138, 141, 143,147, 149, 160 nota 13, 177, 179,186, 194, 196, 221-223, 231-232,242, 250, 260-261

Berlinghieri, 61, 134, 136, 185-186Berlinghieri, Berlinghiero, 180Berlinghieri, Bonaventura, 185Berlino, 8Berlino, Staatliche Bildstelle, 211Bernhardt, Sarah, 11, 13-14, 34 nota

15, 37-38Bertelli, Carlo, 251 nota 15, 252, 265,

275Bettini, Sergio, 74, 132-133, 146-148,

167, 170, 182-183, 222, 225-227,257-258

Bianchi Bandinelli, Ranuccio, 100, 111,121, 134, 186 nota 23, 202, 219-220,222 , 233-239 , 245-248 , 251 ,260-266, 277

Bibbia di Borso d’Este, 189Binyon, Laurence, 191Biseo, Cesare, 47-48Blossier, Maria, 35Boccioni, Umberto, 84, 90Bodrero, Emilio, 94Bognetti, Gian Piero, 266-267, 269,

271Boito, Camillo, 63, 65Bollettino d’arte, rivista, 251Bologna, chiesa di San Domenico, 180Bologna, “Convegno per le istituzioni

fasciste di cultura” (“Convegno per laCultura Fascista”), 92-95, 139, 162,189, 197

Bologna, Ferdinando, 232-233

Bolzano, arco di trionfo, 164Bonifacio VIII, papa, 77Borgia, Nilo, 106Bottai, Giuseppe, 93, 107, 120,

150-152, 159, 170, 182, 237Bottari, Stefano, 257Bovini, Giuseppe, 233-234Brandi, Cesare, 120 nota 5Braque, Georges, 84Brehier, Louis, 74, 199, 257Brescia, Museo Civico, lipsanoteca, 29Brunetti, Giulia, 180Bruto, Marco Giunio, 105Buberl, Paul, 121, 257, 264Buchthal, Hugo, 252, 277Butler, Howard Crosby, 73Byron, George Gordon lord, 225Byzantinische Archiv, rivista, 79Byzantinische Zeitschrift, rivista, 73, 79Byzantion, rivista, 73

Cagliari, Universita, 237Calamandrei, Piero, 221Caldesi, Vincenzo, 19, 57Cambellotti, Duilio, 29, 34Cammarano, Salvatore, 8-9Campbell Thomson, R., 261Campigli, Massimo, 158-160Cantarella, Raffaele, 141Caravaggio, 150Carducci, Giosue, 19-20, 57Carlucci, Leopoldo, 28Carra, Carlo, 84, 90, 91 nota 6, 97,

108, 114, 158-160, 175-177, 179Casabella, rivista, 154Casorati, Felice, 140, 161Castelseprio, 267Castelseprio, chiesa di Santa Maria foris

Portas, affreschi, 122, 241, 244,266-273

Catone, Marco Porcio, il Censore, 105Cavallini, Pietro, 107, 130, 136, 145,

176, 178, 195, 207Cavallo, Guglielmo, 262, 278 nota 7Cecchelli, Carlo, 26, 74, 105-106, 200,

211, 222, 233-234, 253, 269Cecchi, Emilio, 93, 118, 138, 182, 193Cefalu , cattedrale, mosaici, 170,

223-224Ceriani, Anton Maria, 68Cesare, Caio Giulio, 105Cesena, Biblioteca Malatestiana, 251

INDICE DEI LUOGHI E DEI NOMI

Cezanne, Paul, 72, 84, 92, 111-115,140, 153, 156, 199, 221

Chardin, Jean Baptiste Simeon, 112Chiarugi, Giulio, 192-193Chierici, Gino, 267Chini, Galileo, 25, 35-38, 40, 72, 83,

117Chirtani, Luigi, 62Christus (La sfinge dello Ionio), film, 39Cigna, Gina, 35Cimabue, 57, 60, 68, 77, 109, 130,

136-137, 141-142, 145, 177-180,182, 184, 195, 207, 227-228, 230,233

Cinegetica, vedi: Venezia, BibliotecaNazionale Marciana, cod. Z 479

Cipro, 132Civate, 195, 206Cividale, Santa Maria in Valle, stucchi,

129Civil, Paolo, 35Civilta moderna, rivista, 214Clara Rhodos, rivista, 173Cleopatra, regina d’Egitto, 33, 39Colasanti, Arduino, 63, 82, 102, 121,

190, 193-196Colbert, Jean-Baptiste, 55Coletti, Luigi, 169, 181, 183, 221Commentari, rivista, 244, 254, 257-258,

270Comneni, 214Congresso Nazionale di Studi Romani,

105-106Contini, Gianfranco, 227Contini Bonacossi, Alessandro, 142,

154 nota 4Coo, 173Coppo di Marcovaldo, 136, 186, 227Copti, 187, 199Corra, Bruno, 91Il Corriere della Sera, giornale, 138, 191

nota 2, 222Cosmati, 60, 145Costantinopoli, 9, 12, 20, 43-51, 56,

58, 61, 97 nota 18, 107, 129, 132,136, 138, 167, 169, 177, 199, 202,211-212, 241, 254, 256, 261-262,268, 270, 272

Costantinopoli, chiesa dei SS. Apostoli,201

Costantinopoli, chiesa di Sant’Irene,46, 137, 173

Costantinopoli, chiesa di San Salvatorein Chora, 65, 173, 222, 226

Costantinopoli, chiesa dei Santi Sergioe Bacco (Piccola Santa Sofia), 46,137

Costantinopoli, chiesa di Santa Sofia, 7,12, 14, 44-47, 49, 58, 62-63, 72, 78,122, 137, 144, 173, 222-223, 241

C o s t a n t i n o p o l i , c i s t e r n a d iYere’-Batan-Seray, 47

Costantinopoli, colonna di Arcadio, 49Costantinopoli, colonna di Costantino,

50Costantinopoli, colonna di Teodosio,

58, 257Costantinopoli, Ippodromo, 12, 16, 23,

47, 49; loggia del Cathisma, 14Costantinopoli, monastero di Studius,

46, 215 nota 33Costantinopoli, mura, 211Costantinopoli, obelisco di Teodosio,

base, 46-47, 58, 256-258Costantinopoli, palazzo di Costantino

Porfirogenito, 211Costantinopoli, palazzo degli Impera-

tori, mosaici, 241, 272Costantinopoli, palazzo di Belisario, 46Costantinopoli, Porta Aurea, 50Costantinopoli, Serraglio, 49Courbet, Gustave, 112Creta, 146Critica fascista, rivista, 95Croce, Benedetto, 89, 93, 97, 119, 139,

142-143 , 182 , 221 , 228-231 ,236-237, 241-248

Cronaca di Manasse, vedi: Roma,Biblioteca Apostolica Vaticana, cod.Vat. slav. II

Cronaca bizantina. Periodico letterario —

sociale — artistico, rivista, 19-21, 38,214

cubisti, 84, 115, 175-176Cutler, Anthony, 276

D’Achiardi, Pietro, 66, 102, 106, 117Dafnı (Atene), monastero, 72, 211, 222Dalila, 10Dalton, Ormond M., 74, 80, 183, 207,

