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Studi Medievali e Moderni La metafora da Leopardi ai contemporanei a cura di Antonella Del Gatto In questo numero La metafora nel pensiero e nell’opera di Leopardi Atti del convegno di Chieti, 1-2 dicembre 2014 Premessa di Antonella Del Gatto; MARCO MANOTTA Similitudini proprie e raccorciate: annotazioni sul paradigma comparativo leopardiano; ANDREA BONAZZI, LISA GAMBET- TA, MARIA CHIARA JANNER, NUNZIO LA FAUCI Metafora in Leopardi: variazione lingui- stica sul tema; PAOLA CORI L’attenuazione in Leopardi: lingua, diritto e storia delle idee; PATRIZIA LANDI Il male, il nulla e un giardino. Descrizione e pensiero nello Zibal- done; COSETTA VERONESE The metaphors used to describe the Zibaldone; ANDREA MA- LAGAMBA Il corpo dice la mente: sui movimenti corporei come metafore dei moti inte- riori nella scrittura di Giacomo Leopardi; MARGHERITA CENTENARI Ospitare gli antichi. Per una ricognizione sulle metafore del tradurre negli scritti giovanili di Giacomo Le- opardi (1815-1817); LAURA MELOSI Declinazioni metaforiche (e non) della nautica in Leopardi; FLORIANA DI RUZZA Metafore sondate alla lettera. Qualche considerazione sulle Operette morali; ANDREA LOMBARDINILO Leopardi e il Machiavello della vita so- ciale: una lezione (metaforica) per i moderni Metafora e comunicazione nella letteratura moderna e contemporanea Atti del Congresso annuale dell’American Association for Italian Studies (Zurigo, Romanisches Seminar, 25 maggio 2014) EMILIANO PICCHIORRI La metafora nella poesia barocca: soluzioni linguistiche e stilisti- che; ANNALISA CIPOLLONE «Vano è pugnar contro la rossa croce». La metafora nel Pascoli ‘medievale’; PATRIZIA PIREDDA La funzione filosofica della metafora nei Sei personaggi in cerca d’autore; ANDREA GIALLORETO «Retore delle tenebre e del fuoco»: spazi metaforici e immagini allegoriche in Amore di Giorgio Manganelli; DOMINIQUE BUDOR “Metafora viva” e “Metafora morta”: il caso paradigmatico de La Sicilia come metafora; LAURA NIEDDU La funzione delle metafore in Salvatore Niffoi; ANDREA BO- NAZZI E NUNZIO LA FAUCI Mangiar tropo XX I 2016 I Studi Medievali e Moderni arte letteratura storia Anno XX, I/2016 Iniziative EDITORIALI 978-88-99306-22-9

Paola Cori, ‘L’attenuazione in Leopardi. Lingua, diritto e storia delle idee’, La metafora da Leopardi ai contemporanei, special issue of Studi Medievali e Moderni, 1, 2016,

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La metafora da Leopardi ai contemporanei a cura di Antonella Del Gatto

In questo numero

La metafora nel pensiero e nell’opera di LeopardiAtti del convegno di Chieti, 1-2 dicembre 2014

Premessa di Antonella Del Gatto; Marco Manotta Similitudini proprie e raccorciate: annotazioni sul paradigma comparativo leopardiano; andrea Bonazzi, Lisa GaMBet-ta, Maria chiara Janner, nunzio La Fauci Metafora in Leopardi: variazione lingui-stica sul tema; PaoLa cori L’attenuazione in Leopardi: lingua, diritto e storia delle idee; Patrizia Landi Il male, il nulla e un giardino. Descrizione e pensiero nello Zibal-done; cosetta Veronese The metaphors used to describe the Zibaldone; andrea Ma-LaGaMBa Il corpo dice la mente: sui movimenti corporei come metafore dei moti inte-riori nella scrittura di Giacomo Leopardi; MarGherita centenari Ospitare gli antichi. Per una ricognizione sulle metafore del tradurre negli scritti giovanili di Giacomo Le-opardi (1815-1817); Laura MeLosi Declinazioni metaforiche (e non) della nautica in Leopardi; FLoriana di ruzza Metafore sondate alla lettera. Qualche considerazione sulle Operette morali; andrea LoMBardiniLo Leopardi e il Machiavello della vita so-ciale: una lezione (metaforica) per i moderni

Metafora e comunicazione nella letteratura moderna e contemporaneaAtti del Congresso annuale dell’American Association for Italian Studies (Zurigo, Romanisches Seminar, 25 maggio 2014)

eMiLiano Picchiorri La metafora nella poesia barocca: soluzioni linguistiche e stilisti-che; annaLisa ciPoLLone «Vano è pugnar contro la rossa croce». La metafora nel Pascoli ‘medievale’; Patrizia Piredda La funzione filosofica della metafora nei Sei personaggi in cerca d’autore; andrea GiaLLoreto «Retore delle tenebre e del fuoco»: spazi metaforici e immagini allegoriche in Amore di Giorgio Manganelli; doMinique Budor “Metafora viva” e “Metafora morta”: il caso paradigmatico de La Sicilia come metafora; Laura nieddu La funzione delle metafore in Salvatore Niffoi; andrea Bo-nazzi e nunzio La Fauci Mangiar tropo

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2016I

Studi Medievali e Moderniarte letteratura storia

Anno XX, I/2016

Iniziative EDITORIALI978-88-99306-22-9

Studi Medievali e ModerniAnno XX – n. 1/2016

LA METAFORA DA LEOPARDI AI CONTEMPORANEI

a cura di Antonella Del Gatto

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Studi Medievali e ModerniAtti di convegni internazionaliAnno XX – n. 1/2016“International Peer-Rewiewed Journal. ANVUR: A Letteratura Italiana”

DirettoreGianni Oliva

Comitato direttivoFabio Benzi, Giancarlo Quiriconi, Stefano Trinchese

Comitato scientifico-redazionaleMaria Giulia Aurigemma, Rossella Bianchi, Francesco Caccamo, Maria Careri, Iole Carlet-tini, Mario Cimini, Maria Grazia Del Fuoco, Antonella Del Gatto, Antonella Di Nallo, Irene Fosi, Andrea Gialloreto, Valeria Giannantonio, Francesco Leone, Mirko Menna, Roberto Paciocco, Alessandro Pancheri, Luciana Pasquini, Paola Pizzo, Giovanni Pizzorusso, Ales-sandro Tomei, Ilaria Zamuner

Comitato esteroSimon Ditchfield (University of York), Silvia Fabrizio-Costa (Università di Caen-Basse Nor-mandie), Vicente Gonzales Martìn (Università di Salamanca), Martin McLaughlin (Univer-sity of Oxford), Giuseppe Mazzotta (Yale University), Marina Viceljia (Università di Spalato)

Segreteria amministrativaAlessandra Mammarella.Periodico semestrale finanziato dal Dipartimento di Lettere Arti e Scienze sociali, Università “G. D’Annunzio”, Via Pescara, 66013 Chieti Scalo – Tel. 0871 3556525-3556524, fax 0871 563019

e-mail: [email protected] [email protected]

Abbonamento annuo: per l’Italia euro 40,00; per l’estero euro 50,00Costo di un fascicolo: per l’Italia euro 25,00; per l’estero euro 30,00

ISSN 1593-0947 edizioni e stampeISSN 2499-0671 edizioni digitali in vendita su torrossa.itISBN 978-88-99306-22-9Autorizzazione n. 4/96 del Tribunale di ChietiIscritta al Registro Nazionale della Stampa in data 29-07-1985 al n. 1635

Direttore responsabileGabriele Di Francesco

© 2016 by Paolo Loffredo Iniziative editoriali srlvia Ugo Palermo, 6 80128 [email protected]

INIZIATIVEEDITORIALI

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Studi Medievali e Moderni XX – 1/2016

