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Cono A. Mangieri Nota alla strofa V del contrasto “Rosa fresca aulentissima ” * 1. Quella che si presenta come la quinta strofa del contrasto Rosa fresca aulentissima, attribuito a un ignoto Cielo dal Camo, è riportata in questa forma diplomatica nel cod. Vaticano latino 3793 (n. 54, vv. 21-5): Seituoi parenti trovami echemi pozono fare / una difemsa metoci didumilia gostari / nonmi tocara padreto perquanto avere ambari / viva lomperadore grazadeo / jntendi bella quello che tidico eo. Non si direbbe che l’insieme contenga alcuni pomi della Discordia gettati tra gli studiosi che se ne sono occupati, durante gli ultimi quattro secoli. Non si direbbe, perché la bella scrittura minuscola notarile fiorentina, di fine Duecento–inizio Trecento, è ben leggibile, posta quasi al centro della carta e perciò non deteriorata dall’uso manuale, come accade invece con le parole situate nell’angolo destro inferiore, dove il lettore appoggia il dito (spesso insalivato e perciò corrosivo) per voltar pagina. Eppure gli studiosi si sono imbattuti in molte difficoltà di lettura e di interpretazione storico-filologica, anche perché il manoscritto V54 è attualmente unico: un secondo manoscritto, ora conservato nel cod. Vaticano 4823, riporta un testo del Contrasto non del tutto similare e perdippiù incompleto, ritenuto una copia di studio del V54 effettuata da Angelo Colocci. 1 In questo * Una redazione abbreviata (e posteriore) del saggio si legge in «LIA – Letteratura Italiana Antica. Rivista annuale di studi e testi», anno XV (2014), pp. 185-97. 1. Veramente, le divergenze tra i due testi sono tali da far credere che Colocci abbia avuto sott’occhio un secondo manoscritto antico, probabilmente lo stesso barberiniano servito poi pure a Leone Allacci, contenente una raccolta difatto menzionata nei ‘notamenti’ colocciani con l’indicazione “libro reale”, ma ora introvabile (ne resta un sommario forse incompleto, primamente stampato da MONACI 1877, pp. 375-381). L’umanista clericale Colocci (nato a Jesi nel 1467, vescovo di Nocera Umbra, morto a Roma nel 1548) fu possessore del Vaticano 3793 e redattore, tra l’altro, del Vaticano 4817, nelle cui carte 171r-172r egli ha

Nota alla strofa V del contrasto 'Rosa fresca aulentissima

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Cono A. Mangieri

Nota alla strofa V del contrasto “Rosa fresca aulentissima” *

1. Quella che si presenta come la quinta strofa del contrasto Rosa fresca aulentissima, attribuito a un ignoto Cielo dal Camo, è riportata in questa forma diplomatica nel cod. Vaticano latino 3793 (n. 54, vv. 21-5): Seituoi parenti trovami echemi pozono fare / una difemsa metoci didumilia gostari / nonmi tocara padreto perquanto avere ambari / viva lomperadore grazadeo / jntendi bella quello che tidico eo.

Non si direbbe che l’insieme contenga alcuni pomi della Discordia gettati tra gli studiosi che se ne sono occupati, durante gli ultimi quattro secoli. Non si direbbe, perché la bella scrittura minuscola notarile fiorentina, di fine Duecento–inizio Trecento, è ben leggibile, posta quasi al centro della carta e perciò non deteriorata dall’uso manuale, come accade invece con le parole situate nell’angolo destro inferiore, dove il lettore appoggia il dito (spesso insalivato e perciò corrosivo) per voltar pagina. Eppure gli studiosi si sono imbattuti in molte difficoltà di lettura e di interpretazione storico-filologica, anche perché il manoscritto V54 è attualmente unico: un secondo manoscritto, ora conservato nel cod. Vaticano 4823, riporta un testo del Contrasto non del tutto similare e perdippiù incompleto, ritenuto una copia di studio del V54 effettuata da Angelo Colocci.1 In questo

* Una redazione abbreviata (e posteriore) del saggio si legge in «LIA – Letteratura Italiana Antica. Rivista annuale di studi e testi», anno XV (2014), pp. 185-97. 1. Veramente, le divergenze tra i due testi sono tali da far credere che Colocci abbia avuto sott’occhio un secondo manoscritto antico, probabilmente lo stesso barberiniano servito poi pure a Leone Allacci, contenente una raccolta difatto menzionata nei ‘notamenti’ colocciani con l’indicazione “libro reale”, ma ora introvabile (ne resta un sommario forse incompleto, primamente stampato da MONACI 1877, pp. 375-381). L’umanista clericale Colocci (nato a Jesi nel 1467, vescovo di Nocera Umbra, morto a Roma nel 1548) fu possessore del Vaticano 3793 e redattore, tra l’altro, del Vaticano 4817, nelle cui carte 171r-172r egli ha

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contributo vorrei occuparmi di queste difficoltà e del modo come risolverle più soddisfacentemente, tramite una trascrizione e un’interpretazione meno soggette al rigore della metodologia critica. Io non sono il primo né l’unico a credere che parecchi problemi filologico-ermeneutici sarebbero stati risolti sul nascere, se il metodo critico fosse stato applicato indulgentemente nei riguardi di emendamenti e interpretazioni ex ingenio.2 Infatti, come ha ben scritto DEL POPOLO (2001, p. 6), la critica del testo

non ha regole ben definite, che siano valide semper et ubique, ma tante volte ci si trova ad inventare soluzioni legate alla contingenza testuale, alla tradizione manoscritta, ad uso di abbreviazioni anomale, etc.: domina pertanto l’hic et nunc, in cui il filologo quasi si inventa gli strumenti, come potrebbe fare qualsiasi artigiano.

Ciò risulta utile specialmente se il testo manoscritto è unico o quasi unico, giacché allora l’esegeta può mettere in campo il proprio intuito ‘artigianale’ per proporre una soluzione logica e responsabile. Nel caso del Contrasto, io trattengo l’opinione che il componimento abbia presentato in partenza un testo bidialettale, ossia siciliano (dell’area linguistica Messina-Reggio) per il personaggio maschile, campano (dell’area linguistica Salerno-Terra di Lavoro) per il personaggio femminile. Sarebbe stato il copista toscano a rendere i due testi pressocché uniformi, però badando a tradurre più compiutamente quello siciliano (perché di difficile comprensione in Toscana) e lasciando sussistere in quello campano un maggior numero di vocaboli originali (perché comprensibili in Toscana).3 Con queste idee vengo a distanziarmi da predecessori più illustri e

rivelato qualcosa del rimatore: «Et io no(n) trovo [alcuno] se no(n) cielo dal camo ch(e) tanto avanti scrivesse quale noi chiamaremo Celio. Costui adunq(ue) fu celebre [poeta] dopo la ruina de(i) gothi et scripse i(n) li(n)gua italiana o pur piu restri(n)gendolo italiana [sicilian(a)]». Poiché nella grafia frettolosa di Colocci la ‘e’ di cielo appare incerta, critici posteriori (Ubaldini, Allacci) credettero di dover leggere ‘Ciulo’, poi divenuto ‘Ciullo’. I critici moderni usano la denominazione ‘Cielo d’Alcamo’, pur essendo filologicamente più responsabile usare una delle due forme colocciane: Cielo dal Camo (cod. Vat. 4817), oppure Cielo Dalcamo (cod. Vat. 4823). Sul componimento, sulla citazione e sul lavoro filologico di Colocci vd. almeno D’ANCONA (1884, pp. 241-460); BOLOGNA (2001, pp. 105-152). 2. Al riguardo vd. le considerazioni di AVALLE (1972, pp. 95-96). 3. Per più ampie giustificazioni di questo assunto rinvio a questi altri lavori sul Contrasto: MANGIERI (1993, pp. 5-17); MANGIERI (1997, pp. 5-25); MANGIERI (2003, pp. 3-62).