257Damasco, 137Damasco, Grande Moschea, mosaici,

122

INDICE DEI LUOGHI E DEI NOMI

Dami, Luigi, 146D’Ancona, Paolo, 118, 138, 199, 252D’Annunzio, Gabriellino, 38D’Annunzio, Gabriele, 19, 21, 25, 164,

190; La nave, 25, 28-38, 164, 169,201, 214; Trionfo della morte, 39

Dante Alighieri, 104, 164, 178Darcel (direttore della manifattura dei

Gobelins), 14David, Jacques-Louis, 92Daumier, Honore, 92, 112De Amicis, Edmondo, 44, 47-50, 62De Angelis D’Ossat, Guglielmo, 102Debidour, Antonin, 16Decani, 132De Capitani d’Arzago, Alberto, 244,

267-268De Chirico, Giorgio, 149, 158, 183Dedalo, rivista, 134-135De Francovich, Geza, 118, 133, 190,

193, 199, 208, 221, 233, 242,244-245, 254-260, 270

Degas, Edgar, 84, 92, 136De Jerphanion, Guillaume, 199-200,

222Delacroix, Eugene, 9, 24, 92Delbrueck, Richard, 255De Liguoro, Giuseppe, 39Della Seta, Alessandro, 104, 190Dell’Isola, G., 172Del Massa, Aniceto, 110, 154, 181De Marinis, Tammaro, 190, 199Demus, Otto, 122, 222-223, 277Denis, Maurice, 76De Sanctis, Gaetano, 89, 195, 222Desiderio, abate di Montecassino, 206De Vecchi, Cesare Maria, 166De Wald, Ernest T., 133Diaghilev, Sergej, 71Dictionnaire Larousse, 94, 190Diehl, Charles, 12-16, 25, 27, 62,

73-75, 80, 85, 183, 197, 199,207-211, 257

Di Fausto, F., 164Difesa della razza, rivista, 171, 172Dioscoride di Vienna, vedi: Vienna,

Nationalbibliothek, cod. Med. gr. 1Di Pietro, Filippo, 224divisionisti, 153Documents. Doctr ines Arch e o logie

Beaux-arts Ethnographie, rivista, 97Domus, rivista, 110, 154

Donatello, 150Donizetti, Gaetano, Belisario, 8-9, 15Doxa, rivista, 233Dresda, 8Ducati, Pericle, 93, 104, 167-168Duccio di Boninsegna, 60, 68, 107,

130, 136, 145, 178, 195, 207, 227,230, 233

Duquesnel, 11Dura Europos (Siria), sinagoga,

199-200, 235 nota 27, 241, 257Durrien, 252Duthuit, Georges, 74, 76-78, 79 nota

12, 183, 222, 225Dvorak, Max, 252

Ebersolt, Jean, 74-75, 97, 121, 222Edessa, 81, 137, 199Efeso, 80, 137, 256Einstein, Albert, 90Einstein, Carl, 97, 196Elgin and Kincardine, Thomas Bruce

Earl of, 46Encyclopædia Britannica, 72, 190Enciclopedia cattolica, 191 nota 2, 222Enciclopedia dell’arte antica classica e

orientale, 222Enciclopedia dell’arte medievale, 276Encic loped ia I ta l iana (Treccani ,

Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere

ed Arti), 93, 118, 130, 149, 162, 167,178, 189-215, 222, 235, 254

Enciclopedia Universale dell’arte, 222Enrico di Tedice, 180, 186Eraclio, imperatore, 49, 262Erinni, 10Erodiade, 10Etienne d’Auxerre, 77Eudocia, figlia di Belisario, 8-9Eudocia, moglie di Teodosio II,

imperatrice, 14Eusebio di Cesarea, 60Eva, 10Evangeliario di Rabbula o Rabula, vedi:

F i r e n z e , B i b l i o t e c a M e d i c e aLaurenziana, cod. Plut. 1.56

Falena, Ugo, 34Fattori, Giovanni, 141fauves, 77-78, 90, 111, 155Federico II, 124Federico Augusto II di Sassonia, 8

INDICE DEI LUOGHI E DEI NOMI

Ferrari, Giannino, 209, 211Filadelfia, 8Fillia (Luigi Colombo), 139Fini, Leonora, 158Fiocco, Giuseppe, 66, 168, 192, 257Fiorentino, Italo, Teodora. Romanzo

storico bizantino, 21-23, 26, 38, 40Firenze, 8, 76, 227Firenze, Battistero di San Giovanni,

mosaici, 177F i r e n z e , B i b l i o t e c a M e d i c e a

Laurenz i ana , cod . p lu t . 1 .56(Evangeliario di Rabbula), 58 nota 6,60, 123, 125-126, 169, 242, 250 nota13, 253, 255-256; cod. plut. 5.9(Catena sui Profeti), 57, 124 nota 10;cod. plut. 5.38 (Ottateuco), 124 nota10, 250 nota 13; cod. plut. 6.23(Vangeli), 250 nota 13; cod. 6.28(Vangeli), 250 nota 13; cod. plut.9.28 (Cosma Indicopleuste), 250nota 13; cod. plut. 74.7 (Raccoltaippocratica), 58 nota 6, 250 nota 13

F i r e n z e , B i b l i o t e c a M e d i c e aLaurenziana, mostra della bibliotecadi Lorenzo il Magnifico, 251

Firenze, chiesa di Santa Maria delFiore, cupola,

Firenze, chiesa russa, 73 nota 2Firenze, Congresso Nazionale di Storia

dell’Architettura, 102Firenze, Galleria degli Uffizi, Mostra

giottesca, 149, 162, 175, 179, 183Firenze, Museo Nazionale del Bargello,

dittico d’avorio con l’imperatriceArianna, 28

Firenze, Palazzo Strozzi, ConvegnoInternazionale per le Arti Figurative,226, 244

Firenze, Universita, 221, 237 nota 32Flaubert, Gustave, La tentation de Saint

Antoine, 38Flora, Francesco, 214Focillon, Henri, 81 nota 16Fogolari, Gino, 201Formes, rivista, 119Fradeletto, Antonio, 35Friend, Albert Mathias Jr, 73, 210, 234,

237, 252-253Frusta, 38Fry, Roger, 72, 115Funi, Achille, 158

Furlani, Giuseppe, 253Furse, Alberto D., 50futuristi, 83, 90-91, 115, 139-140Gadda, Carlo Emilio, 25, 220Galassi, Giuseppe, 41, 82, 84, 99, 104,

122, 145-146, 244-245Galassi Paluzzi, Carlo, 101, 103, 105,

107, 165Galbiati, Giovanni, 260-261Galla Placidia, 26Gallone, Carmine, 165Gamba, Carlo, 177, 194Garavaglia, Ferruccio, 29Garrison, Edward B., 227-230, 232,

