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Piccole imprese, competitività e crescita economica

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Presidente Claudio Carnieri Direttore Anna Ascani Comitato scientifico istituzionale Giovanni Bellini, Simone Budelli, Elvira Lussana, Paolo Raffaelli, Tommaso Sediari, Alvaro Tacchini

Area Processi e Politiche Economiche e Sociali: Elisabetta Tondini

Area Innovazione e Sviluppo Locale: Mauro Casavecchia

Area Documentazione: Giuseppe Velardi

Area Amministrativa Contabile: Nadia Versiglioni

Coordinamento Editoriale: Giuseppe Coco

RES 2008-09 Il rapporto è il risultato e la sintesi di un ampio e articolato lavoro di ricerca svolto presso l’Aur e coordinato da Mauro Casavecchia ed Elisabetta Tondini. La segreteria di redazione è stata seguita da Emanuele Pettini e Tharita Pierini. Della documentazione si sono occupati Giuseppe Velardi e Patrizia Virgili. Il lavoro di amministrazione è stato coordinato da Nadia Versiglioni con la collaborazione di Giampaolo Ginocchini, Manuela Proietti De Santis, Roberta Chiappini e Roberto Palazzoni. L’editing è stato curato da Fabrizio Lena con la collaborazione di Vito Simone Foresi. Enza Galluzzo ha coordinato i lavori dell’indagine alle imprese. La comunicazione è stata curata da Nicoletta Moretti con la collaborazione di Maria Rita Di.

Agenzia Umbria Ricerche - Via Mario Angeloni, 80/A - 06124 Perugia - Tel. 075.5045805 - www.aur-umbria.it © 2010 Tutti i diritti riservati - L’utilizzo, anche parziale, è consentito a condizione che venga citata la fonte

INDICE

INTRODUZIONE Claudio Carnieri 5

Sezione I – IL QUADRO ECONOMICO

IL QUADRO MACRO ECONOMICO E L’EVOLUZIONE DEL MODELLO UMBRO Elisabetta Tondini 51 Sezione II – LE IMPRESE

PICCOLE IMPRESE, COMPETITIVITÀ E CRESCITA ECONOMICA Luca Ferrucci 121 L’ARTIGIANATO Sergio Sacchi 217 IL SOSTEGNO ALL’IMPRENDITORIA GIOVANILE Giacomo Frau, Meri Ripalvella 315 Sezione III – L’AMBIENTE PER LO SVILUPPO

CAPACITÀ, LUOGHI, RETI DELLA RICERCA Mauro Casavecchia 353 SERVIZI ALLE IMPRESE Elena Bartocci, Davide Castellani 425 POLITICHE OCCUPAZIONALI DIFENSIVE E RECESSIONE Lorenzo Birindelli 453 LE AREE PRODUTTIVE: DIFFUSIONE, FRANTUMAZIONE, QUALITÀ Marco Storelli, Donatella Venti 473 Sezione IV – PROFILI SOCIALI

CARATTERI SOCIO-DEMOGRAFICI Luca Calzola 585 CULTURE DELLA PARTECIPAZIONE E FORME DI AGGREGAZIONE NEGLI ANZIANI Paolo Montesperelli, Riccardo Cruzzolin, Federica De Lauso, Elisa Fuschi, Rosa Rinaldi 617 Sezione V – LA FINANZA LOCALE

LA FINANZA DEI COMUNI UMBRI: UNO STUDIO RICOGNITIVO Loris Nadotti 719

INTRODUZIONE

Con questo Rapporto giunge ad una conclusione un ciclo di studi su Economia e Società in Umbria, nel quale, nel corso di questi anni, ci siamo impegnati per una lettura degli aspetti “strutturali” della società regionale, meno legati alle contingenze della congiuntura, nella convinzione che di lì, dalle permanenze e dalle criticità di più longue durèe, gli attori diversi della società regionale potessero trarre le indicazioni, di visione e di operatività, più congrue e pregnanti: le forze sociali tese ad individuare i vettori del proprio protagonismo, le istituzioni impegnate a progettare e calibrare le proprie politiche e a far emergere reti di governance tali, per qualità ed intensità di relazioni, da rinnovare, nella contemporaneità, un più antico assillo e scommessa, programmatica e di democrazia, largamente coltivata nella cultura delle diverse classi dirigenti dell’Umbria e connessa alla scelta di un possibile e fecondo rapporto tra istituzioni e sviluppo. Questo lavoro si è incrociato poi con la “grande crisi” di questo recente biennio, dopo la quale, come in più occasioni ha osservato il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, nulla sarà più come prima, ad indicare la portata dei cambiamenti, alle diverse scale nazionali, continentali e globali. E quindi, ancor di più, per una piccola regione come l’Umbria, fortemente connessa agli andamenti del ciclo nazionale, quel ragionamento “strutturale” ci è apparso e ci appare particolarmente congruo ed in grado di aprire non poche sollecitazioni alla operosità della società regionale. Due passaggi delle Considerazioni finali del Governatore (29 maggio 2009) ci sembrano essenziali anche per il ragionamento che svolgeremo in questa Introduzione sull’Umbria, in connessione con i principali risultati emersi dai diversi saggi del Rapporto: “Un processo di ristrutturazione si era avviato – ha sottolineato Draghi – in parti importanti del nostro sistema produttivo nella prima metà del decennio; prima della crisi se ne intravedevano già i frutti in termini di produttività e forza competitiva sui mercati esteri; questi tempi difficili lo mettono a repentaglio. Secondo la nostra indagine, circa metà delle 65 mila imprese dell’industria e dei servizi con almeno 20 addetti sono state coinvolte nel processo di ristrutturazione. Esse si attendono un calo del fatturato nel 2009 nettamente inferiore alla media. A un estremo, le aziende finanziariamente più solide presenti in questo gruppo, oggi attutiscono l’impatto dell’avversa congiuntura

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consolidando il primato tecnologico e diversificando gli sbocchi di mercato. Alcune sembrano proiettate a trarre vantaggio dalla crisi, in termini di riposizionamento sul mercato. All’altro estremo vi sono imprese che, avendo deciso di accrescere scala dimensionale, intensità tecnologica, apertura internazionale, si erano indebitate. Affrontano ora, con la crisi, il prosciugarsi dei flussi di cassa, l’irrigidirsi dell’offerta di credito bancario, la forte difficoltà ad accedere al mercato dei capitali: si tratta di almeno seimila aziende che, impegnano anch’esse quasi un milione di lavoratori. A risentire della crisi sono soprattutto le imprese piccole, sotto i 20 addetti; nella sola manifattura se ne contano in tutto quasi 500 mila, con poco meno di 2 milioni di occupati. Per quelle che operano in qualità di sub-fornitrici di imprese maggiori, da cui subiscono tagli degli ordinativi e dilazioni nei pagamenti, è a volte a rischio la stessa sopravvivenza. Il passaggio dei prossimi mesi sarà decisivo: una mortalità eccessiva che colpisca per asfissia finanziaria anche aziende che avrebbero il potenziale per tornare a prosperare dopo la crisi è un secondo, grave rischio per la nostra economia”. Ed ancora, ha continuato il Governatore: “Una volta superata la crisi il nostro paese si ritroverà non solo con più debito pubblico, ma anche con un capitale privato – fisico ed umano – depauperato dal forte calo degli investimenti e dall’aumento della disoccupazione. Se dovessimo limitarci a tornare su un sentiero di bassa crescita come quello degli ultimi quindici anni, muovendo per di più da condizioni nettamente peggiorate, sarebbe arduo riassorbire il debito pubblico e diverrebbe al tempo stesso più cogente la necessità di politiche restrittive per garantirne la sostenibilità. Dobbiamo, da subito, puntare a conseguire una più alta crescita nel medio periodo. Occorre agire su due fronti: assicurare il riequilibrio prospettico dei conti pubblici, attuare quelle riforme che, da lungo tempo attese, consentano al nostro sistema produttivo di essere parte attiva della ripresa economica mondiale”.

Non sono poche naturalmente le conseguenze connesse a questa visione, prima di tutto sui caratteri dei nuovi scenari che già si aprono nella crisi. Ed è in questo cambiamento di fase che si ripropone una domanda fondamentale sulla possibilità stessa di poter avere ancora, nelle dimensioni regionali, una politica economica, che, connessa a quei più grandi scenari, ma derivante da una articolazione fondamentale della statualità nazionale come sono le Regioni, ambisca a produrre politiche tali da poter incidere sulla qualità dello sviluppo necessaria per il futuro del paese. Per quel che ci riguarda la nostra risposta era ed è ancora positiva ed anzi riteniamo che qui si sia non poco offuscata anche una cultura del “federalismo” che, intervenendo sulle questioni del “patto fiscale” e sulla destinazione delle risorse, in rapporto alla erogazione di servizi essenziali alla vita dei cittadini e della nazione e ai diritti di cittadinanza, si è tenuta più a distanza dalle problematiche connesse alla domanda “quale Stato per quale sviluppo”, non percependo pienamente che sta qui e ci starà ancora, anche dopo l’uscita dalla “grande crisi” di questi anni, una scommessa fondamentale proprio per quella territorialità dello sviluppo che porta in primo piano, anche nelle diverse e più piccole dimensioni, la qualità soggettiva dei protagonismi sociali, i sistemi di relazione e di scambio, anche culturali, per i quali il ruolo delle istituzioni è straordinariamente

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importante, oltre le dimensioni di amministrazione e di legislazione. Di qui anche il tema di una nuova stagione di politiche pubbliche capaci, per incisività, selettività e rigore finanziario, di incidere positivamente e non in modo dirigistico, sulla qualificazione dello sviluppo e sulla operatività stessa dei soggetti sociali.

Per questo, nelle diverse piste di ricerca, anche in questo volume, nella visualizzazione dell’Umbria, abbiamo tenuto stretti i vettori di quella “ics” che rappresenta l’incrocio complesso tra modello produttivo e modello sociale, nella convinzione che la qualità, ma anche la quantità, dello sviluppo, sia sempre più espressione della cultura, delle visioni dei soggetti, delle competenze, delle relazioni, fondamentali, anche per l’imprenditore schumpeteriano, per mettere insieme e combinare, nell’impresa, i fattori della produzione (capitale umano, tecnologia, finanza, qualità dell’organizzazione della produzione e del lavoro), per intercettare i cicli dell’innovazione e, più in generale, per salvaguardare e valorizzare risorse essenziali del procedimento economico, a cominciare dal lavoro e dai caratteri dell’ambiente dove si fa impresa: la trasparenza, l’efficienza amministrativa degli apparati pubblici e anche degli altri attori sociali e istituzionali, la ricchezza delle relazioni interpersonali e di comunità, la qualità delle dotazioni infrastrutturali, a cominciare da quelle immateriali, della scienza, della ricerca, della finanza.

Per queste ragioni, anche nell’elaborazione di questo Rapporto che abbiamo titolato ancora Dentro l’Umbria, 2008-2009 e che continua l’asse dei due precedenti (L’Umbria nell’Italia mediana, 2006; Dentro l’Umbria, 2007) abbiamo composto un team di ricerca largo, caratterizzato da diverse competenze scientifiche, e abbiamo percorso anche piste difficili, non consuete e talvolta “scomode”, ma tali da ridarci una immagine “effettuale” dell’Umbria, delle sue potenzialità e anche delle sue faglie critiche sulle quali si struttura la sua identità contemporanea. Ci è sembrato questo anche un terreno fondamentale per un più forte arricchimento dei paradigmi stessi della politica, nella convinzione che qui, nello studio, nella ricerca, nella conoscenza della realtà, fatta con “spirito di verità” e tenacia critica, si possono trovare nuovi e più forti nutrimenti non solo all’azione programmatica di governo, ma alla costruzione di quelle visioni generali, dalle quali dipende la qualità democratica della vita sociale di una comunità, sia nelle dimensioni urbane e cittadine, sia in quelle più larghe, regionali, che sono sempre un dato e una esperienza complessa di più lunghi cammini della storia sociale ed istituzionale, e che, per continuare ad essere fecondi, debbono continuamente alimentarsi della creatività e della ricerca delle diverse classi dirigenti.

Una tale visione dello sviluppo deve portare allora sempre più in primo piano i nodi, i vettori, i protagonismi di una complessa governance che può e deve organizzarsi ai diversi livelli territoriali, interni ed esterni alla Regione, come espressione di un moderno ed avvertito regionalismo. Qui sta la più difficile sfida di una nuova stagione delle Regioni italiane, anche quando fosse risolta la questione dell’allocazione delle risorse nel federalismo. Governance infatti significa sempre più mettere in rete, mettere in relazione, in una visione dello sviluppo che è molto distante da quel conflitto per la spartizione della finanza pubblica che non di rado occupa le prime pagine delle cronache regionali,

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attraversando, spesso in modo prioritario, le sollecitudini dei diversi ceti politici che finiscono così per restringere non poco una visione più generale, rendendo molto più leggera ed inefficace quella più complessa “cassetta degli attrezzi”, necessaria per stare, con autonomia, alla guida delle istituzioni pubbliche. Una tale governance infatti preme sulle classi dirigenti a conquistare ed esprimere, per cultura e per conoscenza dei processi, questa capacità, questa abilità, nel riconoscere e far avanzare dinamiche di sviluppo, in uno scenario, come quello contemporaneo, nel quale si sono finalmente rotte tante illusioni ed invenzioni sulla economia di carta e si è tornati alla durezza e alla ricchezza dei “processi reali”. Qualche tempo fa1 Romano Prodi, in una assemblea di Confindustria, per indicare la necessità di tornare al manifatturiero, ha ricordato un significativo aneddoto riguardante Enrico Cuccia, lo storico Presidente di Mediobanca: “Non visiti le fabbriche – lo apostrofò quest’ultimo in una occasione – perché dopo ci si affeziona”. Vale anche oggi, ci sembra, in molte direzioni.

Ne derivano di qui non pochi scenari strategici per una regione come l’Umbria, alcuni dei quali avevamo già incrociato nei precedenti Rapporti e che quest’ultimo ripropone con grande evidenza: l’impegno a globalizzare l’Umbria prima di tutto, in ogni direzione, culturale, di ricerca scientifica, di apertura ed operosità sociale ed istituzionale, di qualità delle relazioni ed anche degli stili, personali e di gruppo, per farne un territorio global player, in grado di avere una forte dimensione attiva nelle frontiere della globalizzazione. Manifattura e servizi, ricerca universitaria, reti culturali e di trasferimento scientifico e tecnologico, qualità urbana e valorizzazione delle risorse identitarie dell’Umbria, investimento sulla scienza e sulla innovazione, avanzamento dei valori di una società civile più forte e ricca, aperta al futuro, più sicura di sé e delle proprie competenze, una paradigma della politica volto ad aprire frontiere e ad arricchire relazioni nella comunità: tutto questo possibile impianto progettuale è ad una prova, per il regionalismo umbro, per aprire un’altra stagione, oltre la “grande crisi” del biennio recente. Gli scenari della “crisi”

E’ qui che si ripropone come centrale, questo mi sembra l’esito primario di questo nostro lavoro di ricerca, la necessità di far avanzare nella regione un nuovo e più ricco modello di specializzazione produttiva, in grado di agganciare vettori produttivi e dei servizi a più alto contenuto di conoscenza e in grado di produrre maggiore Valore Aggiunto. Naturalmente si tratta di una “idea guida”, di uno snodo selettivo delle politiche e dei progetti, che richiede pensieri e cammini lunghi e tuttavia esso ci sembra essenziale come misura delle coerenze e degli impegni reali per tutti i soggetti della governance, alla quale abbiamo accennato. Gli scenari attuali, continentali e del mondo, sono per questo essenziali, ma anche l’impulso culturale che vi è contenuto a leggere il

1 Cfr. Fabrizio Rizzi, Il Messaggero 10 settembre 2009.

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cambiamento di fase, a visualizzare tutte le nuove sfide che si pongono alle istituzioni, nella propria progettualità e al sistema produttivo, proprio nel fare impresa. Né secondaria, per questo, torna a proporsi una azione di “attrazione” che un territorio come quello umbro, per la sua qualità, può determinare verso nuovi investimenti di protagonismo imprenditoriale e di ricerca scientifica. Una recente ricerca dell’Irer della Lombardia2 segnala, in modo interessante, anche dopo lo studio (2007) sulle Multinazionali (Aur-Sviluppumbria), una particolare fecondità del territorio umbro che risulta, per quanto riguarda i flussi di IDE sul Pil, terzo in Italia, dopo Lombardia e Piemonte e prima del Lazio che tiene la quarta posizione. Ed anche gli investimenti significativi di questa fase più recente, in taluni “poli di ricerca” presenti nella regione (l’esperienza del Distretto Tecnologico) segnalano la fecondità di una tale direzione. Si pensi alla Toscana che risulta penultima nella graduatoria alla quale abbiamo accennato. Vi è tornata un’altra ricerca, frutto dell’attività dell’Osservatorio Siemens, sulla attrattività positiva del Sistema Italia, 2007, nella quale si sottolinea come in Toscana gli IDE siano arrivati allo 0,4% del Pil, (Umbria 1,4%).3

Sullo sfondo rimane centrale, come si potrà vedere dai tanti saggi del volume, la necessità che, a livello nazionale, si apra una nuova fase espansiva, la quale, per investimenti, per caratteristiche e scelte del modello di accumulazione, sia ben più centrata sull’apparato scientifico nazionale, in modo da ricollegare positivamente l’Italia all’Europa e alle frontiere della globalizzazione. E anche il clima culturale, civile e democratico che segna oggi la vita nazionale ci sembra, per questo, essenziale.

La forte sensibilità dell’Umbria agli andamenti del ciclo nazionale è evidente da tempo ed anzi la crisi è tornata per questo a segnalarci gracilità e contraddizioni del modello regionale, proprio nello specifico intreccio, per tempi e consequenzialità, dei due cicli. Qui, certamente, le politiche economiche a scala regionale possono fare molto, finalizzando ancora di più finanza pubblica e progetti, forse anche stringendo di più gli interventi in una dimensione competitiva nei rapporti con il sistema delle imprese, ma torna essenziale il cammino generale del Paese e una sua possibile dinamica di sviluppo, espressa sia sui mercati internazionali che in un ben più netto e forte procedere della domanda interna, che porta, per questo, in primo piano tutte le questioni del “modello sociale”, della distribuzione delle risorse, dei livelli di qualità della spesa delle famiglie e dei diversi gruppi sociali.

Nei tanti dibattiti sulla interpretazione delle origini ultime della crisi del recente biennio non sono poche le posizioni di studiosi (Jean-Paul Fitoussi) che fanno risalire, ben al di là delle vicende dei subprime o della sconsideratezza di tante dinamiche della finanza globale, proprio alla “depressione della domanda”, prodotta dal lungo ciclo liberista, una delle cause essenziali della rottura degli equilibri che hanno portato alla crisi stessa. Scrive l’economista francese in una intervista rilasciata a Trento, durante il 2 Cfr. L’attrattività nelle politiche regionali per la ricerca e l’innovazione, l’esperienza della Regione Lombardia, a cura di Adriano De Maio, Claudio Roveda, Alessandro Sala, Edizioni Il Sole 24 Ore. 3 Cfr: relazioni e stime TEH-Ambrosetti, su dati UIC- Banca d’Italia in Sole 24 Ore, Centro Nord, 9 dicembre 2009.

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Festival dell’economia: “Quello che ci ha portato a questo punto, e ha creato un corto circuito a livello globale, è iniziato con l’integrazione del commercio mondiale dei paesi emergenti. Con loro è aumentata la concorrenza sul piano della forza lavoro, ed è diminuita la concorrenza sul mercato dei capitali, visto che quei Paesi ne avevano grande bisogno. Il risultato? Che con la moderazione salariale è cresciuta anche la disuguaglianza dei redditi. E in tutti i Paesi nessuno si è salvato. Chi ha poco, ha avuto ancora di meno, chi ha molto, ancora di più… Significa che si è formato un deficit sul lato della domanda e un eccesso di risparmio che ha avuto come conseguenza la formazione delle bolle: sia finanziaria che immobiliare… Adesso siamo nei guai perché il problema della disuguaglianza non si risolve facilmente. La crisi nasce dalla questione sociale, non è il suo effetto: le società sono diventate individualiste e senza coesione, e questo ha permesso di raggiungere un tale grado di disuguaglianza… E occorre abbandonare il sogno di avere rendimenti del capitale a due cifre: non esiste. Abbiamo alimentato l’eccesso di attese sul ritorno del capitale. Abbiamo vissuto su un sogno: guadagnare soldi senza lavorare. Bisogna tornare sulla terra… I piani di stimolo devono essere forti, ma senza avere come conseguenza la diminuzione del patrimonio netto: l’indebitamento pubblico deve corrispondere ad investimenti. Su energia, ambiente, infrastrutture, educazione, capitale umano, ricerca, coesione sociale, sui sistemi di produzione sociale. Investimenti di lungo termine che hanno per effetto di aumentare il patrimonio”.4

Il dibattito sulle ragioni della crisi è stato davvero ampio, tra i più estesi ed articolati della storia degli ultimi decenni, a partire dalla connessione tra economia e politica che esso contiene nel proprio, più intimo, paradigma. Tra gli altri vorremmo segnalare Pierluigi Ciocca, dal 1995 al 2006 vice direttore generale della Banca d’Italia, autore di numerosi saggi: “Sono occorsi e occorreranno ancora, cospicui denari pubblici sia per turare le falle nella finanza sia per sostenere la domanda effettiva. I moltiplicatori dei bilanci statali sono risultati, in diverse economie del G-20, inferiori all’unità. Ciò è dovuto ai ritardi nell’incentrare la politica fiscale sulla protezione dei redditi più bassi e sulla spesa in infrastrutture utili. L’una e l’altra avrebbero espresso effetti moltiplicativi del reddito più pronunciati. Resta prioritario agire dal lato della domanda, che non è ancora in una espansione auto alimentatesi” (Il Manifesto, 2 dicembre 2009). Ed ancora Saaskia Sassen, nota sociologa delle “Città globali” e studiosa della globalizzazione, componente del “Gruppo di Lisbona”, docente alla London School e all’Università di Chicago: “La specificità della crisi attuale sta nel fatto che il capitalismo finanziarizzato ha raggiunto i limiti imposti dalla sua stessa logica. Ha avuto successo nell’estrarre valore da tutti i settori economici, attraverso la loro finanziarizzazione. Ha permeato una parte così grande di ogni economia nazionale (specie nel mondo altamente sviluppato), che le aree dell’economia da cui può ancora estrarre capitale non finanziario sono diventate troppo ridotte, e non possiamo fornire sufficiente capitale per salvare il sistema finanziario nel suo insieme.

4 Cfr. Paola Pilati, Dalla crisi si esce così, colloquio con Jean-Paul Fitoussi, in L’Espresso, 11 giugno 2009.

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Per esempio: nel settembre 2008 – mentre esplodeva il crollo della Lehman Brothers – il valore globale degli assets finanziari (cioè: indebitamento) nel mondo intero era di 160 mila miliardi di dollari: ovvero tre volte e mezzo il Pil globale. I soldi disponibili non bastano per salvare il sistema finanziario (Il Manifesto, 5 aprile 2009). Ed ancora Loretta Napoleoni, autrice e saggista di molte riviste internazionali, sottolinea: “Il nodo cruciale è la politica economica con cui Bush risponde all’attacco delle Torri Gemelle: un abbattimento precipitoso e aggressivo dei tassi d’interesse – dal 6% di fine 2001 all’1,5% della primavera 2003 – che serve a finanziare, senza drenaggio fiscale, le guerre in Afghanistan e in Iraq e a legittimarle, creando le condizioni per la bolla speculativa e alimentando contemporaneamente una bolla di consenso basata sulla crescita continua. Con la vendita e la cartolarizzazione dei mutui subprime, la bolla finanziaria crescerà a dismisura fino a esplodere sei mesi fa nella recessione che sappiamo… Tuttavia questa politica economica non comincia con lui, ma con Greenspan, negli anni ’90 per garantire agli Stati Uniti la guida nel processo di globalizzazione innescato dalla caduta del Muro, facilitando la deregulation . Ogni volta che sul mercato globale si prospetta una crisi – la crisi del rublo, del dot.com., dei mercati asiatici, della Turchia, del Messico, – Greenspan taglia i tassi e pompa il credito, proteggendo Wall Street e la City di Londra e tutta la finanza occidentale da un’onda che in tal modo la sfiora, ma non la travolge. Le crisi restano regionali, la finanza occidentale ci specula sopra, ma la crisi di sistema non viene scongiurata, viene solo rinviata. Finché il meccanismo salta: stavolta la crisi è globale, ed è epocale. Chiude l’epoca cominciata nell’89 e culminata nella guerra al terrorismo” (Il Manifesto, 25 aprile 2009).

Alla luce di queste riflessioni si può apprezzare meglio, per autorevolezza e rigore, l’opinione del Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, (cfr. Intervento alla Società italiana degli economisti, 50’ riunione scientifica annuale, Gli economisti e la crisi): “Se le grida d’allarme non sono mancate, non si è però diffusa una vera consapevolezza dei rischi che si correvano, né presso coloro che avevano responsabilità politiche né, soprattutto negli Stati Uniti d’America dove le lacune regolamentari e lo sviluppo dell’economia finanziaria erano massimi, presso i regolatori. Un primo motivo di questa sottovalutazione degli allarmi era la scarsa conoscenza, sia a causa di una carente informazione contabile e statistica, sia a causa di un’analisi che rimaneva (ostinatamente) macroeconomica, delle reali condizioni del settore finanziario. Una parte rilevante del rischio che si andava accumulando nei bilanci degli intermediari finanziari e al di fuori di essi, sfuggiva all’osservazione degli analisti e delle autorità di controllo, per le modalità con cui veniva assunto e registrato contabilmente, per l’opacità dei prodotti e degli strumenti utilizzati, ma anche perché è solo con la crisi che si inizia ad apprezzare pienamente la complessità dei legami tra istituzioni finanziarie, mercati e politica monetaria. Non è dubbio che la fiducia nella capacità del mercato di autoregolarsi e generare in ogni circostanza allocazioni efficienti delle risorse si sia rivelata mal riposta: è il destino di tutte le rappresentazioni apologetiche che dimenticano o tacciono le limitazioni, logiche, e descrittive, di una

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costruzione intellettuale per altri versi elegante e rigorosa. Ma perché questa critica non sia avulsa, nella sua genericità, dal contesto istituzionale e storico, quanto lo era la fiducia acritica nel mercato, occorre chiedersi che cosa è successo sul piano istituzionale e regolamentare negli USA negli anni precedenti la crisi”.

Come si vede apparato analitico e indicazioni strategiche di politica economia vi appaiono strettamente connesse, aprendo non poche piste per studiare i processi reali, per come essi sono organizzati nei territori, anche in quelli più piccoli, con l’impulso a tornare insieme a leggere e ad operare per qualificare l’economia reale, secondo quell’appello “tornare al produttivo”, sul quale non pochi impulsi sono venuti da tanti altri grandi studiosi e da diverse personalità della politica nazionale ed europea, compresa l’attribuzione degli ultimi due premi Nobel per l’economia a due personalità come Elinor Ostrom e Oliver Williamson, per gli studi sulla governance economica. I caratteri del “modello” umbro: tra PIL e BIL

Dov’è dunque che bisogna andare a cercare per leggere più nel profondo i caratteri dello sviluppo dell’Umbria, oltre le contingenze e anche oltre quelle dinamiche più congiunturali che si esprimono ora nel segno più, ora nel meno, ma che non danno sempre e sufficientemente portata e profondità dei fenomeni, per ricostruire in definitiva una visione critica dei processi “effettuali” che caratterizzano la contemporaneità umbra? Qui gli apporti dei saggi contenuti nel Rapporto sono di straordinaria importanza e giova, per la loro lettura, una sottolineatura relativa alla utilizzazione di quel termine “modello” che ci è consueta e che guida anche il “filo rosso” di tanti apporti conoscitivi di questa nostra ricerca. Con quel termine infatti non si vuole indicare né una desiderabilità, un ottativo, né una primazia, né una formalizzazione di derivazione politico-istituzionale, tesa a fissare una peculiarità della vicenda umbra. Si indica piuttosto un terreno di ricerca volto a cogliere le relazioni tra i segmenti dei diversi processi per fare avanzare una visione di insieme della dinamiche regionali, in modo che tutto si tenga, cogliendo tutti i rimandi, tutti i feed-back dei più diversi segmenti economici e sociali, politici, istituzionali e territoriali, in modo da far emergere, alla fine, nelle loro connessioni, un quadro unitario, dentro il quale sia possibile leggere la portata delle criticità presenti.

E’ dunque seguendo questa pista di ricerca, dalla quale poi occorrerà tornare a leggere le tante specificità che ne derivano, che vorremmo portare in primo piano, con più forza rispetto ad altri momenti di studio, le due dimensioni che appaiono sovrapporsi, in modo dinamico e coesistere, nello strutturare la realtà contemporanea dell’Umbria, dimensioni che non combaciano e che anzi talvolta contrastano, ma che sono fondamentali nel loro insieme per leggere i crinali complessi per i quali, da tempo, sta passando, nella regione, quel cambiamento di pelle sul quale avevamo ragionato nel precedente rapporto Aur (Dentro l’Umbria-2007). E dunque gli scenari del Prodotto Interno Lordo (Pil) e del Benessere Interno Lordo (Bil).

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C’è una esperienza che facciamo spesso nella nostra vita quotidiana, politica e di studio, nel leggere le valutazioni di osservatori, di intellettuali e di personalità che hanno deciso da tanto tempo di venire a vivere in Umbria, nell’ascolto delle opinioni di visitatori, nei diversi impulsi collegati ai flussi turistici che percorrono le città e i territori della regione, sempre più esigenti e colti: vi ritroviamo spesso una valutazione lusinghiera della vita in Umbria e della qualità delle sue interne relazioni. Sappiamo naturalmente quanta parte di tutto questo ci venga da una più antica storia sulla quale si è esercitata nei decenni, non poco, la capacità e l’avvedutezza delle classi dirigenti dell’Umbria, assieme naturalmente ad altri processi, ora naturali, ora di più lunga e storica “durata”: la distanza delle città e dei centri storici della regione dalle contraddizioni sociali e civili dei grandi agglomerati urbani, le caratteristiche del territorio umbro e i valori forti del paesaggio, messi certo alla prova, nei decenni più recenti, e attraversati da non poche contraddizioni, ma arrivati fino alla contemporaneità con una sostanziale qualità complessiva, la rete ricca di centri piccoli e medi ad altissima sedimentazione di beni culturali e ambientali, raccolta poi nelle politiche di valorizzazione e nella fitta rete di strutture museali pubbliche e spesso anche ecclesiastiche, che fa dell’Umbria la realtà italiana più “strutturata” in questa direzione.

E’ quella rete che nel bel volumetto La mia Umbria, Cesare Brandi nominava come il “gioco dell’oca”, e giova, nell’economia di questo ragionamento, trascriverne alcuni passi fondamentali: “E’ l’Umbria, il cuore dell’Italia. Ancor più territoriale delle Marche di confine, come il Piemonte e la Lombardia, che hanno una via d’acqua, il Po, come un braccio secolare per giungere al mare. E il Piemonte sta ad un passo dalla Liguria, Milano avrà i suoi porti fluviali, ma l’Umbria può contare solo su fiumiciattoli, come il Tevere ai suoi primi passi, il Topino, la Nera, il Velino e un Lago come una boccata d’aria, un velo d’acqua su un prato, il Trasimeno. Con ciò il sangue dell’Umbria è verde non rosso, verde per le pianure tiepide, prode e boscose, su cui si è estesa la retorica, ma senza riuscire ad intaccarlo. Le sue città sono asserragliate come castelli, in cima ai poggi, come ostensori d’argento; così è Perugia, oltrepassata la cinta infame di edifici nuovi e sgarbati, si apre al visitatore in modo semplice ed accogliente. Sta così in alto, come se fosse fra le mani di quei santi protettori che tengono con garbo le città miniaturizzate, e intorno hanno un baratro d’aria… Non c’è forse al mondo fontana più bella di quella che sta sotto al Duomo: le fontane barocche sono un’altra cosa, impugnano il nucleo urbano, si insediano da padrone: la fonte di Perugia condiziona tutta la piazza, ma non l’impugna: è come uno stupendo cristallo sfaccettato, una aerolite sidereo, cresce in se stessa fino a quella specie di tripode o ecateo delle tre fanciulle saldate fra loro come sorelle siamesi”. E poi parlando del paesaggio umbro in confronto a quello toscano: “Eppure gli ulivi sono gli stessi né così i leccini come nel sud, anzi così diradati dalle potature sapienti, e le viti, i filari, i campi di erba medica: cosa era che era diverso: intanto le pianure più ampie e livellate, se mai simili alla Valdichiana che è alle porte dell’Umbria e che è punteggiata di viti sposate, ha i testucchi come in una pittura del trecento o in Paolo

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Uccello: guardare da Cortona, per credere. Ma appunto, quella è Valdichiana, non è Umbria, la piana umbra è ancora diversa, come è diverso il giallo del canarino da quello del limone: un ette sia pure, ma nessuno sbaglierebbe canarino con un limone”.5

Ecco dunque: qui sta ancora oggi l’Umbria, tra passato e presente. E poi le scelte di modello urbano delle città, un rapporto non gravemente compromesso tra città e campagna; e poi ancora la rete fitta dei servizi, dalla sanità al welfare, la dinamica di prossimità, qualche volta anche criticata, di strutture essenziali (dagli ospedali ai tribunali); e poi ancora i profili della istruzione, della formazione e della ricerca universitaria, della organizzazione culturale con alcuni grandi eventi (Umbria Jazz, Il Festival dei Due Mondi, il Festival delle Nazioni e quello di Todi) profondamente incardinati nella cultura del mondo contemporaneo, fino a quelle giornate magiche che, come nella Corsa dei Ceri di Gubbio, ti riportano indietro alle dimensioni antropologiche e di festa più ancestrali della penisola italiana. E poi ancora le tante altre dimensioni soggettive, di cultura, di spirito pubblico, di politica diffusa, che segnano il territorio: dagli ideali di pace e di accoglienza, radicati nel pensiero non violento del filosofo perugino Aldo Capitini e oggi al centro di intense attività internazionali e pacifiste, fondamentali proprio nel momento nel quale sempre più la società umbra diventa multietnica (seconda regione italiana per presenza di immigrati/e) fino ai livelli più alti della spiritualità religiosa (San Francesco e San Benedetto) che fanno della terra umbra un unico delle tante identità territoriali che formano l’unità nazionale e che si riflette poi sul carattere delle popolazioni, sul “genius loci”, si potrebbe dire con una antica locuzione, anch’esso continuamente attraversato da tensioni e crisi, tra municipalità e spirito regionale.

Questa è l’identità più profonda dell’Umbria, nel passaggio difficile di questa nostra contemporaneità: ed è una identità complessa quanto continuamente messa alla prova dalle dimensioni piccole del territorio e delle sue popolazioni, dall’attrattività dei flussi esteri, dalla tensione proveniente dalle realtà territoriali con le quali confina, continuamente sottoposta dunque a movimenti centrifughi piuttosto che a quelli centripeti, mancando storicamente di una capitale regionale, (in questo c’è una similitudine forte con le Marche) capace di strutturare una articolazione territoriale come lo è stata storicamente Firenze, in Toscana, o Bologna, in Emilia Romagna o Milano, in Lombardia, là dove la unificazione regionale si è realizzata in altri secoli, con altre culture (l’illuminismo) e con altre dinamiche dei diversi vettori dell’economia e della società, capaci di “tenere” forte la stessa dinamica unitaria sia nel territorio che nelle classi dirigenti. Una identità quella umbra, tuttavia, non poco ricca, per le ragioni che abbiamo detto, e tale da rappresentare sempre più una risorsa per lo sviluppo6 ora che, nelle frontiere della globalizzazione, merci, beni e servizi, portano con sé, nel

5 Cfr. Cesare Brandi, Umbria vera, a cura di Vittorio Rubio, edizioni Della Cometa, Roma 1986. 6 Cfr. Aldo Bonomi Il dolce capitalismo dell’Italia di mezzo, Accompagnare la soft-economy umbra dal territorio verso lo spazio competitivo globale, Comitato locale dell’Umbria, UniCredit Group, febbraio 2007.

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marchio, nel proprio valore intrinseco, non poco di quei valori dei territori nei quali sono prodotti, segno di qualità e di distinzione. E tutto questo anche oltre quei beni (ambientali, di qualità alimentare, di relazione) che più facilmente possono portare con sé i segni e le qualità, ambientali e di comunità, nei quali sono prodotti.

Ed è questa una dimensione che richiede continuamente una grande operazione di politiche pubbliche, diffuse sul territorio, non “accentrabili” e non sempre, esse stesse, “quantificabili”, perché espressione complessa e risultato composito di quei processi di governance ai quali abbiamo accennato.

Si tenga a mente tuttavia la utilità strategica di una tale visione, di una tale interpretazione della vicenda umbra, non solo per le politiche pubbliche. Si pensi, per questo, al “modello umbro” di ricostruzione del territorio, dopo il sisma del 1997, alle scelte fondamentali fatte allora, volte alla salvaguardia del profilo urbano e sociale dei centri storici colpiti, all’attenzione ai beni culturali, interpretati, ben oltre una logica “monumentale”, nella loro dimensione diffusa, di prossimità con la vita quotidiana delle popolazioni, alla dinamica dal basso e condivisa della progettualità ricostruttiva, alle garanzie di trasparenza richieste all’impegno imprenditoriale (Durc).

E dunque. L’identità dell’Umbria costituisce quel terreno principe nel quale si misurano non poco politiche pubbliche e comportamenti privati, sociali e di comunità. Ed è proprio nella strutturazione complessa e delicata di quella identità (l’Umbria è terra di città), sempre alla prova tra localismo ed unità, che si sono storicamente provate le classi dirigenti che, oltre le città, hanno dovuto mettere in campo, seppure in modi non sempre lineari, una ambizione a progettare un disegno unitario di sviluppo regionale. E qui, una analisi diacronica più complessa, che non rientra nell’ambizione di queste note, potrebbe darci una visione più perspicua delle criticità, delle contraddizioni, del germinarsi, nelle cadenze di quello stesso processo, di altre visioni, tese più al municipalismo, al conflitto territoriale, meno attente ai valori del paesaggio e del profilo urbano, meno pronte a cogliere, nelle diverse dinamiche sociali, le contraddizioni anche aspre (povertà e disuguaglianze) rinvenienti dalle più grandi trasformazioni della vita nazionale e del mondo.

Ecco. C’è tutto questo in quella nuova riconsiderazione della ricchezza di un territorio sul quale si sono esercitate non poche agenzie di ricerca in Italia che hanno avuto l’ambizione di andare oltre il Pil7 secondo gli insegnamenti e le metodologie di Amartya Sen e secondo le indicazioni di quella Commissione istituita in Francia da Nicolas Sarkozy, formata assieme a Joseph Stigliz, da Amartya Sen e da Jean Paul Fitoussi. Facciamo riferimento, in queste note, ai risultati di una recente ricerca condotta dal Centro Studi Sintesi8. In essa, al centro dell’indagine, dal punto di vista metodologico, si è messo il “benessere pluridimensionale” derivante da un mix di otto elementi (condizioni materiali di vita, Valore Aggiunto a prezzi correnti per abitante, sanità, Speranza di vita alla nascita; istruzione, tasso di iscrizione universitaria per i giovani tra 10 e 25

7 Cfr. Giorgio Ruffolo, Pil, una medaglia alla memoria, La Repubblica, 11 ottobre 2009. 8 Cfr. Il Sole 24 Ore, 21 settembre 2009.

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anni; attività personali, spesa pro-capite per spettacoli; partecipazione alla vita politica, affluenza alle urne per le europee del 2009; ambiente, tonnellate di CO2/Valore Aggiunto reale; insicurezza, numero di furti, rapine ed omicidi/100 mila persone; rapporti sociali, numero di organizzazioni di volontariato/1000 abitanti).9 Le due province umbre si collocano, secondo questa griglia di criteri, Perugia al 12° posto, con 141,4 punti (la prima è Forlì-Cesena con 170,4 punti e l’ultima è Siracusa con 44,5) e Terni al 22° posto (con 125,2 punti), risalendo rispettivamente rispetto alla graduatoria delle regioni italiane costruita sul Pil, di 44 e 41 posti.

A ben vedere, in questa graduatoria, si ritrova nettamente la performance di quell’Italia centrale, Romagna-Marche-Toscana-Umbria che, un tempo, era stata alla attenzione di Robert Putnam10, lo storico studioso di Harward, che ne aveva (fine anni ’80) messo in rilievo le virtù civiche e il rendimento istituzionale, frutto non solo della solerzia e della qualità delle classi dirigenti, ma anche di sedimenti storici più complessi, radicati nella storia dell’età comunale, nel rinascimento, nella crescita di un carattere specifico di operosità e solidarietà delle diverse classi sociali, in una diffusione del potere diversa, sosteneva lo studioso americano, rispetto a quell’Italia normanna che, con il suo centralismo, aveva disegnato rapporti diversi tra città e campagna e traiettorie dello sviluppo sulle quali poi, le successive vicende storiche, avrebbero radicato pesantemente la “questione meridionale”. Oggi è questo il punto di più duro incrocio nazionale tra geografia economica e dinamica del benessere: mentre per molte realtà del centro-nord si assiste, a “macchia di leopardo” a scostamenti anche significativi, per gran parte delle regioni meridionali si aggrava ovunque la portata del segno negativo.

A queste stesse problematiche si dedica da molto tempo ormai un tradizionale Rapporto Il Sole 24 Ore, pubblicato a fine di ogni anno, e costruito sull’analisi di una complessa batteria di dati che appare, in generale, più di altre ricerche, strutturata sul congiunturale e alla fine più correlata alle dinamiche del Pil. Nel 2009 le due province umbre si sono collocate: Perugia al 37° posto (ex 54°, del 2008) e Terni al 47° (ex 25°, del 2008).

Nella stessa direzione, nell’intento di valutare le potenzialità di sviluppo e di benessere nelle diverse aree del Paese, cercando sempre di superare le tradizionali valutazioni sulla base del Pil, lo stesso Centro Studi Sintesi11 ha elaborato anche un indice di libertà economica, risultato di una correlazione di 37 indicatori raggruppati in 6 macro questioni: economia, lavoro, contesto sociale, finanza, fisco, e finanza pubblica. L’Umbria si colloca, in questa graduatoria nazionale, al quarto posto con 84,2 punti dietro a Trentino A.A. (99,4); Emilia Romagna (88,6); Veneto (85,4) e prima di Marche (84,1); Friuli V.G. (81,5); Toscana (79,7).

9 Cfr. tra gli altri studi, quello di Paolo Montesperelli, Rapporto Aur Dentro l’Umbria, 2007. 10 Cfr. Robert D. Putnam, La tradizione civica delle Regioni italiane, Mondadori, Milano, 1993. 11 Cfr. Centro Studi Sintesi, New Letter, La libertà economica, Analisi sulle opportunità di sviluppo socio-economico nelle province e regioni italiane, settembre 2009.

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E’ questo un dato che ritorna anche in altre indagini. Possiamo ancora citare quella sul benessere percepito12 contenuta nel Rapporto annuale dell’Istat (2007). Nella introduzione allo specifico capitolo del Rapporto, viene introdotta a questo fine una notazione metodologica che ci sembra utile riportare: “Il concetto di benessere à frequentemente associato alla disponibilità di reddito e alla classe sociale di appartenenza. Per molto tempo ha prevalso un orientamento volto a privilegiare la misura oggettiva delle condizioni di vita. A fianco di indicatori che tengono conto di questa componente del benessere, ne sono stati proposti altri che consentono di valutare i fattori psicologici che influiscono sulla soddisfazione per la propria vita. La considerazione di questi aspetti del benessere, già a partire dagli anni ’70, ha condotto all’impiego sempre più diffuso del termine “qualità della vita” che si differenzia da altre misure soprattutto per tre elementi: 1) si riferisce alla vita dei singoli individui; richiede, quindi, una prospettiva di studio micro in cui anche le percezioni dei singoli giocano un ruolo chiave; 2) è un concetto multidimensionale che richiede la considerazione di diversi aspetti della vita tra loro interconnessi; 3) è misurata sia attraverso indicatori soggettivi sia attraverso indicatori oggettivi”13.

L’Umbria nelle tabelle del Rapporto risulta a soddisfazione alta (l’anno di riferimento è il 2006 e dunque lontano dalla crisi attuale e dalle forme che oggi stanno strutturando, ovunque, un forte e nuovo disagio sociale) con una performance molto positiva secondo cinque indicatori: situazione economica; salute; relazioni familiari; relazioni amici; tempo libero. Se si esclude il terzo indicatore, gli altri, per l’Umbria, sono molto oltre la media nazionale.

Questa dinamica della qualità della vita non si può non considerare, seppure molto intrecciata alle dinamiche del mercato del lavoro, anche per valutare l’aumento della popolazione residente nella regione che, dal 2001 al 2008, ha visto un aumento in Umbria dell’8,2% (Italia 5,4%). E si tratta di una differenza molto significativa che rimane anche dopo la revisione intercensuaria che porta i due valori a 7,1% e a 4,4%. Naturalmente protagonisti fondamentali ne sono stati i flussi migratori, esterni ed interni (12,5% e 2,1% rispettivamente), considerando il tasso naturale negativo della regione14, e tuttavia anche questi flussi aprono una luce importante per leggere i caratteri sociali e civili dell’Umbria contemporanea.

E però questa è solo una dimensione della società regionale, importante per la ricchezza dei segni simbolici che porta con sé, fondamentali per la libertà delle persone, che si intreccia tuttavia fortemente con l’altra (economia-società-reddito-disuguaglianza), nello strutturare concretamente la vita quotidiana dei singoli, delle famiglie e dei gruppi sociali. Dalla coesistenza e dalle fratture tra le due dimensioni emerge perciò il carattere più “effettuale” dell’Umbria contemporanea.

12 Cfr. Istat, Rapporto annuale, la situazione nel Paese nel 2007. 13 Cfr. European Foundation for the Emprovement of Living and Working Condition, Quality of Life in Europe, Firste European Quality of Life Survey, Luxemburg, 2004. 14 Cfr. per le dinamiche, nella loro complessità, Luca Calzola nel saggio contenuto in questo Rapporto.

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Scrive in un commento che si può riferire utilmente a tutte queste problematiche Orazio Carabini15: “Attenzione però a non eccedere nella direzione opposta dimenticando o comunque sottovalutando l’importanza del Pil o di qualche altro indicatore del Reddito, magari più vicino alla percezione della popolazione come il Reddito disponibile delle famiglie. Perché, per quanto il benessere possa derivare da tanti altri elementi, la crescita dell’economia rimane la via maestra per migliorare le condizioni di vita di un paese”. Condividiamo molto questo “caveat” ed è questa stessa la chiave di analisi che ci guida nella progressione di queste nostre note.

L’Umbria tra passato e presente: la produzione reale di reddito

E dunque la questione che ci si pone per l’Umbria è la seguente: vedere bene, e con spirito critico, come si è dipanata nel più “lungo periodo” la dinamica del Pil regionale fino ad oggi. E’ evidente infatti la necessità di guardare al di là della congiuntura, per leggere la natura dei problemi connessi alla questione sviluppo per come emerge dal Pil: si tratta infatti di cogliere prima di tutto quegli incroci con la vicenda nazionale ai quali l’Umbria è più sensibile di altre regioni. Sensibilità ed esposizione che rappresentano il punto principale di analisi per una visualizzazione degli andamenti umbri, anche foriero di non poche conseguenze sia sul terreno analitico che su quello della progettualità politica. Alcuni studi infatti che, come vedremo ancora più avanti, hanno approfondito le correlazioni tra gli andamenti regionali e quelli nazionali, hanno sottolineano come l’incrocio con la crisi si sia registrato in Umbria già nel settembre 2007, almeno due o tre trimestri prima delle altre regioni dell’Italia centrale.16

Vediamo dunque l’intreccio dei problemi che si pongono nella visualizzazione del Pil regionale (dinamiche assolute e pro-capite): sta qui un passaggio cruciale per leggere gli assetti più complessi della realtà umbra. Il lettore potrà trovare per questo un’ampia e articolata trattazione nel saggio di Elisabetta Tondini contenuto in questo Rapporto17, concentrato sulle dinamiche della domanda e dell’offerta, con molte visualizzazioni interne, in particolare anche sugli apporti dei singoli settori all’evoluzione dell’economia regionale. Ad esso rinviamo. Possiamo, nella stessa direzione di ricerca, mettere insieme anche altre serie storiche di diversa natura e provenienza analitica, che hanno tutte lo stesso approdo. Se si guarda il periodo 2001-200718 l’Umbria presenta una crescita, nei sette anni considerati, dell’1,2% del Pil: Piemonte, 0,7%; Lombardia 1,2%; Emilia Romagna 1,0%; Toscana 1,2%; Lazio 1,8%; Veneto 1,0%; Friuli 0,8%; Liguria 0,9%; Marche 1,6%; Italia 1,1%. Se si prende poi il

15 Cfr. Il Sole 24 Ore, Lunedì 21 settembre 2009. 16 Cfr. RegiosS, Cycles & Trends, Gli indicatori regionali di attività economica, UniCredit Research & Strategy. 17 Cfr. il saggio E.Tondini, Il quadro macroeconomico di lungo periodo e l’evoluzione del modello umbro. 18 Cfr. Rapporto annuale 2008 del Dipartimento per lo Sviluppo e la coesione economica sugli interventi nelle aree sottosviluppate, presentato in Parlamento dal Ministro Claudio Scajola, chiuso il 31 marzo 2009.

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periodo 1998-200819 i dati sono i seguenti (valori concatenati-variazione % nel decennio): l’Umbria con un aumento del 13,70% occupa la settima posizione (Marche, 18,20%; Lazio, 16,20%; Veneto, 15,70%; Friuli Venezia Giulia, 15,20%; Emilia Romagna, 15,20%; Toscana, 14,30%). I valori pro-capite (euro 2008) delle due province umbre sono 25.020,1 (per Perugia) e 22.741,1 (per Terni), con una collocazione, rispetto all’Italia (indice 100), di 95,2 per la prima e di 86,5 per la seconda e con una perdita di posizioni rispetto al 2001 per Perugia di 7 (ora 58’) e di Terni di 2 (ora 62’)20.

Diverse altre ricerche hanno anche analizzato le dinamiche della competitività. Una ricerca ancora del Centro Studi Sintesi21 ha analizzato tali performances, in rapporto agli obiettivi di Lisbona 2010 e in base a 4 macro indicatori: occupazione, tassi di occupazione e di assistenza all’infanzia; innovazione, percentuale di spesa in ricerca e sviluppo rispetto al Pil e percentuale sul totale degli investimenti in R&S del settore privato; questione sociale, percentuali di chi abbandona prematuramente la scuola, di chi completa il ciclo delle superiori, di chi partecipa alla formazione continua e di laureati nelle materie scientifiche; ambiente, sostenibilità in base alla percentuale di elettricità prodotta da fonti rinnovabili. L’Umbria si colloca in questa classifica esattamente a metà, con 53,0 punti di distanza dal raggiungimento degli obiettivi di Lisbona (la media italiana è 54,4 e corre tra i 29,9 dell’Emilia Romagna e il 100,0 della Sicilia), la Toscana ha una distanza di 44 punti e le Marche di 50,0. Andando dentro quell’analisi si coglie bene tutta la contraddittorietà della situazione regionale: ottima la performance sull’occupazione, che colloca l’Umbria nel secondo gruppo per possibilità di raggiungimento degli obiettivi di Lisbona, dopo Emilia Romagna, Valle d’Aosta, Toscana, Trentino e prima di Lombardia e Marche; ottima la performance di coesione sociale (terza dopo Lazio e Molise), prima di Liguria, Emilia Romagna e Toscana; buona quella relativa alla sostenibilità ambientale (ottavo posto nella classifica): molto meno buona la collocazione sulla innovazione che colloca l’Umbria agli ultimi posti.

Un’altra visualizzazione della collocazione dell’Umbria nella vicenda nazionale, frutto di una analisi correlata di molti indicatori di stock e di flusso è quella che ogni anno fornisce Confindustria e che è recentemente uscita, a dicembre 2009. La metodologia usata nella ricerca consiste nel mettere insieme molti indicatori di consistenza (o stock) e di movimento (o flussi) per ricavarne un indice sintetico. In questa edizione del Rapporto, fatto 100 per l’Italia (il centro-nord è ad un indice 114,9), l’Umbria si colloca a 105,11, più avanti della Liguria (101,54) e delle Marche (102,96): l’Abruzzo è a 91,23; l’ultima regione è la Calabria con 66,05.22.

E’ dunque l’insieme di questi processi e la loro contraddittorietà che ci aveva portato (Rapporto Aur, Dentro l’Umbria, 2007) a definire gli anni più recenti come caratteristici di una fase nella quale l’Umbria era andata cambiando pelle, segno di molte

19 Cfr. Il Sole 24 Ore, lunedì 26 ottobre 2009. 20 Cfr. Settima giornata dell’economia, 8 maggio 2009, Camera di Commercio di Perugia, Fonte G. Tagliacarte. 21 Cfr. Il Sole 24 Ore, 23 novembre 2009. 22 Cfr. Confindustria, Indicatori economici e sociali, regionali e provinciali, Sip, 2009, a cura di Paolo Quirino e Giuseppe Rosa.

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dinamiche interne tra le quali, in primo piano, si era posta la positiva internazionalizzazione delle imprese che per 33 mesi consecutivi (dal 2006 al terzo trimestre del 2008) avevano visto crescere l’export regionale sia verso i paesi europei che verso il resto del mondo, anche al di là della performance dell’acciaio e dei metalli. L’export regionale aveva avuto infatti nel 2005 un aumento del 6,8%, nel 2006 del 14,8%, nel 2007 dell’11,8, per poi declinare pesantemente nel terzo trimestre del 2008. Qui avevamo colto anche la positiva crescita di una rete di medie imprese (Luca Ferrucci in questo Rapporto e in Dentro l’Umbria 2007, Aur) significativa e protagonista di una buona fase di innovazione e di internazionalizzazione, in modo da configurare, nella regione, lo strutturarsi di alcuni “poli di eccellenza”, frutto di singole realtà imprenditoriali o di “reti”, tali tuttavia da caratterizzare in modo nuovo l’insieme dell’apparato produttivo regionale.

In questa stessa direzione erano andati alcuni dati forniti da UnionCamere e MedioBanca relativi agli indici di sviluppo delle medie imprese italiane nell’arco temporale 1997-200623. L’Umbria vi raggiunge un risultato lusinghiero: il fatturato netto di queste imprese presenta un aumento del 73,0%, contro il 64,2% dell’Italia; le esportazioni 134,9% contro 80,7%; il valore aggiunto 46,5% contro 42,6%; le immobilizzazioni materiali lorde 94,1% contro 76,3%, il numero dei dipendenti 22,3% contro 17,1%. La stessa natalità delle imprese ne aveva risentito positivamente, presentando valori positivi nel triennio 2005-2007. E c’è da aggiungere per questo, come segnale positivo, che, anche in questa fase di crisi, il tasso di natalità delle imprese umbre presenta un carattere positivo, seppure inferiore alla media nazionale. Ne facciamo cenno qui rinviando per una disamina “strutturale” e di più lungo periodo al saggio di Luca Ferrucci e sottolineando come il tasso di imprenditorialità dell’Umbria (anno 2006) (cfr. Istat, 2009) sia dell’8,7%, superiore all’Italia (8,2%), ma inferiore alle altre regioni del Centro-Nord: Marche 9,4; Toscana 9,9; Emilia Romagna 9,9; Piemonte 8,5; Lombardia 9,3.

Nel corso del 2008 si è fatta poi sentire la prima fase della crisi che ha immediatamente pesato e che poi è continuata per tutto il 2009, con una incidenza pressoché contemporanea al progredire dei processi dai grandi centri mondiali ai più piccoli territori, in una dinamica temporale così stretta nel tempo da costituire una peculiarità significativa della crisi medesima. Il Pil dell’Umbria ha avuto così un calo nel 2008 sul 2007 (-1,5%) più alto della media italiana (-1%): Piemonte, -1,5%; Lombardia -1%; Veneto -0,8%; Liguria -1,5%; Emilia Romagna -0,7%; Toscana -0,8%; Lazio -0,4%; Marche -1,2%.24

La contrazione c’è stata ed è stata più forte di altre realtà. Di tale andamento un segno importante si trova nell’export che ha cominciato a flettere nella seconda metà del 2008 e che, poi, nel corso del 2009, è tornato a contrarsi ancora: nel periodo gennaio-settembre del 2009 la riduzione è stata del 28,4% uguale a quella delle Marche e superiore a quella dell’Italia (-23,1%) e dell’Emilia Romagna (-25,4%). Così l’Umbria

23 Cfr. Indagine UnionCamere-Mediobanca sulle medie imprese industriali, Roma, 25 marzo 2009. 24 Cfr. Istat, Principali aggregati dei conti economici regionali, anno 2008, 15 ottobre 2009.

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che era arrivata sul totale nazionale a sfiorare in qualche trimestre l’1,1% e, a fine 2008, si era assestata sul suo storico livello dell’1%, ora risulta scesa allo 0,9% 25.

Più in generale, da questi andamenti, possiamo chiaramente vedere quel più forte grado di esposizione dell’economia umbra agli andamenti del ciclo nazionale, che già avevamo visto esprimersi anche nel breve periodo di crisi (2001-2002), significativo nel confronto interregionale con le altre realtà dell’Italia centrale26. E le ragioni sono molte: in particolare lo specifico incrocio tra l’economia umbra e quella di altre regioni che percorre alcune filiere caratterizzanti l’assetto produttivo regionale, dal tessile-abbigliamento alla meccanica, oltre al tasso di internazionalizzazione generalmente più debole delle imprese della regione. Nella prima direzione si esprimono infatti tutti i fenomeni di dipendenza del sistema umbro delle imprese e la sua specifica collocazione nelle curve del valore delle diverse filiere merceologiche: le questioni della sub-fornitura, taluni rapporti con i mercati internazionali, intermediati e strutturati in altre regioni, le dinamiche di alcuni settori molto avanzati, ma anche molto connessi alle specificità di alcuni mercati, come quelli dell’automotive e comunque la difficoltà di quei settori, come la meccanica, nei quali c’è un’eccellenza umbra che è collegata tuttavia alle performances degli utilizzatori finali, con tutte le connessioni che ne derivano con i mercati internazionali e con le funzioni di traino, in Europa, dell’industria tedesca.

Per la seconda ragione, l’internazionalizzazione, i dati sono storicamente noti ed evidenti, anche nello specifico confronto, ad esempio, con le Marche. Si pensi che l’Umbria che è storicamente all’1,4 del Pil nazionale, nella composizione dell’export nazionale si trova attorno all’1%, come abbiamo visto, mentre le Marche che costituiscono per il Pil il 2,6%, raggiungono un livello ben superiore (il 3,0%, nel corso del 2008, sceso poi recentemente al 2,8%). Se alla fine si analizza il Rapporto export/pil emerge chiaramente il dato strutturale dell’Umbria: Umbria 15,6%; Toscana 23,8%; Marche 25,6%; Nord-Ovest 29,4%; Nord-Est 32,2%; Italia 23,3%).27

La dinamica della crisi si è poi fatta sentire, nel corso del 2008, anche sulle ULA regionali che sono calate in Umbria dello 0,4%: solo Liguria, -0,6%; e Friuli V.G. -0,8% hanno avuto, nel centro-nord, una performance peggiore. E malgrado questo le ULA umbre, segno delle ottime performances di tutta la fase precedente, sono ancora, a fine 2008, l’1,6% del totale nazionale, uno 0,2% più del Pil.28

E’ poi su questi scenari che si è abbattuta la dinamica della crisi del 2009.29 Può essere utile la visualizzazione di tali processi fatta dalla Camera di Commercio di Perugia nella presentazione dell’indagine su Crisi e capitale umano (aprile 2009): “Fra le conseguenze negative subite dalla imprese l’indagine evidenzia come le principali siano

25 Cfr. Istat, Le esportazioni delle regioni italiane, gennaio- settembre 2009, 11 dicembre 2009. 26 Cfr. RegiosS, Cycles & Trends, Gli indicatori regionali di attività economica, cit., 2009. 27 Cfr. Elisabetta Tondini nel saggio contenuto in questo Rapporto. 28 Cfr. nel Rapporto il contributo di Lorenzo Birindelli, Politiche occupazionali difensive e recessione e di Paolo Sereni, Veronica Contili, Il mercato del lavoro in Umbria nell’anno della crisi, in AUR&S, n. 3-4 ,2010. 29 Cfr. Bollettino della Banca d’Italia, Indagine semestrale 2009, sede di Perugia.

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la riduzione degli ordini della clientela (35,6%) e la minore liquidità (34,5%), le difficoltà di riscossione dei pagamenti, riscontrate soprattutto dalle imprese artigiane e dalle imprese di piccole dimensioni e la compressione dei margini (18,4%) … nei primi nove mesi dell’anno il 30% delle aziende ha effettuato investimenti… quel 30% di imprese investitrici è di media dimensione e fatturato più di 5 milioni di euro”. E’ molto evidente l’assonanza con l’analisi del Governatore della Banca d’Italia.

Questa esposizione più forte dell’economia umbra alle dinamiche del ciclo nazionale, ma anche una difficoltà più strutturale nella produzione di ricchezza nella regione, si vede anche dalle dinamiche dell’import netto che segnala la quantità di risorse aggiuntive di cui la regione ha bisogno all’esterno per determinare il proprio sviluppo e di cui questo Rapporto (cfr. E. Tondini) segnala l’andamento negli anni, anche con specifiche, molto significative ed interessanti correlazioni con le dinamiche degli investimenti e dei consumi. Sta qui uno degli esiti più interessanti della ricerca condotta in questo Rapporto. E’ venuta evidente infatti in primo piano una correlazione molto forte tra la dinamica dell’import netto e quella degli investimenti, segno, nei diversi andamenti del ciclo economico, della quantità di risorse di cui l’Umbria ha bisogno e che debbono essere mobilitate dal di fuori della regione. “In sistemi economici incompleti – scrive Elisabetta Tondini – con ridotte capacità di attività intersettoriale a monte e a valle, come quello umbro, i processi di investimento rischiano infatti di avere effetti moltiplicativi dispersi all’esterno dell’area in esame, o di innescare fenomeni di dipendenza dalle importazioni, va da sé che in questi ultimi casi, la capacità di attivazione reale di valore aggiunto, a parità di investimento, risulta più attenuata”. Ed è particolarmente significativo che in questa medesima direzione vadano anche taluni approdi analitici della ricerca contenuta nel Rapporto di Elena Bartocci e Davide Castellani30.

Ci sono qui naturalmente non pochi fenomeni da osservare e da studiare, come l’approvvigionamento di finanza da parte delle imprese in altre piazze finanziarie, particolarmente dei grandi gruppi multinazionali, ma non solo. Forse qui si può vedere anche taluno dei caratteri di quell’approvvigionamento di beni e servizi da parte delle medie imprese umbre (cfr. Luca Ferrucci, Dentro l’Umbria, Rapporto Aur 2007) che, con il loro rafforzamento, hanno costituito, in questi anni, uno straordinario vettore di cambiamento del modello produttivo regionale, strutturandosi spesso anche come veri e propri “poli di eccellenza”, con una difficoltà tuttavia, non trascurabile, a raggruppare intorno a sé grappoli e reti di imprese in grado di fornire beni e servizi di qualità adeguati agli standard produttivi delle imprese più grandi, oltre quelli naturalmente della manutenzione e dei servizi interni alle imprese sui quali pure c’è stata una crescita significativa.

Queste riflessioni dalle quali si ricava che l’andamento dell’Umbria per il Pil, negli anni recenti, è stato sostanzialmente in linea con quello nazionale e anzi, in taluni momenti, è stato caratterizzato da performances leggermente più positive, ci conducono al cuore dei due snodi che vogliamo individuare come centrali in questo percorso di

30 Cfr. Elena Bartocci e Davide Castellani, Servizi alle imprese.

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analisi: due batterie di dati particolarmente pregnanti, largamente conosciute e, tuttavia, molto meno messe in discussione, per leggere i caratteri più profondi e difficili dell’economia umbra: il Pil per abitante e il Valore Aggiunto per Ula.

Vediamo dunque il Pil per abitante31. L’Umbria presenta un valore di 24.455 euro: Marche 26.652; Toscana 28.727; Piemonte 28.721; Emilia Romagna 32.397; Lombardia 33.648; Abruzzo 21.949; Italia 26.278. La differenza tra il dato umbro e gli altri è evidente. Ed è qui che si struttura una fortissima, storica, criticità della realtà regionale. C’è certamente in essa il peso di una crescita più sostenuta della media nazionale della popolazione umbra32 e anche di un indice di dipendenza più legato all’alta percentuale di presenza in Umbria di persone anziane. E tuttavia si vede chiaramente la questione centrale: la maggiore difficoltà che l’Umbria continua ad avere nel produrre ricchezza (reddito) nei nuovi cicli dell’economia nazionale globale.

Mi è capitato spesso di tornare a leggere le dimensioni storiche di questo processo33 che risalgono agli anni 1983-1984 allorché, dopo la fase delle economie diffuse del NEC (Nord-Est-Centro), che non poco avevano rappresentato per l’avanzamento e la crescita dell’Umbria, anche dal punto di vista sociale, lo sviluppo in corso si arrestò, per dare luogo ad un gravissimo processo di deindustrializzazione, uno dei più alti e forti dell’Italia, non solo nell’area della grande industria ternana, ma in tutto il territorio regionale. Vennero allora in primo piano le gracilità della fase precedente della economia umbra.

Nell’interessante ricostruzione storica di Stefano Prezioso si possono vedere bene le dinamiche dei valori ai quali abbiamo accennato: nel 1980 il Pil per abitante (Italia indice 100) era per l’Umbria 104,9; è nel 1984 che scende al 99,6, senza più risalire, fino ad oggi. La serie dello studio di Prezioso si ferma al 2002 con indice 95,0. Guardando poi il Pil per ULA (a prezzi costanti) fatto 100 per l’Italia, già nel 1980 l’indice umbro è 96,4. Nella stessa sede storica si colgono bene le fasi più acute delle crisi: nel 1987 l’indice è 89,4, nel 2002 l’indice è 94.0.34

Di tali dinamiche si occupò Bruno Bracalente in un bel libretto, scritto quasi in contemporanea con l’andamento dei processi, Il sistema industriale dell’Umbria.35 In quello scritto Bracalente, dopo aver segnalato come “nel corso degli anni ‘70 la maggior parte delle attività industriali presenti in Umbria è stata protagonista di una crescita superiore a quella media dell’area Nec, che a sua volta ha fatto registrare tassi di crescita settoriali generalmente superiori ai corrispondenti tassi nazionali”; dopo aver sottolineato come “i settori che maggiormente hanno contrassegnato la forte espansione occupazionale dell’industria umbra sono quelli della moda e alcuni settori meno innovativi del comparto meccanico. Il contenuto tecnologico della produzione

31 Cfr. Istat, Principali aggregati di conti economici regionali, Roma, 15 ottobre 2009. 32 Cfr. in questo Rapporto, Luca Calzola, Un profilo socio demografico dell’Umbria in confronto con altre regioni. 33 Cfr. Stefano Prezioso, Analisi delle trasformazioni dell’economia umbra dal 1980 ad oggi¸ a cura di UnionCamere Umbra e Confindustria Umbra. 34 Cfr. nel presente Rapporto la ricostruzione di tali processi nel saggio di Sergio Sacchi, L’artigianato. 35 Cfr. Bruno Bracalente, Il sistema industriale dell’Umbria, Il Mulino, Bologna, 1986.

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resta perciò molto modesto e si inverte la gerarchia segnalata al punto precedente; e dopo aver sottolineato come “la forte dinamica occupazionale dell’industria e le stesse tendenze al decentramento produttivo sono generalmente avvenute in presenza di una riduzione dei livelli di produttività e di propensione all’investimento; e dopo aver ancora sottolineato ancora come “si conferma la difficoltà strutturale dei sistemi produttivi fondati sulle piccole dimensioni di impresa a produrre spontaneamente i servizi di terziario per il sistema produttivo ed in particolare di quelli più avanzati”, concluse con una serie di osservazioni che si sono mostrate storicamente molto calzanti: “Da tutto quanto precede risulta abbastanza evidente che nonostante la forte crescita avvenuta nel corso degli anni ’70, l’Umbria si trova ancora in uno stadio relativamente acerbo dell’industrializzazione diffusa (nostra sottolineatura), caratterizzato da una crescita non consolidata e quindi parzialmente reversibile. In prospettiva il sistema produttivo regionale si trova ad affrontare il passaggio alla seconda fase di sviluppo che richiede un vero e proprio salto di qualità in termini di innovazione tecnico-organizzativa, che altre Regioni del nord-est e del centro hanno già avviato. La transizione verso lo sviluppo intensivo pone in genere problemi particolarmente rilevanti all’industria Nec che, per le sue stesse caratteristiche, non riesce a generare autonomamente, nelle quantità e qualità richieste, gli indispensabili servizi di terziario superiore”.

E fu questo un punto molto difficile e duro di interpretazione della vicenda regionale. Non solo sul piano scientifico. Fu allora, se posso aggiungere qualche considerazione storica per vicende nelle quali ebbi una parte significativa, si produsse un aspro travaglio politico ed intellettuale, nelle diverse classi dirigenti dell’Umbria dal quale derivò una ben diversa interpretazione della vicenda regionale (chi scrive fu in minoranza) che arrivò diritta ai primi anni Novanta. E anche oggi, passato e presente, nei loro intrecci, non si potrebbero capire a prescindere da quelle vicende.

Il volume di Prezioso, al quale abbiamo accennato, fissa, in questa direzione di analisi, anche altri elementi utili per cogliere l’evoluzione del modello produttivo regionale. Nel 1985 (prezzi costanti-valori a prezzi 1995) l’industria in senso stretto contribuiva in Umbria al valore aggiunto regionale per il 34,24%; nel 1990 per il 28,95%; nel 1995 per il 25,31%; per il 2000 il 23,60%; nel 2002 per il 23,89%. Il settore delle Costruzioni corre tra il 6,52% del 1985 e il 5,40% del 2002.

Fu dunque in quella fase (metà anni ’80) che si aprì una divaricazione dell’Umbria con il modello marchigiano con molte conseguenze. L’Umbria cominciò così ad avvicinarsi alla Toscana, seppure con peculiarità dovute alla propria più piccola dimensione e ad una molto meno forte specializzazione delle reti imprenditoriali che, più avanti, hanno sconsigliato a fare l’esperienza dei distretti e le cui evidenze si colgono in quelle minori dimensioni dei processi di internazionalizzazione che abbiamo visto. Ed è questo un impasto di questioni che arriva fino ai nostri giorni.

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Questo complesso di processi, tornando ai nostri giorni, si vede bene e ancor di più in quell’altra batteria di dati ai quali abbiamo accennato, nel Valore Aggiunto per ULA, (2008) dinamica significativa perché depurata dalla demografia, e molto più correlata alle dinamiche della occupazione nei diversi settori merceologici, ai caratteri dell’innovazione e ad un modello, in definitiva labour intensive. Vediamone dunque i dati (Valori concatenati con anno di riferimento 2000): il Valore Aggiunto per Unità di Lavoro in Umbria è di 40.653 euro (Marche 41.436; Toscana 45.055; Emilia Romagna 46.052; Piemonte 45.888; Lombardia 52.577; Abruzzo 40.568; Italia 45.799). Fatto 100 per l’Italia, l’indice umbro è 88,8: le Marche 90,5; Toscana 98,8; Emilia Romagna 101,9; Liguria 102,1% Friuli 98,4; Piemonte 100,2; Lombardia 114,0; Abruzzo 88,6. 36

Ecco dunque il punto più delicato e complesso al quale volevamo arrivare e che più di altri dà conto della specificità territoriale di quella “ics” che esprime l’incrocio umbro tra modello produttivo e modello sociale. In esso si intrecciano molte questioni: il modello di specializzazione produttiva prima di tutto, la intensità e numerosità della rete delle imprese, seppure quella umbra è buona, superiore al livello nazionale, ma più bassa del Centro-Nord, un mix più contraddittorio tra una buona produttività della industria e quella minore dei servizi, la necessità di una più marcata specializzazione settoriale delle piccole imprese rispetto ai settori a più alto valore aggiunto.

Può essere utile qui riepilogare alcune caratteristiche di quello che, in generale, viene definito modello di specializzazione produttiva, perché il lettore possa ricavarne utili piste di riflessione. Giova per questo visualizzare la composizione per branca del Valore Aggiunto nell’industria manifatturiera e nei servizi, in rapporto ad alcune differenze significative dell’Umbria con l’Italia e con altre regioni benchmark in questa nostra ricerca.37 Vediamone partitamente i valori a cominciare dal manifatturiero. L’incidenza di alimentari, bevande e tabacco è in Umbria del 12,9% (Toscana 7,1%; Marche 6,6%; Italia 9,7%); dei prodotti tessili e abbigliamento 10,8% (Toscana 16,6%; Marche 8,3%; Italia 8,4%); nelle industrie conciarie cuoio e pelli 0,6% (Toscana 9,9%; Marche 14,7%; Italia 2,5%); nella carta, stampa ed editoria 5,4% (Toscana 6,4%; Marche 5,0%; Italia 6,0%); nelle raffinerie, chimiche, farmaceutiche 3,5% (Toscana 8,5%; Marche 3,5%; Italia 8,9%); nella lavorazione dei minerali non metalliferi 12,7% (Toscana 6,4%; Marche 3,4%; Italia 5,8%); nei metalli e fabbricazione di prodotti in metallo 22,6% (Toscana 11,2%; Marche 15,3%; Italia 17,2%); nelle macchine, apparecchi meccanici, elettrici e ottici, mezzi di trasporto 19,3% (Toscana 22,5%; Marche 24,6%; Italia 30,1%); nel legno, gomma ed altri prodotti manifatturieri 12,1% (Toscana 11,7%; Marche 19,2%; Italia 11,6%).

Vediamo ora i servizi. Commercio e riparazioni il contributo in Umbria è del 18,2% (Toscana 18,5%; Marche 18,5%; Italia 17,2%); per alberghi e ristoranti 5,3% (Toscana 7,0%; Marche 5,4%; Italia 5,1%); per trasporti, magazzinaggio e comunicazioni 10,0% (Toscana 11,1%; Marche 9,5%; Italia 11,7%); per intermediazione monetaria e finanziaria 6,1% (Toscana 7,4%; Marche 7,2%; Italia 7,1%); per servizi vari a imprese e famiglie 28,8%

36 Cfr. Istat, Conti economici territoriali, ottobre 2009. 37 Cfr. Banca d.Italia, Eurosistema, L’economia delle regioni italiane nell’anno 2008, Roma 2009.

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(Toscana 30,3%; Marche 31,0%; Italia 30,0%); per la pubblica amministrazione 9,2% (Toscana 7,0%; Marche 7,8%; Italia 8,6%); per l’istruzione 7,3% (Toscana 5,7%; Marche 7,2%; Italia 6,8%); per sanità e altri servizi sociali 8,9% (Toscana 7,3%; Marche 8,8%, Italia 8,2%); per altri servizi pubblici e sociali 4,5% (Toscana 4,3%; Marche 3,5%; Italia 3,9%). Sono evidenti tutte le dinamiche collegate agli interventi istituzionali e alle politiche di welfare e, nel sistema manifatturiero, si vedono chiaramente alcune specializzazioni (alimentari, tessile e abbigliamento, minerali non metalliferi e metalli), ma anche una difficoltà più complessiva.

Né bisogna trascurare, in questa valutazione degli andamenti della produzione di ricchezza, quanto, nelle dinamiche regionali del Pil, abbiano giocato, in questi anni, anche gli investimenti pubblici in conto capitale (per gran parte derivanti dal terremoto) che costituiscono un’altra delle peculiarità dell’Umbria. Anche per questo i dati sono particolarmente significativi.38 Gli investimenti in conto capitale del settore pubblico allargato nel 2006 (ultimo anno disponibile) sono stati in Umbria 1.726 euro pro-capite (1.334 nel Centro Nord, e 1.273 in Italia). Si tratta di una cifra di tutto riguardo che incide sul Pil per il 7,3% (4,5% nel Centro Nord, 5,1% in Italia).

Ecco allora la questione: l’Umbria è attraversata da una contraddizione fondamentale tra una qualità sociale e del benessere abbastanza forte e una ben più debole qualità degli assetti produttivi e della capacità di produzione della ricchezza. Da questa doppia visualizzazione tra Pil e Bil si dipartono una mole enorme di problemi che investono tutti i complessi intrecci tra economia e politica, società e territorio e che chiedono un grande sforzo di governance e di rapporto tra istituzioni e protagonisti sociali. E’ qui che si colloca la necessità primaria, a nostro avviso, di puntare sempre più verso un modello di sviluppo regionale capace di produrre, anche quantitativamente, più ricchezza. Come fare è certo uno dei punti più difficili di progettualità, anche per le implicazioni di governo e di protagonismo sociale e imprenditoriale che la questione comporta, ma qui sta il punto.

La questione del manifatturiero

Penso per questo che, negli equilibri settoriali dell’economia umbra, si possa e si debba con forza tornare a scommettere sul manifatturiero senza il quale sarà difficile che si sviluppino anche servizi a più alto Valore Aggiunto, ancor di più in rapporto ai caratteri della crisi di questa fase e alle problematiche più generali della globalizzazione. Qui vale la pena di fermarci perché questo nostro Rapporto 2008-2009 segnala ancora un problema aperto. Il manifatturiero pesa in Umbria (cfr. E. Tondini), nel 2007, per il 19%, con una percentuale regionale uguale all’Italia, ma con

38 Cfr. Quaderno strutturale territoriale, Principali indicatori della spesa pubblica in conto capitale, a cura della Direzione Generale Studi e Statistiche del Ministero dello Sviluppo Economico, anno VI, n. 6, settembre 2008.

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molte differenze regionali (Toscana 19,4%; Marche 25,5%; Nord-Ovest 23,9%; Nord-Est 24,7%; Mezzogiorno 11,5%). Ad esso si accompagnano le costruzioni che in Umbria hanno un peso maggiore (7,0%): Italia, 6,1%; Toscana 6,1%; Marche 5,8%; Nord-Ovest 5,6%; Nord-Est 6,4%; Mezzogiorno 6,9%.

La domanda è: nell’evoluzione della struttura regionale siamo forse, per il manifatturiero, ad una soglia troppo bassa? La questione è importante e ci spinge a sottolineare, anche nella nuova situazione, quanto sia fondamentale l’apporto del manifatturiero per l’evoluzione di tutta l’economia regionale. Sempre nel saggio di Elisabetta Tondini, laddove si esamina il contributo all’evoluzione del Valore Aggiunto delle singole attività economiche si nota come, nel biennio 2006-07, in un periodo buono per l’economia umbra (valore aggiunto ai prezzi di base +2,1%), l’apporto del manifatturiero sia stato essenziale (1,1%) e più forte della sua consistenza in termini di numerosità imprenditoriale.

E tuttavia da tutte le statistiche disponibili si ricava, per gli ultimi venti anni, il senso di una evoluzione verso il basso, del manifatturiero negli equilibri complessivi dell’economia regionale. Alcuni altri dati, recentemente forniti dall’Istat, danno conto bene di questa peculiarità della situazione umbra e della sua contraddittorietà: nell’industria in senso stretto ci sono in Umbria 137 addetti alle unità locali per ogni 1000 residenti in età tra 15 e 64 anni (Abruzzo 136; Toscana 149; Marche 208; Emilia Romagna 195; Veneto 198). Nel settore delle costruzioni sempre secondo lo stesso indice ce ne sono 65 (Abruzzo 57; Toscana 59; Marche 56; Veneto 59; Emilia Romagna 61; Lombardia 58). Nel commercio, trasporti e alberghi in Umbria ci sono 157 addetti (Abruzzo 141; Toscana 181; Marche 159; Emilia Romagna 193; Veneto 175; Lombardia 168). Negli altri servizi in Umbria 117 (Abruzzo 108; Toscana 143; Marche 126; Veneto 135; Lombardia 180; Emilia Romagna 165).39 Si possono avere naturalmente valutazioni diverse di questa dinamica umbra che tende più verso la Toscana che verso in modello marchigiano. Fondamentale è che le istituzioni e le forze sociali fissino qui un’attenzione specifica, per le conseguenze che ne derivano sugli orientamenti e sulle stesse possibilità di future politiche economiche regionali.

A rafforzare il nostro orientamento e per una ulteriore conferma degli intrecci tra le performances complessive dell’economia e il ruolo del manifatturiero possiamo ancora riferirci ad una interessante ricerca impegnata a studiare Sincronia e distanza nel ciclo economico delle regioni italiane. 40 Nella parte dello studio volta ad analizzare la distanza (cohesion) dei cicli economici regionali dal ciclo economico nazionale la correlazione più forte è quella dell’Emilia Romagna con 0,83 (Lombardia 0,79; Toscana 0,76; Veneto 0,71; Marche 0,70; Abruzzo 0,63). L’Umbria si colloca a metà con 0,58 (Lazio 0,40; Trentino 0,45; Valle d’Aosta 0,14; Calabria 0,08). Particolarmente significativo è il commento dei due autori: “Una semplice misura di correlazione tra le quote di Valore 39 Cfr. Istat, Struttura e dimensione delle unità locali delle imprese, 2007, Roma 3 dicembre 2009. 40 Cfr. Andrea Brasili, Cristina Brasili, Sincronia e distanza nel ciclo economico delle regioni italiane, Workshoop, Le regioni italiane: ciclo economico e dati strutturali, 18 febbraio 2009 a cura di UniCredit Banca e RegiosS.

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Aggiunto per settori nelle diverse regioni e la coerenza con il ciclo italiano evidenzia un valore immediato 0.81 proprio con la quota del manifatturiero. In effetti si registra anche una elevata correlazione della misura di cohesion con la quota di esportazione nel Valore Aggiunto. In questa graduatoria, come è noto, le regioni che occupano le prime posizioni sono ancora Friuli V.G., Veneto, Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte e Marche, mentre per il Mezzogiorno sono l’Abruzzo e la Basilicata. La ricorrenza di queste regioni nella tabella … conferma l’idea che nonostante il peso del manifatturiero sul Valore Aggiunto nazionale sia calato nel corso degli anni il ciclo economico del paese sia ancora scandito dalle dinamiche della manifattura (nostra sottolineatura)… questa impressione trova ulteriore supporto se si confronta la quota del manifatturiero con la durata media delle fasi recessive: fra le due c’è una correlazione negativa del 45%”.

Di qui la domanda: c’è consapevolezza piena, nelle culture complessive delle classi dirigenti dell’Umbria, della necessità strategica di tornare ad una riflessione più forte sul manifatturiero e sulla sua collocazione nel modello produttivo regionale?

Non è solo un problema umbro. Ho trovato per questo particolarmente interessanti le osservazioni di Andrea Des Dorides coordinatore della task-force anti crisi della Regione Toscana, là dove in questi anni si sono manifestate performances molto più critiche dell’Umbria e anzi caratterizzate da significativi differenziali41: “La situazione è sicuramente critica in tutto il territorio – sottolinea in un’intervista apparsa su Il Sole 24 Ore Centro Nord il 4 novembre 2009 – incontrando le imprese e gli amministratori lo si capisce. C’è da dire però che in Toscana questa fase congiunturale sfavorevole ha una sua peculiarità. Il modello toscano da tempo ha alcuni aspetti critici endemici, non solo quindi, come effetto dello scoppio della bolla finanziaria a livello internazionale. La Toscana, negli ultimi anni, ha ridotto la propensione al rischio un po’ cullandosi nel proprio benessere. Ora sta perdendo competitività e attrattività per i nuovi investimenti”. Riflettendo poi sull’arretramento del manifatturiero nella realtà toscana, che presenta un livello comunque superiore a quello umbro, la scelta strategica indicata è molto netta: “Il manifatturiero è fondamentale. Non penso che una economia possa vivere solo di servizi, anche qualificati. In Toscana c’è una soglia oltre la quale sarebbe opportuno non scendesse il peso dell’industria rispetto al resto del Pil e ad essa ci stiamo avvicinando. Comunque, non tutto è perduto. In Regione abbiamo delle eccellenze che riescono a vincere sui mercati internazionali. Penso a realtà come il nuovo Pignone, Cme, Thales, solo per citarne alcune. E’ necessario che piccole e medie imprese si sviluppino attorno alle aziende guida creando una sorta di meta distretto”. Trovo queste parole particolarmente persuasive ed in grado di esprimere, con tutte le differenze, anche per l’Umbria, quella necessità di tornare ad una riflessione strategica.

A questo scenario si collegano anche le scelte di ricerca che, in questo Rapporto, abbiamo compiuto in direzione della realtà della piccola impresa e dell’artigianato (cfr. i saggi di Luca Ferrucci e Sergio Sacchi) dopo quelle fatte in questi anni sulle

41 Cfr. il saggio contenuto nel Rapporto, Luca Ferrucci, Piccole imprese, competitività, crescita economica).

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Multinazionali, sulle Medie Imprese, sull’Innovazione tecnologica dell’area ternana collegata ai “materiali speciali”. Ne vengono fuori non poche sollecitazioni per le quali rinviamo alla lettura dei saggi e delle tabelle. Si tenga a mente, in particolare, l’anatomia specifica di questa dinamica del manifatturiero umbro, fatto da 42 multinazionali, collocate su settori fondamentali, dal siderurgico al meccanico, al chimico, all’alimentare, da una rete interessante e in progressivo rafforzamento di medie aziende e da una larghissima distesa di micro e piccole imprese, di imprese artigiane, che rappresenta un patrimonio essenziale e storicamente caratterizzante l’economia umbra, lungo il quale occorre far crescere sempre più politiche di sviluppo.

In questa direzione gli apporti conoscitivi dei due saggi di Luca Ferrucci sulle piccole imprese e di Sergio Sacchi sull’artigianato sono molto importanti e possono segnare anche per l’AUR (Agenzia Umbria Ricerche), ci sembra, l’apertura di un nuovo ciclo di ricerca che, per il futuro, dovrà con forza essere perseguito, anche in collaborazione con altre strutture fondamentali di ricerca come l’Università di Perugia e l’Unione regionale della Camere di Commercio dell’Umbria. Rinviamo il lettore alla complessità del percorso analitico e alle conseguenze che gli autori ne indicano per le policies della Regione.

Non sono pochi i punti di analisi che ne emergono: la somiglianza, molto più forte di quanto in genere si pensi, dell’Umbria alle altre realtà (Toscana e Marche) per il peso complessivo della piccola impresa, la maggiore presenza in Umbria della dimensione “micro”, rispetto a regioni dove c’è stata una esperienza distrettuale, talune significative performances positive nelle dinamiche del fatturato delle piccole imprese in Umbria e poi anche talune altre fondamentali, peculiarità. L’Umbria presenta un basso tasso di natalità delle nuove imprese (le iniziative partono dagli imprenditori che ci sono) e al tempo stesso un tasso di mortalità più basso (le imprese sembrano più “toste”). E però l’indagine dimostra poi che è più alta in Umbria la differenza di piccole imprese che passa alla soglia superiore con una differenza, qui molto forte, con la Toscana, mentre i grandi gruppi non sembrano caratterizzarsi specificamente da fenomeni di downsizing.

Tornare dunque a riflettere sul peso e sull’apporto, per quantità e qualità, che il manifatturiero può portare allo sviluppo regionale ci sembra fondamentale, anche proprio a partire da questo “carotaggio” sulla piccola impresa.

Certo negli ultimi venti anni le trasformazioni nella regione sono state profondissime e occorre tenerle a mente: l’Umbria di oggi è irriconoscibile anche solo rispetto agli inizi degli anni ’90, segno anche delle novità e della portata delle questioni che oggi vi sono aperte. Di questa “grande trasformazione” un segnale indicativo lo possiamo ritrovare proprio nella graduatoria per fatturato delle imprese umbre dal 1992 al 2009 (fatturato 2006). Nel 1992, nelle prime 30 imprese, avevamo 10 gruppi bancari, 7 dell’edilizia, 6 dell’alimentare, 2 del commercio, 2 del tessile, 1 dei trasporti, 1 della chimica e 1 dell’agricoltura. Nel 2009, sempre nelle prime 50 imprese per fatturato, troviamo 12 della meccanica, 15 commerciali, 5 dell’edilizia, 2 del legno, 2 della

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distribuzione elettrica, 2 agricoltura, 2 tessili, 3 alimentari e una per ciascuno dei settori42 (vetro, ambiente, chimica, turismo, finanziaria, bancaria, trasporti).

Ecco perché tra le altre piste di ricerca, in questa occasione, abbiamo voluto fare un approfondimento molto importante sulle aree industriali43, volano strategico perché un nuovo sviluppo del manifatturiero, una positiva e più forte attrazione di investimenti e di imprese, una allargamento delle dimensioni di alcune nuove imprese, collocate in filiere strategiche (dall’aerospazio alle energie rinnovabili, ad altre esperienze della meccanica, a possibili esperienze di green-economy) non si scontrino negativamente con l’uso del territorio, con le dinamiche ambientali (aria, acqua, terreni), con la qualificazione del territorio urbano, con l’uso agricolo dei suoli, e possano andare insieme ad una agricoltura di qualità e per lo sviluppo di quelle filiere (vino ed olio) per le quali l’Umbria da tempo si sta caratterizzando come terra di eccellenza.

In definitiva, anche da questa riflessione su piccola impresa e artigianato ci torna rafforzata la nostra convinzione sulla necessità strategica di tornare a riflettere sul tema dell’impresa nella sua globalità, lì dove si esercita prima di tutto l’inventiva, lo spazio creativo dell’imprenditore, ma dove arrivano anche tutte quelle politiche di derivazione pubblica che possono giocare un grande ruolo nella costruzione di un “ambiente” nel quale la scommessa non si giochi sulla compressione dei costi, sulla parcellizzazione del lavoro, ma su nuovi terreni: le reti, i rapporti con la ricerca, e anche una più avanzata organizzazione e qualificazione del lavoro. Lo stesso tema della natalità e della crescita delle imprese (dagli spin-off agli incubatori), le sfide che esso contiene, sono collegate a quella questione più generale, che chiama in causa dimensioni soggettive fondamentali dell’Umbria, a cominciare dalle nuove generazioni.44

I bandi regionali competitività dal 2004 hanno fatto, per questo, una scelta avanzata che è tornata anche nelle valutazioni più recenti per il lancio del nuovo Bando 2009. E forse potrà essere utile, in futuro, arrivare ad una valutazione d’insieme delle importanti esperienze fatte con i due cicli di programmazione delle risorse comunitarie.

E’ a partire dunque da questa grande trasformazione, e in rapporto alla crisi che si pongono gli interrogativi più duri sul futuro. E quanto sia ardua la sfida per il manifatturiero umbro lo si può evincere dal quadro nazionale.45 Misurando in termini di trimestri persi – hanno sottolineato gli autori – cioè di quanto indietro nel tempo sono tornati i livelli della produzione, la maggiore gravità della situazione italiana risulta evidente: i 12 e 13 trimestri di Francia e Germania si confrontano con i quasi 100 dell’Italia. In

42 Cfr. ESG, www.esg89.com. 43 Cfr. nel presente Rapporto il saggio di Marco Storelli e Donatella Venti “Le aree produttive: diffusione, frantumazione, qualità”. 44 Cfr. il saggio in questo Rapporto Il sostegno all’Imprenditoria giovanile di Giacomo Frau e Meri Ripalvella. 45 Cfr. Banca d’Italia, Questioni di economia e finanza (Occasional Papers) La crisi internazionale e il sistema produttivo italiano: un’analisi su dati a livello di impresa, a cura di Matteo Bugamelli, Riccardo Cristadoro, Giordano Zevi.

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una dinamica storica relativa alle precedenti ondate della recessione globale si può vedere la crucialità di quella odierna. Negli anni della prima crisi petrolifera (1974-75) l’Italia aveva perso circa 8 trimestri in termini di Pil contro i 10 della Germania e i 7 della Francia. Con la crisi del 1992 le distanze aumentarono e gli effetti divennero più pesanti, ma ancora ben lontani da quelli attuali: in termini di livelli di produzione persi l’Italia allora tornò indietro di 23 trimestri, circa il doppio che in Francia e in Germania”. Oggi dunque la distanza è ancora più enorme.

Non sono poche le conseguenze di un tale scenario. Scrive opportunamente Luca Ferrucci nel saggio contenuto nel Rapporto: “In un certo qual modo la correlazione logica tra rischio imprenditoriale e premio capitalistico potrebbe subire una dissociazione per un lungo periodo di tempo a vantaggio delle imprese che si trovano ad operare in settori e filiere più o meno protette dalla concorrenza e ben relazionate con il sistema politico… Nei capitalismi nazionali i policy makers devono promuovere e irrobustire circuiti virtuosi e ridimensionare le dinamiche involutive e regressive proprie dei meccanismi di riaggiustamento e di selezione nel mercato nel breve periodo. Ne deriva l’importanza delle logiche di governo della politica industriale in questa fase economica. Essa non deve “attrezzarsi” solamente per gestire gli interventi di emergenza, ma deve poter progettare un programma di politica industriale per la competitività dei settori aperti alla concorrenza internazionale e per lo start-up di nuovi settori manifatturieri. Ma la politica è pronta per questo mestiere selettivo e meritocratico. Essa deve saper andare oltre la mera logica keynesiana della domanda aggregata e oltre una mera politica dei salvataggi, al fine di promuovere nuove frontiere scientifiche, tecnologiche e manifatturiere”.

Modello produttivo e modello sociale

La questione della quantità di ricchezza prodotta non rappresenta tuttavia solo una luce fondamentale per leggere le diverse performances dell’economia regionale. Ne derivano di lì altre e non secondarie conseguenze sui caratteri del modello sociale i cui equilibri interni, per soggettività e storia civile della regione, sono naturalmente fatti da tante componenti soggettive e di politica istituzionale, tra le quali, però, non possiamo non ritrovare, alla fine, i circuiti della ricchezza a disposizione: insomma il rapporto tra produzione e distribuzione della ricchezza.

Ecco allora come arriviamo ad un altro spaccato della materialità della vita dell’Umbria contemporanea. I redditi delle famiglie prima di tutto che, in tante occasioni, abbiamo visto condizionare e caratterizzare non poco la fisionomia dell’istituto familiare nella Regione. Non è un caso che l’Umbria detenga un primato in Italia per una struttura familiare composta da più nuclei e che i figli tardino non poco ad “uscire di casa” e a costruire una propria, autonoma, fisionomia.46 Non è un caso che dalla nostra (Aur) recente ricerca

46 Cfr. L’integrazione sociale in Umbria, Rapporto di ricerca, a cura di Aur, 2008

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sugli orientamenti, stili, valori dei giovani adolescenti, esca forte un dato che non può non sollevare una grande preoccupazione per l’insieme delle classi dirigenti dell’Umbria: la mobilità sociale verso l’alto sembra essersi bloccata, in linea con i processi nazionali, mentre le nuove generazioni sembrano far conto di più sui sistemi di relazione che sulle capacità proprie, sul rischio e sulla competizione derivanti da competenze e da studio. Né si può sottovalutare, in tutto questo, la competizione negativa che trascina le famiglie, molto prima degli adolescenti e che va nella direzione spesso di un sovraccarico di domanda, che, partendo dagli equilibri delle dinamiche familiari, si esercita, a sua volta, molto verso la politica e verso la pubblica amministrazione.

Non a caso assistiamo ad uno scarto forte tra le aspettative delle famiglie e i percorsi di studio dei figli, spesso generici e non in grado di incontrare le opportunità che pure ci sono nella regione, seppure in un modello produttivo (indagini annuali Excelsior) che fatica ad intercettare e ad acquisire figure ad alto livello professionale (nell’ultimo anno c’è stata una progressione positiva) e preferisce spesso allargare la maglia produttiva di beni e servizi attraverso l’occupazione su qualifiche minori o intermedie e/o a costo più basso, piuttosto che incrociare le nuove “ondate” che implicano innovazione di processo e di prodotto, ed anche una diversa concezione dell’impresa.

Qui si vede chiaramente quanto una questione di “visioni” impatti insieme, contemporaneamente, sul modello sociale e su quello produttivo, sulle famiglie come sugli imprenditori, nel mondo del lavoro, delle professioni e poi anche nella politica. Una società più aperta, più ricca di stimoli interni, più legata ai valori della scienza, della tecnologia, dei processi produttivi, ma anche alla fatica più personale, al sacrificio e alla responsabilità, nella più antica accezione weberiana, è oggi fondamentale. E qui dovrebbe strutturarsi di più e con più efficacia anche lo stile delle classi dirigenti regionali. Questo dovrebbe portare tanti giovani a “non scansare” gli Istituti Tecnici, a stare lontano da superficiali “licealismi”, alla fine spesso inconcludenti, a ritrovare l’orgoglio del “saper fare”. In uno studio recente di Luiss-Confindustria si è sottolineato come nel 2009, di fronte ad una richiesta del mercato di 214.000 tecnici, se ne siano diplomati nell’anno scolastico 2007-2008 soltanto 137.718. E non sono poche altre professionalità (progettista elettronico, progettista meccanico, progettista metalmeccanico, sviluppatore software, assistenti tecnici ai clienti, infermieri) per le quali necessita una laurea e che sono considerati (indagini Excelsior 2008-2009) di difficile reperimento. E allora, alla fine, si può vedere bene come tutto si tiene nelle virtù di un territorio: caratteristiche imprenditoriali, scelte manageriali, dimensioni di impresa, laboratori di ricerca, strutture diverse della finanza, ruolo del lavoro, mobilità, residenza, valori prevalenti e diffusi.

Ed è con questa premessa possiamo allora tornare meglio alla questione dei rapporti tra modello produttivo e modello sociale in relazione alle performances di produzione di ricchezza. La connessione si vede bene, nelle peculiarità dell’Umbria, all’interno della graduatoria nazionale dei redditi delle famiglie. Vale la pena per questo tornare a sottolineare, come è stato fatto da più parti recentemente, la dinamica nazionale delle disparità in Italia: le famiglie con i redditi più bassi appartenenti al primo quinto (20%),

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percepiscono solo l’8,1% del reddito totale (comprensivo dei fitti imputati), mentre la quota del quinto più ricco ne detiene una parte quasi cinque volte maggiore (37,7%).47 Si aggiunga poi la questione della distribuzione della ricchezza, la somma cioè di attività reali (abitazioni, terreni ecc.) e attività finanziarie (depositi, titoli, azioni, ecc.), al netto delle passività finanziarie (mutui, prestiti personali, ecc.) indica che la metà più povera del Paese detiene (anno 2008) il 10% della ricchezza totale, mentre il 10% più ricco ne detiene il 44%.48

Come è messa l’Umbria? Su questo punto sono contenuti significativi approfondimenti (cfr. E. Tondini) nel Rapporto volti ad analizzare la diversa dinamica dei redditi in Umbria per come esce dall’ampia messe di dati Istat: l’esito ci sembra fondamentale per interpretare i caratteri dell’Umbria contemporanea. In particolare ne segnaliamo uno che ci sembra particolarmente esplicativo. Se per il reddito primario l’indice umbro è nel 2006 96,5 (Italia 100; Toscana 110,7; Marche 103,3; Nord-Ovest 121,9; Nord-Est 119,3; Mezzogiorno 68,3) nella graduatoria del Reddito disponibile pro-capite l’Umbria torna a 101,3 (Italia 100): Toscana 111,3; Marche 104; Nord-Ovest 117,8; Nord-Est 115,8; Mezzogiorno 73,9. E nel Reddito disponibile si ritrovano, come è noto, i pesi delle prestazioni e dei trasferimenti sociali che vanno oltre i Redditi da lavoro dipendente e i Redditi da capitale.

Tutto questo si intreccia notevolmente con le dinamiche della crisi. Molto significativi ancora, sono, per questo, i risultati della recente indagine Istat su Condizioni di vita e distribuzione del reddito in Italia49. Vediamone la dinamica nazionale (anni 2007-2008): “Nel 2008 – vi si legge – cresce, rispetto all’anno precedente, la quota di famiglie che dichiara di arrivare alla fine del mese con molta difficoltà (il 17,0%, contro il 15,4% del 2007); inoltre, aumentano le famiglie che non riescono a provvedere regolarmente al pagamento delle bollette (11,9% contro 8,8% del 2007) e all’acquisto di abiti necessari (18,2%, contro il16,9% del 2007). Statisticamente significativo è pure l’incremento delle famiglie per non aver almeno in una occasione, soldi sufficienti per pagare le spese per i trasporti (8,3% contro il 7,3% del 2007) e di quelle che sono in arretrato con il pagamento del mutuo (7,1% di quelle che hanno un mutuo, contro il 5% del 2007)”. Come è messa l’Umbria? Quasi in tutti gli indicatori la Regione presenta nel 2008 un aggravamento rispetto al 2007 ed ha percentuali superiori, nelle difficoltà, quasi sempre, rispetto alle regioni del Centro Nord, tra le quali comparativamente, è il Piemonte a presentare non poche perfomances negative. Ne segnaliamo alcune: è stata in arretrato con le bollette (Umbria 11%, Marche 10,1%, Toscana 11,1%; Italia 11,9%); è stata in arretrato con il mutuo (Umbria 5%, Toscana 4,1%; Marche 9,9%; Italia 7,1%); non riesce a sostenere spese impreviste (Umbria 34,0%; Toscana25,5%; Marche 32,0%, Italia 31,9%); non ha avuto soldi per spese mediche (Umbria 8,8%; Toscana 6,6% ; Marche 10,0%; Italia 11,2%); non ha avuto i soldi per vestiti necessari (Umbria 15,0%; Toscana 11,9%; Marche 13,6%; Italia 18,2%).

47 Cfr. Istat, Rapporto annuale, La situazione del Paese nel 2007, Roma, maggio 2008. 48 Cfr. Banca d’Italia, La ricchezza delle famiglie italiane nel 2008, Roma 2009. 49 Cfr. Istat, Condizioni di vita e distribuzione del reddito in Italia, Roma, 29 dicembre 2009.

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Si torna così duramente alla questione dei redditi familiari netti. Vediamo nella dinamica più aggiornata (inclusi i fitti imputati) al 2007. Il reddito familiare netto dell’Umbria è di € 35.142 (Toscana 38.778; Marche 37.368; Italia 34.497; Emilia Romagna 38.931) con un Indice di Gini che, per l’Umbria, nel 2007, recupera una più equilibrata distribuzione dei redditi, meno equilibrata rispetto a Toscana, Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino, ma molto più accettabile ed in equilibrio rispetto alle altre regioni del Centro Nord, alle quali, nel corso degli ultimi cinque anni, l’Umbria aveva incominciato ad avvicinarsi, mentre ora torna a distanziarsi, quando le contraddizioni della “grande crisi” hanno fatto esplodere nuovi ed inediti processi di gerarchizzazione sociale .

Qui si segnala dunque ancora la criticità, in Umbria, della ricchezza a disposizione delle famiglie: la collocazione della regione è appena sopra la media nazionale. Ed è qui che si pone allora anche la questione dei redditi da lavoro dipendente per unità di lavoro dipendente50 che nella regione sono particolarmente bassi e non largamente né conosciuti nella loro dimensione né studiati per le peculiarità di lettura che offrono in rapporto alle figure professionali presenti nei diversi settori merceologici dell’economia regionale. Non sono poche le nostre ricerche (Rapporto 2007, Aur; Ricerca sulle Multinazionali, Aur - Sviluppumbria, 2007) che ci hanno restituito una organizzazione del lavoro nel manifatturiero caratterizzata da una forte presenza di qualifiche più basse, operaie, e con una minore incidenza di quelle più alte e dirigenziali. Il ruolo della categoria dei “quadri” sembra, in questo modello, assolvere così ad un ruolo centrale, in un manifatturiero che, anche nei grandi gruppi, si presenta proprio come iper-manifatturiero. E questo è anche uno dei punti non secondari del “modello umbro” che si trova di fronte alle scelte delle politiche economiche regionali.

I dati Istat sui redditi da lavoro dipendente ci sembrano, per questo, particolarmente significativi. Fatto 100 per l’Italia l’indice umbro è di 92,3. La differenza non è solo con le regioni del nord (Marche 94,2; Toscana 99,6; Emilia Romagna 99,6; Liguria 102,6). Nel 2008 appare, ed è la prima volta, anche un differenziale significativo con alcune regioni del meridione: Sicilia 95,3; Abruzzo 96,9; Sardegna 92,2; Campania 92,4. Il totale del meridione è 92,4. L’Umbria si presenta dunque come una regione, particolarmente labour-intensive. Si pensi a questo dato che, naturalmente, mette insieme due grandezze. I redditi da lavoro sul valore aggiunto (Rdl/Va) raggiungono la percentuale del 47,3%: Marche 45,9%; Toscana 45,0%; Emilia Romagna 45,6%; Liguria 43,1%; Lombardia 44,4%; Piemonte 45,2%; Abruzzo 48,6% (cfr. E. Tondini).

Sta in tutto questo un punto di caduta fondamentale della lettura dell’Umbria contemporanea che è molto importante e che va pienamente visualizzato: il ruolo compensativo che l’intervento pubblico delle istituzioni e le politiche diffuse di welfare hanno sul modello regionale, al fine di radicare una tenuta ed una coesione sociale che, tuttavia, si fa sempre più difficile. Ed infatti, considerando i redditi delle famiglie e le dinamiche di remunerazione del lavoro, correlati a quelli della quantità di produzione di ricchezza espressa nella debolezza

50 Cfr. Istat, Principali aggregati dei conti economici regionali anno 2008, 15 ottobre 2009

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del Pil pro-capite, la qualità sociale della regione non reggerebbe se non ci fosse una significativa incidenza delle prestazioni sociali pro-capite sul reddito disponibile. La percentuale dell’Umbria di questa incidenza è del 30% (Toscana 27,7; Marche 26,8; Nord-Ovest 26,6; Nord-Est 25,6; Mezzogiorno 29,6), (Cfr E.Tondini). E’ un tratto che ritroviamo anche nel peso che hanno le altre attività di servizi sul valore aggiunto (2007): Umbria 22,0%; Italia 20,6%; Toscana 18,7%; Marche 18,2%; Nord-Ovest 15,6%; Nord-Est 16,6%; Mezzogiorno 29,7%.

Tutto questo si intreccia con le nuove, forti, dinamiche di disparità e di disuguaglianza che da qualche tempo cominciano a percorrere, in molte forme, la società regionale. Non a caso diverse ricerche impegnate a studiare le dinamiche della disuguaglianza e della nuova gerarchizzazione sociale, segnalano, per l’Umbria, un dato di difficoltà rispetto al centro-nord, e comunque una situazione più critica di quanto generalmente si riconosca. Recentemente sono usciti i dati di una ricerca presentati al Convegno di Trento su disuguaglianza e coesione sociale.51 Mettendo insieme diversi approcci la collocazione dell’Umbria, nella graduatoria delle regioni italiane per coesione sociale è al decimo posto (Liguria 11, Piemonte 12, Marche 13, Lombardia 14, Toscana 15) segno dello strutturarsi nella nostra regione di nuovi processi di gerarchizzazione sociale, per i quali sarebbe importante predisporre una specifica attività di ricerca e di studio, oltre le sollecitazioni che sono venute nel recente biennio.

Questa dinamica di disagio e di nuova gerarchizzazione sociale, la si può trovare anche in un’altra recente indagine52, dove si colgono due polarità: il 3,5% di cittadini umbri si dichiarano molto soddisfatti della situazione economica (Toscana 2,1%; Marche 2,1%; Italia 2,6%) e il 14, 6% per niente soddisfatti (Toscana 12,0%; Marche 12,0%; Italia 14,3%). Ed ancora, nella regione, sono il 13,5% le famiglie (percentuale su 100 famiglie della stessa zona) che considerano la situazione economica molto peggiorata (Toscana 11,7%; Marche 11,2%; Italia 13,1%) e l’8,4% di avere risorse economiche insufficienti (Toscana 4,9%; Marche 5,7%; Italia 6,7%).

Al fondo c’è tuttavia la questione lavoro. In definitiva infatti alcuni dati del mercato del lavoro alludono chiaramente a queste difficoltà: 58.000 posizioni part-time (14,5% del totale) e 42.000 posizioni (a termine) oltreché 10.000 soggetti impegnati in un lavoro parasubordinato e occasionale (in tutto 13,9%), seppure c’è, tra i diversi fenomeni, una qualche sovrapposizione53, segnalano, pur con le loro diversità contrattuali, i caratteri del disagio sociale in una regione dove, in questi anni più recenti, si erano ottenute buone performances di progresso sia sul terreno del tasso di attività, sul tasso di occupazione, sul tasso di disoccupazione e sulla mitigazione dei differenziali di genere. Bisogna aggiungere poi le persone in cerca di occupazione: 26mila nel terzo trimestre 2009) 17mila nel 2008. 51 Cfr. Trento 8-9 ottobre 2009, intervento al Convegno a cura di Matteo Mazziotta, Adriano Pareto e Valentina Talucci. 52 Cfr. Istat, La soddisfazione dei cittadini per le condizioni di vita nel 2009, Roma, 6 novembre 2009.53 Cfr. Regione Umbria, Osservatorio sul mercato del lavoro, Rapporto annuale, Il mercato del lavoro in Umbria nel 2008; ed ancora Paolo Sereni, Veronica Contili, Il mercato del lavoro in Umbria nell’anno della crisi (cit.) e nel presente Rapporto Lorenzo Birindelli, Politiche occupazionali difensive e recessione.

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A tutto questo bisogna aggiungere le conseguenze della crisi nel corso di questo 2009. I dati della Cassa Integrazione, fino a settembre 2009, sono i seguenti: 4.062.879 ore complessive, ben 3.171.143 ore in più dei primi nove mesi del 2008 per l’ordinaria e 2.940.604 ore complessive, 1.899.747 in più del 2008 per la straordinaria. Il ricorso ai due ammortizzatori continua a riguardare per circa il 91% le figure operaie. Nella cassa integrazione in deroga i lavoratori coinvolti superano le 6.000 unità con il 44,9% di donne.54 Si pensi alla serie storica della cassa integrazione dal 1997 al 2008, costantemente poco sopra i 2 milioni di ore di cassa integrazione annuale con l’eccezione di tre annualità (1997, 3.311.313 ore; 2005, 3.072.017; 2006, 1.389.512).55 Ora arriviamo nella regione alla cifra di circa 10 milioni di ore.

Dentro la crisi dunque si stanno producendo non poche tensioni, ma anche trasformazioni molecolari, tutte connesse con la “padronanza” dei soggetti sociali, alle difficoltà che questi incontrano, incidendo molto sugli atteggiamenti, sugli stili, di una società fortemente individualizzata, malgrado i valori, ancora forti, dei tessuti collettivi e comunitari che ancora caratterizzano l’Umbria. Si tratta del diffondersi di un disagio e di una insicurezza della quale non è ancora possibile fissare dati analitici e che tuttavia si avverte nella strutturazione di nuove e più estese gerarchie sociali, dove i primi e gli ultimi hanno cessato di “riconoscersi” e di “vedersi”, come in altre fasi della storia regionale. La stessa “povertà”, seppure presenta nel 2008 una percentuale minore nella regione (6,2% contro il 7,2 % dell’anno precedente) ha cambiato carattere e per questo sarà necessario avanzare ancora, nella tradizionale linea di ricerca dell’Aur, nel quadro delle attività dell’Osservatorio regionale, in una linea che porti in primo piano i working-poors e le nuove dimensioni urbane della povertà, per come, dopo aver da tempo “perso voce” si sono strutturati nei diversi percorsi delle città umbre.56

Siamo dunque di fronte, anche in una regione di forti e antiche politiche di coesione, alla insorgenza di una nuova “questione sociale” che, dal lavoro, dall’economia, dalle professioni, dalle incertezze dei ceti intermedi, dai cambiamenti di ruolo sociale di interi settori e gruppi sociali, come quelli delle funzioni pubbliche e della istruzione, sta riclassificando in generale nella società, e financo nella cultura delle élites, i caratteri più complessi, civili e di relazione, della società regionale. E non è facile “quantificare” senza specifiche ricerche, peraltro molto complesse: siamo infatti nel corso di tali vicende, dove si intrecciano trasformazioni e nuove disparità, anche in dinamiche non immediatamente visibili, come quelle dei valori e delle risorse simboliche, dei diversi processi di padronanza, che costituiscono una base essenziale della produzione e del mantenimento del sé delle donne e degli uomini del nostro tempo, in una società fortemente individualizzata.

E non è un caso che nella nostra recente e citata inchiesta sui giovani adolescenti rispetto alla dinamica delle ingiustizie sociali, si sia trovata poi una importante differenza di 54 Per una più ampia disamina cfr. Paolo Sereni e Veronica Contili, cit. 55 Cfr. Orml , Piemonte, su dati Inps. 56 Cfr. Istat, La povertà in Italia nel 2008, 30 luglio 2009; Svimez, Il commento ai dati del Rapporto Caritas, Roma 22 ottobre 2009.

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genere, nelle proiezioni sulla vita futura, tra le giovani ragazze molto determinate verso una inaccettabilità dell’ingiustizia e i giovani ragazzi più aperti a quelle forme di insicurezza e di compromesso che già vengono leggendo con evidenza, dai banchi della scuola, sui futuri assetti sociali, ancor di più nella relativa fissità e blocco della dinamica sociale ascendente, che sembra oggi caratterizzare la società regionale e nazionale.

E’ in questo stesso scenario che bisogna considerare anche tutti quei fenomeni della immigrazione che hanno strutturalmente cambiato l’impasto sociale dell’Umbria, il clima culturale e le cadenze civili delle città, laddove la trasformazione in una dimensione multietnica costituisce il principale e più profondo fenomeno di trasformazione della società regionale di questa fase storica. L’Umbria così è diventata la seconda regione d’Italia per presenza di immigrati/e nella popolazione residente.57

Qualche ulteriore considerazione su altri profondi mutamenti, sociali e culturali, della società umbra, in questa fase, la potremmo fare attraverso l’analisi di alcuni valori della occupazione per genere e per settore.58 In agricoltura sono impegnati (2008) 14.000 occupati pari al 3,7% della occupazione complessiva, con un grado di femminilizzazione del 37%. E’ questo un settore che è cresciuto in questi anni significativamente e con un indice di produttività particolarmente elevato, seppure la struttura della maglia fondiaria regionale non ha sperato limiti storici della dimensioni: la specializzazione di alcune culture ha invece determinato sviluppi positivi tali da qualificare in modo nuovo tutta la filiera agroalimentare. L’industria appare ben centrale con 121.000 occupati pari al 32,2% del totale, con una articolazione interna molto significativa tra gli 84.000 del manifatturiero e 35.000 delle costruzioni, rispettivamente il 22,4% e il 9,3% del totale. I servizi occupano 241.000 occupati con il commercio e 187.000 senza (il commercio 54.000). Di questi 25.000 sono nella pubblica amministrazione e 54.000 sono nella istruzione, sanità e altri servizi con una terziarizzazione dell’occupazione regionale pari al 64,1%. Qui la femminilizzazione è più forte: 57,4% per i servizi extracommerciali e 53,4% nel totale.

Non sono poche naturalmente le considerazioni e anche le ulteriori analisi che si potrebbero sviluppare a partire dalle cifre, in particolare sugli effetti di padronanza dei diversi gruppi sociali sulla vita quotidiana, sulle relazioni, sugli intrecci interni alla vita della società regionale e nelle diverse realtà urbane. Una particolarmente sul peso del lavoro industriale e sul relativo “occultamento” che questa realtà ha nel rappresentarsi sulla scena pubblica e nella scala di costruzione della rappresentanza nelle diverse soggettività politiche e nelle assemblee elettive. La stessa dinamica della crisi, la remunerazione del lavoro, scava dentro quelle dinamiche dei lavori e mette alla prova la dimensione pubblica, ponendo enormi problemi di rinnovamento in un punto essenziale della nuova sfida alla coesione sociale della regione, anche oltre i servizi di welfare. Democrazia, valori simbolici e dimensioni di libertà individuali, diritti di cittadinanza, paradigmi della politica, gerarchizzazioni sociali, esercizio delle tutele nel lavoro e nella società, possibilità di proporsi, a ciascuno/a, di

57 Cfr. Aur, Primo rapporto sulla immigrazione, Perugia 2010. 58 Cfr. Regione Umbria, Osservatorio sul mercato del lavoro, Rapporto 2008.

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nuove sfide di crescita e di libertà, dinamiche dell’economia e della produzione di ricchezza: si vede come tutto si tenga nelle specificità di un territorio.

Non sono poche naturalmente le questioni di politica economica e sociale che ne sono derivate nel corso di questo “terribile” 2009. Attraverso la Regione, in questi mesi, si è potuta sperimentare, ed è stato molto importante, una batteria di misure e di intervento sullo sviluppo e sulla tutela che rappresenta, ci sembra, un bagaglio significativo di quella possibilità di fare politiche a livello regionale che, anche nella crisi, ci sembra fortemente riconfermata. Come appare confermata anche la critica a quelle illusioni che, in passato, avevano riposto una speranza forte, per far fronte ai problemi dello sviluppo, sulla flessibilizzazione del lavoro. La realtà ha dimostrato la visione “ideologica” che quella strategia conteneva e oggi sono molti di più del passato quelli convinti, non solo nella comunità scientifica, nelle organizzazioni dei lavoratori, ma anche dentro il sistema delle imprese, che lo sviluppo, nella stessa crisi, vada sempre insieme alla salvaguardia e alla valorizzazione del lavoro, oltreché agli investimenti e alle politiche di innovazione.

Una scelta strategica per l’innovazione

E’ evidente dunque, dalle dinamiche storiche del Pil regionale, a quelle della crisi, fino ai caratteri di un modello sociale come quello umbro in profonda trasformazione, quanto conti mettere al centro della vita regionale la scelta dell’innovazione e dello sviluppo di qualità, verso un più avanzato modello di specializzazione produttiva, capace non solo di intercettare traiettorie rinvenienti dalle grandi trasformazioni del mondo contemporaneo, ma di introdurre innovazione anche nei settori più “maturi” e tradizionali della base produttiva regionale. E’ per questo che una delle piste che abbiamo indicato nel Rapporto riguarda l’analisi delle strutture e dei presidi della ricerca e in generale le performances del “modello umbro” in questa direzione.

Il lettore potrà leggere processi e tendenze prevalenti59 della situazione umbra, anche in rapporto alle politiche che, in questi anni recenti, sono state condotte dalla Regione per far avanzare reti di impresa, per promuovere eccellenze, cominciando a far vivere cluster (l’aereospazio, e poi una attenzione forte alle energie rinnovabili, alla meccanica, alla crescita di filiere innovative, alla apertura di una riflessione su progetti di green economy).

Naturalmente l’Umbria è parte di un paese nel quale l’industria, da tanto tempo è uscita dalle filiere più innovative (avionica, farmaceutica, chimica fine, tecnologie ambientali) e proprio su Ricerca e Sviluppo presenta una delle sue più critiche e negative performances. Non sono poche qui naturalmente le questioni che si addensano, come è noto, fino a costituire una grande “questione nazionale”: la dimensione delle imprese prima di tutto e poi la loro gestione prevalentemente familiare, la insufficienza della diffusione delle tecnologie informatiche; il carattere del mercato dei capitali, la

59 Cfr. in questo Rapporto il saggio di Mauro Casavecchia, Capacità, luoghi, reti della ricerca.

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mancanza di significative esperienze di Venture Capital e, più in generale, di Private Equity collegati all’innovazione, alcuni problemi pubblici (dalla logistica all’infrastrutturazione urbana, ai servizi amministrativi). Al fondo si struttura però il delta negativo più grave che segna l’Italia, anche se espressione di tutti quei fattori: da noi si investono in Ricerca e Sviluppo l’1,2% del Pil, in Finlandia il 3,5%, in Francia, Germania, Gran Bretagna, dall’1,9% al 2,6%, con una media europea dell’1,8% e del 2,5% nei Paesi dell’Oecd.

E’ dentro questo che vive l’esperienza di una piccola regione come l’Umbria che ha avuto storicamente una peculiarità: l’essere pressoché completamente coperta (ad esclusione di una parte della città di Perugia), dal 1994, delle provvidenze comunitarie (con tutti i successivi intrecci con la finanza nazionale) in modo tale che la progettualità regionale in questa direzione ha rappresentato l’asse principale di intervento verso le imprese e più in generale sulle problematiche di sviluppo.

Come si colloca l’Umbria su questa frontiera? Già nel Rapporto 2008 avevamo segnalato (Mauro Casavecchia) una realtà che è stata confermata, nella sua contrad-dittorietà, dal Rapporto Met (aprile 2009), presentato all’Università di Perugia: “Una prima valutazione relativa al dinamismo – vi si legge nello specifico approfondimento frutto di oltre 500 interviste alle imprese – , cioè alla capacità di un sistema industriale di effettuare al tempo stesso nuovi investimenti e attività di ricerca e sviluppo permette di descrivere quello umbro come un sistema “dinamico” quanto la media nazionale: in entrambi i casi circa il 60% delle imprese non ha effettuato né investimenti né R&S (59,6% in Umbria e il 62,0% a livello nazionale); mentre a livello regionale appaiono un po’ più numerose le aziende investitrici (33,8%) contro il 30,2%, dato medio nazionale) e meno frequenti i casi in cui vi è anche un’attività di ricerca e sviluppo (6,6% in Umbria contro il 7,9% dato medio italiano). Una prima scomposizione per classi dimensionali tende a confermare quanto detto per il dato aggregato. Fanno eccezione le grandi imprese umbre, in cui appaiono molto più diffuse le attività di ricerca e sviluppo (71,7%) rispetto a quanto si verifica nell’omologa classe a livello nazionale (43,8%)… L’incidenza leggermente superiore rispetto alla media italiana di imprese che nell’ultimo triennio hanno introdotto almeno una forma di innovazione (sono il 37,2% in Umbria contro poco più del 31% in Italia) è determinata in gran parte dal dato delle micro imprese, mentre piccole e medie innovano sostanzialmente quanto le omologhe classi nazionali”. In definitiva, conclude questa parte del Rapporto Met sul terreno di Ricerca e Sviluppo sembrano prevalere in Umbria più strategie adattive che strategie attive.

C’è qui dunque una criticità significativa sulla quale investigare ancora e riflettere. I dati fondamentali che la esprimono e sui quali vale la pena, a nostro avviso, interrogarci ancora, seppure nel quadro di quei processi che danno il segno, anche qui, di quel cambiamento di pelle della economia e della società umbra dei quali abbiamo parlato, stanno tuttavia in due punti: primo, gli investimenti, che segnalano, per i privati (0,18 del Pil), una difficoltà seria e, secondo, un clima complessivo della regione che ancora non ha fatto ancora, a nostro avviso, pienamente, la scelta di mettere al centro della vita regionale i

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valori della scienza, della tecnologia e della ricerca, forse in connessione ad una qualche, non sempre adeguata, attenzione a quelle questioni del manifatturiero di cui abbiamo visto l’incipit nella storia umbra degli anni ’80 e che, solo in questi anni recenti, ha recuperato un’attenzione adeguata, premendo per una positiva direzione delle strategie innovazione-ricerca che, se sono fondamentali per tutti i settori, nel manifatturiero hanno una pregnanza ed una evidenza maggiore. Sempre nell’anno 200760, si vede che la spesa per R&S in Umbria è pari, nel totale, all’1,0% del totale nazionale: un livello, evidentemente, inferiore a quello del Pil (1,4%) ed è formato da due differenti dinamiche, le Università che concorrono al totale nazionale per il 2,4% e le imprese umbre che concorrono allo 0,4%.

Tante altre sono le sistemazioni analitiche e le valutazioni che emergono dal Rapporto e tuttavia è su alcune questioni che, a mio avviso, bisogna scavare di più, ed in particolare sulla valutazione della dimensione complessiva delle reti di ricerca e tecnologiche presenti nella regione. Sull’Ateneo perugino prima di tutto, che ha storicamente svolto una funzione grandissima, eccellente, nella formazione delle professionalità liberali e che, malgrado le importanti politiche innovative di questi anni recenti, in direzione degli spin-off e della creazione di impresa, non presenta ancora una significativa impronta tecnologica, volta al rapporto più stretto con le forze produttive.

Trovo qui la conseguenza di una più antica questione aperta nella cultura delle classi dirigenti umbre, “lato sensu”. Penso a quanto tardi si sia fatta la scelta degli studi ingegneristici, oltre quelli più storicamente caratterizzanti l’Ateneo, da Giurisprudenza a Lettere, da Economia a Medicina ed Agraria. Quegli studi, più immediatamente connessi con lo sviluppo imprenditoriale e tecnologico si aprirono, non a caso, quando già in Umbria era venuto declinando il Nec. Penso poi alle vicissitudini di enormi investimenti pubblici fatti, alla fine degli anni ’80, all’Isrim o al Parco agroalimentare di Pantalla, volti a radicare nel territorio una rete più forte di competenze e di laboratori, e che poi, nella mano pubblica, non hanno dato buon esito. Penso alla difficoltà del sistema bancario umbro ad elaborare linee di finanza innovativa in collegamento con le aggregazioni di ricerca. Ed è molto importante che la finanziaria regionale Gepafin si sia impegnata proprio qui, in questi anni, a recuperare un gap, anche producendo una qualche positiva modificazione negli orientamenti del management delle banche. Penso ancora alla “separatezza” dell’ampia rete delle multinazionali che presidiano segmenti essenziali della dinamica del Valore Aggiunto industriale regionale e alle difficoltà di un terziario di servizi alle imprese che è sempre più connesso alla capacità di innovazione e di ricerca dei laboratori in grado di intercettare alcuni dei settori merceologici fondamentali della regione. Penso ancora, sotto il profilo storico, alle vicende del Parco scientifico tecnologico di Terni, alla metà degli anni ’90, allorché non si riuscì ad incrociare i flussi di finanziamento della Unione Europea.

60 Cfr. Istat, La ricerca in Italia, Spesa per R&S Intra-muros per settore istituzionale e regione, Roma. Dicembre 2009.

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Un contributo significativo alla lettura per questi processi viene ancora dal saggio di Elena Bartocci e Davide Castellani Sui servizi alle imprese in Umbria, laddove si evidenzia un import significativo di risorse del sistema umbro proprio in relazione alla attività di Ricerca e Sviluppo. Nello stesso saggio si vede anche una minore utilizzazione, nel tessuto imprenditoriale regionale, dell’ICT secondo quanto aveva già segnalato il Ruics 2008.61 In questo quadro la scelta del Distretto Tecnologico, anche con le sue peculiarità organizzative e procedurali, diverse da altre esperienze italiane, ha rappresentato certamente una innovazione straordinariamente importante, di cui si potrà valutare nel tempo la portata positiva e già oggi se ne avvertono le positive conseguenze.

Naturalmente la riflessione su questo punto complesso non può procedere per trasposizione meccanica in Umbria di modelli altrove sperimentati. L’Umbria è certo una regione piccola che non può essere autosufficiente, anche nella ricerca, e deve anzi avere l’ambizione, come anche quella delle altre regioni più grandi, e ben più, a fare rete, ad incrociare i vettori di organizzazione della ricerca contemporanea, nelle più ampie dimensioni europee e mondiali. Va in questa direzione la riflessione sulle piattaforme europee, sui sistemi di relazione che queste strutturano62 con l’Italia e con alcune delle competenze organizzate nella regione. Va in questa direzione tutto il tema dei brevetti63, delle innovazioni, della ricerca formalizzata (anche attraverso gli strumenti recentemente costruiti dall’Ateneo perugino sulla protezione delle attività intellettuali). Vanno anche in questa direzione tutti i programmi di ricerca avanzati della realtà regionali verso il Settimo programma quadro europeo e le relazioni interregionali e internazionali che essi presuppongono. E tuttavia, anche per questa relazionalità, per la sua ampiezza e fecondità, l’attenzione dei policy maker e dei ricercatori economico-sociali non può non traguardare più a fondo il grado di infrastrutturazione interna della regione che è dato, alla fine, dai laboratori, quelli universitari prima di tutto e poi quelli interni o esterni alle imprese, dai team di ricercatori che vi sono organizzati che poi connotano la qualità più profonda dei processi in corso.

Per questo, abbiamo cercato di dare un primo contributo in questo Rapporto con il saggio di Mauro Casavecchia, al fine di visualizzare l’ampiezza e i caratteri strutturali dell’offerta oggi presente nella regione, la densità e i caratteri delle strutture laboratoriali che fanno ricerca per il mercato e per le imprese, nelle diverse dimensioni interne ed esterne alla regione. Sta qui uno snodo da prendere in considerazione, in modo forte, a nostro avviso, non certo per proporsi investimenti pubblici poco avveduti, ma per mettere in circuito le realtà che ci sono e per far crescere un clima e un sistema regionale di relazioni più intense. L’esperienza umbra di finanziamento della domanda delle imprese è stata 61 Cfr. Regione Umbria, Area della programmazione regionale, Ruics 2008, Il quadro di valutazione regionale della competitività e della innovazione. 62 Cfr. Aur, Rapporto Le frontiere dei materiali innovativi, Ricerca, Servizi, Tecnologie e Produzioni Industriali nel futuro della Conca ternana, Aur, 2009. 63 Rapporti di Artimino sullo sviluppo locale, Imprese e territori dell’alta tecnologia in Italia, a cura di Carlo Trigilia e Francesco Ramella.

