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Materiali e Macchine nel teatro di Remondi e Caporossi

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ANTONIO PIZZO

Materiali e Macchine nel teatro di

Remondi e Caporossi

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1992

© Copyright by Istituto Universitario Orientale

Le fotografie nn. 4, S, 6, 7, 12, 13, 19,20,22,23,

24,25,26,27,28 sono di Cesare Accetta

Pubblicazione del Dipartimento di Studi Letterari e Linguistici dell'Occidente

Istituto Universitario Orientale, Napoli

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RINGRAZIAMENTI

Claudio Remondi e Riccardo Caporossi hanno dimostrato unI infinita pazienza nel rispondere alle mie domande e nel for­nirmi buona parte del materiale necessario per portare a termi­ne questa ricerca. Gloria Caporossi dell'ufficio stampa del Club Teatro mi ha procurato i ritagli stampa di tutta la loro attività. Cesare Accetta ha messo a mia disposizione numerose fotografie degli spettacoli. La Direzione del Festival di Sant'Arcangelo di Romagna mi ha ospitato in occasione della messa in scena di Coro nel luglio 1990. A tutti vanno i miei più sinceri ringra­ziamenti.

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INDICE

Introduzione ............................................ , .. , .... ,., .. ,,, .... ,.

L I primi esperimenti

Beckett, lo spazio e le sculture """" .... " ............ .. Il totem e la macchina per la fabbricazione dei bottoni ................ , .... , ...... , ... , .... " ............. , ......... ,.,' ..

Descrizione degli spettacoli Giorni felici ........................................................... .. Trfrote ........................................... " ........................ ..

II. La denuncia politica e sociale

Una drammaturgia per oggetti ...................... " .... . La meccanica celibe, ............................. " ........ " .... . Le macchine inutili ...... " ... , ................... " ........ , ..... . Metafora ed esperienza della macchina ............... .. Il materiale e lo spazio ............... , ....................... ..

Descrizione degli spettacoli Sacco ....................... "." ......... " ....................... " ... " .. . Richiamo .. " ........................ : .................................. ". Rotòbo!o .... ,' .... , .. , ...... , ...... , ...... , .. , .... , ...... , .. , ...... , .. , .... , Cottimisti ............. " ....... " ........................................ .

III. La conoscenza come riflessione

La macchina mentale e l'esperienza elementare e meravigliosa ....... , .......................... " ..

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I materiali nell'esplorazione della scena classica ........................................................ .. pago La corda e la scoperta del teatro all'italiana ...... . »

li irreal tà del mondo del teatro ............................ . »

Descrizione degli spettacoli Pozzo ....................... , ...... ,., ..... ,., ....... ,., .. ,.,." ........... . »

Otninide , ........ "., ........... , ... " .... "" .... ,. , ..... ,." " ... " ... " .. »

Antigone .................. " ............. ".,. "." " .......... '" "." " .. »

Teatro .............................................. , ..................... " »

Bosco ..... "." ...... , ............ , .. ", ................. " ... , .... , ... , .... . »

IV, La ricerca dell'unità

L'uso del teatro .............. , ..................................... .. »

Il fascino dell'oggetto ."""" .. " ............ "" .............. . »

Una scelta intimista ................. " ... " ................... , .. »

Descrizione degli spettacoli Caduta ...... " ............................................................ . »

Spèra ....................................................................... . »

Ameba ..................................................................... . »

Rem & Cap ............................................................ . " Quelli che restano ............. , ..................................... ,. »

Conclusioni ................................................................... . »

Intervista a Remondi e Caporossi ...... , .... , .................. . »

Bibliografia ................................................................... . »

Teatrografia .......... , ....................................................... , »

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INTRODUZIONE

Renlondi e Capo rossi cominciano a lavorare Insieme come coppia di autori, registi e attori negli anni Settanta. Del 1973 è Sacco, il primo dei loro lavori che ottiene un ampio successo di critica e di pubblico.

Tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta, i gruppi di teatro sperimentale attivi in Italia accom­pagnavano la loro concreta attività artistica con un'intensa di­scussione sulla possibilità, il significato e i modi della loro stessa esistenza. Il dibattito, in seguito anche ai ripensamenti e alle modifiche che in quegli anni avevano caratterizzato l'atti­vità delle figure e delle formazioni assunte come punti di rife­rimento - sia i gruppi americani, come il Living Theatre e i Bread and Puppets, sia i capiscuola europei quali Grotowski e Brook -, esp1'Ìmeva comunque un disagio che aveva un evidente e macroscopico corrispettivo nella c1'isi sociale e politica che scuoteva !'Italia.

Ne! Convegno di Ivrea del 1967 il Nuovo Teatro (teatro spe1'imentale, teatro di ricerca, neo-avanguardia o comunque lo si voleva chiamare) ebbe il suo primo importante momento di incontro e organizzazione, Tra gli argomenti centrali - tipica­mente - era la difficoltà di trovare un posto p<;r la sperimen­tazione all'interno dell'attività teatrale nazionale e quindi la necessità di reperire degli spazi al di fuori dei teatri "ufficiali".

Tra il bisogno di individuare personaggi punti di riferimen­to e luoghi d'origine, e la difficoltà di esistere indipendentemente, 1'impegno maggiore, e conlune a tutti, era sicuramente quello del rinnovamento del linguaggio teatrale: un rinnovamento che si poneva come necessario per i ritardi - veri o presunti - del nostro teatro rispetto alla cultura nazionale o europea, E contemporane­amente i gruppi del Nuovo Teatro sentivano la necessità di uscire

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dal ghetto delle soluzioni organizzative e produttive marginali, nelle quali si erano rifugiati per poter liberamente sperimentare i propri nuovi moduli espressivi, poiché era fondato il timore che una simile soluzione potesse trasformare una scelta di libertà in una tendenza all'auto-esclusione.

Ne scaturiva quindi il bisogno di confrontarsi con la società in cui si operava, e le possibilità erano varie. Alcuni scelsero il confronto con il mondo teatrale ufficiale, spinti dal bisogno di essere accettati come "teatro" a tutti gli effetti - e quindi di ga­rantirsi la sopravvivenza - anche a costo di rientrare, dopo tentativi diversi condotti per lunghi anni, in spazi tradizionalmente bor­ghesi (vedi l'esempio di Dario Fa). Altri invece scelsero la via del ritorno tra la gente comune, fuori dall'ufficialità artistica, per scon­figgere la paura di scoprirsi intellettuali dediti a un lavoro sterile e aristocraticamente lontano dal mondo quotidiano. Proprio l'im­portanza di un inserimento materiale all'interno del tessuto sociale popolare portò Carlo Cecchi a lavorare tra gli abitanti di un quar­tiere prevalentemente di immigrati al Lingotto di Torino, o Leo De Berardinis e Perla Peragallo a trasferirsi a Marigliano associan­dosi al sottoproletariato locale per la produzione dei loro spettaco­li. Questa tendenza al viaggio per allontanarsi dal teatro tradizio­nale e immergersi invece nella vita reale, lontano da ogni sovra­struttura borghese, corrispondeva del resto alle regole del "terzo teatro" di cui alcuni attribuiscono la paternità a Eugenio Barba.

Senza voler qui definire la complicata situazione del Nuovo Teatro negli anni Settanta ricordiamo schematicamente alcune matrici comuni quali la ricerca di materiali poveri, il rifiuto del testo canonicamente inteso, l'importanza attribuita allo studio del gesto e del movimento.

Proprio sul finire del decennio, mentre qualcuno già passava dall'arte di attacco, politicamente impegnata, alla chiu­sura introspettiva ed esistenziale, il mondo giovanile riesplose, spesso secondo modi e comportamenti suggeriti dalla nuova sinistra americana.

È un periodo in cui la contestazione allo stesso tempo artistica e sociale è manovrata dai gruppi giovanili di base, che sarebbero diventati oggetto di pesanti giudizi di carattere non

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soltanto politico. «Confondendo strutture e sovrastrutture, ri­vendicano pane e cinema, esaltando il liberalismo e imponendo l'intransigenza monilistica di nuove censure» scriveva Franco Quadri «la tensione al proprio privato può anche deviare in intolleranza negatrice dell'altrui, e, nel caso di Autonomia Operaia, riversare in impulsi meramente distruttivi l'odio con­tro quel che a tutta prÌlna non si capisce» l.

In questo ambito sociale, e su un tessuto artistico già percorso da pratiche teatrali di avanzata sperimentazione, si colloca la nascita e lo sviluppo dell' attività artistica di Remondi e Caporossi che, fin dall'inizio, sembrano rifiutare "lo spettaco­lo" per prediligere la situazione! l'arte ambientale, imparentan­dosi con esperienze analoghe, come quelle di Simone Carella. Con quest'ultimo infatti condividono proprio la tendenza ad attribuire un'importanza quasi esclusiva all'uso degli oggetti e a concepire la figura dell'attore in termini di semplice "operatore materiale" .

Tuttavia Remondi e Caporossi, in un clima culturale che già discuteva di impegno e disimpegno, di intimità esistenziale e vita politica, appaiono particolarmente sensibili ai temi della denuncia sociale, vissuti e proposti, però, in modi intenzional­mente lontanissimi da qualsiasi forma di elaborazione intellet­tuale, e privi di qualsiasi tono predicatorio, apostrofe veemente o atteggiamento da comizio. La coppia di artisti romani sceglie di adoperare segni essenziali, semplici ed elementari: decide di fare teatro utilizzando moduli espressivi che si possano sempre "toccare con mano", come le lamiere di Rotòbolo o le camere d'aria di Sacco. Di conseguenza Remondi e Caporossi si concen­trano nella ricerca di un gesto conosciuto. e qUindi selezionano e propongono il gesto lavorativo che, applicato alla macchina o ai materiali in genere, sollecita immediatamente una serie di associazioni, tra le quali quella del rapporto vittima-carnefice o servo"-padrone.

i Franco Quadri, L'avanguardia teatrale in Italia, Torino, Einaudi, 1977, p. 41.

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Poco importa se in questa pratica si scoprono ascendenze beckettiane o riecheggiamenti dell'arte povera (specialmente per guamo riguarda il recupero e l'uso dei materiali): fondamentale resta l'immediatezza del segno scelto per un determinato conte­sto, che è poi sinonimo di una ricerca di un ambito culturale nel quale riconoscersi ed essere riconosciuti, e che permette di instaurare un rapporto col fruitore dell'opera che abbia come scopo evidente una forma di comunicazione inedita e nello stes­so tempo "consueta",

Quest'ultimo dato, insieme alla mancanza di imposizio­ne diretta di elementi culturali preesistent1, accomuna Re­mondi e Caporossi a una parte dell'avanguardia teatrale di quegli anni e rende anche possibile tracciare un parallelo tra i modi del loro lavoro e le teorie sul "teatro dell'ignoranza" proposte da Leo De Berardinis e Perla Peragallo nella loro attività a Marigliano.

Come è poi naturale in ogni processo di formazione ar­tistica, anche nel lavoro della nostra coppia di autori emerge la tendenza a utilizzare e rielaborare moduli espressivi ai quali restano affezionati. Si tratta, come vedremo, di un particolare uso dei materiali, nonché dell'invenzione e dell'applicazione di caratteristiche forme di "macchine", E proprio qui, dalla selezio­ne e dalla manipolazione di materiali caratteristici e dall'impie­go di macchine singolari, Remondi e Caporossi giungeranno all'elaborazione di un linguaggio teatrale autonomo e nello stes­so tempo denso di riferimenti alle condizioni della realtà sociale ed esistenziale in cui ci troviamo.

Ancora più interessante è però osservare la capacità di questo linguaggio di piegarsi, in un secondo momento, alle necessità di espressione nuove e diverse, centrate sull'indagine della solitudine e della condizione umana, di per sé, al di fuori di immediati riferimenti alI'oppressione dei meccanismi alienanti della società industriale. E anche in questo nuovo orizzonte tematico Remondi e Capo rossi riusciranno a non abbandonare la chiara materialità e costruttività del loro linguaggio poetico che basa ancora la propria efficacia sulla concretezza dei segni usati.

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Il lavoro che segue mira quindi a chiarire, in un con­testo organico, attento anche alle influenze culturali esterne, lo sviluppo della poetica di Remondi e Caporossi, letta attraverso l'uso dei materiali e delle macchine che costituiscono i segni concreti e pieni di senso su cui la coppia di autori ha costruito il proprio vocabolario teatrale.

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I PRIMI ESPERIMENTI

Beckett, lo .fjJazio e le sculture

Claudio Remoodi e Riccardo Capo rossi iniziano il loro sodalizio artistico nel 1970 al teatro del Leopardo che il primo ha impiantato nel quartiere Monteverde alla periferia di Roma. A quel telnpo i due artisti avevano già maturato diverse espe­

rienze. Claudio Remondi (1927) si è formato come attore e re­

gista lavorando prima come dilettante e poi come professionista nell'ambito del teatro tradizionale. Nel 1959 ha curato, con la compagnia del Teatro Vocazionale, la regia de La Moscheta di Ruzante, messa in scena in un piccolo tendone da circo che lo stesso Remondi ha comprato. Immediatamente dopo fonda una propria compagnia che chiama Leopardo, e nello stesso periodo incomincia la collaborazione con Carlo Quartucci: nel 1962 partecipa alla messa in scena di Le sedie di Ionesco che viene presentata con la regia di Quartucci al Teatro Goldoni di Roma. Da questo momento Remondi lavora assiduamente al teatro, incontrando, nel gruppo di Quartucci, Leo De Berardinis e Rino Sudano. Tutti insieme costituiranno il nucleo dello studio-labo­ratorio che Luigi Squarzina istituirà al Teatro Stabile di Geno­va, che vedrà Quartucci nella veste di regista e gli altri di attori. In questa sede si impegneranno nell'allestimento di Aspet­tando Godot di Beckett. Lo spettacolo, presentato al Teatro Duse di Genova nel 1964, incontra un grande successo di critica e di pubblico. Remondi dà un'eccellente interpretazione di Pozzo ampiamente apprezzata dai recensori. Decide cosÌ di dedicarsi totalmente al teatro e vive principalmente tra Genova e Torino, indirizzandosi sempre verso il lavoro di ricerca insieme al grup­po del laboratorio genovese. Nel 1967 torna a Roma e riesce ad

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allestire un teatrino, Il Leopardo. Qui lavora sia come regista che come attore, scrive i suoi primi testi teatrali e presenta al pubblico autori deU'avanguardia storica, come Arrabal di cui allestisce nel 1968 L'architetto e l'imperatore d'Assiria. Contemporaneamente continua a lavorare con Quartucci e sem­pre nel 1968 recita allo Stabile di Torino in Testimoni di Ro­zewicz. Nel 1969 ricopre il ruolo di Sancho Panza accanto a Gigi Proietti nel suo Don Chisciotte televisivo.

A Roma, nel 1970 conosce Riccardo Caporossi (1948), che è studente di Architettura. Caporossi proviene da esperienze artistiche molto più vicine alla pittura, e cotnincia in quegli anni a interessarsi al teatro. Nel 1971 lavoreranno insieme impegnati nello spettacolo Carico che Quartucci allestisce in strada, nei pressi di Prima Porta fuori Roma, per inaugurare la partenza del suo progetto di teatro itinerante: Camion.

Abbandonato il gruppo di Quartucci, Remondi e Capo­rossi iniziano a impegnarsi nel teatro del Leopardo. La sala è il loro punto di incontro e di discussione, una specie di laborato­rio dove i due attori cominciano a scandagliare la loro sensibi­lità comune, a lavorare 111sieme con lo scopo preminente di conoscersi l.

Già nei loro primi esperimenti, essenzialmente caratteriz­zati dal tentativo di dare libero sfogo alla creatività liberando l'artista da ogni fine che non sia quello della creazione sponta­nea che nasce quasi da sola, attraverso il confronto di persona­lità vicine, emergono alcune componenti fondamentali del te­atro di Remondi e Caporossi che ritroveremo nella· produzione seguente.

Innanzitutto il laboratorio nel teatro del Leopardo è domi­nato dalla presenza dei materiali, che si impongono prepotente-

1 In questo senso Remondi e Caporossi ricordano quegli anni nell'inter­vista rilasciatami nel corso di quattro incontri: a Rimini il 5 giugno 1990; a Sant'Arcangelo di Romagna il 21 luglio 1990; a Roma il 12 ottobre 1990 e il 30 gennaio 1991. Ho realizzato parte dell'intervista con Sabina Galasso che desidero qui ringraziare. D'ora in avanti tutte le affermazioni di Remondi e Caporossi riportate senz'altra indicazione s'intendono tratte da questa inter­vista pubblicata integralmente in appendice a questo volume.

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mente alla loro azione. Retnondi e Caporossi realizzano infatti varie sculture in legno, in cemento e ferro, adoperando soprattutto materiali d'uso comune come tubi innocenti o addirittura cartoni per le uova. l due artisti sono alla ricerca di un'espressività diretta, che non tenga conto dell'estetica come ricerca del bello. Le loro creazioni hanno una fattura certamente grezza, priva di rifiniture che rivela ed espone imtnediatamente i materiali utilizzati che sono privi di una consistente tradizione all'interno delle arti figu­rative e restano legati invece al concetto di lavoro manuale e di fatica2

Evidente inoltre è la componente "costruttiva" delle loro prime sculture. Queste, oltre a essere delle costruzioni per se stesse, sono chiaramente degli assemblaggi di vari pezzi che si mostrano a uno a uno e rivelano abbastanza chiaramente tutte le fasi del loro processo di realizza:lÌone. Tali sono, ad esempio, le sculture ispirate ai due personaggi protagonisti di Giorni Felici di Beckerr: Winnie e Willie. I busti delle due sculture in cemento, colati in forme di legno, non sono rifiniti e quindi mostrano in modo evidente le itnperfezioni degli statnpi.

Attraverso queste prime esperienze condotte al teatro del Leopardo, i due artisti maturano alcune idee sul testo di Bec­kett, e decidono cosÌ quasi naturalmente di metterlo in scena;

2 Caporossi comunque non trova in questo caso un preciso rapporto con la tendenza dell"'arte povera" attiva in quegli anni perché non crede che i materiali che utilizzava con Remondi facessero parte di quelli cosiddetti "po­veri". Per lui e per Remondi l'uso del cemento, legno, ferro, nasceva dal gusto, ed anche dalle esperienze e consuetudini manuali che avevano maturato. Sempre Capol'Ossi, nell'intervista riportata in appendice, afferlna: «Claudio allora viveva con il fratello prete e d'estate andava dalla sorella che aveva una casa a Torvaianica. In queste occasioni si ingegnava in operazioni di giardinaggio o di piccola carpenteria, adoperando così sia il cemento che il ferro o il legno. lo ho trovato subito interessanti le caratteristiche espressive di questi materiali che sono quindi, naturalmente, diventati oggetti del nostro lavoro comune. Del resto il ferro, il cemento e anche il legno, erano materiali che potevamo trovare e lavorare agevolmente». Questa affermazione di Caporossi evoca comunque un significato "povero" dei materiali, proprio in quanto di facile reperimento, di uso quotidiano: in questo senso la loro utilizzazione conterreb­be un'implicita contestazione del materiale bello e lussuoso della scultura tradizionale.

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proseguendo in un lavoro di laboratorio che dai primi esperi­menti fino alla messa in scena copre un periodo di circa due anni. La scelta di Beckett come autore deriva del resto da un comune interesse di Remondi e Caporossi.

Remondi, nel 1964, proprio agli inizi della sua carriera artistica, aveva, come si è visto, interpretato il personaggio di Pozzo in Aspettando Godol. In seguito, insieme allo stesso grup­po di attori aveva partecipato all'organizzazione di un Festival Beckettiano che si era tenuto a Roma. Caporossi si era invece avvicinato a Beckett mosso da un interesse più personale. I testi beckettiani erano stati infatti le sue prime letture di opere teatrali, all'epoca in cui era studente. Caporossi tuttavia ricorda di aver provato maggior attrazione per i romanzi dello stesso autore, che trovava più stimolanti.

Riaffermando insieme un interesse che avevano già colti­vato separatamente, Remondi e Caporossi si applicano quindi al testo di Giorni felici (1970-71)'. Oltre alle sculture di cui ab­biamo già parlato, vengono realizzati alcuni dipinti per lo più ispirati ai personaggi di Winnie e Willie e il teatro comincia a riempirsi delle loro creazioni. È un lavoro sullo spazio e sull'ambiente che Remondi e Caporossi interpretano comunque in chiave "spettacolare": lo stesso testo, in un procedimento di assimilazione totale e di riproposta, viene riscritto sui muri della sala, dall'ingresso fino al palcoscenico, nei camerini, disperden­dosi e concentrandosi su pareti, pavimento, soffitto. «L'eventua­le pubblico», spiega Caporossi, «si sarebbe trovato già calato in una situazione spettacolare, nella quale avrebbe avuto la possi­bilità di muoversi liberamente attraverso tutto il teatro, osser­vando gli interventi sul luogo e leggendo il testo».

La mobilità del pubblico che può passeggiare liberamente all'interno del luogo che lo ospita, scegliendo di volta in volta

3 Segneremo, d'ora in avanti, tra parentesi l'anno di produzione dello spettacolo di cui ci stiamo occupando. In questo caso agli interpreti non furono concessi i diritti per la rappresentazione e lo spettacolo non fu aperto al pubblico: gli anni tra parentesi si riferiscono al periodo dell'elaborazione dello spettacolo.

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l'oggetto della propria attenzione, ricorda la situazione tipica di una mostra, di un museo. Indubbiamente i due artisti preferi­scono dare più risalto alle cose, alle situazioni, che all'azione teatl'ale tradizionalmente intesa, e ciò è confermato dai loro stessi ruoli nell'ambito dello spettacolo: Remondi è impegnato in un lungo monologo, inginocchiato a tetl'a mentl'e viene som­merso dal brecciolino che Caporossi versa a paIate per ricoprire il compagno. È un'unica e indivisi bile azione che appare signi­ficativa anche se osservata per una breve frazione del tempo di esecuzione totale. E questo accade grazie alla ripetitività dei loro gesti, che sarà, tra l'altro, caratteristica di gran parte della produzione della coppia.

Fin dall'inizio, dunque, è evidente la necessità dei due attori di confrontarsi globalmente col lavoro che affrontano, negandone, se occorre, la matrice teatrale e chiamando in causa le 101'0 esperienze anche esterne al preciso ambito della messa in scena. Emerge inoltre la volontà di intervenire materialmente sul teatro, la necessità di rendere l'azione eminentemente fisica attraverso l'applicazione dei personaggi a un'operazione intesa principalmente come fatica; ma anche la capacità di spingersi oltre la semplice rappresentazione scenica dell'opera, per render­ne le motivazioni profonde, senza irrigidirsi nel mero ossequio della parola dell' autore.

Remondi e Caporossi giungeranno a considerare forzata la divisione in due personaggi del dialogo-azione di Giorni felici e quindi riterranno necessaria una riunificazione che avverrà nella persona di Claudio che, come abbiamo già detto, interpreterà il testo come un unico monologo di Winnie, personaggio che, anche se di sesso femminile, non sarà esteriormente rappresen­tato come tale dall'attore. Tuttavia la forte _ptesenza del lin­guaggio verbale, inteso come discorso, ragionamento intellettua­le, in una fotma così codificata e tradizionale sulla scena (il monologo), poteva stonare con la evidente consistenza materica, fisica, segno dominante di tutto lo spettacolo. Remondi e Capotossi decideranno quindi, prendendo spunto dalle foglie secche che Beckett, nella sua opera, fa cadere lentamente sul personaggio di Winnie, di creare una continua e lenta cascata

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di brecciolino sulle spalle di Remondi: il fiume di parole S1

materializza in un fiume di brecciolino. L'associazIone tra le parole e il brecciolino appare rafforzata anche dalla configurazio­ne di una parte del testo, disegnato sul muro, che seguiva il percorso della ghiaia: «ogni granellino - ricorda lo Caporossi -era una lettera del testo».

Il testo sembra COS1 materializzarsi per la seconda volta: il monologo, pronunciato sulla scena, inteso come unione di due metà, non si appoggia su uno sfondo scenografico di con­torno, ma trova l'esatto corrispondente in un'azione, che coin­volge lo spazio circostant~ e si pone come costruttiva4 • Tutto ciò rivela l'esigenza di inventare un teatro che non sia messa in scena di testi, ma costruzione di cose, di azioni dalle quali nasca il testo sulla scena5. In questa prospettiva la scelta del brecciolino al posto delle foglie, come ammettono gli stessi autori, scaturisce naturalmente durante il lavoro e sorge quasi spontanea nel momento in cui si adopera il cemento e il ferro: i tre materiali - cemento, ferro e breccia - sono infatti impa­rentati dal loro comune impiego nel lavoro edile.

Fin dall'inizlo inoltre Remondi e Caporossi evitano di usare la luce per prodntre effetti o per creare atmosfere. L'illu­mina:done è usata solo nella sua funzione primaria che è quella di "far vedere". CosI in Giorni Felici le luci sono piene e non vogliono in alcun modo guidare l'attenzione del pubblico (che, come abbiamo detto, era libero di muoversi nello spazio del teatro) nè tantomeno n1eravigliarlo o sorprenderlo.

~ Nell'intervista menziom.ta, Caporossi sostiene: «Winnie è la figura in cui noi vedevamo riuniti entrambi i personaggi dell'opera. Nella lettura di tutto Beckett si presentano sempre queste coppie-unità: Estragone e Vladimi­ro, Pozzo e Lucky, sdoppiamenti dell'essere umano (istinto e ragione, anima e corpo) in cui l'uno è il completamento dell'altra}}.

5 Durante gli incontri con Remondi e Caporossi ho potuto notare che hanno l'abitudine di redarre in forma definitiva i testi dei loro spettacoli, il più delle volte, dopo le prime rappresentazioni.

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Il totem e la macchina per la fabbricazione dei bottoni

Dopo la delusione per la mancata rappresentazione al pubblico di Giorni Felki, i due decidono di scrivere loro stessi il testo del lavoro successivo: Térote (1972).

Lo spettacolo si compone di un monologo e di una serie di azioni parallele. Il monologo, recitato di nuovo in­teramente da Remondi, nasce come dialogo, riducendosi poi al discorso di un solo personaggi06. Caporossi invece è im­pegnato in una serie di azioni tra cui quella di tracciare dei disegni sul fondo della scena, quasi rispondendo alle parole del compagno. Tutto questo, come anche la divisione dei ruoli tra i due attori corrispondente alla divisione tra parola e azione, e l'utilizzazione di un testo verbale come punto di partenza, suggerisce uno stretto rapporto con lo spettacolo precedente. Evidentemente la drammaturgia verbale non è stata ancora rifiutata dai due attori. Infatti, studiando il copione di Térote, sembra strano notare quanto spazio sia dedicato alla parola, alle battute del testo, e quanto poco alla descri­zione dell'azione, che pure esiste, relegata in sparute didasca­lie che compaiono, di tanto in tanto, tra parentesi. Remondi, del resto,' è nato artisticamente come attore di parola e ha continuato a lavorare a lungo in questa direzione prima di iniziare la collaborazione con Capotassi. Quest'ultimo, a sua volta, preferisce ricorrere al disegno che appartiene a un lin­guaggio per immagini che sente più vicino7 •

Lo spettacolo, che era nato da un'idea originale, suggerita ai due autori da una cassa piena di bottoni di tutte le forme e colori che il fratello prete di Claudio aveva' ricevuto per i propri parrocchiani e aveva a sua volta donata al gruppo, va in scena prima in Belgio e poi al teatro della Ringhiera di Roma

6 Caporossi afferma: «Era un testo dialogato, in cui un personaggio aveva più corpo dell'altro che invece rispondeva a monosillabi. Poi il dialogo si è trasformato in un monologo, anche rispettando la divisione di ruoli che ve­deva Claudio attore di parola».

7 Ricordiamo che in quegli anni Caporossi stava per laurearsi in archi­tettura.

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nel gennaio del 1972, e viene accolto dalla critica con un certo interesse ma anche con qualche riserva8

. A un analisi attenta appare schematica la divisione dei ruoli tra i due come attore e pittore e forse non emerge con chiarezza il proposito artistico degli autori'. Nell'opera affiorano però alcune componenti di grande interesse che ritroveremo nella produzione successiva. Innanzitutto la necessità di fare teatro convogliando e combi­nando nello spettacolo tutte le proprie esperienze artistiche 10.

Inoltre la presenza di una figura di totem e l'evocazione della macchina, che è probabilmente la novità fondamentale di que­sto spettacololl

.

Tuttavia la macchina non è ancora fisicamente in scena in quanto nello spettacolo viene esibito soltanto il «progetto di un impianto per la fabbricazione ottimale del bottone», presen­tato su un chilometrico rotolo di carta pieno di ingranaggi e calcoli che Remondi prima srotola tra il pubblico lungo la sala e poi distrugge in mille pezzettini quando scopre che produce il nulla l2. È questo il vero fine della macchina, come l'attore

8 Nella recensione dello spettacolo, su "L'Unità" si parla di "ermetismo elevatissimo" e di "contesto oscuro ed indistinto" (Sara Mamone, Tér()te, "L'Uni~ tà", 24 gennaio 1972) mentre Franco Cordelli ritiene "difficile spiegare il senso del monologo" (Franco Cordelli, Tér()te, "Avanti!", 25 gennaio 1972)

9 Tutte le recensioni dello spettacolo presentano infatti la coppia come attore e pittore; la critica li considera ancora come elementi separati tra di loro, non come coppia, anche perché erano le prime volte cbe. si presentavano al pubblico in tale veste.

lO Nello spettacolo rappresentato in prima nazionale nel teatro della Ringhiera a Roma, venne aggiunta, alla pittura ed alla recita:done, una com­ponente musicale che era assente nella rappresentazione già avvenuta in Belgio il 16 gennaio 1972: consisteva nell'intervento di un musicista che doveva tradurre, suonando dal vivo, l'azione in musica.

Il Il totem era un pupazzo, una sorta di abito~scultura realizzato con migliaia di bottoni, con la funzione specifica, e dichiarata dagli stessi autori, di idolo, "dio bottone". Per maggiori notizie vedi più avanti la descrizione dello spettacolo.

12 Questo progetto, steso sull'infinito rotolo di carta, viene individuato daUa critica come uno degli elementi fondamentali dello spettacolo. Vedi ad esempio la recensione di Sara Mamone, Térote, apparsa su "L'Unità" del 24 gennaio 1972.

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stesso afferma in più di una battuta dello spettacoloB . Inoltre l'azione scenica non conferisce un valore mitico e totemico alla macchina (come avverrà nelle successive creazioni dei due auto­ri), preferendo invece assegnare tale valore al vestito-scultura di bottoni che viene adorato alla fine dello spettacolo.

Quelle che saranno le caratteristiche del teatro di Remon­di e Caporossi affiorano dunque qui in modo frammentario, come spunti ancora slegati proposti in metafore diverse. Emerge il tema della denuncia sociale (come critica al consumismo che sottolinea «l'inutilità del gesto imprenditoriale e tecnologico», in un'ottica «di ascendenza vagamente marxistica»14) e viene riproposto l'uso delle luci piene e fisse, spogliate da ogni ten­tativo effettistico per consegnare al pubblico un ambiente "neu­tro" in cui orientare liberamente l'attenzione. La recitazione nel senso di interpretazione di un testo è ancora presente e Remon­di e Caporossi non hanno ancora fissato su di sé quelle "ma­schere", quel modo di essere in scena che li caratterizzerà in seguito rendendoli immediatamente riconoscibili, ma è già fon­damentale la manipolazione dell'ambiente scenico, l'intervento degli attori con le proprie azioni, con i propri gesti sullo spazio teatrale: prima dello spettacolo, come nel caso di Giorni felici, o durante la rappresentazione come in Térote.

Ma oltre all' azione che tende a modificare lo spazio e ad agire sulla struttura che li ospita, Remondi e Caporossi utilizzano anche un tipo di azione volta a manipolare le cose, riproducendo, in alcuni casi, esplicitamente la libertà con la quale i bambini interpretano la realtà nel momento del gioco. ,

Esemplari sono, a questo proposito, la maschera che Ca­porossi si costruisce in Térote o il pupazzo che esce dallo scatolone di legno, sempre nello stesso spettacolo. «Lo spetta-

13 Cfr, copione originale dello spettacolo, dattiloscritto, gentilmente for­nito dagli autori, pp. 59 e 60. Ad esempio a p. 59: «dal tutto la macchina creerà il nulla».

14 Barbara De Miro, II sostantiv() singolare di Claudio Rem()ndi e Riccard() Cap()r()ssi, in La scena, lo scherm() e i simulacri, Foggia, Bastagi, 1984, p. 9.

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tore» sostengono del testo Remondi e Capotassi in una di­chiamzione relativa a Térote «avverte il suo bisogno partecipan­te a "eseguire" nel momento in cui si "gioca" il cerimoniale del "cucire"» ed è sollecitato maggiormente «dall'essere testi­mone-consapevole del processo avvenuto» 15, L'affermazione pone espressamente in relazione due fattori che hanno molto in comune tra, di loro, facendo riferin1ento alla 1"Ìtualità del gio­co. E propno la componente Iudica consentirà negli spettacoli succ~ssivi la p:'ese~za e l.'u~~, sempre più importante, di og­gettI e macchIne lmposslblb, che saranno manipolati con la stessa ,convinzione che abitudinalmente si riserva a oggetti e macchIne perfettamente normali, funzionali, così come Remon­di in. Tirate prende estremamente sul serio quell'insieme di numerI e scarabocchi disegnati su di un rotolo di carta, Li prende tanto sul serio che vorrebbe fondarci un'industria' è in mOD1enti come questo che lo spettacolo rivela la sua ca;ica ironica, che però diventa subito dopo una angosciante denun­cia della società della ptoduzione e del consumo.

l) Claudio Remondi e Riccardo Caporossi Térote in Franco Quadri, L'avanguardia teatrale in Italia, Torino, Einaudi,' 1977, p. 541.

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DESCRIZIONE DEGLI SPETTACOLI

GIORNl FELleI. Dal testo omonimo di Samuel Beckett, diretto e interpretato da Claudio Remondi e Riccardo Caporassi. Anno di produzione 1970-71.

Remondi e Caporassi lavorarano a lungo all'allestimento di Giorni Felici. Il lavoro era cominciato come esperienza di laboratorio in cui i due attori, nella sala del teatro del Leopardo mettevano alla prova reciprocamente le proprie attitudini arti­stiche, e non era finalizzato alla messa in scena. Solo in ultirno Remondi e Caporassi decisero di renderlo pubblico e chiesero perciò l'autorizzazione per rappresentare il testo. La perso~a che ne deteneva i diritti per l'Italia oppose però un netto rIfiuto.

Lo spettacolo non aveva un vero e proprio svolgimento. L'azione dei due attori era ripetitiva: Remondi, che interpretava il personaggio di Winnie (assumendo su di sé anche quello di Willie) rimaneva fermo, inginocchiato in un angolo, alla base del palcoscenico e declamava un lungo monologo; Caporossi, con una pala, all'estremo opposro della sala, faceva cadere della

A il ghiaia in un canaletto che correva vicino al muro. ttraverso canaletto la ghiaia scivolava fino al compagno, il quale ne era man mano sommerso.

L'elemento più importante dello spettacolo era la trasfor­mazione dello spazio fisico del teatro. Durante le prove, erano state create varie sculture in cemento, ferro, legno, fra cui Winnie e Willie (in cemento e tubi Innocenti) i cui b)lsti erano cilin­dri aperti, il primo concavo, rispetto al pubblico, e l',altro con­vesso; una specie di busto di Winnie (in lastre dI cemento sagomate e ghiaia); una scultura composta da due piani di, le­gno sagomati, in parte complementari l'uno all'a~tro ~ uniti da cerniere; una lastra di cemento colata su un contenItore In cartone per le uova, in modo da assumerne la forma.

Tutte queste opere erano sistemate all' interno del teatro, precedentemente svuotato di ogni suppellettile e lasciato com­pletamente nudo, privo del sipario e delle file di sedili per il

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pubblico, La platea si riduceva quindi a una semplice gradinata in mura tura, e non si avvertiva il distacco dal palcoscenico, anch'esso completamente vuoto, tranne che per la presenza di qualche sedia per gli spettatori,

Il testo di Beckett, dal quale prende spunto lo spetta­colo, era stato scritto su tutte le superfici dello spazio, sulle pareti, sul pavimento, sul soffitto, in tutti i luoghi disponi­bili, l'ingresso, i bagni, il guardaroba, la platea, il palcosce­nico, i camerini .. ; Di tanto in tanto, nel suo percorso sulle superfici, la scrittura si concentrava in un punto particolare per creare delle composizioni grafiche, altre volte sembrava riflettere l'azione dei due attori, come nel caso in cui ilni­tava, sul muro, il movimento del brecciolino che cadeva sulle spalle di Remondi, Alle pareti erano appesi quadri che Ca­porossi aveva dipinto ispirandosi alle figure protagoniste del­l'opera,

Le luci, ampie e diffuse, non producevano effetti partico­lari, e ciò per evitare di orientare l'angolazione visiva e l'atten­zione del pubblico che doveva muoversi liberamente nell'am­biente senza subire l'attrazione di punti "forti",

Fonti per la descrizione dello spettacolo: Intervista a Remondi e CaporOJJi, dt. Fabio Battoli, Giorni Felici (1971-71), in Branco e il teatro di Renwndi e

CaporoJJi, Firenze, La Casa Usher, 1980. Foto dello spettacolo in B/:.\!", gentilmente concesse da Remondi e Capo­

rossi. Non vi è alcuna indicazione dell'autore né della data e del luogo in cui sono state scattate.

Barbara De Miro; Il sostal1tivo singolare di Claudio Remondi e Riccardo CaporosJi, in La scena, lo schermo e i Jimulacri~ Foggia, Bastogi, 1984.

TÉROTE, Scritto, diretto e interpretato da Claudio Remondi e Riccardo Caporossi. Anno di produzione 1972,

Lo spettacolo debutta in Belgio, a Seraing, nel gennaio del 1972 e subito dopo è rappresentato per quindici giorni al teatro della Ringhiera a Roma,

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La rappresentazione ha come protagonisti solo i due attori e le componenti principali sono due: parole e disegnF.

Lo spazio per il quale il lavoro è concepito non ha alcuna peculiarità. È sufficiente disporre di una parete, o comunque una superficie, sulla quale sia possibile tracciare dei disegni2

• Le luci sono piene e, come nello spettacolo precedente, non sono dirette a creare nessun effetto particolare.

Inizialmente in scena c'è solo Caporossi che cuce un bot­tone], Entra Remondi e cerca di attirare l'attenzione dell'altro offrendogli dei bottoni, Il gioco continua, ma alla fine Remoncli non ha più bottoni da offrire anche perché non vuole cedere quelli deUa sua giacca, Da notare che in questo gioco l'attore cerca di coinvolgere anche il pubblico avvicinandosi e tentando di strappare i bottoni dai vestiti degli spettatori.

Nel corso dell'azione il personaggio di Remondi pronun­cia il lungo monologo che sostanzialmente compone lo spetta­colo e interloquendo con se stesso, si presenta come un affarista che v~ole soddisfare-sfruttare il bisogno di bottoni dell' altro4

,

Caporossi vorrebbe andar via e l'altro lo trattiene. L'ostinazione del primo nel suo proposito innervosisce il secondo, che comin­cia a minacciarlo.

Allora Caporossi inizia a disegnare sul muro una porta dietro la quale tenta di nàscondersi. Continuando, risponderà sempre con i propri disegni alle parole di Remondi: scriverà «NON CI SONO»; disegnerà un rubinetto che poi, visualizzan-

I Nella messa in scena romana i due attori vengono affiancati da un musicista che traduce l'azione in suoni.

2 In diverse repliche, ad esempio quando lo spettacolo viene rappresen­tato nelle scuole, i disegni vengono eseguiti su grandi fogli di carta. .. .

3 I personaggi che i due attori rappresentavano non vengono defin.lt1 111

nessun modo sul copione, sono perfino privi di nome. Solo Caporossl, nel corso dell'azione, è chiamato l'érote dal compagno.

4 Ini~ialmente il testo era stato concepito come dialogo, ma anche per la scarsa esperienza di Caporossi nella recitazione verbale, il dialogo venne assunto interamente da Remondi trasformandosi in monologo. La trasforma-. zione, del resto, risultò naturale anche perché a Caporossi non erano state affidate che poche battute, non essenziali nell'economia dello spettacolo.

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do una minaccia del compagno, trasformerà in una pistola. Man 1nano la sua reazione si trasfofIna in ira, disegna un cane, poi intorno a questo un mastino, poi di seguito un lupo e infine un drago.

La scena si conclude con un netto «VADO VIA» trac­ciato su tutto il resto). E Caporossi tenta nuovamente di allontanarsi. A questo punto Remondi cerca di trattenere il compagno con un fiUIne di parole, che interrompe solo per prendere fiato. Da un mucchio di breccia afferra un sassolino e lo spaccia come bottone. Caporossi steso a terra traccia la sagoma del proprio corpo. Remondi lo costringe ad un gioco di schiaffi dove l'altro perde sempre. Caporossi vuole quindi andarsene, ma è minacciato dal compagno infuriato con un'ar­ma immaginaria: a questo punto disegna una bara sul muro e vi si pone dentro. Remondi se ne dispiace e disegna malamente un fiore, addormentandosi subito dopo. Caporossi a sua volta traccia prima la sua figura nella bara e poi trasforma quest'ultima in un carro di fiori. Prende una chi­tarra e insieme cantano la canzone Regina!do

J Regina!do6• Se­

condo il copione Caporossi, quando nel corso della rappresen­tazlOne tenta di allontanarsi, afferra sempre una o due va­ligie. Diverse valigie vengono così ad ammucchiarsi al centro della. scena, insieme ad altri oggetti che lo stesso attore prende occaslOnalmente dallo spazio circostante7 •

Tra le valigie Remondi, che crede definitivamente morto l'altro, trova il «progetto di un impianto per la fabbricazione

5 Franco Cordelli, recensenèo la rappresentazione di Térote al Teatro della Ringh.i.era, ci ~!ce ch~ ~aporossi, o~tre a disegnare, si fabbrica un paio di z~ccolr, Tirate, Avantl!, 25 gennalO 1972. Inoltre Caporossi interviene col dlseg~o anche sul compagno, s~gnando con il gesso per terra i suoi passi.

È una .d~lle molte canzoOl composte dai due attori nel periodo iniziale della loro attlvltà al teatro del Leopardo.

7 ~elPintervjsta Caporossi spiega però che il mucchio di valigie, citato nel cOP.lOne, nello spcnacolo véniva sostituito da una grande scatola che con­teneva 11 pupazzo ricoperto di bo~toni (il dio bottone utilizzato successivamen­te). "In sala", scrive Sara Mamone nella recensione di Tirote ("[I Unità 24 gennaio 1975), "troneggia una cassa da imballaggio". '

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ottimale del bottone», un lungo rotolo di carta pieno di dise­gni, meccanismi, ingranaggi e calcoli che svolge tra il pubbli­c08. Si propone C01ne imprenditore aJ pubblico, incitandolo a formare una società per lo sfruttamento industriale di questa macchina, che subito dopo descrive in questo modo: «L'aria verrà divisa da un oggetto che non ha corpo, il silenzio sarà rotto da un rumore inesistente, la luce verrà infranta dal nulla poiché dal tutto la macchina creerà il nulla». Dopodiché strac­cia il progetto e lo riduce in farfalle di carta. Caporossi comin­cia a disegnare sul· muro una serie di caricature e particolari della figura del compagno e scrive poi un lungo periodo in un linguaggio incomprensibile, con lettere inesistenti.

Fallito il progetto di formare con i presenti una società, Remondi si propone al pubblico come idolo, dio del bottone. Questa sua azione sembra evocare il vero dio del bottone che si ergerà alle sue spalle uscendo da una cassa di legno, portata in scena dal compagno'. Il dio del bottone è costituito da una struttura in rete metallica a forma di corazza e sormontata da un elmo, rivestita da una stoffa sulla quale sono cuciti centinaia di bottoni disposti a secondo della forma e del colore, in modo da formare dei disegni astratti. Dall'elmo esce una testa di cavallo ottenuta modellando della gommapiuma (fig. n. 3). A questa

, 8 Sempre Caporossi ricorda: «Claudio prendeva questo progetto, disegna­

to su un lungo foglio di carta arrotolato, e lo srotolava. La sala del teatro della Ringhiera, dove è stato cappi'esentato lo spenacolo, em rettangolare, divisa in due pani: una pedana e la platea. Noi avevamo cercato di eliminare i tendaggi e tutto ciò che poteva rendere la sala più "teatrale". Il foglio del progetto veniva sl'Otolato proprio in mezzo al pubblico. Alla fine Claudio, dopo aver proposto agli spettatori una società per azioni che sfruttasse la macchina per fabbricare bottoni, ne distruggeva il progetto, lo stracciava, e tutti i pezzetti volavano per l'aria come farfalle. In questo modo Claudio si muoveva fra pedana e platea}}.

9 A questo punto il testo non fa parola di ·una maschera a forma di testa di cavallo che Caporossi indossa, come si vede nella fig. n. 3.

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apparizione i due vanno a sedersi tra il pubblico osservando, in ado1'azione, il pupazzo lO.

Fonti per la descri:,done dello spettacolo: Intervista a Remondi e Caporrmi. Copione o1'iginale dattiloscritto fornito dagli autoti. Foto dello spettacolo in B/N, gentilmente concesse da Remondi e Capo­

tossi, prive dell'indicazione dell'autore. Le foto allegate si riferiscono allo spet­tacolo allestito nello stesso 'Teatro del Leopardo in cui era ancora montato tutto il materiale scenico di Giorni Felici.

Recensioni dello spettacolo (vedi la bibliografia). Fabio Bartoli, Térote (1972), in Branco e il teatro di Retnondi e Caporossi, cito Barbara De Miro, Il JOJtantivo singolare di Claudio Remondi e Riccardo

Capor()JJi, cito

10 Nella foto si può cogliere il rituale che i due attori osservano alla comparsa del pupa~zo: il rito del bottone cucito, dove Caporossi porge l~oc­corrente a Re~ondl che cuce dei bottoni sull'abito del pupazzo. Tale azione manca nel copIOne.

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LA DENUNCIA POLITICA E SOCIALE

Una drammaturgia per oggetti

Nell'estate del 1972, dopo un periodo di quasi tre anni in cui hanno lavorato in stretto contatto alla ITleSSa in scena di Giorni Felici e Térote, esplorando in tal modo le proprie attitu­dini artistiche, Remondi e Caporossi maturano un'idea originale posta alla base dello spettacolo che procurerà alla coppia i primi riconoscimenti ufficiali della critica e un notevole successo di pubblico: Sacco,

L'intensa collaborazione ha avuto il merito di far superare lo schematismo iniziale che separava i due attori in due ruoli distinti. Ciò è stato possibile grazie alla loro crescita personale; non sono più un architetto-pittore e un attore che dicono contemporaneamente la stessa cosa con linguaggi diversi, bensì è il primo che interviene con il suo lavoro sul secondo. L'idea iniziale di Sacco era infatti di creare, per il corpo di Remondi, un costume straordinario, sorprendente. «In quegli anni», spie­ga Caporossi, «procedevamo per tentativi. Pensavamo alla sce­nografia non come supporto, qualcosa che stia alle spalle o che circondi l'attore, ma come parte dell'azione scenica, dello spet­tacolo. In questo caso la scenografia diventava anche il costume, l'oggetto, e tutto era concentrato su una persona. Pensavamo anche a qualcosa che potesse trasformarsi, avere la forma di una fortezza, di un castello, potesse essere insomma il luogo dove sviluppare l'azione. Cercavamo un elemento base che contenesse tutte queste immagini, e, per sintesi, siamo arrivati alla cosa più povera che potessimo immaginare: il sacco».

Le parole di Caporossi chiariscono il processo creativo comune alla coppia perché ci informano sulla loro tendenza alla sintesi concettuale, presente in special modo negli spettacoli

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successivi. Quale che sia l'idea spettacolare di partenza, anche se molto elaborata, ricca di stimoli e complessa, giungono al nu­eleo comune, al perno intorno al quale girano tutti gli spunti presentati si alla loro immaginazione: l'idea si sviluppa non in­grandendosi mediante aggiunte o sovrapposizioni di ulteriori suggestioni, bensÌ riducendosi fino al nocciolo, mediante un processo di sottrazione che elimina tutto ciò che non è strettamente inerente alla sensazione o alla motivazione iniziale.

L'idea iniziale, dunque, era quella di un costume che potesse essere il luogo stesso dello spettacolo e che, contempo­raneamente, potesse in qualche modo "contenerlo": proprio l'at­titudine del "contenere" facilita, con relativa immediatezza, il passaggio all'idea del sacco. Quando poi ci accorgiamo che tale oggetto contiene un essere vivente, possiamo operare una trasla­zione di significato, altrettanto immediatamente, fino all'idea di utero: ma di questo tratteremo in seguito.