INDICE

5 Premessa di Antonella Del Gatto

La metafora nel pensiero e nell’opera di LeopardiAtti del convegno di Chieti, 1-2 dicembre 2014

11 MARCO MANOTTA

Similitudini proprie e raccorciate: annotazioni sul paradigma comparativo leopardiano

23 ANDREA BONAZZI, LISA GAMBETTA, MARIA CHIARA JANNER, NUNZIO LA FAUCI

Metafora in Leopardi: variazione linguistica sul tema

43 PAOLA CORI

L’attenuazione in Leopardi: lingua, diritto e storia delle idee

63 PATRIZIA LANDI

Il male, il nulla e un giardino. Descrizione e pensiero nello Zibaldone

85 COSETTA VERONESE

The metaphors used to describe the Zibaldone

111 ANDREA MALAGAMBA

Il corpo dice la mente: sui movimenti corporei come metafore dei moti interiori nella scrittura di Giacomo Leopardi

129 MARGHERITA CENTENARI

Ospitare gli antichi. Per una ricognizione sulle metafore del tradurre negli scritti giovanili di Giacomo Leopardi (1815-1817)

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INDICE

149 LAURA MELOSI

Declinazioni metaforiche (e non) della nautica in Leopardi

155 FLORIANA DI RUZZA

Metafore sondate alla lettera. Qualche considerazione sulle Operette morali

165 ANDREA LOMBARDINILO

Leopardi e il Machiavello della vita sociale: una lezione (metaforica) per i moderni

Metafora e comunicazione nella letteratura moderna e contemporanea

Atti del Congresso annuale dell’American Association for Italian Studies (Zurigo, Romanisches Seminar, 25 maggio 2014)

205 EMILIANO PICCHIORRI

La metafora nella poesia barocca: soluzioni linguistiche e stilistiche

219 ANNALISA CIPOLLONE

«Vano è pugnar contro la rossa croce». La metafora nel Pascoli ‘medievale’

237 PATRIZIA PIREDDA

La funzione filosofica della metafora nei Sei personaggi in cerca d’autore

255 ANDREA GIALLORETO

«Retore delle tenebre e del fuoco»: spazi metaforici e immagini allegoriche in Amore di Giorgio Manganelli

271 DOMINIQUE BUDOR

“Metafora viva” e “Metafora morta”: il caso paradigmatico de La Sicilia come metafora

281 LAURA NIEDDU

La funzione delle metafore in Salvatore Niffoi

293 ANDREA BONAZZI E NUNZIO LA FAUCI

Mangiar tropo

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L’ATTENUAZIONE IN LEOPARDI: LINGUA, DIRITTO E STORIA DELLE IDEE

Tutto quello che non ha il suo fondamento nella natura della cosa, ha un’esistenza sostanzialmente precaria. La cosa può restare [...] quanto al nome e all’apparen-za, non quanto al fatto. (Zib. 577)

1. Preliminari linguistici

L’attenuazione, o mitigazione, fenomeno linguistico studiato soprat-tutto nell’ambito della pragmatica, è un insieme di strategie messe in atto per cautelare «l’agire linguistico da vari rischi interazionali»1, e risulta funzionale a modi di adattamento e misura nella contingenza comunica-tiva. Morfemi di approssimazione o incertezza (come per esempio “qua-si”, “per così dire”, “direi”) possono trovarsi associati a qualsiasi elemen-to della frase attenuando il gradiente di responsabilità del locutore e in-sieme la richiesta di responsabilità inoltrata all’interlocutore. La classifi-cazione operata da Claudia Caffi sulla scia di studi di provenienza pret-tamente anglosassone distingue tre tipologie generali di mitigazione: i “cespugli” (bushes), volti a mitigare il contenuto di una proposizione che il locutore pone a una certa distanza, conferendo approssimazione o va-ghezza (“un po’”, “un certo”, “una specie di”, ecc.); le “siepi” (hedges), funzionali ad attenuare l’impatto illocutorio (“se non sbaglio”, “direi”, “per così dire”, ecc.); e gli “schermi” (shields) che interessano invece l’o-rigine della proposizione, alleviando o deviando la responsabilità del par-lante attraverso una diversa attribuzione di fonte al contenuto: (come il

1 K. HÖLKER, “Diciamo” come mitigatore, in AA.VV., Aspetti dell’italiano parlato, a cura di Klaus Hölker e Cristiane Maaß, Münster, Lit Verlag, 2005, pp. 53-79 (76).

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“fra virgolette” o il discorso indiretto)2. Oltre ad applicarsi al punto di vista del parlante (speaker oriented), di cui riduce il grado di adesione nei confronti della proposizione, la mitigazione può proiettarsi in quello del ricevente per attutire o addolcire l’impatto di una valutazione, consiglio o critica che lo coinvolga. Se la mitigazione di volta in volta assume carat-teri di soggettività, possibilità, incertezza e approssimazione, ciò che co-stitutivamente la richiede è una condizione di pericolo o eccessiva espo-sizione intrinseca all’espressione e l’esigenza di attutirne l’effetto o la por-tata.

Come si è detto, l’attenuazione è una strategia molto flessibile, atta ad accompagnarsi ad elementi vari della frase; in quanto figura della contin-genza comunicativa può essere ospitata in ambiti più o meno densi di ca-rica letteraria, prestandosi, nel testo scritto, ad analisi privilegiate per quanto riguarda il gradiente di dialogicità esplicita o implicita di un testo. Non a caso lo Zibaldone, sulla cui venatura dialogica si è recentemente insistito3, presenta un elevatissimo uso di misure mitiganti il cui impiego di volta in volta corrisponde a diversi aspetti della riflessione e della po-esia leopardiana. L’attenuazione può fungere da componente armonica rispetto alla poetica del vago e indefinito, oppure comportarsi come se-gnale dell’assunzione di metodo scientifico: stante l’assoluta relatività di ogni giudizio nei confronti di una realtà sfuggente e instabile, ogni statu-to di verità necessariamente si confronta con un piano dei possibili che ne mitiga l’impatto o l’incisività.

In questo studio mi propongo di analizzare una specifica categoria di mitigazione, quella delle metafore o immagini attenuate nella scrittura le-opardiana in prosa, e in particolare quei casi in cui l’interazione tra con-cetti è temperata dalla presenza di indicatori di approssimazione volti a rallentare od opacizzare il processo di trasferimento tra tenore e veicolo, conferendo qualora una marca di esitazione, qualora un’aura di ulteriore vaghezza al processo metaforico, già per natura aperto a una molteplicità di esiti possibili e virtualmente indefinito. Nelle metafore, l’attenuazione può assumere funzioni evocative assai diverse: da un polo di completa

2 Cfr. C. CAFFI, La mitigazione: un approccio pragmatico alla comunicazione nei conte-sti terapeutici, Münster, Lit Verlag, 2001.

3 Si veda F. D’INTINO, Oralità e dialogicità nello “Zibaldone”, in Lo “Zibaldone” di Le-opardi come ipertesto, a cura di Maria de Las Nieves Muñiz Muñiz, Firenze, Olschki, 2013, pp. 221-243; e il mio The “Zibaldone” as Leopardi’s Self-Education, «Italica», 2016 di prossima pubblicazione.