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molto importante e positiva64, anche in quelle direzioni che, attraverso le “borse”, hanno spinto ad arricchire il capitale umano delle imprese, spesso essenziale per intercettare gli impulsi di innovazione e anche a far nascere “spunti” imprenditoriali e di ricerca che sembrano oggi connotare una vivacità significativa dell’Umbria, dopo un quinquennio di interventi regionali, a valere sulle finanze europee. E tuttavia assieme alla questione degli investimenti pubblici e privati ci sembrerebbe importante proporci, anche sulla base di questa prima ricerca contenuta nel Rapporto, una valutazione complessiva dello stato delle strutture che in Umbria fanno ricerca di base e tecnologica, che compongono team di specialismi che, anche per la loro esistenza, diventano sollecitatori di domande, di “spunti”, di visioni imprenditoriali. Avere nella regione una comunità scientifica funzionale alla crescita di un nuovo modello di specializzazione produttiva ci sembra fondamentale, così come per qualificare quelle strutture che possono dare non poco alla crescita di altri segmenti di filiera che connotano l’originalità della esperienza produttiva umbra: il restauro dei beni culturali, l’abbigliamento di qualità, la ricerca sui materiali da costruzione, la possibilità di aprire esperienze di green-economy, collegate all’alta produttività dell’agricoltura regionale.

C’è, mi sembra, ancora una faglia critica, anche di consapevolezza, e trovo su questa contraddizione un riflesso di quella connotazione prevalentemente piccola del sistema delle imprese umbre che, per molto tempo, si è storicamente tenuto a distanza da quei processi di innovazione più formale, derivanti dalla brevettazione. Nella ricerca alla quale abbiamo fatto cenno di Carlo Trigilia e Franco Ramella questa risulta la collocazione dell’Umbria (2008): 26,64 brevetti ogni 100.000 abitanti (Umbria 51,09; Toscana 47,43; Emilia Romagna 116, 86; Lombardia 102,11) e 3,42 per ogni 1.000 imprese (Umbria 6,08; Toscana 5,30; Emilia Romagna 12,92; Lombardia 12,27).

In più occasioni si è riflettuto su questo e su come in Umbria, nella piccola impresa, l’innovazione sia storicamente proceduta in modo incrementale, molto spesso non formale, espressione della messa a leva di competenze, radicate nella produzione, nell’uso delle macchine, nella loro eventuale e parziale trasformazione, nella sapienza organizzata nei processi produttivi. E’ così che si sono colti tuttavia, anche in molte altre analisi, una più debole specializzazione del sistema delle imprese umbre, la loro dipendenza all’interno delle filiere e delle diverse curve del valore, il loro collegamento più forte con il mercato interno rispetto a quello estero.

Da qualche anno siamo però entrati in una nuova fase, non solo perché si avverte la presenza anche in Umbria delle medie imprese (quarto capitalismo) ma anche perché si cominciano ad avvertire le possibilità di cluster, di una aggregazione più strutturata del sistema imprenditoriale umbro (meta distretti, parti più strutturate e solide delle filiere, progetti integrati per l’export, internazionalizzazione di parti delle filiere come la meccanica). Da una lettura delle più recenti esperienze, seppure frutto per ora della convegnistica, si comincia a cogliere anche la portata strategica della scelta delle reti, la sua

64 Cfr. Cotec, Rapporto annuale sull’innovazione, 2009, in particolare nel capitolo Quota di finanziamento di parte regionale sul totale delle erogazioni in regione, 2007, pag. 137.

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fecondità, e, questo è il punto che ci sembra molto importante, il peso che hanno cominciato ad avere i laboratori, nelle scelte di questi nuovi sistemi di impresa, in tutte le funzioni che vi passano, dal testing dei materiali alla nuova, vera e propria progettazione di lavori più complessi.

Ecco allora la necessità, in questo up-grading del sistema delle imprese che le politiche pubbliche hanno significativamente “accompagnato”, di tornare a fare il punto sulla infrastrutturazione scientifica regionale, non certo in astratto, ma misurandola sulle dimensioni piccole di una realtà, come la nostra, nella convinzione tuttavia che, anche di qui, può passare il progetto di globalizzare l’Umbria.

Talune esperienze regionali, di regioni più grandi, sembrano avvalorare taluni di questi percorsi. Penso alla esperienza di Tecnorete, della Toscana, nella quale si sono connessi una trentina di centri di trasferimento tecnologico pubblici e privati e gli incubatori tecnologici presenti nella regione. Penso in questa stessa direzione alla esperienza del Fondo di Private equity Toscana Innovazione, volto a definire una corsia peculiare nei rapporti tra innovazioni e sostegno finanziario delle imprese. Penso ancora al complesso delle previsioni della legge 20/2009 della Toscana finalizzata proprio a mettere al centro “la rete regionale della ricerca”, fino all’istituzione di un Osservatorio regionale della Ricerca e della Innovazione in connessione con l’Irpet (l’Istituto di Ricerca Economico e Sociale della Toscana). Particolarmente interessante, nella stessa direzione, ci è apparsa l’esperienza della Fondazione Toscana Life Sciences, sia per la formalizzazione del percorso istituzionale e per la direzione delle attività, dalla ricerca di base a quella applicata, alla azioni di spin-off e alle funzioni di incubatore, fino alla dotazione finanziaria in strutture specializzate (come in Torino Wireless).

Ben più ampia, in questa direzione, è stata poi l’esperienza dell’Emilia Romagna attraverso il Prriitt (rete regionale per l’alta tecnologia), che è naturalmente a scala di una grande regione (modello Aster), ma che contiene valori e linee sulle quali si potrebbe ragionare anche in realtà territoriali più piccole. Né una tale attenzione sarebbe in contraddizione con la scelta giusta fatta dalla Regione dell’Umbria di sollecitazione e accompagnamento alla ricerca, in rapporto ai più concreti processi del sistema imprenditoriale regionale e alle loro scelte di inserimento in una dinamica di competitività.

Ci sembrano molto calzanti, per questo, anche per l’Umbria, due osservazioni fatte da Marco Bellandi e Carlo Trigilia65: “Un terzo tipo di fonti di economie esterne dell’innovazione riguarda la qualità sociale, ambientale e logistica del contesto locale. Questa modalità chiama maggiormente in causa la capacità dei soggetti istituzionali locali di produrre intenzionalmente beni collettivi e pubblici specifici, attraverso processi di cooperazione efficaci e buoni progetti di sviluppo locale. Naturalmente la disponibilità di aree adeguatamente attrezzate o di parchi tecnologici è importante per le imprese. Non meno importante è la disponibilità di adeguate infrastrutture di comunicazione, che devono consentire facili collegamenti con altri centri nazionali ed

65 Cfr. Incontri di Artiminio sullo sviluppo locale, Innovazione e politiche per lo sviluppo locale: alcune note introduttive, Artiminio, 12-13 ottobre 2007.

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internazionali. Ma mentre queste condizioni valgono in generale per i sistemi produttivi locali, sembra esservi una specificità per quelli high tech e dei distretti innovativi. In questi casi la qualità socio-culturale e ambientale è particolarmente rilevante. Tale fattore incide infatti sulla capacità di attrarre – e di trattenere – specialisti altamente istruiti e qualificati, con le loro famiglie; e anche studenti stranieri che, come mostrano le ricerche, alimentano spesso la formazione di imprese innovative. La qualità dell’ambiente quindi condiziona le possibilità che si formino comunità professionali innovative. Ciò può aiutare anche a spiegare perché la localizzazione in città di medie dimensioni, con ricche istituzioni formative, scientifiche e culturali, e con una buona qualità ambientale e sociale, è spesso un’alternativa per i sistemi locali dell’innovazione, rispetto a quella nelle grandi aree metropolitane (si pensi a Oxford, a Cambridge, a Basilea, a Colonia o a Grenoble)”. Si potrebbe dire, per Perugia e per l’Umbria: “de te fabula narratur”.

E’ qui che allora milieu, innovazioni, virtù imprenditoriali, possono trovare, nella vicenda umbra, un nuovo incontro, come risposta alla crisi. Ci sembrano per questo molto calzanti le osservazioni di Luca Ferrucci sulle virtù imprenditoriali : “Negli ultimi anni – scrive l’autore nel saggio contenuto in questo Rapporto – dopo l’accreditamento della capacità in modo esclusivo alle grandi imprese manageriali, alcuni studiosi hanno riscoperto il significato di questo contributo originario schumpeteriano. Si sottolinea che l’emergere di nuovi settori (quali quello delle biotecnologie, della micro meccatronica, dell’informatica, delle telecomunicazioni, delle nano tecnologie ecc.) spesso definiti innovativi, altrimenti detti high-tech oppure science-based si ha tramite lo start-up di nuove piccole imprese, proprio di un capitalismo imprenditoriale. In altri termini, queste infant industry – nella loro fase iniziale – sono caratterizzate da un’ondata di nuova, piccola, imprenditorialità. Questa logica di sviluppo economico è dunque fortemente tributaria della presenza di una vocazione a costituire una nuova piccola impresa in questi settori high-tech. E’ indubbio che vi sono anche fattori ambientali assecondanti. Questa industria high-tech tende a localizzarsi nelle aree dove sono radicate competenze scientifico-tecnologiche, una classe “creativa”, una finanza orientata al rischio nella logica dei venture capitalist e università e centri di eccellenza”.

A queste considerazioni di Luca Ferrucci vogliamo aggiungerne altre che ci sembrano utilmente suggerire diverse piste di policy complessiva, in rapporto a quella questione generale dalla quale eravamo partiti: se sia possibile cioè avere ancora, a scala regionale, una dimensione positiva delle politiche economiche. Sottolinea Patrizio Bianchi, Rettore dell’Università di Ferrara ed economista industriale : “… il modello emiliano, che non vuol più dire solo la struttura dei distretti, ma anche il rapporto con il territorio, con l’amministrazione Regionale. Noi abbiamo tutti i pezzi da offrire, comprese quattro università ben differenziate, con grandi contatti internazionali che devono andare al di là degli interessi localistici”.66 Giulio Sapelli, economista: “E’ necessario cambiare l’agenda dell’innovazione sia per quanto riguarda i prodotti sia i

66 Cfr. Il Sole 24 Ore, CentroNord 23 dicembre 2009.

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processi. Le grandi imprese hanno già iniziato, ora tocca alle piccole e medie. Confindustria gioca un ruolo chiave in questa partita, come nella spinta delle trasformazioni delle filiere. Bisogna aumentare il mercato interno, ma appare evidente che con i salari che abbiamo – quasi a livello della Grecia – non si va da nessuna parte. Le riforme fatte fino ad oggi hanno distrutto il mercato del lavoro che va ridisegnato in un sistema di welfare. Come? Rilanciando, ad esempio, il sistema manifatturiero, incentivando la formazione tecnico-professionale…”67 Carlo Rizzuto, presidente del Sincrotone di Trieste: “E’ necessario pianificare uno sforzo straordinario affinché gli atenei riescano a formare un numero di laureati pari a quello degli ultimi cinque anni e bisogna studiare sinergie forti fra ricerca di base ed industria”.68 Enzo Rullani, docente di strategia di impresa ed economia e gestione della conoscenza: “Oggi le cose sono cambiate; per fare il salto di qualità necessario a compensare lo svantaggio di costo bisogna accelerare il processo innovativo. Non solo nel campo delle nuove tecnologie, ma anche – e forse soprattutto – nelle innovazioni d’uso che applicano in modo flessibile e creativo tecnologie importate dal circuito globale del sapere scientifico e tecnologico”.69 Aldo Bonomi, direttore dell’Istituto di Ricerca Aaster: “Il nostro capitalismo di territorio, le piattaforme produttive del centro-nord senza reti infrastrutturali… senza un asse che colleghi il centro Italia in orizzontale riduce la sua competitività produttiva… la parola d’ordine per il centro-nord è semplice ed elementare: riconoscere, valorizzare il capitalismo di territorio e modernizzare le nostre città. In ognuna delle piattaforme produttive… ogni giorno da parte delle imprese si cerca il dialogo con il capitalismo delle reti, con le banche, con le università, con i decisori pubblici da cui dipendono le infrastrutture hard e soft. Un dialogo che ridisegna l’antico rapporto città-campagna”.70 Ecco sta qui, anche nelle riflessioni che abbiamo voluto riproporre al lettore, di talune personalità della comunità scientifica nazionale, una parte fondamentale dell’avvenire dell’Umbria alla visualizzazione del quale è dedicato essenzialmente questo Rapporto.

Per una nuova fase di ricerca economica e sociale sull’Umbria

I punti di approdo del Rapporto, dunque, sono tanti e letti insieme a quanto l’Aur è venuto studiando in questi anni recenti (L’Umbria nell’Italia mediana; Rapporto sulle Multinazionali; IV Rapporto sulla povertà; Rapporto sulla Integrazione sociale in Umbria; Rapporto 2008, Dentro l’Umbria; Rapporto 2007, Tariffe e tributi locali; Rapporto sui Giovani adolescenti; Primo Rapporto sull’immigrazione; i diversi numeri della rivista AUR&S) ci danno il segno di un percorso nel quale l’Aur stessa ha provato ad arricchire la propria natura, a strutturarsi come “Istituto”, in grado, per le proprie competenze, per l’ampiezza delle proprie relazioni, regionali e nazionali, di contribuire alla vita e al lavoro delle classi dirigenti dell’Umbria. L’assillo è stato quello di tradurre questo lavoro nella vita di una piccola comunità scientifica che 67 Cfr. Il Sole 24 Ore, 19 dicembre 2009. 68 Cfr. Il Sole 24 Ore, 19 dicembre 2009. 69 Cfr. Il Sole 24 Ore 15 dicembre 2009. 70 Cfr. Il Sole 24 Ore , 15 dicembre 2009.

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possa essere riconosciuta per stile, per rigore, per attendibilità, in grado di supportare il governo regionale, gli organi consiliari e di indagare con quella terzietà che è essenziale ad ogni esperienza di ricerca. L’altro assillo è stato quello di cimentarsi ancora con il tema arduo dello sviluppo, ben più complesso oggi, nelle nuove frontiere del mondo contemporaneo.

A partire da questo patrimonio di cui questo Rapporto rappresenta un esito significativo, non sono poche le sfide di ricerca che si ripropongono per il futuro e che escono squadernate da questo ciclo di studi e che vorremmo, in alcune direzioni, sottolineare, concludendo queste note, per ridare anche la pienezza di quell’incrocio tra modello sociale e modello produttivo la cui reciproca positiva interazione sarà essenziale per i modi nei quali l’Umbria passerà nella prossima fase, dopo la crisi.

Ne indichiamo alcuni titoli: 1) c’è da fare un ragionamento più appropriato sulle dinamiche nuove che si stanno

intrecciando tra l’andamento della crisi e i cambiamenti dei caratteri e delle risorse più importanti della società regionale. Su quali “dimensioni sistemiche” si potrà in futuro far conto in Umbria? A che punto sono arrivate, dopo le vicende degli anni recenti, le dinamiche di comunità e di territorio alle quali l’Umbria deve una parte significativa della storia del suo sviluppo? Una serie di articoli di Aldo Bonomi71 hanno indicato suggestioni particolarmente significative, per alcune realtà regionali, quasi ad indicare, anche per l’Umbria, una linea di ricerca su Sviluppo e capitale sociale dopo la crisi. Nella sua rubrica Microcosmi, le tracce e i soggetti Aldo Bonomi scrive a proposito dell’Emilia Romagna: “La crescente polarizzazione dei redditi ha messo in crisi quella visione del noi che coniugava crescita economica e coesione sociale. Il welfare locale e regionale, anche a causa il patto di stabilità, eroga sempre meno, a fronte di un aumento dei bisogni. La governance territoriale è indebolita dalla crisi delle rappresentanze e dalla politica. Passioni e interessi che facevano dire noi non si incontrano più. La città regione Bologna, in crisi identitaria, ne è il luogo emblematico. E’ in fibrillazione il modello Nec (Nord, Est, Centro) raccontato da Giorgio Fuà”. Ed ancora “Nella regione, dove nel periodo 2007 l’export è cresciuto del 33% contro il 20% della Lombardia e l’11% del Veneto la crisi non è ritenuta alle spalle. Anche se nel 2008 il tessuto produttivo continua ad esportare più della Lombardia e del Veneto. Più che nell’economico, la paura sta nel sociale. La figura sociale più citata è quella dell’operaio industriale, vittima del ricorso alla cassa integrazione e i lavoratori con i contratti a termine. Qui, come altrove, i primi a saltare senza ammortizzatori sociali. E si cita il caso emblematico di quella impresa di Modena dove su 10 licenziati uno era modenese e gli altri 9 tutti immigrati”72. Ecco dunque la nuova portata dei problemi anche per l’Umbria: le dimensioni di comunità ai tempi della globalizzazione e le loro connessioni con le problematiche dello sviluppo in una regione nella quale, oltre la essenzialità della piccole imprese e della nuova rete delle medie, un grande ruolo lo hanno proprio i grandi gruppi delle multinazionali.

71 Cfr. Aldo Bonomi, Emilia Romagna. Verso nuovi modelli di coesione sociale, Il Sole 24 Ore, domenica 21 giugno 2009; Dopo lo sviluppo senza fratture il rischio di fratture senza sviluppo, Il Sole 24 Ore, 5 luglio 2009; Territori sotto pressione per la globalizzazione, Il Sole 24 Ore, 25 ottobre 2009. 72 Cfr. Il Sole 24 Ore, 21 giugno 2009

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Aldo Bonomi ci torna poi parlando delle Marche73: “Parlando con i marchigiani la sensazione è che, parafrasando il sommo poeta di Recanati, è come se si fosse in un momento di quiete in mezzo alla tempesta, tra gli effetti della crisi già sul terreno e quelli che potrebbero aggiungersi a breve. Una sfida per chi, tra tante trasformazioni della base produttiva dei distretti, sembrava avere individuato la quadratura del cerchio con il passaggio dall’impresa a matrice metalmezzadra, alla moderna impresa creativa comunicativa, in un mixer che teneva insieme creatività artigiana, design industriale e moderna propensione commerciale negli outlet della moda. Il tutto unito da una modernizzazione delle reti infrastrutturali, dalla qualificazione della offerta turistica e messa in rete delle università, da una tenuta sostanziale del tessuto sociale sotto il profilo dell’integrazione degli stranieri e delle politiche di welfare locale, favorita anche da una sostanziale stabilità politico-amministrativa … Stesso problema che abbiamo colto in Emilia Romagna: crisi del modello produttivo e profonda ristrutturazione delle filiere. La crisi sta rendendo evidenti i limiti della proliferazione continuata di micro e piccole imprese”. Ed ancora: “Questa peculiarità marchigiana ha ovviamente i suoi lati positivi, quello dello sviluppo senza fratture, ma ne ha anche di negativi, in particolare la scarsa propensione ad affrontare le crisi e i cambiamenti, quando l’elastico dell’adattamento non può più essere ulteriormente teso… ritorna il nodo del capitalismo delle reti… i rischi insomma sono quelli di una varietà territoriale che si trasforma in frammentazione, facendo venir meno i vantaggi storici. Anche quanto accade in questa terra del capitalismo dolce torna a ricordarci che, di fronte alla crisi, non basta trincerarsi dietro i fondamenti identitari”;

2) molto importante sarebbe dunque un ciclo di studi sulle filiere, in modo da indagare le specializzazioni, il loro grado e la loro forza, nella rete imprenditoriale dell’Umbria e nelle dinamiche, ben più lunghe, nazionali, continentali e del mondo, le loro collocazioni nelle diverse curve del valore e anche i possibili “modelli di business” che potrebbero radicarsi nella regione, secondo le linee innovative sulle quali diversi studiosi sono andati in questi anni riflettendo (cfr. Enzo Rullani e Luca Ferrucci);

3) una lettura, in contemporanea, anche tramite un Osservatorio sulla ricerca (secondo quanto si sta sperimentando in Toscana e da più tempo in Emilia Romagna) per fare una visualizzazione più congrua e permanente delle dinamiche dell’offerta, nella ricerca di base e tecnologica, in modo anche da sollecitare le relazioni più feconde delle reti con il mondo dell’impresa. Qui sono in corso già talune azioni significative, delegate dalla Regione dell’Aur, nel quadro dei programmi finanziati dal FSE, sugli assi trasnazionalità e reti74;

4) è ancora molto gracile sul terreno della ricerca, ma vi si possono intravedere anche non poche contraddizioni nei processi reali, una visione di genere delle dinamiche regionali. Qui bisognerebbe produrre, in molte sedi, un salto di qualità;

73 Cfr. Il Sole 24 Ore, 5 luglio 2009. 74 Cfr. Anna Ascani, La ricerca e l’innovazione in Umbria, relazione alla Conferenza regionale dell’Economia e del Lavoro, Consiglio regionale dell’Umbria, Terni 27 novembre 2009.

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5) una analisi più congrua dei fenomeni della disuguaglianza che ormai hanno un peso forte e nuovo nella determinazione dei caratteri del modello sociale regionale;

6) una analisi delle dinamiche di alcune soggettività sociali fondamentali per il futuro dell’Umbria come l’infanzia, le dinamiche familiari, le reti culturali e associative, le soggettività del terzo settore, le performances urbane nel rapporto tra centri e periferie, con tutti gli effetti di padronanza e di democrazia che le forme urbane determinano. In questo quadro di grandissimo interesse in questo Rapporto sono i risultati della ricerca sugli anziani75 per l’intensità dei percorsi di vita quotidiana di donne e di uomini che ci restituisce, per la polimorfità delle forme nelle quali i diversi processi si esprimono, per la forza di una comunità che continua a farsi nella quotidianità, attraverso un ricco agire sociale, in luoghi, spazi, tempi individuati da ciascuna/o secondo il proprio vissuto di esperienze e di culture. Ne è emersa, come sottolinea Paolo Montesperelli “un’economia dei beni – materiali e immateriali – non all’insegna del mercato, ma della soggettività, della socialità, della gratuità, del dono”. E il benessere di un territorio e di una comunità si misura certamente anche sulla forza e sulle forme di una tale “economia”, ancor di più in questa fase di nuove, grandi, tensioni sociali;

7) la possibile crescita di una relazionalità più forte dell’Aur sia con l’Ateneo di Perugia che con gli altri istituti di ricerca di altre regioni (dall’Ires del Piemonte all’Irer della Lombardia, dall’Ervet dell’Emilia all’Irpet della Toscana e all’Ipres della Puglia) al fine di studiare insieme processi e scambiare metodologie, particolarmente nella valutazione quantitativa e qualititativa della incidenza delle politiche pubbliche e più in generale nei circuiti di finanza pubblica che saranno sempre più fondamentali nell’ottica del federalismo.76

Ecco dunque una frontiera significativa che potrebbe avere un ruolo non secondario nell’arricchire l’identità regionale e contribuire a quella globalizzazione dell’Umbria essenziale per la qualità del governi e per il profilo dei soggetti sociali, al fine di avere una comunità regionale, più forte, aperta al futuro e animata da bisogni ricchi e colti.

Claudio Carnieri Presidente dell’Aur

75 Cfr. Paolo Montesperelli, Federica De Lauso, Rosa Rinaldi, Riccardo Cruzzolin, Elisa Fuschi, Culture della partecipazione e forme di aggregazione degli anziani. 76 Cfr. il saggio di Loris Nadotti e Meri Ripalvella nel Rapporto sulla finanza locale che apre non poche piste di riflessione.

Sezione I

IL QUADRO ECONOMICO

IL QUADRO MACRO ECONOMICO E L’EVOLUZIONE DEL MODELLO UMBRO Elisabetta Tondini Il capitolo di apertura del presente Rapporto si pone l’obiettivo di ripercorrere caratteri e linee di sviluppo del sistema economico umbro in un arco di tempo particolarmente significativo sia nella durata che nei fenomeni che lo hanno attraversato. Ciò è reso possibile dal recente lavoro di ricostruzione, revisione, aggiornamento della contabilità territoriale effettuato dall’Istat1, che ha ampliato la serie storica delle principali grandezze economiche regionali e messo a disposizione una base analitica che va dal 1995 al 2008. La visualizzazione del profilo e del percorso evolutivo dell’Umbria economica verrà effettuata, come consuetudine, attraverso il contenuto informativo restituito dalle componenti della offerta aggregata e della domanda aggregata2, che sarà arricchito dall’esplorazione di altri fenomeni, quali la destinazione, il livello e la distribuzione dei redditi, in modo tale da avvicinarci un po’ più alla lettura del grado di benessere del nostro contesto territoriale. I caratteri e le dinamiche locali verranno contestualizzate nel più ampio panorama nazionale tenendo conto delle ripartizioni dell’Italia centro settentrionale e delle altre due regioni mediane, Toscana e Marche, e riservando una visione estesa a tutte le regioni alla trattazione di fenomeni di particolare interesse o di più ampio respiro. Emergerà la medianità dell’Umbria, una piccola regione che riflette le dinamiche del Paese e che ripropone, enfatizzandoli, alcuni punti di debolezza italiani, quelle strozzature che non permettono di beneficiare pienamente dei potenziali vantaggi derivanti dalle fasi espansive, quando queste si verificano. Un’Umbria che ingloba i

1 Ci si riferisce ai nuovi dati contabilità territoriale pubblicati il 15 ottobre 2009 ed ulteriormente aggiustati nel novembre 2009. 2 Nel conto risorse/impieghi l’offerta aggregata (le risorse disponibili) è data dal Pil e dall’import netto proveniente dall’esterno, la domanda aggregata è articolata nella spesa per consumi - delle famiglie e della pubblica amministrazione -, nella spesa per investimenti e nella variazione delle scorte.

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caratteri dei piccoli sistemi definibili “autoreferenziali”, quelli che si reggono prevalentemente sulla domanda interna e con cui devono fare i conti, anche nelle congiunture negative, per i deboli effetti di spill over provenienti dalle interrelazioni con l’esterno. Un’Umbria che si riscatta però quando la si osserva in termini di qualità della vita, come nel Rapporto Economico e Sociale Aur 2007 era stato chiaramente evidenziato3. Dato importante, questo, in una più ampia e complessa visione dello sviluppo che vede i fenomeni economici strettamente interrelati a quelli sociali. E che apre a riflessioni che verranno toccate nel paragrafo conclusivo del presente contributo. Prima di entrare nel dettaglio analitico dei caratteri della domanda, della struttura produttiva, della destinazione dei redditi della nostra regione, si propone un breve inquadramento dell’economia umbra in ambito europeo. L’Umbria nel contesto europeo La dinamica del Pil pro capite calcolato in Purchasing Power Standard 4 dal 1995 al 2006 (l’ultimo anno disponibile) nei Paesi dell’Unione Europea evidenzia una lenta convergenza tra gli Stati economicamente più deboli e quelli più robusti, più che altro perché questi ultimi hanno mostrato negli anni (salvo rare eccezioni) segni di cedimento ed una più o meno diffusa tendenza negativa. Ne è esempio eclatante l’Italia che, a partire dal 2003, finisce per portarsi ben sotto il valore medio dei paesi EU155 e, dal 2005, per accostarsi visibilmente al valore medio dell’EU276 (tab. 1, graf. 1). E le statistiche degli anni più recenti (disponibili solo a livello di Paesi fino al 2008) testimoniano un’Italia che, seguendo questa tendenza negativa, finisce per raggiungere il livello medio dell’area dei 27 (tab. 2). L’Umbria, dal canto suo, ricalca, enfatizzandolo, il trend italiano, tanto che dal 2001 (due anni prima di quanto non abbia fatto l’Italia) finisce per collocarsi sotto il valore medio del gruppo dei 15 (22,6 mila euro è il Pil per abitante espresso a parità di potere d’acquisto contro i 22,7 mila dell’Unione dei 15) e, cinque anni più tardi, con i suoi 22,8 mila euro di PPS per abitante aumenta visibilmente il gap rispetto a un valore medio dei 15 Paesi salito, invece, a 26,5 mila (24,5 mila in Italia) (tab. 1, graf. 1). Il lento allontanamento della regione nei confronti del contesto europeo si avverte, seppure in forma più lieve, annoverando altresì i Paesi di più recente ingresso in Europa: già a partire dal 2005, il Pil pro capite umbro espresso a parità di potere

3 Cfr. Montesperelli et al., 2008. 4 Purchasing Power Standards (PPS) - Standard di potere di acquisto - Unità di conto utilizzata dall’Eurostat per eliminare la differenze nei livelli di prezzo e nei tassi di cambio e permettere i confronti tra le diverse regioni europee basandosi su volumi o unità di beni piuttosto che sui valori. 5 L’EU15 annovera i seguenti Paesi: Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Olanda, Portogallo, Spagna, Svezia, Regno Unito. 6 L’EU27 comprende, oltre ai 15 stati dell’EU15, i seguenti: Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Romania, Repubblica Slovacca, Slovenia.

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d’acquisto diventa inferiore anche a quello medio dell’area estesa ai 27. Ciò è riconducibile a un incremento della grandezza umbra più contenuto rispetto a molte delle regioni e aree di riferimento: dal 1995 al 2006 l’aumento del Pil pro capite in PPS è stato del 30% (a fronte di oltre il 38% di Italia e Toscana e del 39% delle Marche, del 56% dell’EU15) in un processo di divergenza progressivo, inaspritosi soprattutto nell’ultimo quinquennio, quando l’aumento (+1%) del PPS procapite umbro si pone a fronte di più consistenti incrementi italiano (+5,2%), toscano (+4,7%), marchigiano (+5,6%) ma soprattutto dell’Europa dei 15 (+16,7%) e dell’Europa dei 27 (+19,2%) (graff. 2-3). Si ripropone il tradizionale e insistente problema di un inadeguato livello di produttività dell’economia umbra (collegato principalmente al profilo strutturale, alla organizzazione del lavoro, alla quantità di tecnologia incorporata nei processi produttivi) che gli incrementi del tasso occupazionale non riescono a sollevare. Il lavoro aggiuntivo è infatti prevalentemente alimentato da profili a bassa redditività, in un contesto demografico connotato per giunta da un tasso di dipendenza penalizzante (56% contro 51% italiano) che genera una inequivocabile, evidente perdita di competitività del sistema regionale. Sia rispetto all’ambito nazionale che al più ampio quadro europeo. E la fotografia che ne è emersa non sorprende: la situazione umbra riflette la tendenza e le sorti del quadro italiano che, negli ultimi anni, ha perduto colpi rispetto al panorama europeo di riferimento. Tab. 1 - Pil per abitante espresso in Purchasing Power Standards (PPS) in alcune aree, paesi e regioni europee (valori assoluti in migliaia di euro)

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 EU27 14,7 15,4 16,2 17,0 17,8 19,1 19,8 20,5 20,7 21,6 22,5 23,6 EU15 17,0 17,8 18,7 19,5 20,5 22,0 22,7 23,3 23,6 24,5 25,4 26,5 IT 17,7 18,5 19,3 20,3 20,9 22,3 23,3 22,9 22,9 23,1 23,6 24,5 DE 18,9 19,6 20,2 20,8 21,8 22,6 23,1 23,6 24,2 25,2 26,3 27,4 ES 13,4 14,2 15,1 16,2 17,2 18,5 19,4 20,6 20,9 21,9 22,9 24,6 FR 17,0 17,7 18,6 19,5 20,4 22,0 22,9 23,7 23,2 23,8 24,9 25,9 UK 16,6 17,8 19,2 20,0 21,0 22,7 23,7 24,7 25,2 26,7 27,4 28,4 Italia Nord Ovest 22,1 23,1 24,1 25,4 26,0 nd 28,7 28,3 28,4 28,3 28,8 29,8 Italia Nord Est 21,7 22,8 23,6 24,6 25,3 nd 28,3 27,4 27,5 27,6 28,1 29,2 Italia Centrale 19,3 20,0 20,9 22,1 22,9 nd 25,8 25,5 25,5 26,0 26,4 27,3 Toscana 19,3 20,1 21,0 22,1 23,1 nd 25,5 25,1 25,3 25,2 25,7 26,7 Marche 17,7 18,7 19,5 20,1 21,0 nd 23,3 23,1 23,0 23,0 23,5 24,6 Umbria 17,5 18,0 19,0 19,8 20,8 nd 22,6 21,7 21,5 21,8 21,9 22,8

Fonte: nostre elaborazioni su dati Eurostat 2009 (http://nui.epp.eurostat.ec.europa.eu)

DENTRO L’UMBRIA due54

Tab. 2 - PIL per abitante in (PPS) (numeri indice, EU27 = 100)

Stato n.

indiceStato

n. indice

Luxembourg (Grand-Duché) 271,4 European Union (27 countries) 100,0 Norway 190,2 Cyprus 94,7 United States 154,4 Greece 93,9 Switzerland 141,6 Slovenia 90,7 Ireland 136,6 Czech Republic 80,1 Netherlands 135,0 Malta 75,5 Austria 123,2 Portugal 75,5 Sweden 121,5 Slovakia 71,9 Iceland 119,8 Estonia 68,2 Denmark 118,4 Croatia 63,1 United Kingdom 117,2 Hungary 62,8 Germany (including ex-GDR from 1991) 116,1 Lithuania 61,1

Finland 115,1 Poland 57,6 Belgium 113,9 Latvia 55,8 Japan 111,0 Romania 45,8 European Union (15 countries) 110,8 Turkey 45,5 France 107,4 Bulgaria 40,2 Spain 103,4 Republic of Macedonia 32,5 Italy 100,5 Cyprus 94,7

Fonte: Eurostat, 26 ott 2009. Graf. 1 - Evoluzione del Pil per abitante espresso in PPS dal 1995 al 2006 (valori percentuali)

Numeri indice, EU27=100 Numeri indice, EU15=100

90

95

100

105

110

115

120

125

130

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006

Val

ori %

IT Umbria ES DE FR UK

75

80

85

90

95

100

105

110

115

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006

Val

ori %

IT Umbria ES DE FR UK

* Il dato per l’Umbria al 2000 non è disponibile.

Fonte: nostre elaborazioni su dati Eurostat 2009 (http://nui.epp.eurostat.ec.europa.eu)

AURAPPORTI: RES 2008-09 55

Graf. 2 - Dinamica del livello di Pil pro capite in PPS dal 1995 al 2006

3.0004.0005.0006.0007.0008.0009.000

10.00011.00012.00013.000

EU27

EU15

DE

ES

FR

IT

UK

Italia

Nor

dO

vest

Italia

Nor

dEs

t

Italia

Cen

trale

Tosc

ana

Mar

che

Um

bria

Euro

010

203040

506070

8090

Val

ori %

Variazioni assolute

Variazioni % (scala dx)

Fonte: nostre elaborazioni su dati Eurostat 2009 (http://nui.epp.eurostat.ec.europa.eu) Graf. 3 - Dinamica del livello di Pil pro capite in PPS dal 2001 al 2006

0

1.000

2.000

3.000

4.000

5.000

6.000

EU

27

EU

15

DE

ES

FR

IT

UK

Italia

Nor

dO

vest

Italia

Nor

dE

st Italia

Cen

trale

Tosc

ana

Mar

che

Um

bria

Eur

o

0

5

10

15

20

25

30

Valo

ri %

Variazioni assolute

Variazioni % (scala dx)

Fonte: nostre elaborazioni su dati Eurostat 2009 (http://nui.epp.eurostat.ec.europa.eu) Prodotto interno lordo e dipendenza dall’esterno I contraccolpi della crisi che ormai da oltre due anni ha investito le economie mondiali si sono tradotti, inizialmente (dal 2008 rispetto all’anno precedente), in un arretramento della produzione reale che l’Istat ha stimato per l’Umbria pari a -1,5% (a fronte di -1,0% nazionale). Come conseguenza, il reddito pro capite effettivo ha subito una contrazione più accentuata nella regione, così che il gap si è portato a 7 punti percentuali rispetto al livello italiano (graf. 4). Dunque, anche in ambito nazionale (come già visto all’interno del contesto europeo) nel 2008 perdura e si accentua la debolezza umbra perché il Pil pro capite segna un calo (-2,6%) più elevato di quello italiano (-1,8%) e di quello di Marche e Toscana (rispettivamente -2,3% e -1,7%) (tab. 3). D’altra parte, anche in un contesto di espansione (il 2007), quando il Pil reale umbro è salito dell’1,3% rispetto all’anno precedente (a fronte di +1,6% dell’Italia), il valore pro

DENTRO L’UMBRIA due56

capite è rimasto quasi stazionario, con una crescita della forbice nei confronti della media nazionale. E difatti, osservando i differenziali Umbria-Italia di detta grandezza nel lungo periodo, si evince un peggioramento, seppure tra alti e bassi, della posizione regionale (graff. 4-5). Le ragioni di questo andamento devono essere ricercate nella duplice dinamica del Pil e della popolazione che in Umbria ha mostrato tassi di crescita particolarmente sostenuti, superiori a quelli nazionali e toscani e, dal 2003, anche a quelli marchigiani (tab. 3, graf. 6). Dal 1995 al 2008, il tasso annuo medio di crescita della popolazione è stato in Umbria dello 0,7% (dello 0,6% nelle Marche e dello 0,4% in Toscana e in Italia). In questo quadro il caso umbro appare in controtendenza rispetto ai comportamenti che di solito emergono raffrontando aree caratterizzate da una diversa forza economica (espressa in questo caso dal livello di Pil pro capite), per i quali “L’esperienza dell’ultimo ventennio mostra come la differenza nei livelli di prodotto per abitante tenda a riaprirsi nelle fasi cicliche ascendenti e a richiudersi in quelle discendenti. L’aumento delle disparità regionali nelle fasi di crescita non è certo una novità, ed è legato alla disomogenea presenza sul territorio delle aree più recettive alla domanda nazionale e internazionale” (Svimez 2009, p. 8). A ben guardare, la regione si configura con una certa peculiarità mostrando, quasi sempre, ampliamenti del differenziale del Pil pro capite rispetto all’Italia nelle fasi recessive e riduzioni in quelle espansive, in corrispondenza di un’enfatizzazione dei tassi evolutivi del Pil locale rispetto a quelli registrati su scala nazionale (in Umbria si registrano quasi sempre più elevati incrementi del Pil nelle congiunture positive e decrementi più evidenti in quelle negative). Pertanto, nel biennio 2007-8, la fase recessiva dell’economia umbra verificatasi in maniera più accentuata rispetto all’Italia, da un lato, e la maggiore crescita demografica, dall’altro, hanno acuito la divergenza della nostra regione nei confronti della media nazionale in termini di Pil unitario (tab. 3, graff. 4,6). Un livello di reddito “inadeguato”, ovvero una capacità produttiva insufficiente per una compagine regionale caratterizzata da una domanda comunque difficilmente comprimibile, si riflette in una dipendenza dall’esterno espressa, a sua volta, in segno e in intensità, dalla quota tra il saldo delle importazioni nette7 e il Pil. Questo saldo, per l’Umbria strutturalmente positivo8 (+6,4% nel 2007, ultimo anno a disposizione) testimonia la difficoltà interna del sistema a produrre merci e servizi pienamente in linea con le dinamiche della domanda complessiva, interna ed esterna (graf. 7). 7 Quando le importazioni nette (il saldo tra la domanda verso l’esterno e l’offerta all’esterno) sono positive significa che l’entità dei beni e servizi domandati – sia internamente alla regione che dall’esterno – supera il valore della produzione regionale ovvero che il Pil, da solo, non è sufficiente a soddisfare la domanda complessiva proveniente dal sistema “aperto” e, per tale motivo, viene incrementato dai beni e i servizi di importazione. In tal modo, la somma tra il Pil (l’insieme dei redditi prodotti internamente alla regione) e l’import netto fornisce il complesso delle risorse del sistema territoriale che trovano una corrispondente destinazione per usi finali interni distinti tra consumi e investimenti. Dunque, il segno di tale grandezza esprime l’esposizione verso l’esterno, il valore, l’entità del fenomeno. 8 A partire dal 1980 ad oggi, soltanto nel triennio 1982-1984 tale grandezza ha assunto per l’Umbria segno negativo.

AURAPPORTI: RES 2008-09 57

Le Marche, pure con un saldo netto generalmente positivo, si caratterizzano per una esposizione esterna più favorevole (che inverte peraltro segno nell’ultimo anno a disposizione, oltre che nel 2005); la Toscana, all’opposto, nonostante una forte sollecitazione sulle risorse disponibili proveniente dalla domanda estera, si configura per un valore dell’import netto negativo, a causa di una dimensione economica (Pil generato) assai più rilevante (graf. 7). Tab. 3 - Dinamica reale della popolazione, del Pil, del Pil procapite (valori percentuali)

Popolazione Pil Pil pro capite

Variazione relativa Differenziale con Italia 2007 - 2008

Umbria +1,2 -1,5 -2,6 -7,0 Toscana +1,0 -0,8 -1,7 +9,0 Marche +1,1 -1,2 -2,3 +1,3 Italia +0,8 -1,0 -1,8 -

1995-2008 (media annua) Umbria +0,7 +1,3 0,6 -0,5 Toscana +0,4 +1,3 0,9 +9,1 Marche +0,6 +1,8 1,1 +0,5 Italia +0,4 +1,3 0,9 -

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Graf. 4 - Dinamica reale del Pil in Umbria e Italia e differenziali del Pil per abitante (1995-2008)

-3,9

-5,5-4,9 -4,7

-3,4 -3,2 -3,1

-4,7-5,4 -5,2

-6,3-5,7

-6,2

-7,0-3

-2

-1

1

2

3

4

5

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

Val

ori %

-8,0

-6,0

-4,0

-2,0

0,0

2,0

4,0

6,0

8,0diff. Pil pro capiteUmbria/ItaliaVariazioni Pil Italia

Variazioni Pil Umbria

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat.

DENTRO L’UMBRIA due58

Graf. 5 - Pil procapite in Umbria, Toscana, Marche e Italia (1995-2008) (livelli e dinamica reale, espressa in numeri indici, 1995=100)

13.000

15.000

17.000

19.000

21.000

23.000

25.000

27.000

29.000

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

Euro

cor

rent

i

95

100

105

110

115

120

125

Num

eri i

ndic

e, It

alia

=100

UmbriaItaliaToscanaMarcheUmbria, din.reale (sc.dx)Italia, din.reale (sc.dx)Toscana. din.reale (sc.dx)Marche, din.reale (sc.dx)

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Graf. 6 - Dinamica demografica dal 1995 al 2008. Variazioni annue (valori percentuali)

-0,4

-0,2

0,0

0,2

0,4

0,6

0,8

1,0

1,2

1,4

1,6

1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

Val

ori %

UmbriaToscanaMarcheItalia

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat

AURAPPORTI: RES 2008-09 59

Graf. 7 - Grado di dipendenza economica di Umbria, Toscana, Marche (1995-2007)

4,45,1 5,2

5,7

4,5

8,3

6,1

5,1

3,7

6,4

-2,8 -2,5 -2,4 -2,7 -2,6 -2,5 -2,4 -2,6

-1,5 -1,1

-2,4

-0,8

2,81,3 2,0

3,32,4

3,5

1,1 2,13,5

3,03,6 3,5

-0,8

0,3

-1,1

0,6-0,2

-4

-3

-2-1

0

1

23

4

5

6

78

9

10

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007

Impo

rt ne

tto /

Pil

%

Umbria Toscana Marche

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat La dipendenza dall’esterno analizzata attraverso l’incidenza del saldo netto dell’import sul Pil è un fenomeno inversamente correlato al livello di Pil pro capite, in quanto all’aumentare della forza economica di una regione diminuisce il valore di tale rapporto che, da positivo, diventa negativo assumendo valori assoluti via via più elevati. Una visualizzazione delle regioni italiane su un piano cartesiano (ove le ascisse riportano la quota del saldo netto sul Pil e le ordinate il Pil pro capite) mostra un’Italia che corre dall’alto a sinistra verso destra in basso seguendo (all’incirca) la direzione Nord-Sud e – come sempre – un’Umbria che fa da spartiacque tra due ripartizioni: quella più robusta dell’Italia centro settentrionale e quella più debole del Sud: ancora una volta ultima tra le regioni del centro nord e prima tra quelle meridionali (graf. 8). Altra caratteristica dell’import netto è la capacità di riflettere la dinamica degli investimenti, una variabile che attiva fortemente la domanda esterna9 anche (non solo) quando la capacità di risposta del sistema produttivo alle sollecitazioni provenienti da una certo tipo di domanda è insufficiente o inadeguata. Questo fenomeno, per l’Umbria, trova una significativa visualizzazione grafica (graf. 9).

9 “E’ ormai noto, per l’Umbria, il fenomeno che vuole gli effetti in termini di impatto sul valore aggiunto generato da una domanda unitaria di investimenti più bassi di quelli prodotti da tutte le altre componenti di domanda, e che questo stimolo iniziale attivi una elevata quantità di import. E in questo fenomeno si racchiudono il senso e le conseguenze generate da una certa dipendenza dall’esterno dell’Umbria che, talora, costituisce elemento di debolezza, ma che per altro verso potrebbe rappresentare anche terreno di nuovo sviluppo” (Tondini, 2007, p. 55).

DENTRO L’UMBRIA due60

Graf. 8 - Posizionamento delle regioni* italiane attraverso il tasso di dipendenza dall’esterno e il Pil pro capite (2007)

R 2 = 0,94

15

20

25

30

35

-14 -9 -4 1 6 11 16 21 26 31Import netto / Pil (%)

Pil p

er a

bita

nte

(mig

liaia

di e

uro

corr

enti)

Umbria

Lombardia

Toscana PiemonteFVG

Veneto

E.Romagna

Lazio

Basilicata

Abruzzo

LiguriaMarche

Sicilia

CampaniaPuglia

Sardegna

MoliseCalabria

* Le province del Trentino Alto Adige e la Valle d’Aosta sono state escluse dal grafico perché, a causa di valori non in linea con quelli delle altre regioni, avrebbero compromesso la rappresentatività dei risultati in termini di restituzione grafica. Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Graf. 9 - Dinamica del tasso di accumulazione del capitale e del tasso di dipendenza dall’esterno in Umbria (1995-2007)

18

19

20

21

22

23

24

25

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007

Valo

ri %

0

1

2

3

4

5

6

7

8

9

Valo

ri %

INV / PIL (scala sx)

IMP netto / PIL (scala dx)

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat La insufficiente disponibilità di risorse prodotta nella regione si evince (specularmente) osservando la quota del Pil sull’offerta disponibile, per l’Umbria (come anche per l’Italia, che dal 2002 mostra una ininterrotta esposizione netta verso l’esterno positiva), strutturalmente inferiore a 100 (94% nel 2007) (tab. 4). Le Marche, tradizionalmente

AURAPPORTI: RES 2008-09 61

esposte alla dipendenza dall’esterno (anche se in maniera più contenuta dell’Umbria), negli ultimi tre anni cominciano a manifestare un rafforzamento tanto che, nel 2007, invertono il segno mostrando una posizione più favorevole di quella toscana. Quanto alla domanda, in Umbria (similarmente a quanto accade per Marche e Italia) il 78,5% proviene da spesa per consumi finali; oltre un quinto, invece, è rivolta al potenziamento di investimenti fissi lordi10. Il settentrione d’Italia spende relativamente un po’ meno per consumi (ma solo per il più basso contributo della componente pubblica) a vantaggio degli investimenti (che nell’area nordorientale raggiungono il 23% della domanda). All’Umbria spettano sia la più alta quota di spesa per consumi finali collettivi (il 21% della domanda interna totale, superiore a quella relativa agli IFL) che il più basso apporto della spesa delle famiglie (57,4%). Questa diversa ripartizione degli aggregati di domanda si riflette anche in termini di valori unitari (tab. 5): in Umbria, il più basso livello di spesa pro capite per consumi finali privati (15mila euro al 2007, 500 euro in meno del dato italiano) è recuperato dalla componente pubblica, che spende in consumi finali 5 mila e 500 euro per abitante, 400 euro in più dell’Italia. Alla fine, il livello di consumi finali interni per abitante (20.500 euro) riesce quasi ad eguagliare quello italiano e marchigiano a fronte però, come visto, di un permanente divario in termini di reddito unitario prodotto (24.500 euro contro 26.300 medio nazionale, 26.700 marchigiano, 28.700 toscano, 31.600 della ripartizione nord occidentale). L’Italia nord orientale è l’area dove (ad eccezione della componente di domanda pubblica che, comunque, uguaglia la media nazionale) si spende unitariamente di più per i consumi totali ed, in particolare, per quelli delle famiglie. Tab. 4 - Quota del Pil sulle Risorse e quota delle componenti di domanda finale sugli Impieghi (valori %, 2007)

Umbria Toscana Marche Italia Nord Ovest

Nord Est

Prodotto interno lordo 94,0 100,8 101,1 98,8 107,9 103,0 Risorse = Impieghi 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 Consumi finali interni 78,5 79,8 78,4 78,5 77,1 76,3 di cui Spesa per consumi finali delle famiglie 57,4 61,4 58,9 58,7 60,2 58,9 Spesa per consumi finali delle AaPp + Isp 21,1 18,4 19,5 19,8 16,9 17,4 Investimenti fissi lordi 20,4 19,6 20,7 21,0 22,3 22,9 Variazione delle scorte e oggetti di valore 1,1 0,6 0,9 0,6 0,6 0,8

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat

10 La frazione mancante per arrivare a cento è la quota sulla domanda della variazione delle scorte che, nel 2007, in Umbria finisce per superare l’1%.

DENTRO L’UMBRIA due62

Tab. 5 - Valori pro capite caratteristici (migliaia di euro correnti - 2007, 2008)

Umbria Toscana Marche ItaliaNord Ovest

Nord Est

Prodotto interno lordo (2007) 24,5 28,4 26,5 26,0 31,4 31,0 Consumi finali interni (2007) 20,5 22,5 20,6 20,7 22,4 23,0 di cui Spesa per consumi finali delle famiglie (2007) 15,0 17,3 15,5 15,5 17,8 18,0 Spesa per consumi finali delle AaPp + Isp (2007) 5,5 5,2 5,1 5,2 4,9 5,2 Prodotto interno lordo (2008) 24,5 28,7 26,7 26,3 31,6 31,3 Spesa per consumi finali delle famiglie (2008) 15,1 17,5 15,5 15,7 17,5 17,8

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Il reddito quale determinante la spesa per consumi finali delle famiglie La spesa per consumi delle famiglie risultante dalla contabilità territoriale, seppure alimentata in parte (in Umbria circa il 10%)11 dalla domanda dei turisti nel territorio regionale e seppure non esaurisca la spesa per usi finali espressa dai residenti (che possono spendere fuori della propria regione), è fortemente condizionata dal reddito delle famiglie presenti sul territorio. Facendo riferimento ai Conti regionali delle famiglie diffusi dall’Istat12, l’Umbria, storicamente caratterizzata da un reddito disponibile13 pro capite superiore alla media nazionale, nel 2006 tende ad allinearsi al valore italiano (17.440 euro contro 17.214), continua (come già dal 2002) ad essere superata da quello marchigiano (con 17.926 euro nel 2006) e a mantenere un elevato gap rispetto a quello toscano (19.165 euro) (graf. 10).

11 Sono stime da tavole input-output riferite al 2002 (cfr. E. Tondini, 2007, p. 91). In Toscana, la spesa dei turisti incide sulla spesa interna delle famiglie del 13%, a fronte del 7,5% rilevato nel resto d’Italia (ivi, p. 65). 12 Nei Conti Regionali per le famiglie, che danno origine all’analisi Il reddito disponibile delle famiglie nelle regioni italiane, l’Istat considera le famiglie come “unità uni-regionali e il loro centro di interesse economico coincide con la regione nella quale esse risiedono (per le unità consumatrici) o nella quale è localizzata l’impresa che esse gestiscono (per le unità produttrici). La logica sottostante la costruzione dei Conti Regionali per le famiglie è, dunque, quella di ricondurre nella regione di residenza gli effetti economici di tutte le operazioni che le unità ivi residenti compiono anche al di fuori di tale territorio”. 13 Il Reddito lordo disponibile è l'aggregato che esprime i risultati economici conseguiti dalle famiglie residenti nella regione in analisi. Si calcola sommando ai redditi primari le operazioni di redistribuzione secondaria del reddito (imposte, contributi e prestazioni sociali, altri trasferimenti netti) (Istat).

AURAPPORTI: RES 2008-09 63

Graf. 10 - Reddito primario pro capite, reddito disponibile pro capite, incidenza delle prestazioni sociali sul reddito primario (2006)

18.67119.995 19.347

23.589 23.078

17.440

19.16517.926

17.214

20.283 19.926

12.717

13.206

21.414

30,227,6 26,7 27,4 26,5 25,5

29,6

10.000

12.000

14.000

16.000

18.000

20.000

22.000

24.000

26.000

28.000

30.000

Umbria Toscana Marche Italia Nord-ovest Nord-est Mezzogiorno

Mig

liaia

di e

uro

corre

nti

0

5

10

15

20

25

30

35

Val

ori %

reddito primario pro-capite reddito disponibile pro-capite prestazioni sociali/reddito primario (scala dx) Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Il confronto effettuato considerando il reddito primario14, la grandezza che misura la capacità di generare reddito (ed il cui livello è fortemente determinato dalle retribuzioni del lavoro e dalle rendite finanziarie delle famiglie), vede l’Umbria posizionarsi su valori inferiori, oltre che alle Marche e, soprattutto, alla Toscana, – a partire dal 2002 – anche a quelli medi italiani, per un ampliamento della forbice nei confronti sia delle due regioni confinanti che del contesto nazionale (tab. 6). L’Umbria recupera in parte il gap relativo al reddito primario con l’operazione redistributiva15 per effetto soprattutto delle prestazioni sociali16 che, nel 2006, incidono sul reddito disponibile per il 30,1% (a fronte del 27,7% della Toscana, del 27,4% italiano e del 29,6% del Mezzogiorno; le Marche, invece, similarmente al Nord Ovest, si collocano con un 26,8%) (tab. 7).

14 Il Reddito primario rappresenta la remunerazione dei fattori produttivi. In generale è dato dall'insieme dei seguenti aggregati: Redditi da lavoro dipendente, Risultato di gestione (il reddito netto delle famiglie attribuibile sostanzialmente alla proprietà delle abitazioni), Reddito misto (il reddito rinveniente dalle attività imprenditoriali svolte dalle famiglie), Redditi da capitale netti (percepiti dalle famiglie a titolo di interessi, dividendi e utili distribuiti dalle imprese, fitti di terreni e rendimenti di polizze assicurative) (Istat, db_regfam_ed2005). 15 L’operazione redistributiva interviene sul reddito primario aggiungendo con i trasferimenti pubblici (pensioni e interventi di welfare locale) e togliendo attraverso l’imposizione fiscale (che finisce per pesare proporzionalmente di più in presenza di redditi mediamente più elevati) e i contributi sociali. 16 Prestazioni sociali: comprendono i trasferimenti correnti, in denaro o in natura, corrisposti alle famiglie al fine di coprire gli oneri alle stesse per il verificarsi di determinati eventi (malattia, vecchiaia, morte, disoccupazione, assegni familiari, infortuni sul lavoro, ecc.). Le prestazioni sociali comprendono i trasferimenti correnti e forfettari dai sistemi di sicurezza sociale, i trasferimenti dai sistemi privati di assicurazione sociale con e senza costituzione di riserve, i trasferimenti correnti da amministrazioni pubbliche e istituzioni senza scopo di lucro al servizio delle famiglie non subordinati al pagamento di contributi (assistenza).

DENTRO L’UMBRIA due64

Tab. 6 - Reddito primario pro capite dal 2001 al 2006 (numeri indice, Italia = 100) 2001 2002 2003 2004 2005 2006

Umbria 100,1 97,8 96,6 98,4 97,2 96,5

Toscana 111,7 110,7 111,5 111,0 110,7 110,7

Marche 103,4 103,2 103,3 103,7 103,7 103,3

Italia 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0

Nord Ovest 121,8 121,7 121,1 121,8 121,6 121,9

Nord Est 120,9 120,2 120,1 119,5 119,2 119,3

Mezzogiorno 68,5 68,5 68,5 67,8 68,2 68,3

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Tab. 7 - Incidenza delle prestazioni sociali procapite sul reddito disponibile procapite 2001 2002 2003 2004 2005 2006

Valori % Umbria 27,7 28,9 30,0 29,4 29,6 30,1 Toscana 26,2 26,7 27,2 27,3 27,2 27,7 Marche 25,4 25,7 26,3 26,3 26,1 26,8 Italia 25,7 26,2 26,8 26,9 26,9 27,4 Nord Ovest 25,6 26,0 26,7 26,3 26,3 26,6 Nord Est 24,1 24,4 25,2 25,1 25,3 25,6 Mezzogiorno 26,6 27,5 28,3 28,9 29,1 29,6

Numeri indice, 2001=100 Umbria 100 104,3 108,3 106,1 106,9 108,7 Toscana 100 101,9 103,8 104,2 103,8 105,7 Marche 100 101,2 103,5 103,5 102,8 105,5 Italia 100 101,9 104,3 104,7 104,7 106,6 Nord Ovest 100 101,6 104,3 102,7 102,7 103,9 Nord Est 100 101,2 104,6 104,1 105,0 106,2 Mezzogiorno 100 103,4 106,4 108,6 109,4 111,3

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Tale maggiore incidenza è un elemento che si è andato rafforzando nel tempo: infatti, in un contesto di generale crescita di suddetta quota nelle regioni e aree benchmark, l’Umbria è stata dal 2001 al 2006 seconda per intensità solo al Mezzogiorno. I vantaggi competitivi dell’Umbria conseguenti alle operazioni di redistribuzione si affievoliscono negli anni: il margine positivo recuperato con la redistribuzione dei redditi si erode rispetto all’Italia (passando da 5,0 e da 1,3 punti posto il Paese = 100) ed anche rispetto a Marche e Toscana, che convergono sui valori medi nazionali in maniera molto più blanda (tab. 8).

AURAPPORTI: RES 2008-09

65

Tab. 8 - Reddito disponibile pro capite dal 2001 al 2006 (numeri indice, Italia = 100) 2001 2002 2003 2004 2005 2006 Umbria 105,0 103,6 102,4 103,9 102,2 101,3 Toscana 113,3 112,4 113,0 112,2 111,8 111,3 Marche 104,8 105,2 104,5 104,3 105,1 104,1 Italia 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 Nord Ovest 117,8 117,9 117,4 118,0 117,7 117,8 Nord Est 117,6 117,1 116,9 116,3 116,0 115,8 Mezzogiorno 73,8 73,8 73,6 73,0 73,4 73,9

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat La situazione all’anno 2006, fotografata per tutte le regioni sulla base del reddito primario e del reddito disponibile pro capite, riconferma un’Umbria ultima regione del Centro Nord e prima del Sud, e la pone, unica insieme al Lazio, con valori più bassi rispetto alla media italiana come reddito primario ma più elevati quanto a reddito disponibile (graf. 11). Per il Mezzogiorno si ha una nuvola di punti ben individuabile, piuttosto distante dal resto d’Italia e caratterizzata interamente, oltre che da livelli reddituali molto più bassi di quelli medi nazionali, da un fenomeno redistributivo ovunque favorevole (i punti sono posizionati tutti al di sopra della bisettrice) per un’attenuazione della divergenza dal dato nazionale riscontrata originariamente in termini di reddito primario. Di contro, le regioni settentrionali (escluse Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige), insieme a Toscana e Marche si caratterizzano per entrambi gli indicatori superiori al dato medio italiano ma in presenza di una redistribuzione penalizzante. Graf. 11 - Regioni e ripartizioni italiane posizionate in base al reddito disponibile pro capite e al reddito primario pro capite (anno 2006, Italia = 100)

60

70

80

90

100

110

120

130

140

60 70 80 90 100 110 120 130 140

Reddito primario pro-capite

Red

dito

dis

poni

bile

pro

-cap

ite

UMBRIA Lazio

FVG

TrentoMarche

Bolzano

ToscanaVenetoLiguria

Valle d'Aosta

Piemonte

E Romagna

Lombardia

AbruzzoMolise

Campania

PugliaBasilicata

Sardegna

Sicilia

Calabria

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat

DENTRO L’UMBRIA due66

Un altro modo per analizzare il livello di reddito disponibile delle famiglie è quello di attingere ai dati della rilevazione annuale dell’Istat su Reddito e condizioni di vita17. Secondo questa fonte, nel 2006 le famiglie umbre potevano contare su 28.847 euro annui di reddito netto (valore mediano) che sale a 35.784 euro se si considera il valore medio18 (tab. 9). Superiore in entrambi i casi al dato nazionale ma inferiore a Marche e Toscana. Tab. 9 - Reddito netto familiare (inclusi i fitti imputati) nel 2006

Media mediana

Euro N. indice, Italia=100 Euro N. indice,

Italia=100 Emilia-Romagna 38.609 115,2 Trentino Alto Adige 33.466 119,4 Trentino Alto Adige 38.563 115,1 Toscana 33.003 117,8 Toscana 38.110 113,7 Emilia-Romagna 32.989 117,7 Lombardia 37.616 112,3 Veneto 31.392 112,0 Lazio 36.645 109,4 Lombardia 31.374 112,0 Veneto 35.880 107,1 Lazio 30.523 108,9 Marche 35.814 106,9 Marche 30.460 108,7 Umbria 35.784 106,8 Friuli-Venezia Giulia 29.745 106,2 Valle d'Aosta 34.567 103,2 Umbria 28.847 103,0 Friuli-Venezia Giulia 34.254 102,2 Piemonte 28.322 101,1 Piemonte 33.861 101,1 Italia 28.020 100,0 Italia 33.509 100,0 Valle d'Aosta 27.716 98,9 Liguria 31.121 92,9 Liguria 26.774 95,6 Sardegna 30.607 91,3 Sardegna 26.141 93,3 Abruzzo 30.536 91,1 Abruzzo 25.895 92,4 Puglia 28.245 84,3 Puglia 23.894 85,3 Campania 27.908 83,3 Campania 23.758 84,8 Molise 26.398 78,8 Molise 23.218 82,9 Basilicata 25.840 77,1 Basilicata 22.726 81,1 Calabria 25.183 75,2 Sicilia 20.688 73,8 Sicilia 24.656 73,6 Calabria 20.627 73,6

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat 17 “Il reddito netto familiare considerato dall’indagine è pari alla somma dei redditi da lavoro dipendente e autonomo, di quelli da capitale reale e finanziario, delle pensioni e degli altri trasferimenti pubblici e privati al netto delle imposte personali, dell’Ici e dei contributi sociali a carico dei lavoratori dipendenti ed autonomi” (Istat, 2009d, Nota metodologica e glossario). Tale grandezza, rilevata con indagine campionaria sulle famiglie residenti registrate nelle Anagrafi comunali, non è perfettamente comparabile con il reddito disponibile aggregato del settore Famiglie, riportato nei Conti nazionali, che include invece tutte le famiglie presenti da più di un anno sul territorio nazionale (quindi, per esempio, anche gli immigrati irregolari) ed include altresì una stima dell’economia “sommersa” che sfugge attraverso un’indagine campionaria condotta presso le famiglie. 18 Il reddito medio esprime, dato l’ammontare complessivo rilevato per l’intero collettivo, il livello di reddito che spetterebbe a ciascuna famiglia se esso fosse uguale per tutte; il reddito mediano rappresenta, invece, ordinando le famiglie dalla più povera alla più ricca, il valore del reddito che divide in due metà esatte le famiglie con reddito inferiore alla mediana e quelle con reddito superiore. Il valore medio e mediano sarebbero uguali se la distribuzione delle famiglie secondo il reddito percepito fosse perfettamente simmetrica. Poiché la distribuzione dei redditi è invece fortemente asimmetrica, nel senso che ci sono più famiglie con poco reddito di quante se ne contano con molto reddito, e poiché di solito si incontrano (poche) famiglie con redditi molto elevati, che aumentano la media più di quanto non accada per la mediana, il reddito medio risulta sempre superiore a quello mediano e la maggioranza delle famiglie risulta avere un reddito inferiore alla media (Calzola 2008, p. 228).

AURAPPORTI: RES 2008-09 67

Quasi la metà delle famiglie umbre possiede un reddito netto equivalente19 compreso tra 10 mila e 30 mila euro, ed è la quota più rilevante rispetto alla media italiana e alle due regioni limitrofe (addirittura dieci punti superiori al valore toscano) (tab. 10). Tab. 10 - Reddito netto familiare equivalente, inclusi i fitti imputati, per classi di ampiezza (2006)

Fino a 10.000 euro

da 10.000 a 30.000

da 30.000 a 50.000

oltre 50.000 TOTALE

Umbria Ns * 49,2 28,0 19,2 100,0 Toscana Ns * 39,2 35,6 22,7 100,0 Marche Ns * 45,7 30,6 20,6 100,0 Italia 5,5 48,9 28,8 16,7 100,0

* Il dato è non significativo.

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Presenta invece due punti e mezzo in più rispetto al contesto nazionale nella coda reddituale più ricca (con un 19,2% di famiglie con un reddito superiore a 50 mila euro, un po’ meno della quota di Marche e, soprattutto, Toscana). Confrontando la suddivisione per quintili20 dei redditi familiari netti equivalenti delle regioni con quella italiana, considerata equidistribuita21, l’Umbria si presenta sia con una quota di famiglie più ricche – quelle dell’ultimo quintile – relativamente più bassa (contrariamente a Marche e Toscana), sia con una quota di famiglie più povere (quelle che ricadono nel primo quintile) più contenuta, anche se più elevata di Marche e Toscana. Le famiglie umbre sono più concentrate nelle classi di reddito centrali rispetto sia all’Italia che alle due regioni confinanti, evidenziando una distribuzione dei redditi familiari più sbilanciata verso le classi più povere. Al contrario, la Toscana spicca per una distribuzione evidentemente sbilanciata verso destra, fenomeno che si ripropone, seppure in forma solo accennata, per le Marche. In definitiva, anche nel 2006 la distribuzione dei redditi in Umbria è più omogenea di quella italiana, come sintetizza il più basso indice di concentrazione di Gini (0,274 contro 0,296). Tuttavia, nella graduatoria delle regioni in ordine crescente all’inasprirsi della disparità distributiva, l’Umbria dal 2003 al 2006 passa dall’8° al 12° posto, per un’accentuazione del fenomeno, insieme a Basilicata e Marche, le uniche tre regioni che dal 2003 mostrano un inasprimento della disuguaglianza nella ripartizione dei redditi familiari (graff. 12-13). In generale, infatti, si assiste ad un evidente processo di

19 Il reddito familiare equivalente è una misura del reddito corretta rispetto alla dimensione familiare. 20 Nella distribuzione per quintili dei redditi, ogni quinto, concentrando un 20% di reddito, è ottenuto dopo avere ordinato le famiglie a partire da quella con il reddito più basso fino a quella con il reddito più alto. 21 La distribuzione dei redditi familiari italiani viene posta come modello riferimento, per cui ogni quintile di reddito viene percepito dal 20% di famiglie. Pertanto i dati delle singole regioni sono standardizzati sulla distribuzione italiana.

DENTRO L’UMBRIA due68

attenuazione degli squilibri distributivi regionali, per un calo dell’indice di Gini medio italiano. In questo contesto, le Marche, prime nella graduatoria nel 2003, finiscono tre anni dopo all’8° posto. La Toscana, regione con la distribuzione dei redditi tra le più equilibrate d’Italia (terza nel 2003), pur seguendo il trend della maggior parte delle regioni, scende al 5° posto. Graf. 12 - Famiglie per quinti di reddito netto equivalente, inclusi i fitti imputati (2006) (Italia = 20)

13,4

8

11,5

21,3

15,7

21,923,5

21,122,922,9

27,3

22,7

18,8

28,0

21,0

0

5

10

15

20

25

30

Umbria Toscana Marche

Valo

ri %

Primo

Secondo

Terzo

Quarto

Quinto

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Graf. 13 - Regioni in base all’indice di concentrazione di Gini relativo alla distribuzione dei redditi netti delle famiglie al 2003 e 2006

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat L’analisi per tipo di reddito percepito dalle famiglie evidenzia la strutturale caratteristica umbra relativa alla più forte dipendenza dai trasferimenti pubblici, che nel 2006 coprono il 41,0% dei redditi totali (a fronte del 38,8% italiano, il 38,7% e il 39% di Marche e Toscana) (tab. 11). Inoltre, più della metà degli umbri con più di 15 anni percettori di redditi fruiscono di trasferimenti pubblici e detti trasferimenti sono rappresentati, nel 36,6% dei casi, da pensioni (più di quanto non si verifichi in Italia,

AURAPPORTI: RES 2008-09 69

Toscana e Marche). Il valore medio dei trasferimenti pubblici umbri è superiore a quello medio italiano ed anche a quello marchigiano, tuttavia l’Umbria scende sotto il valore nazionale (pur rimanendo superiore alle Marche) isolando la componente pensionistica. Tab. 11 - Livelli e ruoli dei Trasferimenti pubblici, di cui Pensioni, sui redditi disponibili delle famiglie (2006)

Trasferimenti pubblici Pensioni

% di percettori

Livello medio (€)

% su redditi totali

% di percettori

Livello medio (€)

Umbria 50,2 9.147 41,0 36,6 11.584 Toscana 49,2 9.168 39,0 35,5 11833 Marche 49,8 8.810 38,7 35,1 11.396 ITALIA 47,3 8.775 38,8 32,1 11.681

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Le componenti di domanda interna e il contributo alla evoluzione del Pil I ruoli e gli equilibri tra le grandezze del conto risorse e impieghi osservati lungo una prospettiva di lungo periodo (dal 1995) evidenziano, a livello nazionale (ma anche per le due ripartizioni del nord Italia) la prosecuzione del fenomeno che aveva caratterizzato per oltre un ventennio – a partire dagli anni ottanta – i sistemi più avanzati e che vedeva i consumi finali crescere a tassi più elevati dell’economia22. Con il risultato di un ampliamento della quota della spesa per consumi interni sul Pil. In Umbria, dal 1995 al 2007, lungo una serie di alti e bassi, tale rapporto torna alla fine al livello di partenza (83,5%, mezzo punto in più di 13 anni prima); stesso fenomeno si ritrova in Toscana, mentre in controtendenza rispetto al contesto nazionale figurano le Marche, per cui l’accelerazione del Pil è segnata da tassi più elevati di quelli dei consumi, per un visibile calo di tale rapporto (graf. 14). Se questo vale, in linea di massima, per la componente privata (spesa delle famiglie per consumi finali), non si verifica invece per la componente pubblica23, la cui quota sul Pil cresce indistintamente ovunque (anche se nelle Marche,

22 Cfr. Tondini 2006, p. 37. 23 La spesa per consumi finali della Pubblica Amministrazione è la “spesa sostenuta dal settore istituzionale delle Amministrazioni pubbliche per beni e servizi utilizzati per soddisfare i bisogni individuali e collettivi che possono essere prodotti direttamente dalle Amministrazioni pubbliche, come ad esempio i servizi dell’istruzione, o forniti gratuitamente o semi gratuitamente ed acquistati dai produttori market, le cosiddette prestazioni sociali in natura, come è, ad esempio, il caso dei medicinali in convenzione”. Si tratta dunque di una componente della spesa corrente pubblica, costituita prevalentemente dai redditi da lavoro, dai consumi intermedi (il valore dei beni e servizi consumati quali input nel processo produttivo, escluso il capitale fisso il cui consumo è registrato come ammortamento), dall’acquisto di beni e servizi prodotti da produttori market e messi a disposizione direttamente ai beneficiari, le famiglie (i beni e servizi relativi alla sanità e alla protezione sociale). Differisce dalla produzione pubblica per le seguenti componenti: compartecipazione alla spesa per alcuni servizi (ticket sanitari), produzione per

DENTRO L’UMBRIA due70

alla fine del periodo, si riallinea al valore di partenza) (graff. 15-16). L’altro macro aggregato della domanda finale, gli Investimenti fissi lordi, nell’arco di tempo considerato cresce proporzionalmente più del Pil in Umbria – ma anche in Italia – secondo una progressione altalenante, per il carattere di fluidità di un aggregato che risente particolarmente delle congiunture soprattutto al diminuire della dimensione economica del sistema (graf. 17). Graf. 14 - Evoluzione della quota Spesa per consumi finali/Pil (1995-2007)

67

69

71

73

75

77

79

81

83

85

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

Valo

ri %

Umbria Toscana Marche Italia Nord Ovest Nord Est83,5

78,8

82,5

83,0

77,979,1

79,5

77,6

72,6 74,1

68,0

71,5

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Graf. 15 - Evoluzione della quota spesa per consumi finali delle famiglie /Pil (1995-2008)*

53

55

57

59

61

63

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

Valo

ri %

Umbria Toscana Marche Italia Nord Ovest Nord Est

59,7

61,1

61,8

59,6

61,1

61,3

63,2

58,2

56,8 57,5

54,1

56,2

* Questa grandezza è disponibile al 2008

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat

proprio uso, produzione dei servizi vendibili e spesa per acquisto di beni e servizi prodotti da produttori market (prestazioni sociali in natura).

AURAPPORTI: RES 2008-09 71

Graf. 16 - Evoluzione della quota spesa per consumi finali della PA/Pil (1995-2007)

13

15

17

19

21

23

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

Valo

ri %

Umbria Toscana Marche Italia Nord Ovest Nord Est

21,9

22,4

18,217,5

20,1

18,319,3

19,3

15,8

13,9

16,9

15,7

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Graf. 17 - Evoluzione della quota spesa per Investimenti fissi lordi /Pil (1995-2007)

16

17

18

19

20

21

22

23

24

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

Valo

ri %

Umbria Toscana Marche Italia Nord Ovest Nord Est

20,7

19,4

19,1

17,5

21,7

21,2

20,5

19,5

17,8

20,620,6

22,2

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Nel 2007, rispetto al 1995, il tasso di accumulazione si eleva di un punto percentuale per Umbria, Marche e Italia, di due punti per la Toscana e ancor di più nel Nord Italia. Dunque, in anni di forte cambiamento del contesto produttivo mondiale, in tutto il territorio italiano (anche nel mezzogiorno) si è in presenza di una richiesta da parte del sistema di potenziamento della propria dotazione capitalizia. In realtà, più che l’immediata informazione che rinvia il senso di questo rapporto (il tasso di accumulazione del capitale), a fare la differenza è piuttosto la composizione di tali investimenti, ovvero il tipo di capitale in cui si investe e soprattutto il contenuto

DENTRO L’UMBRIA due72

innovativo che incorpora, dunque la potenzialità di incrementare la competitività del sistema. Ma su questo fenomeno si tornerà più avanti nel presente contributo24. Poiché le quote delle componenti la domanda finale sul Pil esprimono l’esito del confronto dell’andamento congiunto di due grandezze, della evoluzione di tali singole grandezze si offre una opportuna visualizzazione grafica (graf. 18). Graf. 18 - Livello e dinamica di Consumi interni e Investimenti Fissi Lordi (1995-2007) Umbria Italia

0

2.000

4.000

6.000

8.000

10.000

12.000

14.000

16.000

18.000

20.000

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007

Milio

ni d

i eur

o, 2

000

80

85

90

95

100

105

110

115

Num

eri i

ndic

e, 2

00=1

00

0

200.000

400.000

600.000

800.000

1.000.000

1.200.000

1.400.000

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007

Milio

ni d

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Num

eri i

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e, 2

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00

Toscana Marche

0

10.000

20.000

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40.000

50.000

60.000

70.000

80.000

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1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007

Milio

ni d

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Num

eri i

ndic

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0

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20.000

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1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007

Milio

ni d

i eur

o, 2

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85

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120

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Num

eri i

ndic

e, 2

00=1

00

Nord Ovest Nord Est

0

50.000

100.000

150.000

200.000

250.000

300.000

350.000

400.000

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007

Milio

ni d

i eur

o, 2

000

80

85

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95

100

105

110

115

Num

eri i

ndic

e, 2

00=1

00

0

50.000

100.000

150.000

200.000

250.000

300.000

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007

Milio

ni d

i eur

o, 2

000

80

85

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Num

eri i

ndic

e, 2

00=1

00

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat

24 Cfr. § Produttività del lavoro e sentiero dello sviluppo.

Livello consumi finali Livello IFLDinamica Pil (scala dx) Dinamica IFL (scala dx)Dinamica consumi finali (scala dx)

AURAPPORTI: RES 2008-09 73

L’analisi delle componenti della domanda rispetto all’evoluzione economica affrontata da un altro punto di vista, cioè con l’uso di due indicatori che offrono alcuni indizi circa la propensione verso un modello di spesa che privilegia, l’uno, il pubblico rispetto al privato e l’altro, il futuro rispetto al presente, riconferma di fatto due fenomeni che stanno caratterizzando il primo decennio del nuovo millennio in Italia: un potenziamento della spesa finale collettiva rispetto a quella privata che, negli ultimi anni, sembra aver segnato il passo e lasciato al comparto pubblico il ruolo trainante la domanda per consumi e l’irrobustimento della componente di spesa che sceglie il rafforzamento dell’apparato produttivo piuttosto che il consumo (graff. 19-20). Graf. 19 - Il modello di spesa delle regioni italiane nel 1995-1997*

18

20

22

24

26

28

30

32

34

36

24 26 28 30 32 34 36 38 40 42 44 46 48 50

Consumi finali collettivi / consumi finali privati (%)

inve

stim

enti

/ con

sum

i fin

ali (

%)

Basilicata

Valle d'Aosta

Bolzano

MoliseSardegna

Sicilia

Calabria

Campania

UMBRIA (34,9; 25,4)

Abruzzo

Puglia

Trento

FVG

Marche

Liguria

Toscana

Lazio

E.Romagna

Piemonte

Veneto

Lombardia

Italia=30,6

Italia=24,3

* I valori riportati nel grafico sono medie ponderate rispetto al livello del Pil. Per consumi finali collettivi si intende la spesa per consumi finali della PA, per consumi finali privati si intende la spesa per consumi finali delle famiglie.

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Dal raffronto, tra il 1995-1997 e il 2005-200725, del posizionamento delle regioni in base ai due suddetti indicatori (il rapporto di composizione, nella spesa per consumi finali, tra la componente pubblica e quella delle famiglie, e il rapporto investimenti/consumi) emerge un evidente, generalizzato spostamento della nuvola di punti verso destra e verso l’alto, ovvero aumenta più la componente pubblica rispetto a quella privata e più gli investimenti rispetto ai consumi, segnalando una crescita del sistema segnata da una maggiore attenzione alla collettività e al potenziamento della dotazione capitalizia. 25 Il valore di ciascun indicatore è la media, relativa a ciascun triennio, ponderata con il livello del Pil, dei singoli rapporti annuali.

DENTRO L’UMBRIA due74

Questo duplice fenomeno lo si riscontra in tutte le regioni, ad eccezione, relativamente però solo all’incremento investimenti/consumi, di Valle d’Aosta e Umbria. La nostra regione, in particolare, a metà degli anni novanta si poneva con entrambi i valori superiori al dato nazionale, pur seguendo il flusso di tutte le regioni verso un aumento della spesa pubblica su quella privata e mantenendo la sua collocazione superiore al dato nazionale; dopo un decennio, per un calo del rapporto investimenti/consumi scende (insieme soltanto alla Valle d’Aosta) nel sottoquadrante in basso a destra (mentre Abruzzo, Molise e Sardegna, di contro, salgono)26. Per l’Umbria, il rapporto spesa collettiva/spesa delle famiglie passa così da 34,9% a 36,8% (per l’Italia da 30,6% a 33,6%), mentre il rapporto investimenti/consumi si porta da 25,4% a 24,9% (da 24,3% a 26,3% per l’Italia). Graf. 20 - Il modello di spesa delle regioni italiane nel 2005-2007*

18

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24 26 28 30 32 34 36 38 40 42 44 46 48 50

Consumi finali collettivi / consumi finali privati (%)

inve

stim

enti

/ con

sum

i fin

ali (

%)

Basilicata

Valle d'Aosta

Bolzano

MoliseSardegna

Sicilia

Calabria

Campania

UMBRIA

Abruzzo

Puglia

Trento

FVG

Marche

Liguria

Toscana

Lazio

E.Romagna Piemonte

Veneto

Lombardia

Italia=26,3

Italia=33,6

(36,8; 24,9)

* I valori riportati nel grafico sono medie ponderate rispetto al livello del Pil. Per consumi finali collettivi si intende la spesa per consumi finali della PA, per consumi finali privati si intende la spesa per consumi finali delle famiglie.

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat 26 Le regioni più dinamiche nel senso del potenziamento del rapporto Investimenti/consumi finali sono state le province di Bolzano e Trento (17%), Abruzzo (17%), Sardegna (16%), Puglia (13%), Lombardia (12%), Calabria (10%) (a fronte di un incremento medio nazionale dell’8%). Quelle che hanno mostrato un innalzamento del rapporto consumi pubblici/consumi privati particolarmente consistente: Trento (21%), Puglia e Lazio (17%), Campania (15%), Piemonte (13%), Sicilia (12%), Abruzzo e Molise (11%), per un incremento medio nazionale del 10%).

AURAPPORTI: RES 2008-09 75

Graf. 21 - Variazioni reali annue delle due componenti i consumi interni (1995-2007/8)

Umbria

-4

-2

0

2

4

6

1996

1997

1998

1999

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2001

2002

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2004

2005

2006

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Spesa consumi finali famiglie Spesa consumi finali PA

Italia

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2000

2001

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2003

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Val

ori %

Spesa consumi finali famiglie Spesa consumi finali PA

Toscana

-4

-2

0

2

4

6

1996

1997

1998

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2000

2001

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2003

2004

2005

2006

2007

2008

Val

ori %

Spesa consumi finali famiglie Spesa consumi finali PA

Marche

-4

-2

0

2

4

6

1996

1997

1998

1999

2000

2001

2002

2003

2004

2005

2006

2007

2008

Val

ori %

Spesa consumi finali famiglie Spesa consumi finali PA

Nord Ovest

-4

-2

0

2

4

6

1996

1997

1998

1999

2000

2001

2002

2003

2004

2005

2006

2007

2008

Val

ori %

Spesa consumi finali famiglie Spesa consumi finali PA

Nord Est

-4

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0

2

4

6

1996

1997

1998

1999

2000

2001

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2003

2004

2005

2006

2007

2008

Val

ori %

Spesa consumi finali famiglie Spesa consumi finali PA Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Nel periodo 1995-2007 in Umbria e nel contesto geografico di riferimento, gli impulsi alla evoluzione del Pil derivano principalmente dalla spesa per consumi finali delle famiglie, ciò a causa sia dell’alta incidenza sul totale sia anche della scarsa elasticità verso il basso di tale grandezza; a seguire figurano la spesa per investimenti fissi lordi, componente che, soggetta a risentire maggiormente delle congiunture e dunque a forti oscillazioni, nel breve-medio periodo riesce ad essere mediamente più determinante della spesa per consumi finali della Pubblica Amministrazione quanto a capacità di indurre spinte alla crescita del Pil. Dal 1995 al 2001, in particolare, la dinamica del Pil (oscillata mediamente entro un range che va dall’1,6% del Nord Ovest al 2,6% delle Marche), è stata determinata in primis

DENTRO L’UMBRIA due76

dalla spesa per consumi finali delle famiglie (con un contributo27 da 1,2 a 1,5 punti percentuali), quindi dalla spesa per investimenti fissi lordi (per valori da 0,5 punti percentuali della Toscana all’1,1 ancora delle Marche), e poi dalla spesa per consumi finali della Pubblica Amministrazione (da 0,1% di Nord Est e Toscana allo 0,3 della media italiana) (graf. 22). Graf. 22 - Contributo alla evoluzione del Pil da parte delle componenti la domanda finale interna Periodo 1995-2001 (valore medio) Periodo 2001-2007 (valore medio)

1,3

1,5

1,3

1,3

1,2

1,4

0,2

0,1

0,2

0,3

0,2

0,1

0,6

0,5

1,1

0,7

0,7

0,7

2,2

2,0

2,6

1,9

1,6

2,2

0,0 0,5 1,0 1,5 2,0 2,5

Umbria

Toscana

Marche

Italia

Nord Ovest

Nord Est

Valori %SpesacfFam SpesacfPA Investimenti fissi lordi Pil

0,6

0,6

0,3

0,5

0,5

0,5

0,3

0,3

0,3

0,3

0,2

0,3

0,3

0,5

0,0

0,4

0,4

0,3

0,9

1,0

1,5

1,0

1,0

1,2

0,0 0,5 1,0 1,5 2,0 2,5

Umbria

Toscana

Marche

Italia

Nord Ovest

Nord Est

Valori %SpesacfFam SpesacfPA Investimenti fissi lordi Pil

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat In questo quadro la crescita del Pil umbro (2,2%), la più elevata dopo le Marche e in linea con l’Italia nord orientale, è stata determinata per 1,3 e 0,2 punti dai consumi privati e collettivi, rispettivamente, e per 0,6 punti dagli investimenti fissi lordi. Il periodo successivo, 2001-2007, segnato da una molto più ridotta capacità di crescita del sistema regionale e nazionale, vede l’Umbria continuare ad allinearsi ai 27 Tale valore è dato dalla media aritmetica dei singoli contributi annui. I contributi annui sono stati calcolati secondo il nuovo criterio indicato dall’Istat con l’introduzione della nuova serie di contabilità territoriale. Questa è la formula:

contr (t) = [x (t) p(t-1) – x (t-1) p(t-1)] / y (t-1) p(t-1)

dove: contr (t) = contributo di una generica componente della domanda finale al tempo t alla crescita del Pil dal tempo t -1 al tempo t; x (t) p(t-1) = componente della domanda finale al tempo t valutata al prezzo dell’anno precedente; x (t-1) p(t-1) = componente della domanda finale al tempo t-1 valutata a prezzi correnti; y (t-1) p(t-1) = Pil al tempo t-1 valutato a prezzi correnti.

AURAPPORTI: RES 2008-09 77

valori medi italiani, con uno 0,9% di aumento medio annuo del Pil, alimentato per 0,6 punti dalla spesa per consumi finali delle famiglie, da 0,3 punti dagli investimenti fissi lordi e da altrettanti 0,3 punti dalla spesa pubblica per usi finali. Alla “regola” che caratterizza questo fenomeno si sottraggono le Marche, il cui aumento medio (+1,5%) del Pil reale è generato esclusivamente dalla domanda per consumi finali interni (0,3 la componente privata e 0,3 quella pubblica), potendo contare sulla sostenuta espansione dell’accumulazione di capitale avvenuta nel periodo precedente. Restringendo l’analisi all’ultimo anno disponibile, alla diminuzione del Pil dal 2007 al 2008 ha contribuito una diffusa contrazione della spesa per consumi finali delle famiglie pari, in Umbria, a -0,5% (tab. 12). Tab. 12 - Dinamica del Pil e della spesa per consumi finali delle famiglie (valori percentuali)

Umbria Toscana Marche Italia Nord Ovest

Nord Est

Variazione 2007 - 2008 Pil -1,5 -0,8 -1,2 -1,0 -1,2 -0,8 Spesa per consumi finali delle famiglie * -0,5 -0,4 -1,7 -1,0 -1,4 -0,8

Beni durevoli -9,6 0,6 -7,3 -7,3 -8,1 -4,1 Beni non durevoli -1,3 -0,4 -1,3 -1,3 -0,9 -0,9 Servizi 2,4 -0,7 0,4 0,4 -0,5 -0,1

Composizione % 2008 Spesa per consumi finali delle famiglie * 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0

Beni durevoli 10,0 10,0 8,4 8,6 9,5 9,6 Beni non durevoli 41,3 39,2 42,1 41,3 39,3 37,3 Servizi 48,7 50,8 49,5 50,1 51,2 53,1

Variazione 2006 - 2007 Pil 1,3 1,2 1,6 1,6 1,6 2,0 Spesa per consumi finali delle famiglie * 3,1 0,9 0,2 1,1 1,1 1,5

Beni durevoli 10,4 -0,7 -2,7 8,9 8,9 5,4 Beni non durevoli 2,4 -0,8 -0,8 -1,5 -1,5 -0,1 Servizi 2,1 2,7 1,6 1,7 1,7 1,9

* I beni e servizi di consumo che costituiscono il paniere della spesa delle famiglie comprendono: Generi alimentari e bevande non alcoliche; Bevande alcoliche, tabacco, narcotici; Vestiario e calzature; Spese per l'abitazione, elettricità, gas ed altri combustibili; Mobili, elettrodomestici, articoli vari e servizi per la casa; Spese sanitarie; Trasporti; Comunicazioni; Ricreazione e cultura; Istruzione; Alberghi e ristoranti; Beni e servizi vari.

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat

DENTRO L’UMBRIA due78

Nonostante la nostra regione abbia registrato la maggiore riduzione di Pil rispetto alle aree benchmark, il calo dei consumi finali privati è stato per intensità molto più contenuto che altrove e simile a quello verificatosi in Toscana. Le famiglie, in un quadro di profonda e crescente incertezza, reagiscono, come avviene di solito, con un rinvio degli acquisti più impegnativi per il bilancio familiare (i beni durevoli28) e un – seppure limitato – aumento della propensione al risparmio (Istat 2009b). Di fatto la contrazione della spesa per beni durevoli in tale anno è stata la più elevata (-9,6%), come reazione alla forte espansione di pari entità ma di segno opposto che si era verificata dal 2006 al 2007 (quando l’Umbria primeggiava per la più alta crescita di questa particolare categoria di beni rispetto al contesto territoriale analizzato) (tab. 12). Dal 2007 al 2008, la riduzione del consumo di beni non durevoli (-1,3%) si allinea al dato nazionale, invece la spesa in servizi continua in Umbria nel suo percorso espansivo, superando addirittura il tasso evolutivo dell’anno precedente (+2,4% contro +2,1%). Le famiglie umbre continuano a privilegiare nel loro paniere di spesa i beni più che i servizi (come le Marche ma in maniera ancora più incisiva) mentre in Toscana, nel Nord Italia e in Italia ormai la spesa terziaria supera la metà del totale (dati 2008). Le esportazioni Importante fattore di impulso sull’offerta, le esportazioni, in quanto componente di domanda finale esterna, non figurano esplicitamente nel conto risorse-impieghi perché incorporate (insieme ai flussi che dall’Umbria vanno verso il resto d’Italia) nel saldo netto dell’import. Come noto, la tradizionale bassa propensione umbra ad esportare convive con invece un’ampia apertura commerciale verso il resto d’Italia, che vede un’elevata quantità di flussi di beni e servizi umbri defluire verso le altre regioni, per una conseguente implicita sottostima di prodotti esportati umbri (l’attribuzione dell’export risulta non della regione produttrice del bene ma di quella che lo commercializza). La carenza di presidi di filiera a valle nei diversi processi di specializzazione produttiva dell’Umbria, la presenza di potenzialità non ancora pienamente sfruttate da parte del sistema e di incompiuti percorsi per garantire un rafforzamento di competitività sul piano internazionale sono tutti fenomeni che, alla fine, influiscono notevolmente sul

28 Un bene viene economicamente classificato come durevole nel momento in cui la sua utilità si protrae per un periodo minimo di tre anni. I beni di consumo durevoli, suscettibili cioè di uso prolungato (pluriennale), quali gli arredi, gli elettrodomestici, le autovetture,…sono registrati come beni di consumo se acquistati dalle famiglie, ma come beni di investimento se acquisiti dalle imprese. (Quanto alla distinzione tra beni di consumo e beni di investimento, la Contabilità nazionale riconosce ai beni durevoli acquistati dalle famiglie la qualità di beni di consumo finale, anche se per i loro caratteri intrinseci (materialità e durevolezza) essi potrebbero essere trattati come beni capitali; e lo sono di fatto quando l’acquisto è effettuato dalle imprese o dalle amministrazioni pubbliche) (Corea C. - Donnarumma I – Frenda A., 2009, p. 9).

AURAPPORTI: RES 2008-09 79

grado di apertura verso l’estero. Detto grado di apertura, nel corso degli anni, si è comunque amplificato: il rapporto tra l’export fatturato e il Pil dell’Umbria passa infatti, dal 13,9% del 1995 al 16,9% del 2007, tornando a calare l’anno successivo (a 15,6%) per effetto della crisi internazionale (quando il Pil nominale umbro è 21.748 milioni di euro e il fatturato esportato 3.399 milioni di euro) (tab. 13). La tradizionale forte Toscana (per cui l’export incideva nel 1995 per oltre un quarto sul Pil), vede declinare nel tempo l’apertura internazionale e, dal 2002, viene superara definitivamente dalle Marche che, partite nel 1995 con un 23,9%, dodici anni dopo mostrano una quota del 30,4% (seconde solo al Nord Est, presente con 33%). Tab. 13 - Export e Pil: indicatori e dinamiche (variazioni percentuali)

1995 2005 2006 2007 2008 Variazione

media 1995-2007Variazione 2007-2008

Export/Pil Export Pil (reale) Export Pil

(reale) Umbria 13,9 14,4 15,7 16,9 15,6 6,1 1,5 -6,3 -1,5 Toscana 25,4 22,7 24,5 25,5 23,8 4,5 1,5 -4,9 -0,8 Marche 23,9 25,6 29,4 30,4 25,6 7,1 2,0 -14,5 -1,2 Nord Ovest 29,1 26,7 28,1 29,4 29,4 4,2 1,3 1,7 -1,2 Nord Est 27,8 29,0 31,2 33,0 32,2 5,9 1,7 -0,5 -0,8 Italia 20,8 21,0 22,4 23,6 23,3 5,4 1,5 0,3 -1,0

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat La forza trainante dell’export sull’economia è evidente: le Marche, che dal 1995 al 2007 ampliano il proprio fatturato all’estero mediamente del 7,1%, in questo periodo sono anche la regione con il tasso di crescita reale del Pil più elevato (2,0%). Viceversa, l’Italia nord occidentale registra la più ridotta espansione dell’export (+4,2%) ed anche la più bassa crescita reale del Pil (+1,3%). Ma il nord ovest, a differenza delle altre regioni e aree considerate, sul fronte esportativo non risente dalla crisi del 2008 (l’export cresce dell’1,7%). L’Umbria, dal canto suo, dal 2007 al 2008, rispetto al contesto geografico analizzato registra la più elevata contrazione di Pil, e una forte caduta del fatturato esportato (-6,3%). Il potenziamento della forza esportativa umbra, considerata in sé, e sin qui letta in termini di quota sul Pil, si evince anche dalla evoluzione del fatturato esportato. Al riguardo, si propone una visualizzazione dell’andamento di entrambe le componenti il commercio estero in relazione a quello del Pil nominale (graf. 23). I grafici, costruiti volutamente con identiche scale di misura, consentono di apprezzare i confronti territoriali tra le dinamiche annue delle grandezze analizzate: sono evidenti le performance evolutive particolarmente enfatizzate delle Marche (oltre che del Nord Est) ed anche quelle dell’Umbria. Per quest’ultima, se si esclude l’inversione di tendenza degli anni critici (2008 e prima ancora 2003 e 1996), la velocità di crescita dell’export è in effetti molto sostenuta: dal 2005 è seconda solo a Marche e Nord Est e nel 2006-2007 è superata in intensità solo dalla regione limitrofa. Il primato delle

DENTRO L’UMBRIA due80

Marche su questo fronte è ben visibile e in controtendenza invece al rallentamento della Toscana la cui dinamica esportativa dal 2002 supera solo quella del Nord Ovest. Questi fenomeni vanno naturalmente letti in base al contesto di riferimento, ricordando che l’informazione restituita da un tasso di crescita va relativizzata tenendo conto delle grandezze di partenza. Dunque, i pur ampi tassi di crescita registrati dall’Umbria, alla fine, non producono alcuna variazione in termini di quota esportata sul contesto nazionale, la quale continua a oscillare intorno allo 0,9 - 1,0% (tab. 14). Graf. 23 - La dinamica dell’export, dell’import, del Pil dal 1995 al 2008

UMBRIA

-15

-10

-5

0

5

10

15

20

25

30

35

1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

Val

ori %

0

1

2

3

4

5

6

7

8V

alor

i %

Export Import Pil (scala dx) ITALIA

-15

-10

-5

0

5

10

15

20

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1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

Val

ori %

0

1

2

3

4

5

6

7

8

Val

ori %

Export Import Pil (scala dx)

TOSCANA

-15

-10

-5

0

5

10

15

20

25

30

35

1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

Val

ori %

0

1

2

3

4

5

6

7

8

Val

ori %

Export Import Pil (scala dx) MARCHE

-15

-10

-5

0

5

10

15

20

25

30

35

1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

Val

ori %

0

1

2

3

4

5

6

7

8

Val

ori %

Export Import Pil (scala dx)

NORD OVEST

-15

-10

-5

0

5

10

15

20

25

30

35

1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

Val

ori %

0

1

2

3

4

5

6

7

8

Val

ori %

Export Import Pil (scala dx)NORD EST

-15

-10

-5

0

5

10

15

20

25

30

35

1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

Val

ori %

0

1

2

3

4

5

6

7

8

Val

ori %

Export Import Pil (scala dx)

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat

AURAPPORTI: RES 2008-09 81

Tab. 14 - Incidenza dell’export sul totale nazionale (valori percentuali) 1995 2005 2006 2007 2008

Umbria 0,9 0,9 1,0 1,0 0,9 Toscana 8,1 7,3 7,4 7,3 6,9 Marche 2,9 3,2 3,5 3,4 2,9 Nord Ovest 45,7 40,7 40,0 39,7 40,3 Nord Est 29,8 31,0 31,4 31,7 31,4 Italia 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Si rafforzano invece la quota delle Marche (a parte l’ultimo anno) e del Nord Est a fronte di una visibile perdita di punti della Toscana e del Nord Ovest. A distanza di alcuni anni, sembra rafforzarsi quanto già accennato nel Rapporto Economico e Sociale 2005-2006 dell’Aur, circa il lento cambiamento dei ruoli della geografia italiana dello sviluppo, di cui l’attività esportativa è uno dei segnali più evidenti. Secondo diversi autori, infatti, l’Italia centro settentrionale risulterebbe tagliata verticalmente e la crescita più dinamica (che abbiamo ravvisato oltre che nell’export anche nel Pil) delle regioni orientali sta provocando uno spostamento verso est del baricentro dello sviluppo dell’Italia, nella città diffusa del Nord Est e della fascia adriatica29. La produzione settoriale: struttura e dinamiche Nel 2008 il valore aggiunto umbro30 (pari a 19.500 milioni di euro correnti) è generato per il 69,2% dall’attività terziaria e per il 28,4% dall’industria (graf. 24, tab. 15). A distanza di quasi un trentennio caratterizzato da un diffuso, progressivo processo di smaterializzazione dell’economia, la regione continua ad essere un po’ meno terziarizzata dell’Italia (solo nel 1999 l’Umbria ha superato di poco il valore medio nazionale); quanto alla presenza industriale, invece, relativamente più rilevante in Umbria rispetto all’Italia dal 1980 al 1997, si osservano negli anni successivi alti e bassi, anche se a partire dal 2004 l’Umbria è tornata a superare il Paese quanto a produzione relativa di valore aggiunto proveniente dal comparto secondario. Se poi si considera il fenomeno più in dettaglio, si evince che, dal 1995 al 2007, è il settore delle costruzioni ad essere più presente nella regione, al contrario dell’industria in senso stretto che però, nell’ultimo biennio in esame, supera l’Italia come contributo alla generazione di valore aggiunto (nel 2007 21,6% e 21,4% rispettivamente, con un 19% generato – in entrambi i contesti – dalla manifattura) (graf. 24, tabb. 16-17).

29 Cfr. Viesti, in Ice-Istat 2006, pp. 487, 489. 30 Si fa riferimento al Valore aggiunto a prezzi base, ovvero al saldo tra la produzione (al netto delle imposte sui prodotti e al lordo dei contributi sui prodotti) e i consumi intermedi.

DENTRO L’UMBRIA due82

Graf. 24 - Evoluzione della struttura produttiva in Umbria e in Italia dal 1980 al 2008 (incidenze percentuali sul valore aggiunto totale) Servizi e industria in Umbria e Italia Industria in s.s. e costruzioni in Umbria e Italia

25

30

35

40

45

50

55

60

65

70

75

1980

1 98 1

198 2

198 3

198 4

1 985

1 98 6

198 7

198 8

198 9

1 990

1 99 1

199 2

199 3

1 994

1 995

1 996

1 99 7

199 8

1 999

2 000

2 001

2 00 2

200 3

2 004

2 005

2 006

2 00 7

200 8

valo

ri %

Industria, U

Industria, I

Servizi, U

Servizi, I

55,6

71,0

48,6

69,2

46,0

38,5 28,4

27,0 3

8

13

18

23

28

33

38

1980

198 1

198 2

1 983

1 984

1 985

198 6

198 7

1 98 8

1 98 9

1 99 0

1 99 1

1 99 2

199 3

199 4

1 995

1 996

199 7

199 8

199 9

2 00 0

2 001

2 00 2

2 00 3

200 4

2 00 5

2 00 6

2 007

valo

ri %

Industria s.s., UIndustria s.s, ICostruzioni, UCostruzioni, I

38,9

21,4

31,4

7,2 7,0

6,17,0

21,6

I tre comparti dei servizi in Umbria

I tre comparti dei servizi in Italia

10

12

14

16

18

20

22

24

26

28

1980

198 1

1 98 2

1 983

1 984

1 98 5

1 98 6

198 7

198 8

1 98 9

1 990

1 991

1 99 2

1 99 3

199 4

199 5

199 6

1 99 7

1 998

1 99 9

2 00 0

200 1

200 2

2 00 3

2 004

2 005

2 006

2 00 7

valo

ri %

Commercio Ser. innovativi Altri servizi11,9

15,7

21,0

24,9

22,0

10

12

14

16

18

20

22

24

26

28

1980

1 98 1

198 2

198 3

1 984

1 985

198 6

1 98 7

1 988

1 989

199 0

1 99 1

1 99 2

1 993

199 4

1 99 5

1 996

1 997

199 8

1 99 9

2 00 0

2 00 1

200 2

200 3

2 004

2 005

200 6

2 00 7

valo

ri %

Commercio Ser. innovativi Altri servizi15,8

16,2

23,6

20,6

22,5

27,3

* In corrispondenza dell’anno 1995 c’è una rottura di serie

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Tab. 15 - Lenti cambiamenti di un decennio nella struttura produttiva: valore aggiunto per settori nel 1995-1999 (media annua) e nel 2008 (incidenza percentuale sul totale)

Umbria Italia Toscana Marche Nord Ovest

Nord Est Mezzo- giorno

1995

-199

9

2008

1995

-199

9

2008

1995

-199

9

2008

1995

-199

9

2008

1995

-199

9

2008

1995

-199

9

2008

1995

-199

9

2008

Agricoltura, Silvicoltura, Pesca 4,0 2,3 3,2 2,0 2,5 2,1 3,9 1,7 2,0 1,2 3,6 2,2 5,2 3,4

Industria 29,8 28,4 29,5 27,0 30,2 27,6 33,5 32,5 35,3 31,1 34,4 32,4 21,6 20,6

Servizi 66,2 69,2 67,3 71,0 67,3 70,4 62,6 66,3 62,7 67,7 62,0 65,4 73,2 76,0

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat

AURAPPORTI: RES 2008-09 83

Tab. 16 - Lenti cambiamenti di un decennio nella struttura produttiva: valore aggiunto per attività economiche nel 1995-1999 (media annua) e nel 2007 (incidenza percentuale sul totale)

Umbria Italia Toscana Marche Nord Ovest

Nord Est Mezzo- giorno

1995

-199

9

2007

1995

-199

9

2007

1995

-199

9

2007

1995

-199

9

2007

1995

-199

9

2007

1995

-199

9

2007

1995

-199

9

2007

Industria in senso stretto 23,1 21,6 24,4 21,4 25,6 21,7 28,3 32,0 30,8 26,3 29,5 26,6 15,4 13,9

di cui: Estrazione di minerali

0,2 0,3 0,3 0,2 0,4 0,2 0,3

Manifattura* 19,0 19,0 19,4 25,5 23,9 24,7 11,5 Produzione e distribuzione di energia elettrica, di gas, di vapore e acqua

2,3 2,1 2,1 1,1 2,1 1,7 2,2

Costruzioni 6,7 7,0 5,1 6,1 4,5 6,1 5,2 5,8 4,5 5,6 4,9 6,4 6,2 6,9 Commercio, riparazioni, alberghie ristoranti, trasporti e comunicazioni

24,7 22,1 24,1 22,5 25,0 24,0 22,2 21,1 23,7 22,2 24,4 22,1 23,1 21,7

di cui : Commercio all'ingrosso e al dettaglio; riparazione di autoveicoli, motocicli e di beni personali e per la casa

11,6 11,3 12,0 11,5 12,0 11,1 10,6

Alberghi e ristoranti

4,2 3,8 5,1 3,8 3,2 4,7 3,4

Trasporti, magazzinaggio e comunicazioni

6,2 7,4 6,9 5,7 7,1 6,3 7,7

Intermediazione monetaria e finanziaria; attività immobiliari ed imprenditoriali

20,1 24,9 23,0 27,3 23,2 27,5 21,7 26,4 24,0 29,0 21,7 26,0 21,3 24,2

di cui: Intermediazione monetaria e finanziaria

4,2 5,2 5,4 4,7 6,3 5,1 3,5

Attività immobiliari, noleggio, informatica, ricerca, altre attività professionali ed imprenditoriali

20,7 22,0 22,1 21,7 22,7 20,9 20,7

(segue)

DENTRO L’UMBRIA due84

Segue tab. 16 - Lenti cambiamenti di un decennio nella struttura produttiva: valore aggiunto per attività economiche nel 1995-1999 (media annua ) e nel 2007 (incidenza percentuale sul totale)

Umbria Italia Toscana Marche Nord Ovest

Nord Est Mezzo- giorno

1995

-199

9

2007

1995

-199

9

2007

1995

-199

9

2007

1995

-199

9

2007

1995

-199

9

2007

1995

-199

9

2007

1995

-199

9

2007

Altre attività di servizi

21,5 22,0 20,3 20,6 19,1 18,7 18,7 18,2 15,0 15,6 16,0 16,6 28,8 29,7

di cui: Pubblica amministrazione e difesa; assicurazione sociale obbligatoria

6,7 6,4 5,5 5,3 3,9 4,8 10,5

Istruzione 5,3 4,8 4,0 4,6 3,3 3,6 8,3 Sanità e altri servizi sociali

5,6 5,6 5,0 5,3 4,9 5,1 7,4

Altri servizi pubblici, sociali e personali

3,1 2,8 3,1 3,1 2,5 2,4 2,6

Servizi domestici presso famiglie e convivenze

1,2 1,0 1,1 1,1 1,0 0,7 0,8

* Il dato relativo all’industria manifatturiera nella nuova serie di contabilità territoriale non è disponibile dal 1995 al 1999. Nel 2000, il valore aggiunto manifatturiero incideva per il 19,4% in Umbria. Sulle trasformazioni del modello produttivo e sulle interrelazioni tra manifattura e servizi si rinvia all’analisi contenuta in Tondini 2008.

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Tab. 17 - Il contributo della manifattura alla produzione di reddito (valori percentuali sul valore aggiunto totale)

2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007

Umbria 19,4 19,1 19,9 19,1 17,2 17,5 18,4 19,0 Toscana 22,2 22,2 20,4 19,3 19,4 18,9 18,7 19,4 Marche 25,9 26,8 25,8 25,2 25,6 25,1 25,8 25,5 Italia 21,0 20,4 19,9 19,0 18,8 18,5 18,7 19,0 Nord Ovest 26,3 25,3 24,7 23,8 24,0 23,6 23,6 23,9 Nord Est 26,8 26,0 25,8 24,6 24,2 23,7 24,2 24,7 Mezzogiorno 12,4 12,2 12,1 11,4 10,9 10,9 11,0 11,5

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Il processo di trasformazione terziaria è alimentato in parte dalla componente pubblica (quella che assorbe prevalentemente la voce Altri servizi) ma, soprattutto (seppure per un fenomeno presente in Umbria maniera più attenuata) da quella più avanzata (Attività immobiliari, noleggio, informatica, ricerca, altre attività professionali ed

AURAPPORTI: RES 2008-09 85

imprenditoriali); la voce che ingloba i servizi più tradizionali (Commercio all'ingrosso e al dettaglio; riparazione di autoveicoli, motocicli e di beni personali e per la casa) si caratterizza per una sostanziale tenuta. Restringendo la panoramica temporale in modo tale da operare su serie omogenee, ma estendendo il confronto ad altre aree del Paese e alle regioni dell’Italia mediana, dalla seconda metà degli anni novanta al 2007 l’apporto settoriale alla produzione di valore aggiunto è stato segnato dai seguenti fenomeni: - un diffuso arretramento dell’industria in senso stretto (in Umbria dal 23,1% al

21,6%) cui hanno fatto eccezione soltanto le Marche (ove nel 2007 tale settore produce il 32% del reddito regionale, oltre dieci punti in più di Umbria, Toscana e Italia e 6 punti in più del settentrione);

- una perdita di punti, questa volta generalizzata, dei servizi tradizionali (in Umbria passati dal 24,7% al 22,1%);

- al contrario, un comune rafforzamento del settore delle costruzioni (in Umbria tocca il 7%, come il mezzogiorno) e, soprattutto, dei servizi innovativi, che finiscono per generare un quarto del valore aggiunto in Umbria (praticamente il livello registrato nel mezzogiorno, due punti e mezzo in meno della media nazionale e uno e mezzo in meno delle Marche);

- una altrettanto diffusa lieve espansione dei servizi pubblici (presenti con il 22% di valore aggiunto in Umbria nel 2007) che, tuttavia, vedono diminuire il loro ruolo in Toscana e nelle Marche.

In questo quadro è interessante focalizzare lo sguardo agli ultimissimi anni per rilevare come, a partire dal 2006, il maggiore ruolo rivestito in Umbria dall’industria rispetto alla media nazionale è ravvisabile non solo sul versante delle costruzioni (sempre relativamente più che rappresentato nella regione rispetto al contesto nazionale) ma anche su quello dell’industria in senso stretto (tab. 16); più in particolare, nel 2007 la presenza manifatturiera umbra finisce per uguagliare nuovamente (come già nel 2002-2003) la media italiana (tab. 17). Rimane tuttavia meno che specializzata delle vicine Toscana e Marche: queste ultime, dal 2001 presentano quote superiori – e per differenziali via via crescenti – a quelle riscontrabili nel nord del Paese. Le traiettorie dell’industria manifatturiera dell’Umbria si vanno visibilmente differenziando rispetto a quelle delle vicine Marche e si riflettono su tutto il sistema economico, generando modelli di sviluppo sempre più dissimili. Si ripercuotono sugli equilibri tra i motori autonomi e i motori non autonomi dello sviluppo di kaldoriana memoria. I primi, fondati soprattutto sulla manifattura e i servizi ad essi collegati, sui servizi più avanzati ed anche su quelli legati al turismo (insomma, sui settori fortemente dipendenti dalla domanda esterna) sembrano essere più presenti nelle Marche (oltreché in Toscana, la regione dove è sempre molto forte l’impulso sull’economia e sul sostegno del Pil generato dalla spesa dei turisti). In Umbria, invece, sono andati assumendo progressivamente un peso molto maggiore i motori non autonomi, quelli cioè fortemente legati alla domanda interna ed ai relativi redditi

DENTRO L’UMBRIA due86

(anche quelli da trasferimenti, ricordando che la più elevata quota di pensionati in Umbria rispetto alla media nazionale si caratterizza peraltro per livelli medi di pensioni più bassi della media)31, oltreché alla regolazione amministrativa (costruzioni, pubblica amministrazione) (Bracalente 2009). I ruoli che i settori dell’economia rivestono in termini di valore aggiunto sono l’esito di dinamiche congiunte che, a partire dal 1995, hanno visto un’Umbria procedere a ritmi decrescenti come la maggior parte delle aree considerate sia sul fronte industria (con tassi di crescita medi analoghi a quelli italiani) che sul fronte dei servizi, caratterizzati questi ultimi da tassi evolutivi quasi sempre diffusamente superiori a quelli realizzati nel comparto industriale (tab. 18). Tab. 18 - Dinamica del valore aggiunto nell’industria e nei servizi (variazioni percentuali) Industria Servizi

media

1995-2001 media

2001-2007 anno 2008

media 1995-2001

media 2001-2007

anno 2008

Umbria 1,1 0,6 -1,3 2,6 1,0 -1,1 Toscana 1,6 -0,1 -1,8 1,9 1,5 -0,6 Marche 2,2 1,2 -3,0 2,9 1,9 -0,2 Italia 1,1 0,7 -2,7 2,1 1,3 -0,2 Nord Ovest 0,4 0,7 -3,5 2,0 1,2 0,1 Nord Est 1,5 1,4 -2,5 2,3 1,3 0,2 Mezzogiorno 1,5 0,0 -2,7 2,2 3,9 -0,8

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Con l’eccezione del Nord Est (ove dal 2001 al 2007 industria e servizi crescono mediamente allo stesso ritmo) e il Nord Ovest per cui, nello stesso periodo, l’industria segue (a differenza del quadro geografico analizzato) una dinamica mediamente un po’ più sostenuta di quella del periodo precedente. Il 2008, il primo anno di crisi conclamata dell’economia mondiale, oltre ad aver colpito in Italia il settore industriale, non ha risparmiato neanche il comparto dei servizi, che riescono a tenere soltanto nel nord Italia. Una nota da sottolineare riguarda il minore decremento rispetto all’anno precedente (-1,3%) nel valore aggiunto industriale realizzato in Umbria rispetto al contesto geografico di riferimento, controbilanciato però dalla più forte decrescita (-1,1%, superiore anche a quella del mezzogiorno) realizzata dai servizi (tab. 18). Un’analisi dinamica del reddito prodotto che tenga conto congiuntamente dei ritmi evolutivi e dei ruoli di ciascuna componente settoriale può essere effettuata ricorrendo all’indice contributo alla crescita32 generato da ciascuna componente di valore aggiunto.

31 Cfr. il § Il reddito quale determinante la spesa per consumi finali delle famiglie contenuto nel presente capitolo. 32 I contributi alla crescita del valore aggiunto da parte delle singole componenti settoriali sono stati calcolati, mutatis mutandis, seguendo l’algoritmo utilizzato per il calcolo dei contributi alla crescita del Pil (cfr. nota 25).

AURAPPORTI: RES 2008-09 87

Tab. 19 - Contributo alla evoluzione reale del valore aggiunto da parte di singole attività economiche

Umbria Italia Toscana Marche

ATTIVITÀ ECONOMICHE media 2006-2007

2008 media 2006-2007

2008media 2006-2007

2008media 2006-2007

2008

AGRICOLTURA, SILVICOLTURA E PESCA

0,1 0,1 0,0 0,0 0,0 0,1 -0,1 0,1

INDUSTRIA 0,7 -0,4 0,6 -0,8 0,5 -0,5 0,8 -1,0

Industria in senso stretto 1,0 0,5 0,4 0,7 di cui Industria manifatturiera 1,1 0,5 0,5 0,7 Costruzioni -0,2 0,1 0,1 0,1 SERVIZI 1,3 -0,7 1,3 -0,2 1,1 -0,2 2,0 -0,1

Commercio, riparazioni, alberghi e ristoranti, trasporti e comunicazioni

0,5 0,4 0,5 0,9

di cui: Commercio all'ingrosso e al dettaglio; riparazione di autoveicoli, motocicli e di beni personali e per la casa

0,2 0,2 0,2 0,6

Alberghi e ristoranti 0,3 0,1 0,1 0,2 Trasporti, magazzinaggio e comunicazioni

0,1 0,1 0,2 0,1

Intermediazione monetaria e finanziaria; attività immobiliari ed imprenditoriali

0,5 0,7 0,4 1,2

di cui: Intermediazione monetaria e finanziaria

0,3 0,4 0,4 0,4

Attività immobiliari, noleggio, informatica, ricerca, altre attività professionali ed imprenditoriali

0,2 0,3 0,0 0,8

Altre attività di servizi 0,2 0,2 0,2 0,0 di cui: Pubblica amministrazione e difesa; assicurazione sociale obbligatoria

0,0 0,0 0,0 -0,1

Istruzione 0,0 0,0 0,0 -0,1 Sanità e altri servizi sociali 0,1 0,1 0,1 0,0

Dinamica reale del valore aggiunto a prezzi base

2,1 -1,0 1,8 -0,9 1,7 -0,6 2,7 -1,0

(segue)

DENTRO L’UMBRIA due88

Segue tab. 19 - Contributo alla evoluzione reale del valore aggiunto da parte di singole attività economiche

Nord Ovest Nord Est Mezzo- giorno

ATTIVITÀ ECONOMICHE media 2006-2007

2008media 2006-2007

2008media 2006-2007

2008

AGRICOLTURA, SILVICOLTURA E PESCA

0,0 0,0 0,0 0,1 -0,1 0,0

INDUSTRIA 0,5 -1,1 1,0 -0,8 0,2 -0,6

Industria in senso stretto 0,5 0,9 0,3 di cui Industria manifatturiera 0,4 1,0 0,3 Costruzioni 0,0 0,2 -0,1 SERVIZI 1,2 0,0 1,5 0,1 1,0 -0,6

Commercio, riparazioni, alberghi e ristoranti, trasporti e comunicazioni

0,3 0,4 0,3

di cui: Commercio all'ingrosso e al dettaglio; riparazione di autoveicoli, motocicli e di beni personali e per la casa

0,1 0,2 0,2

Alberghi e ristoranti 0,1 0,1 0,0 Trasporti, magazzinaggio e comunicazioni

0,1 0,1 0,1

Intermediazione monetaria e finanziaria; attività immobiliari ed imprenditoriali

0,7 0,7 0,6

di cui: Intermediazione monetaria e finanziaria

0,5 0,4 0,3

Attività immobiliari, noleggio, informatica, ricerca, altre attività professionali ed imprenditoriali

0,2 0,3 0,3

Altre attività di servizi 0,2 0,3 0,1 di cui: Pubblica amministrazione e difesa; assicurazione sociale obbligatoria

0,0 0,0 0,1

Istruzione 0,0 0,1 -0,1 Sanità e altri servizi sociali 0,1 0,1 0,0

Dinamica reale del valore aggiunto a prezzi base

1,7 -1,0 2,5 -0,6 1,1 -1,1

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat

AURAPPORTI: RES 2008-09 89

In base a questa chiave di lettura risulta che, dal 2007 al 2008, il contributo reale al calo del valore aggiunto determinato dal comparto industriale in Umbria (-0,4%) è stato inferiore a quello registrato nelle altre regioni e aree considerate, a fronte, al contrario, di un più elevato contributo da parte dei servizi (-0,7 punti %) (tab. 19). Dell’aumento registrato nel biennio precedente, segnato da una sostenuta crescita del valore aggiunto, sono stati responsabili diffusamente entrambi i comparti (in Umbria +0,7% da parte dell’industria e +1,3% da parte dei servizi, allineandosi al dato italiano), con una regione che spicca per il più alto apporto della manifattura (+1,1%, più del doppio della media italiana). Il contributo dei servizi tradizionali, di quelli avanzati e degli altri servizi sono stati rispettivamente per l’Umbria di +0,5%, +0,5% e +0,2%. Soltanto in Toscana si ritrova un apporto dei servizi di Intermediazione monetaria e finanziaria; attività immobiliari ed imprenditoriali più basso di quello umbro (+0,4%, a fronte di +0,7% italiano). Produttività del lavoro e qualità dello sviluppo Strettamente legato allo strutturale divario Umbria-Italia relativo al Pil per abitante è il livello della produttività del lavoro33 che, nell’arco di tempo considerato, allontana progressivamente la regione dalla media nazionale, in controtendenza rispetto a Marche e Toscana (graf. 25). Nel 2008, posto 100 il valore italiano, l’Umbria figura con un livello pari a 88,6 (praticamente come l’anno precedente), le Marche con 90,6 e la Toscana con 98,9. Graf. 25 - Produttività del lavoro totale in Umbria, Toscana, Marche, ripartizioni (numeri indice, Italia = 100)

83

88

93

98

103

108

113

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

Num

eri i

ndic

e, It

alia

= 1

00

Umbria Toscana Marche Nord Ovest Nord Est Mezzogiorno

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat 33 I grafici sono costruiti rapportando al valore aggiunto nominale il dato delle Ula.

DENTRO L’UMBRIA due90

Il valore complessivo della produttività del lavoro in Umbria è il risultato di situazioni settoriali caratterizzate da differenti criticità, diffusamente presenti; sono infatti molto poche le attività produttive (Agricoltura, Fabbricazione di prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi, Produzione e distribuzione di energia elettrica, di gas, di vapore e acqua – ma solo fino al 2006 –, Pubblica Amministrazione e Istruzione e, anche se non continuamente, Costruzioni) che collocano l’Umbria su valori superiori a quelli italiani. La crescente divergenza umbra dal dato medio nazionale si riscontra dunque sia nell’industria (89,3) che, con crescente intensità negli ultimi anni, nel terziario (87,3) (graf. 26). Ad essere interessati sono tutte e tre le branche dei servizi, ma visibilmente il Commercio, riparazioni, alberghi e ristoranti, trasporti e comunicazioni e, soprattutto, l’Intermediazione monetaria e finanziaria; attività immobiliari ed imprenditoriali per cui il gap, dal 2003, diventa progressivo e sostanziale. Ciò in controtendenza rispetto a Toscana e Marche che, di contro, non solo convergono verso il resto del Paese relativamente ai macro aggregati ma si distinguono per una produttività nettamente più elevata di quella media nazionale in riferimento ai servizi avanzati, seppure per l’esclusivo contributo delle Attività immobiliari, noleggio, informatica, ricerca, altre attività professionali ed imprenditoriali. Graf. 26 - Produttività del lavoro per attività economiche in Umbria, Marche, Toscana (numeri indice, Italia = 100)

Industria

Servizi

75

80

85

90

95

100

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

Val

ori %

Umbria Toscana Marche Italia

95,9

89,3

90,1

93,7

78,7

81,7

85

87

89

91

93

95

97

99

101

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

Val

ori %

Umbria Toscana Marche Italia

96,5 98,9

91,4

87,390,4

96,7

Industria in senso stretto

Costruzioni

70

75

80

85

90

95

100

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

Val

ori %

Umbria Toscana Marche Italia

96,0

87,288,9

93,7

73,3

76,7

87

92

97

102

107

112

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

Val

ori %

Umbria Toscana Marche Italia

100,9

96,3

105,5104,1

89,9

98,5

(segue)

AURAPPORTI: RES 2008-09 91

Segue graf. 26 - Produttività del lavoro per attività economiche in Umbria, Marche, Toscana (numeri indice, Italia = 100)

Industria manifatturiera

Commercio, riparazioni, alberghi e ristoranti, trasporti e comunicazioni

75

80

85

90

95

100

2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007

Val

ori %

Umbria Toscana Marche Italia

93,6 94,0

82,6

86,7

78,6

81,0

85

87

89

91

93

95

97

99

101

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

Val

ori %

Umbria Toscana Marche Italia

95,1

85,9

92,7

95,7

91,7

86,0

Intermediazione monetaria e finanziaria, attività immobiliari e imprenditoriali

Altre attività di servizi

88

90

92

94

96

98

100

102

104

106

108

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

Valo

ri %

Umbria Toscana Marche Italia

92,4

88,9

104,3 106,3

107,1

102,5

88

90

92

94

96

98

100

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

Val

ori %

Umbria Toscana Marche Italia

97,1 98,5

95,6 93,2

90,4

92,4

Intermediazione monetaria e finanziaria

Attività immobiliari, noleggio, informatica, ricerca, altre attività professionali ed imprenditoriali

80

85

90

95

100

2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007

Val

ori %

Umbria Toscana Marche Italia

95,5

94,3

84,7

93,0

89,5

80,8

90

95

100

105

110

115

2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007

Val

ori %

Umbria Toscana Marche Italia

106,2

102,6

92,6

111,6

109,8

90,8

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Il fenomeno della crescente divergenza tra Umbria e Italia si ripropone (ma in maniera altalenante) anche considerando l’Industria in senso stretto, per cui la regione figura tuttavia sempre nettamente al di sopra dei valori marchigiani. In riferimento alla manifattura, in particolare, si nota una controtendenza della situazione umbra che (se si esclude il 2007) tende ad avvicinarsi in termini di produttività al dato nazionale. La produttività nelle Costruzioni, come detto, si caratterizza quasi sempre per valori più elevati in Umbria che in Italia.

DENTRO L’UMBRIA due92

Nel passaggio dal 2006 al 2007, quando una fase di rallentamento economico ha seguito un anno di forte espansione ed è stato il preludio di una crisi profonda e duratura, l’Umbria ha assistito a una diminuzione della produttività reale del lavoro (-1,7% in totale) (graf. 27, tab. 20). Graf. 27 - Variazione della produttività del lavoro reale dal 2006 al 2007 per attività economica in Umbria

-4,3

-3,9

-6,1

-1,5

0,4

4,8

1,6

2,0

2,0

0,7

-1,7

10,9

-1,8

-1,4

-2,3

-1,8

-5,1

-3,9

-7 -5 -3 -1 1 3 5 7 9 11

AGRICOLTURA, SILVICOLTURA E PESCA

INDUSTRIA

Industria in senso stretto

di cui Industria manifatturiera

Costruzioni

SERVIZI

Commercio, riparazioni, alberghi e ristoranti, trasporti ecomunicazioni

Commercio all'ingrosso e al dettaglio; riparazione di autoveicoli,motocicli e di beni personali e per la casa

Alberghi e ristoranti

Trasporti, magazzinaggio e comunicazioni

Intermediazione monetaria e finanziaria; attività immobiliari edimprenditoriali

Intermediazione monetaria e finanziaria

Attività immobiliari, noleggio, informatica, ricerca, altre attivitàprofessionali ed imprenditoriali

Altre attività di servizi

Pubblica amministrazione e difesa; assicurazione socialeobbligatoria

Istruzione

Sanità e altri servizi sociali

TOTALE

Variazione % del valore aggiunto reale / Ula Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Il fenomeno ha toccato molte attività economiche, in un quadro nazionale connotato invece da un miglioramento ampiamente diffuso (+0,7%). In entrambe le realtà, sono stati penalizzati maggiormente il settore delle Costruzioni (-6,1% e -3,1% rispettivamente in Umbria e Italia) e quello delle Attività immobiliari, noleggio, informatica, ricerca, altre attività professionali ed imprenditoriali (-5,1% e -2,2%) (graf. 28, tab. 21).

AURAPPORTI: RES 2008-09 93

In Umbria, rilevante è stato anche il calo di produttività dell’Industria in senso stretto (-3,9%) in un contesto italiano segnato invece da un miglioramento (+0,9%). Sul versante del potenziamento spiccano il settore agricolo, il comparto turistico (ricettività e ristorazione), l’Intermediazione monetaria e finanziaria, la Pubblica Amministrazione e l’Istruzione. Per l’Umbria, il comparto agricolo e il settore pubblico sono gli unici che dal 2006 al 2007 hanno registrato cali occupazionali: in agricoltura l’emorragia lavorativa si è accompagnata a un aumento del valore aggiunto reale mentre nella Pubblica Amministrazione il calo delle Ula ha determinato una contrazione del reddito meno che proporzionale. Siamo in presenza di shock da offerta positivi, che si caratterizzano, appunto, per cali occupazionali in un contesto di innalzamento del rendimento del lavoro che potrebbero sottendere una ristrutturazione produttiva tendente ad elevare la capacità competitiva dei settori coinvolti o anche un miglioramento di progresso tecnico34. Sull’altro fronte, la perdita di produttività è stata segnata per lo più da aumenti occupazionali cui non hanno corrisposto adeguati incrementi di valore aggiunto reale (shock da offerta negativi). Le eccezioni a questo diffuso fenomeno sono osservabili dalla tab. 21. In Italia, la situazione dal 2006 al 2007, costruita secondo le differenti variazioni in segno e in intensità di valore aggiunto e Ula, è ravvisabile dalla tab. 22. Il fenomeno più interessante rilevato nel panorama italiano si riferisce al tipo di risposta del sistema di fronte all’assorbimento di ulteriore forza lavoro che, al di là dei suoi benefici effetti in termini di sostenibilità sociale, in molti più settori rispetto all’Umbria si è realizzata contestualmente ad aumenti reali più che proporzionali di valore aggiunto (caso di shock da domanda positivo). Gli incrementi occupazionali verificatisi dal 2006 al 2007 in Umbria e che hanno interessato – come in Italia – praticamente tutti i settori così come selezionati nella presente analisi (in controtendenza solo il comparto agricolo e la Pubblica Amministrazione e, nella regione, anche l’Istruzione) sono stati proporzionalmente molto più intensi di quanto non sia accaduto mediamente nel Paese. Tale fenomeno è osservabile dai graff. 29-30, costruiti sul numero di occupati35. La crisi del 2008 (anno per cui l’Istat mette a disposizione dati riferiti solo ai tre macro settori) e che, ad esclusione dell’agricoltura, investe industria e servizi quanto a produzione di valore aggiunto reale e di Ula, si riflette sulla produttività, che diminuisce complessivamente più in Umbria (-0,6%) che in Italia (-0,1%) e, nella regione, di più nei servizi (per cui invece nel Paese c’è un recupero di produttività) che non nell’industria 34 Di fatto, “L’analisi del rapporto tra prodotto e occupati in realtà non dà informazioni sufficienti a valutare la reale entità dei processi di ristrutturazione. Infatti tale rapporto può crescere sia per un aumento, a sua volta, del capitale associato ad ogni lavoratore (misurato semplicemente in unità di lavoro standard), che ne aumenta la produttività, sia per un aumento dello stock di progresso tecnico – ovvero a parità di fattori – che comprende anche l’insieme delle innovazioni nella produzione e nella gestione, l’aumento del capitale umano, e in genere qualsiasi miglioramento di produttività non dipendente da capitale e lavoro” (Svimez 2008, p. 12). 35 Seppure per il calcolo della produttività del lavoro si utilizzano le Ula, in quanto esprimo più propriamente l’effettivo contributo di ore-lavoro, sono le teste (dunque il numero di occupati), più che le unità ricostruite artificiosamente, a dare conto delle reali dinamiche del mercato del lavoro.