246Garrucci, Raffaele, 59-60Gauguin, Paul, 84, 112-113Gautier, Theophile, 9, 43-44, 48-49, 56Gelimero, re dei Vandali, 8Genesi Cotton, vedi: Londra, British

Library, cod. Cotton Otho B.viGenesi di Vienna, vedi: Vienna,

Nationalbibliothek, cod. Theol. gr. 1Genova, Biblioteca delle Missioni

Urbane, 121Gentile, Giovanni, 92, 94, 119, 145,

169, 189-195, 199, 207-209George, Waldemar, 119Gerarchia, rivista, 96Gerola, Giuseppe, 168Gerstinger, Hans, 252, 264Gibbon, Edward, 10, 55Giglioli, Giulio Quirino, 92, 94, 107,

162-164Giglioli, Odoardo H., 181Giolli, Raffaello, 154-155, 220Il Giornale d’Italia, giornale, 97-100,

114, 118, 138, 190, 196Giotto, 57, 67, 77, 88, 104-105,

109-110, 112, 114, 130, 136, 141,150-151, 172, 175-182, 184-185,189, 192, 194-195, 203-204, 207,275

Giovanni VII, papa, 198-199Giovanni da Milano, 183Giovanni Pisano, 142Giovannoni, Gustavo, 66, 102, 104,

190, 208-209Giuliano l’Apostata, film, 34Giunta Pisano, 136, 180, 195, 207Giustiniano, 7-14, 17-19, 23, 25, 27,

30, 38, 41-42, 49, 56, 87, 104, 107,

INDICE DEI LUOGHI E DEI NOMI

137, 147, 164, 166-167, 200,210-212, 214, 261-262, 272

Giustino I, imperatore, 7Giustino II, imperatore, 52Giusto de’ Menabuoi, 146, 183Gnoli, Domenico, 64Gobetti, Piero, 140Goldschmidt, Adolf, 73-74, 252Golubev, Victor, 191Gozzoli, Benozzo, 112Grabar, Andre, 122, 249Grado, 201Graeven, Hans, 65Grasset, Eugene, 37Gray, Giuseppe, 39El Greco, 152-154, 188Gregorio di Tours, 17Grottaferrata, abbazia di San Nilo, 68Gruppo dei Sei (pittori), 140Gualino, Riccardo, 121, 139-142, 165,

186Guardi, Francesco, 142Guazzoni, Enrico, 39Guidi, Michelangelo, 200Guido da Siena, 138, 141, 195

Handel, Georg Friederich, Giustino, 8Haseloff, Arthur, 250Hayez, Francesco, 24Heisenberg, A., 257Herczeg, Ferenc, Bizanc, 15Hermann, H., 250, 252Hermanin, Federico, 66, 198-199, 202Holbein, 9Hosios Lukas (Focide), chiesa, 211, 222Houssaye, Henri, 17Huysmans, Joris-Karl, A rebours, 33

Iliade Ambrosiana, vedi: Milano,Biblioteca Ambrosiana, cod. F. 205inf.

Illustrazione toscana, rivista, 181impressionisti, 115Ingres, Jean-Auguste-Dominique, 24Interlandi, Telesio, 171Irene, moglie di Leone IV, imperatrice,

14, 27Isambert, Francois Andre, 10Istanbul, Biblioteca del Serraglio, cod. 8

(Ottateuco), 133Istanbul, congresso di bizantinistica, 273Istanbul, Museo Archeologico, patena

di Stuma, 256

Jacopi, Giulio, 173

Kandinsky, Vasilij (Wassily), 71-72,153, 155

Kauffmann, C. M., 81Kiev, 199Kitzinger, Ernst, 223, 231, 276-277Klimt, Gustav, 25, 37, 72, 84, 90Kondakov, Nikodim Pavlovich, 56, 62,

73, 123, 273Krumbacher, Karl, 62, 123, 212Kuhnel, Ernst, 199-200

Labarte, Jules, 59Laborde, Leon Emmanuel de, 252Lacerba, rivista, 84Lalique, Rene, 13Lami, Giovanni, 57Lanzi, Luigi, 57Largajolli, Dionigi, 15Lazarev, Viktor, 121, 133, 222, 258,

271-273, 276Legrenzi, Giovanni, 8Leonardo da Vinci, 203-204Leone X l’Armeno, imperatore, 201Leone, scriba, 122Leopardi, Giacomo, 50Le Roux, Hugues, Amants byzantins, 15Lethaby, William Richard, 72Levi, Teodoro (Doro), 236-237, 255,

257, 260Levi Della Vida, Giorgio, 199Licini, Osvaldo, 153Loewy, Emanuel, 199Lombard, Jean, Byzance, 15Londra, 8, 90Londra, British Library, cod. Cotton

Otho B.vi (Genesi Cotton), 60, 63,65, 67

Londra, Covent Garden Theatre, 8Londra, Royal Academy, Exhibition of

Italian Art 1200-1900, 97Londra, Tate Gallery,Longhi, Roberto, 78, 118, 120-121,

128, 134, 141-143, 146 nota 24, 151,154, 175, 182-188, 193, 220-221,223-233, 242-244, 246, 251, 254,275

Lotti, Antonio, Teofane, 8Lucca, Museo Nazionale di Villa Guini-

gi, crocifisso, 185Lucca, Pinacoteca, 180Luciano, Dialoghi delle cortigiane, 11

INDICE DEI LUOGHI E DEI NOMI

Luigi XIV, re di Francia, 55Lussac, Victor de, Leggenda siracusana

dell’anno 1000, 39

Maestro di Isacco, 178Malaparte, Curzio, 220Malkiel-Jirmounski, Miron, 199-200Malraux, Andre, 97Mancinelli, Luigi, 34Mancini, Antonio, 136Mancini, Giulio, 57Manet, Edouard, 115, 136Manifesto degli intellettuali antifascisti,

93, 139Manifesto degli intellettuali fascisti, 93Manuele II Comneno, imperatore, 214Maometto II, sultano ottomano, 47, 50Marangoni, Luigi, 201Marcantonio e Cleopatra, film, 38Marchionni, Luigi, 9Marco, evangelista, 28, 31, 34Marconi, Guglielmo, 190Marconi, Pirro, 105Margaritone d’Arezzo, 136, 187 nota

24Marinetti, Filippo Tommaso, 90, 93Marmontel, Jean-Francois, Belisaire,

8-9, 15Martini, Simone, 142Masaccio, 105, 114, 150, 175, 183,

102, 194, 196Masolino da Panicale, 183, 196Massenet, Lules-Emile-Frederic, 11Mataloni, 37Matisse, Henri, 77-78, 79 nota 12, 84,

111-113, 155-156, 186, 199, 221M a t z u l e v i t c h ( M a t s u l e v i c h ,

Matzulewitch), Leonid, 273Matteotti, Giacomo, 139Matthiae, Guglielmo, 231Maurer, 8Maurizio, imperatore, 261Mazzini Society, 141Megera, 10Menologio di Basilio II, vedi: Roma,