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degni di me, per poter utilizzare un metodo grafico-interpretativo che, senza allontanarsi troppo dal testo manoscritto, guardi anzitutto a quel che dovrebbero essere stati in origine il testo siciliano del maschio e quello campano della femmina. Leggendo in modo nuovo, dunque, ecco come sonerebbero i primi due versi della risposta data dall’uomo all’interlocutrice, che aveva minacciato di farlo bastonare dai parenti:

Se toi parenti trovammi, che mi pozzono fari? Una difensa mettoci di dumilia gostari: [ ... ]

Non mi sembra utile ripetere brani delle discussioni condotte, nel passato, su questa strofa, che servì a D’ANCONA (1884, pp. 334-361) per datare il Contrasto posteriormente al 1231. Tuttavia, a scopo informativo e per chiarire la mia posizione esegetica, premetto che ritengo giusto vedere in questa «difensa» l’allusione a una delle leggi varate da Federico II di Svevia a Melfi, il primo settembre 1231, in seno alle sue Constitutiones Regni Siciliae (dette pure Constitutiones Melphitanae oppure Liber Augustalis). Secondo la Legge I, 16 (De defensis imponendis), chiunque venisse aggredito o minacciato avrebbe potuto difendersi in nome dell’Imperatore,4 o rivolgersi entro otto giorni al Baiulus (che si occupava di giustizia municipale), oppure, in casi più gravi, a un Iustitiarius (Giustiziere), alto funzionario della Corona nominato anche nel Contrasto come un pretendente del personaggio femminile (v. 87).5 Nel primo caso, la vittima si metteva virtualmente sotto la protezione personale 4. «Praesentis legis auctoritate cuilibet licentiam impartimur, ut adversus aggressorem suum per invocationem nostri nominis se defendat». Dunque ciò doveva accadere tramite una formula come questa: “Prohibeo te ex parte domini imperatoris (Friderici) quod me offendere non praesumas”. Naturalmente, urgeva che offeso e offensore sapessero di latino, altrimenti erano guai. 5. Nel Regno svevo meridionale esistevano parechi gradi di Giustiziere (Iustitiarius Magnus, Iustitiarius Civitatis, Iustitiarius Regionis, Iustitiarius Provincae), il cui raggio d’azione era chiaramente circoscritto nel testo delle Constitutiones Melphitanae, come appare dal Titolo 44-A, in cui si stabilisce che tali funzionari avessero giurisdizione, tra l’altro, sulle causae capitales attinenti ai «latrocinia scilicet magna furta, fracturae domorum, insultus excogitati, incendia, incisiones arborum fructiferarum et vitium, vis mulieribus illata, duella, crimina maiestatis, arma molita, defensae impositae et generaliter omnia, de quibus convicti poenam sui corporis vel mutilationem membrorum sustinere deberent» (HUILLARD -BRÉHOLLES 1854, p. 47).

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dell’Imperatore; avendo invece fatto ricorso alla Giustizia, generalmente l’aggredito poteva chiedere all’aggressore una sorta di indennità, la quale gli veniva accordata quando il giudice si fosse reso conto della legittimità della querela. In pratica, l’invocazione non sarà stata sempre efficace, né sarà accaduto spesso che l’indennità richiesta venisse anche accordata, giacché il magistrato fungeva pure da paciere e mediatore tra le parti. Non lo si sa con estrema certezza, però già il nome francese rende probabile che le difense siano esistite nel diritto civile meridionale già durante il periodo normanno; in tal caso si deve pensare a Ruggiero II, che organizzò quasi a perfezione il Regno.6 Storicamente sicuro è che soltanto Federico II, nel 1231, abbia procurato di farne una legge speciale, valida nel regno svevo meridionale, con la pia intenzione di frenare i soprusi che la classe nobile o ricca commetteva contro il popolo lavoratore.7 A tal proposito va evidenziato che la legislazione civile federiciana è rimasta in vigore anche dopo la morte di Federico II (1250), ossia sotto il figlio legittimo Corrado (1250-1254) e sotto il figlio spurio Manfredi (1254-1266), per subire un ritocco spesso abrogatorio solo dopo la morte di Corradino (1268), durante la riorganizzazione legislativa attuata da Carlo I d’Angiò (TRIFONE 1921, pp. CCLXXII-419). Ciò significa che il personaggio maschile del Contrasto avrebbe potuto schermirsi con la «difensa» fino alla morte di Corradino (29 ottobre 1268) e probabilmente fino alla morte di Re Enzio (14 marzo 1272): finché visse un erede svevo legittimo, infatti, i Ghibellini pur sang come lui considerarono il regno meridionale ancora parte del Sacro Romano Impero Germanico. Va da sé che l’effetto della minaccia sull’interlocutrice sarebbe divenuto sempre meno conturbante, come effettivamente accade nel componimento.

6. Secondo lo storiografo siciliano Rosario Gregorio, sarebbe stato il re normanno Ruggiero II (1095-1154) a organizzare l’intero diritto civile e politico meridionale, tanto che «[…] da ora innanzi non debbonsi aspettare che correzioni, riforme o altri cangiamenti fatti agli antichi sistemi» (GREGORIO 1805-1806, p. 17)). 7. Cfr. GREGORIO (op. cit., pp. 13-16). Nondimeno sembra che una sorta di ‘difensa’ vigesse nella tradizione siciliana già prima del 1231. Il filologo Carlo Alberto Garufi rinvenne la reclamazione di un privato contro una badessa messinese che gli aveva imposto, alcuni anni prima, una «defensam ex parte domini nostri divi imperatoris et venerabilissimi patris nostri archiepiscopi» (GARUFI 1899, pp. 190-194). Sull’argomento vd. pure KANTOROWICZ (1955, p. 39).

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Per il tempo dell’azione, dunque, ciò implica che il riferimento alla «difensa» possa ben servire a indicare il 1231 come terminus post quem, ma non il 1250 come terminus ante quem. Pressappoco un ragionamento identico si può fare intorno agli agostari, nome derivato dall’aggettivo latino augustarius ovvero augustalis (augustale, imperiale). Nei manoscritti si hanno parecchie grafie volgari di questo vocabolo, una delle quali utilizzo in questo luogo, parendomi più logico (e ben testimoniato) leggere «gostari» aferetico che «dumili» apocopato. L’agostaro pesava di regola 5,31 grammi e conteneva 5,25 grammi d’oro (20 carati, secondo Giovanni Villani e Ricordano Malispini, ma in realtà 20½).8 Dunque la «difensa» minacciata dal personaggio maschile avrebbe comportato 2.000 volte 5,25 grammi d’oro, pari ad oltre 10 Kg. di questo prezioso metallo, quantità che rappresentava anche nel Duecento una bella somma di denaro già calcolando solamente a prezzo di grezzo.9 Poiché la donna, nella strofa responsiva, non mostra timore per l’entità dell’indennizzo, anzi si sente offesa dal fatto che suo padre venga giudicato non molto più ricco di tanto, è lecito chiedersi se l’agostaro fosse stato colpito da forte inflazione, o se la minaccia del pretendente sia ironica e scherzosa. Coniato per la prima volta a Messina, e più tardi nella zecca di Brindisi (utilizzata anche da Carlo I d’Angiò fino al 1278), l’agostaro fu la moneta più prestigiosa d’intorno alla metà del Duecento, stando a ciò che ne scrivono scrittori e cronisti dell’epoca. Essa mantenne intatto il suo valore commerciale finché visse Federico II , ma c’è motivo di credere che abbia cominciato a perderlo dopo la morte di questo imperatore, allorché Firenze creò il suo fiorino d’oro (1252), e più incisivamente dopo il 10 agosto 1258, giorno in cui Manfredi si proclamò Re contro la voglia di papa Alessandro IV . E’ storicamente certo, comunque, che la moneta abbia mantenuto validità legale sotto Corrado IV , sotto Manfredi e durante molti anni di amministrazione 8. Cfr. TRAVAINI (2007, p. 53). Poco noto è che Federico II abbia fatto coniare, in un contempo con l’agostaro, anche il doppio agostaro e il mezzo agostaro, con identica dicitura ed effigie. 9. Va badato che il denunciante, avendo ottenuto il torto dal giudice, veniva costretto a pagare la stessa somma di denaro implicata nella ‘difensa’: «Si iniuste fuerit defensa imposita, tunc ipsam imponens et id, quod petebat, amittat et aliud tantumdem curiae Nostrae solvat» (Tit. XIX). Nel nostro caso, se il personaggio maschile minaccia questa multa, lo fa perché possiede almeno duemila agostari o perché è sicuro di ottenere ragione.