DENTRO L’UMBRIA due94

(tab. 22). Si può osservare il fenomeno, tipico delle fasi di conversione ciclica negativa e rilevabile particolarmente nell’industria, che alla contrazione di attività si accompagni una riduzione dell’input di lavoro di intensità decisamente inferiore, con conseguenti ripercussioni sulla produttività misurata in VA/Ula. E le variazioni delle due grandezze ne sono una conferma36 (tab. 22). Graf. 28 - Variazione della produttività del lavoro reale dal 2006 al 2007 per attività economica in Italia

3,0

0,9

1,1

-3,1

0,8

1,5

1,1

1,7

1,9

7,9

0,2

1,8

0,1

0,3

0,7

-0,1

-2,2

-0,4

-7 -5 -3 -1 1 3 5 7 9 11

AGRICOLTURA, SILVICOLTURA E PESCA

INDUSTRIA

Industria in senso stretto

di cui Industria manifatturiera

Costruzioni

SERVIZI

Commercio, riparazioni, alberghi e ristoranti, trasporti ecomunicazioni

Commercio all'ingrosso e al dettaglio; riparazione di autoveicoli,motocicli e di beni personali e per la casa

Alberghi e ristoranti

Trasporti, magazzinaggio e comunicazioni

Intermediazione monetaria e finanziaria; attività immobiliari edimprenditoriali

Intermediazione monetaria e finanziaria

Attività immobiliari, noleggio, informatica, ricerca, altre attivitàprofessionali ed imprenditoriali

Altre attività di servizi

Pubblica amministrazione e difesa; assicurazione socialeobbligatoria

Istruzione

Sanità e altri servizi sociali

TOTALE

Variazione % del valore aggiunto reale / Ula Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat

36 Fa eccezione il terziario in Italia, ma solo se si considera la forza lavoro in termini di unità standard. In realtà la diminuzione di valore aggiunto dal 2007 al 2008 è stata accompagnata da un incremento di occupati.

AURAPPORTI: RES 2008-09 95

Graf. 29 - Variazione del numero di occupati dal 2006 al 2007 per attività economica in Umbria

-11,4

3,9

4,5

4,7

2,5

3,5

3,8

2,6

8,0

2,8

6,1

4,9

6,3

2,3

1,7

3,1

-1,5

-0,4

-12,0 -7,0 -2,0 3,0 8,0

AGRICOLTURA, SILVICOLTURA E PESCA

INDUSTRIA

Industria in senso stretto

di cui Industria manifatturiera

Costruzioni

SERVIZI

Commercio, riparazioni, alberghi e ristoranti, trasporti ecomunicazioni

Commercio all'ingrosso e al dettaglio; riparazione di autoveicoli,motocicli e di beni personali e per la casa

Alberghi e ristoranti

Trasporti, magazzinaggio e comunicazioni

Intermediazione monetaria e finanziaria; attività immobiliari edimprenditoriali

Intermediazione monetaria e finanziaria

Attività immobiliari, noleggio, informatica, ricerca, altre attivitàprofessionali ed imprenditoriali

Altre attività di servizi

Pubblica amministrazione e difesa; assicurazione socialeobbligatoria

Istruzione

Sanità e altri servizi sociali

TOTALE

Valori % Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Graf. 30 - Variazione del numero di occupati dal 2006 al 2007 per attività economica in Italia

1,4

0,6

0,7

3,3

1,4

1,3

0,5

4,2

1,1

3,4

2,8

3,5

0,5

0,2

0,7

1,2

-2,4

-1,0

-12,0 -7,0 -2,0 3,0 8,0

AGRICOLTURA, SILVICOLTURA E PESCA

INDUSTRIA

Industria in senso stretto

di cui Industria manifatturiera

Costruzioni

SERVIZI

Commercio, riparazioni, alberghi e ristoranti, trasporti ecomunicazioni

Commercio all'ingrosso e al dettaglio; riparazione di autoveicoli,motocicli e di beni personali e per la casa

Alberghi e ristoranti

Trasporti, magazzinaggio e comunicazioni

Intermediazione monetaria e finanziaria; attività immobiliari edimprenditoriali

Intermediazione monetaria e finanziaria

Attività immobiliari, noleggio, informatica, ricerca, altre attivitàprofessionali ed imprenditoriali

Altre attività di servizi

Pubblica amministrazione e difesa; assicurazione socialeobbligatoria

Istruzione

Sanità e altri servizi sociali

TOTALE

Valori % Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat

DENTRO L’UMBRIA due96

Tab. 20 - Attività economiche in Umbria raggruppate per aumenti e cali di produttività del lavoro secondo segno e intensità delle variazioni del valore aggiunto reale e delle Ula (2006-2007)

AUMENTO PRODUTTIVITÀ

shock da offerta positivo valore aggiunto reale Ula

Segno e intensità variazioni + - AGRICOLTURA, SILVICOLTURA E PESCA 1,8 -8,2

Segno e intensità variazioni - - - Pubblica amministrazione e difesa; assicurazione sociale obbligatoria -0,1 -2,0

shock da domanda positivo valore aggiunto reale Ula

Segno e intensità variazioni ++ + Commercio, riparazioni, alberghi e ristoranti, trasporti e comunicazioni

3,3 2,9

Alberghi e ristoranti 10,1 5,0 Trasporti, magazzinaggio e comunicazioni 3,5 1,9 Intermediazione monetaria e finanziaria 6,9 4,8 Istruzione 0,7 0,0

CALO PRODUTTIVITA'

shock da offerta negativo valore aggiunto reale Ula

Segno e intensità variazioni + ++

INDUSTRIA 0,2 4,7 Industria in senso stretto 1,5 5,6 Industria manifatturiera 3,8 5,8 SERVIZI 1,7 3,2 Commercio all'ingrosso e al dettaglio; riparazione di autoveicoli, motocicli e di beni personali e per la casa

1,0 2,4

Intermediazione monetaria e finanziaria; attività immobiliari ed imprenditoriali

1,3 5,5

Attività immobiliari, noleggio, informatica, ricerca, altre attività professionali ed imprenditoriali

0,3 5,6

Altre attività di servizi 0,5 2,4

Segno e intensità variazioni - + Costruzioni -3,8 2,5 Sanità e altri servizi sociali -0,5 1,8

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat

AURAPPORTI: RES 2008-09 97

Tab. 21 - Attività economiche in Italia raggruppate per aumenti e cali di produttività del lavoro secondo segno e intensità delle variazioni del valore aggiunto reale e delle Ula (2006-2007)

AUMENTO PRODUTTIVITÀ shock da offerta positivo valore aggiunto reale Ula

Segno e intensità variazioni + - Pubblica amministrazione e difesa; assicurazione sociale obbligatoria 0,7 -1,0

Segno e intensità variazioni - - - AGRICOLTURA, SILVICOLTURA E PESCA -0,3 -3,1

shock da domanda positivo valore aggiunto reale Ula Segno e intensità variazioni ++ +

Industria in senso stretto 1,8 0,8 Industria manifatturiera 2,0 0,9 SERVIZI 1,9 1,1 Commercio, riparazioni, alberghi e ristoranti, trasporti e comunicazioni 2,1 0,6 Commercio all'ingrosso e al dettaglio; riparazione di autoveicoli, motocicli e di beni personali e per la casa 1,2 0,2

Alberghi e ristoranti 2,5 0,8 Trasporti, magazzinaggio e comunicazioni 3,2 1,2 Intermediazione monetaria e finanziaria 11,0 2,8 Altre attività di servizi 0,8 0,6 Istruzione 0,5 0,4 Sanità e altri servizi sociali 0,5 0,2

CALO PRODUTTIVITÀ shock da offerta negativo valore aggiunto reale Ula

Segno e intensità variazioni + ++ INDUSTRIA 1,4 1,5 Intermediazione monetaria e finanziaria; attività immobiliari ed imprenditoriali

2,5 2,9

Attività immobiliari, noleggio, informatica, ricerca, altre attività professionali ed imprenditoriali 0,7 3,0

Segno e intensità variazioni - + Costruzioni 0,0 3,2

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Tab. 22 - Valore aggiunto, occupazione, produttività del lavoro in Umbria e Italia. Variazioni 2007-2008 (valori percentuali)

Umbria Italia

Valore aggiunto reale

(a)

Ula (b) Occupati (a) /(b)

Valore aggiunto reale

(a)

Ula (b) Occupati (a) /(b)

Agricoltura, silvicoltura e pesca

3,8 -1,7 0,0 5,6 2,4 4,6 -2,2 -2,1

Industria -1,3 -0,5 0,2 -0,8 -2,7 -1,4 -1,1 -1,4 Servizi -1,1 -0,2 -0,3 -0,9 -0,2 -0,8 1,1 0,6 Totale -1,0 -0,4 -0,2 -0,6 -0,9 -0,8 0,3 -0,1

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat

DENTRO L’UMBRIA due98

Si ripropone dunque, in Italia ma soprattutto in Umbria, il problema della qualità dello sviluppo, che non può prescindere più da alcuni elementi chiave, quali il progresso tecnico, che oggi significa iniezioni di conoscenza e innovazione, e l’attenzione alle risorse umane, che si riflette nella qualità finale del lavoro. Quando in particolari fasi congiunturali l’assorbimento di forza lavoro non si traduce in incrementi di produttività è perché si realizza in settori labour intensive, a bassa intensità tecnologica, dunque scarsamente produttivi: è l’annoso problema italiano, e umbro in particolare. L’evoluzione della produttività dipende dalla specializzazione produttiva (incrementare la dotazione capitalizia di uno stesso ammontare in un settore piuttosto che in un altro, ma con caratteristiche competitive differenti, fa la differenza), dalla natura degli investimenti (quelli in prodotti innovativi, ad esempio, realizzano potenzialmente margini di valore aggiunto più elevati rispetto ad analoghi investimenti finalizzati a rafforzamenti strutturali più tradizionali), e dipende anche dal grado di sviluppo raggiunto: in sistemi economici incompleti, con ridotte capacità di attivazione intersettoriale a monte e a valle, come quello umbro, i processi di investimento rischiano infatti di avere effetti moltiplicativi dispersi all’esterno dell’area in esame, o di innescare fenomeni di dipendenza dalle importazioni37; in questi ultimi casi, pertanto, la capacità di attivazione di valore aggiunto interno, a parità di investimento, risulta più attenuata. Dunque, la qualità dello sviluppo, oggi più che mai, va ben oltre il pur complesso legame tra forza lavoro (nella fattispecie la sua quantità, esprimibile in numero di occupati o anche nella sua ricomposizione in Ula), dotazione di capitale materiale, produttività del sistema, poiché è sempre più dipendente, in quanto incorporata, nelle conoscenze, nelle applicazioni delle tecnologie dell’informazione (Piacentini-Prezioso 2007, p. 26), oltre che negli assetti e nella struttura produttiva, dunque anche nella dimensione delle imprese e nel loro posizionamento nella catena del valore38, nei livelli e nelle dinamiche salariali, nella qualità del lavoro, nella stessa organizzazione del lavoro. Ne è testimonianza la constatazione per cui, dietro allo strutturale gap (nel 2008 di oltre 10 punti percentuali) tra Toscana e Umbria in termini di produttività del lavoro, non corrisponda un analogo differenziale relativo all’incremento della dotazione unitaria di capitale: la Toscana, infatti, in questo senso supera la nostra regione soltanto in due anni, il 2004 e il 2006 (graf. 31).

37 E’ proprio questo il caso dell’Umbria, come già visto in precedenza. 38 Oltre alla forte caratterizzazione della piccola dimensione dell’impresa umbra, si ricorda anche il posizionamento nei segmenti a più basso valore aggiunto.

AURAPPORTI: RES 2008-09 99

Graf. 31 - Dotazione di incrementi di capitale da parte della forza lavoro (Investimenti fissi lordi in valori correnti / Ula)

80

85

90

95

100

105

110

115

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007

Num

eri i

ndic

e, It

alia

= 1

00

Umbria Toscana Marche Nord Ovest Nord Est Mezzogiorno

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat D’altro canto le Marche, anch’esse con dotazioni di capitale per addetto inferiori (a parte il 2007) all’Umbria, si presentano con una situazione di svantaggio competitivo in termini di produttività rispetto alla nostra regione anche se, a partire dal 2006, avviano un sensibile recupero finendo nel 2008 per superare l’Umbria di 2 punti. D’altra parte, anche i risultati che emergono osservando lo sforzo compiuto dai vari sistemi territoriali per incrementare la propria dotazione capitalizia, non ci rinviano segnali univocamente interpretabili (tab. 23). Una evidenza su tutte: il Nord Ovest con i valori più bassi, a fronte della produttività del lavoro più elevata. Insomma, l’incremento di capitale (analizzato attraverso l’entità degli investimenti) sottende informazioni molto complesse e basare gli studi sulla produttività e la sua evoluzione sui soli differenziali di crescita relativi ai classici indicatori strutturali (Inv/Ula o Inv/Pil) risulta insufficiente per una completa visione ed interpretazione del fenomeno. Tab. 23 - Investimenti Fissi Lordi / Pil dal 1995 al 2007 (numeri indice, Italia = 100)

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007

Umbria 108,5 114,5 110,9 112,5 108,4 107,1 102,9 114,9 102,7 95,2 99,6 95,0 102,5 Toscana 91,9 95,7 93,4 93,5 89,8 85,7 86,6 85,3 91,7 92,2 83,0 89,9 91,8 Marche 102,0 105,6 101,0 103,7 109,2 102,0 110,0 102,8 104,4 111,7 94,9 97,8 96,7 Italia 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 Nord Ovest 93,5 95,9 93,3 92,9 93,7 97,4 96,9 97,3 94,7 96,2 98,2 96,3 97,3 Nord Est 107,9 107,7 105,0 106,1 107,6 104,9 106,3 112,9 107,9 108,5 109,0 108,6 104,7 Mezzogiorno 106,4 104,3 110,2 110,3 106,0 106,5 107,0 101,1 105,8 106,6 105,3 106,3 107,2 Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat

DENTRO L’UMBRIA due100

La destinazione del reddito In Umbria, nel 2008, il 47,3% del valore aggiunto è assorbito dai redditi da lavoro dipendente39 (a fronte del 46,4% dell’Italia, del 45,0% e del 45,9% rispettivamente di Toscana e Marche), per un livello medio per addetto pari a 33.629 euro correnti, che colloca la regione sest’ultima nella graduatoria nazionale (superata da Campania, Sicilia, Abruzzo, oltre che dalle Marche e, a gran distanza, dalla Toscana, anch’essa al di sotto del livello italiano) (tab. 24). Tab. 24 - RLD unitari, quote di RLD e MOL sul VA al 2008 e dinamiche dal 2007

euro

correnti 2008

valori % 2008 variazione %

2007-2008

RLD / ULA

RLD / VA

MOL / VA

RLD/VA MOL/VAVA

prezzi base* Piemonte 37.499 45,2 33,8 2,1 -1,5 -1,1 Valle d'Aosta 36.979 43,3 33,2 0,7 -0,9 0,1 Lombardia 38.763 44,4 40,0 0,9 -1,3 -1,0 Bolzano 37.932 44,5 34,1 0,1 -2,6 -0,5 Trento 36.825 44,5 38,5 1,3 -1,2 -0,6 Veneto 35.716 45,0 37,7 3,2 -2,2 -0,7 Friuli Venezia Giulia 37.048 49,1 33,7 1,3 -1,9 -1,1 Liguria 37.362 43,1 36,5 0,6 -1,9 -1,4 Emilia Romagna 36.276 45,6 36,4 1,8 -1,9 -0,4 Toscana 36.293 45,0 35,1 2,7 -2,8 -0,6 Umbria 33.629 47,3 32,9 0,6 -1,6 -1,0 Marche 34.329 45,9 33,0 1,4 -2,6 -1,0 Lazio 39.771 46,7 37,5 0,6 0,9 -0,4 Abruzzo 35.305 48,6 29,5 2,4 -4,3 -0,2 Molise 33.215 47,1 28,0 0,9 -2,8 -0,2 Campania 33.644 50,8 31,5 1,1 -2,8 -2,4 Puglia 33.070 50,9 29,4 1,9 -1,4 0,2 Basilicata 33.390 47,1 29,6 -0,7 -0,2 -1,4 Calabria 31.397 48,2 32,8 0,2 -1,1 -1,4 Sicilia 34.714 50,6 31,0 1,4 -1,2 -0,9 Sardegna 33.594 48,6 30,7 0,7 -2,4 -1,3 Italia 36.427 46,4 35,6 1,4 -1,5 -0,9

* Calcolato sulla serie storica a valori concatenati

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat La quota di redditi da lavoro dipendente sul valore aggiunto prodotto è un indicatore che, fortemente legato agli assetti produttivi e alla struttura settoriale, alla presenza di attività più o meno labour intensive rispetto a quelle capital intensive, all’organizzazione del lavoro e alla configurazione per livelli e qualifiche, al livello 39 La grandezza Redditi da lavoro dipendente ingloba, oltre alle retribuzioni al lordo delle ritenute previdenziali e fiscali, i contributi sociali.

AURAPPORTI: RES 2008-09 101

medio dei salari e stipendi, risulta particolarmente elevato in corrispondenza di più bassi valori unitari medi (a parte rare eccezioni, come il Friuli Venezia Giulia e il Lazio, prima nella graduatoria regionale40). D’altra parte, il reddito da lavoro dipendente unitario è una grandezza positivamente correlata alla produttività del lavoro e dunque, a suo modo, restituisce una misura della forza economica di un sistema territoriale (graf. 32). Graf. 32 - Posizionamento delle regioni italiane in base al RLD per Ula e al Pil per Ula (2008)

R2 = 0,87

45.000

50.000

55.000

60.000

65.000

70.000

75.000

31.000 32.000 33.000 34.000 35.000 36.000 37.000 38.000 39.000 40.000

Reddito da lavoro dipendente / Ula

Pil

/ Ula

Calabria

PugliaMolise Basilicata

Sardegna

UmbriaCampania

MarcheSicilia

Abruzzo

Veneto

Toscana

E Romagna

ITALIA

Trento

FVG

Valle d'Aosta

Liguria

Piemonte

Bolzano

LombardiaLa

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Dunque, nell’arco di tempo considerato, in linea con quanto riscontrato in termini di produttività, tale indicatore per l’Umbria si allontana visibilmente dal valore medio nazionale, portando il differenziale dai 5 punti del 1995 ai quasi 8 punti del 2008 (contrariamente a quanto accade per le Marche che, pur partendo da valori nettamente inferiori a quelli umbri, alla fine finiscono per superare la nostra regione) (graf. 33). Il divario Umbria-Italia si riscontra sia nell’industria che, soprattutto, nei servizi, in relazione a cui cresce nel tempo in maniera più evidente (graff. 35-36). Il settore primario, infine, che vedeva un’Umbria in vantaggio sull’Italia, negli anni riduce lentamente, annullandolo, tale originario favorevole gap (graf. 34).

40 Il reddito medio del Lazio “deve questo suo elevato valore alla particolare struttura produttiva (…) e, in particolare alla presenza di industrie manifatturiere ad elevato valore aggiunto e di numerose imprese impegnate nel settore finanziario e immobiliare” (cfr. Regione Lazio – Sviluppo Lazio Spa 2009, p. 90).

DENTRO L’UMBRIA due102

Graf. 33 - Redditi da lavoro dipendente per Ula in Umbria, Toscana, Marche e ripartizioni dal 1995 al 2008 (numeri indice, Italia = 100)

87

89

91

93

95

97

99

101

103

105

107

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

Val

ori %

Umbria Toscana MarcheNord Ovest Nord Est Mezzogiorno

90,9

95,0

99,3

100

106,9

94,2

99,6

99,4

105,1

92,3

87,7

92,4

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Graf. 34 - Redditi da lavoro dipendente per Ula nell’Agricoltura, silvicoltura e pesca in Umbria e Italia. Livelli e differenziali dal 1995 al 2008

10,111,2

12,1

8,6

6,6 5,9

1,8 1,5

-0,6 -0,3

2,2

-1,9-0,2

0,1

14.000

15.000

16.000

17.000

18.000

19.000

20.000

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

Euro

med

i ann

ui

-5

-3

-1

1

3

5

7

9

11

13

15Va

lori

%differenza U-I (scala dx)UmbriaItalia

19.031

19.048

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat

AURAPPORTI: RES 2008-09 103

Graf. 35 - Redditi da lavoro dipendente per Ula nell’Industria in Umbria e Italia. Livelli e differenziali dal 1995 al 2008

-5,8 -4,7 -4,3-7,0 -7,9 -7,7 -7,5 -7,3 -6,7 -7,2 -6,0 -6,0 -6,5 -6,9

20.000

22.000

24.000

26.000

28.000

30.000

32.000

34.000

36.000

38.000

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

Euro

med

i ann

ui

-12

-7

-2

3

8

13

18

23

Valo

ri %

differenza U-I (scala dx)UmbriaItalia

35.999

33.502

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Graf. 36 - Redditi da lavoro dipendente per Ula nei Servizi in Umbria e Italia. Livelli e differenziali dal 1995 al 2008

-5,5 -6,1 -7,2 -6,7 -7,0-8,4 -9,0 -9,1 -8,9 -8,8

-7,2 -7,4 -8,7 -8,8

20.000

22.000

24.000

26.000

28.000

30.000

32.000

34.000

36.000

38.000

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

Euro

med

i ann

ui

-12

-7

-2

3

8

13

18

23Va

lori

%differenza U-I (scala dx)

Umbria

Italia37.320

34.041

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Il settore dell’intermediazione monetaria e finanziaria è quello che, almeno tra le regioni e le ripartizioni esaminate, garantisce i RLD unitari medi più elevati (tab. 25): il massimo

DENTRO L’UMBRIA due104

valore si ha nel Nord Est Italia, per cui il livello è doppio di quello medio dell’intera economia e il 20% in più del rispettivo valore registrato in Umbria. La differenza negativa per l’Umbria più rilevante (di oltre il 40%) si trova in corrispondenza dei settori Estrazione dei minerali e Servizi domestici presso famiglie e convivenze. Tab. 25 - Redditi da lavoro dipendente unitari medi per attività economiche al 2007 (migliaia di euro correnti)

ATTIVITA' ECONOMICHE

UM

BR

IA

TO

SCA

NA

MA

RC

HE

ITA

LIA

NO

RD

O

VE

ST

NO

RD

E

ST

Valo

re m

ax

Diff

. Um

bria

valo

re m

ax

(%)

AGRICOLTURA, SILVICOLTURA E PESCA

18,9 20,4 19,4 18,9 20,1 19,3 T -8,0

INDUSTRIA 32,6 33,8 31,4 34,9 38,4 35,8 NO -17,7 Industria in senso stretto 33,8 35,0 31,9 36,7 39,7 36,7 NO/NE -17,3 Estrazione di minerali 37,7 38,9 35,5 43,9 53,4 39,9 NO -41,9 Industria manifatturiera 33,2 34,5 31,7 36,2 39,3 36,4 NO -18,3 Produzione e distribuzione di energia elettrica, di gas, di vapore e acqua

52,1 49,6 41,1 49,7 51,3 48,9 U -

Costruzioni 28,6 29,2 28,4 28,6 31,3 31,6 NE -10,5 SERVIZI 33,0 36,2 34,8 36,1 36,7 35,2 NO -11,3 Commercio, riparazioni, alberghi e ristoranti, trasporti e comunicazioni

29,1 31,5 29,8 31,6 33,6 31,6 NO -15,3

Commercio all'ingrosso e al dettaglio; riparazione di autoveicoli, motocicli e di beni personali e per la casa

30,0 31,8 30,8 31,7 34,7 33,1 NO -15,8

Alberghi e ristoranti 24,0 26,1 23,4 25,5 26,0 25,5 T -9,1 Trasporti, magazzinaggio e comunicazioni

32,7 36,2 33,8 36,1 36,8 35,6 T -10,4

Intermediazione monetaria e finanziaria; attività immobiliari ed imprenditoriali

41,5 47,6 44,4 44,3 46,8 43,8 T -14,7

Intermediazione monetaria e finanziaria

58,4 68,3 63,6 68,7 69,3 69,6 NE -19,2

Attività immobiliari, noleggio, informatica, ricerca, altre attività professionali ed imprenditoriali

36,3 37,5 36,6 36,3 39,0 35,0 NO -7,5

Altre attività di servizi 33,0 36,2 35,2 36,3 34,1 34,6 NO -3,4 Pubblica amministrazione e difesa; assicurazione sociale obbligatoria

44,2 47,2 48,9 47,4 49,8 47,2 NO -12,9

Istruzione 41,4 40,4 37,6 39,5 35,6 36,9 U - Sanità e altri servizi sociali 39,4 40,3 40,6 40,7 38,1 37,4 I -3,2 Altri servizi pubblici, sociali e personali

24,9 25,9 23,5 27,4 28,7 26,2 NO -15,3

Servizi domestici presso famiglie e convivenze

12,3 17,3 12,8 15,0 16,0 14,8 T -41,1

Totale 32,6 35,1 33,2 35,3 37,1 35,1 NO -13,8 Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat

AURAPPORTI: RES 2008-09 105

L’industria, e quella manifatturiera in particolare, caratterizzate da una forte regolamentazione contrattuale, pongono l’Umbria con un 18% in meno rispetto al Nord Ovest, presente con il valore più elevato. Ad ogni modo, l’analisi settoriale delle retribuzioni unitarie medie mostra evidentemente un range di variabilità molto ampio, che va da un minimo riferito ai servizi alle famiglie (in Umbria nel 2007 pari a 12.300 euro annui) al massimo dei Servizi di intermediazione monetaria e finanziaria (58.400 euro), per uno scarto di oltre 4 volte e mezzo. Se nel 2008 la quota dei RLD sul reddito complessivamente prodotto in Umbria è leggermente superiore a quella italiana, il Margine Operativo Lordo (MOL), ovvero il reddito d’impresa prima del pagamento degli ammortamenti41, nel 2008 incide per un terzo del valore aggiunto umbro (35,6% in Italia) (tab. 24, graf. 37). Graf. 37 - Incidenza del MOL sul valore aggiunto in Umbria e Italia. Livelli e differenziali dal 1995 al 2008

-2,5-4,3

-1,5 -2,7 -3,1 -3,4 -2,7 -2,2 -1,6-3,5

-7,5-6,1

-7,5 -7,5

30

31

32

33

34

35

36

37

38

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

valo

ri %

-15

-10

-5

0

5

10

15

20

25

Val

ori %

diff U_ I (scala dx)

Umbria

Italia

35,6

32,9

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat La regione si caratterizza per quote sempre inferiori a quelle rilevabili su scala nazionale, per un divario che si allarga considerevolmente dal 2004. Inoltre, mentre in Italia tale rapporto cresce nel tempo seppure con un rallentamento che inizia dal 2002, in Umbria segue un andamento parabolico che ha il suo massimo nel 2001-2002 e, dopo una progressiva erosione, torna sui valori dell’anno di partenza. Per questo calo, gli ultimi due anni l’Umbria finisce per essere superata dalle Marche, tradizionalmente presenti con incidenze MOL/VA molto più basse (graf. 38). La Toscana converge sul dato nazionale, seppure per un peggioramento dell’ultimo anno (graf. 38). 41 Il Margine Operativo Lordo è una stima dei profitti lordi d’impresa. Algebricamente si ottiene sottraendo dal valore aggiunto i redditi da lavoro, ponendo convenzionalmente i redditi medi unitari da lavoro indipendente uguali ai redditi medi unitari da lavoro dipendente.

DENTRO L’UMBRIA due106

Graf. 38 - Incidenza del MOL sul valore aggiunto in Toscana e Marche e differenziali rispetto all’Italia dal 1995 al 2008

-0,9

0,4

-0,5

1,0 2,5 1,9 0,0 0,6 0,1 0,0

-9,1-7,2

-4,8-8,0

-6,3-7,9 -7,3

-4,7

-8,1-10,1 -9,9 -9,6

-6,1 -7,2

-1,3-2,3-2,9-4,6

30

31

32

33

34

35

36

37

38

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

valo

ri %

-15

-10

-5

0

5

10

15

20

25

30

Val

ori %

diff T_ I (scala dx)diff M_I (scala dx)MarcheToscana

35,1

33,0

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Graf. 39 - Incidenza del MOL sul valore aggiunto dell’Industria in Umbria e Italia Livelli e differenziali dal 1995 al 2008

3,4

-4,4 -4,0

-10,4 -9,4 -8,8-6,0

-2,4 -2,9 -3,7-6,4

-2,4

-9,0-8,1

30

31

32

33

34

35

36

37

38

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

Val

ori %

-12

-7

-2

3

8

13

18

23

Val

ori %

diff U-I (scala dx) Umbria Italia

34,3

31,6

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat

AURAPPORTI: RES 2008-09 107

Graf. 40 - Incidenza del MOL sul valore aggiunto dei Servizi in Umbria e Italia. Livelli e differenziali dal 1995 al 2008

-6,0-4,4

-0,3

0,6

-0,7 -1,7 -1,3 -1,9 -1,2-3,8

-6,3 -7,1 -7,4 -7,532

33

34

35

36

37

38

39

40

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

Val

ori %

-12

-7

-2

3

8

13

18

23

Val

ori %

diff U-I (scala dx) Umbria Italia

37,7

34,9

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Il periodo 2000-2004 visualizza per l’Umbria i valori più elevati della incidenza della remunerazione d’impresa ed in generale, per l’Italia, la Toscana, le Marche è nel 2002, anno di recessione, che comincia la discesa di tale margine, a parte il rialzo in corrispondenza del 2007 che prelude però alla successiva nuova erosione dovuta alla crisi dell’anno successivo. In un contesto congiunturale problematico, quale nel nostro caso il 2008, solitamente la distribuzione del reddito prodotto favorisce la remunerazione del fattore lavoro a svantaggio del profitto. In effetti, dal 2007 al 2008, le regioni, congiuntamente ad una contrazione del reddito complessivo (cui si sottraggono Valle d’Aosta e Puglia) vedono aumentare la porzione destinata a remunerare il lavoro dipendente (fa eccezione solo la Basilicata) e calare il margine operativo lordo (tab. 24), testimoniando ancora una volta come le attività produttive, per affrontare situazioni di difficoltà, pur di rimanere sul mercato siano disposte a contrarre la profittabilità e ridurre la produzione. Il periodo 2000-2004 visualizza per l’Umbria i valori più elevati della incidenza della remunerazione d’impresa ed in generale, per l’Italia, la Toscana, le Marche è nel 2002, anno di recessione, che comincia la discesa di tale margine, a parte il rialzo in corrispondenza del 2007 che prelude però alla successiva nuova erosione dovuta alla crisi dell’anno successivo. In un contesto congiunturale problematico, quale nel nostro caso il 2008, solitamente la distribuzione del reddito prodotto favorisce la remunerazione del fattore lavoro a svantaggio del profitto. In effetti, dal 2007 al 2008, le regioni, congiuntamente ad una contrazione del reddito complessivo (cui si sottraggono Valle d’Aosta e Puglia) vedono aumentare la porzione destinata a remunerare il lavoro dipendente (fa eccezione solo la Basilicata) e calare il margine operativo lordo (tab. 24), testimoniando ancora una volta

DENTRO L’UMBRIA due108

come le attività produttive, per affrontare situazioni di difficoltà, pur di rimanere sul mercato siano disposte a contrarre la profittabilità e ridurre la produzione. Volendo scendere più nel dettaglio, e puntando l’analisi sull’ultimo anno utile ad un’articolazione settoriale (il 2007), si evince che la strutturale più ridotta quota destinata alla remunerazione d’impresa riscontrata in Umbria rispetto alla media nazionale caratterizza un po’ tutte le principali attività economiche, in modo particolare quelle commerciali. Il settore dove, invece, l’Umbria destina una maggiore quota al MOL rispetto alla media italiana, è quello della Pubblica Amministrazione (graf. 41). Graf. 41 - Incidenza del MOL sul valore aggiunto per principali attività economiche in Umbria e in Italia al 2007 e differenziali

33,5

28,4

29,9

27,2

20,7

26,3

39,7

56,2

37,2

61,9

19,4

34,3

17,2

37,1

32,3

32,5

32,0

27,5

29,5

41,7

58,5

40,3

65,4

18,1

27,1

19,9

-9,6

-12,1

-8,0

-15,1

-24,7

-11,0

-4,8

-3,8

-7,7

-5,2

7,2

26,5

-13,8

15 20 25 30 35 40 45 50 55 60 65 70

INDUSTRIA IN SENSO STRETTO

di cui Industria manifatturiera

COSTRUZIONI

COMMERCIO, RIPARAZIONI, ALBERGHI E RISTORANTI,TRASPORTI E COMUNICAZIONI

di cui Commercio all'ingrosso e al dettaglio; riparazione diautoveicoli, motocicli e di beni personali e per la casa

di cui Alberghi e ristoranti

di cui Trasporti, magazzinaggio e comunicazioni

INTERMEDIAZIONE MONETARIA E FINANZIARIA; ATTIVITÀIMMOBILIARI ED IMPRENDITORIALI

di cui Intermediazione monetaria e f inanziaria

di cui Attività immobiliari, noleggio, informatica, ricerca, altreattività professionali ed imprenditoriali

ALTRE ATTIVITÀ DI SERVIZI

di cui Pubblica amministrazione e difesa; assicurazionesociale obbligatoria

di cui Sanità e altri servizi sociali

Valori %

-50 -40 -30 -20 -10 0 10 20 30

Italia

Umbria

Diff. U_I(scala sup.)

Valori %

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat

AURAPPORTI: RES 2008-09 109

Da ultimo, se si confronta la distribuzione settoriale del MOL con quella costruita sul valore aggiunto, emergono le attività produttive che presentano una relativa maggiore propensione alla retribuzione dell’impresa, sia all’interno del sistema regionale umbro che in un confronto con la speculare distruzione riferita alla situazione italiana (tab. 26). Tab. 26 - Differenziale della distribuzione settoriale del MOL e del VA in Umbria e Italia al 2007 (stessa distribuzione = 1)

UMBRIA ITALIA

AGRICOLTURA, SILVICOLTURA E PESCA 0,83 0,33 INDUSTRIA 0,96 0,98 Industria in senso stretto 1,00 1,03 Estrazione di minerali 1,32 1,79 Industria manifatturiera 0,85 0,90 Industrie alimentari, delle bevande e del tabacco 0,47 0,86 Industrie tessili e dell'abbigliamento 0,69 0,76 Industrie conciarie, fabbricazione di prodotti in cuoio, pelle e similari 0,88 1,09 Fabbricazione della pasta-carta, della carta e dei prodotti di carta; stampa ed editoria 0,91 0,82 Cokerie, raffinerie, chimiche, farmaceutiche 0,48 1,32 Fabbricazione di prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi 1,38 1,00 Produzione di metallo e fabbricazione di prodotti in metallo 1,08 0,99 Fabbricazione di macchine ed apparecchi meccanici, elettrici ed ottici; mezzi di trasporto 0,61 0,80 Industria del legno, della gomma, della plastica e altre manifatturiere 0,94 0,84 Produzione e distribuzione di energia elettrica, di gas, di vapore e acqua 2,26 2,14 Costruzioni 0,90 0,90 SERVIZI 1,06 1,06 Commercio, riparazioni, alberghi e ristoranti, trasporti e comunicazioni 0,81 0,89 Commercio all'ingrosso e al dettaglio; riparazione di autoveicoli, motocicli e di beni personali e per la casa 0,62 0,76

Alberghi e ristoranti 0,79 0,82 Trasporti, magazzinaggio e comunicazioni 1,19 1,15 Intermediazione monetaria e finanziaria; attività immobiliari ed imprenditoriali 1,68 1,62

Intermediazione monetaria e finanziaria 1,1 1,1 Attività immobiliari, noleggio, informatica, ricerca, altre attività professionali ed imprenditoriali 1,9 1,8

Altre attività di servizi 0,6 0,5 Pubblica amministrazione e difesa; assicurazione sociale obbligatoria 1,0 0,8 Istruzione 0,2 0,2 Sanità e altri servizi sociali 0,5 0,6

* Il dato riferito a ciascuna attività economica, i, è dato dal seguente rapporto: (MOLi / MOL tot )/(VAi / VA tot ) Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat

DENTRO L’UMBRIA due110

L’indice riportato, che uguaglia l’unità nel caso di identica distribuzione tra MOL e valore aggiunto, a seconda che assuma valori inferiori o superiori all’unità rivela uno sbilanciamento a sfavore o a vantaggio rispettivamente della quota destinata al MOL rispetto a quella riferibile alla produzione del reddito totale. In definitiva, i valori superiori all’unità individuano le attività economiche la cui remunerazione d’impresa è più elevata della media. Per guardare oltre i numeri partendo dalle cifre di oggi

What we measure and how we measure it makes a difference (…). No single number can summarize anything

as complex and variegated as “society”. But, inevitably, certain numbers – in particular GDP –

have taken center stage (…). Measurement of “present” economic performance

also includes an assessment of “quality of life”. Quality of life includes the full range of factors that make life worth living,

including those that are not traded in markets and not captured by monetary measures42.

(Joseph Stiglitz, Amartya Sen, Jean Paul Fitoussi) Le recenti sollecitazioni da parte di illustri economisti a riconsiderare i termini dello sviluppo sotto un approccio più complesso, concordando sulla limitatezza degli strumenti analitici tradizionalmente usati nelle analisi economiche, ripropongono l’annoso problema di relativizzare il contenuto informativo rinviatoci dagli indicatori classicamente chiamati in causa quando si vuol sintetizzare il “livello di sviluppo” economico di un sistema territoriale. Che, come ci insegna Sen, è cosa diversa dal “livello di benessere”, del quale il primo riesce a cogliere solo un aspetto, quello più propriamente legato ai risultati contabili scaturiti dagli assetti e dalle dinamiche produttive. Il discorso è molto complesso e non è questa la sede per affrontarlo43. Certamente la delineazione del modello di sviluppo di un sistema territoriale va condotta nella sua globalità, affiancando l’analisi di indicatori che esprimono la forza 42 Ciò che noi misuriamo e il modo con cui lo misuriamo fa la differenza (…). Singoli numeri non possono riassumere i complessi e variegati aspetti della società. Ma, inevitabilmente, alcuni numeri – in particolare il Pil – hanno avuto un posto centrale (…). La misura del rendimento economico “attuale” include anche una stima della “qualità della vita”. La qualità della vita include un’ampia serie di fattori che rendono la vita degna di essere vissuta, comprensivi cioè di quegli elementi che non passano per il mercato e che non sono esprimibili da misure monetarie. 43 Solo per ricordare gli sforzi che da più parti e da qualche tempo si stanno compiendo per individuare i parametri necessari a determinare lo stato di salute di un’economia, si cita a titolo di esempio l’analisi effettuata dal Centro Studi Sintesi, per conto del Sole24ore, finalizzata a stimare il benessere in Italia. Il BIL (Benessere Interno Lordo) l’indice utilizzato che risulta la sintesi di otto differenti indicatori, premia il triangolo Romagna - Marche - Toscana e, in particolare, la provincia di Forlì-Cesena (che, con questo criterio, guadagna ben 21 posizioni rispetto alla classifica basata sul Pil) (cfr. Centro Studi Sintesi, 2009).

AURAPPORTI: RES 2008-09 111

economica (produttività del lavoro, Prodotto interno lordo per abitante) o gli equilibri nei ruoli tra il sistema locale e il più ampio contesto territoriale di riferimento (incidenza del Pil regionale sul totale nazionale) alla lettura di altre grandezze, come il sistema del welfare, la qualità della vita, il contributo del lavoro domestico (irrilevante dal punto di vista economico-contabile perché non considerato attività per il mercato)44, che possano dare conto delle disparità individuali e sociali e colmare, almeno in parte, la distanza che separa i dati macro-economici dalla percezione che hanno i cittadini della propria condizione. Secondo questa ottica, va tenuto conto del livello e della qualità delle prestazioni pubbliche, nella loro capacità di intervenire sulle condizioni di vita delle famiglie e di contribuire allo sviluppo sociale ed economico di un territorio. La Pubblica Amministrazione, relativamente più presente in Umbria rispetto alle vicine Toscana e Marche (che si pongono peraltro con valori inferiori al livello italiano) assolve in questo senso un ruolo strutturale, meno legato al ciclo, che non si limita a fungere da ammortizzatore nei periodi di rallentamento o di crisi economica, ma che è funzionale a supportare gli equilibri del modello sociale umbro; per cui, quando si chiama in causa l’indicatore “spesa pubblica per consumi finali per abitante” (pari in Umbria a 105, fatto 100 il valore medio nazionale), si intende sottolineare il valore di una presenza storicamente consolidata. La più elevata spesa per consumi finali unitaria della Pubblica Amministrazione compensa, in parte, la più bassa spesa pro capite delle famiglie umbre rispetto al contesto italiano (96,4 contro 100), seppure generata da redditi unitari superiori a quelli medi del Paese (101,3 è il reddito disponibile medio familiare, posto 100 quello italiano), ma più contenuti di quelli di Marche (104,1) e Toscana (111,3). Ciò in un contesto sociale che, meno disagiato rispetto all’intero territorio nazionale, presenta un livello di popolazione che vive in famiglie al di sotto della soglia di povertà (52,9 è il dato umbro fatto 100 quello italiano) più elevato di Toscana (48,5) e Marche (47,8). Ma se è vero che, alla fine, la società umbra può contare su una consistente offerta di beni pubblici, su una buona dotazione di capitale sociale, su una struttura sociale che limita i contraccolpi derivanti da precarietà lavorative e fenomeni di indigenza attraverso una rete ancora robusta di relazioni parentali e umane, attenuando le ripercussioni derivanti da una strutturale debolezza economica, il fronte produttivo non trova sufficiente ossigeno da quegli elementi necessari al processo di recupero di competitività (pari a 88,8 è la produttività del lavoro in Umbria, fatto 100 il valore medio nazionale).

44 Il Rapporto, The Measurement of Economic Performance and Social Progress Revisited, coordinato da Stiglitz, riferisce quali altri parametri per valutare lo stato di benessere, le prestazioni sociali (sanità, istruzione, sicurezza), il tasso di mortalità ed anche l’evoluzione fisica delle persone (altezza, peso, ecc.).

DENTRO L’UMBRIA due112

Tab. 27 - Umbria, Toscana, Marche e Italia: un quadro di sintesi attraverso alcuni indicatori

Umbria Toscana Marche Italia

Equilibri e ruoli (Regione / Italia * 100)

Popolazione 2008 1,49 6,2 2,6 100,0 Base produttiva (pop 15-64) 2008 1,45 6,0 2,5 100,0 Ula 2008 1,6 6,8 2,9 100,0 Immigrati 2008 2,2 8,0 3,4 100,0 Pil 2008 1,4 6,7 2,6 100,0 Va industria 2008 1,5 6,9 3,1 100,0 Va servizi 2008 1,3 6,7 2,5 100,0 Export 2008 0,9 6,9 2,9 100,0 Spesa in R&S totale 2007 1,0 5,8 1,5 100,0 Spesa in R&S delle imprese 2007 0,4 4,5 1,5 100,0

Dinamiche di lungo periodo (valori % medi)

Popolazione (1995-2008) 0,7 0,4 0,6 0,4 Pil reale (1995-2008) 1,3 1,3 1,8 1,3 Spesa reale per consumi (1995-2007) 1,5 1,5 1,3 1,5 Spesa reale per consumi finali delle famiglie (1995-2008) 1,4 1,5 1,1 1,3 Spesa reale per consumi finali della PA (1995-2007) 1,2 1,1 1,4 1,6 Spesa reale per Investimenti Fissi Lordi (1995-2007) 2,4 2,8 3,0 2,6 Fatturato esportato (1995-2008) 5,1 3,8 5,5 5,0

Indicatori unitari o di struttura (Italia=100)

Base produttiva (pop 15-64 /pop tot) 2008 97,4 97,5 97,5 100,0 Tasso di occupazione (occ 15-64 /pop 15-64) 2008 111,4 111,4 110,2 100,0 Pil pro capite 2008 93,1 109,3 101,4 100,0 Pil / Ula (2008) 88,8 99,2 90,6 100,0 Investimenti Fissi Lordi/Ula (2007) 91,5 91,5 87,9 100,0 Export /Pil (2008) 67,1 102,0 109,9 100,0 Spesa in R&S / Pil (2007) 74,6 85,5 56,1 100,0 Spesa in R&S delle imprese / Pil (2007) 30,1 66,7 55,7 100,0 Redditi da lavoro dipendente pro capite 2008 92,3 99,6 94,2 100,0 Mol/Va (2008) 92,5 98,7 92,8 100,0 Consumi finali pro capite 2007 98,9 108,7 99,4 100,0 Spesa per consumi finali delle famiglie pro capite 2008 96,4 111,9 99,0 100,0 Spesa per consumi finali PA pro capite 2007 105,0 99,1 97,7 100,0 Reddito familiare mediano 2006 103,0 117,7 108,7 100,0 Reddito familiare disponibile medio 2006 101,3 111,3 104,1 100,0 Pop che vive in famiglie povere /pop tot (2008) 52,9 48,5 47,8 100,0

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Tale recupero è possibile se alimentato da aumenti di dotazione di capitale non solo quantitativi ma anche con incorporato quel contenuto innovativo derivante dal progresso tecnico. Ed invece l’incidenza della spesa in R&S sul Pil dell’Umbria, che in totale è 74,6, posto 100 il corrispettivo valore italiano, si abbassa a 30,1 quando si isola la componente effettuata direttamente dalle imprese. Questo perché un contesto di bassa remunerazione del lavoro quale quello umbro (il reddito da lavoro dipendente pro capite è 92,3, posto 100 quello italiano) e con un bacino di offerta particolarmente nutrito dalla componente immigrata (l’1,5% di incidenza

AURAPPORTI: RES 2008-09 113

demografica dell’Umbria sull’Italia sale a 2,2% isolando la componente immigrata), tende a limitare le produzioni capital depending con una sostituzione capitale-lavoro legata a strategie di mera convenienza economica di breve periodo (la dotazione di capitale per addetto è in Umbria pari a 91,5, fatto 100 il rapporto Investimenti fissi lordi/Ula). E qui entra in gioco il discorso della qualificazione delle risorse umane, che rinvia al fenomeno della disoccupazione del lavoro giovanile intellettuale, una realtà purtroppo non solo locale. A fronte di una popolazione aumentata dal 1995 al 2008 a tassi particolarmente elevati (+0,7% è l’incremento medio annuo umbro contro +0,4% italiano), soprattutto per la componente immigrata, e di una base produttiva inferiore a quella italiana, l’Umbria recupera sul fronte della partecipazione alle attività lavorative, perché un più elevato tasso di occupazione regionale porta la incidenza delle Ula umbre su quelle italiane all’1,6% (un valore superiore alla quota della popolazione). Una relativa maggiore presenza di occupati ma anche di popolazione, da un lato, e una penalizzazione in termini di produttività, dall’altro, determinano livelli di Pil pro capite (93,1) inferiori a quelli nazionale (100) e soprattutto toscano (109,3) e marchigiano (101,4). Per una divergenza dall’Italia che sta aumentando negli anni più recenti. Tutto ciò, in presenza di una evoluzione media annua del Pil nel lungo periodo perfettamente in linea con il dato italiano (1,3%). Anche la dinamica della domanda interna, in particolare la spesa per consumi finali delle famiglie, ma anche quella proveniente dall’estero, si sono allineate, superandolo lievemente, al dato italiano; invece più contenuta è stata la crescita della spesa per consumi finali pubblici che, però, si pone su valori particolarmente alti in Umbria. Ancora, similare all’andamento medio nazionale dal 1995 al 2007 è stata in Umbria la dinamica della spesa per investimenti fissi lordi (2,4% contro 2,6%), accanto alle due regioni limitrofe invece più vivaci. Le Marche, in particolare, con un 3% di crescita media annua di spesa in dotazione capitalizia, si presentano nel 2008 con una produzione caratterizzata segnatamente dalla presenza industriale. L’Umbria, come anche la Toscana, risultano sostanzialmente allineate al modello italiano (il valore aggiunto dell’industria e dei servizi umbri rappresentano l’1,5% e l’1,3% dei rispettivi aggregati italiani, a fronte di una incidenza del valore aggiunto totale dell’1,4%). Ma la bassa produttività del lavoro finisce per penalizzare la remunerazione d’impresa, anch’essa al di sotto del dato medio nazionale (l’indice Mol su valore aggiunto è in Umbria, come nelle Marche, pari a 92,5, fatto 100 il dato italiano). Anche in questo caso la Toscana tende invece a caratterizzarsi su livelli analoghi a quelli medi del Paese. Indugiando ancora su una visione dell’oggi (dati 2008), l’Umbria riconferma la sua medianità anche in riferimento alla distanza dagli obiettivi di Lisbona. Posto un punteggio pari a 0 nel caso di regioni che hanno centrato l’obiettivo previsto dall’UE

DENTRO L’UMBRIA due114

e 100 il valore attribuito alla regione italiana più distante invece dal valore di riferimento europeo, la graduatoria relativa delle regioni italiane costruita con questo criterio (e che pone al primo posto la regione più distante e all’ultimo la più vicina dall’Europa) attribuisce all’Umbria valore 53, risultando decima (le Marche sono presenti con 50 e la Toscana con 44). L’Umbria è piuttosto vicina ai parametri europei in riferimento alla coesione sociale (per cui è 18esima, con 37,9, ponendosi dopo Marche e Toscana) e all’occupazione (è 16esima, con 36,8); si allontana invece con la sostenibilità ambientale (al 13° posto con 18,1, molto dopo le Marche, lontanissime dai parametri di Lisbona, raggiunti invece dalla Toscana) ma soprattutto con l’Innovazione, terza nella graduatoria delle regioni italiane, con 76,5, e considerata per questo ancora molto lontana dagli standard definiti in sede comunitaria. Da una fotografia attuale, si propone ora una breve lettura del mutamento delle traiettorie di sviluppo delle regioni italiane dal 2000 al 2006, offerta da un recente studio dell’Istat45. Attraverso il contenuto informativo di 170 parametri, fra indicatori chiave e variabili di rottura, l’Istituto Nazionale di Statistica ha elaborato due fattori intorno cui delineare i percorsi di sviluppo: il primo fattore si riferisce allo stato di salute del sistema territoriale, espresso da Pil procapite e da livelli di occupazione, disoccupazione, povertà, definito per questo Sviluppo economico e occupazione, quando positivo, o Disoccupazione e povertà nella sua accezione negativa; il secondo fattore attiene invece alle forme con cui il modello economico si caratterizza, se prevale cioè il Sistema pubblico della conoscenza e turismo o, per converso, l’Industria e innovazione (dunque, ove prevalga di più l’intervento pubblico in R&S e una domanda a forte caratterizzazione turistica oppure una forte presenza industriale con alta spesa in R&S, alto contenuto innovativo, forte presenza di servizi alle imprese). In questa ottica, che propone una inedita visualizzazione del posizionamento relativo delle regioni italiane (graf. 35), l’Umbria, insieme alle regioni del centro Italia, alla Liguria, al Friuli Venezia Giulia e all’Emilia Romagna (presente, quest’ultima, solo all’inizio del millennio) si colloca nel quadrante che individua le regioni caratterizzate da un Sistema pubblico della conoscenza/turismo e da Sviluppo economico/occupazione. Per Umbria, Toscana, Marche, Friuli Venezia Giulia è più incisiva la domanda turistica, mentre per Liguria e Lazio incide maggiormente il sistema pubblico della ricerca scientifica. Lo spostamento dell’Umbria dal 2000 al 2006 verso l’alto a sinistra, pur sempre all’interno dello stesso quadrante, è stato determinato dalla “diminuzione di almeno tre indicatori: la produttività del lavoro nel commercio, la spesa pubblica in R&S e l’indice di

45 Istat, 2009b.

AURAPPORTI: RES 2008-09 115

attrattività delle università” (Istat 2009b, p. 129), comportando un avvicinamento ai valori medi nazionali46. Marche e Toscana si spostano invece verso l’alto a destra, rivelando dinamiche di sviluppo sostanzialmente positive. Graf. 35 - Posizionamento delle regioni sugli assi fattoriali. Anni 2000 e 2006

Fonte: Istat 2009b, p. 129 Si tratta di un altro modo di proporre caratterizzazioni e dinamiche dei differenti modelli regionali. I cui esiti, a ben guardare, trovano rispondenza con quanto analizzato precedentemente nel presente contributo. Ma l’ultimo anno di riferimento è l’ormai lontano 2006. Nel giro di un triennio lo scenario è profondamente mutato; nel momento in cui si scrive l’Italia, e l’Umbria, stanno cercando di risollevarsi da una crisi mondiale che ha colpito la domanda, la produzione, soprattutto quella industriale e prima di tutto quella destinata al commercio estero ma che, attraverso la catena di fornitura e subfornitura, ha trasmesso i suoi effetti anche alle imprese rivolte al mercato interno e, a ruota, anche a quelle dei servizi: la più colpita, la piccola

46 Per la trattazione della entità e del ruolo della spesa in R&S si rinvia a Casavecchia, nel presente Rapporto.

DENTRO L’UMBRIA due116

dimensione (Banca d’Italia, 2009). E la nostra regione, espressione prima di tutto di piccole realtà produttive47, ricorderà il 2009 quale anno profondamente segnato da un massiccio ricorso alla CIG, soprattutto nella manifattura e nel commercio48. Infatti, al fine di affrontare ed “attenuare per quanto possibile gli impatti della crisi sulla condizione dei lavoratori, ed in assenza di una complessiva riforma della generale strumentazione di tutela per i lavoratori delle imprese in difficoltà, la Regione ha dato tempestiva attuazione all’accordo Governo-Regioni sugli ammortizzatori sociali in deroga (…), che prevede l’utilizzo di parte delle risorse del Fondo Sociale Europeo per il sostegno ed il finanziamento di tali strumenti. Applicato a livello regionale, esso comporta il riorientamento di 43,7 milioni di euro per il finanziamento di pacchetti integrati di sostegno al reddito per coloro che perdono il posto di lavoro, combinato a misure di aggiornamento e riqualificazione professionale. La Regione ha tempestivamente avviato l’esame congiunto per l’utilizzo dello strumento della Cassa Integrazione Guadagni in deroga per coloro che sono sprovvisti dei normali ammortizzatori sociali” (Regione Umbria - Giunta Regionale 2009, p. 28). In Umbria, il sostegno al reddito dei soggetti colpiti dalla crisi ha riguardato sia le famiglie (attraverso la sospensione dei mutui sulla prima casa) sia il sistema delle piccole e medie imprese (mediante soprattutto il sostegno all’accesso al credito). Ma, in una clima di instabilità economica come quello attuale, non sarebbe né significativo né particolarmente illuminante riportare dati previsionali circa il futuro prossimo. Questo, perché, anche se gli effetti di crisi di vasta portata come questa non è detto che ridisegnino del tutto “le specializzazioni nazionali e all’interno dei territori, cambiando in profondità i sistemi economici nazionali e regionali” (Regione Umbria, 2009, p.85), è molto probabile che nel cammino verso il riassestamento e la ripresa - che le stime ufficiali prevedono piuttosto lungo e tortuoso - equilibri e ruoli interni al sistema economico umbro e dell’Umbria con l’esterno potrebbero anche cambiare.

47 Cfr. Ferrucci e Sacchi, nel presente Rapporto. 48 Cfr. su questo aspetto Birindelli, nel presente Rapporto.

AURAPPORTI: RES 2008-09 117

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Sezione II

LE IMPRESE

PICCOLE IMPRESE, COMPETITIVITÀ E CRESCITA ECONOMICA Luca Ferrucci Il tema delle piccole imprese sta riemergendo, negli ultimi tempi, nel dibattito politico, istituzionale e culturale del nostro Paese. In effetti, la crisi economica mondiale, verificatasi a partire dal secondo semestre del 2008, ha indotto una riflessione sulle debolezze proprie di un modello capitalistico fortemente incentrato sulla finanziarizzazione del sistema economico e sulla centralità delle cosiddette big corporation industriali e finanziarie. Il nostro Paese, da sempre caratterizzato dalla presenza di moltissime piccole imprese, non si è trovato certo ad essere immune dai contraccolpi negativi di questa crisi economica e finanziaria. Certamente, però, le piccole imprese manifatturiere del nostro Paese hanno mostrato alcune proprie strutturali virtù, quali un forte radicamento nel territorio di origine (a fronte di fenomeni di delocalizzazione perseguiti, negli ultimi anni, da molte medio-grandi imprese), una loro vocazione strettamente manifatturiera (a fronte di certi orientamenti prettamente finanziari negli investimenti) e una loro resilienza alla crisi (mostrando apprezzabili tentativi di non ricorrere a forme di espulsione delle proprie professionalità, ma cercando di preservarle, sebbene all’interno di forme contrattuali di condivisione delle difficoltà economiche). In questo contesto, ovviamente, non si tratta di “cadere” in “vecchi” stereotipi in base ai quali small is beautiful oppure, secondo i quali , le piccole presentano caratteri di superiorità competitiva rispetto alle grandi imprese. Al contrario, la riflessione teorica sulle piccole imprese deve, pragmaticamente, partire dalle loro caratteristiche strutturali, di governance, per una riflessione più estesa relativamente ai loro limiti e alle loro possibilità, unitamente alle iniziative che la policy pubblica può intraprendere a supporto delle loro iniziative. Tutto questo significa anche che non si può dare “voce” ai “cantori” del declino strutturale del nostro Paese che invitano a rimpiangere sempre le grandi imprese industriali, sostenendo che la loro rarefazione comporta automaticamente una caduta della competitività del nostro Paese. Il presente lavoro si divide in sei differenti parti.

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Nella prima parte si svolge una rassegna della letteratura economica, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta nel nostro Paese, identificando i principali paradigmi teorici sul tema della competitività delle piccole imprese. Nella seconda parte si analizza la consistenza delle piccole imprese in Umbria, comparativamente ad altre regioni contigue, al fine di verificare se e in che misura questa regione presenta una propria specificità dimensionale nell’industria manifatturiera. Nella terza parte si imposta un modello di dinamica industriale, applicato all’Umbria e comparativamente ad altre regioni contigue, tramite il quale si analizza, da un lato, la natalità e la persistenza dimensionale delle piccole imprese e, dall’altro, i fenomeni di downsizing delle medio-grandi imprese. Nella quarta parte le piccole imprese umbre sono esaminate, in un quadro comparato inter-regionale, sulla base di alcuni loro indicatori di performance economica e finanziaria desumibili dai loro bilanci di esercizio. Nella quinta parte sono riportati i risultati empirici di una ricerca sul campo fatta presso circa duecento piccole imprese umbre. Infine, la parte conclusiva è dedicata ad alcune osservazioni di sintesi e ad alcune riflessioni di policy industriale a supporto delle piccole imprese umbre. A) Una rassegna della letteratura economica: i principali modelli della letteratura economica: i principali modelli teorici di riferimento Le piccole imprese costituiscono, nel panorama dei paesi industrializzati e, in particolare, in Italia, un modello di organizzazione economica caratterizzato da una profonda eterogeneità. Infatti, la natura, la tipologia e i comportamenti strategici – in termini di mercati, clienti e tecnologie adottate – sono estremamente vari. Tutto questo rende difficoltoso giungere a giudizi di valore univoci sul significato competitivo di queste entità economiche. Fondamentalmente, i giudizi di valore che la letteratura economica e manageriale, a livello internazionale, si trova ad esprimere sul concetto di piccola impresa appaiono essere condizionati perlomeno da tre diverse letture teoriche. Il primo approccio teorico fonda il giudizio economico sulle piccole imprese su un’analisi comparativa, di tipo strettamente dimensionale, rispetto alle grandi imprese. Le piccole imprese sono state interpretate quali attori imprenditoriali capaci, contrariamente alle grandi imprese fordiste, di realizzare produzioni “su misura”, ossia concepite e fatte in modo industriale, ma adattate al cliente con una cura di tipo quasi artigianale e densa di servizi di progettualità in termini di design e di innovazione. Il secondo approccio teorico mira ad analizzare le diverse tipologie di piccole imprese e a “decretarne” la superiorità competitiva di una di esse in funzione della sua appartenenza ad uno specifico modello spaziale di organizzazione e di divisione del lavoro. Si tratta di una letteratura economica che ha fatto dei modelli locali di sviluppo l’archetipo per leggere

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e interpretare la competitività delle piccole imprese. Così, ad esempio, la piccola impresa presenta livelli di efficienza e di produttività assai diversi a seconda che essa sia parte di un modello di decentramento attivato da una grande imprese à la Perroux piuttosto che di un distretto industriale marshalliano. Infine, il terzo approccio teorico “ritorna” sulla comparazione tra piccole e grandi imprese secondo una logica valutativa a partire dalle caratteristiche economiche dei vari settori manifatturieri in cui esse operano. La diversa competitività di queste tipologie di imprese risente delle caratteristiche economiche e tecnologiche del settore di appartenenza. Così, ad esempio, secondo la tassonomia di Pavitt, occorre poter distinguere i settori scale intensive, supplier dominated, science based e specialised suppliers che presentano differenti opportunità competitive per le piccole imprese. L’intersecarsi del piano strettamente dimensionale con quello localizzativo e settoriale ha, quindi, “gemmato” una vasta letteratura economica su questo tema. Da questo punto di vista, il nostro Paese – anche rispetto a molti altri paesi industrializzati avanzati – ha costituito un fertile “terreno” per la formulazione di specifiche ipotesi e per la realizzazione di vaste ricerche empiriche. Il presente contributo cerca, pertanto, di tracciare una sistematizzazione di questa letteratura economica, presente nel nostro Paese, nella consapevolezza dell’oggettiva difficoltà a poterla “inglobare” tutta quanta. Il percorso teorico proposto rappresenta anche, per certi aspetti, un tentativo di ricostruzione storica degli atteggiamenti e dei giudizi di valore che si sono promossi, nel nostro Paese, tra gli economisti e i policy makers. Nella ricostruzione di questo dibattito politico e culturale sulle piccole imprese sono state identificate, secondo uno specifico fil rouge, cinque diverse fasi, anche storicamente collocabili in una possibile sequenza temporale a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta: la fase della marginalità; la fase della subalternità; la fase della complementarità; la fase dell’autonomia e del protagonismo; la fase dell’incertezza. Le piccole imprese: la fase della marginalità Per un lungo ciclo storico, anche nel nostro Paese, la modernizzazione economica è stata interpretata alla luce dell’avvento delle grandi imprese industriali. È soprattutto a partire dagli anni Sessanta, sulla scorta del dibattito sull’industrializzazione del Paese, oltreché sul ridimensionamento del divario economico esistente a sfavore del Mezzogiorno, che si alimentano grandi aspettative di sviluppo centrate sulle grandi imprese (Momigliano, 1966; 1975; Saraceno, 1970). Sulla scorta del modello capitalistico nord-americano, lo sviluppo economico è interpretato in termini di affermazione delle big corporation da intendersi, soprattutto, come grandi imprese fordiste, multinazionali e con una governance manageriale, magari secondo assetti di public company. I fondamenti della competitività di queste grandi imprese affondano in due logiche fondamentalmente diverse ma che, entrambe, contribuiscono congiuntamente ad irrobustire il paradigma culturale della superiorità di questo modello di impresa rispetto a quello di dimensioni minori.

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Da un lato, le grandi imprese possiedono una maggiore capacità di conseguire livelli di efficienza tecnica e organizzativa. La presupposta dinamica industriale – fatta di concentrazioni settoriali, di elevati fabbisogni finanziari destinati a soddisfare le esigenze di investimenti industriali scale-intensive e di “razionalità organizzativa” di manager preparati sul piano professionale – ha generato inevitabilmente un crowding out competitivo a sfavore delle piccole imprese. La grande dimensione dell’impresa si fonda su questa superiore efficienza tecnica rispetto alle piccole imprese. I fondamenti di tale supposta efficienza sono da ricondurre al progresso tecnologico (Sylos Labini, 1967) e al conseguente sfruttamento di economie di scala nel ciclo manifatturiero, indotte da traiettorie di innovazione tecnologica che privilegiano l’automatizzazione dei processi di trasformazione e la riduzione dei fabbisogni di forza lavoro. Non solo, perfino, in altre attività generatrici di valore economico all’interno dell’impresa industriale, la grande dimensione costituisce un quid indispensabile per la sua competitività. Così, gli investimenti nelle attività di marketing, nella logistica oppure in quelle di R&S richiedono rilevanti fabbisogni finanziari che possono essere coerenti solamente con la grande dimensione. Tra i primi a sostenere questa tesi, lo stesso Schumpeter (1942) – quando nella sua rivisitazione sui meccanismi di accumulazione e di sviluppo capitalistico – si trovò a rielaborare criticamente alcune sue precedenti convinzioni relative alle virtù delle piccole imprese: il processo di innovazione – nelle moderne società capitalistiche – diviene un fenomeno strutturato e pianificato; solamente la grande impresa può disporre di elevati capitali finanziari e di compositi team di ricercatori capaci di alimentare e diversificare specifici percorsi di ricerca scientifica applicata. Il genio individuale, creativo, inventore ma anche innovatore, secondo una logica imprenditoriale, non ha più spazio, nel pensiero tardo-schumpeteriano: “Il processo capitalistico, sostituendo i pacchetti di azioni ai muri e alle macchine dello stabilimento, svuota il concetto di proprietà, ne indebolisce la presa un tempo così forte – la presa nel senso del diritto legale e della capacità reale di trasformare ciò che si ha in ciò che si vuole, sia nel senso che il possessore del titolo è deciso a combattere, economicamente, fisicamente e politicamente per la “propria” azienda e per il suo controllo e a morire, se necessario, sui suoi gradini. L’evaporazione di quella che possiamo chiamare la sostanza materiale della proprietà – e la sua realtà visibile e tangibile – incide non solo sull’atteggiamento degli azionisti, ma anche su quello degli operai e del pubblico in genere. La proprietà smaterializzata, sfunzionalizzata e assenteista non esercita più il fascino tipico della forma ancora vitale della proprietà. Un giorno non ci sarà più nessuno al quale veramente prema di difenderla – nessuno all’interno, e nessuno all’esterno dei confini dell’azienda-gigante” (Schumpeter, 1942). L’efficienza della grande impresa manageriale, dunque, non è solamente un fatto tecnologico (macchinari automatizzati, laboratori di R&S, tecnologie a supporto delle decisioni aziendali, ecc.) ma anche – e forse soprattutto – organizzativo. Qualsiasi impresa è intenta ad approvvigionarsi di due “ingredienti” essenziali per i suoi processi di crescita: il capitale finanziario e il capitale organizzativo. In questa logica, la grande impresa manageriale presenta il pregio di

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poter operare, in modo separato, in questi due mercati distinti: quello delle risorse finanziarie cioè del capitale di rischio e quello delle capacità organizzative, fatto di executive manager. E, conseguentemente, su entrambi i mercati, essa può “reclutare” le risorse più efficienti: da un lato, i capitali di rischio aventi la minore onerosità e la maggiore pertinenza e, dall’altro, le risorse manageriali più capaci rispetto alle caratteristiche dei progetti di investimento che intende perseguire. Questa possibilità, purtroppo, non è data in altri modelli di impresa, quale quello del capitalismo imprenditoriale, dove i due input (capitale finanziario e capitale organizzativo) sono espressione del medesimo soggetto proprietario (e dei suoi discendenti), capace o meno di fornire tali fattori di produzione nella quantità e nella qualità desiderabile e auspicabile. La grande impresa manageriale, dunque, ha la libertà di scegliere su questi due mercati quali mezzi finanziari e quali risorse professionali e dirigenziali ritiene più opportuno acquisire al fine di ottenere i risultati migliori. In questa logica complessiva, la grande impresa industriale è, al tempo stesso, concentrazione industriale e concentrazione finanziaria, i cui finanziamenti alla meccanizzazione della produzione di massa vengono realizzati passando da linee esterne di accumulazione del capitale in linee interne alle grandi imprese: “le imprese potevano essere viste sia come concentrazioni industriali, che centralizzavano il potere decisionale sulle operazioni industriali, sia come concentrazioni finanziarie, che centralizzavano il controllo sul capitale sociale”(Di Bernardo, 1991); con ciò viene storicamente emergendo una nuova finanza, con un inedito managerialismo finanziario, che accompagna quello più genuinamente industriale. Sotto questo piano, la big corporation è una concentrazione di capitale industriale-finanziario, con la prevalenza dell’aspetto industriale in grado di creare un proprio mercato finanziario, emettendo azioni garantite dalla credibilità manageriale. Il governo dell’impresa, nell’ambito del capitalismo manageriale, è basato su forme d’imprese non più identificate con l’imprenditore, ma con un pool di saperi manageriali intesi come insiemi concreti di routines organizzative. Dall’altro lato, le grandi imprese sono in grado di conseguire una maggior potere di mercato, limitando la concorrenza e ottenendo benefici economici e non, grazie all’attività di lobbying nei confronti delle istituzioni pubbliche. Proprio negli USA, dove il modello dell’impresa manageriale si è formato e consolidato prima che in altri Paesi, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, si sono avuti interrogativi sui suoi caratteri competitivi, talvolta espressione non solo di efficienza tecnica (economie di scala nel manifatturiero, efficienza nelle attività logistiche o di marketing, innovazione grazie agli investimenti nella R&S), ma anche e soprattutto come capacità di esercitare una lobby nei confronti delle istituzioni pubbliche, al fine di limitare la concorrenza ed esercitare un elevato potere di mercato (Berle, Means 1932; Marris, 1964). Inoltre, durante le crisi economica, queste grandi imprese sono too big to fail, ossia per esse non posso valere le “regole” del mercato ai fini del darwinismo sociale. Non è casuale che, proprio negli USA, si sia formata, sin dall’inizio del processo storico di industrializzazione, una sensibilità culturale nei confronti delle condizioni “vitali” della libera concorrenza e della necessità – sancita, poi, nel 1890 (ben un secolo prima dell’istituzione della nostra Antitrust nazionale)

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con lo Sherman Act – di disporre di precise regole istituzionali pubbliche al fine di preservarla nel tempo. Ancora oggi, negli USA, una buona parte del dibattito politico in corso verte proprio sul potere di influenza delle grandi lobbies economiche, spesso espressione di big corporation, sui parlamentari e sui funzionari del Governo federale. Come afferma esplicitamente J. R. Talbott (2009), “se gli obiettivi delle grandi imprese e quelli dei cittadini fossero coincidenti, non ci sarebbe bisogno dei lobbisti. Il fatto che esistano significa che il loro proposito specifico è quello di corrompere il processo democratico e impedire che si svolga correttamente”. Secondo la “Lobbying Overview”, ad esempio, le spese per tali attività, negli USA, sono passate complessivamente da 1,45 miliardi di dollari nel 1998 ai 2,80 miliardi di dollari nel 2007 (Lobbying Database, aprile 2008, www.opensecrets.org/lobbysts): una crescita vertiginosa, molto di più anche comparativamente alla variazione del PIL nello stesso periodo! In questa duplice interpretazione economica, la modernizzazione economica non lascia spazio competitivo, anche nel nostro Paese, alle piccole imprese. Queste ultime appaiono residui da “archeologia industriale”, strutture organizzative marginali, destinate ad essere “spazzate” via dall’avvento e dall’affermazione della grande impresa manifatturiera. La sopravvivenza delle piccole imprese manifatturiere diviene solo una questione temporale: il timing di accesso e di affermazione delle grandi imprese può variare da settore a settore, da territorio a territorio, da mercato a mercato, ma inesorabilmente l’arrivo di queste ultime decreta la marginalità, se non addirittura la scomparsa, delle piccole imprese. Studi sull’economia del Mezzogiorno sembrano confermare questa tesi. Secondo Brusco e Paba (1997), prima dei processi di induzione dello sviluppo economico fondato sulla grande impresa, in questa area del Paese esisteva una diffusa artigianalità, presente nei settori del legno, dell’abbigliamento, delle calzature e dell’alimentare, con una propria storia, una propria qualità manifatturiera e una propria capacità di valorizzare identità sociali e culturali a livello locale. Purtroppo, l’arrivo della grande impresa – spesso pubblica ma non solo – operante nei settori scale-intensive (metallurgia, cantieristica, petrol-chimico, ecc.) ha comportato un crowding out sul mercato locale del lavoro, spazzando via le professionalità e le abilità artigianali, oltreché le loro nascenti proto-filiere manifatturiere locali. Come può strutturalmente sopravvivere la piccole impresa in questo contesto competitivo? Di fatto, essa può operare solamente su mercati interstiziali, limitati, spesso protetti dalla concorrenza in quanto non economicamente attrattivi per le grandi imprese oppure grazie a interventi istituzionali pubblici che limitano l’accesso di queste ultime. Di conseguenza, l’unica policy pubblica destinata a garantire la persistenza delle piccole imprese è quella di tipo protezionistico: aiuti finanziari; regolamentazioni restrittive per l’accesso a specifici mercati spaziali; quote di acquisti di beni e servizi da parte della pubblica amministrazione specificatamente destinati a favore delle piccole imprese fornitrici; riduzioni della pressione fiscale sui loro redditi; e così via.

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Le piccole imprese: la fase della subalternità A partire dai primi anni Settanta, nel corso della difficile stagnazione economica accompagnata da elevati tassi di inflazione, nel nostro Paese si sviluppa un dibattito politico ed economico in relazione ai processi di ristrutturazione perseguiti dalla grande impresa manifatturiera. Queste dinamiche comportano non solo un downsizing delle grandi imprese, con conseguente espulsione di manodopera, ma anche l’attivarsi di dinamiche di approvvigionamento di beni e servizi a favore di piccole imprese. In un certo qual modo, la divisione del lavoro diviene sempre meno interna all’impresa e sempre più espressione di rapporti tra imprese diverse. Si tratta, evidentemente, di un’innovazione culturale rilevante rispetto al paradigma interpretativo precedente. In questo contesto, molti studiosi ritengono che queste piccole imprese, sebbene giuridicamente separate dalla grande impresa, siano de facto delle entità economiche assimilabili ad una forma di lavoro dipendente. In un certo qual modo, si sostiene che tali piccole imprese siano economicamente subalterne – ovvero dipendenti – della loro grande impresa committente (Caselli, 1974; Frey, De Santis, Livraghi, 1975; Guerci, 1974; Salvati, 1974). Questa subalternità è da interpretarsi in una logica di funzionalità rispetto agli interessi economici delle grandi imprese. Il fatto che il decentramento produttivo si innesti in una condizione di criticità delle situazioni economico-finanziarie e produttive delle grandi imprese e che contravvenga al modello teorico della tendenza inarrestabile alla crescita delle dimensioni aziendali, contribuisce a favorire, nella letteratura economico-industriale, una prima visione e interpretazione complessivamente regressiva del fenomeno (Pennacchi, 1980). L’attore del decentramento produttivo è la grande impresa integrata che – violando i principi efficientistici di natura tecnica e economica legati alla grande dimensione – opta per una esternalizzazione di fasi di lavorazione tecnico-manifatturiere. Il fenomeno appare evidentemente nuovo, dato che le impostazioni dell’economia industriale e aziendale, sino ad allora, avevano privilegiato una lettura evolutiva del capitalismo decisamente opposta: la crescita dimensionale quale condizione per il conseguimento della maggiore efficienza tecnica e per una funzionale competitività di costo di produzione. La determinante dei processi di decentramento produttivo è insita nei differenziali economici strutturali di utilizzo del fattore lavoro esistenti nella comparazione tra grandi e piccole imprese, in riferimento principalmente alla crescente rigidità di impiego di tale fattore e alle connesse dinamiche salariali che si sono andate realizzando nel nostro paese. Mentre dal 1963 al 1969 le grandi imprese industriali perseguono logiche di ristrutturazione industriale basate sull’intensificazione dei ritmi di lavoro, con il ricorso al lavoro straordinario e a varie forme di remunerazioni incentivanti, nel periodo successivo (a partire dai primi anni Settanta) il movimento sindacale assume un maggior potere di controllo sull’organizzazione del lavoro, tale per cui queste imprese si trovano a subire un

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irrigidimento gestionale e organizzativo della forza lavoro1. Tra l’altro, provvedimenti legislativi intrapresi in questo periodo2 – come lo Statuto dei Lavoratori (Legge n. 300/1970) e la nuova regolamentazione del lavoro a domicilio (Legge n. 877/1973) – di fatto contribuiscono a istituzionalizzare due diversi regimi nelle relazioni industriali a seconda della dimensione delle imprese (Bin, 1983). In particolare, si osserva che, nelle grandi imprese, il fattore lavoro presenta una rigidità d’impiego sostanzialmente asimmetrica, che si manifesta nella sua interezza solamente nelle fasi di contrazione congiunturale dell’attività produttiva, quando non è sostanzialmente possibile modificare l’entità dei salari e la quantità di lavoro impiegata; al contrario, nelle fasi di espansione dell’attività produttiva, la quasi-fissità di questo input non genera particolari problemi organizzativi. Le piccole imprese, invece, appaiono avvantaggiate perché presentano una maggiore adattabilità, dovuta ad un impiego più elastico delle proprie risorse umane e professionali. Tutto ciò fa aumentare significativamente il costo del lavoro per unità di prodotto nelle medio-grandi imprese, sino a determinare un crescente differenziale rispetto a quelle di dimensioni piccole e artigianali. La soluzione del decentramento produttivo prevede essenzialmente il ricorso da parte di queste grandi imprese a una rete di subfornitori, finalizzati a sostituire parzialmente o totalmente le capacità produttive interne connesse ad alcune fasi di lavorazione. La piccola impresa subfornitrice deve essere cioè in grado di realizzare le stesse fasi di lavorazione o, addirittura, gli stessi prodotti finiti della grande impresa committente. I presupposti logici dell’efficienza di questo modello di relazioni verticali sono fondamentalmente due. Da un lato, il mercato del lavoro deve assumere connotati marcatamente dualistici, ossia tendere a dividersi in due segmenti (Lutz, 1972; Piore, 1977): da un lato, il segmento cosiddetto primario, formato da lavoratori sindacalmente protetti e garantiti da remunerazioni maggiori, e, dall’altro alto, quello secondario, dove operano lavoratori non tutelati sindacalmente, con un impiego meno stabile e meno remunerato e con un livello di qualificazione, in genere, minore. È evidente che i differenziali del costo del lavoro tra grandi e piccole imprese, quindi, non sono riferibili solo puntualmente ai livelli nominali delle remunerazioni, ma vanno intesi in un senso ‘allargato’ alle diverse condizioni di lavoro (propensione a una elasticità degli orari, livello di sindacalizzazione, rigidità delle mansioni assegnate ecc.)3. Le normative a tutela del lavoro ampliano la differenziazione di trattamento tra piccole e grandi imprese,

1 «Senza tener conto della svalutazione, negli ultimi cinque anni, il costo del lavoro delle nostre imprese è aumentato del 15-20% in più di quello delle imprese estere concorrenti, come conseguenza di una grossa spinta salariale e di una mediocre crescità della produttività», Salvati (1974).2 In questo ambito di analisi, non si può sottovalutare neppure il ruolo deverticalizzante dell’introduzione, nel nostro ordinamento giuridico, dell’IVA, nel 1973, in sostituzione dell’IGE.3 Peraltro, non bisogna ignorare la rilevante eterogeneità all’interno del segmento secondario, dove è possibile distinguere forme di mobilitazione di risorse e capacità altrimenti non utilizzate o utilizzabili (per esempio, lavoro a domicilio, segmenti femminili, componenti dell’impresa familiare) da altre forme proprie invece di logiche patologiche di funzionamento del mercato del lavoro e delle relazioni industriali.

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accentuando pertanto la rilevanza di questa determinante nei fenomeni di decentramento produttivo. Ovviamente questo differenziale delle condizioni di impiego del fattore lavoro deve avere carattere strutturale. In ogni caso si sottolinea che il processo di industrializzazione tayloristica è andato generando un sistema tecnologico di produzione tale da comportare, per molte attività e fasi di lavorazione, un calo del livello di professionalità richiesto (Zaninotto, 1978). In questa fattispecie si ha un decentramento attivato e alimentato dalla grande impresa la quale, per contenere i costi di produzione complessivi, cerca di trarre vantaggio dall’esistenza cristallizzata (e anzi crescente) di differenziali nel mercato del lavoro sia in senso geografico che sociale, culturale e demografico. Come conseguenza di tali caratteristiche nei mercati del lavoro, la grande impresa può collocare domande differenziate di professionalità, e di relative condizioni di lavoro, all’interno dei diversi segmenti identificati, dando luogo a varie forme di decentramento (per esempio, lavoro a domicilio, impresa familiare, impresa artigiana, piccola impresa industriale). Dall’altro lato, per poter determinare efficaci condizioni di competitività sui costi di produzione complessivi da parte delle imprese decentranti, il costo del lavoro, inteso in questo senso allargato, deve avere un’incidenza relativamente elevata sul valore aggiunto manifatturiero finale, altrimenti il processo di decentramento stesso non troverebbe una sua giustificazione economica razionale. Ciò significa che tale processo si attiva in settori o, meglio, in fasi di lavorazione manifatturiera essenzialmente labour intensive. Tra le implicazioni rilevanti di ciò vi è che, se i differenziali del costo del lavoro non fossero stati così rilevanti, plausibilmente le grandi imprese nella propria ristrutturazione industriale avrebbero scelto sentieri di evoluzione maggiormente legati ai fenomeni del progresso tecnologico e organizzativo. I vantaggi ottenibili in termini di costo del lavoro per unità di prodotto possono dunque aver contribuito, nel tempo e nel nostro Paese, a cristallizzare tecniche o schemi organizzativi delle imprese committenti, procastinando le esigenze di introduzione di nuove tecnologie. In molti settori dominati dalla presenza di grandi imprese – quali la cantieristica, l’automobilistico e la chimica – questo modello del mercato dualistico del lavoro assume una primaria importanza ai fini della spiegazione sull’attivarsi di dinamiche di decentramento produttivo di capacità a favore di piccole imprese subfornitrici. In queste condizioni, le piccole imprese appaiono naturalmente deputate a utilizzare e rafforzare questi segmenti marginali del mercato del lavoro, dove i minori tassi di sindacalizzazione della forza lavoro, le maggiori capacità di controllo sulla produttività e la possibilità di ricorrere, senza particolari rischi, all’impiego di lavoratori temporanei costituiscono i fondamenti della loro efficienza e della loro competitività (Paci, 1973; Vianello, 1975). In questa logica, appare comprensibile l’accesa discussione politica e sindacale, in corso negli anni Settanta, sull’opportunità o meno di percorrere due diverse piattaforme contrattuali, l’una rivolta alla grande impresa e l’altra a favore delle piccole imprese; se, evidentemente, la piccola impresa costituisce un ‘reparto staccato’ della grande impresa, ogni tentativo di promuovere vantaggi economici a favore della prima viene inevitabilmente traslato a favore della seconda. Di conseguenza, secondo questa impostazione, non vi è uno spazio per la politica

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industriale a supporto delle piccole imprese, essendo – essa stessa – una forma indiretta di vantaggiosità economica della grande impresa committente. Tra l’altro, la dipendenza economica della piccole impresa subfornitrice è rafforzata dalle caratteristiche spesso di tipo mono o oligopsonistiche del committente-grande impresa. Il prezzo diventa l’indicatore primario della selezione efficiente dei subfornitori da parte della grande imprese decentrante e, dunque, ciò stimola un’aspra concorrenza tra questi piccoli operatori. Ecco perché taluni parlano addirittura della piccola impresa come di un subfornitore-dipendente (Brusco, 1991). Il rapporto verticale tra grande impresa decentrante e piccole imprese subfornitrici è dunque fortemente dominato da modelli gerarchici inter-aziendali, sostanzialmente di tipo conflittuale, dove i rischi delle variazioni della domanda di mercato tendono a essere traslati interamente sull’attore economicamente debole, ossia la piccola impresa. Tutto ciò delinea un quadro interpretativo di specificità del percorso evolutivo di industrializzazione del capitalismo italiano che «ha ancora bisogno di un costo del lavoro relativamente basso al fine di salvaguardare i suoi equilibri». La spinta salariale, infatti, iniziata lentamente dai primi anni Sessanta, non è stata colta né dal ceto imprenditoriale, né dalle autorità politiche, le quali hanno «sempre cercato scappatoie per sottrarsi all’attacco. Dunque, una linea di condotta complessivamente miope e esposta alla minaccia di paesi con costo del lavoro più basso e con crescenti capacità tecnologiche [...]. Il decentramento non è che l’ultimo sviluppo di questa linea» (Salvati, 1974). A rafforzare questa visione regressiva del capitalismo italiano, vi sono anche interpretazioni teoriche fondate sulla natura istituzionale delle nostre imprese. La natura di capitalismo familiare di molte medio-grandi imprese contribuisce a far prediligere forme di decentramento produttivo, capaci di alleggerire i vincoli al finanziamento degli investimenti industriali, evitando il ricorso a forme evolutive di accesso al capitale di rischio (quotazione nel mercato borsistico, allargamento della base azionaria ecc.)4: «Il decentramento produttivo su vasta scala dell’attività produttiva [...] può essere visto [...] come la forma necessaria di uno sviluppo industriale che ha avuto sempre difficoltà a sviluppare un’accumulazione vigorosa e autonoma nelle imprese ‘centrali’ e non ha avuto il sostegno di un mercato finanziario capace di allargare il capitale di comando delle maggiori imprese fuori dal controllo familiare» (Rullani, 1974). L’impresa inoltre «può non avere un’organizzazione in grado di gestire i problemi che sorgono con un aumento della produzione interna. Non ci riferiamo soltanto a vere e proprie diseconomie organizzative [...]. Intendiamo anche far riferimento a situazioni in cui le diverse forme organizzative che sarebbero

4 D’altra parte, l’impiego di capitale, durante gli anni ’70, appare caratterizzato da elevati tassi sui mercati finanziari e conseguentemente rilevanti oneri finanziari a carico delle imprese (Frey, De Santis, Livraghi 1975). La soluzione del decentramento produttivo appare una tra le possibili alternative capaci di rispondere efficacemente a tali esigenze. Esso, infatti, diminuisce - a parità di ogni altra condizione - l’entità del capitale fisso complessivamente investito da parte dell’impresa, condizionando direttamente i connessi fabbisogni finanziari e i relativi oneri espliciti o figurativi che ne derivano.

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adatte a far fronte alla più elevata produzione interna o non sono note o, più spesso, non vengono introdotte in quanto non funzionali a un tipo di imprenditorialità prevalentemente ‘familiare’. [...] Per molti imprenditori il controllo diretto dell’attività aziendale non è uno strumento per raggiungere certi fini in modo efficiente, ma è un fine in sé stesso, la cui realizzazione entra in modo imponente nella funzione di utilità imprenditoriale. In questa situazione il decentramento della produzione può essere visto come una alternativa al decentramento dell’organizzazione interna all’azienda» (Guerci, 1974). In un simile contesto istituzionale possono, così, rintracciarsi le principali ragioni delle specificità organizzative delle grandi imprese italiane, ma altresì i connessi limiti alla loro capacità di finanziamento e di crescita, senza ricorsi a forme sostitutive rispetto al decentramento produttivo (Barca, 1994). Il fatto che questo modello teorico, fondato sul mercato dualistico del lavoro, sia stato elaborato agli inizi degli anni Settanta, non significa che esso abbia perso ogni capacità esplicativa dei fenomeni economici sotto osservazione nella realtà odierna. Al contrario, l’operare di molte imprese continua a seguire questa logica regressiva del decentramento produttivo, magari applicata a scale spaziali assai estese. È noto, ad esempio, che il decentramento produttivo attivato da imprese del centro-nord Italia a favore del Mezzogiorno spesso riflette taluni differenziali nel costo del lavoro, inteso in senso allargato. In altri termini, è ragionevole assumere che, nella realtà economica odierna, il costo del lavoro, in senso allargato, nel Mezzogiorno sia inferiore rispetto a quello vigente in imprese del medesimo settore localizzate in altre aree del paese. Ciò è dovuto all’operare di strumenti istituzionali specifici (defiscalizzazione degli oneri sociali, contratti di area, ecc.) e di un mercato del lavoro meno protetto. Su una scala territoriale più vasta, anche certe operazioni di decentramento produttivo internazionale possono riflettere l’esistenza di differenziali sostanziali nel costo del lavoro per unità di prodotto (per esempio, il decentramento di certe fasi labour intensive a favore dei paesi dell’Europa centro-orientale o del Sud-Est asiatico). Il modello dualistico del mercato del lavoro, quindi, oggi non si concretizza più su scala locale, come veniva enunciato nelle elaborazioni agli inizi degli anni Settanta, ma oramai su scala nazionale o, addirittura, globale. Le piccole imprese: la fase della complementarità Verso la fine degli anni Settanta, la letteratura economia e manageriale nel nostro Paese introduce un nuovo paradigma teorico relativo al ruolo e alle condizioni di vitalità delle piccole imprese. Grazie ad esso, le piccole imprese assumono un ruolo complementare – e non più subordinato – rispetto alla grande impresa committente. Si tratta, pertanto, di una logica di divisione verticale del lavoro tra grandi e piccole imprese che risponde a una spiegazione economica assai diversa rispetto a quella dominante nel passato. In effetti, il modello esplicativo fondato sul dualismo nel mercato del lavoro appare, verso la fine degli anni Settanta, assai insoddisfacente. Da un lato, ricerche empiriche mettono in evidenza che il differenziale salariale tra impresa decentrante e impresa

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decentrata, posto che esista, non è particolarmente rilevante, soprattutto in contesti in cui entrambe presentano dimensioni limitate (Garofoli, 1979)5. Dall’altro lato, il decentramento produttivo, specialmente in taluni settori manifatturieri definiti tradizionali (mobile, calzature, tessile, abbigliamento, ecc.), si inserisce in una logica di crescita strutturale della domanda di mercato, piuttosto che di una sua contrazione o di una sua variabilità periodica6. Per questi fattori, l’analisi sul decentramento produttivo viene modificata radicalmente, proponendo un altro schema teorico relativo ai processi di deverticalizzazione (Varaldo, 1979): in condizioni di espansione strutturale del mercato, un’impresa integrata può – in determinate condizioni – trovare conveniente effettuare decentramenti di specialità (Stigler, 1951) e non di capacità, come sostenuto dal modello del mercato dualistico del lavoro7. L’innovazione culturale rispetto al paradigma interpretativo del decentramento basato sul mercato dualistico del lavoro è rilevante: questa impostazione “si opponeva almeno sotto due profili all’indirizzo seguito dai contributi del decennio precedente, profondamente impregnati della cultura della conflittualità tipica del periodo: da un lato, attraverso la riabilitazione dell’approccio smithiano-stigleriano si faceva giustizia del carattere statico delle ipotesi implicite in quei contributi; dall’altro, veniva proposto come oggetto di studio il tema dei rapporti “non competitivi” tra imprese, sottolineando ancor più, in tale modo, la parzialità del campo esplorato fino a quel momento” (Nuti, 1992). I presupposti di tale modello interpretativo fanno riferimento a almeno tre diversi ambiti di analisi. In primo luogo, vi sono un’insieme di presupposti di natura tecnologica. Tale spiegazione teorica, infatti, assume che vi sia una sostanziale indifferenza dimensionale delle tecnologie e del costo del lavoro. Ciò significa che le piccole imprese possono utilizzare le stesse tecnologie adottate dalle grandi imprese (Brusco, 1974). In questa logica, si assume altresì che il costo del fattore lavoro non sia influenzato dalla scala dimensionale, altrimenti non si potrebbe operare – nella dimostrazione teorica – un confronto analitico tra le diverse curve di costo8. Ne deriva che, sostanzialmente, il modello assume l’esistenza di una sola tecnologia e tecnica produttiva adottabile da tutte le imprese interessate. Si ipotizza anche una reciproca indipendenza delle curve

5 Per altre indicazioni di ricerche empiriche Pennacchi (1980).6 Ad esempio, il settore calzaturiero italiano – posto pari a 100 l’indice delle quantità in paia realizzate nel 1970 - presenta una sostanziale crescita per tutto il decennio, sino a raggiungere un valore pari a 130.6 nel 1980.7 Il decentramento di capacità fa riferimento al fatto che l’impresa committente dispone di una capacità produttiva interna insufficiente - strutturalmente, congiunturalmente o stagionalmente – a soddisfare la domanda di mercato nell’ambito delle tipologie di prodotto realizzate o potenzialmente realizzabili. Il decentramento di specialità, al contrario, sottolinea il fatto che l’impresa committente non è affatto dotata, dal punto di vista tecnologico-organizzativo, di queste fasi di lavorazione interne, per cui fa ricorso specificatamente ed esclusivamente a subfornitori.8 Una soluzione analitica per recuperare la differenziazione del costo del lavoro tra piccole e grandi imprese nell’ambito del modello stigleriano, al fine di validarne il significato anche in contesti economici recessivi, è comunque presente in Contini (1984).

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di costo delle diverse funzioni produttive esercitate dall’ipotetica impresa integrata, ossia il processo produttivo assume carattere di decomponibilità tecnico-economica; ciò implica che ciascuna singola attività possa svolgersi in modo specializzato. L’efficienza dell’impresa ha dunque solamente una natura tecnologica e coincide con il livello delle economie di scala connesse all’esercizio di una data attività. In secondo luogo, vi sono dei presupposti di mercato che si riferiscono al fatto che le imprese considerate sono sostanzialmente monoprodotto o, comunque, a elevata standardizzazione tecnica. In questo modo, infatti, l’efficienza tecnica è computata solamente sulla base delle economie di scala (definendo analiticamente la corrispondente dimensione efficiente minima) e non delle economies of scope. Si assume, inoltre, che il mercato si caratterizzi per un’espansione strutturale con carattere sostanzialmente esogeno, nel senso che alle imprese non è richiesta la modifica delle condizioni produttive e l’eventuale innesto di nuove attività, competenze o capacità organizzative (per esempio, marketing, ricerca e sperimentazione di nuovi prodotti innovativi). Infine, si presuppongono talune caratteristiche inter-organizzative. Nei rapporti verticali tra imprese si assume l’esistenza di un basso livello dei costi di transazione, dovuto in particolare all’assenza di specificità degli investimenti, e la reversibilità delle scelte di decentramento (Ferrucci, 2001). I bassi livelli dei costi di transazione appaiono dati e non endogeni al modello teorico, mentre la reversibilità delle scelte compiute si fonda sul fatto che l’impresa decentrante può, senza il sostenimento di particolari costi e in tempi rapidi, procedere al processo inverso di integrazione verticale delle fasi decentrate. In questo contesto teorico, il modello stigleriano prevede che le imprese, vista la crescita strutturale del mercato, vadano attivando logiche di decentramento di specialità al fine di minimizzare i costi complessivi di produzione di un’intera filiera manifatturiera. Le diverse attività integrate all’interno di un’ipotetica impresa presentano, infatti, singolarmente, una differente funzione del costo medio di produzione, che si traduce in una diversa intensità e direzione della variazione dei rendimenti di scala. In genere, ciascuna di esse presenterà andamenti differenziati, tale per cui il valore minimo del loro relativo costo di produzione sarà in corrispondenza di un diverso volume di produzione. Così, mentre un operatore specializzato può posizionare la sua scala di produzione al livello di efficienza tecnica, un’impresa integrata ottimizzerebbe quel livello della scala di produzione corrispondente al livello minimo dei costi complesssivi, determinati in modo additivo rispetto a tutte le diverse funzioni di costo connesse alle diverse fasi produttive realizzate all’interno. In queste circostanze, l’espansione strutturale del mercato – in una logica “efficientistica” – spingerà le imprese integrate a decentrare quelle fasi di lavorazione che possono indurre un contenimento del costo di produzione. Il conseguimento di economie di specializzazione costituisce, pertanto, l’obiettivo del decentramento di specialità proprio dell’impostazione del modello stigleriano (Mariti, 1979). È evidente dunque che questi fenomeni di scomposizione verticale del ciclo fanno riferimento a fasi di

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rapida e prolungata crescita della domanda accompagnata da caratteristiche di forte standardizzazione del prodotto (Nuti, 1992). Esso appare particolarmente utile nell’offrire una spiegazione alternativa – rispetto alla lettura unilaterale del decentramento produttivo basata sulla sola variabile causale del costo del lavoro – della divisione verticale del lavoro, realizzata dalle imprese industriali, grazie alla sostanziale crescita dei volumi produttivi verificatasi, nel corso degli anni ‘60 e degli anni ‘70, in molti settori labour intensive del nostro paese. Le implicazioni di questo modello nei rapporti tra grande e piccola impresa sono piuttosto rilevanti, modificando radicalmente lo schema interpretativo e valutativo della letteratura fondata sul modello dualistico del mercato del lavoro. Innanzitutto, il rapporto di decentramento non coincide più con la relazione canonica grande impresa decentrante-piccola impresa subfornitrice. Infatti, la relazione verticale di decentramento può riguardare anche fasi di lavorazione manifatturiera a elevate economie di scala nelle quali un subfornitore specializzato deve necessariamente – al fine di poter conseguire i massimi livelli di efficienza tecnica – operare per più committenti. Dunque, il rapporto di decentramento può anche connettere una grande impresa subfornitrice con molte piccole imprese committenti. In secondo luogo, la relazione verticale tra questi due operatori specializzati sviluppa complementarità produttive. Non si tratta, infatti, di decentramenti di capacità, di cui l’impresa committente detiene comunque una parte, ma di un decentramento di specialità che attiva logiche di divisione del lavoro tra le imprese coinvolte, ciascuna con una propria identità e specializzazione manifatturiera. Le competenze sono e restano differenti ma ciascuna di esse assume connotati essenziali di complementarità – in una logica di filiera manifatturiera – rispetto alla realizzazione e alla commercializzazione di un prodotto finito. In terzo luogo, il gendarme dell’efficienza prestazionale diviene il mercato concorrenziale, il quale si trova a operare in due diverse direzioni. Da un lato, l’impresa subfornitrice – anche nel caso di sue dimensioni assai ridotte – intrattiene relazioni potenzialmente o effettivamente non monopsonistiche con i propri committenti. In contesti di espansione del mercato e di basse barriere all’entrata nei singoli comparti, infatti, si possono sviluppare dinamiche diffusive dell’imprenditorialità tali per cui il numero dei committenti tende a aumentare. In questo senso, il modello teorico è coerente con lo sviluppo e l’affermazione competitiva di un sistema di piccole e medie imprese specializzate. Dall’altro lato, l’impresa committente – di fronte a eventuali condizioni mono o oligopolistiche di decentramento produttivo a favore di subfornitori – ha la possibilità di re-internalizzare queste fasi di lavorazione. C’è dunque un prezzo-limite che l’impresa subfornitrice può praticare, dato dal costo di produzione interno dell’impresa committente a quel determinato volume di attività realizzato. In definitiva, è evidente che il modello stigleriano offre contestualmente una spiegazione sia orizzontale che verticale della divisione del lavoro tra le imprese e, in particolare, della sostenibilità di

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lungo periodo dell’efficienza di un sistema di imprese specializzate, comparativamente a una grande impresa integrata (Bellandi, 1995). È su questo paradigma interpretativo che si innesta una certa lettura storica dello sviluppo regionale umbro. Bracalente (1989) sottolinea che, seppur con un certo ritardo temporale, l’Umbria – in particolare, la provincia di Perugia – si innesta nel modello NEC a partire dagli anni Sessanta: lo sviluppo delle piccole imprese nei settori dell’industrializzazione leggera non è, infatti, da attribuire “tanto a un inizialmente ipotizzato processo di decentramento territoriale delle attività, posto in essere dalle grandi imprese dell’area di più antica industrializzazione, quanto ad una nuova valorizzazione delle risorse locali delle medesime aree periferiche”. Al contrario, nella provincia di Terni, “la tradizione produttiva in settori di base caratterizzati da processi non scomponibili e la conseguente professionalità dei lavoratori dipendenti, non riciclabile in piccole iniziative autonome, hanno reso inoperante il meccanismo di industrializzazione diffusa in questa parte della regione”. Le piccole imprese: la fase del protagonismo e dell’autonomia Gli anni Ottanta, nel nostro Paese, possono considerarsi quelli durante i quali si tende a “celebrare” le virtù delle piccole imprese. In particolare, l’apogeo di questo modello interpretativo pone la piccola impresa al centro dello sviluppo economico locale, protagonista sui mercati internazionali e fortemente radicata, con i suoi valori sociali e culturali, nell’ambito di un localismo manifatturiero. I distretti industriali costituiscono l’habitat fondamentale per irrobustire la competitività di queste piccole imprese, non più “dipendenti” dal potere di mercato delle grandi imprese committenti, ma capaci di un proprio e autonomo percorso di crescita e di protagonismo competitivo. Ad onor del vero, già a partire dai primi anni Settanta, alcuni autori avevano sottolineato il ruolo fondamentale dei distretti manifatturieri nel nostro Paese. Tre centri accademici – in particolare, quello di Modena con Sebastiano Brusco; quello di Firenze con Giacomo Becattini; quello di Bologna con Romano Prodi e Patrizio Bianchi – con contributi di analisi economica diversi nell’oggetto di analisi (dal settore della ceramica a quello della maglieria a quello del tessile a quello delle calzature e così via), avevano indicato le virtù competitive del distretto industriale, recuperando una tradizione culturale, apparentemente rimossa, che risaliva ad Alfred Marshall. A questi studiosi si era unita la tradizione accademica anconetana – diretta da Giorgio Fuà (1983) – con la sua analisi dinamica di un’industrializzazione senza fratture, destinata a “discendere” dal nord al sud, lungo la dorsale adriatica, in termini di sviluppo delle piccole imprese e del modello distrettuale. Ma, sempre nel corso degli anni Settanta, la “voce” accademica di questi studiosi non aveva ancora raggiunto un grado di autorevolezza nel mondo della community imprenditoriale e dei policy makers: lo sviluppo, in quegli anni, risentiva ancora della dominanza della grande impresa e dei suoi processi di ristrutturazione. Ci vogliono economisti americani a “certificare” il valore competitivo dei nostri distretti industriali. Piore e Sabel, nel 1987, sottolineano le peculiarità del nostro

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modello di sviluppo e le virtù proprie delle nostre piccole imprese, in alternativa alla grande impresa fordista. Essi parlano esplicitamente delle due vie dello sviluppo industriale, e non più di una sola one best way, incarnata dalla sola grande impresa fordista, multinazionale e conglomerata, propria della big corporation americana. Non solo, essi arrivano ad affermare la superiorità dei distretti industriali, nel momento in cui, a fronte della destrutturazione dei mercati finali (caratterizzati sempre più da “dosi” di varietà e di variabilità), la grande impresa fordista – rigida nei suoi meccanismi decisionali, organizzativi e tecnologici – appare incapace di adattarsi a questi nuovi contesti competitivi, mentre la piccola impresa distrettuale mostra i suoi gradi di flessibilità operativa (trovando in tempi rapidi e a costi limitati, nel suo contesto locale, nuovi fornitori di componenti e nuovi subfornitori di fasi di lavorazione al fine di realizzare nuovi prodotti finali coerenti con le nuove attese del mercato). In altri termini, il paradigma fordista, basato sulle elevate economie di scala dei propri processi produttivi e sulla standardizzazione dei propri prodotti e regole decisionali, diviene il modello di riferimento concettuale privilegiato per analizzare e interpretare la crisi della grande impresa in questo nuovo contesto competitivo: le sue rigidità tecnologico-organizzative, nelle diverse sfere di attività, impongono una standardizzazione produttiva incapace di ‘catturare’ le incertezze e le turbolenze dei mercati. Nel nuovo scenario competitivo degli anni Ottanta, il consolidamento dei volumi produttivi complessivi si associa in misura crescente all’emergere e al declinare assai rapido di nuovi segmenti e nicchie di mercato, capaci di esprimere proprie logiche di consumo, proprie esigenze funzionali e estetiche e propri gusti e preferenze. La dinamicità dei mercati di massa nei paesi industrializzati, unitamente al restringersi del ciclo di vita dei vari articoli proposti, costituiscono le premesse logiche di una crescente varietà e variabilità quali-quantitativa della domanda di mercato complessiva di molti beni di consumo. In molti settori vanno facendo l’ingresso logiche di acquisto e di consumo connesse ai fenomeni della moda, con le loro intrinseche varietà e variabilità. Tali trend accentuano la difficoltà, da parte delle imprese industriali, a decodificare adeguatamente e in tempi rapidi queste nuove opportunità di business, apprestando efficaci sistemi manifatturieri e di commercializzazione; la capacità di programmare l’andamento dei mercati diviene quindi limitata e l’incertezza costituisce un elemento primario incorporato in tutte le diverse decisioni strategiche9. La dote competitiva della flessibilità operativa è, dunque, una virtù fondamentale, per questi autori americani, delle nostre piccole imprese distrettuali, rispetto al loro “mondo” manifatturiero fordista10.

9 Nel nuovo ambiente instabile ed incerto, dove «i mercati non possono più essere efficacemente gestiti e controllati», è importante che le organizzazioni «siano capaci di rispondere in modo rapido e ‘flessibile’ ai mutamenti delle condizioni di mercato», Piore (1986).10 In verità, in un lavoro pionieristico del 1975 veniva adombrata la possibilità che alla base della vitalità di questi sistemi di piccola impresa, generati dal modello stigleriano, vi fosse la capacità di offrire un portafoglio prodotti esteso ed articolato: «La domanda di prodotti tessili, dell’abbigliamento, delle calzature e delle pelletterie si presenta frammentata e variabile [...]. Queste caratteristiche della domanda si

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Becattini (1989) sottolinea un’ulteriore diversità propria dei distretti industriali. Questo modello appare competitivo, non solo come indicato da Piore e Sabel, rispetto alla grande impresa, ma altresì rispetto alle piccole imprese “isolate”. In altri termini, secondo Becattini, la piccola impresa manifatturiera – localizzata all’interno dei distretti industriali – gode di un vantaggio competitivo addizionale, rispetto alla piccola impresa “isolata”, ossia quella non appartenente a tale modello locale di sviluppo. Questo vantaggio competitivo “addizionale” non dipende dalle caratteristiche della singola impresa, e quindi dai suoi fattori interni di competitività, ma dall’habitat in cui è collocata, un habitat che, anche in modo non intenzionale, genera dei vantaggi competitivi. Si tratta del concetto di economie esterne di agglomerazione. L’addensamento spaziale di numerose piccole imprese, specializzate in una sola fase di lavorazione o in un componente, ma tutte quante proiettate alla realizzazione e commercializzazione di un prodotto finito da vendere sul mercato finale (spesso estero) attiva “energie economiche” addizionali che portano a vantaggi di costo e a vantaggi di innovazione a loro favore. Così, ad esempio, il mercato locale del lavoro genera una qualità e una quantità di lavoratori specializzati che consentono alle piccole imprese di non dover “investire” nel loro addestramento iniziale; non solo, in molti distretti industriali, storicamente, si generano le condizioni istituzionali per far “decollare” scuole tecniche coerenti con i fabbisogni professionali propri di queste piccole imprese. Nel mercato finanziario locale, storicamente, le piccole banche (dalle casse di risparmio alle banche di credito ordinario alle banche popolari), grazie alle loro conoscenze tacite del settore caratteristico di un distretto e degli imprenditori affidatari, canalizzano il risparmio a favore degli investimenti manifatturieri. La concorrenza propria di un modello composto da numerosi committenti e numerosi offerenti di fasi di lavorazione o componenti comporta un’efficienza del sistema produttivo, oltreché l’attivarsi di dinamiche di emulazione e di innovazione dei prodotti offerti dalle singole imprese. La presenza di “industrie ausiliarie”, secondo la terminologia dello stesso Alfred Marshall, favorisce ulteriori componenti di efficienza del distretto, dai servizi logistici alla manutenzione e riparazione degli impianti tecnologici alla presenza di imprese specializzate in servizi avanzati (pubblicità, engineering, design, ecc.) propri dei “bisogni” di un distretto industriale. Infine, forme di cooperazione strategica si rendono possibili tra imprese del distretto, a partire da loro bisogni e progettualità comuni, dall’istituzione di strutture consortili per migliorare l’efficienza dei cicli manifatturieri alle attività di promozione e di organizzazione di manifestazioni fieristiche sino ad arrivare alla commercializzazione sui mercati esteri. Insomma, per una piccola impresa, secondo l’impostazione di Becattini e dei suoi “seguaci”, la localizzazione in un distretto industriale è un valore

riverberano significativamente sulle modalità di organizzazione del processo produttivo, sia nell’impedire la standardizzazione del prodotto, che nell’imporre strutture organizzative capaci di pronte decisioni e di rapide riconversioni», IRPET (1975).

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aggiunto importante che favorisce e rafforza la sua competitività, soprattutto comparativamente alla piccola impresa “isolata”. I distretti industriali, dunque, rendono competitiva la piccola impresa – al pari, se non meglio, della grande impresa – rafforzandone le componenti di autonomia e di protagonismo sui mercati finali di sbocco. In questa logica, la specializzazione manifatturiera del distretto non costituisce un fattore di vulnerabilità economica nel lungo periodo; al contrario, per la scuola distrettuale, sono proprio i modelli di sviluppo economico locale fondati sulla diversificazione settoriale, in cui tali specializzazioni non vantano nessun legame tra loro, ad apparire vulnerabili, proprio perché non possono beneficiare del valore e del significato economico delle economie esterne di agglomerazione. Lo studio dei distretti industriali, nel nostro Paese, ha anche una rilevanza culturale che va al di là dei confini dell’economia. Studiare questo oggetto di analisi significa ripercorrere la storia di un territorio, delle competenze materiali e immateriali che vi si sono sedimentate e delle forze sociali, culturali e politiche che ne hanno stimolato la formazione. In questa logica, storici economici, insieme a sociologi economici (Trigilia 1986; Bagnasco 1988) e a regional economists (Sforzi, 1989) contribuiscono a modellare, in modo più approfondito, il retroterra del distretto manifatturiero, ben oltre la mera formula dell’economia industriale. Il ruolo della mezzadria agricola e della piccola proprietà contadina (comparativamente al latifondo), con la sua vocazione al risparmio, alla famiglia allargata e al rischio economico, costituisce un architrave storico per lo start up dei distretti manifatturieri nel nostro Paese. I piccoli centri urbani – propri della nostra storia dei Comuni e del Rinascimento – con la loro tradizione di arti e corporazioni, fatta di mestieri, di artigianalità e di creatività sono i centri propulsori dei futuri distretti manifatturieri. Infine, l’omogeneità politica in questi territori, a partire dal dopoguerra, con le regioni “rosse” del centro Italia e quelle “bianche” del nord-est, favoriscono meccanismi di concertazione decisionale tra le forze produttive e istituzionali, garantendo una pace sociale, una bassa conflittualità sindacale e, soprattutto, la legittimazione dell’aspirazione dei lavoratori a divenire piccoli imprenditori. Una mobilità sociale ascendente che è un forte antidoto alle contrapposizioni ideologiche tra capitalisti e lavoratori ma anche una grande energia – per questi ultimi – ad apprendere un mestiere, ad essere efficienti e a costruirsi una reputazione professionale che potrà, magari, essere indispensabile per poter avere credito da una banca locale in modo da divenire, in futuro, un piccolo imprenditore. Il nuovo paradigma distrettuale è, dunque, quello alla base della forza competitiva delle singole piccole imprese; fuori dal distretto, la piccola impresa può trovarsi ad essere “isolata” – ossia priva dei meccanismi propulsivi delle economie esterne di agglomerazione – oppure può trovarsi ad essere “dipendente” dalla volontà monopsonistica della grande impresa committente. In Umbria, il paradigma distrettuale non costituisce il modello interpretativo dominante. Nonostante che, a partire dagli anni Sessanta, si vada accentuando, soprattutto nella provincia di Perugia, un modello di piccole imprese operanti

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nell’industria leggera, questo fenomeno – oltre ad uno start up temporalmente in ritardo rispetto alle altre regioni del NEC (Nord-Est-Centro) – assume “un’intensità molto inferiore, senza collegarsi all’espansione dei mercati esterni”. Non solo, anche il maggior dinamismo riscontrato alla fine degli anni Sessanta in termini di natalità di nuove piccole imprese sembra attribuibile “per propagazione dall’esterno, cioè a causa di un processo di decentramento simultaneamente tecnico e territoriale effettuato principalmente dalle imprese toscane” (Bracalente, 1989). Così, il tessuto delle piccole imprese, operanti nei settori dell’industrializzazione leggera, appaiono storicamente formatosi in un periodo più recente rispetto a quello del NEC, competitivamente più fragile, sia in termini di dipendenza da piccole imprese localizzate in altre regioni che in termini di propria e autonoma capacità esortativa. Ancora oggi, infatti, le piccole imprese umbre hanno livelli di apertura internazionale – misurata con valori di esportazione rispetto al loro fatturato – decisamente inferiori rispetto a quanto rintracciabile nei distretti manifatturieri italiani. Le piccole imprese: la fase dell’incertezza A partire dagli anni Novanta, il quadro competitivo internazionale si modifica di nuovo, con riflessi profondi sulle piccole imprese del nostro Paese. Nel nuovo scenario di globalizzazione, caratterizzato dall’emergere di nuovi competitors internazionali e da nuove aree geo-mondiali di sbocco dei prodotti del Made in Italy, una competitività fondata sugli “ingredienti” del passato, a partire dai costi di produzione sino ad arrivare alle strategie di penetrazione nei mercati esteri fondate sulla mera capacità esportativa, appare insoddisfacente. I distretti industriali “entrano” in una fase di difficoltà competitive. Tra i fattori principali, vi è il fatto che la loro storica e tradizionale “unità sistemica” tende a frammentarsi. Vi sono imprese che attivano dinamiche di delocalizzazione nei paesi aventi un costo del lavoro inferiore; vi sono altre imprese produttrici, all’interno del distretto, di tecnologie per la fabbricazione di prodotti, che “scoprono” nuovi clienti industriali, localizzati nei paesi emergenti, e de facto competitors delle stesse imprese distrettuali; vi sono banche locali che divengono parte di processi di concentrazione bancaria sempre più di carattere nazionale; e così via. Insomma, il tradizionale “gioco cooperativo” all’interno del distretto tra tutti gli attori diviene più difficile: nelle fasi di crisi e di difficoltà economica, ciascun attore imprenditoriale va “per la sua strada”, alla ricerca di una propria competitività, con effetti distorsivi rispetto ad altre imprese presenti nel distretto stesso. In un certo qual senso, con queste dinamiche, i distretti industriali del nostro Paese divengono meno auto-contenuti e meno auto-referenziali, internalizzando nuove conoscenze generate in altri siti (Rullani, 1997). Ma, pur tuttavia, per molti attori imprenditoriali, specie quelli di dimensione minore, con caratteristiche artigianali, legati a lavorazioni labour intensive (magari potenzialmente realizzabili in altri paesi con un costo del lavoro più basso), le difficoltà competitive si accentuano, sino a determinarne, in molti casi, la loro cessazione.

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Le economie esterne di agglomerazione, dunque, nel nuovo scenario competitivo non bastano più. Anzi, per taluni aspetti, la cristallizzazione della divisione verticale e orizzontale del lavoro tra le imprese distrettuali può costituire un freno all’intrapresa di nuovi percorsi evolutivi, fondati su modalità nuove di perseguire processi di internazionalizzazione o di generare innovazioni di prodotto. Sul fronte dell’internazionalizzazione, la storica “bravura” dei nostri distretti industriali nell’affrontare i mercati esteri dell’Europa occidentale, del nord-America e del Giappone, grazie alla partecipazione alle fiere commerciali, alla messa a punto di una rete di rappresentanti e alla costituzione di propri consorzi export non basta più. La cooperazione inter-organizzativa dentro al distretto per queste azioni strategiche non è sufficiente e adeguata a raccogliere le nuove sfide dell’internazionalizzazione. La penetrazione nei mercati emergenti si realizza con altri “ingredienti”: occorre relazionarsi con grandi clienti esteri, mostrando loro una capacità organizzativa nel realizzare grandi lotti di produzione, generare innovazioni di prodotto, avere tempi rapidi di evasione degli ordini, gestire in modo efficiente i flussi di logistica e, infine, garantire un adeguato controllo di qualità. In molti casi, questo tipo di internazionalizzazione richiede, anche, la capacità di “costruire” e gestire una rete di propri punti di vendita con un’organizzazione commerciale direttamente insediata su tali aree, capace di monitorare i mercati, raccogliere e decodificare i soft signals provenienti da tali aree e garantire un’adeguata assistenza tecnica pre e post-vendita. Sul fronte dell’innovazione, gli storici “ingredienti” del distretto industriale non sono più sufficienti. L’innovazione di prodotto non può seguire unicamente canoni incrementali, tramite una collaborazione spontanea e informale tra alcuni attori imprenditoriali presenti nelle filiere locali. Tra un terzista, un subfornitore e un committente, il tutto dentro al distretto, la cooperazione tra di essi finalizzata a generare innovazione è spesso una sorta di marginale differenziazione rispetto a ciò che già si realizza e per la quale vi sono competenze organizzative e tecnologiche all’interno della propria storia. Questo processo di innovazione è endogeno al sistema locale, con connotati di forte specificità e cumulatività incrementale nel corso del tempo. Ma questo tipo di innovazione fa sempre più fatica ad essere apprezzata e valorizzata nei mercati internazionali, anche per effetto dei processi di emulazione che vengono da nuovi competitors internazionali, spesso di aree del mondo con un costo del lavoro più basso. In altri termini, la storica vocazione distrettuale a fare innovazione in termini di marginali modifiche tecniche e di design non basta più. Le nuove fonti dell’innovazione sono legate all’internalizzazione, dentro le imprese distrettuali, di nuove conoscenze scientifico-tecnologiche riguardo ai materiali, alle componenti, alle funzioni d’uso del prodotto e alle nuove conoscenze di marketing (Gambardella, 2002). Il tutto, spesso, “certificato” da una capacità brevettuale capace di garantire, per qualche anno, specifici vantaggi competitivi alle singole imprese detentrici di questa proprietà intellettuale. In definitiva, la storica e cristallizzata divisione del lavoro tra le imprese distrettuali, fondata sulla specializzazione e sulla cooperazione informale a livello locale, diviene

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paradigmaticamente inappropriata rispetto a queste nuove esigenze competitive: Internazionalizzazione e innovazione spingono verso un’internalizzazione delle competenze nell’ambito di un’impresa oppure verso una divisione del lavoro tra imprese non basata su logiche prettamente localistiche e su mere transazioni economiche fondate sul prezzo, ma riferite anche ad altri fattori, quali la capacità di generare e socializzare conoscenze innovative o informazioni sui mercati finali. La natura della piccola impresa è, dunque, destinata a cambiare. Il distretto industriale – di per sé – non è un habitat protettivo della sua competitività; anzi, in taluni casi, la stessa formula distrettuale, con le sue routines decisionali storicamente validate, può costituire una “massa inerziale” rispetto alle dinamiche di cambiamento auspicabili e indotte dalle modifiche negli scenari competitivi. L’insieme di questi ragionamenti sposta, dunque, la riflessione nel nostro Paese dall’aggregato distrettuale alle caratteristiche della piccola impresa distrettuale (Ferrucci, Varaldo 1993). I due livelli di analisi (distretto vs. impresa) vengono tenuti separati. La dinamica del distretto è sempre meno indifferenziata e omogenea e diviene espressione di comportamenti differenziati – talvolta addirittura divergenti – di taluni singoli attori imprenditoriali. È la dinamica di talune singole imprese distrettuali a far determinare sempre più il cambiamento del sistema distrettuale (Varaldo, Ferrucci 1996). Si va verso l’emergere di imprese leader che coordinano reti di imprese a livello locale; imprese leader che si “aprono” e divengono protagonisti all’interno di altri network, magari globali; imprese leader che si interconnettono con siti di conoscenza scientifica e tecnologica localizzati in aree diverse da quella distrettuale. Il distretto, dunque, perde la sua tradizionale compattezza e auto-referenzialità, grazie alle strategie di talune sue imprese leader (Foresti, Trenti 2007). I distretti “conservativi” sono quelli che osteggiano tali dinamiche; quelli che si “chiudono” su se stessi. Le stesse istituzioni pubbliche locali si trovano dilemmaticamente a “proteggere” gli schemi paradigmatici storici del distretto oppure ad avallare una politica selettiva, fondata sull’incentivare comportamenti eterodossi, sulla gerarchizzazione interna del distretto attorno ad imprese leader e così via. In questa logica, le dinamiche dei distretti industriali, nel nostro Paese, si differenziano, anche a parità di settore: in alcuni distretti prevale la conservazione; in altri distretti prevale il cambiamento. Ma il cambiamento non è a senso unico. Non esiste una sola via del cambiamento. Talune imprese leader emergono perché inseguono scelte di delocalizzazione manifatturiera, con le conseguenti implicazioni nel distretto11; altre imprese leader emergono grazie ai loro investimenti nel retail e nel

11 Come afferma, quasi provocatoriamente, Traù (1999), “il realizzarsi di un’effettiva globalizzazione di tutti i mercati (quelli dei fattori inclusi) riveli il limite potenzialmente più rilevante dello stesso meccanismo di divisione del lavoro fin qui vincente, e lo rilevi tanto più acutamente quanto più articolato è il sistema: un’industria de verticalizzata è infatti già pronta, in questo caso, ad essere per così dire “dis-intermediata” nelle sue fasi labour intensive dai produttori di paesi a minore costo del lavoro”. In altri termini, proprio perché i distretti sono verticalmente disintegrati, talune sue imprese (soprattutto i coordinator dei processi di lavorazione presso i subfornitori) sono pronte a de localizzare tali fasi, tra l’altro in un contesto tecnologico nuovo che favorisce la possibilità di comunicare e monitorare i processi a distanza.

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marketing su scala globale; altre imprese leader perseguono innovazioni di prodotto, magari protette da brevetti, coagulando forze scientifiche e tecnologiche esterne al distretto; altre imprese leader perseguono una selettività dei propri subfornitori locali, assistendoli nella crescita dimensionale e organizzativa, anche tramite partecipazioni finanziarie (reti formali di imprese o gruppi di imprese); imprese del comparto dei beni finale declinano mentre crescono quelle che producono tecnologie per il “Made in Italy” (De Arcangelis, Ferri 2005); e così via. Insomma, le vie del cambiamento sono diverse, anche se il denominatore comune sembra dato dall’emersione di un quarto capitalismo, fatto di medie imprese capaci di gerarchizzare internamente il distretto. La formula distrettuale cambia, da questo punto di vista, in modo abbastanza rilevante. È, tuttavia, importante sottolineare che il quarto capitalismo non è una creazione propria ed esclusiva della dinamica evolutiva del modello distrettuale. Altri quarti capitalismi sorgono in altre aree del nostro paese, anche prive di tale connotazione distrettuale. Basti pensare all’Umbria, priva di distretti manifatturieri canonici, ma che conosce, già durante gli anni Settanta e in contro-tendenza rispetto alla riduzione delle dimensioni medie delle imprese registrata nelle aree NEC, una vitalità di assetti manifatturieri, soprattutto nell’industria leggera, in termini di presenza di medie imprese, espressione di un capitalismo familiare autoctono: in quegli anni, “l’Umbria non sembra in linea con la tendenza generale […] A livello nazionale, e soprattutto nell’area NEC, si è manifestata una generale diminuzione del numero di addetti per unità locale, che si contrappone all’incremento verificatosi in Umbria. […] uno dei punti di relativa forza dell’industria umbra sia costituito proprio dalle unità produttive di dimensioni intermedie. Nella classe di imprese con 50-499 addetti si concentra infatti il 40% circa dell’incremento intercensuario degli addetti all’industria umbra, contro poco più del 10% nell’intero paese” (Bracalente, 1989). Tra la fine degli anni Ottanta e la prima metà degli anni Novanta, invece, si segnala una regressione di molte di queste medie imprese, quasi in controtendenza, stavolta, rispetto a pionieristici processi di riorganizzazione dei distretti industriali nel centro e nel nord est del Paese (dove, infatti, vanno emergendo medie imprese leader): in questo periodo, diverse imprese capitalistiche familiari umbre, aventi una rilevante e prestigiosa storia di successo, come Buitoni-Perugina, Ellesse, Emu, Petrini, Pastificio Gazzola, Spigafood, IGI-Primigi e Knoll, hanno dovuto abdicare la conduzione e la proprietà dell’impresa. Tra l’altro, in Umbria vi è – in questo declino delle medie imprese e nelle loro cessioni proprietarie – un fattore di specificità legato al mercato regionale dei diritti di proprietà che favorisce processi di acquisizione extra-regionale (talvolta estera) di queste medie aziende di successo (Ferrucci, 2007). Infatti, l’economia umbra – caratterizzata dalla diffusa presenza di piccole imprese manifatturiere – non presenta al suo interno soggetti imprenditoriali finanziariamente e organizzativamente capaci di realizzare queste acquisizioni nei confronti di queste imprese leader. In altri termini, la soglia finanziaria necessaria per divenire titolari di queste imprese leader è talmente elevata da non trovare, nel mercato regionale dell’imprenditorialità, potenziali acquirenti. Inoltre, in Umbria vi è una rarefazione di imprenditori regionali operanti nel business

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dell’impresa oggetto di cessione. Pertanto, la riallocazione proprietaria di queste imprese leader non avviene a favore di imprenditori locali o regionali, come, tipicamente, avviene nelle regioni distrettuali dove vi è un mercato dei diritti di proprietà delle imprese che agevola la loro riallocazione interna. Ovviamente, questi processi di riallocazione proprietaria di queste medie imprese umbre ha avuto riflessi sia interni che esterni (Ferrucci, 2008). Sul piano interno, i nuovi assetti proprietari – spesso esteri – hanno spinto per ristrutturazioni radicali che sovente hanno ridotto il livello di terziarizzazione interna dell’organizzazione, riducendo gli staff dirigenziali e i quadri operanti nella ricerca & sviluppo, nel design, nell’innovazione di prodotto, nel marketing e nella commercializzazione. Si tratta di scelte comprensibili e legittime alla luce delle esigenze di efficienza e competitività delle imprese acquisite, entrate a far parte di logiche di gruppo industriale magari aventi la propria sede legale e direzionale fuori dall’Umbria e spesso dall’Italia. Purtuttavia, è di tutta evidenza la metamorfosi dell’impresa industriale umbra, da leader nei propri mercati a mera unità produttiva, nel migliore dei casi spossessata di una parte significativa dell’autonomia decisionale di tipo strategico e proiettata ad essere un mero stabilimento manifatturiero. Sul piano delle implicazioni esterne, le acquisizioni di queste imprese hanno invece avuto impatti limitati sulle reti verticali locali e regionali. Tutto ciò perché, queste medie imprese di successo avevano, in precedenza, costruito relazioni di fornitura manifatturiera e di servizio essenzialmente di tipo extra-regionale (Ferrucci, 2007). Di conseguenza, per quanto traumatica per l’economia regionale possa essere la cessione e, ancora di più, la cessazione di un’impresa leader, gli effetti economici esterni restano fondamentalmente limitati, comparativamente ad altri modelli locali di industrializzazione. In altri termini, così come queste medie imprese di successo non hanno fatto da volano per una diffusa crescita dell’imprenditorialità minore regionale, nei casi di ridimensionamento o cessazione, il loro impatto negativo resta fortemente delimitato a pochi casi di imprese fornitrici e subfornitrici locali offerenti servizi di basso valore aggiunto, come talune lavorazioni, la logistica e la manutenzione degli impianti, dove il valore della prossimità fisica resta un evidente vincolo rispetto a processi di acquisto su scale spaziali più estese. Queste considerazioni rafforzano l’idea di una sorta di dualismo industriale, interno ad un settore, dove, da un lato, vi sono le medie imprese leader e, dall’altro, piccole imprese locali scarsamente e limitatamente interdipendenti con le prime12. Di conseguenza, nel territorio regionale, i due sotto-sistemi presentano strutture e dinamiche differenti, con le seconde – le piccole imprese – stabilmente collocate su lavorazioni di basso valore aggiunto per mercati locali o regionali e, quindi, aventi una minore apertura internazionale, rispetto a quella riferibile ai distretti industriali.

12 È utile anticipare che, come sarà messo in evidenza in una parte successiva, l’Umbria presenta una maggiore consistenza relativa, nell’industria manifatturiera, nell’ambito della fascia dimensionale tra uno e novantanove addetti, comparativamente alla media nazionale ma anche, per esempio, alla Toscana e all’Abruzzo.