Lo spettacolo nasce lentamente e continua a modificarsi anche nel corso delle repliche: un monologo finale di Remondi, ad esempio, viene abolito perché sembra ripetere ciò che si è già "detto" con l'azione I

. Del resto Sacco è un punto di partenza significativo per il lavoro della coppia, non solo perché, come si è detto, è lo spettacolo che procura ai due attori la prima notorietà

2, ma proprio perché segna il loro decisivo distacco dal

testo, canonicamente inteso. Il copione, in questo C01TIe in moltri casi successivi, non è altro che un libro a fumetti dise­gnato da Caporossi, che descrive precisamente tutte le azioni che si svolgono in scena3•

Il tema fondamentale dell'azione è l'intervento di Capo-

l Il monologo è presente nel copione originale dello spettacolo. 2 Nel 1973, con l'allestimento definitivo, partecipano al Festival di Chieri. 3 Remondi e Capotassi hanno pubblicato nel 1974 Sacco ne Il Trovarobe

I per le edizioni di Maria Pacini Fazzi, Lucca. In questo caso è palese l'intenzione dell'autore di conferire anche un senso autonomo ai fumetti che quindi non risultano una me~a descrizione dello spettacolo. Possjamo tranquil­lamente pensare che tale risultato sia dovuto al tentativo di trasferire sulla pagina l'idea di base usando il linguaggb dei fumetti e alcune volte, quasi come se si facesse prendere la mano, l'autore sembra allontanarsi da quello che è lo spettacolo vero e proprio.

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rossi su Remondi. Tale intervento era ini:dalmente concepito come l'azione di uno scenografo o di un costumista e- si inse­riva, secondo la più comune prassi teatrale, in una fase pre­spettacolare, di allestimento e preparazione4• Caporossi rifiuta però una divisione netta tra le funzioni specifiche che interven­gono nell'allestimento di uno spettacolo teatrale, e per questa ragione prolunga il suo ruolo di scenografo costumista in quello di interprete dell'allestimento, trasformandolo in una parte in­tegrante della rappresentazione: una serie di atti sull' attore e sullo spazio da svolgere a vista del pubblico. Contemporanea­mente Remondi e Capo rossi, inserendosi in un periodo nel quale le problematiche politico-sociali etano intense e oggetto di un acceso dibattito, non si esimono da un impegno politico, anche se non militante. Quindi, in nome dei loro assunti ideologici, pongono alla base del loro teatro la denuncia dei meccanismi perversi nei quali la società immette l'uomo alienandone la componente umana.

Schematicamente le prime messe in scena di Remondi e Caporossi, basandosi su tali motivazioni, suggeriscono una con­siderazione precisa: ogni azione può essere interpretata come atto produttivo industriale e quindi come simbolo della aliena­zione, evidentemente dannosa per l'uomo. La confluenza nello spettacolo di questi due temi (il fuolo di scenografo-costumista prolungato in quello di interprete e la denuncia politico-sociale dell'alienazione del gesto produttivo) trasformano l'azione com­piuta da Caporossi, che non è più pittorica o scenografica ma diventa sadica. Un sadismo suggerito dalla stessa idea di un personaggio che agisce su un altro, e forse, in tetmini psicolo­gici, costituiscono la visualizzazione di un conflitto interiore, di un'insolvibile, dolorosa scissione di una originale unità.

È da una simile scelta che deriva l'introduzione del rap­porto vittima-carnefice, perno dello spettacolo. In questo senso

4 Per questa mgione notiamo che nel copione a fumetti dello spettacolo, il personaggio di Caporossi non appare mai e sembra intervenire sempre dal­l'esterno della vignetta, così come il ruolo dello scenografo, normalmente, è esterno all'azione scenica poiché viene espletato prima.

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Caporossi incarna il "puro atto", l'azione alienata, semplice e ilumotivata (di ascendenza industriale), che luassacra l'umanità di Remondi, a sua volta invece "puro istinto vitale".

La parola, nel corso dell'azione, è quasi totalmente rifiu­tata, resta più che altro sotto forma di suono; la componente significante è assunta tutta dal gesto affidato principalmente a colui che dovrebbe essere lo scenografo, Caporossi, il quale fa sI che l'attenzione si concentri, quasi guidata da una forza centri­peta, sul sacco.

Ampia, sulla scena, è la presenza di materiali di vario genere: la tela di sacco, la corda, il legno, il ferro, la stoffa, la g01uma, e molti altri ancora, tutti caratterizzati però dalla "po­verrà". Caratteristica notata anche da Franco Cordelli che defi­nisce il lavoro come «uno spettacolo in abiti dimessi e "poveri" ma che conserva, allo stesso tempo, «una ricchezza di scrittura scenica»S; o come afferma lo stesso Caporossi parlando del sac­co: «stoffa grezza, poverissima». Questo «gusto per la materia che non abbia solo un valore estetico fine a se stesso»6 è sug­gerito al gruppo sia dalle condizioni economiche, sia dalla te­nace volontà di cost1'uire lo spettacolo per e su loro stessi.

I materiali vengono ancora adoperati con una certa pro­fusione, quasi con il piacere di sovrapporli per dare un effetto di mirabolante "macedonia", cosÌ come succede per tutte le cose che il sacco «vomita»7 fuori: la tendenza alla sintesi, di cui abbiamo parlato, sembra agire più sul piano della elaborazione concettuale di base che su quello dei segni scenici ancora, a modo loro, abbastanza ricchi.

Per quanto riguarda le macchine più o meno complicate, lo spettacolo ne è ben provvisto: un argano, strani arnesi di tortura, e la critica già li nota attribuendo loro un valore "ce-

5 Franco Cordelli, CoPione a fumetti per due nel sacco, "Paese Sera", 12 febbraio 1974.

6 Claudio Remondi, Colloquio con C. Remondi e R. Caporossi, in Barbara De Miro, op. cit., p. 34.

7 Paolo Emilio Poesia, Sacco al Rondò, "la Nazione", 5 dicembre 1975.

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libe", come Sara Mamone che definisce la macchina il «simbolo più vistoso della gratuità inutile» e lo spettacolo un «singolare campionario di oggetti inutili»; o anche Lia Lapini che nota «l'incredibilità di strumenti di tortura assolutamente inutili, co­me una specie di inoffensiva tenaglia gigante o una vera e propria macchina celibe sorta di raddrizzadita»8.

Sicuramente è da segnalare come, affidato al gesto il se­gno reggente dello spettacolo, fin da questi primi esperimenti Remondi e Caporossi proiettino l'azione verso la manipolazione di cose e materiali, scartando la possibilità di 1"Ìcorrere alla pura mimica corporea, che apparirebbe peraltro una soluzione compa­tibile con la quasi assoluta abolizione della parola. Si spiega cOSI il continuo proliferare di macchine e attrezzi da loro inven­tati o ripensati (forche, uncini, tenaglie, lance, lame, coltelli): tutta una serie di strumenti e oggetti scelti accuratamente e funzionali alla rappresentazione, proprio perché di quest'ultima costituiscono il linguaggio fondamentale.

In un tale ambito di discorso viene spontaneo richiamare alla mente le riflessioni di Rita Cirio che osserva come Remon­di e Caporossi, nel loro lavoro, inventino «un mondo dove gli oggetti sono succedanei delle parole come strumenti di comu­nicazione e il loro affaccendarsi frenetico, ansioso come formi­chine psicopatiche e disperate intorno a un sacco da aprire L ... ] corrisponde alla costruzione di un discorso articolato secondo una grammatica in cui alla sintassi si sostituisce una tecnologia fantastica, debitrice alle macchine sadomasochiste progettate da Roussel o Jarry. Oggetti come parole [ .... ] il loro creare la realtà, il nominare le cose, avviene appunto attraverso gli og­getti, le macchine»9.

8 Cfr. Saca Mamone, "Sacco" e l'allegoria in scena al "Rondò", "l'Unità", 5 dicembre 1975; lia Lapini, Balletto-tortura con robot sadico, "Paese Sera", 6 dicembre 1975. Cfr. anche Giorgio Prosperi, Una vita nel sacco, "Il Tempo", 30 maggio 1974; Franco Quadri, Sacco, "Panorama", 30 maggio 1974. Per quanto riguarda il significato del termine "celibe" in questo ambito, riman­diamo alle pagine successive.

9 Rita Cicio, Mr. ASJlJrdo è giù nel pozzo, "L'Espresso", 7 maggio 1978.

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Non risulta strano quindi che Remondi e Caporossi, pro­pendendo alla manipolazione, sentano il bisogno di vivere e adattare a loro lo spazio che usano, e rifiutino dall'inizio, come si è già visto nei precedenti spettacoli, il palcoscenico tradizio­nale, optando, nel caso di Sacco, per lo spazio a schema cen­trale, quasi un ring nel quale il pubblico viene «catturato nella sua condizione di testimone»l0 della lotta o "esperimento" che si svolge" .

Al fine di un'analisi più approfondita, tuttavia, credo sia più utile studiare lo spettacolo nell'insieme delle macchi­ne e degli oggetti. Considerando cosÌ il lavoro, tutta l'azione sembra gratuita e il conflitto vittima-carnefice, cui abbiamo accennato, appare dubbio poiché non si regge su una precisa volontà e i due personaggi mancano di qualsiasi storicizzazio·­ne; sono colti nelle valenze di «pura vittima» (Remondi) in balìa del «puro carnefice» (Caporossi)12; inoltre gli autori stessi dichiarano che «il gioco che il carnefice e la vittima metto­no in atto è ambiguo. Al di là dei ruoli che i due attori assumono, si riconosce infatti un certo compiacimento da parte della vittima nel partecipare all'azione, quasi una consapevo­lezza della propria condizione, quasi una compiaciuta appro­vazione nell'essere vittima» 13 .

La rappresentazione di tale rapporto sadomasochistico ha come scopo palese quello di denunciare la violenza gratuita di cui l'essere umano è vittima nella società nella quale consuma la propria esistenza. Ma il quadro globale propostoci nello spet­tacolo porta con sé qualcosa di notevolmente angosciante, dato che il sadismo dichiarato non ha nessuna ragionevole motivazio­ne. Le operazioni di Caporossi ci sono indicate come atti puri, che radicano la propria esistenza nell'esatto ptesente, nell'azione

LO In tal senso si esprime Claudio Remondi nel Colloquio con C. Remondi e R. Caporossi, in Barbara De Miro, op. cit., pago 37.

li Cfr. Donata Righe~ti, Si può seviziare anche con ironia, "Il Giorno", lO aprile 1975.

12 Fmnco Cordelli, Un copione a fumetti per due nel sacco, cito B Dalla scheda dattiloscritta di presentazione della rassegna stampa di

Sacco, gentilmente fornita dagli autori.

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che si svolge, priva di un passato e di un futuro, circolare, e quindi non modificabile. Inoltre, se andiamo oltre gli scopi più evidenti dello spettacolo, Sacco potrebbe essere la rappresentazio­ne dei rapporti di potere fine a se stessi, benché secondo Bar­bara De Miro, «a un livello psicoanalitico di lettura Capotossi potrebbe rappresentare il Super lo e Remondi l'Es di un'uma­nità condannata a non reperire mai l'unità della propria psiche se non in un rapporto intimo di tensione, di sopraffazione e di sovrapposizione, che implica l'impossibile liberazione del repres­so, mentre, dall'altro lato, la parte agente non avtebbe la pos­sibilità di espressione, sarebbe impedita (come è impedito Ca­porossi dal cerotto che gli ottura la bocca e dall'ingessatura degli arti infetiori)>> 14.

La tottura, che è poi il gesto essenziale dello spettacolo, non avendo altro fine tranne se stessa, non ptoduce nulla, è inutile; non a caso Giotgio Prospeti parla di «incoetcibile coazione a ripete­re» 15 e Franco Cordelli di «una dialettica ormai immobile, ridotta a uno stato di autocontemplazione, chiusa nella propria traiettoria circolare, claustrale»16. Questo insieme di considerazioni mi porta a ritenere lo stesso rapporto tra i due personaggi come "macchini­co", suffragato dal fatto che Caporossi, incetottato e ingessato, sembra quasi un robot in contrasto con il puro istinto vitale, ma nel contempo masochistico, di Remondi.

E proptio proseguendo in questo senso potremmo definire questo movimento circolare dello spettacolo come simbolo di una meccanica celibe.

La meccanica celibe

Leggendo tutti gli scritti inerenti all'attività teatrale di Remondi e Caporossi si incontra frequentemente la definizione di

14 Barbara De Miro, op. cit., p. 12. 15 Giorgio Prosperi, Una vita nel sacco, cito 16 Franco Cordelli, Un coPione a fumetti per due nel sacco, dt.

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tnacchine celibi in riferimento agli oggetti, ai macchinari e alle situazioni che i due creano in scena17. Il termine ha un significato storiéo-artistico ben preciso e rimanda a esempi noti; è necessario quindi definire quali siano questi esempi e, in seguito, quale reale attinenza abbiano con le proposte teatrali della coppia.

Innanzitutto ricordiamo che la definizione "Celibe" è sni­ta data da Marcel Duchamp alla parre inferiore del suo Grand verre: La mariée mise à nu par ses cé/ibataires, mème, 1915-23 (fig. n. 1). Ma è merito dello scrittore francese Michel Carrouges, su~ito dopo la guerra, aver isolato e definito il concetto, in Machines cé/ibataires pubblicato per la prima volra nel 1954 per le edizioni Arcanes. E sarà proprio sulle definizioni di quest'ul­timo che baseremo le nostre tesi l8 •

Carrouges nota innanzi tutto come, dal 1850 al 1925 cir­ca, molti artisti, e soprattutto scrittori, in maniera anche auto­noma l'uno dalI'altro 1 senza. ritrovarsi in nessuna corrente arti­stica precisa, si siano immaginati il funzionamento della storia, delle interrelazioni dei sessi, il rapporto tra le cose, quello tra queste e l'uomo e tra quest'ultimo e una istanza più alta, sotto la forma di una macchina (non a caso lo stesso Freud, da un altro punto di vista, definÌ la psiche come un apparato).

Viste le date, sembra chiaro che questo fenomeno sia da porsi in relazione alla rivoluzione industriale, che in quel peri­odo ebbe un momento di grande espansione e rilievo politico­economico, con le conseguenti Esposizioni Universali organizza­te in quegli anni (quella del 1851 a Londra e del 1855 e 1878 a Parigi) divenute ormai esposizioni delle macchine. Proprio le

17 Vedi ad esempio: Lia Lapini, Ballett() - t()rtura c()n rob()t sadic() , "Paese Sera", 6 dicembre 1975. A volte si è usato anche il termine "macchine inu­tili" che è in qualche modo equivalente, vedi a proposito: Aggeo Savioli, Una fabbrica del nulla in "Richiam()", "L'Unità", 4 marzo 1975; Franco Quadri, Richiam(), "Panorama", 20 marzo 1975.

l8 Michel Carrouges, Istruzioni per l'us(), in Le macchine celibi a cura di Harald Szeeman, Milano, Electa, 1989, p. 17. In questo saggio Carrouges riassume molto chiaramente le sue idee riguardo la macchina celibe. L'autore alla domanda «che cosa sia una macchina celibe?,> risponde che «una macchi­na celibe è un'immagine fantastica che trasforma l'amore in meccanica di morte».

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Esposizioni Universali sono un punto di partenza fondamentale per comprendere quello che Gemter Metken chiama «antropo­morfismo della macchina nel XIX secolo»".

In quel momento storico la macchina poteva essere sog­getta alle più svariate e anche contraddittode interpretazioni: la si vedeva come miglioramento dell'uomo, in quanto costruita perfettamente funzionale al suo scopo, o anche come vampiro che' si appropriava della carne e del sangue di coloro che se ne servivano, Non era del resto estranea a queste valutazioni nega­tive la constatazione che la m-acchina sottraeva lavoro all'uomo, e non a caso, per questa ragione, in Inghilterra, molti telai meccanici furono distrutti nell'insurrezione dei tessitori nel 1844.

Inoltre la tnacchina a vapore, le cui rivoluzionarie appli­cazioni invadevano l'Europa in quegli anni, si prestava a essere facile oggetto di sovrapposizioni miriche, che l'assimilavano alla natura umana, alla potenza vidle. Non a caso lo stesso termine "cavallo vapore" tende ad associare un qualcosa di vitale, di organico, a un insieme tneccanico.

CosÌ i decenni che coprono la seconda metà del XIX secolo e la prima parte del XX appaiono un periodo particolar­mente fertile per lo sviluppo della tendenza - d'origine ben più antica- a elaborare la nozione di macchina come chiave esplica­tiva di realtà più complesse (la struttura corporea dell'uomo e degli animali, l'intera creazione). E proprio sul finire di questo periodo emerge l'immagine di macchina celibe20,

La macchina celibe, come spiega Carrouges, «si presenta innanzi tutto come macchina inverosimile. Ma la struttura deter­minante di questa si fonda su di una logica ,matemarica»21, N 011 deve essere intesa come macchina nel senso comune del termine, e l'atnbiguità è in effetti il suo pdmo carattere. Po-

19 Gunter Metken, Dall'u()m()-macchina alla macchina-uom(), Antr()pom()rfism() della macchina del XIX sec()l(), in Le macchine celibi, cit., p. 51

20 Sul concetto di macchinismo in generale l"imandiamo a: Alexandre Koyré, Dal m()ndo del pressappoco all'univers() della prefisione, Einaudi, 1967, 19827•

L'autore fa risalire al XVII secolo le origini del macchinismo. Del resto in questo secolo avvengono i primi tentativi di orologeria di precisione.

21 Mlche1 Carrouges, ()p. cit., p. 17.

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trebbe essere ùrC'lneccanlsmo riconoscibile, nla potrebbe anche non esserlo, presentandosi confuso con l'ambiente circostante, senza alcuno scopo evidente. La macchina celibe infatti è gui­data da leggi mentali del tutto soggettive. Per chiarire questo punto prendiamo tre dei principali esempi che Carrouges porta nel suo scritto Istruzioni per l'uso.

Il primo è l'opera di Duchamp: Grand verre. La martee mise à nu par des céiibataires, me-nte. Si tratta di una creazione composta su una grande lastra di vetro alta 2,75m. e larga 1,75m., esposta al Museo d'arte di Filadelfia, alla quale Du­champ lavorò tra il 1915 e il '1923, anno in cui la abbandonò lasciandola incompiuta. La costruzione è composta, oltre che dal vetro, da altri materiali: olii, vernici, lamina e filo di piombo, argento, polvere, acciaio.

N elI' opera di Duchamp non si riconosce nessuna figura umana, anche se si parla di sposa e di celibi. Sulla parte superiore si vede una forma sinuosa e morbida, orizzontale; poi a destra una parte angolosa e dura che scende fino a terminare in un' asta sottile in posizione obliqua. Nella parte inferiore emergono le sembianze di nove uomini rappresentate da altrettante divise di fogg.ia diver­sa, puri involucri esterni; poi, in primo piano, da sinistra a destra, si riconosce una slitta o carrello senza rotelle, azionato da una ruota a pale, che a sua volta aziona le grandi forbici che si incrociano sopra la macchina tritacioccolato. A destra ancora dei cerchi che sono dei "testimoni oculisti". La "macchina", spiega Bailly, «è un dispositivo erotico in cui la parte superiore, o regno della sposa, e quella inferiore, dove campeggiano gli scapoli (le nove divise), si contrappongono. Il gioco consiste nello stabilire un dialogo [ ... ) ma il risultato del dialogo non può essere che l'appagamento finale del desiderio. Tuttavia quest'esito non si realizzerà mai»22.

Il meccanismo visibile, concentrato nella parte inferiore, è un ingranaggio complesso che, «pur senza evocare nulla di reale, non può tuttavia dirsi surreale. È troppo freddo, cere­brale, deliberato»23; e infatti è composto di meccanismi che,

22 Jean-Cbristopbe Bailly, Marcel Duchamp, trad. itaI. di Antonella Mon­tenovesi, Milano, Jaca Book, 1986, p. 64.

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in qualche modo, non sono inventati: le divise sono quasi reali, la ruota a pale ricorda quella di un mulino. La Ma­cinatrice di cioccolato, già presente in un opera a se stante nel 1913 (fig. n. 2), scaturisce dalla visione di un oggetto reale che l'artista aveva notato nella vetrina di un pasticciere; i Testimoni oculisti, visibili anche in un opera preparatoria del 1920, sono in effetti delle tavole oculistishe che Duchamp riprese tali e quali.

Distinguiamo quindi un ambito "meccanico", dato pro­prio dai meccanismi che vi sono rappresentati, e uno "sessuale" dato dall'allusione alla sposa, ai maschi celibi e alla nudità. Osservando l'opera è nel contempo evidente la separazione in due unità sovrapposte, maschio e femmina, che, in quanto nega l'unione tra due opposti, nega qualsiasi possibilità di procrea­zione e prelude all'idea di morte'4. Idea che è pemltro rafforzata dalla immagine scheletrica della parte superiore e dalla impos­sibilità di un movimento reale delle macchine rappresentate. Altro punto fondamentale legato al concetto di celibe come sterilità è quello di autoerotismo al quale si allude nei movi­menti circolari che riempiono la parte inferiore. A questo pro­posito riporto le considerazioni di Bailly: ~<La sposa non è stata messa a nudo, né lo sarà, è sempre sul punto di esserlo, senza fine. Il dispositivo è un dispositivo d'impedimento, che funzio­na come tale, a circuito chiuso, come un rispecchiamento mor­tale - e infinito - di due onanismi di ordine diverso»25.

La stessa composizione, al suo interno, ha un movimento circolare che va dalla sposa ai celibi, da questi alla slitta a pale, alla tritacioccolato, poi dalle forbici, sovrapposte a quest'ultima, , ai testimoni oculisti, e ritorna direttamente in alto, senza altri passaggi, alla sposa. Carl'Ouges sostiene- che il movimento è trasmesso dalla parte superiore a quella inferiore attraverso la lunga asta a punta dello scheletro femmina che «è agitata da

24 La sbarra che attraversa orizzontalmente la lastra di vetro è stata inserita solo per renderla più solida dopo la rottura occorsa nel 1926. Bisogna quindi notare che almeno inizialmente la parte inferiore e quella superiore non erano separate in modo cdsl radicale.

25 Bailly, op.cit., p. 66.

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scosse, caUle la sfera degli orologi elettrici delle stazioni» 26. L'elemento maschile inferiore subisce il movimento e nel con­tempo anche la negazione della propria realizzazione sessuale in quanto è negata l'unione.

. Il ~ra~d verre è sicuramente l'esempio più citato per guanto r~guarda 11 dlSCOl'~O sul ten:a della macchina celibe, ma Carrouges ritrova parte deglt elementi segnalati anche in ambiti artistici non figurativi chiamando in questione la C%niapena/e di Franz v _,,_

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Nel racconto l'autore descrive infatti una strana macchina di tortura legale, che esegue automaticamente e pubblicamente le condanne a morte. Il condannato è steso su un letto meccanico sottostante a un erpice armato di una lunga punta che, sorretto nel centro da una sbarra verticale, e comandato dall'alto, scrive la sentenza sulla pelle del condannato. L'erpice non cessa di oscillare e la sua grande punta alla fine trafigge la ffOnte della vittima. Anche qui sussiste la divisione in due zone: la superiore dove troviamo ~: '~disegnatore" esecutore della sentenza, e quella i~ferio­te, dove c e 11 condannato. Il movimento è trasmesso da una zona all'altra tramite una lunga asta, che ricorda la baionetta che "uni­sce" la Sposa agli Scapoli nell'opera di Duchamp.

. .L'elemento verticale caratterizza anche l'ultimo esempio che n~OrtIamo tra .quelli segnalati da Carrouges, la mazzeranga o da­mIgella del raItra di denti in Locus So/us di Raymond Roussel. In.fattl la ~azzeranga è un sottile cilindro verticale, sospeso per ana a un ~IC:olo aerost,ato, che termina in basso con degli artigli; con que~tI I apparecchlO afferra denti di diversi colori sparsi al suolo e 11 trasporta su dI un terrapieno per comporre un mosaico rappresentante un raitro (soldato a cavallo) condannato a morte per aver tentato dI rap.ue una donna, Chtistel, che amava. Anche qui ~n ~len1ento supenore femminile (infatti nel francese comune, per mdICare la ma~zeran~a, si può usare anche il termine demoiselle)27 che trasmette 11 mOVlmento ad alcuni denti per terra fino a forma-

26 Michel Carrouges, lJtruzioni per l'uso Ctt p 20 27 . ' .,.

La comun~ ~azzeranga «è Il modello iniziale del cilindro verticale che RO~Jss.el ha pr~St1g1?Samente ,trasformato aggiungendovi un areostato, degli artlg11 e moltI altn accesson. Non si tratta di un fatro casuale, ma del

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re un elemento maschile: il soldato a cavallo. Inoltre questa ope­razione, nel racconto di Roussel, è mostrata da Cantarel, inventore della macchina, ai suoi ospiti.

Tutte queste macchine, sostiene Carrouges, «nonostante la completa divergenza degli aspetti esterni [ ... J hanno una struttura molto prossima)}28.

Mentre la macchina in genere è intesa come apparecchio destinato a produrre, comunicare o trasformare il movimento, le macchine in questione sono innanzi tutto delle macchine menta­li, «il cui funzionamento immaginario serve a produrre un movimento reale dello spirito»29. Ciò perché non seguono la fisica ordinaria ma la patafisica, nozione elaborata principahnen­te da Alfred Jarry che la definì come una scienza totalmente differente da quella ordinaria; è la scienza delle soluzioni imma­ginarie, agli antipodi della fantascienza che prende spunto dalla fisica ordinaria. Secondo Carrouges, ogni macchina celibe può essere una "patamacchina";

Inoltre la costante presenza degli spettatori, come i testi­moni oculisti del Grand verre, il pubblico clelia Colonia penale, gli ospiti di Cantarel in Locus solus, alludono, sempre secondo l'autore, a una vicinanza delle macchine celibi al concetto di rappresentazione, che egli addirittura colloca in un ambito spe­cificamente teatrale·~o.

Per completare l'analisi di queste opere è importante notare che all'interno di una macchina celibe come il Grand verre co­esistono anche altri motivi artistici peculiari di Duchamp e tipici delle atti figurative di quegli anni.

Duchamp, infatti, come abbiamo già accenl1ato, ricorse nella costruzione del Grand verre all'uso di immagini relativamente re-

prodotto di un gioco di parole di Roussel, che ha trasformato 1'espressione "demoiselle à pretendants" (ragazza dai molti pretendenti rivali) in "demoiselle à reitre endents" (mazzetanga a mosaico di denti raffigurante un raltro)>>. Michel Carrouges, Istruzioni per l'uso, cit., p. 24.

28 Ivi, p. 22. 29 Ivi, p. 44. 30 Anche Bail1y parla di "incomparabile forza teatrale della Sposa nel suo

sradio finale", op. cit., p. 32.

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alistiche, che avrebbero potuto essere colte mediante delle perce­zioni reali, e poi trasferite nell'opera. In questo senso l'operazione si muoveva in un ambito non estraneo alla nozione del ready madé1. Argan, nel quarto volume della sua Storia de/tarte, cosÌ definisce il ready made: «un oggetto qualsiasi (uno scolabottiglie, un orinatoio, una ruota di bicicletta) presentato come fosse un'opera d'arre ( .. ,J Viene data- come avente valore una cosa a cui comunemente non se ne attribuisce alcuno [. .. ] Non c'è un procedimento operativo, ma un mutamento di giudizio, intenzionalmente arbitrario [ ... ] Di farto si limira a separare l'oggerto dal contesto che gli è abituale e in cui adempie a una funzione pratica: (DuchampJ lo disambien­ta, lo svia, lo porta su di un binario morto. Stralciandolo da un contesto in cui tutto essendo utilitario nulla può essere estetico, lo situa in una situazione in cui nulla essendo utilitario tutto può essere estetico. Ciò che determina il valore estetico, dunque, non è più un procedimento tecnico, un lavoro, ma un puro atto men­tale, uQa "diversa" attitudine nei confronti della realtà» 32.

Cal"touges a sua volta nota come Duchamp nel ready made usi oggetti banali, comuni, che però, visti insieme, nel caso del Grand verreJ «producono per la prima volta l'immagine scono­sciuta ( .... J questa nuova follia dell'insolito»3'.

La nozione di macchina celibe è stata inoltre sviluppata da Bazon Brock che ne ha messo in luce due aspetti essenzia­li

34• Ponendo l'accento sulla creazione celibe Brock innanzitutto

sostiene che questa non è frutto di nessun rapporto logico (come quello che dovrebbe esserci tra il mezzo e il fine). La macchina, in quanto celibe, incarna un aristocratico rifiuto dei rapporti di procreazione sessuale. Inoltre, una volta nata non segue l'anda­mento della evoluzione naturale.

Ma la peculiarità delle tesi di Brock sta nel fatto che ritrova la coesistenza di questi due elementi nel mito di Pallade Atena. L'autore sostiene infatti che /'immagine della dea sia una delle

31 Il termine fu, com'è noto, adottato da Marcel Duchamp oel 1915. 32 G. C. Atgan, L'arte moderna - 1770/1970, Firenze Sansoni 1970 pp

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33 Miche! Carrouges, lmuzioni per l'uso, cit., p. 47. 34 Cfr. Immacolata concezione e macchina celibe, io Le macchine celibi, cit., p. 79.

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prime macchine celibi di cui ci riferisce il mito ll1editerraneo europeo. Zeus la partorisce senza l'aiuto di un mediurn, attraverso una spaccatura del proprio cranio, e Atena nasce in completa ar­matura, adulta, come prodotto finito; non le è quindi necessaria una crescita, un'evoluzione nel tempo, nasce come deve essere, come un'opem d'arte. Questo essere svincolata dal tempo la pone in contatto col concetto di durata eterna (proprio del dio) che Brock assimila a quello di macchina celibe, arrivando a definire il moto perpetuo come costante di quest'ultima.

Ciò non significa che la macchina celibe sia priva di una dimensione sessuale. A tal proposito Peter Gorsen ricorda che in generale alla macchina è associata una sessualità nei termini di rapporto e quindi di un erotismo non celibe35 • Se però sot­traiamo l'elemento del rapporto alla sessualità (secondo la nozio­ne di celibe) arriviamo all'auto-erotismo, il cui simbolo viene individuato nel movimento circolare.

Bazon Brack riconosce nella durata eterna una delle componenti principali della divinità; di conseguenza afferma che il movimento circolare, inteso come simbolo del moto perpetuo (eterno), è una costante della macchina celibe. E più precisa­mente Arturo Schwarz sostiene che «la macinat1'Ìce di cioccola­to», nel Grand Verre, è «la solidificazione allegorica del narci­sisma onanistico del celibe»36, poiché la macchina celibe è una macchina desiderante, dove lo stesso desiderio, indipendente­mente dall'oggetto desiderato, provoca il movimento autonomo sessuale, e quindi onanistico, circolare: l'energia erotica liberata non si dirige verso qualcosa 1na ritorna indietro, non produce un reale spostamento, e quindi è sterile, ancora una volta, onanistica.

35 La macchina in generale, nei secoli, nel suo processo di assimilazione all'uomo, di reificazione, ha assunto attribuzioni sessuali, stimolando la fanta­sia di al·tisti e lettetati: «e divenne usuale rappresentare simbolicamente l'atto dell'accoppiamento nello spettacolo di bielle e di cilindri automoventisi», Peter Gorsen, La macchina umiliante per l'escalation di un nuovo mito, in Le macchine celibi, cit., p. 139. .

% Arturo Schwarz, La macchina celibe alchimistica, in Le macchine celIbi, cit., p. 179.

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La nozione di macchina celibe si colloca quindi in un odzzonte in cui si intrecciano diverse caratteristiche connesse tra loro:

- l'inutilità espressa nella sterilità come incapacità di pro­creaZIOne;

l'idea di morte connessa alla sterilità'

la costante di elementi come aste, ~azze, o simili, alla quale è assegnata la funzione di trasmettere il luovimento;

la coesistenza di due insiemi: sessuale (il più delle volte SCISSO in maschile e femminile) e meccanico'

la presenza degli spettatori. '

Tutti questi elementi (insieme agli altri spunti trattati come quello sul movimento circolare o il d(erimento al ready made) consentono di considerare sotto una nuova luce l'attività di Remondi e Caporossi e l'aspetto "macchinico" dei rapporti che instaurano tra di loro e i materiali utilizzati.

In Sacco, appunto, abbiamo definito "macchinica" la rela­zione tra i due personaggi: un meccanismo dalla traiettoria circolare e claustrale che sembra rendere tutto inutile gratuito' , , un sadomasochismo che si esaurisce in se stesso. Remondi non riesce a venire veramente fuori dal sacco: infatti, appena ci rie­sce, viene rinchiuso in una semisfera.

Non è riconoscibile in questo spettacolo, come del resto in molti altri, la divisione dei due insiemi che Carrouges deli­nea, ma in compenso gli spettatori sono decisamente presenti in qualità di "testimoni oculisti" dell'esperimento, tant'è vero che vengono chiamati anche a prenderne visione diretta attraverso i mirini posti sopra il cilindro di camere d'aria37 , La luce stessa ha come scopo quello di mostrare, far vedere chiaramente: non cela gli spettatori nel buio della sala, ma li mostra, li chiama in causa. Questa particolare attitudine del pubblico è prospettata dagli stessi autori quando affermano: «gli spettatori erano come

~7 Del resto Carrouges rileva che la macchina celibe sembra porre l'esi­genza di. un .pubblico e manifesta cosÌ un'implicita vocazione teatrale. In questa prospettiva SI po.trebbe sostenere che il teatro di Remondi e Caporossi ne sia 11 naturale comp1mento. Vedi inoltre la descrizione dello spettacolo in appen­dice al capitolo.

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;~ testimoni di una sitlL:'lzione, come se per strada o in piazza stessero assistendo a un incidente, e dovessero capire e testimo­niare l'accaduto».

L'idea di morte è presente sia nella tortura, come atto di repressione, che nella continua reclusione del personaggio im­personato da Remondi in un qualcosa di piccolo, costretto. La morte è citata inoltre esplicitamente nella scena finale quando l'attore si lascia cadere a terra ed è trascinato via da Caporossi.

Continuando in questo senso, possiamo dedurre che al­l'interno di una meccanica "celibe" - inutile e sterile - avviene la nascita "celibe" di un essere (Remondi) privo di qualsiasi sviluppo. Ogni possibilità di evoluzione gli viene negata in quanto il meccanismo circolare dello spettacolo lo ricaccia nel sacco. La condizione celibe che Brock definiva aristocratica, nel teatro di Remondi e Capo rossi, collocandosi nel loro discorso politico, diventa repressiva, castrante.

Naturalmente la vicinanza tematica dei due autori al­l'opera di Duchamp e, più in generale, al lavoro dei creatori delle macchine celibi non è né intenzionale né consapevole. Anzi Remondi e Capo rossi tendono solitamente a negare qualsiasi rapporto diretto tra la loro ricerca e gli esperimenti delle arti figurative, anche quelli più prossimi: e ciò nono­stante l'intenso interesse di Caporossi per la grafica, la sua ampia produzione di disegni. Singolari coincidenze della loro produzione teatrale con una parte delle sperimentazioni arti­stiche del periodo (come le opere degli artisti che motavano intomo alla galleria romana "L'Attico") sono del resto eviden­ti. Ma pur riconoscendole Remondi e Caporossi escludono qualsiasi influenza diretta e sottolineano tenatemente la pre­cisa ol'iginalità del loro prodotto artistico.

«Non si può dire», afferma Caporossi, «che noi guardas­simo alle esperienze pittoriche o di arte comportamentale e poi le trasferissimo nel nostro teatro. I nostri esordi si collocano in un periodo in cui due campi artistici differenti conducevano, separatamente, esperienze simili. Sicuramente ci è accaduto di renderci conto, trovandoci di fronte a un quadro o una qualun­que immagine, dell'affinità che potevano presentarsi con il no-

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stro lavoro. Si trattava però di qualcosa che era possibile veri­ficare dopo, a distanza di tempo»,

Tuttavia, specialmente alI' inizio, Remondi e Capotassi sfio­ravano con le loro messe in scena i caratteristici esperitnenti del­l'arte comportamentale. Proprio mentre presentavano le prime repliche di Sacco in un teartino in via Sant'Agata dei Goti, al Palazzo delle Esposizioni si teneva una manifestazione dove alcuni artisti, pittori e scultori, scivolati nell'arte comportamentale, si auto-esponevano: fra questi anche Claudio Cintoli con Crisalide. Questi esibiva un grosso sacco di juta da cui uscivano varie cose, degli stracci e poi lui stesso: le corrispondenze sono evidenti.

È chiaro che alla luce delle tesi di Carrouges assume un'im­porranza particolare anche il progetto di un impianto per la fabbrica­zione ottimale de! bottone che abbiamo già incontrato parlando dello spettacolo Térote. Si tratta di una macchina, un insieme di mecca­nismi e calcoli che resta ancora a un livello figurativo e concettua­le. Ma è proprio questa caratteristica a segnalare la stretta paren­tela con le macchine celibi, più di quanto non lo siano le succesive creazioni dei due autori, in cui la macchina è costruita di fronte al pubblico, e cioè semplicemente, come dev'essere, anche se solo nella forma di un progetto. Ciò è dovuto alla sensibilità pretra­lnellte figurativa che caratterizza ancora l'attività di Capotassi, mantenendola prossima al territorio delle rappresentazioni visive e quindi alle invenzioni di Duchamp. Osservando il disegno della macchina riportato sul copione si ha l'imptessione che sia mosso dalla stessa "logica" che muove iI Macinino da caffè che Duchamp compose nel 191138•

Le macchine inutili

Nello spettacolo successivo a Sacco Remondi e Caporossi decidono di sfumare la loro attenzione sulle l'ematiche del ni-

38 Sia il Macinino da caffè che il Progetto,,, di Caporossi sono simili per l'approssimazione del disegeo. Entrambe le opere sono lontane da qualsiasi criterio scientifico di produzione ma suggeriscono Pidea del movimento attra­verso l'insistenza sull'elemento circolare.

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chilismo e del masochismo del rapporto vittima-carnefice, per porre l'accento sulla solidarierà. Già il ritolo, Richiamo (1975), suggerisce la nozione della comunicazione, del rapporto: e infat­ti .questa volta Remondi e Caporossi sono uniti come compagni di lavoro all'interno di una catena di montaggio, a sua volta rappresenrata dall' elemehto senza dubbio più importante di tutto lo spettacolo: la macchina a ruote dentate'>9.

La ruota, suggerita da due grandi ingranaggi di carro armato che Relllondi aveva comprato molto tempo prima, im­pegna la coppia di attori in un lavoro estenuante e inutile durante il quale} intorno all' incedere lento e costante della macchina, si consumano una serie di avvenimenti tra il tragico e il comico che segnano la breve esperienza umana dei perso­naggi emblematici protagonisti dello spertacolo. La 101'0 umani­tà sÌ scontra con un sistema alienante, freddo e meccanico dal

quale saranno resi schiavi. Qui la critica alla società industriale diventa il tema

portante dello spettacolo, anche se resta sempre implicita senza mai assumere i toni clamorosi della denuncia politica diretta. L'atmosfera, rispetto alle produzioni precedenti, è più rarefatta e ogni piccolo avvenimento viene evidenziato, fino ad arrivare agli iperrealistici frammenti di vita quotidiana come "lo spun­

tino dell'operaio". Anche la scelta dei materiali presenti nello spettacolo diven­

ta più puntuale e precisa: plastica, ferro, legno, ossa; e ognuno di questi sembra dover assumere un particolare significato.

La plastica del. pallone che domina l'inizio dello spettaco­lo, una massa informe che divora l'uomo sputandone le ossa come miseri rimasugli, evoca efficacemente, nella sua qualità di materiale sintetico e artificiale l'inumanità della società indu­striale. È una massa mostruosa e mitica al tempo stesso, che dà l'idea di un ventre primigenio, come suggerisce Aggeo Savioli

40•

Ma è anche una presenza legara alle forme del mondo contem-

39 Vedi descrizione dello spettacolo. 40 Cfr. Aggeo Savioli, Una fabbrica del nulla in «Richiamo», "L'Unità", 4

marzo 1975.

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poraneo, come ci fa capire Donata Righetti nella sua descrizio­ne: <~un'enorlne massa frusciante gonfia e verdastra: la materia viscida e ottusa che fa da placenta al "progresso", il gigantesco fungo cresciuto sugli escrementi della tecnologia».

Questa presenza iniziale produce un'altra creazione artifi­ciale: la macchina con le sue parti fondatnentali, ruote e tubi, in ferro; il metallo, che ci rimanda subito al lavoro nella fabbrica, alla macchina industriale4l

. Gli autori del resto am­lnettono che alcuni materiali come il legno, la pietra, il feno, che potremmo definire arcaici, possano avere un valore partico­lare una volta messi in scena, in evidenza per quello che sono, e sostengono che in Richiama, l'elementarità, la primitività dei materiali usati, li rende, di per se stessi archetipi della tecno­logia. La foggia della macchina costruita dai due attori, che ha come elemento fondamentale un ingranaggio, sembra inoltre voler ricercare l'archetipo, la metafora lampante della tecnologia indu­striale, della catena di montaggio, riportandoci alla mente l'enor­me meccanismo che divora l'uomo-operaio in TemPi Moderni di Chaplin.

L'idea di mecca01smo, nella costruzione predisposta da Remondi e Caporossi: contiene la nozione di sopraffazione. Per questo vengono subito tagliati i rapporti con la parte wnana della macchina, e cioè con l'uomo, che l'ha concepita e che le permette di funzionare. Se tali rapporti non venissero tagliati, la macchina apparirebbe un prolungamento, o ampliamento, delle possibilità dell'essere umano, che quiudi ritroverebbe ac­cresciuta la propria potenza grazie alla macchina da lui creata. Qui invece i due personaggi non solo non accrescono le proprie possibilità, ma perdono subito ogni potere sulla macchina, ben­ché ne siano i costruttori.

Insomma la macchina non è più un oggetto frutto del­l'ingegno umano, e quindi controllabile, ma qualcosa di miri co, misterioso, con cui, in un tempo remoto, l'uomo ha perso il

41 Si può, con molta tranquillità, supporre che Remondi e Caporossi abbiano costruito in legno i cavalletti a cremagliera solo per renderli più leggeri e maneggevoli, nei diversi spostamenti previsti dallo spettacolo.

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contatto. Proprio con la lnacchina i due personaggi entrano in un rapporto-scontro nel quale perdono finanche i residui della propria umanità. Solo nella parte finale dello spettacolo la rianimazione di Caporossi sembra allud~re a un riscatto dell 'uo­mo. Infatti Remondi, quando strappa il cerotto dalla bocca del compagno steso a terra immobile, ricambia l'aiuto che Caporos­si gli aveva dato levandogli la benda dagli occhi all' inizio della rappresentazione. Questi due momenti sono gli unici caratteriz­zati dalla comunicazione, dal rapporto utnano dei personaggi, e soprattutto quello del finale sembra evocare un recupero dell' es­sere umano teso nell'estremo tentativo di salvarsi dalla aliena­zione che lo uccide. È una situazione difficile e amara quella dell'uomo - sembrano dirci i due autori - dalla quale può sal­varci solo la capacità di instaurare un rapporto autentico, affran­cato dai ritmi produttivi industriali. Infatti la possibilità di riscattare la propria esistenza era stata negata ai due personaggi nella parte centrale dello spettacolo; quando il tempietto di mattondni di legno crolla inesorabilmente sulla testa di Re­mondi42

. È l'unico momento in cui la coppia di attori abban­dona contemporaneamente il lavoro, lasciando la macchina fer­ma; ma lo fa per affidarsi a un altro elemento esterno che, in quanto tale, li inganna costringendoli ancora una volta a lavo­rare. L'illusorietà di un tale tipo di fuga dalla macchina è espressa nei termini più chiari proprio quando il tempietto, svuotato da ciò che conteneva, crolla disfacendosi in mille parti.

Sulla base di tali considerazioni possiamo dire che la dia­lettica vittima-carnefice, nota distintiva di Sacco, si muta in quella attigua servo-padrone, dove quest'ultimo ,è ll1aterializzato nella macchina. E in questa più immediata decifrazione dello spettacolo nei termini di un'efficace illustrazione del rapporto uomo-macchina, emerge - di nuovo - l'immagine più ambigua della macchina celibe.

È bene però stabilire una prima differenza fondamentale, che dovrà essere tenuta presente: le macchine celibi di Remondi e

42 Vedi descrizione dello spettacolo.

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Caporossi sono di norma caratterizzate dall' azione che in teatro copre un tempo reale, definito razionalmente dallo spettatore, menUe nelle macchine celibi prese come punto di riferimento ed esaminate da Carrouges, l'azione è bloccata nelle realizzazioni figu­rative (fatta salva la possibilità dell'opera di comunicare "l'idea di 1novimento" che non si trasforma mai in azione fisica); e appare totalmente immaginaria nelle opere narrative dove l'azione resta relegata a uno spazio prettamente mentale. Un'altra generale dif­ferenza è la tendenza dei due autori a "costruire". 11101'0 teatro può sicuramente essere visto come costruttivo per la grande importanza che attribuisce alla manipolazione del materiale scenico. Di contro, proprio il montaggio delle macchine eseguito in scena, la costru­zione a vista del pubblico, pezzo per pezzo, la aeazione del con­gegno dal nulla (in quanto, all'inizio, il pubblico può vedere solo una serie di oggetti collocati in modo da non far intendere il risultato finale) può alludere al concetto di nascita-crescita, lonta­no da quello di creazione celibe che, ci ricorda Bazon Brock, non rispetta l'evoluzione naturale e nasce già completa, cosÌ come de­v'esseré3 .

È invece la nozione di sterilità che unisce e sollecita impor­tanti analogie. Remondi e Caporossi tendono infatti a definire le loro macchine come inutili, produttrici tutta'al più di danni e svantaggi per l'uomo, il che poi si associa all'evocazione -propria delle macchine celibi - dell'idea della morte"'.

Infatti in Rù:hiamo l'involuao che all'inizio contiene la mac­china espelle alcune ossa, subito dopo l'ingresso di Remondi al suo interno, proprio come se lo avesse divorato. La nozione di morte è ancora una volta suggerita nell'ultima parte dello spettacolo, quando sembra che il personaggio rappresentato da Caporossi si lasci moriré'. Anche la canzoncina del finale allude a una fiam-

43 Bazon Brock, Immacolata concezione e macchina celibe, in Le macchine celibi, cit., p. 79.

44 Possiamo riprendere quello che dice lo stesso Remondi: «le definirei "macchine inutili", lo trovo piLI giusto. Qualche volta macchine dannose».

4~ È interessante a proposito quanto rammenta Caporossi a proposito delle prime scene dello spettacolo: «Inizialmente però escono fuori delle ossa, i residui dell'animale o di chi comunque è stato inghiottito».

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mella che muore perché innamorata del soffio che la spegne. Lo stesso Remondi spiega che «in Richiamo c'è la morte bianca di lui [Caporossi] che viene schiacciato dalla macchina. Dei due perso­naggi uno è robottizzato, quindi non capisce niente e manda avan­ti la macchina comunque; l'altro, con un ri1nasuglio di umanità, si mette sotto la macchina, si fa schiacciare e riesce a bloccarla. All ude quindi alla morte bianca, al sacrificio è al recupero dell' altro che si sta perdendo». La morte, del resto, qui può essere anche intesa come morte dell'individualità, nel momento in cui Remon­di viene trasformato in un robot dal compagno e quindi assimilato alla macchina.

In Richiamo è comunque il 1novimento che segna tutto lo svolgimento dello spettacolo e attorno al quale giocano le loro esistenze i due personaggi. Il movimento può trasformare; e quin­di ecco che Remondi viene robottizzato e nutrito dal compagno, che per un momento sembra essere tornato al ruolo di seviziatore che aveva in Sacco (ricordato inoltre anche dal cerotto che porta sulla bocca); il rifiuto di seguire quel movimento non può non portare alla morte, come avviene appunto a Caporossi in un ultimo estremo tentativo di salvare la propria umanità. La macchina inol­tre, assorbendo tutte le energie dei due personaggi, sembra impe­dire ogni comunicazione, facendo esaurire la loro esperienza esi­stenziale nel mandarla inutilmente avanti. Parallelamente Remon­di e Capo rossi asswnono gesti straniati46, e si assimilano sempre di più all'ingranaggio, come testimoniano le catene che si mettono ai polsi, fino alla trasformazione in robot di Remondi.

Con il suo movimento è la macchina che resta il perno dello spettacolo tanto è veto che, in questo ambito steril-e, tutto ciò che necessita alla rappresentazione, agli attori, è prodotto dalla stessa macchina, o comunque dal suo involucro iniziale (persino il panino di uno dei due operai). L'unica cosa che viene prodotta dall'uomo è il melagrano che Caporossi estrae da sotto la tuta, quasi come se fosse una parte del suo corpo, con il quale nutre il compagno proprio quando questi è assimilato alla macchina47 •

46 Cfr. Ubaldo Soddu, Richiamo, "Il Messaggero", 1 marzo 1975. 47 Questo potrebbe far pensare alla macchina che si nutre dell'uomo.