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partecipazione e pertinenza intrinseca dell’indicatore di mitigazione all’in-terno della resa poetica, si giunge fino a un estremo in cui la mitigazione è pura funzione grafica, affiancandosi all’immagine dall’esterno, introdu-cendola e favorendone il graduale assestamento nel testo. Per quanto ri-guarda la prima polarità, il passo seguente dal Cantico del gallo silvestre risulta rappresentativo della tipologia di mitigazione integrata nell’imma-gine:

E tu medesimo [sole], tu che quasi un gigante instancabile, velocemen-te, dì e notte, senza sonno né requie, corri lo smisurato cammino che ti è prescritto; sei tu beato o infelice?4

Siamo di fronte a un’attenuazione con estrema ragione poetica. Il «qua-si», mentre in un primo momento sembrerebbe enfatizzare una mancata identità metaforica, è invece tutt’uno con l’immagine stessa, partecipa a renderne vivi i sensi di incommensurabilità conferendo vaghezza e ap-prossimazione all’applicazione metaforica della parola che esprime dismi-sura (il «gigante») e che già di per sé, quindi, sfugge a una rappresenta-zione definita. La doppia valenza del “quasi”, nel suo significato appros-simativo e comparativo (nei sensi di “come se fosse” e “poco meno che”) sfuma il portato semantico della parola cui si affianca e conferisce ulte-riore senso di vastità e indefinitezza all’idea metaforica. In questo caso, quindi, l’attenuazione solo apparentemente ostacola un integrale trasfe-rimento metaforico, mentre in realtà ne rinforza i sensi (la dismisura, ac-costabile solo per approssimazione). Un secondo caso di mitigazione, questa volta, per dir così, intermedio tra assimilazione e distanza dall’im-magine, è la riflessione sulle aspettative del vecchio in Zibaldone 3268-69. Leopardi si trova a discutere il processo di differimento che caratterizza il modo di concepire le speranze dell’uomo anziano. Poiché il vecchio sa per esperienza che la possibilità di piacere è negata all’uomo, non poten-do fare a meno di sperimentare desiderio, seppur fievole, fa in modo di proiettare le proprie aspettative il più lontano possibile così che l’oggetto del desiderio non possa mai essere tanto vicino da mostrare appieno la sua irraggiungibilità e vanità:

4 G. LEOPARDI, Operette morali, in Tutte le poesie e tutte le prose, a cura di Lucio Fe-lici e Emanuele Trevi, Roma, Newton Compton, 1997, p. 576; per lo Zibaldone, ID., Zi-baldone di pensieri, edizione critica in CD-Rom, a cura di Fiorenza Ceragioli e Monica Ballerini, Bologna, Zanichelli, 2009, abbr. Zib. seguito dal numero di pagina nel mano-scritto. Se non diversamente specificato, i corsivi nel testo sono miei.

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le sue speranze [del vecchio] ne divengono tarde e pigre e lente e quasi trascurate (benché sempre però bastantemente vive per mantenerlo e quasi allattarlo, come alla vita umana indispensabilm. ricercasi). (Zib. 3268-69)

Il «quasi» è introdotto per attenuare l’ossimoro generato dall’accosta-mento ardito tra la vecchiaia e l’allattamento, le due più distanti epoche della vita umana. Ma a ben guardare, il freno rappresentato all’adesione completa all’immagine è solo apparente, e sembra invece aprire la strada ad uno spazio riflessivo che non nega ma ribadisce la verità dell’immagi-ne e del paradosso esistenziale raffigurato. Il seguito della riflessione, «co-me alla vita umana indispensabilm. ricercasi», lascia traccia di un ulterio-re scatto meditativo che va a riguardare la validità stessa dei sensi solo apparentemente in attrito per riaffermarli. Si scorge il movimento della mente che attenua un’immagine vicina a sfiorare l’ossimoro, ma che su-bito dopo, continuando a visualizzare e a pensare l’immagine in una ve-locissima sequenza creativa, riconosce al paradosso una validità generale.

Nei casi che seguono, invece, siepi, cespugli e scudi di mitigazione, co-me il “per così dire”, il “si può dire”, il “vogliamo dire”, il “pare”, diffu-sissimi nello Zibaldone, conferiscono all’attenuazione una funzione di fre-no non direttamente integrata nell’immagine:

le sue canzoni sono coperte si può dire ugualmente di uno strato di per-fetta e formale mediocrità. (Zib. 27)

[la letteratura latina] venuta, per così dire, a lotta colla greca, [...] dovè cedere. (Zib. 996)

le opere [dei settentrionali] nascono tra le pareti di una camera scal-data da stufe; le opere [dei meridionali] nascono, p. così dire, sotto un cie-lo azzurro e dorato, in campagne verdi e ridenti, in un’aria riscaldata e vivi-ficata dal sole. (Zib 3681)

il desiderio del piacere diviene una pena, e una specie di travaglio abi-tuale dell’anima. (Zib. 172)

[la nostra lingua] non saprà [...] scrivere in nessun modo ai contem-poranei; o lo farà [...] quasi trasformandosi in un’altra [lingua], o vogliamo dire, facendosi provincia e suddita di un regno straniero. (Zib. 778-779)

la traduzione inaffettata [...] si può chiamare un dimezzamento del te-sto. (Zib. 320)

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Le passioni e i sentimenti dell’uomo si può dire che da principio stessero nella superficie, poi si rannicchiassero nel fondo più cupo dell’anima, e fi-nalmente siano venuti e rimasti nel mezzo. (Zib. 266)

La] ricchezza [...] suol dare allo stile un certo splendore, abbondanza, e forse scialacquo. (Zib. 4241)

Pare che l’anima nell’addormentarsi deponga i suoi pensieri e imma-gini d’allora, come deponiamo i vestimenti, in un luogo alla mano e vici-nissimo, affine di ripigliarli, subito svegliata. (Zib. 184)

La mitigazione è presenza osservatrice invigilante l’atto di scrittura, segnala un’operazione di controllo volta a preparare all’impatto dell’im-magine – si pensi, in aggiunta al campione già riportato, all’esemplare «Io sono, si perdoni la metafora, un sepolcro ambulante, che porto dentro di me un uomo morto, un cuore già sensibiliss. che più non sente» (Zib. 4149) – facilitando un tempo di attivazione della messa in guardia dall’im-magine realizzata tramite l’intrusione grafica all’interno di forme sintatti-che strettamente coese, come per esempio soggetto e verbo, verbo e com-plemento, o tra complementi coordinati retti dallo stesso verbo. Si tratta di attenuazioni con valenza evocativa quasi neutra che intervengono con un grado minimo di modificazione di senso. Un caso tipico a questo pro-posito è quello di Zib. 27 in cui l’attenuazione «si può dire» è inserita in un secondo momento in posizione interlineare. Dal punto di vista del sen-so dell’immagine la presenza o l’assenza del «si può dire» non comporta una modificazione che ne giustifichi un intervento a posteriori; essa ap-pare piuttosto come traccia di una volontà di asserire il controllo sull’im-magine stessa e quasi registrare una valutazione della sua appropriatezza da un punto di vista esterno, come se Leopardi volesse attivare un segna-le d’avvertimento per un possibile lettore o interlocutore (in primis se stesso), lasciandogli il tempo di figurarsi che una formazione metaforica stia per presentarsi agli occhi della lettura, sia per incrementare l’atten-zione sullo stesso carattere opportuno dell’immagine, sia per mitigarne la forza illocutoria. Ci avviciniamo dunque al nodo concettuale cruciale: se la mitigazione, in ambito comunicativo, salvaguardia dai rischi di un’ec-cessiva esposizione di sé all’altro, e dell’altro – trascinato nella propria sfera comunicativa – a sé, a livello testuale e creativo qual è il pericolo da cui lo scrittore deve tutelarsi attraverso strategie mitiganti, presupposto che l’immediatezza del parlato è comunque filtrata o rallentata nell’atto di scrittura e lettura?