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A partire dalla fine degli anni Novanta, l’Umbria sembra sia entrata, magari di nuovo con un certo ritardo storico rispetto alle regioni del Nord-Est-Centro, nell’ambito di un’articolazione manifatturiera propria del quarto capitalismo. Ecco che, oggi, nella nostra regione, si torna a parlare della vitalità e competitività delle medie e medio-grandi imprese manifatturiere. Esse sono quelle che mostrano le migliori performance economiche, competitive, occupazionali e di produttività (Banca d’Italia, 2008); esse hanno investito in tecnologia, in innovazione di prodotto, nel marketing e nell’internazionalizzazione. Sempre più la convinzione storicamente diffusa che l’economia umbra sia fatta strutturalmente di piccole imprese, operanti nei settori del Made in Italy e aventi bassi tassi di innovazione e di internazionalizzazione, dove poter fare i conti con questa nuova, diversa e dinamica interpretazione della realtà manifatturiera regionale, composta da imprese come Angelantoni, Cantine Lungarotti, Colacem, Colussi, Cucinelli, Emicom, Garofoli, ISA, Margaritelli, Meccanotecnica Umbra, Sitrex, Umbria Cuscinetti e così via. C’è, dunque, in Umbria, una sorta di meccanismo di una storia che “ritorna” e che si “ripete”, magari con altri protagonisti imprenditoriali. Il quarto capitalismo di oggi non ha nulla a che vedere con le medie imprese pionieristiche degli anni Settanta e Ottanta: cambiamo i nomi, spesso i settori e anche le aree di business. Ma la natura di questo capitalismo familiare resta il medesimo: in passato, all’apice dei loro successi economici e competitivi, tali imprese sembravano dirottate a conseguire sempre crescenti “magnifiche sorti et progressive”. Ma talvolta questo non è accaduto. Quasi in modo impercettibile, una parte del loro successo poggiava su fondamenta vulnerabili: la fortuna di aver “scoperto” una nicchia di mercato nazionale o internazionale che poi è venuta meno; la capacità di innovare tecnologie e prodotti, salvo poi subire processi di emulazione dai competitors che hanno eroso la propria competitività; un capitalismo familiare che non ha saputo o potuto perseguire nuovi stadi di sviluppo per disunità interne di tipo strategico e così via. In Umbria (e, anche, diversamente dal modello storico canonico dell’industrializzazione distrettuale del centro e nord est), sembra che, storicamente e con una certa ciclicità, si tenda a generare e formare alcune medie imprese aventi assetti proprietari regionali e leader nei loro settori di riferimento. E allora che fare, se non possiamo pensare che questo nuovo assetto odierno sia, in quanto tale, permanentemente – secondo la nota espressione ironica di Voltaire nel Candido – “il migliore dei mondi possibili”? Tutto ciò, in particolare, al fine di non trovarci, tra dieci anni, a rimpiangere il mondo dei protagonisti industriali odierni, nel frattempo alcuni dei quali implosi nei loro mercati di riferimento o oggetto di cessioni a soggetti imprenditoriali esterni alla regione. È di tutta evidenza che questa interpretazione pone nuove sfide nelle agende della policy regionale sulle quali torneremo in sede di conclusioni. Queste considerazioni ci portano, altresì, a ritenere che il modello di industrializzazione umbra sia, storicamente, diverso dal quello del NEC. Il fatto che questa regione non abbia potuto realizzare compiutamente il modello distrettuale, ha indotto la generazione di una condizione imprenditoriale – in fase di start up della

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piccola impresa – maggiormente impegnativa, non potendo far affidamento sull’ombrello protettivo, proprio dei meccanismi di funzionamento basati sulle economie esterne di agglomerazione propriamente distrettuali. Ciò ha indotto e induce, ancora oggi, una “selezione all’entrata” di queste nuove imprese (da cui ne deriva, comparativamente alle regioni distrettuali, un minor tasso di natalità di imprese), oltreché un capacità di sopravvivenza imprenditoriale fortemente dipendente dalle competenze interne possedute e accumulate. Nel complesso, la specificità di queste formule di business comporta l’esistenza di imprese relativamente “isolate” all’interno di un sistema regionale manifatturiero. In termini di evoluzionismo darwiniano-spenceriano, l’impresa umbra deve poter operare – internalizzando sin dall’inizio le necessarie competenze organizzative – con gradi maggiori di efficienza interna e compensativi rispetto alle mancate economie esterne di agglomerazione, proprie delle imprese localizzate nelle regioni distrettuali. Un quarto capitalismo umbro, pertanto, che deriva dall’incompiutezza storica della distrettualizzazione regionale, che, per taluni aspetti, lo rende maggiormente vulnerabile rispetto all’assenza di condizioni di competitività dipendenti da fattori esterni (quali le economie esterne di agglomerazione), ma contestualmente, e in termini di dinamica evolutiva, necessariamente meglio “attrezzato” in termini di competenze interne e, sin dalle origini, fondato su relazioni imprenditoriali extra-regionali e con legami con le filiere regionali piuttosto deboli e rarefatti. Tutto ciò comporta che, in Umbria, i legami tra le imprese, in termini sia di divisione orizzontale che verticale del lavoro, restano limitati. Al contrario, queste imprese si relazionano con imprese localizzate in altre aree, talvolta estere, con le quali possono gestire una divisione strategica del lavoro, progettualità comuni, processi di learning e complementarità manifatturiere e di servizio. Da questo punto di vista, questi attori imprenditoriali umbri attivano non solo scarse filiere manifatturiere regionali ma anche limitate filiere terziarie regionali (quali, ad esempio, i servizi di consulenza tecnologica, di pubblicità e di ricerca scientifica). La strutturazione storica, da parte di queste imprese umbre, di legami manifatturieri e di servizio con attori imprenditoriali localizzati altrove rafforza l’ipotesi di una loro necessaria dotazione di competenze organizzative rivolte ad una relazionalità dove prevalgono dosi di maggiore problematicità cognitiva. In altri termini, queste imprese umbre “sopravvissute” devono, sin dall’inizio, attrezzarsi per istituire e gestire relazioni prive della prossimità spaziale e di conoscenza. Tutto ciò conferma che il “mestiere” di imprenditore, in Umbria, comporta una maggiore selettività qualitativa rispetto alle regioni distrettuali. Ciò significa che complessivamente la loro competitività è fortemente tributaria delle loro capacità e competenze interne. In questo senso, nel momento in cui le economie esterne di agglomerazione hanno rappresentato per le imprese dei distretti industriali una sorta di “ombrello protettivo” della competitività individuale, oltreché del sistema complessivo, queste regional champions umbre hanno dovuto affrontare con le proprie forze – e i propri investimenti materiali e immateriali – la dura selezione darwiniana indotta dalla crescente competizione internazionale su queste nicchie

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tecnologiche e di mercato. Paradossalmente, questo percorso individuale e specifico di crescita – senza il particolare supporto né della politica industriale pubblica né di qualificati network regionali di fornitura – ha irrobustito inevitabilmente le loro competenze interne e quindi, in definitiva, la loro competitività. Dal sistema produttivo locale alle peculiarità della governance della piccola impresa: le barriere endogene alla crescita La questione centrale diviene, pertanto, questa: che cosa resta delle piccole imprese? La discussione non è più, dunque, quella di “annacquare” l’idea della piccola impresa nel distretto industriale o in altri modelli locali di sviluppo (modello della grande impresa à la Perroux, ecc.), ma di tornare a discutere le virtù e i limiti intrinseci della formula della piccola impresa manifatturiera tout court. La letteratura economica e manageriale, nel nostro Paese, sposta dunque la sua ottica di analisi: dal sistema produttivo locale, diviene centrale lo studio e l’analisi delle singole piccole imprese, con particolare riferimento alle loro caratteristiche di governance e alle loro barriere rispetto a specifici percorsi di crescita dimensionale e organizzativa (Onida, 2004). Tutto questo assume una specifica rilevanza, anche alla luce del fatto che, secondo molti studiosi, le nuove leve della competitività richiedono assetti dimensionali superiori rispetto alla mera piccola impresa (Varaldo et al., 2009). Fondamentalmente, tralasciando i vincoli esterni alla crescita (ruolo delle istituzioni, della politica industriale, delle regolamentazioni fiscali, etc.), la piccola impresa presenta perlomeno cinque ordini di limiti alla crescita dimensionale, anche quando ciò possa costituire una scelta efficiente13: a) limiti nella capacità di assorbimento di nuova conoscenza innovativa; b) limiti alla crescita di tipo organizzativo; c) limiti alla crescita di tipo finanziario; d) limiti alla crescita derivanti da fatti successori; e) limiti alla crescita per vie esterne e rapporti inter-organizzativi. In primo luogo, i limiti relativi alla capacità di assorbimento di nuova conoscenza innovativa dipendono fondamentalmente dalle competenze possedute dal nucleo imprenditoriale presente nella piccola impresa. Come è noto, la piccola impresa nasce e vive sulla base delle conoscenze specifiche del titolare relative al prodotto, al mercato e alle tecnologie. L’imprenditore ha una sua storia e delle sue competenze specifiche che diventano quelle proprie dell’impresa stessa, mostrando la non scindibilità del rapporto tra queste due entità. Conseguentemente, la capacità di assorbimento di nuova conoscenza innovativa è condizionata da tali competenze imprenditoriali: solo quella parte della conoscenza innovativa coerente con queste ultime potrà essere internalizzata nell’impresa; la restante parte, invece, non entrerà

13 In altri termini, queste barriere mostrano che le piccole imprese possano preferire, patologicamente, una bassa dimensione dell’impresa, anche quando sarebbe efficientemente giustificata la loro crescita dimensionale.

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mai a far parte delle risorse immateriali di quest’impresa. Ne deriva che la dinamica di cambiamento dell’impresa è strettamente path-dependence, influenzata dalle competenze storicamente accumulate di tipo tecnico, manifatturiero, commerciale e finanziario dell’imprenditore stesso. In questa logica, è possibile dedurre il grado di rigidità strategica della piccola impresa, ossia la sua intrinseca incapacità ad adattarsi e a internalizzare nuove fonti di conoscenza innovativa che risultano, però, estranee rispetto alle convinzioni e alle competenze possedute dall’imprenditore. Ecco, pertanto, che queste piccole imprese, in talune circostanze, appaiono refrattarie ad effettuare investimenti, ad esempio, nelle tecnologie informatiche oppure nelle tecnologie manifatturiere “lontane” dalle conoscenze imprenditoriali. Tutto questo costituisce un limite alla crescita della piccola impresa: solo le conoscenze innovative pertinenti e coerenti con quelle dell’imprenditore possono assecondare tale crescita; se, nel settore, altri tipi di conoscenze diventano necessarie per crescere, c’è un blocco e una paralisi alla loro internalizzazione. Il sentiero della crescita delle piccole imprese è – sebbene non in modo deterministico – relativamente “tracciato”: si cresce solamente quando gli input – soprattutto quelli immateriali alla base di percorsi innovativi – sono coerenti e pertinenti con le competenze dell’imprenditore; negli altri casi, la piccola impresa persiste con il suo “bagaglio” di competenze e il processo di loro rinnovamento segue logiche di tipo incrementale, con variazioni marginali e compatibili con quelle dell’imprenditore. È di tutta evidenza che questo possibile gap tra competenze detenute storicamente e competenze auspicabilmente possedute diviene particolarmente stringente, costituendo un fattore critico di successo competitivo, qualora cambiamenti esogeni di tipo tecnologico e di mercato inducano a perseguire l’internalizzazione di nuove competenze, non coerenti con quelle possedute dall’imprenditore, contestualmente a processi di crescita di tipo dimensionale. In questi casi, la piccola impresa, refrattaria al cambiamento, si “posiziona” su dinamiche evolutive differenti da quelle auspicabili, con perdita progressiva di capacità competitiva. In secondo luogo, i limiti alla crescita di tipo organizzativo dipendono dai processi di reclutamento, di carriera e di delega decisionale propri delle piccole imprese. Se l’impresa intende crescere dimensionalmente, esiste ovviamente una domanda crescente di capacità organizzativa che non può essere soddisfatta dalle sole conoscenze individuali dell’imprenditore. Tipicamente, si tratta di reclutare nuove unità di personale – secondo logiche organizzative di maggiore specializzazione dei ruoli – in diverse aree di attività, non solo operative ma anche di tipo dirigenziale, con nuove competenze nell’area finanziaria, in quella amministrativa, in quella del marketing o in quella della R&S. In questo percorso di crescita organizzativa, però, l’imprenditore rischia di limitare o, addirittura, perdere la sua capacità di monitoraggio e di controllo sull’operato dei propri dipendenti, in quanto quest’insieme di attività, non solo sono dimensionalmente più rilevanti, ma anche perché si “appoggiano” a competenze di tipo specialistico, non necessariamente possedute in egual misura dall’imprenditore stesso. Un imprenditore, originariamente piccolo (magari un piccolo artigiano), può non conoscere le problematiche di innovazione tecnologica oppure

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non ha le conoscenze necessarie per sviluppare delle politiche di marketing atte a penetrare nei mercati esteri che a lui sono sconosciuti per la sua storia e le sue competenze. L’imprenditore, nel perseguire questo percorso di crescita organizzativa, deve dunque reclutare e delegare nuovi soggetti, possessori di competenze specialistiche. Ci sono, però, due ordini di problemi. Da un lato, il reclutamento di nuove risorse umane, specie per attività specialistiche che richiedono competenze distanti da quelle possedute dall’imprenditore, comporta un inevitabile problema di adverse selection. In altri termini, c’è il rischio che l’imprenditore possa selezionare un individuo – tra quelli presenti sul mercato del lavoro – che non possiede le migliori caratteristiche in termini di competenze professionali. In effetti, l’attività di reclutamento presuppone il possesso da parte del selezionatore di almeno due caratteristiche: la chiarezza del fabbisogno di competenze professionali specifiche ricercate nel mercato del lavoro e la capacità di identificare, tra gli offerenti tali professionalità, quello migliore. Ne consegue che il singolo imprenditore, in talune circostanze, svolge, in modo quasi random, tale processo di selezione. Per evitare il rischio di una scelta errata, tuttavia, egli può esternalizzare il servizio di reclutamento, affidandosi a professionisti capaci di identificare e selezionare la persona migliore rispetto ai suoi fabbisogni. In ogni caso, anche assumendo che l’imprenditore, direttamente o indirettamente, casualmente o razionalmente, riesca a reclutare una persona capace che possiede le competenze richieste in azienda, si presenta inevitabilmente un secondo ordine di problemi: il moral hazard. Infatti, dall’altro lato, come è ben noto, l’imprenditore deve possedere una caratteristica fondamentale per l’esercizio della sua attività: la capacità di monitorare, incentivare e promuovere l’impegno lavorativo dei propri dipendenti e collaboratori. È di tutta evidenza che, qualora l’imprenditore non possieda talune competenze specialistiche di cui necessità e che sono possedute da un suo dipendente, si genera, da parte di quest’ultimo un’evidente incentivo a perseguire un livello di impegno lavorativo inferiore alle sue possibilità. Si crea, cioè, il noto problema del moral hazard, inducendo livelli di produttività e di performance aziendale inferiori rispetto al livello di efficienza teorica. Adverse selection e moral hazard, dunque, confermano un fatto emblematico: l’imprenditore, nel perseguire i suoi processi di crescita organizzativa, deve minimizzare questi due ordini di rischi che sono alla base di possibili inefficienze e perdita di competitività dell’impresa. Per evitare tutto questo, l’imprenditore può solo agire secondo uno schema di reclutamento che tenda a ridurre l’incertezza generata da questi due problemi organizzativi. Le reti sociali – sia quelle amicali che quelle parentali – possono costituire validi ed efficaci antidoti a questo tipo di rischio organizzativo. Il piccolo imprenditore, pertanto, consapevole della necessità di reclutare competenze professionali specialistiche, opera in un mercato del lavoro ristretto a particolari segmenti, quelli basati su reti sociali locali. In questo caso, la rete sociale opera come riduttore dell’incertezza decisionale e del rischio organizzativo di incorrere nel problema dell’adverse selection e del moral hazard. Ecco, così, che la piccola impresa persegue processi di crescita organizzativa di tipo “condizionato”, subordinati al fatto che, nelle reti sociali spesso a livello locale, esistano “offerenti” adeguati (ma non ottimali) di

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competenze professionali. Il piccolo imprenditore, nel minimizzare il rischio del costo di agenzia (conseguenza dell’adverse selection e del moral hazard), opta per reclutare individui a minore produttività (rispetto a quelle teoricamente identificabili nel mercato del lavoro), appartenenti a reti sociali di cui anche lui fa parte. In terzo luogo, i limiti alla crescita di tipo finanziario fanno riferimento al fatto che tale dinamica comporta sempre un fabbisogno addizionale di risorse finanziarie. L’apporto di capitale finanziario è, comunque, condizionato dalla volontà e dalla disponibilità di risorse da parte del nucleo familiare dell’imprenditore. Questo vincolo finanziario opera sia in modo diretto che indiretto. In termini diretti, il nucleo familiare, che spesso apporta nell’impresa anche un capitale professionale, sa di avere un’esposizione in termini di rischio piuttosto rilevante. L’azienda è, di fatto, il “contenitore” del capitale professionale (lavoro) e del capitale finanziario del nucleo familiare e, quindi, eventuali difficoltà dell’impresa si ripercuotono immediatamente sul benessere familiare, non avendo altre forme di entrata monetaria. Da questo punto di vista, è razionale, per una famiglia imprenditoriale che è strutturata sull’apporto del proprio capitale professionale e finanziario a favore dell’impresa, perseguire processi di diversificazione finanziaria. Esiste, perciò, un vincolo all’apporto di nuovi capitali finanziari dentro la piccola impresa che, di fatto, eleverebbero un rischio sistemico a carico della famiglia imprenditoriale. Il perseguimento di strategie di diversificazione degli investimenti, a livello familiare, riducendo nel corso del tempo l’importanza finanziaria del capitale presente nell’impresa è una scelta economicamente razionale. Dal punto di vista della teoria economica di allocazione del portafoglio personale, questa scelta è assolutamente condivisibile, ma dal punto di vista della competitività, l’impresa ne risente. È importante rilevare che proprio questo comportamento porta a condizionare la crescita dimensionale dell’impresa stessa per la limitazione posta all’apporto di nuovi capitali finanziari provenienti dal nucleo familiare imprenditoriale. Dal punto di vista indiretto, la minore capitalizzazione della piccola impresa da parte dell’imprenditore porta a limitare la sua capacità di crescita tramite la leva dell’indebitamento. È di tutta evidenza che gli istituti di credito, oltre ad altre specifiche circostanze di affidabilità (quali la redditività dell’impresa e la consistenza patrimoniale a garanzia), non possono assecondare, oltre determinate soglie di ragionevolezza, una crescita dimensionale dell’impresa fondata unicamente sulla leva dell’indebitamento. Una possibile e ragionevole terza soluzione all’apporto di capitali di rischio addizionali per la crescita della piccola impresa si potrebbe conseguire tramite l’allargamento della base sociale, con immissione di nuovi soci. Ma questo vuol dire cambiare la governance dell’impresa, da una individuale a una collettiva e, quindi, l’imprenditore perde quella posizione di privilegio nel controllo dell’impresa e la sua centralità nelle funzioni di comando. Come aveva rilevato, suo tempo, la stessa Penrose (1959), “i loro proprietari sono pienamente soddisfatti degli utili che ne ritraggono” e “non hanno alcuna intenzione di procedere alla raccolta dei capitali tramite modalità che finirebbero per indebolire il loro potere di controllo”. Tra l’altro, talvolta, l’allargamento del governo societario potrebbe generare un aumento della

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conflittualità decisionale. Questo sentiero di crescita comporta, come conseguenza, una limitazione del potere decisionale del singolo imprenditore: si passa ad una imprenditorialità collettiva, con il costo organizzativo proprio dei processi decisionali non individuali e del costo di agenzia per monitorare il comportamento degli altri soci proprietari dell’impresa stessa. È per questo che, spesso, questa strategia di rafforzamento finanziario e di crescita dimensionale dell’impresa non è perseguita nell’ambito del capitalismo familiare del nostro paese. In quarto luogo, la piccola impresa soffre per i limiti alla crescita derivanti da fatti successori. La piccola impresa, accentrata nella figura del soggetto imprenditoriale, rischia di essere condizionata dal ciclo di vita di quest’ultimo. Così, la piccola impresa – di fronte al problema della successione imprenditoriale – rischia di trovarsi di fronte ad alcune possibile dinamiche implosive che possono portare alla cessazione dell’impresa. Una prima fattispecie implosiva fa riferimento al fatto che i successori legittimi del proprietario possono essere numerosi e questo può generare difficoltà nell’attribuire loro specifici ruoli decisionali e di potere; inoltre, si possono generare difficoltà e conflittualità tra di loro rispetto alle decisioni strategiche da assumere. Una seconda fattispecie implosiva fa riferimento al fatto che i figli eredi possano avere competenze non pertinenti, distinte e distanti rispetto a quelle necessarie in azienda, con problemi conseguenti in termini decisionali e di monitoraggio imprenditoriale. In altri termini, gli eredi non presentano un’adeguata appropriatezza in termini di competenze imprenditoriali. Una terza fattispecie implosiva riguarda l’inserimento di un figlio avente limitate competenze imprenditoriali, anche se lui ritiene di averle in modo pertinente, con la conseguenza di dissolvere il patrimonio di conoscenza storicamente accumulato in azienda. Infine, l’ultima fattispecie che può portare al rischio di dissolvimento aziendale si ha quando gli eredi vengono inseriti in azienda senza preparare adeguatamente la successione con anticipo dei tempi; in altri termini, l’uscita di scena dell’imprenditore, magari per morte accidentale, può condurre ad un inserimento frettoloso degli eredi, senza che questi abbiano in passato vissuto tali esperienze di conduzione imprenditoriale e abbiano avuto modo di “acquisire” quelle conoscenze tacite e contestuali possedute dall’imprenditore. Insomma, al fondo dell’implosione del capitalismo familiare vi è una dissociazione tra competenze richieste e competenze offerte e possedute dagli eredi. Il futuro della piccola impresa, per evitare queste fattispecie implosive, potrebbe essere connesso alla sua cessione a favore di altri imprenditori. È, tuttavia, importante rilevare che il mercato dei diritti di proprietà delle piccole imprese è difficile da far funzionare in modo efficiente. Ci sono diversi fattori che ne rendono complicato il funzionamento. Ad esempio, il valore economico delle piccole imprese è fortemente influenzato da componenti immateriali di reputazione e di conoscenze tacite possedute dall’imprenditore; l’uscita di quest’ultimo dall’assetto proprietario dell’impresa ne vanifica, in tempi rapidi, tale valore economico. Ne deriva che questo stock di conoscenze tacite sono difficilmente trasferibili, con una transazione economica, ad altri soggetti terzi. È per questo che, sovente, il ciclo di vita dell’imprenditore-fondatore coincide con il ciclo di vita della piccola impresa.

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Ovviamente, questo schema conduce a riflettere sul fatto che, in queste circostanze, ossia sia nel caso meramente successorio che in quello della cessione, esiste una razionalità economica dell’imprenditore-fondatore a non perseguire investimenti pluriennali – e, quindi, processi di crescita dell’impresa – il cui orizzonte economico vada ben oltre quello dell’attesa “uscita” del soggetto imprenditoriale. Tutto questo porta ad evidenziare un nuovo “limitatore” della crescita dimensionale dell’impresa: l’orizzonte temporale limite degli investimenti rispetto all’età di lavoro atteso da parte dell’imprenditore-fondatore, salvo che la successione familiare oppure la cessione a terzi costituisca una strategia imprenditoriale adeguatamente impostata diversi anni prima dell’uscita programmata da parte dell’imprenditore-fondatore. Il fatto che diversi studi e ricerche (Bonomi, 2007; Cortesi, Alberti, Salvato 2004; Puricelli M., 2007; Dell’Atti, 2007; Zanetti 2006) sottolineino la criticità del passaggio generazionale nelle piccole imprese dimostra che queste circostanze sono particolarmente ricorrenti e comportano una vera e propria distruzione di “ricchezza economica” sotto forma di valori immateriali di conoscenze tacite possedute dall’imprenditore-fondatore. Infine, la piccola impresa presenta limiti alla crescita per vie esterne. In effetti, la crescita dimensionale dell’impresa può avvenire non solo per vie interne (tramite investimenti interni nella propria capacità produttiva o nelle proprie attività immateriali), ma anche per vie esterne, come ad esempio la fusione tra imprese (tramite gruppi formali) oppure l’istituzione di accordi di cooperazione formale (consorzi) o informale. La crescita per vie esterne presenta, per le piccole imprese, diversi pregi rispetto alle modalità di crescita per vie interne. Essa consente di raggiungere, complessivamente, scale dimensionali significative in tempi rapidi e, al limite, senza conferire alcun capitale finanziario addizionale da parte delle singole imprese. Non solo, grazie a questa modalità di crescita, si possono realizzare importanti sinergie industriali e commerciali, generando complementarità strategiche tra piccole imprese, salvaguardandone spesso la loro autonomia. Normalmente, nel caso delle piccole imprese, la modalità di crescita esterna maggiormente perseguita non è tanto quella delle merger & acquisition (modalità tipica di medio-grandi imprese), quanto piuttosto quella degli accordi di cooperazione formale tra di esse, tramite la realizzazione di specifici consorzi. Questo paradigma della crescita per vie esterne, ad esempio, ha portato storicamente, nel nostro Paese, alla realizzazione di diversi consorzi (da quelli strettamente manifatturieri a quelli di promozione commerciale a quelli finalizzati all’internazionalizzazione delle piccole imprese socie). Questi accordi inter-aziendali rappresentano uno strumento fondamentale per la sperimentazione di forme strutturate di cooperazione tra le piccole imprese. In questo senso, i consorzi costituiscono delle vere e proprie palestre per l’apprendimento di nuovi modus operandi di tipo cooperativo tra le piccole imprese. È assai evidente che, senza il ruolo e le funzioni che i consorzi hanno svolto in questi anni, molte delle piccole imprese, socie dei consorzi stessi, non sarebbero sopravvissute da sole ai cambiamenti tecnologici e alla crescente competizione nei mercati internazionali. Da questo punto di vista, i consorzi hanno sicuramente contribuito, a livello di singole imprese socie, a favorire:

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1) l’acquisizione tra gli imprenditori-soci di modalità decisionali di tipo collettivo, temperando la loro storica vocazione ed attitudine a favorire logiche decisionali accentrate di tipo individualistico;

2) l’internalizzazione di servizi tecnologici e commerciali svolti dalla struttura consortile in nome e per conto dei propri associati che altrimenti la piccola impresa non avrebbe potuto acquisire all’esterno, per la mancanza di adeguate risorse finanziarie, di competenze professionali e per problemi dimensionali di scala.

È, tuttavia, importante evidenziare che, rispetto a questi vantaggi, l’evidenza empirica suggerisce uno scarso ricorso a queste forme di crescita per vie esterne oppure, molto più spesso, una loro limitata efficacia in termini di capacità competitiva di conseguire gli scopi per i quali sono state perseguite: in una recente ricerca empirica, Rullani e Bonomi (2005) sottolineano che “collaborare si può. Ma, per mille e una ragione, è una strada tutta in salita. Di conseguenza, la scelta di collaborare con fornitori, clienti, concorrenti e istituzioni viene valutata con accenti molto diversi dai vari intervistati. In tutti c’è però un punto fisso, in comune: la risposta al cambiamento passa per la tessitura di reti ad ampio raggio, capaci di far lavorare insieme soggetti diversi della catena del valore. Ma si deve trattare di reti centrate sui bisogni che sono, al momento, più sentiti. Non c’è tempo per aspettare frutti che forse si vedranno solo in futuro. E dunque, c’è anche poca disponibilità ad investire tempo e denaro (a rischio) nella costruzione di forme collettive di cooperazione. Questo atteggiamento, ovviamente, non è uniforme nel campione. Le imprese leader cercano di costruire reti di imprese che consentano loro un livello di collaborazione più profondo con i fornitori e i clienti delle filiere”. Ci sono, pertanto, limiti nella governance di queste strutture inter-aziendali che ne scoraggiano, empiricamente, il ricorso da parte di numerose piccole imprese (Ferrucci, Picciotti, 2005). In effetti, l’equivoco di fondo relativo ai vantaggi di queste strutture inter-aziendali, indicati dalla letteratura dominante, consiste in una visione economica neoclassica basata sull’operare delle sole economie di scala, ignorando l’influenza (e la relativa importanza) dei fattori istituzionali ed organizzativi alla base del successo o meno di questa formula competitiva. C’è, in altri termini, una visione “additiva” delle funzioni individuali di produzione, ai fini del conseguimento delle economie di scala, che non considera l’operare problematico di fattori di integrazione organizzativa (che possono addirittura annullare i vantaggi di scala conseguiti). È, tuttavia, importante rilevare alcuni fattori di criticità nella governance di questa modalità di cooperazione formale tra piccole imprese che, in taluni casi, hanno vanificato i vantaggi competitivi che avrebbero dovuto conseguire. In particolare, due criticità di governance sembrano particolarmente rilevanti e diffusi. Da un lato, nei consorzi, esiste una uniformità della base associativa che può determinare specifiche problematiche decisionali. L’esistenza di un’asimmetria, anche temporanea, tra i costi e i benefici individuali derivanti dalla partecipazione a tale struttura consortile può generare situazioni di boicottaggio reciproco, di veti incrociati e di paralisi decisionale, ponendo in discussione le regole di governo del consorzio convenute in precedenza o generando situazioni di rarefazione delle risorse finanziarie

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collettive per fronteggiare determinati investimenti. Ciò è particolarmente evidente anche alla luce del fatto che il processo decisionale collettivo si basa sul criterio dell’eguaglianza formale dei soci. È evidente, inoltre, che, all’aumentare del numero complessivo delle imprese-socie, se da un lato migliora la possibilità di conseguire specifiche economie di scala in determinate attività, dall’altro lato, si rendono maggiormente problematiche le assunzioni di decisioni consortili, considerando l’ampliarsi possibile delle asimmetrie costi-benefici a livello individuale. Conseguentemente, è plausibile ritenere che le strutture consortili, laddove il numero delle imprese socie sia numeroso, tendano ad assumere decisioni strategiche (con i connessi investimenti) caratterizzate da ridotti pay back time, limitati livelli di incertezza e coerenti con la persistenza di un’autonomia gestionale e di governo dei singoli imprenditori. In altri termini, nei consorzi tendono a prevalere investimenti di tipo routinario, piuttosto che innovativi, e capaci di assicurare benefici netti ad una molteplicità di piccole imprese sin dal breve periodo, senza pregiudicarne i relativi margini di indipendenza economica e organizzativa. In ogni caso, viste le peculiarità del consorzio, è plausibile ritenere che i suoi processi decisionali ex ante rispetto alle dinamiche di investimento siano particolarmente impegnativi e lunghi per la dialettica esistente tra i singoli imprenditori-soci. Dall’altro lato, spesso si riscontra una carenza di adeguate competenze manageriali nella struttura consortile. In particolare, l’assetto organizzativo dei consorzi sembra caratterizzarsi per i seguenti due fattori: a) scarsa indipendenza decisionale, soprattutto in termini strategici, dei consorzi

rispetto alle singole imprese-socie. Questo fatto limita significativamente la validità competitiva della struttura consortile e delle stesse imprese-socie. In effetti, l’attività consortile appare particolarmente efficace a condizione che sia in grado di condizionare anche lo stesso processo decisionale individuale delle imprese associate. Determinate decisioni strategiche non possono essere delegate all’individualismo degli imprenditori-soci ma piuttosto devono tener conto delle capacità organizzative delle stesse imprese-socie. Pur tuttavia, la scarsa indipendenza decisionale del consorzio finisce per limitare anche la sua stessa identità strategica;

b) presenza nel consorzio di figure professionali prevalentemente di tipo tecnico-impiegatizio, piuttosto che di soggetti manageriali e quadri intermedi aventi nuove ed originali competenze gestionali e strategiche. I soggetti presenti nell’attività consortile sembrano, dunque, finalizzati all’exploitation di competenze tecnico-manifatturiere e commerciali già presenti nelle piccole imprese socie, piuttosto che all’exploration di nuove competenze. In altri termini, con il consorzio, le singole imprese tendono ad approfondire e migliorare il proprio set di competenze e non ad ampliarle rispetto ad innovative frontiere tecnologiche o di marketing. Tutto ciò è, peraltro, coerente con la volontà dei singoli imprenditori-soci di poter avere un dominus conoscitivo sulla struttura consortile.

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Questi due fattori, tra l’altro, contribuiscono a rendere molto problematica l’attribuzione di nessi causali tra l’attività del consorzio e gli eventuali benefici economici dei singoli associati. In effetti, se l’attività del consorzio è relativamente poco autonoma e mira a replicare, approfondendole e migliorandole, competenze e attività di cui sono già dotate le singole imprese-socie, diviene particolarmente difficile stabilire in modo univoco se e in che misura la struttura associativa è generatrice direttamente di benefici netti a favore della sua base associativa. Questi fattori di criticità nella governance delle strutture istituzionali cooperative di tipo inter-aziendale non devono, ovviamente, essere interpretate quali cause strutturali e irreversibili di un loro inevitabile fallimento economico. Al contrario, proprio a partire da queste riflessioni, la policy industriale a supporto di tali processi di crescita per vie esterne deve poter riflettere: 1) sull’acquisizione della consapevolezza dei limiti statici e dinamici intrinsecamente

legati a questa formula strutturata di cooperazione tra imprese; 2) sull’analisi e sull’adozione di quelle best practicies adottate da altre strutture

consortili, magari localizzate in altre aree o in altri settori, che hanno mostrato migliori performance;

3) sull’implementazione e sperimentazione di soluzioni innovative negli assetti di governance, nei processi decisionali collettivi, nelle regole di accesso e di funzionamento e nella selezione del personale dirigente di queste strutture consortili.

La struttura consortile deve essere vista quindi come un soggetto dinamico, con una propria autonomia gestionale e strategica e con una propria capacità di analisi critica e di validazione dei propri risultati raggiunti. Complessivamente, queste riflessioni dimostrano che la piccola impresa ha proprie endogene barriere alla crescita. Anche qualora il sentiero della crescita appare necessario e condiviso da parte del nucleo imprenditoriale, esso mostra specifiche dinamiche subordinate rispetto alle competenze possedute dall’imprenditore, con tutte le possibili distorsioni – rispetto ad una astratta ottimalità decisionale – in termini di implicazioni economiche, organizzative e competitive. È, inoltre, di tutta evidenza che l’affermazione, sovente richiamata nei mass media e tra gli operatori economici e della policy, sulla necessità della crescita dimensionale delle piccole imprese appare, per molti aspetti, una semplice chimera o un auspicio quasi ideologico, di tipo prescrittivo, che sembra ignorare o sottovalutare i problemi di governance e le barriere endogene alla crescita che sono state illustrate. La questione rilevante va, dunque, esaminata secondo un’altra prospettiva: se le piccole imprese, salvo eccezioni, preferiscono non crescere dimensionalmente, la policy deve partire dalla rimozione o dalla limitazione dei fattori endogeni di governance ostativi rispetto a tali dinamiche e non incentivare semplicemente processi di aggregazione tra imprese. E, ovviamente, queste barriere endogene possono apparire, per molti aspetti, non solo l’espressione “antropologica” di un certo modo di essere dell’imprenditorialità italiana, ma anche – e forse soprattutto – “un problema di inefficiente governo societario. In altre parole, gli imprenditori italiani si ostinerebbero a mantenere basso il grado di separazione tra

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proprietà e controllo [...] non per mera protervia, bensì – semplicemente – perché l’accesso alla finanza azionaria non rappresenta una prospettiva sufficientemente conveniente. Ciò sarebbe dovuto all’inadeguatezza dei modelli di governo e finanziamento dell’impresa praticabili nel nostro paese; inadeguatezza che, a sua volta, deriverebbe almeno in parte dalla insufficienza degli strumenti giuridici volti ad assicurare un’efficiente corporate governance” (Bianchi et al., 2005). Dal sistema produttivo locale alle peculiarità della governance della piccola impresa: le virtù del capitalismo imprenditoriale La crisi finanziaria ed economica globale, esplosa in tutta la sua intensità a partire dal 2008, ha suscitato interrogativi sulle dinamiche distorsive generate dalla co-evoluzione delle big corporation manageriali, presenti nell’industria manifatturiera, e le grandi istituzioni di intermediazione finanziaria (merchant bank, ecc.). Il capitalismo anglosassone è apparso quello che maggiormente ha contribuito alla generazione delle cause sottostanti a questa crisi economica e finanziaria globale, date le sue caratteristiche strutturali e di funzionamento (Fumagalli, Mezzadra 2009; Gnesutta, Rey, Romagnoli 2008): la flessibilità del mercato del lavoro; la caduta del potere di acquisto della classe media; il ruolo della finanza e delle istituzioni finanziarie attorno alla borsa valori (fondi pensione, imprese di assicurazione, merchant bank, venture capitalist, ecc.); il ruolo della grande impresa propria del capitalismo manageriale (con la sua forza in termini di lobbying nei confronti delle istituzioni pubbliche e con meccanismi retributivi, spesso opachi e relativamente poco “ancorati” rispetto alla crescita della ricchezza economica reale delle imprese, a favore dei top manager). Queste caratteristiche strutturali, proprie del modello capitalistico anglosassone, “conducono” a generare, con una certa periodicità, delle bolle finanziarie, fondate su un’euforia irrazionale che si genera nel mercato borsistico a partire da una generale sopravvalutazione di titoli rappresentativi di una parte dell’economia reale (l’ICT nel 2001; il mercato immobiliare nel 2008). Quando le dinamiche sottostanti alla generazione della bolla finanziaria si interrompono, l’elevata finanziarizzazione (dai piccoli azionisti ai fondi pensione al leveraging delle imprese industriali e finanziarie) del modello anglosassone genera un impatto traumatico sulle borse valori; dalle borse valori, la caduta di valore dei titoli si indirizza nei mercati reali (la Main Street, come dicono in America, rispetto a Wall Street della finanza) e amplifica gli effetti della crisi finanziaria sulla crisi economica reale. C’è, dunque, una caduta dei consumi delle famiglie e degli investimenti delle imprese, con un rischio forte di recessione economica. In un contesto di crisi economica, aumentano le difficoltà delle imprese industriali e, dato il loro rischio di insolvenza, le banche commerciali aumentano la rarefazione nell’offerta di credito, accentuando ulteriormente gli effetti negativi della crisi economica complessiva. In sintesi, la crisi economica negli USA diviene forte – e maggiore rispetto ad altri modelli capitalistici nazionali – per l’intersercarsi dei tre fattori descritti:

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1) la relazione tra economia borsistica e economia reale; 2) la caduta della domanda reale dei consumatori (problemi di domanda interna e

estera) e degli investimenti da parte delle imprese; 3) la rarefazione dell’offerta di credito a favore delle piccole e medie imprese

industriali che si trovano a subire limitazioni aggiuntive nelle loro possibilità di investimento.

Complessivamente, la finanziariazzazione elevata del modello capitalistico anglosassone tende, periodicamente, ad istituire delle bolle finanziarie che nascono in alcune parti dell’economia reale e si irrobustiscono per i meccanismi amplificati del leveraging e dell’afflusso di grandi capitali finanziari. Purtroppo, queste bolle finanziarie – non si sa esattamente quando – prima o poi “scoppiano” con gli effetti amplificati sull’economia reale e finanziaria, oramai su scala globale (anche perché, nel frattempo, i titoli “tossici” sono ovunque nel mondo). Queste circostanze portano una parte della letteratura economica e manageriale a ri-leggere le criticità proprie del funzionamento del modello capitalistico anglosassone rispetto ad altri modelli capitalistici, quali quello tedesco, quello francese o quello scandinavo, soprattutto in termini di istituzioni pubbliche e di regole di intervento nell’economia. Ma, questa crisi economica e finanziaria globale pone anche altri ordini di riflessione in relazione al modello istituzionale e di governance d’impresa. La big corporation americana – fondata sulla “casta” dei top manager, sul suo elevato livello di indebitamento e di finanziarizzazione e sul suo potere in termini di lobbying – pone problemi all’efficienza e alla competitività dei sistemi economici capitalistici. Da questo punto di vista, per taluni autori (Audretsch, 2007), questa crisi economica e finanziaria globale porta a “riscoprire” le virtù del capitalismo imprenditoriale. Quali sono, fondamentalmente, le virtù della piccola impresa imprenditoriale? Possiamo evidenziare quattro diversi fattori. In primo luogo, come abbiamo visto sopra, il capitalismo imprenditoriale ha le virtù di privilegiare l’economia reale rispetto a quella finanziaria. Il “cuore” manifatturiero delle piccole imprese – specie in termini di mestieri e abilità artigianali e manuali – è un loro connotato strutturale (Sennett, 2009; Colombo, 2007). La grande impresa ha privilegiato, nel lungo periodo, dei percorsi di ristrutturazione e di crescita organizzativa che hanno, talvolta, “sacrificato” la dimensione strettamente manifatturiera degli investimenti. Diversi autori hanno sottolineato, a partire dagli anni Novanta, che l’evoluzione della grande impresa industriale comporta, nel nuovo scenario concorrenziale, una tendenza verso la sostituzione di investimenti manifatturieri a favore di altri a maggiore valore aggiunto sul piano competitivo (R&S, marketing, design, retailing, finanza, ecc.). L’assunto di base è che la trasformazione e evoluzione della grande impresa capitalistica nell’ambito dei paesi industriali avanzati – indotta da ragioni assai complesse e articolate quali la crescente rilevanza della ricerca scientifica e tecnologica, la turbolenza dei mercati, la variabilità delle preferenze dei consumatori e l’innovazione tecnologica – abbia spinto all’esplorazione di sentieri strategici nuovi, inducendo conseguentemente una sostituibilità di taluni investimenti

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manifatturieri realizzati in passato (Rifkin, 2000). In effetti, si afferma che una fondamentale linea della trasformazione strutturale dell’impresa industriale riguarda l’emergere di consistenti ‘soft investment’, quali R&S, marketing, distribuzione commerciale e engineering di prodotto e di processo (Carlsson, 1989), controbilanciato dal ricorso al decentramento produttivo di determinate fasi manifatturiere. Nell’ambito di una teoria capitalistica dell’impresa, il decentramento produttivo «discende dall’azione contraddittoria del capitale sulle forze produttive [...]. Le risorse delle grandi imprese non possono quindi impiegarsi nei nuovi settori senza lasciare i vecchi. La specificità del decentramento produttivo, almeno in questo campo di compatibilità tra efficienza e dominazione, è allora quella della liberazione delle risorse [...] dal sistema centrale, spostandola dai processi maturi a quelli nuovi; in secondo luogo, le specificità di una tale forma di decentramento è quella di essere lo strumento per la riproduzione della barriere monopolistiche, sempre su nuovi confini, tra sistema centrale e periferico» (Rullani, 1974). Queste prospettiva di lettura e interpretazione del decentramento della grande impresa comporta, quindi, un sottodimensionamento in determinate funzioni – che tendono a apparire sussidiarie – integrato, specularmente, da un’internalizzazione o rafforzamento di altre attività ritenute strategiche. Lo slittamento dalla specificità manifatturiera a una specificità terziaria in molte grandi imprese industriali viene perciò interpretato in questa chiave evolutiva connessa al manifestarsi di una competizione dinamica internazionale basata sull’utilizzo di strumenti strategici terziari (marketing, R&S, engineering ecc.). In sintesi, «il primo e fondamentale fattore endogeno che, in una logica di sviluppo basata sul ruolo egemone della grande impresa capitalistica, spinge verso sempre più estesi processi di decentramento produttivo, è rappresentato dalla ‘crisi’ della strategicità di molte funzioni manifatturiere nell’ambito dei processi produttivi sempre più complessi e articolati. Questa ‘crisi’ concorre, tra l’altro, a spiegare le ‘catene’ di decentramento su scala internazionale [...]. È appena il caso di aggiungere che le osservazioni sin qui fatte circa la tendenza, da parte delle grandi imprese, a un’allocazione delle risorse che le spinge a interiorizzare e a concentrare le funzioni ‘strategiche’, esternalizzando invece (per quanto possibile e conveniente) quelle sussidiarie, non riguardano solo il cosiddetto ‘decentramento di capacità’ ma anche – e a maggior ragione – quello di ‘specialità’» (Cozzi, 1974). In questo senso, tale modello di decentramento spinge verso un processo di deverticalizzazione del ciclo manifatturiero, inducendo la specializzazione delle imprese per funzioni (progettazione, commercializzazione, produzione ecc.) e per fasi (lavorazioni, produzioni di componenti, assemblaggio). Le imprese più dinamiche e di maggiori dimensioni andranno specializzandosi nelle funzioni strategicamente più rilevanti, legate a economie di scala maggiori e a fenomeni di apprendimento delle formule innovative – magari generate in altri contesti territoriali o funzionali – quali la progettazione, la commercializzazione, il controllo di qualità, le attività di marketing e la R&S, mentre le imprese di subfornitura si specializzeranno nei singoli stadi di lavorazione, con tecniche produttive efficienti (Lorenzoni, 1987). Come affermano

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prescrittivamente Davis e Mayer (1999), nel nuovo scenario competitivo “spesso possedere i beni di produzione non paga. Il possesso di beni d’investimento si rivela una palla al piede, il cui peso impedirà all’azienda di passare velocemente da una linea di business all’altra”. Tutto questo può spingere evolutivamente a modelli d’impresa fortemente deverticalizzati e concentrati in poche funzioni ritenute strategiche per lo sviluppo e l’innovazione di prodotto (Quinn, 1992). In secondo luogo, il capitalismo delle piccole imprese viene elogiato per la rapidità e capacità decisionale: l’imprenditore è il manager dei propri soldi, investe il proprio capitale di rischio e lo gestisce. Nelle piccole imprese ci si trova di fronte ad un soggetto proprietario dell’impresa che conferisce il capitale di rischio e per questo esercita anche le funzioni decisionali e di controllo della stessa. Cosa significa questo? Si minimizza il costo del controllo da parte di un gendarme, grazie al fatto che egli controlla, valuta e decide rapidamente i propri investimenti, senza processi di negoziazione con altri soggetti (Ferrando, Ganoulis 1999). In un mercato turbolento, la rapidità di rivedere le proprie decisioni può, dunque, costituire un asset competitivo importante rispetto ad altri modelli di impresa. In terzo luogo, il capitalismo imprenditoriale presenta un elevato livello di radicamento territoriale rispetto alla fungibilità dei fattori produttivi propri della grande impresa manageriale, e la sua conseguente mobilità spaziale. Il radicamento territoriale delle piccole imprese è da intendersi, in modo comparato, rispetto a diversi piani di analisi. È, evidente, infatti il legame sociale e culturale dell’imprenditore con il suo habitat territoriale (Calabrò, 2009). Quest’ultimo costituisce un forte riduttore dell’incertezza decisionale del capitalista imprenditoriale, grazie ad un network consolidato di reti sociali e istituzionali di cui può disporre: nel mondo globale, al contrario, egli si troverebbe sovente ad operare in solitudine e senza questi “paracadute” istituzionali propri del suo territorio di origine. Il radicamento della piccola impresa si rafforza anche nel senso della sua necessità di disporre di professionalità dipendenti di elevata qualificazione, rispetto alla fungibilità dei lavoratori propri della grande impresa fordista che, pertanto, può mirare a de-localizzare le proprie attività manifatturiere labour intensive. La riproduzione sociale e professionale di tali dipendenti in altri contesti territoriali appare una strategia problematica che la piccola impresa, da sola, non può intraprendere. Così, la piccola impresa è radicata perché, in tale contesto, essa beneficia del valore economico e produttivo delle proprie professionalità specialistiche. Infine, un’ulteriore dimensione del radicamento territoriale della piccola impresa è connessa al costo-opportunità dell’imprenditore: perfino in contesti di difficoltà economica e competitiva, la piccola impresa persiste nella sua attività, sino a condizioni finanziarie limite, in quanto l’imprenditore può valorizzare, spesso, le sue competenze solamente nell’ambito di tale attività economica; al di fuori di essa, tali competenze rischiano di avere un valore economico nullo. Tutto questo si traduce in un radicamento territoriale elevato, per effetto di queste barriere all’uscita dall’attività imprenditoriale. Complessivamente, tutte queste “facce” del radicamento territoriale della piccola impresa portano ad esprimere un modello socialmente sostenibile

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rispetto allo sviluppo economico di un territorio. Con le parole di Becattini (2009), “un capitalismo dal volto umano per contrapporlo al disumano, preoccupante capitalismo selvaggio che potrebbe risultare da un incosciente abbandono al laissez faire, laissez passer richiede insieme ad una diversa organizzazione del processo manifatturiero, innestata in una diversa organizzazione dell’interno processo sociale, un diverso uomo-lavoratore, meno passivo ed etero diretto, più attivo e auto diretto, un diverso imprenditore, più leader di uomini e meno speculatore finanziario”. Infine, la virtù della piccola impresa è da connettersi con le osservazioni pioneristicamente formulate da Schumpeter, nell’opera “L’imprenditore e la storia dell’impresa. Scritti 1927-1949”. L’austriaco Joseph Schumpeter elogia la figura dell’imprenditore, colui che grazie al proprio coraggio ed iniziativa sfida l’equilibrio stabilito introducendo sul mercato un nuovo prodotto, o un nuovo processo produttivo, o ancora una nuova organizzazione del lavoro. L’imprenditore, quindi, è essenzialmente un innovatore che, proprio per questa sua capacità di distruzione creatrice, contribuisce al benessere economico e sociale. Negli ultimi anni, dopo l’accreditamento della capacità innovativa in modo esclusivo alle grandi imprese manageriali, alcuni studiosi hanno riscoperto il significato di questo contributo originario schumpeteriano. Si sottolinea che l’emergere di nuovi settori (quali quello delle biotecnologie, della micro meccatronica, dell’informatica, delle telecomunicazioni, delle nanotecnologie, ecc.), spesso definiti innovativi, altrimenti detti high tech oppure science-based, si ha tramite lo start up di nuove piccole imprese, proprie di un capitalismo imprenditoriale. In altri termini, queste infant industry – nella loro fase iniziale – sono caratterizzate da un’ondata di nuova piccola imprenditorialità. Questa logica di sviluppo economico è, dunque, fortemente tributaria della presenza di una vocazione a costituire una nuova piccola impresa in questi settori high tech. È indubbio che vi sono anche fattori ambientali assecondanti. Quest’industria high tech tende a localizzarsi nelle aree dove vi sono radicate competenze scientifico-tecnologiche, una classe “creativa”, una finanza orientata al rischio nella logica dei venture capitalist e università e centri di ricerca di eccellenza. In un certo qual modo, queste teorie “riscoprono” la nota e “vecchia” teoria del ciclo di vita internazionale del prodotto di Vernon: i settori science-based o knowledge intensive nascono e si localizzano soprattutto laddove vi sono risorse umane di elevata qualificazione scientifica con una loro vocazione a intraprendere nuovi percorsi imprenditoriali. I loro “artefatti”, sotto forma di brevetti e altri tipi di conoscenze codificate, costituiranno l’ingrediente per l’innovazione in molti altri settori manifatturieri e, nelle fasi di sviluppo e di maturità, questi stesse industrie high tech saranno destinate a registrare crescenti livelli di concentrazione, tramite l’emergere di imprese di maggiori dimensioni. C’è, dunque, una sorta di ciclo di vita dei settori: i nuovi settori nascono sulla base della nascita di piccole imprese innovative, da imprenditori schumpeteriani; poi, mano a mano che l’industria si sviluppa e si consolida, emergono le imprese più grandi che, una volta definito lo standard, competono su innovazioni minori.

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B) La consistenza delle piccole imprese in Umbria: un’analisi comparata In questa parte si illustra la consistenza economica delle piccole imprese in Umbria rispetto ad altre regioni italiane, in relazione sia all’industria manifatturiera complessiva che ad alcuni suoi settori rilevanti14. Le piccole imprese manifatturiere in Umbria, come si può vedere dalla tabella 1, nel 2008, sono 9.735, rispetto ad un totale complessivo di 9.909. In altri termini, il 98,2% delle imprese manifatturiere rientra in questa fascia dimensionale. La maggiore consistenza, come numerosità assoluta, si ha nei settori caratteristici di questa economia regionale: tre settori presentano valori superiori alle mille imprese, ossia, nell’ordine, DJ28 (fabbricazione e lavorazione prodotti in metallo), DA15 (industrie alimentari e delle bevande) e DN36 (fabbricazione mobili e altre industrie manifatturiere residuali). La suddivisione dimensionale nelle due fasce a seconda della consistenza degli addetti (da zero a nove oppure da 10 a 49) suggerisce ulteriori considerazioni. L’indice di correlazione lineare tra questi due ambiti dimensionali è pari a +0,90, ovverosia vi è una stretta relazione tra questi due segmenti: la numerosità in uno di essi trova conferma anche nell’altro, a prescindere dal settore manifatturiero considerato. In altri termini, normalmente, i settori con elevata densità di imprese nella prima fascia dimensionale presentano un’elevata numerosità anche nell’altra; viceversa il contrario. Il confronto inter-settoriale suggerisce, però, anche altre considerazioni. Mediamente, le micro-imprese (da 0 a 9 addetti) sono, nell’industria manifatturiera, circa 8 volte superiori, come numerosità, rispetto alla classe dimensionale maggiore (da 9 a 49 addetti). I settori che, però, presentano i valori modali sono alcuni – che potremmo considerare high tech e plausibilmente di formazione storica più recente – come la fabbricazione di macchine per uffici e elaboratori (DL30, dove le micro imprese sono 34 volte più numerose della fascia dimensionale maggiore), la fabbricazione di apparecchi medicali, di precisione e strumenti ottici (DL33, anch’esso con un coefficiente di circa 34) e la fabbricazione di apparecchi radiotelevisivi e per la comunicazione (DL32, pari a circa 15 volte). In altri termini, sembra che queste industrie high tech presentino uno “schiacciamento” dimensionale sulle micro-imprese, rispetto alla fascia dimensionale superiore. Ciò potrebbe confermare, per taluni aspetti, che queste imprese sono di formazione storica più recente e rispondono alle “sollecitazioni” della teoria del ciclo di vita del settore, di tipo schumpeteriano, come visto nella prima parte di questo lavoro. Al contrario, i multipli più bassi nel rapporto tra queste due diverse fasce dimensionali si riscontrano nei settori manifatturieri “storici” dell’economia umbra: la produzione di metalli e loro leghe (DJ27, pari a 2,3); la fabbricazione di articoli in gomma e materie plastiche (DH25, pari a 3,2); la fabbricazione di autoveicoli, rimorchi e semirimorchi

14 Ringrazio Unioncamere Umbria per aver gentilmente messo a disposizione specifiche informazioni statistiche a supporto di questa seconda parte del lavoro. Le responsabilità per eventuali errori nell’elaborazione e nell’interpretazione dei dati statistici sono ovviamente dell’autore.

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(DM34, pari a 3,3); la fabbricazione di carta e prodotti di carta (DE21, pari a 3,7). Sembrerebbe, dunque, che i settori storici dell’industrializzazione manifatturiera umbra presentino una minore frequenza statistica di micro-imprese in rapporto a quelli della fascia dimensionale strettamente superiore, mostrando indirettamente che la storia accumulata delle imprese è una “forza” rilevante per la loro, seppur modesta, crescita dimensionale. Tab. 1 - La numerosità delle piccole imprese manifatturiere in Umbria (anno 2008)

TOTALE TOTALE TOTALE MICRO E PICCOLE IMPRESE TOTALE IMPRESE ATTIVE0-9 ADDET10-49 ADDETTI

DA15 Industrie alimentari e delle bevande 1331 134 1465 1477DA16 Industria del tabacco 12 1 13 13DB17 Industrie tessili 732 95 827 835DB18 Confez.articoli vestiario-prep.pellicce 769 127 896 912DC19 Prep.e concia cuoio-fabbr.artic.viaggio 94 13 107 107DD20 Ind.legno,esclusi mobili-fabbr.in paglia 738 51 789 796DE21 Fabbric.pasta-carta,carta e prod.di carta 67 18 85 94DE22 Editoria,stampa e riprod.supp.registrati 502 58 560 567DF23 Fabbric.coke,raffinerie,combust.nucleari 3 0 3 4DG24 Fabbric.prodotti chimici e fibre sintetiche 71 17 88 91DH25 Fabbric.artic.in gomma e mat.plastiche 89 28 117 124DI26 Fabbric.prodotti lavoraz.min.non metallif. 611 91 702 718DJ27 Produzione di metalli e loro leghe 14 6 20 30DJ28 Fabbricaz.e lav.prod.metallo,escl.macchine 1325 224 1549 1588DK29 Fabbric.macchine ed appar.mecc.,instal. 531 82 613 622DL30 Fabbric.macchine per uff.,elaboratori 34 1 35 35DL31 Fabbric.di macchine ed appar.elettr.n.c.a. 189 43 232 239DL32 Fabbric.appar.radiotel.e app.per comunic. 57 4 61 64DL33 Fabbric.appar.medicali,precis.,strum.ottici 402 12 414 416DM34 Fabbric.autoveicoli,rimorchi e semirim. 39 12 51 59DM35 Fabbric.di altri mezzi di trasporto 24 3 27 28DN36 Fabbric.mobili-altre industrie manifatturiere 966 65 1031 1038DN37 Recupero e preparaz. per il riciclaggio 42 8 50 52TOTALE 8642 1093 9735 9909 Fonte: nostre elaborazioni su dati Unioncamere Umbria La tabella 2 riporta il peso, in percentuale, delle piccole imprese umbre sul totale delle imprese attive in due diversi anni, il 2004 e il 2008. Complessivamente, il 98,2% delle imprese manifatturiere sono piccole, anche se solo quattro anni fa tale valore era lievemente superiore, ossia pari al 98,6%. In quattro anni, pertanto, vi è stata una contrazione dello 0,4%. La lieve riduzione della consistenza relativa delle piccole imprese è particolarmente visibile in due settori manifatturieri: la produzione di metalli e loro leghe (con una diminuzione del 18,2%) e la fabbricazione di autoveicoli, rimorchi e semirimorchi (con una contrazione del 7,0%). Evidentemente, i processi di ristrutturazione in queste industrie hanno penalizzato la dimensione minore, fondata su logiche di decentramento a minore valore aggiunto e con scarsa capacità di innovazione, oltreché collocata in filiere oramai divenute globali e gestite da multinazionali, spesso estere. Complessivamente, sui 22 settori considerati, solamente otto di essi registrano, nel periodo 2004-2008, una crescita – magari marginale – della consistenza relativa delle piccole imprese.

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Tab. 2 - Il peso delle piccole imprese sul totale delle imprese attive in Umbria (valori

percentuali)2004 2008 Variazione

Industrie alimentari e delle bevande 99,2 99,2 0,0Industrie tessili 99,4 99,0 -0,4Confez.articoli vestiario-prep.pellicce 98,4 98,2 -0,2Prep.e concia cuoio-fabbr.artic.viaggio 100,0 100,0 0,0Ind.legno,esclusi mobili-fabbr.in paglia 99,3 99,1 -0,2Fabbric.pasta-carta,carta e prod.di carta 93,2 90,4 -2,8Editoria,stampa e riprod.supp.registrati 99,2 98,8 -0,5Fabbric.coke,raffinerie,combust.nucleari 66,7 75,0 8,3Fabbric.prodotti chimici e fibre sintetiche 94,7 96,7 2,0Fabbric.artic.in gomma e mat.plastiche 95,9 94,4 -1,5Fabbric.prodotti lavoraz.min.non metallif. 98,5 97,8 -0,8Produzione di metalli e loro leghe 84,8 66,7 -18,2Fabbricaz.e lav.prod.metallo,escl.macchine 98,3 97,5 -0,7Fabbric.macchine ed appar.mecc.,instal. 97,8 98,6 0,8Fabbric.macchine per uff.,elaboratori 100,0 100,0 0,0Fabbric.di macchine ed appar.elettr.n.c.a. 97,7 97,1 -0,7Fabbric.appar.radiotel.e app.per comunic. 97,8 95,3 -2,5Fabbric.appar.medicali,precis.,strum.ottici 99,4 99,5 0,1Fabbric.autoveicoli,rimorchi e semirim. 93,5 86,4 -7,0Fabbric.di altri mezzi di trasporto 94,1 96,4 2,3Fabbric.mobili-altre industrie manifatturiere 99,8 99,3 -0,4Recupero e preparaz. per il riciclaggio 97,3 96,2 -1,1TOTALE 98,6 98,2 -0,4 Fonte: nostre elaborazioni su dati Unioncamere Umbria I settori manifatturieri umbri con una densità di piccole imprese superiore alla media (ossia, nel 2008, pari al 98,2%) sono di diversa caratterizzazione, andando dalla fabbricazione di macchine per ufficio all’industria tessile a quella alimentare, passando per la lavorazione del legno e la realizzazione dei mobili sino alla fabbricazione di apparecchi medicali, di precisione e strumenti ottici. L’Umbria può considerarsi una regione di piccole imprese comparativamente ad altre regioni italiane, in particolare quelle del centro Italia? Possiamo sostenere davvero che esista una specificità umbra in termini di diffusività delle piccole imprese? La tab. 3 riporta il peso (in percentuale) delle piccole imprese umbre, a parità di settore manifatturiero, rispetto ad altre regioni, oltreché comparativamente alla media nazionale. Il dato è riferito all’anno 2008.

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Tab. 3 - Il peso delle piccole imprese umbre comparativamente ad altre aree del Paese (anno 2008)

(valori percentuali) UMBRIA TOSCANA MARCHE E. ROMAGNA ABRUZZO LAZIO ITALIA

DA15 Industrie alimentari e delle bevande 99,2 99,5 99,6 98,6 99,5 99,6 99,3DB17 Industrie tessili 99,0 98,9 98,5 99,1 98,0 98,9 97,7DB18 Confez.articoli vestiario-prep.pellicce 98,2 99,5 97,5 98,7 98,0 99,7 99,0DC19 Prep.e concia cuoio-fabbr.artic.viaggio 100,0 99,1 98,1 97,6 99,0 99,3 98,3DD20 Ind.legno,esclusi mobili-fabbr.in paglia 99,1 99,8 99,2 99,1 99,6 99,8 99,5DE21 Fabbric.pasta-carta,carta e prod.di carta 90,4 94,6 96,6 94,8 98,4 96,5 95,1DE22 Editoria,stampa e riprod.supp.registrati 98,8 99,3 99,1 98,6 99,7 99,0 98,9DF23 Fabbric.coke,raffinerie,combust.nucleari 75,0 93,3 90,9 92,3 100,0 80,4 91,7DG24 Fabbric.prodotti chimici e fibre sintetiche 96,7 92,9 91,8 90,5 92,2 90,6 91,8DH25 Fabbric.artic.in gomma e mat.plastiche 94,4 97,3 95,1 94,4 94,7 96,6 95,3DI26 Fabbric.prodotti lavoraz.min.non metallif. 97,8 98,7 97,1 93,3 97,1 98,2 98,1DJ27 Produzione di metalli e loro leghe 66,7 94,7 94,0 87,5 84,6 95,5 90,1DJ28 Fabbricaz.e lav.prod.metallo,escl.macchine 97,5 99,3 98,3 98,5 98,4 99,2 98,5DK29 Fabbric.macchine ed appar.mecc.,instal. 98,6 98,0 96,6 95,6 98,4 98,8 96,8DL30 Fabbric.macchine per uff.,elaboratori 100,0 98,7 98,3 99,6 100,0 97,6 98,7DL31 Fabbric.di macchine ed appar.elettr.n.c.a. 97,1 97,9 96,4 96,7 96,3 98,7 97,2DL32 Fabbric.appar.radiotel.e app.per comunic. 95,3 97,6 95,0 97,4 97,1 96,9 96,7DL33 Fabbric.appar.medicali,precis.,strum.ottici 99,5 99,3 99,2 98,5 99,9 99,3 99,1DM34 Fabbric.autoveicoli,rimorchi e semirim. 86,4 89,9 93,4 92,2 88,3 95,1 92,2DM35 Fabbric.di altri mezzi di trasporto 96,4 98,9 97,8 96,4 96,1 98,1 97,7DN36 Fabbric.mobili-altre industrie manifatturiere 99,3 99,3 97,1 99,0 99,1 99,7 98,9DN37 Recupero e preparaz. per il riciclaggio 96,2 99,4 100,0 98,9 96,8 99,1 98,9TOTALE 98,2 99,0 98,0 97,7 98,5 99,0 98,3 Fonte: nostre elaborazioni su dati Unioncamere Umbria I dati complessivi evidenziano che il peso della piccola impresa manifatturiera in Umbria non si discosta di molto dai dati riferibili alle altre regioni contigue oppure alla media nazionale. È, tuttavia, importante precisare che l’importanza delle piccole imprese non può considerarsi una specificità umbra. Anzi, vi sono ben quattro aree geografiche (la Toscana, l’Abruzzo, il Lazio e, come media nazionale, l’Italia) che presentano valori, per quanto marginali, superiori a quello umbro. In definitiva, l’Umbria non è un’isola a sé stante, ma è parte integrante di un modello di industrializzazione – quello italiano – e particolarmente quello del centro Italia in cui la piccola impresa ha un ruolo centrale e determinante. Analizzando la situazione dei singoli settori manifatturieri, emergono tuttavia alcune peculiarità umbre. In particolare, nel settore della produzione di metalli e leghe, l’Umbria si caratterizza per una significativa minore incidenza delle piccole imprese rispetto alle altre regioni, con scostamenti rilevanti, anche dell’ordine di quasi trenta punti percentuali. Questo settore, tra l’altro, è quello che costituisce il valore minimale, in assoluto, rispetto a tutti quelli riferiti agli altri settori manifatturieri e alle altre aree geografiche considerate. La tabella 4 consente di approfondire, in modo maggiormente analitico, le eventuali differenze relative tra l’Umbria e le altre aree considerate in termini di consistenza relativa delle piccole imprese. Fatto 100 il valore assegnato all’Umbria, valori superiori a tale entità indicano una maggiore presenza relativa di piccole imprese nell’area geografica considerata; al contrario, valori inferiori a 100

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sottolineano la minore densità relativa di piccola imprese (ovverosia una maggiore consistenza relativa di imprese di dimensioni maggiori), in quel determinato settore manifatturiero e in quella specifica regione (o area nazionale). Tab. 4 - L’intensità relativa comparata della piccole imprese

(numeri indice, Umbria=100) UMBRIA TOSCANA MARCHE E. ROMAGNA ABRUZZO LAZIO ITALIA

DA15 Industrie alimentari e delle bevande 100 100,3 100,4 99,4 100,3 100,4 100,1DB17 Industrie tessili 100 99,9 99,5 100,0 99,0 99,9 98,6DB18 Confez.articoli vestiario prep.pellicce 100 101,2 99,2 100,5 99,8 101,5 100,8DC19 Prep.e concia cuoio fabbr.artic.viaggio 100 99,1 98,1 97,6 99,0 99,3 98,3DD20 Ind.legno,esclusi mobili fabbr.in paglia 100 100,7 100,1 99,9 100,5 100,7 100,4DE21 Fabbric.pasta carta,carta e prod.di carta 100 104,6 106,9 104,8 108,8 106,7 105,2DE22 Editoria,stampa e riprod.supp.registrati 100 100,6 100,4 99,8 100,9 100,2 100,2DF23 Fabbric.coke,raffinerie,combust.nucleari 100 124,4 121,2 123,1 133,3 107,2 122,2DG24 Fabbric.prodotti chimici e fibre sintetiche 100 96,0 94,9 93,6 95,3 93,6 95,0DH25 Fabbric.artic.in gomma e mat.plastiche 100 103,1 100,8 100,1 100,4 102,4 101,0DI26 Fabbric.prodotti lavoraz.min.non metallif. 100 100,9 99,3 95,5 99,3 100,4 100,3DJ27 Produzione di metalli e loro leghe 100 142,0 141,0 131,3 126,9 143,3 135,2DJ28 Fabbricaz.e lav.prod.metallo,escl.macchine 100 101,8 100,7 101,0 100,8 101,7 101,0DK29 Fabbric.macchine ed appar.mecc.,instal. 100 99,4 98,0 97,0 99,8 100,2 98,2DL30 Fabbric.macchine per uff.,elaboratori 100 98,7 98,3 99,6 100,0 97,6 98,7DL31 Fabbric.di macchine ed appar.elettr.n.c.a. 100 100,8 99,3 99,6 99,2 101,6 100,1DL32 Fabbric.appar.radiotel.e app.per comunic. 100 102,4 99,7 102,2 101,9 101,7 101,4DL33 Fabbric.appar.medicali,precis.,strum.ottici 100 99,8 99,7 98,9 100,4 99,8 99,6DM34 Fabbric.autoveicoli,rimorchi e semirim. 100 104,0 108,1 106,7 102,1 110,0 106,6DM35 Fabbric.di altri mezzi di trasporto 100 102,6 101,4 100,0 99,6 101,8 101,3DN36 Fabbric.mobili altre industrie manifatturiere 100 99,9 97,7 99,7 99,8 100,4 99,5DN37 Recupero e preparaz. per il riciclaggio 100 103,4 104,0 102,9 100,7 103,1 102,9TOTALE 100 100,8 99,7 99,5 100,2 100,8 100,1 Fonte: nostre elaborazioni su dati Unioncamere Umbria La minore intensità relativa di piccole imprese in Umbria è particolarmente visibile nella produzione di metalli e loro leghe. Il valore umbro corrisponde, infatti, ad una minore densità di piccole imprese rispetto a tutte le aree geografiche considerate. Seppure in modo decisamente più marginale, tale minore densità relativa di piccole imprese in Umbria, rispetto a tutte le altre aree geografiche, si riscontra anche in altri settori, quali la fabbricazione di carta, di articoli in gomma e materie plastiche, di lavorazione dei prodotti in metallo, di fabbricazione di parti e componenti di autoveicoli e altri mezzi di trasporto e nel recupero e preparazione per il riciclaggio. Al contrario, la maggiore intensità relativa umbra di piccole imprese si riscontra in altri settori, quali la fabbricazione di prodotti chimici, di macchine e apparecchi meccanici, di macchine per uffici e elaboratori e di mobili. C’è, dunque, una relativa varietà dimensionale tra queste aree geografiche, a parità di settore manifatturiero, che induce a riflettere su una non forte specificità umbra in relazione all’intensità delle piccole imprese. Ma queste differenze relative nel peso delle piccole imprese sono condizionate dalle micro-imprese (intesa come fascia dimensionale da zero a nove addetti) oppure dalle

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piccole imprese in senso stretto (ossia quelle da dieci a 49 addetti) oppure da entrambe le tipologie dimensionali? Per rispondere a questa domanda, sono state elaborate le tab. 5a e 5b che riportano le differenze aritmetiche relative tra l’Umbria e la regione di comparazione, a parità di settore, in base al peso percentuale presente in queste due differenti fasce dimensionali. Così, ad esempio, a livello di industria manifatturiera complessiva, in Umbria sappiano che il 98,2% delle imprese totali sono piccole mentre, in Toscana, tale valore è pari al 99,0%. Questa differenza relativa è imputabile ad un maggior peso delle micro-imprese (da zero a nove addetti ) oppure delle piccole imprese in senso stretto (da dieci a 49 addetti)? In questo caso, l’Umbria presenta, come si può evidenziare dalla tab. 5a, l’87,2% di micro-imprese e l’11,0% di piccole in senso stretto, mentre la Toscana ha valori rispettivamente di 80,1% e di 18,9%; ciò corrisponde ad una differenza aritmetica relativa pari a 7,1% nelle micro-imprese e del -7,9% tra le piccole in senso stretto. Pertanto, l’Umbria presenta – comparativamente alla Toscana – un peso relativamente maggiore nelle micro-imprese mentre è “sotto-dimensionata” nelle imprese posizionate nella fascia dimensionale da dieci a 49 addetti. Così, l’osservazione congiunta delle tabelle 5a e 5b evidenzia che l’Umbria – considerando l’aggregato manifatturiero complessivo – presenta una “sovra-esposizione” relativa nelle micro-imprese, comparativamente alla Toscana, alle Marche, all’Emilia Romagna. Osservando i dati relativi alla fascia dimensionale delle piccole imprese in senso stretto (ovverosia da dieci a 49 addetti), l’Umbria è “sovra-dimensionata” rispetto al Lazio, all’Abruzzo e alla media nazionale. Sembrerebbe, dunque, che, rispetto alle tipiche regioni distrettuali del centro Italia, l’Umbria si caratterizzi per un’intensità maggiore di micro-imprese e una frequenza minore di piccole imprese in senso stretto. In altri termini, l’Umbria ha uno “schiacciamento” dimensionale verso il basso che la rende maggiormente simile, date le differenze aritmetiche sotto-riportate, a regioni come il Lazio o l’Abruzzo oppure al dato medio nazionale. Ciò potrebbe essere espressione del fatto che l’assenza storica di distretti manifatturieri in questa regione e la sua caratterizzazione su differenti modelli locali di sviluppo – spesso fondati su decentramenti di capacità e su una subfornitura relativamente “povera” in termini di valore aggiunto nei confronti di committenti spesso di medio-grande impresa – abbiano determinato un “impoverimento” aggiuntivo della capacità di crescita delle piccole imprese e, dunque, in tale aggregato, la prevalenza relativa di micro-imprese.

DENTRO L’UMBRIA due166

Tab. 5a - Differenza aritmetica del peso percentuale tra l’Umbria e le altre regioni di confronto nelle due fasce dimensionali considerate

(valori percentuali)

Micro Piccole Micro Piccole Micro PiccoleIndustrie alimentari e delle bevande 90,1 9,1 4,4 -4,6 -3,5 3,1Industrie tessili 87,7 11,4 12,4 -12,2 4,6 -4,1Confez.articoli vestiario-prep.pellicce 84,3 13,9 -3,6 2,4 6,7 -5,9Prep.e concia cuoio-fabbr.artic.viaggio 87,9 12,1 15,5 -14,6 6,3 -4,5Ind.legno,esclusi mobili-fabbr.in paglia 92,7 6,4 4,1 -4,8 2,1 -2,2Fabbric.pasta-carta,carta e prod.di carta 71,3 19,1 17,8 -22,0 6,4 -12,6Editoria,stampa e riprod.supp.registrati 88,5 10,2 2,8 -3,3 0,6 -0,9Fabbric.coke,raffinerie,combust.nucleari 75,0 0,0 21,7 -40,0 11,4 -27,3Fabbric.prodotti chimici e fibre sintetiche 78,0 18,7 15,1 -11,3 7,1 -2,2Fabbric.artic.in gomma e mat.plastiche 71,8 22,6 11,0 -14,0 4,5 -5,2Fabbric.prodotti lavoraz.min.non metallif. 85,1 12,7 8,3 -9,3 7,2 -6,6Produzione di metalli e loro leghe 46,7 20,0 -16,9 -11,1 -3,3 -24,0Fabbricaz.e lav.prod.metallo,escl.macchine 83,4 14,1 5,4 -7,2 3,7 -4,4Fabbric.macchine ed appar.mecc.,instal. 85,4 13,2 7,9 -7,3 5,8 -3,9Fabbric.macchine per uff.,elaboratori 97,1 2,9 13,6 -12,3 3,1 -1,4Fabbric.di macchine ed appar.elettr.n.c.a. 79,1 18,0 5,7 -6,5 1,4 -0,7Fabbric.appar.radiotel.e app.per comunic. 89,1 6,3 14,3 -16,6 11,2 -10,9Fabbric.appar.medicali,precis.,strum.ottici 96,6 2,9 3,8 -3,6 -1,1 1,4Fabbric.autoveicoli,rimorchi e semirim. 66,1 20,3 1,0 -4,5 -8,9 1,9Fabbric.di altri mezzi di trasporto 85,7 10,7 8,8 -11,3 4,0 -5,4Fabbric.mobili-altre industrie manifatturiere 93,1 6,3 10,4 -10,3 9,9 -7,7Recupero e preparaz. per il riciclaggio 80,8 15,4 2,1 -5,3 -13,4 9,6TOTALE 87,2 11,0 7,1 -7,9 3,8 -3,6

UMBRIA UMBRIA-TOSCANA UMBRIA-MARCHE

Fonte: nostre elaborazioni su dati Unioncamere Umbria Tab. 5b - Differenza aritmetica del peso percentuale tra l’Umbria e le altre regioni di confronto nelle due fasce dimensionali considerate

(valori percentuali)

Micro Piccole Micro Piccole Micro Piccole Micro PiccoleIndustrie alimentari e delle bevande -0,6 1,2 -4,8 4,6 -5,4 5,0 -3,6 3,6Industrie tessili 0,4 -0,5 3,1 -2,1 -7,5 7,6 4,0 -2,6Confez.articoli vestiario-prep.pellicce -4,2 3,7 4,6 -4,4 -10,4 9,0 -4,6 3,9Prep.e concia cuoio-fabbr.artic.viaggio 6,0 -3,6 -0,6 1,6 -7,4 8,1 5,6 -3,9Ind.legno,esclusi mobili-fabbr.in paglia 1,2 -1,1 -2,7 2,1 -4,2 3,5 -1,4 0,9Fabbric.pasta-carta,carta e prod.di carta 2,5 -6,8 -6,5 -1,5 -10,1 4,0 -0,9 -3,8Editoria,stampa e riprod.supp.registrati 0,6 -0,4 -5,5 4,6 -4,6 4,4 -2,8 2,7Fabbric.coke,raffinerie,combust.nucleari 21,2 -38,5 -2,8 -22,2 16,3 -21,7 7,9 -24,5Fabbric.prodotti chimici e fibre sintetiche 10,2 -3,9 0,0 4,5 -1,0 7,1 4,5 0,4Fabbric.artic.in gomma e mat.plastiche 3,5 -3,6 -3,9 3,6 -8,4 6,2 -1,2 0,3Fabbric.prodotti lavoraz.min.non metallif. 11,2 -6,8 0,8 -0,2 -2,7 2,3 -1,0 0,7Produzione di metalli e loro leghe -3,0 -17,8 -16,0 -2,0 -38,8 10,0 -19,4 -4,0Fabbricaz.e lav.prod.metallo,escl.macchine 1,0 -2,0 -2,5 1,7 -8,2 6,6 -2,1 1,2Fabbric.macchine ed appar.mecc.,instal. 8,1 -5,1 -1,4 1,6 -6,1 5,9 3,3 -1,6Fabbric.macchine per uff.,elaboratori 6,7 -6,4 5,9 -5,9 10,3 -7,9 5,6 -4,3Fabbric.di macchine ed appar.elettr.n.c.a. 0,1 0,3 -5,9 6,6 -8,0 6,4 -3,0 2,9Fabbric.appar.radiotel.e app.per comunic. 6,2 -8,3 5,7 -7,5 2,3 -3,9 5,9 -7,2Fabbric.appar.medicali,precis.,strum.ottici 4,9 -3,8 -1,4 1,1 -0,5 0,7 2,0 -1,5Fabbric.autoveicoli,rimorchi e semirim. -0,4 -5,4 3,9 -5,8 -12,3 3,7 -5,3 -0,4Fabbric.di altri mezzi di trasporto 4,7 -4,7 0,2 0,2 -0,4 -1,3 1,3 -2,6Fabbric.mobili-altre industrie manifatturiere 2,8 -2,5 -0,4 0,6 -4,2 3,8 2,1 -1,7Recupero e preparaz. per il riciclaggio 1,4 -4,2 1,0 -1,6 -6,8 3,8 -5,2 2,4TOTALE 3,0 -2,4 -1,7 1,5 -6,0 5,2 -0,5 0,5

UMBRIA-LAZIO UMBRIA-ITALIA UMBRIA-E.ROMAGNA UMBRIA-ABRUZZO

Fonte: nostre elaborazioni su dati Unioncamere Umbria

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L’analisi dei singoli settori manifatturieri conferma, in buona misura, tali osservazioni; in altri termini, l’interpretazione sopra-riportata e fondata sull’intero aggregato manifatturiero non “soffre” di un “effetto-composizione” settoriale delle diverse economie regionali. Ad esempio, l’Umbria si presenta relativamente “sotto-dimensionata” rispetto alla Toscana, nella fascia dimensionale da dieci a 49 addetti, per tutti i diversi settori manifatturieri considerati (dai beni di consumo, durevoli e non, ai beni strumenti a quelli di investimento). Un’ulteriore approfondimento della distribuzione dimensionale dell’industria manifatturiera complessiva in Umbria – rispetto alle altre aree geografiche considerate – è riportato nella tabella 6 e tabella 7 (e dal connesso grafico n. 1). Tab. 6 - La distribuzione dimensionale delle imprese nell’industria manifatturiera

(dati in % rispetto al totale delle imprese manifatturiere attive) 0 addetti 1 addetto 2 - 5 addetti 6 - 9 addetti 10 - 19 addetti 20 - 49 addetti 50 - 99 addetti 100 - 249 addetti 250 - 499 addetti più di 500 addetti

Umbria 10,0 36,0 33,1 8,1 7,4 3,6 1,1 0,5 0,1 0,1Toscana 14,8 31,6 33,7 8,2 7,4 3,3 0,6 0,3 0,1 0,0Marche 11,9 28,4 33,9 9,2 9,7 4,9 1,3 0,5 0,1 0,0E. Romagna 10,5 32,5 32,0 9,2 8,7 4,7 1,2 0,8 0,2 0,1Abruzzo 14,9 37,0 30,3 6,7 6,2 3,3 0,8 0,5 0,1 0,1Italia 15,1 34,6 30,6 7,4 7,0 3,6 1,0 0,5 0,1 0,1

Fonte: nostre elaborazioni su dati Unioncamere Umbria Tab. 7 - La distribuzione dimensionale delle imprese nell’industria manifatturiera

(numeri indice; Umbria=100) 0 addetti 1 addetto 2 - 5 addetti 6 - 9 addetti 10 - 19 addetti 20 - 49 addetti 50 - 99 addetti 100 - 249 addetti 250 - 499 addetti più di 500 addetti

Toscana 148,3 87,6 101,7 102,1 100,1 90,1 57,9 57,3 51,2 76,3Marche 118,5 78,8 102,3 114,7 131,3 134,3 121,0 108,8 107,0 81,2E. Romagna 104,7 90,3 96,6 114,3 118,2 130,0 111,1 159,2 175,1 184,6Abruzzo 148,5 102,9 91,3 83,7 84,5 91,5 74,2 112,9 90,5 99,5Italia 151,2 96,2 92,4 91,6 94,4 98,3 86,9 110,8 112,4 134,4Umbria 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 Fonte: nostre elaborazioni su dati Unioncamere Umbria Tali dati si riferiscono all’intera industria manifatturiera e riportano, in modo analitico, le diverse fasce dimensionali delle imprese. In altri termini, grazie a tali informazioni, è possibile approfondire il quadro comparativo delle imprese manifatturiere, disaggregate sulla base di dieci fasce dimensionali, nelle diverse aree geografiche nazionali considerate.

DENTRO L’UMBRIA due168

Graf. 1 - La distribuzione dimensionale dell’industria manifatturiera

(numeri indice; Umbria=100)

Fonte: nostre elaborazioni su dati Unioncamere Umbria Rispetto all’Italia, l’Umbria si caratterizza per una maggiore consistenza relativa di imprese comprese tra uno a novantanove addetti; al contrario, nella fascia dimensionale minore (zero addetti) e in quelle a partire da cento addetti, in Umbria vi sono relativamente meno imprese. Il “sotto-dimensionamento” bi-polare comparato dell’Umbria rispetto alla media nazionale (meno imprese con zero addetti o con addetti superiori a cento) non trova una conferma rispetto ad altre regioni. La comparazione con l’Emilia Romagna mostra che questa regione si presenta, a partire dai sei addetti, valori relativi costantemente superiori a quelli dell’Umbria. La Toscana, al contrario, si presenta, rispetto all’Umbria, praticamente con consistenze relative inferiori a partire dai venti addetti in poi. Le Marche sono caratterizzate per una maggiore frequenza statistica nelle fasce dimensionali intermedie: da due sino a 499 addetti presentano valori sistematicamente superiori rispetto a quelli dell’Umbria. In altri termini, complessivamente, la distribuzione dimensionale delle imprese tra queste dieci fasce dimensionali mostra andamenti piuttosto differenziati, sul piano comparato, rispetto all’Umbria. Mentre la Toscana sembra strutturalmente proiettata

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verso una caratterizzazione su dimensioni micro e piccole, l’Emilia Romagna al contrario si posiziona, in senso relativo, su modelli di impresa a maggiore consistenza occupazionale. Le Marche sono, comparativamente all’Umbria, maggiormente presenti nelle fasce dimensionali intermedie. Abruzzo e Italia hanno, infine, andamenti assai simili con un “sovra-dimensionamento” comparato rispetto all’Umbria nelle fasce minori e in quelle maggiori. C) Un modello di dinamica industriale fondato sulle piccole imprese: un’analisi inter-regionale Gli obiettivi e la metodologia di analisi empirica Quali sono le principali variabili che inducono a modificare, in un settore o in una regione, la consistenza assoluta delle piccole imprese? Fondamentalmente, possiamo ipotizzare che lo stock delle piccole imprese, in un determinato anno all’interno di uno specifico settore manifatturiero e in una data regione, sia influenzato da cinque fattori: a) La natalità delle imprese. Sembra ragionevole assumere che le nuove imprese siano

plausibilmente di dimensioni piccole, sebbene non si possa a priori escludere la costituzione di una nuova impresa avente assetti dimensionali superiori. Tuttavia, la rarità di quest’ultimo fenomeno è tale da poter rendere ragionevole, in un arco temporale definito, l’ipotesi che i flussi di nuove imprese siano sostanzialmente configurabili nella fascia dimensionale minore. È, pertanto, evidente che, comparando due regioni o due settori, il riscontro empirico di un diverso tasso di natalità delle imprese possa corrispondere ad una diversa intensità di cambiamento dello stock delle piccole imprese pre-esistenti;

b) La persistenza dimensionale delle piccole imprese. Lo stock di questa tipologia di imprese dipende, anche, dal loro tasso di persistenza dimensionale, ovverosia dalla quota di piccole imprese, presenti al tempo t=0, che, dopo un determinato intervallo di tempo (per esempio, cinque anni), non modificano sostanzialmente il loro assetto dimensionale, restando a far parte di tale cluster. Di conseguenza, comparando due realtà industriali nel corso del tempo, quella con la maggiore quota di persistenza dimensionale dimostra, indirettamente, l’esistenza di barriere più intense alla crescita delle piccole imprese;

c) La crescita delle piccole imprese a favore di fasce dimensionali maggiori. Queste loro dinamiche di crescita possono condurre alla loro “uscita” da tale categoria dimensionale, per divenire medie o, addirittura, grandi imprese;

d) La decrescita dimensionale delle medie e delle grandi imprese. In altri termini, lo stock di piccole imprese, in un determinato settore, può accrescersi per effetto di processi di ristrutturazione e di downsizing di medie o grandi imprese. È di tutta evidenza che questi flussi in “entrata” nella categoria dimensionale delle piccole imprese può costituire un sintomo di preoccupazione, in una logica comparata con altri territori e a parità di settori industriali;

DENTRO L’UMBRIA due170

e) La mortalità delle imprese. È di tutta evidenza che, qualora il tasso di mortalità riguardi le piccole imprese, tale stock ne risente conseguentemente. Purtroppo, non potendo, con i dati a disposizione, segmentare il tasso di mortalità delle imprese in funzione della fascia dimensionale alla quale appartengono (piccole, medie o grandi), non si può considerare, nel modello di dinamica industriale presentato in questo lavoro, l’impatto di questa variabile sullo stock delle piccole imprese in due diversi intervalli di tempo.

Il modello di dinamica industriale presentato, pertanto, “poggia” su una variabile che misura il tasso di persistenza dimensionale, su due variabili di “flussi in entrata” (la natalità di nuove imprese e il downsizing delle medio-grandi imprese) e su una variabile di “flusso in uscita” (la crescita delle piccole imprese a favore delle fasce dimensionali maggiori). È di tutta evidenza che, sulla base di specifiche comparazioni regionali e settoriali, le implicazioni di questo modello possono essere particolarmente rilevanti. Un esempio numerico può supportare l’interpretazione di questo schema di lavoro. Supponiamo che la consistenza delle piccole imprese in una provincia e in un determinato settore, al 1° gennaio 1990, sia pari a 1.000 unità. Nel corso dell’anno, si registrano addizionalità di piccole imprese dovute a fenomeni di natalità (pari a 100 imprese) e a fenomeni di decrescita dimensionale (pari a 300 imprese), mentre il tasso di persistenza dimensionale è pari all’80% dello stock iniziale sopra-indicato (ovverosia pari a 800 imprese). Ne deriva che l’addizionalità netta complessiva di piccole imprese sarà pari a 200 imprese (derivanti aritmeticamente dalla differenza tra lo stock alla fine dell’anno – ossia 1.200 – e quello iniziale pari a 1.000). È ovvio che, nel corso dell’anno, ci può essere anche una modifica ulteriore di tale consistenza dovuta alla cessazione di attività d’impresa e, quindi, tale valore finale potrebbe presentare livelli inferiori. Purtuttavia, nella nostra metodologia di analisi, non potendo assumere che il tasso di mortalità riguardi esclusivamente le piccole imprese, non abbiamo potuto tener conto di tale fattore di analisi. Nonostante questa limitazione nell’approccio di analisi, riteniamo che il monitoraggio e l’intensità delle quattro variabili osservate siano tali da poter consentire un adeguato e approfondito contributo sulle dinamiche in corso delle piccole imprese all’interno della nostra regione e in determinati settori manifatturieri, anche comparativamente ad altre regioni del centro Italia. Infatti, se in un determinato settore industriale emerge che lo stock delle piccole imprese è alimentato, in una regione, essenzialmente dai flussi di natalità e, in un’altra regione, da quelli di downsizing, le logiche di policy industriale devono essere particolarmente diverse. I settori manifatturieri sono stati aggregati, come riportato nella tabella 8, in comparti più ampi15.

15 Ringrazio la dottoressa Marina Gigliotti, ricercatrice presso la Facoltà di Economia dell’Università degli Studi di Perugia, per aver contribuito all’elaborazione dei dati presentati in questa parte del lavoro.

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Tab. 8 - Le aggregazioni settoriali dell’industria manifatturiera con i relativi codici Ateco 2002

SETTORE CODICI ATECO 2002

Alimentari/bevande/tabacco DA 15 DA 16

Meccanica

DK 29 DK 30 DK 31 DK 32 DK 33 DM 34 DM 35

Tessile/Abbigliamento DB 17 DB 18

Legno DD 20

Carta, stampa e editoria DE 21 DE 22

Chimica DG 24 DG 25

Prodotti non metalliferi DI 26

Prodotti in metallo DJ 27 DJ 28

Edilizia F 45 Sul piano regionale, questo modello di analisi è stato applicato a quattro regioni. Il dato umbro è stato, dunque, comparato con quello delle Marche, della Toscana e dell’Abruzzo. I flussi di natalità La tabella 9 riporta il tasso medio di natalità, quello di mortalità e quello di sviluppo (inteso come differenza aritmetica tra i primi due) dal 2000 sino al 30 settembre 2009. La determinazione dei tassi medi di natalità e di mortalità è stata calcolata, esprimendola in percentuale, sulla base della sommatoria dei flussi (iscritte e cessate) relativi al periodo 2000-2009, in rapporto alla consistenza assoluta delle imprese attive al 1999. Il saggio di variazione è stato riferito ad una media annuale, considerando un valore di nove anni e nove mesi (ossia dal 2000 al 30 settembre 2009), e quindi il tutto è stato diviso per 9,75. In relazione agli scopi di questo modello di dinamica industriale, i dati riportati dimostrano che, a parità di settore, l’Umbria presenta sistematicamente un livello di natalità quasi sistematicamente inferiore rispetto alle altre regioni considerate. Tutto ciò è particolarmente evidente nel grafico 2. Infatti, in soli tre settori (carta, stampa e editoria; prodotti non metalliferi; prodotti in metallo), l’Umbria non presenta il valore minimale – riferibile in questi casi alle Marche – rispetto alle altre regioni.

DENTRO L’UMBRIA due172

Tab. 9 - Tasso medio di natalità, tasso medio di mortalità e tasso medio di sviluppo, nel periodo 2000-2009, per regione e settore

Umbria Toscana Marche Abruzzo Settore

N M S N M S N M S N M S

Alimentari, bevande, tabacco

4,9 6,2 -1,3 7,7 8,3 -0,5 6,2 7,5 -1,3 6 7,1 -1,1

Meccanica 4,7 5,9 -1,2 5,7 6,4 -0,8 4,9 5,7 -0,8 4,9 5,9 -0,9 Tessile/Abbigliamento 3,8 7,6 -3,8 7,5 10 -2,5 5,6 8,7 -3,1 8,8 11,5 -2,7 Industria del legno 2,5 5,5 -3 3,5 5,8 -2,3 2,8 5,7 -2,9 3,9 6,1 -2,2 Carta, stampa e editoria 4,’ 5,6 -1,6 4,4 6,3 -1,9 3,7 5,4 -1,7 6,3 8 -1,6 Chimica 2,1 4,9 -2,8 3,4 5,8 -2,3 3,3 5,7 -2,5 3,5 6,7 -3,1 Prodotti non metalliferi 2,8 4,9 -2 3,4 5,8 -2,4 2,7 5,6 -2,8 3,8 5,6 -1,8 Prodotti in metallo 5,6 5,8 -0,2 5,7 6,5 -0,7 4,6 5,4 -0,8 6 6,3 -0,2 Edilizia 9,7 7,9 1,8 13,4 9,6 3,7 10,5 8 2,5 9,8 7,8 2

Fonte: nostre elaborazioni su dati Movimprese In tutti gli altri settori, al contrario, l’Umbria ha un tasso medio annuale di natalità inferiore. Ciò significa che lo stock delle piccole imprese umbre non è strutturalmente alimentato dal flusso di nuove imprese. In altri termini, nella nostra regione, le piccole imprese sono alimentate – sul piano comparato con altre regioni e a parità di settore – da altri fattori economici. È, comunque, di tutta evidenza che, sul piano della policy regionale, un basso tasso di natalità di nuove imprese diviene, nel lungo periodo, una fonte di “irrigidimento” del sistema industriale regionale: il cambiamento può essere indotto e veicolato solamente da parte degli attori imprenditoriali esistenti, e non da potenziali nuovi soggetti imprenditoriali. Questo minore tasso di natalità delle nuove imprese può, dunque, essere espressione di una relativa minore vocazione a “fare impresa” in questi settori in Umbria rispetto alle altre regioni. Al fondo di questi fattori strutturali possono operare differenti circostanze sociali, culturali, economiche e istituzionali. In altri termini, il minor saggio di natalità può essere spiegato, almeno parzialmente, con l’esistenza di maggiori barriere economiche all’accesso di neo-imprese in Umbria, a causa, ad esempio, della mancata presenza di distretti industriali canonici. In un certo qual modo, il distretto industriale – presente diffusamente nelle altre regioni del Centro-Italia è un habitat che favorisce la natalità di nuove imprese in quanto, grazie all’operare delle note economie esterne marshalliane, costituisce un rilevante riduttore dell’incertezza decisionale del potenziale imprenditore. In questo contesto, in Umbria, sembrerebbe razionale, dal punto di vista economico, ipotizzare una maggior selezione ex ante dell’imprenditorialità potenziale rispetto alle altre regioni. Sembrerebbe plausibile ritenere che la “qualità” imprenditoriale delle neo-imprese umbre possa necessariamente essere “migliore” rispetto a quella presente mediamente nelle altre regioni. Di conseguenza, il saggio di mortalità delle imprese potrebbe risultare

AURAPPORTI: RES 2008-09 173

inferiore, in una logica strettamente di dinamica darwiniana. Questa considerazione sembra essere supportata dai dati riportati nella tab. 9. In effetti, in ben cinque settori (rispetto ai nove considerati), l’Umbria ha un saggio di mortalità inferiore rispetto alle altre regioni. Graf. 2 - Tasso di natalità di nuove imprese

4,9

3,8

2,5

4,0

2,12,8

5,6

9,7

7,7

5,7

7,5

3,54,4

3,4 3,4

5,7

13,4

4,95,6

2,83,7

3,32,7

4,6

10,5

6,0

4,9

8,8

3,9

6,3

3,5 3,8

6,0

9,8

4,7

6,2

0,0

2,0

4,0

6,0

8,0

10,0

12,0

14,0

16,0

Alimen

tari,

bev

ande

, tab

acco

Mec

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Tessil

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Carta

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Chimica

Prodot

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allife

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Prodot

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Edilizi

a

Umbria

Toscana

Marche

Abruzzo

Fonte: nostre elaborazioni su dati Movimprese La persistenza dimensionale delle piccole imprese L’analisi delle persistenza (così come quella successiva della decrescita) dimensionale si è basata sulla banca dati AIDA che riporta i bilanci di tutte le imprese aventi una forma giuridica di capitali o cooperative. Un’analisi sulle piccole imprese fondata su questa banca dati presenta, pertanto, un primo limite, ossia l’esclusione di forme giuridiche che, propriamente, sono assai diffuse tra le dimensioni piccole d’impresa (individuali, società di persone, ecc.). È, tuttavia, importante rilevare che, qualora la comparazione tra settori e regioni avvenga nell’ambito delle piccole imprese aventi un’omogenea forma giuridica, i risultati analitici ottenuti possono considerarsi sufficientemente “robusti”. La letteratura economica nel nostro Paese, d’altronde, alla luce della carenza di informazioni economiche e finanziarie sulle piccole imprese, ha già, in un passato recente, fatto ricorso a tale banca dati (Calcagnini, Favaretto 2009). Sul piano metodologico, si è proceduto a individuare le caratteristiche dimensionali delle imprese al 2000 e al 2008. A tal fine, la segmentazione dimensionale utilizzata è stata quella fondata sulla Raccomandazione della Comunità Europea n.1442 del 6 maggio 2003, in particolare l’Allegato 1-2 che prevede questa suddivisione delle PMI:

DENTRO L’UMBRIA due174

- media impresa, quando il numero dei dipendenti è inferiore a 250, il fatturato annuo non supera i 50 milioni di euro o il totale dell’attivo dello Stato Patrimoniale non supera i 43 milioni di euro;

- piccola impresa, quando il numero di dipendenti è inferiore a 50 e il fatturato annuo o il totale dell’attivo dello Stato Patrimoniale annuo non superano i 10 milioni di euro;

- microimpresa, quando il numero dei dipendenti è inferiore a 10 e il fatturato annuo o il totale dell’attivo dello Stato Patrimoniale annuo non superano i 2 milioni di euro.

Nel nostro caso, per l’analisi congiunta delle piccole e delle micro imprese, sono stati considerati congiuntamente il limite di addetti e quello di fatturato16. Dopo queste preliminari operazioni metodologiche, si sono ottenuti analiticamente i dati riferiti a 4060 imprese (di cui 428 in Umbria), operanti nelle quattro regioni considerate. I risultati sono riportati nella tabella 10 (con i valori assoluti) e nella tab. 11 (con quelli relativi). A livello aggregato complessivo, l’Umbria è quella che presenta il tasso di persistenza dimensionale più basso (81,4%) comparativamente alle altre regioni. Specularmente, ciò significa che la quota di piccole imprese esistenti nel 2000 che, al 2008, sono cresciute dimensionalmente passando nella fascia dimensionale superiore è maggiore (ossia il 18,6%) rispetto alle altre regioni considerate. Ciò potrebbe dipendere da un fattore legato ad una migliore “qualità” imprenditoriale già all’atto della natalità d’impresa che si riverbera, successivamente, sulla dinamica di crescita dimensionale. Tab. 10 - Persistenza e crescita dimensionale, nell’anno 2008, delle piccole imprese al 2000

(valori assoluti) Umbria Toscana Marche Abruzzo

Settore Persist. Crescita Persist. Crescita Persist. Crescita Persist. Crescita

Alimentari, bevande, tabacco 43 9 97 17 50 7 60 8

Meccanica 57 9 347 55 147 27 62 5 Tessile/Abbigliamento 28 6 493 50 50 10 32 11 Industria del legno 10 1 47 3 25 4 12 1 Carta, stampa e editoria 23 5 134 13 50 5 20 0 Chimica 18 5 146 20 51 18 27 5 Prodotti non metalliferi 32 4 164 11 40 8 45 7 Prodotti in metallo 44 16 209 27 153 22 61 12 Edilizia 106 12 436 45 153 12 103 15 Totale 361 67 2073 241 719 113 422 64

16 Più precisamente, al fine di individuare la dimensione delle imprese, è stata necessaria una fase di “scrematura” dei dati. In particolar modo sono state eliminate dal campione quelle imprese di cui non erano riportate congiuntamente le seguenti informazioni: - fatturato al 2000; - numero di dipendenti al 2000; - fatturato al 2008; - numero di dipendenti al 2008.

AURAPPORTI: RES 2008-09 175

Tab. 11 - Persistenza e crescita dimensionale, nell’anno 2008, delle piccole imprese esistenti al 2000

(valori percentuali) Umbria Toscana Marche Abruzzo Settore

Persist. Crescita Persist. Crescita Persist. Crescita Persist. Crescita Alimentari, bevande, tabacco 82,7 17,3 85,1 14,9 87,7 12,3 88,2 11,8

Meccanica 86,4 13,6 86,3 13,7 84,5 15,5 92,5 7,5

Tessile/Abbigliamento 82,4 17,6 90,8 9,2 83,3 16,7 74,4 25,6

Industria del legno 90,9 9,1 94,0 6,0 86,2 13,8 92,3 7,7 Carta, stampa e editoria 82,1 17,9 91,2 8,8 90,9 9,1 100,0 0,0

Chimica 78,3 21,7 88,0 12,0 73,9 26,1 84,4 15,6 Prodotti non metalliferi 88,9 11,1 93,7 6,3 83,3 16,7 86,5 13,5

Prodotti in metallo 73,3 26,7 88,6 11,4 87,4 12,6 83,6 16,4

Edilizia 89,8 10,2 90,6 9,4 92,7 7,3 87,3 12,7

Totale 81,4 18,6 88,4 11,6 84,3 15,7 84,8 15,2

Tutto questo non può che essere giudicato positivamente per il sistema economico della nostra regione. Al contrario, la Toscana è quella che registra, nell’aggregato complessivo, il maggior tasso di persistenza dimensionale delle piccole imprese; in un certo qual modo, in questa regione, vi sono discreti tassi di natalità (come visto sopra) ma poi le piccole imprese tendono a restare tali. In Umbria, invece, a fronte di bassi tassi di natalità, le piccole imprese hanno registrato una discreta propensione alla crescita dimensionale, perlomeno in quasi un quinto delle osservazioni empiriche svolte. A livello settoriale, l’Umbria presenta valori di crescita delle piccole imprese, superiori alle altre regioni, nell’industria alimentare, nella carta e nei prodotti in metallo e non registra mai il livello minimale comparato. La Toscana, invece, presenta ben cinque settori nei quali ha il maggior tasso di persistenza dimensionale (ovverosia, la minore quota di piccole imprese che crescono): tessile/abbigliamento; legno; chimica; prodotti non metalliferi; prodotti in metallo. In un certo qual modo, questa regione risente di un “eccessivo” schiacciamento sulla persistenza dimensionale, forse conseguenza di un modello distrettuale canonico che tende a preservarsi e fondarsi sulla mancata crescita delle piccole imprese. Le Marche, per quanto anch’esse siano una regione distrettuale, mostrano una discreta vitalità delle piccole imprese, in termini di crescita dimensionale, nei settori della meccanica, del legno, della chimica e dei prodotti non metalliferi. Una posizione intermedia è, infine, rappresentata dall’Abruzzo con differenziazioni settoriali assai marcate. La decrescita dimensionale delle medio-grandi imprese Un ultimo fattore della dinamica di “inclusione” nella categoria delle piccole imprese dipende dalla decrescita dimensionale di quelle medio-grandi. Così, sotto alcuni profili,

DENTRO L’UMBRIA due176

mentre il fenomeno speculare della crescita, analizzato nel paragrafo precedente, poteva essere considerato espressione di una sorta di virtuosismo (ossia le piccole imprese che “entrano”, grazie ai loro investimenti e al loro fatturato, nella categoria dimensionale superiore), questa dinamica della decrescita denota l’esistenza, per taluni aspetti preoccupante, di percorsi di ristrutturazione e di downsizing nel tessuto manifatturiero tra le medie e grandi imprese. Partendo, pertanto, da un giudizio di valore – ossia che le condizioni manifatturiere regionali preferibili siano quelle con il minor tasso di decrescita – le evidenze empiriche sono riportate nella tabella 12 (in valori assoluti) e nella tabella 13 (in valori relativi). La minore numerosità assoluta delle imprese complessivamente analizzate in relazione al fenomeno del downsizing, comparativamente a quello della crescita, ci induce a osservare le frequenze relative con un maggior grado di prudenza interpretativa. In ogni caso, a livello aggregato complessivo, l’Umbria è la regione con il minor tasso di decrescita dimensionale delle medio-grandi imprese. Si tratta di un risultato importante, anche ai fini della policy pubblica, che dimostra l’esistenza, a parità di settore comparativamente alle altre regioni, di una resistenza alla “discesa” dimensionale delle medio-grandi imprese. Invece, Toscana e Abruzzo sono regioni con tassi di decrescita complessivi maggiori. A livello settoriale, l’Umbria, dal 2000 al 2008, registra una decrescita nella fascia dimensionale delle piccole imprese migliore delle altre regioni nell’industria meccanica, nel tessile/abbigliamento, nel legno e nella carta. Nel settore dei prodotti in metallo, invece, essa evidenzia il dato comparato peggiore. La Toscana, in diversi settori, presenta performance peggiori, ad esempio nel tessile/abbigliamento, nella carta, nella chimica e nei prodotti non metalliferi, dimostrando di essere una regione in evidente difficoltà sul piano della ristrutturazione di medio-grandi imprese. Posizioni intermedie sono riferibili alle altre due regioni considerate (che, comunque, nel settore dell’edilizia, esse hanno valori di decrescita particolarmente critici). Tab. 12 - Persistenza e decrescita dimensionale, nell’anno 2008, delle medio-grandi imprese al 2000

(valori assoluti) Umbria Toscana Marche Abruzzo Settore

Persist. Decresc. Persist. Decresc. Persist. Decresc. Persist. Decresc. Alimentari, bevande, tabacco 17 1 24 4 11 2 19 0

Meccanica 18 1 83 15 55 7 33 10 Tessile/Abbigliamento 16 0 104 51 22 4 19 3 Industria del legno 5 0 4 0 7 1 3 1 Carta, stampa e editoria 7 0 30 5 11 0 4 0 Chimica 9 1 44 9 17 2 19 1 Prodotti non metalliferi 8 1 27 5 14 0 11 0 Prodotti in metallo 23 6 39 2 38 2 30 4 Edilizia 8 3 26 5 6 5 5 17 Totale 111 13 381 96 181 23 143 36

AURAPPORTI: RES 2008-09 177

Tab. 13 - Persistenza e decrescita dimensionale, nell’anno 2008, delle medio-grandi imprese al 2000

(valori percentuali) Umbria Toscana Marche Abruzzo Settore

Persist. Decresc. Persist. Decresc. Persist. Decresc. Persist. Decresc. Alimentari, bevande, tabacco 94,4 5,6 85,7 14,3 84,6 15,4 100,0 0,0

Meccanica 94,7 5,3 84,7 15,3 88,7 11,3 76,7 23,3 Tessile/Abbigliamento 100,0 0,0 67,1 32,9 84,6 15,4 86,4 13,6 Industria del legno 100,0 0,0 100,0 0,0 87,5 12,5 75,0 25,0 Carta, stampa e editoria 100,0 0,0 85,7 14,3 100,0 0,0 100,0 0,0 Chimica 90,0 10,0 83,0 17,0 89,5 10,5 95,0 5,0 Prodotti non metalliferi 88,9 11,1 84,4 15,6 100,0 0,0 100,0 0,0 Prodotti in metallo 79,3 20,7 95,1 4,9 95,0 5,0 88,2 11,8 Edilizia 72,7 27,3 83,9 16,1 54,5 45,5 22,7 77,3 Totale 88,3 11,7 74,8 25,2 87,3 12,7 74,8 25,2

D) Le piccole imprese: alcuni indicatori di performance economica e finanziaria Un ulteriore obiettivo della ricerca empirica è stato quello di analizzare alcuni indicatori economici e finanziari, tratti dai bilanci di esercizio desumibili dalla banca dati AIDA, delle piccole imprese che, nel periodo 2000-2008, sono rimaste in tale fascia dimensionale (ovverosia, quella tipologia di piccole imprese che, in precedenza, è stata definita “persistente”). La tabella 14 riporta il fatturato medio delle piccole imprese nel 2000 e nel 2008. Alla fine della serie storica analizzata, l’Umbria presenta valori medi del fatturato superiori in ben quattro settori manifatturieri (meccanica; tessile e abbigliamento; legno; prodotti non metalliferi) rispetto a quello riscontrato nelle altre regioni. Al contrario, la nostra regione presenta il valore minimale del fatturato medio, rispetto alle altre regioni considerate, solamente nell’alimentare e nella chimica. Tab. 14 - Il fatturato medio, al 2000 e al 2008, per settore e regione

(migliaia di euro) Umbria Toscana Marche Abruzzo

Settori 2000 2008 2000 2008 2000 2008 2000 2008

Alimentari, bevande, tab. 2.892,3 3.358,5 2.898,7 3.713,6 3.072,6 4.163,9 3.810,7 3.964,1 Meccanica 2.541,3 3.635,0 2.406,3 3.155,7 2.576,9 3.423,8 1.869,6 2.531,5 Tessile/Abbigliamento 2.789,6 3.388,2 3.103,9 2.857,1 2.184,2 3.015,4 1.948,8 2.404,1 Industria del legno 3.113,5 4.807,8 2.889,5 2.464,8 3.678,1 4.217,9 1.301,6 2.304,7 Carta, stampa e editoria 2.615,8 2.819,8 2.786,5 3.024,6 2.458,3 3.173,2 2.237,0 2.364,1 Chimica 2.127,2 2.921,2 2.720,3 3.234,0 2.938,8 3.779,3 2.806,2 4.278,0 Prodotti non metalliferi 3.001,3 4.434,2 2.859,5 3.050,7 2.616,1 3.519,4 2.377,4 2.811,3 Prodotti in metallo 2.248,3 3.277,8 2.341,6 3.240,2 2.433,2 3.909,9 2.203,0 3.164,8 Edilizia 2.351,7 3.189,5 1.851,0 2.608,5 2.014,4 3.667,2 1.713,1 2.302,6

DENTRO L’UMBRIA due178

La tabella 15 riporta la variazione del fatturato nel periodo 2000-2008. La Toscana è quella con la peggiore performance: vi sono piccole imprese che, addirittura, decrescono il loro fatturato in due settori e, negli altri – ad esclusione di alimentare, carta e edilizia – hanno la peggiore performance relativa comparata. L’Umbria, al contrario, cresce di più, in senso comparato, nella meccanica e nei prodotti non metalliferi, e non presenta mai la peggiore performance relativa in nessun settore. La performance marchigiana è la migliore, in senso relativo, in ben cinque settori. Ambivalente è, invece, la posizione dell’Abruzzo con tre settori aventi la peggiore performance relativa e due settori con la migliore. Tab. 15 - La variazione del fatturato, nel periodo 2000-2008, per settore e regione

(valori percentuali) Settore Umbria Toscana Marche Abruzzo Alimentari, bevande, tabacco 16,1 28,1 35,5 4,0 Meccanica 43,0 31,1 32,9 35,4 Tessile/Abbigliamento 21,5 -8,0 38,1 23,4 Industria del legno 54,4 -14,7 14,7 77,1 Carta, stampa e editoria 7,8 8,5 29,1 5,7 Chimica 37,3 18,9 28,6 52,4 Prodotti non metalliferi 47,7 6,7 34,5 18,3 Prodotti in metallo 45,8 38,4 60,7 43,7 Edilizia 35,6 40,9 82,1 34,4

La crescita del fatturato è, sicuramente, un importante indicatore della crescita delle piccole imprese. È, tuttavia, rilevante osservare che le dinamiche di sviluppo delle imprese possono avvenire secondo due differenti direzioni. Da un lato, si può registrare una crescita del fatturato – sostanzialmente a parità di valore aggiunto – segnalando, in questo modo, una crescita “orizzontale”, ossia nel business esistente (come verificato nella tabella 15). Le modalità specifiche possono essere l’espressione di numerose strategie, da quelle della commercializzazione dei prodotti in altri mercati esteri all’innovazione di prodotti capaci di penetrare presso nuovi segmenti di clienti. Dall’altro lato, la crescita dell’impresa può avvenire a livello verticale, sia a monte che a valle, con un impatto positivo sulla consistenza del valore aggiunto, senza rilevanti riflessi, al contrario, sul fatturato totale. In questa logica, quali sono i percorsi di crescita “dominanti” perseguiti dalle piccole imprese, a parità di settore, nei diversi contesti regionali? È prevalsa una direttrice orizzontale oppure una direttrice verticale dello sviluppo? L’indice di Adelman, costruito sulla base del rapporto tra il valore aggiunto e il fatturato totale ed espresso in percentuale, costituisce un indicatore per misurare il grado di integrazione verticale (e le sue eventuali variazioni nel corso del tempo). Questo indice economico è riportato nella tabella 16 in relazione all’anno 2000 e all’anno 2008. A livello medio complessivo, l’Umbria denota una crescita rilevante del valore di questo indicatore, di circa sette punti percentuali in questo arco temporale.

AURAPPORTI: RES 2008-09 179

Ciò significa che le piccole imprese umbre non hanno solamente perseguito una crescita orizzontale nel loro business (come mostrato nella tabella 15), ma, in modo molto intenso, anche a livello verticale (tramite internalizzazione di fasi di lavorazione o la produzione di componenti precedentemente esternalizzati). Al contrario, nelle altre regioni, la variazione dell’indice di Adelman resta fondamentalmente marginale, indicando una sostanziale stabilizzazione del percorso di crescita verticale17. Il risultato dell’Umbria è, dunque, di “senso contrario” rispetto a quello evidenziato nelle altre regioni, tenendo conto che fondamentalmente questo indice di Adelman si posizionava su valori fondamentalmente simili all’inizio della serie storica analizzata. È, dunque, possibile sostenere la tesi che le piccole imprese umbre si sono impegnate sia in processi di crescita orizzontale (ossia del proprio fatturato) che di crescita verticale (misurata come rapporto tra il valore aggiunto e il fatturato totale). Una bi-direzionalità della crescita che rafforza le competenze complessive detenute da queste piccole imprese. Sul piano della comparazione settoriale, nel 2008, in Umbria, i prodotti in metallo e la meccanica sono quelli con il maggior grado di integrazione verticale. Sul piano dinamico, ossia nel periodo 2000-2008, la crescita verticale è stata particolarmente intensa, oltre a questi due settori, anche nell’industria del legno, nell’edilizia, nei prodotti non metalliferi e nella carta. Variazioni marginali si riscontrano nell’alimentare e nel tessile/abbigliamento, dove evidentemente la crescita, come evidenziato in tabella 15, è stata meramente a livello orizzontale. Tab. 16 - L’indice di Adelman

(valori percentuali) Umbria Toscana Marche Abruzzo

Settore 2000 2008 2000 2008 2000 2008 2000 2008

Alimentari, bevande, tabacco 17,5 20,4 18,7 18,1 18,9 18,8 17,8 19,3 Meccanica 25,3 39,0 26,5 27,2 27,1 25,4 32,0 28,7 Tessile/Abbigliamento 20,4 22,0 17,2 16,2 24,7 20,7 25,3 23,2 Industria del legno 16,6 26,8 19,3 38,1 20,6 18,9 28,0 23,4 Carta, stampa e editoria 30,5 34,3 22,5 22,5 25,5 24,8 27,9 32,2 Chimica 22,5 27,8 23,7 24,2 26,8 23,1 26,6 21,6 Prodotti non metalliferi 25,2 31,2 25,2 23,9 25,6 23,0 27,1 28,0 Prodotti in metallo 27,8 41,3 28,9 26,7 29,5 26,0 31,9 25,9 Edilizia 22,5 30,9 26,3 26,9 23,6 21,2 25,5 25,8 Media aritmetica semplice 23,1 30,4 23,1 24,9 24,7 22,4 26,9 25,4

È di tutta evidenza che la crescita – sia quella orizzontale che verticale – presuppone un flusso di investimenti in immobilizzazioni. La tabella 17 riporta la variazione della

17 Scostamenti marginali di questo indice possono essere espressione di fatti relativamente minori e contingenti, quali la riduzione dei margini sui prezzi, la variazione delle consistenza del magazzino e così via.

DENTRO L’UMBRIA due180

consistenza delle immobilizzazioni totali (sia materiali che immateriali) nei diversi settori. È interessante osservare il posizionamento dell’Umbria. Le piccole imprese umbre sono molto impegnate sul fronte degli investimenti in immobilizzazioni. Infatti, in Umbria, il tasso di variazione di questi investimenti è quello più consistente, comparativamente ad altre regioni, in ben cinque settori (meccanica, tessile/abbigliamento, legno, carta e prodotti non metalliferi). La peggior performance settoriale comparata umbra si riscontra, invece, nella chimica e, in parte, nell’alimentare. È, pertanto, possibile sostenere che, sul piano degli investimenti, le piccole imprese umbre, complessivamente, abbiano fatto sforzi significativi. La Toscana e l’Abruzzo, al contrario, hanno – in diversi settori – situazioni di performance non soddisfacenti sul piano comparato; in particolare, questa prima regione registra valori relativamente bassi nel tessile/abbigliamento, nel legno, nell’edilizia e nei prodotti in metallo, mentre la seconda regione ha performance insoddisfacenti nella meccanica, nella chimica e nei prodotti non metalliferi. Tab. 17 - La variazione delle immobilizzazioni totali, negli anni 2000 e 2008, per settore e regione

(valori percentuali) Settore Umbria Toscana Marche Abruzzo Alimentari, bevande, tabacco 9,3 42,8 8,7 27,0 Meccanica 103,5 73,9 55,2 22,0 Tessile/Abbigliamento 44,9 23,7 28,9 33,4 Industria del legno 170,7 13,8 22,1 32,9 Carta, stampa e editoria 84,7 59,6 37,5 42,6 Chimica 48,4 58,0 97,5 48,4 Prodotti non metalliferi 79,3 68,8 56,1 32,6 Prodotti in metallo 62,8 41,5 62,2 65,0 Edilizia 93,8 54,7 70,1 145,3

La variazione delle immobilizzazioni totale può, tuttavia, essere l’espressione di diverse “condizioni di partenza”. Sulla base di ipotesi di convergenza, due piccole imprese, a parità di settore, che presentano all’inizio della serie storica una rilevante differenza in termini di consistenza di questi investimenti, si potrebbero trovare a registrare un differenziale nei loro tassi di variazione delle immobilizzazioni totali. La tabella 18, al contrario, mostra che le piccole imprese umbre, nel 2008, presentano complessivamente consistenze assolute medie, in termini di immobilizzazioni totali, particolarmente confortanti, comparativamente ad altre regioni. In ben quattro settori, esse hanno addirittura un valore modale, ossia alimentare, legno, carta e prodotti non metalliferi, senza mai registrare un valore minimale comparato.

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Tab. 18 - Il valore delle immobilizzazioni totali nel 2008 Settore Umbria Toscana Marche Abruzzo Alimentari, bevande, tabacco 1.694,9 1.143,6 1.277,3 1.636,8 Meccanica 833,8 750,9 661,6 853,9 Tessile/Abbigliamento 791,1 446,1 483,6 873,6 Industria del legno 1.340,1 637,0 749,6 794,5 Carta, stampa e editoria 1.774,3 1.002,1 865,4 933,3 Chimica 924,1 859,0 1.273,8 1.840,4 Prodotti non metalliferi 1.659,5 1.127,3 1.186,3 1.317,1 Prodotti in metallo 924,8 748,2 851,4 1.180,2 Edilizia 957,8 973,6 581,2 664,7

Nell’ambito delle immobilizzazioni totali, quelle di tipo immateriale (marchi, brevetti, spese di ricerca & sviluppo capitalizzate, ecc.) costituiscono normalmente, nell’industria manifatturiera, una componente relativamente marginale. È, tuttavia, importante rilevare l’importanza di questi tipi di investimenti, fondati spesso sulla conoscenza innovativa. Le piccole imprese umbre mostrano, nella tabella 19, livelli molto rilevanti di variazione di questi tipi di investimenti: esse detengono il valore modale, sul piano comparato, in ben cinque settori (meccanica, tessile/abbigliamento, legno, carta e prodotti non metalliferi), senza mai registrare il valore minimale comparato negli altri settori. Il tasso di crescita degli investimenti immateriali può, tuttavia, essere influenzato dallo stock relativo presente all’inizio del periodo osservato, ossia il 2000. In altri termini, una regione con una bassa consistenza relativa di questi investimenti può registrare un tasso di variazione maggiore rispetto ad un’altra che partiva da valori assoluti decisamente maggiori. Al fine di verificare questa circostanza, è stata costruita la tab. 20. È facile notare che la buona performance delle piccole imprese umbre è indotta fondamentalmente dalla loro bassa consistenza relativa in rapporto alle altre regioni. Infatti, nel 2008, nonostante il tasso di crescita registrato dal 2000, il valore relativo di queste immobilizzazioni immateriale, rispetto a quelle totali, resta particolarmente marginale nel legno e nella carta. Solo nei prodotti non metalliferi e in quelli in metallo, la consistenza relativa comparata di queste immobilizzazione è superiore a quella presente nelle altre regioni. Di conseguenza, per una competitività fondata su conoscenze innovative, il sentiero di investimento in queste immobilizzazioni immateriali deve ancora essere perseguito con tenacia per raggiungere livelli comparabili con quelli presenti nelle migliori regioni, tra quelle considerate. Crescita del fatturato, del valore aggiunto e degli investimenti in immobilizzazioni costituiscono indicatori rilevanti per l’identificazione del sentiero di sviluppo delle piccole imprese. Ma come è cambiata la loro efficienza operativa, soprattutto in relazione a due importanti componenti della struttura complessiva dei costi, ossia quello per l’acquisizione di materie prime e componenti presso fornitori esterni e quello del lavoro?

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Tab. 19 - La variazione delle immobilizzazioni immateriali, negli anni 2000 e 2008, per settore e regione

(valori percentuali) Settore Umbria Toscana Marche Abruzzo Alimentari, bevande, tabacco 11,4 42,3 7,1 27,2 Meccanica 97,9 66,0 51,7 18,5 Tessile/Abbigliamento 38,9 23,8 23,0 33,9 Industria del legno 181,1 11,1 11,3 25,6 Carta, stampa e editoria 88,3 66,5 35,7 38,0 Chimica 53,8 47,9 94,7 47,7 Prodotti non metalliferi 69,2 67,8 49,8 33,6 Prodotti in metallo 46,0 41,5 58,0 62,0 Edilizia 93,5 59,1 68,0 145,8

Tab. 20 - Il valore delle immobilizzazioni immateriali rispetto a quelle totali nel 2008

(valori percentuali) Umbria Toscana Marche Abruzzo Alimentari, bevande, tabacco 4,2 10,3 6,5 3,5 Meccanica 11,8 18,9 14,0 8,2 Tessile/Abbigliamento 9,0 8,2 11,3 3,2 Industria del legno 4,2 5,7 12,1 6,8 Carta, stampa e editoria 3,3 8,3 5,8 8,8 Chimica 3,6 17,7 10,5 2,3 Prodotti non metalliferi 12,5 7,2 8,0 2,9 Prodotti in metallo 18,5 8,9 8,8 3,7 Edilizia 4,9 3,3 5,2 7,7

L’incidenza del costo di acquisizione di beni presso fornitori esterni è relativamente consistente (tab. 21). In diversi settori, questa voce di costo incide per oltre la metà rispetto al fatturato. La competitività di queste imprese è, dunque, particolarmente influenzata dai fornitori esterni di beni. In generale, le piccole imprese umbre – sulla base di questo indicatore – non presentano condizioni comparative peggiori, a parità di settore, rispetto alle altre regioni. Nella meccanica, nella chimica e nell’edilizia, tuttavia, si rileva il valore modale dell’incidenza di queste forniture per le imprese umbre rispetto alle altre regioni. Ciò potrebbe, però, essere la conseguenza di differenti tipologie di prodotto, aventi una diversa natura economica degli approvvigionamenti. Nel legno e nella carta, invece, le piccole imprese umbre presentano valori minimali comparati rispetto alle altre regioni considerate. Data l’importanza relativa della voce di costo relativa agli approvvigionamenti di beni, diviene importante, per la competitività della piccola impresa, riuscire a ridurne l’impatto. Nel periodo 2000-2008, queste piccole imprese hanno cercato di limitare questa voce di costo. In Umbria, le piccole imprese – ad eccezione della chimica – hanno avuto una contrazione relativa del peso di questi costi, in particolare nel tessile/abbigliamento, nel legno e nei prodotti in metallo.

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Tab. 21 - Il rapporto tra il costo delle materie prime e di consumo e il fatturato totale, al 2008, per settore e regione

(valori percentuali) Settore Umbria Toscana Marche Abruzzo Alimentari, bevande, tabacco 60,6 58,9 60,6 69,6 Meccanica 53,1 45,7 48,4 50,8 Tessile/Abbigliamento 36,1 41,3 39,7 38,6 Industria del legno 50,4 52,2 56,5 60,9 Carta, stampa e editoria 29,2 47,6 46,7 37,4 Chimica 62,4 54,3 53,8 58,4 Prodotti non metalliferi 54,0 47,5 55,3 49,4 Prodotti in metallo 44,6 42,1 47,9 45,5 Edilizia 46,3 36,6 40,7 43,7 Questo risultato può, peraltro, essere la conseguenza di differenti strategie, dalla riduzione della qualità dei prodotti realizzati (con un bisogno di approvvigionarsi di materie prime di qualità inferiore) ad un maggiore potere di mercato nelle relazioni contrattuali con i fornitori (tramite una contrazione del costo unitario di acquisto) sino ad arrivare al perseguimento di maggiori livelli di integrazione verticale a monte (se, anziché acquistare il tessuto presso un fornitore, compro direttamente il filato dal quale poi ricaverò il tessuto, è evidente che il costo di acquisto si riduce). Tab. 22 - Variazione del rapporto tra il costo delle materie prime e di consumo e il fatturato totale, negli anni 2000 e 2008, per settore e regione

(valori percentuali) Settore Umbria Toscana Marche Abruzzo Alimentari, bevande, tabacco -2,3 -4,1 -1,1 -6,5 Meccanica -2,6 -1,6 -1,3 2,5 Tessile/Abbigliamento -8,3 -2,7 -2,5 -5,8 Industria del legno -13,3 -2,6 -1,4 -2,6 Carta, stampa e editoria -3,2 -1,4 -7,3 -8,4 Chimica 3,6 -0,6 0,5 1,3 Prodotti non metalliferi -0,3 -2,4 4,1 0,9 Prodotti in metallo -7,9 -0,1 2,4 3,8 Edilizia -1,1 -3,7 -2,4 -1,0

Il costo del lavoro presenta un’incidenza relativamente significativa sulla componente complessiva del fatturato (tab. 23). Nel 2008, tale componente ha presentato un valore modale, per le piccole imprese umbre comparativamente alle altre regioni, in nessun settore analizzato mentre esso si presenta minimale in due settori (meccanica e chimica). Il basso costo del lavoro, in senso comparato a parità di settore, può ovviamente essere espressione di diverse strategie aziendali, dall’adozione di tecnologie labour saving, ad una minore qualificazione complessiva degli occupati (magari per effetto di una minore incidenza del lavoro specializzato e di tipo manageriale).