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A questa macchina "vistosamente ostile'''18, quindi, i perso­naggi sono costretti ad affidare tutta la loro consistenza di es­seri umani, Attorno alla macchina, però, prendono vita tutte quelle azioni o gags (come quella dell'uovo negli ingranaggi) che hanno spinto i critici a riconoscere sinlilitudini con le in­venzioni esemplari dei grandi comici quali Keaton o Chaplin49

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Queste "variazioni sul tema" permeate da un'acre ironia, come l'uscita di scena dei due attori che si saltano giocando "alla cavallina", ci illuminano sulla componente Iudica degli spetta­coli di Remondi e Caporossi, la quale a sua volta permette di accettare quella che Barbara De Miro chiama "crudelrà di ascen­denza artaudiana"50, Sono delle gags che, come scrive Ettore Capriolo, «non allentano la tensione ma la razionalizzano, per­mettendo a chi guarda di mantenere un atteggiamento critico ed evitando nello stesso tempo ogni tentazione di compiaciuto piagnisteo»51,

Tipico della macchina celibe in Richiamo è inoltre l'elemen­to di fascinazione che deriva dall'unione tra razionale e insen­sato che scaturisce dal bisogno di fondare il proprio lavoro su delle tecniche in qualche modo logiche, "scientifiche". Duchamp nel Grand verre fa un accurato uso della prospettiva (anche se non abbandona completamente l'effetto di superficie), quindi adopera un metodo altamente scentifico per ottenere un risulta­to che resta fuori dalla logica comune, che esprime un movi­mento del tutto irrazIOnale. In Colonia penale Kafka ci descrive una macchina che sembrerebbe addiritura realizzabile poiché l'autore "ci spiega" il funzionamento: il "disegnatore" scrive la sentenza sul piano superiOl'e collegato all'erpice che la disegna sulla schiena del condannato e poi lo uccide. Sembra un logico

48 Barbara De Miro, op. cit., p. 13. 49 Tra i molti·. Aggeo Savioli, Una fabbrica del nulla in "Richiamo", "L'Uni­

tà", 4 marzo 1975; Franco Quadri, Richiamo, "Panorama", 20 marzo 1975; Donata Righetti, Intorno alla macchina un girotondo' feroce, "Il Giorno", 30 mag­gio 1975.

50 Barbara De Miro, op. cit., p. 14. 51 Ettore Capriolo, Teatro; l'oppoJizione dell'uomo e due clown meravigliosi,

"L'Europeo", 27 giugno 1975.

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nesso causa-effetto anche se, riflettendoci, non appare tanto im­possibile quanto assurdo. Allo stesso modo Remondi e Caporos­si si ingegnano nella costruzione di un oggetto che dimostra abbastanza chiaramente di possedere una sua logica scientifica all'interno (è infatti un ingranaggio certamente riconoscibile) ma nell'uso tende a esprimere una palese illogicità-inutilità, facendone addirittura l'asse portante dello spettacolo.

Le macchine di Remondi e Caporossi quindi partono dalla scienza ordinaria, ma si sviluppano su una scienza immaginaria che abbiamo detìnito più precisamente, nel precedente paragra­fo, come patafisica. Per questa ragione tali macchine incarnano appunto in maniera chiara l'ossimoro dell' «assurdo razionale» che Barbara De Miro individua come loro figura retorica e che, guarda caso, li affianca ai surrealisti52 .

Un riferimento particolare a procedimenti di lavoro di Du­champ può inoltre essere individuato nell'uso del ready made. L'ingranaggio di Richiama ad esempio si presenta, sia all'inizio che alla fine, come una costruzione ottenuta mediante l'assem­blaggio di pezzi riconoscibili e comuni di per se stessi, ma allucinanti e misteriosi nel momento in cui vengono uniti a formare quelli che Bailly chiama Jemi-ready mades come, fra gli altri, Con rumore segreto (1916) e Why not meeze? (Perché non starnutire?) (1921)53 di Duchamp. Se il ready made opera lo spostamento di un oggetto usuale in un contesto anomalo, provocando la rottura dei moduli consueti della comprensione, e del resto vero che contiene un i1nplicito rifiuto dell'immagine "artistica" e assume quindi il valore di gesto iconoclasta. In tal senso anche il funzionamento delle macchine o degli interi spettacoli di Remondi e Capotassi porta in sè ~n gesto' o una componente antiteatrale, come sembrano suggerire gli stessi autori quando dicono "in questo spettacolo [Richiamo) abbiamo sfidato il limite di sopportabilità del pubblico»'4, procedendo dunque

52 Barbara De Miro, op. cit., p. 36. 53 ]ean-Christophe Bailly, Marcel Duchamp, cit., p. 54. 54 Claudio Remondi e Riccarco Caporossi, Senza punti né virgole COJì di

Jeguito ininterrottamente come l'abbiamo detto, nel programma di sala della mani­festazione Illusi .. Roma, Ottobre-Novembre 1985, p. X.

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in una direzione opposta a tutti i canoni teatrali al quali il gusto degli spettatori è comunque abituato.

Metafora ed erperienza della macchina

Il tema della macchina trova la sua più nitida espressione in Rotòbo!o, uno spettacolo del 1976 che si colloca sicuramente tra le produzioni più impegnative di Remondi e Caporossi. La rappresentazione si organizza intorno a un gigantesco cilindro metallico, lungo dieci metri, largo sei e mezzo, pesante otto tonnellate, all'interno del quale entra parte del pubblico".

La macchina qui non è più la protagonista della scena, ma è la scena' stessa: rappresenta così una tappa fondamentale nella riflessione sullo spazio teatrale che è stata, è sarà, evidente nella produzione teatrale del gruppo. Anche in Rotòbo!o, come in Ri­chiamo, la macchina trae la sua ragion d'essere dal tema portante della poetica dei due autori in questo periodo, la componente alienante della società industriale, ma ora il linguaggio scelto affonda più precisamente le sue radici nel meccanismo del rito. Certo la componente rituale, con il conseguente interesse antro­pologico, è stata sempre presente negli spettacoli di Remondi e Caporossi; basterebbe citare a proposito «il rito del bottone cucito» nel finale di Térote, o i riti semplici, quotidiani, come il consumo di uno spuntino, o più complessi, come la proces­sione col tempietto-gabbia, ricordati da Aggeo Savioli recensen­do Richiamo", In RÒlobo!o tuttavia tale meccanismo diventa pre­ciso, spiccato. Gli stessi Remondi e Caporossi assumono non tanto la veste di attori quanto di gran sacerdoti, officianti di una pratica rituale-iniziatica che rispetta, seppur non scentifica­mente, le fasi fondamentali di un rito di passaggio:

'i5 Cfr. la descrizione che lo stesso Caporossi fa di Rotòbolo nell' intervista menzionata. Un particolare interessante è che il progetto di questa macchina è stato contemporaneamente, il progetto con il quale Riccardo Caporassi si è laureato in architettura nello stesso anno della messa in scena. È per questo che l'autore ha creato sia (come solitamente fa) dei disegni simbolici della macchina sia dei progetti r;gorosamente calcolati.

56 Aggeo Savioli, Una fabbrica del nulla in ((Richiamo", cit ..

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a) elezione dei prescelti (una parte clel pubblico) che ven­gono radunati in un luogo sacro di purificazione (il recinto);

b) transizione a una realtà diversa e sconosciuta che pone il prescelto in una condizione di maggior coscienza rispetto agli esterni, e quindi di superiorità;

c) pratica di iniziazione condotta da due officianti, che si compone di alcune azioni simboliche (vestirsi di abiti uguali, azionare le ruote, ancorarsi al pavimento);

d) ritorno della realtà comune recando su di sè il segno evidente dell'esperienza vissuta (il cerotto sulla bocca).

È vero comunque che l'interesse verso il meccanismo del rito si aggancia perfettamente alle motivazioni politico sociali dei pre­cedenti spettacoli. Lo stesso procedimento dell'elezione iniziale è ingannevole come sono ingannevoli e negativi i meccanismi selet­tivi della società industriale. Fin dall'inizio l'azione allude infatti a un criterio di scelta che isola alcuni prescelti in uno spa:,do determinato, il quale, essendo simile a un recinto da pecore, sug­gerisce !'ipotesi che il gruppo, quando opera questa falsa selezione, basata su criteri inesistenti, tenda invece a esprimere l'idea della massificazione, dellivellamento. Inoltre la principale funzione che le persone prescelte acquistano nel momento in cui "nascono", attraversando la garitta girevole, all'interno della macchina, è quella di far girare i cinque rulli di cui è composto il cilindro: una funzione prettamente motoria, alienata da tutto ciò che esprime la loro umanità.

L'attitudine coercitativa di tale meccanismo è chiarita in ultimo dal segno distintivo che i prescelti portano con sé al­l'uscita: un grosso cerotto sulla bocca che allude evidentemente , a una menomazìone, alla impossibilità di contestare un sistema del quale si è fatto parte e del quale si è conosciuto il funzio­namento. Una menomazione che ci è imposta tragicamente dal fatto stesso di essere entrati nel sistema.

Questo finale rende il meccanismo del rito circolare. Infatti 1 prescelti partono da una situazione di incoscienza tispetto al sistema che li inghiotte; sono ammessi a comprendere il funzio­namento, e infine, quando vengono rilasciati, rimangono impe­diti a rivelare ciò che hanno appreso. In questo senso l'esperien-

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za viene annullata, riportando i pl'escelti all'impotenza caratte­ristica dello stato iniziale.

Rotòbo!o appal'e dunque orientato nella stessa direzione cri­tica in cui si erano mossi gli esperimenti precedenti (la rifles­sione politico-sociale, la cadenza del rito). Ma qui diventa manifesta la volontà di Remondi e Caporossi di far rivivere allo spettatore le sensazioni provate dagli stessi attori negli spetta­coli precedenti, Sacco e Richiamo. Di qui l'esigenza di costruire qualcosa che possa contenere le persone come un gigantesco sacco, e abbia le caratteristiche meccaniche del movimento di Richiamo.

L'intenzione è quella di procurare al pubblico l'esperienza diretta di ciò che nei passati lavori aveva colto solo in termini metaforici. Per questo gli spettatori vengono costretti, all'inter­no della macchina, a una fatica inutile e monotona, COllie quella dei criceti nelle ruote delle loro gabbie. La metafora in questo modo si dissolve perché viene a coincidere con la realtà; la macchina (Rotòbolo) non rimanda a idee distanti, ma rappre­senta se stessa, il sistema sociale nel quale si colloca, con la chiarezla e la precisione propria dell'immediatezza.

Inoltre il momento in cui, dall'interno del cilindro, uno dei presenti viene scelto a caso ed espulso dalla parte posteriore attraverso un'apertura che ricorda un'enorme vulva llietallica, crea un ulteriore legame con lo spettacolo Sacco. Se accettiamo, infatti, l'interpretazione di questa apertura nel cilindro come un gigantesco organo sessuale femminile, dobbiamo di conseguenza considerare il cilindro come un utero, allo stesso ·lliodo di come può essere letta l'immagine del sacco (da cui fuoriesce Remon­di) nell'omonimo spettacolo.

Del resto Rotòbolo, mentre riprende alcuni punti fonda­mentali dell'attività artistica compiuta dai due autori, se ne distacca per altri. Se la metafora della macchina e dell'alie­nazione senlbra dissolversi nel momento in cui coincide con la realtà, dilegua, nello stesso tempo, anche una costante essenziale delle macchine degli spettacoli precedenti: in Ro­tòbo!o la macchina è già presente, costruita e perfetta fin dall'inizio, di fronte al pubblico. L'oggetto perde così la

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caratteristica di artigianalità evidente acquistando un valore

architettonico a sé stante57•

La caratteristica del movimento circolare riporta però l'in­venzione di Rotòbolo al tema delle macchine celibi. Il movi­mento meccanico circolare è una costante degli spettacoli di Remondi e Caporossi: è presente nell'ingranaggio di Richiamo con la due ruote dentate che avanzano girando sui cavalletti, nei cinque rulli di Rotòbolo, sarà fondamentale in Ameba. La rotazione cal'attel'izza varie opere di Duchamp: il Macinino da caffè (1911), che oltre a essere una delle prime macchin~ celibi da lui disegnate introduce il leit motiv della ctrcolal'lta nella sua produzione artistica; la Macinatrice di cioccolato (1913) che presenta addirittura due movimenti di rotazione contem­poranei, e poi il Grand verre nel quale il movimento circo­lare coinvolge non solo le singole figure, ma tutta la strut­tura "narrativa" o, per meglio dire, compositiva dell'opera58

Se in molti degli spettacoli di Remondi e Caporossi, la presenza del movimento rotatorio sembra alludere in modo più o meno evidente a una componente sessuale, in Rotòbo!o questo carattere emerge con particolare chiarezza perch,é la macchina può essere intesa come organo sessuale maschtle e femminile al tempo stesso. I disegni di Capotassi, ispirati e ispiratori dello spettacolo, avallano tale considerazione mostran­do degli immaginari organi sessuali sia maschili che femmi-

57 Certo Remondi e Capotossi restano legati alla necessità di lavorare manualmente in prima persona i matetiali che utilizzano ne?li spc~ta~oli, e proprio in queste esperienze riconoscono una dell: c~m~onent1 esscnzmb . del~a loro produzione. Nell'intervista si preoc~upano qu~ndl dI sp{egare come ,CIÒ SIa avvenuto anche in Rotòbo!o, nella fase dI montaggiO prespettacolare dell ogget­to. È caratteristico del resto come Remondi e Caporossi riescano in 01;\"ni .caso a salvare il sapore artigianale del loro teatro, perché, fedeli alla propna 1111ea, volendo creare una immagine diretta della società industriale, nel suo as~etto più crudamente macchinico, non si lasciano andare a .soluzioni di so~st1cata tecnologia elettronica, fantascientifica, ma restano legatI alla e1ementanetà del movimento circolare,

58 Ma il movimento circolare chiama in causa anche la Ruota di bicicletta (1913) che, oltre a essere un famoso ready-made, è uo'altra m~cchina ~nutile, con una funzione puramente Iudica, incentrata su di un gratuIto mOVimento rotatorio,

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nili che esauriscono quindi in loro stessi l'energia erotica sprigionata.

Ricordando l'interpretazione della macchina celibe come macchina desiderante troviamo delle corrispondenze con quanto abbiamo detto prima sulla tematica politica di Remondi e Caporossi, nel momento in cui ci riferiamo alla seguente rifles­sione di Schwarz: «La macchina desiderante (l'uomo alienato) [ ... ] è guasta, perché è ugualmente guasto il suo universo energetico (tardo capitalistico): il sistema dinamico di questo universo e delle sue macchine è statico, gli antagonismi non riescono a potenziarsi, ad attualizzarsi, perché gli antagonismi di questo sistema dinamico sono frammentari, dissociati e si neutralizzano reciprocamente [ ... ]. Cosicché il sistema è diviso in due esteriorità, quella del soggetto agente e quella dell'og­getto agito (nel senso sociale, per esempio, lo sfruttatore e lo sfruttato), staccate l'una dall'altra»J9.

Abbiamo già analizzato la presenza della morte in Sacco e in Richiamo. In Rolòbo!o la morte appare nei termini piit precisi di fine della individualità su cui i due autori insisto­no in parti colar modo operando direttamente sui partecipanti allo spettacolo che vengono massificati e spersonalizzati. An­cora una volta sono illll1ninanti i disegni di Caporossi, dove la morte è esplicitamente richiamata alla mente con l'imma­gine dello scheletro (fig. n. 11).

Ma il tema del moto circolare, di cui Rotòbolo è una vera e propria celebrazione, non esaurisce il suo significato nell'istru-

. 59 Arturo Schwarz, La macchina celibe alchimistica, in Le macchine celibi, clt., p. 188. Secondo Schwarz c'è una corrispondenza tra il movimento circo­lare, come quello della ruota ad esempio, e la ruota dell'alchimista che «sim­boleggia il processo autosufficiente (circolare-unitario) della distillazione. L'al­chiI?ista rappresenta questo processo con l'Ouroboros, serpens qui caudam devo­ravlt [".l. In questo contesto il simbolismo della ruota ha più di un senso: vi ritroviamo la solidificazione del mito dell'eterno ritorno; l'incremento a 1'1tornare a se stessi, all'autosufficienza dello scapolo, la conciliazione degli ant~gonisti [ ... l della morte e della vita» (ivi, pp. 183, 185). Aggiungo che la ~lgura. del serpente che mangia la propria coda è anche il segno di un'au­tod~struzlOne attraverso un meccanismo totalmente illogico e infinito; legan­dOSI all'autosufficienza sterile dello scapolo, rimanda all'idea di morte.

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ire un rapporto con le macchine celibi. Assume, anzi, una fun­zione nuova, essenziale nell'opera dei due attori.

Il movimento circolare del cilindro su se stesso è un movi­lnento elementare, e quindi anche il lneccanismo fondamentale della macchina è sempre facilmente comprensibile: incomprensibi­le resta invece il suo scopo, la sua utilità60 • In questo spettacolo i due autori non ci propongono quindi la tecnologia fantastica e improbabile di Térote o di Richiamo, od anche di Sacco (per quanto riguarda gli oggetti), ma danno al pubblico la sensazione di essere innanzi a qualcosa di scientificamente calcolato, con un fine di­chiarato: macinare l'esperienza teatrale vissuta dagli spettatori schia­vizzati e resi motori per la propria a~todistruzione.

Se lo scopo evidente di Retòbo!o è l'autodistruzione o la trasformazione, possiamo prudentemente ipotizzare che per la prima volta una macchina di Remondi e Caporossi è utile a qualcosa: macina l'esperienza e lo sp~~o teatrale per provocare direttamente una trasformazione di chi partecipa al gioco della rappresentazione. E se accettiamo la lettura di Rotòbolo come macchina-n1acina, possiamo citare· ancora una volta Schwarz che a tali oggetti associa l'idea di trasformazione sia fisica che psi­chica all'interno della tradizione alchimistÌca61 • La peculiarità degli «spettatori che fanno la rappresentazione», rende la mac­china più reale di quanto non lo siano le precedenti, appunto perché entra in contatto non con personaggi (quali sono Re­mondi e Caporossi quando recitano nei loro spettacoli), ma con delle persone reali con le quali deve necessariamente trovare un punto d'incontro. Il legame però tra la macchina e l'uomo, soprattutto in Rotòbo!o, resta il gesto, fondamento della loro poetica. Il modo di far teatro dei due attori, seppur non legan­dosi all'arte del mimo, permette il rapporto uomo-macchina solo attraverso le gestualità, spesso alienata, dell'attore: un gesto meccanico che perde la sua umanità per legarsi al ritmo indu­striale, «produttivo» della macchina.

60 Cfr. Barbara De Miro, op. cit., p. 17: «appare evidente l'invenzione di un meccanismo che ha l'impronta del soggetto e ancora le caratteristiche di una creatività antropocentrica».

61 Arturo Schwarz, ojJ, cit" p. 174.

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Parallelamente al discorso sulla macchina procede quello sui materiali che in questo lavoro si fa più puntuale, ragionato. Infatti è lo stesso Capol'ossi a chiarire che il materiale usato «è quello per cui l'aspetto di Rotòbolo appate gelido e alienante». Pel' questa ragione è costruito tutto in metallo (acciaio e lamie­ra), materiale freddo, lontanissimo da tutto ciò che è organico ma, nello stesso momento, vicino al concetto (o mito) di mac­china industrialé2

, Il pavimento sul quale camminano le petso­ne che entrano è concepito per essere .il meno presente possibi­le. I due autori vogliono che chi entra veda il cilindro g.irare sotto i propri piedi, e ne resti disorientato. Per questo il pavi­mento è ridotto a una grata metallica che permette di vedere tutta la struttura. Lo stesso Remondi ammette di evocare, attra­verso l'ambiente, una precisa immagine della tecnologia moder­na: «l'uomo ci sta dentro ma finisce per non saperla usare e ne viene espulso»63. E questa espulsione assume quasi gli atteggia­menti di una tibellione fisica della macchina. A tal fine Re­mondi solleverà tutti i pannelli di cui è costituita la grata di pavimentazione, partendo dal fondo e proseguendo per 1'intera lunghezza del cilindro fino all'entrata, in modo che il pubblico sia costretto a uscire. In questa maniera ai partecipanti verrà letteralmente tolto il terreno da sotto i piedi.

All'interno del cilindro i due attori ricreano un micro-uni­verso meccanico con delle leggi proprie e precise di cui sono soltanto gli esecutori (tant'è vero che vestono delle tute da operai). Il vero mandante e padrone è un'entità che non è possibile definire64

, forse è la macchina stessa che 'vive succhian­do energia all'uomo. Le persone una volta entrate nel cilindro vengono ulteriormente uniformate da una serie di sai di tela

62 R.P., «Rotòbolo» in piazza, "Corriere della Sera", 23 maggio 1976; {(~ll'interno [del cilindro] la luce è gelida e l'aspetto delle lustre pareti appare allenante. La metafora della macchina, dal punto di vista emotivo è imme-diata e aggressiva». '

63 Claudio Remondi in Pubblico come attore dentro il «rotòbolo» "Il Gior-nale", 20 maggio 1976. '

64 Gli autori neU'i~tervist.a, ~anno parlato, a propostito dello spettacolo Ameba, che prenderemo 10 segulto 10 esame, di un «un burattinaio invisibile».

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che devono indossare. Questo momento della rappresentazione, oltte quello della ribellione della macchina implicita nel modo dell'esplusione del pubblico, avalla l'idea di meccanismo attivo di per se stesso, mosso da una volontà propria e autonoma. Infatti i sai che gli spettatori devono indossare sono srotolati da un meccanismo presente nella stessa struttura del cilindro. Quest'ultimo dettaglio ci ricorda una caratteristica già presente in Rù'hiamo: tutto ciò che serve alla rappresentazione è fornito dalla stessa macchina. Inoltre in Rotòbolo i sai, tramite un gan­cio posto alla estremità anteriore di ognuno, svolgono anche la funzione di bloccare, per un certo tempo, alla grata metallica gli spettatori e di mantenerli in una posizione curvata in avan­ti, cosÌ come le catenelle ai polsi dei due attori avevano lo scopo di dichiarate la stretta dipendenza dei due personaggi dall'ingranaggio in Richiamo.

Fin qui abbiamo parlato solo dell' interno dell' oggetto, ma anche ciò che si vede all'esterno è importante nell'economia della tappresentazione. Ptima di tutto il tapporto attore-pubbli­co si moltiplica. All'inizio gli attori agiscono in modo da coin­volgete una parte di pubblico; all' interno della macchina avvie­ne una trasformazione per mezzo della quale gli attori passano il loro ruolo alle persone prescelte, che, a loro volta, cominciano a far girare le ruote, creando un effetto spettacolare che viene fruito da quanti si trovano fuoti, pubblico più o meno passivo che assiste all'evento. La macchina, quindi, tramite questo pro­cedimento, sollecita una traslazione di ruoli tra gli attori e una zona selezionata del pubblico.

Rotòbo!o è progettato in modo che chi resta fuoti, limitan-, . dosi a osservare il movimento rotatorio della macchina, S1 senta irri1nediabilmente escluso perché non riesce a comprendere ciò che sta succedendo all'interno, pur ricavandone l'impressione che l'aggeggio stia facendo poltiglia di chi è enttato. Secondo i programmi degli autoti le cinque parti di cui è composto il cilindro avrebbero dovuto ruotare contemporaneamente per dare l'impressione di un enorme rullo compressore in procinto di staccarsi da un momento all'altro e schiacciare tutto ciò che si trova sul suo cammino. Una descrizione del genere suggensce

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senza dubbio un'immagine di mitica macchina-mostro, mangia­uomini la cui attività permette anche al pubblico in piazza di avvertire il significato di denuncia della società industriale del quale, abbiamo detto, è portatore lo spettacolo.

La critica è apparsa molto incuriosita da questa nOVIta e l'ha interpretata principalmente come un tentativo di coinvolgi­mento totale. Parlando inoltre di architettura, di scultura, ha ripreso il tema del nichilism065

, arrivando a paragonarla al Luna Park66 • Mentre invece Pietro Favari e Rita Cifio, recensendo la messa in scena di qualche anno dopo, sui rispettivi giornali hanno chiamato in causa direttamente le macchine celibi, men­zionando la Macchina tritacioccolato di Duchamp67.

Il materiale e lo spazio

In Richiamo! ponendo la macchina come protagonista, Remon­di e Caporossi hanno messo in evidenza il dolore che può provocare il lavoro quando è inutile, ma contemporaneamente- anche il fasci­no, il piacere dello stesso lavoro come gioco. In Cottimisti (1977) invece, anche se il lavoro in tempo reale riempie comunque tutti gli istanti dello spettacolo, l'idea della macchina, come oggetto visibile, risulta più sfumata poiché si colloca all'interno di una rappresentazione nella quale si intrecciano spunti diversi.

In Cottimisti l'accento è posto su due temi fondamentali: lo spazio teatrale e i materiali in scena. Lo spettacolo è stato rap­presentato per la prima volta in una sala del Teatro in Traste­vere che non aveva le caratteristiche tradizionali del teatro al­l'italiana. Era una grande sala rettangolare in cui la zona del pubblico si distingueva da quella dello spettacolo unicamente per la presenza di alcune gradinate.

65 A.D.F., Il bidone «R?tòbolo», "Il Giornale", 23 maggio 1976. 66 R.P., Di scena «Rotòbolo», Si fa teatro in un tubo a piazza Vetra, "Cor-

riere della Sera", 20 maggio 1976. .\ 67 Pietro Favari, Le «sevizie al pubblico» di Remondi e Caporossi, "Corriere

della Sera", 27 settembre 1979; Rita Cirio, È ora/ La scena a chi lavora, "L'Espresso", 14 ottobre 1979.

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Remondi e Capo rossi prendono come assunto di partenza proprio la neutralità del luogo. La rappresentazione inizia infatti con l'illlmagine di un cantiere edile (dotato delle caratteristiche impalcature) subito trasformato in un teatro dall'azione dei due protagonisti che creano un elementare boccascena.

Questo primo momento ha le caratteristiche proprie del pro­logo rispetto all'avvenimento fond31llentale che sarà la costruzione di u,?- muro nello spaL:io teatrale definito. Tale costruzione, come un percorso, inizia dal centro della scena e prosegue verso destra fino a scomparire dal lato destro del boccascena. Rientra poi da sinistra per tornare al punto di partenza. La costruzione del llluro, che procedendo segue un preciso itinerario, evoca il movimento di Richiamo impostato appunto sul percorso della macchina. L'artico­lazione çlei due spettacoli riproduce del resto uno schema sorpren­dentemente simile nella scansione degli elementi e dei movimenti significativi, come emerge da un semplice confronto:

Richiamo

Percorso della macchina

La costruzione della macchina

Inizia il movimento

Pausa del movimento

Entrata del templO con la cor­nacchia

Riprende il movimento della macchina nel senso opposto

Finale drammatico (la morte di uno dei due attori)

Cottimisti

Percorso del muro

la costruzione del boccascena

Inizia la costruzione del muro

Pausa della costruzione

Entrata delle oche

Riprende la costruzione del muro dal lato opposto

Finale drammatico (i due at­tori scompaiono dietro il muro e compare il globo di metallo)

In entrambi gli spettacoli il percorso è un percorso lavorativo, e il lavoro è mostrato nella sua immagine più tradizionale di attività

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nlanuale. Ma in quanto solamente manuale e fisica, tale attività è il segno principale del tema dell'alienazione nella società industriale che costringe l'essere umano a una «produttività sterile».

In Cottimisti però i due attori si confrontano, per la prima volta, con un solo elemento predominante sulla scena, attorno al quale prendono vita tutta una serie di avvenimenti paralleli. In questo senso si salda ancor di più il legame con Richiamo ipotizzato nello schema: un'azione ripetuta ossessivamente du­rante lo svolgersi dello spettacolo (che sia mandare avanti un ingranaggio o costruire un muro) sulla quale proliferano tutta una serie di gags, trovate comiche o drammatiche, che alla fine tendono a formare un'immagine unica e compatta. È soltanto in questi frammenti che possiamo ritrovare briciole di umanità sopravvissute alla totale alienazione dei personaggi.

Cottimisti non mostra più l'U01ll0 come ingranaggio della «grande macchina» nella catena di montaggio, ma come bestia da lavoro. Di quest'uomo, inteso come pura «forza lavoro», sono poste in primo piano le capacità di resistenza fisica. Lo spettacolo è una «maratona edile», che ci riporta alla mente le gare stakonoviste nell'Uomo di marmo di Wajda. Se però la velocità della costruzione, nel film del regista polacco, «celebrava» il socialismo e la «potenza del proleta­riato», nello spettacolo di Remondi e Caporossi non ha alcuno scopo. I due autori pare che vogliano descriverei un'umanità non più resa schiava dalla macchina, bensì impoverita dal suo stesso autoridursi a macchina all'interno di un sistema del quale non comprende nem­meno a fondo le ragioni. La denuncia politica e sociale è lampante: due operai lavorano a cottimo e sono quindi costretti a ritmi serrati e veloci che li fa assomigliare a macchine, robot specializ:tati.

Ma è una denuncia che diventa più crudele e incapace di suggerire possibilità di salvezza per l'assoluta mancanza di pul­sioni di rivolta nelle azioni dei due protagonisti (fatto salvo il momento in cui Remondi orina sul muro costruito), in una quasi totale e passiva accettazione dello stato delle cose. Non manca tuttavia una componente Iudica, fondamentale per i personaggi che Remondi e Caporossi ripropongono nei loro la­vori. Infatti, come afferma la coppia di autori, il llluro ha va­lenze fantastiche e assurde: nel momento in cui esce dal lato

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destro della scena, potrebbe anche aver fatto il giro del mondo e rientrando da sinistra non ha fatto altro che chiudere un cerchio che quindi potrebbe essere imlnenso, infinito.

I due personaggi non sono però condannati alla costruzione del muro da una società specificamente industriale (come in Ri­chiamo), ma dalla società intesa semplicemente come aggregazione umana, che ha perso il contatto con il significato delle proprie azioni. Proprio le azioni produttive provocano, paradossalmente, come unico risultato, l'impossibilità di comunicare. Alla fine la coppia sarà separata proprio dal mllfO che ha costruito, che neghe­rà qualunque rapporto tra i due operai che vada oltre quello pro­duttivo. E se questi, nella parte finale dello spettacolo, si riuniran­no, sarà solo per scavalcare e scomparire dietro il muro. Calerà allora dall' alto, tra il muro e il pubblico, una grande sfera di metallo come quelle da demolizione: è un invito ad abbattere il muro e seguire la coppia. In questo modo, anche se in un' atmo­sfera sospesa e drammatica, Remondi e Caporossi vogliono lasciare una speranza di riconciliazione con la propria umanità. La fatica in questo spettacolo, non produce il nulla, bensì materializza proprio l'impossibilità di usufruire del mezzo indispensabile per una tale riconciliazione: la comunicazione. Attraverso l'atto del costruire si rappresenta l'incapacità di creare qualcosa di realmente utile. In­fatti è importante che di questo muro, cosÌ come per le loro pre­cedenti macchine, non si riesca a comprendere l'utilità.

In Cottimisti proseguendo una sperimentazione iniziata con Giorni Felici} il gesto teatrale viene polemicamente degradato al puro sforzo manuale. Avviene però contemporaneamente il processo inverso, per il quale un gesto comune e lavorativo assurge a gestçl artistico per una precisa scelta di Remondi e Capol'Ossi. È possibile cosÌ ipotizzare una lettura di Cottimisti} in particolare, come ready made gestuale. Infatti i due autori attribuiscono valore artistico a gesti della vita quotidiana~ trasponendoli semplicemente nel contesto convenziona­le dello spettacolo. Non fanno altro che circoscrivere uno spaccato di vita quotidiana, il lavoro in un piccolo cantiere edile, e decontestua­lizzarlo, offrendolo allo sguardo del pubblico teatrale.

H gesto, come sempre nella attività di Remondi e Caporossi, esiste in quanto artigianalità, manipolazione, e adopera un mate-

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riale che, in questo caso, diventa protagonista e simbolo della loro fatica: il mattone. Forse ancora di più in questo caso si può parlare di ready made, nel senso in cui è inteso nella storia dell'arte, perché alla fine in scena resta un oggetto semplice, il muro, riconoscibi­lissimo in quanto tale, privo di speciali caratteristiche, che in quel momento, solo per essere stato scelto come oggetto teatrale dai due autori, acquista dei significati nuovi e diversi. A questo pro­posito ricordiamo Italo Moscati che parla di ~n «US? dei n:-ateriali meno consueti per il teatro, il loro recupero InVentlVO e ngenera­tore (in senso polemico) al di là di una semplice lettura ideologi­ca» 68. La costruzione del muro, si legge nella scheda introduttiva della rassegna stampa, «nella sua fisicità assoluta, nel suo ritmo esasperante rappresenta una sfida all'illusionismo teatrale»69 ..

Se il palcoscenico sembra trasformarsi in un cantiere, e mente nello spettacolo è finto Ci mattoni sono mattoni, la fatica è fatica reale) gli autori restano assolutamente estranei a qualsiasi intenzione «realistica». Ciò è sottolineato dalla collocazione dell'immagine quotidiana - il lavoro dei due muratori - all' interno della cornice teatrale che denuncia, appunto, l' «irrealtà» dell'operazione. Non a caso questa è la prima volta che i due attori inseriscono tra loro e il pubblico un elemento codificato del teatro tradizionale, il boccasc~: na, e lo costruiscono da sé, al momento, per renderlo ancora plU evidente, a definire in modo inequivocabile la qualità «artistica» dell'azione che eseguiranno. Ciò tuttavia segnerà anche un primis­simo avvicinamento allo spazio teatrale all'italiana che verrà defmi­tivamente assunto negli spettacoli successivi come Teatro o Bosco.

Naturalmente il contatto con le arti figurative e la scelta della cornice teatrale non rientra in una predilezione per l'immagine «bella», e il materiale specifico di Cottimisti, il mattone, non è stato scelto per le sue qualità estetiche ma per la sua predisposizione alla manualità dell'uom07o • «Per noi il materiale», ricorda CaporossI,

68 Italo Moscati, La Jtrana coppia, in Branco e il teatro di Remondi e

CaporoJsi, cit., p. 2. 69 Dalla scheda artistica dattiloscritta introduttiva alla rassegna stampa,

gentilmente concessa da Remondi e Caporossi. . .. 70 Remondi afferma di aver lavorato anche come muratore e etò SI in­

serisce perfettamente nel procedimento creativo della coppia che di solito sceglie

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«deve avete sempre un' applicazione che ha come scopo la costruzio­ne di un oggetto, è sempre un mezzo. Anche nei riguardi del mattore [nel caso di Cottimisti], non c'era un amore esclusivo verso il mate­riale ma era più iInpOl'tante che fossero materie "toccabili", reali».

Il mattone diventa quindi un materiale col quale giocare per scoprire le più svariate possibilità espressive. Gli stessi autori hanno più volte chiamato in causa la necessità di una lunga fase di prepa­razione pratica dopo l'elaboralione dell' idea di base, proprio perché lo spettacolo definitivo nasceva dal contatto prolungato e attivo col materiale o con l'oggetto protagonista della messa in scena71 •

Cottimisti non si l'Ìcorda certamente per la presen:.m di macchine in scena, ma in ogni caso trovian10 due momenti precisi in cui compare un meccanismo: il ponte sul quale i due attol'Ì salgono pet scavalcare il muro e la sfera metallica che compare al finale e cala minacciosa verso il pubblico.

Sono due elementi funzionali all'interno dell'economia dello spettacolo. Il ponte è l'unico mezzo che i due personaggi hanno per andare al di là del muro dato che potrebbe essere, poten­zialmente, infinito (se accettiamo il fatto che uscendo da una parte e rientrando dall'altra potrebbe aver percorso una distanza e un tempo immensi); tale passaggio è possibile però tramite un movimento instabile e precal'io della rampa che provoca panico come testimonia anche la dicitura nella decima scena del copione. È una situazione di tensione che viene incrementata stando all' intenzione degli autori, dalla successiva apparizion~ della sfera che cala, minacciosa, sugli spettatori.

i propri materiali guidata da una memoria affettiva verso gli oggetti o le situazioni che sono entrate a par parte della loro vita.

7l A tal proposito rimandiamo a quanto Claudio Remondi e Riccal'do Caporossi dicono a proposito di Richiamo in Senza punti né virgole così di seguito ininterrottamente come l'abbiamo detto, cito p. X: «uno spettacolo che abbiamo contemporaneamente scritto e realizzato tecnicamente scrivevamo certe cose che ci erano chiare non sapevamo pil:l come andare avanti allora realizzavamo tecnicamente l'oggetto su ciò che avevamo scritto poi non riuscivamo a por­tare avanti l'oggetto così non è stato scritto prima ma è stato scritto durante la preparazione contemporaneamente noi stessi abbiamo costruito l'oggetto con fatica anche con espenenza facendo degli errori però abbiamo riparato e alla fine l'abbiamo messo in scena senza fare prove».

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DESCRIZIONE DEGLI SPETTACOLI

SACCO. Scritto, diretto e interpretato da Claudio Remondi e Riccardo Caporossi. Anno di produzione 1973.

I posti a sedere per il pubblico sono collocati su tre lati e le luci, bianche e diffuse, illuminano anche gli spettatori. Si riconoscono, sospese al centro, in alto, varie camere cl' aria di grossa misura impilate in modo da formare un cilindro; in un angolo, a terra, una semisfera metallica; al centro un secchi o metallico, sopra vi è appoggiato un bacile.

Dal lato privo di posti a sedere eotra Capotassi, magro, con un busto stretto sul torace nudo, pantaloni bianchi e scar­poni simili a grosse ingessature; ha un cerotto sulla bocca. Trascina per i lembi superiori un grosso sacco di tela, alquanto lacero, e lo sistema al centro scena. Si muove lentamente osser­vando il pubblico, i suoi gesti sembrano rispondere a un ordine necessario, a un ritmo da rito sacrificale. Frusta con forza l'in­forme involucro, lo bastona; lo studia, lo colpisce con un pu­gnale (fig. n. 4). Gli dà degli strattoni con un arpione; lo bastona ancora, gli punta una pistola. Si rinfresca con 1'acqua del bacile, e poi glielo getta contro. Porta via gli oggetti già usati, ed esce di scena.

Solo ora il sacco si agita, emette urli e alni versi, cerca di muoversi, cade; si blocca subito quando Caporossi rientra e lo rialza trascinandolo sotto la pila di camere d'aria, che gli cala addosso per mezzo di un argano (fig. n. 5). La , pila è chiusa in alto da un coperchio nero munito di quattro mirini. Alcune persone del pubblico, prese a caso, ma quasi con forza, da Caporossi vengono sistemate accanto alla pila e indotte a studiare, attraverso i mirini, il sacco. Dopo aver rimandato le persone ai loro posti, Caporossi buca le camere d'aria con un'asta, e fa rotolare il sacco fuori, per terra. Con uno strano attrezzo simile a delle grosse forbici sembra mi­surare il sacco. Con un altro oggetto, una via di mezzo tra un siringone e un vecchio clistere, gli fa una lenta iniezione.

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Con un asticella metallica sonda l'interno, come si fa per i dolci quando si controlla la cottura. Di tanto in tanto anno­ta i risultati delle sue sevizie-esperimenti su una cartella. Trascina il sacco sotto l'argano, lo copre con un tela bianco, e lo solleva a circa due metri di altezza. Poi esce di scena. Il sacco emette ancora urla e gemiti.

Rientra Capo rossi con una lunga asta sormontata da una spugna; si introduce sotto il tela e con questa picchietta il lato alto del sacco. Con il tela forma, tendendo delle cordicelle agli angoli, una piramide bianca, sospesa a mezz' aria con dentro il sacco. Stende un altro quadrato di tela bianca sotto il sacco. Impugna un arco di foggia strana e dall'interno della piramide scocca una freccia, scappando via subito dopo. La freccia e un po' di sabbia cadono sul tappeto bianco quasi come sangue che sgorghi da una ferita. Caporossi capovolge la piramide ed esce strisciando da un lato.

Dopo aver smontato con gesti sempre molto precisi questa stnlttura di stoffa, Capo rossi pone il secchia al centro della scena e indossa dei guanti di gomma: da uno squarcio del sacco tira fuori una gamba ricoperta però di una guaina che la fa apparire tutta lacerata e sanguinante. Sfila la guai­na e con acqua e spugna deterge l'arto. Spunta improvvisa­mente anche un braccio poi l'altra gamba: il sacco comincia ad agitarsi e a toccarsi, sembra che prenda' coscienza del proprio corpo.

Caporossi, con una grossa fionda colpisce il sacco che mima con le gambe una corsa; continua a infierire usando un asta su cui sono fissate delle forbicione, evidentemente finte, che però vengono strappate dal sacco che comincia a cavalcarle come fanno i bambini con le scope quando giocano. Capo rossi cala il sacco a terra ed esce. Il sacco si agita come un grosso lombrico; poi canta a squarciagola gettando delle grandi palline in aria. Si volta verso il pubblico e, con movimenti secchi, fa uscire dall'apertura un piccolo periscopio col quale osserva gli spettatori. Starnutisce per sette volte; cambia la voce, che di­venta greve e, fermo al centro della scena, declama una specie di litania sul numero "sette". Dopodiché, agitandosi sempre di

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più, si sforza nel tentativo di ricordare qualcosa, ripetendo più volte: «Ricordo... ricordo ... ».

Rientra Caporossi, prende il capo di una corda sbrindel­lata dal sacco e comincia a tirare e, mentre la corda fuoriesce, la voce del sacco continua a richiamare alla memoria vaghi ricordi di famiglia. Il sacco si blocca quando la fune termina e lascia cadere una pallina per terra. Caporossi malmena il sacco con violenza, lo trascina e, mentre Remondi sta per uscire dall'involucro (lo si vede a torso nudo), gli cala sopra la semi­sfera di metallo. Il prigioniero cerca di ribellarsi ma alla fine perde e resta chiuso all'interno, smettendo improvvisamente di parlare. Caporossi prende una bacchetta e percuote ritmicamente il metallo. All'ultima battuta, più forte, spunta un dito da un foro centrale; Caporossi lo colpisce con la bacchetta per farlo ritrarre. Ripete l'operazione fino a quando non spunta tutta la mano e l'avambraccio. Con uno strano schiaccianoci Caporossi porge alla mano una noce che viene accettata e tenuta stretta nel pugno. La ·mano, stretta intorno alla noce, non riesce più. a ritirarsi nella semisfera. Caporossi estrae da una valigetta una specie di tenaglia che stringe intorno al polso che emerge dalla semisfera, bloccandolo. Calza inoltre intorno al polso una fascia nera e fa lo stesso con il proprio polso destro. Pone quindi il corrispondente pugno sul pugno dell' altro e dà inizio a una lotta tra le mani tesa a impossessarsi della noce. La battaglia non avrà esito ma il seviziatore riuscirà nel suo intento lnedian­te un altro strano arnese con il quale aprirà a una a una le dita della vittima.

Caporossi leva poi le fasce dai polsi, con la bacchetta dà , un colpo sulla semisfera e la mano si ritrae. Solleva la semi-sfera da un lato e mostra al pubblico Remondi fuori dal sacco. Quest'ultimo si alza in piedi e, mentre il compagno esce, si avvicina timidamente alla semisfera; comincia a giocarci, quasi come se stesse scoprendo le sue possibilità. Vi monta sopra; ha degli scatti di paura, emette improvvisi e sfiatati suoni.

Quando rientra Caporossi, Remondi si ritrae interamente nel sacco e, carponi per tena, dice di aver fame. Il primo gli fa cadere davanti un piccolo sacco ed esce; quindi l'altro spunta

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per metà dal proptio e vi guatda dentro. Scopre che sono pa­tate. COlnÌncia a gettarle in aria spargendole per la scena. Si accorge però, dal rumore, che c'era anche una pietra e la racco­glie; ne estrae un'altra dall'interno del sacco e ci gioca batten­dole l'una contro l'altra. Nell'esaltazione del gioco comincia a esclamare: «IO ... IO», quasi come se si sentisse potente. Entra Capotassi con in mano una grossa pietra, si avvicina e gliela passa. Remondi non riesce a reggerla e gli cade sui piedi. Esce completamente dal sacco, restando in mutandoni bianchi.

Caporassi gli si avvicina indossando una maschera quadra­ta' (fatta di più fogli di alluminio) e sorreggendo sul davanti un manto verde (entrambe le cose prese poco fuori dallo spazio scenico), Remondi gli strappa la maschera e scappa: sotto, tut­tavia, appare un'altra maschera identica. Remondi ripete l'ope­razione ottenendo lo stesso risultato. Quando si avvicina per la terza volta il compagno gli mette addosso il manto verde. Remondi cade a terra immobile. L'altro prende i lembi del manto e trascina il fagotto fuori scena.

Fonti per la descrizione dello spettacolo: Video dello spettacolo in B/N registrato agli inizi dell'ottobre 1977,

gentilmente concesso da Remondi e Caporossi. Foto dello spettacolo prive dell'indicazione dell'autore, del luogo e della

data in cui sono state scattate, concesse in visione da Remondi e Caporossi. Foto. in B/N di Cesare Accetta scattate al Teatro Nuovo di Napoli nel 1985, gentIlmente concesse dall1autore.

Intervista a Remondi e Caporossi, cito Copione a fumetti dello spettacolo: Sacco, in Il Trovarobe l, Lucca, Maria

Pacini Fazzi editore, 1974, Copione originale dello spettacolo, manoscritto, fornito dagli autori, Recensioni dello spettacolo (vedi la bibliografia), Fabio Barrali, Sacco (1973), op, dt, Barbara De Miro, Il sostantivo singolare di Claudio Remondi e Riccardo

Caporossi, cit,

1 Nel copione è previsto che la maschera sia messa sul sacco, Inoltre l'intera parte finale dello spettacolo ha solo una vaga corrispondenza con il finale descritto dal copione a fumetti, che tra l'altro prevede anche un mono­logo di Remondi,

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RICHIAMO. Scritto, diretto e interpretato da Claudio Remondi e Riccardo Caporossi. Anno di produzione 1975.

Lo spettacolo è ideato per uno spazio che non ha le carat­teristiche del teatro classico all'italiana. Gli stessi autori affermano che Richiamo è uno dei loro lavori che non può essere n1esso in scena su un palcoscenico: «è uno spettacolo con un luogo di rap­presentazione ben preciso: un percorso. L'idea originale, anche sul testo, è la strada, È uno spettacolo che richiede un luogo anomalo, con il puhblico disposto lungo un lato del percorso». Lo spazio prescelto dovrebbe essere completamente svuotato da ogni suppel­lettile, da ogni ornamento. Una corda tesa a terra divide simboli­camente il pubblico dagli attori, lungo il senso del percorso.

La luce è bianca e diffusa, e illumina anche il pubblico. In un angolo della scena c'è un enorme pallone di plastica verde, gonfiato ad aria, alto all'incirca due metri.

Entra prima RelTIOndi2 vestito con una tuta da operaio di color grigiastro, una benda nera sugli occhi, un fischio a sofBet­to che fa suonare con la mano sinistra e un bastone da cieco in quella destra. Muovendosi a tentoni colpisce il pallone e poi ne viene quasi risucchiato. Dall'interno del pallone, subito dopo, vengono lanciate varie ossa in scena.

Dal lato opposto entra Caporossi, vestito alla stessa maniera del compagno, steso con la schiena su un canellino molto bas­so; a testa in avanti si tira con una corda. Ha un grosso cerotto sulla bocca. Si libera dal carrellino ma resta steso a terra, aspet­tando Remondi, a sua volta uscito dal pallone; lo conduce a sé tramite il bastone e gli leva la benda dagli occhi. Caporossi abbandona la posizione stesa e, quasi in un' atmosfera gioiosa, i due personaggi si rallegrano per le ritrovate capacità, visive di uno e motorie dell'altro. Poi i due si stringono spalla a spalla e vanno verso il pallone. Si introducono all'interno e, con movimenti frenetici, pongono in vista una struttura metallica, ammassando la superficie di plastica in un angolo.