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angioina, perché Carlo I d’Angiò provvide a battere moneta propria solo nel 1270, coniando il Real d’oro; anzi, anche dopo di tale anno l’agostaro rimase sulla scena commerciale del Meridione, sebbene debolissimo.10 Ciò conferma che anche la menzione dell’agostaro nel Contrasto sia valida per indicare il terminus post quem relativo al 1231, ma non il terminus ante quem relativo al 1250.11 Effettivamente, se il maschio minaccia una difensa di duemila agostari aggiungendo che il padre di lei non oserà più toccarlo per non rimetterci ciò che possiede nella zona di Bari,12 e se lei vede in questa minaccia una insinuazione di disagiatezza paterna che si riversa anche su di lei (difatto risponderà sdegnata: «Donna mi so’ di pèrperi, d’àuro massamotino», v. 27), ciò significa anzitutto che l’agostaro è da qualche tempo soggetto a svalutazione, ragion per cui il possesso di perperi bizantini e di scudi massamutini è divenuto l’unico vero indice di ricchezza nel Meridione. Queste monete erano già nel periodo normanno note e fidate nel bacino del Mediterraneo, dunque certamente pure nell’area d’azione del Contrasto, situabile nella zona di Salerno-Amalfi-Napoli, città che commerciavano con Bisanzio e col mondo islamitico; tuttavia ciò non ha comportato la 10. Esistono documenti duecenteschi che attestano sia la presenza dell’agostaro nel Regno Angioino, sia la svalutazione della moneta. Uno dei documenti (Statuta Caroli I Regis Siciliae, cap. 97) ci fa sapere l’entità di una multa: «Nos les condannons en cent Augustaires, laquelle poine vient en succession ou leu de cinq livres d’or par nostre jugement» (cfr. DUCANGE, (1840, p. 490, s.v. « augustalis»). Ducange stesso commenta: «sic centum Augustaria quinque libras auri confecerint». 11. Sarebbe improprio credere che nella strofa si faccia riferimento agli augustarii di Arrigo VII di Lussemburgo, il quale ne avrebbe ordinato il conio con uno statuto del 13 gennaio 1312 («lo ’mperadore» sarebbe stato allora Arrigo VII ). A togliere il sospetto contribuisce sia il fatto che questi augustarii non siano stati poi coniati, sia il fatto che a tale data il Meridione e l’Isola non fossero più sottomesse al Sacro Romano Impero Germanico (la Sicilia era aragonese, il Sud era angioino), entro i cui confini sarebbe stata valida la «difensa» ex parte nominis imperatoris. Circa questo poco noto statuto arrighiano vd. Monumenta Germaniae Historica (1909-1911, pp. 718-721). 12. L’idea di vedere in «Bari» un volgarizzamento di Bar-sur-Aube, città della Champagne, sede di una fiera visitata da molti mercanti fiorentini (e finanche dal notaio Brunetto Latini durante l’esilio, come risulta da una sua lettera scritta in Bar-sur-Aube il 17 aprile 1264), è già stata considerata inaccettabile dai critici (tra cui CONTINI 1960, p. 178). In effetti, anche se il padre di lei fosse stato un mercante meridionale con possedimenti in quella zona francese, non è credibile che il maschio volgarizzasse il nome della città in maniera così abbreviata ed equivoca; né pare credibile che la donna fosse un’immigrata francese nel Meridione, perché in tal caso avrebbe utilizzato più numerosi e più corretti termini francesi . Nulla impedisce, invece, di credere che il padre di lei possedesse poderi a Bari o in Terra di Bari, qualunque fosse l’epoca dell’azione.

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perdita di preponderanza da parte dell’agostaro, finquando furono gli Svevi a tenere le redini del comando territoriale. Il fatto che la donna del componimento, invece, faccia capire che questo non sia più il caso viene a costituire prova che l’azione del componimento debba essere collocata in epoca posteriore a Federico II , a Corrado IV e perfino a Manfredi, visto che sotto questo re l’agostaro mantenne un prestigio superiore a quello delle monete bizantine, di quelle arabe e dell’innominato fiorino, perlomeno nel Meridione d’Italia. Insomma, è giocoforza ammettere che il Contrasto non avrebbe contenuto denigrazione per l’agostaro, se fosse stato destinato a una recita giullaresca in epoca federiciana, corradiana o manfrediana: è noto che ai poeti, ai goliardi e ai giullari non fosse lecito mettere alla berlina la moneta, che portava impressa l’effigie dell’Imperatore, e neppure gli articoli di legge, che portavano l’approvazione dell’Imperatore. Si era in ben altri tempi: abbiamo già considerato che bastasse invocare il nome dell’Imperatore per essere lasciati in pace da eventuali aggressori. Non importa se, in pratica, ciò avvenisse raramente o mai: conta che vi fosse una simile legislatura in merito alla possanza di quel titolo e quindi se ne dovesse tener conto, sicuramente in una giullarata da recitare coram populo sulle piazze del territorio svevo.13 A mio parere, dunque, è certamente antistorico credere che il componimento sia stato scritto o ambientato da Cielo nel periodo svevo e pensare, nel contempo, che egli lasci esprimere dal suo personaggio maschile pensieri derisivi nei confronti della moneta e della legislatura vigente. Specialmente lui, che è reso riconoscibile come un sincero ammiratore ghibellino di Federico II, non avrebbe mai osato oppure desiderato devaluarne il nome e l’operato, né in vita né in morte. Anche la donna, dal canto suo, avrebbe indubbiamente mostrato un atteggiamento meno ostile a un seguace degli Svevi,14 giacché non è da credere che le famiglie benestanti 13. Una frase del Liber Augustalis (Legge I, 17) attesta la possanza e l’onnipresenza virtuale dell’Imperatore sul suo territorio: «Et sic nos etiam qui prohibente individuitate personae ubique praesentialiter esse non possumus, ubique potentialiter adesse credamur». Cfr. pure KANTOROWICZ (1955, ibidem). 14. Se non lo avesse già saputo tramite altri connotati, dall’esclamazione «Viva lo ’mperadore!» la donna avrebbe capito di avere a che fare con un ghibellino; e che lei sia inizialmente ostile a tal tipo di gente risulta chiaro nel corso del battibecco, specialmente dall’attributo «omo blestiemato» (v. 58) addossato al pretendente. Nel linguaggio popolare,