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Tab. 23 - Il rapporto tra il costo del lavoro e il fatturato complessivo, al 2008, per settore e regione

(valori percentuali) Settore Umbria Toscana Marche Abruzzo Alimentari, bevande, tabacco 11,6 13,2 12,6 9,6 Meccanica 17,4 19,8 20,3 21,2 Tessile/Abbigliamento 15,9 14,4 15,9 18,0 Industria del legno 14,2 17,1 14,8 13,2 Carta, stampa e editoria 19,9 16,2 17,0 23,2 Chimica 13,9 14,5 14,9 16,0 Prodotti non metalliferi 17,0 16,8 16,6 21,3 Prodotti in metallo 20,5 20,9 19,2 20,5 Edilizia 16,9 17,5 14,0 16,7

Di un certo interesse appare la tabella 24 che riporta la variazione del rapporto tra il costo del lavoro e i costi complessivi negli anni 2000 e 2008. In ben quattro settori (alimentare, tessile/abbigliamento, prodotti in metallo, edilizia), l’Umbria registra una dinamica positiva maggiore che in altre regioni. Ciò potrebbe essere l’espressione di un percorso di crescita dimensionale (come visto sopra in termini di fatturato e investimenti) che ha determinato processi di innalzamento della qualità media delle risorse professionali utilizzate, visti anche i livelli relativamente bassi dai quali, all’inizio del periodo, la nostra regione partiva. Tab. 24 - La variazione del rapporto tra il costo del lavoro e il fatturato totale, negli anni 2000 e 2008, per settore e regione

(valori percentuali) Settore Umbria Toscana Marche Abruzzo Alimentari, bevande, tabacco 2,0 2,0 -1,4 1,1 Meccanica 1,6 2,4 1,4 1,2 Tessile/Abbigliamento 4,4 3,1 -1,0 2,6 Industria del legno 2,4 3,7 1,0 -1,2 Carta, stampa e editoria 3,0 1,2 1,8 7,2 Chimica -0,6 1,1 0,6 0,2 Prodotti non metalliferi 1,9 1,0 0,7 2,3 Prodotti in metallo 3,6 -0,2 0,7 -1,0 Edilizia 1,0 0,2 -0,1 0,2

Sulla base dei dati appena presentati, è possibile sostenere che le piccole imprese umbre sono riuscite a conseguire complessivamente maggiori livelli di efficienza operativa, intervenendo in particolare sulla leva del costo di approvvigionamento di beni presso fornitori esterni, mentre quella del costo del lavoro si è “mossa” fondamentalmente in linea con le altre regioni. I percorsi di crescita delle imprese possono configurarsi secondo due diverse modalità: per vie interne (a loro volta, distinte tra strategie orizzontali e strategie verticali, come abbiamo analizzato in precedenza) oppure per vie esterne, tramite l’assunzione di partecipazioni finanziarie in altre imprese. Queste partecipazioni finanziarie, sia di

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controllo che non, possono riguardare imprese legate al business originario oppure ad altri business (ossia, si tratta di diversificazioni non correlate). Dall’analisi dei bilanci di queste piccole imprese non è possibile dedurre la natura specifica della partecipazione, in particolare se si tratta di imprese operanti in business correlati oppure no. È certo, comunque, che l’investimento in queste partecipazioni costituisce una forma di crescita per vie esterne dell’impresa, con implicazioni sul piano del fabbisogno finanziario complessivo. La tabella 25 riporta il rapporto tra le partecipazioni finanziarie e il capitale complessivamente investito nel 2008. In un certo qual modo, questo indicatore rappresenta una sorta di intensità alla crescita per vie esterne tramite assunzione di partecipazioni in altre imprese. È evidente che questa modalità di crescita costituisce uno specifico strumento, peraltro molto forte, di legame con altre imprese, nell’ambito di rapporti di collaborazione strategica. Complessivamente, le piccole imprese hanno valori relativamente bassi di incidenza di questo indicatore. Ciò significa che, per questa tipologia di impresa, la modalità di crescita avviene normalmente per vie interne e non per vie esterne. Tuttavia, le piccole imprese umbre si caratterizzano per valori modali, sul piano comparato, in tre settori (alimentare, prodotti in metallo e edilizia). Nel settore del legno, della chimica e della carta, invece, i valori delle partecipazioni sono praticamente nulli. Tab. 25 - Il rapporto tra partecipazioni finanziarie e capitale investito, al 2008, per settore e regione

(valori percentuali) Settore Umbria Toscana Marche Abruzzo Alimentari, bevande, tabacco 2,9 0,7 2,0 2,1 Meccanica 0,4 1,0 0,4 1,0 Tessile/Abbigliamento 2,0 5,0 0,0 0,3 Industria del legno 0,0 0,1 2,5 0,0 Carta, stampa e editoria 0,1 1,7 0,1 0,0 Chimica 0,0 1,1 0,5 0,6 Prodotti non metalliferi 1,0 0,4 3,4 3,4 Prodotti in metallo 4,6 0,2 0,4 0,7 Edilizia 2,9 1,6 2,6 0,9

La crescita, sia per vie interne che per vie esterne, genera ovviamente fabbisogni addizionali di capitale finanziario. Come è cambiata la capitalizzazione di queste imprese in termini di accesso al capitale di debito? E come è cambiata l’incidenza dei relativi oneri finanziari? Le tabb. 26-29 aiutano in questa interpretazione. Le piccole imprese umbre – a parità di settore comparativamente alle altre regioni – appaiono con un livello di indebitamento totale relativamente elevato nel 2008 (tab. 26). In ben cinque settori (alimentare, meccanica, legno, prodotti non metalliferi, prodotti in metallo), l’Umbria registra il livello maggiore di indebitamento. Invece, appare relativamente migliore la posizione relativa delle piccole imprese presenti in

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Abruzzo. C’è, dunque, un aspetto critico – relativamente alle capacità di capitalizzazione – delle piccole imprese umbre. Non solo, questo vincolo finanziario può costituire un freno rispetto alle possibilità future di crescita dell’impresa. Tab. 26 - Il rapporto tra indebitamento e capitale investito, al 2008, per settore e regione

(valori percentuali) Settore Umbria Toscana Marche Abruzzo Alimentari, bevande, tabacco 72,3 66,9 66,2 65,3 Meccanica 68,7 64,2 67,6 63,7 Tessile/Abbigliamento 71,3 67,0 74,7 59,3 Industria del legno 75,0 64,9 67,6 65,8 Carta, stampa e editoria 51,1 67,6 61,7 61,4 Chimica 66,9 68,4 64,6 55,5 Prodotti non metalliferi 69,9 65,3 63,5 63,9 Prodotti in metallo 67,7 65,3 66,0 64,5 Edilizia 80,3 73,1 84,6 82,9

La ristrutturazione del passivo patrimoniale ha portato, nel periodo 2000-2008, a ridurre il peso relativo dell’indebitamento da parte delle piccole imprese umbre (tab. 27). Tab. 27 - La variazione del rapporto tra indebitamento e capitale investito, negli anni 2000 e 2008, per settore e regione

(valori percentuali) Umbria Toscana Marche Abruzzo Alimentari, bevande, tabacco -3,8 1,9 1,8 4,5 Meccanica -4,3 -6,0 0,2 4,1 Tessile/Abbigliamento -6,2 -5,4 5,9 5,3 Industria del legno -5,0 -1,6 1,2 18,4 Carta, stampa e editoria -12,6 0,1 -6,6 1,4 Chimica -11,4 -0,6 -1,2 -1,9 Prodotti non metalliferi -0,6 -4,5 0,0 8,2 Prodotti in metallo -2,1 -4,3 0,2 12,3 Edilizia -4,3 -4,9 0,6 -2,7

Si tratta di un risultato importante che, indirettamente, evidenzia una posizione debitoria all’inizio del periodo considerato superiore a quella riscontrata nella tabella 26. In altri termini, le piccole imprese umbre – anche comparativamente a quelle presenti nelle altre regioni – hanno perseguito uno sforzo notevole di capitalizzazione dell’impresa, tramite apporto di capitali di rischio e tramite autofinanziamento, riuscendo contestualmente a perseguire una crescita per vie interne ed esterne (come visto in precedenza) e a ridurre l’incidenza del capitale di debito. Nonostante questa ristrutturazione del capitale di debito, l’elevato livello di indebitamento tra le piccole imprese umbre costituisce un fattore economico

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penalizzante anche sul piano della competitività dal lato dei costi. Come evidenza la tabella 28, le piccole imprese umbre presentano un’incidenza del valore degli oneri finanziari relativamente elevata: addirittura, in ben sei settori, esse sono quelle con il valore modale, comparativamente alle piccole imprese delle altre regioni. Di conseguenza, la struttura del capitale investito mostra un’evidente vulnerabilità delle piccole imprese umbre che può risultare penalizzante sotto tre profili: a) le potenzialità di crescita per vie interne ed esterne che necessitano di capitali

addizionali; b) la competitività basata sui costi, a causa del maggior onere per il finanziamento

esterno; c) la redditività finale, a causa dell’incidenza degli oneri finanziari. Da questo punto di vista, la politica industriale e quella del credito debbono poter apprestare adeguate linee di intervento, specie alla luce delle condizioni di criticità economica e finanziaria emerse nell’attuale crisi mondiale. Tab. 28 - Il rapporto tra gli oneri finanziari e i costi complessivi, al 2008, per settore e regione

(valori percentuali) Umbria Toscana Marche Abruzzo Alimentari, bevande, tabacco 3,2 2,3 2,3 2,8 Meccanica 2,3 2,2 2,0 2,3 Tessile/Abbigliamento 3,4 2,2 2,5 2,9 Industria del legno 2,8 2,4 2,6 2,3 Carta, stampa e editoria 2,7 1,7 1,9 2,8 Chimica 2,8 2,1 2,1 2,0 Prodotti non metalliferi 2,4 3,0 2,3 3,4 Prodotti in metallo 2,4 2,0 1,9 2,4 Edilizia 4,0 3,5 4,3 4,2

Dopo aver analizzato i diversi percorsi di crescita – per vie interne (sia orizzontale che verticale) e per vie esterne (tramite partecipazioni) – e la struttura del capitale di finanziamento, diviene rilevante verificare l’impatto di questi processi sulla redditività delle piccole imprese. Il ROI, ovvero la redditività operativa specificatamente connessa al business manifatturiero svolto, mostra (tab. 29), per le piccole imprese umbre, una situazione fondamentalmente intermedia rispetto a quelle delle altre regioni, a parità di settore. Nel 2008, solamente le piccole imprese umbre della meccanica hanno avuto il valore del ROI più elevato rispetto a quelle delle altre regioni; in tutti gli altri settori, l’Umbria si colloca in posizione intermedia, salvo il tessile/abbigliamento dove si registra il valore comparato peggiore. Le piccole imprese marchigiane, al contrario, sono quelle con la maggiore redditività operativa in ben quattro settori (tessile/abbigliamento, carta, prodotti non metalliferi, legno).

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Tab. 29 - Il ROI medio, al 2008, per settore e regione (valori percentuali)

Settore Umbria Toscana Marche Abruzzo Alimentari, bevande, tabacco 3,9 6,6 4,8 2,4 Meccanica 10,6 9,0 9,8 5,7 Tessile/Abbigliamento 2,0 5,3 6,1 6,1 Industria del legno 6,6 6,3 9,6 8,2 Carta, stampa e editoria 9,3 7,5 9,4 6,8 Chimica 7,0 6,6 7,9 8,3 Prodotti non metalliferi 6,9 5,7 7,0 5,8 Prodotti in metallo 9,0 10,5 9,9 6,7 Edilizia 9,3 10,2 9,5 8,1

Ma in che misura i proventi e gli oneri finanziari, quelli straordinari e quelli fiscali influenzano la redditività finale? La tab. 30 riporta i risultati, nel 2008, del ROE. Le piccole imprese umbre presentano un livello superiore a quello delle consorelle di altre regioni nel settore della meccanica, dei prodotti non metalliferi, dei prodotti in metallo e del legno. Invece, la situazione appare problematica – e peggiore rispetto alle altre regioni – nel settore tessile/abbigliamento. È interessante osservare che, addirittura, in alcuni settori e regioni, la redditività finale assume valore negativo. Ad esempio, in Toscana, in ben quattro settori (ossia alimentare, legno, carta e chimica), le piccole imprese sono in condizioni piuttosto critiche sul piano della redditività. Tab. 30 - Il ROE medio, al 2008, per settore e regione

(valori percentuali) Settore Umbria Toscana Marche Abruzzo Alimentari, bevande, tabacco 0,0 -0,1 0,3 0,2 Meccanica 6,1 4,3 4,0 5,7 Tessile/Abbigliamento -7,7 -3,8 4,9 -5,9 Industria del legno 12,5 -2,4 4,9 -2,2 Carta, stampa e editoria 1,8 -3,4 5,9 7,2 Chimica 1,0 -1,4 6,3 3,8 Prodotti non metalliferi 1,9 0,2 -0,8 -0,8 Prodotti in metallo 8,1 4,7 2,0 2,2 Edilizia 5,1 5,4 4,2 3,1

Il dato puntuale del ROE nel 2008 viene rielaborato comparativamente a quello presente nel 2000 (tab. 31). All’inizio del periodo considerato, la redditività finale era decisamente superiore. La caduta, in termini di unità percentuali, è stata particolarmente rilevante in tutti i settori e in tutte le regioni considerate. La crescita complessiva del fatturato e degli investimenti ha, pertanto, penalizzato la redditività finale in questo periodo di tempo.

AURAPPORTI: RES 2008-09 189

Tab. 31 - La variazione del ROE, negli anni 2000 e 2008, per settore e regione Umbria Toscana Marche Abruzzo Alimentari, bevande, tabacco -8,2 -6,3 3,7 -3,3 Meccanica -7,7 -8,7 -5,7 -3,7 Tessile/Abbigliamento -17,6 -13,6 -6,0 -14,7 Industria del legno -2,2 -12,6 -6,6 -12,7 Carta, stampa e editoria -7,2 -10,7 -2,3 -7,2 Chimica -13,4 -10,3 -8,7 -5,9 Prodotti non metalliferi -4,8 -5,9 -9,5 -3,1 Prodotti in metallo -3,6 -4,9 -7,6 -5,4 Edilizia -3,7 -5,3 -7,9 -12,3

E) Le piccole imprese umbre: alcuni caratteri imprenditoriali, organizzativi e strategici Nell’autunno 2009, grazie alla collaborazione con le Associazioni di categoria imprenditoriale presenti in Umbria, è stato possibile sottoporre un questionario strutturato ad un campione di piccole imprese manifatturiere. L’indagine empirica svolta ha dato luogo alla compilazione di 210 questionari. La tabella 32 riporta la composizione settoriale delle piccole imprese analizzate. Tab. 32 - La composizione settoriale delle piccole imprese analizzate

Settore di appartenenza Totale imprese

analizzate (valori assoluti)

Totale imprese analizzate in valore

(valori percentuali) Alimentare 16 7,6 Meccanica 49 23,3 Tessile/abbigliamento 66 31,4 Legno e prodotti in legno 20 9,5 Carta e editoria 8 3,8 Prodotti e lavorazioni minerali non metalliferi 13 6,2 Prodotti in metallo 9 4,3 Edilizia 12 5,7 Trasporti e logistica 2 1,0 High tech (informatica, telecomunicazioni, ecc.) 8 3,8 Chimica 3 1,4 Altro 4 1,9 Totale 210 100,0

È evidente l’esistenza di differenze strutturali tra la composizione settoriale dell’universo delle piccole imprese umbre (come riportato nella tab. 1) e questa rilevazione empirica. È, tuttavia, importante evidenziare alcuni risultati empirici che

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sono emersi, sottolineando, comunque, l’importanza di poter attingere, in futuro, ad ulteriori basi di conoscenza. Il grafico 3 riporta l’anno di costituzione dell’impresa. Fondamentalmente, il flusso della maggiore natalità di queste piccole imprese è riferibile agli ultimi due decenni. Infatti, dal 1991 al 2000, risale la costituzione del 26,5% delle imprese del campione, mentre successivamente a tale periodo è riferibile ben il 27% di esse. In altri termini, oltre il 50% delle imprese ha meno di venti anni. Al contrario, le piccole imprese che hanno più di quaranta anni sono una larga minoranza: prima del 1970 si sono formate solamente il 5% di queste imprese. Tutto questo indica che le piccole imprese ad elevata longevità sono fondamentalmente rare, sia perché il loro tasso di cessazione resta relativamente elevato (magari per problemi successori) che a causa di fenomeni di loro crescita dimensionale (grazie ai quali esse “escono” dalla fascia delle piccole imprese). Graf. 3 - Anno di costituzione dell’impresa

0%1,50%

3,50%

18,00%

27,00%

23,50%

26,50%

0%

5%

10%

15%

20%

25%

30%

Prima del 1950 1950-1960 1961-1970 1971-1980 1981-1990 1991-2000 Dopo il 2000

Il grafico 4 riporta l’anno di nascita dell’imprenditore (o di quello, nella compagine societaria, di maggior importanza quale apporto di competenze). Il valore modale è associato al decennio degli anni Sessanta. Ciò significa che questi imprenditori hanno ancora un orizzonte temporale assai rilevante per l’espletamento della loro attività. In un certo qual modo, questi imprenditori devono “credere” nella loro professione e nella loro impresa, con conseguenti comportamenti in termini di investimenti e di apporto organizzativo, a prescindere dalle condizioni economiche e competitive in cui l’impresa si trova ad operare. Tutto ciò costituisce una barriera all’uscita dall’attività d’impresa da parte di questi soggetti imprenditoriali e un loro coinvolgimento attivo nella programmazione di investimenti materiali e immateriali rispetto al loro impegno futuro. Coloro che hanno un’età anagrafica relativamente elevata rispetto al proseguo

AURAPPORTI: RES 2008-09 191

dell’attività imprenditoriale (ad esempio, quelli che sono nati prima del 1940) sono una quota piuttosto limitata: solo il 3,6%. Pertanto, il problema della cessazione delle piccole imprese a causa della fuoriuscita dell’imprenditore non sembra particolarmente acuto nel contesto delle aziende osservate. L’imprenditorialità strettamente giovanile è, altrettanto, poco consistente: solo l’1% degli imprenditori è nato dopo il 1980. Graf. 4 - Anno di nascita dell’imprenditore

3,10%

32,50%

13,40%

1,00%

26,30%

23,20%

0,50%

0,00%

5,00%

10,00%

15,00%

20,00%

25,00%

30,00%

35,00%

Prima del 1930 1930-1940 1941-1950 1951-1960 1961-1970 1971-1980 Dopo il 1980

Il grafico 5 riporta il titolo di studio posseduto dall’imprenditore. Nel campione di imprese osservate, nessun imprenditore possiede la laurea. Ciò è un indizio del fatto che la conoscenza e le competenze maturate da tale soggetto sono eminentemente di tipo pratico (e non teorico, come una formazione universitaria offrirebbe). Inoltre, è plausibile ritenere che queste conoscenze siano espressione di percorsi di apprendimento, scolastico ma soprattutto non scolastico, in ambiti tecnico-manifatturieri e commerciali. È, infatti, difficile ritenere che questi imprenditori possano possedere competenze scientifiche adeguate rispetto a specifici percorsi di innovazione di prodotto nei settori in cui operano. Tutto questo, tra l’altro, può condizionare i percorsi di reclutamento dei propri collaboratori, al fine di minimizzare i problemi di adverse selection e di moral hazard (come messo in evidenza nella parte prima del presente lavoro). C’è, dunque, una piattaforma di policy – peraltro difficile da implementare – che attiene a possibili percorsi di upgrading delle conoscenze possedute dall’imprenditore stesso. È di un certo interesse osservare che una recente ricerca economica, a livello nazionale, sulle piccole imprese ha mostrato dati non molto dissimili: il 7,6% non possiede alcun titolo; il 43,3% possiede la licenza media; il 41,6% il diploma e solo il 7,5% la laurea (Fondazione Nord Est, 2009).

DENTRO L’UMBRIA due192

Graf. 5 - Titolo di studio posseduto

6,40%

36,00%

57,60%

0,00%0,00%

10,00%

20,00%

30,00%

40,00%

50,00%

60,00%

70,00%

Licenza elementare Licenza media inferiore Licenza media superiore Laurea

Il grafico 6 riporta il numero di anni relativi a questa specifica attività imprenditoriale. Fondamentalmente, per la maggioranza di questi soggetti (il 63%), essa si protrae da non più di venti anni. È comunque evidente che queste attività di impresa non sono di tipo hit and run, ossia iniziative meramente speculative destinate a sorgere e tramontare nell’arco di pochi anni. Al contrario, le piccole imprese sono soggetti “persistenti”, salvo ovviamente cause di declino economico imputabile a errori gestionali e strategici dell’imprenditore stesso. La piccola impresa è uno strumento di mobilità sociale? Il grafico 6 riporta l’attività precedentemente svolta dall’imprenditore. Quasi il 30% di essi è stato dipendente, mentre un altro 18,6% è stato sia imprenditore che dipendente. È di tutta evidenza che, complessivamente, quasi il 50% di essi ha svolto, almeno una volta nella vita, l’attività di lavoratore subordinato. Così, similmente ai dati evidenziati dalla Fondazione Nord Est (2009), nel centro Italia, il 55,8% ha svolto, almeno una volta, l’attività di lavoratore dipendente: di conseguenza mentre il 35,4% ha sempre fatto l’imprenditore. Tutto questo significa che, ancora oggi, sebbene plausibilmente in misura inferiore al passato, la piccola impresa costituisce un “punto di arrivo” nella mobilità sociale per molti lavoratori dipendenti, magari quelli maggiormente qualificati e specializzati.

AURAPPORTI: RES 2008-09 193

Graf. 6 - Precedente attività dell’imprenditore

30,90%

22,20%

28,40%

18,60%

0,00%5,00%

10,00%15,00%

20,00%25,00%

30,00%35,00%

Ho sempre svolto questaattività d’impresa

Ho svolto l’attivitàimprenditoriale in altra

impresa

Sono stato dipendente inaltra impresa

Sono stato sia dipendenteche imprenditore in altre

imprese

Il grafico 7 riporta la composizione degli addetti per funzioni. Come sappiamo, si tratta di piccole imprese (ossia sino a 49 addetti) e, quindi, alcune evidenze empiriche devo essere lette e interpretate con una certa cautela. Fondamentalmente, la piccola impresa è composta da un’occupazione strettamente manifatturiera: quasi il 70% degli occupati sono, infatti, operai (sia comuni che specializzati). In ogni caso, una quota di apprendisti, plausibilmente, va a rafforzare queste competenze operaie. Gli addetti in funzioni “terziarie” dell’impresa manifatturiera restano una larga minoranza; spesso si tratta di competenze amministrative, di gestione commerciale e finanziaria, ma spazi limitati (se non nulli) sono riservati ad un’occupazione nell’ambito della ricerca scientifica e tecnologica oppure del marketing. La quota di dirigenti deve essere interpretata con prudenza, anche perché talvolta questo tipo di occupazione fa riferimento a collaboratori familiari, più che a vere e proprie funzioni di executive manager. Graf. 7 - Composizione degli addetti per funzioni

6%

14%

33%36%

11%

0%

5%

10%

15%

20%

25%

30%

35%

40%

Dirigenti / quadri Impiegati Operai qualificati Operai comuni Apprendisti

DENTRO L’UMBRIA due194

Il grafico 8 evidenzia la struttura del fatturato, al 31 ottobre 2009, per tipologia di clienti. Queste piccole imprese operano, nella maggioranza dei casi (il 56% del fatturato totale), nel mercato business, composto sia da altre imprese manifatturiere che commerciali. La quota riservata alla pubblica amministrazione è marginale (solo il 7%), mentre il mercato consumer riguarda solo il 19% del fatturato totale. È, pertanto, evidente il ruolo fondamentale del mercato business per la competitività di queste piccole imprese. Così, in altri termini, gli investimenti nel trade marketing (anziché nel consumer marketing) o nella R&S sono importanti per favorire il rafforzamento delle relazioni economiche con le altre imprese clienti. Il grafico 9 riporta la composizione del fatturato, al 31 ottobre 2009, per area geografica. Il mercato di sbocco di queste piccole imprese è essenzialmente locale: il 29% di esso si realizza nell’ambito della provincia umbra in cui ha sede l’impresa. Complessivamente, l’Umbria copre il 41% del fatturato totale. L’estensione alle regioni del centro Italia porta ad un valore cumulato del 60%. Marginali appaiono, invece, i valori riferibili ad altre aree geografiche. Di conseguenza, queste piccole imprese operano prevalentemente nel mercato business localizzato nel centro Italia, con livelli ridotti di apertura rispetto ad altri mercati geografici. Graf. 8 - Struttura del fatturato per tipologia di clienti

30%

26%

19%

7%

18%

0%

5%

10%

15%

20%

25%

30%

35%

Altre impresemanifatturiere

Imprese commerciali Consumatore finale Enti pubblici Altro

Graf. 9 - Composizione del fatturato per area geografica

29%

12%

19%16%

9%

15%

0%5%

10%15%20%25%30%35%

Provincia umbrasede impresa

Altra provinciaumbra

Regioni centroItalia (escluso

Umbria)

Regioni nord Italia Regioni sud-isoleItalia

Estero

AURAPPORTI: RES 2008-09 195

Il grafico 10 riporta la composizione del fatturato per tipo di lavorazione. Fondamentalmente, le piccole imprese umbre sono e restano subfornitori di fase o di componenti, progettati e realizzati per conto di altri committenti industriali. Graf. 10 - Composizione del fatturato per tipo di lavorazione

64%

28%

8%

0%

10%

20%

30%

40%

50%

60%

70%

Esclusiva lavorazione o componenti oprodotti su commessa / subfornitura

Prevalente lavorazione o componenti oprodotti su commessa /subfornitura

Prevalente lavorazione o componenti oprodotti su proprio campionario

Il 64% di queste piccole imprese, infatti, opera esclusivamente in questa logica di divisione del lavoro, mentre un altro 28% realizza, in modo prevalente rispetto al fatturato, questa modalità di esecuzione del lavoro. Solamente l’8% delle imprese opera prevalentemente o esclusivamente con un proprio campionario. Ne deriva la limitata importanza, per queste piccole imprese umbre, di investimenti nel marketing, nel retailing o nel brand, vista fondamentalmente la non “visibilità” nell’ambito del mercato consumer. Al contrario, la competitività di queste piccole imprese, nel loro ruolo di subfornitori, è molto dipendente dalla loro capacità di contenere i costi di produzione e di generare innovazioni di prodotto capaci di stimolare nuovi ordini da parte dei committenti. In un certo qual modo, la competitività di queste piccole imprese dipende dalla loro capacità di evolvere da un modello di business, fondato sul decentramento di capacità con un limitato valore aggiunto e una elevata sostituibilità, da parte del committente, a favore di altri subfornitori (locali o meno), ad un modello di business fondato su un decentramento di specialità, in cui la componente di servizi qualificati (da quello di progettazione e innovazione del prodotto a quello delle partnership di filiera per la condivisione di investimenti specifici à la Williamson) diviene premiante ed essenziale nella transazione economica. In altri termini, come messo in evidenza da altri studi e ricerche, anche recenti (Istituto Tagliacarne, Umbria Innovazione, 2005; Subfornet, 2005; Unioncamere Umbria, 2005), il modello prevalente di piccole imprese umbre resta ancorato ad un mercato business, essenzialmente del centro Italia, con un ruolo di subfornitura. Sebbene all’interno di questo schema di subfornitura – e con opportune differenziazioni territoriali (ad esempio, nell’area di Città di Castello, la divisione del lavoro appare meno

DENTRO L’UMBRIA due196

gerarchizzata e più “distrettualizzata”), “si osserva l’avvio di un crescente rilievo di partecipazione e corresponsabilizzazione rispetto ad etero direzione e subordinazione gerarchica. Si osserva, altresì [...] lo sforzo di diversificare l’attività produttiva al di là dei rapporti di subfornitura, per limitare la dipendenza delle imprese da un numero ristretto di committenti” (Grasselli, 2002). Qual è il peso economico dei principali clienti? In media, le piccole imprese hanno un fatturato totale – per il 62% – svolto con i primi cinque clienti. C’è, dunque, una limitata diversificazione per clienti che genera una possibile loro dipendenza, in termini di fatturato, dalle condizioni economiche di quest’ultimi. In altri termini, le piccole imprese umbre, prevalentemente subfornitrici, hanno un numero di committenti piuttosto limitato. La curva cumulata della concentrazione del fatturato è riportata nel grafico 11. Come si può vedere, esiste una discreta variabilità del fenomeno associata alle piccole imprese. Mentre le prime 14 imprese (rispetto ad un totale del campione di 210, ossia pari al 6,6%) sono molto diversificate (dato che i primi cinque clienti “coprono” circa il 13% del loro fatturato totale), ci sono ben 50 piccole imprese (le ultime disposte a destra della funzione cumulativa) che hanno solamente sino ad un massimo di cinque clienti. Graf. 11 - Concentrazione del fatturato

(peso in percentuale dei principali cinque clienti)

41

100

14

30

5562

74

83

96

0

10

20

30

40

50

60

70

80

90

100

Prime 20imprese

21-40 41-60 61-80 81-100 101-120 121-140 141-160 oltre 161

Le imprese in ordine crescente di concentrazione del fatturato

La

% d

el f

attu

rato

dei

pri

mi

cin

qu

e cl

ien

t

La tabella 33 riporta la numerosità delle imprese che, negli ultimi tre anni, hanno partecipato a bandi pubblici di incentivazione degli investimenti. Ben l’81% di esse non ha partecipato a tali iniziative di sostegno pubblico. C’è, dunque, una difficoltà a stimolare la partecipazione di queste piccole imprese in questa relazionalità con l’attore

AURAPPORTI: RES 2008-09 197

pubblico. Le cause di tale “passività” possono essere di diverso tipo, dalla mancanza di informazioni alla carenza di competenze per la messa a punto dei progetti sino ad arrivare ad un vero e proprio disinteresse verso queste forme specifiche di sostegno. È evidente che, nel momento in cui i bandi costituiscono la fonte essenziale per poter erogare forme di sostegno a queste piccole imprese, il loro basso tasso di partecipazione costituisce un vero e proprio problema per la policy regionale. Tab. 33 - Negli ultimi tre anni, l’impresa ha partecipato a bandi pubblici (europei, nazionali o regionali) di incentivazione per gli investimenti tramite la costituzione di reti di imprese?

(valori percentuali) NO 81 SI 19

Quali sono i fattori che limitano la competitività di queste piccole imprese? La tabella 34 riporta i principali fattori esterni. Tab. 34 - Quali sono i principali tre fattori esterni che limitano la competitività della sua impresa?

(valori percentuali) Elevati costi delle materie prime e dei beni intermedi 19 Difficoltà ad accedere al credito 18 Scarsa flessibilità del mercato del lavoro 16 Scarsa reperibilità di risorse umane qualificate 15 Difficoltà del contesto istituzionale in cui opera (istituzioni pubbliche poco efficienti, ecc.) 9 Insufficiente dotazione di infrastrutture nell’area di insediamento 7 Difficoltà di raggiungere i clienti dovuta alla localizzazione geografica dell’impresa 4 Difficoltà a trovare partner di qualità dovuta alla localizzazione dell’impresa 4 Difficoltà a raggiungere i mercati esteri dovuta alla localizzazione dell’impresa 3 Mancanza o insufficienza di una rete di subfornitura nell’area geografica in cui opera l’azienda 3 Difficoltà di approvvigionamento di semilavorati o materie prime dovuta alla localizzazione dell’impresa

2

Totale 100,0 Secondo il giudizio di queste piccole imprese, i primi tre fattori esterni limitanti sono tre mercati: il mercato degli approvvigionamenti di materie prime e beni intermedi; il mercato del credito; il mercato del lavoro. Effettivamente, è indubbio che questi tre mercati condizionano in modo forte la competitività di queste piccole imprese. Con una rilevanza decisamente minore appaiono altri fattori, quali la reperibilità di fornitori oppure l’infrastrutturazione del territorio. È, pertanto, evidente che la policy – per intervenire sulla competitività di queste imprese – deve riflettere sulle modalità di intervento sui tre mercati sopra-indicati (ad esempio, favorendo aggregazioni per la realizzazione di consorzi di acquisto sul mercato delle materie prime oppure assecondando percorso formativi adeguati e qualificati per migliorare l’offerta sul

DENTRO L’UMBRIA due198

mercato del lavoro oppure rafforzando le potenzialità dei consorzi fidi per l’erogazione di garanzie sui crediti). La tabella 35 riporta, invece, il grado di consapevolezza, da parte di questi piccoli imprenditori, in relazione ai fattori interni che limitano la competitività dell’impresa. Tab. 35 - Quali sono i principali tre fattori interni che limitano la competitività della sua impresa?

(valori percentuali) Alti costi interni di produzione 25 Insufficiente capacità interna di marketing e commercializzazione 17 Scarsa capitalizzazione finanziaria dell’impresa 16 Debole capacità di istituire relazioni e reti con altre imprese 11 Insufficiente dimensione dell’impresa 10 Scarsa qualificazione e professionalità dei propri dipendenti 8 Insufficiente capacità interna di introdurre innovazioni tecnologiche 6 Insufficiente capacità interna di innovazione dei prodotti 5 Altro 2 Totale 100,0

I principali fattori indicati sottolineano una criticità dovuta agli alti costi interni di produzione che, in parte, può essere associata all’insufficiente dimensione dell’impresa. Segue il problema della limitata capacità in termini di commercializzazione e di marketing – espressione in parte di un posizionamento competitivo nell’ambito della subfornitura che non consente una presenza diretta e più consistente direttamente sui mercati finali, con un ampliamento delle reti di relazioni con altre imprese – oltreché una scarsa capitalizzazione dell’impresa. Una lettura e interpretazione congiunta di questi fattori sottolineano che questi imprenditori ritengono di avere uno svantaggio competitivo sui costi e uno svantaggio competitivo sui ricavi. Dal lato dei costi interni di produzione, evidentemente, la piccola dimensione limita lo sfruttamento delle economie di scala e l’adozione di tecnologie più moderne, anche per il limitato livello di capitalizzazione dell’impresa. Dal lato dei ricavi, la subfornitura essenzialmente limita la capacità di presidiare i mercati finali con adeguati strumenti di marketing e di relazionarsi con un maggior numero di potenziali clienti. Sul piano della policy, queste indicazioni suggeriscono l’importanza di trovare strumenti per potenziare la capitalizzazione di queste imprese, oltreché di favorirne la crescita, non solo in termini dimensionali, ma anche relazionali, soprattutto verso il mercato finale. F) Osservazioni conclusive e alcuni lineamenti per una politica industriale a supporto delle piccole imprese Questo saggio si inserisce in un lungo filone culturale che ritiene “la piccola impresa non è un incidente di percorso. Al contrario, essa costituisce una costante di lungo periodo

AURAPPORTI: RES 2008-09 199

dell’economia italiana. Ha ottenuto e garantisce sviluppo, espansione, internazionalizzazione. Non si può (e non conviene) considerarla un vizio da correggere” (Diamanti, 2007). Con questa premessa, è tuttavia utile portare la riflessione su tre diversi piani di analisi, tra loro interrelati, che partono dall’attualità (ossia la crisi in corso) per volgere lo sguardo al futuro (sia in termini di scenari economici che di strategie imprenditoriali e di iniziative di policy), con una particolare attenzione all’Umbria delle piccole imprese. È noto che la crisi economica in atto sta avendo un impatto rilevante sul mercato del lavoro, sul mercato del credito, sul mercato dei beni e servizi e, in definitiva, sulla competitività delle imprese e sulla loro capacità di “resistenza” economica e finanziaria. La convinzione relativamente diffusa in base alla quale da questa crisi si uscirà con una ripresa lenta e fragile a livello internazionale rafforza talune preoccupazioni tra la community economica e politica, non solo nel nostro Paese. Le imprese dovranno possedere una resistenza e una resilienza a “volare bassi” per un periodo prolungato. Se questo è il quadro atteso nelle economie industrializzate, la crisi farà sentire i suoi effetti a lungo. È come una malattia dalla quale si esce con una lunga degenza, con il supporto di cure farmacologiche, unitamente ad uno stile di vita morigerato e salutistico, per un periodo molto lungo. I malati non sono necessariamente limitati a quelli contagiati nella fase iniziale; altri contagi sono possibili, anche successivamente all’esplodere della malattia e quando questa sembra a “fine ciclo”, colpendo altre imprese magari semplicemente “indebolite” dalla prolungata crisi e dalla ripresa molto fiacca. Con una crisi intensa e una ripresa lunga, fragile e lenta, la selezione darwiniana nel mercato delle imprese sarà una tendenza forte e prolungata. Questo processo si tradurrà fondamentalmente in meno imprese, meno occupati e meno ricchezza economica. Quali saranno, allora, i criteri di selezione che il mercato attiverà tra le imprese? Quali imprese saranno punite (e cesseranno), quali riusciranno a sopravvivere (limitando i danni occupazionali e competitivi) e quali, infine, ne usciranno rafforzate? Sarà una selezione virtuosa (picking the winners) oppure sarà una selezione perniciosa per il sistema economico complessivo (in altri termini, picking the losers)? Le dinamiche selettive che emergeranno dipenderanno da diversi fattori, in particolare dalle logiche di intervento degli Stati e dalle logiche selettive a livello di settori, territori e singole imprese. In questa lungo scenario di transizione – ovverosia di crescita lenta e fragile – è normale che tutte le imprese abbiano rivisto i propri piani di investimento e di sviluppo e sia prevalsa, sostanzialmente, una logica di estrema prudenza, fondamentalmente di attesa rispetto al perseguimento dei loro progetti. Ma, sebbene in questo contesto attendista, sembra che talune imprese possano, in un certo qual modo, rafforzare le loro posizioni competitive. In particolare, tre tipologie di impresa potrebbero “uscirne” rafforzate da questa crisi, magari perché diversi loro competitors si troveranno a cessare la loro attività. La prima tipologia di imprese winners fa riferimento ai fornitori delle grandi imprese pubbliche, statali e non. C’è la sensazione che le uniche imprese italiane che continuano ad investire – in un contesto di PIL negativo (o lievemente positivo) e di restrizioni del credito – siano

DENTRO L’UMBRIA due200

quelle pubbliche. Esse, infatti, per l’influenza nella loro governance degli attori politici, possono accettare di conseguire bassi livelli di profitto, in questa fase economica, garantendo contestualmente il perseguimento di programmi di investimento e generando, in questo modo, una sorta di sostegno keynesiano all’economia (senza il supporto diretto della spesa pubblica). Quali sono queste grandi imprese pubbliche, statali e non? Alcuni nomi sono di particolare importanza, quali Enel, ENI, Finmeccanica, Trenitalia, Terna e talune public utilities (quali Acea, Iride, Hera e Enia). In questo contesto, le imprese fornitrici di tali imprese sono avvantaggiate nella crisi, riuscendo a garantirsi volumi di lavorazioni, margini economici limitati ma soddisfacenti e, infine, una garanzia di piena solvibilità del loro cliente-committente. La crisi economica, pertanto, rafforzerà queste imprese fornitrici che, fondamentalmente, sono meglio relazionate con la politica che, per taluni aspetti, opera quale attore intermediario nei confronti delle proprie grandi imprese pubbliche. La seconda tipologia di imprese winners è identificabile con quegli attori economici che “gestiscono” buone relazione con le banche. In questa fase di prolungata crisi, le banche hanno aumentato la loro importanza economica nel sistema delle imprese. La ridotta solvibilità delle imprese manifatturiere e la conseguente elevazione del rischio di credito rende molte banche “padroni” dei destini di queste aziende. Ecco che, allora, a parità di livelli di indebitamento e di redditività delle imprese, la capacità imprenditoriale di relazionarsi con il sistema bancario può costituire una condizione “vincente” in questa fase di crisi. Il fatto che, nella governance degli istituti di credito, da tempo si siano “innestati” segmenti della classe imprenditoriale nazionale e non, potrebbe costituire un fattore discriminante nella selezione darwiniana tra le imprese manifatturiere. Infine, la terza tipologia di imprese winners è riconducibile a quelle realtà imprenditoriali che si trovano nella necessità di reclutare lavoratori qualificati e specializzati e che presentano un buon livello di capitalizzazione finanziaria interna. In un certo qual modo, in questa fase di prolungata crisi economica, si genera un’asimmetria di “ingredienti”, ossia si ha, nel mercato, una abbondanza di offerta di lavoro qualificato e una rarefazione nell’offerta di capitali finanziari. Di conseguenza, sono avvantaggiate quelle imprese che, per ragioni settoriali o per specifici progetti di investimento oppure, semplicemente, per ragioni fisiologiche di turn over dei propri dipendenti, attingono sul mercato del lavoro a professionalità qualificate e specializzate. Inoltre, l’eventuale disponibilità di capitali finanziari “inutilizzati” offre a queste imprese la possibilità di intraprendere possibili strategie di acquisition, anche su scala internazionale, di eventuali competitors o partners potenziali (quali clienti o fornitori) in momentanea difficoltà finanziaria ma con una buona struttura operativa. Il modello “vincente” di impresa è, pertanto, quella che congiunge queste tre differenti dimensioni strategiche: essa opera per conto di grandi imprese pubbliche, statali e non; ha una buona relazionalità con gli istituti di credito; infine, necessità di reclutare ulteriori professionalità di elevata qualificazione e specializzazione e vanta una condizione finanziaria tale da poter realizzare alcune operazioni di acquisition.

AURAPPORTI: RES 2008-09 201

Al contrario, sembrerebbe che le imprese con maggiori difficoltà competitive nell’affrontare questa lunga transizione economica abbiano altre caratteristiche settoriali, organizzative, relazionali e strategiche. Fondamentalmente, le imprese losers appaiono quelle con i maggiori livelli di indebitamento, che operano in settori aperti alla concorrenza internazionale, dove i margini economici già in passato erano limitati, e maggiormente esposti sui mercati esteri con i più forti contraccolpi in termini recessivi e di solvibilità dei clienti. Di conseguenza, intere filiere – soprattutto del Made in Italy – rischiano di soffrire molto, dalle imprese esposte direttamente con i clienti collocati sui mercati esteri finali sino ai subfornitori di lavorazioni o componenti, spesso di limitato valore aggiunto e con scarsa diversificazione dei loro committenti. Tra queste due categorie alternative – i winners e i losers – vi sono imprese survivals che continuano ad operare grazie al fatto di essere too big to fail. Diversi Stati nazionali – in primis gli USA – hanno intrapreso politiche di salvataggio, non solo nei confronti degli intermediari finanziari ma anche delle imprese manifatturiere (per esempio, nel settore automobilistico), mobilitando quantità enormi di denaro pubblico. Tra l’altro, grandi imprese manifatturiere hanno, a fronte della crisi, tentato di traslarne, almeno parzialmente, gli effetti economici negativi sulle loro catene di fornitori e subfornitori, spesso di dimensioni minori, allungando i tempi di pagamento o rivedendo molte clausole contrattuali, dal pricing ai rischi di invenduto. In questo scenario economico, è dunque evidente che la lunga transizione di “uscita” dalla crisi potrebbe favorire dinamiche selettive non virtuose e di tipo non “meritocratico”? In un certo qual modo, la correlazione logica tra rischio imprenditoriale e premio capitalistico potrebbe subire una dissociazione, per un lungo periodo di tempo, avvantaggiando quelle imprese che si trovano ad operare in settori e filiere, più o meno protette dalla concorrenza e ben relazionate con il sistema del credito. Il rischio di questa crisi è quello di generare un’asimmetria rispetto ad un modello idealtipico capitalistico: le imprese che investono e rischiano devono essere premiate; le imprese che non investono oppure che ricercano una rendita in settori a basso livello di concorrenza devo essere premiate in misura decisamente minore. Purtroppo, si ha la sensazione che molti fattori economici sembrano decretare un’asimmetria di merito: la crisi valorizza le imprese “peggiori” e penalizza le “migliori”. È, pertanto, importante che gli Stati nazionali sappiano “ribaltare” questo schema illogico e non virtuoso per i sistemi economi. Nei capitalismi nazionali, i policy makers devono promuovere e irrobustire circuiti virtuosi e ridimensionare le dinamiche “involutive e regressive” proprie dei meccanismi di riaggiustamento e di selezione del mercato nel breve periodo. Ne deriva l’importanza delle logiche di governo della politica industriale in questa fase economica. Essa non deve “attrezzarsi” solamente per gestire gli interventi di “emergenza” ma deve poter progettare un programma di politica industriale per la competitività dei settori aperti alla concorrenza internazionale e per lo start up di nuovi settori manifatturieri. Ma la politica è pronta per questo mestiere selettivo e “meritocratico”? Essa deve saper andare oltre la mera logica keynesiana della domanda aggregata e oltre una mera politica di salvataggi, al fine di promuovere nuove frontiere scientifiche, tecnologiche e manifatturiere. Le dinamiche di globalizzazione, di

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innovazione industriale e di terziarizzazione andranno avanti: spetta alla politica “sfruttare” la crisi per irrobustire (e non indebolire) le imprese che lavorano su queste frontiere. In questo scenario economico, dove stanno le piccole imprese, in particolare quelle umbre, rispetto alla dicotomia identificata sopra in termini di imprese winners e imprese losers? Le parole del Governatore della Banca d’Italia (Considerazioni finali, 29 maggio 2009) non lasciano spazio a dubbi: “secondo la nostra indagine, circa metà delle 65.000 imprese dell’industria e dei servizi con almeno 20 addetti sono state coinvolte nel processo di ristrutturazione. Esse si attendono un calo del fatturato nel 2009 nettamente inferiore alla media. A un estremo, le aziende finanziariamente più solide presenti in questo gruppo oggi attutiscono l’impatto dell’avversa congiuntura consolidando il primato tecnologico e diversificando gli sbocchi di mercato. Non sono poche, stimiamo più di 5.000, con quasi un milione di addetti. Alcune sembrano proiettate a trarre vantaggio dalla crisi, in termini di riposizionamento sul mercato. All’altro estremo vi sono imprese che, avendo deciso di accrescere scala dimensionale, intensità tecnologica, apertura internazionale, si erano indebitate. Affrontano ora, con la crisi, il prosciugarsi dei flussi di cassa, l’irrigidirsi dell’offerta di credito bancario, la forte difficoltà ad accedere al mercato dei capitali; si tratta di almeno 6.000 aziende, che impiegano anch’esse quasi un milione di lavoratori. A risentire della crisi sono soprattutto le imprese piccole, sotto i 20 addetti; nella sola manifattura se ne contano in tutto quasi 500.000, con poco meno di due milioni di occupati. Per quelle che operano in qualità di sub-fornitrici di imprese maggiori, da cui subiscono tagli degli ordinativi e dilazioni nei pagamenti, è a volte a rischio la stessa sopravvivenza” (corsivo nostro). Per l’Umbria delle piccole imprese (ma non solo evidentemente per questa regione), lo scenario economico appare problematico. Sono rari gli imprenditori di piccole dimensioni che sono stabilmente all’interno di filiere “trainate” dalle grandi imprese pubbliche, statali e non; sono rari anche quelli ben relazionati con gli intermediari finanziari; infine, sono pressoché inesistenti quelli con una dotazione di capitale finanziario adeguato a fronteggiare la crisi e, magari, tentare percorsi di crescita per vie esterne (si ricorda, come messo in evidenza in questa ricerca, che le piccole imprese umbre presentano livelli di indebitamento, sul piano comparato con altre regioni, particolarmente elevati). È pur vero che, in questi ultimi anni, queste piccole imprese umbre sono cresciute per fatturato e per investimenti (addirittura, a parità di settori, in misura maggiore rispetto ad altre regioni), sono migliorati i livelli di efficienza operativa (ad esempio, in termini di costi di acquisto per materie prime e di costo del lavoro) e si sono conseguiti livelli di redditività modesti, ma fondamentalmente positivi. Insomma, le piccole imprese umbre hanno fatto sforzi rilevanti. Ma restano alcuni nodi strutturali per la loro competitività, sebbene all’interno di una varietà comportamentale dei singoli settori manifatturieri (come evidenziato in questa ricerca). Esse appaiono, ancora oggi, in linea di massima, “lontane” dai mercati finali (operando all’interno di catene lunghe di subfornitura), poco capitalizzate e molto indebitate, con una “cesura” in termini di

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crescita per vie esterne, con una diversificazione limitata dei committenti-clienti e una capacità limitata di internazionalizzarsi, anche semplicemente sul piano esportativo. Non solo, la loro capacità di partecipare a bandi nazionali o regionali per reti di impresa al fine di realizzare progetti innovativi resta marginale e, quindi, per taluni aspetti si neutralizzano gli effetti positivi di uno dei più importanti strumenti di policy per il loro supporto. Che cosa fare, allora? Intanto, occorre acquisire la consapevolezza, a vari livelli politici e istituzionali, che questa crisi rende più credibile la piccola impresa. L’esperienza della piccola impresa radicata nei territori non è un fatto anonimo, ma è espressione di una personalizzazione e di una stabilità dei rapporti. Nel capitalismo familiare, l’investitore imprenditore non fugge di fronte alle difficoltà ed è stabilmente dentro l’impresa con i suoi capitali professionali e con quelli finanziari. C’è, dunque, al fondo di questo capitalismo imprenditoriale, un meccanismo sano di funzionamento della finanza assai distante da quelli imperanti “nell’alta finanza” dei banchieri e dei top manager industriali. Nell’esperienza delle piccole imprese, c’è infine un mercato basato sulla rete, con la sua forza dei legami deboli, e non su un mercato anonimo e de-territorializzato oppure fatto con la “forza” economica della gerarchia della grande impresa. Ma, nella crisi economica, non basta questa consapevolezza. C’è il fondato rischio che, anche le piccole imprese, siano “risucchiate” dagli interessi conservatori, fatti di protezioni e collusioni a vari stadi: c’è, anche tra queste imprese, un’anima conservatrice che guarda al passato. Nell’emergenza, quale quella attuale, è comprensibile richiamare messaggi fondati sul primum vivere, ma non basta. Talvolta, la base di questo mondo fatto di piccole imprese preferisce la policy dei piccoli aiuti e sostegni rispetto alle scelte più impegnative e rischiose che “aprono” all’innovazione culturale, organizzativa, tecnologica e dei mercati. Ne consegue che, anche nella crisi e nella lenta transizione di “exit”, non si deve recidere il legame tra queste piccole imprese e queste frontiere del cambiamento auspicabile. Le associazioni imprenditoriali possono giocare un ruolo importante, privilegiando logiche decisionali collettive coerenti con questi “significati”: imprese innovative vs. conservatrici; nuove imprese vs. imprese preesistenti; open competition vs. rent seeking; nuovi settori vs. settori consolidati; reti di imprese trans-locali vs. reti locali; interessi inter-associativi vs interessi meramente associativi; e così via. In questa piattaforma culturale, quali iniziative intraprendere? Su quali temi “giocare” per far collimare le piccole imprese con il cambiamento possibile e auspicabile? Ci sono, succintamente, dieci punti prioritari per “lavorare” su una possibile agenda di policy nel prossimo futuro. In primo luogo, c’è un bisogno di conoscere meglio e più approfonditamente la realtà economica e sociale delle piccole imprese. Questa ricerca ha dimostrato, in un certo senso, la difficoltà ad accedere a dati e informazioni tempestive, credibili e rilevanti per l’analisi economica delle piccole imprese. Esiste, però, un patrimonio di informazioni, magari oggi disperso e “silente” tra tanti attori istituzionali pubblici e privati (Camere di Commercio, Assessorati ai diversi livelli territoriali, Unioncamere, associazioni di categoria imprenditoriale, ecc.) che potrebbero essere messi a sistema, costituendo un vero e

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proprio laboratorio per l’analisi economica, utile non solo per studi e ricerche sulla congiuntura ma anche per vere e proprie riflessioni strutturali sul cambiamento. Sotto questo profilo, sono apprezzabili talune iniziative che alcune associazioni di categoria, quali la CNA, stanno cercando di far decollare, in un quadro inter-regionale nell’ambito del centro Italia. In secondo luogo, dall’Unione Europea sono giunti segnali e raccomandazioni importanti per il supporto alle piccole imprese. Tra tutti, merita ricordare lo Small Business Act che, nell’enunciare dieci principi, sottolinea il ruolo primario delle piccole imprese in Europa e l’importanza che i singoli Stati membri sappiano interpretare e mettere a punto adeguate linee di azione. La cornice generale di riferimento appare quella della “costruzione” istituzionale di un ambiente giuridico e economico favorevole per le piccole imprese e coerente non con il loro protezionismo ma con il loro cambiamento possibile e auspicabile. I principi addotti in tema di funzionalità, trasparenza, semplificazione ed efficienza della pubblica amministrazione, in senso lato, costituiscono aspetti fondamentali capaci di influenzare la competitività della piccola impresa. Su questo piano, differenti e concrete linee di azione – in una chiave di possibile futuro federalismo – sono possibili e auspicabili anche in Umbria (per esempio, facilitando la partecipazione delle piccole imprese ai bandi per gli aiuti finanziari e alle gare di appalto per la fornitura di beni e servizi, oltreché superando spazi territoriali della decisione pubblica su temi economici palesemente “fuori scala”, come le province). In questa logica, è altresì possibile ipotizzare – su scala regionale – una sorta di statuto dei principi e dei diritti della piccola impresa e dell’imprenditore, capace di indirizzare e regolare il comportamento delle istituzioni pubbliche, ai vari livelli, nell’interazione con queste aziende. In terzo luogo, è essenziale perseguire un rafforzamento delle filiere consolidate, talvolta incomplete, presenti nelle diverse articolazioni dell’economia regionale. Troppo spesso, le filiere agricole, manifatturiere e di servizi in questa regione appaiono frammentate. Il pool umbro di imprese medie e medio-grandi ha, spesso, scarsi legami economici con il tessuto di quelle di dimensione minore. Senza la pretesa di dover sempre e comunque regionalizzare lo sviluppo delle imprese leader, è di tutta evidenza che la loro limitata integrazione con piccole imprese locali costituisce un riduttore degli effetti di spill over generati dalla crescita di questi protagonisti imprenditoriali. In effetti, sembra che le eventuali reti di fornitura che essi attivano siano normalmente connesse all’acquisizione di componenti e lavorazioni molto specialistiche che trovano in ambito regionale solo limitate possibilità di approvvigionamento. Da questo punto di vista è importante indagare quali fattori ostativi vi sono al rafforzamento di filiere regionali e quali attività di servizio (R&S, marketing, design, ecc.), di lavorazioni manifatturiere e di fornitura di beni potrebbero attivarsi funzionalmente in integrazione con questi leader regionali. Sulla base di tali risultanze potrebbe essere stimolata la creazione di reti di imprese con una progettualità strategica comune. Ricerche economiche recenti sul territorio regionale (per esempio, AUR, 2009) hanno lasciato intravedere alcune di queste possibilità, come ad esempio nella chimica eco-compatibile esistente nell’area ternana. È importante,

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altresì, evidenziare che la crisi economica in atto potrebbe costituire un generatore di ulteriori “buchi di offerta” nell’ambito delle filiere consolidate, a causa della rarefazione della capacità produttiva in alcuni comparti manifatturieri o di servizio. Si avverte, pertanto, la necessità che le difficoltà economiche attuali non inducano una selezione tra i fornitori di parti, lavorazioni e semilavorati nell’ambito di queste filiere territorializzate. In quarto luogo, la policy regionale deve incoraggiare l’esplorazione di nuove articolazioni di business da parte delle imprese in una logica di reti inter-organizzative de-territorializzate (filiere potenziali). Le competenze esistenti dentro le imprese possono trovare – con un’opportuna ricombinazione – un “terreno” fertile per esplorare nuove dimensioni dei business. Però, queste reti tra imprese si organizzano attorno ad un’idea di business (basti pensare alla nautica, all’aerospaziale, al tempo libero o alle tecnologie mediche), e non attorno ad un “campanile”. In un certo qual modo, queste filiere nascono, sin dall’origine, de-territorializzate, in modo da “costruire” le complementarità strategiche tra attori economici aventi competenze diverse e presenti su differenti localismi (spesso trans-regionali). Si tratta cioè di lavorare su filiere di competenze – sia materiali che immateriali – e non più su filiere fondate su prodotti (nel caso dell’area ternana, Ferrucci 2009). Ci vuole cioè un’idea forte di un business, e poi attorno a questa si realizza la rete di imprese. Esplorare, in questa logica, le potenzialità del Made in Italy è, di fatto, un modo per innovarlo e trovare, anche nella nostra regione, tante sue possibilità di ricombinazione innovativa (unendo magari attori economici operanti nella salute, nell’alimentazione, nei mobili, nello sport, nella bellezza, nell’abbigliamento e così via). Troppo spesso, ancora oggi, invece la policy ha ragionato e modellato i suoi interventi in termini di settori o di filiere consolidate (magari incomplete) e non attorno a questi nuovi business emergenti su scala globale. Da questo punto di vista, la crisi economica in atto è un fatto che può “liberare” nuovi processi di search, tra tutti gli attori pubblici e privati, obbligando tutti noi a ripensare il nostro modo di fare e di lavorare secondo schemi settoriali per passare a queste nuove logiche di business (per esempio, il significato strategico della green economy che obbliga a ripensare i confini dei settori, le articolazioni dei prodotti e i nuovi significati da dare ai propri business). In quinto luogo, nell’economia regionale vi è uno spazio per l’esplorazione di nuove filiere o settori high tech. Ancora oggi, l’Umbria sconta un ritardo strutturale in nuovi settori. È evidente che non è possibile fare un po’ di tutto nell’high tech. Ma l’Umbria può decidere di investire e far decollare, anche grazie a spin off accademici e all’attrazione di investitori esterni, piccole nicchie tecnologiche di eccellenza, ad esempio nelle energie rinnovabili, nelle biotecnologie e nelle nanotecnologie da integrare in modo sinergico con il tessuto manifatturiero pre-esistente. Da questo punto di vista, per una regione come l’Umbria, le università locali devono essere dei gateway di interconnessione con il resto del mondo. È evidente l’importanza di processi di reclutamento e di potenziamento di team (e non solo di individui) di particolare prestigio scientifico internazionale in questi campi da parte delle università. Da questo punto di vista, la convergenza decisionale, anche sul piano finanziario, sia di attori pubblici nazionali e

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regionali che dell’intero sistema delle fondazioni bancarie potrebbe rafforzare questa dinamica imprenditoriale. In sesto luogo, filiere consolidate, potenziali o nuove necessitano di un progetto di policy integrato con il terziario avanzato. Il rafforzamento di un terziario è funzionale alla competitività del sistema manifatturiero. Aree come la ricerca scientifica e tecnologica, la logistica e i trasporti, l’energia, le infrastrutture materiali e immateriali, i servizi di design, di marketing e pubblicità e le modalità di presidio diretto dei mercati finali costituiscono temi attorno ai quali irrobustire la competitività di queste imprese e, contestualmente, stimolare la formazione di servizi a loro favore. La crisi economica in atto non vanifica l’importanza concettuale di un’economia fondata sulla conoscenza; la finanza speculativa (e i suoi prodotti “immateriali”) non ha nulla a che vedere con il terziario avanzato fatto di immaterialità e generatore di valori simbolici e, quindi, economicamente funzionali alle imprese industriali. Mentre in passato si riteneva che il terziario fosse un comparto improduttivo e parassitario dell’economia, oggi, invece, possiamo dire che il terziario – con le sue eterogeneità interne – è un’ossatura fondamentale del cambiamento in atto nelle economie avanzate. E che, quindi, è senza terziarizzazione che le economie moderne possono soffrire di più e trovarsi, in modo irreversibile, sulla strada del declino. In definitiva, non si va nel futuro se non c’è un nucleo forte che integra il manifatturiero con il terziario per le imprese. In settimo luogo, le policies per il rafforzamento del capitale umano qualificato (e post-fordista) costituiscono strumenti strategici di supporto alle logiche di filiera (consolidata, potenziale e nuova) sopra evidenziate. Su questo punto, l’Umbria – anche grazie alle sue due università – è un laboratorio rilevante di generazione di capitale umano qualificato. Pur tuttavia, esso – in buona misura – appare destinato ad essere “esportato” affinché possa funzionalmente trovare un’occupazione pertinente. In altri termini, l’Umbria investe e genera capitale qualificato ma non ha un mercato del lavoro capace di assorbirlo, salvo poi attrarre e trattenere lavoratori generici, spesso immigrati, destinati tipicamente a ricoprire occupazioni fordiste di basso valore aggiunto e a basso impatto per la competitività delle nostre imprese. Sul piano di policy, è dunque importante riflettere sull’opportunità di stimolare e sostenere un nuovo ciclo storico di imprenditorialità giovanile qualificata. L’economia umbra – comparativamente ad altre regioni – presenta strutturalmente un limitato saggio di natalità di nuove imprese, come abbiamo visto in questo lavoro. Stimoli pubblici, sia finanziari che non, alla formazione di nuove piccole imprese da parte di giovani qualificati possono, dunque, costituire un asset importante per supportare le filiere (consolidate, potenziali e nuove) e trattenere, in questa regione, il capitale umano qualificato. L’evidenza empirica, tuttavia, suggerisce anche l’importanza di supportare e rafforzare il capitale umano qualificato nell’ambito delle imprese pre-esistenti, fondate su modelli di capitalismo familiare. In questa logica, si tratta di operare secondo due differenti direzioni, tra loro non alternative. Da un lato, occorre poter favorire l’innesto di personale qualificato (sia in campo scientifico che economico) al fine di rafforzare la qualità delle risorse umane, ad esempio, tramite temporary manager “garanti” del perseguimento di un progetto di business supportato

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da bandi pubblici. In altri termini, è importante costituire un capitale organizzativo dell’impresa, con maggiori contenuti di managerialità qualificata, capace di compensare i limiti della formula di un certo capitalismo familiare. Dall’altro lato, è importante supportare, con adeguati strumenti di policy, le dinamiche di successione imprenditoriale in modo da evitare la possibile implosione dell’azienda. Non si tratta di “proteggerne” la natura proprietaria ma di assisterla – finanziariamente oppure tramite temporary manager o, ancora, con iniziative di supporto formativo a favore dei figli – durante una fase di transizione particolarmente critica. In ottavo luogo, le policies di supporto finanziario alle piccole imprese sono particolarmente cruciali. Politiche di apporto di nuovi capitali di rischio, politiche del credito e strumenti che favoriscano la puntualità dei pagamenti nelle transazioni commerciali (specie da parte della pubblica amministrazione, in senso lato) non sono strade “dissociate” ma strettamente unite. I cofidi, complessivamente, hanno rappresentato forme di auto-organizzazione, peraltro supportate da risorse finanziarie pubbliche, capaci di alleviare le tensioni sul mercato del credito. Il loro ruolo sembra destinato a rafforzarsi alla luce della crisi economica e di un settore bancario molto cambiato, negli ultimi venti anni, a causa di concentrazioni (tramite acquisizioni) e polarizzazioni territoriali extra-regionali. La politica del credito – anche alla luce delle normative in essere – trova, nei cofidi, degli attori fondamentali non solo per il rilascio di apposite garanzie ma, sempre di più, per l’adozione, da parte loro, di modus operandi fondati su scoring di competitività (e non su analisi strettamente contabili e finanziarie) delle piccole imprese e per l’erogazione, a loro favore, di servizi di consulenza riguardo ai loro progetti di investimento e di ricapitalizzazione. In altri termini, i cofidi sono destinati a possedere, sempre di più, una capacità diagnostica di lettura e interpretazione delle piccole imprese, sulla quale innestare servizi di supporto alla loro competitività e di prevenzione delle loro possibili difficoltà economiche e finanziarie (anticipando, in questo modo, interventi sul piano della rinegoziazione e della ristrutturazione del debito esistente). In questo approccio, è di tutta evidenza che la politica del credito non passa unicamente ed esclusivamente per la riduzione del differenziale del costo del denaro ma tende ad agire in una logica più ampia. Nell’ambito dei capitali di rischio, invece, Gepafin costituisce un attore fondamentale per il supporto della crescita delle piccole e medie imprese, favorendo progetti di investimento e percorsi di crescita per vie esterne (magari, tramite acquisizioni di altre imprese), oltreché per la possibilità di intervenire finanziariamente e managerialmente a supporto dei problemi successori presenti in talune imprese. Una valutazione attenta delle realizzazioni compiute da questa agenzia regionale è, dunque, un fatto indispensabile per potenziarne gli strumenti e le possibilità di azione. In nono luogo, la policy per l’internazionalizzazione costituisce storicamente un tema critico per l’Umbria, da sempre deficitaria in termini di tasso di apertura alle esportazioni. Rafforzare la vocazione internazionale di questa regione significa soprattutto intervenire nel tessuto delle piccole imprese. Processi aggregativi strutturati possono essere di supporto, anche se è importante evitare una dispersione degli sforzi di commercializzazione attorno a mercati estremamente diversificati. Le medie imprese

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umbre, da tempo presenti e attive su diversi mercati esteri, possono costituire una sorta di capofila per reti di piccole imprese al fine di ridurre le incertezze decisionali e i rischi economici connessi a queste strategie di internazionalizzazione. Appositi fondi finanziari pubblici possono, a fianco di quelli previsti nella normativa nazionale, essere destinati alla copertura di specifici rischi cliente e Paese oppure a “premiare” quelle imprese che, a livello internazionale, sono riuscite a migliorare la loro presenza estera (in termini di valori esportati sul loro fatturato totale oppure vincendo nuove rilevanti commesse estere). Infine, anche alla luce della recente normativa sul Made in Italy, a livello regionale possono essere impostate politiche di attrazione e di marketing territoriale a favore di imprese che, in passato, avevano optato per strategie di de-localizzazione e che, oggi, al fine di beneficiare di tale brand, stanno valutando un loro “rientro” nei confini nazionali. Infine, la policy regionale – in una logica integrata con altre regioni contigue, anche per effetto di un federalismo in arrivo – può indirizzare una domanda pubblica di beni e servizi a favore di reti di imprese che sappiano rispondere a sollecitazioni innovative. Ovviamente, esiste un ben noto problema di scala affinché la forza d’urto della domanda pubblica di beni e servizi sia capace di stimolare ricerca e innovazione tra reti di imprese. È, tuttavia, importante precisare che, perlomeno nel centro Italia, esiste, ad esempio, una domanda di beni e servizi di utilizzo nell’ambito della sanità pubblica. Di un certo interesse appare ipotizzare che questa domanda aggregata su alcuni beni e servizi possa “forgiare” alcune reti di imprese inter-regionali capaci, in futuro, di andare oltre i confini politici, istituzionali e economici di queste regioni. È importante evidenziare che questo possibile decalogo deve essere interpretato in modo integrato. Una visione puntuale – e non sistemica – rischierebbe, infatti, di sbilanciare la logica complessiva di intervento. In altri termini, ad esempio, l’efficacia delle policies finanziarie non può prescindere da una buona policy per il rafforzamento delle risorse umane qualificate in una logica di network tra imprese. In questo senso, è pertanto indispensabile favorire, contestualmente, una sorta di master mind istituzionale (capace di avere questa visione d’insieme) e una specializzazione dei ruoli e delle funzioni. In conclusione, le piccole imprese, più di altri, hanno “sofferto” le discontinuità prodotte negli ultimi venti anni. È sufficiente riflettere sulla perdita dello strumento del cambio per il recupero della competitività sui costi sul fronte delle esportazioni; la difficoltà a passare a forme diverse di esportazione, con una presenza diretta sui mercati esteri; i problemi ad internalizzare conoscenze innovative generate in siti lontani e distinti dalle competenze possedute dell’imprenditore; gli effetti negativi delle strategie di mera delocalizzazione manifatturiera, perseguite, in una pura logica di costo, da medio-grandi imprese nazionali. E, ancora oggi, queste piccole imprese stanno soffrendo, in modo particolare, la crisi mondiale in atto. Nonostante tutto ciò, è impressionante riscontrare la loro capacità di resistere e di continuare a ricercare una competitività che rappresenta, tra l’altro, la base della solidità economica, sociale e culturale dei nostri territori. Per tutto questo, le istituzioni – sia pubbliche che private – non possono

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dimenticarsi di loro e devono accompagnarle, selettivamente, nei loro percorsi di crescita. Ringraziamenti:

Per l’Indagine sulle micro e piccole imprese manifatturiere umbre si ringraziano le Associazioni imprenditoriali di CNA, CONFAPI, CONFARTIGIANATO, CONFINDUSTRIA per la collaborazione fornita nella diffusione e raccolta dei questionari. La sistematizzazione dei dati è stata curata dall’AUR (Enza Galluzzo, Nadia Giuliano e Eleonora D’Urzo).

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L’ARTIGIANATO Sergio Sacchi Tra forma e sostanza: l’incerta identità di un comparto popolarmente apprezzato Un ben fondato percorso di ricerca sul fenomeno dell’impresa artigiana in Umbria presupporrebbe una inequivocabile definizione/riconoscibilità dell’oggetto dell’analisi. Mancando una definizione del genere il consenso convenzionale rinvia, qui come altrove, ad una generica nozione di piccola impresa la quale spontaneamente sceglierebbe di “entrare in società” in punta di piedi, cioè partendo da un profilo spesso considerato ancora più basso di quanto le dimensioni del suo organico lascerebbero intuire. Secondo la più consolidata normativa italiana, rappresentata dalla cosiddetta legge quadro (legge 8 agosto 1985, n. 443), infatti, l’impresa artigiana è contraddistinta dai seguenti elementi: a) ruolo preponderante dell’artigiano: questi deve prestare in misura prevalente il proprio lavoro anche manuale nel processo produttivo (art. 2, 1° comma); b) possesso di tutti i requisiti tecnico-professionali previsti dalle leggi speciali; c) obbligo di rispetto dei limiti dimensionali fissati dall’art. 4 di quella legge e di iscrizione ad un apposito albo (previsto dal successivo art. 5) al fine di godere delle provvidenze ed agevolazioni previste dalla disciplina di dettaglio. Ma è, quello italiano, uno di tre1 possibili diversi approcci alla identificazione

1 In effetti si potrebbe anche parlare di quattro tipi, considerando come un tipo a sé l’insieme dei modelli che non rientrano affatto o vi rientrano solo ob torto collo in uno dei tre richiamati nel testo. Il “non modello” residuale: tutto ciò che si muove senza un filo comune e un percorso standardizzabile Il quarto gruppo di Paesi, cioè il gruppo di tutto quelli che non confluiscono in alcuno dei primi tre, e che per questo sono qui ritenuti far parte di un vero e proprio “non modello” comprende soprattutto Paesi in cui non vi è alcuna definizione legale del comparto né si intravede una particolare inclinazione a tenerne conto per una qualche fine economico o sociale che sia. Vi si fanno comunque confluire anche Paesi in cui si possono riconoscere alcuni fermenti che vanno a interrompere un lungo periodo di inattività e disinteresse normativi. All’interno di questo gruppo si rilevano alcuni aspetti differenziali, a volte di non poco conto. Differenze significative, infatti, possono essere colte nel confronto tra Paesi mediterranei, come il Portogallo e la Grecia, e Paesi del nord Europa come la Finlandia e la Svezia.

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dell’impresa artigiana i quali contemplano altrettanto differenti tipi di impresa artigiana: a) quella riconoscibile sulla base di meri criteri formali (in termini di dimensione degli organici e del capitale impegnato); b) quella riconoscibile per l’appartenenza a un predeterminato settore, spesso in concomitanza con specifici requisiti imposti anche all’imprenditore (in termini di conoscenza del mestiere); c) quella, infine, apparentemente più coerente col tracciato evolutivo del concetto e delle legislazioni e riconoscibile “a vista” per via delle lavorazioni ad essa riservate, obbligate ad avere e a dimostrare innegabili contenuti artistici. Già così un primo aspetto che emerge è il continuum fattuale che corrisponde alla pluralità delle gemmazioni semantiche a partire da una comune radice: quella di “arte” (si veda per un rapido riscontro il riquadro sotto riportato). Si va, pertanto, dall’impresa che realizza vere e proprie opere d’arte a quella che presta la sua attività a regola d’arte fino a quella che sovrintende a una produzione anche in lotti, se non addirittura in serie, ma di piccola entità: produzione realizzata in una azienda di piccola dimensione e spesso con un titolare che conosce il mestiere e lo pratica a fianco dei suoi dipendenti ma spesso senza alcun tipo di formale riconoscimento dell’acquisizione di una specifica competenza “artigiana” nella lavorazione svolta. La fragilità di un qualunque procedimento definitorio e identificativo deriva dalla difficoltà di elaborare un criterio con cui si riesca a tenere insieme soggetti che condividono effettivamente dei caratteri comuni e, allo stesso tempo, li si possa inequivocabilmente distinguere da soggetti che solo in apparenza o solo in parte mostrano di avere i requisiti necessari per dichiararsi impresa artigiana. In effetti, come si vedrà meglio più avanti, l’impresa artigiana, in quanto incrocia dimensioni organizzative, aspetti di mestiere e dinamiche di lavoro autonomo le più diverse, fino a intersecare le produzioni d’arte e le prestazioni professionali, è finora sfuggita, anche per scarsa attenzione o poco interesse alla sfida intellettuale che essa propone, a vari tentativi di sistemazione definitoria e classificatoria. Parafrasando detti riferiti ad altri soggetti si da per certo che l’impresa artigiana esista ma al contempo che cosa essa sia, ovvero come la si possa distinguere, nessuno lo sa. E nel terreno dell’incertezza definitoria e dell’anomia operativa non stupisce che l’impresa artigiana venga comunque percepita come l’anello terminale inferiore di una tassonomia che vede all’estremo opposto collocarsi la grande impresa multinazionale o l’holding globale. Vi sono poi alcuni Paesi i quali sembrano avere preso in seria considerazione, di recente, l’idea di capire se e come valorizzare il proprio – per quanto poco definito – settore artigiano in funzione dello sviluppo locale. È questo il caso, ad esempio, del Portogallo, dove il parlamento si è riproposto di arrivare ad una legge quadro per definire e regolare il settore, o dell’Irlanda che ha previsto di focalizzare la propria attenzione su un programma di analisi e promozione dell’artigianato per riqualificare le aree rurali e semi-urbane nelle quali si è pensato di localizzare i laboratori delle imprese.

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Artigianato: radici lessicali e definizioni

DAL VOCABOLARIO LINGUA ITALIANA DEVOTO/OLI ARTISTA: 1. Chi è dedito ad un’arte come realizzatore o come interprete. 2. (Detto) Di chi esercita la propria professione (talvolta anche il proprio mestiere) con eccezionale maestria. 3. Arcaico: artigiano. ARTIGIANO: 1. Chi attua una produzione a carattere domestico e tradizionale. 2. Chi lavora a prodotti non in serie, artistici e non. 3. Come aggettivo: relativo al tipo suddetto di lavoro o di produzione. DAL VOCABOLARIO LINGUA ITALIANA EUROPEAN BOOK (WWW.EUROPEANBOOK.IT) ARTE: 1. Attività dell’uomo rivolta alla creazione di opere di valore estetico: Arti Maggiori: architettura, pittura, scultura; Arti Minori: ceramica, oreficeria, ecc. (lavorazione dei tessuti, dei metalli, delle gemme, del vetro, del legno, miniatura, mosaico, ecc. N.d.R.). 2. Ogni lavoro umano che richieda norme e leggi proprie; arti liberali: quelle intellettuali; arti manuali: quelle meccaniche. 3. Insieme delle regole che insegnano a svolgere le varie attività. 4. Padronanza dei mezzi per raggiungere un fine. 5. Corporazione medievale. ARTEFICE: chi è esperto nell’esercizio di un’arte. ARTIGIANO: chi esercita un’arte meccanica, manuale (sottolineatura aggiunta). ARTISTA: chi esercita un’arte liberale. ARTISTICO: 1. Che riguarda l’arte. 2. in modo artistico, secondo l’arte. MESTIERE: attività, per lo più manuale, appresa con la pratica ed esercitata abitualmente per trarne guadagno.

Fonte: www.armesma.it/altroartigianato.htm L’essere in qualche un ibrido tra espressione di creatività artistica e manifestazione di capacità professionali e di mestiere organizzato con un corpo di (piccola) impresa non aiuta allo scopo. Proprio per questo, prima di immergersi nella raccolta, elaborazione e commento dei dati disponibili per gettare un primo fascio di luce sulla consistenza del fenomeno in Umbria, può essere opportuno rendere conto delle difficoltà cui si è fatto qui cenno in una panoramica che spazi dalle convinzioni della teoria economica alle soluzioni pragmatiche adottate in altri Paesi.

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A) L’IMPRESA ARTIGIANA Quando il piccolo era bello, da conoscere e da sostenere Alle origini dell’innamoramento per l’indefinitamente piccolo E’ trascorso oramai più di mezzo secolo da quando l’Europa cominciava a pensare ad una competizione internazionale (in particolare con gli USA) affidata ai grandi campioni nazionali2 di cui disponeva. Poco meno ne è passato da quando la scoperta delle virtù delle piccole dimensioni3 ha cominciato a dare la stura ad una mole impressionante di studi e ricerche sui vantaggi differenziali delle piccole imprese costrette a difendersi dalle imprese più grandi e a competere con le ingombranti economie di scala di queste ultime. In una Europa non ancora Unione monetaria e, al massimo, in cerca di un Mercato unico fino all’entrata in vigore del Trattato di Maastricht (1992), gli anni ‘80 e i primi anni ‘90 registravano un intensificarsi tanto delle ricerche quanto delle politiche aventi per oggetto le piccole e medie imprese (PMI), intendendo come tali tutte le imprese che non fossero “grandi”, ovvero non fossero espressione di un capitalismo manageriale e di una logica tecnostrutturale capace di condizionare equilibri politici e relazioni umane e sociali ovunque nel mondo. A portare al centro della scena questo sottoinsieme specifico era il contributo che ad esse veniva riconosciuto in termini sia di tenuta dell’occupazione sia di incubatore di sperimentazioni innovative. Meno rilevante era, almeno agli inizi, la considerazione di altri apporti (soprattutto quello in termini di flessibilità e di capacità di sfruttamento delle economie di varietà).4 Motivazioni strettamente economiche, dunque, ma con implicazioni di ordine culturale e politico. La doppia dimensione, economica e sociale, della produzione artigiana, la coincidenza della figura proprietaria con quella di un amministratore direttamente e personalmente impegnato nella conduzione/direzione dell’impresa e del personale in essa coinvolto concorrevano a configurare una alternativa, per di più vincente, alla contrapposizione tra capitale e lavoro. D’altra parte il coinvolgimento del proprietario nel lavoro dell’azienda lasciava trasparire una forma di autosfruttamento

2 Servan-Schreiber (1968). L’edizione italiana del testo, che ebbe una grande fortuna editoriale, si appoggiava ad una densa introduzione di Ugo La Malfa. 3 Schumacher (1978). 4 A partire da un fondamentale contributo di Baumol et al.(1982) le economie di varietà o di scopo (insieme alle o in luogo delle economie di scala) sono state studiate da numerosi economisti soprattutto industriali. Le economie di scala sono quelle legate alle (grandi) dimensioni delle organizzazioni produttive mentre le economie di varietà sono quelle connesse, come noto, alla facilità di produrre in una stessa struttura beni con caratteristiche diverse. Per una solida trattazione della tematica, della natura concettuale e delle convenienze operative si veda Di Bernardo (1997).

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che appannava la nozione di conflitto ereditata da una letteratura che a molti sembrava pericolosamente destabilizzante: ed era, quella che si profilava, l’immagine di una lotta tra residue tribù di piccole imprese locali e un gruppo di grandi Golia multinazionali, dati per vincenti e destinati ad espandersi fino al punto di generare la propria antitesi e fino alla comparsa di un nuovo ordine egualitario anche nel controllo dei mezzi di produzione. In mezzo allo snodo dialettico del materialismo storico, però, la crisi della siderurgia e della cantieristica, settori entrambi costretti ad alleggerirsi di importanza e di organici, dava il via di suo ad una stagione di interesse per la formazione di nuove imprese capaci di contribuire sia al recupero non improduttivo dell’occupazione e dunque alla stabilità sia alla diffusione di una mentalità imprenditoriale e dunque alla crescita. La piccola impresa, celebrata da Becattini (tra gli altri: 1987 e 1989) e Brusco (1989) e poi dall’ampia cordata dei distrettualisti, in Italia, e da Piore e Sabel (1987) nei Paesi di lingua anglosassone, si trasformava da vittima in eroe e appariva come la reincarnazione del pastorello capace di colpire sfruttando velocità, sorpresa e un’arma appropriata il proprio sicumeroso avversario. Unica chance (o quasi) e garanzia di vittoria per il piccolo David diventato nel frattempo impresa: l’inserimento non in una tribù rinunciataria e frammentata ma in una tribù vivace e cooperativa, ben organizzata intorno ai suoi assets cruciali, costituenti lo specifico del saper fare locale. Tuttavia gli specifici problemi che rendevano oggettivamente più incerta e fragile la vita delle imprese non grandi non potevano essere sottaciuti: in particolare si segnalavano le difficoltà di approvvigionamento delle risorse finanziarie necessarie per meglio sostenere l’attività produttiva o di accesso a programmi di formazione continua sostenibili o di inserimento attivo nelle reti e nei circuiti dell’informazione. Ed erano, questi, tutti riscontri che, dando comunque per acquisito il diritto di esistere delle imprese non grandi, portavano a enfatizzare l’utilità di appropriate politiche di sostegno. Da qui la necessità di dotarsi di definizioni e parametri di identificazione capaci di ritagliare senza incertezze il sotto-insieme specifico delle PMI. Esplosa su scala comunitaria una convinzione del genere presupponeva un criterio per separare5 le PMI dalle restanti imprese, e ciò per essere certi che delle misure predisposte per le prime6 non usufruissero anche imprese che piccole o medie non erano.

5 Alla implementazione di un tale criterio deve corrispondere, com’è ovvio che sia, la introduzione di un sistema di rilevazione dei dati armonizzato e allo stesso flessibile in grado di riferirsi a situazioni diverse anche da Paese a Paese e a volte specifiche di una sola delle realtà osservata e dunque fuori dell’ordinario. 6 La definizione delle imprese in funzione del loro organico e del loro fatturato ovvero del loro bilancio complessivo risulta indispensabile per determinare le imprese che possono beneficiare dei programmi o delle politiche dell'Unione europea (UE) destinati in maniera specifica alle piccole e medie imprese (PMI). Si tratta infatti di evitare che “le imprese, il cui potere economico sia superiore a quello di una PMI, approfittino dei meccanismi di sostegno destinati in maniera specifica alle PMI”. Si veda la presentazione sintetica della Raccomandazione 2003/361della Commissione, del 6 maggio 2003, relativa alla definizione delle microimprese,

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Sotto la stretta di convinte e pressanti rivendicazioni, da parte di Associazioni e Governi, due raccomandazioni della Commissione europea7 si sono indirizzate proprio in questa direzione e i risultati, nonostante alcune approssimazioni semplificatrici ed omissioni, hanno sorretto una stagione di importanti politiche a favore dello sviluppo imprenditoriale, industriale o locale ovunque e con particolare intensità nelle aree svantaggiate. E’ opportuno ricordare, a questo proposito, che la prima delle due raccomandazioni (n. 280/CE4)8 accredita una prima, comunemente accettata, definizione di PMI ed è solo del 1996, mentre già sette anni dopo la seconda raccomandazione (n. 261/CE5) introduce correttivi non solo formali alla definizione precedente9: ed anche questo è un indizio evidente delle difficoltà di identificazione a cui si faceva poco sopra riferimento. Difficoltà su cui vale la pena spendere ancora qualche parola. Parametri quantitativi e criteri qualitativi per piccole imprese non necessariamente artigiane Si consideri, per iniziare, che le raccomandazioni comunitarie e in particolare l’ultima, cioè la seconda, quella del 2003, confezionano l’identikit di una generica piccola/media impresa, e vi inglobano dentro le imprese artigiane, di per sé mediamente piccole, a partire da due condizioni considerate entrambe vincolanti: intanto quella di essere a tutti gli effetti una impresa10 e poi quella di rientrare nei parametri dimensionali di cui all’una e poi all’altra delle Raccomandazioni comunitarie. La prima condizione nella raccomandazione 2003/261/CE: sapere d’impresa. Per quanto riguarda la prima delle due condizioni, la Raccomandazione n. 261 stabiliva che, affinché un soggetto a cui fa capo una attività economica potesse essere considerato incluso nel gruppo definito come delle “piccole e medie imprese” (PMI), doveva essere, innanzitutto, una impresa, includendo nella nozione di impresa “le entità esercitanti una attività artigiana o altre attività a titolo individuale o familiare, le società di persone o le associazioni che esercitino regolarmente una attività economica”. Si tratta, come è immediato notare, di una definizione di impresa fondata

piccole e medie imprese, testo integrale dell'atto (2003/361/CE) in: http://europa.eu/legislation_summaries/enterprise/business_environment/n26026_it.htm (cons. luglio 2009). 7 Si tratta delle Raccomandazioni n. 1996/280/CE4 e n. 2003/261/CE5). 8 Gazzetta Ufficiale L 107 del 30 aprile 1996, pp. 4. 9 Gazzetta Ufficiale L 124 del 20 maggio 2003, pp. 36. Rispetto alla definizione precedente la nuova ha introdotto soglie finanziarie più alte. E ciò è da intendersi come aggiustamento richiesto dall’incremento di produttività in seno alla categoria delle PMI oltre che da un ancora robusto processo inflazionistico. L’introduzione di una ulteriore categoria, la microimpresa, mirava proprio ad una migliore definizione di uno specifico gruppo di imprese considerato con crescente interesse da parte dell’Unione europea. Gruppo di imprese tra le quali si contano moltissime di quelle definibili artigiane. 10 Non sembri questa condizione ovvia e banale. Vi si riassume qui tutto il complesso delle difficoltà di distinguere tra ciò che avviene in forma per così dire organizzata e ciò che rimane affidato al cosiddetto (in Italia) “popolo delle partite Iva”: professionisti, lavoratori autonomi fino alla soglia delle ditte individuali prive di dipendenti.

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sul riconoscimento dell’indipendenza dell’attività economica esercitata. Sotto il profilo del contenuto essa era ispirata dal regolamento n. 696/938 del Consiglio, relativo alle unità statistiche di osservazione ed analisi del sistema produttivo nella comunità europea. L’allegato 9, infatti, precisava che “l’impresa corrisponde alla più piccola unità organizzativa di produzione di merci e di servizi che si giova di una certa autonomia decisionale, specialmente per la destinazione delle risorse correnti. Una impresa esercita una o più attività in uno o più luoghi. Una impresa può corrispondere a una sola unità legale (…) [ma] per come è stata qui definita è anche una entità economica che può corrispondere, in certe circostanze, alla riunione di più unità legali.” Ciò premesso la domanda in merito a quali entità siano da includere necessariamente nella categoria dell’impresa e il suo corollario ovvero l’interrogativo se la definizione data sia da ritenere applicabile a qualsiasi entità eserciti una attività economica non solamente senza dover fare riferimento alla sua forma giuridica (come menzionato sopra) ma anche prescindendo dalla identificazione del settore di attività e/o dalla categoria del mestiere/professione a cui essa appartiene ne scaturisce ineluttabilmente. Ovvero, detto in altri termini, la domanda che viene spontaneo porsi è se nella categoria delle attività esercitate in forma di impresa rientrino anche le produzioni artigiane e addirittura quelle delle professioni cosiddette liberali. Almeno in linea di principio si finisce per accettare l’idea che se i soggetti che svolgono attività artigiana lo fanno esprimendo, come si dice, una qualità di impresa, allora quei soggetti possono ben costituire (e riconoscersi tra loro come) un sotto-insieme della popolazione delle PMI. Solo requisito aggiuntivo è che esse soddisfino la seconda delle condizioni per effetto della quale le PMI sono distinte dal resto delle imprese. La seconda condizione nella raccomandazione 2003/261/CE: rispettare le soglie (quantitative) Si tratta, in questo caso, di una condizione prevalentemente “quantitativa”: che non sia cioè oltrepassata la soglia dei 250 addetti e non risulti sforata la soglia massima prevista per il fatturato e per il totale dell’attivo patrimoniale. Alla fine, all’interno di questa fascia più ampia è state prevista, come noto, una articolazione in tre categorie11 (si veda la tavola sottoriportata). E’ evidente, una volta di più, la crucialità del procedimento. Di fatto si affida la ricerca di soggetti caratteristici per la qualità della loro attività e del loro impatto ad una batteria di indicatori del potenziale produttivo e finanziario di una impresa: indicatori che continuavano ad assumere una natura sostanzialmente quantitativa. Ad essi viene affiancata, come terzo parametro oltre quello delle dimensioni occupazionali e dei livelli di fatturato o di valore delle attività patrimoniali, una condizione, vincolante, solo nel caso di richiesta di accesso ad aiuti comunitari oppure nazionali (statali o locali che siano): l’assenza di relazioni societarie strette ed economicamente vincolanti

11 Art. 2 dell’Annesso alla Raccomandazione (2003/261).

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con altre imprese tali che il considerarle insieme12 porterebbe oltre le soglie ammesse per il riconoscimento dello status di PMI e dunque per il godimento delle provvidenze richieste. Tipi di PMI e parametri identificativi nelle raccomandazioni della Com-missione europea

Tipi di PMI Micro-impresa Piccola impresa Media impresa Criterio Racc.’03 Racc. ‘96 Racc.’03 Racc. ‘96 Racc.’03 Dipendenti (N°) < 10 < 50 < 250 Fatturato (€) o Stato Patrimoniale Totale*

2 mln

7 mln

10 mln

10 mln

40 mln

27 mln

50 mln

43 mln Indipendenza In linea di principio: quota di controllo (possesso di diritti di voto o di capitale

societario) da parte di imprese od organismi pubblici che non siano anch’essi PMI inferiore al 25%

* Per “stato patrimoniale totale” si intende il valore delle attività patrimoniali come iscritte nell’ultimo bilancio chiuso ed approvato.

Un aspetto che interessa qui rilevare è il fatto che l’impostazione accolta non introduce riferimento alcuno ai settori di attività né riserva alcuna attenzione specifica alla qualità “artigiana” dell’essere delle imprese. La PMI europea è eterogenea, travalica le distinzioni settoriali13 ma include senza differenziarle14 tanto le imprese artigiane

12 Il criterio di indipendenza postula che una impresa non è autonoma nel caso in cui essa detenga una partecipazione superiore al 25% del capitale oppure del numero di azioni con diritto di voto di altre imprese (o anche viceversa). o più imprese . Per riferirsi in modo chiaro alle possibili relazioni tra imprese si è peraltro concordato di considerare oltre all’impresa totalmente indipendente, nei termini appena richiamati, anche due altri tipi di impresa: una, detta, “partner” (per le quale valgono i limiti di una quota di capitale o di diritti di voto compresa tra il 25% e il 50%), e una seconda detta “collegata” (in presenza di quote di partecipazioni maggiori del 50%). 13 Eccezion fatta, ovviamente, per alcuni settori che nello schema NACE sono il settore L (amministrazioni pubbliche, difesa e assicurazioni sociali obbligatorie), il settore P (servizi alle famiglie) e il settore Q (servizi internazionali ed extraterritoriali), ovvero, nel nuovo schema Ateco 2007, rispettivamente i settori O, T ed U. 14 Una testimonianza della equivocità delle sovrapposizioni spesso introdotte in modo inavvertito, ancorché in perfetta buona fede, e sostanzialmente legittimo, sono le parole con cui Marco Citterio, imprenditore artigiano e presidente, all’epoca, della Camera di Commercio di Como, apriva i lavori della quinta conferenza sull’artigianato della Lombardia, svoltasi nel 2003: “Il mondo dell’artigianato è un mondo molto variegato - qualcuno parla di galassia dell’artigianato - all’interno del quale c’è tutto e il contrario di tutto. C’è la piccola impresa, c’è la mononuclearità imprenditoriale, c’è il lavoro autonomo. Credo che l’artigianato, nel suo complesso, rappresenti oggi un elemento importante nell’economia di frontiera perché coniuga il concetto di tradizione con quello dell’innovazione. Ho parlato di mononuclearità imprenditoriale, una volta la libertà di intraprendere era

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quanto le attività professionali, da un lato, e le produzioni industriali, dall’altro. L’’unica condizione discriminatoria15 affinché anche le attività artigiane e quelle professionali possano entrare nello specifico club delle PMI, lo si ripete, è che tanto le une quanto le altre siano svolte nell’ambito di vere e proprie imprese considerate le sole beneficiarie delle agevolazioni. Conseguenza di quanto appena detto è il fatto che, con riferimento agli usuali schemi di classificazione delle attività economiche (NACE oppure ATECO) e indipendentemente dalla loro natura (come si è appena detto, che esse siano oppure non siano artigiane assolutamente non rileva), le piccole e medie imprese finiscono per essere presenti in qualunque settore di attività economica. Va pertanto con sé che, in una circostanza del genere, non si può avere corretta contezza dell’effettiva incidenza che le imprese artigiane hanno sul totale delle piccole e medie imprese. E va da sè, in pari misura, che se non si dispone di una idea anche di masssima della dimensione del fenomeno e nemmeno di un criterio preciso per identificare i soggetti di quel fenomeno non possono in nessun caso proporsi specifiche politiche di sostegno. D’altra parte, la differenziazione tra generica piccola impresa e impresa specificamente artigiana non può essere colta senza l’introduzione di criteri diversi da quelli meramente dimensionali ovvero senza la predisposizione di appropriati e corretti strumenti di rilevazione. Questa situazione spiega perché la stessa Commissione non abbia finora tentato di elaborare alcuna definizione di “impresa europea a carattere artigianale” né di predisporre politiche dedicate al settore e si sia limitata a riconoscimenti formali e di principio. In effetti, la principale, e a conoscenza di chi scrive, l’unica iniziativa della Commissione europea dedicata specificamente ai problemi dell’artigianato è l’istituzione, nel 1990, della Accademia europea dell’artigianato – o “Accademia di Avignone”, dal luogo in cui fu insediata (cfr. riquadro).

caratterizzata fondamentalmente dai coltivatori diretti e dagli artigiani, ora invece è insidiata anche dai lavoratori interinali e dai cosiddetti Co.co.co.” (Tosti, 2004; pagg. 46-47.. Corsivi aggiunti). 15 Viene peraltro introdotta una agevolazione per eventuali organismi pubblici. Infatti, lo status di impresa autonoma si conserva e la soglia del limite della quota di capitale o della partecipazione azionaria aumentare oltre il limite del 25% fino ad un valore massimo pari al 50% se l’investitore appartiene a uno dei seguenti gruppi: 1) società pubbliche di partecipazione, società di capitale di rischio o “business angels”; 2) università e centri di ricerca che non abbiano scopi di lucro; 3) investitori istituzionali, compresi i fondi di sviluppo regionale; 4) amministrazioni locali autonome che abbiano un bilancio annuale inferiore ai 10 milioni di euro e una popolazione di non più di 5 mila abitanti.

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L’Accademia europea dell’artigianato L’Accademia europea dell’artigianato – o “Accademia di Avignone”, dal luogo in cui fu istituita nel 1990 – rappresenta la principale iniziativa della Commissione europea dedicata specificamente ai problemi dell’artigianato. Di concerto con altri organismi comunitari - in particolare l’Osservatorio europeo delle Pmi – l’Accademia dovrebbe partecipare “alle azioni, ai lavori e alle riflessioni sulla situazione e sul riconoscimento dello Statuto delle piccole imprese e dell’impresa individuale, dello sviluppo e della valorizzazione dell’apprendistato, della cooperazione fra imprese e organizzazioni d’imprese, come pure del sostegno allo sviluppo di un’identità e di una cultura europee dell’artigianato e della piccola impresa”. Uno dei principali obiettivi dell’Accademia è quello di “monitorare e convogliare le esperienze degli antichi mestieri verso istituzioni appropriate, non solo per salvaguardarne le tradizioni, ma anche per farne fonte di occupazione e di crescita sociale”. Più in particolare, attraverso i suoi collegamenti istituzionali con università e istituti specializzati europei, l’Accademia è tenuta per statuto a conseguire i seguenti obiettivi: • valorizzare la dimensione culturale dell’artigianato e della piccola impresa; • elaborare strategie utili per le organizzazioni nazionali ed europee; • recuperare i mestieri tradizionali; • diffondere lo spirito imprenditoriale; • implementare la cultura della socializzazione del lavoro; • sostenere l’apprendistato.

Fonte: Regione Piemonte – Osservatorio dell’artigianato (2003, p. 11) Le imprese artigiane sono prevalentemente micro-imprese (meno di 10 dipendenti) e, più in generale, piccole imprese (< 50 addetti) e solo in quanto tali possono essere destinatarie di politiche promosse dalle varie Direzioni ed ammesse a beneficiare dei programmi dei fondi strutturali. Si tenga presente, per converso, che nei Paesi dove l’artigianato è riconosciuto a livello legislativo e di conseguenza è fatto oggetto di provvedimenti ad hoc questi provvedimenti incontrano l’opposizione della Commissione non tanto di per sé, ovvero per l’orientamento all’artigianato che esse in qualche modo veicolano, ma in quanto appartenenti alla più ampia e generica categoria delle “piccole imprese”: con ciò non di perequazione si tratta bensì di manifesta violazione dei principii di libera concorrenza tra gli operatori e di trasparenza dei mercati. Di conseguenza ingiustificabili e perseguibili. In definitiva, l’assenza di una base statistica omogenea, o quantomeno comparabile, fra i vari paesi rende impossibile definire l’artigianato oggetto – e dunque beneficiario – di specifici interventi e giustifica, entro certi limiti, il fatto che l’attenzione della Commissione Europea sia alla piccola impresa in generale, con la sguardo portato ben al di là del fenomeno “artigianato”.

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Un involontario sigillo sul riconoscimento della difficoltà di definire l’impresa artigiana: lo studio dell’Istituto “G. Tagliacarne” (2001) Da segnalare, a conferma di quanto appena ricordato, è un documento, risalente all’oramai lontano novembre 2001, elaborato dall’Istituto Guglielmo Tagliacarne per conto della Commissione Europea, e contenente una “proposta per lo sviluppo di una metodologia per raccogliere e raggruppare dati statistici sulle piccole imprese artigiane in Europa”. Nel documento, di poco meno di 30 pagine, si ribadiva che la disponibilità di dati statistici ed economici sugli impianti delle imprese europee è per lo più soddisfacente in quanto fornisce informazioni di natura qualitativa proporzionali al fabbisogno di conoscenze” (p. 3). Si confermava, peraltro, che la domanda di informazioni in merito a speciali sotto-gruppi di imprese viene soddisfatta in modo molto meno dettagliato e che la lacunosità dell’offerta statistica riguarda in modo particolare le imprese artigiane. Ciò deriva, veniva fatto notare, dalla diversità dei modi di guardare all’artigianato e di provvedere alla organizzazione delle specifiche rilevazioni. In particolare (p. 8) si osservava che:

a livello europeo i dati disponibili non permettono in alcun modo delle comparazioni e per di più tendono a sottostimare le dimensioni effettive complessive del fenomeno; solo nei Paesi in cui vi è una legislazione di riconoscimento e tutela, e in parallelo anche un numero considerevole di imprese artigiane, queste ricevono una specifica considerazione e vedono enfatizzata l’importanza economica rivestita nell’ambito delle economie di quei Paesi; in Spagna e nel Regno Unito, dove per artigianato si intende correntemente quello artistico, l’apporto delle imprese dello specifico comparto viene, molto probabilmente, sovrastimato; nei Paesi in cui invece prevale l’approccio lessicografico professionale (cioè una elencazione delle attività che sono da ritenere svolte in maniera artigiana) e si prescinde da qualsiasi riferimento a soglie dimensionali il peso relativo dell’occupazione artigiana è generalmente alto (un po’ meno alto lo è nel caso dell’Italia).

La varietà e complessità delle fonti di discrepanza suggeriva di avviare uno sforzo paziente di omologazione dei canoni descrittivi e analitici dell’impresa artigiana lavorando sulle quattro dimensioni più ricorrenti, ossia: a) la ragione legale riservata o prevista per le imprese artigiane; b) il contenuto professionale delle attività svolte; c) il tipo di settore economico in cui inscrivono le attività svolte dalle imprese; e, infine d) le dimensioni in termini di occupazione.

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Per inciso, si noti come, essendo relativamente pacifico il quarto punto (l’aspetto quantitativo), la dimensione qualitativa della produzione artigiana si ritroverebbe definita per l’apporto degli altri tre punti, ovvero, ancora una volta, con l’incrocio di ben tre variabili: legale (a), tecnica (c) e di merito (b). Ciò riconferma, in altre termini, la natura complessa della relazione dialettica e sinergica al tempo stesso tra contenuti professionali delle attività svolte, settore di attività di riferimento (come da elenchi tipo Nace o Ateco) e movente dell’organizzazione, potendo essere la creazione di imprese, all’estremo opposto, null’altro che una occasione di autoimpiego ovvero la condizione di esercizio di un lavoro autonomo, mestiere o professione che sia. Lo sforzo avviato più di un decennio fa non sembra essere approdato a risultati concreti ed operativi. Si pensi, per inciso, alla lunghezza dei tempi richiesti per addivenire ad un documento tutto sommato provvisorio, sostanzialmente propedeutico a qualsivoglia tentativo primordiale di stilare la bozza di uno Statuto dell’Impresa Artigiana. In effetti, il documento propositivo citato poco sopra è stato pubblicato nel 2001 a conclusione di un ciclo di incontri e di lavori iniziato nel 1996! Si conferma, in ultima analisi, la legittimità di un sospetto: cioè che le difficoltà di sistemazione statistica non siano che l’altra faccia delle difficoltà di ordine analitico nel trattare il fenomeno dell’artigianato. Pertanto, se persino in sede europea restano del tutto evidenti i conflitti tra la condivisione di una attenzione di principio al fenomeno e la possibilità di addivenire a una qualche definizione di parametri utili per la ricerca statistico-economica, non deve stupire se la maggior parte delle statistiche comunitarie e la stragrande parte delle indagini sulle PMI sono al massimo settoriali (per comparto, Nace o Ateco che sia) o limitate a specifici settori di attività economica (in primis: l’artigianato artistico). D’altro canto, però, c’è da aspettarsi che nessun lavoro sull’artigianato potrà mai concludersi con soddisfazione e approdare a risultati seri e dirimenti se non parte col piede giusto e con le domande corrette: non tanto chiedersi “come identificare l’impresa artigiana” quanto piuttosto domandarsi “cosa è di per sé una impresa artigiana” e se abbia un senso distinguerla da una generica piccola impresa non artigiana la quale già di per sé ha il problema di trovare, almeno nella teoria, un suo spazio peculiare, legittimo e riconosciuto, ancor prima di qualificarsi per ulteriori specifiche qualificazioni. Su due tentativi di risposta alla domanda posta nei suoi termini essenziali “ovvero: cosa debba intendersi per impresa artigiana” ci si soffermerà nel capitolo che segue. I ragionamenti ivi richiamati consentiranno almeno di capire come mai sia così difficile delimitare in modo ragionevole e pacifico l’universo dell’artigianato. Il riferimento ad un diverso, e sostanzialmente diverso, terzo caso, quello di una indagine operativa, farà poi da controcanto per evidenziare come aggirare l’agenda delle elaborazioni necessarie può portare a risultati anche di un certo interesse anagrafico ma non conduce nella direzione auspicata e concettualmente obbligata.

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Le piccole dimensioni: belle ma (in teoria) scomode Premessa La comprensione dei principali motivi teorici per cui può rivelarsi oltremodo arduo qualunque tentativo di sistemazione concettuale e analitico-catalografica delle imprese artigiane si appoggia, in quanto segue, a due specifici filoni di riflessione: il primo, maturato oramai un quarto di secolo fa, proprio nell’ambito dell’Università di Perugia per l’apporto di un docente di scuola sylos-labiniana; del tutto indipendente dal primo, ma con alcuni significativi punti di contatto, portato avanti da uno specifico gruppo di ricerca in seno all’Università di Dunkerque, in Francia, il secondo. La presentazione dei due contributi segue nei due successivi paragrafi mantenendoli distinti e dunque introducendoli separatamente anche se alcune sovrapposizioni appaiono evidenti. La differenza dei punti di avvio per la trattazione, la distanza temporale e geografica, la diversa natura dei sottostanti programmi di ricerca giustifica una decisione del genere. Ci si limiterà, pertanto a mettere in evidenza, di volta in volta, gli aspetti di convergenza di maggiore interesse ai fini della presente trattazione. Il contributo di Mauro Ridolfi 16 Parte di un più ampio percorso di ricerca di un fondamento generale capace di fungere da spartiacque tra imprese di differente consistenza, il contributo qui richiamato si estende a cercare di cogliere anche un fondamentum divisionis tra attività (e dunque imprese) industriali e attività (e anche imprese) artigiane. Queste ultime essendo parte importante ma non esaustiva della categoria delle “imprese minori”. In effetti, osserva l’autore (p. 126), qualunque criterio analitico che si imperni su un dato quantitativo non può cogliere la specificità qualitativa dell’impresa artigiana. Tanto più se il criterio quantitativo viene formulato nell’ambito di teorie tradizionali dell’impresa. “Per queste ultime, infatti, le imprese fronteggiano un unico tipo di divisione tecnica e organizzativa del lavoro (quello industriale) con un unico percorso verso l’efficienza produttiva ….” e di conseguenza non vi è spazio alcuno per modalità diverse di divisione tecnica e organizzativa del lavoro e dunque non vi è spazio in assoluto per l’impresa artigiana. Al massimo e a fatica si potrebbe se mai riconoscere il diritto all’esistenza di una impresa piccola anche se industriale: solo se di recente costituzione oppure finalizzata alla sperimentazione di un nuovo prodotto per il quale il mercato è ancora sottile o per altri insormontabili vincoli di mercato (densità geografica, barriere geografiche, eccetera). Senza alcun altra preoccupazione o dubbio intellettuale. Lo schema di funzioni e comportamenti standard dell’impresa industriale, postulava per quest’ultima un comportamento di massimizzazione dei profitti in un orizzonte

16 Mauro Ridolfi (1985), pp. 214. Si veda anche Regione dell’Umbria (1981), dove sono già presenti alcuni spunti anticipatori delle riflessioni successive nel contesto di un lavoro a più mani predisposto in vista della elaborazione di una specifica legge regionale.

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tecnica del lavoro e organizzazione delle mansioni “tipiche”, per l’appunto “artigiane” e “che producono ed offrono sul mercato prodotti e servizi qualificabili come “artigiani” [avrebbero potuto] rientrarvi soltanto a condizione che [fossero stati] rimossi alcuni postulati” (p. 127). Infatti, riassumendo un ragionamento assai più esteso, si dovrebbe ritenere, seguendo l’ortodossia standard, che: 1) se data la tecnologia conosciuta, l’impresa artigiana è, come si assume, meno produttiva (in termini meramente tecnici ovvero quantitativi) dell’impresa industriale, allora essa dovrebbe, prima o poi, scomparire; 2) ma se, nonostante la debolezza strutturale e la incidentalità del suo esistere, essa continua a sopravvivere allora la sua persistenza deve essere ascritta a specifici connotati extra-economici che non interessa qui mettere in evidenza17; 3) e se si dovesse ancora rilevare che, nella realtà, un certo numero di imprese autenticamente artigiane (nel senso che si specificherà tra breve) continua regolarmente a nascere, sia pure confuse tra le altre imprese che sarebbero industriali se ad esse non fosse consentito il qualificarsi, surrettiziamente e furbescamente, artigiane (in virtù del godimento del solo requisito della piccola dimensione) allora ciò dovrebbe ascriversi a ragioni di assistenzialismo clientelare, di paternalismo, di isolamento dei mercati ed altro ancora (ivi, p. 128). Se, al contrario, si condividesse la diffusa insoddisfazione per il modello standard e se, accogliendo l’idea del diritto dell’impresa artigiana ad esistere, sul piano concettuale, ci si trovasse: a) ad essere insoddisfatti di un mero ricorso a parametri dimensionali, ritenendo che non sia la (piccola) dimensione a qualificare, da sola, l’impresa artigiana; e b) ad essere altrettanto insoddisfatti per l’introduzione del criterio della partecipazione dell’imprenditore alla attività produttiva e il suo coinvolgimento in fasi applicative e “manuali”, dal momento che una tale presenza la si ha anche nell’impresa non artigiana ma industriale, per quanto di piccole dimensioni, allora l’esito del ragionamento non potrebbe che essere quello di ritenere che l’impresa artigiana è piuttosto qualificata come tale “quando il processo lavorativo (prevalente) venga compiuto con strumentazione artigiana, utilizzata con la singolare maestria e destrezza manuali del lavoratore artigiano” (p. 131). In altri termini, ciò che rende artigiana una impresa di piccole dimensioni è un insieme di connotazioni tecnico-economiche del processo lavorativo e dunque l’insieme non disgiungibile di una dotazione di strumenti artigiani e di una maestria, ossia di una destrezza nell’uso di quegli strumenti18. E la destrezza posseduta deve essere tale da

17 Che si tratti di elementi di ordine sociologico o istituzionale, quali la partecipazione diretta del titolare e dei membri della sua famiglia al processo lavorativo dell’azienda e così via, o di altro ancora si tratterebbe comunque di una violazione grave del principio dell’esistenza di una sola tecnica, la più efficiente, a fronte di un universo di infinite piccole imprese che in regime di concorrenza perfetta sarebbero “costrette” ad utilizzarla per rimanere competitive, ma nulla più, sul mercato. 18 Tale è, al limite, il caso delle estetiste che spesso anche senza ricorrere a particolari utensili compiono operazioni con una destrezza che diventa elemento di comparazione agli occhi della clientela che ad esse si rivolge. Resta tuttavia il rischio di finire per assimilare la produzione artigiana alla produzione artistica: alla

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riuscire a condizionare la qualità dei lavori (fornitura di merci ed erogazione di servizi) e, a monte, la stessa dislocazione interna e la ripartizione dei compiti tra diversi laboratori della bottega. Nella prospettiva delineata è evidente, e verrebbe da dire: normale, sottolineare il fatto che può esserci inclinazione ed abilità nell’associare destrezza e disponibilità di macchine anche estremamente perfezionate, persino automatiche e, al limite, di veri e propri robot. Anche in un caso del genere, in cui la tecnologia sembrasse oltremodo dirimente, l’osservazione in diretta del processo produttivo aiuterebbe a sciogliere il dubbio circa l’attribuzione dell’attività apparentemente sofisticata alla categoria dell’artigianato oppure a quella della piccola industria, una volta acclarata la condivisione di parametri quantitativi quali quelli relativi all’organico dei dipendenti o all’entità del capitale investito. L’aspetto cruciale è che ad ogni livello (ovvero, in ogni fase storica) si rendono disponibili macchine, che possono legittimamente entrare a far parte della strumentazione operativa a disposizione dell’artigiano, con ciò concorrendo ad elevare la capacità di produrre con maestria ossia migliorando la produttività di alcune fasi di produzione nelle quali la standardizzazione potrebbe essere ineliminabile. D’altra parte, osserva Ridolfi (p. 132), va anche tenuto presente che la produzione artigiana, “non è di necessità indivisa sì che il bene finale, merce o servizio che sia, debba essere seguito dall’inizio alla fine da un maestro artigiano pena la sua derubricazione a processo industriale”. Le procedure di lavorazione di uno stesso bene sono, lo si deve ammettere, notevolmente cambiate nel corso del tempo. Una maggiore articolazione degli apporti e una maggiore complessificazione delle relazioni sociali, tecniche ed economiche incorporate negli scambi economici fanno sì che sia oggi più esteso di un tempo il ricorso al mercato piuttosto che all’autoproduzione per il reperimento di merci intermedie e semilavorati. Ciò rende forse più arduo riconoscere la produzione, ma non ne compromette la base fondamentale della sua esistenza: la capacità di trasformare la materia, anche con l’uso di macchine, ma in virtù di sapienza ed esperienza: “.. va superata, in definitiva, una impostazione concettuale che induce a considerare l’artigianato in base a connotazioni di senso comune, ereditate da epoche precedenti la rivoluzione industriale, e a parametri quantitativi19” (pp. 132-133). Disbrigata, in qualche modo, la questione della divaricazione tra impresa artigiana e impresa industriale una seconda, cruciale questione è quella relativa alla formulabilità di un criterio di distinzione tra attività artigiana e prestazione d’opera o di mestiere.

produzione, cioè dell’oggetto singolo, del pezzo unico, di per sé non replicabile nello stesso processo che gli ha dato vita. 19 Si consideri che l’appoggiarsi su criteri quantitativi anche per definire l’impresa artigiana oltre che la piccola impresa industriale si apre al rischio che una autentica lavorazione artigiana possa non essere riconosciuta come tale per la presenza di un solo addetto di troppo mentre una piccola impresa industriale che non eccedesse i limiti potrebbe, sol volendolo, continuare a chiamarsi artigiana (cfr. Regione dell’Umbria, 1981, p. 18-19.

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Per prestazione di mestiere, in tutta coerenza con l’impianto e le discussione precedenti, dovrebbe intendersi il lavoro erogato da singoli individui i quali, essendo in possesso di una particolare specializzazione, assicurano la produzione di merci e/o la erogazione di servizi seguendo procedimenti apparentemente simili a quelle del processo produttivo artigiano: ciò in quanto sono in grado di fare perno su e di esercitare corrispondente richiamo con lo svolgimento di alcune fasi di lavoro svolte manualmente così come vengono svolte in imprese sicuramente artigiane. Così il guidare un carrello elevatore secondo le istruzioni del costruttore e gli obiettivi del datore di lavoro non sembrano ad alcuno le operazioni tipiche di una prestazione artigiana. E lo stesso vale per il riparatore che a fronte di un guasto si avvale di uno strumento diagnostico appositamente predisposto, ne segua le indicazioni e, su segnalazione dello strumento, provveda a sostituire con ricambi sani i pezzi difettosi e difettati. Altro sarebbe se il riparatore, mettendo in campo competenza ed esperienza, combinasse da sé le parti di ricambio e interpretasse con opportune manipolazioni le indicazioni strumentali ricevute al fine di un lavoro più personale e qualificato. In effetti non è la complessità della macchina a generare la destrezza dell’operatore. Anche in questo caso, dunque, la base della distinguibilità tra un artigiano e un lavoratore manuale (autonomo) di mestiere è da ricercare nella “base tecnica del lavoro” e nella “essenziale formazione professionale che l’uso della strumentazione artigiana richiede” (p. 140). In altri termini il fatto dell’uso degli stessi strumenti non può essere ritenuto condizione sufficiente ad assimilare il lavoratore autonomo di mestiere all’artigiano: quest’ultimo, infatti, si contraddistingue per un plus di abilità che deriva dalla conoscenza del lavoro e dalla confidenza stretta con gli strumenti utilizzati. Accanto all’impiego di utensili, per quanto semplici, e/o di macchinari, per quanto elementari, un qualsiasi lavoro può trasformarsi in lavoro artigiano solamente per la contestuale presenza ovvero in virtù dell’esercizio, di “quella” destrezza e di quella “maestria” con cui strumenti generici si trasformano in strumenti del lavoro artigiano e fanno sì che l’attività svolta possa essere considerata attività artigiana e si possa così concludere che “la sapienza manuale è la base tecnica, in senso proprio, della lavorazione artigiana” tanto nella produzione di merci quanto nella erogazione di servizi. Benché appaia in prima battuta circolare il ragionamento appare ineccepibile: è da considerare artigiano un lavoro svolto con abilità artigiana, cioè con la sapienza basata su una lunga esperienza quale è quella di chi è consapevole di fornire un bene che proprio per la reputazione, per dirla con termine tornato di gran moda, di cui gode e che è stata acquisita sul campo, è percepito come artigiano. Certo è che l’uscire dalla apparenza di circolarità sarebbe più facile qualora fosse stata affrontata e fosse stata risolta la questione cruciale e centrale della classificazione amministrativa e statistica delle imprese (e delle attività) artigiane. Lo snodo delicato, come si intuisce, è nella procedura del riconoscimento del carattere artigiano di una lavorazione. Questo avviene, di fatto, sul mercato, laddove la dichiarazione di intenti originaria (la mission dichiarata o l’assegnazione di ufficio al

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comparto o l’iscrizione su basi formali ad uno specifico albo) deve trovare conforto e suffragio nel comportamento dei consumatori. Questi, infatti, sanno riconoscere e riconoscono le caratteristiche inconfondibili del prodotto artigiano, si rendono conto della collocazione di quest’ultimo in una fascia di mercato “diversa” e soprattutto speciale e dunque dello “spazio di caratteristiche” per dirla à la Lancaster, del tutto peculiari rispetto alla produzione industriale, anche se di piccola scala, o alla produzione del lavoratore autonomo. Qui occorre peraltro fare attenzione perché non sempre la comparazione è possibile in quanto non sempre il consumatore ha di fronte a sé una gamma di tipologie così netta come si deduce dal ragionamento appena svolto. Detto in termini più espliciti: non sempre esistono quei prodotti industriali o quelle prestazioni di lavoro autonomo che si differenziano, in negativo, per così dire, dalle attività artigiane. Tipico è l’esempio dell’attività di parrucchiere, svolta in forma artigiana senza possibilità di confronto con altre. O, al contrario, l’attività di imbottigliamento del vino, svolta essenzialmente con l’ausilio di macchinari automatizzati e senza ragionevole possibilità di scegliere l’alternativa artigiana. Tanto nel primo quanto nel secondo caso la sostanza e la plausibilità del ragionamento precedente non ne vengono assolutamente compromesse20. L’elaborazione in seno all’Università di Dunkerque A Dunkerque, in seno al laboratorio di ricerca sull’industria e l’innovazione un gruppo di studiosi è impegnato da alcuni anni in un laborioso impegno di approfondimento della dimensione imprenditoriale nella società moderna21. Il quadro teorico di riferimento si articola intorno a due binomi paralleli e intersecantisi al tempo stesso e di cui ci si ripromette di analizzare il modo in cui si sono articolati e le funzioni assolte: 1) grande impresa (piccola) impresa artigiana; 2) imprenditore generico imprenditore artigiano (Boutillier e Fournier, 2009 , p. 6). Convinzione trasversale degli autori è l’idea che l’artigianato sia in qualche modo “a-storico”, sia cioè una realtà costante e cangiante al tempo stesso, una realtà che si adatta all’evoluzione storica aggiornando le proprie forme al mutare dei caratteri qualificanti dei processi produttivi. Ecco dunque che delle due contrapposizioni richiamate quella tra la “grande impresa” e l’impresa artigiana è quella più “scontata”: con la grande impresa che si pone come 20 Per una impostazione antitetica, di sostegno forse involontario alla tesi di quanti vorrebbero confinare l’artigiano nel serraglio dei mestieri tipici e tradizionali si veda Bin (1983, p. 160 e segg.). In effetti, osserva l’Autore che “nella realtà socio-economica … appare lampante che la classificazione tra “piccolo industriale” e “artigiano” … è almeno in larga misura del tutto priva di senso”. Punto fermo e sicuro, nell’analisi economica e sociologica sulla cosiddetta “imprenditorialità minore” è … “che è sempre più vasta l’area delle imprese formalmente artigiane … le quali … non presentano più alcuna reale diversità rispetto ad una piccola impresa industriale” (pag. 165). 21 Programma e resoconti di ricerca essendo assai densi il rinvio alle opere segnalate nel prosieguo e all’ampia produzione bibliografica ivi citata è assolutamente d’obbligo.

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una sorta di “avatar” delle economie di scala, il conseguimento delle quali poggia su una separazione tra l’ideazione e la produzione e dunque sulla negazione del concetto stesso di mestiere (sostituito da quello di fase di un processo o mansione di una unità di lavoro) che invece è ben presente nella impresa artigiana e nella attenzione che in questa viene posta alla integrità/pienezza del ciclo produttivo. Ma l’antagonismo non si appoggia alla contrapposizione tra tradizione e modernità: le nozioni di economie di scala e con esse la realtà delle grandi imprese sono ben presenti nella storia dell’uomo fin da tempi remoti22. Dunque l’antagonismo non è da ricercarsi seguendo la contrapposizione tra serialità (e dunque economie di scala) e unicità (e dunque opera d’arte): se mai può essere riconosciuto tra l’idea di una organizzazione che, presidiando una singola fase con produzione seriale, intermedia tra fattori produttivi (a monte) e prodotti (a valle) in una economia di mercato capitalistica e l’operare fattivo nella bottega artigiana ove ci si attenga ad una logica sì di unità ma di unità riferita ad un processo produttivo capace di innovazione, anche continua, nel prodotto (si veda, in appendice B, una rappresentazione dello spazio che si apre alla collocazione delle imprese per tipo di rapporti con la clientela e/o col mercato, così come originariamente proposta in una ricerca condotta tra un gruppo di piccole e medie imprese innovatrici in Lombardia e nella prima metà degli anni ‘80 (Lassini, 1986)23. Di conseguenza l’antagonismo tra imprenditore generico e imprenditore artigiano si risolve, seguendo l’approccio del laboratorio in questione, ricordando che l’imprenditore generico della letteratura scientifica finisce per diventare una nozione astratta, un altro avatar che sta al posto del (e rappresenta il) capitalismo organizzato. Anche nella versione schumpeteriana che ne enfatizza il ruolo distruttivo e creativo al tempo stesso, ad agire è una entità disincarnata, anonima, frammentata e dispersa nelle mille pieghe del capitale azionario e tecnocratico – si pensi alle conclusioni di Galbraith (1968) – sì che alla fine evapora in un anonimato di fondo non troppo

22 Gli autori di una intrigante e ben documentata storia dell’organizzazione del lavoro umano nel suo processo evolutivo (Kranzberg e Gies, 1991) sostengono che “la divisione del lavoro è probabilmente vecchia come l’homo sapiens, e precede forse di fatto l’apparizione della specie umana. Infatti, l’organizzazione del lavoro attraverso la divisione dei compiti può aver giocato un ruolo, a fianco degli strumenti, di una più complessa struttura del cervello, e della presenza di un linguaggio, nella differenziazione dell’uomo da altri specie animali” ( p. 20). Così, tanto la prima divisione del lavoro per genere e forse per età, poi la comparsa dell’agricoltura a fianco della caccia e delle più elementari pratiche di raccolta dei frutti della terra e, più avanti (dopo la scoperta della lavorazione dei minerali non metalliferi e della tessitura), l’”invenzione” della metallurgia possono essere lette come antiche e primordiali manifestazioni di una attenzione, per quanto non consapevole, alle economie di scala che sono rese possibili dalla divisione dei lavori e dalla comparsa di beni capitali o strumenti di lavoro indivisibili (il fuoco). Esemplare, secondo gli autori citati, l’organizzazione in epoca romana della tessitura e tintura delle tuniche, ogni laboratorio essendo specializzato in uno specifico colore (p. 50). 23 Per una rappresentazione alternativa si veda Confartigianato et al., (1990, p. 29) laddove, peraltro, l’attenzione è focalizzata sulle dinamiche di crescita quali possono essere selezionate in un complesso quadro di collegamento tra una ventina di classi dimensionali di impresa e quasi altrettante variabili collegate alle dinamiche delle imprese. Col limite, evidente, di essere indirizzato non tanto all’impresa artigiana quanto, ancora una volta giocando sulla sovrapposizione di identità, alla piccola impresa.

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distante da quello cui lo stesso Walras costringe il suo coordinatore dei mercati. Paradossalmente, la resurrezione dell’imprenditore schumpeteriano nel senso più autentico del termine si incarna nella figura dell’imprenditore artigiano piuttosto che in quella della proprietà che si fa carico della gestione. Padrone, dunque, e come tale nemico di classe. Innovatore radicale, e come tale sostituito da una porzione del microcosmo sociale che si riconosce nell’organizzazione. Mentre se si assume che l’innovazione procede incrementalmente, in modo addirittura informale e non scandito dai tempi di una programmazione minuta e rigorosa, allora si possono vedere i frutti di un aumento continuo e progressivo dello stock di conoscenze/competenze quali sono i miglioramenti dei risultati dell’impresa senza che sia necessario im-maginare un saper fare radicalmente nuovo. Come si è già sottolineato, anche senza la titolarità di una prelazione sulla creazione di prodotti nuovi l’imprenditore artigiano può essere accreditato, in primo luogo, di un ruolo specifico sul fronte dell’innovazione. Inoltre esso viene oggi enfatizzato in quanto in una situazione di bassi livelli occupazionali e forti rischi di fuoriuscita dai mercati del lavoro, quella dell’artigianato si pone come frontiera di resistenza alla disoccupazione e alla perdita di ricchezza che quest’ultima comporta. Una volta fatta fuoriuscire dal limbo di un esistenza a metà residuale e a metà chimerica, l’impresa artigiana può finalmente essere vivisezionata per cercare di capire quanto il suo animatore, l’imprenditore artigiano, si approssimi all’idealtipo dell’imprenditore (2006, pag. 7): quanto conservi dell’homo oeconomicus, cioè dell’odioso agente economico24 che mediante l’uso esclusivo della sola ragione posta al servizio del suo egoismo massimizzante cerca di districarsi dai vincoli dei prezzi dei fattori produttivi e quanto, eventualmente, se ne discosti. Il che costituisce, per l’appunto, la pista di lavoro seguita dal “gruppo di Dunkerque”. Sei nozioni di artigianato meglio di una? Da ultimo si è ritenuto opportuno riservare almeno una citazione, per completezza, anche ad un approccio operativo, proposto in Lombardia nell’occasione della V Conferenza lombarda dell’artigianato, sviluppato in seno ad un gruppo di lavoro costituito presso l’Irer e illustrato da Alberto Bramanti, docente della Università Bocconi. Gli estensori della ricerca condividono l’idea che essendo l’artigianato “un mondo ricco, articolato, ‘composito’ … la definizione stessa di artigianato, e di impresa artigiana, non è esente da alcune problematicità teoriche e applicative di natura prevalentemente economica e non tanto di natura giuridica. All’interno di tale mondo operano infatti soggetti economici molto differenti per formule organizzative, per aree di business, per livello di autonomia strategica differenze che suggeriscono di distinguere, nel più vasto comparto, alcuni sottoinsiemi di attività artigiane

24 Frank, 1998, pp. 21-23.

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economicamente più simili, rispetto alle quali articolare l’analisi e mettere a fuoco appropriate politiche”25. Segue una provvisoria distinzione26 di sei sottoinsiemi artigiani: tre riferiti ad attività del comparto manifatturiero e tre invece riferiti al comparto dei servizi: 1) Artigianato “artistico e tradizionale”, ovvero l’artigianato più legato alle tradizioni locali, fortemente appoggiato sulla trasmissione di saperi e caratterizzato dalla prevalenza di lavoro manuale; un artigianato, in sostanza, il cui prodotto è notevolmente differenziato da quello industriale, per quanto riguarda le tecnologie produttive, i mercati di sbocco, e i canali commerciali e che si ritrova, molto spesso, legato al comparto turistico. In questo sotto-insieme il ruolo di magister di un imprenditore artigiano che crea il prodotto attraverso la fusione di manualità e creatività, per la regia di una lunga e approfondita esperienza27, è molto più evidente e rilevante. 2) Artigianato “manifatturiero di produzione”, generalmente operante all’interno di sistemi produttivi territoriali (si pensi ai distretti, ma anche alle lavorazioni collegate all’industria di media o grande dimensione), contraddistinto da processi, anche importanti, di subfornitura e di interconnessione dell’impresa artigiana nelle catene del valore che si estendono anche all’esterno della singola regione e capace spesso di lavorazioni specializzate riferite anche ad apparati complessi e sofisticati. È questo un sotto-insieme fortemente eterogeneo28 ove convivono imprese marginali ed aziende fortemente competitive. 3) Artigianato “edile” (o delle costruzioni), che, almeno sotto il profilo numerico, rappresenta quasi sempre una quota importante dell’intero comparto artigiano regionale (intorno al 23% in termini di imprese) e si connota per una ricca articolazione produttiva29 che va dai lavori di sbancamento dei terreni alle attività di fabbricazione e fino a tutte le attività ausiliari e di servizio all’edilizia. 4) Artigianato “di servizio per il sistema produttivo”, in grado di espletare attività di erogazione di servizi produttivi su richiesta delle imprese agricole, industriali, o terziarie, ampiamente articolato potendo svolgere dalle funzioni più tradizionali a quelle più «moderne» o a più alto valore aggiunto, o a più intenso utilizzo di professionalità elevate30.

25 Tosti, 2004, p. 55. 26 Ib., pp. 55 - 58. 27 In questa tipologia rientrano attività di produzione di articoli di oreficeria, vetreria, ebanisteria, ceramica, strumenti musicali, ecc. 28 Gran parte delle aziende incluse in questa seconda categoria sono, sotto lo stretto profilo aziendalistico, quasi del tutto «indistinguibili» dalle Pmi industriali e in questo caso, pertanto, è assolutamente naturale appartenere allo stesso target di eventuali politiche pubbliche. 29 Le imprese edili vivono comunque specifiche problematiche di un comparto «autonomo» quanto a logiche organizzative e, allo stesso tempo, direttamente influenzato dalle regole e dalle logiche dei sub-appalti (con tutti i problemi che attengono a questa specificità d’ambiente.) 30 Si tratta di un insieme numericamente contenuto (intorno al 4%) e tuttavia in crescita, pur considerando che per le attività qui incluse non sempre le nuove imprese scelgono la forma giuridica dell’impresa artigiana.

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5) Artigianato “di servizio per le famiglie e le persone”, e dunque finalizzato al soddisfacimento di bisogni privati, comparto, questo, la cui espansione si collega sia all’esternalizzazione di alcune attività (già svolte in home) al crescere del livello di benessere dei cittadini, sia all’aumentare del numero e dei contenuti dei bisogni (cultura, ricreazione, salute, cura domestica, servizi personali, ecc.). 6) Artigianato “di servizio di rete”, in qualche misura un ibrido tra i due precedenti, in quanto destinato a includere tutte quelle attività erogatrici di servizi acquisiti a titolo di “consumo intermedio” sia delle famiglie che delle imprese, con una dimensione specifica di interconnessione tra operatori economici. Il suo sviluppo discende dall’intensificarsi dei rapporti tra soggetti economici, come si intuisce per il caso del più rappresentativo dei servizi considerati appartenenti a questa categoria, cioè il trasporto (in particolare: l’autotrasporto) e, dunque, dal crescere di quella dimensione reticolare nella produzione del valore ormai fortemente sottolineata da numerosi attenti osservatori dei rapidi cambiamenti che la nostra società sta vivendo. Nonostante il suo aspetto seducente la tassonomia proposta non ha di fatto avuto seguito operativo e si risolve semplicemente nel distribuire in modo diverso dal solito uno stesso universo: quello delle piccole imprese che decidono da sole di qualificarsi come artigiane iscrivendosi all’apposito albo. Dunque, non una soluzione all’enigma dell’impresa artigiana ma un frazionamento e pertanto una moltiplicazione per sei31 dell’interrogativo di base: cosa deve intendersi per piccola impresa artigiana? Il che torna a riproporre, una volta di più, la questione della corrispondenza, da un lato, tra l’imprenditore artigiano e l’imprenditore astratto della teoria economica che incarna il progresso tecnico e la dinamica economica, e dall’altro tra imprenditore artigiano, attento alle innovazioni incrementali, e l’imprenditore schumpeteriano, capace di ritrovare nuove e vincenti combinazioni di fattori produttivi, e, ancora, tra l’imprenditore artigiano, preoccupato della promozione quanto della riproduzione sociale e l’imprenditore atomizzato della teoria neoclassica (Boutillier e Uzunidis, 2006, p. 8). Osservazioni transitorie Gli anni novanta sono stati fondamentali per costruire un nuovo scenario di riferimento per la piccola impresa e, di riflesso, per l’impresa artigiana. In questi anni soprattutto, è stato approfondito il ruolo di tali imprese nella partecipazione al processo produttivo (ad esempio nella sub fornitura) e nelle relazioni con il tessuto imprenditoriale in genere. Questo percorso ha portato nel giugno 2000 all’adozione, in sede comunitaria, a conclusione della Presidenza portoghese, della Carta europea delle piccole imprese32.