2 Nel copione è prevista anche la presenza di un cane che accompagna il cieco Remondi, ma nella videocassetta visionata non è presente,

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In questa costruzione lnetallica si riconoscono due ruote den­tate poste orizzontalmente una sopra l'altra, a circa un metro di distanza. Un tubo le unisce e fa da asse; altri cinque tubi, del tipo che si usano per i ponteggi metallici, sono infilati nelle ruote verticalmente. Si scorgono altri oggetti, però non ancora comple­tamente riconoscibili. Remondi e Caporossi cominciano a scom­porre la costruzione metallica sgombrando la scena dagli oggetti che vi trovano e iniziano a montare la macchina. Remondi monta quattro cavalletti di legno, bassi e scanalati sulla sommità, a cop­pie parallele; ai cavalletti sono legati anche altri oggetti che ser­viranno nel corso dello spettacolo. Estrae poi a uno a uno i tubi di ferro delle ruote dentate, e li sistema sui cavalletti in corrispon­denza delle scanalature. Caporossi lo aiuta a sistemare le ruote dentate sui tubi di ferro con i quali si incastrano perfettamente.

Tutta la macchina è costruita di profilo al pubblico e quindi con i diametri delle ruote posti parallelamente alla corda che di­vide gli spettatori dagli attori. Sull'asta che collega le due ruote viene appeso una specie di pestone di legno, del tipo di quelli usati per spaccare le pietre; sul diametro della ruota, dalla parte del pubblico, c'è un batacchio che segnerà, quasi come un metronomo, i tempi dello spettacolo man mano che le ruote gireranno.

I due attori si fermano spalla a spalla di fronte alla macchina e con una mano ciascuno danno inizio al movimento facendo avan­zare la ruota di pochissimo, fino alla scanalatura successiva. Sem­pre insieme prendono un tubo da dietro la ruota e lo pongono sul davanti facendo si che la ruota abbia sempre un punto d'appoggio sul suo cammino mentre avanza sui cavalletti da destra verso sini­stra, seguendo un percorso parallelo alla disposizione del pubblico. In seguito, per permettere alla macchina di continuare il suo cam­mino, Remondi e Caporassi spostano i due cavalletti posteriori (ormai superati dall'avanzamento di ruote e tubi) in avanti, con un movimento di rihaltamento e rotazione, mantenendoli uniti per mezzo di cerniere apribili.

Questo, in sostanza, è il movimento della macchina in-, torno al quale i due attori eseguono diverse gags e azioni, sem­pre attenti però a dare il loro puntuale contributo al funziona­mento del!' aggeggio con uno schema che è il seguente: uno

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provvede a girare la ruota sui tubi e a spostare questi sui ca­valletti, l'altro, impegnato in una qualche azione parallela, ri­balta questi ultilni al momento giusto.

Tra le azioni c'è il momento in cui Remondi incita il compagno alla fretta, mentre questo è impassibilmente occupato nel suo lavoro (fig. n. 6); oppute il momento in cui Caporossi lega due piccole catene, prese dai lati della macchina, ai polsi di Remondi. Tutto il movilnento crea un rWllore costante e ritmico di ferraglia, al quale si aggiunge adesso anche quello delle catene. In un altro punto dell'azione Remondi si diverte a sistemare un uovo tra gli ingranaggi e poi, mentre resta a osservare la macchina che lo schiaccia, pronuncia una lunga battuta che allude alle cose di quotidiana banalità, che comun­que possono avere un significato quando le si lascia.

Tutti i gesti della coppia di operai sono lenti, straniati, ripetitivi, o quotidiani come il pettinarsi o l'asciugarsi il sudore. Mentre lavorano alla macchina, posti uno di fronte all'altro, Re­mondi passa una delle sue catene al compagno. Sempre alternan­dosi alla conduzione della macchina, i due continuano la loro serie di azioni parallele. Remondi si batte i piedi con lo schiacciasassi preso dalla macchina; Caporossi si spoglia della tuta facendone apparire una identica di sotto. Uno si mette a mangiare un panino, ]' altro prende le pose di un arciere con un tridente di legno.

Quando la macchina arriva a un' estremità dello spazio, Remondi e Caporossi si scontrano al centro della scena con violenza ed escono. Capo rossi rientra, immediatamente dopo, con due maniglie alle quali sono appesi due sonagli di tronchetti di bambù; tramite alcuni fìli le maniglie tirano due parallelepipedi di cemento sui quali poggia i piedi il compagno. Remondi, che indossa una tela di sacco sulle spalle e in testa, entra fingendo di sostenere sulle spalle il peso di un tabernacolo-gabbia in legno che è invece sorretto da una specie di alto carrettino metallico, tirato dall'attore stesso. Trascina un mucchio di ba­rattoli di latta legati ad alcuni fili, e con un fischietto segna il ritmo del proprio movimento.

Sempre camminando su questi blocchi di cemento, tirati da Caporossi, Remondi compie il giro dello spazio scenico,

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imitando i movimenti di un animale da soma.1 (fig. n. 7). Al­l'interno della costruzione c'è una cornacchia che Caporossi in­vita a uscire allettandola con un po' di cibo" Appena l'uccello esce, il tabernacolo-gabbia. crolla in tanti piccoli pezzetti su Remondi che comincia a protestare. I due attori raccolgono tutti i pezzetti, li caricano sul carrellino e Remondi riparte saltellando spinto da un calcio del compagno'.

Terminata la scena, fanno ripartire la macchina nel senso opposto, ma, immediatamente prima, Caporossi calza un innaffia­toio sulla testa di Remondi che, trasformatosi in un robot, riprende il lavoro. Caporossi, con movimenti lentissimi, inizia un' operazione dal vago sapore chirurgico e estrae un melagrana da un reggiseno che porta sotto la tuté. Utilizzando una pinza chirurgicha comincia a nutrire il robot dal becco dell'innaffiatoio. Alla fine ne apre il coperchio e infila brutalmehte tutto il frutto all'interno della testa metallica di Remondi.

Terminata questa operazione, Caporossi va a distendersi sul pavimento davanti alla macchina, lasciando che questa gli passi sopra. Remondi continua a spostare i tubi fino a quan­do uno di questi cade a terra poiché non c'è nessuno che fa avanzare i cavalletti. Prima resta immobile e subito dopo si toglie l' innaffìatoio dalla testa, ha un momento di panico e poi piange ['amico che reputa morto. Gli leva il cerotto dalla bocca, strappandolo con i denti, e cosÌ Caporossi si rianima, Come se il tempo si fosse fermato, siedono di fron­te al pubblico. Il redivivo si nutre della verdura che il compagno gli offre, poi con una fisarmonica si, accompagna in una canzoncina che parla di una fiammella che muore perché innamorata del soffio che la spegne. Dopodiché Re-

3 Nel copione originale si allude ad un elefante. 4 Nel video consultato manca la cornacchia e Caporossi prende un og­

getto da dentro la gabbia-costruzione. 5 Nel video si fanno aiutare dal pubblico a raccogliere i pezzetti. 6 Donata Righetti, recensendo lo spettacolo presentato a Milano, al Teatro

Officina, parla di un pomodoro (al posto di un melograno) che Caporossi taglia a ferte. Cfr. Intorno alla macchina un girotondo feroce, "Il Giorno", 30 maggio 197 S.

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mondi e Caporossi indietreggiano e, saltandosi a vicenda come nel gioco della cavallina, vanno Via.

Fonti per la descrizione dello spettacolo:. . Video dello spettacolo registrato durante le repliche. del maggIO. 1987

al Teatro in Trastevere, gentilmente concesso da Remondl c Caporossl. Foto dello spettacolo in B/N prive dell'indicazione .deIPaut~rc, scattate al

Teatro Mikery di Amsterdam tra il dicembre 19~6 e Il ge~nalO 1977, con­cesse in visione da Remondi e Caporassi. Foto In B/N di Cesare ~ccet:a,

realizzate alli Oratorio di Caravita a Ruma nell'ottobre del 1985, nell amblto della rassegna Illusi .. " gentilmente concesse dall'autore.

Intervista a Remondi e Caporo,ui, dt. Copione originale dello spettacolo manoscritto, fornito dagli autori. Recensioni dello spettacolo (vedi la bibliografia). Fabio Barrali, Richiamo (1975), op. cit, Barbara De Miro, Il sostantivo singolare di Claudio Remondi e Riccardo

Caporossi, dt.

ROTònoLO. Scritto e diretto da Claudio Remondi e Riccardo Capo­rossi. Con: Claudio Remondi, Riccardo Capo rossi, Sabina del Guida, Lillo Monachesi. Dal progetto di tesi di laurea in archi­tettura di Riccardo Caporossi (1976). Anno di produzione 1976.

Rotòbolo è un gigantesco cilindro in acciaio e lamiera di dieci metri di lunghezza e sei e mezzo di diametro. Pesa otto tonnellate, e si appoggia a una struttura di sostegno sempre metallica (fig. nn. 8 e 9). È diviso in cinque sezioni circolari che girano su loro stesse indipendentemente l'una. dall'altra. La struttura, anche per le complicazioni di montagg1O, ha funz1O­nato solo in due periodi: il primo nel maggio del 1976 a Piazza Vetra a Milano all'interno della manif~stazione «Con­fronti Teatrali»; il secondo nel settembre/ottobre 1979 in Via Sabotino a Roma nell'ambito degli «Itinerari immaginari negh spazi teatrali degli anni Sessanta». Lo spet~ac~l ... o si svo~ge al­l'aperto, preferibilmente di sera, ripetendosI plU v~lte In una sola serata, data anche la brevità dell'azione (45' circa).

Caporossi, suonando alcuni campanelli, raccoglie gli spet­tatori vicino a un recinto di pali di legno e fil di ferro nel quale fa entrare solo venticinque persone. Partendo dal recinto

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due carrellini, come quelli che si usano agli imbarchi degli aerei, spinti da due attori, prelevano i prescelti e li conducono uno alla volta all'ingresso del cilindro. Qui gli spettatori, sem­pre uno alla volta, prendono posto su una stretta garitta gire­vole che, con una brusca rotazione di 180 gradi permette di entrare all'interno di Rotòbolo. Gli spettatori, camluinando su una grata metallica sospesa all'interno del cilindro, infilano la testa nei vari fori di una lunga striscia di tela srotolata da un congegno posto subito dopo l'entrata in alto. Remondi e Capo­l'OSSI, che hanno accolto il pubblico in tuta da operai, recido­no, grazie a un sistema di anelli uniti da un'asticella, la tela tra uno spettatore e l'altro in modo da trasformare la lunga stri­scia in una serie di bianche tunichette simili a semplici sai. Poi, muniti di guanti dallo stesso Caporossi, gli spettatori sono co~tretti. a far ruotare le cinque parti ricurve del cilindro appi­glIandosI alle strutture metalliche.

In questo modo Rotòbolo, tra molti rumori, comincia a ruotare su se stesso. Dalla parte opposta alla garitta, attraverso un'apertura simile a una gigantesca vulva metallica, mediante una barella, viene espulsa una persona scelta a caso tra i venticinque da Remondi e Caporossi (la barella con sopra il prescelto viene accu­ratamente prelevata dagli assistenti esterni). All'interno i due capi­officina fanno levare i guanti agli "operai". Ogni "operaio" viene quindi allacciato alla grata del pavimento per mezzo di un gancio SIstemato sull'estremità inferiore della tunica. Poiché le tuniche sono sensibilmente più corte delle persone che le indossano, gli "operai", fissati al pavimento, sono costretti a restare piegati in avanti. Poi Remondi e Caporossi fanno spogliare gli "operai" dalle tuniche e offrono loro alcune caramelle come ricompensa per il lavoro svolto.

Remondi comincia sollevare le vade parti che compongo­no la grata-pavimento, proseguendo la sua opera dal fondo del cilindro fino all'entrata. Venendo a mancare la pavimentazione i venticinque sono costretti a uscire a uno a uno. Pdma di farli uscire Caporossi pone a ciascuno un grosso cerotto sulle labbra. Fuori dalla garitta gli spettatori troveranno il compagno espulso che li bacerà sulla bocca incerottata.

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Dopo un luomento di pausa Caporossi ricomincerà a ra­dunare gli spettatod vicino al recinto, al suono dei campanelli, e inizierà una nuova rappresentazione.

Fonti per la descrizione dello spettacolo: Foto dello spettacolo allestito a Piazza Vetra <L Milano, prive dell'indica­

zione dell'autore e della data in cui sono state scattate. Progetto di laurea di Riccardo Caporossi. Disegni ispirati allo spettacolo di Riccardo Capo rossi gentilmente conces-

si dall'autore. . Recensioni dello spettacolo (vedi la bibliografia). Fabio Battoli, Rotòbolo (1976), op. cito Barbara De Miro, Il sostantivo singolare di Claudio Rernondi e Riccardo

CaporoHi, cito

COTTIMISTI. Scritto, diretto e interpretato da Claudio Remondi e Riccardo Capo rossi. Anno di produzione 1977.

Anche questo spettacolo non è stato ideato per uno spazio prettamente teatrale, sebbene sia prevista la sistemazione del pub­blico di fronte ai due attori. Le prilne rappresentazioni sono state allestite al Teatro in Trastevere che dispone di una sala rettango­lare. Parte della sala era occupata da una gradinata sulla quale prendevano posto gli spettatori, in fondo si trovava lo spazio riser­vato alla rappresentazione, non rialzato e privo di boccascena.

In scena è ricreato un piccolo cantiere edile con un pon­teggio di tubi, passerelle di legno, due mucchi di mattoni, una scala, alcuni attrezzi da carpentiere. La disposizione e la quan­tità di tali materiali può variare a seconda dello spazio dove avviene la rappresentazione (fig. n. 12).

Le luci sono bianche e diffuse, e illuminano anche il pubblico. Remondi e Caporossi sono in scena vestiti da muratori:

calnicia o maglietta, pantaloni .lunghi per il primo e corti per il secondo. Consumano un frugale pasto finché il segnale di una sirena non indica la ripresa dei lavori.

La prima azione significativa è il gioco che i due attori eseguono attorno a un martello che cade dall'alto appeso a un

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filo. Remondi lo afferra e lo usa per rompere, man Inano che sale, tutti i pioli della scala su cui si arrampica fino al ponteg­gio. Resta quindi bloccato in alto e il compagno, per farlo scendere, costruisce un pilastro di mattoni al centro della scena sul quale Remondi appoggia i piedi.

Una volta sul pilastro Remondi si sente "importante" e assume le pose di un monumento. Caporossi comincia a pren­derlo a martellate sui piedi, e a ogni colpo sottme un mattone dalla cima del pilastro, fincbé Remondi si decide a scendere. Quando entrambi sono a terra, una salva di pistola segna l' ini­zio della costruzione di un boccascena. I due operai si arram­picano sulle impalcature, e con abilità quasi acrobatica, srotola­no tre teli bianchi, due verticali ai lati e uno orizzontale in alto, creando appunto un elementare boccascena7

L'azione principale è ora la costruzione di un muro che parte dal pilastro centrale e prosegue verso destra. Prima i due muratori stabiliscono il "filo"; Remondi, fermo in centro scena di profilo, tiene il capo di un gomitolo di cordicella che Caporossi srotola allontanandosi, uscendo da destra, rientrando da sinistra e ritor­nando al centro, sempre tenendo il filo. Quindi inizia la costruzio­ne: Caporossi al di là del muro lancia i mattoni a Remondi al di qua che li sistema con ossessiva sveltezza, stando quasi di spalle al pubblico e pronunciando solo di tanto in tanto qualche breve ed esclamativa battuta8

Quando il muro, e conseguentemente gli attori, sparisco­no alla vista del pubblico uscendo verso destra, entreranno da sinistra alcune oche che per qualche momento saranno le uniche presenze in scena9.

I due operai, con lo stessa procedimento di prima, con­tinuano la costruzione del muro rientrando da sinistra e proce­dendo verso destra, fino a ricongiungersi col pilastro centmle.

7 Nel copione si parla anche di un fondale dipinto con effetto cielo che i due attori srotolano dietro il boccascena.

a Nel copione non si specifica il senso dell'avanzamento del muro, ma dalle recensioni si nota come costante l'avanzamento verso destra. Inoltre per semplificare la costruzione i mattoni sono sistemati a secco, senza la calce.

9 Nel copione gli autori indicano la presenza di una sola oca in scena.

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A questo punto Remondi, al di qua del muro, è visibile al pubblico, IneOtre Caporossi, dall'altra parte, resta nascosto e separato. Entrambi cercano di incontrarsi, si chiamano a voce, saltano su loro stessi per vedere al di là del muro. Alla fine Caporassi spunta da un lato del boccascena e raggiunge Remon­di. Eseguono qualche piccola azione (Remondi orina sul muro, bevono vino da un tipico fiasco come a rinfrancarsi del lavoro svolto). Poi iniziano a intonacare il muro sommariamente, con un impasto di sabbia e acqua.

Nel copione originale era previsto che i due iniziassero a tinteggiare il muro intonacato, uno col blu e l'altro col giallo, usando degli spruzzatori a spalla. Quando un muratore dipingeva la sua parte di muro, l'operazione era simboleggiata da un tela del colore corrispondente che veniva calato, dal di dietro, sulla parte in questione. Entrambi poi procedendo verso destra passavano a dnteggiare la por.done di muro già colorata dal compagno. Perciò venivano calati due teli verdi, a simboleggiare la fusione del giallo e del blu. Subito dopo venivano ritirati tutti i teli, lasciando di nuovo il muro nudo. FerIni davanti al muro i due personaggi assistevano alla discesa di una passerella, un ponteggio metallico.

Lo spettacolo fu presentato in questa forma per poche repliche. Poi l'azione fu abolita perché, secondo la coppia di autori, appariva troppo "teatrale".

Nella versione definitiva i due attori iInpugnano gli spruz­zatori ma vengono subito interrotti dalla discesa di una passe­rella, quasi una specie di grande altalena, che si appoggia sul pilastro centrale.

La passerella cala a terra dalla parte dei due operai che vi salgo­no sopra, guardano al di là del muro, e si riuniscono al centro della rampa, che si pone in equilibrio orizzontale. La coppia ha paura.

Poi lentamente la passerella cala oltre il muro e Remondi e Capo rossi scompaiono alla vista del pubblico.

Quest'ultimo momento, contrassegnato da una forte dram­maticità, in contrasto con le gags precedenti culmina con l'ap_ parizione di una grande sfera metallica che, percorrendo dal fondo la rampa, giunge fino all'estremità più alta e cala lentissimamente davanti al pubblico (fig. n. 13).

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Fonti per la descrizione dello spettacolo: Foto dello spettacolo in B/N prive dell'indicazione dell'autore, scattate al

Teatro -Mikery di Amsterdam tra il dicembre 1976 c il gennaio 1977, con­cesse in visione da Remoncli e Caporossi. Foto in B/N di Cesare Accetta scattate alla Sala Borromioi a Roma nell'ottobre del 1985, nell'ambito della rassegna Illusi ... , gentilmente concesse dall'autore.

Copione originale dello spettacolo, manoscritto, gentilmente fornito dagli autori.

Recensioni dello spettacolo (vedi la bibliografia). Intervista a Remondi e CajJOfossi, cito Fabio Bartali, Cottimisti (1977), op. cito Barbara De Miro, Il sostantivo singolare di Claudio Remondi e Riccardo

Caporossi, clt.

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III

LA CONOSCENZA COME RIFLESSIONE

La macchina mentale e t esperienza elementare e meravigliosa

Col finire degli anni Settanta, e più precisamente dopo l'allestimento di Cottimisti nel 1977, la produzione artistica di Remondi e Caporossi manifesta un'evidente innovazione delle tematiche proposte, arricchendosi inoltre di nuove esperienze sul piano formale.

Anche se permane l'interesse fondamentale della coppia di autori per il tema della comunicazione (o dell'incomunicabi­lità) tra gli uomini, la volontà di rendere evidente il "messag­gio" sociale, insito nel tema, appare minore, sebbene in quegli anni sia ancora intenso e ben diffuso il dibattito politico.

Così il motivo del rapporto umano non si associa più all'alienazione, ma evolve, proiettandosi sul problema dell'espe­rienza conoscitiva. Remondi e Caporossi non cercano più di definire il sistema sociale attraverso assunzioni schematiche come quella di vittima-carnefice o di servo-padrone, non danno nem­meno per scontato che il sistema in cui viviamo sia quello industriale. I due personaggi, i "due omini" che hanno caratte­rizzato i loro spettacoli precedenti, non vengono inseriti in un mondo metaforico, che allegoricamente rimanda al sistema so­ciale urbano, industriale. Da ora in poi lo spettacolo muove dall' azzeramento totale di ciò che sta attorno alla coppia di personaggi, niente più è dato per scontato e tutto è possibile. In questo ambito puro, vergine, ogni piccolo accadimento di­venta nuovo, imprevedibile, e la nota che caratterizza i "due omini" non è più la riduzione a macchine in un sistema disu­manizzante, ma il ritornare ai primordi della propria umanità per riscoprire daccapo il piacere e la meraviglia dell' esperienza conoscitiva. Dalla disumanizzazione si passa quindi alla umaniz­zazione primaria, primitiva, quasi un tentativo di ricostruire

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l'essere umano partendo da quei brandelli di umanità che la

luacchina industriale ha risparmiato. Questo è il caso di Pozzo (1978) con il quale la coppia

di autori vuole introdurre il pubblico in un mondo fantastico e nello stesso tempo elementare, con vaghe ascendenze contadine, all'interno del quale ogni esperienza conoscitiva viene presentata

come fondamentale. Per questo spettacolo Remondi e Caporossi adoperano una

cantina del Teatro di Trastevere a Roma che ripuliscono e imbiancano di calce. Vi possono trovar posto una sessantina di spettatori. La scena è lo spazio stesso, al centro del quale c'è un grosso foro circolare con un diametro eli poco meno di un

metro. Attorno a questo pozzo si svilupperà tutta l'azione. La

coppia di personaggi cetchetà prima di sondarne la profondità con una fune e una pietra: e poi 'ne tirerà fuori alcune cose, le piìl improbabili, fino a un androide, un uomo seminudo che continuerà a venir fuori, sempre identico a se stesso. I due personaggi saranno prima sorpresi da questa epifania e poi os­sessionati poiché non riescono a controllare l'evento. Alla fine decideranno di chiudete il pozzo con una pelle di animale.

Tutta l'atmosfera dello spettacolo è sospesa, ferma. Le luci bianche illuminano in ogni momento la scena, trasformandola in un «sogno di me:lZogiorno dai contorni nitidi dove non c'è posto per l'ombra, il chiaroscuro», come in un disegno a tratto l

.

Specialmente nel caso di Pozzo possiamo dire che Re­mondi e Caporossi tendono a mostrare l'essere uman'o, compen­diato nei loro due personaggi, alle prese con esperienze elemen­tari, come afferma Barbara De Miro, ai primordi della cono­scenza, occupati in operazioni che appaiono fisiche ma che celano delle scoperte intensamente interiori e psichiche2

• Tutta la si­tuazione è infantile, fiabesca, e la realtà poetica creata dai due autori prende il sopravvento sulle convenzioni quotidiane e ne

1 Nico Garrone, Dal tombino un "sogno" d'amore, "La Repubblica", 22 aprile 1978,

2 Barbara De Miro, op.cit., pago 19.

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crea altre nel rispetto di una nuova logica che motiva in fl10do insolito, ma sempre comprensibile, quello che accade. L'intero spettacolo è pieno di tensione per la ritmica e costante ripe­tizione di un'azione (l'uomo che esce dal pozzo), ma proprio per questo qualsiasi gesto fuori dalla linea ritmica provoca sorpresa e ilarità negli spettatori, rompendo l'angoscia che si crea nella continua attesa che qualcosa accada.

Questo spettacolo segna un punto di passaggio con la produzione precedente anche perché sembra che il lavoro, la fatica, non tocchi ai due personaggi (tranne che per qualche scena). L'iterazione è condotta dall'elemento esterno, il pozzo, o al massimo dall' androide mentre Remondi e Caporossi cercano di capire, di intervenire in un ciclo che quasi li esclude. «Nien­te più maratone da "cottimisti" con cazzuole, calce e mattoni intorno a muri sempre più ingombranti e minacciosi», osserverà Nico Garrone sulla "Repubblica", «né corse a comando lungo la catena di montaggio della "macchina crudele" di Richiamo. Non sono piil le peripezie tragicomiche dell"'homo faber" (anche se l'ansia di produrre, di metter ordine, costruire non li abbando­na) il tema centrale di questo Pozzo»J.

Forse anche perciò la macchina industriale, o anche la sua parvenza, è totalmente a'isente, estranea a un contesto così ar­caico e primordiale. Ma non per questo Remondi e Caporossi hanno abbandonato il tema della macchina, che invece è matu­rato nella creazione di un vero e proprio congegno "metafisica", il pozzo - centro dell'universo o apertura per sondare un uni­verso parallelo quale potrebbe essere il nostro subconscio - che genem circolarmente) all'infinito, l'eterna figura dell'ominidé. ,

Ritornano, in questa nuova proiezione fantastica del moto circolare e infinito della macchina mentale, diversi elementi caratteristici degli spettacoli precedenti dove il cerchio, anche

3 Nico Gattone, Dal tombino un IIsogno" d'amore) cito <I Italo Moscati, La strana coppia, in Fabio Bartoli, Branco e il teatro di Remondi

e CaporoSJi, cit., p. 2. È meglio però non rifarsi ad associazioni precise, ci avverte Moscati: «Il buco non è un simbolo. È un buco. Nessuna discesa agli inferi o rifugio nella caverna [ ... ] Nessuna espansione all'interno del sesso femminile. Nessuna di queste associazioni. 0, meglio, tutte insieme».

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come figura geometrica, rappresenta e compendia lo spazio «non euclideo» che i due autori costantelnente ripropongon05• L'itine­rario circolare del muro proposto in Cottimisti, ad eselnpio, è ricordato dalla pietra che i due personaggi gettano nel pozzo attaccata alla fune e che segna il termine dello spettacolo quan­do ricompare calando al centro dall'alto. Circolare è anche l'azione dell'ominide (sempre lo stesso attore) che continuamente esce fuori dal pozzo. Circolare è inoltre il pozzo, come circolari era­no le ruote dell'ingranaggio in Richiamo e il cilindro di Rotòbolo. Vere e proprie autocitazioni sono poi la cornacchia che esce dal pozzo, o la fisarmonica che Caporossi suona all'inizio. E la stes­sa pietra che calando lentamente al centro della scena conclude lo spettacolo ricorda l'incedere lento della sfera metallica nel finale di Cottimisti. Ma il movimento circolare è anche un movimento preciso e costante come lo è l'apparizione dell'an­droide che con precisione cronometrica esce, a intervalli regola­ri, dal buco nero con la fune e il secchio. Questo è certamente un movimento circolare ma è anche un movitnento rettilineo verso l'infinito in quanto Remondi e Caporossi non affermano mai chiaramente che la figura che esce dal pozzo è sempre lo stesso androide. Anzi ogni volta che appare i due attori stacca­no il secchia dalla fune, che l'ominide trascina, e lo depongono in scena, accumulando così vari secchi sul fondo dello spazio.

Nel corso degli anni Remondi e Caporossi sembrano ri­proporre sempre se stessi, un loro collaudato modo d'intendere e operare nel teatro, che viene tuttavia riproposto ogni volta nell'indagine di un eletnento o di una mansione nuova, su cui la loro poetica si volge e si misura. Dei due attori, nota Poesia, sono caratteristiche «la sicurezza della mimica, la semplicità artigianale con cui evitano sofisticazioni e intelletualismi, la forza comica che sanno imprimere a un gesto da nulla, a uno sgra­nare gli occhi, a un silenzio improvviso»6. E ormai da cinque anni, precisa Franco Quadri, «in ogni spettacolo, Remondi e

5 Cfr. Barbara De Miro, op. cit., p. 18. 6 Paolo Emilio Poesia, Nel pozzo del mistero, "La Nazione", 12 gennaio

1979.

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Caporossi si calano negli stessi personaggi che, stranamente, non hanno altro nome che il loro ( ... ). Già nella fisionomia sono classici, uno [Remondi} piccolo e grasso, l'altro [Caporossi} più lungo e secco; e fedelmente ripropongono gli stessi cliché in eterna affettuosa discordia: uno vulnerabile a ogni sbalordimento, l'altro consapevole e glaciale, quasi sempre muti ( ... ) legati da un sottile filo sadomasochistico» 7 •

Certo il segno distintivo principale resta la vocazione dei due autori a basare ed articolare l'azione scenica su uno stesso rapporto di coppia in relazione a un preciso elemento esterno. In Pozzo quest'ultimo è costituito dal buco al centro della sce­na. Potrebbe sembrare il cilindro di uu prestigiatore dal quale per magia escono una serie di oggetti (ominidi al posto di conigli); ma è anche un buco senza fondo, un'apertura verso il mistero, la rappresentazione del «nulla prolifico e vorace» ac­canto al quale bisogna imparare a vivere. È una di quelle "macchine" con le quali «Remondi e Caporossi hanno l'aria di ritrovare l'assurdo, l'insolito, il bizzarro, non solo come segnali di allarme, quanto come pertugi da cui sbirciare un altro pos­sibile mondo, incrinature in un troppo compatto sistema di pensieri e di azioni, sfiatatoi per ripulire l'annosfera»8.

Se però tutto lo spettacolo è vicino alle tematiche di fondo .della meccanica celibe non lo si può riferire senz'altro alla nozione di macchina inutile poiché il rapporto che i due omini, imperso­nati da Remondi e Caporossi, instaurano con il pozzo non è più alienante, bensì conoscitivo. Possiede quindi una finalità evidente anche se è contraddistinto dalla meraviglia o dalla incapacità di comprendere. E se ricordiamo l'attenzione che Hara)d Szeeman, nel suo già citato lavoro sulle macchine celibi, in ultimo, dedica alla discussione di alcuni temi, scopriamo, del resto, nuove affinità nell'attività teatrale di Remondi e Caporossi.

Tra i temi celibi più importanti che lo scrittore segnala si ritrovano infatti l'anti-gravitazione, il tempo - Chronos, la

7 Franco Quadri, Pozzo, "Panorama", 13 giugno 1978. 8 Aggeo Savioli, Dal Pozzo escono i fantasmi del giorno, "L'Unità", 22

aprile 1978.

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bicicletta, lna soprattutto la vita artificiale (intesa anche come nascita o rianimazione artificiale). Pozzo si inserisce perfettamen­te in questo orizzonte tematico mediante l'immagine dell'an­droide, una continua epifania di elementi privi di qualsiasi spessore umano, bloccati nella forma in cui sono stati creati9,

Il motore di questo meccanismo resta sempre il foro al centro della scena in cui si inserisce anche la figura del cieco che, all'inizio dello spettacolo, si cala nel pozzo tenuto per una corda dai due artori, leggendo in braille i nomi di alcuni spet­tatori in sala. Questa figura: a prima vista malinconica e impe­netrabile, assolve una funzione fondamentale e ricorrente nel teatro di Remondi e Caporossi: scuote gli spettatori dalla loro semplice posizione di testimoni passivi, trascinandoli nel mec­canismo circolare del pozzo. I due autori, infatti, cercano di creare selnpre delle macchine coinvolgenti, (specialmente in. questo periodo della loro attività) senza voler però catturare l'attenzione del pubblico mediante effetti spettacolari, ma chia­mandolo in causa, nominandolo, cosÌ come nominano attraverso gli oggetti la realtà che li circonda.

Per questa ragione, diventa essenziale anche la creazione di uno spazio teatrale che permetta allo spettatore di essere sempre vicino al luogo dove avviene l'azione, di essere in scena insieme agli attori, e di qui la preferenza di Remondi e Capo­rossi per spazi teatrali diversi da quelli tradizionali.

I lnateriali che Remondi e Caporossi adoperano in Pozzo sono scelti con un criterio che si uniforma all'idea di base dello spettacolo e quindi restano tendenzialmente lontani di qualsiasi allusione al mondo industriale e meccanico. Gli oggetti sono ele­mentari e, in un certo senso, primitivi: una corda, una pietra, una pelle di animale, una conocchia, dei bastoni di legno, un ombrello. Gli oggetti più elaborati che vengono estratti dal pozzo, come gli strumenti musicali, rappresentano per lo più un mondo semplice e contadino (sono strumenti da banda musicale di paese, da fanfa-

9 Riguardo quest'ultimo punto ritornano subito alla mente degli spetta­coli della coppia come Richiamo, nel momento in cui Remondi è trasformato in un robot, il parto meccanico in Rotòbolo, ma anche Sacco dove Capotassi sembra essere una semplice macchina di tortura.

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ra, come dice espressamente il copione dello spettacolo). Anch'essi quindi alludono a una realtà sociale non industrializzata, il paese appunto, che, nell'bttica dei due autori, si trasforma in un mondo nlitico dove le emozioni possono essere ancora vissute allo stato puro, primario. Del resto gli oggetti più elaborati sono portati fuori dall' androide o emergono dal pozzo, quasi come partoriti da una memoria (a volte personale e privata dei due attori) a cui non sono posti dei limiti precisi, ma che procede liberamente. Dal buco nero escono anche, con la stessa naturalezza con la quale vengono tirati su i secchi d'acqua, cose improbabili, come un pa­racadute lO

Subito dopo Pozzo, quasi a segnare la tranSIZiOne tra l'at­tività degli anni precedenti e l'aprirsi di un nuovo periodo che vede esperimenti mai tentati prima dai due autori, come gli spettacoli con gruppi di ragazzi o il recupero dello spazio tea­trale tradizionale, c'è una proposta che lascia la critica stupefat­ta e qualche volta infastidita: Ominide (1979).

Più che di una rappresentazione dovremmo parlare di arte ambientale o di una auto-museificazione riassuntiva della pro­pria esperienza artistica. Non c'è azione vera e propria: uno alla volta gli spettatori scendono nella sala che aveva ospitato Pozzo, riadattata per l'occasione, passando attraverso la garitta girevole di Rotòbolo, unica apertura dello spazio murato con i mattoni di Cottimisti. Si nota subito quanto l'elemento portante di questo "spettacolo" sia l'auto-citazione; non a caso i due autori si ci­tano, si most1'ano ma non si espongono, e in tale atteggiamento c'è la volontà di riassumere i punti fondamentali del proprio processo artistico, in una forma che non li annulli, ma che li fissi come nuovo punto di partenza. E c'è anche la necessità di continuare a usare uno spazio per il quale si erano spesi denaro

lO Questa prolificità fa assomigliare il pozzo al sacco, dell'omonimo spet­tacolo, dal quale anche uscivano le cose più disparate. In questo periodo, all'interno dell'attività artistica di Remondi e Capotassi, è in atto un proces­so di rarefazione stilistica e linguistica, come abbiamo già avuto modo di dire, che sta procedendo velocemente, per giungere a un uso preciso degli oggetti che, come afferma Rita Cirio, «sono succedanei delle parole» (Rita Cirio, Mr. Assurdo è g,tù nel pozzo, "L'Espresso", 7 maggio 1978.)

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e fatica (la Sala Pozzo) al quale la coppia di autori era restata legata.

I due manichini, vagamente somiglianti a Remondi e Caporossi, che lo spettatore incontra all'interno dello stretto spazio, ricordano, per i vestiti, i guardiani di un museo. Stanno a guardia di un tronco di legno d'ulivo a cui i due autori hanno portato alcune aggiunte in modo che assomigli allo sche­letro di un uomo accovacciato. Le spoglie di Remondi e Capo­rossi fanno insomma da guardia a quello che potrebbe essere definito il centro della loro ricerca in questo periodo, un essere primordiale, o meglio il rappresentante visibile di quell'umani­tà, fatta di pulsioni elementari, che i due autori cercano di presentarci nei loro lavori.

Anche la critica nota quanto questo spettacolo sia più vicino all'arte figurativa, spoglio di qualsiasi elemento macchi­nico, se non il ricordo della macchina di Rotòbolo, e privo di qualsiasi azione, tranne quella dello spettatore. Un lavoro che non rappresenta ma si mostra. Però proprio la mancanza del "gesto", pilastro della drammaturgia muta di Remondi e Capo­rossi, avvicina Ominide alla tematica celibe, di cui si è già par­lato. Risulta quasi immediato il rapporto dei due manichini con la vita artificiale degli Stampi maschi nel Cimitero delle Uniformi e detle Livree inserito nella parte inferiore del Grand verre di Duchamp. Il riferimento al museo ricorda quello dello scienziato Cantarel in Locus Solm di Roussel, e sembra evocare il voyerismo dei testimoni oculisti, tema costante negli esempi di macchine celibi citati da Carrouges nel suo scritto. .

Quanto detto focalizza la nostra attenzione sul ruolo dello spettatore in Ominide. Infatti, seguendo un procedimento analo­go a quello utilizzato in Rotòbolo, Remondi e Caporossi attuano un sottile ribaltamento della situazione che era a fondamento dello spettacolo precedente. Non sono più i due attori a mo­strarsi nel rapporto col Nulla, con quella bocca dell'infinito che è il pozzo e che vomita persone e oggetti, ma è il pubbli­co, il singolo spettatore, che sperimenta se stesso di fronte al­l'oggetto simbolo di questo Nulla prolifico: il tronco-ominide appunto. Vive sulla propria pelle l'esperienza conoscitiva che,

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sulla scena di Pozzo, era stata propria di Remondi e Caporossi. E come in Rotòbolo i due attori erano freddi affidanti del rito meccanico vissuto dagli spettatori (travestiti da capi-officina) così in Ominide Remondi e Caporossi sono i testimoni muti del­l'esperimento (travestiti da guardiani di museo); un esperimento che, per usare una metafora, ha come provetta, non a caso, lo stesso luogo che aveva ospitato la loro esperienza.

Il lavoro dei due autori questa volta si fonda solo sulla scelta dei materiali, degli oggetti, che viene operata, come si è detto, attraverso il criterio dell'auto-citazione cosciente del proprio passato biografico e artistico. Così è per lo spazio, il meccanismo d'ingresso, i manichini e il tronco dell'ominide. Questo era stato trovato in Israele, durante una tournée, ed era restato per molto tempo nella casa di Caporossi prima di imporsi alla loro attenzione, cosÌ come .era successo per la cassa di bottoni per Térote, e per gli ingranaggi di carro armato di Richiamo.

I materiali nell'esplorazione della scena classica

La riflessione sull'ambiente scenico e la ricerca di soluzio­ni spaziali diverse da quelle consuete del teatro convenzionale maturano, dopo l'allestimento di Ominide, in Antigone, il primo spettacolo di Remondi e Caporossi, dopo Giorni fetici, che non li vede impegnati come autori del testo ll

. È una l'iduzione da Sofocle allestita in un capannone industriale tra Ostia e Fiumi­cino dal marzo al maggio del 1981. Il capannone; un grande spazio rettangolare, viene completamente svuotato da ogni og­getto preesistente e poi riempito di una enorme quantità di ghiaia, che copre tutta la sua superficie. Sul lato di entt'ata viene costruito un muro curvo in mattoni di tufo, e sul lato opposto è sistemata una piccola gradinata anch'essa curva, sulla

11 Ricordiamo che quest'opera prende spunto da una precedente realizza­zione per la Rai, che poco si distacca da quella teatrale, allestita negli studi televisivi nello stesso anno dello spettacolo teatrale.

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quale prende posto il pubblico. Al centro, sul pietrisco, una grande spirale di corda.

L'uso dei materiali a cui Remondi e Caporossi sono affe­zionati (mattoni, pietra, corda) permette una rivisitazione dello spazio teatrale classico. I due autori costruiscono un muro con tre aperture come fondale dell'azione che rimanda alla struttura della scenae [rons romana, Inoltre delimitano l'area della rappre­sentazione con una gradinata per il pubblico che ricorda la cavea del teatro classico. È singolare che si richiamino a una

. struttura classica, estremamente elaborata, qual è la scenae [rom, mettendo in vista un materiale grezzo come il tufo. Ma è chia­ro che il muro di mattoni di tufo conserva un legame con le produzioni passate, secondo la regola dei due autori di inserire in ogni spettacolo un elemento dei precedenti, e in questo caso di Cottimisti. Tuttavia il ripresentarsi degli stessi materiali in spettacoli successivi non può essere inteso sempre come auto­citazione. Sembra piuttosto rivelare la costante presenza nell'im­maginario, nel bagaglio emotivo dei due autori, di uno o più elementi materici che vengono alla luce non appena se ne pre­senta l'occasione, senza essere scelti e selezionati secondo criteri puramente estetici.

La memoria dei materiali è del resto un punto cardine di questo spettacolo. La pietra, sotto forma di brecciolino, era già presente in Giorni Felici. Lì era maggiormente soggetta alla manipolazione dell'attore, Ora in Antigone la componente della manualità e dell'artigianalità investe in minor modo i .materiali in scena, forse per la presenza forte del testo di SofoCle, che sposta l'attenzione dei due autori sulla parola. Sovrapponendosi a un sostrato ricco di significati, quale quello dell'opera greca, i materiali ne incarnano temi e motivi. La ghiaia suggerisce l'idea della terra negata alla tumulazione di Polinice, fratello di Antigone: elemento dal quale prende spunto la vicenda. Con­temporaneamente è anche la tomba dove la protagonista va a morire. Il pietrisco rappresenta inoltre la terra come oggetto di possesso e quindi viene sistemata in modo da formare una duna davanti al muro (reggia del tiranno) sulla quale Creante si arrampica, come se stesse scalando una montagna, per affermare

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il proprio potere. Su quella stessa duna Creante getterà paiate di ghiaia per ricompattarla, ma forse anche per seppellire suo figlio morto prematuramente.

Certamente il materiale è soggetto anche ad alcuni usi non assimilabili al testo. Il rumore del calpestio del pietrisco costituisce ad esempio l'unico commento sonoro allo spettaco-1012 • In questo ambito è sempre grazie al rumore di una pie­truzza lanciata a terra davanti a lui che il cieco Tiresia riesce a raggiungere il posto dove pronuncerà i propri vaticini.

Inoltre il pietrisco, un pOi come la sabbia, conserva la deformazione provocata da un agente esterno, come il passo dell'uomo; di per se stesso registra quindi le cose che accadono, quasi come se fosse dotato di una "memoria fisica~'. E mentre conserva visibili le tracce del movimento degli attori in scena, la memoria fisica del pietrisco segna in modo nuovo il coinvol­gimento del pubblico nello spettacolo; trattenendo le impronte degli spettatori che, non a caso, devono entrare dalla parte opposta alla gradinata e percorrere tutta la lunghezza dello spazio. n coinvolgimento può essere anche un retaggio della edizione televisiva dove mancava, ovviamente, il pubblico, ma c'era il "coro" composto da quindici vecchi e altrettanti bambini. Pro­prio del "coro" gli spettatori della versione teatrale sembrano aver ereditato il ruolo.

La ruvidità del pietrisco ben si concorda inoltre con lo scarno muro del fondo. E soprattutto la ghiaia è un materiale freddo e inerte, scomodo e ostile come la terra su cui regna il tiranno Creante e sulla quale Antigone non vuoI più vivere. Il senso di tale disagio è chiaro nelle scene iniziali dove la pro­tagonista è raggomitolata al centro della spirale di corda, in posizione fetale, sulla ghiaia che, appunto, non ha niente di vitale, ma che anzi, specialmente in quello spazio, richiama alla mente la nozione di deserto e quindi di morte.

12 Proprio per questo Caporossi tiene a specificare: «In Antigone, ad esem­pio, abbiamo usato come scenografia la ghiaia (il carico di dieci TIR) con cui abbiamo creato delle dune. Camminandoci sopra a piedi nudi ci siamo tesi conto che questo materiale funzionava come fonte sonora e quindi musicale~~.

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Un altro materiale che ricordiamo come costante nei la­vori di Remondi e Caporossi è la corda, che in Antigone assume un ruolo palese date le dimensioni (si tratta di una fune di circa dodici centimetri di diametro). La corda era già presente in Sacco e in Pozzo, con una funzione che, come suggeriscono gli stessi autori, può definirsi di "collegamento". Tale funzione è confermata e precisata in Antigone dove la corda ricorda chia­ramente un enorme cordone ombelicale che «collega Antigone ai suoi antenati». Infatti un'estremità della grossa spirale di corda sparisce dentro la duna che può essere immediatamente associata a un tumulo sepolcrale; e quindi, più in generale, collega Antigone con il mondo dell'al di là, coll'Ade al quale la donna sembra essere destinata fin dall'inizio.

Nei primi momenti dello spettacolo, il personaggio di Antigone prende vita quando questa spirale lentamente si scom­pone in tanti segmenti indipendenti che spariscono dietro la duna e il muro, alludendo forse alla scissione tra il rispetto delle leggi dello stato e quelle della famiglia e dell'amore. Subito dopo la protagonista indossa un gonnellino fatto con segmenti dello stesso tipo di corda. D'ora in poi la sua esistenza in scena sarà scandita dal riannodare insieme i vari pezzi di corda fino a ricomporre una matassa unica, e quindi, metaforicamente, una scelta dura e rigorosa verso le leggi della famiglia, verso un martirio che la ricollegherà ai propri antenati.

Questa scelta, che tra l'altro non sembra neppure essere tale in quanto Antigone non ci appare per niente dubbiosa sul da farsi, anzi è di fatto predeterminata (vedi i toni detla reci­tazione e la mimica), decreterà la sua espulsione dalla società tirannica e quindi la morte. La coerenza porterà la protagonista alla morte e la corda sarà il simbolo di ciò che la donna lascerà come testimonianza di se stessa. Come da copione: (mentre recita la sua ultima battuta) "sfila l'ultima corda e la annoda alle altre, completando la grossa matassa che porta sulla spalla»; dopo poche battute "depone sulla breccia la grossa matassa di corda e scava nella grande duna» 13.

B Dal copione originale pp. 13~14.

o

"""._-----'" I I

1) Grand verrei La mariée mise à nu par Je.! célibataires mème (Jean-Christophe Bailly, Marcel Duchamp, trad. it., Milano, 1986)

2) }Hacinatrice di cioccolato (Jean-Christophe Bailly, op. cit.)

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3) Tèrote} il pupazzo con l'abito di bottoni (teatro Leopardo) i.

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l,

2) __ .\ carrO ancora chiuso

Sacco, Caporassi cala la pila di copertoni sul sacco per mezzo di un argano

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6) Richiamo! Capotassi impassibile manda avanti la macchina a ingranaggi mentre Remondi lo incita alla ft-etta

7) Richiamo) l'entrata del tempietto. Caporossi trascina Remondi che sostiene la piccola costruzione in legno

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8) Rotòbolo, il grande cilindro montato in piazza 9) Rotòbolo} il progetto della macchina (disegno di Caporassi)

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10) Rotòbolo! gli attrezzi elementari e la fatica del lavoro nel ventre della macchina (disegno di Caporossi) 11) Rotòbolo! ossa e rottami all'interno della macchina (disegno di Caporossi)

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12) Cottimisti, la scena come appare all1inizio dello spettacolo

13) CottimiJti, la sfera metallica cala al finale davanti al boccascena

14) Pozzo, i due attori calano la pietra nel pozzo per sondarne la profondità (disegno di Caporossi)

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15) Pozzo! Remondi solleva l'ombrello ed estrae Caporossi dal pozzo

16 16) Pozzo! i due attori osservano ancora una volta l'ominide che esce con in testa

un cappello uguale a quello che aveva Caporossl

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17) Antigone, la scena allestita all'interno del Capannone Industriale 18) Antigone, la protagonista annoda le corde del suo costume

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19) Teatro, Remondi e Caporassi nei pri!11i momenti dello spettacolo seduti davanti al sipado di corda intrecciata

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20) Teatro, Caporassi sale con la bicicletta lungo la fune obliqua

21) Avere l'apprendista ne! sole, schizzo a penna di Duchamp (Jean-Christophe Bailly, op. cit.)

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22) Bosco, la scultura vista lateralmente insieme ad una delle ninfe

23) Spèra, Remondi e Caporassi entrano in scena camminando alli indietro 24) Spèra, dalla sfera spuntano il torso e le gambe

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25) Ameba} le due macchine si avvicinano mosse dagli attori

26) Ameba} le due macchine sollevate una dietro l'altra

27) Rem & CaPi i due attori "nelle loro case", La porta girevole al centro divide i due ambienti

28) Rem & Cap, Remondi e Capotassi si spiano a vicenda dalle serrature

29) Quelli che restano,

30) Q1Ielli che restano,

il cameriere prepara la lunga tavolata nel finale dello spettacolo

Caporossi "solitario avventore della taverna"

Di contro a tanta attenzione all'uso dei materiali, mancano completamente invece le macchine in scena ltl. Ciò è logico se si colloca Antigone all'interno di un periodo in cui la coppia di autori ha lasciato in disparte l'uso evidente della macchina (ricordiamo Cottimisti o Pozzo), e del resto i messaggi riferiti all'alienazione e alla schiavitll, tipicamente legati alla macchina, non avrebbero avuto ragion d'essere in uno spettacolo che sembra concentrare la propria attenzione sull' aspetto morale della vicenda.

Di solito la macchina, quando è presente come oggetto, nelle realizzazioni di Remondi e Capo rossi, tende sempre a distruggere nei propri ingranaggi l'umanità di chi la manovra e ne è schiavo.

L'esclusione di un simile elemento è quasi immediata poi­ché Antigone, anche se ha un finale tragico, non dissolve l'umanità del personaggio, anzi la esalta. Antigone scegliendo il legame con i propri cari e morendo da una lezione di libertà.