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del Meridione (a una delle quali apparterrebbe lei) usassero sfidare i fedeli della famiglia reale sveva in comando: gli studi medievalistici insegnano che si è verificato più tosto il contrario.15 Passando ora al testo, faccio rilevare che io ricostruisco il primo verso della strofa in maniera diversa da quella tradizionale: ragioni paleolinguistiche mi inducono anzitutto a espungere l’articolo plurale «i» davanti al possessivo. La giustificazione scaturisce da pressoché ogni testo siciliano due-trecentesco giunto fino a noi, uno dei quali sarebbe un volgarizzamento del Liber ma(ni)scalcie, detto pure Liber de medicina (o de cura) equorum, attribuito a Ippocrate e già tradotto in lingua araba, poi traslato dall’arabo in latino da Moisè da Palermo ed elaborato pure in latino, verso la metà del Duecento, dal gran maniscalco di Federico II, Giordano Ruffo di Calabria, nipote del celebre viceré Pietro, 16 la cui redazione venne voltata in volgare siciliano da un anonimo (secondo qualche filologo, da Giordano stesso) con questo inizio:

Incipit liber maniscalcie. Nui Messeri Iurdanu Russu (ovvero Ruffu) de Calabria volimo insignari achelli chi avinu a nutricari cavalli secundu chi avimu imparatu nela manestalla de lu imperaturi Federicu chi avimu provatu e avimu complita questa opira nelu nomu di deu, e di Santu Aloi. 17

Non ostante la possibile presenza di qualche manipolazione dovuta al copista, questo Codice siciliano di Ruffo18 costituisce una delle più «blestiemato» significava ‘scomunicato’: e tali erano considerati notoriamente i seguaci dei regnanti svevi, tutti scomunicati a loro volta (da Barbarossa a Corradino). 15. Utili al proposito sarebbero SCIASCIA (1993) e D’ALESSANDRO (1994). 16. L’elaborazione latina fu stampata da MOLIN (MDCCCXVIII) col titolo Jordani Ruffi calabriensis Hippiatria, nunc primum edente Hieronymo Molin. Il conte Pietro Ruffo fu tra i testimoni che sottoscrissero il testamento di Federico II; alla morte del successore, Corrado IV , difese i diritti di Corradino contro Manfredi, dal quale infine fu esautorato. 17. Cfr. MOLIN (Ivi, p. XV). Vd. pure DEL PRATO (1865, p. XXX ). Per una recente edizione in volgare peninsulare del Liber, eseguita sopra una pubblicazione veneziana cinquecentesca e corredata di una nota bibliografica da Francesco Russo, vd. CRUPI (2002). 18. Sul testo di questo Codice, il maniscalco romano LORENZO RUSIO (o RUSONE) approntò nella prima metà del Trecento il suo Liber de cura equorum, pure tradotto in siciliano nel secondo Trecento (vd. DEL PRATO 1867). La sicilianità linguistica di questo volgarizzamento, in verità, venne affievolita da DE GREGORIO (1904, pp. 368-386), il quale fu del parere che non si tratti di «schietto siciliano» e che «al più si potrebbe dire che si tratti di quel vulgare, che Dante chiamava Sicilianum ... quod prodit a terrigenis mediocribus, a cui egli attribuiva il celebre Contrasto» (p. 374).

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antiche testimonianze grafiche di prosa volgare siciliana, grazie alla quale risulta evidente che l’articolo determinativo maschile plurale ‘i’ era estraneo ai linguaggi siciliani (e meridionali) di quell’epoca, i quali tutti presentavano nel genere maschile ‘lu’ al singolare e ‘li’ al plurale, rimasugli del latino ‘illu (d)’ e ‘illi ’ rispettivamente, come si riscontra ancora oggi nella parlata dialettale non contaminata scolasticamente.19 Pertanto l’articolo maschile plurale ‘i’ reperibile nel manoscritto V54 del Contrasto rappresenta un toscanismo del copista/traduttore, laddove io invece desidero servirmi di un metodo di lettura che si avvicini il più possibile al testo originale, senza sfociare in una vera e propria traduzione siciliana (oppure campana), che per motivi cronologici e morfologici non sarebbe realistica.20 Poiché con tale metodo l’adozione dell’articolo ‘li’ causa ipermetria nell’emistichio, la sua espulsione diventa la migliore soluzione sotto mano, quando non si voglia espellere il possessivo per leggere «se li parenti tròvammi» (con assimilazione bilabiale). Successivamente, ho ridotto il vocalismo del possessivo «tuoi», che non considero originale anche se nel siciliano moderno la metafonesi della vocale tematica non è sconosciuta nelle zone sud-orientali dell’Isola (da Catania in giù),21 e infine ho espunto la congiunzione «e» tra i due

19. Il Trecento è ben fornito di testi siciliani favorevoli al mio assunto, se si separa la parte genuinamente dialettale da quella influenzata dalla cultura grafico-linguistica peninsulare o comunque allogena, specialmente quando lo scrittore o il suo copista è stato un clericale o un burocrate, gente che viaggiava e leggeva anche testi provenienti dal Centro-Nord. Peraltro va ricordato che in Sicilia furono collocati da Federico II numerosi coloni norditaliani, chiamati a sostituire i coloni saraceni trasferiti a Lucera e a Nocera (1223-1247): circa un secolo dopo, il traduttore del Libru di Valiriu Maximu in dialetto messinese (con influssi grafico-linguistici allogeni) asserisce di chiamarsi “Accursu di Cremona”, nome che ricorda l’origine geografica degli antenati. Per il dialetto messinese scritto da un clericale, vd. PANVINI (1989). Istruttive sono pure le raccolte di testi volgari siciliani curate da DI GIOVANNI (1865); DE GREGORIO (1891) e IDEM (1905); DEBENEDETTI (1931); LI GOTTI (1951); CUSIMANO (1951-1952). Nel corso degli anni, il Centro di studi filologici e linguistici siciliani ha fatto pubblicare una nutrita serie di testi isolani antichi. 20. Com’è ormai noto agli studiosi del Contrasto, in una siculizzazione si sobbarcò ingloriosamente GRION (1858). 21. Parlando di ‘volgare siciliano’, non va dimenticato che questo tipo linguistico conosceva regionalismi che talvolta presentavano notevoli differenze, per eludere le quali la Magna Curia federiciana incoraggiò la nascita del ‘siciliano illustre’, una koiné letteraria valida per tutta l’area linguistica siciliana, di cui la Calabria era la più vicina diramazione continentale, similmente suddivisa in molti dialetti che si estendevano alla bassa Campania (Cilento), ma che sfortunatamente non hanno lasciato testimonianze due-trecentesche scritte. Nel tempo di azione/composizione del Contrasto, i possessivi maschili siciliani erano “to(u)

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emistichi, perché causa ipermetria (a meno che non si voglia togliere il pronome per leggere: «e che pozzono fari?», soluzione niente affatto cattiva se tradotta in siciliano puro). I miei predecessori hanno preferito troncare il deverbale scrivendo «pozzon», però questa operazione era ed è tuttora quasi del tutto estranea ai volgari meridio-nali, certamente al siciliano, dunque credo che non sia stata presente nel testo originale del maschio.22 La rottura della rima, da «-are» in «-ari», è dovuta logicamente al copista toscano e costituisce la ‘spia’ dell’originario testo siciliano con rima «fari / (a)gostari» (GUERRIERI