Biblioteca Apostolica Vaticana, cod.Vat. gr. 1613,

Mercati, Giuseppe Silvio, 74, 190, 261Merion, Pennsylvania, The Barnes

Foundation, 155Messina, Biblioteca Universitaria,

mostra dei codici del SS. Salvatoredell’Acroterio, 251

Meteora, 21Michelangelo Buonarroti, 84, 105, 112,

114, 142, 150, 161, 175, 192, 194,196, 203-204, 231

Michele Paflagonico, imperatore, 20Milano, 93, 167, 269Milano, Cattedrale, 76Milano, Biblioteca Ambrosiana, cod. D

67 sup. (Evangeliario), 124 nota 10;c o d . E 4 9 / 5 0 i n f . ( G r e g o r i oNazianzeno), 249; cod. F 205 inf.(Iliade Ambrosiana), 67-68, 235-236,242, 260-266

Milano, Biblioteca Trivulziana, mostradi codici miniati del Rinascimento,251

Milano, Duomo, reliquiario di SanNazaro, 29

Milano, Fondazione Treccani per laStoria di Milano, 267

Milano, Mostra del Novecento, 95, 143Milano, Musei del Castello Sforzesco,

avorio con San Menas, 33; testafemminile (Teodora?), 84-85

Milano, Palazzo de Il popolo d’Italia(Palazzo dell’Informazione), 160, 161nota 14

Milano, Palazzo di Giustizia, 159Milano, Teatro La Scala, 35Milano, Teatro Manzoni, 18Milano, Triennale di arti decorative e

applicate all’industria, 158, 160Mileseva, 132Millet, Gabriel, 74, 112, 183, 207, 210Mistra, 211Moet et Chandon, 34 nota 15Mole, Vojeslav, 200Il Mondo, rivista, 93, 221 nota 4, 224,

258Monet, Claude, 115Monneret de Villard, Ugo, 208, 222,

239Monreale, cattedrale, mosaici, 169-170,

211, 219, 223-224Montecassino, abbazia, 68, 206Montemezzi, Italo, 35Montesquieu, Charles-Louis de, 13, 17,

55Monza, Duomo, Tesoro, croce di

Agilulfo, 33; croce di Berengario, 33Moreau, Gustave, 33Morelli, Domenico, 24Morey, Charles Rufus, 73, 133, 210,

INDICE DEI LUOGHI E DEI NOMI

233, 236-239, 241, 247, 255, 257,260, 264, 268

Morisani, Ottavio, 257Morris, William, 72Mosca, Accademia delle Scienze

dell’URSS,Mouterde, Rene, 199Mschatta, 81Mucha, Alphonse, 25, 34 nota 15, 37,

72Munoz, Antonio, 63, 65-66, 68, 74,

107, 121, 208-209Murano, chiesa, abside, mosaico, 144Muratov, Pavel P., 74, 106, 121, 133,

147Mussolini, Benito, 75, 92, 94, 96-97,

1 0 0 , 1 0 7 - 1 0 8 , 1 3 4 , 1 4 3 ,162-164-165, 184, 189-190, 230

Muzzioli, Giovanni, 250

Nadar, Paul, 11Napoli, 8Napoli, Biblioteca Nazionale, cod. 487

o Borgia 25 (Giobbe), 75, 250 nota13; cod. gr. 1 (Dioscoride), 250 nota13

Narsete, 30, 34La nave, film, 38La Nazione, giornale, 94 nota 14, 108,

111 nota 38, 181Nesbitt, John W., 276New York, 8New York, Collezione Duveen, pannelli

con San Giovann i Ba t t i s t a eSant’Orsola, 136-137

New York (gia), Collezione Kahn,Madonna col Bambino: vedi sottoWashington, National Gallery

New York (gia), Collezione Hamilton,Madonna col Bambino: vedi sottoWashington, National Gallery

New York, Notre Dame of Lourdes, 72Nicco, Giusta, 41Nicea, chiesa della Dormizione,

mosaici, 255, 272Nicola Pisano, 195Nietzsche, Friederich Wilhelm, 29Nilo, san, 68Nisibi, 81, 137Nordenfalk, Carl, 257Novgorod, 56, 200Nuova Antologia, rivista, 197

Offner, Richard, 228, 232Ojetti, Ugo, 37, 74, 88-89, 93, 111,

114-115, 118, 120, 134-135, 140,146, 150, 170, 176, 181, 190-197,205, 207-209

Opera Nazionale Balilla, 95Oppo, Cipriano Efisio, 35Orazi, Manuel, 27 Ortolani, Sergio, 257L’osservatore romano, giornale, 191 nota

2Ottone II, imperatore, 8Oxford, congresso di bizantinistica, 273

Padova, 146, 148Padova, Cappella degli Scrovegni,

affreschi, 151, 176, 203-204Padova, chiesa del Santo, tesoro,

calamaio con figure di divinita, 122,211

Padova, atrio del Liviano (Facolta diLettere), 159

Pacht, Otto, 252Paleologi, 210Palermo, Cappella Palatina, mosaici,

170, 223-224Palermo, chiesa di Santa Maria

de l l ’Ammirag l io (Mar torana) ,mosaici, 223

Palizzi, Filippo, 111Pallavicino, Stefano Benedetto, 8Pallucchini, Rodolfo, 159Palmira, 257Panofsky, Erwin, 97Paoli, Evelina, 29Paolo Uccello, 142, 146 nota 24, 175Paolo Silenziario, 144Paolo Veneziano, 226Papini, Roberto, 103Paragone, rivista, 231, 233, 251-252Parenzo, 68, 168, 200-201Parenzo, Basilica Eufrasiana, mosaici,

60, 167Paribeni, Roberto, 75, 97, 119-120,

169, 190, 198, 202Parigi, 13, 88, 90-91, 93, 99 nota 21,

119, 137-138, 144Parigi, Bibliotheque Nationale, 75; cod.

gr. 139 (Salterio di Parigi), 67, 183,215 nota 33, 265 nota 34, 268, 270;cod. gr. 510 (Greogrio Nazianzeno),265 nota 34; cod. suppl. gr. 1286(Vangeli di Sinope o Sinopense), 122,

INDICE DEI LUOGHI E DEI NOMI

133, 169, 256; cod. syr. 33 (Vangeli),255; cod. syr. 341 (Bibbia), 256

Parigi, Louvre, 75; dittico d’avorio Bar-berini, 58; Musee des Arts Decoratifs(Pavillon de Marsan), 74, 121

Parigi, Mostra Byzance et la France

medievale, 250, 266 nota 36

Parigi, Mostra Exposition internationale

d’art byzantin, 74, 122

Parigi, Salon d’Automne, 71, 155

Parigi, Teatro Porte-Saint-Martin, 11

Parma, Battistero, affreschi, 185

Parma, Biblioteca Palatina, cod. Palat.