In questa maniera la protagonista accetta la condanna di Creonte ma, nel contempo, lo lascia, in un certo senso, solo, privo di sudditi sui quali regnare15

La critica è stata soprattutto colpita dall'uso dei materiali che ha riconosciuto come protagonisti dello spettacolo.

I materiali, afferma Elio Pagliarini «funzionano perfetta­mente»16. E i giornalisti hanno unanimamente rilevato la sensa­zione di deserto e di morte che tutta la scenografia suggeriva l.7 •

14 Le macchine, assenti sulla scena, sono però presenti come supporto tecnico nascosto. Infatti alle spalle del muro ci sono degli argani preposti a tirare, mediante un sistema di fili, tutti i pezzi che compongono la spirale di corda per farla sparire dietro la duna di ghiaia.

15 È sintomatica in tal senso l'uscita di scena del ltiranno che risale sull'apertura laterale del muro (la stessa dalla quale era entrato) e sparisce nel buio, lasciandosi cadere al di là come se si suicidasse.

16 Elio Pagliarini, Quei materiali funzionano perfettamente, "Paese Sera", 13 marzo 1981. Nico Garrone nota che il pietrisco fowisce «anche la suggestiva colonna sonora dell'intero spettacolo», Meglio non .svegliare l'eroina testarda, "La Repubblica", 13 marzo 1981.

l7 Nicola Fano, Se Tebefo.s.se un de.serto di ghiaia, "L'Unità", 13 marzo 1981. M. P.: «La vita è infatti un deserto sassoso e una tomba», Antigone nel Capannone, "Il Tempo", 14 marzo 1981. M. G.: «quei sassi sono pure un deserto arido, come è arido di sentimenti il mondo nel quale Antigone versa la sua pietà», Antigone .sulta ghiaia metafi.sica, "Corriere della Sera", 19 ma1'ZO 1981.

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La corda e la scoperta de! tealro a!!'italiana

Nella successiva produzione la scelta di un materiale unico e preciso serve a Remondi e Capotassi come mezzo per porsi in relazione con il luogo teatrale tradizionale, il teatro all'italiana. Teatro (1982) prende spunto dalla distanza che i due autori hanno sempre mantenuto con questo tipo di ambientazione teatrale. Remondi e Caporossi sembrano andare alla scoperta delle possibilità del teatro, come luogo fisico, ma anche come luogo fantastico, nel quale possono avvenire cose inaspettate e meravigliose. Sulla scorta di questi elementi biografici, nello spettacolo lo spirito con il quale Remondi e Capotassi si av­vicinano allo spazio scenico è proprio quello del bambino che "scopre il mondo", liberando una vena poetica più quotidiana, tra l'infantile e il Iudica. Abbandonate completamente le tema­tiche di denuncia politico-sociale, Remondi e Caporossi si affi­dano a spunti creativi più riflessivi che si aprono alla riconsidera­zione della loro esperienza artistica, del resto già presente, ma in modo più frammentario, in tutte le autocitazioni di cui erano costellati gli esperimenti precedenti.

Questo permette anche il radicarsi, nella prassi scenica, dei personaggi che Remondi e Caporossi, anche adesso, ripro­pongono. D'ora in avanti fisseranno due "maschere" che pren­dono vita dalla fusione delle caratteristiche dei personaggi inter­pretati dalla coppia nel corso della propria esperienza teatrale. Le due "maschere" resteranno più o meno invariate negli spet­tacoli successivi, e i loro costumi ricorrenti saranno due com­pleti grigi o neri di pantaloni, giacca e cappello floscio, più scarponi (grossi e invecchiati).

Teatro inizia con i due attori seduti, spalle al pubblico, su una panchina, davanti a un sipario fatto di una grossa corda intrec­ciata. È la corda appunto il materiale scelto da Remondi e Capo­rossi come mezzo per la "scoperta" del teatro, usata quasi come uno di quei giocattoli che stimola l'apprendimento dei bambini.

«Con Teatro» afferma Caporossi «abbiamo voluto riap­propriarci coscientemente dello spazio teatrale all'italiana, fo­calizzando l'attenzione su un elemento preciso: il sipario. E,

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continua Remondi, «lo abbiamo voluto fare partendo da un rapporto di verginità, come chi, venendo dall'esterno, non sappia nulla».

Tra i due attori e il teatro c'è la corda che continua ad assumere quel ruolo di "collegamento" già ricoperto in altri lavori (Saav, Pozzo, Antigone). È il diaframma o la porta che bisogna oltrepassare per accedere al palcoscenico. CosÌ la coppia comincia a disfare il sipario di corda bianca, come se si trattasse di un enorme lavoro a maglia (e infatti lo è), aprendosi lenta­mente un varco al suo interno, una apertura sul fondo scena completamente buio e nero.

Ma la corda è anche il materiale che unisce Remondi e Caporossi nella fatica, COS1 come lo erano i mattoni in Cottimi­sti, ed è proprio l'elemento concreto del lavoro manuale che ritorna prepotentemente a far parte delle loro messe in scena dopo la parentesi di Antigone. La novità è che il ritorno alla manualità, al gesto applicato all'oggetto, non segna un analogo ritorno al tema dell'inutilità e della sterilità della fatica. Disfare il sipario non è un atto distruttivo, bensf creativo, poiché apre il passaggio per il palcoscenico che permette ai due personaggi di proseguire nella loro scoperta. Paradossalmente questa opera­zione può apparire più creativa e positiva di quanto non fosse la costruzione del muro in Cottimi,rti o l'impiego della macchina in Richiamo. In Teatro infatti il rapporto con i materiali non riduce Remondi e Caporossi al ruolo di macchine produttrici; non dilegua la loro umanità, anzi, la esalta. Possiamo quindi dire che le tematiche celibi, fra cui la stetilità è una delle più importanti, cominciano a dissolversi per lasciare il posto ad altri temi di ricerca come la riflessione, appunto, sul luogo teatrale. Non è un caso, del resto, che la presenza di macchine o meccanismi celibi nell'attività teatrale di Remondi e Caporos­si tenda a ridursi con il progressivo distacco dei due artisti dai discorsi tipicamente impegnati sul versante della critica politica al sistema sociale contemporaneo.

L'uso degli oggetti sfuma la sua componente assurda tanto nel gioco quanto nel riferimento a riflessioni più intime e paurose come quella affidata a Remondi che, sul finire dello spettacolo,

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seduto con Caporossi su una panchina posta sopra un grosso gomi­tolo di corda, recita: «è inutile che ci facciamo illusioni, dopotutto apparterremo sempre a due mondi diversi» 18.

Il grosso gomitolo evoca la matassa formata dall'uuione delle due corde che Remondi e Caporossi hanno sfilato dal sipario, e l'intreccio delle due corde evoca, a sua volta, la stretta unione della coppia di personaggi. Ciò esalta, ovviamente, anche in chiave sim­bolica, la funzione di collegamento che assume costantelnente il matetiale-corda negli spettacoli di Remondi e Caporossi. Alla fine però Remondi pronunciando la sua battuta afferma che questo collegamento è sostanzialmente fittizio poiché propone un contat­to, una c01nunicazione, solamente esteriore. In una riflessione da­gli accenti più intimi, rispetto alla produzione precedente, Re­mondi e Caporossi prospettano un'umanità irdmediabilmente scis­sa in molteplici unità, divise come le due corde che si intrecciano, senza però fondersi, I)-ella composizione del gomitolo.

Come è già stato per Richiamo o per Cottimisti, l'uso di un oggetto o di un materiale, (nel caso di Teatro la corda) sollecita tutta una serie di accadimenti che formano il corpo della rappresentazione. In Teatro questi accadimenti assumono il sapore infantile del gioco, della meraviglia, ma rivelano anche la attigua componente della paura verso lo sconosciuto. «L'arco scenico» conle ha scritto Maurizio Giammusso «è nudo spalancato su un nulla pieno di mistero»19. I due personaggi provano un sentimento misto, tra curiosità e timore, verso l'universo sconosciuto che si apre die­tro il sipario di corda. Riptopongono "l'aria magica" dell'attesa davanti a qualcosa di sconosciuto che è già stata caratteristica di Pozzo. La potenza di questo "mondo nuovo" è compendiata nel vuoto totale e neto del fondo della scena: simbolo del Nulla dove può succedere tutto. «Il palcoscenico vuoto di Teatro», ricorda Caporossi, «è un "niente" che va oltre il teatro. È il luogo dei possibili illusionismi, dove può accadere anche il miracolo. È un nulla dettato dal buio al di là del sipario».

18 Dal copione originale, pago 7 19 Maurizio Giammusso, Due clowns e una corda, "Corriere della Sera", 10

marzo 1982.

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L'idea del Nulla è una delle basi su cui si muove la poetica di Remondi e Caporossi, specialmente in questa fase della loro esperienza artistica. Possiamo anzi sostenere che è proprio il punto di partenza; lo stesso Capo rossi infatti afferma: «anche il nostro modo di porci rispetto alla creazione di uno spettacolo ci riporta al nulla, in quanto parliamo sempre di "azzeramento", di "desertificazione". Il deserto può essere una buona immagine per descrivere il punto di partenza del nostro lavoro, perché è dominato da due elementi come il nulla e il silenzio che per noi sono molto vicini. È un "nulla" non inteso come inconsistenza, bensÌ C01ne fonte delle cose visibili: proprio di lì esce fuori la concretezza».

I due personaggi sulla scena buia, illuminata da luci precise, vivono esperienze minime, che, come accade spesso negli spettacoli della coppia di autori, vengono amplificate e assumono la consistenza di momenti di intensa umanità e di uno spiccato lirismo poetico. Tale è il momento in cui Caporossi si arrampica con una bicicletta su una corda tesa obliquamente da un lato all'altro del palcoscenico. L'episodio rappresenta la confluenza di vari spunti tematici. Da una parte riconosciamo proprio la volontà di dimostrare che nello spazio "magico" del teatro tutto può accadere, anche la sfida alle leggi di gravità, e l'azione di Caporossi appare come un gioco fantastico, un'immagine mentale che si materializza davanti a noi perché il teatro è il luogo capace di rendere immediatamente visibili, concrete e reali le fantasie della men­te. Ma allo steso tempo, questa scena di stupefatta e giocosa acrobazia può evocare, all'inverso, la capacità della lnateria manipolata (qui, la corda) di sollecitare imm'agini e azioni fantastiche.

Del resto è una peculiarità di Remondi e Caporossi quel­la di farsi "tentare" dalle cose che maneggiano e di inventare anche usi inaspettati e improbabili del materiale che hanno scelto: in Teatro la corda, oltre che sipario, diventa anche una strada, una pista per il cielo. Gli oggetti e i materiali non assumono mai un significato univoco, ma devono essere sempre riferiti alla situazione presente: l'importante è l'uso del materia-

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le, la capacità di "viverlo" in movimento. Del resto lo stesso Caporossi inequivocabilmente afferma: «Non tendiamo a catalo­gare i materiali o oggetti in modo che possano assumere un solo significato: anzi nel nostro lavoro ci muoviamo costante­mente in direzione opposta».

Resta ancora da notare, nell'episodio della bicicletta, una singolare eco della tematica delle macchine celibi qui trasferita in un contesto estraneo ai motivi della sterilità e della inutilità. Infatti se i temi della "anti-gravitazione" e della "bicicletta" sono inseriti da Szeeman nella lista di temi celibi che compila alla fine del libro da lui curato, la Ruota di bicicletta e l'imma­gine del ciclista appaiono in Teatro deformate dai loro signifi­cati complessivi. Utilizzate nel valore puramente iconico assu­mono una qualità magica e giocosa distante dalla rete di asso­ciazioni che le caratterizzava in origine20

• Szeeman cita vari esempi tra cui il Grand verre e la Ruota di bicicletta di Du­champ, Dell'artista francese però ricordiamo anche Avere l'ap­prendista nel sole, È un piccolo disegno, tracciato alla brava sulla pagina di un album da musica: un ciclista che si inerpica fa­ticosamente per una salita (fig, n, 21). Il rapporto con l'analogo episodio di Teatro è evidente, almeno per la somiglianza delle immagini. Ma la parentela appare assai più stretta se facciamo nostre le considerazioni di Bailly che individua nel disegno di Duchamp il legame tra l'apprendistato (di qualunque tipo an­che artistico o morale) e la fatica che il ciclista compie per inerpicarsi sul faticoso pendio21

• Così l'opera di Duchamp si salda con quella analoga di Remondi e Caporossi per i quali la fatica, come abbiamo atnpiamente detto, è una componente essenziale. Anche per il personaggio di Teatro l'arrampicata in bicicletta diventa simbolo di una crescita faticosa e lenta, di una maturazione morale (o artistica) che si materializza nella figura del ciclista, sdrammatizzandosi però nel momento in cui si inserisce in un ambito Iudica. Tutto ciò avviene tramite un mezzo specifico, il materiale (la corda). Del resto è proprio l'uso

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20 Le macchine celibi, a cura di Harald Szeeman, cit., pp. 218-219. 21 ]eat;l-Christophe BaHly, Marcel Duchamp, cit., p. 30.

dei materiali e la possibilità di manipolarli - la sostanza insom­ma del lavoro artigianale - che interessa Remondi e Caporossi.

In un'opera come Teatro, che tocca accenti profondi dietro i quali si può riconoscere una vena amara e malinconica, trova posto anche una componente costante della produzione teatrale di Re­mondi e Caporossi, che in questo spettacolo diventa lampante: l'ironia. L'ironia permette ai due autori di evitare la mitizzazione del materiale che adoperano, di creare un distacco che serve a mantenere comunque il controllo. In fin dei conti la coppia di artisti tende sempre ad affermare il riscatto finale dell'uomo (che quindi ha la meglio sui materiali usati), e a non trasformare mai l'amarezza in cupo pessimismo. L'ironia di Teatro è chiara nelle scene finali quando Caporossi, seduto con Remondi sul grosso gomitolo di corda, a sipario completamente disfatto, comincia a lavorare con i ferri a maglia per creare un nuovo ipotetico sipario. Ma ironica, e addirittura umoristica, è la chiusura del "sipario invisibile". Due corde, simili a quelle utilizzate in tutto lo spet­tacolo, dietro all'arcoscenico, partendo dai due lati del palco, scor­rono per incontrarsi al centro, e viceversa, mimando un sipario che si apre e si chiude mostrando gli attori alle "chiamate" del pubblico. Del resto quest'ultima trovata può anche essere portata come esempio per confermare la tendenza alla rarefazione del se­gno scenico che caratterizza, in particolare, questo momento nella produzione artistica di Remondi e Capo rossi, in linea con la scelta di un unico e preciso materiale sul quale impostare il lavoro.

La critica nota soprattutto il raffinamento della tecnica artistica dei due autori, la loro capacità di parlare attraverso le cose, ormai talmente sperimentata da permettere anche dei vir­tuosismi22

• Aggeo Savioli afferma, in una visione ottimistica, che tutto lo spettacolo può essere una metafora della «effimera eterna vitalità del teatro nel fare e disfare»23.

22 Paolo Lucchesini: «la loro [Remondi e CaporossO ennesima irripetibile esperienza: la scoperta della poesia nelle cose (e nel loro ricordo»>, Il teatro? Per loro ~ come la tela di Penelope, "La Nazione", 2 febbraio 1983.

23 Aggeo Savioli, Quel siPario che nasconde il gran vuoto, "L'Unità", 27 febbraio 1982,

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L'irrealtà de! mondo del teatro

Proprio il teatro sarà, ancora una volta, protagonista del successivo spettacolo di Remondi e Caporossi: Bosco (1983). Questa volta i due autori daranno per scontata la possibilità di agire all'interno dello spazio teatrale tradi:donale, e infatti al­l'apertura del sipario li troviamo già in scena. Ma affronteranno tale possibilità giocando con tutto ciò che c'è di "falso" e "ir­reale" nel teatro.

La rappresentazione ruota intorno all'azione di due perso­naggi (dall'aspetto, un pittore e un poeta) che segano in lungo un tronco d'albero posto verticalmente al centro della scena. Non se ne vede la cima poiché sparisce oltre il boccascena. Gli autori tendono a suggerire un'atmosfera di idillio boschereccio dove hanno ragion d'essere anche tre ninfe (o fate) che entrano in vario modo in contatto con i due attori.

Nella presentazione, il copione di Bosco porta la dicitura: «racconto mediante il teatro e le sue possibili macchinerie». CosÌ fin dall' inizio gli autori dichiarano quale sarà il ruolo della macchina nello spettacolo. La presenza delle macchine è assai più rilevante rispetto a Teatro; lo stesso aggeggio sul quale i due attori sono seduti per segare il tronco è una macchina per mezzo della quale Remondi e Capo rossi si adoperano in un esempio di fatica lenta e inutile, o almeno priva di uno scopo evidente. Il tronco d'albero che si apre in due e fa da passerella per l'entrata delle ninfe è una macchina. Possiamo aggiungere alla lista anche «l'attrezzo atto a provocare il rumore dello schian­to di un albero che si spezza»24; o l'innaffiatoio usato per far raddrizzare e riunire le due metà del tronco una volta separate. Tutte queste macchine non sono tanto delle macchine celibi quanto dei grossi giocattoli; invenzioni ludiche di bambini, e di questi ultimi infatti seguono la logica irrazionale e fantastica. Resta evidente la componente artigianale (ad esempio la lenta azione del segare), ma non è inquadrata in una prospettiva sadica o petversa. I "due omini" impersonati da Remondi e Caporossi

24 Dal copione originale dello spettacolo, p. 2.

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non subiscono la fatica poiché nel lavoro svolto, almeno in questo spettacolo, manca completamente l'idea di alienazione25 •

L'idea portante di Bosco, all'interno della riflessione sul luogo teatrale usuale, pone l'attenzione sull'elemento della fin­zione e dell'illusionismo, e la macchina -ha proprio questo ruolo. Potremmo quindi leggere la dicitura iniziale del copione in un'altra luce che la trasformerebbe in «racconto mediante l'illu­sione teatrale e le sue possibili finzioni (macchinerie)>>.

Ugo Volli definisce con estrema chiarezza la novità dello spettacolo quando nota come «quell' elemento di realtà effettuale che vi regnava [nei precedenti spettacoli di Remondi e Capo­rossi}, con i muri costruiti davvero con mattoni autentici e buchi scavati fino in cantina, abbia gradualmente lasciato mag­gior spazio al gusto esplicito della finzione, o piuttosto della macchina beffardamente celibe, che allude solamente a una re­altà lontana e impossibile, ma in verità, fingendo di ricrearla, mostra concretamente il Trucco del Teatro [ ... ) dove la sostitu­zione metonimica dell'albero per la foresta è solo il primo anel­lo di una catena assai lunga di esplicite falsificazioni, di giochi assaI teatrali con l'apparenza e l'illusione»26.

Queste considerazioni si riallacciano alla possibilità di un'ana­loga riflessione sull'uso dei materiali in Bosco. È chiaro che in questo lavoro Remondi e Caporossi si confrontano con uno spazio teatrale codificato nella tradizione occidentale, il palcoscenico al­l'italiana27 • Non a caso quindi, proprio in questa sede, la coppia abbandona la "verità" che era elemento fondamentale delle sue produzioni. Lo spettacolo, che potrebbe sembrare un idillico gioco della fantasia, tende invece a ingaggiare un confronto critico con lo spazio teatrale, adoperando il linguaggio che n'rmai appartiene

25 È interessante notare che anche nel progetto della scena Caporossi disegna una pianta semplicissima, ma caratteristica dello spazio scenico all'ita­liana, con fondale e quinte laterali. Questo schema sembra quasi fatro apposta per accentuare il contrasto con le modalità e gli spazi delle precedenti rappre­sentazioni dei due autori.

26 Ugo Volli, Che fatica però il Gioco del Teatro Jotto l'albero, "La Repub­blica", 22 novembre 1983.

27 Ricordiamo che lo spettacolo è andato in scena sia al Teatro Goldoni di Venezia che al Teatro Valle di Roma.

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ai due autori: quella drammaturgia per oggetti (o muta) di cui si è parlato fin dalle loro prime produzioni.

Il confronto che Remondi e Capo rossi intraprendono con il luogo teatrale ha come caratteristica principale il dato che tutto è falso: le travi che i due attori usano per creare la struttura-scultura, che domina il finale dello spettacolo, sembrano di legno, ma sono in verità in vetroresina, anche il tronco non è di legno e la sega non compie veramente il lavoro di dividere in due il fusto d'albero. Le fatine che compaiono in scena poco hanno della corporeità e della fisicità che caratterizzava i personaggi di Antigone o di Pazzo. La stessa coppia di attori sembra recitare il corrispondente dei ruoli che schematicamente, e banalmente, gli si potrebbe imporre: Caporossi "il Pittore" e Remondi "il Poeta". Non a caso nel mo­mento di pausa del lavoro Caporossi dipinge il tronco e Remondi legge, Anche i due omini quindi hanno indossato una maschera "teatrale" in Bosco; si sono truccati da loro stessi, ma un loro stessi tutto esteriore (guindi falso). I due attori giungono anche alla palese citazione della massima espressione di illusionismo, la pre­stidigitazione, quando Caporossi comincia a tirar fuori dal cappel­lo del compagno una serie di fazzoletti colorati.

Ma proprio il "trucco" teatrale è, per i due autori, l'occasio­ne di fuggire qualsiasi tentativo di rappresentazione realist1ca, Accettando completamente il dato che la scatola del palcoscenico, nel teatro all'italiana, è il luogo delle cose non reali, Remondi e Caporossi la descrivono enfaticamente come il luogo privilegiato dell'illusione. Infatti l'illusione del teatro può arrivare a tal punto da far considerare reale anche t'ombra di ciò che non c'è più, e quindi è perfettamente "normale", secondo il copione, che le tre creature del bosco camminino suU' ombra del tronco così come poco prima avevano fatto sulla sua immagine reale, In questo ambito può accadere anche che l'ombra del mezzo tronco si abbatta guan­do Remondi aziona la piccola pressa che dovrebbe provocare il rumore di un albero che si schianta e che invece ora è muta poiché priva del pezzo di legno da spezzare28

28 Questo è un esempio tra i molti episodi di Bosco nei quali Remondi e Caporossi ripropongono una stessa azione lievemente variata.

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L'unico elemento vero (che non vuole essere altro da quello che sembra) di Bosco, è l'oggetto scultura che i due attori co­struiscono alla fine (ricorda le sculture lignee di Ceroli). Ma proprio in guanto scultura, l'oggetto si pone al di fuori del­l'alubito specificamente teatrale, affermando ancota, in virtù della sua differenza, la falsità del teatro: invade la scena concentran­do su sé stesso tutta l'attenzione, che sottrae al fascino delle ninfe idilliache del bosco. E la scultura, appunto, rappresenta l'unico frutto concreto della fatica umana, l'unica cosa che sem-bra contare e rimanere, '

La situazione, comunque, non deve apparire come una fuga nello "spensierato mondo dell'illusione", anzi si colloca per­fettamente all'interno della poetica di Remondi e Caporossi che mostra di prediligere la riflessione sull'uomo e sulla disperata perdita del contatto con se stesso, usando però in Bosco, una metafora diversa da quella dei precedenti lavori. Invece della cruda verità di quello che siamo all'interno dell'alienante società industriale, ci mostrano la falsità di ciò che sognamo attraverso un'idillio con la natura,

La critica accoglie lo spettacolo con giudizi contrastanti. In molte recensioni si fa riferimento alla noia che la quasi totale assenza di azioni può suscitare. Si continua per altro a far riferimento alle macchine celibi, senza trovare però un reale aggancio con lo spettacolo in questione. Viene comunque messa in evidenza la novità dell'uso dello spazio teatrale tradizionale rispetto alle altre produzioni di Remondi e Caporossi29

29 Giorgio Prosperi, Il «Bosco inutile» di Remondi e Caporossi, "Il Tempo", 16 maggio 1984. Gianfranco Capitta nomina «il fascino casalingo della pre­stidigitazione» in Bosco di scena. Remondi e CaporoJsi maestri falegnami, "Il Manifesto", 22 novembre 1983, Maurizio Giammusso interpreta lo spettacolo come un «componimento candidamente gratuito», Due omini nel «Bosco», "Corriere della Sera", 13 maggio 1984.

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DESCRIZIONE DEGLI SPETTACOLI

Pozzo. Scritto e diretto da Remondi e Caporossi. Con: Claudio Remondi, Riccardo Caporossi, Piero Orsini, Lilla Monache­si, assistente tecnico di scena Piero Cegalin. Anno di pro­duzione 1978.

Lo spazio per lo spettacolo è ricavato in una cantina del Tearro di Trastevere: un locale di pochi metri quadrati (6 per 8 circa), quadrangolare, imbiancato a calce. Delle panche digradanti, su cui possono sedere al massimo una sessantina di spettatori, sono sistemate lungo due lati. Su una delle due pareti libere è praticata una porta più ampia che conduce al "retroscena"; altri cunicoli ciechi si trovano sugli altri lati. Al centro della sala, illuminata da luci bian­che e fisse, traviaino un buco di circa un metro di diametro, coperto all'inizio da un ombrello verde di stile campagnolo. Di lì proviene una musica di fisarmonica, al cui suono Remondi entra in scena ballandolo È vestito con canottiera a bretelline, pantaloni scuri e sandali. Quando la musica smette Remondi accenna ad andar via ma ricomincia_ a ballare non appena la musica riprende. Incuriosito alza l'ombrello sco­prendo il pozzo ed estraendo Capo rossi che ha la fisarmonica tra le mani (fig. n. 15). Caporossi è vestito con cappello di paglia a falde larghe, maglietta di lana a maniche lunghe, pantaloni e sandali.

Tra i due comincia una disputa, sottolineata da una breve frase, ripetuta, «lo ho», dove ognuno dimostra di possedere qualcosa: un pulcino, una candela (Remondi prende le sue cose dall'esterno della scena e Caporossi invece dal pozzo). Infine Remondi dice di avere un cieco e va a prendere un vero cieco (Piero Orsini) che appare da una delle aperture della sala. Offre al cieco il centro di una corda mentre lui e il compagno ne

l Remondi esce da uno dei corridoi ciechi della sala. Sempre lo stesso avrà la funzione di camerino per gli attori.

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afferrano gli estremi cominciando a drarli. Il cieco avanza fino al pozzo. Facendo scorrere un carrellino, fatto con un vecchio rubinetto, sulla fune inclinata, Remondi e Caporossi gli fanno arrivare dei fogli scritti in braille. Scomparendo lentamente nel pozzo, sempre attaccato con una mano alla fune, il cieco legge i nomi di alcuni spettatori in sala2•

I due attori, trascinati dai due capi della corda, raggiun­gono loro malgrado il pozzo. Abbandonano la fune solo nell'at­timo in cui stanno per precipitare, quindi osservano il pozzo.

Costruiscono una carrucola sul pozzo e, con una corda, calano lentamente una grossa pietra, per sondare la profondi­tà (fig. n. 14). Remondi, per la stanchezza, non controlla più l'attrezzo e la pietra precipita liberamente tirando con se tutta la corda che si stacca dalla carrucola. Segue una lunga e interminabile attesa del tonfo che però non aniva.

Sui bordi del pozzo spunta una mano, poi 1'altra, appare una testa e a poco a poco esce fuori un uomo (l' ominide) ve­stito solo di un paio di calzoncini aderenti color carne (Lillo Monachesi). Con un'espressione fissa esce di scena senza curarsi minimamente dei due personaggi.

Attorno a questa azione, che si ripeterà costantemente, si affaccenderanno per tutta la dutata dello spettacolo Remondi e Caporossi. L'apparizione dell'ominide - che emerge dal pozzo, attraversa la sala, esce, e poco dopo torna a riemergere dal pozzo, attraversa la sala, ed esce nuovamente, all'infinito'" - cre­erà litigi, dispute nella coppia che prima sarà interessata, incu­riosita, e poi infastidita, turbata, impaurita. L'ominide spunta dal pozzo con oggetti diversi; un cappello come quello di Ca-

2 Ai primi spettatori viene chiesto di lasciare il nome al momento del­l'ingresso in sala.

3 Remondi e Caporossi hanno completamente ristrutturato questa cantina del Teatr? in Trastevere appositamente per lo spettacolo che nasce quindi per uno spazlO preciso. Per consentire il continuo apparire di Lilla Monachesi (l'ominide) hanno rialzato il pavimento della sala in modo da ottenere uno spazio, sotto il buco centrale, capace di contenere una persona accovacciata. ~anno predisposto poi dei cunicoli, sempre sotto il pavimento, che collegano 11 pozzo con i punti di uscita dell'ominide.

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porossi (fig. n. 16), un trombone. Dal pozzo proviene anche il suono di una fanfara e quindi i due attori cominciano a tirar su con la corda delle trombe, un talnburino.

Rinvenuti dal primo sbigottimento Remondi e Capo­rossi tentano degli esperimenti sull'ominide. Gli consegnano il capo di una corda alla estremità della quale è legato un secchia di metallo. L'ominide esce. I due personaggi attendo­no sul bordo del pozzo. Di qui rispunta l'ominide, con il capo della corda in mano. Sempre tenendo in mano il capo della corda che continua a venir fuori dal pozzo l' ominide attraversa la sala ed esce. Remondi e Caporossi afferrano la corda e tirano fino ad afferrare il secchio pieno d'acqua che Remondi svuota in un catino e ripone al fondo scena. Non hanno nemmeno finito l'azione che riecco uscire l'ominide, ancora con il capo della corda che si trascina dietro, all'estre­mità della quale c'è un'altro- secchia d'acqua. Questa scena si ripete meccanicamente per sei volte. Alla fine, lnentre la coppia attende l'uscita dell'ominide, salta fuori dal pozzo un secchio privo della corda, che Capo rossi prende a volo. Si palleggiano tra di loro il secchia e poi lo depongono.

Dal pozzo esce ancora l'ominide portando sulle spalle un sacco, che però gli scivola ricadendo nel pozzo. Remondi steso a terra canta una canzoncina e Capo rossi si commuove sfilando platealmente dalla tasca un fazzoletto colorato.

Riappare il sacco sull'orlo del pozzo, sulle sl>alle del­l'ominide; il sacco gli scivola, di nuovo, ma questa volta i due compagni riescono a prenderlo e, mentre l'uomo va via, depongono a terra quello che si rivela più chiaramente come uno zaino al quale è legata una imbracatum. Da questa si dipanano una serie di cordini che, tirati dai due, estraggono dal pozzo un paracadute colorato. Remondi e Capo rossi lo stendono sul pozzo. Si vede una figura emergere, sotto il paracadute. Remondi e Caporossi la imprigionano nel tela ma, mentre la stanno per legare, dal pozzo esce l'01ninide che attraversa la sala e se ne va.

I due compagni restano sbigottiti, lasciano la preda cattu­rata che lentamente esce di scena selnpre dentro il paracadute.

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Passa ancora una volta l'ominide, e allora la coppia decide di bloccare l'imboccatura del pozzo con una pelle di animale presa dallo zaino. La fissano alla bocca del pOZlO respingendo le mani dell'ominide che tenta di riemergere. L'ominide preme dall'interno e Remondi e Capotassi lo percuotono con due clave. Battendo provocano però un rumore strano, come se col­pissero del legno. Impauriti fuggono via, nella stanzetta da cui era entrato Remondi all'inizio. Lentamente dall'alto cala una pietra tenuta da una corda, che termina la sua discesa sospesa a poca distanza sopra al pozz04.

Le luci in sala si spengono e segnano cosÌ la fine della rappresentazione.

Fonti per la descrizione dello spettacolo: Video dello spettacolo in B/N registrato al Teatro Litta di Milano nel

novembre del 1989. Foto dello spettacolo in B/N prive dell'indicazione dell'autore, scattate

alla Sala Pozzo del Teatro in Trastevere di Roma nel 1978, gentilmente concesse da Remondi e Caporossi. Foto in B/N di Cesare Accetta, scattate al Teatro Clemson a Roma, nell'ottobre del 1985, nell'ambito della rassegna Illusi, .... , gentilmente concesse dall autore.

Lo spettacolo, infatti, anche se nacque specificamente ideato per la can­tina in disuso del Teatro in Trastevere, è stato poi riallestito in modo da poter essere rappresentato anche nei teatri tradizionali all'italiana; cosÌ come è avvenuto in occasione della rassegna romana dedicata a Remondi e Caporossi.

Pozzo, copione a fumetti disegnato da Riccardo Caporossi. Copione originale dello spettacolo, manoscritto, gentilmente fornito dagli

autori. Recensioni dello spettacolo (vedi la bibliografia). Intervista a Remondi e CaporoSSi, cito Fabio Bartoli, Pozzo (1978), op. cito Barbara De Miro, Il sostantivo singolare di Claudio Remondi e Riccardo

Caporossi, cit.

4 Dato che la sala nOI1 aveva un soffitto praticabile in graticciato, nasco­sto da un arlecchino, come sarà nelle successive rappresentazioni di Pozzo in teatro, la pietra non compariva direttamente dall'alto. Era sistemata in un foro in alto su una parete, appena sotto il sallito, nascosta da un foglio di carta bianco che la mimetizzava. Al momento dell'apparizione, sfondava il

OMINIDE. Azione scenica di Remondi e Caporossi. Anno di pro­duzione 1979.

Non si tratta di uno spettacolo vero e proprio. Più che altro è un'auto-esposizione di Remondi e Caporossi che allesti­scono un ambiente con oggetti e materiali provenienti dal loro passato artistico e privato.

L'azione è totalmente affidata agli spettatori: gli attori non vi prendono parte. Dopo aver prenotato il proprio turno d'ingresso lo spettatore accede alla Sala Pozzo (quella usata per l'omonimo spettacolo) attraverso la garitta girevole che era stata utilizzata in Rotòbolo. La garitta vien fatta l'notare dal custode che avverte lo spettatore del tempo a disposizione: dieci minuti. La garitta è l'unico passaggio per la cantina ed è inserita in una parete divisoria costruita con i mattoni di Cottimisti. Lo spetta­tore in assoluta solitudine incontra due manichini con divise da custodi che fanno la guardia a un pezzo di tronco di ulivo. Il tronco, lavorato dai due attori, assomiglia allo scheletro di un uomo accovacciato a terra. In un angolo c'è uno specchio. Lo spettatore può girare liberamente in questo spazio bianco calce, che ricorda una cripta, per dieci minuti, fin a quando un cam­panello non lo avverte che il suo tempo è scaduto.

Fonti per la descrizione dello spetracolo: Foto in B/N, prive dell'indicazione dell'autore e della data in cui sono

state scattate, fornite da Remondi e Caporossi. Copione originale dello spettacolo, dattiloscritto, gentilmente concesso

dagli autori. Intervista a Remondi e Caporossi, cito Recensioni dello spettacolo (vedi la bibliografia). Fabio Bartoli, Ominide (1979), op. cito Barbara De Miro, Il sostantivo singolare di Claudio Remondi e Riccardo

CaporosJi, cito

foglio di carta e raggiungeva la perpendicolare del pozzo scorrendo appesa a 'l' un canaletto scavato nel soffitto. .

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Il.

ANTIGONE. Riduzione da Sofocle di Remondi e Caporossi, diret­ta da Remondi e Capo rossi. Anno di produzione 1981. Personaggi e interpreti: CREaNTE, Claudio Remondi ANTIGONE, Sabina de Guida TIRESIA, Piero Orsini IL SELVAGGIO, Piero Cegalin. Tecnici fuori scena: Riccardo Caporassi e Lilla Monachesi.

Lo spettacolo è allestito in un capannone industriale vuo­to, tra Ostia e Fiumicino, alI'esterno del quale, sulla vetrata in alto, campeggia la scritta "Antigone".

Lo spazio all'interno è rettangolare, ed è immerso in una luce bianca piena e fissa. Posti rispettivamente nei pressi dei due lati più corti del rettangolo si trovano un grosso muro ricurvo, in mattoni di tufo, e una gradinata semicircolare con diverse sedie per la sistemazione del pubblico. Tra questi due elementi si stende un manto di ghiaia bianca a grana grossa che forma una duna alta all'incirca tre metri immediatamente davanti al muro di tufo (fig. n. 17).

Il pubblico, quando entra, trova, sulla distesa di ghiaia, una grossa corda (circa 12 cm di diametro) del tipo di quella utilizzata per gli ormeggi pesanti. Partendo dalla duna, la corda disegna per terra una grossa spirale, al centro della quale è stesa, raggomitolata in posizione fetale, una piccola donna che veste una calzamaglia color carne. In lei si potrà facilmente riconoscere il personaggio di Antigone.

Sul ciglio del muro compare un uomo selvaggio, seminudo. I suoi movimenti sono animaleschi, e cammina a quattro zampe.

Lentamente la grossa spirale di fune si scompone in tanti piccoli segmenti, tirati da altrettante corde più piccole che scor­rono sotto il pietrisco. I segmenti procedono verso il muro e spariscono in un cunicolo alla base della duna oppure dietro di essa dopo averla superata. Durante questa operazione, della durata di una decina di minuti circa, l'unico rumore in scena è quello della ghiaia rimossa. Antigone cerca di trattenere la corda e V1ene trascinata fino alla grande duna.

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Sulla porta laterale SInistra del lnuro (che è posta a una certa altezza da terra e si affaccia su di un piccolo cumulo di ghiaia) spunta Creante vestito di un abito in pelle nera (pan­taloncini corti e un panciotto). Si lascia cadere sul pietrisco, corre alla duna e arranca per raggiungere la vetta. Una volta sopra al cumulo di brecciolino inizia un monologo (recitato accademicamente) con il quale intende ricordare agli astanti che la legge si impone e gli uomini devono ubbidire; e per questa ragione la salma di Polinice. non deve essere sepolta.

Il selvaggio, dal ciglio del muro, lancia dei sassolini verso la porta di destra, dove appare Tiresia, narratore cieco, vestito di una tunichetta rossa (ha in Inano una sedia e un libro). Tiresia, guidato dal rumore dei sassi che il selvaggio continua a gettargli innanzi, giunge di fronte al pubblico e si accomoda sulla sedia che porta con sé. Leggendo in braille, pronuncia i suoi vaticinio Nel contempo Creante perviene al suo trono sul punto più alto della gradinata dietro gli spettatori.

Al tennine del n10nologo di Tiresia inizia un aspro e duro dialogo tra il tiranno e Antigone che era restata accovacciata ai piedi della duna. Mentre parla, la protagonista indossa un abito di corde. Avanza poi sfilando a una a una le corde dell'abito e anno­dandole l'una all'altra in modo da formare un solo grosso filo (fig. n. 18). Viene fermata dal selvaggio che la cattura e la trascina di nuovo ai piedi del cumulo di ghiaia. Poi il selvaggio sparisce. Antigone ricomincia ad avanzare e ad annodare le corde, parla mescolando i ricordi dei fratelli morti alle frasi di ribellione. Recita con una cadenza piatta e monotona, ripetendo sempre lo stesso gesto, con la fredda determinazione di un robot. Creante scende dal trono e si aggira tra il pubblico. Antlgone arriva alla base della gradinata e poi, quando Creante ha decretato anche la sua condanna, si allontana. Il dialogo prosegue tra il tiranno e Tiresia, finchè anche Creante esce lasciando il narratore a pronun­ciare da solo i suoi vaticinio

Il selvaggio appare e scompare. Tiresia si alza e si allon­tana: esce da dove è entrato, lasciando il libro sulla sedia. Creante appare sulla grande duna e scende lentamente, portando tra le braccia Antigone rannicchiata in posizione fetale. Dichiara che

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la sua condanna a morte purificherà il suo regno. Pone la donna al centro della spianata. Antigone ricomincia a recitare, questa volta in tono pill rassegnato, e continua ad annodare le corde.

Creante, piangendo la morte del figlio, lancia palate di breccia sulla cima della grande duna, finché cade sfinito sul pendio di pietrisco. Si rialza e ritorna sulla porta dalla quale era apparso; di spalle al pubblico si lascia cadere al di là del muro.

Antigone, sola in scena torna indietro verso il cumulo di ghiaia e annoda l'ultima corda alle altre, formando una grossa matassa che porta in spalla.

I! selvaggio appare e scompare per l'ultima volta. La protagonista, recitando quasi un addio al mondo, arriva

alla duna di pietrisco, depone la matassa di corda e si "auto-tumu­la" sparendo all'interno della feritoia centrale del cumulo.

Fonti per la descrizione dello spettacolo: Foto dello spettacolo in B/N prive delPindicazione dell'autore, scattate al

Capannone Industriale nel 1982, gentilmente concesse da Remondi e Caporossi. Copione originale dello spettacolo, manoscritto, gentilmente fornito dagli

autori. Recensioni dello spettacolo (vedi la bibliografia). Intervista a Remondi e Capot'orsi, cito Barbara De Miro, II sostantivo singolare di Claudio Remondi e Riccardo

Caporossi, dt.

TEATRO. Scritto, diretto e interpretato da Claudio Remondi e Riccardo Caporossi. Anno di produzione 1982.

La rappresentazione si svolge in un teatro tradizionale. All'inizio la sala è completamente buia, solo un "occhio di bue" (un proiettore con fascio di luce molto concentrato e sagomato a circolo) illumina due personaggi, seduti su una panchina, sul proscenio, spalle al pubblico. Vestono entrambi un completo nero con un cappello floscio. Caporassi calza grossi e vecchi scarponi. Sono immobili e si sostengono a vicenda, di fronte a un sipario formato da una grossa corda bianca, intrecciata come un enorme lavoro a maglia (fig. n. 19).

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Lentamente si illumina il sipario di luce radente e si sentono tre colpi (che nel copione vengono definiti di inizio spettacolo). Dopo aver sentito il rumore i due attori cominciano a muoversi. Remondi va verso il sipario, Capol'Ossi accenna a suonare il violino che aveva nascosto tra le braccia~ chiuso nella sua custodia. Poi ritornano seduti nella posizione di prima.

Si sentono altri tre colpi. I due attori si sistemano alle estre­mità della panchina e afferrano due capi di corda pendenti alla base del sipario. Ancora tre colpi d'inizio. Remondi e Caporossi cominciano a tirare la corda e a disfare il sipario, con movimenti ritmici. Aprono così una piccola apertura al centro ed entrambi la esplorano brevemente. Risuonano altri tre colpi e i due personaggi si risiedono sulla panchina ricominciando a sfilare la corda.

I! sipario è formato da singole fasce di corda intrecciata che scendono dal graticciato. La corda sfilata si accumula ai lati della panca. Quando hanno disfatto due fasce di corda intrecciata, Re­mondi e Caporossi ottengono un'apertura abbastanza grande per consentire il passaggio. Entrambi sono curiosi di esplorare il buio al di là del sipario. Caporossi è più intraprendente e avanza nel palcoscenico: nel buio appende la sua giacca a un attaccapanni sospeso a un filo invisibile. Remondi invece è più prudente e tenta di trattenere il compagno. Ritornano alla panchina e, uno di spalle all'altro ricominciano a tirare la corda. Il varco nel sipado è sem­pre più grande. Caporossi si prepam a suonare il violino ma risuo­nano di nuovo tre colpi che lo interrompono. Deposita il violino nel buio e ricomincia a sfilare. L'apertura è sempre più grande e i due attori si fermano a osservarla.

I due personaggi dividono la panca in due metà che sistemano ai lati del palcoscenico. Contemporaneamente la corda si accumula al suolo. Riuniscono le panchine e, uno di spalle all'altro, di profilo al pubblico, proseguono la loro fatica. Stanchi, Remondi e Caporossi sembrano addormentarsi. Caporossi però si alza e si rimette la giacca che aveva lasciato al di là del sipario; si appresta a suonare il vi'alino ma si arresta, cadendo a terra come un fantoccio floscio. Il rumore della caduta sveglia Remondi. Insieme a Caporossi ricomincia a sfilare la corda, questa volta restando in piedi.

I due personaggi sistemano i panchetti oltre il sipario. Con-

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sumano un frugalissimo pasto e poi ricominciano. Remondi recita: «e se tra di noi un giorno ci fosse una rottura?». Subito dopo iniziano a portare i mucchi di corda ammassati a terra verso i lati del palcoscenico. Si ritrovano entrambi a prendere uno stesso mucchio di corda e inscenano un tiro alla fune. Remondi è più agitato. Dall'alto cade un pezzetto di corda annodato che Remondi raccoglie e getta nel buio del palcoscenico.

Al di là del sipario c'è una corda stesa a terra che attraversa tutto il palcoscenico. I due attori la tendono e la sollevano sopra le loro teste. La corda resta in questa posizione e sembra suggerire ai due personaggi la prf'senza di un muro. Infatti cercano di vedere cosa ci sia dall'altra parte, finché Relllondi scavalca la corda-muro. I due compagni si ritrovano separati, uno di fronte all'altro. La corda si abbassa e Remondi e Caporossi cercano di abbracciarsi, ma la corda risale e li divide.

Poi la corda si riabbassa, Remondi passa al di là sparendo nel buio. Caporossi resta in luce e sale sulla panca per affacciarsi oltre la corda, guardando il pubblico, poi aha le mani oltre la corda e manda dei messaggi con l'alfabeto dei sordo-muti. Inscena, con le scarpe, una serie di giochi sopra la corda, poi tira le scarpe in alto, le riafferra e si mette in disparte (al di qua del muro). Entra Remondi con in mano tre piumini colorati (secondo il co­pione dovrebbero essere pennacchi di carabinieri). Mentre incede con passo marziale la corda cade e i due attori scappano via, la­sciando gli scarponi di Capol'Ossi in scena.

La corda si tende di nuovo ma questa volta lungo la diagonale del boccascena. Caporossi appare su una bicicletta inserita in una grande ruota, e si inerpica sulla fune, portando con se il violino; avanza entrando in un cerchio di luce verso il centro della scena e poi sparisce (fig. n. 20). Remondi segue meravigliato la sua acrobazia e poi si siede sulla panchina e ascolta il suono di un violino in lontananza.

I resti del sipario disfatto, sparsi per terra in mucchi di corde, vengono tirati fuori scena da due macchinisti nascosti dietro le quinte anteriori delle due estremità del palcoscenico. La musica si fa sempre più impetuosa e poi tace improvvisamente. Remondi va a prendere della corda che deposita in un mucchio al centro

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della scena. Rumore di un campanello, quindi Remondi porta in scena un grosso gomitolo di corda e lo sistema dietro il lllucchio.

Appare Caporossi che si nasconde dietro al gomitolo. I due si rincorrono e poi si fermano per ricominciare a disfare l'ultima parte del sipario. Giocano con la corda usandola come vestito e come ornaillento e formano due n1ucchi ai lati della scena. Alla fine si liberano di tutti i resti della corda, si diri­gono verso il gOlllitolo e lo fanno rotolare in avanti fino ad assestarlo sul mucchio di corda. Rotolando, il gomitolo rivela alla vista del pubblico una panchina che, alla fine della rotazio­ne, resta fissata alla sommità, in posizione orizzontale. Entrambi gli attori, con in mano i capi delle corde che compongono le ultime parti del sipario, si siedono sulla panchina, in cima al gomitolo. Remondi recita: «È inutile che ci facciamo illusioni, dopotutto apparrerrelllO sempre a due mondi diversi». Quindi disfano molto in fretta l'ultima parte del sipario finché gli estremi della corda non cadono a terra.

Allora Caporossi prende da dietro il gomitolo un lavoro a maglia e comincia a sferruzzare. Remondi incuriosito chiede: «cosa mi fai? un maglione? una berretta? una sciarpa?» Capo­rossi resta muto. Allora Remondi con estrema gioia esclama: «un sipario!». Il compagno sogghigna.

Due corde tese verticalmente dai lati dell'arcoscenico, si avvicinano al centro e di allontanano, per varie volte (simulando il sipario teatrale che, a fine spettacolo, copre e svela gli attori al pubblico per gli applausi). Ogni volta che le corde si chiu­dono i due attori si comportano come se il pubblico non li vedesse. Alla fine, nel buio, resta illuminato solo il gomitolo, finché anche l'ultima luce pian piano si affìevo(isce.

Fonti per la descrizione dello spettacolo: Video dello spettacolo in B/N registraro al Teatro Comunale di Narni, di cui

non conosciamo la dara né l'autore. Gentilmente concesso da Remondi e Caporossi. Disegni ispirati allo spettacolo di Riccardo Caporossi. Foto dello spettacolo in B/N di Cesare Accetta, scattate al Capannone

Industriale di Ostia nel 1982, e al Teatro Olimpico di Roma nell'ottobre del 1985, nell'ambito della rassegna Illusi ... , gentilmente concesse dall'autore.

Copione originale dello spettacolo, manoscritto, gentilmente fornito dagli autori.

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Intervista a Remondi e Caporo!si, cito Recensioni dello spettacolo (vedi la bibliografia). Barbara De Miro, Il sostantivo singolare di Claudio Remondi e Riccardo

Caporossi, cito

Bosco. Scritto e diretto da Remondi e Caporossi. Anno di pro­duzione 1983. Personaggi e interpreti: PITTORE, Riccardo Caporossi POETA, Claudio Remondi CREATURE DEL BOSCO, Giulia Ripandelli, Sandra Ugolini,

Lucia Viglianti.