CROCETTI 1947, p. 235). Che ciò sia da considerare azzeccato e attuabile, lo dimostra la terza e ultima parola-rima della terna alessandrina:

non mi toccara patreto per quanto ave a Bari. Cioè: ‘tuo padre non oserà toccarmi, per quanto pur possegga a Bari’; il che, dunque, non sarà stato molto più prezioso di 2.000 agostari, secondo il valore assegnato dal maschio ghibellino alla moneta sveva. Così mi pare che debba essere trascritto questo verso, il quale ha generato discussioni anche perché taluni commentatori, con Napoleone Caix e Lionardo Vigo alla testa, lo hanno addotto come prova che il Contrasto sia stato in origine pugliese di lingua, di luogo d’azione e di autore. Da un secolo si lavora alla ricostruzione di questo alessandrino, letto generalmente nella seguente maniera:

non mi toccara padreto per quanto avere à ’n Bari; 23

/ toi” e “so(u) / soi” (sing. / plur.). Ad esempio si può addurre il Protonotaro, Pir meu cori allegrari, v. 35: «mi feri sou amuri» (metà Duecento) e l’adespota Quaedam profetia, v. 8: «pir li toi gesti scuri» (metà Trecento), lavori che rappresentano un secolo di evoluzione linguistica all’interno dell’area siciliana. 22. Che i troncamenti non siano stati congeniali al tipo linguistico siculo-calabrese dei primi due Secoli, lo fa capire anche DANTE in De vulgari eloquentia I XII 6, esaminando appunto il volgare del personaggio maschile del Contrasto e scrivendo che esso «prelationis honore minime dignum est, quia non sine quodam tempore profertur»; vale a dire che veniva scritto e parlato in maniera estesa, senza l’adozione di quei troncamenti capaci di donare agilità e ritmo alla versificazione, come invece ben facevano i volgari centro-settentrionali (specialmente il bolognese, secondo DANTE, ivi, I XV 5-6). 23. Tra i tanti, così ha letto pure CONTINI (1960, p. 178).

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anzi, finanche più remoti sono i primi tentativi rivolti a compenetrare almeno il curioso «ambari» del Codice. Già nell’Ottocento si pensò che provenisse da «ammari», forma assimilata di «à ’n mari» (col valore “c’è in mare”), ma D’ANCONA (op. cit., p. 419) preferì leggere «à ’m Bari», assecondato da D’OVIDIO (1882, pp. 118-124) almeno in seconda istanza (infatti, in un saggio precedente aveva optato per «avere à ’n mari»). Più tardi entrò in lizza il bizantinista Silvio Mercati (assecondato da GARUFI 1945-1946, p. 25) con la proposta di vedere in «ambari» il persiano Kam pār, termine imparentato col mediogreco αµβάρι, col serbo-bulgaro ambar e con vocaboli di una mezza dozzina di altre lingue, sempre col significato di ‘magazzino, deposito’, sicché l’emistichio vorrebbe dire: “per quanto abbia magazzini, ricchezze” (MERCATI 1939, pp. 177-185). Pochi anni dopo, Salvatore Santangelo giudicò inammissibile la soluzione di Mercati e propose di intendere «ambari» come terza persona singolare del presente congiuntivo di ‘ambarari’, un verbo ipotetico che significherebbe ‘ammassare’; onde il verso vorrebbe dire “Tuo padre non mi toccherebbe, per quanto denaro egli ammassi” (SANTANGELO 1944-1945, p. 75). Più tardi, PAGLIARO (1952, p. 421) fece sapere che «la sequenza grafica per quanto avereambari non è altro se non il riflesso fedele di una pronunzia meridionale del nesso siciliano (o calabrese) per quanto aver è a mmari», parendogli inoltre che «Bari» non stesse bene in un componimento scritto in Sicilia, «e precisamente a Messina», dopo di che «la sua conoscenza si è propagata nella penisola per trasmissione orale, sino al momento in cui, verso la fine del secolo, uno scriba toscano, il quale lo sapeva anche a memoria, lo trascrisse nel cod. Vat. 3793».24

24. La seconda citazione viene da PAGLIARO (1953, p. 19). Optando per una trascrizione ‘a memoria’, il filologo si basava sugli errori di scrittura subito corretti dal copista, fatto che indicherebbe un subitaneo miglioramento del suo contenuto mnemonico. Secondo me, conoscere a memoria un testo di 160 versi, ignoti a ogni altro scriba e scritti in due volgari meridionali, va ritenuta impresa impossibile a un copista toscano occupato a trascrivere decine di testi: conosceva costui a memoria tutti i testi che trascriveva? Io penso più tosto a un errore di traduzione del testo dialettale avuto sul leggio, riportato direttamente sul foglio ricevente e riparato trascrivendo nuovamente il luogo in questione. Le numerose correzioni presenti nel manoscritto V54 restano comunque rimarchevoli, specialmente considerando che i testi vicini, vergati dallo stesso copista (per es. la canzone V55, Morte, perché m’ài fatta sì gran guerra, di Giacomino Pugliese), risultano essere molto più accurati.

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Forse, in quell’epoca di infocate discussioni filologiche avrebbe avuto successo una emendatio ex ingenio di questo tipo:

non mi toccara padreto per quant’àve re ’m Bari, intendendo il re Carlo I d’Angiò, che notoriamente già nel marzo del 1266, quando secondo Dante il corpo di Manfredi giaceva ancora «in co del ponte presso a Benevento» (Pg. III, 128-129), aveva espropriato vasti beni immobili in Terra di Bari.25 Effettivamente, a me pare strano che gli studiosi, per produrre un testo critico del Contrasto, abbiano espulso, espunto, integrato e modificato molto del testo manoscritto, senza che a qualcuno venisse in mente di staccare la minuscola sillaba «re» dal nesso grafico «avere» per renderla indipendente, operazione che avrebbe dato un significato più logico e giustificato alla replica femminile. Infatti, la menzione delle ricchezze possedute dal “re in Bari” giustificherebbe la risposta della donna, che iperbolizza nella strofa successiva menzionando le ricchezze del Saladino e del Soldano. Tuttavia la soluzione non sarebbe stata del tutto appropriata, perché il verso va emendato in maniera diversa, e mi giustifico con l’aiuto di alcune considerazioni non ancora onorate dagli editori. Io non mi dilungo tanto sulla trasformazione di «padreto» in «patreto», che viene incontro alla dentalizzazione ‘forte’ dei volgari meridionali duecenteschi («padreto» è un addolcimento del copista), quanto sul nesso «avere ambari». Infatti, stando a ciò che si constata nella scrittura volgare toscana di quell’epoca, il nesso grafico-sintattico «ambari» può essere emendato in modo appropriato solo supponendo la presenza di una ipercorrezione effettuata su un antigrafo contenente il nesso grafico «abbari», la cui seconda ‘a’ tonica ha provocato il raddoppiamento consonantico protonico ben onorato nei manoscritti due-trecenteschi, ma quasi mai in questo del Contrasto.26 Ciò significa che il copista, traducendo e trascrivendo

25. Tra le ricche famiglie espropriate furono quella dei Guarino (Monopoli) e quella dei Filangieri (Minervino). 26. Nei testi toscani due-trecenteschi sono numerosi gli esempi di raddoppiamento consonantico dopo atona e dinanzi a tonica, ragion per cui mi limito a menzionare soltanto poche raccolte di testi volgari antichi che le riportano: MONACI (1889); SCHIAFFINI (1926); CASTELLANI (1952); SEGRE (1969).