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2. Persone e cose

Occorre, al fine di rispondere al quesito, spostare il punto di vista sul-la valenza filosofica dell’attenuazione metaforica, e sarà dunque utile ri-percorrere alcune riflessioni essenziali sulle modalità creative del sogget-to e sul rapporto tra lingua e idea, indulgendo a una digressione che al-lontana momentaneamente dalle metafore attenuate e proietta verso es-senziali paradigmi storico-culturali che sembrano ripresentarsi, al di fuo-ri del proprio ambito specifico, travestiti nella forma della filosofia del linguaggio leopardiana. L’obiettivo è quello di mettere in luce non soltan-to la valenza poetica positiva e immaginativa della metafora, ma anche gli elementi destabilizzanti – da un punto di vista creativo ma anche ontolo-gico – che essa comporta nei confronti dell’ideatore di immagini, dei ri-schi che l’attenuazione è chiamata a prevenire più o meno coscientemen-te. Le manifestazioni della lingua in Leopardi non possono essere analiz-zate soltanto all’interno del dispositivo linguistico ma chiamano in causa, perché ad esse connaturati, due ordini discorsivi tra cui la parola funge da valico, ovvero lo schema del reale e il dominio del pensiero. Al primo è annesso l’interrogativo tra la sua essenza ontologica e la sua rappresen-tabilità; al secondo, il rapporto con la sfera estrinseca a cui si volge nel suo operare, sia essa anche l’interiorità riflessiva da cui lo stesso pensiero scaturisce per un ripiegamento di auto-interpretazione.

Nella nota di Zib. 2953, Leopardi si interessa della relazione tra paro-la e mente: «ciascun vocabolo anche semplicemente considerato nella sua profferenza, [...] ha tanto corpo, e per così dire persona, e tanta consi-stenza, che basta a ferire i sensi», mentre altrove egli riflette sul fatto che «la lingua riguardo alla mente di chi l’adopra, contenga non solo i segni delle cose, ma quasi le cose stesse» (Zib. 1701). Troviamo in questi due passi concentrati i tre concetti fondamentali su cui la cultura occidentale ha sin dall’origine instaurato il rapporto tra l’uomo e la realtà, ovvero le idee di persona, corpo e cosa, alle cui interazioni Roberto Esposito ha re-centemente dedicato due saggi che fungono da punto di riferimento per il presente discorso5. Nel soffermarmi sui concetti di persona e cosa, vor-rei mostrare come in Leopardi i due paradigmi culturali fondanti che ne hanno delineato forma e sostanza, ovvero l’ambito del diritto romano e l’ambito teologico sulla natura della Trinità e del Cristo, vengano assor-

5 Si veda R. ESPOSITO, Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero, Einaudi, 2013, versione Kindle, e ID., Le persone e le cose, Torino, Einaudi, 2014.

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biti a informare profondamente il suo pensiero sulla lingua, al punto che sembra configurarsi all’interno della sua riflessione un’entità concettuale definibile come “persona linguistica”, con formula non particolarmente accattivante ma forse almeno funzionale in quanto rimando teorico a un complesso di natura, fisionomie, caratteristiche e operazioni proprie del-la lingua, che agisce e influisce sul corpo, ovvero sulla mente di chi le pen-sa, secondo dinamiche analoghe a quelle adottate dalla persona umana nelle sue relazioni tra corpi e cose esterne. Intravedere i rischi intrinseci all’operato di questa “persona linguistica” all’interno della mente equiva-le all’identificare anche le ragioni essenziali di una difesa nei confronti degli stessi, prerogativa spettante all’oggetto della presente analisi, l’atte-nuazione.

Esposito sottolinea l’importanza del concetto di persona come si è an-dato costruendo nelle due sfere, strettamente legate, della teologia e del diritto6. Il mondo occidentale si è infatti lungamente costituito nelle varie tradizioni di pensiero a partire da una logica binaria fondata sulla con-trapposizione tra persona e cosa esplicantesi in termini di possesso. Men-tre la persona è quell’entità riconosciuta sulla base dell’atto di appropria-zione e conseguente proprietà della cosa (persona originariamente è de-finita in termini di ciò che si ha piuttosto che ciò che si è)7, la cosa non possiede un’identità autonoma ma si denota in funzione passiva rispetto al soggetto a cui appartiene, ovvero come cosa posseduta. La proprietà, originariamente legata alla guerra, prende sempre avvio da un’iniziale ap-propriazione, e questo prima che il trasferimento di proprietà venisse re-golato giuridicamente: «Perché qualcosa divenisse propria in modo ine-quivocabile, doveva essere stata strappata alla natura o ad altri uomini»8. Questo principio di proprietà è risultato nella mancata prominenza del corpo vivente ai fini della costituzione del concetto di persona e del suo riconoscimento sociale. La persona è un’entità doppia il cui costituente biologico è stato rilegato in posizione subordinata o puramente funzio-nale all’ottenimento di proprietà, quest’ultima volta ad alimentare l’eser-cizio di potere a beneficio della componente spirituale o intellettiva. Il corpo conta non per sé, ma come estrinsecazione e insieme di azioni che in ambito familiare o sociale conducono allo statuto di possesso. Analo-

6 Sulla precedenza storica dell’uno rispetto all’altro paradigma non esiste una con-sonanza di vedute. Cfr. ESPOSITO, Due, posizione 89.

7 ESPOSITO, Due cit., posizione 2269.8 ESPOSITO, Le persone e le cose cit., p.8.

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gamente, Esposito sottolinea come al processo di decorporalizzazione del soggetto corrisponda una parallela de-reificazione della cosa, non solo perché essa è funzione del soggetto che la possiede, ma soprattutto per-ché, all’interno della logica espressiva ed epistemologica della relazione tra uomo e cosa, ci si è rivolti ora al mondo delle idee, ora al linguaggio e alla parola per incanalarvi la cosa ai fini della sua rappresentabilità, ed es-sa ha finito per divenire un mero referente dell’idea o del linguaggio, il rimando di un segno che, mentre la fa emergere dall’indifferenziato, ne distanzia irreversibilmente il corpo, il suo essere immediato. Non soltan-to, inoltre, la tradizione filosofica con Descartes, Locke, e Kant ha sanci-to che la separazione tra persona e cosa si reiterasse anche all’interno del-la stessa soggettività, con l’idea di un auto-giudizio sul proprio agire che riduce la parte del sé che agisce a oggetto d’esame del sé che osserva, ma una frattura non ricomponibile tra persona e cosa sostiene l’intera impal-catura teologica. La categoria di persona nel dogma dell’incarnazione del Cristo separa in due l’identità dell’individuo, scindendo la natura spiri-tuale da quella corporea e inaugurando la fondamentale tensione tra la necessità di assoggettamento del corpo da parte dello spirito (per cui si consolida il proprio essere persona a proporzione sia della distanza da cui ci si mantiene dalla cosa, sia del controllo esercitato sul corpo), e la ribel-lione e resistenza del corpo a sottoporsi a tale dominio spirituale. Ora, se si osserva il seguente estratto dallo Zibaldone, si nota come la riflessione linguistica leopardiana sia assolutamente investita dal senso della persona teologica e dell’incarnazione e deposizione del corpo:

[nella lingua francese e nell’ebraica] lo stile si riduce ai nudi concetti [...] in quella perché i concetti non hanno ancora onde farsi un corpo, in questa perché l’hanno deposto; in quella perché la materia è ancora scarsa a vestir lo spirito, in questa perché lo spirito ha consumato la materia, è ri-comparso nudo del corpo di cui s’era vestito, ha prevaluto alla materia, e tutta l’esistenza è spiritualizzata, né si vede o si tocca oramai [...] quasi al-tro che spirito. (Zib. 2912)

Il concetto di persona teologica partecipa della riflessione sulla lingua come impalcatura di pensiero trasferitasi all’interno di un diverso sistema di corrispondenze concettuali e lascia traccia della sua provenienza origi-naria attraverso segnali lessicali. Lo stesso può dirsi della sfera del diritto, in quanto la riflessione leopardiana sull’evoluzione della lingua sembra ri-produrre la struttura appropriativa tra persona e cosa poc’anzi descritta, e molte riflessioni sulla lingua trattano i rapporti tra vocaboli o tra idiomi co-

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me dinamiche di espropriazione, appropriazione e usurpazione di proprie-tà. Il seguente passo fa infatti riferimento a «parole [...] domiciliate», alle «porte della scrittura», alla «cittadinanza» e al «diritto naturale»:

Infinite sono le antiche parole straniere domiciliate, e fatte cittadine del-la nostra lingua [...]; che come quest’uso è sempre fecondo, così le porte del-la scrittura e della cittadinanza, sono sempre aperte, per diritto naturale [...]. E questa è una delle massime, e più naturali e legittime e ragionevoli fon-ti, della novità, e degl’incrementi necessari della favella. (Zib. 786-87)

Nelle seguenti citazioni si trovano invece riferimenti a «nomi restati in proprietà», a funzioni usurpate9, e a un eco del mancipium, la pratica del trasferimento di proprietà simboleggiata dall’imposizione della mano, una chiara testimonianza di una contaminazione tra l’ambito della linguistica e la sfera semantica del diritto:

Tutte simili cose [...] non hanno ricevuto il nome se non mediante me-tafore, similitudini [...], i cui nomi hanno servito [...] ad esprimere le cose non sensibili; e spesso sono restati in proprietà a queste ultime, perdendo il valor primitivo. (Zib. 1388)

la prepotente forza dell’uso fe’ sì che il senso traslato si mise in luogo del proprio e ne usurpò le funzioni. (Zib. 1110, citazione da Monti])

Non avendole dunque i latini né create né formate [le discipline], ma ricevute quasi per manus belle e fatte, neanche ne crearono né formarono, ma riceverono parimente il linguaggio. (Zib. 747-48)10

Le dinamiche appropriative e le relazioni tra persona e cosa a cui allu-de Leopardi in questi brani sono tutte interne al dispositivo linguistico, come se esso riproducesse la struttura del reale, le relazioni tra persone, e tra queste e le cose. La ricostituzione dell’impalcatura del mondo ester-no nel mondo linguistico e cognitivo è ulteriormente manifesta nella se-guente riflessione, dove Leopardi include un esplicito parallelo tra per-sona (umana) e “persona linguistica”:

Nelle parole si chiudono e quasi si legano le idee, come negli anelli le gemme, anzi s’incarnano come l’anima nel corpo, facendo seco loro come

9 Si veda anche il già citato Zib. 778-79. 10 «per manus» è corsivo nel testo.

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una persona, in modo che le idee sono inseparabili dalle parole, e divise non sono più quelle, sfuggono all’intelletto e alla concezione, e non si rav-visano, come accaderebbe all’animo nostro disgiunto dal corpo. (Zib. 2584)

Innanzitutto (come già nel citato Zib. 2912), spicca la rilevanza costi-tutiva del corpo per la determinazione della persona, quasi a rovesciare il paradigma di assoggettamento che la tradizione ha imposto all’essenza spirituale sopra quella corporale; non si avrebbe persona, sostiene Leo-pardi, se l’animo fosse sradicato dal corpo. Si assiste poi a una sorta di moltiplicazione o replica interiore della persona nella “persona linguisti-ca”, la quale, nella congiunzione di parola e idea, abita la persona umana. Non si tratta soltanto di una similitudine innocua, bensì di un nodo con-cettuale dalle enormi responsabilità filosofiche. Si noti come il pensiero di pagina 95 reiteri l’immagine della replica nel processo di incarnazione tra parola e idea:

Il posseder più lingue [...] ci dà una maggior facilità [...] d’intenderci noi medesimi, applicando la parola all’idea [“cosa” è eliminato] che sen-za questa applicazione rimarrebbe molto confusa nella nostra mente. Tro-vata la parola in qualunque lingua, [...] la nostra idea [...] ci rimane ben definita e fissa nella mente, e ben determinata e circoscritta. Cosa ch’io ho provato molte volte, e si vede in questi stessi pensieri scritti a penna corrente, dove ho fissato le mie idee con parole greche francesi latine, se-condo che mi rispondevano più precisamente alla cosa, e mi venivano più presto trovate. Perché un’ idea [“cosa” è eliminato] senza parola o modo di espirimerla, ci sfugge, o ci erra nel pensiero come indefinita e mal nota a noi medesimi che l’abbiamo concepita. Colla parola prende corpo, e quasi forma visibile, e sensibile, e circoscritta11.

Questo passo è prezioso anche per chiarire il modo in cui Leopardi bilanci l’uso di “cosa” e “idea” riferendosi al pensiero, e le sfumature con-cettuali che le due parole assumono. Si registrano in questo brano due correzioni che coinvolgono i due vocaboli. Nel periodo di apertura del passo («applicando la parola all’idea che senza questa applicazione rimar-rebbe molto confusa»), Leopardi aveva infatti inizialmente impiegato «co-sa» per poi sostituirla con «idea». Benché la sfumatura di significato sia quasi impercettibile, sembrerebbe che Leopardi preferisca adottare “idea” per la concezione che si trova già in una situazione di corrispondenza con

11 «fissato» è corsivo nel testo.

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la parola, ovvero quando la “persona linguistica” è formata o in via di for-mazione. Successivamente, un’ulteriore correzione rimpiazza «cosa» con «idea»: «Perché un’idea senza parola o modo di espirimerla, ci sfugge». Questa sostituzione in un primo momento potrebbe apparire contrastan-te alla logica della chiarezza che si suppone in armonia con “idea”, ma a ben vedere essa ha luogo in realtà non in funzione dei sensi del primo pe-riodo di appartenenza – «un’idea senza parola [...] ci sfugge» – ma in fun-zione di (e probabilmente in concomitanza con) l’aggiunta interlineare posteriore «Colla parola prende corpo, e quasi forma visibile, e sensibile, e circoscritta». È l’enfasi del concetto distinto e intelligibile, aggiunto in fase di revisione, ad aver probabilmente determinato l’altrettanto succes-sivo inserimento di «idea» alle spese di «cosa», essendo quest’ultima più consona, come vedremo, a descrivere stati mentali meno limpidi e di in-certa proprietà. “Cosa” sottolinea un deposito ancora irrelato, «senza pa-rola», e che non riesce a far parte del dispositivo della persona, aggiran-dosi nella mente come presenza esclusa e «mal nota».

L’avvento della parola non si limita a conferire un senso di appropria-zione alla cosa altrimenti fluttuante nell’indeterminato, tramite il proces-so di distinzione che si innesca nominandola, ma fa scaturire un passaggio ulteriore. La parola, ritrasformerebbe l’idea in oggetto integrato («visibi-le», «sensibile», e «circoscritt[o]»), intendendo per “oggetto” un’entità relazionale, ciò che si interpone come ostacolo a demandare conoscenza12, riproducendone l’esperienza totale all’interno della mente. Occorre sot-tolineare come la questione che qui sottende il rapporto tra persona e co-sa non sia l’essenza ultima del reale, come avviene per esempio con l’in-conoscibile “cosa in sé” di Kant, di cui la mente può solo possedere un equivalente pensato (non coincidente); né, rispetto alla riflessione leopar-diana, si può parlare di una comunanza di esiti con il percorso che dalla tradizione filosofica dell’auto to pragma aristotelico giunge alla Fenome-nologia hegeliana inquadrando l’essenza della cosa come pura funzione

12 Scrive Remo Bodei: «“Oggetto” sembra ricalcare teoricamente il greco “proble-ma” inteso dapprima quale ostacolo che si mette davanti per difesa, un impedimento che interponendosi e ostruendo la strada sbarra il cammino e provoca un arresto. [...]Implica quindi una sfida, una contrapposizione con quanto vieta al soggetto la sua im-mediata affermazione, con quanto, appunto, “obietta” alle sue pretese di dominio. Pre-suppone un confronto che si conclude con una definitiva sopraffazione dell’oggetto, il quale, dopo questo agone, viene reso disponibile al possesso e alla manipolazione da parte del soggetto» (R. BODEI, La vita delle cose, Laterza, 2014, versione Kindle, posi-zione 278).