Lo spettacolo è ideato per uno spazio teatrale tradizionale. Quando il sipario si apre, al centro del riquadro del boccascena si erge il tronco di un albero la cui cima sparisce in alto e non è visibile. Una luce proietta sul piano del palcoscenico l'ombra del lungo tronco. Davanti all'albero, sulla scena, ci sono un cavalletto da segheria e la cappottina della buca del suggeritore.

Si sente il rumore di una sega e, annunciati dalla propria ombra, appaiono dall'alto del boccascena Remondi e Caporossi che segano verticalmente il fusto. Sono seduti su una specie di strana altalena che scorre all'interno della fessura aperta da una grande sega a quattro mani che i due attori muovono ritmicarilente5• Così facendo altalenano e scendono lentamente lungo il tronco. Capo­rossi indossa un costume composto da un. paio di pantaloni alla zuava, retti da bretelle, una camicia bianca e un cappello floscio da pittore, ai piedi calza due grossi scarponi. Remondi indossa un paio di calzoni normali, retti da bretelle, una camicia bianca e un cappello panama bianco. Caporossi è più esile del compagno e quindi, sotto il proprio sedile, ha appeso un masso che fa da con­trappeso. Durante la discesa, talvolta si fermano e si studiano at-

5 Da notare che il dondolo scorre nella fessura che la sega dovrebbe aprire, ma prima che la sega abbia ipoteticamente tagliato il legno.

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traverso la fenditura; oppure il pittore ritocca la corteccia del tron­co con i colori e il poeta legge.

Giunti alla base si sistemano uno di fronte all'altro, avendo al centro il tronco, poi il poeta fa ruotare l'albero, mettendone una parte in ombra. Il taglio della sega è cosÌ visibile al centro del tronco. I due attori scambiano poche battute tra di loro. Remondi aziona con la mano un attrezzo, simile a una piccola pressa, che, spezzando un minuscolo pezzo di legno, simula il rumore dello schianto di un albero che si spezza. Al rumore il mezzo tronco dal lato del pittore crolla lentalTIente verso le quinte, ma la sua cima resta sempre fuori scena. Il mezzo t(onco è inclinato come se fosse appoggiato sulla propria chioma. Caporossi ripete l'azione del compagno con la piccola pressa e crolla lentamente anche l'altro mezzo tronco. Nel riquadro del boccascena il tronco dell'albero è aperto in due metà. I due attori si siedono sulla cupoletta del suggeritore e osservano il tronco spaccato.

Dal lato della scena, passando sulle due metà del tronco, entrano tre ragazze, vestite di veli leggeri e 1TIulticolori. Canta­no dolcemente emettendo a ripetizione tre o quattro note ugua­li con voce acuta di testa. Spariscono dall'altro lato della scena sotto gli sguardi interessati dei due personaggi. Caporossi pren­de un innaffiatoio dalla buca del suggeritore e innaffia la pro­pria metà di tronco, che, con vari sussulti, raggiunge di nuovo la posizione verricalé. Remondi vorrebbe riabbattere il mezzo tronco e si avvicina alla pressa che produce il rumore dello scbianto. È però interrotto dall' apparizione delle tre ninfe che ripetono la stessa azione di prima, mentre la metà verticale del tronco ritorna in posizione obliqua per farle passare. Quando Remondi si avvede che il tronco è già abbattuto, aziona lo stesso il meccanismo perché, dice, «mi piace lo stesso»7.

Il pittore è affascinato da queste apparizioni e siede tra­sognato tra i due mezzi tronchi a canticchiare. Con sua sorpresa

6 Prima di prendere Pinnaffiatoio dalla buca del suggeritore chiede: «Che cosa mi suggerisci?». Pronuncerà la stessa frase anche in seguito quando ri­peterà l'azione.

7 Dal copione originale dello spettacolo, pago 4.

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gli risponde un'eco; mentre il poeta traffica alla base del tronco. Per breve tempo appare in scena una delle ninfe e lascia cadere un lembo del vestito per terra, mentre da lontano si ode un canto. Le due metà di tronco si dividono e vengono trascinate ognuna da un lato della scena fino a sparire.

Entrano una alla volta le altre due ninfe, sempre cantando, e lasciano cadere, separatmnente, due lembi dei loro vestiti. Da qui parte una delicata scena durante la quale si svolge un gioco con i lembi di stoffa: prima le ninfe e poi Remondi e Caporassi raccol­gono, lasciano cadere e raccolgono di nuovo i lelnbi colorati in vario modo, scambiandoseli v.icendevohnente. L'ultimo lembo vie­ne raccolto da una ninfa che esce velocemente.

Remondi e Caporossi siedono sulla cupoletta del suggeritore e guardano l'ombra del tronco d'albero (ora aperta in due) che è rimasta visibile sul suolo, anche se il tronco è materialmente assen­te. Il pittore ripete l'operazione iniziale con l'innaffiatoio e l'ombra si sposta assumendo una posizione verticale. Il poeta aziona la piccola pressa che provoca il rumore dello schianto, ma non ne ricava alcun suono in quanto manca il minuscolo pezzo di legno da rompere. L'ombra descrive il crollo del mezzo tronco del pitto­re. Il poeta si nasconde nella buca del suggeritore.

Rientrano le tre ninfe vestite con veli di colore diverso, seguendo l'ombra dell'albero, come se ballassero al suono di una musica. Capotassi estrae dall'innaffiatoio dei campanacci che però non producono alcun rumore. Il poeta, uscito nel frattempo dal suo nascondiglio, cerca di far comprendere al pittore che i cam­panacci non suonano poiché al loro interno ci sono dei fazzolet­ti. Remondi esce di scena.

Le tre fatine cominciano a giocare tra di loro gettandosi una palla di stracci da una parte all'altra della scena, e rincor­l'endosi vorticosamente intorno al pittore, finché la palla non si disfa negli indumenti del poeta. Le tre creature indossano ri­spettivamente il cappello, la giubba e il pantalone, assumendo poi una posizione che le fa assomigliare a un gigantesco fantoc­cio dalle sembianze del poeta. Poi escono, saltellando e lascian­do in scena il cappello.

Rientra Remondi che riconosce il suo cappello e tenta di

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ripl'enderselo, ma Caporossi se ne impossessa. Giocando estrae dal cappello tre fazzoletti colorati, assumendo le pose di un prestigiatore. Rientrano le tre ninfe e riprendono i loro fazzo­letti. Remondi e Caporossi cominciano a costruire una gabbia triangolare intorno alle creature, servendosi di travette di legno quadrate lunghe quattro metri che vengono lanciate in scena dalle quinte8 . Le tre creature in gabbia cantano. Come ipnotiz­zati i due attori scompongono la gabbia e costruiscono, al cen­tro scena, una diversa architettura, quasi una scultura.

Le tre creature, liberate, si avvicinano alla scultura e la girano, quasi per mostrarla meglio al pubblico. Una di loro comincia a suonare il sassofono, mentre il poeta e il pittore escono (fig. n. 22). Rientrano di lì a poco con due asce in mano che, nel finale, incrociano, fermi in una posa plastica.

Fonti per la descrizione dello spettacolo: Foto dello spettacolo in B/N di Cesare Accetta, scattate al Teatro Valle

di Roma nel 1984, gentilmente fornite dall'autore. Copione originale dello spettacolo, manoscritto, gentilmente fornito dagli

autori. Recensioni dello spettacolo (vedi la bibliografia). Intervista a Remondi e CaporoSJi, cito Barbara De Mim, Il sostantivo singolare di Claudio Remondi e Riccardo

Capor()JJi, cito

8 In realtà le travette (cm 8 x cm 8 x cm 400) sono in vetmresina dipinta in modo tale da apparil'e di abete stagionato. In tutto le travette sono trenta. \

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IV LA RICERCA DELL'UNITÀ

L!uso del teatro

Il tema autobiografico, le riflessioni sulle proprie espe­rienze, diventano, in questo periodo, .il nucleo tematico fonda­mentale della produzione artistica di Remondi e Caparossi. Questi spunti, tuttavia, non vengono alla luce all'improvviso, ma emer­gono da un lungo processo che affiora già negli spettacoli pte­cedenti.

Richiami autobiografici sono presenti, ad esempio, in Cottimisti, dove i costumi dei due personaggi (i pantaloni lun­ghi di Remondi e quelli cotti di Caporossi) rimandano alla notevole differenza di età tra i due attori. Se poi, in Bosco, Renl0ndi e Caporossi giocano con le loro immagini convenzio­nali, "il Pittore" e "il Poeta", è vero anche che, in Teatro, la battuta di Remondi, che allude alla eterna sepatazione delle due unità incarnate in scena da loro stessi, introduce una riflessione intima e malinconica sul privato della coppia di autori.

Certatnente autobiografico è anche 1'elemento usato come base di partenza per l'allestimento di Caduta (1984): un peri­coloso incidente, una cadutà' da un'impalcatura, appunto, che costringe Remondi a una lunga degenza e a un'altrettanto lun­ga convalescenza. Diremo subito che lo spettacolo rappresenta un punto abbastanza isolato all'interno della proéluzione artIstI­ca della coppia di autori. Prioritarla era infatti l'esigenza di non prolungare troppo .il periodo di inattività, pur tenendo conto dello stato di salute di Remondi, non ancora completamente ristabilito. In Caduta l'attore infatti compare in scena in vesta­glia da camera, e resta fermo davanti a un leggio, recitando la Lamentatio Doctor;, FauJti tratta dal Doctor FauJtuJ di Thomas Mann.

La forzata immobilità di Remondi attira l'attenzione dei

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due autori sulla parola e quindi sul suono, scisso nelle sue componenti fondamentali (parola - musica - canto) senza una particolare gerarchia qualitativa tra le parti. In questo ambito trovano un' appropriata collocazione le improvvisazioni free di un trio jazzistico e i vocalizzi di tre attrici (le stesse che imperso­navano le ninfe in Bosco) che scandiscono lo spettacolo. Proprio quella componente sonora, tanto controllata e ri.dotta nei prece­denti lavori di Remondi e Caporo,si, qui diventa il fulcro dello spettacolo; al punto da spingere Nicola Fano a riconoscervi «l'intenzione di spettacolarizzare una lettura tramite un impian­to espressivo free», il tentativo di usare una tecnica propriamen­te jazzistica per una materia teatrale1

Caduta possiede le caratteristiche proprie di un'opera che si pone in un momento di passaggio dell'attività di Remondi e Caporossi, non solo per la messa in disparte dei modi di rappre­sentazione consueti alla coppia di autori, ma anche perché lascia intravedere il superamento di quella riflessione sullo spazio teatra­le di cui abbiamo parlato nel precedente capitolo. Da questo momento il teatro non è considerato l'oggetto dello spettacolo ma viene "usato" dai due autori e quindi accettato a priori come luogo della rappresentazione. Questa evoluzione è comprovata, del resto, dall'uso delle luci, che trova applicazioni più elaborate come il neon sagomato che disegna la figura di un rubinetto mentre lascia cadere una goccia che va a rompersi sul palcoscenico. È evidente che la caduta della goccia introduce e rimanda ad alrre cadure quali sono i temi portanti dello spettacolo: quella di Remondi da un'impalcatura durante una prova di Cottimisti e quella del Dortor Faust destinato a precipitare negli inferi.

Bisogna contemporaneamente tener presente che durante la rappresentazione, sullo sfondo della scena, vi sono alcune invenzioni pittoriche, luci, teli dipinti che scorrono, immagini di farfalle: rutte opere di Caporassi (che agisce principalmente fuori scena, e appare solo nel finale). È. un modo di concepire l'allestimento del lavora teatrale che ci riporta alla mente Térote dove Caporossi, appunto, interveniva su un monologo di Re-

1 Nicola Fano, Dr. Faust a ritmo di jazz, in "l'Unità", 10 aprile 1984.

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mondi mediante i disegni tracciati sulla parete di fondo. Caduta comunque, forse proprio per la sua unicità, non rivela un par­ticolare uso delle macchine o dei materiali, che si ripropone invece nello spettacolo successivo: Spèra (1985).

Se con Teatro ci trovavmno di fronte alla infinita manipo­lazione di un materiale specifico (la corda), in questo spettacolo assistiamo a una «commedia senza parole)}, come viene definita nel copione, "scritta" con quegli oggetti che sono ormai diven­tati familiari alla poetica di Remondi e Caporassi: la sfera, gli scarponi e i cappelli.

Una provata caratteristica dei due autori è quella di mettere in scena un particolare oggetto o materiale quando è stato comple­tamente assimilato nella loro memoria, quando, dopo una presenza quasi invisibile nella loro vita quotidiana e artistica, assume im­provvisamente, a causa di una associazione di idee o di una parti­colare sollecitazione emotiva, dei significati nuovi e inaspettati2

Gli scarponi, ad esempio, oltre a essere una costante, insieme ai cappelli, di molti spettacoli di Remondi e "-'Caporossi, riflettono una loro memoria emotiva privata. Gli scarponi, come afferlnano gli stessi autori,- sono elementi tipici dell'abito, quin­di vicini all'uomo; ma acquistano ancora più valore alla luce di quanto ricorda Remondi: «Mio padre era artigiano edile. Ha lasciato un paio di scarponi che aveva usato negli ultimi dieci anni della sua vita. Riccardo [Caporossi] li ha visti, li ha indos­sati e da sempre se li sta portando dietro. Sono cose che il pubblico non sa, ma che per noi sono molto importanti».

Inoltre la messa in scena di Spèra conferma il fascino che la figura geometrica del cerchio ha su Remondi e Caporossi. La stessa immagine della sfera era presente nella grande palla metallica di Cottimisti, attrezzo demolitorio, nel gigantesco go­mitolo in cui si arrotolava il sipario in Teatro, ma anche nella semisfera che imprigionava uno dei due -Personaggi in Sacco. È insomma un altro di quei continui riferimenti al proprio pas­sato artistico secondo una volontà chiaramente espressa da Re-

2 Ricordiamo a tal proposito la cassa di bottoni di Tèrote e il tronco d'ulivo di Ominide.

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1nondi quando afferlna: «noI trasferiaIllo sempre qualcosa degli spettacoli vecchi in quelli nuovi».

Nello spettacolo ritorna anche l'elemento caratteristico della corda che qui si minimalizza nell'immagine dei tanti fili che, legati agli scarponi e ai cappelli, permettono agli attori e ai loro assistenti fuori scena di "animare" e muovere gli oggetti. Questa caratteristica, oltre a voler affermare la qualità artigiana­le del loro teatro mediante il palesamento del meccanismo, si inserisce sulla funzione comunicante che l'immagine della corda ha negli spettacoli della coppia. Il filo è lo strumento che permette il contatto con gli oggetti. In questo caso la corda-filo non collega più l'uomo con l'uomo (come accadeva in Teatro) ma l'uomo con gli oggetti; e la differenza assume un particolare significato perché in Spè-ra gli oggetti operano come personaggi.

In Spèra però - ed è questa una novità tispetto alle pro­duzioni precedenti - tutti questi elementi materiali non costrin­gono i due personaggi ad alcun lavoro faticoso e alienante, la stessa sfera non assume quell'aria tninacciosa che le era invece attribuita in Cottimisti, e gli oggetti non separano più la coppia di attori in scena ma, al contrario, contribuiscono a creare un canale di comunicazione, problema fondamentale della poetica di Remondi e Caporossi. Lo spettacolo è infatti il continuo interagire dei due personaggi che usano come medium le scar­pe, i cappelli o le sfere. In contrasto con quanto avveniva in Caduta, qui dominano il silenzio e le cose, la cui consistenza materica è subito denunciata quando, nel breve prologo, il si­pario chiuso si gonfia e si ritrae, ripetutamente quasi come se respirasse, o come se non riuscisse a contenere tutto ciò che si trova sul palcoscenico e stesse per traboccare3 •

Subito dopo però, in un gioco di contraddizioni, il sipario si apre su una scena quasi vuota dove al centro c'è una scala in verticale sulla quale, a metà altezza, è ferma una sfera color metallo lucente. L'azione vera e propria inizia nel momento in cui la sfera

3 «lI sipario si prepara, si muove, si gonfia, si allarga, si amplia, si tende, si espande, si impone, si carica, cresce, avanza, incombe, intimorisce, trabocca, ingigantisce, minaccia,), dal copione originale dello spettacolo, Pro­logo, p. 1.

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comincia a dividersi in due metà, una munita di gambe e l'altra di testa, tronco e braccia. Queste due cellule, frutto dell'originaria scissione, saranno le protagoniste di tutto il primo tempo dello spettacolo. Mentre sono ancora sulla scala le due metà lasceranno caderé, rispettivamente, un cappello e una scarpa: saranno proprio questi elementi a innescare i movimenti dei due attori.

Gli oggetti, che si moltiplicano continuamente sul palco, sono considerati quasi alla stregua di personaggi autonomi con i quali è possibile interagire, tanto da poter "reggere" da soli, secondo l'intenzione degli autori, lo spettacolo. Scrive "a propo­sito Rodolfo Di Giammarco: «Non può non porsi rilievo anche all'oggetteria animata: cosÌ, ecco promossi al ruolo di attori i cappelli borsalino che si fanno imprendibili o si sdoppiano al­l'infinito, ecco i familiari scarponi di Remondi e Caporossi dialogare coi feltri, con effetti chapliniani» 4. Del resto fin dal­l'inizio, nella quarta scena, il copione prevede solo «una scarpa e un cappello vicini accanto alla scala»5. Questi oggetti si muovono "autonomamente" (tirati da fili fuori scena), e l'inter­vallo ha come protagonista un cappell~ che si solleva a un metro e settantacinque centimetri sopra un paio di scarpe.

Gli oggetti possono anche mutare la realtà dei personaggi, basta infatti che un cappello venga appoggiato sulla semisfera fornita delle gambe (momentaneamente rovesciata) e questa si munisce, di conseguenza, e all'inverso, di una testa e un busto. Remondi, nel secondo tempo, si meraviglia che tra le scarpe e il cappello, sepa­rati durante l'intervallo, manchi la persona; quasi come se la pre­senza di questi due elementi fosse indissolubilmente legata alla presenza umana. Insomma, ancora una volta, i personaggi inter­pretati da Remondi e Caporossi riscoprono una protonda umanità;

4 Rodolfo di Giammarco, Qttesta è ingegneria astrale, "La Repubblica", 13 novembre 1985. Rita Cirio, a proposito, scrive: «Tra le loro "dramaris per­some" (che sono mattoni, sacchi, pozzi, ruote, corde, tubi, pietre, bulloni, chiavi inglesi, argani, carriole, paracaduti, campanacci da mucca, secchi, assi di legno, carrucole, cuscinetti a sfera) Remondi e Caporossi sembrano avere un occhio amoroso soprattutto per la sfera», in Chi spera e chi dispera, "L'Espres­so", 8 dicembre 1985.

~ Copione originale dello spettacolo, Quarta Scena, p. 4.

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rivelano un loro mondo poetico, legandosi strettmnente alla mate­da delle cose. Ancora una volta i "due omini" assomigliano sempre di più a dei fumetti, poiché si inseriscono in un quadro scenico usato come la cornice di una strip i:tll'interno della quale è lecito umanizzare le cose: in questo modo anche i due personaggi, alla stessa maniera degli scarponi, dei cappelli, della corda, dei matto­ni, diventano più che altro simboli o metafore dell'universo poe­tico di Remondi e Caporassi.

Se, come abbiamo già accennato, in Spèra la componente del lavoro è assente nella sua accezione comune di fatica, ciò non toglie che la nozione di lavoro sia presente, e che magari si trasformi, assumendo il significato più intimo di ricerca. A partire infatti dalla scissione iniziale, tutto lo spettacolo consiste nella continua ricerca di qualcosa, degli scarponi o dei cappel­li, del compagno, ma è soprattutto la dcerca della propria unità.

Anche nel copione notiamo che non si parla mai di due personaggi distinti ma di due metà che si dividono sempre di più fino ad assumere i nomi di «uno» e «due», quando abban­doneranno le semisfere. L'unità di cui si parla può essere intesa come la possibilità di una comunicazione reale, di un rapporto intenso: proprio la qualità che - sembrano suggerirci Remondi e Caporossi - caratterizza l'essere umano. L'umanità sta proprio nella capacità di unire all'interno del soggetto le scissioni, i due contrari, le due metà complementari, la logica e l'istinto.

Sulla separazione i due autori avevano già basato alcuni loro lavori, come Sacco, ad esempio, dove Caporossi era "pura logica repressiva" e Remondi "puro istinto vitale". Questo motivo ritorna in Spèra. Infatti nel primo atto Remondi incarna la parte inferiore del corpo, da sempre sede dell'istinto, e per lui, nel copione, si usa 1'espressione «sente» quando si accorge di qualcosa, mentre la stessa azione è segnalata con il termine «nota» quando è compiuta da Caporossi che espone invece la parte alta della figura e la testa, simbolo esplicito dell'intelletto e del ragionamento cosciente.

Anche quando hanno ormai abbandonato le se1nisfere, la divisione dei ruoli è conservata, Nella scena decima del primo tempo, infatti, Remondi è a tena, vitale, e vonebbe esprimersi in qualche modo, parlare o gridare, ma Caporossi, in piedi, lo zittisce

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con il semplice gesto del dito, assumendo un atteggiamento freddo e distaccato. Allora la separazione sembra accentuarsi dato che Remondi insiste nella propria vitalità istintiva cominciando a emettere i versi di vad animali. È evidente COlne in questo caso il gioco di contraddizioni, instituito nel prologo del sipario, conti­nui. Infatti, subito dopo la scena qui descritta, che potrebbe sug­gedre una inimediabile scissione, Caporossi si arrampica sulla scala, lascia le proprie scarpe a terra e i pantaloni appesi sulla scala; a sua volta Remondi vi aggiunge la giacca ed ecco ricomposta l'unità di cui si erano quasi perdute le speranze.

Tutto lo spettacolo è condotto sulla complen1entarità dei due personaggi; ognuno infatti possiede una gran quantità di ciò che l'altro cerca: Remondi ha molti cappelli mentre Capo­rossi ha molti scarponi. Sempre questi oggetti aiutano a sta­bilire un contatto, o ne sono semplici testimoni; sono, a volte, i sitnboli dell'unione inscindibile che si instaura tra i due attori quando, ad esempio, si 1"Ìtrovano legati per i lacci delle scarpe e, malgrado gli sforzi, non riescono a separarle e devono quindi lasciarle in scena forse prop1"Ìo come testimonianza di un lega­me. Quest'ultimo, in quanto tale, può anche essere considerato limitante, ma resta l'unica possibilità di sopravvivenza dell'uma­nità personale: proprio questa opposizione interna è difficile da accettare. la ricerca di unità è costellata da sentimenti contrap­posti che devono trovare una forma di coesistenza.

Dalla iniziale scissione della sfera sulla scala esplode una moltitudine di personaggi - sia cose che persone - e in que­st' ottica Remondi e Capo rossi non sono delle individualità ma, per ogni scena, una moltiplicazione di se stessi o meglio di una sola unità, quella iniziale. Gli stessi autori definiscono Spèra «uno sforzo di immaginazione, un sogno lucido, un salto co­sciente nell'illusione di vivere in un mondo popolato da tanti me stesso, da una folla di me: il deserto» 6•

Nel finale dello spettacolo, una simile proliferazione viene subito ricondotta, secondo un processo circolare - ancora una

G Dalla scheda dattiloscritta introduttiva alla rassegna stampa dello spet­tacolo, consei'vata da Remondi e Caporossi.

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volta -, all'unità. Non a caso gli autori ci mostrano una sfera tra un cappello e un paio di scarpe; è una situazione simile a quella della scena iniziale, solo che ora si svolge a terra ed è rivolta al pubblico. È come se lo spazio tra il cappello e le scarpe frutto della scissione iniziale, sottolineato durante l'intervallo, fosse col­nlato con un oggetto fortemente simbolico, che si associa alla nozione di atomo, monade, principio e fine di tutta la realtà. La sfera incarna metaforicamente il nulla infinito al quale si allude­va con lo spazio lasciato tra il cappello e le scarpe: può essere tutto e niente secondo il principio degli stessi autori per il quale dal nulla prolifico, dal deserto può nascere ogni cosa. L'andamen­to circolare della rappresentazione si completa e si rinnova total­mente, come suggerisce la frase che Remondi e Caporossi pon­gono al termine della scheda introduttiva alla rassegna stampa: «sono solo, divento tanti, mi ritrovo solo»7.

Certamente tutto ciò (il contrasto tra solitudine e comuni­cazione, la circolarità, il nulla prolifico) si inserisce nello spettaco­lo, in armonia con la poetica dei due autori, ma lo scarto con la produzione precedente esiste per ciò che riguarda il rapporto con lo spazio scenico. Remondi e Caporossi, come abbiamo già accen­nato, non considerano più il teatro come soggetto della loro rifles­sione ma lo usano dando naturalmente per scontato il fatto di agire al suo interno. Questo processo era già presente in Caduta, ma è da notare che l'intero allestimento appariva singolarmente distante dalle loro abitudini di messa in scena. La peculiarità di Spèra va ricercata nella coesistenza dei consueti modi di rappresentazione dei due autori (specialmente per tutto quanto riguarda la recitazio­ne) con l'uso del teatro all'italiana.

In Spèra Remondi e Caporossi tendono a sfruttare le possi­bilità che sono offerte da un palcoscenico tradizionale (senza co­struire alcun ragionamenco a riguardo, come accadeva in Bosco): scompaiono in alto oltre il boccascena; ricorrono a effetti quasi illusionistici quando uno dei due sparisce dietro la sfera che .gli passa davanti lasciando a terra solo le scarpe e il cappello'.

7 Ivi. S Aggeo Savioli nella recensione allo spettacolo parla di. cappelli. e. sc~~­

poni che «mediante semplici trucchi (ma ce ne sono anche dI raffinatISSImI e

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lo stesso Capo rossi afferma che in questo spettacolo inizia un cambiamento della loro attività artistica. Ad esempio è eviden­te l'abbandono del carattere "quotidiano" che denotava i preceden­ti allestimenti, e l'apertura ad atmosfere più lnetafisiche e surreali, suggerite principalmente dalla presenza delle sfere color metallo. Se un sacco, un muro o un sipario sono oggetti fortenlente radicati nel concreto, il linguaggio scenico di Remondi e Caporossi può operare il passaggio a un ambito di completa astrazione solo, e cOlllunque, grazie alla presenza attiva di un oggetto: la sfera che, come afferma Paolo lucchesini, «è una forma magica, l'unica a possedere il segreto del movimento», assommando le miriadi di associazioni che questa figura geometrica può suggerire. Certo un contributo verso questa dimensione astratta viene anche dalla as­senza del lavoro inteso come fatica fisica e quindi dall'assenza di una dimensione temporale reale. L'assenza di oggettivi parametri temporali (fatta eccezione per l'intervallo) rende questo spettacolo particolarmente aperto alla suggestione di immagini mentali, come quella della distanza tra il cappello e le scarpe che può contenere tutta l'essenza dell'uomo.

Se il "viaggio" che Remondi e Caporossi si accingevano a intraprendere nello spazio scenico tradizionale in Teatro era conno­tato dalla verginità dei soggetti agenti nei confronti del mondo da esplorare, in Spèra il "viaggio" procede, ma con la coscienza propria di chi conduce una ricerca, e per questa ragione lo spettacolo si apre a quelle situazioni concettuali di cui abbiamo accennato.

Usando il teatro all'italiana Remondi e Caporossi mettono da parte il gusto dei materiali "puri" (come i nlattoni, il pie­trisco o la corda, il metallo) per concentrarsi inv(jce sulla dispo­sizione delle immagini all'interno del quadro scenico. Le sfere, che sembrano metalliche (ricordiamo però che sono in vetro re­sina), non sono progettate per fingete di essere di un qualche materiale particolate (al contrario di quanto accadeva in BOHO).

Con il loro (falso) aspetto metallico intendono solo suggerire l'idea di tecnologia.

sorprendenti) si animano», Remondi e Caporossi, piccola odissea nello spazio scenico, in "L'Unità", 17 novembre 1985.

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L'ingresso nello spazio teatrale tradizionale coincide, come era già avvenuto in Teatro e in Bosco, con l'abbandono di quella meccanica, povera ed elementare tipica di Sacco, Richiamo, e con l'avvicinamento a una scenotecnica teatrale, che non si lascia mai andare a miraholanti effetti spettacolari, ma che comunque permette a Capotassi di sparire in alto oltre il boccascena e ricomparire poco dopo di lato in basso; di far girare sul palco, o sospese in aria, varie sfere quasi come se fossero provviste di un movimento autonomo9.

Questa tappa del percorso artistico di Remondi e Capo­rossi coincide inoltre con una scelta di estrema e cosciente economia di segni scenici. Come afferma Franco Quadri, i due attori sono giunti a «una rarefazione assoluta, a un risparmio di gesti [ ... ] ogni atto è minuziosamente programnlato e concreto, sia nelle allusioni sia nei materiali usati» 10.

Se nei precedenti spettacoli (come, ad esempio, Cottimisti o Teatro) riconoscevamo un solo elemento posto in evidenza rispetto comunque ai molti altri presenti in scena, e quindi potevamo adoperare la definizione di "materiali privilegiati" adesso, con Spèra, siamo autorizzati a parlare di una scelta selettiva che tende a escludere tutti gli altri elementi che non siano quelli che gli autori ritengono fondamentali per la rappresentazione.

I due autori manifestano quindi una tendenza alla rarefazio­'ne stilistica che fa sì che, in questo spettacolo, gli unici oggetti "drammatizzati" siano le sfere, gli scarponi e i cappelli l1 . «Ancora una volta», spiega Rodolfo di Giammarco, «Claudio Remondi e Riccardo Caporossi, creano, nel senso esatto di procreare, una dram-

9 Nello stesso articolo Aggeo Savioli elogia comunque la semplicità delle messe in scena di Remondi e Caporossi specialmente in confronto alle «fre­nesie tecnologiche» della nuova spettacolarità che in quegli anni si andava affermando sulle scene italiane.

lO Franco Quadri, Ma alla fine s'incontreranno, "Panorama", 1 dicembre 1985. Paolo Lucchesini si spinge oltre scrivendo: «si nega in buona parte l'eloquenza del gesto, ridotto all'essenziale, più allusivo che palese», II sogno di una cosa per un teatro astratto, "La Nazione", 18 gennaio 1985.

Il A tale elenco si può aggiungere la scala, che va ricondotta però a un esemplificato arredo scenico funzionale.

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maturgia per oggetti, oggettivando qui se stessi senza però smen­tire i sentimenti, le angosce, i fiati irrisori e ridicoli dell'Uomo»12

Il fascino dell'oggetto

Sarà proprio il fascino di un oggetto-macchina che provo­cherà tutta una serie di associazioni nlentali che andranno a forma­re la successiva produzione di Remondi e Caporossi: Ameba (1986),

Chiariamo innanzi tutto che questo spettacolo, più di tutti gli altri, nasce da una gratifica:.done anche soltanto estetica da parte dell'oggetto costruito, tanto è vero che il lavoro così come fu presentato al Teatro Romano di Fiesole, è pri;cipal­mente frutto delle suggestioni che il modellino costruito in scala uno a dieci sollecitava durante le ore di prove-gioco, nelle quali Remondi e Caporossi componevano gli oggetti nelle figu­razioni più svariate fino a trovare quella che più li convinceva13,

La passione per un simile oggetto, un cilindro in vetro­resina di due metri e mezzo trapassato da mazze asportabili di circa sei metri di lunghezza, nacque tempo lJfima, nel 1985, in occasione di un progetto sulla }'ireoze medicea con il Centro Internazionale di Drammaturgia di Fiesole, all'interno di una manifestazione particolarmente elaborata che avrebbe impegna­to, tra gli altri, Remondi e Caporossi, Ronconi, De Simone, Gregoretti. Descritto in breve, il progetto prevedeva la spetta­colarizzazione del centro storico di Firenze mediante varie ini­ziative teatrali di tipo diverso.

Per quanto riguardava il loro contributo, Renl0ndi e Capo­rossi si misero alla ricerca di un oggetto o un'immagine che con­tenesse l'idea del movimento, poiché avevano deciso di lavorate intorno a un'azione spettacolare che fosse itinerante per le strade. L'immagine che suscitò subito il loro interesse fu quella di un

12 Rodolfo di Giammarco, Questa è ingegneria astrale, "La Repubblica", 13 novembre 1985.

13 La genesi principalmente estetica di Ameba è testimoniata anche dal fatto che i due autori ne realizzarono dei modellini in cristallo intesi come semplici oggetti di arredo.

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araldo che potesse interferire con gli altri spettacoli che si svolgrc­vano in contemporanea. Di qui si applicarono, quindi, alla proget­tazIone di un oggetto-macchina capace di movimenti agili in modo da aggirarsi agevolmente anche in spazi stretti e superare gli osta­coli più vari. Tutti questi elementi portarono subito i due autori a collegare la loro idea originale con l'ameba14

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L'impegnativo progetto di Firenze non fu realiz:.mto per motivi economici, ma intanto Remondi e Caporassi avevano ab­bozzato già la prima idea dell'oggetto e sentirono la necessità di non abbandonarla. Furono quindi istituiti, al Centro Interna:cÌona­le di Drammaturgia, nel 1986, in due fasi successive, due labora­tori: il primo mirava al puro studio dell'oggetto ideato, menue il secondo si occupò delle possibilità di spettacolarizzazione e quindi di una ipotetica messa in scena. Durante i laboratori si perfezionò la forma della struttura in vetroresina fino ad arrivare a quella proposta nello spettacolo che conosciamo. Man mano però, in questo periodo di studio, si vennero ad aggiungere nuovi significati e nuove possibilità della macchina-oggetto fino a stravolgere le motivazioni iniziali, fatta salva la caratteristica del movimento. Ma anche quest'ultimo, alla fine, mutò la sua funzione, trasformando quello che doveva eSsere lo spostamento in uno spazio preciso (il centro storico di Firenze) in una competizione, una gara che pre­scinde dal luogo in cui si svolge. Una simile scelta tematica im­plicò conseguentemente lo sdoppiamento dell'oggetto in due unità

llh' , 15 geme e c e S1 scontrano m un campo aperto .

Nello spettacolo allestito al Teatto Romano di Fiesole, quattro personaggi (tra cui Remondi e Caporossi), divisi in coppie, manovrano due oggetti-macchine. A una prima analisi questa caratteristica fondamentale potrebbe avvicinare Richiamo e Ameba. Ma c'è una grande distanza tra i due lavori poiché nell'ultimo non vengono presi in considerazione quei temi ine-

14 L'ameba è un organismo unicellulare la cui caratteristica fondamentale è il movimento: lancia in avanti degli pseudopodi nei quali, subito dopo, trasferisce il plasma di cui è composto, spostandosi e mutando continuamente la propria forma.

15 Lo sdoppiamento fu sl:.ggerito anche da una intrinseca attitudine alla riproducibilità seriale che l'oggetto possedeva a parere dei due autori.

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l'enti alla macchina industriale e il conseguente gusto per i materiali sceltj16. Il punto di unione tra Ameba e le tematiche che sono state alla base dell'attività artistica di Remondi e Capo rossi fino a questo spettacolo, è invece riscontrabile nella componente della fatica; un continuo affaccendarsi dei personag­gi attorno ai due rulli per un movimento che ogni volta è minimo: l'inutilità che scaturisce da un rapporto sproporzionato tra il risultato e l'enorme spreco di energia.

Anche Caporossi riconosce la distanza di Ameba dalla nozione di alienazione industriale quando spiega: «penso che qui [in Ameba} la macchina era più la metafora del potere in sé». Il tema dell' alienazione si apre quindi ad allusioni più estese, giungendo al concetto stesso di potere che schiavizza. È pur vero che continuando su questa strada di associazioni men­tali, è possibile ipotizzare atmosfere più metafisiche e quindi accogliere la riflessione di Remondi quando afferma: «Lo spet­tacolo conteneva dei riferimenti al rito, alla religione, ai grandi ideali asserviti. Ameba era un oggetto al quale i personaggi si dedicavano completamente senza avere nulla in cambio, tranne un appagamento- spirituale o psicologico».

Remondi e Caporossi spettacolarizzano queste tematiche usando COlne spunto la nozione di "torneo", quasi un grande gioco dove si definiscono infatti come Cavalieri e Scudieri. Una simile scelta può essere compresa solo se ricordiamo che nella genesi dell'idea dello spettacolo rientrava la Firenze medicea e quindi un ambiente storico dove ben si inserivano le giostre cavalleresche. È evidente però che la scelta di allestire un lavoro teatrale usando come struttura portante una situazione che è di per se stessa spettacolare (il torneo) è nuova p~r 1ft coppia di autori che sono sempre partiti da situazioni anti -spettacolari per eccellenza (muovere un ingranaggio, costruire un muro, disfare un sipario, segare un tronco).

16 Come era già accaduto per SPèra, il materiale scelto dagli autori ri­sponde a una semplice esigenza di funzionalità. La vetroresina (il materiale di cui sono composte le due amebe) non assume nessun significato intrinseco come la pietra o il mattone .

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Questo nuovo esperimento è suggerito ai due autori anche dalla convinzione che il potere (sulla nozione del quale è imposrato il lavoro), quando si manifesra puhblicamenre, lo fa sempre in chiave spettacolare. I "due omini" che solitamente riconosciamo nei personaggi di Remondi e Caporossi, sono qui invece assimilati agli altri due collaboratori nel ruolo di manovratori-macchinisti , che vengono a loro volta manovrati - come affermano i due autori _ da un burattinaio che resta invisibile, quasi come se fossero esecutori di un rito intorno a un totem le cui radici profonde sono inconoscibili. Il fascino dell'oggetto sembra accentrare su di sé tutta l'attenzione e non dà spazio neanche a quei brandelli di umanità dei personaggi che comunque trovavano un varco nell'at­mosfera asettica dei primi spettacoli. In Ameba è più che mai l'oggetto il protagonista, e infatti i quattro partecipanti allo spet­tacolo si allontanano sempre di più dall"'interpretazione" per av­vicinarsi alla prestazione adetica a uso e consumo della macchina 17.

Tema fondamentale resta in ogni caso quello 'della comuni­cazione e del rapporto che però negli ultimi spettacoli dei due autori prende le forme di una riflessione sull'esigenza di ricostitu­ire un'unità saldata da forze che sono comunque quelle dell'affetto e dell'amore. Si intravede una coinvolgente contraddizione tra il bisogno di unione e la necessità di riconoscere se stessi come in­dividuo. Quei temi già chiaramente introdotti in Teatro (special­mente la scena del gomitolo) emergono ora in modo lampante: una sfera-monade che si scinde in due metà o due amebe che si scon­trano fino a fondersi in un'immagine unitaria.

Una scelta intimista

Nel periodo che si colloca sul finire degli anni Ottanta, dunque, possiamo, con ragione di causa, affermare di trovarci in una nuova fase del lavoro artistico di Remondi e Caporossi. In

. 17 A tal proposito ricordiamo che Remondi e Caporossi pensavano anche dt proporre lo spettacolo come semplice gara tra gruppi di pet'sone scelte a caso per manovrare le due macchine.

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questi anni i due autori concentrano la loro attenzione sul tema della ricerca dell'unità, utilizzando sempre di più spunti di origine décisamente autobiografica. La dinamica basata sul rap­porto e sulla comunicazione, che all'inizio della loro attività era connotata da precise esigenze- di tipo politico e sociale, ora si scioglie in un'attenzione non più volta verso l'esterno, bensÌ orientata a cogliere momenti di forte intimità psicologica.

Nella nuova fa,>e non si riscontra una reale evoluzione nell'uso dei mareriali o nel gioco della macchina. Ed è evidente COlne Remondi e Caporossi, dopo anni di lavoro scenico, in buona parte artico~ato sulla selezione e l'uso di materiali parti­colari ed elaborazioni ludiche e metaforichc dell' immagine della macchina, posseggano ormai non solo uno stile teatrale maturo e compiutamente definito, ma addirittura un lessico perfetta­mente riconoscibile e sperimentato, costituito dalla manipolazio­ne propria di materiali consueti e da modi specifici di riferi­mento al funzionamento della macchina.

Con ciò non si vuole assolutamente sostenere che la coppia di autori esaurisca la propria poetica ed entri in una fase di stanca ripetizione; piuttosto la loro poetica si concentra su altri obiettivi. In Rem & Cap (1988)rautobiografismo non resta più soltanto uno spunto che - come avveniva nelle produzioni precedenti - affiora insieme ad altri temi nella costruzione dello spettacolo, ma diventa l'elemento fondamentale della messa in scena. Già il titolo sugge­risce immediatamente l'ipotesi di un'opera nata come riflessione sul proprio rapporto, inteso non solo in senso artistico. Lo spetta­colo ha del resto una trama fatta di piccolissime cose che riman­dano tutte a una dimensione privata della vita quotidiana, come ad esempio alcuni gesti che gli attori compiono (mangiare una mela, l'ammendarsi un calzino). In tal senso funziona anche l'ambienta­zione scenica che pone i due attori in uno spazio prevalentemente neutro, simbolicamente scissi l'unp dall'altro, sul palco, in due zone separate da una porta 18. Qui, divisi, vivono delle loro piccole

18 Non può non colpire il riferimento - forse non intenzionale - alla vita pri,"at~ de~la coppia di autori che vivono io due appartamenti attigui in un unIca vtlletta.

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azioni; si spogliano e si rivestono; cercano e contemporaneamente sfuggono l'incontro.

La continuità con le produzioni precedenti è lusira nella strut­tura dello spettacolo che riprende il tema dell'incontro e dello scon­tro. E qui si ritrovano appunto tlloduli già sperimentati nell'utiliz­zazione dei materiali e nel funzionamento della macchina, proiettati ora in una precisa riflessione sulla vita privata degli autori.

Mentre 110n appare alcuna clamorosa novità nella selezio­ne dei materiali e nella messa in opera di meccanismi inediti, il lessico teatrale consueto della coppia riaffiara, orientato in una nuova direzione. Il fulcro dell'ambito narrativo di Rem & Cap è certo ancora una volta una macchina, che ora si presenta nella forma di una porta girevole: «elemento materiale e sim­bolico insieme, che fa da perno alle invenzioni paradossali e surreali della strana coppia [ ... ) una porta massiccia, forse blin­data, a due battenti, splendente di serrature, catenacci e cate­nelle»19. E questo elemento, privo di qualsiasi connotazione di tipo industriale o tecnologico, anzi appartenente al nostro quo­tidiano, non arricchisce la fenomenologia dell'uso della macchi­na nel teatro di Remondi e Caporossi, ma si ripropone appunto come "segno" noto e peculiare della loro "drammaturgia".

Ritorna fondamentale il movimento circolare poiché la por­ta (ma in realtà sono due porte affiancate) ruota su un perno cen­trale, come le porte girevoli che di solito si t!"Ovano all'entrata dei grandi alberghi: sicché, spingendo in contemporanea, dai lati op­posti, i due attori si ritrovano sempre divisi. Ma mentl"e in Richia­mo o Rotòbo!o il segno-movimento circolare era associato al discorso sull'alienazione della società industriale, ora ci racconta invece le contraddizioni proprie di un rapporto di coppia.

E appare allora clamorosamente come proprio la nozione originaria di macchina celibe possa chiarire il significato profondo della presenza della macchina-porta in questo spettacolo. Il moto !"Otatorio della macchina celibe è insieme la manifestazione di un processo che non conosce sviluppo reale ed è costitutivamente ste­rile: caratteristica che si inserisce prepotentemente nel tema della

19 Aggeo Savioli, Una porta tra Rem e Cap, "L'Unità", 14 gennaio 1988.

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comunicazione all'interno di una coppia omosessuale. Creatività e comunicazione appaiono singolarmente legate nel movimento cir­colare della porta che, nel medesimo atto, ruota e separa.

L'impossibilità di cOlnunicare, inoltre, è rafforzata dal sonoro scattare delle serrature ogni volta che la porta viene aperta nella ossessiva - e frustrata - ricerca di un incontro.

Proprio il problema della comunicazione elnerge in ma­niera clamorosa nella successiva produzione: Quelli che restano (1989)20, Azione, materiali, macchine: niente di tutto questo. Ci sono solo due silenziosi e immobili avventori (Rem e Cap) in una taverna fantasma dove il cameriere ripete ritualmente e freneticamente i gesti che era abituato a fare in presenza di una moltitudine di persone21.

Remondi e Caporossi ottengono questo risultato proiet­tando direttamente nella forma di uno spettacolo quello che per loro era il consueto punto di partenza: il deserto. L'elemento fondamentale è l'assenza: mancano gli avventori, manca l'am­biente, sembra mancare addirittura l'azione interiore, come se tutto si fosse già svolto prima e in quel luogo ci fosse solo ciò che resta: dei tavolini vuoti. Il tema della comunicazione quin­di, non viene trattato ricorrendo alla manipolazione di un modulo materiale, sia esso oggetto o macchina, ma definendo, attraverso dei segni chiari di una memoria evocativa d'ambiente, una at­mosfera precisa. Il bar o la taverna vuoti sono infatti dei luoghi

20 Lo spettacolo prende spunto dal video Trucco (1989) ideato da Capo­rossi. Anche nel video l'azione era semplice ed essenziale: due persone (Re­mondi e Caporossi) in una saletta, seduti a due diversi tavolini, come quelli utilizzati poi nello spettacolo, sono immobili, mentre la tel~camera lentamente si muove fino a inquadrare uno specchio che riflette l'immagine di Remondi. Con un sofisticata trucco di sovraimpressione elettronica la figura man mano scompare all'interno dei propri vestiti che alla fine saranno ridotti a un muc­chietta grigio di panni sopra la sedia.

21 Chiamiamo i personaggi Rem e Cap poiché gli stessi autori in questo modo li nominano nel copione dello spettacolo. È importante notare che proprio in queste due ultime produzioni Remondi e Caporossi dichiarano in maniera così palese il parallelismo autobiografico tra se stessi e i personaggi che in­carnano perché, credo, ciò contribuisce a rafforzai'e la continuità esistente tra le due produzioni sia per attinenze tematiche (la comunicazione) sia per modi di messa in scena.

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che ttadizionalmente il nostro immaginario collettivo associa alla solitudine e di conseguenza alla difficoltà di comunicazione all'interno dei rapporti umani. La precisione alla quale abbiamo accennato deriva appunto dalla scelta puntuale di oggetti forte­mente connotati, quali i tavolini, i bicchieri~ e di immagini emblematiche come quella di due uomini seduti uno di spalle all'altro. Il processo di rarefazione stilistica che informa in questo periodo, in generale~ il lavoro artistico di Remondi e Capotossi mostra quindi i suoi risultati anche nella selezione degli ele­menti evocativi atti a suggerire un' atmosfera. Chiarisce lo stesso Remondi: «È vero che in Rem & Cap e in Quelli che restano si avverte una trasformazione del nostro atteggiamento, che ci ha portati a un lavoro dove il materiale non è più tanto l'oggetto, quanto una situazione»,

Di contro alla novità di un uso evocativo dell'ambiente, si dirada il lavoro sulla nozione di macchina, che tanto aveva influenzato gli spettacoli passati, restando presente solo come cifra stilist1ca ormai chiaramente riconoscibile nel teatro della coppia di autori, Riemerge in tal senso la loro spiccata attitu­dine alla manualità e al gesto lavorativo nel gioco-smontaggio delle colonne di tavolini che sono liberati l'uno dall'altro me­diante alcuni movimenti ripetuti, e con l'aiuto di tiri e di argani posti sul graticcio del teatro.

Se inoltre Remondi e Caporossi sembrano rinunciare Com­pletamente, come abbiamo detto, all'azione in scena, è pur vero che il personaggio del cameriere rivela una gestualità fortemen­te iterativa e monotona (versa del vino a inesistenti avventori). Sembra cosÌ assumere su di sè l'inutilità e la ripetitività delle macchine alienanti che Remondi e Caporossi ci hanno presen­tato in gran parte delle loro produzioni, sollecitando l'ipotesi di una traslazione del rapporto alienante, solitamente vissuto con la macchina, in direzione della recitazione. Remondi e Caporossi non si confrontano più con un oggetto inanimato, bensÌ con altri attori svelando, nel lavoro sul tema della solitudine e dell'alienazione, ,risvolti ancora più inquietanti di quelli a lungo individuati ed espressi nel gioco ossessivo con la macchina.

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DESCRIZIONE DEGLI SPETTACOLI

CADUTA. Tratto dal Dottor FauJt di Thomas Mann, diretto e inter­pretato da Claudio Remondi e Riccardo Caporossi. Musicisti: Riccardo Lay, Antonello Salis, Sandro Satta. Voci: Giulia Ri­pandelli, Sandra Ugolini, Lucia Viglianti. Anno di produzio­ne 1984.