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il componimento, ha lavorato eludendo appunto il raddoppiamento consonantico protonico. Paradossalmente, questa considerazione rende attendibile che vi sia stata ipercorrezione sopra un antigrafo (od originale) «abbari», segnatamente nel caso che il raddoppiamento sia stato indicato da un titulus: infatti il copista, essendo abituato a rifuggire il raddoppiamento sintattico per cultura grafica personale, ha sciolto il titulus tramite dissimilazione consonantica. L’illazione si vede rafforzata dal fatto che nel lungo manoscritto del Contrasto si trovi solo undici volte il raddoppiamento consonantico, il quale interessa ben sette volte il nesso grafico desinenziale –ortto, mentre invece abbondantissimi sono gli scempiamenti. Il titulus era una lineetta che veniva sovrapposta a una lettera per indicare che bisognasse raddoppiare la consonante o inserirne una che facesse al caso (più frequentemente la ‘n’). Da un «abari» provvisto di titulus relativo alla ‘b’ il copista avrebbe potuto estrarre sia «abbari» che «anbari»: egli dunque ha dissimilato la doppia ‘b’ oppure ha labializzato la ‘n’ scrivendo «ambari».27 Ma v’è un’argomentazione ancor più rimarchevole da fare, con la quale si può addirittura negare l’originalità del nesso grafico «avere», vuoi come infinito verbale vuoi come infinito sostantivato, con conseguenze che inficiano la lettura tradizionale dell’intero emistichio. La copula ‘à’ (= ha), che si pensa di poter vedere nella prima vocale del nesso grafico «ambari», va considerata estranea ai volgari duecenteschi peculiari ai personaggi del Contrasto, specialmente al maschio che recita la strofa V in questione. Infatti, la forma grafico-fonetica genuina di ‘ha’ era già allora avi nei dialetti siculi ed ave (talvolta scritta have) nei dialetti campani, come si constata nei testi genuinamente volgari che di quell’epoca ci sono rimasti. I rari casi di ‘à’ rappresentano l’effetto inquinante dei volgari centro-settentrionali sull’autore o sul suo copista/traduttore, specie se appartenenti a una categoria di persone viaggiatrici o lettrici di testi allogeni; onde Santorre Debenedetti, dopo lunghi studi sugli antichi testi siciliani e meridionali in genere, poté concludere che la copula ‘à’ fosse un puro toscanismo.28 Un ragionamento similare va fatto 27. Per considerazioni generiche su questo importante fenomeno paleografico, vd. almeno LANZA (1997, pp. 73-83). 28. Cfr. DEBENEDETTI (1932, pp. 46-48 e passim). Il testo di Pir meu cori allegrari, che sarebbe scritto in «puro volgare Siciliano» a giudizio del filologo modenese cinquecentesco

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per la copula ‘è’, la cui forma normale era ‘esti’ nel siciliano ed ‘este’ nel campano-laziale, rimasugli glottologici latini presenti difatto pure nel testo del Contrasto. Dovendo tener conto di queste peculiarità paleolinguistiche, appare palese che l’immissione di avi nel testo siculo del maschio non avrebbe mai potuto consentire la costruzione di un settenario, bensì soltanto quella di un indesiderato ottonario/novenario in una forma come questa:

pir quantu aviri avi a Bari (dunque non «in Bari», giacché tutti i dialetti meridionali, per lo stato in luogo attinente ai toponimi, hanno preferito da sempre la preposizione ‘a’). I rimatori due-trecenteschi, e non solo quelli di cultura siciliana o ghibellina, badavano più di quanto non si creda alla metrica e alla rima, che dovevano essere perfette come presso i Provenzali. In effetti, se oggi si rinvengono casi di rima e metrica difettose (anysosillabismo), ciò non va attribuito tanto agli autori quanto ai copisti; ed a tal proposito possono testimoniare anche le carte autografe di Petrarca, le quali palesano la grande fatica messa nel condurre lingua, rima e metrica verso la perfezione. A mio giudizio, dunque, le lezioni «avere à ’n Bari» e «avere à ’n mari» (come pure «aver è a mmari» e le altre finora avanzate) sono irreali dal punto di vista paleolinguistico e paleografico in quanto non tengono conto del testo antigrafo (od originale) tradotto e trascritto dal copista toscano di V54. Imbattendosi in «abbari», ovvero in «abari» fornito di titulus sulla ‘b’, questo copista ha evitato il raddoppiamento della consonante ‘b’ ed ha integrato

BARBIERI (1790, pp. 143-145), presenta copule verbali tronche (2 volte «à», 4 volte «è»), le quali tradiscono l’influsso linguistico centro-settentrionale sul testo. Se l’influsso sia avvenuto sul Protonotaro medesimo (possibile, vista la sua professione e la sua residenza nella città portuale di Messina) oppure sul Barbieri che ha tramandato il testo, resta irrisolto. Similmente si può dire di Quaedam profetia, testo adespoto ugualmente inquinato di fonetismo centro-settentrionale. Peraltro va considerato che il Contrasto non è un testo di poesia lirica magnacuriale in ‘siciliano illustre’, bensì di teatro popolare. A sua volta, ciò non significa che lo abbia scritto un giullare o rimatore di bassa cultura: a mio parere, questo autore di buona cultura storico-letteraria se n’è servito per diffondere insospettatamente un messaggio politico ghibellino sul territorio occupato da Carlo I d’Angiò dopo avere sconfitto Manfredi presso Benevento (febbraio 1266).

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bilabializzando con «ambari». Quasi tutti i filologi posteriori a Colocci hanno pensato che il nesso grafico «avere» fosse un infinito sostantivato e sono rimasti convinti che nell’emistichio mancasse il predicato verbale. Però qui non si tratta di un infinito sostantivato: a mio parere, gli unici due veri infiniti sostantivati di tale forma verbale presenti nel Contrasto sono trascritti nella forma «abere» e immessi soltanto nel testo dell’interlocutrice, evidentemente perché Cielo le ha posto sulla lingua il volgare campano, che presenta con maggior frequenza betacismo in queste forme grafico-fonetiche. 29 Credendo nella mancanza del predicato verbale, dunque, i filologi moderni lo hanno estratto dal nesso «ambari» e hanno letto come s’è visto, però negando il fatto che una simile ricostruzione andava contro le abitudini grafico-fonetiche di alquanti copisti due-trecenteschi. Nella scrittura volgare di quei Secoli, il fenomeno geminativo/dissimilativo si presenta anche internamente ai nessi grafici (portando un esempio ad hoc, nei manoscritti si rinvengono le occorrenze ‘Babbilonia’, ‘Babbillonia’, ‘Bambillonia’ e finanche ‘Banbillonia’), ma molto raramente dopo le vocali toniche ‘à’ ed ‘è’ copulative; invece il raddoppiamento sintattico avveniva quasi regolarmente. Va ancora ricordato che la scrittura volgare di quei secoli tendeva in molti casi a raddoppiare non solo la consonante iniziale dopo una vocale atona, ma anche la consonante in posizione postonica e la consonante in posizione protonica (ne abbiamo esempio in ‘Babbillonia’ e varianti, che per i menanti due-trecenteschi presentavano due vocali toniche). Pertanto, avendo considerato 1) che i volgari dei due personaggi richiedevano rispettivamente avi / ave (come difatto conferma una semplice operazione emendativa in tutto il Contrasto, la cui metrica ne risulta restaurata); 2) che la forma siciliana avi avrebbe impedito la costruzione di un settenario contenente anche l’infinito sostantivato aviri; 3) che qui il nesso grafico «avere» non è un infinito sostantivato;

29. Cfr. v. 8: «labere desto secolo tuto quanto asembrare», e v. 90: «meneste dimillonze lotuo abere». Ai vv. 9, 28, 88, 100 e 119 si riscontra «avere», ma nessuna di queste occorrenze ha il valore di infinito sostantivato. Il copista potrebbe aver lasciato intatto il betacismo del testo antigrafo od originale, perché il fenomeno grafico-linguistico non era estraneo ai volgari toscani duecenteschi.