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del soggetto, laddove la parola presta la propria voce alla verità della so-stanza dispiegata tramite il suo “sviluppo automatico” all’interno del pen-siero13. Benché sussistano dei punti di contatto, specialmente per ciò che concerne la possibilità di un’idea autoproducentesi nella mente, Leopar-di ha soprattutto a cuore lo statuto relazionale tra persona e cosa, il pro-cesso di avvicinamento che induce all’esperienza della cosa e la sua rinno-vabilità ad opera della parola. Il potere della parola, rendendo la fisicità visibile, sensoriale e formale della cosa, instaura una quasi equivalenza con il modo di sperimentare la cosa nel nostro darci all’esterno. È chiaro però che il problema ontologico, pur non affrontato direttamente, si ripropo-ne sul piano degli esiti. Le due esperienze, ovvero l’azione sensoriale at-traverso cui ci si relaziona all’esterno e la riattivazione della sua memoria e del suo portato emotivo ai fini della riproduzione dell’esperienza dell’og-getto ad opera della parola, non possono non implicare un insieme di do-mande costitutive sulla natura del reale: se l’esperienza del reale si rinno-va ad opera della parola, qual è il rapporto tra realtà esterna e interna, cosa viene trasferito della cosa nel percorso di riproduzione del reale e come la cosa giunga ad abitare la persona al punto che quest’ultima la in-contri nello spazio mentale come se essa si desse nell’immediato del suo essere “presente e viva”. Leopardi non entra in una disquisizione siste-matica sulla natura del reale e sul suo modo di apparire, ma prevede una parziale risposta. Più che rivolgersi all’essenza, guarda al modo: sostenen-do che nella mente umana le «idee sono [...] legate alla parola», la quale, a sua volta, è «inseparabil[e] dalla cosa, è la sua immagine, il suo corpo», (Zib. 1701), egli sembra implicare che tutto ciò che del reale è dato cono-scere è la sua immagine, che l’immagine, anzi, è il reale nella forma in cui esso si presenta alla mente. Sulla sua sostanza esterna, svincolata dalla sua relazione con la mente, non è possibile dire, eppure l’effetto della cosa sulla persona si mantiene intatto grazie alla parola che la evoca. Per que-sto la parola non è simbolo distante e vuoto ma vero e proprio «corpo» colto nel suo agire interattivo. Tra i due statuti della cosa (esterno e inter-no – ovvero nella forma di parola) Leopardi interpone però una sottile pellicola di divisione ontologica che separi almeno l’inerte da ciò che ha vita, e in questo senso dobbiamo intendere il «quasi» presente sia nel ci-tato Zib. 95, sia nel pensiero da cui questa riflessione ha preso le mosse «la lingua riguardo alla mente di chi l’adopra, [contiene] non solo i segni delle cose, ma quasi le cose stesse» (Zib. 1701). Questa separazione di en-

13 Per una sintesi di queste posizioni filosofiche cfr. Ibidem, posizione 177-270.

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tità operata da un leggerissimo marcatore di mitigazione può leggersi co-me gesto cosciente volto a evitare l’assimilazione piena tra i due mondi, quello umano e quello del reale, di cui pure Leopardi aveva esaminato il limite massimo di possibile contaminazione. A questo proposito, il se-guente passo alle pagine 366-67, in cui Leopardi discute l’effetto della perdita di un caro sulla nostra capacità cognitiva, costituisce un esempio di inquietante penetrazione di una realtà “altra” non assimilabile in quel-la del pensiero e che ha quindi in comune con la realtà materiale esterna il suo connotato di irriducibile estraneità, indipendentemente dalla deter-minazione della sua sostanza. Si noti l’ulteriore caso di correzione tra «co-sa» e «idea», questa volta a vantaggio della prima, incrementando le già numerose occorrenze di «cosa» nel passo:

L’idea di una grave sventura (come anche di qualunque grande e stra-na mutazione di cose [...]) che ci sopraggiunga, massimamente improvvi-sa, non si può concepire intera, se non altro ne’ primi momenti; anzi è sempre confusissima, debolissima, oscurissima, e diffettosa. [...P]onete che vi si annunzi la morte di uno de’ vostri cari [...]. Il dispiacere, [...] il dover considerare quella persona in un modo tutto diverso dal passato, cioè come morta, [...] tutte queste cose che si presentano in folla alla vostra mente, vi cagionano una confusione un imbarazzo uno stupore tale, che voi in luogo di considerare ciascuna parte della cosa [la parola «idea» è qui cancellata], non ne considerate nessuna, non siete capace di valutare né l’estensione né la profondità né la natura della cosa, né di formarvene un concetto preciso, e restandovi solamente l’idea in genere e confusa-mente, non siete capace di pensarvi, né vi pensate formalmente, non dirò perché non vogliate pensarvi, ma perché non sapete pensarvi. E quindi accade quella cosa osservatissima che le grandi mutazioni, sieno disgrazie, sieno fortune, al primo momento istupidiscono, e non è se non col tempo, che voi considerandone ciascuna parte, ne cominciate a piangere o ralle-grarvene separatamente. Giacché questo pure è notabile, che l’atto del piangere o rallegrarsi [...] cade sempre sopra una parte della cosa, non già sul tutto, perché l’anima non è capace di abbracciar questo tutto, in uno stesso tempo.

Non sarà un caso che la profusione del vocabolo “cosa” caratterizzi un brano dominato dal concetto di un discrimine scioccantemente oltrepas-sato, la mutazione tra una condizione omogenea alla nostra natura di per-sona, e uno stato altro, quello del morto ridotto alla condizione della co-sa. È vero che “idea” e “cosa” da un punto di vista semantico sembrereb-bero intercambiabili, ma a ben vedere la connotazione di “cosa” intervie-

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ne a enfatizzare momenti di impasse concettuale, di crisi di riconoscimen-to dovuta a fronteggiamento ed esposizione diretta alla presenza del-l’“altro”. “Cosa” è piuttosto sfumatura di un blocco cognitivo rispetto a “idea”, segnalante invece un pur lontano prospetto di intelligibilità dal-l’angolo visuale di chi ha compiuto un passo indietro dalla visione diretta e ravvicinata della “cosa” («restandovi solamente l’idea in genere e con-fusamente»). Mentre normali contesti di linguaggio circoscrivono quanto della cosa è visibile e sensibile distanziandolo e riducendolo allo statuto di possesso, nella condizione della perdita la mente si trova a dover fare i conti con un’idea mutata che lacanianamente la abita come Cosa, un tempo familiare e ora inconoscibile e irriconoscibilmente «divers[a] dal passato». A differenza delle normali situazioni di produzione del pensie-ro, la “persona linguistica” è inerme, i rapporti di potere sono invertiti e la Cosa ha usurpato lo spazio mentale senza possibilità (almeno inizial-mente) di riappropriazione da parte del pensiero.

3. Diritto e magia

In contesti normali non coinvolti da mutazioni che sfiorano il contatto tra diversi statuti ontologici, il modo di ripresentarsi della cosa in imma-gine rivestita di parola è caratterizzato da una multidimensionalità di li-velli semantici che consente un’opera di riconoscimento e rifamiliarizza-zione di un’idea che torna a riferirsi a una realtà nota. Il poeta, «quasi per magico incanto, a che che sia che gli venga alle mani», tramite la parola, cambia aspetto alle cose pur mantenendone lo statuto di realtà, e sa «ve-stirle, adornarle, abbellirle» (Zib. 3222). Normalmente è la stessa natura metaforica del linguaggio a consentire questo ricreante riverbero di sensi, mantenendo vivo il riflesso della sua origine etimologica e della serie di “dilatazioni” subite dal vocabolo nell’attraversare nel tempo diversi ter-ritori semantici14.