Quando il pubblico entra in sala il palcoscenico è buio. Poi sul fondo, in alto a sinistra, si accende un neon sagomato che disegna l'immagine di un grande rubinetto. Da questo si stacca un' enorme goccia, sempre disegnata con il neon sagoma­to, che lentamente cade sul palco. Al momento dell'impatto si ode un suono violento simile a una cascata di sonagli, e una luce chiara invade il palco.

Remondi entra dal fondo e avanza fino al centro della scena dove trova un leggio sul quale appoggia alcuni fogli. Indossa una vestaglia da camera e un paio di pantofole. In­forcati un paio di occhialetti tondi comincia a leggere le pagine tratte dal Dottor Faust di Mann. Si tratta dell'episodio in cui Adrian Leverkuhn, che ha venduto l'anima al diavolo in cambio di ventiquattro anni di creatività, invita un grup­po di amici ad ascoltare una sua composizione; ma davanti a essi crolla, rivelando senza pudori il suo segreto.

Remondi legge giocando con i toni della voce e inter­rompendosi, di tanto in tanto, per cedere il passo alla mu­sica. A questa si aggiungono i vocalizzi di I tre ragazze in scena, vestite in calzatnaglia nera aderente, che compiono una serie di azioni di contorno al parlato di Remondi.

Durante il racconto, sul fondo, appaiono delle immagi­ni pittoriche, tutte ispirate alla figura della farfalla. Alla fine una grande farfalla multicolore appare sul fondo, svelata dal­l'aprirsi di pannelli. Al centro, tra le ali, c'è Capotassi ve­stito di bianco che, con voce impostata in falsetto, annuncia la morte del Faust.

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Fonti per la descrizione dello spettacolo: Foto in B/N dello spettacolo prive dcll'indica:lione dell'amore e del luo­

go e della data in cui sono state scattate, gentilmente concesse da Remondi e Caporossi.

Copione originale dello spettacolo, manoscritto, gentilmente fornito dagli autori.

Intervista a Retnondi e Caporossi, cito Recensioni dello spettacolo (vedi la bibliografia).

SPÈRA. Scritto, diretto e interpretato da Claudio Ren10ndi e Ric­cardo Capotossi. Anno di produzione 1985.

Lo spettacolo si svolge preferibilmenre in uno spazio teatrale tradizionale, all'italiana. All'inizio della rappresenta­zione il sipario è chiuso, ma, lentamente, dall'interno, si gonfia e ritorna al suo posto più volte. Quindi si apre mostrando un palcoscenico quasi vuoto: si vede solo una scala che parte da terra e sparisce oltre l'arco scenico. A metà della scala è sistemata una sfera color metallo del diametro di circa due metri. Dalla sfera, in alto, spuntano una testa, due braccia e il torso di un uomo, di spalle (Capo tossi) e in basso un paio di gambe (Remondi) (fig. n. 24). La parte superiore della figura umana veste una giacca nera e un cappello borsalino, la parte inferiore calza un paio di pantaloni neri e due vecchi scarponi. Le due mezze figure si allontanano rispettivamente verso l'alto e verso il basso fino a scindere la sfera in due metà. Durante l'azione cadono sia il cappello che uno scar­pone, La metà superiore sparisce in alto, oltre l'arco scenico, mentre quella inferiore scende sul palco e comincia a cercare la sua scarpa tastando in terreno con il piede nudo. Trova infine lo scarpone, ma quest'ultimo si allontana, mentre la metà inferiore lo insegue uscendo di scena. Entra, dal lato oppostO, la metà superiore con in testa un cappello borsalino nero, arrotolando con le mani un gomitolo di filo. Si intrat­tiene giocherellando con il suo cappello e con quello che è rimasto per terra. Poi esce, inseguendo un cappello che viene tirato dalle quinte. Uscendo, porta in scena, trascinato dal

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filo che continua a tenere nelle mani, uno scarpone. In scena resta quindi un cappello.

Rientra Remondi che continua a cercare il suo scarpo­ne. Poi rientra anche Caporossi che stringe in mano vari fili ai quali sono attaccati altrettanti scarponi, prende il cappello da terra e, inchinandosi, saluta la mezza sfera inferiore. Le due semisfere si salutano più volte vicendevolmente, e poi la mezza sfera inferiore, compiendo un inchino troppo pronun­ciato si rovescia, restando con i piedi in aria. Entrambe le figure si ritirano all'interno delle sen1isfere, mentre il grap­polo d i scarpe, sempre legato ai suoi fili, viene trascinato fuori scena. Sulla semisfera di Capotossi spuntano un paio di scarpe e su quell' altra un cappello. Capo rossi appare dalla vita in su senza cappello, mentre dall'altra mezza sfera si innalza una pila di cappelli molto alta. La pila però si ritira immediatamente nella semisfera da cui, poco dopo, i cappelli vengono lanciati fuori scena. Caporossi ne afferra uno rimasto sul palco, fa per indossarlo ma poi decide di metterlo sul­l'altra mezza sfera e va via. Dalla meZza sfera rimasta in scena appare Remondi, dalla vita in su, che) con il cappello sulla testa, soddisfatto, se ne va.

La scena resta vuota per un momento, quindi appare Remondi con il corpo libero mentre fugge inseguito da una sfera. L'azione si ripete nel verso opposto e nella situazione contraria: è l'attore a inseguire la sfera. Capo rossi entra in scena e osserva calmo il movimento. Entra Remoncli che sen1bra a sua volta osservare interessato l'azione dell'inseguimento che si sta ipoteticamente svolgendo dietro le quinte.

Remondi, a terra, e Caporossi, in piedi, si ritrovano entram­bi, uno di fronte all'altro, alla base della scala. Il primo vorrebbe salutare, parlare, ma il compagno lo zittisce con un gelido gesto del dito. Nello sforzo represso di parlare, Remondi comincia a gemere, a urlare, e poi a produrre versi di vari animali, fino al silenzio, mentre il compagno è sempre impassibile.

Caporossi si sfila le scarpe) si volge verso la scala, comincia a salirvi e sparisce verso l'alto scivolando fuori dai pantaloni che restano appesi alla scala. Remondi a sua volta osserva l'azione del

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compagno e poi la completa attaccando la propria giacca al di sopra dei pantaloni e appoggiando il cappello sulle scarpe. Poi si accuccia aggrappandosi ai piedi della scala.

Entra una sfera che si divide in due metà al centro della scena. Si ritira subito dopo, silenziosamente, dietro le quinte mentre la scala indietreggia e sparisce dietro il fondale.

In scena restano il cappello e le due scarpe. Si accendono le luci in sala e una voce alle spalle del pubblico annuncia: «Inter­vallo a sipario aperto. Il tempo dell'intervallo corrisponde al tempo necessario perché il cappello si sollevi dalle scarpe fino all'altezza di metri uno e settantacinque. Tempo reale: dieci minuti.».

Nei dieci lninuti successivi il cappello si solleva come è stato preannunciato. Inizia cosÌ il secondo tempo. Remondi entra da sinistra, camminando all'indietro, di profilo al pubblico. Indos­sa un completo bianco e un borsalino nero; in mano trasporta una pila di identici cappelli ed è a piedi nudi. Da destra entra invece Caporossi, speculare al compagno, vestito anch'egli di bianco, sen­za cappello ma con un paio di scarponi neri, e trasporta un grap­polo di identiche scarpe. Quando giungono allo spazio occupato dal cappello sopra le scarpe, i due si fermano di colpo, come se avessero urtato qualcosa (fig. n. 23) e lasciano cadere ciò che tra­sportano. Si salutano. Remondi calza le scarpe e Caporossi il cap­pello in modo da completare il loro vestiario. Dal fondo entrano due sfere che passano davanti ai due attori nascondendoli alla vista del pubblico. Quando le sfere escono di scena, sul palco non si vede che il solo Remondi, senza cappello e senza scarpe. Poco più in là un borsalino è appoggiato sopra un paio di scarponi. Remon­di, frastornato, solleva il cappello dalle scarpe quasi stupito dell'as­senza del compagno, e fissa il punto in cui, sotto il cappello, dovrebbero essere gli occhi.

Entra Caporossi vestito di bianco, con scarpe e cappello neri. Saluta Remondi che continua impassibilmente a fissare il punto sotto il cappello. Caporossi inserisce improvvisamente la sua testa sotto il cappello e spaventa il compagno, quindi porge il proprio cappello a Remondi e lo conduce verso gli scarponi rimasti in scena, incitandolo a calzarli. Il piede di Remondi sembra però essere respinto dallo scarpone. Dopo vari tentativi Caporossi dà

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una delle sue scarpe al compagno che la infila al piede. Quindi Remondi e Caporossi calzano, una per uno, le due scarpe rimaste in scena. Felici della riuscita operazione fanno per andarsene ma si accorgono che le due scarpe del paio che hanno spartito sono legate tra loro dai lacci. Si salutano, si abbracciano, tentano di sfilare le scarpe che li trattengono: alla fine ci riescono, si salutano di nuovo e, lasciando in scena un paio di scarponi, se ne vanno con un piede

nudo ciascuno. Prima da destra e poi da sinistra fa capolino una sfera sulla cui

sommità è sistemato un cappello. La sfera scompare e poi riappare dal fondo, giunge fin sopra le scarpe e si fenna in questa posizione: una sfera tra un cappello e un paio di scarpe.

Fonti per la descrizione dello spettacolo: Foto dello spettacolo a colori prive deWindicazione dell'autore, del luogo

e della data in cui sono stare scattate, concesse in visione da Remondi e Caporossi. Foto in B/N di Cesare Accetta scattate al Teatro Argentina di Roma nell'ottobre del 1985, nell'ambito della rassegna Illusi ... , gentilmente concesse dall'autore.

Copione originale dello spettacolo, manoscritto, gentilmente concesso dagli autori,

Copione illustrato con disegni di Riccardo Caporossi, gentilmente fornito dall'autore,

Intervista a Remondi e Caporossi, dt. Recensioni dello spettacolo (vedi la bibliografia).

AMEBA. Scritto e diretto da Claudio Remondi e Riccardo Capo­rossi, interpretato da Claudio Remondi, Riccardo Caporossi, Lilla Monachesi, Piero Cegalin. Anno di produzione 1986.

Lo spettacolo è progettato per spazi ampi e sgombri da qualsiasi aggettaI. Il pubblico è seduto sul lato lungo dello spazio scenico. Le luci sono piene, a giorno. Al centro dello spazio è composto un mucchio di aste, gettate alla rinfusa, che forma una rozza raggiera. DalI'esterno avanza lentamente un

1 Non a caso lo spettacolo fu presentato al Teatro Romano di Fiesole e al Tendastrisce.

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corteo formato dai quattro attori. Due uomini (Lilla Monachesi e Piero Cegalin), vestiti di casacca e pantaloni grigi e con i sandali ai piedi, trasportano a spalla un tronco di due metri e mezzo di lunghezza e con un diametro di cinquanta centin1e­tri 2• Il tronco è attraversato diametraltnente da quaranta fori sulla traccia di due eliche parallele descritte sulla sua superficie, con un "passo" di cinquanta centimetri.

A cavallo del tronco c'è Caporossi che ha in testa un copricapo simile alla scultura del finale di Bosco, e ha in mano un'asta a mo' di lancia. Di seguito viene Remondi che tramite un'asta trasporta a spalla un altro tronco identico al precedente; ha in testa un largo cappello di paglia. Remondi e Caporossi vestono lo stesso completo grigio e indossano dei sandali.

Quando il corteo è giunto al mucchio di aste, uno degli uomini che trasportano il tronco abbandona il suo posto per raggiungere Remondi che si è fermato di fronte a Caporossi, dall'altro lato della raggiera. Ognuna delle due coppie che si sono così formate prende sulle spalle le due estremità di un'asta con la quale trafigge il proprio tronco. Quindi comincia a ruo­tare intorno al mucchio centrale delle aste descrivendo .una spirale sempre più ampia. In questo modo le due coppie finiscono per trovarsi ai lati opposti dello spazio scenico. Depongono i rispet­tivi tronchi e cominciano a chiamarsi. Poi iniziano la costruzio­ne delle due amehe. Ogni coppia prende alcune aste dal muc­chio e trafigge il proprio cilindro forato. Alla fine ai due lati estremi della scena si sono formate due creature gemelle che assomigliano a due enormi ricci con lunghi aculei.

I quattro attori, due per ameba, danno inizio a un nuovo movimento. Ogni coppia afferra, mediante un particolare stru­mento, le cinque aste che, infilate attraverso il tronco, toccano terra dal lato opposto. Quindi indietreggia facendo scorrere le aste, per tutta la loro lunghezza, attraverso il tronco. Infine solleva l'estremità delle cinque aste afferrate facendo così roto­lare il tronco, finché l'estremità delle cinque aste successive, toccando terra, lo blocca (fig. n. 25).

2 Le aste, lunghe sei metri, e il tronco sono in vetroresina trasludda.

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L'azione viene ripetuta sette volte, fino a coprire la di­stanza di ventidue metri che divideva le due amebe, che si ritrovano così una davanti all'altra, sullo stesso asse. Prima una e poi l'altra le due amebe vengono sollevate sulle aste fino all'altezza di un uomo (fig. n. 26). Il suono di una campana segna un breve momento di pausa nell'azione.

Subito dopo le due macchine sono calate a terra e ven­gono separate dai quattro uomini che le trascinano di nuovo fino ai lati opposti dello spazio.

I quattro attori si dirigono al centro della scena. Remon­di e Caporossi sono bendati dai due compagni e posti spalla a spalla. Si agganciano con le braccia e restano immobili. I due compagni afferrano due aste alle cui estretnità appendono due grossi sacchi di tela che calano sopra Remondi e Caporossi.

Questi riescono a estrarre, dai sacchi che li avvolgono, le braccia e la testa e quindi vengono manovrati e mossi dai due compagni mediante le aste. I quattro attori interagiscono in vario modo, sistemandosi in combinazioni diverse. Poi le due macchine vengono di nuovo avvicinate e Capo rossi è sollevato in alto, al centro, sopra una delle due.

Le due amebe sono di nuovo separate e fatte rotolare alle estremità dello spazio. Lungo il percorso tutte le aste, tranne una, scivolano fuori da ciascuno dei due tronchi, re­stando sul suolo.

Utilizzando le due aste rimaste Lilla Monachesi e Piero Cegalin trasportano i tronchi al centro della scena e li sistema­no verticalmente, come una colonna alle spalle di Remondi e Caporossi. Poi raccolgono le aste dal suolo e trafiggono i tron­chi, cosicché alla fine Remondi e Capo rossi, appaiono esplicita­mente simili all'immagine sdoppiata di un San Sebastiano martire alla colonna.

Fonti per la descrizione dello spettacolo: Foto delle prove all'aperto dello spettacolo, in B/N, prive dell'indicazione

dell'autore, del luogo e della data in cui sono state scattate, concesse in visione da Remondi e Caporossi. Foto in B/N di Cesare Accetta, scattate al Teatro Romano di Fiesole nel 1986, gentilmente concesse dall'autore.

Disegni ispirati allo spettacolo di Riccardo Caporossi.

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Copione dello spettacolo, pubblicato dal Centro Internazionale di Dram­maturgia di Fies.ole ~el 1986, contenente i disegni di Riccardo Caporossi e le foro del modelllflo lfl scala 1 :10 usato per le prove; gentilmente concesso dagli autori.

Intervista a Remondi e CapoY{jJJi, cit. R,ecensioni dello spettacolo (vedi la bibliografia).

REM & CAP. Scritto diretto e interpretato da Claudio Remondi e Riccardo Caporossi, luci di Amerigo Varesi. Anno di produzione 1988.

Lo spettacolo è specificamente progettato per i teatri all'italia­na. Il palco è delimitato da un tendaggio nero. Gli spettatori, entrando in sala, trovano il sipario apeno e una luce di servizio, bianca e diffusa, che illumina il palcoscenico, al centro del quale due abiti (pantaloni, giacca e cappello neri) sono sistemati come su due manichini privi delle esrrernità. Le falde dei borsalini calati in avanti coprono i volti delle due figure. Tra ì due abiti è sistemato un bastone da passeggio che termina in alto con due manici infi­lati nelle tasche delle giacche. Una sciarpa con due larghe fasce bianca e nera unisce i due abiti.

Quando tutto il pubblico ha preso posto in sala la luce di servi:do viene gradualmente spenta mentre si accende una luce diretta sui due abiti. Il fascio si concentra e si espande poi di nuovo a tutto il palco. Lentissimatnente i due abiti prendono vita e rivelano al loro interno le figure di Remondi e· Caporossi. Prima spuntano le mani, poi le scarpe, e in ultimo i due attori alzano il capo mostrando i volti.

Di nuovo la luce si concentra sulle due persone che nel frattempo si allontanano verso le estremità opposte del prosce­nio. Il bastone si spacca aprendosi a "V", mentre la sciarpa si tende dividendosi nelle due fascie che la componevano, bianca per Caporossi e nera per Remondi. Anche il bastone finisce per dividersi completamente e, nello stesso tempo, la luce si con­centra in due fasci sui due personaggi. Ognuno dei due attori, c01npiendo un percorso a semicerchio, si porta al centro della

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scena. Man mano la luce illumina zone diverse del palco pre­cedendo il percorso seguito da Remondi e Capo rossi e alla fine quando gli attori sono vicini, si espande in una 'impersonal~ luce di servizio. Viene quindi illuminato, al centro del palco, un piano sistemato su una piccola pedana e situato di taglio rispetto alla platea, il quale separa Remondi giunto da destra, da Caporossi giunto da sinistra. Il piano è in realtà formato da due porte in successione collegate da un perno centrale e ricche di chiavistelli e serrature.

I due attori infilano nelle serrature varie chiavi e cominciano a girarle provocando un forte rumore di chiavistelli che scorrono. Due fasci di luce laterali alle loro spalle sostituiscono la luce di servizio, proiettando le due ombre dei personaggi sulle porte. Queste alla fine si aprono, ma girano sullo stesso cardine e nello stesso verso, mostrando di nuovo un piano unico obliquo rispetto al pubblico. Remondi e Caporossi avanlano in direzione l'una oppo­sta all'altra oltreppassando l'asse delle due porte, e si ritrovano cosÌ di nuovo separati e in posizione speculare.

Ognuno dei due attori nota per terra una lettera: la af­ferra e la intasca senza leggerla. Quindi richiude dietro di sé la propria porta con la solita abbondanza di mandate.

I due attori guardano attraverso lo spioncino, dopodiché Relnondi indietreggia mentre Capo rossi si pone con le spalle alla porta. Il primo appende il cappello alla porta e poi indie­treggia fino alla propria sedia-inginocchiatoio. Contemporanea­mente il secondo procede in avanti e depone il cappello sulla propria sedia-inginocchiatoio. Poi entrambi depongono sciarpa e bastone sempre sulle sedie-inginocchiatoio. Remondi si toglie la giacca e la compone sulla spalliera mentre Caporossi estrae un paio di guanti dalla tasca della sua giacca e li getta nel cap­pello. Anche il primo prende i guanti dalla giacca e il secondo li riprende dal cappello. Insieme si dirigono verso la porta.

Scoprono di avere ognuno due guanti della stessa mano. Riaprono quindi con gran rumore le porte, escono e ripercor­rendo i due tragitti a semicerchio seguiti all'inizio, preceduti dalla luce; ritornano al punto in cui si erano separati, SI scam­biano il guanto e di colpo cala un buio totale.

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Nel buio i due attori vanno a sistemarsi nello spazio dieno la propria porta, facendo di nuovo scattare le serrature. Caporossi ac­cende una candela: il piano della porta è ora frontale rispetto al pubblico e nasconde Remondi che, dall'altra parte, bussa alla porta. A sinistra si intravede la sedia-inginocchiatoio con sopra il cappello (prima vi era deposta la giacca di Remondi). Dopo aver guardato dallo spioncino Caporossi, con le solite innumerevoli mandate, apre la pona che, girando sullo stesso cardine, si pone di taglio rispetto al pubblico. Per un atrimo i due attori (Caporossi di spalle e Remon­di di fronte) sono fermi, ognuno ha in mano una candela. Subito dopo però si accende una luce violenta e i due cadono a terra. Ritorna una luce diffusa. A destra c'è la sedia-inginocchiatoio con sopra la giacca (mentre prima c'era il cappello di Caporossi). Grazie agli indumenti che hanno cambiato posto i due personaggi si accorgono di aver scambiato le case. Ognuno va nella metà opposta del palco­scenico, passando per la porta alla quale fa compiere mezzo giro (la porta quindi è sempre di taglio). Caporossi è a sinistra mentre Remondi è a destra. Chiudono con forza le serrature mentre la luce definisce precisamente i due ambienti.

Entrambi vanno a sedersi e ritrovano nel proprio spazio i loro indumenti. Alla porta di Caporossi è appesa una giacca e a quella di Remondi un cappello. Sulla sedia di Caporossi c'è il cappello con la sciarpa e il bastone, su quella dell'altro c'è la giacca con la sciarpa e il bastone.

Seduti, immobili, cantano una canzoncina a due voci. Si avvicinano alla porta e vi attaccano tutti gli indumenti, restan­do così in mutande lunghe e maglia di lana. Tornano a sedersi; compiono dei gesti quotidiani: uno si cuce un calzino mentre l'altro mangia una mela (fig. n. 27).

Una serie di fari incrociati sul boccascena crea un sipario di luce che nasconde il resto del palco. Il silenzio è interotto dalla suoneria di una sveglia. La luce ridiventa quella di servizio. Re­mondi, che nel frattempo si è completamente rivestito, bussa alla porta di Capo rossi che è invece ancora spogliato. Si veste quindi lentamente, Ognuno di fronte alla porta, i due compiono il gesto di osservarsi prima dallo spioncino e poi dalla serratura, spaventan­dosi e ritraendosi ogni volta (fig. n. 28).

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Estraggono dalle tasche la lettera c rispettivamente la mettono sotto la porta dell' altro.

Raggiungono di nuovo il centro dove si erano separati. Si fermano e alzano i bastoni fino a unirne le estrelnità. Imn1edia­tamente il buio segna la fine dello spettacolo.

Fonti per la descrizione dello spettacolo: Video dello spettacolo in B/N, registrato nel 1988 al Teatro Orione di

Roma, privo dell'indicazione dell'autore e della data precisa di registra'lione, gentilmente concesso da Remondi e Caporossi.

Foto delle prove dello spettacolo, in B/N, di Cesare Accetta, scattate al 'featro Orione di Roma nel 1988, gentilmente concesse dall'autore.

Disegni ispirati allo !-ipettacolo eseguiti da Riccardo Caporossi. Copione originale dattiloscritto, gentilmente fornito dagli amori. Intervista a Remondi e Caporo.ui, cito Recensioni dello spettacolo (vedi la bibliografia).

QUELLI CHE RESTANO. Scritto e diretto da Claudio Remondi e Riccardo Caporossi, interpretato da Claudio Remondi, Ric­cardo Caporossi, Massimo Grigrò, musiche di Antonello Salis. Anno di produzione 1989.

Come è ormai solito negli ultimi spettacoli di Remondi e Caporossi, ci tl'oviamo in uno spazio scenico all'italiana. La sala è buia, e, sempre nel buio, lentamente si apre il sipario. Dopo qualche secondo solo due lampadine illuminano debol­mente il piano di due tavolini. Due uomini sono seduti ognuno a un tavolino illuminato e si voltano le spalle. Ritorna il buio, entra il personaggio del cameriere e apre una seconda tenda­sipario che permette a una luce a giorno di irrompere sul pro­scento. Siamo ora in grado di riconoscere chiaramente una stra­na architettura costituita da due torri di tavolini quadrati, impilati l'uno sull'altro a diagonali incrociate, presso le quali sono seduti, di spalle, due persone (Remondi e Caporossi) su due alti sgabelli, immobili. Un ragazzo vestito da inserviente (con una camicia chiara, pantaloni scuri e grembiule) comincia a pulire il palco, armato di scopa, paletta e piumino. Al centro,

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tra le due torri, vi sono due paia di scarpe. L'inserviente le spazzola, saluta gli attori seduti in alto e poi esce.

Remondi e Caporossi si calano scivolando su una gamba dei rispettivi sedili e vanno a calzare, sempre di spalle l'uno all'altro, le scarpe. Vestono il loro consueto c01npleto, di giacca e pantaloni, nero. Lasciano sul tavolo in alto i loro cappelli. Iniziano quindi a S1nontare le torri, aiutati da un sistema di tiri che gli permette di liberare, uno alla volta, i tavolini, partendo dal basso e calando man mano la struttura. A ritmo alterno, ognuno smonta la propria torre ponendo i tavolini ricavati al centro del proscenio. Il ritmo è calcolato in modo che l'inserviente, rientrando, possa prendere il tavolino, sistemarlo sul palco secondo uno schema diagonale, e pulirlo. Gli ultimi due tavolini, su cui sono sempre posati i cap­pelli sono sistemati ai lati opposti della scena, al limite del palco. Remondi e Caporossi si dirigono verso i propri tavolini.

L'inserviente abbatte i due sgabelli che calano paralleli al boccascena poiché sono incernierati al palco. Subito dopo, con un movimento della scopa sgancia le due cerniere e gli sgabelli ven­gono tirati via dalle quinte. Sistema quindi due sgabelli ai tavoli di Remondi e Caporassi, i quali, sempre di spalle l'uno all'alrro, si siedono. L'inserviente va a prendere dei vassoi carichi di bicchie­ri e li sistema su tutti i tavoli, partendo dal fondo e terminando con quelli dei due attori. Esce e rientra con una caraffa colma di vino e lo serve nei bicchieri, sempre con l'identico gesto, seguendo lo stesso ordine adoperato per la sistemazione dei bicchieri. Esce e si ode un suono di una fisarmonica.

Durante la musica Remondi si alza e, muovendosi tra i tavoli, cambia posto ad alcuni bicchieri trasferendoli da un tavolo all'altro, accoppiandoli. La musica si interrompe e Remondi torna al suo posto. Su otto tavolini ci sono due bicchieri, mentre otto tavolini, compreso quello di Remondi, sono senza bicchieri. Due tavolini, compreso quello di Caporossi, sono con un solo bicchiere.

L'inserviente entra carico di sedici bicchieri, li depone a coppia sui tavolini liberi, lasciando per ultimo Remondi ed esce. Rientra e serve dell'altro vino per colmare i bicchieri vuoti.

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La musica di fisarmonica riprende, mentre la luce cala. Questa volta è Capo rossi ad alzarsi e aggirarsi tra i tavoli.

Sposra i bicchieri in modo da raddoppiare le coppie (fig. n. 30). Quando la musica si interrompe, torna a sedere al proprio posto: su otto tavoli ci sono quattro bicchieri ciascuno, mentre sui restan­ti otto nessuno. L'inserviente entra con trentadue bicchieri e li depone a quattro a quattro sui tavolini liberi ed esce. Rientra, e con la caraffa riempie di vino i bicchieri. Esce. Una musica di fisarmonica, con un ritmo più incalzante, proviene dall'esterno. Caporossi si avvicina alle spalle di Remondi. Torna a sedere. Ri­pete l'azione ma, questa volta, mentre la musica si inter~01npe, Remondi, alzatosi, avanza, costringendo il compagno a ind1etreg­giare. Entrambi si muovono alternando lo spostamento in avanti o indietro con dei piccoli giri su se stessi: suggeriscono chiaramen­te l'immagine srilizzata di una coppia che balla.

L'inserviente entra e, senza badare ai due personaggi, co­mincia ad accatastare i tavolini, sui quali sono restati i bicchieri, sul fondo. Mentre Remondi e Capo rossi continuano a ballare al ritmo di una musica che non c'è più, l'inserviente tira la tenda­sipario sul palco, nascondendo alla vista del pubblico i ravolini. Restano fuori solo i due più larerali dell'inizio. Sono appena illu­minati da due lampadine mentre la luce dei proiettori cala d'in­tensità fino a spegnersi. La fioca luce illumina anche un tavolino sul fondo al centro, lasciato apposta dal cameriere. Questi traspor­terà in avanti il tavolo centrale, fino a scontrarsi con Remondi e Caporossi che interrompono la loro danza. Depone il tavolino al centro, sulla linea degli altri due; lo copre con una tovaglia che porra sul braccio. Prende i due sgabelli dai tavoli laterali e li porta vicino a quello centrale. Andando a prendere il necessario dietro le quinte, lo apparecchia con i coperti pei' due pei'sope e vi sistema anche una zuppiera fumante. Esce.

Ritorna la musica di fisarmonica. Remondi e Capoi'ossi si siedono di spalle l'uno all'altro al tavolo apparecchiato. La musica finisce. Rientra l'inserviente ,e, in una sola volta, sparecchia e porta tutto via dal tavolo. Rientra e accenna a portar, via il tavolo, ma si blocca; guarda i due personaggi seduti dI spalle al tavolo centrale, e poi decide di avvicinare, invece, i due tavoli laterali. Prende man mano dal fondo quattro coppie di tavolini (rovesciati uno sull'altro), disponendoli in una fila paral-

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lela e posteriore a quella dove è la coppia di attori. Tema di creare una grande tavolata rettangolare a forma di "C" ma non gli riesce perché maucano dei tavolini (fig. n. 29). Prima renta di risolvere il problema con i tavolini che ha già ponato, muo­vendosi sempre più freneticamente, poi si decide a prendere un altro tavolino dal fondo. La tavolata ora è pronta e ai due estremi siedono, di spalle l'uno all'altro, a breve distanza, Re­mondi e Caporossi. L'inserviente esce e sui due attori restati in scena cala il buio.

Fonti per la descrizione dello spettacolD: Foto dello spettacolo in E/N prive dell'indicazione dell'autore, della data

e del luogo in cui sono state scattate, gentilmente concesse da Remondi e Caporossi .

. Copione originale dello spettacolo, manoscritto, gentilmente concesso dagli autorI.

Intervista a Retfl.Ondi e CaporOJSi, cito Recensioni dello spettacolo (vedi la bibliografia).

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CONCLUSIONI

Proprio gli ultimi due spettacoli, Rem e Cap e Quelli che restano, sembrano racchiudere in sé gli elementi caratterizzanti del teatro della coppia di autori. Primo fra tutti, il tema della comunicazione che, insistentemente filtrato attraverso un evi­dente autobiografismo, viene a essere, nello stesso momento, termine e filo conduttore di un lungo percorso artistico iniziato nel 1971 con i primi esperimenti in comune. Il lavoro dei due attori su Giorni felici nasceva dalla volontà, più volte dichiarata, di conoscersi e sperimentare la propria sensibilità; così come Richiamo, quattro anni più tardi, avrà come fulcro i rapporti SIa di solidarietà tra i due personaggi-operai, sia di dipendenza tra questi e la macchina.

Questa quasi totale fedeltà di Remondi e Caporossi a un unico tema don1inante durante il loro percorso artistico, ha per­messo ai due autori di operare delle scelte che risulteranno, rispetto al panorama teatrale italiano, sempre spiccatamente individuali se non completamente originali. Anche quelli che potremmo riconoscere come spunti comuni a tutta la spe­rilnentazione teatrale negli anni Settanta e Ottanta, nel lavoro della coppia di autori assumono significati e modi spesso ine­diti. Quella sorta di "insofferenza" verso il testo canonicamente inteso, ad esempio, diyenta per Remondi e Caporossi lo spunto per lo studio e la costruzione del gesto come "azione inutile". Poco inclini, però, ad assumere quel gusto tipico del' "teatro immagine", che in quegli anni influenzava sensibilmente le produzioni delle sale romane, i due autori non ~ttribuiscono al gesto una valenza estetica, che lo renderebbe simile ai movi­menti della danza o del mimo: preferiscono invece presentarlo COlne atto lavorativo che consuma la propria energia producendo il nulla, esaurendosi nella propria inutilità) e che diventa alie­nato e alienante.

Ecco allora che viene alla luce una intrinseca attitudine politica delle loro produzioni che, seppur ampiamente presen­te nel panorama teatrale degli anni Settanta, acquista in questo

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caso una nuova forza proprio perché è inserita all'interno di una scelta di linguaggio dettata più da una sensibilità indi­viduale che da un precostituito ordine di idee. Anche il cosiddetto "impegno", quindi, è assunto dalla coppia di au­tori come intima ispirazione creativa, e la denuncia sociale, chiaramente presente in Richiamo (come in altri spettacoli), non diventa per Remondi e Capo rossi impeto aggressivo e comiziante, bensì occasione per una riflessione sulla lOcomu­nicabilità.

Scopriamo allora che l'impegno creativo alla base di spettacoli come Rem & Cap o Quelli che restano, particolarmente concentrato sullo studio della presenza dell'attore in scena, poggia sullo stesso nucleo tematico che regge il precedente e ampio lavoro intorno alle macchine e ai materiali (la dralll­maturgia muta sviluppata negli anni di ricerca comune), e insiste, in fondo, su un unico tema principale: la comunica­zione, via via distorta, negata, tentata e, in qualche momen­to, perfino riuscita.

La comunicazione, in tutti gli spettacoli di Remondi e Caporossi, è colta come necessità di un rapporto che può essere del genere piìl diverso - istintivo, quotidiano, casuale, emotivo, sentimentale, ludico, lavorativo - ma deve comunque apparire profondo e radicato. Altrimenti, sembrano sostenere i due auto­ri, si avvilisce e si consuma l'umanità stessa dell'uomo. Se l'og­getto del lora lavoro muta nel corso degli anni (dalle macchine al materiale, all'attore, all'ambiente) non cambia però la scelta linguistica. Sia quando si presentano come personaggi muti (Sacco, Richiamo, Pozzo), sia quando scelgono dei testi dialogati (Térote, Antigone), il medium che Remondi e Caporassi scelgono per incarnare le proprie idee sulla comunicazione resta il gesto "inu­tile". Le azioni dei "due omini", però, si caricano di significati ambigui ed evocativi proprio grazie al carattere illusorio di utilità che, per contrasto, rivelano; un carattere derivante quasi inte­ramente dal costituirsi del gesto in stretto rapporto a un ele­mento materiale, che sia un oggetto o una macchina. Ed è all'interno di questa prassi creativa che Remondi e Caporossi hanno impiantato alcune strutture "spettacolari" riconoscibili (le

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ruote dentate di Richiamo, il cilindro di Rotòbolo, le corde di Teatro, ecc.) che via via hanno incarnato la relazione vittinla­carnefice, servo-padrone, o la dipendenza alienante dalla macchi­na, o ancora la ricerca dell'unità emotiva e di comunicazione.

Da una scelta di linguaggio così rigorosa e costante de­riva anche il l'ascino degli spettacoli di Remondi e Caporossi, che dimostrano di possedere una eccezionale capacità intuitiva nella scelta c nell'utilizzo dei materiali e delle macchine alle quali applicare il proprio ed originale "gesto inutile", unita a una evidente esperienza nel creare o riassemblare oggetti in modo da accrescerne la portata significante sulla scena. Una qualità che gli oggetti acquistano anche perché sono solitamen­te scelti da Remondi e Caporossi secondo un criterio affettivo, mediante una selezione basata sulla incidenza che dimostrano di possedere sulla memoria, per lo più privata, della coppia di autori. Per questo nelle loro diverse produzioni incontriamo alcuni oggetti come scarponi, cappelli, corde, che appaiono sin­golarmente "costanti", caricandosi, così, immediatamente di ca­pacità e valenze intimamente comunicative.

La macchina spettacolare, che tanta parte ha avuto nella tradizione scenotecnica di cui l'Italia è storicamente sede d'ori­gine, viene reinventata dai due autori che non la intendono più come strumento o sostegno nascosto di un' operazione estetica e spettacolare, ma la spogliano, la mostrano e la descrivono nel suo lento comporsi, smontata, sezionata di fronte agli occhi del pubblico. Remondi e Caporossi portano in scena i sapienti car­pentieri del teatro, i macchinisti che di solito lavorano dietro le quinte, e ne esibiscono il lavoro che, proprio in quanto mostra­to quasi attraverso una lente d'ingrandimentd, si trasforma: non è più solo lavoro teatrale, ma "il lavoro" in generale, in una sorta di «artigianato in progress»l , che assume, di fronte al pubblico, caratteri inediti, capaci di coniugare con sorprendente evidenza i modi dell'arte con quelli della politica.

Come abbian10 detto questi due termini convivono in

I Gianfranco Capitta, Programma di sala della rassegna ILLUSI , svoltasi a Roma nell'ottobre - novembre 1985.

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atmonia proptio petché scaturiscono da un'intima convinzione sull'arte del teatro, ma dobbiamo anche notare che trovano un pumo di coagulo privilegiato nella figura di macchina celibe. Come le macchine celibi, le macchine di Remondi e Caporossi sono prima di tutto macchine mentali, meccanismi perversi che a volte non hanno nemmeno bisogno di manifestarsi in forma consueta ma restano a un livello astratto e generalizzato che può comprendere anche tutta la struttura dello spettacolo come nel caso di Pozzo. E la stessa natura concettuale della macchina celibe si riflette nell'azione scenica e nell'uso, apparentelnente semplice ma in realtà elaborato ed estremamente complesso, dei materiali "elementati".

Nella prima fase del lavoro teatrale della coppia le macchine sono di ascendenza industtiale, ed emerge con particolare evidenza il tema della denuncia politica e sociale. Ma seguendo un itinerario che ha segnato la cultura italiana di quegli anni, Remondi e Ca­parassi hanno poi, man mano, spostato la loro attenzione verso argomenti e spunti più privati, e ciò in coincidenza con l'assorbi­mento dell'uso della macchina e dei materiali all'interno del pro­prio, e ormai maturo, linguaggio teatrale che, sviluppato un pro­prio codice operativo, diventa progressivamente più sofisticato e allusivo, attraversando un processo di rarefazione generale nell'uso del linguaggio. Questa rarefazione stilistica traspare in special modo nelle loro ultime produzioni (a partire da Spèra), e coinvolge i materiali adoperati, che diventano sempre più funzionali e speci­fici al loro scopo, senza per questo ridursi a mera attrezzetia sce­nica, ma conservando e mnplificando il proptio valore· evocativo.

Resta, il loro, un teatro di idee, incarnate però in moduli espressivi che mostrano, quasi giocosamente, la trasparenza cristal­lina propria di ciò che è pieno di senso, perché è semplice e im­mediato e, allo stesso tempo, direttamente lnanipolabile, come i materiali caratteristici del lavoro primitivo ed elementare, che appaiono incapaci di smarrire completamente valore e significato anche all'interno di azioni che sembrano mettere in discussione la possibilità stessa di ritrovare un senso p.egli oggetti e nelle cose.

Il percorso artistico tracciato fino a Quelli che restano ci per­mette di considerare il lavoro sulle macchine e sui materiali com-

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piuto da Remondi e Caporossi, non tanto "chiuso" quanto piutto­sto completamente svolto e assimilato. La sua scansione e il suo sviluppo definiscono in maniera sempre più evidente un modo particolare - e particolarmente efficace - di affrontare in termini scenici il tema del rapporto umano centrato sul binomio comuni­cazione-sepatazione, visto sia in chiave politica e sociale sia in quella più intimista e autobiografica che, nei momenti migliori, si allontana dall'esposizione narcisist1ca delle memorie private, per giungere all'individuazione dei caratteri fondamentali, e quindi accomunanti, della propria condizione umana.

Abbiamo però, sempre a proposito di Quelli che restano (in special modo per il personaggio del came1"Ìere), anche ipotizzato una traslazione del rapporto alienante, solitamente sperimentato dai due autori con la macchina o i materiali, in direzione della recitazione. Ricordiamo ora che molto spesso Remondi e Capo­rossi hanno lavorato insieme a gruppi di giovani attori (Branco, 999999, Passaggi) specialmente in occasione di esperienze di laboratorio condotte all'interno di scuole di teatro. Se mettiamo in relazione quindi la traslazione di cui sopra e .il lavoro con i ragazzi, emerge quello che potrebbe essere il centro della loro attività in questi ultimi anni. l "due omini", ormai fissati in maschere costanti, rivelano la necessità di confrontatsi non più con un elemento macchinico o comunque inette, bensì con la recitazione degli attori, adoperando però moduli espressivi simi­li a quelli già usati nel rapporto con i materiali e le macchine.

Questa ipotesi nasce fondmnentalmente da una considera­zione. La recitazione di Remondi e Caporossi non ha mai trovato il suo sostegno essenziale nell'espressione immediata della vita psichica individuale del personaggio. Si è costituita piuttosto nella descrizione del rapporto delle pulsioni vitali - emozioni e senti­menti - coagulate nella figura umana, con macchine o oggetti. Il loro lavoro è proseguito in questa ditezione esasperando i termini dello scontro, e ipotizzando anche una trasformazione degli uo­mini in cose e viceversa. Ora notiamo che il lavoto con i giovani attori non tende quasi mai a mostrare al pubblico la psicologia dei singoli personaggi, ma illustra l'immagine di un gruppo più o meno compatto, meccanismo unitatio composto da singoli ingra-

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naggi. Proprio dal movimento di questi ingranaggi scaturisce quella umanità, lacera o integra, che resta sempre il fulcro del lavoro

della coppia di autori. Remondi e Capo rossi inoltre non si inseriscono mai nel la­

voro del gruppo, assumendo piuttosto una funzione "direttiva" o comunque "di confronto". Sembrano piuttosto studiare la relazione che si instaura tra i "due omini" e il nuovo elemento esterno, riproducendo, in forma nuova, il rapporto che nei lavori precedenti veniva istituito tra i due omini e un materiale particolare ° una macchina. Anche negli ultimi tre spettacoli realizzati insieme a un gruppo di giovani attori (Coro, Leggenda, Personaggi) l'arte di ma­nipolare i materiali inanimati sulla scena si trasforma nella capa­cità di manipolare un materiale questa volta umano. Con la stes~a sensibilità alchemica con la quale la coppia di autori metteva 1n relazione l'esperienza umana con gli ingranaggi di due ruote o con un sipario di corda intrecciata, cosÌ ora prova a far reagire la pro­pria esperienza teatrale con un gruppo di aspiranti attori, lasciando trasparire una attitudine esclusiva alla regia. Forse,. ancor~, ~ la voglia di sperimentare più ampiamente la loro tecnlCa reCltatlVa: decisamente singolare, di metterla alla prova come metodo, magari per arrivare, dopo più di vent'anni di attività comune, alla teoriz­zazione accademica del loro modo di intendere l'arte del teatrO.

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INTERVISTA A REMONDI E CAPOROSSI1

Domanda - Sfogliando la rassegna stampa dei vostri spettacoli si nota che man­tenete in repertorio alcuni tra i primi lavori come Sacco e Richiamo. La ragione sta nel fatto che li ritenete i Più rappresentativi della vostra produzione?

Remondi - Le ragioni sono due: sono gli spettacoli che non richiedono una grossa spesa di riallestimento, e sono sicuramente quelli piil rappresentativi, quelli che hanno segnato i punti più importanti nello sviluppo del nostro lavoro.

D. - Buona parte della critica ha meJJo in evidenza la dimemione politica di un}ampia serie dei vostri lavori - tanto Sacco e Richiamo} quanto Cottimisti e altri ancora - ponendo particolarmente Faccento sul tema delFalienazione. Ripensando a quegli anni, vi riconoJcete in quella lettura politica del vostro lavoro?

R. - Si, ci ritroviamo. Anzi, credo, che quegli spettacoli siano stati molto importanti perché con essi prendevamo le distanze dal cosiddetto "teatro po­litico" che in realtà era teatro di partito. Certo anche da parte della sinistra sono venute allora delle critiche. Ad esempio qualcuno ci ha accusato, nel caso di Richiamo, di non tener conto delle grandi conquiste della classe operaia, mentre penso che lo spettacolo fosse un discorso sullavom e sulla morte bianca, un problema attiIalissimo anche oggi.

D. - L'allusione politica, caratteristica nelle vostre produzioni almeno fino a Cottimisti} sembra però assente nei due primi spettacoli che avete allestito} Giorni felici e Térote.

Caporossi - Forse, ma certamente quei due lavori contenevano gli spunti fondamentali che si sarebbero pii} tardi sviluppati nel nostro teatro. In Giorni felici, ad esempio, c'è quella matrice beckcttiana che ci hanno poi sempre attribuito (il che a noi in fondo non dispiace). Certo in Giorni felici lavoravamo ancora su un testo d'autore, mentre in seguito abbiamo tentato di sviluppare una drammaturgia propria e originale.

D. - Come è iniziato il lavoro su Giorni felici? C. - È nato spontaneamente in forma di laboratorio. Il teatro del Leopar­

do, che gestivamo all'inizio degli anni Settanta, era diventato lo spazio dove c'incontravamo per lavorare. Ristrutturando il locale, realizzando delle SClU­

ture, abbiamo a poco a poco cominciato a interessarci al testo di Giorni felici. Inizialmente non seguivamo un progetto di messa in scena: abbiamo sempli-

l L'intervista si è svolta Sant'arcangelo di Romagna il 1990 e il 30 gennaio 1991.

in più tempi: a Rimini il 5 giugno 1990, a 21 luglio 1990, ancora a Roma il 12 ottobre

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cemeote realizzato delle sculture in cemento e preparato delle canzoni. Ciò che animava il nostro lavoro era probabilmente il bisogno di conoscersi reciprocamente. Di qui è nata la voglia di visualizzare la figura di Winnie, e io la raffiguravo su alcune tele o sulle pareti. Ricordo che tra il nostro arrivo al Teatro del Leopardo, l'esecuzione dei diversi lavori non finalizzati a una rappresentazione teatrale, la fabbricazione delle sculture, il lavoro sul testo di Giorni felici e la seguente messa in scena, saranno passati circa due anni.

D. - L'uso di materiali come it cemento e il ferro nella realizzazione delle sculture era suggerito da una particolare sensibilità at!'arte figurativa e visiva del periodo?

C. _ Non credo. Non mi sembra che i materiali che adoperavamo faces­sero parte di quelli che allora venivano detti poveri e usati in campo figura­tivo. Il loro LISO era piuttosto suggerito da esperienze personali. Claudio allora viveva con il fratello prete e d'estate andava dalla sorella che aveva una casa· a Torvaianica. In queste occasioni si ingegnava in operazioni di giardinaggio o di piccola carpenteria, adoperando così sia il cemento che il ferro o il legno. lo ho trovato subito interessanti le caratteristiche espressive di questi mate­riali che sono quindi, naturalmente, diventati oggetti del nostro lavoro comune. Del resto il ferro, il cemento e anche il legno, erano materiali che potevamo trovare e lavorare agevolmente.

D. _ Dunque, la scelta di materiali specifici, insieme atta necessità di approfon­dire la conoscenza reciproca e all' interesse per Beckett, sono stati i punti di partenza per la realizzazione di Giorni felici. Come siete arrivati al risultato finale?

C. _ Lo stesso lavoro che avevamo realizzato sul luogo, nel teatro, era per noi lo spettacolo. L'eventuale pubblico si sarebbe trovato già calato in una situazione spettacolare, nella quale avrebbe avuto la possibilità di muoversi liberamente attraverso tutto il teatro, osservando gli interventi sul luogo e

leggendo il testo. D. _ Insomma) fino spettacolo teatrale che si preJentava come una mostra, un'espo-

sizione? C. _ Penso che fosse anche qualcosa di più. La struttum del Leopardo era

ancora fortemente connotata come teatro, con tutte le norme aUora imposte, con l'ingresso, i bagni, il guardaroba, la platea, il palcoscenico, i camerini.

D. - Voi dove vi sareste disp9sti durante lo spettacolo? C. _ Dalla platea erano state tolte tutte le panche in modo da lasciare solo

una gradinata in muratura. Claudio si sarebbe trovato in un angolo sotto il palcoscenico, e lì immobile avrebbe recitato il monologo di Winnie, mentre io, dall'alto, tramite un canale vicino alla parete, e servendomi di una pala, avrei fatto scivolare del pietrisco fino a sommergerlo a poco a poco sottO un mucchio di breccia.

D, _ Nel testo di Beckett, su Winnie cadono delle foglie. Non trovate che il passaggio dalle foglie atta breccia costituisca una trasformazione radicale dell'indica­zione del testo?

C. _ Lavorando con il cemento, con il ferro, con la breccia, nel periodo

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di laboratorio, abbiamo automaticamente sentito il bisogno di applicare que­sta cifra espressiva anche alla messa in scena. Il fascino di un elemento scatu­risce da tante cose: dal rumore, dalla forma. In GÙJrni felici il ric01'so alla breccia tendeva a creare un'atmosfera angosciante proprio tramite il progres­sivo seppellimento di Claudio. Sulla parete laterale della sala erano scritti alcuni brani del testo e le parole erano disegnate lungo il percorso del cana­letto in modo che seguissero idealmente la breccia che scorreva. C'era un'as­sociazione precisa fra testo e breccia: ogni granellino cm una lettera del testo.

D. - A quest'mo dello spazio in forma non convenzionale corrisponde:va un analogo imPiego dette luci?

C. - Decidemmo immediatamente di risolvere il problema delle luci illuminando lo spazio in maniera uniforme in mcxlo che l'assenza di punti messi particolarmente in evidenza lasciasse il pubblico essenzialmente libero di muoversi e in grado di distogliere l'attenzione da una situazione precisa per seguirne altre, liberamente.