31 Di recente lo stesso Bramanti ha riproposto lo schema ma con una categoria in meno: quello dell’artigianato di rete, concettualmente seducente ma sfuggente sul piano empirico (Bramanti, 2008; p. 159 -160) 32 http://ec.europa.eu/enterprise/policies/sme/files/charter/docs/charter_en.pdf

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La Carta riconosce il dinamismo delle piccole imprese e l’importanza che esse rivestono nel creare occupazione e quindi il contributo che esse danno allo sviluppo economico locale e alla crescita sociale di un Paese. La Carta sottolinea la necessità di rimuovere quegli ostacoli di natura normativa, amministrativa, fiscale, che impediscono alla piccola impresa di rispondere in maniera efficace alle sfide della globalizzazione. In pratica si riconosce che il tessuto delle piccole imprese e delle imprese artigiane è un patrimonio economico e culturale che però va sviluppato, valorizzato e per certi versi anche salvaguardato, con la creazione di un ambiente economico favorevole. A tal fine, nella Carta ci sono delle affermazioni di principio che vanno nella direzione indicata. Ma, ancora una volta, né nel documento originale né negli aggiornamenti successivi si ritrovano tracce di un qualche sforzo indirizzato a risolvere il quesito su cosa debba intendersi, nel contesto europeo, per impresa artigiana. La distinzione dalla nozione generica di piccola impresa resta ancora tutta da fare. Né sembra sufficiente, per riuscire a distinguere l’artigiano, sottolineare la specificità della doppia anima: imprenditoriale e lavoratrice, laddove il riconoscimento della “sua creatività unita alla capacità di assumere quantità elevate di rischio e di coinvolgere attivamente (valorizzandoli) coloro che gli stanno vicino per raggiungere obiettivi significativi non solo dal punto di vista economico” (Bramanti, 2006, cit. in Bramanti, 2008, p. 156) appare più riferito alla evoluzione qualitativa, oramai inarrestabile, del modello organizzativo che ad un criterio di distinzione netta e indiscutibile. Ciò premesso è ovvio che il senso del mestiere, la capacità di muoversi con padronanza sul terreno delimitato dai paletti della cultura, della tradizione e dell’innovazione, il gusto della sfida al mercato, il contributo alla stabilità occupazionale e ai valori della democrazia economica sono in somma parte sostenuti proprio dalla presenza del comparto delle imprese artigiane. (ib., pp. 157 – 158). La “qualità del lavoro artigiano” in tre diversi modelli europei33 Se l’analisi degli approcci classificatori non aiuta a dirimere una matassa oltremodo ingarbugliata poco ausilio deriva da confronti tra gli schemi legislativi con cui nei principali Paesi europei si disciplina l’attività degli artigiani e/o delle imprese artigiane. A questo proposito si osserva che le differenze fra i vari “tipi” nazionali di artigianato si fondano tanto su storie diverse, a volte anche antiche di secoli, quanto su scelte politiche recenti. Se mai, è proprio sotto l’aspetto storico che può fondarsi una prima significativa distinzione fra i vari Paesi europei. La differenza è quella che sussiste fra quanti hanno riorganizzato e “regolato” il settore nel secondo dopoguerra, dopo la

33 Ove non diversamente specificato le informazioni riprese per questo capitolo provengono da Regione Piemonte – Osservatorio dell’Artigianato (2003), Mertins e Soelter (2008) e Osservatorio Artigiancassa (2007).

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fase della ricostruzione post-bellica (in particolare, Francia, Germania e Italia), e quelli che ciò non hanno ritenuto necessario fare. La tipologia qui richiamata individua tre modelli “forti” di artigianato, comuni a più paesi dell’Unione europea – ma ovviamente elaborati a grandi linee e, soprattutto, astraendo dal dettaglio delle specificità nazionali e sorvola su quello che all’inizio di questo lavoro è stato definito “residuale”, un quarto modello, cioè, tratteggiabile solo in termini di rassegna delle peculiarità di ciascun Paese. Le variabili prese in considerazione come discriminanti sono l’esistenza di una definizione legale, la soglia dimensionale, i settori, la disciplina relativa al ruolo imprenditoriale. Si tratta di una proposta di tipologia relativamente più articolata – ma analoga a quella proposta dall’Istituto Tagliacarne – di quelle più diffuse, che tendono a individuare soltanto due modelli, quello “mediterraneo” basato sulla dimensione aziendale e quello “teutonico” fondato sulla figura del titolare mastro artigiano. La versione “carolingia” del modello latino: la Francia34

Il primo modello è definibile coniugando la rilevanza basilare della dimensione di impresa con l’esistenza di una normativa che definisce e regola il settore e vi rientrano la Francia e l’Italia (di cui si dirà più estesamente più avanti) e, in parte, l’Olanda dove si accoglie il limite delle dimensioni deciso in sede UE per le PMI e, come in Italia, si offre un ventaglio assai ampio di comparti in cui si può operare sotto forma di impresa artigiana. L’esperienza francese, in particolare, presenta degli aspetti particolarmente illuminanti. A partire dalla storia dell’idea e del lessico in tema di artigianato. Infatti, in Francia, il termine “artigiano” rinvia ad una nozione di imprenditore solamente a partire dal 1920 mentre prima di quella data l’artigiano poteva essere uno schiavo oppure un servo. Era comunque definito come tale in funzione del mestiere esercitato e il termine “mestiere”, a sua volta compare tra il 15° e il 16° secolo per qualificare una qualche attività di lavoro e anche chi lo svolgeva. La locuzione genti di mestiere, invece, designava inizialmente le persone che esercitavano attività per le quali la conoscenza delle procedure era essenziale e dunque erano sostanzialmente dei letterati. L’artigianato “moderno” nasce, a sua volta, a metà degli anni ‘50 del secolo scorso, negli stessi anni in cui processi analoghi si dispiegano in Italia e in Germania. E come negli altri due paesi il riordino legislativo del settore (cfr. riquadro) costituisce solo in parte una soluzione di continuità rispetto alla situazione prebellica.

34 Per la Francia si vedano anche Boutillier (2003) e Boutillier e Fournier (2008 e 2009).

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L’evoluzione della normativa sull’artigianato in Francia Anche se sarebbe necessaria un’indagine più approfondita per evidenziare gli elementi di novità, è comunque possibile sostenere che la legislazione che regola il settore ha fini precisi di tutela e difesa dalla crescente liberalizzazione dei mercati di una serie di realtà costitutive del tessuto sociale ed economico francese, dal settore delle costruzioni dove permane vivace la tradizione antica di compagnonnage mai “estirpata” dalle leggi susseguitesi a partire dalla Rivoluzione, alla piccola impresa rurale specializzata nella trasformazione di prodotti agricoli, ma anche nel legno, nell’abbigliamento, ecc. Le tappe legislative più importanti sono state: • il 1955 con l’emanazione del Codice dell’artigianato, poi tradotto in legge nel 1958; • il 1983 con il decreto che riconosce la compresenza di imprese artigiane e di persone fisiche che hanno conseguito il titolo di mastro artigiano (vedi oltre nel testo); • il 1998, data dell’ultimo riordino, con la creazione della DECAS (Direction des Entreprises commerciales, artisanales et des services), una struttura amministrativa centralizzata direttamente dipendente dal Ministero dell’economia, delle finanze e dell’industria. La definizione giuridica di impresa artigiana è stabilita dalla legge sulla base di criteri relativi sia ai contenuti dell’attività, che alla dimensione e all’indipendenza dell’azienda.

Fonte: Regione Piemonte – Osservatorio Regionale dell’Artigianato (2003) Attualmente, viene considerato come “artigiano” qualunque soggetto, persona fisica o ente morale, iscritto al Registre des métiers (essendo l’iscrizione, come in Italia, obbligatoria). Più precisamente, secondo la legge del 5 luglio 1996, che ha definito alcune norme per lo sviluppo e la promozione del commercio e dell’artigianato, si devono iscrivere al repertorio dei mestieri tutti coloro che, impiegando non più di un certo numero di dipendenti, esercitino a titolo principale o secondario una attività professionale indipendente di produzione, di trasformazione, di riparazione o di prestazione di servizi che sia ricompresa nella lista di attività prescritte per decreto (con l’esclusione di agricoltura e pesca).

Definizione di impresa artigianale secondo la legge francese Secondo la legge del 5 luglio 1996 (art. 19, c. 1), relativa allo sviluppo e alla promozione dell’artigianato, sono da considerare come imprese artigiane le entità iscritte al repertorio dei mestieri, cioè le persone fisiche e morali che non impieghino più di dieci salariati e che esercitano, a titolo principale o secondario, una attività professionale indipendente di produzione, di trasformazione, ri riparazione o di prestazione di servizi rilevanti dell’artigianato e inclusi in una lista stabilita per decreto in Consiglio di Stato.

Fonte: Boutillier e Fournier (p. 9) La soglia degli addetti è comunque relativa anche perché alcune categorie di lavoratori (soci, coadiuvanti, handicappati, apprendisti, ecc.) non vi sono ricomprese. Inoltre, secondo un decreto del 14 dicembre 1995, quelle imprese già iscritte in precedenza al repertorio dei mestieri possono mantenere l’iscrizione a tempo indeterminato anche se superano la soglia legale di dipendenti che, peraltro, lo stesso decreto innalza da 10 a 15.

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Lista dei mestieri inclusi nel campo di attività di cui al primo comma dell’articolo 16 della legge del 5 luglio 1996

I. Manutenzione e riparazione di veicoli e macchine II. Costruzione, manutenzione e riparazione di edifici

III. Messa in posa, manutenzione e riparazione di reti e impianti utilizzanti fluidi IV. Servizi di pulizia V. Trattamenti estetici diversi da quelli sanitari e parasanitari

VI. Realizzazioni di protesi dentarie VII. Preparazione / fabbricazione di prodotti freschi da forno (pane, dolci, ecc.) oppure

di gelati alimentari, lavorazione dei salumi, preparazioni ittiche VIII. Ferratura dei cavalli

Fonte: Boutillier e Fournier (p. 9) Il decreto del 1998, poi, ha ulteriormente elevato la soglia massima fino a 19 unità nel contesto di un riordino complessivo del settore che ha portato ad un aggiornamento tanto del repertorio dei mestieri artigiani consentiti quanto dell’elenco delle attività artigianali il cui esercizio richiede una qualifica professionale formale. Si consideri che se è la presenza di una soglia di addetti (per quanto elastica e mutevole nel tempo e, talvolta, a seconda dei settori di attività) a rappresentare lo spartiacque per il riconoscimento della qualifica di artigiana per una impresa ciò comporta che l’accesso alla dimensione artigiana possa aversi in quasi tutti i settori dell’economia. Non stupisce pertanto che siano proprio la Francia e l’Italia i Paesi in cui il repertorio di attività in cui si rinvengono imprese artigianali risulta ampio e articolato. Non deve nemmeno stupire scoprire che gli stessi siano i Paesi in cui proporzionalmente meno rilevante è l’importanza attribuita alla figura dell’imprenditore35. L’artigianato francese, dunque, presenta caratteristiche non dissimili da quelle italiane e comprende aziende operanti nei servizi, nell’industria, nelle costruzioni e, come si vede nello specifico riquadro, in attività miste commerciali. In particolare, per quanto riguarda le attività incluse nel repertorio dei mestieri artigiani, lo spettro risulta assai vario e articolato e comprende: • le industrie agro-alimentari: tutte ad eccezione dei processi di vinificazione e della manifattura del tabacco; • le altre industrie manifatturiere: tutte ad esclusione dell’editoria, di una parte della farmaceutica e della fabbricazione di occhiali e lenti a contatto; • tutto il settore delle costruzioni; • una serie di attività nel campo dei trasporti, del commercio, dei servizi alle imprese e alle persone.

35 In Francia, peraltro (e solo in Francia), vi è la possibilità di diventare “mastro artigiano” attraverso una sorta di esame pubblico che certifica la professionalità del candidato. Ciò, tuttavia, non costituisce vincolo all’esercizio del mestiere, bensì soltanto un’opportunità in più, una sorta di riconoscimento di eccellenza.

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Il modello sassone (o teutonico) della Germania

Il secondo modello, per quanto anch’esso elaborato sotto il profilo legislativo negli anni successivi alla ricostruzione post-bellica, è radicalmente differente da quello illustrato poco sopra e riguarda, nello specifico, la Germania e l’Austria. Qui, infatti, oggetto della norma non è l’impresa artigiana, che dunque resta indefinita, ma il mastro artigiano. Ciò comporta che risorse istituzionali, vincoli e provvidenza, strutture e servizi sono funzionali non a disciplinare l’attività delle imprese, bensì a garantire e proteggere percorsi formativi la cui tappa finale è costituita dal rilascio di un titolo e dell’autorizzazione a esercitare la professione di “mastro artigiano”. Come per la Francia e l’Italia questo modello ha valenze e finalità tanto economiche quanto sociali e di consenso: da un lato, infatti, il percorso fortemente codificato e selettivo per diventare mastro artigiano garantisce una trasmissione di saperi produttivi, dall’altro la legislazione originaria del settore ha di fatto riconosciuto e tutelato un sistema di “corporazioni” di mestiere il cui peso è sempre stato ed è a tutt’oggi altamente significativo socialmente e politicamente36. Per altro, anche in questo modello il repertorio di attività accessibili è piuttosto ampio, per quanto maggiormente codificato in quanto legato all’esistenza di corsi di formazione ufficiali. La dimensione di impresa non è invece vincolante; e addirittura può non esistere qualora il mastro artigiano lavori come dipendente presso un’altra azienda37. Il modello tedesco, in definitiva, conferma la tesi di quanto ritengono far coincidere l’artigianato con una nozione qualunque di piccola impresa non è indispensabile né ineluttabile. In altri termini, in Germania un mestiere o un’attività sono da considerare “artigiani” soltanto se rientrano fra quelle previste nell’Allegato A del Codice dell’artigianato (Handwerksordnung, vedi scheda più avanti). E comunque ogni mestiere o attività può essere esercitato come tale, ossia in termini “artigiani”, soltanto dopo che sia stato conseguito, al termine di un percorso di formazione professionale e tirocinio che dura mediamente sette anni, il titolo di “maestro artigiano” (Handwerksmeiter). A differenza della maggior parte dei Paesi europei, dunque, l’appartenenza o meno al settore artigiano non viene definita in base alla dimensione d’impresa, comunque misurata, bensì alla presenza di una figura professionale – il maestro artigiano –

36 In modo del tutto analogo ancorché casuale sia in Francia sia in Italia, pur con importanti differenze, un “regime” di normazione del comparto è stato costruito a partire dagli anni ’50 con l’obiettivo di tutelare il variegato mondo della piccola impresa e dei sistemi locali a fronte dei processi di industrializzazione fordista e delle nuove problematiche competitive innescate dal consolidarsi del Mercato Comune Europeo. Alla base di quella che appare una esplicita e determinata difesa dei sistemi socioeconomici locali vi erano e vi sono ancora oggi finalità e motivazioni tanto di ordine economico quanto di ordine sociale (coesione) e consenso politico. 37 Questa è una caratteristica peculiare e significativa, specialmente se la si confronta con il modello latino – ma anche con altre esperienze europee – laddove l’indipendenza dell’azienda artigiana viene considerata essenziale.

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riconosciuta formalmente a seguito del superamento di un vero e proprio esame di stato38.

Il Codice dell’artigianato in GermaniaIl Codice dell’artigianato è entrato in vigore il 24 settembre 1953, dopo non poche controversie anche con le forze di occupazione e facendo propri, in larga parte, filosofia ed elementi fondamentali della precedente legislazione nazionalsocialista quantunque opportunamente democratizzati. Tra i successivi emendamenti di modernizzazione vanno ricordati:

a) l’introduzione nel 1965 delle cosiddette professioni/attività “assimilate all’artigianato” (nebenbetrieben) per esercitare le quali non è richiesto il conseguimento del certificato di maestro artigiano. Corrispondono queste, di fatto, a quelle parti di un’azienda non artigiana che però producono merci o servizi in forma artigianale39 e sono iscritte all’Albo degli Artigiani. Il numero di queste attività è aumentato da 10 alle 50 del 1993 fino alle attuali 57 (elencate in una apposita appendice B, qui non riportata);

b) il graduale sfoltimento e accorpamento delle attività artigiane in senso stretto, le quali sono state ridotte dalle 125 iniziali alle attuali 94 (l’ultima modifica risale al 1998);

c) le successive riforme degli organi di gestione delle Camere dell’artigianato (incluse le modalità di elezione dei rappresentanti dei lavoratori, sindacali e imprenditoriali);

d) infine la recente riforma (novembre 2001) dell’esame di maestro artigiano, i cui contenuti e modalità sono stati resi omogenei a livello nazionale.

Fonte: Regione Piemonte – Osservatorio Regionale dell’Artigianato (2003)

38 Il fatto di essere rigidamente regolamentato specie per quanto riguarda le barriere all’entrata (esame di maestro artigiano) pone il mondo dell’artigianato tedesco in condizione di dover fare i conti con le liberalizzazioni dei mercati europei e con il principio della libera circolazione dei lavoratori. Una delle principali implicazioni in merito riguarda la possibilità per un artigiano proveniente da un altro Paese, che sia membro dell’UE, di avviare una attività in Germania. Il timore manifestato dalle associazioni artigiane è quello di una svalutazione dell’esame di maestro artigiano o addirittura la sua abolizione, è un elemento di resistenza alle pressioni comunitarie. Alle resistenze “corporative” si contrappone l’esplicita richiesta avanzata dai sostenitori di una politica economica neo-liberista, i quali ritengono l’attuale regolamentazione dell’accesso al comparto nulla più che un residuo corporativo di ostacolo alla libera concorrenza). 39 Ad esempio, il reparto carni di un supermercato diretto da un “maestro artigiano” (Handwerkmeister) ricade, dal punto di vista delle statistiche sull’artigianato, fra le imprese ausiliarie. Peraltro, poiché i dati relativi si riferiscono soltanto a questa parte dell’azienda, essi non sono facilmente comparabili con quelli relativi alle aziende artigiane vere e proprie.

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Tipologie di professioni/attività artigiane secondo l’Allegato A al Codice dell’artigianato in Germania

Costruzioni. Ad esempio: muratori, decoratori, verniciatori Elettro-metalmeccanica. Ad esempio: riparazione autoveicoli, idraulici, tecnici elettronici Legno. Ad esempio: falegnami, palchettisti Abbigliamento, tessile e cuoio. Ad esempio: sartoria, arredatori d’interni Alimentare. Ad esempio: panettieri, macellai, mugnai Servizi sanitari, igienici e di pulizia. Ad esempio: ottici, parrucchieri, ditte di pulizia Vetro, carta, ceramica e altre attività. Ad esempio: vetrai, tipografi, costruzione di strumenti musicali

Fonte: Ns. elaborazione su dati Regione Piemonte - Osservatorio Regionale dell’Artigianato (2003, p. 38) Il modello “letterale”: il Regno Unito e la Spagna Il terzo modello è quello che più appare fedele alla vicenda lessicale dei concetti e delle esperienze che vi fanno riferimento e dunque considera artigiane solo le lavorazioni riconducibili ad una nozione di artigianato artistico. Vi si fanno confluire i casi della Spagna e del Regno Unito, Paesi per i quali le informazioni sulla diffusione dell’artigianato sono difficili da reperire anche in virtù del fatto che si tratta di un fenomeno la cui incidenza statistica è fortemente compressa. Nonostante l’assenza o comunque la ristrettezza della documentazione disponibile, l’impressione raccolta da uno40 dei pochi studi di quei casi è che il settore sia di fatto riconosciuto (e probabilmente usufruisca di programmi di sviluppo locale o, più in generale, di sostegno all’impresa minore), ma conti soprattutto sulle proprie capacità di auto-promozione per affermarsi e consolidarsi.41 Nel caso di questo modello, dunque, sembrano combinarsi una ancora più scrupolosa e ferrea attenzione alla problematica della trasmissione dei saperi e un moderato interesse alle vicende complessive del comparto. L’attenzione che gli viene riservata sembrerebbe pertanto non andare oltre le dimensioni della qualificazione in senso storico di borghi e città e comunque dell’abbellimento estetico e della riqualificazione urbana dei luoghi di vita. Altri casi e altri Paesi Come si è ricordato all’inizio, i Paesi qui non citati (l’Italia ha una attenzione a sé, per ovvi motivi, più avanti) si distribuiscono lungo un range di tipi che non consente di definire un quarto modello, se non come residuo. Tuttavia quasi sempre emergono interessanti spunti di contaminazione con le principali esperienze qui segnalate. Ad esempio, in Germania è ammesso l’impiego di 40 Cfr. Regione Piemonte, 2003. 41 Un ulteriore elemento informativo è nel fatto che nel Regno Unito è attivo il Crafts Council, organismo nazionale finanziato dall’Arts Council of England e avente finalità di promozione dei mestieri artigianali moderni, al quale è affidato il compito di organizzare eventi, mostre, fiere e attività di marketing.

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macchine sofisticate di supporto al lavoro artigiano ma a condizione che esse non riducano la necessità e l’apporto dell’abilità manuale. In Spagna, i quattro gruppi in cui sono suddivise le attività artistiche sono, oltre quelle dell’artigianato popolare e dell’artigianato artistico, le attività della produzione di beni alimentari e quelle dei servizi. A condizione, però, che il conduttore dell’impresa artigiana mostri di conoscere e saper gestire l’intero processo produttivo. Un caso a sé stante è quello della Grecia dove la presenza di piccole imprese è assai significativa (rappresentano circa l’85% del totale). Qui esistono organismi di rappresentanza e auto-regolazione del settore quali il GSEVEE (Confederazione generale dei mestieri e dell’artigianato di Grecia) e l’EOMMEX (Organizzazione ellenica della Pmi e dell’artigianato) e le loro denominazioni lasciano trasparire una articolazione tra settori, attività e categorie di lavoro ma non molto approfondita e tanto meno pubblicizzata. Le imprese artigiane sono principalmente ditte individuali o a conduzione familiare e in genere sono considerate tali imprese che non facciano ricorso a tecnologie particolarmente complesse e riservino adeguato spazio a metodi tradizionali di lavoro. In Irlanda così come in Svezia o in Islanda non vi sono, per le imprese artigiane, definizioni legali, requisiti dimensionali o riserve di settore o di forma giuridica. Al più un elenco di professioni dove è prevista una abilitazione che però non è indispensabile per costituite una impresa artigiana (Svezia) o un elenco di mestieri (39 per l’Irlanda) da considerare artigiani. In Belgio la definizione di lavoratore artigiano si snodava, al 2003, all’interno di una griglia di 45 tipi di professionisti suddivisi in 11 categorie considerate artigiane ma potendo essere riconosciute come effettivamente artigiane solo le ditte individuali. Combinando nei modi più disparati le diverse variabili che concorrono a definire il mondo artigiano ne scaturisce un ventaglio di casi così numeroso da giustificare le difficoltà di normalizzare tanto la definizione del fenomeno quanto la tassonomia dei processi. La versione mediterranea del modello latino: l’artigianato in Italia Quella dell’artigianato in senso lato e dei lavori artistici in senso stretto è, per l’Italia e lo si può ben immaginare, una storia lunga, molto lunga. Ai nostri fini la si può far cominciare nel 1907 allorché un regolamento in materia di prelievo fiscale, il n. 560, venne a stabilire (art. 79) che “per la determinazione del reddito degli artigiani l’agente riterrà di regola che quando il capitale é prevalente sulla mano d’opera nella produzione del reddito” lo stesso reddito è da scriversi ad una specifica categoria definita come “categoria B”. Indirettamente quel regolamento introduceva, sia pure rovesciandolo, un criterio ed un requisito, quello della prevalenza del lavoro sul capitale, che sarebbe poi divenuto determinante nell’individuazione non solo dell’artigiano, ma anche del piccolo imprenditore, ponendo una severa e defatigante sfida intellettuale ad interpreti e studiosi (Cavazzuti, 1978, p.563 e segg.). Non molti anni dopo, in periodo fascista, la problematica dell’artigianato sarebbe ritornata sul tavolo nel bel mezzo del lavoro avviato per dare alla struttura economica

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del Paese una organizzazione corporativa. In particolare, nel 1925 un regio decreto, il n. 830, precisava che per piccole industrie erano da intendersi “quelle forme di attività industriali limitate nei mezzi tecnici e in quelli economici, nelle quali il prodotto é dovuto in prevalenza alla abilità personale dell’artefice, che lo esegue o concorre ad eseguirlo”. L’artigiano appariva in tal modo ancora totalmente assorbito nel concetto di piccola industria42 e tuttavia si intravedevano, per quanto allo stato embrionale, i principali elementi concettuali che sarebbero stati ripresi dalla legislazione successiva. Nel 1926, ad esempio, la legge n. 563 venne a ribadire (all’articolo 5) che artigiani erano da intendere quegli operatori economici “esercenti per proprio conto una piccola industria nella quale essi medesimi lavorano”. Nello stesso anno il r.d. n. 2224 approvava lo ”Statuto delle Federazioni delle comunità artigiane d’Italia” aderente alla Confederazione degli industriali col quale si dava una articolata definizione delle botteghe artigiane. Erano da considerarsi tali “..tutte le officine dove sianvi da uno a più artieri, che lavorino con intenzione d’arte, interamente a mano o con l’ausilio di mezzi meccanici per il solo sgrossamento o per la sola sbozzatura della materia prima. Si ritengono altresì botteghe artigiane quelle dove si praticano i mestieri usuali, anche senza intenzione d’arte e nelle quali però il lavoro sia compiuto dai membri di una stessa famiglia, eccezionalmente con il concorso di qualche domestico.” (Hazon, 1957; p. 326 e segg.). Nel 1927 il r.d. n. 388 ha introdotto le prime modifiche allo Statuto e anche, per la prima volta, delle determinazioni quantitative numericamente definite: massimo 5 dipendenti per la bottega d’arte e massimo 3 dipendenti per la bottega di mestieri. Nel 1933, fu il r.d. n. 760 a sostituire il precedente Statuto con uno nuovo nel quale si dava (art. 4) una definizione delle attività artigiane con la quale si ritornava, di fatto, a porre l’accento sul concetto di piccola industria: “tutti gli esercenti per proprio conto una piccola industria della quale accentrano tutte le funzioni inerenti alla gestione ed in cui essi medesimi lavorano con o senza l’aiuto di familiari e di un numero limitato di dipendenti, sia che il lavoro venga eseguito in una bottega sia a domicilio sia nel luogo designato dal committente”. Tuttavia, nel 1934 venivano reintrodotti, direttamente del Ministero delle Corporazioni, i limiti numerici (Cavazzuti, p. 133). Nel 1942, in pieno conflitto mondiale, il Codice civile giunse a separare le attività lavorative in “piccola impresa” o in “impresa” con obblighi burocratici e contabili ben diversi e distinti. La “piccola impresa” lì definita era però solo quella “individuale e familiare, coltivatori diretti del fondo, artigiani, piccoli commercianti” ai quali veniva

42 La legge 563, in effetti, faceva una esplicita menzione degli “artigiani esercenti per conto proprio” come categoria a sé stante, ma la delimitazione veniva “effettuata solo ai fini di inquadramento sindacale e non valse a far luce sulla distinzione tra artigianato e piccola industria. Infatti, le associazioni sindacali per gli artigiani previste dal decreto (n. 1130 del 1 luglio 1926, NdA) ebbero sede presso le unioni provinciali degli industriali, aumentando così la confusione.” In definitiva si poteva dire che… “la categoria degli artigiani … non aveva ricevuto, da quell’inquadramento sindacale, alcuna configurazione autonoma rispetto alle attività industriali, e pertanto, restava ad esse assimilata per quanto concerne gli aspetti del credito, del commercio, dell’istruzione professionale, della previdenza e dell’assistenza sociale.” (Mazzocchi, 2006, p. 100).

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concessa: “la non iscrizione nel registro delle imprese, no ai libri obbligatori e altre scritture contabili, no alle leggi fallimentari” (Artt. 2083, 2214, 2202 e 1330). Gli artigiani, per parte loro, venivano già favoriti nel loro lavoro con il libero accesso ai mercati come produttori diretti (Art.9 Legge n. 327 del 5/2/1934). Ancora nel 1942, una legge piuttosto importante, la n. 1090 superava una concezione dell’artigianato quale metodo preindustriale di produzione di beni, attraverso l’individuazione dei mestieri e la modalità del lavoro individuale come criteri per distinguere queste attività da quelle in serie o industriali. Conseguentemente il riconoscimento di un fabbisogno di tutela si traduceva nel subordinare l’esercizio professionale di alcuni mestieri artigiani43 al rilascio di un apposito libretto di mestiere44. La legge non ebbe seguito alcuno ma ebbe notorietà sufficiente a far residuare, come osservano alcuni (Romagnoli, 1999; pp. 49 – 52), solamente un duro pregiudizio nei confronti del libretto di mestiere in quanto istituto concepito da un regime non condiviso. E ciò – lo si ripete – nonostante la mancanza di qualsivoglia forma di sperimentazione della sua eventuale utilità ed efficacia. Del 1942 sarebbe invece sopravvissuta la norma del codice civile (art. 2083) che inquadra l’artigiano nella disciplina dell’impresa e lo qualifica come piccolo imprenditore. Fin da subito, però, balzava agli occhi che si trattava di un articolo monco e privo di una base d’appoggio: l’articolo in questione, infatti, inquadrava l’artigiano nella figura del piccolo imprenditore45 ma di quest’ultimo l’ordinamento non aveva più conservato alcuna traccia di definizione cui fare rinvio. Precedentemente, infatti, l’artigiano sarebbe stato individuato proprio dal possesso del libretto di mestiere, e proprio questo ora veniva a mancare e con esso veniva a mancare, al di là di ogni critica soggettiva, un essenziale anello di collegamento e di unità e coordinamento tra le diverse normative. L’artigianato italiano nella transizione post-corporativa Per quanto rimosso dal sistema delle corporazioni il ruolo dell’artigiano non solo non viene meno ma, sull’onda di una lunga fase di trasformazione innescata dalla rivoluzione industriale, cresce di importanza e di influenza. Progressivamente, infatti, l’artigiano già possessore del mestiere come arte del saper fare acquisisce anche una mentalità economica e una capacità di proporre al mercato la produzione di beni o 43 Si tratta di: sarti da uomo e da donna, modiste, pellicciai, riparatori e produttori di calzature a mano, decoratori e pittori, fabbri, meccanici, falegnami, mobilieri, materassai, elettricisti compresi quelli d’auto, barbieri, parrucchieri ed affini, trasportatori di cose mediante veicoli a trazione animale (cfr. Fusillo, 1958) 44 Il libretto veniva rilasciato dal Podestà, sentita un’apposita commissione alla quale era conferita una facoltà di diniego nel caso ritenesse ampiamente presente, in zona, il tipo di produzione per cui si richiedeva l’autorizzazione a esercitare. L’esercizio abusivo era pesantemente punito. Di fatto, la legge non ebbe pratica attuazione a causa della caduta del regime e fu ben presto (nel 1945) definitivamente abrogata. 45 Per l’art. 2083 devono intendersi ovvero sono “piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia”.

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servizi. Non più solamente in possesso di una approfondita conoscenza delle regole dell’arte e non solo custode geloso dei suoi segreti ma anche titolare di un’attività economica nella quale presta direttamente il suo lavoro. Col tempo la dimensione del rischio imprenditoriale avrebbe addirittura preso il sopravvento anche rispetto a quella del possesso delle competenze necessarie allo svolgimento di un mestiere le cui specifiche tecniche si tramandano di generazione in generazione. Inoltre, proprio in quanto summa di micro imprenditorialità il comparto dell’artigianato sarebbe venuto assumendo, nel contesto dello sviluppo industriale dell’Italia moderna, una funzione sempre più rilevante, per consistenza, e importante, per funzioni coperte. Nel contesto di una Italia che si veniva riorganizzando dopo i danneggiamenti subiti nella Seconda guerra mondiale quella delle imprese artigiane era una presenza talmente significativa rispetto agli andamenti del ciclo economico, rispetto alla soddisfazione della domanda e alla tenuta e crescita dell’occupazione che le nuove classi emergenti non potevano rischiare di disperderne valori e prospettive. Così, il dettato costituzionale della Repubblica italiana stabilì solennemente che “la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito ...”, all’art. 45 comma 2, ricordò che “la Legge provvede alla tutela e allo sviluppo dell’artigianato46” e, infine, all’art. 117 attribuì potestà normativa alle regioni a statuto ordinario, pur nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato. Allo stesso modo, il decreto legislativo n. 1418 già nel 1947 e per iniziativa del Capo provvisorio dello Stato istituiva presso l’Istituto di credito delle Casse di risparmio italiane una speciale Cassa per il credito alle imprese artigiane: l’Artigiancassa. A questa venne riconosciuta personalità giuridica distinta da quella degli enti che la costituiscono47. Per la presentazione al Senato della Repubblica di un disegno di legge diretto a introdurre una organica “disciplina dell’artigianato” (ddl 2288) fu però necessario attendere ancora cinque anni ed arrivare al 15 aprile 1952.

46 E’ determinante capire che l’articolo 45 venne emanato da Costituenti che si riferivano ad una figura di artigiano manuale, quale allora era ben visibile e godeva del rispetto dalla comunità. 47 E’ evidente l’intento ma anche il significato di un atto legislativo con cui la neonata repubblica intendeva facilitare l'accesso al credito per le imprese artigiane: “Lo statuto di Artigiancassa, che ovviamente riprendeva le disposizioni del Decreto legislativo, venne sottoposto all'esame del Comitato interministeriale per il credito e il risparmio. Il Cicr e la Banca d'Italia, esaminando il testo messo a punto dagli amministratori della Cassa, si dichiararono d'accordo sul fatto che l’attività delle imprese artigiane richiedeva di essere finanziata sia per approvvigionamenti di materie prime che per acquisto di mezzi di lavoro. Artigiancassa, quindi, doveva concedere credito a breve e medio termine, anche se ciò non risultava detto esplicitamente nell'art. 2 dello statuto sugli scopi da perseguire da parte del nuovo ente” (cfr. Tosti, 2004, p. 64). La preoccupazione di favorire lo sviluppo delle imprese considerate artigiane nasceva, dunque, prima ancora di giungere a una norma che ne identificasse la natura rendendone oggettivo il riconoscimento

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Il testo del ddl appena citato, tuttavia, continuava a risentire fortemente, come è stato osservato, “di una visione ancora arcaica” del fenomeno48. L’artigianato veniva inteso come “bottega-scuola”, anche se si assegnava a tale attività, sostanzialmente, una “identità imprenditoriale”. Il disegno legge venne comunque tramutato in legge (la n. 949 del 25 luglio 1952) per declinare gli attesi “Provvedimenti per lo sviluppo dell’economia e l’incremento dell’occupazione”. Tuttavia, non ottemperando del tutto al dettato costituzionale, il parlamento della neonata repubblica italiana il 25 luglio del 1956 emanava la legge n. 86049, dettante “norme per la disciplina giuridica delle imprese artigiane”, la quale cancellava, di fatto, tutta l’evoluzione, le analisi e le misure di tutela su cui poggiava la legislazione prima esistente. La definizione data dalla legge 860, in effetti, sostituiva quella del Codice Civile e delineava un modello di artigiano non del tutto conciliabile con il Codice Civile, né con la sua figura e la sua storia. La nuova legge, infatti, definiva l’artigianato come impresa, ignorando del tutto un sistema seguito da molte legislazioni straniere e precedentemente accolto anche in Italia, per il quale si compilava un elenco di mestieri artigiani e si fissavano dei limiti (al numero dei dipendenti o all’uso delle macchine)

48 Il giudizio sostanzialmente severo si basa su espliciti riferimenti alla funzione di insegnamento del mestiere che compaiono nella relazione di accompagnamento al disegno in questione. Qui, infatti, si sottolinea come fra i cardini di una politica di tutela e sostegno per le imprese artigiane fossero “la disciplina dell’insegnamento dei mestieri artigiani e il riconoscimento giuridico da conferire all’impresa artigiana e alla bottega-scuola, le quali praticamente oggi sfuggono a particolari provvidenze per la impossibilità di identificarle”. E si aggiungeva, che quella ripresa dalle norme era una concezione rispondente anche “alla necessità di considerare l’aspetto tecnico-produttivo delle attività artigiane e la formazione di futuri piccoli imprenditori” Ancora una volta, dunque, veniva richiamato, ma a mezza voce ovvero ponendolo in subordine, l’aspetto del sostegno da dare al processo imprenditoriale nel mondo artigiano. Apparentemente, peraltro, il disegno di legge, nel soffermarsi sulle norme che regolavano l’apprendistato, millantava la parte più moderna dei suoi obiettivi ovverosia l’intento di estendere la formazione degli allievi a tutti gli aspetti necessari per formare una cultura imprenditoriale. Cosa ancor più grave era ritenuta l’aver inserito le lavorazioni in serie, da considerarsi tipicamente industriali, facendole passare per artigiane; dei limiti dimensionali come dipendenti, adatti alla piccola industria; il non più libero accesso ai mercati: fuori del laboratorio, infatti, entrano in vigore le Leggi del commercio con l’obbligo d’iscrizione al R.E.C. (Registro Esercenti il Commercio) come per i commercianti. Si fondava così la piccola impresa industriale “pseudoartigianale” destinata alle subforniture per l’industria, omologando i doveri legislativi e fiscali delle imprese anche alle arti e mestieri manuali. L’unico “sterile” strumento di tutela emanato, “L’elenco dei mestieri tradizionali e artistici” (DPR 23/8/1956 n. 1202) stabilisce solo quali siano questi mestieri, poi il vuoto, nessuna norma di definizione della categoria e di tutela per la quantità limitata di manufatti che si producono lavorando prevalentemente a mano ed il conseguente minor prelievo fiscale, nessuna norma di tutela per l’artigiano individuale e familiare (Tosti, 2004, pp. 65 e segg.) 49 Pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 200 del 10 agosto dello stesso anno la legge, composta da cinque capi e ventidue articoli, rappresenta il primo importante atto amministrativo con il quale si intende dare ordine a un settore estremamente dinamico nell'economia italiana composto da migliaia di piccolissime attività che si caratterizzano per l'identificazione del titolare con l'impresa da lui fondata e in cui egli stesso direttamente lavora.

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oltre i quali l’artigiano, pur appartenendo a quei mestieri, ne perdeva le caratteristiche e diventava impresa50. Ai fini che qui più interessano, di quella legge è da sottolineare il fatto che in essa non si definiva direttamente l’imprenditore artigiano bensì l’impresa artigiana51. Questa era tale52 se: - avesse avuto per scopo la produzione di beni e la prestazione di servizi di natura artistica o usuale (art. 1 lett. a); - il modo di lavorazione fosse stato non in serie e l’impresa avesse avuto non più di 10 dipendenti, compresi i familiari del titolare ed esclusi gli apprendisti; oppure il modo di lavorazione fosse stato in serie (ma non del tutto meccanizzato) e l’impresa non avesse impiegato normalmente più di cinque dipendenti, compresi i familiari del titolare ed esclusi gli apprendisti; oppure ancora l’impresa avesse svolto attività nel settore dei lavori artistici, tradizionali e dell’abbigliamento su misura (senza limiti di personale dipendente né del tipo di lavorazione); oppure infine l’impresa avesse prestato servizio di trasporto ed avesse impiegato normalmente non più di cinque dipendenti, compresi i familiari del titolare ed esclusi gli apprendisti (art. 2 comma 2); - fosse organizzata con il lavoro professionale anche manuale del suo titolare ed eventualmente dei suoi familiari: l’imprenditore artigiano non doveva essere solo il ”gestore” dell’impresa, ma doveva dare al prodotto la sua “impronta” risultante dal lavoro personale e diretto su di esso (art. 1 lett. b); - il titolare avesse avuto la piena responsabilità dell’azienda ed avesse assunto tutti i rischi e gli oneri relativi alla sua direzione e gestione: ma questa è una caratteristica tipica di ogni imprenditore (art. 1 lett. c); - se il titolare si fosse valso della prestazione d’opera di personale dipendente, questo personale avrebbe dovuto essere sempre personalmente guidato e diretto dallo stesso

50 In una ricognizione dei principali problemi dell’artigianato nella provincia di Perugia si legge che, per l’artigianato non è possibile dare una cifra esatta sul numero delle imprese in Italia stante la persistente vivacità del dibattito sulla definizione della parola stessa. Infatti, si osserva che “c’è chi vorrebbe che tale definizione comprendesse essenzialmente l’artigianato d’arte, comprese certe categorie collaterali (abbigliamento, confezioni, etc.) ed allora la cifra di un milione di esercizi viene fortemente ridotta. C’è chi invece vuol comprende anche l’artigianato di mestiere e cioè tutti i falegnami, i fabbri, i maniscalchi, meccanici, saldatori, laboratori di vetri, di cemento, di materie plastiche, muratori indipendenti, etc.. Ed allora ci avviciniamo alla cifra del milione sopra indicato. Se infine ci comprendiamo i mugnai, i gelatai, dolciari, piccoli fabbricanti di sciroppi e bibite, le piccole professioni minori, i pescatori, il cosiddetto artigianato dei servizi (barbieri, lustrascarpe, etc.) e dei trasporti (camionisti, carrettieri, barcaioli), in una parola tutte le ditte che non superano i cinque dipendenti, allora la cifra del milione viene largamente superata (CCIA di Perugia, 1957, p. 5). 51 E’ stato però anche detto che un giudizio di “importanza assoluta” sia da attribuire al fatto che, in qualche modo, essa finiva per colmare “una lacuna esistente nell’ordinamento giuridico italiano”: ciò sia proprio per il fatto di fissare delle norme essenziali per la disciplina delle imprese artigiane mediante la quale si veniva a riconoscere, nella sostanza, l’esistenza di una precisa specie di impresa diversa dalle restanti piccole imprese. 52 Si noti, in quanto segue, il tentativo di concettualizzare la specificità dell’attività artigiana fondamentalmente come antitesi della produzione in serie (anche se era ammessa quella non del tutto meccanizzata), con ciò ritenendo di introdurre un appropriato elemento di distinzione dall’attività delle piccole imprese industriali.

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titolare dell’impresa: essendo chiaro che non doveva trattarsi di direzione meramente amministrativa, ma di una guida tecnica, che si estrinsecava nell’assistenza prossima e continuativa al lavoro, fino alla materiale e manuale esecuzione del lavoro stesso, a scopo esplicativo e dimostrativo (art. 2 comma 1); - per quanto costituita anche in forma di cooperativa o società, escluse le società di capitali e in accomandita semplice, la maggioranza dei soci avesse partecipato personalmente al lavoro e, nell’impresa, il lavoro avesse avuto funzione preminente sul capitale. La legge del 1956, in definitiva, non prevedeva un elenco d’attività da considerarsi artigiane, bensì ne dava una definizione “aperta” alla quale poteva essere facilmente ricondotta qualsiasi attività di produzione di beni o prestazione di servizi, di natura artistica o usuale53. Essa, inoltre, istituiva anche uno strumento specifico, l’albo delle imprese artigiane, l’iscrizione al quale, da parte delle imprese che possedevano i requisiti necessari, era facoltativa L’iscrizione nell’albo, infatti, era meramente volontaria, e non costituiva né condizione per esercitare l’attività produttiva, conformemente al principio di libertà dell’iniziativa economica privata sancita dall’art. 41 della Costituzione, né titolo per iniziare l’esercizio dell’attività; era tuttavia “condizione per la concessione delle agevolazioni disposte a favore delle imprese artigiane” (art. 9 comma secondo): di fatto, quindi, evidenti motivi di opportunità portavano tutte le imprese, solo che ne avessero avuto i requisiti, a richiedere l’iscrizione all’albo in questione. Poche settimane dopo la promulgazione della legge n. 860 un DPR specifico (DPR 23/10/1956 n. 1202) sarebbe intervenuto a declinare l’ “elenco dei mestieri tradizionali e artistici” quale sarebbe stato poi sostituito con decreto del Presidente della Repubblica 8 Giugno 1964, n. 537 (vedi box) e, da ultimo, dal DPR 288 del 25 maggio 2001 (cfr. Appendice A). Per il resto la normativa sull’imprenditore e sull’impresa nell’artigianato sarebbe rimasta, per un lungo periodo durato quasi trent’anni, priva di sostanziali novità. In definitiva il profilo della regolamentazione nazionale del comparto finì per poggiare su due gambe: un paletto di sostanziale ispirazione, l’articolo 45 della nuova costituzione repubblicana, e uno sviluppo operativo qual era quello contemplato con la legge n. 86054 del 1956 con la declamazione del DPR 1202 successivamente modificato dal DPR 537. 53 Neologismo giuridico per indicare, probabilmente, la natura strettamente funzionale, legata all’uso corrente, del prodotto artigiano. In ogni caso, l’interpretazione dominante non riuscì mai a dare un qualche significato a tale locuzione col risultato di rendere del tutto vacua anche la restante parte della prescrizione su cosa si dovesse intendere, “qualitativamente” parlando, per impresa artigiana (Bin, 1983, p. 182). 54 Si tratta della legge del 25 luglio 1956, successivamente abrogata, pubblicata sulla G.U. del 10/8/1956, n. 200.

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Mestieri artistici, tradizionali e dell’abbigliamento individuati dal DPR n. 537/1964. I. Abbigliamento esclusivamente su misura: figurinisti e modellisti; modisterie (solo

su commissione); pellicciai su misura, sartorie su misura, calzolerie su misura. II. Cuoio e tappezzeria: bulinatori del cuoio; decoratori del cuoio; limatori del cuoio;

sbalzatori del cuoio; fabbricanti di oggetti in pergamena; lucidatori a mano di pelli; pellettieri artistici; pirografi; sellai; stampatori del cuoio con presse a mano; tappezzieri in carta, in stoffa e in materie plastiche, in cuoio; fabbricanti di guanti su misura i cuciti a mano.

III. Decorazioni: addobbatori; appaltatori; decoratori con fiori. IV. Fotografia e riproduzione disegni: acquafortisti (riproduttori); litografisti

(riproduttori); fotografi (escluse le aziende che hanno macchine rotative per la stampa del fototipo); ritoccatori; scenografi (pittori); xilografi (riproduttori).

V. Legno: doratori; laccatori; lucidatori; intagliatori; intarsiatori; traforisti; scultori; stipettai.

VI. Metalli comuni: arrotini, chiavai, damaschinatori, fonditori di oggetti d’arte; lavorazione di ferro battuto; modellatori, peltrai; ramai e calderai (lavorazione a mano), sbalzatori; sciabolai; traforatori artistici, fabbricanti sulla base di progetti tecnici di modelli di navi e di complessi meccanici navali ancora non costruiti.

VII. Metalli pregiati, pietre dure e lavorazioni affini: cammeisti; cesellatori, filigranisti; incisori di metalli e pietre dure; lavorazione ed incisione su corallo, avorio, conchiglie, madre perla, tartaruga, corno e lava: miniaturisti; smaltatori d’arte; argentieri ed orafi (lavorazioni essenzialmente a mano) escluse le lavorazioni in serie anche se la rifinitura viene eseguita a mano.

VIII. Restauro: antiquari restauratori; copisti di galleria; modellisti e restauratori di modelli di navi antiche; restauratori del dipinto; restauratori del mobile; restauratori del mosaico; restauratori della statuaria; restauratori di vetrate artistiche; restauratori di tappeti.

IX. Servizio di barbiere, parrucchiere ed affini: acconciatori; barbieri; lavoranti in capelli; parrucchieri misti; per uomo, per signora; truccatori.

X. Strumenti musicali: fabbricanti di arpe; fabbricanti di strumenti a fiato in legno; liutai ad arco, a plettro, a pizzico; organai; fonderie di campane.

XI. Tessitura, ricamo ed affini: arazzieri; coltronieri; disegnatori tessili; materassai; merlettaie e ricamatrici a mano; tessitori a mano; trapuntai a mano; tessitori a mano di tappeti.

XII. Vetro, ceramica, pietra ed affini: applicatori di vetri; ceramisti d’arte; decoratori di vetri; incisori di vetri; piombatori di vetri; fabbricanti di grès (artistici); figurinai in argilla, gesso e cartapesta; fornitori statuisti; fabbricanti di perle a lume con fiamma; infilatrici di perle; maiolicai (artistici); mosaicisti (esclusi i produttori di materia prima anche se eseguono montaggi); scultori in marmo o altra pietra; fabbricanti di terre cotte artistiche.

XIII. Varie: lavorazioni a mano di canestri e cesti; rilegatura artistica di libri.

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Così strutturato il meccanismo ha retto per circa trent’anni, fino all’8 agosto del 1985 quando una nuova legge, la n. 44355, operò una vera e propria svolta. Tra gli aspetti più rilevanti di quella legge sono da considerare: a) la definizione, all’art. 1, dell’ambito proprio della potestà delle regioni, in linea con quanto disponeva l’art. 117 della Costituzione e in armonia con “gli indirizzi della programmazione nazionale”; b) la definizione, all’art. 2. dell’imprenditore artigiano come “colui che esercita personalmente, professionalmente e in qualità di titolare l’impresa artigiana, assumendone la piena responsabilità con tutti gli oneri e i rischi inerenti alla sua direzione e svolgendo in misura prevalente il suo lavoro, anche manuale nel processo produttivo”56; c) il riferimento, all’art. 3, alla producibilità di beni semilavorati, con il quale si aprì di fatto la strada, alle attività di sub-fornitura e, in tal modo, ad un enorme ampliamento57 della sfera operativa delle imprese artigiane. d) la fissazione di espliciti limiti dimensionali (art. 4; cfr. specifico box infra); e) la delega, alle Regioni, di potestà e funzioni in materia di istruzione artigiana, in accordo col dettato costituzionale e nell’aderenza agli orientamenti comunitari. (art. 8); f) la disciplina (artt. 9-13), infine, degli organi di rappresentanza e di tutela, delle commissioni provinciali e regionali nonché del Consiglio nazionale dell’artigianato. A quest’ultimo organismo, in particolare, la legge attribuiva il compito di esprimere pareri in riferimento alla politica di programmazione nazionale, alla politica della Comunità economica europea, all’esportazione, e di promuovere e curare la documentazione e rilevazione statistica delle attività artigiane.

55 Pubblicata sulla G.U. del 24/8/1985, n. 199 e denominata esplicitamente “legge-quadro per l’artigianato”. 56 Il comma 4 dell’art. 2 qualifica l’imprenditore artigiano con riferimento al possesso dei requisiti tecnico- professionali previsti dalle leggi statali, allorché eserciti “particolari attività che richiedono una peculiare preparazione e implicano responsabilità a tutela e garanzia degli utenti”. 57 L’ampliamento delle candidature viene peraltro contenuto, almeno in parte, dalla restrizione nelle forme giuridiche consentite. Si limita infatti alle società semplici, a quelle in nome collettivo e alle società cooperative, la possibilità di assumere la qualifica artigiana.

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L’artigiano secondo la legge 8 agosto 1985 n. 443/85

In conformità al dettato costituzionale dell’articolo 117 in materia di artigianato la legge quadro 8 agosto 1985 n. 443, definisce l’imprenditore artigiano chi esercita personalmente e professionalmente in qualità di titolare l’impresa artigiana assumendone la piena responsabilità con tutti gli oneri e i rischi inerenti e svolgendo in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo. Sono esclusi in ogni caso dalla qualifica di artigianato:

le attività agricole; le attività di prestazioni di servizi commerciali; le attività di intermediazione nella circolazione di beni; le attività ausiliarie delle precedenti; la somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, salvo il caso che sia accessoria e strumentale all’esercizio di un’impresa artigiana.

Anche le società possono essere qualificate artigiane salvo le preclusioni previste dalla legge per:

la società in accomandita per azioni la società per azioni.

Le altre forme di società (società in nome collettivo, società in accomandita semplice, società a responsabilità a socio unico,società a responsabilità limitata pluripersonale, società cooperative, società consortili e consorzi) possono essere artigiane a diverse condizioni:

Nelle S.n.c. e nelle S.a.s. la maggioranza dei soci (uno in caso di due) deve svolgere in prevalenza lavoro personale, anche manuale, nel processo produttivo. Nelle società a responsabilità limitata a socio unico il titolare deve svolgere l’attività nell’azienda; Nelle società a responsabilità limitata pluripersonali la maggioranza dei soci (uno in caso di due) deve: a) svolgere in prevalenza lavoro personale, anche manuale, nel processo produttivo; b) conferire la maggioranza del capitale sociale; c) detenere la maggioranza degli organi deliberanti (Consiglio di amministrazione e assemblea). Le società cooperative, le piccole società cooperative, le società consortili ed i consorzi per essere riconosciuti come artigiano devono avere più del 75% dei soci artigiani. Nell’impresa il lavoro ha funzione preminente sul capitale.

L’imprenditore artigiano può essere titolare di una sola impresa artigiana. Per essere riconosciuta impresa artigiana è necessario essere iscritti all’Albo delle imprese artigiane e si deve fare domanda alla competente commissione provinciale che deve decidere entro 60 giorni dalla notifica. L’impresa, infine, deve rispettare determinati limiti dimensionali (si veda la scheda seguente) superati i quali perde la qualifica.

La legge n. 443/85 è stata via via fatta oggetto di modifiche e integrazioni. Nel 1997, ad esempio, la legge n. 133 ha introdotto la possibilità che l’impresa artigiana possa essere costituita e esercitata anche nelle forme di società a responsabilità limitata con

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un unico socio o società in accomandita semplice, fatto salvo il rispetto dei requisiti dimensionali, soggettivi (riferiti all’imprenditore artigiano) e oggettivi (riferiti all’attività svolta) indicati dalla legge stessa. L’approvazione di un collegato alla Legge Finanziaria del 2000 ha poi introdotto un’importante modifica: l’art. 13 della legge n. 57/2001, infatti, ha consentito alle imprese artigiane di costituirsi in società a responsabilità limitata plurinominali58.

I limiti dimensionali per il godimento della qualifica di impresa artigiana (ai sensi della legge 443/’85, art. 4)

Ai fini dei calcoli relativi alla tabella riepilogativa riportata più avanti va tenuto presente che: 1. Non sono computati per un periodo di due anni gli apprendisti diventati operai qualificati e mantenuti in servizio dalla stessa impresa artigiana. 2. Non sono computati i lavoratori a domicilio sempre che non superino un terzo dei dipendenti non apprendisti occupati presso l’impresa artigiana. 3. Non sono computati i lavoratori assunti con contratto di formazione lavoro. 4. Sono computati i familiari dell’imprenditore, anche se l’azienda è costituita sotto forma d’impresa familiare, che svolgono la loro attività di lavoro prevalentemente e professionalmente nell’ambito dell’impresa artigiana. 5. Sono computati, tranne uno, i soci che svolgono il prevalente lavoro personale nell’impresa artigiana . 6. Non sono computati i lavoratori portatori di handicap fisici, psichici o sensoriali 7. Sono computati i dipendenti qualunque sia la mansione svolta.

. Tetto ordinario Tetto massimo

Tipo di lavoro

Operai e impiegati

di cui: apprendisti

Operai e impiegati

Con n° di apprendisti:

Totale (max)

Lavoro non in serie 18 9 9 13 22

Lavoro in serie 9 5 4 8 12

Lavoro artistico, tradizionale eabbigliamento su misura * 32 16 16 24 40

Settore Trasporto 8 - - - -

Settore costruzioni edili 10 5 5 9 14 * Così come definito ai sensi del DPR n. 537 del 1964 (vedi appendice per un elenco comparato e aggiornato). Del 5 marzo 2001 è anche la legge (n. 57) che ha permesso agli artigiani di costituire una Srl tra più soci pur mantenendo i requisiti per rimanere iscritti all’albo delle imprese artigiane59.

58 Legge 5 Marzo 2001, n. 57 recante “Disposizioni in materia di apertura e regolazione dei mercati”.

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E del 2001, 25 maggio, è anche il DPR n. 288 approvato dal Consiglio dei Ministri e contenente il nuovo elenco dei mestieri artistici e tradizionali, in sostituzione del DPR n. 537 dell’8 giugno 1964. L’elenco definisce una classificazione più ampia (si passa da 103 mestieri a 158) e chiara60 delle attività artistiche, tradizionali e dell’abbigliamento su misura e tiene conto di realtà e tradizioni che si sono affermate a livello locale come, per esempio, numerosi tipi di lavorazione e produzione alimentare in precedenza impropriamente ricondotti al settore agricolo. Così, dopo aver definito in termini generali (art. 1)61 i settori si passa ad una declinazione delle attività da considerare, in linea di massima, riconducibili a quei settori (vedi Appendice A, in coda a questa parte), lasciando aperta la possibilità di

59 Nonostante i precedenti apportati con l'introduzione della legge 20 maggio 1997 n.133, che riconosceva la possibilità di operare con una srl, la nuova modifica normativa non fu per niente indolore: attraverso tale procedura infatti si sanciva una vera e propria rivoluzione culturale Si acquisiva, infatti, e definitivamente un principio che fino a pochi anni prima pareva inaccettabile: la possibilità cioè da parte di una impresa artigiana di non dover rischiare il proprio patrimonio e quello dei propri familiari, di consolidare la struttura gestionale dell’impresa e di potersi avvalere dell'apporto di nuovi capitali e di soci di capitali di minoranza. In definitiva, l’imprenditoria artigiana veniva messa in grado di utilizzare tutte le condizioni e le forme giuridiche presenti in un moderno diritto societario. 60 La sostanziale differenza rispetto ai precedenti elenchi – nei quali le varie attività venivano riportate come una neutra elencazione di mestieri – risiede nei punti seguenti: a) una definizione sistematica delle lavorazioni, che risulta necessaria per consentire una corretta

identificazione delle attività presenti sul territorio da ricondurre nel novero dell'artistico, tradizionale ed abbigliamento su misura;

b) un'articolazione più completa delle lavorazioni, vendo tenuto conto di specifiche attività che si sono consolidate nelle realtà artistiche e nelle tradizioni locali, e avendo inserito anche attività che nel precedente elenco erano state inopinatamente ignorate, in modo da contribuire a superare dubbi di identificazione e classificazione delle attività (come nei casi della sartoria, delle decorazioni, del legno, del vetro e della carta).);

c) una estensione a nuove attività che si sono affermate e valorizzate nelle realtà produttive dell'artigianato locale (come nel caso delle numerose lavorazioni alimentari) e che nel precedente elenco non erano previste.

Nel complesso il nuovo elenco classifica 158 lavorazioni, suddivise in 13 categorie (rispetto alla vecchia elencazione che prevedeva 103 mestieri ricondotti a 10 categorie). 61 Quelli che seguono sono i “medaglioni” con cui il decreto disegna i tre settori di riferimento: a) settore delle lavorazioni artistiche: sono da considerare lavorazioni artistiche le creazioni, le produzioni e le opere di elevato valore estetico o ispirate a forme, modelli, decori, stili e tecniche che costituiscono gli elementi tipici del patrimonio storico e culturale, anche con riferimento a zone di affermata ed intensa produzione artistica, tenendo conto delle innovazioni che, nel compatibile rispetto della tradizione artistica, da questa prendano avvio e qualificazione, nonché le lavorazioni connesse alla loro realizzazione; b) settore delle lavorazioni tradizionali: sono considerate lavorazioni tradizionali le produzioni e le attività di servizio realizzate secondo tecniche e modalità che si sono consolidate e tramandate nei costumi e nelle consuetudini a livello locale, anche in relazione alle necessità e dalle esigenze della popolazione sia residente che fluttuante nel territorio, tenendo conto di tecniche innovative che ne compongono il naturale sviluppo ed aggiornamento; c) settore dell’abbigliamento su misura: vi rientrano le attività di confezione e lavorazione di abiti, capi accessori ed articoli di abbigliamento, realizzati su misura o sulla base di schizzi, modelli, disegni e misure forniti dal cliente o dal committente, anche nei normali rapporti con le imprese committenti.

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includere, strada facendo, le nuove lavorazioni che col tempo si venissero affermando. Oltre a quelle già citate un’altra legge da ricordare sebbene non specificamente diretta alle imprese artigiane ma certamente importante è quella sulla subfornitura (L.192/98), che amplia la definizione del settore alle imprese sorte in funzione dell’industria: le imprese artigiane, date le loro caratteristiche strutturali, sono infatti ampiamente presenti nel mondo della subfornitura. Va poi menzionato il DPR n. 616/77 il quale, ridefinendo in primo luogo la stessa attività artigiana con riferimento a quanto stabilito dall’articolo 2083 del Codice Civile e dalla legge n. 860 del 1956 ha trasferito dagli organi statali alle Regioni un complesso di funzioni amministrative in tema di artigianato62. Ancora è da segnalare il DL n. 112/98 con cui viene attuato il conferimento alle Regioni di funzioni e compiti in materia di artigianato: tra i compiti, oltre a quelli menzionati dal precedente DPR 616, sono infatti inseriti anche quelli relative alla “erogazione di agevolazioni, contributi, sovvenzioni, incentivi e benefici di qualsiasi genere, comunque denominati, alle imprese artigiane, con particolare riguardo alle imprese artistiche.” Pertanto, se per concludere su questa parte, si volesse tratteggiare una comparazione tra quello italiano e i principali modelli di artigianato presentati in precedenza, gli elementi salienti da mettere in evidenza sarebbero quelli riepilogati nella tavola che segue.

Confronto fra i modelli di Francia, Italia e Germania Dimensione Qualifica di “mastro” Repertorio delle attività Italia flessibile* (costitut.) non prevista ampio ** Francia vincolante (costitut.) facoltativa vincolante ma ampio Germania non vincolante vincolante (costitutiva) vincolante ma ampio Regno Unito

non vincolante non prevista ristretto a cinque °

* Comunque piccole dimensioni con limiti diversi a seconda a seconda del settore di attività economica. ** Di fatto: tutti i settori di attività economica escluso sanità e pubblica amministrazione ° Sono considerate artigiane le imprese che svolgono attività artistiche, anche se non esiste nessuna definizione ufficiale. Sono attività artistiche: lavorazione del legno, lavorazione dei vimini, produzione manuale di ceramica, lavorazione del ferro.

62 Oggetto del trasferimento furono, in particolare, le funzioni relative: - all’approvazione e revisione degli elenchi dei mestieri artistici; - alla tenuta, attraverso le Commissioni Provinciali e Regionali per l’Artigianato, dell’Albo delle imprese artigiane;

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La questione artigiana a riforma costituzionale effettuata A seguito della riforma del titolo V della Costituzione, il nuovo testo dell’articolo 117 ha trasferito alle Regioni, in via esclusiva, la competenza in materia di artigianato. Si tratta di un enunciato semplice e diretto che tuttavia comporta una ridefinizione complessiva della normativa in materia da parte delle Regioni stesse e che ha posto non poche questioni di ordine istituzionale e persino costituzionale. Ad esempio ci si è dovuti chiedere se i risvolti di ordine previdenziale derivanti da modifiche dei criteri dimensionali, societari e contenutistici per l’attribuzione della qualifica di artigiano, fossero anch’essi di competenza delle Regioni. Allo stesso modo è sorto l’interrogativo circa la possibilità per la potestà regionale di spingersi fino a ridefinire lo status giuridico dell’impresa artigiana, ammettendo per esempio la costituzione di imprese artigiane in forma di società per azioni (forma giuridica attualmente non ammessa dalla legge 443/85). In modo analogo ci si è dovuti domandare se sia diventata di competenza regionale anche tutta la normativa che disciplina l’accesso ad alcune professioni che possono essere svolte anche in forma artigianale. L’articolazione locale dei profili normativi Come ricordato in altri lavori di ricerca l’impresa artigiana e l’imprenditore artigiano sono attualmente definiti dalla Legge quadro 443/85, come modificata dalla leggi 133/97 e 57/2001. Entrambi, tanto l’ impresa quanto l’artigiano, sono oggetto di un gioco di squadra tra livelli normativi: la norma nazionale, infatti, individua i requisiti soggettivi ed oggettivi dell’impresa artigiana, prevede l’istituzione di un apposito albo delle imprese artigiane la cui corretta tenuta è di competenza delle Commissioni provinciali per l’Artigianato. Si consideri, peraltro, che la modifica dell’art. 117 della costituzione sembra far diventare di competenza esclusiva regionale la definizione dell’imprenditore artigiano (limiti dimensionali, forma giuridica, oggetto dell’attività): tale possibilità tuttavia comporta, come richiamato nel precedente paragrafo, diverse complicazioni, per così dire, trasversali. Analogamente ci si domanda se sia diventata di competenza regionale tutta la normativa che disciplina l’accesso ad alcune professioni che possono essere svolte, in linea di principio, anche in forma artigianale. L’Umbria ha cominciato il riordino della normativa scegliendo di regolare organicamente la materia con l’adozione di un testo unico, ovvero un atto costitutivo e innovativo in cui confluisce tutta la materia.

- all’iscrizione, revisione e cancellazione dall’Albo, almeno fino a quando non fosse sopraggiunta una legge regionale per disciplinare in modo diverso la materia.

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Non si tratta però di un atto onnicomprensivo, dal momento che con il testo unico63 rimangono comunque in vigore le leggi di settore che regolano “mestieri” o figure professionali ben definiti oppure settori specifici. La norma regionale di riferimento, attuativa delle disposizioni dettate dalla legge quadro, è la legge regionale n. 5 del 12 marzo 1990, pubblicata sul Bollettino Ufficiale n. 12 (suppl. ord. n. 1) del 21 marzo dello stesso anno. Un vero e proprio testo unico dell’artigianato (da ora, per brevità: TUA), redatto dall’Umbria insieme a poche altre regioni italiane (ancora nel 2003 solo la Basilicata, il Piemonte, la Sicilia e il Trentino Alto Adige). Il TUA, in effetti, sorvola sulle problematiche definitorie e dichiara da subito il suo intendimento di disciplinare: a) le agevolazioni per l’accesso al credito; b) gli interventi a favore dell’associazionismo e della cooperazione nel settore; c) il sistema di servizi reali, l’innovazione tecnologica, l’assistenza tecnica, la ricerca applicata e la sperimentazione; d) gli interventi diretti a favorire l’insediamento in aree attrezzate e nei centri storici; e) gli interventi nel settore dell’artigianato artistico; f) la formazione professionale e l’occupazione nel comparto; g) l’attività promozionale. Gli obiettivi prefissati sub a) sono da conseguire attraverso interventi di facilitazione dell’accesso al credito per lo sviluppo (consolidamento ed espansione) delle imprese artigiane, il rilascio di fidejussioni e prestazione di altri servizi finanziari attraverso i consorzi fidi; la erogazione di incentivi di carattere straordinario (art. 3). Quelli di cui sub b), invece, sono da perseguire interventi regionali si traducono (art. 12) in finanziamenti per contribuire alle spese di costituzione e avviamento sostenute nel primo anno di attività, alle spese per la acquisizione di servizi reali a favore delle strutture associative e alle spese di gestione sostenute dagli organismi cooperativi e dalle associazioni. Gli obiettivi volti a consentire l’accesso a servizi reali da parte delle imprese artigiane comprendono fornitura di consulenza organizzativo-gestionale, economico-finan-ziaria, tecnologico-produttiva e commerciale e realizzazione di studi, ricerche e progettazione, con particolare riguardo ai problemi dello smaltimento e riciclaggio dei rifiuti prodotti dalle imprese artigiane (art. 15). Sub c), ovvero per quanto concerne gli interventi diretti a favorire l’insediamento in aree attrezzate e nei centri storici, il testo unico ha previsto un fondo con il quale sono finanziati annualmente i programmi presentati dai comuni per: la qualificazione, la razionalizzazione e il completamento delle aree per gli insediamenti artigiani previsti dagli strumenti urbanistici generali comunali vigenti, con particolare riferimento alla 63 Il concetto di “testo unico” adottato anche da altre Regioni non ha un carattere uniforme in quanto l’unificazione e il coordinamento di testi legislativi o normativi pregressi e distinti tra loro (caratteri comuni dei testi unici) sono stati spesso associati ad una interpretazione innovativa e ad una disciplina organica della materia.

DENTRO L’UMBRIA due260

realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria e di opere necessarie al trattamento ed allo smaltimento dei rifiuti solidi, liquidi e gassosi ed alla sistemazione dei luoghi di cui all’art. 10 della legge 28 gennaio 1977, n. 10; il mantenimento o il reinserimento di attività dell’artigianato artistico e di servizio nei centri storici, con particolare riferimento a progetti di recupero, anche integrati, di contenitori dismessi, pubblici o privati e, infine, la realizzazione di centri integrati per l’artigianato produttivo e di servizio. Per quanto riguarda gli obbiettivi di tutela dell’artigianato artistico, definiti in termini di qualificazione stilistica dei prodotti, di acquisizione di una propria immagine sui mercati e di promozione di una moderna cultura tecnico-formale attraverso l’approfondimento della ricerca contemporanea sull’oggetto d’arte e sul disegno industriale sono previste azioni dispiegate da un Comitato regionale per il contrassegno di origine e qualità il quale predispone il disciplinare di produzione per ciascuno dei settori d’arte riconosciuti o riconoscibili ai sensi della presente legge e lo inoltra al Consiglio regionale ai fini dell’approvazione; individua le zone di produzione interessate ed inoltra le relative proposte al Consiglio regionale per l’approvazione; esamina le domande di iscrizione all’albo ad esso inoltrate e le trasmette con proprio parere motivato alla commissione provinciale per l’artigianato per le determinazioni di competenza ai fini dell’iscrizione; accerta, ai fini dell’iscrizione all’albo, la rispondenza della produzione assoggettabile a tutela, alle norme previste dal disciplinare di produzione; propone al Consiglio regionale le modifiche e gli aggiornamenti dei disciplinari. Per quanto riguarda specificamente lo sviluppo dell’artigianato artistico la legge prevede (art. 28, comma 1) che la Regione promuova la creazione di strutture integrate per la realizzazione di studi e ricerche sul patrimonio artistico e culturale, ai fini della sua salvaguardia e conservazione; l’effettuazione di studi sull’evoluzione delle tecniche e loro diffusione anche mediante la creazione di appositi laboratori; la diffusione dell’immagine dell’artigianato artistico, con particolare riguardo alla politica commerciale, in raccordo con i soggetti operanti nel settore. E ciò provvedendo (art. 28, comma 2) al potenziamento dei centri per le tradizioni popolari di Città di Castello e Orvieto, istituiti con la legge regionale 9 agosto 1974, n. 46 e favorendo sia la creazione di nuove strutture, individuate dal piano pluriennale di cui all’art. 42, sia la realizzazione di un circuito regionale integrato di interesse anche culturale e turistico. Gli obbiettivi relativi agli interventi di formazione nel settore dell’artigianato (art. 29) sono definiti nell’ambito dei piani pluriennali e nei programmi annuali delle attività formative predisposti ai sensi della vigente normativa regionale di settore, sulla base anche dei dati e degli elementi forniti dalle commissioni provinciali e regionale per l’artigianato. In tale contesto un particolare rilievo è dato (art. 30) alla formazione imprenditoriale, attraverso l’individuazione di specifiche iniziative da realizzare anche con il concorso finanziario di altri soggetti pubblici e/o privati.

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La Regione, inoltre, favorisce la formazione nel settore anche attraverso il metodo dell’alternanza scuola-lavoro, utilizzando, con apposite convenzioni, aziende in possesso dei necessari requisiti preventivamente accertati e riconosciuti dagli enti delegatari in materia di formazione professionale mentre sono previste anche apposite forme di incentivo dirette a favorire l’occupazione nel settore dell’artigianato, anche attraverso il ricorso ai contratti di apprendistato e di formazione-lavoro ed alla bottega-scuola (art. 31). Infine, per quanto concerne l’attività promozionale, premesso (art. 33) che le iniziative regionali nel settore della promozione sono dirette alla valorizzazione e commercializzazione dei prodotti delle imprese artigiane singole, associate o consorziate, sui mercati interni ed internazionali, compito della Regione è di coordinare e favorire il concorso finanziario dei soggetti pubblici e/o privati operanti nel settore e di articolare i propri interventi distinguendo (art. 33) tra interventi promozionali per l’esportazione, interventi promozionali nel territorio nazionale e interventi promozionali nel territorio regionale, così come declinati agli artt. 3464, 3865 e 3966. E’ peraltro opportuno richiamare che non si è fin qui inteso modificare quanto disposto dall’arti 4, lettera c, della Legge Quadro 443/85 ove si prevede l’aumento dei limiti dimensionali alla possibilità di dichiararsi artigiane per le imprese che operano nei settori delle lavorazioni artistiche e tradizionali e dell’abbigliamento su misura così come individuati con DPR 288/2001. Ciò mentre, soprattutto a seguito della modifica dell’art. 117 della Costituzione, una opinione diffusa e consolidata ritiene che interventi di tal fatta rientrino nella competenza esclusiva delle Regioni67.

64 Interventi promozionali per l'esportazione sono finalizzati alla: - predisposizione di servizi di orientamento, informazione e assistenza diretti a favorire, nelle varie fasi del rapporto con i mercati, l'inserimento delle aziende ed il conseguimento di più elevati livelli di competitività; - partecipazione a fiere, mostre ed esposizioni aventi la qualifica internazionale, con scopi promozionali, di immagine o commerciali, anche per la valorizzazione delle produzioni tipiche e dell'artigianato artistico; - realizzazione di missioni commerciali e di progetti pilota, anche per l'importazione di materie prime e semilavorati; - effettuazione di studi, indagini di mercato, convegni, seminari, iniziative editoriali e pubblicitarie; - costituzione di strutture commerciali permanenti all'estero; - realizzazione di specifiche iniziative di sostegno e sviluppo nei confronti dei soggetti di cui all'art. 35, lettera b). 65 Le attività volte alla qualificazione, presentazione e commercializzazione dei prodotti dell'artigianato umbro sul territorio nazionale, sono promosse, coordinate e realizzate in forma diretta o indiretta dalla Regione con particolare riguardo alle iniziative innovative e di immagine, coordinando e favorendo il concorso finanziario di altri soggetti pubblici e/o privati interessati alla realizzazione delle stesse. A tal fine sono concessi contributi ad aziende artigiane singole, associate o consorziate, consorzi per il marchio di qualità ed altre strutture consortili per la partecipazione a fiere, mostre ed esposizioni realizzate sul territorio nazionale, aventi la qualifica di nazionale o internazionale e iscritte nel calendario ufficiale nazionale. 66 In questo caso la Regione promuove, favorisce ed incentiva la qualificazione e il coordinamento di manifestazioni che si svolgono in Umbria che sono finalizzate alla presentazione della produzione artigiana ed in particolare di quella artistica, disponendo annualmente la concessione di contributi ai soggetti organizzatori. 67 Si tratta di una situazione piuttosto aggrovigliata. Si consideri, ad esempio, che un decreto legislativo precedente (n. 112/98; art. 13) trasferiva le competenze amministrative alla Regione, anche con particolare

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Limiti di tale legge, rilevati a breve distanza dalla sua promulgazione e, per di più, dall’interno della regione, ovvero nell’ambito di una conferenza programmatica promossa dalla provincia di Perugia nel mese di gennaio del 1992, era una certa farraginosità di funzionamento, tant’è che si auspicava68 l’introduzione di un “controllo a valle dell’intervento finalizzato a velocizzare gli interventi stessi.” (p. 36) Si osservava, soprattutto, che “per tutta una serie di motivi, non ultimo quello della disponibilità finanziaria troppo scarsa per sviluppare un’adeguata politica nel settore” si veniva a imporre la necessità di “una riflessione sull’efficacia dello strumento legislativo stesso.”(p. 37)

riguardo alle imprese artistiche, ma mantenendo in capo all’Amministrazione statale la tutela delle produzioni ceramiche, in particolare quella delle produzioni artistiche di qualità di cui alla Legge 9 luglio 1990, n. 188 mentre tale attribuzione si rivela ora in contrasto con la modifica intervenuta all’art. 117 della Costituzione. 68 Provincia di Perugia (1992), pp. 36 – 37.

AURAPPORTI: RES 2008-09 263

APPENDICE A DECRETO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA 25 maggio 2001, n.288 - Regolamento69 concernente l’individuazione dei settori delle lavorazioni artistiche e tradizionali, nonché dell’abbigliamento su misura Elenco delle lavorazioni artistiche, tradizionali e dell’abbigliamento su misura (elenco esemplificativo)

Tabella di comparazione tra:

Vecchie definizioni Nuove definizioni

I - Abbigliamento (esclusivamente su misura) I - Abbigliamento su misura

Figurinisti e modellisti Lavori di figurinista e modellista

Modisterie (esclusivamente su commissione) Modisterie

Pellicciai su misura Confezione di pellicce e lavorazione delle pelli per pellicceria

Sgheronatura delle pelli per pellicceria per la formazione dei teli

Realizzazione di modelli per pellicceria

Sartorie su misura Sartorie e confezioni di confezione di capi, accessori e articoli per abbigliamento

Camicerie

Fabbricazione di cravatte

Fabbricazione di busti

Fabbricazione di berretti e cappelli

Confezione a maglia di capi per abbigliamento

Fabbricazione di guanti su misura o cuciti a mano

Calzolerie su misura Lavori di calzoleria

II - Cuoio e tappezzeria II - Cuoio, pelletteria e tappezzeria

Bulinatori del cuoio Bulinatura del cuoio

Decoratori del cuoio Decorazione del cuoio

Limatori del cuoio Limatura del cuoio

Ricamatura del cuoio (con fila di penne di pavone)

Fabbricanti di guanti, su misura o cuciti a mano

Fabbricanti di oggetti in pergamena

Lucidatori a mano di pelli Lucidatura a mano di pelli

Pellettieri artistici Fabbricazione di pelletteria artistica

Fabbricazione di pelletteria comune

69 Corretto a seguito dell'avviso di rettifica pubblicato sulla G.U. n. 216 del 17-9-2001 Per ulteriori approfondimenti si veda: www.cna.it/servizi/doclegislativa/lavori_artigianato_dpr288_tabella.htm#.

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Pirografi Pirografia

Sbalzatori del cuoio Sbalzatura del cuoio

Sellai Fabbricazione di selle

Stampatori del cuoio con presse a mano Stampatura del cuoio con presse a mano

Tappezzieri in cuoio Tappezzeria in cuoio

Tappezzieri in carta, in stoffa e in materie plastiche Tappezzeria in carta, in stoffa e in materie plastiche (di mobili per arredo e di interni)

III - Decorazioni III - Decorazioni

Addobbatori

Apparatori Lavori di addobbo e apparato

Decoratori con fiori Decorazione con fiori e realizzazione lavori con fiori, anche secchi e artificiali

Decorazione di pannelli in materiali vari per l’arredamento

Decorazione artistica di stoffe (tipo batik)

Lavori di pittura, stuccatura e decorazioni edili

Lavori di pittura letteristica e di decorazione di insegne

IV - Fotografia e riproduzione disegni IV - Fotografia, riproduzione disegni e pittura

Acquafortisti (riproduttori) Riproduzione di acquaforti

Litografisti (riproduttori) Realizzazione di originali litografici per riproduzioni policrome, foto d’arte e di opere dell’arte pittorica

Riproduzione di litografie mediante uso di pietre litografiche

Xilografi (riproduttori) Riproduzione di xilografie

Scenografi (pittori) Lavori di pittura di quadri, scene teatrali e cinematografiche

Riproduzione di disegni per tessitura

Lavori di copista di galleria

Fotografi (escluse le aziende che hanno macchine rotative per la stampa del fototipo)

Composizione fotografica (compresi i lavori fotomeccanici e fototecnici, escluse le aziende che hanno macchine rotative per la stampa del fototipo)

Lavori di fotoincisione

Ritoccatori Lavori di fotoritocco

V - Legno V - Legno e affini

Doratori

Laccatori

Lucidatori

Lavori di doratura, argentatura, laccatura e lucidatura del legno

Intagliatori

Intarsiatori

Traforisti

Lavori di intaglio (figure, rilievi e decorazioni), intarsio e traforo

AURAPPORTI: RES 2008-09 265

Scultori Lavori di scultura (mezzo e tutto tondo, alto e basso rilievo)

Stipettai Fabbricazione di stipi, armadi e di altri mobili in legno

Tornitura del legno e fabbricazione di parti tornite per costruzione di mobili, di utensili e attrezzi

Lavorazione del sughero

Fabbricazione di ceste, canestri, bigonce e simili

Fabbricazione di oggetti in paglia, rafia, vimini, bambù, giunco, e simili

Lavori di impagliatura di sedie, fiaschi e damigiane

Fabbricazione di sedie

Fabbricazioni di carri, carrelli, carrocci, slitte e simili

Fabbricazione e montaggio di cornici

Fabbricazione di oggetti tipici (botti, tini, fusti, mastelli, mestoli e simili)

Ebanisteria

Fabbricazione di pipe

Fabbricazione di paranchi a corda, remi in legno e simili

Carpenteria in legno

Verniciatura di imbarcazioni in legno

Fabbricazione di oggettistica ornamentale e di articoli da regalo in legno

VI - Metalli comuni VI - Metalli comuni

Arrotini Arrotatura di ferri da taglio

Sciabolai Lavorazione di armi da punta e da taglio, coltelli, utensili e altri ferri taglienti

Fabbricazione, lavorazione e montaggio di armi da fuoco

Chiavaioli Fabbricazione di chiavi

Damaschinatori Lavori di damaschinatore

Fabbricanti, sulla base di progetti tecnici, dei modelli di navi e di complessi meccanici navali ancora non costruiti

Fabbricazione, sulla base di progetti tecnici, dei modelli di navi e di complessi meccanici navali

Fonditori di oggetti d’arte

Lavorazione del ferro battuto Lavorazione del ferro battuto e forgiato

Magnani Fabbricazione di manufatti edili in acciaio e metallo (magnani)

Modellatori Modellatura dei metalli

Modellisti meccanici Fabbricazione di modelli meccanici

Peltrai Battitura e cesellatura del peltro

Ramai e calderai (lavorazione a mano) Lavori di ramaio e calderaio (lavorazione a mano)

Sbalzatori Lavori di sbalzatura

DENTRO L’UMBRIA due266

Traforatori artistici Lavori di traforatura artistica

Lavori di fabbro in ferro compresi i manufatti edili e gli utensili fucinati

Lavori di ferratura, cerchiatura di carri e di maniscalco

Fabbricazione di bigiotteria metallica e di oggettistica in metallo

Lavorazione dell’ottone e del bronzo

Carpenteria in ferro o altri metalli per imbarcazioni da diporto

Lavori di cromatura

Lavori di fusione di oggetti d’arte, campane, oggetti speciali e micro fusioni

VII - Metalli pregiati, pietre dure e lavorazioni affini

VII - Metalli pregiati, pietre preziose, pietre dure e lavorazioni affini

Argentieri ed orafi (lavorazioni essenzialmente a mano) escluse le lavorazioni in serie anche se la rifinitura viene eseguita a mano

Lavori di argenteria ed oreficeria in oro, argento e platino (con lavorazione prevalentemente manuale, escluse le lavorazioni in serie anche se la rifinitura viene eseguita a mano)

Cammeisti

Cesellatori Lavori di cesellatura

Filigranisti Lavorazioni della filigrana

Incisori di metalli e pietre dure

Lavorazione ed incisione su corallo, avorio, conchiglie, madre-perla, tartaruga, corno e lava

Lavori di incisione di metalli e pietre dure, su corallo, avorio, conchiglie, madre-perla, tartaruga, corno, lava, cammeo

Lavorazione ad intarsio delle pietre dure

Incastonatura delle pietre preziose

Miniaturisti Lavori di miniatura

Smaltatori d’arte Lavori di smaltatura

Formazione di collane in pietre preziose, pregiate e simili (corallo, giada, ambra, lapislazzuli e simili)

Infilatura di perle

VIII - Restauro

Antiquari restauratori

Copisti di galleria

Modellisti e restauratori di modelli di navi antiche

Restauratori del dipinto

Restauratori del mobile

Restauratori del mosaico

Restauratori della statuaria

Restauratori di vetrate artistiche

Restauratori di tappeti

AURAPPORTI: RES 2008-09 267

IX - Servizio di barbiere, parrucchiere ed affini VIII - Servizi di barbiere, parrucchiere ed affini

Acconciatori

Barbieri Servizi di barbiere

Lavoranti in capelli Lavorazione di parrucche

Parrucchieri per uomo

Parrucchieri per signora

Parrucchieri misti

Servizi di parrucchiere per uomo e donna

Truccatori Attività di estetica (come disciplinate dalla legge 1/90)

X - Strumenti musicali IX - Strumenti musicali

Fabbricanti di arpe Fabbricazione di arpe

Fabbricanti di strumento a fiato in legno Fabbricazione di strumento a fiato in legno e metallo

Liutai ad arco, a plettro ed a pizzico Liuteria ad arco, a plettro ed a pizzico

Organai Fabbricazione di organi, fisarmoniche ed armoniche a bocca, e di voci per fisarmoniche

Fonderie di campane Fabbricazione di campane

Lavori di accordatura

Fabbricazione di corde armoniche

XI - Tessitura ricamo ed affini X - Tessitura, ricamo ed affini

Arazzieri Fabbricazione di arazzi

Disegnatori tessili Lavori di disegno tessile

Materassai Fabbricazione e lavorazione manuale di materassi

Merlettaie a mano

Ricamatrici a mano Lavorazioni di merletti ricamo e uncinetto

Tessitori a mano Tessitura a mano (lana, seta, cotone, lino, batista, paglia, rafia e simili)

Tessitori a mano di tappeti Tessitori a mano di tappeti e stuoie

Coltronieri

Trapuntai a mano

Confezione a mano di trapunte, coltroni, copriletto, piumoni e simili

Lavorazione e produzione di arredi sacri

Fabbricazione e tessitura di bomboniere

Fabbricazione di vele

Fabbricazione di retine per capelli

XII - Vetro, ceramica, pietra ed affini XI - Vetro, ceramica, pietra ed affini

Applicatori di vetri Lavori di applicazione di vetri

Decoratori di vetri Lavori di decorazione del vetro

Fabbricanti di perle a lume con fiamma Fabbricazione di perle a lume con fiamma

Incisori di vetri Lavori di incisione di vetri

DENTRO L’UMBRIA due268

Infilatrici di perle

Piombatori di vetri Lavori di piombatura di vetri

Fabbricazione di oggetti in vetro

Fabbricazione di vetrate

Molatura di vetri

Modellatura manuale a fuoco del vetro

Soffiatura del vetro

Fabbricazione di specchi mediante argentatura manuale

Ceramisti d’arte

Fabbricanti di grèes (artistici)

Fabbricanti di terrecotte artistiche

Maiolicai (artistici)

Produzione di ceramica, grèes, terrecotte, maiolica, e porcellana artistica o tradizionale

Figurinai in argilla, gesso e cartapesta Fabbricazione di figurini in argilla, gesso, cartapesta, o altri materiali

Formatori statuisti Lavori di formatore statuista

Mosaicisti (esclusi i produttori di materia prima anche se eseguono montaggi) Lavori di mosaico

Scultori in marmo o altre pietre Lavori di scalpellino e di scultura figurativa ed ornamentale in marmo o pietre dure

Lavorazione artistica dell’alabastro

XIII - Varie XII - Carta, attività affini e lavorazioni varie

Lavorazione a mano di canestri e cesti

Rilegatura artistica di libri Rilegatura artistica di libri

Fabbricazione di oggetti in pergamena

Fabbricazione di modelli in carta e cartone

Lavorazione della carta mediante essiccazione

Fabbricazione di ventagli

Fabbricazione di carri e oggetti in carta, cartone e cartapesta

Fabbricazione di maschere in carta, cartone, cartapesta, cuoio, ceramica, bronzo, ecc.

XIII - Alimentaristi

Lavorazione di cereali e sfarinati

Produzione di paste alimentari con o senza ripieno

Produzione di pane, grissini, focacce ed altri prodotti da forno

Produzione di pasticceria, cacao e cioccolato, confetteria e altri prodotti dolciari

Produzione di gelateria

AURAPPORTI: RES 2008-09 269

Produzione di sciroppi, succhi, confetture, nettari, marmellate e altri prodotti similari

Produzione di olio d’oliva

Produzione di conserve animali e vegetali

Produzione e conservazione di prodotti ittici

Produzione e stagionatura di salumi

Lavorazione ed essiccazione di carni fresche

Lavorazione di grassi, strutto e frattaglie

Produzione e stagionatura di formaggi, latticini, burro, ricotta ed altri prodotti caseari

Produzione di specialità gastronomiche

Produzione e invecchiamento di vini, aceti, mosti a latri prodotti similari

Produzione di distillati e liquori

Lavorazione di funghi secchi e tartufi

Lavorazione di erbe e aromi

Lavorazione di frutta secca e conservata

DENTRO L’UMBRIA due270

Dimensioni e specializzazioni delle imprese: lo “spazio” delle opzioni

Fonte: Lassini (1983, p. 142)

Strategie di prodotto/utente

Strategie di prodotto/mercato

I II

III IV

Economie di

specializzazione

Economie di trasferimento tecnologico

Economie di scala

Economie di scope

Attività frammentate (con competitività basata su capacità tecniche)

Attività di volume (con competitività basata su capacità

tecniche e commerciali)

Grande impresa

AREA DELLE PICCOLE IMPRESE ARTIGIANE

AURAPPORTI: RES 2008-09 271

B) L’IMPRESA ARTIGIANA IN UMBRIA Premessa Ricordava Raffaele Rossi in una pubblicazione fuori commercio della fine degli anni ‘90: “Parlare in Umbria di città vuole anche dire parlare di artigiani. Le tante città umbre, quelle medie, piccole, piccolissime hanno tutte, della città, le caratteristiche di spazi organizzati e di compiutezza di funzioni e sono opera degli artigiani, fatte a dimensione d’uomo, nella trama minuta della loro struttura, nei valori ambientali e culturali.” Aggiungendo, poco più avanti, che “piuttosto che commettere altri gravi errori di tipo centralistico ed economicistico, tipici dei decenni della modernizzazione, occorre ripartire, come diceva Carlo Cattaneo, da ciò che è “distintivo e nativo”, dal territorio locale, non come chiusura in sé stesso e come autosufficienza, ma come “mattone elementare” di una ricostruzione unitaria più solida perché più partecipata da parte dei cittadini” (1997, p. 11). Niente da ridire in una frase come quella appena citata. Tuttavia è da sottolineare come, a fronte di essa, strida ancor più di quanto di per sé farebbe l’asserzione per cui “l’identikit che si è tracciato nel passato di una piccola industria creata da un piccolo industriale “di casa”, venuto dalla bottega artigiana, che fa le “cose in casa” è quanto di più sbagliato e anacronistico: il che non significa che quella figura non sia passata in molti casi attraverso un processo di evoluzione dalla posizione di lavoratore a quella di artigiano e poi di industriale. Non basta più un’immagine arcaica per definire la struttura di un’impresa che non può essere vista nell’angusta visione della “bottega”, ma che ha dimensioni, per problemi e per portata, nazionali ed internazionali, L’“Azienda Umbria” produce per i mercati del mondo, se si esclude il settore dei cantieri edili” (Regione dell’Umbria, 1982, p. 7). Una visione severa, quest’ultima, quasi punitiva dell’artigianato, salvo poi farne trasparire l’unico elemento di pregio: la rapidità di accesso ai finanziamenti dell’Artigiancassa con la impressionante cifra di “oltre 4 mila domande di aziende artigiane” e ciò nonostante una triplicazione, in alcuni casi, del tasso di interesse agevolato ad esse praticato. Era tuttavia una visione diffusa e, verrebbe da dire, anche condivisa. Si ricorda, infatti, che “quando in una passata riunione della sezione artigiana, presso questa Camera di Commercio (di Perugia, NdA) è stato letto un resoconto dei finanziamenti dall’Artigiancassa agli artigiani umbri, gli esponenti delle categorie si sono meravigliati di vedere che ingenti cifre erano state concesse all’artigianato umbro, di cui però non avevano mai avuto diretta notizia ed espressero desiderio di avere maggiori chiarimenti”. Che fossero poco noti i richiedenti o non enfatizzate a sufficienza le erogazioni quell’episodio indica come anche scendendo di livello istituzionale ed arrivando più dappresso al mondo delle imprese si riconfermi l’immagine di una grande nebulosa dentro la quale si cominciano a vedere le mani callose che escono, per intanto, per raccogliere le agevolazioni pubbliche.

DENTRO L’UMBRIA due272

Ma tutto quanto appena ricordato è poco più che “storia patria”, nutrita di testimonianze che si comprendono meglio solo se le si cala nei contesti dei tempi a cui si riferiscono e di cui oggi resta poca contezza. Così il tempo intercorso tra la prima legge quadro nazionale (1985) e la promulgazione della legge n. 5 del 1990 che in Umbria da seguito alle indicazioni della prima, e ancor più il tempo passato da allora ad oggi, nell’attesa di una rivisitazione e, allo stesso tempo, della implementazione organica e funzionale del più volte promesso Osservatorio sull’artigianato, interessa più sotto il profilo della cronaca e della memoria che non quello della ricognizione di contributi tali da rinviare a riflessioni almeno significative, se non originali, sul tema. Di conseguenza, nelle pagine che seguono ci si concentrerà su uno specifico compito: quello di ricostruire, almeno nell’ordine generale, le dimensioni di un fenomeno la cui consistenza effettiva continua a restare per lo più sconosciuta. Sullo sfondo il rammarico di cui si è dato conto nella prima parte di questo contributo: quello di non poter considerare la dimensione “oggettiva” dei fenomeni che interessano – tanto l’impresa quanto il suo demiurgo, l’imprenditore – e di doversi accontentare della dimensione “soggettiva” e per di più impersonale, ossia dell’impresa autoselezionata come artigiana per propria scelta, consapevole anche se spesso dettata dalle opportunità del momento. Le imprese artigiane nel contesto dell’economia e dello sviluppo dell’Umbria Contagi dall’esterno, disponibilità di risorse all’interno e concomitanza di circostanze favorevoli riescono a spingere anche l’Umbria, negli anni Settanta, sulla strada di uno sviluppo senza precedenti. Si inverte, di conseguenza, la tendenza allo spopolamento, si irrobustiscono le capacità imprenditoriali, si consolida il processo di accumulazione e prende avvio, in modo inarrestabile, il processo di trasformazione economica e sociale della regione. Pur mantenendo alcuni connotati utili ad assecondare ed enfatizzare la portata dei processi attivati la metamorfosi dell’Umbria si evidenzia in modo inequivocabile. Per un verso essa appare inserita in un più ampio processo di graduale omogeneizzazione del territorio nazionale: un processo di modernizzazione, qui intesa senza alcun intento valutativo, ma solo per alludere all’eventuale avvicinamento verso l’ultimo di tre stadi dell’evoluzione socio-demografica (stadio della “società maturo-stazionaria ed eterodiretta70”). Per un altro verso, tuttavia, la “modernizzazione”

70 “Nella terza fase - quella attuale - la percentuale delle nascite comincia a seguire quella delle morti nel loro declino. Quindi l’incremento demografico si riduce (quasi) a zero; il numero delle nascite si contrae; la vita diviene più lunga, sicché vi è più tempo per intensificare i rapporti interpersonali. Le relazioni sociali si moltiplicano, le condizioni materiali consentono «un prodigo consumo voluttuario del tempo libero e dei prodotti di eccedenza» (Riesman et al. 1967, 26). L’apertura alle relazioni sociali e ai consumi di massa fanno sì che, sul piano del carattere sociale, emerga il tipo “eterodiretto”, in cui il singolo diviene molto più sensibile

AURAPPORTI: RES 2008-09 273

manifestata dall’Umbria sembra spinta non solo da effetti di accelerazione indotti per conseguire un allineamento ma anche da dinamiche innovative che da tempo avevano cominciato a differenziarla rispetto alla società tradizionale e “di transizione”. Per l’Umbria si tratta, quindi, di un impulso aggiuntivo rispetto a quella dinamica omogeneizzante. Un impulso a cui non sono di certo estranee le vicende dei decenni immediatamente precedenti: l’imponente lettura del territorio e dello stato di crisi dell’area effettuate in seno ad una originale esperienza programmatoria, la successiva mobilitazione di energie sopite per effetto di una pluralità di sollecitazioni, l’avvio dell’esperienza regionalista che in Umbria trova, negli studi di un decennio prima, idee e programmi con cui l’Autorità riesce ad implementare, fin da subito, una propria azione di indirizzo e amministrazione. L’istituzione della Regione, negli anni Settanta, si inserisce in uno scenario complesso ma ricco ed effervescente: tengono ancora le grandi imprese dell’industria di base e pubblica dell’area ternana, dilaga l’abbandono del lavoro esclusivo in agricoltura e si diffondono le prime fabbrichette, parte frutto del decentramento produttivo e parte conseguenza della domanda di produzioni locali che incomincia a diventare consistente e a raggiungere soglie invitanti. Il passaggio da un comparto a bassa produttività, l’agricoltura, a comparti più dinamici fa registrare, nonostante l’aumento del numero di occupati, un balzo sostanzioso dei livelli della produttività e allo stesso tempo del prodotto per abitante. Questi raggiungono il loro massimo, portando il valore del PIL per abitante della regione addirittura a superare quello medio nazionale, a cavallo degli anni ‘80. Negli anni successivi il ridimensionamento dei grandi impianti produttivi dell’area ternana, l’ulteriore fase di trasformazione caratterizzata dalla diffusione delle attività terziarie, insieme ad un aumento della popolazione più consistente di quello del numero degli occupati, e ciò per effetto dell’invecchiamento della popolazione e dell’esaurirsi degli effetti del boom demografico dei primi anni del secondo dopoguerra, riportano i valori regionali di nuovo sotto quelli medi nazionali. Cresce il numero degli occupati ma cresce anche il numero delle imprese e delle imprese artigiane in linea, grosso modo, con le tendenze prevalenti nel Paese. Così le imprese artigiane dell’Umbria mantengono una incidenza sul corrispondente totale nazionale dell’1,7%, un peso superiore a quello che normalmente si assegna ad altre grandezze regionali (tra l’1,4% e l’1,6%; intorno all’1% per l’export).

all’approvazione, al riconoscimento, ai “segnali”, ai messaggi che provengono dai suoi simili (amici, coetanei, massmedia, etc.). Questo nuovo carattere, a sua volta, è coerente con il capitalismo monopolistico che implica una minore importanza attribuita all’individualismo (cfr. Weber 1945 e 1961). Di solito questa tendenza, scandita in tre fasi, si muove con tempi abbastanza lenti; ma talvolta può imprimere un ritmo repentino: nel giro di due generazioni - e perfino nella biografia di una sola generazione - può avvenire il passaggio da una società all’altra; in tal caso traumi e tensioni divengono inevitabili (Riesman et al. 1967, 42-3) e ciò può generare una condizione di “anomia”, cioè di disorientamento collettivo.” (Montesperelli, 2007, pp. 440-441). Si tratta di processi “radicali” che si dispiegano “ad ampio raggio, che coinvolgono le agenzie di socializzazione, i modelli educativi, la cultura del lavoro, gli stili di fruizione del tempo libero, la concezione della politica e così via.” (ib.)

DENTRO L’UMBRIA due274

Quella che a lungo si era manifestata come evidenza di un dualismo territoriale e dimensionale insieme, e cioè la divaricazione tra una provincia, quella di Terni, sede privilegiata di imprese di grandi dimensioni, e l’altra provincia, quella di Perugia, incubatore specializzato per imprese di piccole dimensioni, è via via scemata. A fronte di un ridimensionamento degli organici delle grandi imprese a ciclo integrato la provincia di Terni dispone oggi di un maggior numero di piccole e medie imprese, la gran parte delle quali non appare più ancillare rispetto alle dinamiche delle grandi imprese dalle quali si cerca di essere indipendenti per andare invece ad affrontare le incognite di mercati non locali e tanto meno protetti. Nel contempo il frazionamento degli stessi grandi impianti di un tempo ha favorito l’insediamento di imprese multinazionali, non più grandissime per dimensione assoluta degli organici, ma comunque importanti per raggio d’azione, modelli di operatività, portata della sfida indirizzata al cuore delle maestranze, delle rappresentanze sociali e delle istituzioni e amministrazioni locali. Uno shock nello shock della grande gelata siderurgica e chimica degli Anni ‘90. Ma capace di ridare spinta e vitalità al desiderio di autonomia e alle voglie di fare impresa. Restano tuttavia alcuni limiti strutturali di fondo. Ancora oggi squilibri demografici e alcune specifiche differenze rispetto ai principali modelli di organizzazione dell’economia locale, differenze che si traducono in una bassa produttività media del lavoro, determinano un valore del PIL per abitante inferiore alla media: nel 2008, fatto 100 il valore medio nazionale, l’Umbria si poneva a quota 83,4. Sotto l’aspetto economico la tabella a fianco evidenzia i tratti principali delle dinamiche che contraddistinguono la trasformazione della struttura economica dell’Umbria. Come si vede, gli ultimi anni mostrano dinamiche frizionali di aggiustamento rispetto ai valori strutturali che caratterizzano la collocazione dell’Umbria rispetto alle regioni dell’Italia di centro e dell’Italia nel suo complesso. In un’ottica più ampia sul periodo tra il 1980 e il 2001 il cambiamento è ovviamente più evidente. L’industria non è più il comparto che genera la maggior parte del valore aggiunto. Sostituita dal comparto dei servizi vuoi per tendenza naturale della crescita di nuove attività terziarie vuoi per una razionalizzazione delle attività interne alle aziende industriali, una volta raggiunta una soglia complessiva di sufficiente ampiezza, tale da giustificare la sostituzione di una filosofia dell’autoproduzione in azienda (politica del make) con una prassi di ricorso a fornitori esterni più specializzati (politica del buy) la manifattura deve lasciar più spazio al terziario ai cui progressi è intimamente collegata.

AURAPPORTI: RES 2008-09 275

Alcuni indicatori economici e sociali per gli anni 1995-2008

Popolazione Occupazione PILpc Incidenza imprese artigiane

n. (.000) % su Italia

n. (.000)

% su Italia

(N.I.:Italia = 100)

Sul totale delle imprese

regionaliSul totale nazionale (imprese artigiane)

1995 813,9 1,43 324,2 1,48 86,9 - -

1996 815,1 1,43 325,6 1,48 86,0 - -

1997 816,9 1,44 329,1 1,49 86,2 - -

1998 818,2 1,44 334,0 1,50 85,3 - -

1999 819,8 1,44 345,6 1,54 86,6 - -

2000 822,5 1,44 356,9 1,56 86,5 30,5 1,7

2001 825,2 1,45 363,0 1,55 87,0 30,5 1,7

2002 830,2 1,45 359,6 1,51 85,1 30,4 1,7

2003 841,1 1,46 362,1 1,50 84,5 30,4 1,7

2004 853,5 1,47 370,6 1,53 84,7 30,3 1,7

2005 863,4 1,47 372,8 1,53 83,2 30,1 1,7

2006 870,4 1,48 383,0 1,54 83,5 30,0 1,7

2007 878,7 1,48 394,9 1,57 83,7 30,0 1,7

2008 889,3 1,49 394,3 1,56 83,4 29,6 1,7 Fonte: ns. elab. su dati ISTAT

Quoziente lordo di occupazione (rapporto tra numero di occupati e popolazione totale) in Umbria e in Italia (%; 1995 – 2008)

0,36

0,41

0,46

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

Umbria Italia

Fonte: ns. elab. su dati ISTAT

Modificata è anche, ovviamente, la struttura dell’occupazione. Ulteriormente compressa la quota dell’occupazione agricola (dal 15,1% al 4,7%) e asciugata la quota dell’occupazione nell’industria (passata dal 32,6% al 22,8%) e delle costruzioni (dall’8,0% al 7,7%) a crescere è l’occupazione nei servizi: quelli connessi alla distribuzione dei beni (dal 19,9% al 27,5%), quelli facenti parte di un ampio aggregato

DENTRO L’UMBRIA due276

di servizi finanziari per imprese (in gran parte) e famiglie (dal 4,1% all’11,0%) e anche l’insieme degli altri servizi (dal 20,3% al 26,2%).

La struttura del valore aggiunto ai prezzi (correnti) base

Umbria Italia C.N. Italia 1980 2001 1980 2001 1980 2001 Agricoltura, silvicoltura e pesca 5,7 3,1 4,8 2,3 6,2 2,8 Industria in senso stretto (1) 40,7 23,8 36,9 26,4 32,9 23,7 Costruzioni 7,4 5,6 6,5 4,8 7,5 5,1 Servizi distributivi (2) 22,0 25,8 25,2 25,3 24,8 25,0 Servizi finanziari e imprenditoriali (3) 12,5 25,5 17,2 28,0 16,5 27,5 Altri servizi 16,5 21,5 14,4 18,0 16,9 20,3 Valore aggiunto (lordo SIFIM*) 104,6 105,3 105,0 104,8 104,8 104,4 Sifim* (indirett. misurati) 4,6 5,3 5,0 4,8 4,8 4,4

Fonte: ns. elab. su dati ISTAT Come si vede dal complesso dai dati riportsati in tabella, rispetto al 1980 il profilo dell’occupazione regionale si rivela, nel 2001, molto più simile a quello medio delle regioni centro-settentrionali e anche a quello dell’Italia nel suo complesso. Terminato così l’allineamento su di un modello standard proposto dai valori medi nazionali gli scarti dai valori di benchmarking cominciano ad apparire molto più contenuti, come già si è notato nel caso dei dati riferiti al periodo dal 1995 al 2008 introdotti in precedenza. C’è tuttavia un aspetto che le due serie di dati, se lette separatamente, non consentono di evidenziare e che invece appare in tutta la sua rilevanza qualora le stesse vengano combinate in un indicatore di sintesi quale può essere considerato la produttività del lavoro, ossia il rapporto, per ogni settore, tra il valore aggiunto da esso generato e il numero degli occupati dallo stesso impiegati. La struttura dell’occupazione in Umbria, nel Centro-nord dell’Italia e in Italia: confronto tra 1980 e 2001

Umbria Italia C.N. Italia 1980 2001 1980 2001 1980 2001 Agricoltura, silvicoltura e pesca 15,1 4,7 9,7 3,9 13,3 5,6 Industria in senso stretto (1) 32,6 22,8 33,6 25,0 28,8 21,9 Costruzioni 8,0 7,7 6,6 6,6 7,7 6,9 Servizi distributivi (2) 19,9 27,5 24,5 27,2 24,0 26,9 Servizi finanziari e imprenditoriali (3) 4,1 11,0 5,8 13,4 5,3 12,9 Altri servizi 20,3 26,2 19,7 23,8 20,9 25,7

Fonte: ns. elab. su dati ISTAT

AURAPPORTI: RES 2008-09 277

Continuando ad assumere come parametro di comparazione i valori medi nazionali il ventennio in esame evidenzia, per l’Umbria, un calo relativo della produttività nei comparti dell’industria in senso stretto (comprensiva cioè della manifattura e della produzione di energia), di quelli qui raggruppati sotto l’etichetta “servizi distributivi” e degli “altri servizi”. Miglioramenti si registrano, in primo luogo, per l’agricoltura e per i “servizi finanziari e imprenditoriali”. Il settore delle costruzioni fa registrare un lievissimo recupero, la cui sintomaticità appare più evidente a cospetto del dato per le regioni centro-settentrionali: queste, infatti, sono caratterizzate da una produttività più alta ma anche da una tendenza riflessiva. Peraltro, anche per i “servizi finanziari e imprenditoriali” è da sottolineare che il recupero, in Umbria, avviene per via di una riduzione (-19,9%) inferiore a quella che contraddistingue le regioni settentrionali (-15,50).

La produttività del lavoro (medie settoriali per l’Italia = 100 e tassi di variazione %) in Umbria e nell’Italia centro-settentrionale nel 1980 e nel 2001

Umbria Italia C.N. Var. % 1980 2001 1980 2001 Umbria Italia C.N. Agricoltura, silvicoltura e pesca 81,8 136,5 113,8 123,3 302,1 161,1 Industria in senso stretto (1)* 111,2 89,9 100,3 102,3 31,4 65,5 Costruzioni* 92,2 92,8 108,5 106,4 18,6 14,4 Servizi distributivi (2) 102,1 94,3 105,9 104,8 24,7 33,6 Servizi finanziari e imprenditoriali (3)* 93,3 99,7 101,1 101,1 -19,9 -25,0 Altri servizi 102,8 97,8 95,7 100,3 -3,8 6,1 Totale 97,2 94,5 105,4 105,0 35,4 38,8

Fonte: ns. elab. su dati Istat * Legenda: (1) Industria estrattiva, manifatturiera e della produzione e distribuzione di energia, gas ed acqua (sezioni C, D ed E); (2) Commercio, alberghi e ristoranti, trasporti e comunicazioni (sezioni G, H e I); (3) Servizi di intermediazione monetaria, finanziaria ad assicurativa e attività immobiliari, di noleggio, informatica e di consulenza alle imprese (sezioni J e K). Nel complesso l’Umbria registra una perdita di quasi tre punti nel livello generale di produttività relativa per occupato (da 97,2 a 94,5, essendo pari a 100 la media nazionale) mentre le regioni centro-settentrionali restano comunque sopra la media nazionale di almeno cinque punti. Per enfatizzare ulteriormente le differenze le singole situazioni settoriali sono messe a confronto con un comune dato medio di riferimento, cioè con il valore della produttività generale del lavoro su scala nazionale. Così appaiono in tutta la loro sostanza.

DENTRO L’UMBRIA due278

Come si vede le differenze sono abbastanza pronunciate e sottolineano la diversa influenza manifestata nel tempo dall’insieme di fattori, sia interni alle imprese, sia interni ai settori produttivi e sia, infine, esterni alle imprese e ai settori ma interni ai singoli sistemi territoriali, che condizionano le prestazioni di questi ultimi. La produttività del lavoro (media totale Italia = 100) Umbria Italia C.N. 1980 2001 1980 2001 Agricoltura, silvicoltura e pesca 25,7 74,3 35,8 67,1 Industria in senso stretto (1) 102,0 96,1 92,0 109,3 Costruzioni 79,4 67,6 93,4 76,7 Servizi distributivi (2) 99,7 89,25 103,4 99,2 Servizi finanziari e imprenditoriali (3) 332,8 191,5 360,7 194,2 Altri servizi 100,32 68,2 93,3 71,0 Totale 97,2 94,4 105,4 105,0

Fonte: ns. elab. su dati ISTAT * Legenda: cfr. tabella precedente. Il riallineamento del settore agricolo, il quale, sorpassando il Centro-nord, sopravanza anche le costruzioni (discese a quota 67,6 rispetto al valore medio generale dell’Italia posto uguale a 100) e i servizi collettivi e pubblici (anch’essi scesi sotto quota settanta, come le costruzioni) è il solo dato positivo dell’andamento del periodo. Per il resto tutti i comparti registrano arretramenti, compreso quelli che in precedenza erano in buone condizioni (quale ad esempio il comparto dell’industria in senso stretto, sceso da 102,0 a 96,1, dunque da sopra a sotto la media di riferimento) o addirittura in ottime condizioni (come il comparto dei servizi finanziari e imprenditoriali, che rimane sempre sopra la media ma scende da 332,8 a 191,5). Rispetto alla media di riferimento anche il Centro-Nord manifesta un certo rallentamento ma, rispetto all’Umbria, arretra meno quando la produttività decresce e inoltre mantiene una buona performance nell’industria in senso stretto: in questo comparto la produttività sale addirittura da sotto a sopra la media, ovvero da quota 92,0 a 109,3). Così il livello complessivo si mantiene elevato (105,0) e praticamente stabile (era 105,4 nel 1980), mentre l’Umbria perde tre punti e scende da 97,2 a 94,4. Al di là degli alti e bassi riconoscibili i dati analizzati lasciano trasparire intensi processi di riorganizzazione e ristrutturazione entro e tra i comparti produttivi. Parte integrante di questi processi sono, nel periodo, i sommovimenti interni alle classi dimensionali più piccole, in generale, e per quanto qui interessa più specificamente, alle classi che includono la popolazione delle imprese artigiane, le classi, cioè fino a 49 addetti.

AURAPPORTI: RES 2008-09 279

Tra il censimento del 1981 e quello del 2001, ultimo disponibile, la crescita del numero delle imprese e quello degli addetti appare in tutta la sua evidenza. Una flessione, poi riassorbita, la si ha nel censimento che spezza il periodo: nel 1991, infatti, la classe di imprese con un solo addetto registra una caduta di oltre 1.300 unità, cosa che non avviene per le altre piccole imprese.

Numero di imprese e di addetti nelle piccole imprese in Umbria negli anni 1981, 1991 e 2001

Imprese Addetti Classi di addetto 1981 1991 2001 1981 1991 2001 Imprese artigiane 1 10.878 9.523 11.216 10.878 9.523 11.216 2 3.549 3.997 4.190 7.098 7.994 8.380 3 - 5 3.468 3.784 4.298 12.927 13.974 15.880 6 - 9 1.355 1.408 1.610 9.723 10.176 11.469 < 10 19.250 18.712 21.314 40.626 41.667 46.945 10 - 49 629 890 1.256 8.082 12.910 18.868 < 50 19.879 19.602 22.570 48.708 54.577 65.813 Piccole imprese 1 20.233 24.232 35.268 20.233 24.232 35.268 2 9.494 11.191 11.906 18.988 22.382 23.812 3 - 5 6.976 9.618 10.218 25.539 35.309 37.335 6 - 9 2.332 2.966 3.312 16.760 21.405 23.595 < 10 39.035 48.007 60.704 81.520 103.328 120.010 10 - 49 2.264 2.658 3.094 40.130 47.079 54.615 < 50 41.299 50.665 63.798 121.650 150.407 174.625 Sottoinsieme delle piccole imprese a parità di settori 1 16.396 18.970 25.377 16.396 18.970 25.377 2 7.536 9.144 9.317 15.072 18.288 18.634 3 - 5 5.951 8.010 8.537 21.858 29.432 31.283 6 - 9 2.082 2.585 2.897 14.989 18.690 20.647 < 10 31.965 38.709 46.128 68.315 85.380 95.941 10 - 49 2.049 2.337 2.771 36.348 41.392 48.867 < 50 34.014 41.046 48.899 104.663 126.772 144.808

Per rendere più omogenee possibili le comparazioni le tabelle riportano anche i dati relativi al complesso delle piccole imprese ma “a parità di settori”, ovvero ottenuti escludendo dal computo i comparti nei quali, per definizione, non è ipotizzata la presenza di imprese artigiane71. Anche su base omogenea si conferma l’anomalia del dato relativo alla riduzione del numero delle imprese individuali artigiane in Umbria:

71 Sono esclusi, ad esempio, i comparti delle attività industriali agricole (codici 011 e 012 nella classificazione Ateco 2002), del commercio di autoveicoli (cod. 501)o dei trasporti aerei non di linea (cod. 622) ed altri. In tal modo le dinamiche sono evidentemente simili e non inglobano eventuali effetti derivanti dalla diversa composizione degli aggregati.

DENTRO L’UMBRIA due280

nel complesso, infatti, le piccole imprese con un addetto crescono da 16.396 (nel 1981) a 18.970 (nel 1991). L’andamento dei valori da un censimento all’altro e con riferimento specifico alle singole classi dimensionali è piuttosto variegato e mal si presta a intuire cosa sia cambiato nel mondo delle piccole imprese. A parte l’analisi dei tassi di crescita, che verrà comunque parzialmente ripresa più avanti, un modo per rendere più trasparenti i processi è quello di calcolare i rapporti di composizione, ovvero di misurare l’incidenza che classe per classe, e anno per anno, le imprese artigiane hanno rispetto all’uno o all’altro dei due totali di comparazione: l’universo delle piccole imprese di pari ampiezza e il sottoinsieme di quelle appartenenti agli stessi settori che interessano l’artigianato. Con l’accorgimento di riferirsi al totale delle piccole imprese operanti negli stessi settori in cui sono presenti imprese artigiane si evita di stimare erroneamente l’andamento dell’incidenza effettiva delle seconde sulle prime. Nel totale generale, infatti, sono incluse imprese appartenenti a settori da cui, per definizione, è esclusa la possibilità di un esercizio di tipo artigiano. Nella misura in cui tali settori fossero particolarmente dinamici, ovvero caratterizzati da una elevata natalità di imprese, il rapporto tra numero delle imprese artigiane e numero totale di piccole imprese darebbe un falso segnale di decelerazione delle prime. Incidenza delle imprese artigiane sul totale generale delle piccole imprese e sul totale a parità di settori (1981 – 2001)

Imprese Addetti Classi di addetto 1981 1991 2001 1981 1991 2001 Piccole imprese 1 53,8 39,3 31,8 53,8 39,3 31,8 2 37,4 35,7 35,2 37,4 35,7 35,2 3 - 5 49,7 39,3 42,1 50,6 39,6 42,5 6 - 9 58,1 47,5 48,6 58,0 47,5 48,6 < 10 49,3 39,0 35,1 49,8 40,3 39,1 10 - 49 27,8 33,5 40,6 20,1 27,4 34,5 < 50 48,4 38,9 35,6 41,3 37,7 39,0 Sottoinsieme delle piccole imprese a parità di settori 1 66,3 50,2 44,2 66,3 50,2 44,2 2 47,1 43,7 45,0 47,1 43,7 45,0 3 - 5 58,3 47,2 50,3 59,1 47,5 50,8 6 - 9 65,1 54,5 55,6 64,9 54,4 55,5 < 10 60,2 48,3 46,2 59,5 48,8 48,9 10 - 49 30,7 38,1 45,3 22,2 31,2 38,6 < 50 58,4 47,8 46,2 46,5 43,1 45,4

AURAPPORTI: RES 2008-09 281

Come si vede gli ordini di grandezza subiscono degli aggiustamenti. Al 2001, per esempio, se si considera il totale generale le imprese artigiane nel complesso e nelle singole classi oscillano tra il 31,8% della classe con un solo addetto e il 48,6% della classe con un numero di addetti da 6 a 9, sì che il valore medio si colloca a quota 41,3% se si considerano le imprese e a quota 39,0% se, invece, si considerano gli addetti. Se invece si analizza il fenomeno artigiano su basi omogenee allora si va dal 38,6% relativo agli addetti della classe di impresa da 10 a 49 fino al 55,6% relativo alla quota di imprese della classe con un numero di addetti da 6 a 9, mentre il valore medio sale, rispetto al primo caso, di sei – sette punti percentuali e si attesta a quota 46,2% (imprese) e 45,4% (addetti). Quasi la metà, dunque. Ed è questo il “peso” più “corretto” per quanto riguarda la presenza delle imprese artigiane nel tessuto produttivo dell’Umbria. Un peso che comunque tende a scendere dal 1981, almeno in termini di imprese se non in termini di addetti. Le prime, infatti, scendono, nell’arco dei vent’anni considerati, dal 58,4% al 46,2%; i secondi, a loro volta, rilasciano un punto e più di percentuale e passano dal 46,5% del 1981 al 45,4% del 2001. Dimensioni medie delle piccole imprese in Umbria

Imprese artigiane Totale piccole

imprese Totale omogeneo piccole

imprese Classi di addetti 1981 1991 2001 1981 1991 2001 1981 1991 2001 3 - 5 3,7 3,7 3,7 3,7 3,7 3,7 3,7 3,7 3,7 6 - 9 7,2 7,2 7,1 7,2 7,2 7,1 7,2 7,2 7,1 < 10 2,1 2,2 2,2 2,1 2,2 2,1 2,1 2,2 2,1 10 - 49 12,8 14,5 15,0 17,7 17,7 17,6 17,7 17,7 17,6 < 50 2,5 2,8 2,9 3,1 3,1 3,0 3,1 3,1 3,0

Fonte: ns. elab. su dati Istat.

Un aspetto inatteso dei cambiamenti osservati è l’impatto sulle dimensioni medie delle imprese:

a) queste risultano uguali nei valori e nelle dinamiche per il totale generale e per il totale omogeneo mentre le imprese artigiane seguono a una certa distanza ma convergono sulle dimensioni delle prime;

b) fanno eccezione a quanto appena detto le classi dimensionali più piccole (da 3 a 5 addetti e da 6 a 9 addetti), perfettamente intercambiabili per tipologia di impresa, tanto nei singoli valori quanto nelle tendenze;

c) la principale divergenza la si rileva, dunque, nella classe superiore, da 10 a 49 addetti, laddove il divario che resta nel 2001, circa 3 addetti in media, è comunque inferiore al divario di partenza: nel 1981, infatti, le dimensioni medie delle imprese artigiane erano di 12,8 addetti per impresa, mentre nel complesso

DENTRO L’UMBRIA due282

delle imprese, in generale e nel gruppo omogeneo, si registrava un valore di 17,7 addetti per impresa, di cinque unità superiore.

Che si tratti di timidezza delle imprese, più disponibili a restare artigiane avendo scelto di non ampliarsi più di tanto, oppure che sia un effetto della composizione settoriale, per cui nella classe di dimensione maggiore sono comunque maggiormente presenti, tra le artigiane, i comparti meno affollati di personale meriterebbe ulteriori approfondimenti. Vero è, però, che tra un decennio e l’altro i differenti gruppi di imprese esprimono dinamiche assai differenti sotto il profilo numerico suoi delle imprese vuoi dei loro addetti. Il decennio 1981-1991 vede flettersi, nel complesso, il numero delle imprese artigiane. Nel decennio successivo vi è un recupero ma il tasso di crescita delle stesse non eguaglia le prestazioni delle altre piccole imprese, omogenee o meno che siano. La performance del comparto delle imprese artigiane con un numero di addetti compreso tra 10 e 49, già manifestato nel decennio precedente, si conferma notevole e sopravanza, anche nel decennio 1991-2001, i risultati conseguiti dalle altre. Piccole imprese e relativi addetti (1981 - 2001): tassi di variazione (%) Imprese AddettiClasse di addetti 1991/’81 2001/’91 2001/’81 1991/’81 2001/’91 2001/’81 Imprese artigiane1 -12,5 17,8 3,1 -12,5 17,8 3,1 2 12,6 4,8 18,1 12,6 4,8 18,1 3 - 5 9,1 13,6 23,9 8,1 13,6 22,8 6 - 9 3,9 14,3 18,8 4,7 12,7 18,0 < 10 -2,8 13,9 10,7 2,6 12,7 15,6 10 - 49 41,5 41,1 99,7 59,7 46,2 133,5 < 50 -1,4 15,1 13,5 12,0 20,6 35,1 Piccole imprese1 19,8 45,5 74,3 19,8 45,5 74,3 2 17,9 6,4 25,4 17,9 6,4 25,4 3 - 5 37,9 6,2 46,5 38,3 5,7 46,2 6 - 9 27,2 11,7 42,0 27,7 10,2 40,8 < 10 23,0 26,4 55,5 26,8 16,1 47,2 10 - 49 17,4 16,4 36,7 17,3 16,0 36,1 < 50 22,7 25,9 54,5 23,6 16,1 43,5 Sottoinsieme delle piccole imprese a parità di settori1 15,7 33,8 54,8 15,7 33,8 54,8 2 21,3 1,9 23,6 21,3 1,9 23,6 3 - 5 34,6 6,6 43,5 34,7 6,3 43,1 6 - 9 24,2 12,1 39,1 24,7 10,5 37,7 < 10 21,1 19,2 44,3 25,0 12,4 40,4 10 - 49 14,1 18,6 35,2 13,9 18,1 34,4 < 50 20,7 19,1 43,8 21,1 14,2 38,4

Fonte: ns. elab. su dati ISTAT

AURAPPORTI: RES 2008-09 283

Per l’intero ventennio, in definitiva, e sempre con l’occhio sulle imprese artigiane si osserva che le maggiori differenze tra gli specifici tassi di crescita sono registrate: - in negativo, nella classe delle ditte individuali che tra il 1981 e il 2001 flettono di

oltre 70 punti percentuali rispetto al totale generale (+ 3,1% contro + 73,4%) e di oltre 51 punti percentuali rispetto al totale omogeneo, che aumenta del 54,8%;

- in positivo nella classe da 10 a 49 (quella che recupera in termini di dimensioni medie) dove l’aumento del numero delle imprese supera di una sessantina di punti percentuali il tasso di variazione dei due gruppi corrispondenti mentre l’aumento del numero di addetti è in avanzo di quasi 100 punti percentuali.

A questo proposito le figure presentate più avanti, ancor più che le precedenti tabelle, rendono l’idea dei fenomeni osservati considerando sia il numero delle imprese (sez. a) sia il numero degli addetti (sez. b). Nelle figure gli assi esprimono le dimensioni delle distanze tra tassi di crescita delle imprese artigiane e tassi di crescita delle imprese nel complesso (il totale generale, sull’asse orizzontale o “delle ascisse”) e tra gli stessi tassi di crescita artigiani e quelli dei comparti corrispondenti (il totale omogeneo, sull’asse verticale o “delle ordinate”). Come si riscontra facilmente, a generare un surplus è la classe da 10 a 49, in alto a destra in quello che usualmente è considerato il 2.o quadrante di un sistema cartesiano a quattro quadranti mentre tutti gli altri gruppi dimensionali si situano, tanto se li si considera in termini di imprese, quanto se li si considera in termini di addetti, nel quarto quadrante, quello in basso e a sinistra, le cui coordinate corrispondono a situazioni di inferiorità delle imprese artigiane tanto in confronto al totale generale quanto in confronto al totale omogeneo. Anche in questo caso la risultante dei cambiamenti potrebbe essere determinata, come appare in prima battuta, da un processo di crescita dalle dimensioni inferiori verso quelle maggiori senza un sufficiente ricambio ad opera della natalità imprenditoriale, oppure direttamente da fenomeni di comparsa di imprese già grandicelle alla nascita. Anche in questo caso è solo una indagine specificamente mirata a cogliere le dimensioni di un risultato del genere che può gettare un qualche fascio di luce sulle tendenze qui appena accennate. Come si ricorda in altra parte di questo volume, ad una prima indagine svolta dall’AUR nell’autunno 2009 con la collaborazione delle Associazioni imprenditoriali, hanno risposto oltre duecento imprese con un numero di addetti inferiore alle 50 unità. Si evince dai dati ottenuti, e riepilogati nella tabella che segue, una vera e propria divisione del lavoro tra le classi dimensionali. Infatti, nelle classi più piccole e fino ai venti addetti prevale l’iscrizione all’albo delle imprese artigiane. Oltre la soglia dei venti addetti l’opzione prevalente è invece quella per l’industria. L’indagine condotta in preparazione di questo Rapporto offre altri spunti di interesse.

DENTRO L’UMBRIA due284

Differenze tra i tassi di crescita delle imprese artigiane e quelli delle piccole imprese di corrispondente dimensione (1981 – 2001), totali (asse delle ascisse) o oppure omogenee per appartenenza agli stessi settori (asse delle ordinate) A: numero di imprese

-75,0

-60,0

-45,0

-30,0

-15,0

0,0

15,0

30,0

45,0

60,0

75,0

-80,0 -60,0 -40,0 -20,0 0,0 20,0 40,0 60,0 80,0

Scostamento rispetto al totale generale

Scos

tam

ento

ris

pett

o al

tota

le o

mog

eneo

1 add.

Tot. < 10 add. Tot. < 50 add.

6 - 9 add. 3 - 5add.

2 add.

10 - 49 add

B: Numero di addetti

-60,0

-40,0

-20,0

0,0

20,0

40,0

60,0

80,0

100,0

-80,0 -60,0 -40,0 -20,0 0,0 20,0 40,0 60,0 80,0 100,0

Scostamento rispetto al totale generale

Scos

tam

ento

ris

pett

o al

tota

le o

mog

eneo 10 - 49 add

1 add.

2 add.

3 - 5add.

6 - 9 add.

Tot. < 10 add.

Tot. < 50 add.

AURAPPORTI: RES 2008-09 285

Distribuzione del gruppo di PMI intervistate per iscrizione o meno all’Albo delle imprese artigiane e per classe di addetti

Valori assoluti Incidenza (%) sul totale Non iscr. Iscritte nr Totale Non iscr. Iscritte Totale

1 3 8 1 12 3,9 6,3 5,8 da 2 a 5 4 29 1 34 5,2 22,8 16,5 da 6 a 9 9 33 0 42 11,7 26,0 20,4 da 10 a 19 22 36 0 58 28,6 28,3 28,2 da 20 a 49 34 9 0 43 44,2 7,1 20,9 n.r. 5 12 0 17 6,5 9,4 8,2 77 127 2 206 100,0 100,0 100,0

Fonte: Indagine AUR 2009 Come si vede, nelle classi fino a 9 addetti si ha il 55,1% delle imprese artigiane ma solamente il 20,8% delle imprese che si dichiarano non iscritte. Distribuzione del gruppo di PMI intervistate: rapporti di composizione (%; totale per classe dimensionale = 100)

25,0

11,8

21,4

37,9

79,1

37,4

66,7

85,3

78,6

62,1

20,9

61,7

0% 10% 20% 30% 40% 50% 60% 70% 80% 90% 100%

1 add.

da 2 a 5

da 6 a 9

da 10 a 19

da 20 a 49

Totale

Non artigiane Artigiane

Fonte: Indagine AUR 2009

DENTRO L’UMBRIA due286

Dinamica delle imprese artigiane nel decennio 1991 – 2001 E’ ora il momento di guardare con più attenzione alla performance degli anni novanta e di circoscrivere per comparti e dimensioni quelli contraddistinti da una maggior (oppure, al contrario, da una minore) capacità espansiva. La dinamica degli anni ‘80 era stata di flessione a causa prevalente delle incertezze di legge. E non bastava l’approvazione della 443, nel 1985, a cambiare il bilancio di un decennio di prudente attesa di chiarimenti e di diffidenza nei confronti del legislatore. Occorre preliminarmente ricordare, però, che quel decennio è un decennio di snodo per quanto riguarda capacità e coscienza delle possibilità di mantenere i ritmi di sviluppo dei “favolosi anni Settanta”: erano stati quelli, infatti, anni di sviluppo intenso e sorprendente. Negli anni successivi il ritmo di sviluppo avrebbe subito un rallentamento, delle battute d’arresto, alcune fiammate (specialmente nei periodi successivi a svalutazioni della moneta nazionale) fino a far parlare di declino e crisi della nostra economia. Tanto in un confronto coi dati di periodi precedenti quanto nel confronto con i risultati di economie comparabili, la debolezza della dinamica appare evidente a partire dagli anni immediatamente successivi alla crisi valutaria del 1992 Le limitate dimensioni della base di partenza in presenza di una autentica voglia di riscatto e affrancamento dalle condizioni più pesanti del lavoro e della dipendenza sociale fino all’aggancio di standard di vita proporzionati al rango di un Paese occidentale e moderno, l’esplodere degli shock petroliferi e salariali, la scoperta della manovrabilità della spesa pubblica e del debito, un certo qual appagamento dopo lo sforzo compiuto e i sacrifici effettuati sono generalmente considerati gli elementi che, almeno in prima approssimazione vengono richiamati per introdurre una più approfondita disamina del progressivo rallentamento cui si stava avviando, incredibilmente, l’Italia. In quella circostanza, così come nelle altre crisi e, in particolare, nel contesto della più grave, l’ultima, innescata dalla cosiddetta “esplosione della bolla dei subprime” negli Usa, l’enfasi è stata posta sul venire meno di una tensione alla crescita, ferma restando la numerosità e diversità dei motivi che di quel rilassarsi potrebbero essere causa. In particolare, almeno quattro72 sono i gruppi di variabili che, ovviamente combinate in modi diversi in ciascuna teoria formulata sull’argomento, configurano la tassonomia delle possibili determinanti, sotto il profilo strettamente economico, del ridursi della crescita:

- la struttura morfologica dell’economia, con particolare riferimento agli usuali argomenti di confronto tra le parti sociali73;

72 Cfr. Ciocca (2003), secondo cui ai quattro gruppi qui elencati sarebbe da aggiungerne un quinto ovvero il quadro macroeconomico e la dimensione del grado di stabilità reale e finanziaria del sistema economico nazionale. 73 Il lungo elenco include il grado di imprenditorialità e la tipologia delle imprese; i rapporti tra risparmio e investimento; la capacità di sviluppare in proprio le tecnologie e di innovare passando per un rapporto naturale con la ricerca e lo sviluppo; i caratteri della forza-lavoro; la accentuata dipendenza dal resto del mondo con l’inesorabile destino di essere Paese condannato a esportare; l’arretratezza del sistema finanziario, tutte finendo per riverberarsi in una stretta dei costi relativi tra prodotti all’interno e prodotti nel Resto del Mondo non

AURAPPORTI: RES 2008-09 287

- lo stato di arretratezza, inadeguatezza e trascuratezza di molte infrastrutture materiali (energia, risorse idriche, trasporti, comunicazioni) e immateriali (in particolare giuridico-istituzionali e amministrative);

- un sistema di incentivi e stimoli alla produzione sostanzialmente distorcente e tendente più a premiare l’appartenenza a una cordata che il merito oggettivo74;

- le dinamiche di cambiamento nelle regole del gioco e nel numero dei giocatori su scala internazionale, con tutti i processi usualmente inclusi nella nozione di globalizzazione75.