5 (Evangeliario), 121, 124 nota 10,

250 nota 13

Partecipazio, 201

Pasadena, St. Andrew, 72

Pasquali, Ernesto Maria, 28

Pasquali , Giorgio, 89, 93, 164,

183-184 , 197 , 209 , 211-214 ,

219-220, 225-226

Pasquin, Antoine-Claude, vedi: Valery

Patmo, 172-173

Patti, Adelina, 35

Pec, 132,

Pegaso, rivista, 114, 193-194

Peirce, Hayford, 74

Pensabene, Giuseppe, 171

Pernice, Angelo, 39, 197, 209

Pertusi, Agostino, 222

Perugia, Biblioteca Comunale Augusta,

cod. L 59 (Bibbia), 129

Pescia, chiesa di San Francesco, tavola

con San Francesco e storie, 176, 185

Petrucci, Carlo Alberto, 199

Philodor, 8

Piacentini, Marcello, 159, 164

Piazza Armerina, Villa Romana,

mosaici, 241

Picasso, Pablo, 84, 111-114, 186, 221

Piccinato, Carlo, 35

Piero della Francesca, 196

Pigna, Giuseppe, 21

Pisa, 184

Pisa, chiesa di San Francesco, 185

Pisa, Museo Nazionale di San Matteo,

180

Pissarro, Camille, 115

Pizzetti, Ildebrando, 29

Polidori, Ettore, 35

Pollaiolo, Antonio del, 142, 196

Pollaiolo, Piero del, 196Pompei, 151, 158, 269Pomposa, 201Ponti, Gio, 36, 158Il Popolo d’Italia, giornale, 94 nota 14,

95, 108, 143Porter, Arthur Kingsley, 80Poussin, Nicolas, 112Praz, Mario, 214Premio Mussolini, 108, 119Previtali, Giovanni, 275Prichard, Matthew Stewart, 72, 78, 183Princeton (New Jersey), Institute for

Advanced Study, 234, 237Princeton (New Jersey), University of

Princeton, Department of Art andArchaeology, 225, 233-234, 239,252, 272

Procopio di Cesarea, 144Procopio di Cesarea, Aneddoti (Storia

segreta), 8, 10-11, 17, 21, 23, 26-28,40, 42

Proporzioni, rivista, 183, 231Psello, Michele, 13-14pseudo-Codino, 51

Quadrante, rivista, 157Quadrivio, rivista, 171, 180

Raffaello Sanzio, 161, 175Ragghianti, Carlo Ludovico, 121, 244Rankabes, Cleone, Herakleios, 15;

Theodora, 15, 24La Rassegna d’Italia, rivista, 224La rassegna storica del Seprio, rivista,

268-269Ratti, Achille (poi papa Pio XI), 68Ravenna, 26, 43, 51, 62-63, 72, 104,

117, 122, 126, 129, 145, 151,156-157, 164, 167-169, 200-202,219, 269

Ravenna, Battistero degli Ariani, 60Ravenna, Battistero Ursiano, 60, 64Ravenna, chiesa di Sant’Apollinare in

Classe, 60; abside, mosaico, 143-144,157, 161, 205

Ravenna, chiesa di Sant’ApollinareNuovo, 60; mosaico con Cristo, 32;mosaico con la Madonna fra angeli,157; mosaici dei martiri e dellevergini, 32, 35-37, 52, 58, 63, 64, 73,126-128, 155, 161

INDICE DEI LUOGHI E DEI NOMI

Ravenna, chiesa di San Vitale, 51, 53,58, 122, 137, 146, 152, 168; mosaicodi Giustiniano, 58, 60, 126-128, 146nota 24, 156-157; mosaico diTeodora, 9-11, 19, 26, 28, 31, 35-36,39, 41, 52, 60, 72, 126-128, 146 nota24, 161, 211

Ravenna, Mausoleo di Galla Placidia,64, 122; mosaici, 26, 51, 60, 126,128, 161

Rembrandt Harmenszoon van Rijn, 84Renato, Guttuso, 159Reni, Guido, 111Renoir, Pierre-Auguste, 76, 115Repertorium fur Kunstwissenschaft, rivista,

79Rete mediterranea, rivista, 112Rewald, John, 141Ricci, Corrado, 26, 63, 74, 119, 122Rice, David Talbot, 222, 225, 257, 276Ricerche slavistiche, rivista, 166Rico da Candia, 61Ricordi, Tito, 35Riegl, Alois, 125Rinascenza Macedone, 237, 268,

270-272Rivista di archeologia cristiana, rivista,

233La rivista illustrata del “Popolo d’Italia”,

rivista, 72, 151, 152-153, 159-160,165-166, 173

Rivoira, Giovanni Teresio, 63, 208Rodi, 132, 172Rodi, Istituto Storico Archeologico, 173Rodi, Monastero di San Giovanni

Evangelista, Biblioteca, cod. 171(Giobbe), 173

Rodi, Museo Archeologico, 173Rodi, Museo Etnografico, 173Rodin, Auguste, 92Roma, 12, 15-17, 20, 24-25, 29, 39,

43, 59, 62, 66, 76, 80, 82, 88, 99nota 21, 101-105, 107, 118, 144,145, 149, 153, 163-164, 166-168,171, 178, 197-199, 202, 209,211-212, 219, 224

Roma, arco di Costantino, 164; rilievi,125

Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana,cod. Palat. gr. 431 (Rotulo diGiosue), 58 nota 6, 59-60, 65, 67-68,249, 268, 270-272; cod. Regin. gr. 1(Bibbia della Regina Cristina o Bibbia

di Leone Patrizio), 75 nota 5, 211,270; cod. Urb. gr. 2 (Evangeliario),58 nota 6, 68, 124 nota 10; cod. Vat.gr. 333 (Libri di Samuele e dei Re),75 nota 5; cod. Vat . gr . 381(Salterio), 124 nota 10; cod. Vat. gr.394 (Giovanni Climaco), 58 nota 6,67, 124 nota 10; cod. Vat. gr. 666(Eutimio Zigabeno), 58 nota 6; cod.Vat. gr. 699 (Cosma Indicopleuste) ,58 nota 6, 60, 68, 75 nota 5, 123;c o d . V a t . g r . 7 4 6 ( C a t e n asull’Ottateuco), 58 nota 6, 59, 75nota 5, 124 nota 10; cod. Vat. gr. 747(Catena sull’Ottateuco), 75 nota 5,124 nota 10; cod. Vat. gr. 749(Giobbe), 75 nota 5; cod. Vat. gr.755 (Catena sui Profeti), 58 nota 6;cod. Vat. gr. 1156 (Evangeliario), 68,124 nota 10; cod. Vat. gr. 1158(Evangeliario), 124 nota 10; cod. Vat.gr. 1162 (Giacomo Coccinobafo), 58nota 6, 68, 75 nota 5, 211; cod. Vat.gr. 1208 (Evangeliario), 124 nota 10;cod. Vat. gr. 1208 (Menologio diBasilio II), 58 nota 6, 68, 75 nota 5,124 nota 10, 211; cod. Vat. gr. 1754,124 nota 10; cod. Vat. lat. 375 (Vitedei padri del deserto), 124 nota 10;cod . Va t . l a t . 3225 (V i rg i l i oVaticano), 67, 236; cod. Vat. lat.3867 (Virgilio Romano), 67; cod.Vat. slav. II (Cronaca di Manasse),68

Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana,mostra di manoscritti e documentibizantini, 75 nota 5, 251 nota 15

Roma, chiesa di Sant’Agnese fuori leMura, mosaici, 199

Roma, chiesa di Santa Cecilia, mosaici,129

Roma, chiesa di San Lorenzo fuori leMura, mosaici, 199

Roma, chiesa di San Marco, mosaici,129

Roma, chiesa di Santa Maria Antiqua,affreschi, 129, 199, 268 nota 39, 269,271-272

Roma, chiesa di Santa Maria inDomnica, mosaici, 129

Roma, chiesa di Santa Maria Maggiore,mosaici, 122, 262

INDICE DEI LUOGHI E DEI NOMI

Roma, chiesa dei Santi Nereo eAchilleo, mosaici, 129

Roma, chiesa di San Pietro, Tesoro,croce di Giustino II, 29, 33

Roma, chiesa di Santa Prassede,mosaici, 129

Roma, chiesa di Santa Pudenziana,mosaici, 157, 160

Roma, chiesa di Santa Sabina, 72Roma, Colonna Traiana, 260Roma, Congresso Internazionale di

Studi Bizantini, 122, 166, 209Roma, Convegno Nazionale di Studi

Romani, 211Roma, Galleria d’Arte Moderna (Valle

Giulia), Esposizione Internazionale diBelle Arti, 83

R o m a , I s t i t u t o N a z i o n a l e d iArcheologia e Storia dell’Arte, 239

Roma, Istituto Nazionale di CulturaFascista, 95

Roma, Istituto per l’Europa Orientale,166

Roma, Istituto di Studi Romani, 101,162, 165, 167, 199, 253

Roma, Libreria dello Stato, 99, 104,122, 239

Roma, Mostra Acquisti e Doni delleBiblioteche Italiane, 250

R o m a , M o s t r a A u g u s t e a d e l l aRomanita, 162-166, 200, 211

Roma, Mostra della RivoluzioneFascista, 162, 166

Roma, Palazzo dei Conservatori, testaromana, 172

Roma, Palazzo Venezia, Mostra StoricaNazionale della Miniatura, 132, 242,249-253

Roma, Quadriennale d’Arte Nazionale,142, 152, 159

Roma, Teatro Argentina, 28, 30Roma, Teatro Reale, 35Roma, Universita “La Sapienza”, 221,

245Roma, rivista, 101Romagnoli, Ettore, 93-94Romanelli, Pietro, 199Rosi, Giorgio, 199Rosini, Giovanni, 60Rossanense, vedi: Rossano Calabro,

Evangeliario purpureoRos sano Ca labro , Evange l i a r i o

purpureo, 29, 65, 67-68, 75, 122,126, 133, 169, 204, 250 nota 13,256, 278 nota 7

Rostovzev, Michael, 199Rotulo di Giosu e , vedi : Roma,

Biblioteca Apostolica Vaticana, cod.Palat. gr. 431

Rouault, Georges, 77, 155, 186Rousskie viedomosti, giornale, 79 nota 12Rublev, Andrej, 56, 134, 186Rumhor, Carl Friedrich von, 225Ruskin, John, 43, 56, 76Russolo, Luigi, 84

Saint-Lubin, 8Salgari, Emilio, 25Salmi, Mario, 66, 168, 177, 181, 192,

221, 244, 249-254Salome, 7, 9, 25, 32Salonicco, 132, 211Salonicco, chiesa di Hosios David, 132Sal ter io di Par ig i , vedi : Par ig i ,

Bibliotheque Nationale, cod. gr. 139Salvemini, Gaetano, 134, 141Salviati, bottega di mosaico di Murano,

158Salvini, Roberto, 169, 182, 223-225,

244, 257San Pietroburgo (Leningrado), Museo

dell’Hermitage, piatti d’argentobizantini, 241, 273

San Vincenzo al Volturno, 195, 233Sant’Angelo in Formis, 195, 206Sarajevo, 122, 132Sardou, Victorien, Theodora, 11-16,

18-19, 21, 23, 27-28Sarfatti, Margherita Grassini, 92, 114,

149, 153-154, 161, 177, 188Sargent, John Singer, 135Sarre, Friedrich, 191Sartorio, Giulio Aristide, 20Saxl, Fritz, 97Schlosser, Julius von, 102, 147, 197,

199, 209, 252Schlumberger, Gustave, 62, 123, 133,

183Schmit, Theodor, 255Schneider, Andre R., 199Scipione (Gino Bonichi), 153Scipione Africano, Publio Cornelio,

105Scipione l’Africano, film, 165

INDICE DEI LUOGHI E DEI NOMI

Sciukin, Sergej, 78Scott, Walter, Count Robert of Paris, 15Il Secolo, giornale, 142Seminarium Kondakovianum, rivista,

273Semsales, chiesa parrocchiale, 157Seroux d’Agincourt, Jean-Baptiste-

Louis-Georges, 9, 58, 60Serra, Luigi, 127Settignano (Firenze), Villa I Tatti, 131,

134Seurat, Georges-Pierre, 153Severini, Gino, 84, 149, 156-159, 180Sforza, Carlo, 29Sibrium, rivista, 271Sickert, Walter Richard, 135Sidamara, 256Siena, 227Sinai, Monastero di Santa Caterina,

245; chiesa, mosaici, 60, 241; icone,241

Sinibaldi, Giulia, 180Sinopense, vedi: Parigi, Bibliotheque

Nationale, cod. suppl. gr. 1286Sironi, Mario, 138, 149, 151-153, 155,

158-161Sisley, Alfred, 115Slataper, Scipio, 83 nota 19Smirne, 96, 121Smirne, Bibl ioteca del la Scuola

Evangelica, 80Smith, Earl Baldwin, 73Societa, rivista, 237 nota 32, 251-252Socrate, Carlo, 181Soffici, Ardengo, 37-38, 83-84, 89-93,

95-96, 108-112, 154, 171, 177, 242S o f i a , m o g l i e d i G i u s t i n o I I ,

imperatrice, 52Sommaruga, Angelo, 19Sotiriou, Georges A., 199Spoleto, Centro Italiano di Studi

sull’Alto Medioevo, 275Spoleto, chiesa di San Salvatore,Springer, Anton Heinrich, 63La Stampa, giornale, 139, 140 nota 14Stilicone, 26Stilo, 211Stroganov (collezione), 141-142Strzygowski, Josef, 71, 76, 79-82, 88,

97-98, 101-102, 104, 106, 108 nota35, 122-123, 125, 137-139, 147,153, 169, 200, 208-210, 238-239,245-246, 257, 259

Studenica, 132, 200Studi albanesi, rivista, 166Studi baltici, rivista, 166Studi bizantini, rivista, 39, 166Studi romeni, rivista, 166Subiaco, 123-124Swarzenski, Georg, 252, 257