Non sarà un caso che Leopardi assimili la trasformazione poetica a una pratica magica. Fino alla tarda antichità, cerimoniali del diritto prevede-vano una certa ritualità comunicante con la magia. Istituzioni legali come la mancipatio, la stipulatio e la vindicatio contenevano elementi di deriva-zione supernaturale e religiosa che si mantenevano nella forma, seppur senza una diretta significanza a livello del contenuto. Il potere performa-

14 Cfr. Zib. 1702.

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tivo della parola, come quello della preghiera, dava accesso a una nuova realtà non immediatamente visibile, tutelandone al suo interno principi di obbligo e autorità; si fondava su un gioco tra novità e tradizione, tra evento unico nel presente e riassorbimento di modi relazionali nelle cor-nici del noto e del culturalmente stratificato:

The methods followed in legal acts were the same as those followed by men attempting to shape other worlds they could not fully see or perfect-ly control, whether the imagined world of political community or the per-ceptible world of the divine. They were, for centuries, the methods that best achieved the ends that citizens and jurists most wanted. By being both familiar and traditionally efficacious, such methods made law an “embed-ded” rather than a separate sphere of action, and engaged the immense power of a world of belief on the side of order in human affairs15.

Il potere magico della parola a cui allude Leopardi, mentre sotterra-neamente connette la dimensione creativa con il profondo magma con-cettuale proprio del paradigma originario della persona e della proprietà, così come esso si manifestava nella prassi del diritto, allo stesso tempo registra l’insinuarsi della dimensione di rischio o pericolo che pure cir-conda il magico. Il modello teorico della proprietà si presta come strut-tura rappresentativa della metafora prima di tutto in riferimento alla sua costitutiva tensione, o conflitto, tra tenore e veicolo, operanti un trasferi-mento di proprietà semantiche fluttuante ed instabile, a caratterizzare il potere vivificante della figura. Recenti studi sottolineano precisamente il fondarsi della metafora sull’oltrepassamento della «soglia del conflitto»16, e su continui assestamenti semantici richiesti alla comprensione che con-ducono al ritrovamento dell’analogia – quest’ultima non dunque premes-sa ma acquisita, conquistata – nell’interazione tra i termini. Se la condi-zione della perdita espone la mente a un’estrema vulnerabilità nei con-fronti della Cosa, il fronteggiamento di entità non immediatamente rias-sorbibili dal pensiero è però costitutiva della stessa natura metaforica. Ciò

15 E. A. MEYER, Legitimacy and Law in the Roman World. Tabulae in Roman Belief, Cambridge, Cambridge University Press, 2004, p. 10. Si veda anche GIACOMO VIGGIANI, Diritto, magia e performatività, «Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio», 2013, pp. 325-338, disponibile su http://www.rifl.unical.it/index.php/rifl/article/view/216 [con-sultato il 12 maggio 2015].

16 M. PRANDI ed E. RASCHINI, La similitudine tra le forme di attenuazione dell’intera-zione concettuale, in «Synergies Italie», 2009, pp. 21-30 (22), disponibile su http://ger-flint.fr/Base/Italie-special/italiespecial.html [consultato il 12 maggio 2015].

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che Leopardi definisce “proprietà” della lingua, ovvero «una lingua ardi-ta [...] capace di scostarsi nelle forme, nei modi ec. dall’ordine e dalla ra-gion dialettica del discorso», è una ricchezza magica, tanto fruttuosa quan-to pericolosa, che esige continuo controllo: «Quanto più qualsivoglia imi-tazione [...] esce della sua natura e proprietà, e tanto più si scema la ma-raviglia, come se nella scultura che imita col marmo s’introducessero gli occhi di vetro, o le parrucche invece delle chiome scolpite. E così appun-to si deve dire in ordine alla scrittura, la quale imita colle parole e non deve uscire del suo strumento» (Zib. 977), proteggendo un insieme dina-mico di relazioni costruite nel tempo e condensate in parole e immagini che si regge su una preziosa quanto fragile misura. La lingua può eserci-tare eccessivamente la propria proprietà snaturandosi. È del resto conna-turato all’essenza della metafora il rischio di espandersi fino a consumare la stessa linfa vitale della parola su cui si innesta attraverso dinamiche di appropriazione e impossessamento, in cui «l’idea primitiva significata pro-priamente da [...] vocaboli traslati è mangiata a lungo andare dal signifi-cato metaforico il quale solo rimane» (Zib. 2469). Fintanto che le etimo-logie di parole utilizzate metaforicamente sono ancora percepibili «l’idea ch’ elle destano, è quasi doppia», ma al culmine del processo di consun-zione metaforica, l’azione metaforica si riversa sul vocabolo annientando-ne, come in una pratica magica, il significato proprio, privandolo dell’a-nima e lasciando solo il corpo secco (cfr. Zib. 597), pertanto riducendolo dallo statuto di “persona linguistica” allo statuto di “cosa linguistica”, inerte e non più adatta a costituire persona.

4. Attenuare i rischi

La funzione di attenuazioni integrate nell’immagine, come quelle ana-lizzate in apertura, contribuisce a valorizzare la natura metaforica della lingua, enfatizzandone i riverberi di immagine e allontanando la visione della cosa nella sua aliena statica nudità frontale. Mentre esse sembrano mitigare e confondere l’immagine proteggendo da un’eccessiva esposizio-ne della cosa “nuda”, ne mantengono attivi i fruttuosi conflitti interni. Diversa è la valenza filosofica delle attenuazioni invigilanti. Al fondo del loro impiego giace una sorveglianza di caratteristiche della metafora che possono compromettere l’equilibrio dei rapporti di proprietà della “per-sona linguistica”. È fondamentale tener presente come l’ordinamento giu-ridico che funge da cornice del presente discorso, basato sull’idea di espro-

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priazione e appropriazione della cosa da parte della persona nella civiltà romana, prevedeva continui sbilanciamenti e passaggi tra i due poli di persona e cosa. Esposito ricorda come nei casi di risarcimento del credi-to, per esempio, il creditore poteva arrivare a disporre a proprio piaci-mento del corpo del debitore insolvente perpetrando ogni tipo di violen-za e addirittura arrivando a negare la restituzione del corpo del defunto debitore alla famiglia. In un baleno la persona poteva precipitare nel ba-ratro della cosa. Lo slittamento tra i due statuti di persona e cosa era co-sì frequente che nella vita dell’antica Roma, «nessuno resta[va] tutta la vita, dalla nascita alla morte, persona» e a tutti capitava di transitare, «al-meno per un certo periodo, per una condizione non lontana da quella della cosa posseduta».17 Trasponendo tali osservazioni all’interno della filosofia del linguaggio leopardiana, e tenendo ben presente l’effetto vivo della lingua sulla stessa esperienza fisica, temporale ed emotiva del letto-re, si assiste a un’estensione assai radicale delle conseguenze filosofiche di tale pericolosa ricchezza, fino a intravedere, in forma di prototipici bar-lumi, alcune preoccupazioni che oggi animano la disciplina biopolitica. Come si vedrà, nel definire la relazione tra parola e persona in Leopardi non sembra più sufficiente riferirsi al linguaggio come mera forma pen-sata in possesso della mente umana che la utilizza come strumento o co-me cosa. Il linguaggio può infatti svincolarsi dal lucido possesso della mente e la relazione di potere tra persona e cosa, tra soggetto pensante e cosa pensata può invertirsi, causando momentanea perdita di quelle fa-coltà che costituiscono l’uomo, la persona. Nel fondamentale pensiero di Zib. 25-26, Leopardi allude a una parola che può arrivare a ridurre la stes-sa mente che la produce a oggetto:

alle volte, la collocazione, diremo, fortuita delle parole, quantunque il senso dell’autore sia chiaro tuttavia a prima vista produc[e] ne’ lettori un’altra idea, il che, quando massime quest’idea non sia conveniente bi-sogna schivarlo, massime in poesia dove il lettore è più sull’immaginare e più facile a creder di vedere e che il poeta voglia fargli vedere quello an-cora che il poeta non pensa o anche non vorrebbe. Ecco un es. Chiabrera [...]: Ora il bel crin si frange, E sul tuo sasso piange. Si frange qui vuol di-re si percuote, e intende il poeta, colle mani ec. Il senso è chiaro [...]. Ma la collocaz. casuale delle parole è tale, ch’io metto pegno che quanti leg-gono la Canz. del Chiabrera colla mente così sull’aspettare immagini, a prima giunta si figurano Firenze personificata [...] che percuota la testa e