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4) che nei linguaggi meridionali antichi si utilizzava la preposizione di stato in luogo ‘a’ dinanzi ai toponimi, sicché non può essere stato immesso originariamente il nesso sintattico «in Bari»; 5) che la copula ‘à’ nella grande maggioranza dei casi non causava raddoppiamento consonantico iniziale o postonico; 6) che nella scrittura volgare due-trecentesca occorreva, talvolta, raddoppiamento consonantico postonico oppure protonico in seno al vocabolo o al nesso grafico, appare logico e giustificato credere che i nessi grafici «avere ambari» debbano rappresentare rispettivamente l’alterazione infinitiva toscana di avi e la soluzione dissimilativo-geminativa protonica di a(b)Bari. Il ragionamento porta a concludere che si possa e si debba leggere «per quanto ave a Bari», applicando un emendamento che non solo tiene conto delle abitudini grafiche duecentesche, ma porta anche l’emistichio nelle immediate vicinanze della forma siciliana che va ritenuta identica all’intento poetico originale, vale a dire «pir quantu avi a Bari». 2. Viva lo ’mperatore ’n grazi’a Deo! Intendi, bella, che ti dico eo. Il verso endecasillabo aiutò Alessandro D’Ancona a creare il terminus ante quem per l’azione del Contrasto, cioè il 1250, giacché esso sembra mostrare un Federico II ancora vivo e in grado di garantire potentialiter la «difensa». In effetti, vi sono critici disposti a leggere finanche «Vive lo ’mperadore, grazie a Dio!». A me invece sembra che, seppur si vedesse Federico II in questo «’mperatore», non sia obbligatorio vederlo come ancor vivo, perché qui non si tratta di una invocazione ex parte domini imperatoris espressa secondo le regole della Difensa: infatti, queste regole non prevedevano l’aggiunta di carattere religioso che, nel caso attuale, dona all’esclamazione un inconfondibile carattere augurale. Pertanto essa può riferirsi anche a un Federico già morto nella realtà, ma ancor vivo nella memoria di un ghibellino devoto e riconoscente, qual è il maschio del componimento. A mio parere, dunque, se si desidera

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vedere Federico II nell’imperatore del Contrasto, lo si può fare solo convenendo che costui sia già morto e che l’esclamazione rispecchi un augurio postumo: ‘Possa l’imperatore vivere nella Grazia di Dio’. Con questa esclamazione, l’uomo non farebbe altro che esprimere la propria gratitudine nei confronti di un imperatore ormai defunto, la cui buona memoria torna a galla appunto menzionando la difensa e gli agostari, due nomi legati indissolubilmente all’operato di Federico II .30 Certamente non è senza ragione se, subito dopo, si legge «Intendi, bella, che ti dico eo»: io credo che Cielo abbia fatto aggiungere dal maschio tale frase per suggerire all’interlocutrice (e al pubblico) di capire bene a quale imperatore egli si stia riferendo e, perciò, di non dimenticare i meriti della buon’Anima, il sovrano della «difensa» e degli «agostari».31 Effettivamente, io sono convinto di poter collocare azione e composizione del Contrasto tra la metà del 1266 e la metà del 1267, epoca in cui i Ghibellini italiani, volendo invocare e cofinanziare una discesa armata di Corradino dalla Germania, collettavano nei territori centro-meridionali i centomila fiorini d’oro (secondo VILLANI 1991, VIII 23) offerti al giovane principe svevo, attendibilmente nel marzo del 1267 e nel castello bavarese di Hohenschwangau, dove vennero a ‘svegliarlo’ i fratelli Lancia e i fratelli Capece (secondo MALASPINA 1726, p. 832).32 Il Contrasto sarebbe lo stratagemma adottato dai capi del Partito Ghibellino per coprire la colletta agli occhi della polizia angioina.33 Come detto, io considero poco responsabile esegeticamente credere che Federico II sia vivo nel tempo d’azione

30. Per la menzione postuma di Federico II nel Contrasto sarebbe accaduto ciò che accade per il re normanno Guglielmo il Buono (1153-1189), menzionato ancora in uno strambotto siciliano del Duecento. A tal proposito parlando, Alessandro D’Ancona rilevò «che anche molto tempo dopo, volendo lodare la donna amata e dovendo menzionare un re, si scegliesse quello rimasto nella tradizione, non riesce difficile a credere, anzi è naturalissimo» (D’A NCONA 1906, pp. 229-230, n. 5). Ricordando questo assunto e parlando dell’imperatore menzionato nel Contrasto, PAGLIARO (1953, p. 33, n. 12) scrisse: «Ma già qui è da tener conto della possibilità che la memoria di quel sovrano e della sua opera fosse sopravvissuta per qualche generazione». 31. Probabilmente, l’originale ha avuto «cuj» (‘chi’) oppure «ki», tradotto «quello che» dal copista toscano: “jntendi, bella, cuj (o ki) ti dicu eu (o ïu)”. Per non intervenire troppo sul verso mantengo «che», sebbene dia un significato meno chiaro al contesto. 32. Historia III XVII : «[…] in Alamanniam ad suscitandum catulum dormientem, et pullum aquilae, qui nondum aetate coeperat adulta pennescere ,propere se convertunt». 33. Per giustificazioni rinvio il lettore ai saggi menzionati nella Nota 3.

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del componimento: per la validità di questo assunto testimoniano molti fattori, due dei quali sono lo scavalcamento dell’agostaro in favore di monete straniere e, più incisivamente, i francesismi esternati dal personaggio femminile (seppure storpiatamente; anzi, proprio perciò). La presenza di questi francesismi non risulta giustificabile entro i limiti cronologici assegnati finora al Contrasto; anzi, la loro presenza è capace di rivelare con bastevole autorità la congiuntura politico-cronologica entro la quale deve essere stato rappresentato il componimento sulle piazze centro-meridionali d’Italia. I francesismi più indicativi sono posti in bocca alla donna, «domannimi a mia mare e a mon peri» (v. 67), e per tal motivo io li considero testimoni della posteriorità d’azione del Contrasto rispetto all’amministrazione sveva. Nel Meridione, la lingua francese ha conosciuto prestigio solo nel periodo normanno e nel periodo angioino: del più che settantenne periodo svevo intermedio non esistono documenti amministrativi, commerciali o letterari che facciano pensare il contrario, anche tenendo conto dell’operazione di ripulitura (una sorta di damnatio memoriae) effettuata dal regime angioino e dal regime spagnolo nei secoli posteriori. E sebbene l’abbia conosciuta Federico II personalmente (come informa VILLANI 1991, VII 1),34 bisogna ammettere che né lui, né i discendenti, né i nobili, né i letterati meridionali hanno lasciato intendere di gustarla in maniera speciale, come invece ha fatto, per esempio, il guelfo fiorentino Brunetto Latini proemiando il suo Trésor.35 Pertanto, poiché la donna del Contrasto usa termini più o meno francesi per ostentare prestigio social-culturale attendibilmente nel Salernitano (spia ne sarebbe «santo Matteo», v. 126), si può e deve credere che l’azione non si svolga in epoca sveva bensì in epoca angioina. Poiché Cielo le fa storpiare i vocaboli francesi, si può pensare che egli abbia fissato

34. «Questo Federigo regnò XXX anni imperadore, e fue uomo di grande affare e di gran valore, savio di scrittura e di senno naturale, universale in tutte cose; seppe la lingua latina, e la nostra volgare, tedesco, e francesco, greco, e saracinesco». Il plurilinguismo di Federico II è testimoniato anche da SALIMBENE DE ADAM (1966, I, p. 508): «Item multis linguis et variis loqui sciebat». 35. LATINI (1863, p. 3): «Se aucuns demandoit por quoi cist livres est escriz en romans, selonc le langage des Francois, puisque nous somes Ytaliens, je diroie que ce est por .ij. raisons: l’une, car nos somes en France; et l’autre porce que la parleure est plus delitable et plus commune à toutes gens».