Taine, Hyppolite, 10, 52Tea, Eva, 192-193Tedeschi, Paolo, 61Le tentazioni di Sant’Antonio, film, 38Teodora, moglie di Giustiniano I, im-

peratrice, 7-19, 21-28, 31, 35-41-42,85, 94, 164, 181

Teodora, opera lirica, 28Teodora, Imperatrice di Bisanzio, film, 28Teodora , mog l i e d i Teo f i l o I ,

imperatrice, 14Teodorico, re degli Ostrogoti, 128Teofane, 7Teofano, moglie di Romano II,

imperatrice, 14Teofano, moglie di Ottone II, 8Tersicore (Oriente e Occidente), film, 39Il Tevere, giornale, 95, 143, 171Thomas, 13Tiberio I Costantino, imperatore, 9Tiepolo, Giambattista, 142Tikkanen, Johan Jakob, 63, 65, 67, 123Tintoretto, 142Tisifone, 10Toesca, Pietro, 41, 66, 74-75, 81,

97-98, 104, 105 nota 29, 114,117-134, 138-140, 145, 149, 160nota 13, 162, 167, 175, 177-179,182-183 , 185 , 189-190 , 192 ,194-200, 202-206, 208, 210-211,219-221, 223-224, 228, 230-233,235, 239, 243-245, 248-250, 261nota 27, 269-270, 275

Torcello, duomo, 122, 152, 156-157,201

Torino, 139Torino, Biblioteca Nazionale, cod.

B.I.2 (Catena sui Profeti), 250 nota13

Torriti, Jacopo, 130, 145, 178, 195nota 7, 207

Toschi, Giovanni Battista, 60-61Totila, re ostrogoto, 168Touring Club Italiano, 173Tozzi, Mario, 181

INDICE DEI LUOGHI E DEI NOMI

Tralles, 137Treccani degli Alfieri, Giovanni, 93,

189-190, 197Treves, Fratelli, editori, 47Tumminelli, Calogero, 190, 208Tyler, Royall, 74-75, 97

L’Urbe, rivista, 107Ussi, Stefano, 24, 47

Valentin (Losanna), chiesa di NotreDame, 157

Valentiniano I, imperatore, 172Valery (pseudonimo di Antoine-Claude

Pasquin), 9, 51Van Gogh, Vincent, 84, 111-113, 153,

159, 221Varini, Emilia, 29, 30 nota 10Varrone, Imagines, 266Vasari, Giorgio, 56, 108-109, 135, 177Venezia, 28, 37, 43, 56, 58, 72, 167,

169, 184, 201, 219, 224Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana,

cod. gr. 18 (Salterio di Basilio II) , 58nota 6, 124 nota 10, 250 nota 13; cod.gr. 538 (540) (Catena su Giobbe), 124nota 10, 250 nota 13; cl. I, cod. XXII,124 nota 10; cod. Z 479 (Cinegetica),75, 123, 250 nota 13

Venezia, Biennale Internazionaled’Arte, 25, 35-36, 83-84, 159

Venezia, chiesa di Sant’Eufemia allaGiudecca, 201

Venezia, chiesa di San Giacometto diRialto, 201

Venezia, chiesa di San GiovanniDecollato, 201

Venezia, chiesa di San Lazzaro degliArmeni, 122

Venezia, chiesa di San Marco, 49, 53,62, 72, 76, 152, 157, 201-202,222-223, 276; atrio, mosaici, 58 nota6, 63, 65; mosaico con Salome, 9; Palad’Oro, 155, 188, 223; tesoro, 211

Venezia, chiesa di San Zaccaria, 201Venezia, Teatro La Fenice, 8, 28-29Venezia, Teatro San Giovanni Griso-

stomo, 8Venezia, Teatro San Salvatore, 8Venturi, Adolfo, 66-67, 74-75, 118,

122, 124, 131, 245, 248-249, 252Venturi, Franco, 140

Venturi, Lionello, 57 nota 5, 93, 97-98,104 , 110 , 114-115 , 117-121 ,131-132, 138-144, 149, 151, 154,177, 186, 188, 191-193, 197, 199,205, 221, 232, 242-245, 254-255,258

Verzone, Paolo, 222Vienna, 8, 90Vienna, Nationalbibliothek, cod. Med.

gr. 1 (Dioscoride di Vienna), 57, 58nota 6, 67, 123, 256; cod. theol. gr. 1(Genesi di Vienna), 58 nota 6, 60, 67,211, 222, 234 nota 27, 256, 264-265

Virg i l io Vat icano, ved i : Roma,Biblioteca Apostolica Vaticana, cod.Vat. lat. 3225

Vi rg i l i o Romano , ved i : Roma ,Biblioteca Apostolica Vaticana, cod.Vat. lat. 3867

Vizantijskij Vremennik, rivista, 73, 271Vlaminck, Maurice de, 155La voce, rivista, 175Volbach, Fritz, 147, 197, 199Volpe, Carlo, 233Volpe, Gioacchino, 93, 197-198, 213Voltaire (Arouet Francois-Marie), 13

Wadi-Sarga, 261Washington, Cathedral of St. Matthew

the Apostle, 72Washington, Dumbarton Oaks Center

f o r B y z a n t i n e S t u d i e s , 2 2 5 ;Collection, patena di Riha, 256

Washington, Franciscan Monastery, 73nota 2 Washington, National Gallery,Madonna Hamilton, 135; MadonnaKahn, 135

Washington, Haghia Sophia, 72Washington, National Shrine of the

Immaculate Conception, 72Weigand, Edmund, 257Weitzmann, Kurt, 73-74, 122, 132,

222 , 233-237 , 249 , 252-253 ,257-258, 260-266, 268-273, 277

Wellesz, Egon, 209Whittemore, Thomas, B., 78, 222, 242

nota 1, 257Wickhoff, Franz, 73, 80, 105, 125, 250,

252, 264Wilde, Oscar, 177; Salome, 33Wildenstein, Georges, 97Wiligelmo, 142, 195

INDICE DEI NOMI

Winkler, 252

Wostry, Carlo, 72

Wulff, Oskar, 41, 74, 81, 255, 257

Zagba (Siria, gia ritenuta in Mesopo-

tamia), monastero di San Giovanni,253, 256, 260

Zecchin, Vittorio, 72Zoe, figlia di Costantino VIII, 14Zurabian, 208

Nuovo Medioevo Collana diretta da Massimo Oldoni

1. J. Heers, Il clan familiare nel Medioevo 2. P. Delogu, Mito di una città meridionale: Salerno (secc. VIII-XI) 3. V. D�Alessandro, Storiografia e politica nell�Italia normanna 4. Libro de los Engaños..., ed. a c. di E. Vuolo 5. D. Knowles, Thomas Becket 6. Vita e pensiero nell�alto Medioevo, a c. di R. Hoyt 7. M. Oldoni, Gerberto e il suo fantasma. Tecniche della fantasia e della letteratura