17 ESPOSITO, Le persone e le cose cit., p. 13.

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si franga il crine sul sasso del Zanchini [...]. Ora, lasciando star se l’imma-gine ch’io dico sia conveniente o no, certo è che non è voluta dal poeta, e ch’egli perciò deve schivare questa illusione quantunq. momentanea [...] eccetto s’ella non gli piacesse come forse si potrebbe dare il caso, ma que-sto non dev’essere se non quando l’immagine illusoria non nocia alla vera e non ci sia bisogna di ravvedimento per veder questa seconda, giacché due immagini in una volta non si possono vedere, ma bensì una dopo l’al-tra il che quando fosse, potrebbe anche il poeta lasciare e anche proccu-rare questa illusione, dove pure non noccia al restante del contesto, per-ch’ella non fa danno [...] destando immagini delle quali non sia evidente la ragione, ma quasi nascosta, e tale che’elle paiano accidentali, e non proccurate dal poeta in nessun modo, ma quasi ispirate da cosa invisibile e incomprensibile18. (Zib. 25)

La mente, suggerisce Leopardi, organizza il pensiero secondo sequen-ze lineari. Nel momento in cui si concentra su una parte di questa sequen-za, altre combinazioni insospettate possono fuoriuscire a informare rap-presentazioni secondarie, nel qual caso è la parola stessa, da sola, senza la sorveglianza della mente, ad animare un’immagine illusoria. Ma nel mo-mento in cui l’immagine illusoria nasce, essa si serve del corpo, della men-te ignara del poeta e dei suoi mezzi comunicativi per esprimersi a un’altra mente del lettore o ascoltatore. In quel particolare istante creativo la re-lazione tra persona e cosa è rovesciata, il poeta diviene il mezzo di cui la parola si appropria per produrre immagini «quasi ispirate da cosa invisi-bile e incomprensibile». Solo in un secondo momento la mente del poeta può riacquistare vigilanza sulla scrittura e sull’immagine aliena per riper-sonalizzarsi, ovvero ridurre nuovamente il linguaggio a oggetto, e decide-re se lasciare o meno sulla pagina il prodotto del dominio linguistico. Lun-gi dal rappresentare l’esito di una verità ormai conseguita, lo sviluppo automatico del pensiero è per Leopardi un pericolo nei confronti del fon-damento identitario della persona, e risiedono quindi nella performativi-tà intrinseca alla lingua anche quei rischi di perdita, connaturati alla strut-tura appropriativa dell’immagine, che richiedono costante vigilanza attra-verso l’attenuazione. Questo gioco di riappropriazione di sensi fuggitivi tra mente e parola è essenziale e fruttuoso ai fini creativi, perché il poeta in un secondo momento può scorgere soddisfatto una combinazione che produce esiti inaspettati, ma un tale processo (magico) fondato sostan-zialmente sull’evento, sulla sorpresa e sull’imprevedibilità nasconde anche

18 «Si frange» è corsivo nel testo.

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L’ATTENUAZIONE IN LEOPARDI

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il rischio che il poeta mai si accorga di una determinata immagine illuso-ria in atto e mai pienamente quindi riesca a riappropriarsi completamen-te del prodotto creativo. L’insidia della cosa è allora non solo nascosta in stati eccezionalmente mutati, come quello precedentemente descritto del lutto, ma è costitutiva di una condizione creativa ordinaria di produzione ed estrinsecazione del pensiero. Non si tratta semplicemente di una que-stione di attenzione o distrazione di tipo comunicativo, ma della coscien-za di un margine di libertà della “persona linguistica” sulla mente stessa. È in questa luce che dobbiamo allora inquadrare l’ossessiva tendenza al-l’attenuazione metaforica, interpretandola, piuttosto che come una miti-gazione preoccupata a intaccare direttamente le immagini, come un resi-duo di un’operazione di vigilanza sul testo volta a prevenire l’asservimen-to della mente all’autonomia prevaricante della parola. Si spiegano dun-que in base a questa logica anche i casi in cui Leopardi, dopo aver creato delle immagini si ferma a delucidarle:

se Virgilio senz’arte non sarebbe stato Virgilio, se in poesia un bel cor-po con vesti di cencio, dico, bei sensi senza bello stile [...] non si soffrono ... (Zib. 20)

si può dire che da una stessa sorgente, da una stessa qualità dell’animo, diversamente applicata [...] vennero i poemi di Omero e di Dante, e i Prin-cipii matematici della filosofia naturale di Newton. (Zib. 2132)

l’anima non si svelle come un membro, ma parte naturalmente quando non può più rimanere, nello stesso modo che una fiamma parte si estingue e parte da quel corpo dove non trova più alimento, nel che, per dire un’im-magine, noi non vediamo né ci figuriamo neanche astrattamente nessuna vio-lenza e nessun dolore sia nel combustibile sia nella fiamma. (Zib. 282)

Quasi a voler prevenire il pericolo che sensi ulteriori possano sfuggire al momento di scrittura o presentarsi inaspettatamente in un secondo mo-mento di rilettura, in queste occorrenze Leopardi preferisce “dire l’im-magine” piuttosto che lasciarla libera di trasmettere le proprie idee. La posta in gioco è la stessa identità di essere umano, se è vero che ciò che caratterizza la persona sono precisamente una «facoltà del pensiero [...] indipendente dagli accidenti», senza la quale sarebbe «un altro essere ma non un uomo», e l’esercizio inalienabile della volontà, per cui «nessuna promessa, contratto, volontà propria e libera, lo può mai spogliare in mi-nima parte del diritto di seguir[la]» (Zib. 580-81). L’immagine illusoria,

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invece, in quanto idea «che il poeta non pensa o anche non vorrebbe», mina precisamente i due principi costitutivi dell’umano, il pensiero e la volontà. La breccia del pericolo è autoprodotta, ma pur potendosi in un certo senso parlare di uno “sviluppo automatico” dell’idea, gli esiti rispet-to ad Hegel sono opposti. Innanzitutto perché il momento della cono-scenza è assolutamente disgiunto dal processo, e anzi l’automatismo coin-cide proprio con una perdita di sé e della propria persona; si dà cono-scenza solo nel momento in cui l’automatismo si è interrotto, ammesso che il poeta riesca a ripercorrerne il meccanismo. Rimane sempre insinua-to, però, un residuo di alterità non riassorbibile dal pensiero. Lungi dal rappresentare una dinamica coniugata con la verità, il processo temuto da Leopardi è anzi il polo estremo raggiunto dalla tecnica, ovvero il ri-schio di riduzione dell’opera a simulacro. Come osserva Esposito, soffer-mandosi sul significato della tecnica nel pensiero moderno, anche la tec-nica, come l’opera d’arte, si fonda su una «vita di relazione». Al contrario della seconda, però, la tecnica «pare scaturire dal loro meccanismo inter-no, in forma indipendente da chi l’ha attivato. È proprio questa autono-mia che sembra conferire alle cose il profilo delle persone, a produrre un effetto di depersonalizzazione in coloro che, non essendosene più sogget-ti, ne divengono oggetti passivi».19 L’immagine illusoria di Leopardi, sfug-gendo di mano al poeta, incarna proprio questo rischio di ribaltamento e perdita di funzione. Invigilando, attenuando, e frenando, egli protegge l’identità e la proprietà poetica dall’incanto del simulacro.

19 ESPOSITO, Le persone e le cose cit., p. 61.

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