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l’azione sul principio di tale epoca, quando la donna non ha ancora acquisito molta dimestichezza con tale lingua. E poiché il finalino del componimento mostra la resa della donna dichiaratasi benestante o ricca, si può azzardare l’ipotesi che ciò metaforizzi un desiderio di unione non solo carnale, ma anche finanziario-politica tra i campi sociali diversi rappresentati dai due personaggi. Dunque non sarebbe antistorico opinare che il Contrasto sia stato portato sulle piazze del Centro-Sud peninsulare da coppie giullaresche ghibelline, allo scopo di camuffare la colletta per finanziare l’intervento di Corradino, in un primo tempo programmato per l’estate del 1266, come reazione alle angherie angioine e alla vergognosa dispersione delle ossa di Manfredi, occorsa quella primavera lungo il misterioso fiume ‘Verde’, che io identifico con La Verde e situo in Calabria.36 Come detto, dal punto di vista psicologico è ben giustificato che Cielo lasci esclamare quella frase augurale anche dopo la scomparsa dell’imperatore in questione: infatti, qui non gioca un ruolo soltanto il movente affettivo, ma anche il fatto pratico che un imperatore morto da sedici anni non avrebbe causato troppi fastidi ai giullari e alla diffusione del componimento giullaresco sul territorio occupato dai soldati francesi. Esclamare “Viva l’imperatore!” su una piazza in mano angioina sarebbe stato meno sovversivo di “Viva Corradino!”, per esempio, appunto perché Corradino era attualità e Federico era storia. Anzi, il fatto che in quel periodo il Sacro Romano Impero Germanico ufficialmente non avesse imperatore rendeva ancor meno pericolosa l’esclamazione. Credere che questa sia espressa come formula connessa alla Difensa or ora menzionata sarebbe sbagliato esegeticamente, dunque, giacché essa è soltanto una frase augurale postuma: infatti, che cosa di meglio si può dire per un defunto amato e ammirato, se non ‘Viva nella grazia di Dio’? La frase augurale del Contrasto è l’equivalente medievale del moderno ‘Dio l’abbia in gloria’, espresso subito dopo aver menzionato il nome di un defunto, o già solo il suo titolo metonimico. Questo sarebbe,

36. La dispersione delle ossa manfrediane lungo un fiume che DANTE chiama «Verde» è ricordata in Pg. III 131: «di fuor dal regno, quasi lungo ’l Verde». L’identificazione di questo fiume è molto discussa, ma un numero sempre crescente di critici ha propeso per il Liri-Garigliano. Io, invece, sono del parere che si tratti del fiume La Verde, sfociante nel Mare Ionio presso il Capo Bruzzano in Calabria. Per la giustificazione rinvio a MANGIERI (1995, pp. 109-122).

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secondo me, l’unico valore da prendere in considerazione nell’ermeneutica di questa strofa: “Possa l’imperatore della Difensa vivere nell’aldilà, confortato dalla grazia divina”. Nel Duecento, un’altra espressione d’augurio postumo diceva “Viva nel grembo di Abramo”: Cielo ha preferito lasciar dire “Viva in grazia di Dio”, perché ‘grazia’ significa pure ‘perdono’. E se ricordiamo che Federico II era morto scomunicato, diventa chiaro che proprio lui avesse bisogno di perdono divino anzitutto nell’altro mondo, giacché vivere in grazia di Dio (ovvero in grazia a Dio) significa pure godere della visione di Dio, privilegio che la teologia concede soltanto post mortem, sebbene qualche Ghibellino più fanatico del normale abbia canonizzato lo Svevo anche in vita, come testimonia un panegirico scritto verso la metà del Duecento: «Vivat, igitur, vivat sancti Friderici nomen in populo, succrescat in ipsum fervor devotionis a subditis, et fidei meritum mater ipsa fidelitas in exemplum subjectionis inflammet».37 Chiudendo in chiave critica, faccio rilevare che anche per questi endecasillabi ho adottato una grafia un po’ diversa dalla tradizionale, sia per la dentalizzazione forte di «’mperatore» (da giustificare alla stregua di «patreto»), sia nel caso di «graza Deo» del manoscritto, locuzione che non mi sembra riconducibile al concetto ‘per grazia di Dio’ avanzato da molti studiosi: esso ne sarebbe troppo lontano anche graficamente e creerebbe, inoltre, problemi di metrica. Perciò mi pare da preferire una trascrizione che rispecchi un testo antigrafo/originale ligio alla sintassi meridionale, specie la siciliana, quale sarebbe «’n grazi’a Deo» (traduzione toscanizzata, giacché

37. Cfr. HUILLARD -BRÉHOLLES (1864, p. 426). Il panegirico viene attribuito da tempo remoto alla penna di Pietro della Vigna, il quale nella Cancelleria Imperiale veniva indicato scherzosamente come il ‘primo apostolo’. E non senza ragione, visto che il Clero stesso esprimeva elogi da far ingelosire anche un maomettano, come si evince da questa lettera del Capitolo capuano a lui rivolta: «[...] O quantum debet vobis Ecclesia! O quantum vobis civitas Capuana tenetur, quia non a civitate vel provincia laudem, sed civitati et provinciae laudis titulum acquisistis; ut iam non Petrus a Capua, sed a Petro Capua latius agnoscatur! Felix radix quae fructiferum protulit palmitem, felix vinea quae vinum praecipuum germinavit! Grates ergo vobis referimus, quod a nobis requiritis gratiam: et quod mandastis implevimus gratiose: rogantes ut Ecclesiae matris vestrae non sitis immemores, cuius vos in sacramentis ecclesiasticis ubera lactaverunt» (HUILLARD -BRÉHOLLES 1864, p. 289). Probabilmente, in siffatte adulazioni clericali si nasconde la ragione per cui Federico II ha dato ascolto alle accuse di cortigiani invidiosi, fino a credere che il suo ‘primo apostolo’ Pietro si fosse trasformato in Giuda Iscariota.

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l’originale avrà riportato la rima «Deu / eu» oppure «Dïu / ïu»). Quanto all’endecasillabo di chiusura, nel Codice esso si mostra ipermetro e per aggiustarlo in maniera responsabile non bisogna troncare il dimostrativo «quello», come s’usa fare, bensì eliminarlo del tutto. Ricordando che i troncamenti, tranne qualche rarissima eccezione (per es. nel caso di un «ben» avverbiale), non furono mai congeniali ai dialetti del tipo linguistico siculo-calabrese (ragion per cui Dante lo distinse dal ‘siciliano illustre’ definendolo non sine quodam tempore profertur), ed a parte il mio sospetto circa una diversa fattura originale del verso, va rilevato che il pronome «che» già da solo poteva significare (e può tuttora) ‘quello che, ciò che’, anche nell’uso di altri volgari e poeti italiani; onde appare palese che il verso presenti un ampliamento immesso dallo scriba toscano. Così interpretando, e senza toccare i significati metaforico-politici che credo presenti, mi pare che la quinta strofa del Contrasto torni entro limiti grafico-logici più confacenti al linguaggio siculo duecentesco e acquisti, nel contempo, una validità storica più seria e responsabile, finora rimasta celata a causa della diversa congiuntura politico-cronologica in cui sono state collocate composizione e azione del componimento.

Cono A. Mangieri

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BIBLIOGRAFIA

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