nel Medioevo 8. B. Smalley, Storici nel Medioevo 9. Virgilio Marone Grammatico, Epitomi ed Epistole, ed. a c. di G. Polara- L. Caruso10. C. Morris, La scoperta dell�Individuo (1050-1200)11. M. Montanari, L�alimentazione contadina nell�alto Medioevo12. A. P. Kazhdan, La produzione intellettuale a Bisanzio13. G. S. Kirk, Il mito. Significato e funzioni nella cultura antica e nelle culture altre14. G. Vinay, Alto Medioevo latino. Conversazioni e no15. A. Ducellier, Il dramma di Bisanzio16. V. Moleta, Guittone cortese17. J. J. Murphy, La retorica nel Medioevo18. C. Erickson, La visione del Medioevo. Saggi su storia e percezione19. V. Hyatt-J. W. Charles, Il Libro dei demoni20. G. Sergi, Potere e territorio lungo la strada di Francia21. S. Peloso, Medioevo nel sertao22. M. Angold, L�impero bizantino (1025-1204)23. A. A. Settia, Castelli e villaggi nell�Italia padana (secoli X-XIII)24. A. M. Chiavacci Leonardi, �La guerra de la pietate�. Saggio per una interpretazione

dell�Inferno di Dante25. G. de Francovich, Persia, Siria, Bisanzio e il Medioevo artistico europeo26. I. Pagani, La teoria linguistica di Dante27. A. Leone, Profili economici della Campania aragonese28. M. Tangheroni, La città dell�argento. Iglesias dalle origini alla fine del Medioevo29. P. Brezzi, Paesaggi urbani e spirituali dell�uomo medievale30. U. R. Blumenthal, La lotta per le investiture31. G. d�Onofrio, «Fons Scientiae». La dialettica nell�Occidente tardo-antico32. H. Houben, Medioevo monastico meridionale33. W. Berschin, Medioevo greco-latino34. B. Bolton, Lo spirito di riforma nel Medioevo35. A. Cortonesi, Terre e signori nel Lazio medievale36. E. Massa, L�eremo, la Bibbia e il Medioevo37. G. Meloni-A. Dessì Fulgheri, Mondo rurale e Sardegna del XII secolo38. E. Artifoni, Salvemini e il Medioevo. Storici italiani tra Otto- e Novecento39. P. Corrao, Governare un regno. Potere, società e istituzioni in Sicilia fra Trecento e

Quattrocento

40. Mistiche e devote nell�Italia tardomedievale, a c. di D. Bornstein-R. Rusconi41. M. Reuter, Metodi illustrativi nel Medioevo, a c. di P. Guerrini42. G. Fornasari, Medioevo riformato del secolo XI. Pier Damiani e Gregorio VII43. L. De Anna, Il mito del Nord. Tradizioni classiche e medievali44. G. Tabacco, Spiritualità e cultura nel Medioevo45. R. Bordone, Lo specchio di Shalott46. Filippo da Novara, Guerra di Federico II in Oriente (1223-1242), ed. a c. di S.

Melani47. R. Bonfil, Tra due mondi. Cultura ebraica e cultura cristiana nel Medioevo48. D. von der Nahmer, Agiografia altomedievale e uso della Bibbia49. J. Heers, L�esilio, la società, la vita politica nel Medioevo50. M. D�Onofrio, Roma e Aquisgrana51. P. Guerrini, Propaganda politica e profezie figurate nel tardo Medioevo52. H. Houben, Mezzogiorno normanno-svevo53. G. Cherubini, Il lavoro, la taverna, la strada54. G. M. Cantarella, Pasquale II e il suo tempo55. Gregorio di Tours, Storia dei Franchi. I Dieci Libri delle Storie, ed. a c. di M.

Oldoni (2 voll.)56. V. Pace, Arte a Roma nel Medioevo. Committenza, ideologia e cultura figurativa

in monumenti e libri57. F. Bertini, Interpreti medievali di Fedro58. Uomini, libri e immagini. Per una storia del libro illustrato dal tardo Antico al

Medioevo, a c. di L. Speciale59. Cronaca del Templare di Tiro, ed. a c. di L. Minervini60. I. Herklotz, «Sepulcra» e «Monumenta» del Medioevo. Studi sull�arte sepolcrale in

Italia61. S. Pittaluga, La scena interdetta. Teatro e letteratura fra Medioevo e Umanesimo62. A. Barbero, Valle d�Aosta medievale63. I. Mirazita, Trecento siciliano da Corleone a Palermo64. G. Musca, Intorno al Medioevo65. M. Bernabò, Ossessioni bizantine e cultura artistica in Italia. Tra D�Annunzio,

fascismo e dopoguerra66. A. Caffaro, Scrivere in oro. Ricettari medievali d�arte e artigianato (secoli IX-XI)67. M. R. Lo Forte Scirpo, C�era una volta una regina... Due donne per un regno:

Maria d�Aragona e Bianca di Navarra68. Erasmo da Rotterdam, Il Galateo dei ragazzi, a c. di L. Gualdo Rosa69. E. D�Angelo, Storiografi e cronologi latini del Mezzogiorno normanno-svevo70. V. Pace, Arte medievale in Italia meridionale. I: Campania71. G. Piccinni-L. Travaini, Il Libro del pellegrino (Siena, 1382-1446). Affari,

uomini, monete nell�Ospedale di Santa Maria della Scala72. G. Cherubini, Pellegrini, pellegrinaggi, giubileo nel Medioevo73. G. Gandino, Contemplare l�ordine. Intellettuali e potenti dell�alto Medioevo74. S. Fulloni, L�abbazia dimenticata. La SS. Trinità sul Gargano tra Normanni e

Svevi75. N. D�Acunto, L�età dell�obbedienza. Papato, Impero e poteri locali nel secolo XI76. L. Hadda, Nella Tunisia medievale. Architettura e decorazione islamica (IX-XVI

secolo)77. F. de� Maffei, Bisanzio e l�ideologia delle immagini78. G.E. Lessing, Osservazioni sparse sull�epigramma, a c. di S. Carusi79 Basilicata medievale. La cultura, a c. di E. D�Angelo80. N. Borsellino, Paradisi perduti. Paesaggi rinascimentali dell�utopia81. C. Spila, Mostri da salotto. I nani fra Medioevo e Rinascimento

82. G. Sergi, Antidoti all�abuso della storia. Medioevo, medievisti, smentite83. G. Fornasari, Viaggio al centro del Medioevo. Questioni, luoghi e personaggi84. A. Bisanti, La poesia d�amore nei Carmina Burana85. R. Bonfil, Rabbini e comunità ebraiche nell�Italia del Rinascimento86. M. Oldoni, L�ingannevole Medioevo. Nella storia d�Europa culture, �teatri� e

etterature87. F.G. Nuvolone, Il numero e la croce. L�homo novus da Aurillac88. Liber monstrorum. Letterature �teatri� culture simboli ed. a c. di F. Porsia89. T. Saffioti, Il Medioevo dei giullari. Lo spettacolo, il pubblico, i testi90. C. Spila, Animalia tantum. Animali nella letteratura dall�Antichità al Medioevo