L’Umbria, che negli anni Settanta aveva cominciato il proprio periodo di trasformazione economica e di modernizzazione economica e sociale e che negli anni Ottanta aveva raggiunto obbiettivi in precedenza impensabili, quali il ritorno a valori di PIL per abitante superiori alla media nazionale, condivide a fasi alterne quel sentiero di rallentamento della crescita di cui si è detto poco sopra: a volte enfatizzandolo, a volte dando prova di potervi resistere. Tassi di variazione del PIL per abitante in Umbria e in Italia (1980-2004)

-3,0-2,0-1,00,01,02,03,04,05,06,0

1981

1982

1983

1984

1985

1986

1987

1988

1989

1990

1991

1992

1993

1994

1995

1996

1997

1998

1999

2000

2001

2002

2003

2004

Umbria Italia

particolarmente favorevole; le distorsioni nei profili delle distribuzioni funzionale, personale e territoriale di reddito e, ancor più, ricchezza. 74 La negatività del sistema è nell’impatto negativo che esso manifesta come resistenza alla affermazione di sane dinamiche concorrenziali a spese di meccanismi e posizioni di rendita. L’impatto avviene tanto su scala macroeconomica (ad esempio quando la determinazione di livelli di salario si appoggia a provvedimenti di compensazione ossia a manovre compensative di spesa pubblica) quanto su scala microeconomica (relativamente alla liberalizzazione dei mercati, sostegno alla contendibilità non solo di mercati ma anche della proprietà o delle posizioni di controllo societario piuttosto che alla collusione o alla tolleranza nei confronti di gruppi particolarmente aggressivi nei confronti della libertà di mercato e della promozione delle piccole imprese). 75 Ad esempio la crescita degli scambi internazionali, la modificazione nel sistema dei vantaggi comparati, i mutamenti nelle ragioni di scambio, il maggiore interesse a controllare le dinamiche del commercio internazionale da parte dei governi ed anche di grandi gruppi privati (multinazionali), ecc..

DENTRO L’UMBRIA due288

Così a volte balzando in testa ed altre volte repentinamente rallentando l’economia umbra ha prima perso terreno, poi lo ha recuperato per tornare, più avanti e più lentamente a distaccarsi dalla media nazionale (posta uguale a 100 nella figura che segue). PIL per unità di lavoro in Umbria e nell’Italia centro-settentrionale (1980-2004; N.I.: Italia = 100)

90,0

95,0

100,0

105,0

110,0

1980

1981

1982

1983

1984

1985

1986

1987

1988

1989

1990

1991

1992

1993

1994

1995

1996

1997

1998

1999

2000

2001

2002

2003

2004

Umbria Italia C.N.

Fonte: ns. elab. su dati Istat In questi anni si affiancano, in Umbria, dinamiche di crescita sostenute da forze di varia natura, a volte più pressanti e a volte afflitte da acciacchi o magagne che minano il risultato complessivo. L’agricoltura cavalca pienamente l’onda del tabacco e dell’incipiente riconversione verso altre colture specializzate, con un orientamento a meglio servire la filiera agro-alimentare. Il settore delle costruzioni vive l’età felice di una domanda di edificazione che appare incessante: le migrazioni interne ed esterne che sostengono la domanda del nuovo; la tracimazione di una domanda di seconde case dalla Toscana e la ricerca di quiete e ristoro da parte di ambienti capitolini con buona capacità di spesa sostengono la domanda di restauro; ricostruzioni post-sismiche e giubilei sostengono la domanda di opere pubbliche. Cresce di conseguenza il comparto dei servizi: vuoi per l’impatto diretto della domanda aggiuntiva da immigrazione (nel lato senso connesso già descritto: turisti, trasferiti, immigrati, ritornati alla base a fine carriera, ecc.) vuoi per l’impatto indiretto connesso al manifestarsi di effetti di propagazione vuoi, infine, per dinamiche proprie del comparto connesse alle trasformazioni dei contenuti della domanda (cellulari/informatica od hobbistica piuttosto che sementi o prodotti di bottega) e dei modelli di acquisto (centri commerciali piuttosto che negozi di vicinato). L’industria, infine, beneficia della convivenza di varie anime: quella più rarefatta e, in fin dei conti, minoritaria dei settori della produzione e distribuzione di energia e della raccolta e

AURAPPORTI: RES 2008-09 289

distribuzione di acqua), quella che più corrisponde all’immaginario dell’opinione pubblica ovvero tutto il comparto sidero-meccanico, e poi quelle delle lavorazioni del legno e della produzione di mobili, della lavorazione dei minerali non metalliferi e ancora quella, emergente e familiare, dell’alimentare, prolungamento inconscio delle buone tradizioni dell’accoglienza e ospitalità locali, e quella, infine (per non ripercorrere pedissequamente tutto l’elenco della classificazione Ateco) della sempre vivace, ancorché di continuo profetizzata di morte imminente, arte dell’abbigliamento, capace di risorgere dalle proprie ceneri inventando sistemi e ricercando processi o materie capaci di sconfiggere la facile concorrenza portata dall’estero e dalla manodopera internazionale a basso costo. Così, un po’ ci si adegua e ci si allinea, un po’ si fanno galoppare le eccellenze che pure non mancano e nel quadro complessivo basta poco per rialzare il capo e altrettanto per doverlo chinare. L’onda lunga del ciclo economico è abbastanza evidente: la perdita di contatto nei primi anni Ottanta, la svolta di fine decennio e il prolungato recupero negli anni successivi fino a che, dopo un decennio positivo è cominciato un nuovo decennio di incertezza con un lento ma progressivo allontanamento dal trend del resto del Paese (che nella figura precedente è rappresentato dall’asse delle ascisse tracciato in corrispondenza del valore 100 e che nella realtà è anch’esso inclinato verso il basso). In questo scenario si colloca la performance delle imprese artigiane, il cui numero, come già ricordato, si riduce nel decennio tra il 1981 e il 1991 e riprende a salire nel decennio successivo. Come suggerisce la tabella qui di seguito, su scala nazionale, nel decennio considerato, il numero delle imprese artigiane cresce proporzionalmente meno di quello del totale delle imprese ma il numero degli addetti cresce di più (+ 8,9% contro + 7,7% per gli addetti; + 15,4% contro + 23,8% per le imprese). L’Umbria appare integralmente allineata alla tendenza nazionale. Ed anche se la crescita del numero di addetti è più sostenuta che nella media del Paese, nelle imprese artigiane l’espansione dell’occupazione si conferma maggiore di quella osservata nel totale delle imprese: + 20,4% contro + 18,8%. Prestazioni di maggior impatto sono dispiegate, nello stesso periodo, dalla Valle d’Aosta (+40,0% e + 57,4% rispettivamente per le imprese artigiane e per i loro addetti), dal Lazio (+ 31,4% per le imprese artigiane e + 50,0% per il complesso delle imprese) e dalla Calabria (+ 21,9% e + 21,3%, rispettivamente per imprese artigiane e loro addetti). All’opposto spicca il debole risultato, per quanto riguarda la crescita delle imprese artigiane, del Friuli Venezia Giulia e della Basilicata (solo + 6,4%, la prima, e + 6,2% la seconda).

DENTRO L’UMBRIA due290

Imprese e addetti nell’artigianato e nel complesso nelle regioni italiane (1991 – 2001) Imprese Addetti Var. % 1991 2001 1991 2001 Imprese Add.

Artigianato 97.292 114.623 252.440 288.327 17,8 14,2 01 - Piemonte Totale 269.183 328.796 1.447.691 1.407.259 22,1 -2,8 Artigianato 2.606 3.648 5.677 8.933 40,0 57,4 02 - Valle d’Aosta Totale 8.969 11.047 33.951 38.546 23,2 13,5 Artigianato 206.919 236.410 626.406 640.953 14,3 2,3 03 - Lombardia Totale 572.860 748.886 3.292.400 3.720.106 30,7 13,0 Artigianato 19.827 23.940 60.245 69.703 20,7 15,7 04 - Trentino A.A. Totale 64.060 76.804 264.325 297.600 19,9 12,6 Artigianato 116.694 134.605 390.323 419.200 15,3 7,4 05 - Veneto Totale 301.210 375.288 1.358.223 1.578.892 24,6 16,2 Artigianato 26.523 28.216 73.948 81.468 6,4 10,2 06 - Friuli V.G. Totale 78.248 86.255 357.450 361.677 10,2 1,2 Artigianato 30.656 36.806 68.849 81.747 20,1 18,7 07 - Liguria Totale 105.764 124.273 417.706 382.606 17,5 -8,4 Artigianato 114.797 127.064 325.604 355.651 10,7 9,2 08 – Emilia Romagna Totale 305.761 358.997 1.299.271 1.468.192 17,4 13,0 Artigianato 94.129 105.026 269.423 288.927 11,6 7,2 09 - Toscana Totale 265.719 311.912 1.009.135 1.077.520 17,4 6,8 Artigianato* 19.603 22.570 54.668 65.813 15,1 20,4 10 - Umbria Totale 50.933 64.126 189.308 224.831 25,9 18,8 Artigianato 41.885 46.836 126.064 144.925 11,8 15,0 11 - Marche Totale 105.836 123.207 404.009 455.819 16,4 12,8 Artigianato 57.049 74.945 129.411 145.045 31,4 12,1 12 - Lazio Totale 237.505 356.643 1.676.699 1.619.407 50,2 -3,4 Artigianato 24.461 29.131 66.352 72.055 19,1 8,6 13 - Abruzzo Totale 75.030 88.926 268.382 295.794 18,5 10,2 Artigianato 5.843 6.665 14.534 16.135 14,1 11,0 14 - Molise Totale 17.831 19.420 50.166 54.101 8,9 7,8 Artigianato 55.396 60.826 124.625 125.788 9,8 0,9 15 - Campania Totale 236.740 297.343 739.856 833.694 25,6 12,7 Artigianato 55.796 65.078 137.213 153.203 16,6 11,7 16 - Puglia Totale 186.409 224.314 571.205 641.227 20,3 12,3 Artigianato 9.930 10.546 25.332 24.947 6,2 -1,5 17 - Basilicata Totale 30.448 32.957 88.580 99.371 8,2 12,2 Artigianato 22.082 26.917 44.609 54.122 21,9 21,3 18 - Calabria Totale 88.166 98.646 211.250 231.105 11,9 9,4 Artigianato 56.350 68.585 121.016 141.513 21,7 16,9 19 - Sicilia Totale 210.293 246.085 617.833 622.799 17,0 0,8 Artigianato 26.397 30.721 62.818 72.353 16,4 15,2 20 - Sardegna Totale 84.583 95.621 261.294 276.815 13,0 5,9 Artigianato 1.062.153 1.226.241 2.934.948 3.196.686 15,4 8,9

Totale ITALIA Totale 3.207.382 3.970.900 14.347.484 15.456.256 23,8 7,7 Artigianato 827.980 954.689 2.383.058 2.590.692 15,3 8,7

Totale Italia C.N. Totale 2.366.048 2.966.234 11.750.168 12.632.455 25,4 7,5 * Il totale delle imprese artigiane qui è diverso da quello riportato in precedenza, in quanto include anche le imprese che, in via del tutto eccezionale, contavano più di 50 addetti (cinque imprese nel 1981, con 381 addetti; una, operante nel comparto della lavorazione industriale delle granaglie e dei prodotti amidacei, nel 1991, con 91 addetti)

AURAPPORTI: RES 2008-09 291

Il decennio, dunque, è caratterizzato, in Umbria, da una particolare vivacità che si esprime tanto con la crescita del numero di imprese quanto con la crescita del numero di addetti. La regione continua a mostrarsi area di forte dinamismo imprenditoriale (con 94,4 aziende attive, nel 2004, ogni 1.000 abitanti) e di forte presenza artigiana: le imprese artigiane rappresentano a fine periodo quasi il 40 % del totale delle imprese extra-regionali censite in Umbria e contribuiscono per il 17,2% alla generazione del valore aggiunto dei settori non agricoli76. Queste ultime sono indicazioni, tratte dal secondo rapporto dell’Osservatorio di Artigiancassa. Per parte sua il terzo rapporto conferma la fotografia e l’elenco dei problemi degli ultimi anni: le difficoltà del reperimento di adeguate risorse umane da inserire in un circuito di apprendistato conforme alle normative vigenti, la necessità di riserve di credito ad hoc, cioè a valere su fondi espressamente riservati alle imprese artigiane, la farraginosità di una burocrazia non ancora orientata all’alleggerimento delle difficoltà operative e procedurali che maggiormente ingabbiano i rapporti delle imprese artigiane con le amministrazioni pubbliche e che rendono ancor più difficoltoso sia il coinvolgimento in operazioni di internazionalizzazione sia l’accesso all’innovazione tanto sotto l’aspetto della conoscenza anche se a titolo di semplice informazione quanto sotto l’aspetto delle modalità di acquisizione e gestione. Si noti che le voci richiamate spuntano indifferentemente sia nell’elenco delle priorità delle problematiche da affrontare sia nell’elenco delle note critiche registrate con le interviste dirette alle imprese. Queste ultime sono in gran parte imprese che prima della crisi non hanno registrato oscillazioni significative nei volumi di fatturato, con una produzione per lo più in conto proprio e destinata quasi del tutto al mercato interno: l’estero ne assorbe non più del 4% e quasi la metà (45%) ha destinazione extra-regionale. Sono anche imprese generalmente consapevoli dei punti di forza della propria competitività ma anche, come detto, dei punti di debolezza. Più motivate che in passato a uscire dal guscio per stringere accordi con altre imprese l’orizzonte delle imprese artigiane resta, per comprensibili motivi, all’interno dei confini regionali. Gli investimenti, pertanto, vengono ricollegati soprattutto alla variabile generale della redditività anche passando per un miglioramento della gamma dei prodotti realizzati e per una riduzione dei costi di produzione. Con riferimento alle statistiche ufficiali e dunque limitandosi a ragionare in termini di numero delle imprese e dei loro addetti (si veda la tabella seguente77) il quadro comparativo Umbria/Italia e imprese artigiane/totale imprese presenta alcuni spunti di indubbio interesse che confermano le intuizioni raccolte nelle tre edizioni dell’Osservatorio Artigiancassa.

76 Si tratta di una percentuale notevole, inferiore, in Italia, solamente a quella osservata per la regione Marche dove raggiunge il 18,8% (Osservatorio Artigiancassa, 2007, pp. 92-93). 77 La tabella riepiloga i dati raccolti dai tre censimenti generali dell’industria e dei servizi del 1981, 1991 e 2001 e relativi al totale delle imprese, al totale cosiddetto omogeneo, ovvero al totale generale al netto dei valori osservati nei comparti dove non sono presenti imprese artigiane, e al totale delle imprese artigiane, distinguendo per macroaggregati: industria e servizi.

DENTRO L’UMBRIA due292

Numero di imprese e addetti: un riepilogo a fini comparativi a) valori assoluti Numero di imprese Addetti totali 1981 1991 2001 1981 1991 2001 ITALIA Totale (a) 4.492.156 5.344.636 6.947.399 7.474.805 8.567.021 7.960.354 Totale omogeneo (b) 3.731.203 4.273.088 5.497.597 6.328.162 7.058.251 6.463.798 b / a (%) 83,1 80,0 79,1 84,7 82,4 81,2 di cui: totale (omogeneo) industria ( c) 1.475.709 1.561.184 2.077.470 3.339.293 3.523.124 3.190.368 c /a % 39,6 36,5 37,8 52,8 49,9 49,4 totale (omogeneo) servizi (d) 2.255.494 2.711.904 3.420.127 2.988.869 3.535.127 3.273.430 d / a (%) 60,4 63,5 62,2 47,2 50,1 50,6 Artigiane (e) 1.178.133 1.091.540 1.470.341 2.717.583 2.993.741 2.999.644 e / b (%) 31,6 25,5 26,7 42,9 42,4 46,4 di cu industria (f) 732.763 650.703 917.135 1.946.495 2.134.322 2.210.725 f / e (%) 62,2 59,6 62,4 71,6 71,3 73,7 f / c (%) 49,7 41,7 44,1 58,3 60,6 69,3 servizi (g) 445.370 440.837 553.206 771.088 859.419 788.919 g/ /e (%) 37,8 40,4 37,6 28,4 28,7 26,3 g / d (%) 19,7 16,3 16,2 25,8 24,3 24,1 UMBRIA Totale (a) 41.299 50.665 63.798 121.650 150.407 174.625 Totale omogeneo (b) 33.997 41.037 48.892 104.465 126.575 144.781 b / a (%) 82,3 81,0 76,6 85,9 84,2 82,9 di cui: totale (omogeneo) industria ( c) 14.482 15.310 18.434 62.209 66.098 74.026 c /a % 42,6 37,3 37,7 59,6 52,2 51,1 totale (omogeneo) servizi (d) 19.515 25.727 30.458 42.256 60.477 70.755 d / a (%) 57,4 62,7 62,3 40,4 47,8 48,9 Artigiane (e) 19.879 19.602 22.570 48.708 54.577 65.813 e / b (%) 58,5 47,8 46,2 46,6 43,1 45,5 di cui: industria (f) 12.718 11.793 14.527 36.302 38.808 48.024 f / e (%) 64,0 60,2 64,4 74,5 71,1 73,0 f / c (%) 87,8 77,0 78,8 58,4 58,7 64,9 servizi (g) 7.161 7.809 8.043 12.406 15.769 17.789 g/ /e (%) 36,0 39,8 35,6 25,5 28,9 27,0 g / d (%) 36,7 30,4 26,4 29,4 26,1 25,1

AURAPPORTI: RES 2008-09 293

b) Tassi di variazione (%) Numero di imprese Addetti totali 1991/1981 2001/1991 2001/1981 1991/1981 2001/1991 2001/1981 ITALIA Totale 19,0 30,0 54,7 14,6 -7,1 6,5 Totale omogeneo 14,5 28,7 47,3 11,5 -8,4 2,1 di cui: totale (omogeneo) industria 5,8 33,1 40,8 5,5 -9,4 -4,5 totale (omogeneo) servizi 20,2 26,1 51,6 18,3 -7,4 9,5 Artigiane -7,4 34,7 24,8 10,2 0,2 10,4 di cui: industria -11,2 40,9 25,2 9,6 3,6 13,6 servizi -1,0 25,5 24,2 11,5 -8,2 2,3 UMBRIA Totale 22,7 25,9 54,5 23,6 16,1 43,5 Totale omogeneo 20,7 19,1 43,8 21,2 14,4 38,6 di cui: totale (omogeneo) industria 5,7 20,4 27,3 6,3 12,0 19,0 totale (omogeneo) servizi 31,8 18,4 56,1 43,1 17,0 67,4 Artigiane -1,4 15,1 13,5 12,0 20,6 35,1 di cui: industria -7,3 23,2 14,2 6,9 23,7 32,3 servizi 9,0 3,0 12,3 27,1 12,8 43,4

Fonte: ns. elab. su dati ISTAT Su quali basi si sia maturata la consapevolezza che traspare dalle valutazioni riportate andrà riscoperto nei dati e nelle considerazioni che seguono nel prossimo capitolo, relativo alle dinamiche del periodo a noi più vicino. La più recente dinamica delle imprese artigiane Per quanto riguarda gli anni più recenti si è costretti a saltare dalle fonti della statistica ufficiale (i censimenti) a fonti di natura amministrativa ma di largo impiego quali gli archivi gestiti dal sistema camerale, al quale, tra l’altro, spetta la gestione dell’Albo delle imprese artigiane. Tra le due non sembra esservi, nell’aggregato, una grande difformità. Nella tabella di dettaglio che segue, le fonti statistiche segnalano un fenomeno che rappresenta il 93% di quanto descritto dalle fonti amministrative. Ma se si considera la diversa portata delle rilevazioni, il differente periodo a cui fanno riferimento e le inevitabili incongruenze nelle procedure di trattamento dei dati una percentuale di discrepanza del 7% può essere considerata irrisoria78.

78 Cfr. Regione Emilia Romagna, 2006 dove la divergenza richiamata nel testo è spiegata e valutata con tutta competenza di chi oramai da svariati anni conduce studi a tutto campo sul mondo dell’artigianato in quella

DENTRO L’UMBRIA due294

Imprese e addetti in un quadro comparativo delle fonti disponibili al 2001

Censimento ISTAT 2001 Infocamere 2001

Censite / attive

Cod. e Descr. Divisione Economica Imprese Addetti Registr. Attive % A Agricoltura, caccia e silvicoltura 60 82 353 352 17,0 A 01 Agricoltura, caccia e relativi servizi 48 69 184 183 26,2 A 02 Silvicoltura e utilizzaz. aree forestali 12 13 169 169 7,1 B Pesca,piscicoltura e servizi connessi 1 1 0 0 --- C Estrazione di minerali 29 175 29 29 100,0 CA10 Estraz. carbon fossile e lignite; estraz.torba 0 0 --- CA11 Estraz. petrolio greggio e gas naturale 1 1 0,0 CA12 Estraz.minerali di uranio e di torio 0 0 --- CB13 Estrazione di minerali metalliferi 0 0 --- CB14 Altre industrie estrattive 29 175 28 28 103,6 D Attività manifatturiere 7.277 29.383 7.927 7.910 92,0 DA15 Industrie alimentari e delle bevande 729 3.033 923 922 79,1 DA16 Industria del tabacco 0 0 0 0 --- DB17 Industrie tessili 788 3.730 857 857 91,9 DB18 Confez.articoli vestiario; prep.pellicce 1.013 4.433 977 971 104,3 DC19 Prep. e concia cuoio; fabbr. artic. viaggio 97 435 113 113 85,8 DD20 Ind. Legno, esclusi mobili; fabbr.in paglia 773 2.227 868 868 89,1 DE21 Fabbric. pasta-carta,carta e prod.di carta 56 388 60 58 96,6 DE22 Editoria, stampa e riprod. supp. registrati 305 1.453 299 298 102,3 DF23 Fabbric. coke, raffinerie, combust. nucleari 0 0 --- DG24 Fabbric. prodotti chimici e fibre sintetiche 25 145 40 39 64,1 DH25 Fabbric. artic. in gomma e mat. plastiche 66 406 60 60 110,0 DI26 Fabbric. prodotti lavoraz. min. non metallif. 595 2.525 621 621 95,8 DJ27 Produzione di metalli e loro leghe 11 106 14 14 78,6 DJ28 Fabbricaz. e lav.prod.metallo, escl.macchine 1.053 5.086 1.111 1.108 95,0 DK29 Fabbric. macchine ed appar. mecc. e install. 361 1.283 379 377 95,8 DL30 Fabbric. macchine per uff., elaboratori 9 54 20 20 45,0 DL31 Fabbric. di macchine ed appar. elettr.n.c.a. 168 768 163 163 103,1 DL32 Fabbric. appar.radiotel.e app. per comunic. 103 225 49 48 214,6 DL33 Fabbric. appar.medicali,precis.,strum.ottici 339 753 373 373 90,9 DM34 Fabbric. autoveicoli, rimorchi e semirim. 20 20 0,0 DM35 Fabbric.di altri mezzi di trasporto 9 14 11 11 81,8 DN36 Fabbric. mobili; altre industrie manifatturiere 767 2.238 957 957 80,1 DN37 Recupero e preparaz. per il riciclaggio 10 81 12 12 83,3 E Prod.e distrib.energ.elettr.,gas e acqua 0 0 1 1 0,0 E 40 Produz. energia elettr., gas,acqua calda 0 0 1 1 0,0 E 41 Raccolta, depurazione e distribuzione acqua 0 0 0 0 --- F Costruzioni 7.160 18.383 8.102 8.094 88,5

G Comm. ingr. e dett.; riparazioni di beni personali e per la casa 2.305 5.824 2.107 2.104 109,6

G 50 Comm. manut.e rip.autov. e motocicli 1.593 4.553 1.565 1.564 101,9 G 51 Comm. ingr. e interm. del comm. escl. autov. 43 41 0,0 G 52 Comm. dett. escl. autov.; rip.beni pers. 712 1.271 499 499 142,7 H Alberghi e ristoranti 261 649 53 53 492,5 I Trasporti, magazzinaggio e comunicaz. 2.066 4.255 2.194 2.190 94,3 I 60 Trasporti terrestri; trasp. mediante condotta 2.019 4.140 2.166 2.163 93,3 I 61 Trasporti marittimi e per vie d’acqua 1 1 1 1 100,0 I 62 Trasporti aerei 0 0 --- I 63 Attività ausiliarie dei trasp.; ag. viaggi 34 94 25 25 136,0 I 64 Poste e telecomunicazioni 12 20 2 1 1.200,0 -------segue

regione. La documentata compatibilità tra le fonti consentirebbe, previo accordo con l’Istat, di utilizzare anche per l’Umbria i dati degli archivi statistici delle imprese ( ASIA) non ufficialmente pubblicati.

AURAPPORTI: RES 2008-09 295

Censimento ISTAT 2001 Infocamere 2001

Censite / attive

Cod. e Descr. Divisione Economica Imprese Addetti Registr. Attive % J Intermediaz. monetaria e finanziaria 0 0 6 6 0,0 J 65 Interm.mon.e finanz.(escl.assic.e fondi p.) 5 5 0,0 J 66 Assic. e fondi pens.(escl.ass.soc.obbl.) 1 1 0,0 J 67 Attività ausil. intermediazione finanziaria 0 0 ---

K Attiv. immobiliari, noleggio, informatica, ricerca 903 2.236 856 851 106,1

K 70 Attività immobiliari 0 0 --- K 71 Noleggio macc. e attrezz.senza operat. 9 9 0,0 K 72 Informatica e attività connesse 188 528 151 151 124,5 K 73 Ricerca e sviluppo 0 0 --- K 74 Altre attività professionali e imprenditoriali 715 1.708 696 691 103,5 M Istruzione 42 41 0,0 N Sanità e altri servizi sociali 17 17 0,0 O Altri servizi pubblici,sociali e personali 2.508 4.825 2.545 2.542 98,7 O 90 Smaltim. rifiuti solidi, acque scarico e sim. 17 74 13 13 130,8 O 92 Attività ricreative, culturali sportive 42 69 40 40 105,0 O 93 Altre attività dei servizi 2.449 4.682 2.492 2.489 98,4 P Serv. domestici presso famiglie e conv. 0 0 --- NC Imprese non classificate 19 16 0,0 TOT TOTALE 22.570 65.813 24.251 24.206 93,2

Accertata l’accettabilità della corrispondenza si possono considerare con un certo interesse i dati, raccolti nella tabella successiva, relativi alle variazioni intercorse tra il 2001 e il 2008. Ne discende un quadro sufficientemente aggiornato del profilo strutturale delle imprese artigiane, poco prima del divampare dell’impatto più violento della crisi economica. Il quadro parla di una netta decelerazione del tasso di aumento delle imprese artigiane in Umbria (+ 2,0%) a fronte di un corrispondente tasso di crescita nazionale del + 6,1% mentre la percentuale di aumento del totale delle imprese in Umbria è del 5,1%. A indebolire la spinta espansiva del comparto sono le attività industriali, che cedono circa mille unità, e la minore crescita o la maggiore perdita di altri sottocomparti. In effetti, i tassi maggiori di espansione si osservano in settori non molto cospicui (come quello delle attività ricreative, dove la percentuale di incremento del + 225% si applica a una base iniziale di sole 40 imprese). Allo stesso tempo alcuni settori robusti contribuiscono alla crescita del numero di imprese artigiane in Umbria meno di quanto fanno nel resto del Paese: così è, ad esempio, per le costruzioni, dove in corrispondenza delle 8 mila e passa imprese registrate si ha un aumento del 24,6%, quattro punti percentuali meno che su scala nazionale. Pochi punti percentuali ma piuttosto pesanti. Anche le imprese artigiane nell’informatica, un settore in qualche modo indicativo delle tendenze all’innovazione, progredisce, sì, ma assai lentamente: solo un + 9% mentre crescono in misura doppia le imprese in senso lato. In Italia la crescita delle imprese artigiane nel settore dell’informatica è addirittura di oltre tre volte più grande. Così, al 31 dicembre 2008 le imprese artigiane, aumentate di meno di 500 unità, erano poco più che alla fine del 2001.

DENTRO L’UMBRIA due296

Emerge, in definitiva, l’immagine di un comparto vitale e ben radicato nella realtà regionale ma con un poco di fiatone nel tenere il passo delle tendenze più generali. In mancanza di analisi più approfondite e sistematiche alcuni elementi conoscitivi che potrebbero portare ad una migliore comprensione delle tensioni che si manifestano nel mondo artigiano possono esse desunti da un database particolare, disponibile quasi in perfetta sovrapposizione con il precedente ovvero per il periodo 2001-2007, quale è la raccolta di informazioni curata dall’Osservatorio di Artigiancassa79. Nella loro articolazione le informazioni che da quell’osservatorio possono essere tratte consentono anche di considerare il dettaglio provinciale a cui si farà qui riferimento allo scopo di meglio leggere le stesse dinamiche regionali. Tassi di variazione delle imprese artigiane e in totale in Umbria e delle imprese artigiane in Italia come registrate negli archivi del sistema camerale nel 2001 e nel 2008

Umbria (artigiane) Umbria (totale)

ITALIA (artigiane)

2001 2008 Var. % Var. % Var. % Agricoltura, caccia e silvicoltura 353 448 26,9 -7,8 34,7 Agricoltura, caccia e relativi servizi 184 256 39,1 -8,1 41,2 Silvicoltura e utilizzaz. aree forestali 169 192 13,6 6,4 10,9 Pesca, piscicoltura e servizi connessi 0 0 --- -18,2 -22,0 Estrazione di minerali 29 25 -13,8 -12,2 -25,2 Estraz. carbon fossile e lignite; estraz. torba 0 0 --- 33,3 -75,0 Estraz. petrolio greggio e gas naturale 1 0 -100,0 -100,0 -40,0 Estraz. minerali di uranio e di torio 0 0 --- --- --- Estrazione di minerali metalliferi 0 0 --- --- -57,1 Altre industrie estrattive 28 25 -10,7 -11,8 -24,8 Attività manifatturiere 7.927 7.086 -10,6 -5,1 -5,4 Industrie alimentari e delle bevande 923 1.050 13,8 10,7 24,4 Industria del tabacco 0 0 --- -25,0 -100,0 Industrie tessili 857 672 -21,6 -15,4 -24,3 Confez.articoli vestiario; prep. pellicce 977 682 -30,2 -23,3 -20,3 Prep.e concia cuoio; fabbr. artic. viaggio 113 75 -33,6 -28,2 -19,8 Ind.legno, esclusi mobili; fabbr. in paglia 868 679 -21,8 -18,7 -20,3 Fabbric. pasta-carta,carta e prod.di carta 60 48 -20,0 -8,9 -14,8 Editoria, stampa e riprod. supp. registrati 299 274 -8,4 4,3 -8,1 Fabbric. coke, raffinerie, combust. nucleari 0 0 --- 0,0 -50,0 Fabbric. prodotti chimici e fibre sintetiche 40 28 -30,0 -14,4 -25,9 Fabbric. artic. in gomma e mat. plastiche 60 61 1,7 8,0 -10,3 Fabbric. prodotti lavoraz. min. non metallif. 621 520 -16,3 -10,2 -5,7 Produzione di metalli e loro leghe 14 10 -28,6 -20,0 -32,2 Fabbricaz.e lav. prod. metallo, escl. macchine 1.111 1.159 4,3 10,9 -2,1 Fabbric. macchine ed appar. mecc.,install. 379 392 3,4 4,4 0,9 Fabbric. macchine per uff., elaboratori 20 10 -50,0 4,5 21,5 Fabbric. di macchine ed appar.elettr.n.c.a. 163 154 -5,5 6,2 -17,2 Fabbric. appar.radiotel.e app.per comunic. 49 30 -38,8 -9,6 -48,7

79 Cfr. Osservatorio Artigiancassa (2007 e 2009) e il sito www.Artigiancassa.it.

AURAPPORTI: RES 2008-09 297

Umbria (artigiane) Umbria (totale)

ITALIA (artigiane)

2001 2008 Var. % Var. % Var. % Fabbric. appar.medicali,precis.,strum.ottici 373 345 -7,5 -2,9 -1,7 Fabbric. autoveicoli,rimorchi e semirim. 20 23 15,0 13,8 17,4 Fabbric.di altri mezzi di trasporto 11 15 36,4 26,9 40,7 Fabbric. mobili;altre industrie manifatturiere 957 848 -11,4 -8,6 -8,1 Recupero e preparaz. per il riciclaggio 12 11 -8,3 55,3 17,2 Prod.e distrib. energ. elettr., gas e acqua 1 0 -100,0 173,9 -32,2 Produz. energia elettr., gas, acqua calda 1 0 -100,0 217,6 -28,6 Raccolta, depurazione e distribuzione acqua 0 0 --- 50,0 -37,5 Costruzioni 8.102 10.092 24,6 25,7 30,4 Comm.ingr.e dett.; rip.beni pers. e per la cas 2.107 1.764 -16,3 1,2 -18,1 Comm. manut.e rip. autov. e motocicli 1.565 1.382 -11,7 -0,1 -11,6 Comm.ingr.e interm.del comm.escl.autov. 43 27 -37,2 2,8 -59,9 Comm.dett.escl. autov; rip.beni pers. 499 355 -28,9 0,6 -31,6 Alberghi e ristoranti 53 22 -58,5 17,3 -57,4 Trasporti, magazzinaggio e comunicaz. 2.194 1.814 -17,3 -3,4 -10,2 Trasporti terrestri; trasp. mediante condotta 2.166 1.797 -17,0 -11,8 -10,5 Trasporti marittimi e per vie d’acqua 1 0 -100,0 -100,0 22,8 Trasporti aerei 0 0 --- -25,0 -38,5 Attività ausiliarie dei trasp.;ag.viaggi 25 16 -36,0 24,5 -3,7 Poste e telecomunicazioni 2 1 -50,0 317,4 0,0 Intermediaz. monetaria e finanziaria 6 2 -66,7 -0,8 -31,6 Interm.mon.e finanz.(escl. assic.e fondi p.) 5 0 -100,0 -47,9 -75,1 Assic.e fondi pens.(escl. ass. soc. obbl.) 1 0 -100,0 -91,9 -100,0 Attività ausil. intermediazione finanziaria 0 2 --- 5,5 111,1 Attiv. immob., noleggio,informat., ricerca 856 799 -6,7 40,8 4,2 Attività immobiliari 0 2 --- 90,2 -34,8 Noleggio macch.e attrezz.senza operat. 9 1 -88,9 33,6 -58,6 Informatica e attività connesse 151 165 9,3 17,0 38,2 Ricerca e sviluppo 0 0 --- 90,3 -54,5 Altre attività professionali e imprenditoriali 696 631 -9,3 22,5 -1,2 Istruzione 42 43 2,4 14,0 10,9 Sanità e altri servizi sociali 17 10 -41,2 40,6 -42,2 Altri servizi pubblici, sociali e personali 2.545 2.594 1,9 11,6 5,5 Smaltim. rifiuti solidi, acque scarico e sim. 13 16 23,1 20,4 20,8 Attività ricreative, culturali sportive 40 130 225,0 43,6 115,6 Altre attività dei servizi 2.492 2.448 -1,8 3,8 2,2 Serv. domestici presso famiglie e conv. 0 0 --- -100,0 -100,0 Imprese non classificate 19 38 100,0 3,5 -22,1 TOTALE 24.251 24.737 2,0 5,1 6,1

Fonte: ns. elab. su dati Infocamere

Seguendo dunque la pista dell’Osservatorio citato si osserva come il profilo “macro” dei cambiamenti più rilevanti evidenzi l’Umbria quale regione di accentuata crescita demografica, anche se sorretta esclusivamente dai flussi di nuova immigrazione, alla quale si accodano la crescita numerica sia di strumenti di primo intervento per le necessità di piccoli finanziamenti, di accantonamento dei risparmi o di esecuzione automatica di alcuni pagamenti (strumenti rappresentati dagli sportelli bancari) sia di imprese, artigiane e non.

DENTRO L’UMBRIA due298

Queste, peraltro, come è dato osservare nella tabella che segue, crescono con minor impeto dei primi, cioè degli sportelli delle banche. Dinamica demografica, bancaria e imprenditoriale: un confronto N° di imprese registrate

Imprese artigiane Totale imprese N° sportelli bancariAbitanti

(al 31 dic.) 2001 Italia 1.410.552 5.792.598 29.245 56.993.742 Centro-Nord 1.044.638 3.898.830 22.710 36.486.400 Umbria 24.251 90.587 493 826.196 di cui: Perugia 18.885 69.202 382 606.413 Terni 5.366 21.385 111 219.783 2008 Italia 1.496.645 6.104.067 34.139 60.045.068 Centro-Nord 1.115.167 4.089.796 26.841 39.188.824 Umbria 24.737 95.162 572 894.222 di cui: Perugia 19.293 73.262 439 661.682 Terni 5.444 21.900 133 232.540 Var. (%) 2001 - 2008 Italia 6,1 5,4 16,7 5,4 Centro-Nord 6,8 4,9 18,2 7,4 Umbria 2,0 5,1 16,0 8,2 di cui: Perugia 2,2 5,9 14,9 9,1 Terni 1,5 2,4 19,8 5,8

Fonte: Osservatorio Artigiancassa e ns. elab.

Della più che moderata crescita del numero di imprese artigiane si è già detto. La tabella mette peraltro in luce una dinamica complessiva che premia le imprese non artigiane e concorre a spingere la crescita del complesso delle imprese in Umbria sopra la media delle regioni del Centro-nord e ad approssimarla a quella della media nazionale. In corrispondenza si tiene al di sotto delle medie di riferimento qui considerate (Italia nel complesso e regioni centro-settentrionali) l’aumento del numero degli sportelli mentre il numero degli abitanti (+ 8,2%) accelera nettamente. Delle due province, come si riscontra facilmente, è quella di Perugia a trainare le medie regionali con valori quasi sempre più alti di quelli registrati per la provincia di Terni. Questa si caratterizza per l’accentuato incremento del numero di sportelli bancari (+ 19,8%), un valore superiore non solo alla media regionale ma anche alla media delle regioni del Centro Nord oltre che alla media nazionale. Nonostante la base di partenza, che qualche dubbio lo suscita, le imprese artigiane si caratterizzano per una buona capacità di intercettare finanziamenti: non sono molti, in assoluto, ma in Umbria i finanziamenti alle imprese artigiane assorbono una quota del

AURAPPORTI: RES 2008-09 299

totale dei finanziamenti disponibili pari all’8% (nel 2007; 8,5% nel 2001) mentre nel resto delle regioni italiane l’incidenza è la metà di quella umbra. Che sia un effetto di struttura, corrispondente alla maggior quote di imprese artigiane sul totale, oppure un effetto composizione, da ritenere associato ad una specifica caratterizzazione settoriale del comparto oppure ad una più attenta e consapevole presenza sul mercato del credito da parte di aziende opportunamente ed efficacemente orientate, non è dato, in questa fase, di sapere. Ma il valore riscontrato appare, indubbiamente, piuttosto intrigante e sarebbe oltre modo interessante indagarne le origini. Finanziamenti nel complesso e alle imprese artigiane (valori in mln di euro) Totale (A) Imprese artigiane (B) Incidenza % (B/A) 2001 Italia 971.133 47.572 4,9 Centro-Nord 837.642 40.899 4,9 Umbria 11.417 973 8,5 di cui: Perugia 8.834 778 8,8 Terni 2.583 195 7,5 2007 Italia 1.500.616 61.000 4,1 Centro-Nord 1.278.866 51.500 4,0 Umbria 17.763 1420 8,0 di cui: Perugia 14.103 1.123 8,0 Terni 3.660 297 8,1

Fonte: Osservatorio Artigiancassa E’ comunque una situazione persistente e condivisa da entrambe le province umbre, almeno a partire dal 2002, come si evince dalla rappresentazione che segue. In effetti un dato è certo: in media, le imprese artigiane dell’Umbria assorbivano, già nel 2001, una quota di risorse superiore (di 7 mila euro) rispetto alle imprese nazionali. La forchetta di valori si è ampliata raggiungendo un valore di 16,2 mila euro di differenza tra il finanziamento medio alle imprese artigiane in Umbria e il corrispondente valore nazionale. Una differenza, quella delle migliaia di euro assorbite in media da ciascun impresa umbra, che viene indirettamente confermata anche guardando alle erogazioni medie da parte degli sportelli bancari in Umbria: anche queste, infatti risultano maggiori sia delle medie nazionali sia delle stesse medie dell’Italia centro-settentrionale.

DENTRO L’UMBRIA due300

Incidenza (%) dei finanziamenti alle imprese artigiane sul totale (2001 – 2007)

6,0

8,0

10,0

2001 2002 2003 2004 2005 2006 20074,0

5,0

6,0

7,0

8,0

Perugia Terni Umbria Centro-Nord

Fonte: ns. elab. su dati Osservatorio Artigiancassa

Finanziamenti a imprese artigiane Totale In rapporto a (migliaia di euro per unità:) (mln di euro) Imprese artigiane Sportelli bancari

2001 Italia 47.572 33,7 1.626,7 Centro-Nord 40.899 39,2 1.800,9 Umbria 973 40,1 1.973,6 di cui: Perugia 778 41,2 2.036,6 Terni 195 36,3 1.756,8 2007 Italia 61.000 40,8 1.836,0 Centro-Nord 51.500 46,3 1.976,0 Umbria 1.420 57,0 2.508,8 di cui: Perugia 1.123 57,7 2.575,7 Terni 297 54,2 2.284,6

Fonte: ns. elab. su dati Osservatorio Artigiancassa Anche in questo caso il risultato regionale risente di una spinta verso l’alto dai valori fatti registrare in provincia di Perugia. Ma, nel confronto con gli altri territori la provincia di Terni non è da meno: anche i valori di sua pertinenza, infatti, arrivano a collocarsi, alla fine del periodo, al di sopra di quelli osservati altrove. Una dimensione di tutto rilievo e di indubbio interesse è quella dell’orizzonte temporale dei finanziamenti ottenuti e, come si evince dalla tabella che segue, le imprese artigiane dell’Umbria appaiono, per così dire: maggiormente investment oriented,

AURAPPORTI: RES 2008-09 301

ovvero non disdegnanti di seguire strategie di investimento. Lo dimostra il fatto che la quota di finanziamenti a lungo termine passa dal quasi 51% del 2001 al 57,7% del 2007, con tre punti percentuali pieni sopra la media nazionale e con la provincia di Terni che, per questo aspetto, arriva a sopravanzare quella di Perugia. Finanziamenti alle imprese artigiane a breve e lungo termine (consistenze a fine anno)

Totale

finanziamenti di cui: Incidenza (%)

a breve termine a lungo termine Fin. B.T. Fin. L.T

2001 Italia 47.572 26.178 21.394 55,0 45,0 Centro-Nord 40.899 22.291 18.608 54,5 45,5 Umbria 973 480 493 49,3 50,7 di cui: Perugia 778 382 396 49,1 50,9 Terni 195 98 97 50,3 49,7 2007 Italia 61.000 27.700 33.300 45,4 54,6 Centro-Nord 51.500 23.530 27.970 45,7 54,3 Umbria 1.420 600 820 42,3 57,7 di cui: Perugia 1.123 479 644 42,7 57,3 Terni 297 121 176 40,7 59,3

Fonte: Osservatorio Artigiancassa

Finanziamenti a lungo termine: incidenza (%) sul totale

48

52

56

60

2001 2002 2003 2004 2005 2006 200745

47

49

51

53

55

57

Perugia Terni Umbria Centro-Nord

Fonte: ns. elab. su dati Osservatorio Artigiancassa

DENTRO L’UMBRIA due302

Anche la tabella che segue contribuisce a dare una idea della vivacità espressa sul mercato dei finanziamenti dalle imprese artigiane locali. Nelle ultime due colonne sulla destra, infatti, si nota che mentre le imprese artigiane in Umbria erano, nel 2001 e nel 2007, il 26% del totale delle piccole imprese, ad esse veniva destinato il 36% dei finanziamenti concessi alle piccole imprese. Una certa asimmetria la si riscontra anche nei dati relativi all’Italia e al Centro-nord. Lo scarto, comunque, è maggiore in Umbria che altrove e suggerisce l’idea di una attenzione particolare a non far mancare (o a non farsi mancare) una quantità adeguata di risorse finanziarie. Finanziamenti al complesso delle piccole imprese e incidenza delle imprese artigiane

Totale piccole imprese Incidenza (%) delle imprese artigiane N° imprese Finanz. (Mln €) N° imprese Finanz. 2001 Italia 4.343.659 136.087 24,5 35,0 Centro-Nord 2.822.374 108.687 27,0 37,6 Umbria 65.844 2.670 26,9 36,4 2008 Italia 6.089.163 192.100 24,5 31,8 Centro-Nord 4.068.536 152.840 27,3 33,7 Umbria 94.357 3.973 26,4 35,8

Fonte: Osservatorio Artigiancassa

Si potrebbe pensare che la maggiore liquidità concessa dalle istituzioni finanziatrici dipenda esclusivamente o significativamente dalle riserve di legge di volta in volta introdotte proprio allo scopo di non far gravare sulle imprese artigiane costi eccessivi o addirittura carenze di risorse finanziarie. L’ipotesi che la maggiore facilità di accesso ai finanziamenti (facilità rappresentata, con un certo grado di approssimazione, dalla abbondanza) da parte delle imprese artigiane dipenda da una più insistita predilezione da parte delle istituzioni pubbliche non trova convincente riscontro nei dati contenuti nella tabella che segue. Qui, infatti, si rileva come l’incidenza dei finanziamenti agevolati sul totale sia, in Umbria, inferiore a quanto si osserva per il resto del Paese. Nel 2001, infatti, si ha una incidenza del 5,5% per questa regione ma del 7,6% per l’Italia intera e del 6,8% per l’insieme delle regioni centrosettentrionali. Per di più la quota del totale dei finanziamenti agevolati che è stata riservata alle imprese artigiane ha visto un comportamento più attivo delle altre imprese artigiane di altre regioni passate dal 10 – 13% del 2001 al 16-18% del 2007 e ciò nonostante che l’importo medio dei finanziamenti agevolati sia, seppure di poco, diminuito tra il 2007 e il 2001: da 2,6 a 2,2 migliaia di euro80.

80 Per l’Umbria, come si vede, la riduzione opera su taglie di per sé già piuttosto basse ed è ulteriormente scesa dagli iniziali 2,2 agli attuali 1,4 mila euro.

AURAPPORTI: RES 2008-09 303

Nessun indizio, tra quelli disponibili, confermerebbe dunque l’ipotesi che alla base di una robusta capacità di accesso ai finanziamenti vi sia un eccesso di agevolazioni. Tutt’altro. Almeno in mancanza di ulteriori informazioni. Finanziamenti agevolati: rapporti caratteristici (%)

Incidenza sul totale dei finanziamenti

artigiani

Incidenza sul totale dei

finanziamenti agevolati

Finanziamenti agevolati per

impresa(.000 €)

Finanziamenti agevolati per impresa

artigiana (.000 €)

2001 Italia 7,6 10,9 5,7 2,6 Centro-Nord 6,8 13,5 5,3 2,6 Umbria 5,5 12,3 4,9 2,2 di cui: n.d. 2007 Italia 5,4 16,3 4,3 2,2 Centro-Nord 4,7 18,8 3,1 2,2 Umbria 2,4 12,0 3,0 1,4 di cui: Perugia 2,3 Terni 2,7

Incidenza dei finanziamenti agevolati sul totale dei finanziamenti concessi alle imprese artigiane (2001 – 2007)

2,0

4,0

6,0

8,0

2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007

Perugia Terni Umbria Centro-Nord

Non aiuta a sbrogliare la matassa nemmeno l’ipotesi che a motivare la più che proporzionale domanda di finanziamenti bancari sia la prevalenza di imprese relativamente grandi. Se valesse il semplice nesso “impresa più grande equivale ad un fabbisogno maggiore di liquidità” qui non troverebbe conferma: tanto la quota di finanziamenti che va alle imprese con 20 e più addetti quanto quella di pertinenza della

DENTRO L’UMBRIA due304

classe immediatamente inferiore (sopra i cinque addetti) sono piuttosto basse: in particolare sono più basse di quelle osservate per il resto del territorio nazionale. E d’altra parte, la quota che va alle imprese più piccole non è così esorbitante da autorizzare a pensare che siano tante piccole richieste di mutuo a sospingere verso l’alto il flusso totale dei finanziamenti ottenuti. Finanziamenti bancari alle imprese artigiane: ripartizione per dimensioni di impresa (consistenza a fine anno) < 6 add. da 6 a 19 add. > 19 add. Totale 2001 Valori assoluti Italia 19.747 24.449 3.376 47.572 Centro-Nord 15.546 22.522 2.831 40.899 Umbria 420 497 56 973 Rapporti di composizione (Totale = 100) Italia 41,5 51,4 7,1 100,0 Centro-Nord 38,0 55,1 6,9 100,0 Umbria 43,2 51,1 5,8 100,0 2007 Valori assoluti Italia 26.320 32.100 2.580 61.000 Centro-Nord 20.779 28.607 2.114 51.500 Umbria 574 791 55 1.420 Rapporti di composizione (Totale = 100) Italia 43,1 52,6 4,2 100,0 Centro-Nord 40,3 55,5 4,1 100,0 Umbria 40,4 55,7 3,9 100,0

D’altra parte, il riscontro possibile sul solo 2001 mostra come le imprese con meno di 6 addetti fossero quasi il 90% e dunque meno che in Italia (dove sono il 93 %), mentre quelle più grandi, con più di 19 addetti, sono leggermente più numerose e corrispondono allo 0,6% mentre in Italia sono lo 0,5%. Altre due ipotesi sarebbero pertanto da verificare, ma con risorse e tempi meno ristretti: l’elevato flusso di finanziamenti che arriva alle imprese artigiane potrebbe infatti essere connesso a programmi di investimento mediamente più impegnativi che altrove oppure potrebbe celare il fatto che l’impresa artigiana in Umbria parte e sopravvive con meno risorse proprie di quanto fanno le altre e dunque, a parità di altre condizioni, si appoggia con maggiore intensità ai finanziamenti bancari. Oppure un mix delle due.

AURAPPORTI: RES 2008-09 305

Struttura delle imprese artigiane in Umbria e in Italia per classi di addetti

Imprese Addetti < 6 da 6 a 19 da 20 a 49 < 6 da 6 a 19 da 20 a 49

Umbria 90,8 8,6 0,6 40,8 49,7 9,5 Italia 92,9 6,7 0,5 47,5 43,9 8,5

Fonte: ns. elab. su dati Istat

Ulteriori informazioni riguardano la misura in cui le imprese artigiane utilizzano forme di gestione finanziaria non proprio immediate, sostanzialmente integrative, spesso condizionate da opportunità di natura fiscale (il leasing) oppure da necessità di carattere organizzativo e contingente (il factoring). Come si vede nella tabella che segue, il ricorso al leasing era diffuso soprattutto alcuni anni addietro: nel 2001, ad esempio, le imprese artigiane incidevano per oltre il 17%, ovvero più del doppio di quanto si registrava in Italia o nelle regioni del Centro-Nord. In pochi anni la situazione appare essersi normalizzata, le divergenze dalle medie di riferimento si sono notevolmente smorzate e l’allineamento intervenuto ha riguardato anche le due province all’interno dell’Umbria. Poche frazioni di punto decimale distinguono oramai Terni da Perugia mentre un tempo vi erano quasi quattro punti percentuali di differenza. La forbice è rimasta invece nel ricorso al factoring dove a un uso dello strumento più vivace in provincia di Perugia che in quella di Terni fa riscontro un dato di sintesi per l’Umbria che nel 2001 si colloca al di sopra e nel 2007 al di sotto delle medie di riferimento. Leasing e factoring: finanziamenti alle imprese artigiane e incidenza (%) sul totale Leasing Factoring € (mln) Incidenza (%) € (mln) Incidenza (%) 2001 Italia 4.200 7,8 1.460 3,8 Centro-Nord 3.330 6,7 1.150 3,3 Umbria 73 16,7 26 4,6 di cui: Perugia 61 17,5 22 6,2 Terni 12 13,3 4 1,9 2007 Italia 5.500 6,3 1.570 3,6 Centro-Nord 4.400 5,7 1.290 3,4 Umbria 50 5,5 18 2,1 di cui: Perugia 41 5,5 15 4,2 Terni 9 5,4 3 0,6

Fonte: Osservatorio Artigiancassa

DENTRO L’UMBRIA due306

Da ultimo non può evadersi un richiamo a due variabili di “stato di grazia” delle imprese e, in particolare, dell’impresa artigiana: una valutazione dei depositi (bancari) posseduti e una stima della ricchezza . La prima segnala per l’Umbria (con la provincia di Perugia un po’ più avanti e quella di Terni comunque in linea con le medie nazionali) una incidenza dei depositi bancari di pertinenza dell’artigianato un po’ più grande che in Italia. Se, però, si pensa all’elevato ricorso al finanziamento bancario dispiegato dalle imprese artigiane in questa regione si può tirare, quasi certamente in tutta sicurezza, un filo rosso che collega finanziamenti ottenuti e depositi mantenuti. La costanza della differenza tra Umbria e medie nazionali confermerebbe il carattere di indicatore strutturale di questa variabile. In modo analogo la stima della ricchezza su cui si appoggia l’impresa artigiana accredita le imprese umbre di qualche buon migliaio di euro in meno rispetto alle consorelle italiane a, ancor più, del solo centro-nord: una differenza che si mantiene e addirittura si allarga fin quasi ai giorni nostri, allorché la ricchezza media aziendale dell’impresa artigiana nel centro-nord ammontava (valore 2007) a 59,7 milioni di euro e in Umbria, con parità di condizioni tra Perugia e Terni, a 48 milioni. Depositi e ricchezza delle imprese artigiane e incidenza sul totale Depositi delle imprese artigiane Ricchezza delle imprese artigiane

€ (mln) Incidenza (%) € (mln)Per impresa

(.000 €) 2001 Italia 13.010 2,4 57.100 40,5 Centro-Nord 10.650 2,5 44.540 42,6 Umbria 207 3,0 860 35,4 di cui: Perugia 165 3,1 670 35,5 Terni 42 2,5 190 35,4 2007 Italia 16.000 2,1 83.500 55,9 Centro-Nord 12.888 2,1 66.350 59,7 Umbria 240 2,7 1.200 48,1 di cui: Perugia 185 2,8 936 48,1 Terni 55 2,7 264 48,2

Fonte: Osservatorio Artigiancassa

AURAPPORTI: RES 2008-09 307

Depositi artigiane su totale

2,0

2,2

2,4

2,6

2,8

3,0

3,2

3,4

2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007

Perugia Terni Umbria Centro-Nord

Fonte: ns. elab. su dati Osservatorio Artigiancassa

Considerazioni finali La valutazione dell’identità, del ruolo e delle prospettive dell’artigianato in una società complessa come l’attuale presuppone tener conto dell’impatto della globalizzazione e, come suggerisce l’OCSE (2002), dell’avvento di quella che si definisce “economia della conoscenza” ovvero di una società in cui i saperi si consumano con estrema velocità e ciò determina conseguenze impegnative per gli equilibri di imprese e località. Il dilatarsi delle dimensioni dell’arena della competizione preme perché tutte le imprese, e in particolare le piccole imprese, si adeguino ai nuovi fabbisogni di consapevolezza del cambiamento, di velocità delle reazioni e di capacità di controllo continuo dei costi. Nello scenario che si delinea nuove minacce mettono in pericolo l’esistenza dell’artigianato81: 1) le difficoltà dell’Europa a riconoscere anche sullo stesso piano concettuale l’esistenza di caratteri di specificità delle piccole imprese artigiane; 2) le difficoltà di opinione pubblica e governi nazionali a riconoscere la natura di “bene pubblico” dell’impresa artigiana ovvero l’intensità delle economie esterne sociali e civili che la sua presenza assicura alla stabilità dell’occupazione e alla diffusione di valori essenziali; 3) la vocazione dei sistemi normativi a determinare regole e indirizzi di comportamento pensati in termini di grandi dimensioni e di prevalenza delle economie di scala nei processi produttivi e dunque privilegiando le imprese transnazionali o comunque “grandi”;

81 Cfr. Bramanti (2008), pp. 158 – 159.

DENTRO L’UMBRIA due308

4) la diversificazione spinta sotto la stessa etichetta di “impresa artigiana” per cui vengono a convivere fianco a fianco le realtà più diverse dall’artigianato tipico e integralmente creativo alla piccola impresa industriale e commerciale. Da un lato, dunque, una vera e propria discontinuità nei modelli di produzione e di organizzazione, con in più, probabilmente, una rottura negli orientamenti delle diverse generazioni e quindi una maggiore difficoltà ad assicurare gli stessi passaggi generazionali al vertice delle imprese. Dall’altro una maggiore difficoltà da parte delle piccole imprese a ridurre i costi di gestione delle conoscenze e ad orientarsi su percorsi di stabilità se non di sviluppo. Imprese artigiane e non per anno di nascita dell’imprenditore Valori assoluti Incidenza (%) sul totale

n.r.Non

artigiane Artigiane Totale Non artigiane Artigiane Totale < 1950 0 10 3 13 13,0 2,4 6,3 1950 - 1959 0 23 18 41 29,9 14,2 19,9 1960 - 1969 0 16 43 59 20,8 33,9 28,6 1970 - 1979 2 17 36 55 22,1 28,3 26,7 1980 e succ. 0 10 25 35 13,0 19,7 17,0 non risponde 0 1 2 3 1,3 1,6 1,5 Totale 2 77 127 206 100,0 100,0 100,0

Fonte: Indagine AUR 2009 In tale contesto la relativa maggiore freschezza generazionale dell’impresa artigiana, anche se ancora definita in modo molto aperto e tollerante, può essere una base di fiducia per il futuro del comparto: ad avere meno di quaranta anni, come rileva una indagine preliminare condotta dall’AUR, sono il 40% degli imprenditori artigiani e 35% degli imprenditori non artigiani. Tra le piccole imprese non artigiane si ha, al contrario, una maggiore presenza di imprenditori nati prima del 1960 e, in particolare, prima del 1950 (13,0%).

AURAPPORTI: RES 2008-09 309

Distribuzione (%) degli imprenditori, artigiani e non, per classe di anno di nascita

76,9

56,1

27,1

30,9

28,6

37,4

23,1

43,9

72,9

65,5

71,4

61,7

0% 10% 20% 30% 40% 50% 60% 70% 80% 90% 100%

< 1950

1950 - 1959

1960 - 1969

1970 - 1979

1980 e succ.

tot.

Non artigiane Artigiane

Fonte: Indagine AUR 2009 Allo stesso modo induce a mantenere fiducia la diffusa consapevolezza del valore dì una caratterizzazione artigiana delle proprie produzioni: e se può sembrare meno presente di quanto si potesse pensare a priori un tale riconoscimento tra le imprese artigiane (che pure sono il 73% del totale ma si orientano verso tale voce nella misura del 46,3%), sorprende il fatto che il 29,1% delle imprese che si considerano non artigiane assegna importanza alla dimensione artigianale dei propri prodotti. Distribuzione (%) degli imprenditori, artigiani e non, per qualità del giudizio sulla propria impresa

Valori assoluti Incidenza (%) sul totale

Non

artigiane Artigiane TotaleNon

artigiane Artigiane Totale Qualificazione artigiana 30 82 112 29,1 46,3 40,0 Standardizzazione 44 46 90 42,7 26,0 32,1 Flessibilità competitiva 17 37 54 16,5 20,9 19,3 Altro 12 12 24 11,7 6,8 8,6 Totale 103 177 280 100,0 100,0 100,0

Fonte: Indagine AUR 2009 Non sorprende, invece, che nella dimensione della precisione standardizzata, spesso assicurata da macchinari specifici, si riconosca una quota più elevata di quelle imprese che artigiane non sono (48,9%).

DENTRO L’UMBRIA due310

E incoraggia il fatto che a preoccuparsi di mantenere una capacità competitiva sia una quota maggiore (20,9%) tra le imprese artigiane piuttosto che tra quelle non artigiane (16,5%). Così che questa caratterizzazione finisce per riguardare due imprese artigiane ogni impresa che artigiana non è. Distribuzione (%) degli imprenditori, artigiani e non, per qualità del giudizio sulla propria impresa

26,8

48,9

31,5

50,0

36,8

73,2

51,1

68,5

50,0

63,2

0% 10% 20% 30% 40% 50% 60% 70% 80% 90% 100%

Qualificazione artigiana

Standardizzazione

Flessibilità competitiva

Altro*

Totale

Non artigiane Artigiane

* In prevalenza: accorciamento dei tempi di produzione delle merci o di erogazione dei servizi e capacità di interazione coi committenti. In tutto (vedi tabella precedente) 24 casi. Fonte: Indagine AUR 2009 In definitiva, tanto l’assaggio di indagine richiamata da ultimo quanto il quadro statistico e la stessa ricostruzione storica contenuta nella prima parte avvalorano l’istanza di un lavoro di ricognizione più sistematico e metodologicamente fondato su cui appoggiare tanto la predisposizione di più coerenti interventi legislativi quanto la costruzione dell’atteso Osservatorio dell’artigianato regionale in Umbria. Con beneficio non da poco anche sulla conoscenza di aspetti specifici delle più recenti fasi dello sviluppo economico della regione. Ringraziamenti: Per l’Indagine sulle micro e piccole imprese manifatturiere umbre si ringraziano le Associazioni imprenditoriali di CNA, CONFAPI, CONFARTIGIANATO, CONFINDUSTRIA per la collaborazione fornita nella diffusione e raccolta dei questionari. La sistematizzazione dei dati è stata curata dall’AUR (Enza Galluzzo, Nadia Giuliano e Eleonora D’Urzo).

AURAPPORTI: RES 2008-09 311

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IL SOSTEGNO ALL’IMPRENDITORIA GIOVANILE1 Giacomo Frau, Meri Ripalvella Il presente contributo descrive le politiche adottate dalla Regione Umbria per sostenere l’imprenditoria giovanile. Dopo aver fornito una breve panoramica di quelle che, ad oggi (i dati sono aggiornati al 2008)2, sono le caratteristiche salienti dell’attività di impresa dei giovani umbri, il lavoro procede analizzando, in primo luogo, le disposizioni normative adottate in Umbria a sostegno dell’imprenditoria giovanile per, poi, continuare con l’analisi quantitativa3 degli interventi posti in essere in attuazione di tali diposizioni. Si precisa che tale analisi si concentra, prevalentemente, sulla Legge Regionale 12 del 1995 in quanto questa rappresenta, ad oggi, la più importante ed innovativa esperienza di politica a sostegno dell’imprenditoria giovanile in Umbria. I giovani imprenditori in Umbria Nel 2008, i giovani imprenditori umbri e, cioè, coloro che esercitano attività di impresa4 sul territorio regionale con età inferiore ai 30 anni, sono 9.447: oltre 7.000 dei

1 Giacomo Frau ha redatto il II, III, IV, V paragrafo, Meri Ripalvella il I e il VI. 2 L’analisi della struttura dell’imprenditoria giovanile umbra è stata condotta sui dati forniti dal Centro Studi Sintesi che ringraziamo per la gentile collaborazione. 3 L’analisi quantitativa degli interventi posti in essere, in Umbria, per il sostegno dell’imprenditoria giovanile è stata possibile grazie alla collaborazione delle C.C.I.A.A delle Provincie di Terni e Perugia, dalle Province di Terni e Perugia stesse e di Sviluppumbria Spa che, gentilmente, hanno fornito i dati e le informazioni necessarie allo scopo. 4 Si precisa che, nel presente lavoro, sono considerati “giovani imprenditori” coloro che esercitano la propria attività lavorativa nell’impresa come titolari, soci, amministratori ovvero rivestendo altre cariche, a condizione che la loro età non superi i 30 anni.

DENTRO L’UMBRIA due316

quali, il 78%, svolge la propria attività nella provincia di Perugia; poco più di 2.000 (22%) quelli localizzati sul territorio ternano (tab. 1). Tanto in Umbria quanto a livello nazionale, si osserva un’incidenza dei giovani, sul totale degli imprenditori, pari al 5,9%: questo a significare che ogni 100 imprenditori ve ne sono circa 6 con età inferiore ai 30 anni. Nel corso degli ultimi sei anni, si assiste ad una contrazione generalizzata dell’imprenditoria under 30: in Umbria, come nel complesso delle regioni centrali, il numero dei giovani imprenditori si riduce di circa il 26%; la flessione riscontrata a livello nazionale è lievemente superiore (-27%). Il decremento umbro vede sfavorita la provincia di Terni, dove si rileva una riduzione del 27% (contro il -25% di quella di Perugia). Nel corso dell’ultimo anno, al contrario, si osserva una contrazione lievemente superiore nella provincia di Perugia piuttosto che in quella di Terni (-5,2% contro -4,6%, rispettivamente); il decremento medio umbro (-5%) è in linea con quello medio nazionale (tab. 1).

Tab. 1 - Giovani imprenditori in Umbria, Centro ed Italia: valori assoluti, incidenza sul totale degli imprenditori (%) e variazioni percentuali

Giovani

imprenditoriIncidenza sul

totale* Variazioni (%)

v.a. % 2007/2008 2002/2008 Perugia 7.333 5,9 -5,2 -25,3 Terni 2.114 5,9 -4,6 -27,3 Umbria 9.447 5,9 -5,1 -25,8 Centro 110.752 5,5 -4,7 -26,4 Italia 574.557 5,9 -5,1 -27,0

(*) (Imprenditori con età inferiore ai 30 anni )*100 / imprenditori totali. Fonte: elaborazioni Centro Studi Sintesi su dati Infocamere. La tabella 2 mostra con quale titolo gli oltre novemila giovani imprenditori umbri esercitano la propria attività lavorativa: la maggior parte di questi riveste la carica di titolare (37%), proprio come avviene anche nel complesso delle regioni del Centro ed a livello nazionale, seguono, quindi, quella di socio (quasi il 34%) e di amministratore (27,4%). Per quel che riguarda queste due ultime mansioni, il quadro umbro è opposto a quello delle altre ripartizioni geografiche prese a riferimento: tanto per il Centro quanto per l’Italia, infatti, il numero degli amministratori (34%) supera quello dei soci (23,2% e 20,5% per Centro ed Italia, rispettivamente). A ben vedere, in realtà, tale differenza è da attribuire esclusivamente ai giovani imprenditori della provincia di Perugia; quella di Terni, infatti, seppur con percentuali diverse, mostra una distribuzione degli imprenditori under 30 che ricalca quella del Centro e dell’Italia (tab. 2).

AURAPPORTI: RES 2008-09 317

Tab. 2 - Distribuzione percentuale dei giovani imprenditori per carica ricoperta (2008)

Titolare Socio Amministratore

Altre cariche

Totale (v.a.= 100)

Perugia 36,1 38,1 24,0 1,8 7.333 Terni 40,8 18,5 39,0 1,7 2.114 Umbria 37,1 33,7 27,4 1,8 9.447 Centro 39,8 23,2 34,6 2,4 110.752 Italia 42,9 20,5 34,0 2,6 574.557

Fonte: elaborazioni Centro Studi Sintesi su dati Infocamere. I giovani imprenditori umbri scelgono di esercitare la propria attività in aziende costituite come società di persone (45%) ovvero nella forma d’impresa individuale (37%); solo nel 15% dei casi, l’impresa assume la forma di società di capitali (graf. 1). Anche per il Centro e per complesso delle regioni italiane, la natura giuridica dell’impresa under 30 è prevalentemente quella della società di persone e dell’impresa individuale ma, a differenza di quanto osservato per l’Umbria, nelle ripartizioni geografiche di confronto si rileva una prevalenza della seconda sulla prima. La distribuzione, per natura giuridica dell’azienda, dei giovani imprenditori ternani è, in realtà, molto più simile a quella del Centro e dell’Italia piuttosto che a quella osservata nella provincia di Perugia, analogamente a quanto verificato precedentemente mediante l’analisi delle cariche ricoperte dagli imprenditori under 30 (graf. 1 e tab. 2). La grande maggioranza dei giovani imprenditori trova occupazione in imprese di recente costituzione, tanto in Umbria quanto nelle altre ripartizioni geografiche considerate. Oltre l’80% degli imprenditori under 30, infatti, svolge la propria attività in imprese iscritte al registro delle imprese nel corso degli ultimi nove anni (tab. 3); residuale la quota di coloro che trovano occupazione in imprese registrate dal 1990 al 1999 e prima del 1989 (18% in Umbria; circa 15% in Centro e nel complesso delle regioni italiane). Quanto ai settori d’attività economica scelti dai giovani per l’esercizio dell’attività d’impresa (graf. 2), ovunque, prevalgono il commercio, le costruzioni ed i servizi alla persona; sono di discreta rilevanza anche le attività legate ai servizi all’impresa e, solamente in Umbria, quelle riconducibili al settore agricolo. Oltre il 60% degli imprenditori under 30 è di sesso maschile, tanto in Umbria quanto nel complesso delle Regioni del Centro e d’Italia, tuttavia, la quota di giovani imprenditrici osservata in Umbria è superiore, seppur di poco, a quella rilevata nelle ripartizioni geografiche prese a confronto (graf. 3). In Umbria, infatti, ogni 100 giovani imprenditori, ve ne sono 35 di sesso femminile contro i 34 del Centro ed i 33 rilevati mediamente in Italia.

DENTRO L’UMBRIA due318

Graf. 1 - Distribuzione percentuale dei giovani imprenditori per natura giuridica dell’azienda (2008)

45,8 41,5 44,8 37,6 37,8

36,3 41,2 37,4 40,1 43,3

15,3 18,614,3 15,1 14,7

2,7 3,0 2,8 3,7 4,2

0102030405060708090

100

Perugia Terni Umbria Centro Italia

valor

i perc

entu

ali

Società di capitale Società di persone Impresa individuale Altre forme

Fonte: elaborazioni Centro Studi Sintesi su dati Infocamere.

Tab. 3 - Distribuzione dei giovani imprenditori per anno d’iscrizione al registro delle imprese. Valori assoluti e percentuali (2008)

Antecedente al 1989

Dal 1990 al 1999 Dal 2000 al 2009 Totale

v.a. % v.a. % v.a. % v.a. % Perugia 610 8,3 763 10,4 5.960 81,3 7.333 100,0 Terni 159 7,5 178 8,4 1.777 84,1 2.114 100,0 Umbria 769 8,1 941 10,0 7.737 81,9 9.447 100,0

Centro 7.466 6,7 9.674 8,7 93.612 84,5 110.752 100,0 Italia 36.416 6,3 51.412 8,9 486.729 84,7 574.557 100,0

Fonte: elaborazioni Centro Studi Sintesi su dati Infocamere. L’incidenza dei giovani sul totale degli imprenditori è, ovunque, superiore nel caso si considerino le donne piuttosto che gli uomini. Ogni 100 imprenditori di sesso femminile, infatti, circa 7 hanno un’età inferiore ai 30 anni mentre la corrispondente proporzione, per la componente maschile, è di 5 a 100 (graf. 3).

AURAPPORTI: RES 2008-09 319

Graf. 2 - Distribuzione dei giovani imprenditori per settore economico. Valori percentuali (2008)

12,2 10,5 11,8 6,1 7,4

10,9 9,0 10,511,1 10,4

16,515,4 16,3

17,0 16,4

22,4 27,3 23,5 24,7 24,5

12,1 11,4 11,9 14,1 12,7

13,7 15,8 14,2 16,7 15,4

9,8 7,9 9,4 7,4 10,5

0

10

20

30

40

50

60

70

80

90

100

Perugia Terni Umbria Centro Italia

Agricoltura e pesca Manifattura CostruzioniCommercio e riparazioni Trasporti Servizi alle impreseServizi alle persone Altro e non classificato

Fonte: elaborazioni Centro Studi Sintesi su dati Infocamere. Degli oltre 9.000 giovani imprenditori umbri, ben 1.071 (l’11,3%) sono di nazionalità straniera; il 76% dei quali sceglie la provincia di Perugia per localizzare la sede della propria impresa (tab. 4 e graf. 4). In Umbria, la componente straniera incide per oltre l’11% sull’imprenditoria under 30e, cioè, ogni 100 giovani imprenditori umbri ve ne sono circa 11 di nazionalità straniera; analogo risultato si rileva per quanto attiene il complesso delle regioni italiane mentre, per quanto riguarda il Centro, si osserva un maggior peso della componente straniera dell’imprenditoria under 30 (14 stranieri ogni 100 giovani imprenditori). A tal proposito, occorre, inoltre, osservare l’esistenza di una, seppur lieve, differenza tra le due province umbre: in quella di Terni, infatti, l’incidenza della componente straniera dell’imprenditoria giovanile supera di un punto percentuale quella verificata nella provincia di Perugia (tab. 4).

DENTRO L’UMBRIA due320

Graf. 3 - Giovani imprenditori per sesso: distribuzione ed incidenza sul totale degli imprenditori. Valori percentuali (2008)

34,5 36,4 35,0 33,7 32,5

63,6 65,0 66,3 67,565,5

7,0 7,0 7,0 6,87,2

5,4 5,4 5,44,9

5,4

0

10

20

30

40

50

60

70

80

Perugia Terni Umbria Centro Italia

Femmine Maschi incidenza femmine incidenza maschi

Fonte: elaborazioni Centro Studi Sintesi su dati Infocamere. Discorso analogo per quanto attiene l’incidenza dei giovani imprenditori stranieri sul totale degli imprenditori; anche in tal caso, infatti, troviamo (tab. 4):

una situazione per l’Umbria perfettamente coerente con quella media nazionale; un tasso di incidenza umbro lievemente inferiore a quello medio delle regioni del Centro; una tenue differenza tra le due province umbre: l’incidenza dei giovani stranieri, sul totale degli imprenditori, è superiore nella provincia di Terni piuttosto che in quella di Perugia.

AURAPPORTI: RES 2008-09 321

Graf. 4 - Distribuzione percentuale dei giovani imprenditori stranieri per provincia di localizzazione. Umbria (2008)

Terni24%

Perugia76%

Fonte: elaborazioni Centro Studi Sintesi su dati Infocamere.

Tab. 4 - Giovani imprenditori stranieri in Umbria, Centro e Italia: valori assoluti ed incidenze percentuali (2008)

Incidenza dei giovani imprenditori stranieri (%)

Giovani imprenditori

stranieri (v.a.)

Totale giovani imprenditori Totale imprenditori

Perugia 813 11,1 0,6 Terni 258 12,2 0,7 Umbria 1.071 11,3 0,7 Centro 15.953 14,4 0,8 Italia 65.891 11,5 0,7

Fonte: elaborazioni Centro Studi Sintesi su dati Infocamere. La legge regionale 12 del 1995: obiettivi e strumenti Nel corso degli ultimi 15 anni numerosi sono stati sia in Umbria, sia nelle altre regioni del Centro Nord, gli strumenti di promozione, supporto e tutoraggio atti a creare imprese di diversi settori, dimensioni, profili tecnologici.

DENTRO L’UMBRIA due322

La legge regionale n. 12 del 1995 “Agevolazioni per favorire l’occupazione giovanile anche con il sostegno di nuove iniziative imprenditoriali”, la più importante legge regionale a sostegno dell’imprenditoria giovanile in Umbria e per questo anche la più esaminata nell’ambito del presente lavoro di ricerca, costituisce il prosieguo dell’abrogata legge regionale n. 24 del 19885 in quanto disciplinante analoga materia. Il fine di entrambe le normative regionali è quello di sostenere e incentivare lo sviluppo dell’imprenditorialità giovanile tramite il finanziamento di imprese di nuova costituzione a patto che queste siano costituite in prevalenza da giovani, in modo tale da consentirne l’inserimento nel mercato del lavoro ovvero di migliorarne la posizione lavorativa. La Regione Umbria ha delegato la gestione della legge, e delle funzioni amministrative relative agli interventi in essa previsti, alle Province che, a loro volta, hanno destinato un gran numero di risorse al finanziamento della legge stessa prevedendo contributi a fondo perduto nelle spese di gestione, nonché un mutuo a tasso zero a copertura delle spese di investimento per quelle imprese, formate da giovani tra i 18 e i 32 anni di età, aventi sede legale, amministrativa e operativa in Umbria. La legge regionale 12 si è rivelata particolarmente efficace nel favorire nuove occasioni di lavoro per i giovani, favorendo lo sviluppo di una cultura imprenditoriale operante nei settori dell’artigianato, del commercio, della piccola industria, dei servizi, dei beni culturali e del turismo in entrambe le province umbre. Gli aiuti alle imprese sono finanziati non solo attraverso risorse regionali, ma anche grazie all’apporto dei fondi comunitari (Fondo Europeo di Sviluppo Regionale, Fondo Sociale Europeo, Fondo Europeo Agricolo di Orientamento e Garanzia e Fondo Europeo Agricolo per lo Sviluppo Rurale). Quando la Legge regionale n. 24/1988 é stata “sostituita” dalla legge regionale 12/95, il fondo di credito rotativo, istituito con la prima legge, ha continuato per anni ad essere alimentato dai rientri dei mutui erogati che avevano ammortamenti dai 6 ai 10 anni fino alla loro completa estinzione. Trattandosi di fondi regionali, per diversi anni ilfondo della legge regionale 24/88 ha contribuito anch’esso, con i propri rientri, al finanziamento della legge regionale 12/95. Oltre a quanto sopra specificato la legge regionale 12/95 si prefigge inoltre:

- di sostenere processi di natalità imprenditoriale giovanile ed in particolare femminile;

- di promuovere e sostenere iniziative imprenditoriali che operano nell’ambito della filiera turismo-ambiente-cultura;

5 Con la legge regionale 24 del 1988, “Agevolazioni per favorire l’occupazione giovanile anche con il sostegno di nuove iniziative imprenditoriali”, la Regione Umbria ha disposto interventi finanziari per sostenere la costituzione e l’avvio di imprese formate da giovani (18–29 anni) dando priorità a quelle volte alla produzione di beni e servizi nei settori inerenti l’ambiente, i beni culturali, l’artigianato e lo sviluppo del terziario qualificato. I contenuti della L.R. 24/1988 (destinatari, requisiti, tipologia di agevolazioni e gestione degli interventi) anticipano quelli che, poi, sono stati ampliati dalla successiva legge regionale (12/1995).

AURAPPORTI: RES 2008-09 323

- di favorire le imprese che investono in innovazione, ricerca e sviluppo al fine di sostenerne la competitività e processi di spin - off aziendale;

- di utilizzare in modo integrato altre fonti di finanziamento provenienti dai fondi strutturali per favorire le attività di comunicazione e di assistenza allo start-up previste dalla normativa regionale.

I destinatari delle agevolazioni contenute nella legge sono: per le imprese individuali: i titolari con un’età compresa tra i 18 e i 32 anni e residenti nel territorio regionale; per le società di persone, di capitali e cooperative: si richiede che almeno il 50% del totale dei soci sia costituito da giovani (con età compresa tra i 18 e 32 anni) e che questi siano titolari di almeno il 50% delle quote o delle azioni costituenti il capitale sociale;

Le agevolazioni consistono in: concorso alla copertura delle spese di costituzione d’impresa fino ad un massimo di 1.291,14 euro; rimborso degli oneri sostenuti, nei primi tre anni, per la consulenza e l’assistenza tecnica, fino al 100% e comunque con un tetto massimo di 9.296,22 euro (l’obiettivo è quello di rimborsare le spese per la formazione dei neoimprenditori); contributi a fondo perduto degli oneri sostenuti nel primo anno di attività per le spese di locazione e per gli oneri finanziari a breve termine, fino al 50% e comunque per un esborso massimo di 5.164,57 euro; anticipazioni a tasso zero per l’acquisto di terreni, impianti, macchinari, attrezzature, brevetti, licenze, marchi, per la costituzione o laristrutturazione di fabbricati strumentali dell’attività d’impresa, fino all’80% dell’ammontare della spesa e comunque per un importo non superiore a 123.949,66 euro; contributo in conto capitale sino ad un massimo del 20% del totale dei canoni previsti dai contratti leasing (esclusi quelli anticipati) per l’acquisizione dei beni strumentali.

Nella concessione delle agevolazioni alle imprese ammesse viene data priorità alle posizioni lavorative precarie e, infatti, devono essere privilegiate le domande presentate da lavoratori se in cassa integrazione o se iscritti nelle liste di mobilità (di cui alla legge 223/91), nonché le imprese con componente maggioritaria costituita da donne, portatori di handicaps e invalidi (con invalidità superiore al 40%). E’ evidente pertanto il ruolo decisamente sociale che acquisiscono le disposizioni evidenziate. Per la creazione di imprese è previsto il ricorso all’assistenza di Sviluppumbria e, qualora necessario, degli sportelli di servizio istituiti con il compito di rapportarsi costantemente con i diversi soggetti sociali presenti nel territorio, a partire dalle associazioni imprenditoriali e di categoria. Tali sportelli, secondo la normativa regionale, devono essere gestiti da società specializzate nel campo della creazione di imprese.

DENTRO L’UMBRIA due324

Le domande di accesso alle agevolazioni, presentate dalle imprese, devono essere esaminate per verificarne l’ammissibilità al finanziamento da un nucleo di valutazione che, qualora lo ritenga opportuno, deve proporre a Sviluppumbria il rimborso delle spese di progettazione sostenute dallo sportello. Alla stessa Sviluppumbria viene affidata la promozione della legge regionale n. 12 del 1995 attraverso attività di servizio per la creazione d’impresa mediante attività di assistenza e tutoraggio. Spetta sempre a Sviluppumbria il compito di occuparsi del monitoraggio, per i primi tre anni di vita, delle attività svolte dalle imprese beneficiarie delle agevolazioni. L’azione di monitoraggio ha la finalità di indagare e rilevare le problematiche e le difficoltà incontrate dai giovani imprenditori nella fase di start-up della loro attività, nonché quella di mettere in luce le esigenze ed i fabbisogni che connotano tali nuove iniziative. Tale azione si pone, inoltre, l’obiettivo di testare l’efficacia dello strumento della legge 12 e di evidenziarne le criticità, in modo tale che si possano acquisire elementi di valutazione che consentano, in futuro, la messa a punto e l’aggiornamento della stessa legge. Gli interventi previsti dalla legge 12 sono finanziati con il fondo istituito dalla legge regionale 18 agosto 1987 n. 40 e da specifiche misure contenute nei piani operativi a valere sugli obiettivi 2, 3, 4, e 5b del Regolamento CEE n. 2081/93 del Consiglio del 20 luglio 1993. Tali fondi sono gestiti da Sviluppumbria. L’attuazione della legge, i rapporti della Regione con le Province, quali beneficiari finali delle Azioni previste nei vari Docup (delle quali si parlerà nel successivo paragrafo) e con Sviluppumbria S.p.A., per la sola gestione delle risorse finanziarie, sono disciplinati da apposita convenzione stipulata il 20 dicembre del 1996 e ridefinita il 10 novembre 1999 in attuazione delle DD.G.R. n. 498 e 499 del 14 aprile del 1999. Quest’ultima, a sua volta, è stata sostituita con convenzione del 13 dicembre del 2005 n. 1970 e regola in via definitiva i rapporti tra gli enti sopracitati. La legge 12/1995 nei vari documenti unici di programmazione regionale (DOCUP) Gli interventi finanziari, secondo quanto previsto dall’art. 15 della legge 12/95, sono finanziati con il Fondo istituito dalla Legge regionale del 18 agosto 1987 n.40, “Istituzione di un fondo per favorire lo sviluppo dell’occupazione giovanile” nonché da specifiche misure previste nell’ambito dei vari strumenti di programmazione comunitari. La Regione Umbria, infatti, ha previsto il cofinanziamento degli interventi previsti dalla legge 12/1995, anche con i fondi comunitarimediante apposite misure/azioni inserite nei vari Docup, nello specifico:

azione 1.4 nel Docup Obiettivo 21994 -1996 e 1997-1999;

AURAPPORTI: RES 2008-09 325

misura 5.3 (Regolamento CEE n. 2081/93) nel Docup Obiettivo 5b 1994 -1999; misura 2.1, azione 2.1.7 nel Docup Obiettivo 2 2000 - 2006

di seguito analizzati. Docup Obiettivo 2 1994-1996 e 1997-1999 La programmazione sia del Docup Ob. 2 1994-1996 che del Docup Ob. 2 1997-1999, verteva sulla riconversione economica e produttiva della Provincia di Terni e del Comune di Spoleto, colpiti da declino industriale e da un processo di deindustrializzazione. Tale riconversione doveva attuarsi attraverso l’aiuto dei fondi comunitari FESR (Fondo Europeo di Sviluppo Regionale) e FSE (Fondo Sociale Europeo). L’area oggetto dell’intervento dei Fondi strutturali interessava quattro comprensori: l’Orvietano, l’Amerino, il Ternano e il Comune di Spoleto. Nel Docup Ob. 2 (1994-1996 e 1997-1999) è stata dedicata apposita misura alla programmazione degli interventi relativi alla legge sull’imprenditoria giovanile (misura 1.4). Tale misura “Strumento regionale di creazione di nuove imprese” è stata inserita nell’ambito dell’ASSE 1 del Docup “Consolidamento base produttiva e creazione di nuove iniziative”. La misura era rivolta a “promuovere e sostenere il processo di costituzione di nuove imprese, senza vincoli settoriali, predisponendo servizi di assistenza, orientamento e informazione nonché agevolazioni finanziare ai necessari investimenti”. Essa prevedeva due tipologie di intervento:

Sportello regionale di animazione economica: mediante realizzazione e funzionamento di uno sportello pubblico di informazione e assistenza alla creazione di nuove imprese, che promuova e orienti l’imprenditorialità, facendo assistenza durante le fasi di costituzione e di start-up delle imprese; Agevolazioni alle nuove imprese in applicazione del principio “de minimis”6, mediante il regime di aiuti previsto in attuazione della legge 12/95 (art. 4)e attuato mediante bandi aperti gestiti dalle Province.

La spesa pubblica, prevista nella programmazione della misura, era ripartita per il 20% sulla prima azione (sportello regionale di animazione economica) e per l’80% sulla seconda (regime di aiuto per nuove imprese). Autorità responsabile della misura è stata la Regione Umbria ed i soggetti attuatori le due Province: quella di Perugia per quel che attiene la gestione degli interventi nel comune di Spoleto; quella di Terni per tutto il territorio della stessa Provincia. L’azione è stata gestita dalle Province mediante bandi che prevedevano, durante l’anno, l’istituzione di ben due fasi istruttorie atte a valutare le domande pervenute entro le scadenze prestabilite (31 marzo e 30 settembre). I beneficiari degli interventi e, quindi, dei contributi comunitari sono: 6 Cfr Regolamento (CE) N.69/2001 relativo all'applicazione degli articoli 87 e 88 del trattato CE agli aiuti d'importanza minore («de minimis»)

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a) Gli sportelli regionali di servizio b) Nuove piccole e medie imprese artigianali

I regolamenti attuativi delle Amministrazioni Provinciali prevedevano, nel caso di irregolarità da parte dei beneficiari inottemperanti agli obblighi previsti dalla normativa, la revoca dei benefici e la restituzione del totale delle agevolazioni già erogate. La spesa pubblica7 sostenuta per dare attuazione alla misura 1.4, nell’intero periodo di programmazione (1994 - 1999), è stata di circa 4,3 milioni di euro ripartiti tra le 67 imprese beneficiarie degli interventi previsti dalla misura. Docup Obiettivo 5b 1994-1999 L’operatività programmatoria della Regione aveva individuato come obiettivi generali del Docup Ob. 5b (1994-99) la difesa e la valorizzazione del territorio da realizzare, da un lato con l’attivazione di maggiori investimenti a favore delle popolazioni locali (infrastrutture, servizi, ecc.), con lo sviluppo di attività integrative al reddito (agriturismo, turismo rurale, ecc.) e infine con la tutela dell’ambiente naturale; dall’altro, con l’individuazione del principio della “qualità” quale obiettivo generale delle attività produttive, al fine di stimolare lo sviluppo del sistema delle risorse endogene (naturali, culturali, agricole, produttive, ecc.) attraverso il recupero e il sostegno delle specificità locali ed il radicamento della tipicità e della qualità nel sistema produttivo. All’interno del Docup, nell’asse 4, “Diversificazione e consolidamento attività produttive non agricole”, il sottoprogramma 5 ha previsto una misura (la 5.3, Sviluppo e consolidamento PMI e artigianato) specificatamente dedicata al sostegno dell’imprenditoria giovanile. Anche tale misura prevedeva il finanziamento di due tipologie di intervento:

l’apertura di sportelli di animazione economica, di informazione e assistenza nel territorio: i costi per la costituzione dei quali dovevano essere completamente coperti dal settore pubblico, mentre, la gestione delle attività dello sportello è stata affidata a Sviluppumbria, tramite l’attivazione di una convenzione tra l’Ente stesso e la Regione; la concessione di agevolazioni a favore di nuove imprese: le agevolazioni consistevano sia in contributi a fondo perduto sulle spese di costituzione/avvio delle

7La spesa pubblica alla quale si fa riferimento è quella sostenuta per dare attuazione al Docup, comprensiva delle risorse erogate dall’UE, dagli Stati membri e dalle Regioni (fondo di credito rotativo). Non si tiene, quindi, in considerazione la spesa privata ed il flusso di risorse derivante dalla gestione dei rientri di competenza provinciale, dai “fondi liberi” regionali (utilizzati prevalentemente per il finanziamento delle aree non Docup), dalle convenzioni stipulate dalle Province con istituti bancari e Ge. pa.fin e dai fondi provinciali (solo per il pagamento degli interessi maturati sui finanziamenti derivanti dalle convenzioni sopra citate).

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attività (spese legali, consulenze, affitti) sia in anticipazioni a tasso zero sugli investimenti (come previsto dalla legge 12/95).

L’attuazione della suddetta misura è avvenuta anch’essa mediante bandi pubblici gestiti dalla Provincia di Perugia. Come si evince dal documento di programmazione, l’attività di promozione della misura doveva realizzarsi mediante: locandine; pubblicità sui giornali; attivazione di un numero verde; incontri con associazioni di categoria, comuni, uffici di collocamento; incontri presso scuole e Università. Come previsto dalla normativa, l’amministrazione provinciale di Perugia doveva eseguire ispezioni in ogni azienda finanziata al fine di verificare l’avvio dell’investimento. Inoltre, sempre secondo quanto previsto dalla legge 12, i beneficiari erano tenuti a presentare annualmente una relazione in cui dovevano indicare la destinazione e l’utilizzo delle somme erogate. La spesa pubblica sostenuta per dare attuazione alla misura 5.3, nel periodo di programmazione 1994 - 1999, è stata di circa 6,6 milioni di euro (di cui3,3 milioni finanziati tramite FESR). I progetti realizzati sono stati 125: 122 riguardanti l’avvio di nuove iniziative imprenditoriali; i rimanenti tre, invece, hanno permesso l’attivazione di sportelli di animazione ed assistenza nel territorio. Il sostegno all’imprenditoria giovanile, in Umbria, è continuato, come vedremo nel prossimo paragrafo, mediante lo stanziamento di ulteriori risorse nel Docup obiettivo 2 2000-2006. Docup Obiettivo 2 2000-2006 Con il Docup Obiettivo 2 2000-2006, gli interventi a sostegno dell’imprenditoria giovanile sono stati estesi all’intero territorio regionale (tranne una parte del comune di Perugia). Gli assi su cui si è poggiata la nuova strategia regionale, coerentemente con gli indirizzi comunitari, sono stati: l’aumento dell’occupazione e della competitività del sistema produttivo; la valorizzazione del territorio; la coesione urbana; la tutela e la prevenzione dell’ambiente e dei beni culturali; il raggiungimento delle pari opportunità e lo sviluppo della società dell’informazione. All’interno del Docup, nell’asse 2 “Competitività del sistema imprese”, è stata inserita un’azione “Regime di aiuto regionale a sostegno dell’imprenditoria giovanile” (2.1.7.), dedicata specificatamente alla legge 12/95 sull’imprenditoria giovanile. Tale misura nasce con l’obiettivo di agevolare investimenti materiali per favorire la creazione di imprese formate da giovani imprenditori. L’azione ha operato attraverso l’aumento della dotazione finanziaria del fondo previsto dall’art.15 della legge 12/95. Tali aiuti sono stati concessi sulla base del regime:

- de minimis (ai sensi del Regolamento CEE 69/2001); - esenzione dall’obbligo di notifica (ai sensi del Regolamento CEE 70/2001).

Il Docup Ob. 2 2000-2006, a sua volta, ha disposto che la gestione della legge fosse delegata alle Province (beneficiari finali). Queste ultime, mediante due fasi istruttorie a

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cadenza semestrale, hanno provveduto a selezionare i progetti (domanda + business plan) pervenuti durante tutto l’anno. La spesa pubblica sostenuta per dare attuazione all’azione 2.1.7, nel periodo di programmazione 2000 - 2006, ammonta a circa 12,7 milioni di euro ed i progetti finanziati sono stati 320. L’intervento della legge 12/95 nelle aree non Docup La legge 12/95 ha operato in tutto il territorio regionale e, di fatti, con tale legge sono state finanziate le aziende di tutta la Provincia di Perugia e di Terni, sia quelle all’interno delle cosiddette “aree svantaggiate”, obiettivo dei vari Docup (Obiettivo 2 e 5b) che si sono succeduti dal 1994 ad oggi, sia quelle all’interno dei territori che non rientravano in tale ambito (come, ad esempio, il comune di Perugia nella programmazione del Docup Ob. 2 2000-2006). La legge 12/95 ha infatti operato attraverso:

1. fondi del Docup, come già evidenziato nei precedenti paragrafi; 2. fondi autonomi derivanti da fondi regionali, fondi rientranti da finanziamenti

non attivati delle precedenti programmazioni del Docup (Ob. 2 e Ob. 5b). Il Fondo regionale è, appunto, un Fondo di credito rotativo che si “rialimenta” con tali ritorni.

Si rende necessario, inoltre, specificare che i dati, relativi agli interventi posti in essere in attuazione della legge, che analizzeremo nei successivi paragrafi, comprendono anche i risultati relativi alla gestione di uno strumento di incentivazione, attivato autonomamente dalla Provincia di Perugia, in convenzione con alcuni Istituti bancari e Ge.pa.fin. S.p.a.. Tale strumento ha operato laddove le risorse regionali risultavano non adeguate a garantire l’intera copertura finanziaria delle domande di finanziamento ritenute idonee. In questi anni, la Provincia è intervenuta a favore delle imprese, erogando gli interessi sui mutui contratti dalle aziende con le banche convenzionate. I Fondi utilizzzati in questo caso sono Fondi provinciali (fondi che “gravano” quindi sul bilancio della Provincia). Altre misure per favorire la nuova imprenditorialità: la legge 185 del 2000 In Umbria, al fine di favorire l’ampliamento della base produttiva e occupazionale nonché lo sviluppo di nuova imprenditorialità, attraverso la creazione di nuove imprese (anche da spin off aziendali) e il consolidamento del tessuto imprenditoriale regionale, sono stati finanziati interventi volti alla creazione e all’ampliamento di piccole imprese costituite in maggioranza da giovani, attraverso la legge 185/2000. Tale legge è stata gestita da Sviluppo Italia (oggi Invitalia) per quanto riguarda gli incentivi in favore dell’autoimprenditorialità (previsti al Titolo I delle legge), dal Bic Umbria per quel che riguarda gli incentivi in favore dell’autoimpiego (previsti dal Titolo II).

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Le agevolazioni gestite da Invitalia fanno capo, oltre che al già menzionato Titolo I del Decreto, al successivo Regolamento d’attuazione (Decreto del Ministero dell’Economia n. 250 del 2004) che ha reso il Decreto 185 pienamente operativo. La Legge n. 80 del 2005 (Decreto competitività) ha introdotto, successivamente, alcune novità al preesistente decreto. Per quel che attiene al Titolo I, Invitalia (Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa), promuove, attraverso le agevolazioni per l’autoimprenditorialità, la creazione e lo sviluppo di imprese costituite da giovani nelle aree depresse del Paese attraverso le seguenti misure:

produzione di beni e servizi alle imprese(capo I); fornitura di servizi(capo II); agricoltura (non più gestito da Invitalia ma dall’ISMEA, capo III); cooperative sociali (capo IV);

Il decreto Legislativo 185/00 riunisce ed amplia, solo per le misure relative al l’autoimpiego (Titolo II), in un unico strumento, la precedente legislazione in materia. Il titolo II della legge (Autoimpiego), gestito dal BIC Umbria, favorisce l’inserimento nel mondo del lavoro di soggetti privi di occupazione attraverso la creazione di imprese di piccola dimensione nelle aree economicamente svantaggiate del Paese. Le tipologie di intervento previste sono tre:

lavoro autonomo(ex legge 608/96 - Prestito d’onore); microimpresa (nuovo strumento); franchising (nuovo strumento).

Entrando nello specifico della legge, il Decreto Legislativo n.185 del 2000 contiene delle misure volte a ridefinire il sistema degli incentivi all’occupazione e lo sviluppo di una nuova imprenditorialità nelle aree economicamente svantaggiate del Paese, favorendo la nascita e lo sviluppo dell’impresa sociale e supportando l’impresa agricola. Il Titolo I del Decreto (Incentivi in favore dell’autoimprenditorialità) pone in evidenza il fine che le varie disposizioni in esso contenute si prefiggono, e,cioè, favorire l’ampliamento della base produttiva ed occupazionale nelle aree economicamente svantaggiate del Paese precisando che le stesse sono dirette soprattutto a favorire la creazione e lo sviluppo dell’imprenditorialità, anche in forma cooperativa. In tal senso esse tendono:

alla formazione imprenditoriale creando professionalmente nuovi imprenditori; ad agevolare l’accesso al credito per le imprese a conduzione o a prevalente partecipazione giovanile; a promuovere la presenza delle imprese a conduzione (o a prevalente partecipazione) giovanile nei comparti più innovativi dei diversi settori produttivi;

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a promuovere la formazione imprenditoriale e la professionalità delle donne imprenditrici.

Inoltre, queste tendono a favorire la creazione e lo sviluppo dell’impresa sociale anche per i soggetti svantaggiati, agevolandone l’accesso al credito. Idem dicasi per quanto riguarda la promozione della imprenditorialità nel settore agricolo e, quindi,l’agevolazione nell’accesso al credito degli imprenditori di tale settore. Gli ambiti territoriali in cui sono applicabili gli incentivi sopra descritti sono le aree di cui agli obiettivi 1 e 2 dei programmi comunitari nonché quelle che presentano rilevanti squilibri tra domanda e offerta di lavoro, così come sono state individuate dal Decreto ministeriale n. 14 del 1995 (nel caso dell’Umbria l’intera provincia di Perugia). Le agevolazioni previste consistono in:

- contributi a fondo perduto in conto gestione e mutui agevolati, secondo limiti stabiliti dall’Unione europea;

- forme di assistenza tecnica in fase di realizzazione degli investimenti e di avvio delle iniziative;

- attività di formazione e qualificazione dei nuovi soggetti imprenditoriali. Gli incentivi in favore della nuova imprenditorialità riguardano determinati e specifici ambiti:

- produzione di beni e servizi per le imprese, mediante progetti relativi alla produzione di beni nei settori dell’agricoltura, dell’artigianato o dell’industria; - settore dei servizi: nello specifico, nei settori della fruizione dei beni culturali, del turismo, della manutenzione di opere civili ed industriali, della innovazione tecnologica, della tutela ambientale, dell’agricoltura e della trasformazione e commercializzazione dei prodotti agroindustriali; - settore agricolo: per la produzione, la commercializzazione e la trasformazione di prodotti agricoli; - cooperative sociali: nei settori dell’agricoltura, dell’artigianato o dell’industria ovvero per le cooperative che si occupano della fornitura di servizi alle imprese indipendentemente dal settore di appartenenza di queste ultime.

I destinatari delle misure previste dalla legge sono: - gli agricoltori, con età compresa tra 18 e 35 anni, subentranti nella conduzione dell’azienda agricola familiare per quel che attiene il settore agricolo; - i soggetti di età compresa tra 18 e 35 anni e le società composte prevalentemente (che abbiano la maggioranza assoluta numerica di quote di partecipazione) da soggetti con età compresa tra i 18 e 29 anni per quel che attiene gli altri settori (produzione di beni e servizi alle imprese; servizi; cooperative sociali). La norma prevede, inoltre, un tetto massimo per l’ammontare degli investimenti per i quali è consentito chiedere il finanziamento; tali limiti differiscono a seconda del settore produttivo considerato:

produzione di beni e servizi alle imprese: l’importo dell’investimento finanziabile non deve superare i 5 miliardi di lire;

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cooperative sociali: l’investimento finanziabile deve essere al massimo di 1 miliardo di lire; agricoltura: l’investimento non deve superare i 2 miliardi di lire.

Sono, inoltre, esclusi dal finanziamento i progetti che non prevedono ampliamenti della base imprenditoriale, produttiva ed occupazionale, o quelli in cui venga meno il requisito della novità dell’iniziativa ma anche tutti quei progetti che fanno riferimento a settori esclusi o sospesi dal CIPE o da disposizioni comunitarie. Le disposizioni contenute nel Titolo II (Autoimpiego) sono dirette a favorire la diffusione di forme di autoimpiego e prevedono, quindi, vari strumenti per la promozione del lavoro autonomo e dell’autoimprenditorialità. Esse, infatti, mirano a favorire l’inserimento nel mondo del lavoro di soggetti privi di occupazione ed a qualificare la professionalità dei soggetti beneficiari con la promozione della cultura d’impresa. I territori, su cui sono applicabili le misure appena descritte, sono i medesimi previsti nel Titolo I della legge. I beneficiari delle misure in favore del lavoro autonomo sono:

i titolari di contratti di lavoro dipendente, a tempo determinato e indeterminato(anche a tempo parziale); i titolari di contratti di collaborazione coordinata e continuativa; i soggetti che esercitano una libera professione; i titolari di partita IVA; gli imprenditori, i familiari coadiutori di imprenditori; gli artigiani.

I beneficiari delle misure in favore dell’autoimpiego, nella forma della microimpresa e del franchising, sono coloro che, alla data di presentazione della domanda, abbiano raggiunto la maggiore età, risultino non occupati da almeno sei mesi e risiedano nelle aree obiettivo I dei programmi comunitari. I progetti finanziabili, nella forma della microimpresa, comprendono le iniziative relative ai settori della produzione di beni e della fornitura di servizi. Sono esclusi, in questo caso, dai finanziamenti gli investimenti che superano i 250 milioni di lire (al netto dell’IVA) e quelli riferiti ai settori dell’agricoltura, del commercio, nonché quelli provenienti da potenziali beneficiari operanti nei settori esclusi o sospesi dal CIPE o da disposizioni comunitarie. Gli investimenti, relativi alle micro-imprese, ammessi a beneficiare del sostegno previsto dal DLgs 185/2000 sono i seguenti:

attrezzature, impianti, macchinari e allacciamenti; beni immateriali ad utilità pluriennale; ristrutturazione di immobili (10% degli investimenti ammissibili)

Gli investimenti, tuttavia, non possono avere un ammontare superiore a 129.114,00 euro.

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I progetti finanziabili, in favore dell’autoimpiego in franchising, riguardano invece ditte individuali e/o società di nuova costituzione che presentano iniziative relative ai settori della produzione e commercializzazione di beni e servizi mediante franchising. Sono esclusi i progetti che provengono da settori esclusi o sospesi dal CIPE o da disposizioni comunitarie. Il Dlgs n. 185/2000, per le spese ammesse al finanziamento, prevede un mix di contributo a fondo perduto e mutuo agevolato che copre tutte le spese in conto investimento. Nel primo anno di attività della società è previsto, inoltre, un contributo a fondo perduto per coprire le spese in conto gestione. Alla società “Sviluppo Italia S.p.a.”, oggi “Invitalia”, è demandato il compito di assistere tecnicamente i progetti presentati, selezionare quelli ammissibili ed erogare le agevolazioni finanziarie; tutto ciò in sintonia con il Ministero del lavoro e della previdenza sociale ed il Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica. Tutte le misure incentivanti, previste dal Decreto in esame, sono oggetto di monitoraggio annuale volto a verificarne lo stato di attuazione con apposita relazione che ilMinistro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica deve inviare al Parlamento. Gli interventi a sostegno dell’imprenditoria giovanile in attuazione della L.R. 12/1995: un’analisi quantitativa In questa sezione del lavoro ci concentreremo sull’analisi quantitativa degli interventi posti in essere in Umbria per dare attuazione alla L.R. 12/19958. I dati, forniti dalle due Province umbre e da Sviluppumbria Spa, riguardano l’arco temporale che va dall’entrata in vigore della stessa legge fino ai primi mesi del 2009. Prima di addentrarci nell’analisi quantitativa degli interventi a sostegno dei giovani imprenditori umbri, sono necessarie due precisazioni:

lo studio effettuato sulle informazioni inviate da Sviluppumbria Spa (Gli interventi in attuazione della L.R. 12/1995 di Sviluppumbria Spa) è, in realtà, di tipo qualitativo piuttosto che quantitativo e riguarda gli interventi che la società ha posto in essere in adempimento al compito di promozione della legge regionale 12/1995. L’analisi delle risorse destinate a tali interventi è stata effettuata sui dati forniti dalle due Province umbre; a causa della eterogeneità delle informazioni procurate dalle Province umbre, non è stato possibile effettuare un’analisi aggregata a livello regionale degli interventi se non per pochi aspetti quali il numero delle richieste di agevolazioni presentate ed accettate; la distribuzione per settori economici e

8 Questa sezione si occuperà di analizzare quantitativamente solamente gli interventi adottati in attuazione della L.R. 12/1995. La decisione di considerare solo tale disposizione normativa, nonostante, nel corso dei vari anni, siano state emanate leggi nazionali e/o altre regionali, regolamentanti la stessa materia, scaturisce dal fatto che, ad oggi, la legge regionale n. 12 del 1995 rimane la più importante esperienza di politica a sostegno dell’imprenditoria giovanile in Umbria.

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per comprensori delle domande accettate; l’ammontare delle risorse destinate alle agevolazioni concesse. Proprio a causa di tale difformità informativa, si è deciso di effettuare un’analisi degli interventi, aggregata a livello regionale (Gli interventi in attuazione della L.R. 12/1995 in Umbria), fin dove possibile, per poi procedere ad una lettura separata dei dati forniti dalla Provincia di Perugia (Gli interventi in attuazione della L.R. 12/1995 nella Provincia di Perugia) e da quella di Terni (Gli interventi in attuazione della L.R. 12/1995 nella Provincia di Terni).

Gli interventi in attuazione della L.R. 12/1995 di Sviluppumbria Spa Sviluppumbria Spa, oltre ad essere stata incaricata dal legislatore regionale della gestione finanziaria e dell’erogazione delle risorse destinate all’attuazione della L.R. 12/1995, si è occupata della gestione diretta delle attività di servizio per la creazione d’impresa (di cui all’art. 6 della già citata legge regionale) nonché della promozione della stessa legge regionale9. Tale fase promozionale è avvenuta in tre differenti fasi:

1. gestione delegata (dal 1/5/96 al 30/4/97): appaltata, a seguito di bando di gara, a società che si occupano di consulenza, formazione, sviluppo ed occupazione (Assoprom ed Assforseo, nello specifico). In questa prima fase, gli Sportelli10 hanno registrato ben 1.160 contatti; i progetti presentati alle Province sono stati 248 (67 dei quali presentati dagli stessi Sportelli), 108 dei quali sono stati approvati (tra gli approvati, ben 40 erano stati presentati dagli Sportelli);

2. gestione transitoria (dal 1/5/97 al 31/3/99): in questa fase, Sviluppumbria si è avvalsa della consulenza delle società vincitrici dell’appalto in soli 16 casi. Nella seconda fase, gli Sportelli regionali hanno assistito potenziali nuovi giovani imprenditori in 343 casi. I progetti presentati alle Province sono stati 257 (37 dei quali presentati dalla stessa Sviluppumbria), di questi 119 hanno avuto approvazione (23 quelli presentati da Sviluppumbria);

3. gestione diretta (dal 19/4/99 al 23/4/01): la terza fase doveva concludersi il 23/10/00 ma, poi, si è protratta fino a parte del 2001. In questa fase, Sviluppumbria si è occupata della gestione diretta del progetto formazione/intervento per la creazione d’impresa, denominato Imprendilatuaidea. Tale progetto, finanziato con il Fondo Sociale Europeo e rivolto alle aree Ob. 2 e Ob. 5b, prevedeva tre diverse azioni: Informazione ed Orientamento; Certificazione (ovvero formazione in aula) ed Accompagnamento (voucher).

9 Le attività di servizio per la creazione d’impresa sono state affidate a Sviluppumbria con D.G.R. n. 2326 del 15 aprile 1997 mentre la promozione della legge regionale 12/1995, intesa come attività di servizio per la creazione d’impresa, le è stata affidata solo dal 19 aprile 1999. 10 Gli Sportelli regionali di animazione economica sono strutture territoriali decentrate su tutto il territorio umbro e hanno il compito di assolvere a alle funzioni di informazione, assistenza, promozione ed orientamento nella creazione di nuove imprese da parte di giovani.

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La seguente tabella riporta, per ogni azione ed area d’intervento, il numero degli utenti distinti per sesso. Si evince che (tab. 5):

per ogni azione, oltre il 65% delle utenze (contatti, allievi e/o beneficiari) proviene dalle aree dell’obiettivo 5b; per le azioni denominate “Informazione e Orientamento” e “Accompagnamento”, indipendentemente da quale sia l’area d’intervento, prevalgono gli utenti di sesso maschile; l’azione “Certificazione”, invece, si caratterizza per una maggiore presenza di donne nelle aree dell’obiettivo 2 (80% le femmine contro il 20% dei maschi) e per una prevalenza di allievi uomini (63%)in quelle individuate dall’obiettivo 5b; i contatti effettivamente effettuati, per quanto attiene l’azione “Informazione e Orientamento”, sono quasi il doppio di quelli previsti originariamente dal progetto. Tale evidenza risulta ancor più marcata nelle aree dell’obiettivo 5b.

Il progetto Imprendilatuaidea, presentato da Sviluppumbria Spa, ha permesso, su incarico della regione dell’Umbria e con il sostegno del Fondo Sociale Europeo, l’organizzazione di servizi gratuiti ed innovativi rivolti ai giovani umbri che avevano manifestato l’intenzione di dare avvio ad una attività imprenditoriale. L’esecuzione di tale progetto ha, inoltre, dato luogo alla creazione di strutture territoriali decentrate (Sportelli territoriali11) su tutto il territorio regionale, nonché alla formazione specifica di risorse umane da impiegare nell’assistenza e nella implementazione di tutte le azioni previste dal progetto stesso. Gli strumenti adottati da Sviluppumbria Spa, per dare esecuzione al progetto Imprendilatuaidea, e quindi per la verifica della fattibilità delle proposte imprenditoriali e per svilupparne il Business Plan, necessario per la presentazione della domanda alle Province, sono stati:

assistenza personalizzata: all’aspirante imprenditore è stato affiancato un tutor che aveva il compito di seguirlo durante la verifica dei presupposti fondanti l’idea imprenditoriale; formazione on line: mediante corsi in autoistruzione, Business Game12 e software per il Business Plan13;

11 Con il progetto Imprendilatuaidea, sono stati creati ben 11 Sportelli dislocati su tutto il territorio regionale. La suddivisione secondo le aree obiettivo prevedeva la presenza di tre sportelli in area obiettivo 2 ed otto in area obiettivo 5b. La localizzazione è avvenuta in quei comuni che hanno una funzione centrale nell’ambito di un determinato comprensorio in quanto rappresentati i poli di attrazione per i comuni limitrofi. Sono, dunque, stati scelti: Città di Castello nell’Alta Valle del Tevere, Gubbio nella zona dell’Alto Chiascio, Perugia, Foligno nella Valle Umbra, Norcia in Valnerina, Città della Pieve nella zona del Trasimeno, Todi e Marsciano nella Valle Umbra Sud, Spoleto, Orvieto e Terni. 12Si tratta di un vero e proprio simulatore d’impresa e, cioè, diun programma, inserito in un cd, che consente di creare un micro mondo virtuale in cui gli utenti, potenziali imprenditori, si dovevano confrontare mettendosi alla consolle di una impresa industriale predefinita, che era poi quella descritta in

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seminari di approfondimento e di verifica circa la fattibilità del progetto; crediti formativi (voucher): finalizzati all’acquisizione della consulenza di un esperto (scelto dall’Albo degli esperti qualificati da Sviluppumbria stessa) per perfezionare l’idea imprenditoriale.

Il servizio offerto da Sviluppumbria Spa è, dunque, consistito nell’assistenza a 360 gradi del potenziale neo imprenditore che veniva seguito in tutte le fasi necessarie all’attuazione dell’idea imprenditoriale (dall’informazione sulle opportunità legislative della proposta imprenditoriale, fino a giungere alla verifica di fattibilità dell’iniziativa imprenditoriale, garantendo, inoltre, un vero e proprio sostegno pratico nell’elaborazione del Business Plan necessario per la richiesta di agevolazione).

Tab. 5 - Utenti del progetto Imprendilatuaidea per sesso, azione ed area d’intervento. Valori assoluti

Area d’intervento

Azione Ob. 2 Ob. 5b

Totale

Informazione e Orientamento Contatti effettivamente effettuati 561 1.077 1.638 di cui maschi 316 613 929 di cui femmine 245 464 709 Contatti previsti da progetto 373 533 906 Certificazione (formazione in aula) Allievi partecipanti* 15 30 45 di cui maschi 3 19 22 di cui femmine 12 11 23 Accompagnamento (voucher) Beneficiari 10 23 33 di cui maschi 8 15 23 di cui femmine 2 8 10

(*) Allievi partecipanti a fine corso. Fonte: elaborazioni AUR su dati Sviluppumbria.

La metodologia sperimentata con il progetto Imprendilatuaidea è stata fortemente innovativa perché differenziata e personalizzata. A seconda del tipo di utente che si presentava allo sportello, infatti, sono stati previsti servizi ed interventi differenziati che tenessero conto delle caratteristiche del potenziale imprenditore e della sua idea. La

tutti i suoi elementi e caratteristiche nel corso in autoistruzione. Nel simulatore, gli utenti potevano prendere le tipiche decisioni che un imprenditore deve prendere nell’esercizio dell’attività d’impresa e che riguardavano principalmente le aree: promozione, progettazione, produzione e finanza. 13 Il software per il Business Plan altro non era che un semplicissimo programma in Excel che consentiva l’analisi della parte economico-finanziaria del progetto d’impresa del potenziale giovane imprenditore. Inserendo, in appositi fogli di lavoro excel, i dati di input di spesa di gestione corrente e di input di investimenti, il programma permetteva di ottenere, come output, il Conto Economico, lo Stato Patrimoniale ed il Cash Flow della propria attività in via previsionale per i primi quattro anni di vita.

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personalizzazione degli interventi e dei servizi offerti si è compiuta, invece, mediante una serie reiterata di incontri durante i quali venivano affrontate tutte le problematiche che il potenziale imprenditore avrebbe potuto incontrare nell’attuazione del suo progetto. Nella fase di valutazione dei risultati del progetto, condotta da Sviluppumbria, gli utenti che hanno usufruito del servizio sono stati ricondotti a tre tipologie. Nel primo gruppo rientrano coloro che hanno seguito il percorso minimo, abbandonando o rinviando (a data da destinarsi) il proprio progetto non appena incontrate le prime difficoltà. Rientrano in questa prima categoria i giovani (tra 18 e 32 anni) che partendo con molto entusiasmo, poiché convinti di avere una buona idea imprenditoriale, hanno, poi, abbandonato il progetto perché si sono resi conto che l’idea, se non avvalorata da potenzialità di mercato, da professionalità e da un’appropriata pianificazione, era difficilmente realizzabile. Questa tipologia di utenti ha esaurito il ciclo di assistenza in un massimo di due incontri. Nel secondo gruppo di utenti, invece, rientrano coloro che si sono interessati al progetto Imprendilatuaidea solamente con l’obiettivo di ottenere immediatamente le risorse necessarie all’avvio della loro impresa. La maggior parte di questi, dopo breve percorso con lo Sportello, ha abbandonato il progetto per mancanza di risorse finanziarie ovvero ha scelto altri canali di finanziamento. Nell’ultimo gruppo di utenti, troviamo coloro che hanno portato a termine il progetto. Ovviamente, anche questi giovani imprenditori hanno richiesto i servizi dello Sportello per ottenere finanziamenti ma, a differenza degli altri, hanno anche capito l’importanza di una seria pianificazione del progetto imprenditoriale. Il percorso d’assistenza fornito dallo Sportello ha dato luogo, inizialmente, ad una serie di incontri che hanno permesso la prima stesura del progetto d’impresa; in un secondo momento, i potenziali imprenditori hanno partecipato ad un seminario formativo di tre giorni sulla predisposizione del Business Plan e sulla creazione d’impresa. Durante tale seminario, i formatori hanno avuto la possibilità di individuare le esigenze dei singoli imprenditori e dei singoli progetti, in tal modo, i potenziali imprenditori, con il sostegno dei formatori, hanno potuto lavorare ancora sul proprio Business Plan, modificandolo, integrandolo e perfezionandolo. Dopo le giornate seminariali, si è dato l’avvio alla fase conclusiva che ha previsto la riunione di un’apposita commissione che aveva il compito di decidere se assegnare o meno un credito formativo (voucher) ai proponenti il progetto. Tali voucher consistevano in contratti con professionisti, iscritti all’Albo degli Esperti presso Sviluppumbria, che hanno aiutato gli utenti a confezionare il loro piano nei modi dovuti per la presentazione al nucleo di valutazione della provincia competente. Gli interventi in attuazione della L.R. 12/1995 in Umbria Nel periodo preso in esame (1996-2009), ben 2.324 sono stati i progetti presentati alle Amministrazioni Provinciali umbre per l’accesso al finanziamento previsto dalla L.R. 12/1995; oltre il 77% dei quali è da ricondurre alla sola provincia di Perugia (tab. 6).

AURAPPORTI: RES 2008-09 337

I progetti imprenditoriali di giovani (con età compresa tra i 18 e 32 anni) che, a seguito di valutazione positiva, hanno ottenuto il finanziamento pubblico sono ben 1.334 e, cioè, il 56,4% di quelli presentati. La percentuale di progetti ammessi, rispetto a quelli presentati, è maggiore nella provincia di Terni (58,5%) piuttosto che in quella di Perugia (55,7%). L’ammontare delle risorse che, complessivamente, le due Province hanno impegnato, per il finanziamento delle idee imprenditoriali di giovani umbri, ammonta ad oltre 63 milioni di euro; la distribuzione delle risorse impiegate tra le due province ricalca perfettamente quella dei progetti presentati e approvati, ed è, quindi, superiore in quella di Perugia (che da sola rappresenta circa il 77% del totale, per ognuna delle variabili considerate). Ogni progetto imprenditoriale finanziato ha richiesto mediamente un esborso di oltre 47 mila euro: il valore medio del finanziamento pubblico è superiore nella provincia di Perugia dove, per ogni progetto valutato positivamente, sono stati impegnati oltre 49 mila euro contro i 42.555 €della provincia di Terni. L’analisi dei progetti ammessi al finanziamento per settore d’attività economica dell’impresa (graf. 5), mostra, come potevamo aspettarci, una distribuzione regionale fortemente influenzata da quella osservata nella provincia di Perugia, dato che da questa proviene oltre il 77% dei progetti presentati ed ammessi al finanziamento, come si è già constatato precedentemente dall’analisi della tabella cinque. In Umbria e nella provincia del capoluogo regionale, infatti, la maggioranza dei giovani neo-imprenditori finanziati esercita la propria attività nel settore della produzione artigianale mentre, nella provincia di Terni, si rileva una prevalenza del settore dei servizi che, da solo, accoglie ben il 42% dei progetti finanziati. Tab. 6 - Agevolazioni concesse ai giovani imprenditori umbri nel periodo 1996 - 2009: progetti presentati, progetti ammessi al finanziamento, ammontare dei finanziamenti pubblici (totali e medi)

Progetti

presentati (A)

Progetti ammessi al

finanziamento(B)

B/A

Finanziamenti pubblici

totali

Finanziamenti pubblici medi (per progetto

ammesso)

v.a. v.a. % euro correnti euro correnti Terni 532 311 58,5 13.234.710,59 42.555,34 Perugia 1.792 1.023 55,7 50.282.505,77 49.152,01 Umbria 2.324 1.334 56,4 63.517.216,35 47.614,11

Fonte: elaborazioni AUR su dati Provincia di Perugia e Provincia di Terni.

DENTRO L’UMBRIA due338

Graf. 5 - Distribuzione per settore d’attività economica dei progetti ammessi al finanziamento pubblico. Umbria (1996-2009)

42,126,1 29,8

13,2

5,37,1

29,6

34,033,0

10,0

31,0 26,1

0

10

20

30

40

50

60

70

80

90

100

TR PG Umbria

valor

i perc

entu

ali

Servizi Industria Artigianato Commercio Agricoltura Turismo

Fonte: elaborazioni AUR su dati Provincia di Perugia e Provincia di Terni. In generale, tuttavia, possiamo dire che i settori d’attività economica più attrattivi per i giovani imprenditori umbri sono l’artigianato ed il commercio (più nella provincia di Perugia che in quella di Terni) ed i servizi (più nella provincia di Terni che in quella perugina). Da osservare un interessante 13% di iniziative di giovani neo imprenditori ternani nel settore industriale (graf. 5). Il grafico 6 riporta la distribuzione geografica dei progetti d’impresa finanziati dalle Amministrazioni Provinciali umbre. Appare subito evidente che la grande maggioranza di questi è localizzata nei comprensori che fanno capo alle due province umbre: nei due soli comprensori di Terni e Perugia, infatti, sono state finanziate ben 524 (quasi la metà del totale) neo-imprese di giovani umbri. Seguono, quindi, Valle Umbra sud con 160 progetti finanziati; l’Alta Valle del Tevere ed il comprensorio Eugubino-Gualdese dove, in entrambi i casi, le domande ammesse al finanziamento pubblico sono state poco più di un centinaio. Nei rimanenti comprensori umbri il numero dei progetti ammessi al finanziamento non supera le 100 unità: con un minimo di 18, osservato nel territorio di Norcia e della Valnerina, ed un massimo di 88 rilevato nella valle Umbra Nord (graf. 6).

AURAPPORTI: RES 2008-09 339

Graf. 6 - Distribuzione per comprensorio umbro dei progetti ammessi al finanziamento pubblico. Valori assoluti (1996-2009)

194

160

112

105

88

78

69

63

61

56

330

18

0 50 100 150 200 250 300 350

Perugino

Ternano

Valle umbra sud

Alta valle del Tevere

Eugubino - Gualdese

Valle umbra nord

Spoletino

Media valle del Tevere

Trasimeno - Pievese

Orvietano

Narnese - Amerino

Valnerina - Nursino

Fonte: elaborazioni AUR su dati Provincia di Perugia e Provincia di Terni. Gli interventi in attuazione della L.R. 12/1995 nella Provincia di Perugia Dall’entrata in vigore della L.R. 12/1995 la Provincia di Perugia, a fronte delle 1.792 domande presentate da giovani per il finanziamento della propria idea imprenditoriale, ha accordato agevolazioni nel 57% dei casi: ben 1.023, infatti, sono state le domande ammesse al finanziamento. Dei rimanenti progetti, che non hanno ottenuto le agevolazioni previste dalla normativa regionale, ben 111 (il 6,2%) sono stati ritirati prima ancora di essere ammessi alla fase di valutazione da parte dell’Amministrazione Provinciale (una sola domanda è stata ritirata dopo l’esame del nucleo di valutazione) mentre 614 sono stati i casi di esclusione : 92 domande, il 5%, sono state escluse in via amministrativa e 522 (il 29% delle domande presentate) sono, invece, state escluse dal nucleo di valutazione. Il 2% delle domande presentate risultano, ancora oggi, in corso di istruttoria (graf. 7).

DENTRO L’UMBRIA due340

Graf. 7 - Domande di agevolazione in corso di istruttoria, ritirate, escluse ed ammesse al finanziamento. Valori percentuali sul totale delle domande presentate nella Provincia di Perugia (1996-2009)

Domande ammesse (57,1%)

Domande ritirate (6,2%)

Domande escluse in via

amministrativa (5,1%)

Domande escluse dal nucleo di valutazione

(29,1%)Domande ritirate dopo l'esame del

nucleo (0,1%)

Domande in corso di

istruttoria (2,4%)

Fonte: elaborazioni AUR su dati Provincia di Perugia. Il grafico n. 8 rappresenta la distribuzione percentuale per settore di attività economica dell’impresa dei progetti finanziati, dei finanziamenti accordati e degli occupati previsti dai progetti finanziati. È immediato constatare che le tre distribuzioni sono pressoché analoghe. In ogni caso, infatti, prevale il settore dell’artigianato, con oltre il 30% dei progetti finanziati, delle risorse stanziate dall’Amministrazione Provinciale e dell’occupazione prevista. Seguono, quindi, il settore del commercio (a fronte di un 31% di progetti finanziati, si rileva circa il 28% di finanziamenti accordati e di occupati previsti) e quello dei servizi che accoglie il 26% delle imprese ammesse al finanziamento, il 23% delle risorse complessivamente erogate dalla Provincia e che prevede di partecipare per oltre il 25% all’allargamento della base occupazionale. Piuttosto scarsa la quota di progetti finanziati nell’industria (il solo 5,3%) che assorbono circa l’8% del totale delle agevolazioni concesse e prevedono una partecipazione alla creazione di nuova occupazione pari all’11%. Marginale il peso dei settori del turismo e dell’agricoltura (graf. 8) che si caratterizzano, però, insieme al settore industriale, per i più elevati valori medi di finanziamenti accordati e di occupati previsti (graf. 9).

AURAPPORTI: RES 2008-09 341

Se, infatti, in media, ogni progetto imprenditoriale finanziato nei settori dell’artigianato, dei servizi e del commercio ha previsto un esborso pubblico che non supera i 55 mila euro, l’importo delle agevolazioni che, mediamente, sono state concesse ai giovani imprenditori dell’industria, del turismo e dell’agricoltura, supera i 70 mila euro (gli 80 mila nel caso estremo dell’agricoltura). Per quel che attiene, infine, le previsioni occupazionali, si osservi che, nella maggior parte dei settori, ogni progetto prevede mediamente la creazione di 3 nuovi posti di lavoro, fanno eccezione i settori del turismo e dell’industria dove, in media, gli occupati previsti, per ogni domanda finanziata, ammontano a 4 e 7, rispettivamente (graf. 9). Graf. 8 - Distribuzione per settore d’attività economica dei progetti finanziati, dei finanziamenti pubblici accordati e degli occupati previsti dai progetti imprenditoriali. Provincia di Perugia (1996-2009)

34,0 35,7 32,5

5,3 7,8 11,0

26,1 22,6 25,3

31,0 28,1 27,5

2,7 4,3 2,9

0

10

20

30

40

50

60

70

80

90

100

Progetti finanziati Finanziamenti accordati Occupati previsti

valo

ri pe

rcen

tuali

Artigianato Industria Servizi Commercio Turismo Agricoltura

Fonte: elaborazioni AUR su dati Provincia di Perugia.

DENTRO L’UMBRIA due342

Graf. 9 - Finanziamenti pubblici accordati ed occupati previsti dal progetto finanziato per settore di attività economica. Valori medi per impresa finanziata dalla Provincia di Perugia (1996-2009)

51.5

19

72.3

34

42.6

48

44.6

14

77.7

17

82.4

85

49.1

52

33

433

7

3

10.000

25.000

40.000

55.000

70.000

85.000

Arti

gian

ato

Indu

stria

Serv

izi

Com

mer

cio

Turis

mo

Agr

icol

tura

Tota

leeuro

cor

rent

i per

impr

esa

finan

ziat

a

0

1

2

3

4

5

6

7

occu

pati

prev

isti p

er im

pres

a fin

anzi

ata

(v.a.