D. - Un'altro intervento radicale nella realizzazione del testo di Beckett è stata la decisione di affidare a Claudio un personaggio femminile,

C. - È stata una decisione fondamentale. Winnie è la figura in cui noi vedevamo riuniti entrambi i personaggi dell'opera. Nella lettura di tutto Beckett si presentano sempre queste coppie-unità: Estragone e Vladimiro, Pozzo e lucky, sdoppiamenti dell'essere umano (istinto e ragione, anima e corpo) in cui l'uno è il completamento dell'altro. Nel testo di Giorni felici la figura complementare a Winnie, Willie, sta nella sua buca e parla pochissimo. Il testo è in realtà uo monologo. lo, che nello spettacolo scaricavo la ghiaia addosso a Claudio, non rappresentavo l'altro personaggio, ma ero solo una sorta di servo di scena o un meccanismo scenico scoperto.

D. - Quando è nato il vostro interesse per Beckett? Già prima del lavoro al teatro del Leopardo?

R. - L'interesse per Beckett è stata una costante di quasi tutta la mia pratica teatrale, anche prima della collaborazione con Riccardo. Ricordo che per me fu importantissimo, ad esempio, la messa in scena di Aspettando Godot con la regia di Carlo Quartucci, dove interpretavo il personaggio di Pozzo.

C. - Per quanto mi riguarda gli scritti di Beckett so110 state le prime letture teatrali: penso a Giorni felici, Atti senza parole, Finale di partita, Aspet­tando Godot. Penso però anche ai romanzi che forse ho trovato addirittura più affascinanti.

D. - Il rapporto con Beckett continua, come sostiene la critica, anche adesso? R. - Forse ci ha lasciato un profondo segno, ma se dovessimo accorgerci

che qualcosa in una nostra produzione ci ricorda direttamente Beckett, allora lasceremmo cadere il riferimento. Se sono gli altri a dircelo ci fa piacere, ma evitiamo le azioni che ci appaiono intenzionalmente connotate, ripetute.

D, - In ogni caso nei successivi spettacoli si può parlare solo di ((atmosfere" beckettiane, anche perché avete generalmente smesso di usare testi, o comunque di

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1fT' !

lavorare a un teatro di parola. Fa eccezione il vostro secondo spettacolo, Térote, che, a differenza delle produzioni succemve, si basa su un lungo monologo,

C. - Bisogna dire che io ho conosciuto Claudio quando lavorava ancora con Quartucci, e a quel tempo aveva già sedtto dei testi per il teatro. All'ori­gine Claudio era un attore di parola: oltre gli autori di cui ho già parlato, aveva messo in scena La moscheta di Ruzante nel 1959, L'architetto e nmperatore di Assiria di Arrabal oel1968, e alcuni suoi copioni. All'inizio ci sembrò quindi naturale lavatare sulla parola,

D. - Térote nasce da un!idea teatrale originale? C. - Si. Era un testo dialogato, in cui un personaggio aveva più corpo

dell'altro che invece rispondeva a monosillabi. Poi il dialogo si è trasformato in un monologo> anche rispettando la divisione di ruoli che vedeva Claudio attore di parola. Infine decidemmo che io potevo sostenere il mio ruolo non con le parole, ma con le immagini, linguaggio di cui ero sicuramente più padrone.

D. - L'oggetto principale dello spettacolo, costantemente mostrato o citato, è il bottone. Come è nata questa scelta?

C. - Lo spunto per la creazione dello spettacolo è stato dato proprio da una cassa piena di bottoni di tutte le forme e i colori che il fratello prete di Claudio aveva ricevuto per i propri parrocchiani. Guardando e riguardando questi bottoni è nata l'idea di utilizzarli per costruire il pupazzo che domina il finale dello spettacolo.

D, - Avete pensato prima al pupazzo e poi al testo'? C. - Si. Dopo i primi disegni e le prime proposte di realizzazione è venuto

fuori un abito sostenuto all'interno da una sorta di corazza. La parte superiore era armata con una rete metallica, sovrastata da un elmo. I bottoni erano cuciti sulla stoffa che rivestiva questa struttura cd erano disposti a seconda della forma e del colore, e in modo da formare dei disegni. E ciò era molto impor­tante, perché, per quanto mi riguarda> è il disegno che restituisce una dimen­sione scenica alla realtà. Claudio, nel testo, insiste> ad esempio, in vario modo per entrare in una porta che io ho disegnato. E per tutta l'azione scenica continuo a disegnare: figure di animali che sono una risposta alla sua aggres­sività (dalla pecora-cane al mastino, al serpente, alleane, al drago> all'orso), mobili per barricarmi, un rubinetto che diventa una pistola.

D. - Disegnavi su una parete bianca? C. - Sì. Anche se quando ci è capitato di realizzare lo spettacolo in una

scuola abbiamo usato dei grandi fogli di carta sistemati sui muri. D. - Nello spettacolo, scandito dal monologo di Claudio, si possono individuare

alcune azioni centrali come appunto il tuo disegnare sulle pareti o l'apparizione del pupazzo di bottoni, Tra queste credo che si debba inserire anche la presentazione del progetto della macchina per la fabbricazione dei bottoni. Come si svolgeva l'azione?

C. - Claudio prendeva questo progetto, disegnato su un lungo foglio di carta arrotolato, e lo srotolava. La sala del teatro della Ringhiera, dove è stato rappresentato lo spettacolo, era rettangolare, divisa in due parti: una pedana

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c la platea. Noi avevamo cercato di eliminare i tendaggi e tutto ciò che poteva ~endere la sala pi~ "teatrale". Il foglio del progetto veniva srotolato proprio 10 mezzo al pubblIco. Alla fine Claudio, dopo aver proposto agli spettatori una societ~ per azioni che sfrutt~sse la macchina per fabbricare bottoni, ne distrug­geva 11 progetto, lo straCCIava, e tutti i pezzetti volavano per l'aria come farfalle. In 9uestù modo Claudio si muoveva fra pedana e platea.

D. - Come erano sistemate le luci? C. - Le luci erano sempre piene e bianche, con l'unica funzione di "far

vedere", senza produrre nessun effetto particolare. D. - C'era una colonna sonora? C. - No. A un certo punto però Claudio cantava una call'L.one mentre io

lo accompagnavo con la chitarra. Si tratta di Reginaldo, canzone poi ripresa in Rem e Cap, che componemmo nel periodo di Laboratorio al Leopardo, insieme ad altre, come anche quella della fiammella che canto nel finale di Richiamo. Abbiamo composto in tutto una decina di canzoni.

D. - Dove era collocato il pupazzo di bottoni? C. - Il pupazzo era sistemato in una cassa alta due metri e in ultimo quasi

a rifiutare l'idea di fabbricare bottoni, veniva innalzato.il to;em su cui Claudio cuciva l'ennesimo oottone dopo una cerimonia in<.ui io portavo ago, filo e furbici.

D. - Il tuo personaggio era mmpletamente muto e si esprimeva solo tramite azioni? C. - Si. Ad esempio segnavo le impronte di Claudio mentre camminava>

c anche quelle del pubblico. Inoltre mi fabbricavo degli zoccoli, fingevo di trasportare a fatica la cassa, disegnavo una figura distesa e poi intorno una bara con tutti i fiori. Mi costruivo una maschera da cavallo con il cartone che riprendeva il viso di cavallo, ili. gommapiuma dipinta, del totem.

D, - Anche nel successivo Jpettacolo, Sacco, è l'azione fisica che ha un'importanza preponderante. Com'è nata l'idea di organizzare tutta la messa in scena intorno a un attore (Claudio) racchiuso, appunto, in un sacco?

C. - In quegli anni procedevamo per tentativi. Pensavamo alla scenogra­fia non COme supporto> qualcosa che stia alle spalle o che circondi l'attore, ma c~me parte dell'~zione scenica, dello spettacolo. In-questo caso la scenografia dIventava anche Il costume, l'oggetto, e tutto era concentrato su una persona. Pensavamo anche a qualcosa che potesse trasformarsi, avere la forma di una fortezza, di un castello, potesse essere insomma il luogo dove sviluppare l'azione. Ce~cavamo un elemento base che contenesse tutte queste immagini, e, per sintesi> siamo arrivati alla cosa più povera che potessimo immaginare: il sacco. Il sacco è fatto di una stoffa grezza, poverissima, ma nel contempo è il contenitore per eccellenza. Lo spettacolo comunque non concedeva molto al pubblico. Creavamo una situazione tesa, anche se poi, arrivati al punto culminante, la tensione veniva rotta da alcuni interventi che provocavano una risata liberatoria. Gli spettatori erano come testimoni di una situazione, come se per strada o in piazza stessero assistendo a un incidente, e dovessero capire e testimoniare l'accaduto.

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D. - Anche in Sacco la luce è pienct e diffusa? R. - Si ma, questa volta, in alcuni momenti, l'attenzione del pubblico

veniva orientata su zone o punti particolari della scena. Quando Riccardo mi chiudeva sotto la cupola dalla quale spuntava, attraverso un foro posto in alto, solo una mia mano, ael esempio, aveva ini:t:io una lunga scena di lotta tra la mia mano e la sua: Riccardo, per isolare visivamente le due mani, sistemava due fascic nere sui rispettivi polsi. Il tutto però a luce piena.

e. - Potrebbe essere proprio l'equivalente di un primo piano cinema­tografico.

R. - Ci hanno anche chiesto perché non proiettavamo un cono di luce sulle mani, ma io ho sempre ritenuto che fosse più efficace isolarle con le fasce nere.

D, - Forse perché temevate che gli effetti di luce ottenuti con un proiettore creassero un'impressione artificiale di finzione, che potesse compromettere il carattere di verità e autenticità dei vostri lavori?

R. - Giusto. E poi qualsiasi artificiosità avrebbe stonato con quella lotta che era di una cattiveria spaventosa.

D. - In questa prospettiva, costantemente orientata dall'esigenza di evitare ogni effetto "artificiale"! si potrebbe allora collocare la scelta dei materiali che adoperate:. materiali direttamente tratti dal mondo ureale", che appaiono assai poco "teatralj'i, E possibile collegare questa scelta anfhe alla dimensione politica degli spettacoli, e par­ticolarmente al tema dell!alienazione?

C. - Credo che si debbano tener presenti due aspetti. Uno è quello artigianale, della fabbricaL'.ione dell'oggetto. L'altro è la metafora della schia­vitù tecnologica. Richiamo è stato letto come denuncia della macchina, del ciclo di produzione, dell'alienazione del mondo. Una denuncia della riduzione dell'essere umano a servo della macchina e quindi della sua cancellazione,

D, - Alcuni materiali come il legno! la pietra, il ferro, che potremmo definire arcaici! possono assumere significati particolari quando vengono portati sulla scena?

R. - Lo prendono. Noi siamo pronti a cogliere e utilizzare il significato che i materiali assumono nell'uso scenico.

C. - Il significato comunque non sta mai nel materiale in sé, ma nella sua manipolazione concreta. Anche nella costruzione della macchina di Rotòbolo, che è stata affidata a un'officina, siamo intervenuti noi, manualmente.

R. - Non prendiamo mai in esame un materiale per individuarne un significato o una funzione intema, che porterebbe in sé, ma stiamo attenti a tutto ciò che può esprimere anche casualmente o nella manipolazione involon­taria. In Antigone, ad esempio, abbiamo usato come scenografia la ghiaia (il carico di dieci TIR) con cui abbiamo creato delle dune. Camminandoci sopra a piedi nudi ci siamo resi conto che questo materiale funzionava come fonte sooora e quindi musicale. Il nostro sforzo non è di coordinare i vari elementi della messa in scena, ma di impastarli.

D. - Si possono attribuire, secondo voi, dei segni caratteriJtici a un materiale? Possiamo definire i materiali fondamentali di Richiamo (ferro' e plastica) come

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Ifreddi", e quindi specificamente adatti a rappresentare un rapporto alienante nei confronti della macchina?

C. - Per noi il materiale deve sempre avere un'applicazione che abbia come scopo la costruzione di un oggetto, è sempre un mezzo. Anche in CottimiJti, dove si impone la presenza dei mattoni, ciò che importava era che questi fossero materia "toccabile", reale. Magari in uno spettacolo simile a CottimiJti altri avrebbero usato la gommapiuma, più leggera e quindi più comoda.

D. - Ci sono quindi delle differenze di scelta e di utilizzo tra materiali naturali e Jintetici?

R. - In verità non ci poniamo alcun limite prestabilito nella scelta dei materiali.

D. - Nella manipolazione dei materiali sulla scena, Richiamo presentava uno scenario tecnologico inteso come costrizione schiavizzante che annulla e schiaccia l'uomo. È questa la concezione fondamentale della tecnologia, presente nei vostri spettacoli?

R. - In quel caso sì. Ma presentavamo poi questa concezione dell'attività tecnologica in maniera molto semplice. Con pochi mezzi cercavamo di illu­strare e di evocare una situazione molto più ampia, generale.

C. - Penso che Richiamo sia impostato su un'ottica specificamente umana. È l'uomo che diventa architetto delle cose, di trasformazioni sia naturali che artificiali, diventandone però man mano schiavo, a scapito del rapporto con le altre persone.

D. - Ma in Richiamo l'uomo, rendendosi schiavo della macchina! sembra addirittura provocare la propria morte.

R. - Nello spettacolo c'è un chiai'O rimando alla "morte bianca" di Riccardo che viene schiacciato dalla macchina. Dei due personaggi uno è ridotto a robot, e quindi non è più padrone di se stesso, l'altro, in un ultimo palpito di umanità, si mette sotto la macchina facendosi schiacciare, e solo così riesce a bloccarla. Per noi è una chiara allusione al sacrificio teso al recupero dell'altro che si sta perdendo.

D. - Certo in Richiamo /'elementopiù visibile è la macchina a ingranaggi, Que.rt!ul­tima però si arresta proprio in una scena particolare: quando entra la piccola costruzione in legno, quasi una gabbia, con un uccello all' interno, La scena costituisce un momento di rottura all' interno dell'impianto drammaturgico! anche perché il ritmo del/' azione muta bruscamente quando il volatile fugge e, conseguentemente, la struttura crolla.

R. - In verità i due personaggi, per un attimo, prendono coscienza della loro condizione di schiavi della macchina, quindi fuggono via abbandonandola, Si rifugiano però negli ideali ambigui materializzati nel tempietto che entra. Senon­ché, quando !'idolo (bada bene, non il dio) fugge, il tempio crolla addosso ai due che sono così costretti a ritornare alla macchina. È una evasione nulla, inutile.

C. - L'uomo cerca costantemente di evadere dalle proprie angosce e dalle fatiche della vita quotidiana ma tende a rifugiarsi in una immagine o aspira­zione proiettata fuori dalla realtà. In quella scena mettiamo in evidenza la precari età di questi ideali.

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D. - Perché nella scena del t~mpietto 11n personaggio entra ~mnminando su due sostegni di cemento manovrati dal/'altro?

R. - È un segno per indicare la tentazione di elevarsi sugli altri e che rimanda generalmente alla funLione dei pammenti sacri. E del resto l'evasione a cuI abbiamo accennato viene sempre segnalata con pratiche che assumono valori sacrali.

D. - Anche gli oggetti che escono dal pallone di plastica nella prima sama di Richiamo hanno un significato particolare? ,

e. - Sono gli oggetti che messi insieme compongono la macchina. Ini­zialmente però escono fuori delle ossa, i residui dell'animale o di chi comun­que è stato inghiottito.

D. - Si è parlato Jpesso, in riferimento ai vostri lavort~ delle "macchine celibi" accennando così alle opere di Duchamp, Roussel, Kafka. Se doveste dare un nome alle vostre macchine, le definireste celibi, oppure in altro modo?

R. - Le definirei "macchine inutili", lo trovo più giusto. Qualche volta macchine dannose.

D, - Dannose per chi? R, - Per l'uomo che crede di usarle, Sono macchine inutili che nell'im­

piego diventano estremamente dannose. e. - Per me potrebbe andar bene la definiLione di "celibi". D, - È singolare come in Richiamo, pur muovendovi in un ambito di denuncia

politica e sociale, non ricorriate mai a macchine mostruose, dotate di enormi ingranaggi, come quelle presenti in Tempi Moderni di Chaplin, Chaplin è del resto un autore al quale la critica vi ha spesso paragonato,

R. - A me piace ricordare che ci san bastate solo due ruote. e. -SicUl'amenre poi c'è lo scarto rappresentato dai due diversi linguag­

gi, cinematografico e teatrale. Credo che a teatro, con dei segni minimi, si possa giungere agli stessi risultati.

R. - lo, ad esempio, sono trasformato in un robot col semplice gesto di inmarmi sul capo un innaffiatoio, al quale avevamo tolto il fondo, Era un segno povero, che comunque serviva a cancellare l'uomo.

D. - Si può parlare quindi di minimalismo? R. - A un certo pumo, grazie alla mancanza di mezzi, siamo stati costret­

ti a scop1'ire !'importanza della sottrazione, e ci siamo accorti che un semplice gesto può essere molto più esplicativo di creazioni che costano milioni.

e. - Esiste, del resto, nelle nostre messe in scena, un particolare tipo di n:on:aggio delle azioni che isola quella principale tra altre che nel contempo SI SVIluppano. È una recnica che consente di non far perdere "il filo del discorso" allo spettatore. L'abbiamo utilizzata anche in Richiamo, ed è presente ad esempio nella stl'Uttura "drammaturgica" della scena in cui io trasformo Claudio in robot e lo nutro. Questa azione è compiuta mentre continuiamo a muovere la macchina, ma il pubblico riesce comunque a coglierla come sequenza di gesti unitari e non frammentati. Un simile risultato si ottiene

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proprio gmzie a un processo di sottmzione, "asciugando" tutto, sintetLLLando i movimenti.

D. - Nella vostra concezione della macchina è anche jJresente un'implicita rifles­sione sul ,'oncetto stesso di tecnologia teatrale?

C. - Il nostro atteggiamento rispetto alla tecnologia teatrale è diverso da quello di altri gruppi. Di solito per tecnologia teatmle si intende un supporto tecnologico alla scenografia o comunque un meccanismo per produrre un effetto spettacolare. Si utiliLzano palcoscenici che si muovono, pompe idmu­liche di sollevamento: tutti quei meccanismi che fanno parte del teatro e della scenografia di memoria ancora rinascÌmentale o barocca. La nostra diversità sta nel fatto che l'oggetto, la macchina, è veramente protagonista dello spet­tacolo.

D. - La macchina, la temologia, sono proprio le protagoniste di Rotòbolo, in cui trasformate radù;almente il rapporto spaziale con gli spettatori, che si muovono all'interno di un universo temologù;o. Come è nata l'idea di questo spettacolo?

e. - L'idea di partenza era quella di condensare in un'unica operazione lo spettacolo e l'ambiente teatmle. Rotòbolo era allestito all'aperto, preferibil­mente in una piazza, all'interno della quale montavamo la stmttura. Tutto il cilindro di Rotòbolo era costituito da sette cerchi indipendenti, che ruotavano azionati dagli spettatori all'interno. Cercavamo di fadi girare insieme, in modo che ci fosse una coincidenza nel movimento.

D. - In Ameba il protagonista è un groJJo aggeggio che può rientrare nella tiPologia della macchina inutile ma è essenzialmente diver;o dal meccanismo a ingra­naggi di Richiamo, Si tratta di una variante nella mncezione della macchina?

e. - La differenLa con Richiamo è che in Ameba si impone subito chiara l'immagine della schiavitù dell'uomo.

R. - È anche vero che Ameba è un oggetto-macchina inutile ma anche affascinante. Lo spettacolo conteneva dei riferimenti al rito, alla religione, ai grandi ideali asserviti. Ameba era un oggetto al quale i personaggi si dedica­vano completamente senza avere nulla in cambio, tranne un appagamento spirituale o psicologico. Mi ricordava i momenti in cui la gente si getta in ginocchio davanti ai santi, ai monumenti o a una bandiera.

e. -L'idea originale di quella macchina ci veniva prgprio da un organi­smo unicellulare come l'ameba, con le caratteristiche del movimento e della trasformazione, ma una trasformazione che avviene nel movimento.

D. - In Ameba citate il ((torneo", chiamando in causa flcavalieri e s,"udieri". R. - Infatti lo spettacolo è proprio una gam tra le due amebe che si

scontrano; alludendo così anche alle antiche macchine di guerra. D. - Ma qui dunque la schiavitù non potrebbe apparire minore perchi, diversa­

mente da Richiamo, sono i cavalieri e gli scudieri a guidare la macchina? R. - Ma ne sono anche guidati. Nello spettacolo c'è una scena molro

importante, dove due persone vestono le altre due, mediante delle aste, con dei costumi quasi da frate, e poi li fanno girare come vogliono, e quelli che

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si muovono sembrano dei burattini investiti di qualcosa che non conoscono. 1 burattinai sono a loro volta servi di un burattinaio invisibile. In Ameba le due aste non fanno altro che condurre due partecipanti a scontrarsi: sono due cavalieri bendati c investiti di eroismo.

D. - In Ameba per la prima volta la morte dei perJonaggi (il martirio alla (:olonna) è provocato non dalla macchina, ma da altri personaggi flmani, e in una forma che, nella sua semplicità, è particolarmente violenta. Tutto ciò risponde a un motivo preciso?

C. - Penso che in questo spettacolo la macchina rappresentasse soprattut­to la metafora del potere in sé. La situazione del gioco-torneo è un termine spettacolare attraverso il quale viene messa in evidenza la metafora del potere che rende schiavi.

D. - Di che materiale è l'oggetto? R. - In vetroresina, perché ci serviva un materiale leggero e resistente. D. - La componente artigianale del lavoro è una caratteristica frequente dei vostri

spettacoli. Molti critici f' hanno notato, in particolare mettendo in luce la vostra abilità nel costruire il muro di Cottimisti.

R. - Questo proviene sia dall'esperienza, in quanto io da giovane ho fatto il muratore, sia dall'attenta osservazione dci materiali. Tutti hanno visto dei mattoni, come si usano, ma in genere nessuno vi dedica un minimo di osser­vazione. Ora il materiale, sottratto alla sua funzione più consueta e inserito in una situazione diversa, come quella teatrale, diventa "parlante" spettacolare, senza per questo giungere al realismo. Oltre lacollocazioncper noi è importante l'uso del materiale, la capacità di "viverlo" in movimento, in un rapporto reciproco. In Cottimisti è quasi il materiale che ci invita a usarlo e noi, succubi, obbediamo. L'c!emento che ne risulta, un muro, ha una precisa funzione: ci separa.

C. - Tutto viene cosrruito di fronte al pubblico che osserva. All'inizio di Cottimisti ci sono tanti mucch.i di mattoni che noi mettiamo in opera uno alla volta, proprio al contrario di quanto accade nel procedimento estetico usuale, in cui al pubblico viene mostrata un'immagine già compiuta. È' come se noi, avvicinandoci alla scenotecnica del teatro tradizionale, allestissimo uno spet­tacolo che si basasse sul mettere a posto le rondelle della macchina che apre il sipario o solleva il fondale.

D. - Una scelta tanto precisa nell'uso dei materiali implica altrettanta atten­zione nella scelta degli oggetti. Nel VOJtro teatro appaiono oggetti ricorrenti come scarponi e cappelli.

R. - Sono degli elementi tipici dell'abito, quindi vicini all'uomo. E poi fondamentalmente ci piacciono. Mio padre era artigiano edile. Ha lasciato un paio di scarponi che aveva usato negli ultimi dieci anni della sua vita. Riccardo li ha visti, li ha indossati e da sempre se li sta portando dietro. Sono cose che il pubblico non sa, ma che per noi sono molto importanti. Noi trasferiamo sempre qualcosa degli spettacoli vecchi in quelli nuovi.

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D. - È il vostro bagaglio emotivo che è sempre presente? C. - Cerro. Poi magari qualche elemento si nota di più perché diventa

ricorrente. R. - Il tutti i nostri spettacoli, ad esempio, c'è la corda, partendo da Sacco

per arrivare a Teatro o ad Antigone. D. - La preJenza ricorrente della corda è conneJSa a un motivo particolare? R. - È di natura intuitiva; è una di quelle elementari scoperte dell'uomo

che servono a tante cose, ad esempio a collegare. C. - Inoltre è un materiale strettamente congiunto al lavoro manuale nel

teatro. D. - Quindi la funzione peculiare della corda è quella del collegare? In Sacco

la cordet collega la vittima al suo carnefice. R. - Infatti in Sacco la corda esce fuori dallo "stomaco" o dalla "bocca" del

grosso fagotto protagonista dello spettacolo. In Antigone collega la protagoni­sta con i suoi antenari: è un cordone ombelicale.

D. - E in Teatro vi collega al palcoscenico, rappre.fentando il diafmmma che siete costretti a passare per accedervi.

R. - Certo, e inoltre lo stesso gomitolo che appare nel finale di Teatro è di corda. L'immagine è legata a una battuta molto importante che dice: «È inutile che ci facciamo tante illusioni, malgrado tutto apparterremo sempre a due mondi differenti». Infatti il gomitolo, questo piccolo pianeta, è ipote­ticamente fatto della mia e della sua corda, quindi sono due individualità intrecciate insieme ma comunque separate.

D. - In generale gli oggetti che ricorrono, scarponi, cappelli, corde, proprio come i materiali utilizzati, .fOno semplici, immediatamente riconoscibili, ({quotidiani", ma nell' uso scenico diventano inconsueti o addirittura inquietanti. '

R. - Certo. Possono esserci delle,situazioni dove un semplice cappello suscita una grossa emozione in chi guarda, proprio perché va a toccare, evidentemente, quei punti in cui ognuno di noi cela qualcosa di soffocato, di nascosto.

D. - Rita Cirio, recensendo un vostro lavoro, ha parlato di IIdrammaturgia degli oggetti", di CO.fe come parole. Ci sono degli oggetti che hanno assunto un significato particolare e univoco nel vostro lavoro?

R. - Non credo. Tutto è sempre riferito alla situazione scenica: è sempre un rapporto in movimento.

C. - Non tendiamo a catalogare i materiali o oggetti in modo che possano assumere un solo significato: anzi nel nostro lavoro ci muoviamo costante­menre in direzione opposta.

D. - Nello spettacolo Spèra, oltre a scarponi e cappelli, l'oggetto sempre presente è appunto la sfera. Ciò non allontana la situazione dal quotidiano proiettando la scena in una dimensione che tende Più al fantascientifico o al metafisica?

R. - Potrebbe essere l'uno e l'altro insieme. In quello spettacolo abbiamo voluto creare un riferimento all'alta tecnologia, nel senso che per noi la sfera è un concetto sintetico. .

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D. - Di (he materiale sono le rfere? C. - In vctroresina, dipinte con una vernice che dàl'iclea del metallo. Non

c'era però alcuna intenzione di nascondere o camuffare il materiale reale. Ci SC1vÌva solo un colore neutro quale quello del metallo.

R. - Le sfere sono delle protesi. Infatti usciamo da una sfera, nella scena iniziale, come se fossimo una sola figura, che subito dopo, però, si spezza. Di lì inizia la difficoltà di comunicazione, il tentativo di ricomporsi. Allora i due personaggi cominciano a girovagare mutilati, in cerca dell'altra parte di se stessi, portandosi dietro, in sostituzione della pane mancante, una protesi chiaramente artificiale che allude alla tecnologia di cui oggi disponiamo.

D. - La critica, parlando di Spèra, nomina un "congegno celibe" col quale voi cronometrate il tempo de/t intervallo dello spettacolo.

C. - Non è proprio un congegno. Era la prima volta che consideravamo l'intervallo nel nostro lavoro, e decidemmo di inglobarlo nella struttura dello spettacolo. Alla nostra ultima uscita restavano in scena un paio di scarponi su cui era collocato un cappello. La luce si concentrava su questi oggetti. Una voce annunciava !'intervallo dicendo che la durata sarebbe stata quella neces­saria a far sollevare il cappello a un metro e settantacinque di altezza: l'altezza media di un uomo.

R. - L'intervallo risultava quindi la continuazione dello spettacolo. Il secondo tempo iniziava infatti con il nostro ingresso in scena e con l'incontro con quest'essere inesistente.

D. - L'idea di assenza, il ilniente", ricopre un ruolo di primo Piano nei vostri lavori. E de! resto è proprio ilil niente" che si trova dietro il siPario di Teatro.

C. ~ Il palcoscenico vuoto di Teatro è un "niente" che va oltre il teatro. È il luogo dei possibili illusionismi, dove può accadere anche il miracolo. È un nulla dettato dal buio al di là del sipario.

R. - Ma è anche una fonte-madre del gomitolo che arriva in scena. C. - Non credo che l'idea del "nulla" debba essere legata solo al fatto

teatrale. Il "nulla" è quello che si contrappone alla vita. È sempre usato come termine di paragone, come opposto di una concretezza di una realtà. C'è sicuramente un dato apparente che è quello del "costruire", come nei primi spettacoli in cui ci confrontiamo con un oggetto che costruiamo o distruggia­mo. Ma c'è anche un dato impalpabile, secondo il quale anche ciò che costru­isci può azzerarsi nel nulla. Del resto anche il nostro modo di porci rispetto alla creazione di uno spettacolo ci riporta al nulla, in quanto parliamo sempre di "azzeramento", di "desertificazione". Il deserto può essere una buona im­magine per descrivere il punto di partenza del nostro lavoro, perché è domi­nato da due elementi come il nulla e il silenzio che per noi sono molto vicini.

D. - Si tratta quindi di un dgserto che non è sterile, ma è anzi molto fecondo? C. - Certo. È un "nulla" non inteso come inconsistenza, bensì come fonte

delle cose visibili: proprio di lì esce fuori la concretezza. R. - È con Spèra, credo, che abbiamo dato il segno più grande dell'assen-

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za. Parlavo prima di protesi e di come ce ne liberavamo nel corso dello spettacolo, ma in quel caso ci liberavamo anche di noi stessi. Ci è sottratta l'umanità, l'esistere. Per questo, quindi, in quel momento, mostriamo cappel­li e scarpe che girano senza uomini.

C. - Mostrare un cappello sollevato su un paio di scarpe è quasi come definire gli estremi, all'interno dei quali esiste tutto ciò che è riconducibile all'uomo.

D. - In Teatro l'idea di "nulla" è legata alla visione di uno spazio vuoto - in qUeJto ~'aso il palcoscenico del teatro all' italiana. È .ftata la prima volta che avete ideato uno Jpettacolo per Un simile spazio teatrale?

C. - Prima è venuta l'esperienza di Cottimisti, dove abbiamo ricostruito il palcoscenico come un'impalcatura da cantiere. Teatro è sicuramente il momento in cui "saliamo" sul palcoscenico superando la barriera classica determinata dal sipario.

D. - Come definireJte il vostro rapporto con il t'eatro tradizionale all'italiana? R. - Di disponibilità. Quando parliamo di spazio scenico noi intendiamo

un luogo dove si possa fare teatro: quindi dappertutto. A un certo punto siamo ritornati sul palcoscenico, ma avendo chiara !'intenzione di una riscoperta, di una reinvenzione.

C. - Secondo me si tratta di un percorso preciso, segnato anche da alcuni spettacoli. Fin dall 'inizio del nostro lavoro, nel Teatro del Leopardo, con l'alle­stimento di Giorni felici, è stato proprio il luogo l'oggetto dei nostri esperimenti. Il testo era tutto scritto sulle pareti e immaginavamo che fosse un percorso; cercavamo un possibile impasto (fa lo spettacolo e il luogo. Volevamo coinvol­gere lo spazio in ciò che si rappresentava, e di qui è nata l'esigenza di rompere con lo schema tradizionale della rappresentazione. Probabilmente ci trovavamo anche in sintonia con una tendenza del periodo. Infatti, tranne Térote, inteso come esperienza di mezzo, Sacco è nato coll'idea di schema centrale: proprio un ring con il pubblico intorno. Certo adesso Sacco lo rappresentiamo anche su palcoscenici tradizionali, ma per noi le motivazioni non cambiano.

D. - C'è stato quindi un proceJso di rifiuto, o di allontanamento, razionale e cosciente, rispetto alto spazio scenico all'italiana?

R. - Con Richiamo, ad esempio. questo spettacolo nq,n può esser fatto su un palcoscenico.

C. - Richiamo è uno spettacolo con un luogo di rappresentazione ben preciso: un percorso. L'idea originale, anche sul testo, è la strada. È uno spettacolo che richiede un luogo anomalo, con il pubblico disposto lungo un lato del percorso. La ricerca sul rapporto pubblico-spettacolo, per noi, ha il suo culmine con Rotòbolo, dove lo spazio e l'azione scenica hanno trovato un momento di fusione nel funzionamento dell'oggetto durante il quale il pub­blico diventa il protagonista dell'azione.

R. - In Rotòbolo lo spazio era la scenografia e la scenografia era lo spazio. C. - Nello spettacolo successivo, Cottimisti, abbiamo voluto riproporre,

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o almeno alludere, al luogo del teatro, flEetendoci anche alla sua funzione illusionistica. Partendo da una situazione di cantiere, prima della costruzione del muro, salivamo sull'impalcatura trascinandoci dietro dei teli che, a un certo momento, formavano a vista il boccascena.

R. - Il boccascena era importante perché volevamo dare l'illusione che il muro continuasse all'esterno, e potesse ritornare. Ma invitavamo lo spettatore a entrare nel gioco "spiegandogli il trucco".

D. - Il gio(o dell'illusione in rapporto allo Jpazio scenico continua anche con Pozzo?

R. - In quel caso il diaframma tra gli spettatori e una realtà diversa era il foro stesso: nel contempo sipario e fome meravigliosa.

C. - Un'altra importante tappa è poi segnata da Antigone, dove lo spazio scenico coinvolgeva spettatori e spettacolo, Questa è la ragione pet la quale abbiamo scelto un capannone industriale di seicentocinquanta metri quadrati, vicino a Ostia antica. Anche in questo caso ci muovevamo alla precisa ricerca di un particolare ambiente che aderisse alla nostra idea spettacolare.

D. - Il muro presente nell'allestimento di Antigone è un richiamo alla scaenae frons romana?

C. - Certo, Con T'eatro invece, come già detto, abbiamo voluto riappro­priarci coscientemente dello spazio teatrale all'italiana, focalizzando l'atten­zione su un elemento preciso: il sipario.

R. - Ma lo abbiamo voluto fare partendo da un rapporto di verginità, come chi, venendo dall'esterno, non sappia nulla.

C. - E così via, il processo continua, e abbiamo prodotto Bosco, Spèra, e in quest'ultimo è proprio la scatola teatrale a permettere il gioco, che va al di là del tempo reale espandendosi in una dimensione metafisica. Negli altri spettacoli, Richiamo, Cottimisti, il tempo è reale, quello necessario a svolgere le nosrre azioni. In Spèra esiste un tempo immaginario e i movimenti non sono strettamente legati al tempo che passa.

R. - Ricordiamo però che anche negli altri spettacoli ci sono delle parentesi di tempo "mentale". In Cottimisti, ad esempio, 'dal mo"mento in cui il muro esce di scena da un lato e quello in cui rientra dall'altro, appaiono alcune oche e potrebbe essere passato un tempo infinito, quello necessario, forse, a fare il giro del mondo.

D. - Nel momento in cui superate la bat1'iera del sipario, con Teatro, e salite sul palcoscenico, e un palcoscenico tanto prestigioso come quello del Teatro Valle di Roma, voi rappresentate Bosco. La caratteristica fondamentale di questo spettacolo risiede nella evidente falsità dei materiali presentati in scena unitamente a una costante citazione della pratica dell'illusionismo. Non c'è una vena polemica in questo comin­ciare a fingere proprio quanch usate un palcoscenico tradizionale?

R. - No, si trattava di un'intenzione più che altro giocosa. L'idea del giocoliere è presente anche in Sacco, nell'emergere di tanti oggetti disparati che escono dall'involucro.

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c. - Del resto il palcoscenico tradizionale, all'italiana, per noi non costi­tuisce un punto di riferimento essenziale, né positivo né negativo. Il teatro all'italiana è una struttura nata in un preciso periodo, ma prima di essa ne esistevano altre come il teatro greco, il sagrato delle chiese. Certo il teatro all'italiana è quello che è restato fino a oggi, ed è una struttura consacrata comunque alla messa in scena. Questo però anche perché non c'è stato alcun esperimento che abbia prodotto una diversa impostazione che si sia radicata nella storia e che abbia superato e trasformato questa struttura. Tra l'altro il palcoscenico all'italiana resta la struttura più disponibile per l'attività teatrale.

D. - RiJpunta dunque, seppure in termini re!ativt~ una sorta di posizione privilegiata che assegn?tmo al pakoscenico all' italiarta, inteso come punto di riferimento inevitabile della nostra cultura teatrale, con mi dobbiamo confrortt'arci sempre. Seguen­do però l'itirterario delle vostre produzioni sembra po.'ìSibile riconoscere una prima fase in cui cercavate di contrapparvi a queJta soluzione spaziale, e poi una fase in cui avete cominciato a {(esplorarla",

R, - lo penso che non sia il teatro come architettura il termine a cui bisogna contrapporsi. Bisogna contrapporsi all'uso comodo, facile e consueto di tale struttura.

D. - Insomma, siccome per voi il teatro è essenzialmente ricerca, sul palcoscenico tradizionale diventa difficile sperimentare davvero per le stratificazioni culturali dJe questo si porta addosso'?

C. - Anche lì si può condurre una ricerca, ma bisogna precisare che se fai ricerca in un luogo come quello, devi superarlo. È questo comunque il para­dosso: tmte le varie esperienze andate in porto, non sono riuscite a produrre un'idea nuova e radicata di spaLio scenico.

D. - Negli esperimenti che avete condotto l'impiego del teatro all'italiana è legato all'uso Più complesso dell'illumirtazione, Quando è entrata a far parte del vostro linguaggio J'cenico l'articolazione delle luci?

C. - Il primo spettacolo clave abbiamo cominciato a creare dei movimenti con le luci è Teatro, Voglio precisare però che la luce deve entrare e definirsi di per sé, senza essere diretta a sottolineare un effetto, Il particolare uso delle luci in Rem & Cap, ad esempio, è stata una combinazione di fattori diversi poiché lo spettacolo ha delle scene che si svolgono su un/palcoscenico VUOto,

senza alcun tendaggio, con le scritte luminose tipo "vietato fumare" o le luci di servizio, alternate ad altre in cui l'illuminazione del palco è il risultato di un accurato e preciso uso dei riflettori.

R. - Non usiamo la tecnologia per illudere. Le luci di Rem & Cap servivano a condurre la coscienza dello spettatore. L'illuminazione è usata come un materiale, che segue un discorso attivo: si sottrae e poi ritorna.

C. - In Rem & Cap, in effetti, la luce diventa un personaggio. Delle quinte e dei fondali, mossi elettricamente, creavano dei momenti in cui il nero invadeva tutto, tranne gli ambienti creati dalla luce che seguiva un proprio percorso, come un personaggio appunto,

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D. - Nei vostri ultimi spettacoli si avverte un'importante trasformazione. Le maahine inutili spariJcono, e {' ctttenzwne si concentra sulla presenza preminente della figura umana,

R. - La macchina era riuscita a combinare tutto quello che poteva, lasciando l'uomo solo e nudo. Quest'ultimo, quindi, restava l'unico elemento a nostra disposizione.

C. - Ma al di là degli oggetti e delle macchine, fin dall'inizio l'elemento fondamentale, il succo del nostro lavoro, è sempre stato l'uomo. Anche se, per quanto mi riguarda, nelle nostre messe in scena c'è sempre qualcosa di invadente che domina il tutto.

D, - La critica} di solito, individuava nei vostri spettacoli una chiara contrap­posizione vittima-carnefice, padrone-servo, oppure scorgeva la difficoltà di rajJjJorto tra i personaggi caUJata dalla presenza della macchina. AdesJo cosa è cambiato?

R. - È vero che in Rem & Cap e in Quelli che restano si avverte una trasformazione del nosrro atteggiamento, che ci ha portati a un lavoro dove il materiale non è più tanto l'oggetto, quanto una situazione: una situazione però altrettanto materiale. La tendenza alla sottrazione ci ha portato a togliere tutto. Rem & Cap è concentrato sulle due porte, che sono due ingressi. I "due omini", messi sul palcoscenico, non comunicano, non si guardano. Però vivo­no, cantano in casa propria, uno si cuce un calzino. È l'assoluta solitudine. Tutto è pieno di questo elemento mareriale che è l'assenza di tutto.

D. - Ciò che invece resta costante nel VOSt1'O lavoro è il particolare modo di concePire i copioni come fumetti, e tutto questo si unisce a una intensa jJroduzione iconografica, tra disegni e dipinti. Anche nei vostri primisJimi spettacoli, come Giorni felici o Tèrote, i disegni hanno tanta parte insieme alle sculture. A posteriori riconoscete un legame con le esperienze compiute dalle arti figurative in quegli anni?

C. - Per quanto si possa parlare di coincidenze, non c'è stata nessuna influenza diretta. Non si può dire che noi guardassimo alle esperienze pitto­riche o di arte comportamentale e poi le trasferissimo nel nostro teatro. I nostri esordi si collocano in un periodo in cui due campi artistici differenti condu­cevano, separatameore, esperienze simili. Sicuramente ci è accaduto di render­ei conto, trovandoci di fronte a un quadro o una qualunque immagine, del­l'affinità che potevano presentarsi con il nostro lavoro. Si trattava però di qualcosa che era possibile verificare dopo, a distanza di tempo. Direi che allora, benché i ctitici e il pubblico avvertissero questa comunanza, emergesse comunque lo scollamento fra le arti visive e il teatro. A Roma, in quel periodo, nasceva il teatro-immagine, di cu.i noi però non ci siamo mai sentiti parte, perché non avevamo mai privilegiato l'impatto viSIVO, anche se nel nostro lavoro diverse cose hanno anche un loro fascino come immagine. Questo, del resto, rientra nel nostro modo di procedere, dato che, non praticando un teatro verbale, diamo spesso la parola agli oggetti, alle cose. In ogni caso, per noi, l'immagine non è mai fine a se stessa.

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naio 1988. MARICI.A BOGGIO, Rem e Cap silenziosi teatranti, "Avanti!", 15 gennaio 1988. PAOLO PETRONI, Cercarsi al di qua e al di là detta porta, "Corriere della

Sera", 16 gennaio 1988. FRANCESCA BONANNI, Con «Rem & Cap» una betla pagina di raffinato

teatro, "Il Tempo", 17 gennaio 1988. MARCO PAJ.LADINI, Stanlio e allio anni '80 «Né con te né senza di te»,

"Paese Sera", 19 gennaio 1988. GIANFRANCO CAPIT'rA, Tutto il mondo dietro la porta, "Il Manifesto", 21

gennaio 1988. LUCIANO PIGNATARO, Il silenzio parla dietro una porta, "Il Mattino -

Salerno", 27 febbraio 1988.

Quelli che restano Nrco GARRONE, Tanto silenzio per Remondi e Caporossi, "La Repubblica",

6 giugno 1989.

AGGEO SAVIOLI, Al bar del silenzio con Rem & Cap, "L'Unità" 9 giugno 1989. GHIGO DE CHIARA, La poesia nasce dttl nulla, "Avanti l", 9 giugno 1989. RENZO TIAN, Poesie di solitudine, "Il Messaggero", 9 giugno 1989. Redazione Spettacolo, Vossessionante deserto deltincomunicabilità nel nuovo

spettacolo di Remondi e CajJorossi, "Il Mattino", 9 giugno 1989. PAOLO PETRONI, Profumo di vino e di terra, "Corriere della Sera", 1. O

giugno 1989. . FERNANDO BEVILACQUA, Seduti di spalle, all'osteria, "La Voce Repubbh-

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nifesto", 20 giugno 1989. MAURIZIO GRANDE, Attenti a q/tei due, "Rinascita", 24 giugno 1989.

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TEATROGRAFIA

Spettacoli di Claudio Remondi (come interprete elo regista) prima dell'unione con CaporosJi,

La moscheta di Angelo BeoIco detto Ruzantc, Compagnia Teatro Vocazionale. Regia Claudio Rcmondi. Roma, Teatro La Tenda,

1959. Le sedie di Ionesco, Compagnia del Leopardo. Regia Carlo Quartucci.

Roma, Teatro Goldoni,1962. A.\pettando Godot di Samuel Beckett, Teatro Studio, Regia di Carlo

Quartucci, Genova, Teatro Duse, 1964. Furfanti di Gaetano Testa. Gioco di scimmia di Enrico Filippini. I

.rigari di Jupiter di Germano Lombardi, Compagnia della Ripresa. Regia di Carlo Quartucci. Palermo, 1965.

Zip, Lap Lip Vap Mam Crep Scap Plip Trip Scrap & la grande Mam di Giuliano Scabia. Teatro Studio di Genova. Regia di Carlo Quartuc­ci. Venezia, Teatro del Ridotto, 1965.

Voulez vaus jouer avec mai? di Marcel Achard. Regia Claudio Rcmondi e Renato Frontini. Roma, Teatro del Leopardo. 1967.

Una cronaca borghese - Come una rondine - I figli di Dia di Renato Frontini. Regia Claudio Remondi e Renato Frontini. Roma, Teatro del Leopardo. 1967.

In alto mare - Karol di Slawomir Mrozek. Compagnia Teatro del Leopardo. Regia della compagnia. Roma, Teatro de'l Leopardo, 1968.

lA veste nuziale - Sette volte lo stesso peccato di Claudio Remondi. Regia di Claudio Remondi. Roma, Teatro del Leopardo. 1968.

I testimoni di Tadeusz Roszewicz. Regia di Carlo Quartucci. Torino, Teatro Gobetti, 1968.

L'architetto e l'imperatore d'Assiria di Fernando Arrabal. Regia di Clau­dio Remondi. Roma, Teatro del Leopardo. 1968.

Il lavoro teatrale di Roberto Lerici, Compagnia Il Laboratorio di Carlo Quartucci. Regia di Carlo Quartucci. Venezia, Teatro di Palazzo

Grassi, 1969

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I sette peccati cajJitali di Bertold Brecht. Regia di carlo Quartucci. Genova, Teatro Margherita, 1971..

Carico di Carlo Quartuccl, Roma, 1971. (A questo spettacolo partecipa anche Riccardo Caporossi come studente di architet­tura).

Spettacoli di Remondi e Caporoni.

Giorni Felici di Samucl Beckeu, Roma Teatro del Leopardo, 1971 (mai rappresentato ufficialmente).

Térote di Remondi e Caporossi. Roma. Club Teatro. 1972. Sacco di Remondi e Caporossi. Club Teatro, 1973. Richiamo di Remondi e Caporossi. Roma Spaziouno, 1975. Rotòbo!o di Remondi e Capormsi. Milano, Piazza Vetra, 1976. Cottimisti di Remondi e Caporossi. Roma, Spaziouno, 1977. Pozzo di Remondi e Caporossi. Roma, Teatro in Trastevere, Sala

Pozzo, 1978. Ominide di Remondi e Capotassi. Roma, Teatro in Trastevere, Sala

Pozzo, 1979. Branco di Remondi e Caporassi. Roma, Limonata di Villa Torlonia,

1980. Ritiro di Remondi e Capotassi. Venezia, Teatro del Mondo, 1980. 'Treccia (film) di Remondi e Caporossi. Roma, Galleria d'Arte Mo­

derna, 1980. Antigone da Sofocle di Remondi e Caporassi. Ostia antica, Capan­

none Industriale, 1981. Teatro di Remondi e Capoross.i. Ostia Antica, Capannone Industria­

le, 1982. BOJCO di Remondi e Caporossi. Venezia, Teatro Goldoni, 1983. Caduta dal Dottor JlauJt di Thomas Mann, di Remondi e Caporossi.

Roma, Teatro Olimpico, 1984. Spéra di Remondi e Caporassi. Roma, Teatro Argentina, 1985. Ameba di Remondi e Caporossi. Fiesole, Teatro Romano, 1986. 999999 di Remondi e Caporossi. Milano, Civica scuola d'arte dram-

matica, Sala Azzurra, 1987. Rem & Cap di Remondi e Caporossi. Roma, Teatro Orione, 1988. Passaggi di Remondi e Caporossi, dalla novella di Beckett BaJta. Mi­

lano, cortile della Civica scuola d'arte drammatica, 1988.

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Quelli che reJtano di Remondi ,e Caporassi. Roma, Teatro Argentina,

1989. Coro di Remandi e Capotossi. Sant'Arcangelo di Romagna, Sferisterio,

1990. Leggenda di Remondi e Caporossi. Sant'Arcangelo di Romagna, Capan-

none, 1991. Personaggi di Remondi e Caporossi. Bologna, Teatro Duse, 1992.

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Finito di stampare il 30 novembre 1992

nelle officine grafiche napoletane Françesco Giannini & Figli

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