)

Finanziamenti medi Occupati previsti mediamente

Fonte: elaborazioni AUR su dati Provincia di Perugia. I valori medi delle agevolazioni accordate e degli occupati previsti per comprensorio territoriale della provincia perugina mostra come, mediamente, i progetti che hanno richiesto un maggior esborso di risorse pubbliche siano quelli appartenenti all’area “Trasimeno-Pievese” e della Media Valle del Tevere (oltre 55 mila euro per domanda ammessa al finanziamento) subito seguiti da quelli dello Spoletino e del comprensorio Eugubino-Gualdese (circa 52 mila euro). In tutti gli altri casi, il finanziamento che la Provincia di Perugia ha accordato ad ogni singolo progetto non supera i 50 mila euro (graf. 10). I progetti finanziati, qualunque sia il comprensorio considerato, prevedono in media un incremento occupazionale di circa 3 unità, eccezion fatta per le imprese finanziate nella Media Valle del Teveree nell’area Eugubino-Gualdese dove ogni domanda ammessa prevede 4 nuovi posti di lavoro (graf. 10).

AURAPPORTI: RES 2008-09 343

Graf. 10 - Finanziamenti pubblici accordati ed occupati previsti dal progetto finanziato per comprensorio territoriale. Valori medi per impresa finanziata dalla Provincia di Perugia (1996-2009)

49.9

13

52.2

79

46.3

40

46.5

92

47.3

49 56.6

58

55.3

09

52.3

65

42.4

78

49.1

52

3

3

3

43

33

343

10.000

25.000

40.000

55.000

70.000

85.000A

lta v

alle d

el Te

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Eug

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a - N

ursin

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Tota

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anzi

ata

2

3

4

occu

pati

prev

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er im

pres

a fin

anzi

ata (

v.a.)

Finanziamenti medi Occupati previsti mediamente

Fonte: elaborazioni AUR su dati Provincia di Perugia. Gli interventi in attuazione della L.R. 12/1995 nella Provincia di Terni I dati forniti dalla Provincia di Terni consentono di verificare il trend delle variabili d’interesse nel periodo 1996-200814. Dall’entrata in vigore della L.R.12/1995 al 2008, il numero dei progetti che i giovani ternani hanno presentato all’amministrazione provinciale, per ottenere le agevolazioni previste dalla normativa regionale, ha subito una forte contrazione (-80,6%) conseguentemente, si è ridotto, anche se in minor misura, il numero delle domande ammesse al finanziamento (-66,7%). Nel corso degli ultimi 4 anni, la minor riduzione delle domande ammesse, rispetto a quelle presentate, ha fatto si che la percentuale delle prime sulle seconde raggiungesse i suoi valori più elevati: il valore massimo lo si

14I dati forniti dalla Provincia di Terni riguardano l’arco temporale che va dall’entrata in vigore della L.R. 12/1995 ai primi mesi del 2009. Proprio perché le informazioni relative al 2009 non sono riferibili all’intero anno, si è deciso di analizzare le dinamiche delle variabili d’interesse fino al 2008 per evitare le ovvie distorsioni che altrimenti scaturirebbero dall’analisi di dati che, per il 2009, sono parziali.

DENTRO L’UMBRIA due344

riscontra nel 2007 quando ben l’89% delle domande presentate ha ottenuto il finanziamento pubblico. Il rapporto tra domande accolte e presentate non scende mai sotto al 50% eccezion fatta per il 1999, anno in cui entrambe le variabili mostrano un picco di crescita che, evidentemente, è di gran lunga superiore nel caso si considerino le domande presentate (graf. 11). Graf. 11 - Progetti presentati e progetti ammessi al finanziamento nella Provincia di Terni: numeri indice (1996=100) e rapporto di composizione (1996-2008)

50,0

57,4

66,7

41,9

50,0

54,5

70,0

54,8

69,2

65,5

83,3

88,9

85,7

15

30

45

60

75

90

105

120

135

150

165

180

1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

valor

i perc

entu

ali (B/A)*100

Progetti presentati (A)

Progetti ammessi al finanziamento (B)

Fonte: elaborazioni AUR su dati Provincia di Terni. Nel periodo 1995-2009, la Provincia di Terni ha stanziato complessivamente oltre 13 milioni di euro a sostegno dell’imprenditoria giovanile, l’88% dei quali ha assunto la forma dell’anticipazione a tasso zero mentre il rimanente 12% quella del contributo in conto capitale (graf. 12). L’analisi del rapporto di composizione tra le due forme di finanziamento (anticipazione a tasso zero e contributo in conto capitale), in ogni anno nel periodo considerato, mostra una generalizzata prevalenza dell’anticipazione a tasso zero che da sola rappresenta sempre oltre il 77% del finanziamento pubblico. La forma del contributo in conto capitale, conseguentemente, ha un peso marginale e raggiunge il

AURAPPORTI: RES 2008-09 345

suo valore massimo nel 2002, quando rappresenta oltre il 22% dei finanziamenti complessivamente erogati dalla Provincia di Terni (graf. 13). Le linee, rappresentate nel grafico n. 13, mostrano sia il trend dei finanziamenti complessivamente erogati sia quello delle due forme di agevolazione adottate(anticipazioni a tasso zero e contributi in c/capitale) dalla Provincia. Nel periodo 1996-2008, si riscontra un trend fortemente decrescente dei finanziamenti pubblici erogati dall’Amministrazione Provinciale (-74%); tale contrazione interessa soprattutto i contributi in conto capitale per i quali si rileva un decremento di circa l’80%, nell’intero periodo considerato (-73%, invece, è la contrazione delle anticipazioni a tasso zero). Dopo i bruschi crolli rilevati nel 1998, nel 2000 e nel 2004, si osservano fasi di ripresa negli anni immediatamente successivi (1999, 2002 e 2006). Si noti che la linea che rappresenta il trend dei contributi in conto capitale (linea con tratteggio grande) sottostà sempre, eccezion fatta per il 2002, quella delle anticipazioni a tasso zero (linea con tratteggio piccolo) che, invece, tende a coincidere con quella dei finanziamenti pubblici totali (linea continua); questo a causa del notevole peso che questa ultima forma di sostegno ha sul totale dei finanziamenti complessivamente erogati dalla Provincia. Graf. 12 - Distribuzione percentuale dei finanziamenti pubblici complessivamente erogati dalla Provincia di Terni (1996-2009)

Contributi in conto capitale

(11,8%)

Anticipazioni a tasso zero(88,2%)

Fonte: elaborazioni AUR su dati Provincia di Terni.

DENTRO L’UMBRIA due346

Graf. 13 - Contributi in c/capitale ed Anticipazioni a tasso zero accordati dalla Provincia di Terni: distribuzione percentuale e numeri indice, 1996 = 100 (1996-2009)

87,0

89,2

91,3

89,3

90,1

88,5

77,7

87,1

90,8

86,8

87,3

90,2

90,7

13,0

10,8 8,7

10,7 9,9

11,5

22,3 12

,9 9,2

13,2

12,7 9,8

9,3

0102030405060708090

100

1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

valor

i perc

entu

ali

0102030405060708090100110120130

nume

ri in

dice (

1996

=10

0)

Anticipazioni a tasso zero Contributi in c/capitale

Contributi in c/capitale (scala dx) Anticipazioni a tasso zero (scala dx)

Totale finanziamenti pubblici (scala dx)

Fonte: elaborazioni AUR su dati Provincia di Terni. Note conclusive Il presente contributo nasce con l’obiettivo di fornire quante più informazioni possibili sulle peculiarità che caratterizzano l’imprenditoria giovanile umbra e sulle politiche intraprese dall’amministrazione Regionale per sostenerla ed incentivarla. Con tale scopo, in primo luogo, grazie ai dati forniti dal Centro Studi Sintesi è stato possibile sia quantificare numericamente le attività di impresa umbre in cui operano giovani con un’età inferiore ai 30 anni15 (individuandone anche i settori d’attività

15 I dati utilizzati per l’analisi dell’imprenditoria giovanile in Umbria fanno riferimento a giovani con un’età inferiore ai 30 anni mentre la Legge Regionale 12/1995 per il sostegno all’imprenditoria giovanile, alla quale si è dedicato ampio spazio nel testo, fa riferimento a giovani con età compresa tra i 18 ed i 32 anni. Certamente, per maggiore coerenza, sarebbe stato interesante analizzare le caratteristiche dei giovani imprenditori con età inferiore ai 32 anni ma i dati forniteci dal Centro Studi Sintesi, che ringraziamo nuovamente per la cortese collaborazione, fanno riferimento ad una ricerca eseguita dal centro stesso

AURAPPORTI: RES 2008-09 347

economica) sia tracciare il profilo del giovane imprenditore umbro. Riportiamo, di seguito, le principali evidenze di questa prima analisi (dati aggiornati al 2008):

nel 2008, il numero dei giovani imprenditori umbri ammonta a 9.447 unità: il 78% dei quali svolge la propria attività nella provincia di Perugia; l’incidenza dei giovani, sul totale degli imprenditori, è pari al 5,9%: questo a significare che, ogni 100 imprenditori, circa 6 hanno un’età inferiore ai 30 anni; l’imprenditoria under 30 ha subito una contrazione del 26% nel corso degli ultimi sei anni (2002-2008); nella maggior parte dei casi i giovani imprenditori umbri rivestono la carica di titolare d’impresa (37%), seguono, quindi, i titoli di socio (34%) e di amministratore (27,4%); le aziende dei giovani imprenditori umbri assumono prevalentemente la natura di società di persone (45%) e d’impresa individuale (37%); la grande maggioranza dei giovani imprenditori umbri trova occupazione in imprese di recente costituzione, infatti, oltre l’80% degli imprenditori under 30 svolge la propria attività in imprese iscritte al registro delle imprese nel corso degli ultimi nove anni;

i giovani umbri, per l’esercizio dell’attività d’impresa, scelgono prevalentemente i settori del commercio, delle costruzioni e quello dei servizi alla persona. Sono di discreta rilevanza anche le attività legate ai servizi all’impresa e quelle riconducibili al settore agricolo; oltre il 60% degli imprenditori under 30 è di sesso maschile nonostante ciò, la loro incidenza sul totale degli imprenditori è inferiore a quella rilevata per le donne: ogni 100 imprenditori di sesso femminile, infatti, circa 7 hanno un’età inferiore ai 30 anni mentre la corrispondente proporzione, per la componete maschile, è di 5 a 100; degli oltre 9.000 giovani imprenditori umbri, ben l’11,3% è di nazionalità straniera.

Dopo tale panoramica sull’imprenditoria giovanile umbra, si è fornito un quadro normativo delle disposizioni regionali intervenute a sostegno dei giovani che volessero intraprendere un’attività di impresa. Nello specifico, si è esaminata dettagliatamente la L.R. 12 del 1995 in quanto questa costituisce la più importante ed innovativa esperienza di politica a sostegno dell’imprenditoria giovanile in Umbria. Sono stati, dunque, verificati obiettivi e strumenti di tale disposizione regionale; ampio spazio, inoltre, è stato dato alla descrizione di come i vari documenti unici di programmazione regionale (DOCUP) abbiano previsto l’attuazione della suddetta legge.

dove per giovane imprenditore si intendeva colui che esercita, a qualunque titolo, attività d’impresa e che ha un età inferiore ai30 anni.

DENTRO L’UMBRIA due348

Nella terza parte del contributo, infine, si è eseguita un’analisi quantitativa degli interventi posti in essere per dare attuazione alla L.R. 12/1995. I soggetti esecutori di tale legge, incaricati dalla Regione, sono Sviluppumbria e le due Province umbre. Per quanto attiene Sviluppumbria s.p.a., in realtà, l’analisi è stata prevalentemente di tipo qualitativo ed ha riguardato soprattutto gli interventi posti in essere in adempimento al compito di promozione della L.R. 12/1995. Tale fase promozionale è avvenuta nelle tre seguenti fasi:

gestione delegata (dal 1/5/96 al 30/4/97): appaltata a società che si occupano di consulenza, formazione, sviluppo ed occupazione. In questa prima fase, gli Sportelli regionali di animazione economica hanno registrato ben 1.160 contatti; 248 i progetti presentati alle Province, 108 dei quali sono stati approvati; gestione transitoria (dal 1/5/97 al 31/3/99): in questa fase, Sviluppumbria si è avvalsa occasionalmente della consulenza di società esterne. Nella seconda fase, gli Sportelli regionali hanno dato assistenza a 343 potenziali nuovi giovani imprenditori. I progetti presentati alle Province sono stati 257 (37 dei quali presentati dalla stessa Sviluppumbria), di questi 119 hanno avuto approvazione (23 quelli presentati da Sviluppumbria); gestione diretta (dal 19/4/99 al 23/4/01): la terza fase doveva concludersi il 23/10/00 ma, poi, si è protratta fino a parte del 2001. In questa fase, Sviluppumbria si è occupata della gestione diretta del progetto formazione/intervento per la creazione d’impresa, denominato Imprendilatuaidea. Tale progetto, finanziato con il Fondo sociale Europeo e rivolto alle aree Ob. 2 e Ob. 5b, prevedeva tre diverse azioni: Informazione ed Orientamento; Certificazione (ovvero formazione in aula) ed Accompagnamento (voucher). Gli utenti totali del progetto Imprendilatuaidea sono stati 1.716 (974 dei quali di sesso maschile) di questi, 1.638 (929 gli uomini) sono da attribuire all’azione Informazione ed Orientamento; 45 (22 i maschi) gli allievi partecipanti alla formazione in aula prevista dall’azione “certificazione” e 33 (23 gli uomini) i beneficiari di voucher dell’azione Accompagnamento.

Si sono, poi, esaminati gli interventi posti in essere, nel periodo 1996-2009, dalle due Amministrazioni Provinciali umbre per dare attuazione alla disposizione regionale, ne risulta che:

sono stati presentati alle Province ben 2.324 progetti per l’accesso al finanziamento previsto dalla L.R. 12/1995 (oltre il 77% dei quali deve essere ricondotto alla provincia di Perugia); i progetti che hanno avuto valutazione positiva, ottenendo il finanziamento pubblico, sono stati 1.334 e, cioè, il 56,4% di quelli presentati;

AURAPPORTI: RES 2008-09 349

l’ammontare delle risorse che, complessivamente, le due Province hanno impegnato per finanziare i neo giovani imprenditori ammonta ad oltre 63 milioni di euro; ogni progetto imprenditoriale finanziato ha richiesto un esborso medio di oltre 47 mila euro: il valore medio del finanziamento pubblico è superiore nella provincia di Perugia dove, per ogni progetto valutato positivamente, sono stati impegnati oltre 49 mila euro contro i 42.555 €della provincia di Terni;

i settori d’attività economica più attrattivi per i giovani imprenditori umbri sono l’artigianato ed il commercio (più nella provincia di Perugia che in quella di Terni) ed i servizi (più nella provincia di Terni che in quella perugina). Da osservare un interessante 13% di iniziative di giovani neo imprenditori ternani nel settore industriale.

DENTRO L’UMBRIA due350

Riferimenti bibliografici Regione Umbria 2004 Area programmazione strategica e socioeconomica - Servizio Programmazione

strategica e comunitaria, Perugia Regione Umbria - Giunta Regionale I programmi comunitari in Umbria.

2009 Regione Umbria - Giunta Regionale - Area programmazione regionale - Servizio Programmazione comunitaria Docup Ob.2 (2000 - 2006). Primi risultati ed effetti, Regione Umbria, Perugia.

Regione Umbria Documento unico di programmazione (DOCUP) Docup Ob. 2 (1994 - 1996) Docup Ob. 2 (1997-1999) Docup Ob. 5b (1994-1999) Docup Ob. 2(2000-2006) Riferimenti legislativi LeggeRegione Umbria n. 40 “Istituzione di un fondo per favorire lo sviluppo dell’occupazione giovanile” del 18 agosto 1987. Legge Regione Umbria n. 24 “Agevolazioni per favorire l’occupazione giovanile anche con il sostegno di nuove iniziative imprenditoriali” del 19 luglio 1988.

Legge Regione Umbria n. 12 “Agevolazioni per favorire l’occupazione giovanile con il sostegno di nuove iniziative imprenditoriali” del 23 marzo 1995. Legge nazionale n. 608 “Prestiti d’onore” del 28 novembre 1996 Gazzetta Ufficiale n. 281 del 30 novembre 1996. D.Lgs n. 185 "Incentivi all’autoimprenditorialità e all’autoimpiego, in attuazione dell’art.45, comma 1, della legge 17 maggio 1999, n.144” del 21 aprile 2000 Gazzetta Ufficiale n. 156 del 6 luglio 2000

Sezione III

L’AMBIENTE PER LO SVILUPPO

CAPACITÀ, LUOGHI, RETI DELLA RICERCA Mauro Casavecchia

Scopo del presente capitolo è delineare un quadro d’insieme delle strutture e delle risorse dedicate all’attività di ricerca scientifica e tecnologica (R&S) in Umbria. Dedicare uno spazio specifico di approfondimento al tema della ricerca, la quale sempre più segue traiettorie dominate dalle logiche globali delle grandi reti internazionali e dei gruppi multinazionali della tecnologia, in un Rapporto regionale dedicato all’Umbria delle piccole imprese (operanti prevalentemente, come noto, in settori a bassa intensità innovativa e non di rado in regime di subfornitura), potrebbe apparire come una scelta singolare. In realtà non lo è, per diverse ragioni. L’accento sull’importanza della R&S – che comprende in generale il lavoro creativo intrapreso su basi sistematiche finalizzato ad accrescere lo stock di conoscenza, da utilizzare per lo sviluppo di nuove applicazioni1 – è una conseguenza diretta dell’ormai lungo e ricco dibattito sulla questione della produttività e sui ritardi accumulati su questo terreno, in modo particolare a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, dall’Europa rispetto agli Stati Uniti e dall’Italia rispetto all’Europa. È opinione oramai generalmente condivisa che il divario di produttività, che si manifesta in modo sostanziale nel settore dei servizi ma che risulta evidente anche nelle dinamiche dell’industria manifatturiera, tragga origine fondamentalmente dal più basso livello di accumulazione di conoscenza e di capitale umano che l’Europa sconta nei confronti degli Stati Uniti. Il balzo in avanti della produttività negli Stati Uniti appare infatti strettamente indotto dal progresso tecnico, soprattutto quello

1 All’interno della R&S si distinguono tradizionalmente le attività di ricerca di base, ricerca applicata e sviluppo sperimentale. La ricerca di base è un lavoro teorico o sperimentale realizzato primariamente per acquisire nuove conoscenze sui fondamenti basilari dei fenomeni, astraendo dalla possibilità di utilizzarle per particolari applicazioni. Anche la ricerca applicata è un’attività investigativa volta alla produzione di nuove conoscenze, che in questo caso sono tuttavia dirette principalmente verso uno specifico obiettivo concreto. Lo sviluppo sperimentale comprende infine l’attività sistematica che, attingendo al patrimonio di conoscenze esistenti, è rivolta alla produzione di nuovi materiali, prodotti o dispositivi, all’introduzione di nuovi processi, sistemi o servizi o al miglioramento sostanziale di quelli esistenti (OCSE 2002).

DENTRO L’UMBRIA due354

legato alle tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni, che riesce a dispiegare al meglio i propri effetti in un’economia che investe in misura ingente sul capitale umano e in una società molto ricettiva verso l’innovazione. Discende da analisi di questo tipo il lancio nel 2000 della cosiddetta strategia di Lisbona ad opera del Consiglio europeo, che ha stabilito l’obiettivo di portare la spesa complessiva in ricerca e sviluppo al 3% del Prodotto interno lordo dell’intera Unione europea entro il 2010. Naturalmente, l’aumento della spesa per R&S è solo una delle precondizioni per migliorare le performance di produttività e riuscire così a competere nell’economia della conoscenza. Altri nodi strutturali, elementi di debolezza dell’Europa – e ancor più dell’Italia – rispetto agli Stati Uniti riguardano l’efficienza dei sistemi dell’istruzione, le strozzature del mercato del lavoro, la fragilità degli strumenti di sostegno finanziario alle imprese innovative e agli investimenti in alta tecnologia, solo per citarne alcuni. Cionondimeno, l’attenzione verso la ricerca e l’innovazione rappresenta ormai un tassello fondamentale di qualsivoglia strategia di sviluppo di ogni sistema economico che voglia sottrarsi ai rischi di arretramento competitivo. Occorre tenere presente inoltre che l’innovazione non segue percorsi lineari, trasmettendosi in modo fluido dalla ricerca di base a quella applicata e quindi allo sviluppo e alla produzione, ma è la risultante di complesse interazioni tra tutti gli elementi del sistema economico e sociale, basata su un percorso continuo di apprendimento che, stanti le difficoltà dei processi di trasferimento tecnologico e della circolazione di conoscenza – in particolare nella sua componente “tacita” – non può che trovare la sua concretizzazione a partire da un dato territorio. Da ciò deriva la rilevanza della dimensione regionale, esaltata anche dalla progressiva crescita di importanza del ruolo delle Regioni negli ultimi anni, in termini di attribuzione di competenze e di volumi di erogazione delle risorse, anche nel campo della ricerca. Tale rilevanza ha raggiunto livelli particolarmente significativi nelle regioni centro-settentrionali, in cui si fa sempre più strada l’esigenza di orientare gli interventi nel campo delle politiche industriali sulla base delle specifiche caratteristiche dei sistemi produttivi locali (MET 2007). Origina anche da qui l’interesse di una cospicua parte della letteratura2 verso la declinazione a livello regionale dei sistemi di innovazione, in cui la contiguità territoriale svolge un ruolo facilitante nella costituzione delle comunità di ricerca, consente il consolidamento dei legami tra centri di ricerca e tessuto produttivo e favorisce il trasferimento di conoscenze utili per l’innovazione industriale. È necessario, tuttavia, essere consapevoli che la prossimità geografica non è di per sé sufficiente ad assicurare l’efficienza dei meccanismi di collaborazione, anche se ne rappresenta un fattore abilitante. Il risultato finale è infatti sempre il prodotto di

2 Per un excursus sintetico ma esauriente sull’influenza del progresso tecnologico sui processi di sviluppo, i sistemi di innovazione e i modelli funzionali e relazionali della ricerca, si veda CIRIEC 2003, pp. 47 e ss. e pp. 99 e ss.

AURAPPORTI: RES 2008-09 355

complesse interazioni, che dipendono dai micro-comportamenti degli attori e dalle condizioni di contesto. Si può concludere comunque che la capacità nella ricerca tecnologica e scientifica rappresenta, insieme ad una intensa interazione con gli utilizzatori più evoluti, alla presenza di un mercato ampio e integrato e ad opportune politiche tecnologiche ed innovative, un prerequisito fondamentale per emergere in un contesto competitivo basato sull’innovazione (Malerba, Montobbio 2002). Analizzare in profondità il modo in cui questa capacità si esprime in un determinato contesto territoriale e i meccanismi con cui essa si relaziona con gli altri attori del sistema diventa dunque rilevante ai fini di impostare adeguate politiche di sviluppo. Il presente capitolo vuole tentare di fornire un quadro generale delle capacità, competenze, strutture e reti operanti sul territorio regionale in tema di ricerca scientifica e sviluppo tecnologico. In particolare, dopo una parte introduttiva dedicata ad una panoramica sulla situazione complessiva della ricerca umbra e sul suo posizionamento nel contesto nazionale ed internazionale, secondo quanto esprimono alcuni indicatori fondamentali, si è tentato di avviare una prima ricostruzione puntuale, ancorché necessariamente non esaustiva, dei principali luoghi della regione nei quali si esercitano le attività di R&S. A questo fine, sono stati individuati e descritti sommariamente una serie di enti, centri, laboratori e reti, sia pubblici che privati, che si occupano a vario titolo di ricerca. Lo schema seguente riassume la tipologia dei soggetti presi in considerazione. Schema 1 - Tipologia dei soggetti che si occupano di R&S considerati

Istituzioni pubbliche Università Soggetti privati Istituti e unità di ricerca degli Enti pubblici nazionali di ricerca dislocati in regione

Centri di eccellenza Centri interuniversitari Centri di ricerca Laboratori e centri di servizio

Spin off Laboratori privati accreditati MIUR Reti di imprese orientate alla ricerca

Delle varie categorie individuate viene dato un inquadramento generale all’interno dei paragrafi dedicati a ciascuna tipologia di soggetti, mentre di ciascuno di essi viene riportata una breve presentazione nell’appendice al capitolo, che vorrebbe rappresentare una sorta di embrione di annuario della ricerca in Umbria. Con la consapevolezza, da tenere ben presente anche nel prosieguo della lettura, che dare conto delle aree scientifiche sulle quali si concentra il potenziale delle risorse di ricerca, in termini di strutture e capitale umano, non significa di per sé individuare i terreni sui quali si concentrano le capacità innovative di un territorio, in quanto, come si è appena accennato, il modo in cui l’accumulo di competenze scientifiche e tecnologiche presenti in una data area viene messo a frutto per contribuire allo

DENTRO L’UMBRIA due356

sviluppo di un sistema economico, cioè si trasforma in innovazione, dipende da numerosi fattori socioeconomici di contesto. L’intento è dunque quello di tratteggiare non già lo stato dell’arte della R&S a livello regionale – impresa che necessiterebbe, oltre che di un censimento dei soggetti più accurato ed esteso, di una indagine specifica e svolta ben più in profondità sulle caratteristiche, risorse, competenze e relazioni di ciascun centro – quanto una prima mappatura che, per quanto incompleta, sia in grado di fornire un quadro d’insieme delle capacità e competenze di ricerca esistenti. Le risorse dedicate alla ricerca Non sembra che, dopo il lancio della strategia di Lisbona, siano stati effettivamente messi in campo sforzi particolari per procedere alla sua attuazione, né da parte dell’Italia, né da parte dell’Europa nel suo complesso. L’incidenza della spesa complessiva per R&S sul Prodotto interno lordo, che i Governi europei si erano impegnati a portare alla soglia del 3% entro il 2010, staziona nel 2007 su livelli sostanzialmente non troppo dissimili rispetto a quelli di sei anni prima (Graf. 1). Ciò vale per la media dei 27 membri dell’Ue, che permangono all’1,85%, e vale anche per l’Italia, che, nonostante la piccola impennata dell’ultimo anno, conserva in pratica quasi tutto il suo distacco dalla media europea, mettendo a segno un modesto recupero dall’1,09% del 2001 all’1,18% del 2007, soprattutto per merito del Nord Ovest, che si conferma come l’area-guida per le attività di ricerca, raggiungendo l’1,37%, ma anche grazie al recupero dell’area nord-orientale, che si attesta su livelli ormai molto prossimi a quelli medi nazionali. La distanza dagli obiettivi europei è invece ancora maggiore per le regioni dell’Italia mediana, con l’Umbria che nel periodo considerato resta sostanzialmente stabile toccando lo 0,88% nel 2007, riducendo così il distacco dalla Toscana, che nell’ultimo biennio si allontana dalla media italiana abbassandosi a quota 1,01%, e con le Marche mantenute a distanza e posizionate ancora più in basso a 0,66%. Va poi rilevato che la debolezza italiana nella ricerca e sviluppo non riguarda solo il volume delle risorse investite, ma anche la composizione della spesa. Infatti, nella quota di origine pubblica della spesa per R&S (Graf. 2), quella facente capo alla Pubblica amministrazione e all’Università, il dato italiano del 2007, pari allo 0,53% del PIL, non si discosta molto da quello medio europeo (0,64%), mentre quello umbro – unica regione tra quelle esaminate, insieme al Nord Est che però viaggia su livelli più bassi, a mostrare un andamento positivo, grazie al forte impulso dato dalla spesa universitaria – si trova addirittura al di sopra (0,73%) ed ha scavalcato persino una declinante Toscana, che vanta tradizionalmente una forte presenza di ricerca accademica.

AURAPPORTI: RES 2008-09 357

Graf. 1 - Spesa totale per R&S intra-muros sul PIL (2003-2007)

0,0

0,2

0,4

0,6

0,8

1,0

1,2

1,4

1,6

1,8

2,0

2003 2004 2005 2006 2007

% d

i Pil

EU27 Italia Nord-Ovest Nord-Est

Toscana Umbria Marche

Fonte: elaborazione AUR su dati ISTAT ed EUROSTAT

Graf. 2 - Spesa pubblica per R&S intra-muros sul PIL (2003-2007)

0,0

0,1

0,2

0,3

0,4

0,5

0,6

0,7

0,8

2003 2004 2005 2006 2007

% d

i Pil

EU27 Italia Nord-Ovest Nord-Est

Toscana Umbria Marche

Fonte: elaborazione AUR su dati ISTAT ed EUROSTAT

DENTRO L’UMBRIA due358

Il ruolo trainante nelle attività di ricerca in Umbria è dunque sempre più svolto dall’Università (Graf. 3), a cui fanno capo oltre i due terzi della spesa complessiva per R&S realizzata (era il 66,9% nel 2006, è arrivata al 70,7% nel 2007), una quota più che doppia rispetto a quanto accade a livello nazionale (30,1%). Più modesto è invece il contributo delle istituzioni pubbliche, che in Umbria arrivano a coprire l’8,1% del totale regionale, poco più della metà della media italiana. Sul versante privato, il contributo delle imprese umbre alle spese per R&S scende ulteriormente nel 2007, dal 21,7% dell’anno precedente al 20,9%, una percentuale di gran lunga inferiore non solo rispetto alla media europea (64%) ma anche a quella del Paese (51,9%) e di tutte le altre aree centro-settentrionali. Le istituzioni private non profit, per completare il quadro regionale, con lo 0,3% della spesa giocano un ruolo praticamente irrilevante. Graf. 3 - Composizione della spesa per R&S per settore istituzionale (2007)

20,9%

40,5%

51,4%

70,1%

54,3%

31,4%

51,9%

8,1%

8,0%

5,0%

5,5%

18,2%

10,8%

14,5%

70,7%

50,5%

43,5%

17,9%

26,3%

55,2%

30,1%

0% 10% 20% 30% 40% 50% 60% 70% 80% 90% 100%

Umbria

Toscana

Marche

Nord-Ovest

Nord-Est

Mezzogiorno

Italia

Imprese Istituzioni private non profit Istituzioni pubbliche Università

Fonte: elaborazione AUR su dati ISTAT C’è dunque un problema non solo quantitativo ma anche qualitativo, che caratterizza la situazione italiana e, in modo ancora più marcato, l’Umbria. Se si getta uno sguardo complessivo agli andamenti di fondo delle grandezze dal 2001 ad oggi, in sintesi si può notare che le spese complessive per R&S sono aumentate più nel Nord Est che nel Nord Ovest e che, nell’Italia mediana, l’Umbria ha seguito ritmi analoghi alla media nazionale, mentre la Toscana ha dato segnali di rallentamento, al contrario delle Marche, attestate su dinamiche più simili a quelle del Nord Est. Più nel dettaglio: la parte privata della spesa è stata quella che ha dato luogo agli incrementi maggiori, con l’Umbria (+49,3%) attestata su livelli non troppo dissimili da quelli medi nazionali (+41,9%), superiori a quelli di Nord Ovest e Toscana ma

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nettamente inferiori ai ritmi di Nord Est e Marche; nel settore della ricerca pubblica non universitaria, il livello nominale di spesa per R&S è rimasto in Italia (così come in Umbria) sostanzialmente invariato, rendendo visibile pertanto un arretramento, se valutato in termini reali, dell’impegno governativo, con l’unica eccezione delle regioni nord-orientali, con in testa Emilia-Romagna e Veneto, nelle quali si è verificato un consistente aumento della spesa; infine, nella componente universitaria, l’Umbria è stata la regione con il maggiore incremento nominale di tutto il Centro-Nord, con il 38,2% contro una media nazionale del 24,4%. Se si prendono in esame in particolare le tendenze più recenti (Tab. 1), possiamo osservare che la variazione media annua registrata dall’Umbria nell’ultimo biennio relativamente alla spesa complessiva per R&S ammonta in termini nominali ad un significativo +11%, che permette di dire – naturalmente tenendo presente la grande diversità dei volumi in gioco – che gli investimenti in ricerca in Umbria crescono più velocemente che in Italia e nel Nord Ovest, anche se meno che nel Nord Est e nelle Marche. A ben guardare, tuttavia, l’incremento della spesa per R&S è trainato fortemente in Umbria dalla componente che fa capo all’Università, in modo ancora più marcato di quanto accade nelle regioni nord-occidentali, mentre in Italia, e soprattutto nelle regioni nord-orientali e nelle Marche, a spingere in avanti la spesa complessiva sono soprattutto le imprese. Anche in Toscana, dove pure la prestazione complessiva resta deludente a causa della forte riduzione della spesa nella ricerca pubblica non universitaria, a tenere a galla la spesa in ricerca sono più che altro gli investimenti delle imprese. Tab. 1 - Variazione media annua della spesa per R&S per settore istituzionale (2005-2007)

(valori percentuali) Università Imprese Istituzioni

pubblicheTotale

Umbria +15,4 +1,6 +6,2 +11,0 Toscana +0,8 +12,8 -22,7 +0,1 Marche +6,3 +23,7 +1,5 +13,7 Nord Ovest +10,5 +5,2 -0,9 +7,3 Nord Est +5,9 +20,3 +51,6 +19,7 Italia +8,0 +9,8 -0,7 +8,1

Fonte: elaborazioni AUR su dati ISTAT Il quadro che ne risulta per il 2007 vede l’Umbria rappresentare complessivamente l’1,0% del totale nazionale della spesa per R&S, una quota che, isolando la componente accademica, arriva a toccare il 2,4%, mentre se si considera solo la quota riferita alle imprese si riduce fino ad un esiguo 0,4%, segnando infine una quota non particolarmente significativa, pari a 0,6%, per le istituzioni pubbliche. È dunque anzitutto sul versante privato che vanno ricercate prioritariamente le origini

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del deficit nazionale e, in misura ancor più ampia, dell’Umbria nel campo della ricerca. Un altro obiettivo numerico stabilito a Lisbona per le spese in ricerca poneva al sistema delle imprese il 2% del PIL come traguardo da raggiungere nel 2010, sancendo come quota ideale tra la spesa privata e quella complessiva un rapporto di due a tre, nella giusta convinzione che la ricerca applicata, effettuata in larga parte dalle imprese, avesse ricadute più dirette e rilevanti sul terreno della produttività e della competitività complessiva. Anche in questo caso, i dati dimostrano che ai volenterosi intenti non hanno fatto seguito comportamenti coerenti. Mentre in Europa il contributo delle imprese alla spesa complessiva in R&S è rimasto sostanzialmente fermo attorno al 64%, in Italia ha oscillato su quote immediatamente inferiori al 50%, senza rilevanti variazioni fino al 2007, quando si è portato al 51,9% per effetto di un consistente aumento della spesa delle imprese (+15,2% rispetto all’anno precedente; Graf. 4). In questo indicatore le Marche mostrano una visibile tendenza ad allinearsi ai valori medi nazionali, puntando a raggiungere il Nord Est che si trova al 54,3% (il Nord Ovest è al 70,1%), e anche la Toscana ha dato nell’ultimo anno segni di accelerazione, raggiungendo il 40,5%. Resta estranea invece a questo percorso l’Umbria, dove il contributo delle imprese alla spesa totale per R&S non riesce ad allontanarsi dal 20%. Graf. 4 - Contributo delle imprese alla spesa totale per R&S intra-muros (2001-2007)

51,9%Italia 51,4%

Marche 40,5%

Toscana

20,9%

Umbria

0%

10%

20%

30%

40%

50%

60%

2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007

Fonte: elaborazioni AUR su dati ISTAT Vista sotto forma di quota di PIL spesa in R&S da parte delle imprese (Graf. 5), il valore medio europeo staziona su livelli analoghi e persino inferiori rispetto a quelli del 2001 (ammontava all’1,21% e nel 2007 si trova all’1,19%), mentre in Italia si continua a veleggiare stabilmente su livelli dimezzati, anche se sono visibili modesti progressi

AURAPPORTI: RES 2008-09 361

negli ultimi anni, che hanno condotto le imprese italiane a raggiungere nel 2007 la quota dello 0,61%. Hanno contribuito a questo avanzamento sia le imprese del Nord Ovest, che continuano la loro marcia di avvicinamento ai livelli europei (0,96% nel 2007) sia quelle del Nord Est, che pur partendo da posizioni più arretrate mostrano di essere in grado di accelerare il recupero, avendo ormai scavalcato la media nazionale. Nelle regioni dell’Italia mediana, invece, il contributo privato alle spese per R&S permane uno dei punti critici del modello di sviluppo, con prestazioni molto al di sotto della media nazionale, con la differenza che, se Toscana e Marche evidenziano qualche segnale di crescita nell’ultimo biennio, toccando rispettivamente lo 0,41% e lo 0,34%, l’Umbria permane al punto più basso con lo 0,18% del PIL dedicato dalle imprese alla R&S, e sembra non abbozzare alcun tentativo di cambio di marcia. Graf. 5 - Spesa delle imprese per R&S intra-muros sul PIL (2003-2007)

0,0%

0,2%

0,4%

0,6%

0,8%

1,0%

1,2%

2003 2004 2005 2006 2007EU27 Italia Nord-Ovest Nord-Est

Toscana Umbria Marche

Fonte: elaborazioni AUR su dati ISTAT ed EUROSTAT Il piccolo balzo in avanti dell’impegno delle imprese nella R&S registrato nell’ultimo biennio a livello nazionale e in modo ancora più accentuato nelle regioni del Nord Est, va con tutta probabilità messo in relazione all’avvio del regime di sgravi fiscali, sotto forma di credito di imposta, delle spese per la ricerca. Il diffuso accesso agli sgravi fiscali, con la deduzione dalla base imponibile IRAP dei costi sostenuti per il personale addetto alla R&S, esteso anche a consulenti e collaboratori, ha consentito

DENTRO L’UMBRIA due362

probabilmente l’emersione statistica di spese per R&S evidentemente non contabilizzate negli anni precedenti (ISTAT 2009). Questo sostegno indiretto alla ricerca, mentre da un lato può avere in qualche misura limitato i disinvestimenti in alcuni importanti comparti industriali, come quello dell’automotive, dall’altro ha probabilmente indotto molte imprese – soprattutto quelle di dimensioni minori, che effettuano R&S marginalmente ed in modo non sistematico – ad impegnarsi maggiormente nell’attività di ricerca (ISTAT 2008). Tale fenomeno, all’interno di una traiettoria che da diversi anni vede una tendenziale erosione del peso delle regioni del Nord Ovest (comunque tuttora predominanti), a cui fa da contraltare una costante ascesa di quelle del Nord Est, probabilmente spiega le modifiche intervenute nell’ultimo biennio nella distribuzione territoriale della spesa privata per R&S (Tab. 2): le regioni che tradizionalmente ospitano le imprese di maggiori dimensioni continuano a perdere peso – con l’area nord-occidentale che per la prima volta scende a rappresentare meno del 50% della spesa nazionale delle imprese per R&S, la Lombardia che passa da 30,5% a 28,1%, il Piemonte da 20,3% a 18,4% – mentre quelle regioni caratterizzate dalla diffusa presenza di piccole e medie imprese mettono a segno un significativo incremento della propria quota – il Nord Est sale da 19,2% a 23,1%, il Veneto da 5,0% a 7,7%, l’Emilia-Romagna da 11,2% a 11,7, le Marche da 1,2% a 1,5%, persino la Toscana nell’ultimo anno segna un buon incremento. Le piccole e medie imprese dell’Umbria sembrano invece essere rimaste immuni dall’effetto incentivante di questo regime fiscale, tanto che l’incidenza della spesa privata per R&S umbra sul totale nazionale è addirittura calata da 0,5% a 0,4% nel 2007. Tab. 2 - Incidenza della spesa per R&S delle imprese sul totale nazionale

(valori percentuali) 2005 2006 2007 Umbria 0,5 0,5 0,4 Toscana 4,3 4,1 4,5 Marche 1,2 1,4 1,5 Nord Ovest 54,3 52,7 49,9 Nord Est 19,2 21,1 23,1 Italia 100 100 100

Fonte: elaborazione AUR su dati ISTAT Occorre inoltre considerare che una parte della spesa privata per ricerca è cofinanziata con fondi pubblici. A livello nazionale le imprese hanno finanziato (nel 2002, ultimo dato disponibile) oltre il 77% della propria attività di R&S attingendo a fondi propri, mentre solo il 12,2% sarebbe stato finanziato dalle amministrazioni pubbliche (la restante parte con finanziamenti provenienti dall’estero). Sarebbe interessante osservare come varia questa percentuale nel tempo, anche nelle

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differenti situazioni regionali, per comprendere meglio l’evoluzione dei meccanismi che regolano la propensione delle imprese a investire in ricerca, come pure l’impatto delle politiche pubbliche, ma purtroppo il dato non è reso disponibile. Un aiuto per ovviare a questa lacuna ci può pervenire dai dati sulle politiche di sviluppo raccolti nel rapporto MET 2007. Le risorse complessivamente erogate in Umbria sotto forma di agevolazioni alle imprese nel 2006 hanno ammontato a 58,5 Meuro, delle quali una quota pari al 23,8% (superiore alla media nazionale del 19,6%) è stata destinata a finanziare attività di ricerca e innovazione. Se si prova a rapportare il volume complessivo delle risorse erogate alle imprese per sostenere iniziative di ricerca e innovazione alla spesa per R&S delle imprese, tra le regioni del Centro-Nord in cui questo obiettivo di politica industriale ha assunto un peso superiore rispetto alla media nazionale, l’Umbria mostra un valore significativamente superiore a tutte le altre. Nel 2006 (ma dati del tutto analoghi si registrano per le annualità precedenti) la spesa per ricerca effettuata dalle imprese in Umbria è stata meno di tre volte superiore all’ammontare dei fondi pubblici erogati per questa finalità, mentre nelle altre regioni dell’Italia mediana e del Nord Est è stata di circa nove volte e nel Nord Ovest di circa diciotto volte. L’effetto moltiplicatore umbro si avvicina pertanto più a quello delle regioni meridionali (due volte e mezza) che a quello del Centro-Nord. Se ne può dedurre che, se fosse possibile scorporare dal complesso degli investimenti privati in R&S la parte realizzata con fondi propri, il gap umbro risulterebbe ancora più marcato di quanto già non appaia. Inoltre, se si considera che le attività di sviluppo precompetitivo (la parte di R&S più praticata dalle imprese) godono in generale di finanziamenti in conto capitale pari al 35% del valore del progetto, un altro corollario derivante dal dato sopracitato è che una porzione molto cospicua, probabilmente non molto lontana dalla totalità, dell’attività di ricerca svolta dalle imprese in Umbria beneficia di incentivi pubblici. Se dalle risorse finanziarie dedicate alla R&S passiamo ad analizzare quelle umane, il ritardo regionale può apparire a prima vista meno pesante. Se infatti nel 2007 l’Umbria contribuisce per l’1,0% alla spesa per R&S italiana, la quota del personale addetto alla ricerca riporta la regione ad un più fisiologico 1,3% (equivalente al peso dell’Umbria sul PIL nazionale), così come il contributo delle imprese umbre sul totale sale dallo 0,4% per quanto riguarda la spesa allo 0,7% sul fronte degli addetti alla R&S. Rapportando il personale che si occupa a vario titolo di ricerca in tutti i settori istituzionali rispetto alle unità di lavoro complessive (Graf. 7), vediamo che l’Umbria, con i suoi 72 addetti ogni diecimila unità, si trova già in posizione più arretrata rispetto agli 83 della media nazionale e della Toscana, e ancora di più rispetto agli 87 del Nord Est e ai 91 del Nord Ovest, sopravanzando solo le Marche che ne annoverano 64. Se si restringe l’analisi agli addetti alla R&S nel solo settore delle imprese, salta agli occhi con ancora maggiore evidenza il distacco dell’Umbria, che ne annovera solamente 18 su diecimila, meno della metà della media nazionale e meno di un

DENTRO L’UMBRIA due364

terzo del Nord Ovest, ed è superata ampiamente anche dalle Marche con 35 e dalla Toscana con 283. Graf. 6 - Agevolazioni per ricerca e innovazione sulla spesa per R&S delle imprese (2006)

36,2%

10,6%

14,0%

5,6%

11,2%

41,3%

10,7%ITALIA

0%

5%

10%

15%

20%

25%

30%

35%

40%

45%

Umbria Toscana Marche Nord-Ovest Nord-Est Mezzogiorno

Fonte: elaborazioni AUR su dati ISTAT e MET Per comprendere meglio il significato di questo dato, soprattutto in una regione di piccole dimensioni come la nostra, proviamo a trasformare le percentuali in numeri assoluti. Secondo l’ISTAT, il personale addetto alla R&S in Umbria, espresso in equivalenti tempo pieno, nel 2007 ammonterebbe complessivamente a 2.789 unità. Di queste, solo un quarto, pari a 692 unità, opererebbe presso le imprese. Va considerato poi che solo una parte di questi addetti sono ricercatori veri e propri, visto che nel novero vanno inclusi anche tecnici e altro personale di tipo amministrativo. L’ISTAT non rende disponibile il dato regionale ma, se si prende per buona anche per l’Umbria la ripartizione nazionale che equivale a poco più di un terzo del totale, i ricercatori umbri presso le imprese assommerebbero circa a 240 unità. La stima viene ulteriormente corroborata dai dati EUROSTAT, che consentono (almeno fino al 2005) una comparazione regionale del peso dei ricercatori sull’occupazione (Graf. 8). Anche in questo caso l’Umbria si difende meglio quanto a presenza complessiva,

3 Da notare l’esplosione degli addetti alla R&S nelle imprese registrata nell’ultimo anno, soprattutto nel Nord Est, che può essere letta in parallelo alla crescita della spesa per ricerca avvenuta nello stesso periodo, principalmente causata, come detto in precedenza, dal nuovo e più favorevole regime fiscale.

AURAPPORTI: RES 2008-09 365

ponendosi, con i suoi 58 ricercatori ogni diecimila occupati, a livelli analoghi e persino superiori alla media nazionale e delle aree più sviluppate (anche se, va detto, si rimane lontani dagli 89 del valore medio europeo). La graduatoria risulta però ampiamente rimaneggiata se si considerano i soli ricercatori operanti presso le imprese, con l’Umbria fanalino di coda con i suoi 6 ricercatori ogni diecimila occupati totali, quota che equivarrebbe a 237 persone, a conferma della stima sopra citata. Graf. 7 - Quota di addetti alla R&S sulle unità di lavoro totali* (2007)

0,72%

0,83%

0,64%

0,87%

0,91%

0,83%

0,18%

0,28%

0,35%

0,48%

0,57%

0,37%

0,0% 0,1% 0,2% 0,3% 0,4% 0,5% 0,6% 0,7% 0,8% 0,9% 1,0%

Umbria

Toscana

Marche

Nord-Est

Nord-Ovest

Italia

Totale

Imprese

Fonte: elaborazioni AUR su dati ISTAT * Addetti alla R&S espressi in equivalenti tempo pieno; ULA in media annua

Graf. 8 - Quota di ricercatori sugli occupati totali (2005)

0,89%

0,56%

0,57%

0,50%

0,38%

0,63%

0,58%

0,33%

0,14%

0,24%

0,12%

0,08%

0,09%

0,06%

0,0% 0,1% 0,2% 0,3% 0,4% 0,5% 0,6% 0,7% 0,8% 0,9%

EU27*

Italia

Nord-Ovest

Nord-Est

Marche

Toscana

Umbria

Imprese

Totale

Fonte: elaborazioni AUR su dati EUROSTAT * Stima

DENTRO L’UMBRIA due366

Se consideriamo che i ricercatori occupati all’interno delle imprese sono uno dei principali canali di intermediazione per il dialogo con il mondo esterno della ricerca, sorge spontaneo chiedersi come sia possibile per università e centri di ricerca creare relazioni solide e integrate o intavolare percorsi di cooperazione a lungo termine con un sistema produttivo in cui sembra alquanto raro imbattersi in queste figure. Il che ci riporta ad uno dei principali snodi della questione relativa al deficit di capacità innovativa e, più in generale, di produttività di cui soffre il sistema Paese e ancora in misura maggiore l’Umbria, vale a dire il tema della qualità del capitale umano. Tema quanto mai attuale e rilevante, che ci riserviamo di approfondire in altra sede, ma che va tenuto ben presente sullo sfondo dei nostri ragionamenti. La proiezione internazionale della ricerca Accanto al volume delle risorse umane e finanziarie dedicate, sarebbe utile andare a valutare in qualche misura anche la qualità della ricerca che viene effettuata. La valutazione della ricerca è, naturalmente, questione di enorme complessità, che travalica gli intenti di questo quadro descrittivo. In questa sede abbiamo scelto di limitarci a riportare alcuni indicatori che danno una misura della proiezione internazionale della R&S realizzata in Umbria. Questo aspetto ci sembra costituisca una variabile di fondamentale interesse, in quanto, in un contesto nel quale le traiettorie tecnologiche ed innovative assumono dimensioni sempre più globalizzate, è fondamentale che anche la rete di relazioni nel campo della ricerca esca dagli angusti confini regionali e nazionali. Altri indicatori sulla qualità e produttività della ricerca svolta in ambito accademico sono riportati nel paragrafo relativo all’Università. La Bilancia tecnologica dei pagamenti I flussi di servizi di ricerca e sviluppo scambiati con l’estero sono registrati dalla Bilancia tecnologica dei pagamenti (BTP), che misura gli scambi di conoscenze tecnologiche, di diritti di proprietà industriale e intellettuale e di servizi con contenuto tecnologico, come brevetti, know-how, marchi di fabbrica e servizi di assistenza tecnica e di R&S4. Per molto tempo, l’andamento anche positivo delle esportazioni manifatturiere

4 I flussi fanno riferimento a quattro categorie principali: il Commercio in tecnologia, che costituisce il nucleo centrale delle transazioni internazionali in tecnologia e comprende i trasferimenti di brevetti, invenzioni e know-how e i relativi diritti di sfruttamento; le transazioni riguardanti la Proprietà industriale, che non fanno direttamente riferimento alla conoscenza tecnologica, ma spesso ne implicano un trasferimento, come nel caso dei marchi di fabbrica e dei disegni industriali; i Servizi con contenuto tecnologico che, pur non costituendo un effettivo trasferimento di tecnologia, consentono di incrementarne il potenziale mediante l'acquisizione di abilità tecniche; la Ricerca e sviluppo realizzata all’estero o finanziata dall'estero.

AURAPPORTI: RES 2008-09 367

italiane non è mai stato accompagnato da risultati altrettanto positivi nelle esportazioni di servizi con contenuto tecnologico, tanto che l’Italia si è caratterizzata a lungo, contrariamente ai principali concorrenti europei come Germania, Francia e Regno Unito, per un cronico disavanzo nella BTP. Tra le varie interpretazioni di questo fenomeno, la più verosimile sembra essere quella legata alle modalità di innovazione praticate nel sistema industriale italiano, e in particolare nelle PMI, fatte di capacità tecnologiche difficilmente esportabili in quanto principalmente basate sul know-how individuale dell’inventore piuttosto che su procedure oggettive o conoscenze scientifiche codificate (COTEC 2009). Questa situazione sta tuttavia mostrando segnali di evoluzione: nel tempo, infatti, il saldo italiano negativo della BTP è andato progressivamente riducendosi, fino a raggiungere nel 2006, per la prima volta, un segno positivo che ha continuato a mantenersi anche nel biennio successivo. In Umbria tale saldo ha avuto andamenti altalenanti, positivi ad anni alterni (ma nel 2008 è stato pesantemente negativo), senza evidenziare tendenze univoche, principalmente a causa della maggiore variabilità legata alle dimensioni esigue delle grandezze in gioco. Il capitolo della BTP che registra i Servizi di R&S è, insieme a quello dei Servizi con contenuto tecnologico, uno di quelli da cui l’Italia trae il maggior volume di incassi ed ha un saldo tradizionalmente positivo. Anche per l’Umbria il capitolo relativo ai servizi di R&S ha mostrato (unico tra gli altri) un saldo sempre positivo dal 2001 al 2008 ed ha rappresentato molto spesso la principale fonte di entrata della BTP. Se analizziamo separatamente i flussi degli incassi, che testimoniano la capacità di un territorio di commercializzare le proprie competenze tecnologiche sul mercato internazionale, da quelli dei pagamenti, che forniscono una misura della capacità di assorbimento di innovazione dall’estero, in rapporto al PIL, otteniamo un indicatore del peso nell’economia di un’area dell’interscambio con l’estero di servizi di ricerca e sviluppo. I dati dell’incidenza sul PIL degli incassi e dei pagamenti relativi ai servizi di R&S (Graf. 9) mostrano chiaramente che l’importanza relativa dei flussi internazionali legati alla prestazione di servizi di ricerca in Umbria è molto più bassa rispetto a quanto accade mediamente a livello nazionale. Ciò vale per gli incassi, cioè per i servizi di ricerca finanziati dall’estero, che nel periodo considerato in Umbria pesano sul PIL un quarto rispetto all’Italia (una media annua dello 0,017% contro lo 0,066%) e vale ancor di più per i pagamenti per la ricerca commissionata all’estero, dove i livelli umbri sono ancora più modesti e ammontano a circa un sesto di quelli nazionali (0,006% contro 0,038% come valori medi annui del periodo).

DENTRO L’UMBRIA due368

Graf. 9 - Incassi e pagamenti nella BTP per servizi di R&S sul PIL (2001-2008)

INCASSI

0,00%

0,01%

0,02%

0,03%

0,04%

0,05%

0,06%

0,07%

0,08%

2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

Italia Umbria

PAGAMENTI

0,00%

0,01%

0,02%

0,03%

0,04%

0,05%

2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

Italia Umbria

Fonte: elaborazioni AUR su dati Banca d’Italia e ISTAT

La partecipazione umbra al 7° Programma Quadro Il Settimo Programma Quadro di ricerca e sviluppo tecnologico dell’Unione europea (7PQ), con un budget superiore a 53 miliardi di euro, è lo strumento principale per il finanziamento della ricerca scientifica e tecnologica in Europa e copre il periodo dal 2007 al 2013. Dall’analisi dei dati relativi al primo periodo di attuazione5 emerge che

5 L’analisi è stata compiuta sui dati disponibili fino a maggio 2008, in cui risultavano pubblicati 92 bandi, di cui 52 già completati, con un budget complessivo di risorse ammontante a circa 5,7 miliardi di euro,

AURAPPORTI: RES 2008-09 369

c’è una larga partecipazione di soggetti italiani, più forte nelle proposte presentate (dove l’Italia è seconda solo alla Germania) rispetto a quelle approvate (in cui l’Italia scivola al quarto posto, dopo Germania, Regno Unito e Francia), facendo riscontrare quindi un tasso di successo (13,4%) inferiore rispetto alla media europea (17,9%). La distribuzione dei soggetti italiani partecipanti a seconda della propria natura (Tab. 3), ricalca sostanzialmente quella media europea, con una prevalenza relativa dell’Università che, da sola, rappresenta un terzo abbondante dei partecipanti, seguita dalle imprese che assommano circa il 30%, con un contributo lievemente superiore proveniente dalle piccole e medie imprese, e dai centri di ricerca, che coprono circa un quarto dei partecipanti. In Umbria lo stesso tipo di distribuzione, ancorché calcolato su valori assoluti esigui, mostra una netta accentuazione del peso universitario sul totale dei partecipanti, che arriva al 59%, e una contrazione dell’apporto industriale, che rappresenta meno di un quarto del totale ed è composto esclusivamente da imprese di dimensioni piccole o medie. La piccola pattuglia dei soggetti umbri costituisce pertanto lo 0,9% del complesso dei partecipanti italiani ai progetti del 7PQ che hanno superato la soglia di valutazione. Si guadagnano un peso specifico superiore l’Università (1,6% del totale dei soggetti accademici italiani) e le piccole e medie imprese (1,4%), mentre sono sottorappresentati i centri di ricerca (0,2%) e del tutto assenti le grandi imprese. Tab. 3 - Partecipanti italiani ed umbri nei progetti del 7PQ ammessi a negoziazione

Unione Europea

(%)

Italia (v.a.)

Italia (%)

Umbria (v.a.)

Umbria (%)

Umbria su Italia

(%) Università 37 626 35 10 59 1,6 Centro di ricerca 25 481 27 1 6 0,2 Grande impresa 13 257 14 0 0 0,0 Piccola media impresa 15 290 16 4 23 1,4 Altro 10 152 8 2 12 1,3 Totale 100 1.806 100 17 100 0,9 Fonte: elaborazione AUR su dati MIUR I principali ambiti di ricerca a livello europeo, in termini di risorse assegnate in questa prima fase di attuazione del 7PQ (Tab. 4), riguardano le Tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni e la Salute, seguiti dai Trasporti e dalle Nanotecnologie, materiali e nuovi processi di produzione. Sono gli stessi temi su cui si concentrano in massima parte i proponenti italiani. L’area in cui si concentra la parte prevalente, in termini di risorse finanziarie, dei pari al 12% del budget disponibile. Le proposte pervenute sono state circa 24.000, delle quali 2.978, per un totale di 21.527 soggetti partecipanti, sono state ammesse al finanziamento.

DENTRO L’UMBRIA due370

progetti valutati positivamente con partecipanti umbri riguarda il settore dei Trasporti, cui sono stati destinati 4,4 Meuro, pari a due terzi dell’ammontare complessivo delle risorse attribuite a soggetti umbri. Altri settori in cui si denota un impegno di una certa rilevanza sono quelli della Salute e delle Tecnologie dell’informazione. Rispetto alla distribuzione italiana ed europea, l’Umbria sembra dunque caratterizzarsi per una particolare enfasi data al settore dei Trasporti e per una maggiore concentrazione dell’impegno nei progetti di ricerca destinati alle PMI, oltre che per l’assenza di progetti approvati in un settore in cui l’Umbria è dotata di diverse competenze di ricerca, come quello delle Nanotecnologie, dei nuovi materiali e dei nuovi processi produttivi. Tab. 4 - Partecipanti e volume finanziario dei progetti del 7PQ ammessi a finanziamento per programma

Umbria Italia Unione europea

Programma partecipanti vol. finanziario partecipanti vol. finanziario vol. finanziario

v.a. % Mio € % v.a. % Mio € % Mio € %

Cooperation

Salute 3 17,6 0,7 10,6 275 15,2 101,7 19,5 1.107,8 20,9 Biotecnologie, alimentari,

agricoltura 1 5,9 0,2 3,0 64 3,5 14,3 2,7 172,9 3,3

ICT 2 11,8 0,6 9,1 458 25,4 160,5 30,7 1.669,1 31,5 Nanotecnologie, materiali

e nuovi proc. produttivi - - - - 156 8,6 62,7 12,0 531,1 10,0

Energia - - - - 59 3,3 18,7 3,6 218,3 4,1

Ambiente e clima - - - - 81 4,5 16,5 3,2 168,2 3,2

Trasporti e aeronautica 3 17,6 4,4 66,7 147 8,1 51,3 9,8 561,3 10,6

Scienze umane e sociali - - - - 37 2,0 6,7 1,3 78,4 1,5

Spazio 1 5,9 0,1 1,5 57 3,2 18,6 3,6 148,0 2,8

Sicurezza - - - - 21 1,2 7 1,3 61,0 1,1

Att. generali Cooperation - - - - 12 0,7 2,6 0,5 27,3 0,5

Ideas – Cons. eur. Ricerca - - - - 22 1,2 n.d. n.d. 0,0 0,0

People – Azioni Marie-Curie 2 11,8 n.d. n.d. 113 6,3 0,6 0,1 4,3 0,1

Capacities

Infrastrutture di ricerca 1 5,9 0,1 1,5 96 5,3 34 6,5 280,2 5,3

Ricerca per le Pmi 4 23,5 0,5 7,6 138 7,6 18,9 3,6 151,0 2,8

Regioni della conoscenza - - - - 14 0,8 1,2 0,2 11,5 0,2

Potenziale di ricerca - - - - 6 0,3 0,7 0,1 21,4 0,4

Scienze e società - - - - 27 1,5 2,6 0,5 17,2 0,3 Cooperaz.ne

internazionale - - - - 12 0,7 0,9 0,2 15,5 0,3

Euratom – Fissione nucleare - - - - 11 0,6 3,1 0,6 61,5 1,2

Totale 17 100,0 6,6 100,0 1.806 100,0 522,7 100,0 5.305,9 100,0

Fonte: elaborazione AUR su dati MIUR

AURAPPORTI: RES 2008-09 371

I luoghi della ricerca in Umbria Il mondo dei luoghi nei quali in Umbria si svolge effettivamente l’attività di ricerca, sui quali in questa parte del lavoro si cercherà, seppure sommariamente, di proiettare un fascio di luce, rappresenta un elemento decisivo per le sorti della capacità competitiva del tessuto economico e produttivo regionale. Tenendo presente comunque che esso costituisce solo uno dei pezzi che compongono ciò che nella letteratura economica viene definito un sistema innovativo: i centri di ricerca pubblici e privati, in quanto infrastrutture che veicolano conoscenza (knowledge infrastructures) e dunque – insieme al complesso delle infrastrutture istituzionali che fungono da “integratori di sistema” – “direttamente o indirettamente sostengono, stimolano e regolano il processo di innovazione e diffusione di una tecnologia” (Carlsson, Stankiewicz 1999), interagiscono sistematicamente con gli altri attori economici e produttivi. Questo insieme di relazioni, che è in gran parte il risultato di un processo evolutivo endogeno che si struttura nel corso del tempo e in genere solo in misura modesta frutto di disegni e politiche esplicite impostate dall’esterno, è ciò che in sostanza dà forma, anche attraverso la generazione di potenziali esternalità di rete, al sistema locale di innovazione. Alla luce di tutto ciò, per comprendere meglio la portata e le caratteristiche del sistema di innovazione umbro, occorrerebbe ricostruire le dinamiche relazionali tra gli attori del sistema. Dopo aver mappato i luoghi in cui si realizzano le attività di ricerca e innovazione, è solo tentando di ricomporre il concreto svolgersi del pattern di relazioni tra di essi e tra essi e le unità economico-produttive che si può dare forma e sostanza ad una raffigurazione più puntuale delle dinamiche di innovazione in Umbria. Ma tutto ciò non può che far parte di un ulteriore approfondimento che ci si riserva di compiere in una fase successiva. In questo lavoro ci si è concentrati esclusivamente sulla necessaria fase preliminare di individuazione dei principali luoghi in cui si esercita l’attività di ricerca. Nonostante la ricerca non figuri tra le attività più diffusamente esercitate in Umbria, non è impresa agevole tracciarne con precisione i confini e, conseguentemente, neanche identificare puntualmente l’universo dei luoghi in cui essa si svolge. Schematizzando, i laboratori e i centri in cui si svolge l’attività di ricerca scientifica e tecnologica in Umbria fanno riferimento a due macro-ambiti: quello pubblico, che comprende l’Università e gli enti pubblici di ricerca, e quello privato, costituito sostanzialmente dalle imprese oltre che, in minima parte, da altre istituzioni private senza scopo di lucro. Va aggiunto, tuttavia, che quello della ricerca è un terreno in cui frequenti sono le interazioni tra pubblico e privato, per cui la rigida distinzione tra i due mondi, che serve ad orientarci nel nostro tentativo di mappatura, spesso si trova a fare i conti con iniziative posizionate nelle aree di confine, come ad esempio nel caso degli spin off (imprese private sorte come gemmazione da ricerca universitaria), delle reti di imprese orientate alla ricerca (dove è piuttosto consueta la partecipazione di soggetti accademici, talvolta anche con modalità strutturate), dei laboratori ad iniziativa congiunta pubblico-privata.

DENTRO L’UMBRIA due372

L’Anagrafe nazionale delle ricerche, alla quale tutte le amministrazioni, gli istituti e gli enti pubblici e privati che svolgono a vario titolo attività di ricerca scientifica e tecnologica devono essere iscritti per poter accedere ai finanziamenti pubblici, registra ben 456 soggetti iscritti localizzati in Umbria, pari al 3,5% del totale degli iscritti italiani. Naturalmente la semplice iscrizione non implica che il soggetto sia anche attivo al momento attuale, dunque si può ragionevolmente supporre che il dato sia sovrastimato rispetto alla realtà. Uno sguardo alla distribuzione degli iscritti per natura giuridica (Tab. 5) può comunque aiutarci a ricostruire un primo quadro d’insieme. Tab. 5 - Soggetti iscritti all’Anagrafe nazionale delle ricerche per natura giuridica

Umbria Italia Umbria su Italia

Soggetti pubblici di cui: 51 11,2% 1.688 13,0% 3,0% Enti pubblici non economici 19 4,2% 379 2,9% 5,0% Enti pubblici economici 1 0,2% 40 0,3% 2,5% Enti ospedalieri 3 0,7% 100 0,8% 3,0% Enti morali 2 0,4% 109 0,8% 1,8% Altri enti 26 5,7% 1.029 7,9% 2,5% Aziende prov.li, reg.li, com.li 0 0,0% 31 0,2% 0,0% Soggetti privati di cui: 393 86,2% 10.226 78,7% 3,8% Società per azioni 83 18,2% 3.318 25,5% 2,5% Soc. a responsabilità limitata 224 49,1% 5.323 41,0% 4,2% Soc. in nome collettivo 37 8,1% 337 2,6% 11,0% Soc. in accomandita per azioni 2 0,4% 19 0,1% 10,5% Soc. in accomandita semplice 15 3,3% 339 2,6% 4,4% Cooperative 10 2,2% 421 3,2% 2,4% Altre società private 22 4,8% 469 3,6% 4,7% Soggetti misti di cui: 5 1,1% 594 4,6% 0,8% Consorzi 4 0,9% 409 3,1% 1,0% Fondazioni 1 0,2% 185 1,4% 0,5% Università 3 0,7% 121 0,9% 2,5% Non noto 4 0,9% 364 2,8% 1,1% Totale 456 100% 12.993 100% 3,5%

Fonte: elaborazioni AUR su dati Anagrafe nazionale delle ricerche (estratti al 16.11.2009) La grande maggioranza dei soggetti umbri (86%) è costituita da imprese private, con una forma giuridica prevalentemente connaturata alle piccole dimensioni (Srl e Snc) ma con una presenza non trascurabile anche di Spa. Il resto è costituito da soggetti pubblici, in

AURAPPORTI: RES 2008-09 373

particolare enti non economici, e dall’Università. Il quadro risultante permette di denotare una certa frammentarietà dell’insieme, se si considera che il modesto volume di risorse investite in R&S va a distribuirsi, almeno potenzialmente, tra un numero rilevante di soggetti. Dovendo dare conto, in uno spazio limitato, di un universo così variegato, si è scelto di concentrare l’attenzione su alcuni specifici segmenti. In particolare: all’interno delle amministrazioni pubbliche, sono state raccolte informazioni limitatamente ai centri di ricerca e ai laboratori relativi alle propaggini regionali degli enti nazionali di ricerca propriamente detti, vale a dire quelli che svolgono attività di R&S come fine istituzionale; in ambito accademico, sono state considerate le unità dell’Università degli studi di Perugia in cui si concentrano principalmente le attività di ricerca, vale a dire i centri di eccellenza, i centri interuniversitari, i centri di ricerca e i laboratori; per quanto riguarda infine i soggetti privati, si è deciso di prendere in esame gli spin off derivanti da ricerche svolte in ambito universitario, le reti di imprese orientate alla ricerca, nonché i laboratori accreditati dal MIUR. Inoltre, dal punto di vista dell’articolazione settoriale, si è scelto di privilegiare le aree di ricerca con le maggiori potenzialità di interazione con il tessuto economico e produttivo locale. Gli oltre 70 soggetti umbri censiti secondo tali criteri vengono in questa parte rapidamente passati in rassegna, inquadrandoli nel loro contesto di riferimento. Per ciascuno di essi viene inoltre fornita, nell’appendice in coda al capitolo, una sintetica descrizione, tratta principalmente da materiali informativi pubblicati o disponibili in rete, che comprende, ove possibile, le competenze e le specializzazioni possedute, le risorse di ricerca a disposizione, le principali reti di relazione. Gli Istituti pubblici di ricerca Come già accennato in precedenza, la presenza di organizzazioni pubbliche che svolgono attività di ricerca in Umbria non assume dimensioni molto rilevanti. L’Istat stima che nel 2007 la spesa per R&S intra-muros delle istituzioni pubbliche in Umbria abbia rappresentato lo 0,6% del totale nazionale, mentre il personale dedito alla ricerca in questo stesso tipo di strutture ha pesato per lo 0,8%, una quota che corrisponde a circa 290 unità (espresse in equivalenti tempo pieno) operative nella regione. Un numero non esorbitante, dunque, sostanzialmente concentrato nelle varie emanazioni decentrate e settorialmente specializzate degli istituti nazionali di ricerca, quali il Consiglio nazionale delle ricerche (CNR), l’Istituto nazionale di fisica nucleare (INFN), l’Ente per le nuove tecnologie, energia e ambiente (ENEA) e altri istituti minori. Il comparto di specializzazione in cui si addensano maggiormente questi istituti è quello legato all’agroalimentare: vi operano infatti in Umbria tre Istituti del CNR, oltre ad una sede distaccata del Consiglio per la ricerca e la sperimentazione in agricoltura (CRA). In questo settore, l’unica struttura del CNR con sede principale in Umbria è l’Istituto di biologia agro ambientale e forestale IBAF, localizzato a Porano (TR), che svolge ricerche di base e applicative sulle interazioni tra le specie vegetali e l’ambiente e sui

DENTRO L’UMBRIA due374

meccanismi biologici ed evolutivi e la produttività delle piante agrarie e forestali. Altre due strutture hanno inglobato, dopo la riorganizzazione del CNR all’inizio degli anni Duemila, altrettanti Istituti di ricerca storicamente presenti a Perugia, dove sono state preservate due unità di ricerca: il preesistente Istituto di ricerche sul miglioramento genetico delle piante foraggere è confluito nell’Istituto di genetica vegetale (IGV), mentre l’Istituto di ricerche sull’olivicoltura è stato assorbito dall’Istituto per i sistemi agricoli e forestali del Mediterraneo (ISAFOM). Oggi l’unità territoriale di Perugia dell’IGV si occupa principalmente di biotecnologie per il miglioramento genetico di piante foraggere con particolare riguardo alle leguminose. La sezione Olivicoltura di Perugia dell’ISAFOM conduce invece ricerche per il miglioramento della qualità dell’olio avvalendosi di un’azienda agricola e impianti sperimentali, laboratori e serre. Nel settore olivicolo troviamo anche una propaggine del Centro di Ricerca per l’Olivicoltura e l’Industria Olearia del Consiglio per la Ricerca e la Sperimentazione in Agricoltura (CRA-OLI), che si occupa di biologia, miglioramento genetico e selezione varietale dell’olivo, con una sede distaccata a Spoleto (PG), dove sono localizzati alcuni campi collezione del germoplasma olivicolo. L’Università degli studi di Perugia L’Università degli studi di Perugia è uno dei più antichi atenei nazionali e occupa, tra le università di dimensioni medie, un posto di significativo rilievo, sia nel campo della ricerca scientifica sia in quello dell’offerta formativa. Dispone di 11 Facoltà e si articola in 29 Dipartimenti, con una vasta offerta di corsi di studio e attività didattiche e di ricerca distribuite su vari punti del territorio regionale (Perugia, Terni, Assisi, Città di Castello, Foligno, Narni, Orvieto, Spoleto). Un primo sguardo d’insieme alle vocazioni scientifico-disciplinari dell’Ateneo perugino è ravvisabile confrontando la ripartizione del personale prioritariamente responsabile delle attività di ricerca (oltre che della didattica) – vale a dire professori ordinari, professori associati e ricercatori – rispetto a quella media delle Università statali italiane complessivamente considerate (Tab. 6). La comparazione evidenzia che l’Università di Perugia appare prevalentemente concentrata nelle aree biomediche, agrarie e veterinarie, gruppi nei quali si addensa il maggior numero di docenti in valore assoluto e, allo stesso tempo, con un peso specifico superiore rispetto alla media nazionale. Un altro gruppo consistente e con un’incidenza superiore alla media è quello delle scienze chimiche. Le scienze economiche e statistiche, quelle fisiche ed informatiche ma soprattutto i vari rami delle discipline ingegneristiche sono invece le aree in cui l’Università perugina risulta relativamente meno specializzata rispetto agli altri atenei statali.

AURAPPORTI: RES 2008-09 375

Tab. 6 - Distribuzione dei professori e ricercatori (*) per area scientifica-disciplinare

Università degli studi di Perugia

Italia (Atenei statali) Settori scientifico-disciplinari

v.a. distr. % distr. %

Diff. UniPG-Italia

distr. %

Scienze matematiche e informatiche 62 5,0% 5,7% -0,6% Scienze fisiche 40 3,2% 4,2% -1,0% Scienze chimiche 93 7,5% 5,4% +2,1% Scienze della Terra 36 2,9% 2,0% +0,9% Scienze biologiche 125 10,1% 8,7% +1,5% Scienze mediche 217 17,6% 17,3% +0,3% Scienze agrarie e veterinarie 162 13,1% 5,3% +7,8% Ingegneria civile ed Architettura 30 2,4% 6,5% -4,0% Ingegneria industriale e

dell’informazione 74 6,0% 8,8% -2,8% Scienze dell’antichità, filologico-

letterarie e storico-artistiche 105 8,5% 9,5% -1,0% Scienze storiche, filosofiche,

pedagogiche e psicologiche 94 7,6% 8,3% -0,7% Scienze giuridiche 90 7,3% 8,1% -0,8% Scienze economiche e statistiche 74 6,0% 7,5% -1,4% Scienze politiche e sociali 30 2,4% 2,8% -0,4% Totali 1.232 100,0% 100,0%

(*) Professori ordinari, professori associati e ricercatori, confermati e non confermati, alla data del 11.11.2009 Fonte: elaborazioni AUR su dati CINECA-MIUR

La valutazione della qualità della ricerca svolta, anche in ambito universitario, è materia delicata e controversa, anche per i numerosi limiti presenti in tutte le metodologie variamente utilizzate6. Qui ci limitiamo a riportare gli esiti, recentemente resi disponibili, della valutazione svolta dal Ministero dell’università per attribuire i 523,4 milioni di euro di incentivi al merito previsti sul fondo di finanziamento 2009 (Tab. 7).

6 Per un’analisi critica delle problematiche insite nella scelta e nell’utilizzo degli indicatori per la valutazione della ricerca scientifica si veda ad esempio Fabbris, Gnaldi 2008.

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Tab. 7 - Peso percentuale dei primi 20 atenei sul totale degli incentivi al merito attribuiti nel 2009 sulla base degli indicatori di performance della ricerca scientifica

Grad. Produzione scientifica

Successo nei bandi del VI PQ Ricerca e

Sviluppo Tecnologico

Brevetti riconosciuti

N. di docenti con valutazione positiva

nei progetti PRIN 2005/2007

1 Roma La Sapienza 7,75 Milano

Politecnico 7,51 Ferrara 7,19 Roma La Sapienza 6,69

2 Bologna 6,33 Roma La Sapienza 6,70 Bologna 7,14 Bologna 6,11

3 Napoli Federico II 4,98 Bologna 6,35 Pisa 6,89 Napoli

Federico II 5,31

4 Milano 4,79 Genova 5,90 Milano Politecnico 6,67 Padova 4,37

5 Padova 4,74 Milano 5,88 Milano 6,43 Milano 4,32 6 Torino 4,68 Firenze 5,43 Siena 5,70 Firenze 4,22

7 Firenze 4,60 Padova 5,41 Milano-Bicocca 5,25 Torino 3,54

8 Pisa 4,13 Torino Politecnico 4,52 Padova 5,04 Pisa 3,42

9 Genova 3,63 Pisa 4,49 Firenze 4,82 Palermo 3,20

10 Milano Politecnico 2,89 Trento 4,27 Torino

Politecnico 4,68 Genova 3,17

11 Bari 2,77 Napoli Federico II 3,55 Marche

Politecnica 3,88 Bari 2,80

12 Siena 2,66 Torino 3,30 Genova 3,73 Roma Tor Vergata 2,53

13 Palermo 2,50 Roma Tor Vergata 3,00 Cagliari 3,54 Catania 2,49

14 Pavia 2,30 Siena 2,59 Roma Tor Vergata 3,39 Perugia 2,17

15 Roma Tor Vergata 2,23 Milano-

Bicocca 2,53 Pavia 3,37 Milano Politecnico 2,10

16 Trieste 2,18 Pavia 2,21 Brescia 3,16 Siena 2,04 17 Catania 2,17 Perugia 2,19 Perugia 2,43 Pavia 2,00

18 Perugia 2,06 Trieste 1,92 Piemonte Orientale 2,36 Parma 1,94

19 Parma 1,88 Parma 1,73 Roma La Sapienza 1,83 Cagliari 1,83

20 Torino Politecnico 1,85 Marche

Politecnica 1,40 Napoli Federico II 1,50 Trieste 1,83

Fonte: elaborazioni AUR su dati Il Sole-24 Ore In particolare, negli indicatori relativi ai risultati della ricerca (che hanno indirizzato il pacchetto più consistente delle risorse, 345,5 milioni) l’Università di Perugia ottiene

AURAPPORTI: RES 2008-09 377

piazzamenti onorevoli, dal 14° al 18° posto tra le 56 università statali esaminate, considerando anche che i criteri utilizzati tendono a favorire gli atenei di dimensioni maggiori. Tenuto conto che il peso dell’Ateneo perugino, in termini di numero di professori ordinari, associati e ricercatori sul totale degli atenei statali, risulta pari al 2,16% (fonte: CINECA-MIUR), la quota dell’Università di Perugia sul totale dei fondi distribuiti sulla base degli indicatori qualitativi è lievemente inferiore (2,06%) solo per la parte relativa al criterio della produzione scientifica, mentre risulta praticamente in linea sul fronte del successo ottenuto nella partecipazione ai bandi di interesse nazionale (nei progetti PRIN 2005-2007) ed europeo (nel Sesto Programma quadro di ricerca e sviluppo tecnologico) e ottiene una quota più elevata (2,43%) nelle valutazioni fondate sul numero dei brevetti. Il tradizionale problema della difficile comunicazione e cooperazione tra mondo accademico e sistema delle imprese è stato affrontato negli ultimi anni con crescente impegno da parte dell’Ateneo perugino. In particolare, dal 2006 è stata istituita un’area dedicata alle attività di trasferimento della conoscenza, in grado di supportare docenti e ricercatori nella tutela della proprietà intellettuale, nello sfruttamento e valorizzazione dei risultati della ricerca e nella creazione di spin off. L’avvio di queste azioni di rafforzamento della collaborazione tra università e imprese, che ha coinvolto anche le istituzioni pubbliche, ha favorito da un lato l’intensificazione del ricorso alla brevettazione dei risultati codificabili delle ricerche7, dall’altro la promozione tra i ricercatori della creazione di progetti d’impresa, anche attraverso azioni di selezione e di accompagnamento delle start up innovative (di cui si parlerà più diffusamente nei paragrafi successivi). Tentare una mappatura esaustiva delle capacità e competenze di ricerca operanti all’interno dell’Università degli studi di Perugia è ovviamente impresa ardua. In questa sede si è scelto innanzitutto di prendere in considerazione le unità di ricerca afferenti alle aree scientifiche e tecnologiche situate più a ridosso delle problematiche riferibili al sistema produttivo, escludendo pertanto, ad esempio, le discipline biomedicali e quelle storico-umanistiche, e in secondo luogo di limitarsi alla seguente tipologia di strutture: centri di eccellenza, centri interuniversitari, centri di ricerca, laboratori. Sono state inoltre passate in rassegna, nel successivo paragrafo dedicato agli spin off, le iniziative imprenditoriali sorte dietro impulso della ricerca svolta in ateneo. I Centri di eccellenza I Centri di eccellenza universitari nella ricerca, finanziati per la prima volta con il DM n. 11 del 13 gennaio 2000, sono costituiti da docenti o ricercatori di una determinata area appartenenti allo stesso ateneo, che lavorano secondo un approccio inter- o multi-disciplinare con lo scopo di potenziare la base scientifica e tecnologica nazionale e di 7 Nell’Anagrafe della Ricerca risultano presenti 18 brevetti nazionali più altri 14 internazionali, depositati dal personale accademico dell’Ateneo, mentre l’Università ha acquisito 10 brevetti, dando luogo alla creazione di un portafoglio brevetti di proprietà (fonte: Ufficio Trasferimento tecnologico, Università degli studi di Perugia).

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generare imprenditorialità in attività economiche innovative, sviluppando processi di partenariato con imprese in settori ad alta intensità di conoscenza e rafforzando lo sviluppo di reti di cooperazione anche a livello internazionale. Si tratta pertanto di coniugare l’eccellenza scientifica con una forte capacità di operare in stretta collaborazione con il mondo industriale, in modo da raggiungere nel tempo un elevato livello di auto sostenibilità, anche attraverso la generazione di spin off. Nei primi anni di operatività del Decreto sono stati approvati a livello nazionale 55 Centri in diversi settori di attività, in particolare nelle aree che riguardano la biotecnologia e biomedicina, le tecnologie dell’informazione, i nuovi materiali. In Umbria sono sorti due Centri di eccellenza, che operano entrambi nel settore dei materiali speciali, sebbene con vocazioni diverse: lo SMAART, dedicato alle tecnologie scientifiche innovative applicate alla ricerca archeologica e storico-artistica, ed il CEMIN, sui materiali innovativi nanostrutturati per applicazioni chimiche, fisiche e biomediche. Sulle micro e nanotecnologie lavora anche un altro luogo di eccellenza, questa volta di derivazione internazionale, il Centro europeo per i polimeri nanostrutturati ECNP, localizzato presso il Polo universitario di Terni. Risulta invece specializzato su un altro fronte, quello agroindustriale delle bevande e in particolare della birra, il CERB, Centro di eccellenza per la ricerca sulla birra. I Centri interuniversitari Il Centro interuniversitario è uno strumento di collaborazione scientifica tra docenti appartenenti a diversi atenei, costituito per svolgere attività di ricerca su tematiche di comune interesse per le quali siano necessari l’apporto e la gestione integrata di risorse e di competenze provenienti da diverse università. L’Università di Perugia aderisce a circa 21 Centri interuniversitari, su svariate aree disciplinari. Un nucleo consistente di questi, più interessante ai nostri fini, si dedica a tematiche nel settore ambientale ed energetico. Tra quelli con sede principale presso l’Ateneo perugino, vanno evidenziati il CIRIAF sull’inquinamento di agenti fisici, collocato presso il Laboratorio di acustica del Dipartimento di Ingegneria industriale, ed il CIPLA, centro interuniversitario per l’ambiente. Altri centri operanti in quest’area che non hanno sede amministrativa a Perugia sono il CIRPS, che conduce ricerche per lo sviluppo sostenibile, ed il CRIACIV, che si occupa di ricerca in aerodinamica delle costruzioni e ingegneria del vento e degli effetti dei fenomeni eolici sull’ambiente. Va infine segnalato un altro ente di ricerca, il CIMIS, costituito sotto forma di Consorzio interuniversitario, che riguarda le macchine, gli impianti e i sistemi per l’energia, l’industria e l’ambiente, promosso dalle Università di Perugia, Bologna e Ferrara, con sede presso il Dipartimento di Ingegneria industriale. I Centri di ricerca I centri di ricerca veri e propri, censiti all’interno dell’Università di Perugia, sono 14, riguardanti soprattutto discipline giuridiche, storiche, mediche e veterinarie. In particolare, nel settore dell’energia e dell’ambiente assume un certo interesse il Centro di

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ricerca sulle biomasse (CRB), che è anche il riferimento nazionale per la ricerca sui biocarburanti e le biomasse ad uso energetico, essendo stato individuato come soggetto a cui fanno capo le verifiche in ordine al conferimento dei “certificati verdi” nella filiera energetica delle biomasse. Va inoltre ricordato il Centro di ricerca sul clima e i cambiamenti climatici (CRC), di cui sono membri anche il CRB ed il CIRIAF, che concentra le sue attività di ricerca sugli effetti delle variabili meteorologiche sulle colture e sulle risorse idriche. Laboratori e centri di servizio L’Ateneo di Perugia è dotato anche di strumentazioni e risorse tecnologiche localizzate all’interno di laboratori e centri di servizio ai quali possono accedere ricercatori ma anche soggetti esterni. I laboratori di cui ci occupiamo in questa sede sono in particolare quelli che fanno capo alla Facoltà di Ingegneria del Polo scientifico e didattico di Terni, focalizzati sui materiali innovativi. Tra questi, il laboratorio STM Scienza e tecnologia dei materiali si occupa di sviluppare la conoscenza dei materiali avanzati e tradizionali, le tecnologie relative alla loro progettazione e produzione e le loro applicazioni ingegneristiche. Tratta biomateriali, materiali polimerici, compositi e nano compositi, per diversi settori industriali tra cui automotive, aerospazio, energia ed ha prodotto spin off quali MDP srl e MITES srl. Il laboratorio SERMS per lo studio degli effetti delle radiazioni sui materiali speciali, oltre alle prove di qualifica e di certificazione di materiali e strumenti elettronici, sviluppa strumentazioni scientifiche soprattutto per applicazioni spaziali, in collaborazione con il Dipartimento di Fisica che ospita la sezione dell’Istituto nazionale di Fisica nucleare. Il laboratorio CEM per la caratterizzazione elettromagnetica dei materiali svolge invece attività di ricerca e consulenza nel campo della compatibilità e della diagnostica elettromagnetica e della caratterizzazione dei materiali magnetici. Inoltre, altri laboratori sono realizzati e gestiti dal Polo universitario ternano in collaborazione con ISRIM, che li ospita all’interno della propria struttura: è il caso dei laboratori RITAM, che si occupa di ricerche e tecnologie per sistemi antisismici, strutture e materiali, ed ENERPOL, focalizzato sull’energia da biomasse. Tra i centri di servizio di Ateneo, che forniscono alle strutture didattiche e di ricerca competenze e prestazioni di interesse generale o di particolare complessità, da segnalare il CUME, Centro universitario di Microscopia elettronica, ubicato presso la Facoltà di Medicina veterinaria, che fornisce strumentazioni di supporto alle strutture di ricerca, anche extrauniversitarie, nel campo della microscopia elettronica. Un’altra tipologia di laboratorio di ricerca, di più recente costituzione in Italia, è quella dei “laboratori pubblico-privati”, unità di ricerca interdisciplinari in cui la cooperazione tra pubblico e privato dovrebbe stimolare l’orientamento dell’attività di ricerca verso nuove potenzialità. Alcuni di questi laboratori, specializzati in settori di valenza strategica su tematiche di incrocio tra nanotecnologie, biotecnologie, infotecnologie, neurobiologia, sono già stati finanziati da parte del MIUR attraverso il Fondo per gli investimenti della ricerca di base (FIRB).

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Tra i 21 laboratori pubblico-privati finanziati dal Ministero, in Umbria ne risulta presente uno, afferente le micro e nanotecnologie per diagnostica avanzata e nuove procedure terapeutiche, localizzato presso il Laboratorio di Parassitologia e microbiologia molecolare dell’Università di Perugia. I soggetti privati Gli spin off universitari L’impegno dell’Università degli studi di Perugia nella valorizzazione economica e imprenditoriale dei risultati della ricerca realizzata in ambito accademico ha cominciato a diventare più concreto dal 2003 quando, anche attraverso la partecipazione al programma regionale di Azioni innovative [email protected], è stato approvato il “Regolamento dell’Ateneo di Perugia sugli spin off universitari”. Gli spin off sono imprese costituite da professori o ricercatori universitari, nate per operare in contesti innovativi, sulla base dei risultati delle loro ricerche. Per essi l’Università di Perugia ha via via strutturato una serie di servizi di supporto alla fase di start up, che vanno dalla formazione all’assistenza al business planning, all’utilizzo di strutture e attrezzature dell’ateneo, fino all’assistenza nella ricerca di finanziamenti. Dal 2003 ad oggi sono state attivate circa una trentina di imprese, tra spin off vere e proprie e altre società di derivazione accademica che non hanno richiesto l’accreditamento in qualità di spin off. Alcune di esse, circa un terzo, vedono anche la partecipazione diretta dell’Ateneo al capitale sociale. Circa la metà delle imprese ha utilizzato gli spazi e le strumentazioni dei laboratori di ricerca di provenienza, grazie alla sottoscrizione di una convenzione quadro con l’Università, a testimonianza dell’importanza dell’attività di sostegno nella fase di avvio. Oltre la metà delle imprese derivate dall’attività di ricerca universitaria provengono da una matrice ingegneristica (Tab. 8). I settori nei quali operano riguardano soprattutto l’elettronica, l’informatica e il multimediale, mentre va segnalata una rilevante presenza anche nei settori dei materiali speciali, della farmaceutica e biomedicale, dell’energia e ambiente. Alcune tra le imprese di origine accademica hanno dato prova di saper interagire con il contesto produttivo regionale, inserendosi all’interno di reti di imprese esistenti – o, in qualche caso, anche guidando la costituzione di una nuova rete – in qualità di soggetti tecnologici in grado di mettere a disposizione il proprio know how come contributo sostanziale di percorsi innovativi. Tra queste si segnalano, ad esempio: Net Value, che anima e facilita i flussi organizzativi di una rete di ventuno imprese nel Gruppo poligrafico tiberino, grazie agli strumenti di virtual development office messi a punto attraverso la ricerca universitaria; Drive Meccatronica, che mette a frutto le conoscenze nei sistemi elettronici applicati agli impianti industriali all’interno del consorzio del Polo Meccatronico; Digilab 2000 e WIS, che si occupano di elettronica digitale e radiofrequenza nel settore delle telecomunicazioni all’interno del centro di ricerca e progettazione avanzata del Pischiello; Prolabin & Tefarm, che ricopre il ruolo di capofila

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e partner scientifico in una rete volta all’innovazione nei materiali plastici nanostrutturati per il settore dell’edilizia. Tab. 8 - Spin off e imprese di derivazione accademica attivate dall’Università degli studi di Perugia per Dipartimento di provenienza

Dipartimento Spin off attivate

Soc. di derivazione accademica

Biologia Cellulare e Ambientale 1 Chimica e Chimica e Tecnologia del Farmaco 2 CIRIAF Centro Ricerca sull’Inquinamento di Agenti Fisici 1 Diritto Pubblico 1 Fisica 2 Ingegneria Civile ed Ambientale (Ingegneria dei Materiali) 3 1 Ingegneria Elettronica e dell’Informazione 6 3 Ingegneria Industriale 4 Matematica e Informatica 2 Scienze Biopatologiche e Igiene Produzioni Animali e Alimentari 1 Scienze Chirurgiche, Radiologiche ed Odontostomatologiche 1 Uomo e Territorio 1 Totale 25 4

Fonte: Elaborazione AUR su dati Università degli studi di Perugia I laboratori accreditati Miur I laboratori di ricerca, pubblici e privati, che rispondono a particolari standard qualitativi in termini di apparecchiature scientifiche, qualifica del personale tecnico, certificazioni di qualità, possono richiedere di essere inseriti nell’Albo dei laboratori accreditati dal Ministero dell’istruzione, dell’Università e della ricerca scientifica e tecnologica. L’accreditamento è un titolo necessario per consentire al laboratorio di svolgere attività di ricerca e sviluppo, anche su commissione da parte di soggetti esterni, finanziata attraverso agevolazioni pubbliche. Oltre agli enti pubblici nazionali di ricerca e alle Università, che secondo il D.M. 593/2000 vengono iscritti d’ufficio qualora svolgano attività di ricerca utili ai processi produttivi, in Umbria risultano iscritti all’albo dei laboratori di ricerca ad alta specializzazione 10 soggetti privati (a cui va aggiunta la sede ternana del CSM – v. oltre). Vediamone le specializzazioni, a grandi linee. Una parte di questi lavorano nel settore della meccatronica e della meccanica avanzata: si tratta di due laboratori che fanno capo al Gruppo Ponti (Ponti Engineering e CMC) e di un terzo (Bimal) che, insieme, hanno dato vita insieme ad altre imprese al Consorzio Pomec, cui aderisce anche un ulteriore laboratorio accreditato, Sistematica, specializzato in informatica e tecnologie digitali.

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Attivo nella meccanica avanzata, oltre che nella ricerca riguardante gli acciai speciali e i materiali innovativi in genere, è il Centro Sviluppo Materiali, da citare per l’importante e storica presenza a Terni, nonostante figuri nell’albo tra i laboratori della regione Lazio per via della sede principale a Roma. Il CSM, pur operando anche su altri settori, quali quello del petrolio e del gas, dell’aerospazio, dell’ingegneria ed impiantistica e dell’ambiente e dell’energia, ha legato fortemente la sua presenza umbra alla storia industriale, e in particolare siderurgica, di Terni. Altro soggetto rilevante per la ricerca nel campo dei nuovi materiali è l’ISRIM, che ha affiancato alla tradizionale competenza in tema di materiali e tecnologie industriali, per le quali svolge prove, controlli e certificazioni, una ulteriore specializzazione, progressivamente in crescita, sulle tematiche biotecnologiche ed ambientali. L’ISRIM ha al suo interno una decina di laboratori che forniscono assistenza tecnologica e servizi di ricerca e sviluppo, alcuni dei quali – RITAM ed ENERPOL, come descritto in precedenza – gestiti congiuntamente con l’Università degli studi di Perugia. L’area delle applicazioni tecnologiche legate alle scienze biologiche è presidiata anche da Biotecnologie BT, una delle società ospitate dal 3A-Parco Tecnologico Agroalimentare dell’Umbria, altro soggetto “storico” nella realtà regionale, sede di risorse e competenze per la ricerca e l’innovazione nei settori agricolo, agroalimentare e ambientale. Il quadro dei laboratori accreditati dal Ministero in Umbria è completato da Demetra e Iride, che si occupano di servizi di ingegneria integrata e tecnologie applicate ai processi produttivi, Eco Tech Engineering e Servizi Ambientali, che opera nel settore ambientale e nella certificazione delle macchine, e Italia Innova, specializzato nelle tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni. Le reti di imprese Negli ultimi anni, le politiche regionali per il sistema produttivo hanno posto un particolare accento nel sostenere attivamente, attraverso vari strumenti via via perfezionati, sia le iniziative di ricerca e innovazione8 che il rafforzamento delle reti di imprese. Per questo motivo, anche se ovviamente riguarda solo una porzione delle imprese che praticano attività di R&S, ci sembra particolarmente interessante analizzare gli esiti di uno degli strumenti più avanzati ed originali messi a punto dalla Regione Umbria, che integra i suddetti obiettivi: il bando “RE.STA Ricerca” per la presentazione di progetti innovativi di ricerca da parte di network di imprese. 8 Il “Pacchetto competitività” 2007 comprendeva: Bando per la concessione di pacchetti integrati di agevolazioni (PIA) che privilegiava le imprese che, nell’ambito di progetti integrati, presentassero programmi di R&S; Bando ordinario L. 598/94 art.11 dedicato a finanziare la R&S in singole imprese; Bando per il sostegno a progetti di reti stabili di imprese articolato su due tipologie (RE.STA Innovazione e RE.STA Ricerca) in funzione della presenza di progetti di R&S nell’ambito del programma di sviluppo della rete. Nel 2008 si sono aggiunti altri strumenti: Bando per progetti di reti stabili di imprese nel settore del commercio (RE.STA Commercio); Bando per la diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione; Bando per il supporto al risparmio energetico. Nel 2009, attraverso una semplificazione ulteriore, è stato identificato un unico PIA Innovazione, mentre la R&S è diventata obbligatoria per il bando RE.STA.

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Il bando RE.STA è lo strumento caratterizzante attraverso il quale – continuando un percorso la cui nascita si può far risalire al 2004 con il lancio del bando Multimisura B4 per la promozione di progetti integrati da parte di pool di piccole e medie imprese e sulla scia di una tendenza che ha trovato una ricaduta, in termini di indirizzi politici, nelle linee strategiche nazionali di Industria 2015 – la Regione Umbria opera principalmente per favorire l’integrazione tra imprese, sulla scorta del convincimento della necessità per le PMI di rafforzare i legami di cooperazione, come modalità per alleviare le difficoltà connesse alle piccole dimensioni e per innescare processi di innovazione. Nella sua componente “Ricerca”, il bando RE.STA finanzia, oltre a servizi ed investimenti innovativi che comprendono laboratori aziendali di R&S, le spese per la realizzazione di iniziative di ricerca industriale e sviluppo sperimentale (individuate e finanziate secondo i criteri e le modalità stabilite dalla L. 598/94)9 all’interno di progetti realizzati congiuntamente da raggruppamenti di piccole e medie imprese appartenenti a filiere produttive localizzate in Umbria ed operanti sostanzialmente nei settori dell’industria manifatturiera e dei servizi alle imprese. Ogni progetto di rete richiede la partecipazione di almeno tre imprese, di piccola, media o (per gli interventi relativi alla componente R&S) anche grande dimensione associate in forma di società a responsabilità limitata, consorzio o raggruppamento temporaneo di imprese. È prevista la possibilità di aggregare alla rete anche organismi e centri di ricerca pubblici o privati accreditati. L’innovatività di questa misura risiede sostanzialmente nell’incoraggiare le imprese a condividere un insieme di azioni coerenti e collegate fra loro, rafforzando la cooperazione tra imprese all’interno di filiere o sistemi produttivi, cioè in sostanza a perseguire strategie innovative comuni non meramente contingenti ma finalizzate ad avviare e consolidare integrazioni di sistema nel lungo periodo. I bandi RE.STA Ricerca di cui andiamo a dare conto sono quelli relativi alle annualità 2007 e 200810. Nei due bandi 2007 e 2008 sono stati finanziati complessivamente 23 progetti di 9 Per sviluppo precompetitivo (finanziato con un contributo in conto capitale pari al 35% del costo del progetto ammesso all’agevolazione) si intende la concretizzazione dei risultati delle attività di ricerca industriale in un piano, un progetto o un disegno relativo a prodotti, processi produttivi o servizi nuovi, modificati, migliorati, siano essi destinati alla vendita o all’utilizzazione, compresa la creazione di un primo prototipo non idoneo a fini commerciali, ma anche la formulazione teorica e la progettazione di altri prodotti, processi produttivi o servizi nonché progetti di dimostrazione iniziale o progetti pilota, a condizione che tali progetti non siano né convertibili né utilizzabili a fini di applicazione industriale o sfruttamento commerciale. Sono esclusi pertanto da tale accezione i semplici miglioramenti routinari di prodotto o di processo. La ricerca industriale, finanziata fino al 60%, comprende la ricerca pianificata o le indagini critiche miranti ad acquisire nuove conoscenze, utili per la messa a punto di nuovi prodotti, processi produttivi o servizi o per conseguire un notevole miglioramento dei prodotti, processi produttivi o servizi esistenti. 10 Si tratta dei bandi: RE.STA 2007 (scadenza 31 ottobre 2007); RE.STA Ricerca 2007 (scadenza 21 maggio 2008); RE.STA 2008. La schedatura dei progetti di rete è stata curata da Chiara Nappini e da Nadia Giuliano. Si ringrazia Raffaella Diosono della sezione Infrastrutture produttive del servizio Servizi innovativi alle imprese e diffusione dell’innovazione della Regione Umbria per aver agevolato la raccolta dei dati relativi ai progetti presentati.

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rete, che hanno visto la partecipazione in totale di 117 imprese (Tab. 9)11. Per ottenere tuttavia un quadro più completo delle capacità aggregative delle imprese umbre, ad essi vanno aggiunti altri 6 progetti di rete, facenti capo ad altre 29 imprese, dichiarati ammissibili e dunque valutati positivamente ma non finanziati in prima battuta, oltre ad un ultimo raggruppamento di 4 imprese escluso per motivi formali. Nell’ultimo biennio, pertanto, sono emersi una trentina di raggruppamenti, per un totale di circa 150 imprese, che hanno formalizzato accordi cooperativi per gestire progetti comuni di innovazione, comprendenti anche attività di ricerca e sviluppo. Dal punto di vista finanziario, i 23 progetti di rete finanziati hanno impegnato le imprese partecipanti in attività progettuali per un valore complessivo di 39,5 Meuro, di cui oltre un terzo, pari a 14,8 Meuro, è stato impiegato in attività di ricerca e sviluppo. Il contributo complessivo concesso nei due bandi ammonta a 14,6 Meuro, dei quali 5,9 sono andati a finanziare attività di R&S. Rispetto al totale del contributo finanziato, la componente relativa alla R&S ha pesato per il 40,9%. Nel primo bando del 2007 le attività di ricerca costituivano mediamente circa un terzo del progetto, mentre nel secondo bando questa quota è quasi raddoppiata, arrivando al 61,1%. Tab. 9 - Principali dati finanziari riguardanti i progetti di rete con R&S nei bandi RE.STA 2007 e 2008

(migliaia di euro)

Nr. progetti

di reteSpesa per

R&S

Totale spesa

progettoContributo

per R&STotale

contributo

Contrib. R&S/Tot.

contr. Bando 2007 15 8.011,10 27.993,06 3.424,72 10.398,96 32,9% Bando 2008 8 6.741,20 11.476,87 2.520,11 4.124,88 61,1% Totale 23 14.752,30 39.469,92 5.944,83 14.523,84 40,9%

Fonte: elaborazioni AUR su dati Regione Umbria Le 117 imprese partecipanti ai progetti di rete sono costituite per tre quarti da imprese di dimensioni piccole, con meno di 50 addetti, per il 17% da medie e per il 6% da grandi imprese (Tab. 10). Per l’85% sono localizzate nella provincia di Perugia, il restante 15% si trova in quella ternana.

11 In 16 casi, la stessa impresa ha partecipato a due distinti progetti di rete approvati nelle due annualità, pertanto il numero effettivo di imprese nominali scende a 101. L’analisi e le elaborazioni vengono tuttavia svolte da qui in avanti sulle 117 imprese, considerate in qualità di singoli membri delle 23 reti.

AURAPPORTI: RES 2008-09 385

Tab. 10 - Imprese coinvolte in progetti di rete con R&S finanziati dai bandi RE.STA 2007 e 2008

Dimensioni Provincia Settori

Tot.Impr.

N. medio

addetti Piccole Medie Grandi PG TR

Impr. con

R&S Alimentari e bevande 1 1.126 0% 0% 100% 100% 0% 100% Tessile e abbigliamento 8 32 75% 25% 0% 100% 0% 25% Legno e prodotti in legno 7 19 100% 0% 0% 86% 14% 29% Carta, stampa, editoria 6 55 50% 50% 0% 100% 0% 50% Chimica e plastica 10 40 70% 30% 0% 70% 30% 40% Lav. minerali non metalliferi 8 94 88% 0% 13% 63% 38% 50% Metallurgia e prod. in met. 30 71 73% 20% 7% 87% 13% 33% Meccanica, elettron., mezzi di tr. 21 121 62% 24% 14% 95% 5% 67% Mobili e altre manifatture 6 23 100% 0% 0% 33% 67% 17% Costruzioni 4 25 75% 25% 0% 50% 50% 50% ICT, R&S, serv. alle imprese 16 13 100% 0% 0% 100% 0% 44% Totale 117 67 77% 17% 6% 85% 15% 43%

Fonte: elaborazioni AUR su dati Regione Umbria

Il settore più largamente rappresentato, con oltre un quarto delle imprese, è quello relativo alla Metallurgia e prodotti in metallo, immediatamente seguito dalla Meccanica, elettronica e mezzi di trasporto con il 17,9%. Un altro gruppo piuttosto consistente (13,7%) è costituito dalle imprese dell’Informatica, ricerca e sviluppo e servizi alle imprese, seguito con l’8,5% dalla Chimica e plastica. Una porzione consistente dei progetti di rete ha visto al proprio interno una distribuzione settoriale delle imprese piuttosto concentrata, nel senso che il raggruppamento vedeva spesso la partecipazione esclusiva o maggioritaria di imprese dello stesso settore, soprattutto nel caso della Meccanica e dell’ICT. Non sono mancati tuttavia casi di aggregazione di imprese appartenenti a settori eterogenei. La dimensione media di impresa più elevata si riscontra (se si esclude il settore Alimentare in cui è presente un’unica grande impresa) nel comparto della Meccanica e in quello dei Metalli, dove c’è una presenza relativamente alta di medie e grandi imprese, e nella Lavorazione di minerali, in cui si assiste alla polarizzazione tra una grande e diverse piccole imprese. Le dimensioni medie minori si rintracciano nei settori industriali a più bassa intensità tecnologica (Mobili, Legno, Abbigliamento, Costruzioni), ma soprattutto nel settore dell’Informatica e dei servizi avanzati alle imprese. Quest’ultimo dato fornisce una prova della frammentazione – e dunque della difficoltà a raggiungere una massa critica tale da rafforzarne l’impatto – di un pezzo importante del sistema che dovrebbe sostenere le imprese nei propri percorsi di innovazione. L’attività di R&S è praticata dal 43% delle imprese coinvolte nei progetti. In circa un terzo dei progetti la ricerca è effettuata da una sola impresa della rete, mentre nei restanti

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due terzi è presente all’interno del partenariato più di un soggetto a farsi carico della R&S. I settori nei quali si concentra il maggior numero di imprese che svolgono attività di R&S nell’ambito dei progetti di rete sono la Meccanica, la Metallurgia e l’Informatica. L’esiguità dei casi non permette di elaborare significativi indici di correlazione statistica, ma appare di una certa evidenza il legame tra le dimensioni dell’impresa e la sua capacità di impegnarsi in attività di R&S. Come si può intuire dalla distribuzione settoriale delle imprese partecipanti, la parte maggioritaria (il 60,9%) dei progetti di rete finanziati nei bandi RE.STA va a collocarsi all’interno dei settori ricompresi nel Distretto Tecnologico dell’Umbria (Tab. 11). Tab. 11 - Caratteristiche dei progetti di rete con R&S finanziati dai bandi RE.STA 2007 e 2008

Bando 2007 Bando 2008 Totale Progetti ricompresi nel DTU 46,7% 87,5% 60,9% di cui (*): Meccanica avanzata 26,7% 37,5% 30,4% Meccatronica 33,3% 62,5% 43,5% Micro e nanotecnologie 0,0% 12,5% 4,3% Materiali speciali metallurgici 0,0% 0,0% 0,0% Ricerca industriale 46,7% 87,5% 60,9% Sviluppo precompetitivo 100,0% 100,0% 100,0% Oggetto della R&S (*): Nuovi materiali 13,3% 12,5% 13,0% Nuovi prodotti 46,7% 75,0% 56,5% Innovazioni di processo 33,3% 12,5% 26,1% Innovazioni organizzative 33,3% 37,5% 34,8%

(*) È possibile che lo stesso progetto includa più opzioni, per cui la somma delle singole quote supera il 100%. Fonte: elaborazioni AUR su dati Regione Umbria In particolare, il 43,5% dei progetti dichiara di lavorare sulle tematiche afferenti al settore della Meccatronica, mentre il 30,4% opera nella Meccanica avanzata (e sono diversi i casi in cui lo stesso progetto ricade all’interno di entrambe le declinazioni settoriali del Distretto). Un solo progetto di rete si inserisce nel settore delle Micro e nanotecnologie, mentre risultano assenti iniziative in materia di Materiali speciali metallurgici. Tutti i progetti di rete prevedono di svolgere attività di sviluppo precompetitivo o sperimentale, vale a dire la parte della R&S più vicina allo sfruttamento industriale e commerciale della nuova conoscenza prodotta dall’attività, mentre una porzione fisiologicamente più esigua, pari al 60,9% dei progetti (in tendenziale aumento nella seconda annualità del bando), realizza anche ricerca industriale. L’attività di ricerca è prevalentemente indirizzata alla creazione di nuovi prodotti o al miglioramento sostanziale di prodotti esistenti, infatti oltre la metà (56,5%) dei

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progetti lavora in questa direzione. Rilevante anche la quota di iniziative che puntano a rendere più efficiente l’integrazione – a fini produttivi, di progettazione congiunta o commerciali – tra le imprese della rete, anche attraverso l’ausilio di piattaforme tecnologiche e informatiche. Questo obiettivo coinvolge più di un terzo dei progetti finanziati. Un quarto dei progetti è invece concentrato sul miglioramento della qualità e dell’efficienza dei processi produttivi, mentre il 13% ha come obiettivo lo studio e la ricerca su materiali innovativi. Dal punto di vista della cooperazione sul terreno scientifico, in circa tre quarti dei progetti finanziati è menzionata una qualche forma di collaborazione con l’Università degli studi di Perugia o più specificamente con qualche singolo Dipartimento. Appare tuttavia piuttosto occasionale la presenza di accordi strutturati, espressi come partecipazione in forma stabile al network o come rapporti di collaborazione su base pluriennale, tra l’Ateneo e le reti di imprese. L’impressione complessiva derivante dalla lettura dei progetti rimanda pertanto l’immagine di un ricorso ampiamente diffuso da parte delle imprese alle risorse e competenze di ricerca accademiche presenti sul territorio, espresso però più spesso come consulenza occasionale, magari ad opera di singoli professori universitari, diretta a risolvere problematiche tecnologiche contingenti, piuttosto che come partnership strategica, con il coinvolgimento di gruppi strutturati di ricerca, orientata ad intraprendere percorsi di sviluppo innovativo di lungo periodo. Tra i progetti più significativi presentati da reti di imprese orientate alla ricerca, avviati o consolidati grazie agli incentivi regionali per i network stabili, si segnalano nel settore della meccanica avanzata e della meccatronica quelli del Pischiello, relativi ai campi dell’automotive e della mobilità sostenibile, del Consorzio POMEC, riguardanti lo sviluppo di una piattaforma tecnologica per consolidare l’integrazione tra le imprese e condividere la creazione e l’erogazione di servizi, nonché quello della Umbra Cuscinetti che, all’interno del Polo aerospaziale, mira a rafforzare le sinergie con le imprese fornitrici e ad incrementare l’efficienza della filiera. Tra le principali realtà umbre fortemente impegnate nelle aree di frontiera della ricerca e sviluppo è da annoverare anche il network facente capo al Gruppo Angelantoni, che ha recentemente avviato una nuova iniziativa nel settore delle energie rinnovabili con la produzione di innovativi tubi ricevitori per impianti solari termodinamici. Da ricordare, inoltre, nel campo delle nuove tecnologie informatiche il progetto presentato da Gruppo Spazio per il rafforzamento dell’integrazione nella filiera umbra dell’ICT attraverso la costituzione congiunta di un centro servizi tecnologici per la pubblica amministrazione locale, le imprese e le public utilities, e nel settore cartotecnico l’iniziativa capeggiata dal Gruppo Poligrafico Tiberino che aggrega ed organizza un network di imprese che mettono insieme le proprie specifiche competenze allo scopo di offrire prodotti e servizi congiunti. Tra i progetti di reti localizzate nella Conca ternana, un posto di particolare rilievo occupa quello di Novamont, per la produzione di plastiche biodegradabili nella propria bioraffineria, attraverso la creazione di una filiera integrata tra industria e imprese agricole locali fornitrici di materie prime a basso impatto, che apre ampie prospettive

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di sviluppo. Da ricordare inoltre i progetti capeggiati da Terni manufatti e prototipi, per lo sviluppo di elementi di arredo in biocompositi rinforzati con fibre lunghe ad elevata resistenza e con alte prestazioni ambientali, e da F.lli Canalicchio, con l’obiettivo di rafforzare il nascente polo ternano della Nautica, focalizzato sulla produzione di allestimenti e arredi per mega yacht12. Considerazioni conclusive Uno sguardo d’insieme Il quadro complessivo che ci restituisce l’analisi degli indicatori, in uno scenario in cui, dopo quasi un decennio dal suo lancio, la strategia di Lisbona non sembra aver prodotto generalmente in Europa quegli impegni aggiuntivi straordinari ipotizzati nel 2000 per la diffusione delle attività di ricerca, tali da primeggiare nell’economia globale dell’innovazione e della conoscenza, mostra il permanere di tutti i principali nodi strutturali alla base del ritardo italiano nei confronti dell’Europa in questo settore: scarsi livelli di spesa complessiva per R&S, deficit ancora più ampio nella parte della spesa proveniente dalle imprese, non ottimale rapporto tra la componente pubblica e quella privata della ricerca, bassa presenza di ricercatori nel bacino degli occupati, soprattutto sul versante delle imprese, difficoltà nel consolidare le attività di ricerca in una adeguata cornice internazionale. Gli stessi fattori, non di rado amplificati, connotano all’interno del quadro nazionale il ritardo della situazione umbra, dove in aggiunta si trova un’attività di ricerca quasi esclusivamente sostenuta dall’Università, con modestissimi flussi di interscambio con l’estero nei servizi di R&S, e con un tessuto delle imprese che, pur facendo ampio uso delle agevolazioni finanziarie pubbliche per la ricerca, svolge un ruolo residuale e non appare in grado di agganciarsi – quanto meno in prima battuta, come sta avvenendo invece in altre zone caratterizzate dalla presenza di sistemi diffusi di piccole e medie imprese – al traino offerto dagli strumenti di incentivazione fiscale. Fin qui il riepilogo in estrema sintesi dei dati quantitativi offerti. Lo spaccato descrittivo relativo ai luoghi nei quali in Umbria si concretizza l’attività di ricerca, di natura sia pubblica che privata, rimanda invece la sensazione complessiva di una certa effervescenza, di un mondo certamente frammentario, inevitabilmente composto di piccole realtà, che a volte possono anche faticare a valorizzare le proprie competenze e ad interagire efficacemente con la platea degli utilizzatori finali, ma che in taluni casi danno prova di vitalità, quando non raggiungono addirittura punte di eccellenza nella propria nicchia, anche a livello mondiale.

12 Per un esaustivo approfondimento sulle caratteristiche delle singole aziende e delle filiere operanti in area ternana nel settore dei nuovi materiali si veda AUR, Le frontiere dei materiali innovativi. Ricerca, servizi, tecnologia e produzioni industriali nel futuro della Conca ternana, 2009.

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Analoga vivacità si riscontra nella progettualità delle imprese volta a concretizzare forme agglomerative orientate anche all’attività di R&S, che ha dato vita ad esperienze originali e di grande interesse, anche con modelli multiformi, in settori innovativi come l’automotive, la meccatronica o l’aerospazio, così come non mancano esempi significativi di sviluppo di prodotti altamente innovativi da parte di medie imprese ad alta tecnologia che si pongono al centro di una rete, che si estende dalla dimensione locale a quella internazionale, di rapporti di cooperazione con fornitori qualificati. In questi ultimi casi il rapporto con il mondo della ricerca appare sufficientemente strutturato e spesso in via di ulteriore consolidamento. Anche nella restante parte del variegato mondo delle imprese che si cimentano in progetti di innovazione l’impressione prevalente è quella di una attitudine generalmente piuttosto diffusa ad avvalersi di competenze universitarie, tuttavia il più delle volte si tratta di occasionali rapporti di consulenza con singoli docenti, volti ad affrontare specifici aspetti tecnologici contingenti, piuttosto che collaborazioni strutturate con centri di ricerca per progetti pluriennali, la qual cosa espone il percorso a qualche rischio di fragilità. Verso un sistema competitivo Quanto questo accumulo locale di risorse, esperienze, relazioni è lontano dal configurarsi come un sistema potenzialmente competitivo per il futuro prossimo? Posto che l’assetto di tale sistema è il risultato della stratificazione nel tempo di una serie di soggetti, ognuno portatore delle proprie specificità e della propria rete di relazioni, la configurazione sistemica, nelle sue caratteristiche di specializzazione distintiva, dovrebbe proporsi di verificare la propria sostenibilità, attuale e futura, rispetto al contesto competitivo globale. Se è vero che nel mondo si assiste al passaggio da una competizione statica, tra economie relativamente chiuse che mirano fondamentalmente al contenimento dei costi, ad una competizione sempre più dinamica che punta soprattutto sull’innovazione e sulla ricerca di differenziazioni strategiche (Porter 1998), è importante chiedersi in quale fase del processo di transizione ci si trova attualmente collocati e in quale direzione – oltre che a quale velocità – ci si muove. In particolare, uno dei punti qualificanti di valutazione delle potenzialità competitive di lungo periodo riguarda il posizionamento all’interno delle traiettorie tecnologiche che si vanno affermando come settori chiave, quali possono essere ad esempio le tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni, la farmaceutica e le biotecnologie, i materiali innovativi, l’aerospazio, le nuove fonti di energia, l’ingegneria ambientale, le macchine utensili. Con la consapevolezza che è impossibile, soprattutto per una regione di dimensioni modeste come l’Umbria, ritagliarsi posizioni di avanguardia in tutti i settori emergenti e che inoltre solo raramente e con molta difficoltà si riesce a far attecchire specializzazioni scientifiche e tecnologiche in sistemi che già non presentino preesistenti competenze distintive in aree perlomeno affini.

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Da questo punto di vista, l’Umbria – così come, del resto, l’Europa nel suo complesso – appare impegnata in una sfida relativamente più difficile nei “settori emergenti” e nelle attività in cui le nuove discipline aprono la porta a nuovi prodotti e servizi (come ad esempio le biotecnologie, il mondo dei servizi legati ad internet, alcuni segmenti delle telecomunicazioni), mentre appare meglio attrezzata nei settori delle scienze di base e mediche e, tra i settori a maggiore ricaduta verso il sistema delle imprese, in quelli più maturi ove le interazioni utente-fornitore rivestono una fondamentale importanza (come nella meccanica avanzata o nei materiali innovativi). Questo passaggio ci conduce direttamente alla necessità per le istituzioni di governo di perseguire politiche strategicamente selettive. Il ruolo delle politiche pubbliche Le politiche pubbliche contribuiscono in modo rilevante a disegnare il profilo e lo spessore della capacità innovativa del sistema economico. In particolare, quelle di livello regionale stanno acquisendo in Umbria negli ultimi anni una rilevanza e una caratterizzazione sempre più marcate, sia per l’importanza del volume delle risorse gestite sia per il progressivo affinamento degli orientamenti e per la crescente strutturazione della gamma degli strumenti messi a disposizione (concentrazione su ricerca e innovazione, accento sulle reti d’impresa, stabilità dei pacchetti competitività, distretto tecnologico). Più nello specifico, riguardo ai bandi dedicati alle reti stabili di imprese finalizzate alla ricerca, sarebbe ingenuo credere che uno strumento di incentivazione sia capace da solo di produrre effetti concreti esclusivamente virtuosi (nella fattispecie, i processi di aggregazione e integrazione, orizzontale e verticale, tanto auspicati dalla letteratura economica) in assenza di valutazioni specifiche di convenienza da parte delle imprese. In altre parole, è possibile che esista anche un fenomeno di sopravvalutazione delle capacità di ricerca basato sugli effetti delle politiche agevolative: se il sistema degli incentivi tende a spostare maggiormente il baricentro degli obiettivi suscettibili di tutela verso la R&S e verso l’aggregazione delle imprese, è naturale che il sistema produttivo, per intercettare i finanziamenti pubblici, tenda conseguentemente a proporre un maggior numero di progetti di rete orientati alla ricerca, magari ad esempio anche qualificando occasionalmente come accordo strategico di rete rapporti di fornitura già esistenti o come ricerca industriale attività più routinarie di miglioramento di processo o di prodotto. Ma questo, che è un fenomeno fisiologico, nulla toglie all’importanza dell’effetto di stimolo costituito da un’impalcatura degli strumenti agevolativi che si va progressivamente orientando verso il potenziamento della ricerca e dell’innovazione, anche organizzativa e collaborativa. Una struttura degli incentivi che, in ogni caso, sta avendo il merito di far emergere, anche additandoli come modello, un cospicuo patrimonio di rapporti particolarmente significativi di cooperazione strategica tra imprese, anche basati sullo sfruttamento delle opportunità offerte dalla ricerca e sviluppo.

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La ricerca in tempo di crisi La necessità di non allentare la focalizzazione di risorse e sistemi incentivanti sulla ricerca è un punto da tenere fermo ancora di più nell’attuale fase di crisi economica e finanziaria, in cui si fa pressante la tentazione di dirottare attenzione e risorse su tematiche di brevissimo termine, come la liquidità e il credito, tralasciando gli investimenti con effetti a medio o lungo termine quali la ricerca e l’innovazione, che tuttavia costituiscono le leve fondamentali per farsi trovare preparati alla competizione globale nel momento in cui ripartirà la fase di crescita. La crisi, infatti, da un lato tende ad esercitare un effetto deprimente sugli investimenti privati in ricerca, generalmente stanziati in ragione dei volumi di fatturato che in questa fase sono calanti; dall’altro richiede sforzi aggiuntivi nella messa a punto di nuove tecnologie, ad esempio sul versante del minore impatto energetico ed ambientale, per soddisfare una domanda che si va sempre più orientando verso beni a più elevato livello di sostenibilità. Si rende necessario pertanto compensare la componente pro-ciclica del mercato con una manovra anti-ciclica di aumento della spesa pubblica in ricerca e innovazione. In questo senso, va vista con favore anche l’accentuata concentrazione delle risorse dei Fondi strutturali sulla priorità della ricerca e dell’innovazione. Tenendo presenti tuttavia almeno un paio di avvertenze. La prima è che il rafforzamento delle politiche regionali per la ricerca non deve essere visto come sostitutivo rispetto alle politiche nazionali: in uno scenario competitivo globale in cui si sta ridefinendo la divisione internazionale del lavoro, il ruolo del governo centrale nel fissare gli obiettivi strategici del sistema-Paese e nel mettere a disposizione adeguate risorse per perseguirli in modo coerente, soprattutto sul versante della ricerca di base, non può essere abdicato. La seconda è che le Regioni dovrebbero progressivamente concentrare i propri sforzi spostandosi dalle politiche di capacity building a quelle per la valorizzazione economica della conoscenza: fermo restando che gli investimenti nella costruzione di capacità nel settore della ricerca – vale a dire le politiche relative al capitale umano e alle infrastrutture di ricerca – permangono un fattore indispensabile per rafforzare le condizioni di base dello sviluppo nel medio termine, lo sfruttamento in chiave produttiva delle nuove conoscenze con il rafforzamento dei legami tra imprese e mondo della ricerca, richiede sforzi aggiuntivi, anche da parte dei livelli di governo regionali, di selezione, concentrazione e governo dei processi (DPS 2009). Per concludere, schematicamente Il contributo che la capacità di ricerca può dare allo sviluppo di un territorio dipende essenzialmente dalla sua quantità, dalla sua qualità e dall’ampiezza della sua circolazione. Il problema quantitativo, sicuramente centrale nella nostra regione, attiene certo al volume complessivo degli sforzi dedicati alla ricerca in termini di risorse (umane, finanziarie, tecnologiche) ma anche ad una sua adeguata distribuzione tra gli attori, sia

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pubblici e che privati, che dovrebbe tendere ad un riequilibrio, irrobustendosi soprattutto sul versante delle imprese. La qualità della ricerca – che pure non può essere considerata in modo sganciato dalla quantità, essendo in qualche modo pur sempre funzione anche delle risorse investite – in un’ottica di valorizzazione economica, va valutata non solo in sé, sulla base della sola eccellenza scientifica dei risultati, ma anche sulla base della capacità di collegarsi alle grandi reti internazionali della ricerca e della rilevanza rispetto alle caratteristiche del sistema produttivo all’interno del quale essa può diffondersi tramutandosi in innovazione, nonché della sua capacità di risposta rispetto alla domanda espressa dal mercato. In questo senso, pur all’interno di una specializzazione scientifica relativamente meno focalizzata nelle aree tecnologiche, l’Ateneo perugino appare comunque dotato di alcune punte di eccellenza che interagiscono proficuamente con il tessuto produttivo locale e che costituiscono un piccolo patrimonio di partenza da potenziare e valorizzare ulteriormente. Infine, quantità e qualità della ricerca riescono a dispiegare effetti rilevanti sullo sviluppo di un territorio quanto più i risultati vengono messi in grado di circolare e di diffondersi, e dunque quanto più intensi, solidi ed efficaci sono i legami di relazione tra produttori ed utilizzatori di nuova conoscenza. Da questo punto di vista, il percorso di interazione collaborativa intrapreso da alcuni anni in Umbria tra il mondo della ricerca e il sistema delle imprese, sembra aver già dato alcuni primi risultati in termini di contatti avviati, in quanto sono già numerose le aziende che ricorrono alle competenze di ricerca, soprattutto sul versante accademico, per affrontare problemi tecnologici specifici. L’auspicio è che, in sempre più casi, la gracile pianticella della ricerca riesca a mettere radici più in profondità e ad irrobustirsi, diventando un supporto fondamentale, meno occasionale e più strategico, nei programmi di crescita delle imprese.

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Ricerca e trasferimento della conoscenza, Area per il trasferimento della conoscenza e la valorizzazione dei risultati della ricerca, Perugia.

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APPENDICE - I LUOGHI DELLA RICERCA IN UMBRIA13 Tavola sinottica dei soggetti censiti per settore di pertinenza

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Istituti pubblici nazionali di ricerca CNR-IBAF CNR-IGV CNR-INFM CNR-IRPI CNR-ISAFOM CNR-ISTM CRA-OLI INFN Università degli studi di Perugia - Centri d’eccellenza CEMIN CERB ECNP SMAART - Centri Interuniversitari CIMIS CIPLA CIRIAF CIRPS (1) CRIACIV (1) - Centri di ricerca CRB CRC

13 Le informazioni riferite ai soggetti presentati in questa appendice sono tratte principalmente da internet e da altri testi pubblicati. Alla raccolta delle informazioni ha collaborato Chiara Nappini.

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- Laboratori e centri di servizi Lab. STM Lab. CEM Lab. SERMS Lab. ENERPOL (2) Lab. RITAM (2) Lab. Parassitologia Microb.Mol. Spin off dell’Università degli studi di Perugia Aleb Jihi Srl Bhaskara Srl BioNet Srl DiEs Srl Drive Meccatronica Srl EN4 Srl Esebel Srl His Srl Ius Srl Master Up Srl Mites Srl Neaitos Srl Netvalue Srl NPP Prolabin Tefarm Srl Relevo Srl RF Microtech Srl Serms Srl Siralab Srl Tiss Srl Tree Srl Unilab Srl VIS4 Srl Wis Srl

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Wisepower Srl Digilab Srl (3) Joint Srl (3) Medi@tech Srl (3) MDP Srl (3) Laboratori privati accreditati MIUR Bimal Srl Biotecnologie BT Srl (3A-PTA) CMC Spa Demetra Spa Easy Ict Srl Eco Tech Srl Iride Srl ISRIM Scarl Ponti Engineering Srl Sistematica Spa CSM Spa Reti di imprese orientate alla ricerca Consorzio POMEC Gruppo Angelantoni Gruppo Poligrafico Tiberino Gruppo Spazio High Technology Center Novamont Il Pischiello Polo Aeronautico Umbro

(1) sede amministrativa non presente in Umbria (2) gestito in partnership con ISRIM e CSM (3) società di derivazione accademica, ma non accreditata come spin off

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ISTITUTI PUBBLICI NAZIONALI DI RICERCA CNR-IBAF - Istituto di Biologia agro ambientale e forestale L’Istituto svolge ricerche di base e applicate nello studio delle interazioni tra le specie vegetali e l’ambiente, degli effetti degli interventi antropici sugli equilibri ecologici, dei processi e dei meccanismi biologici ed evolutivi nei vegetali, della produttività delle piante agrarie e forestali. Gli aspetti scientifici di base si raccordano con la sperimentazione di tipo applicativo per contribuire alla risoluzione dei problemi di natura ambientale e produttiva. La sede dell’Istituto è a Porano (TR), dove sono impegnati 13 ricercatori; il complesso della struttura è composto, inoltre, dalle unità di ricerca di Legnaro (PD), di Montelibretti (RM), di Napoli. L’attività di ricerca dell’IBAF viene svolta partecipando a progetti approvati e finanziati dal CNR ed altri enti ed organismi nazionali ed internazionali. Nell’ambito di queste commesse sono sviluppate le seguenti attività di ricerca: fisiologia della produttività agraria e forestale e resistenza a stress ambientali; fitorimedio, biorimedio e mitigazione dei cambiamenti a livello globale e dell’impatto ambientale dei prodotti fitosanitari; ecofisiologia della competizione intra e inter specifica e dinamica di popolazioni in comunità naturali e coltivate; modelli e sistemi colturali polispecifici, agricoli e agroforestali; conservazione genetica di specie vegetali e fungine di interesse agro-forestale: identificazione e gestione della biodiversità genetica in rapporto al cambiamento globale e allo sviluppo sostenibile; dinamica degli scambi biogeochimici naturali all’interfaccia biosfera-atmosfera-oceano. L’Istituto sta rafforzando i rapporti con organismi scientifici e tecnici internazionali quali la FAO (Agenzia dell’ONU per l’agricoltura, le foreste e l’alimentazione) e l’IPGRI (Istituto internazionale per le risorse genetiche vegetali e la biodiversità), per affrontare tematiche scientifiche relative al benessere alimentare e ambientale di vasti territori, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. Altre collaborazioni internazionali vengono sviluppate grazie agli accordi scientifici bilaterali tra il CNR ed istituzioni scientifiche straniere. CNR-IGV - Istituto di Genetica vegetale L’Istituto di Genetica Vegetale (IGV) del Consiglio Nazionale delle Ricerche ha sede principale a Bari e quattro unità territoriali (Portici, Palermo, Firenze e Perugia). La sezione di Perugia dell’IGV nasce nel 1961 presso la Facoltà di Agraria dell’Università degli studi di Perugia come "Centro di Studio per il Miglioramento Genetico delle Piante Foraggere". Nel 1990 il centro viene trasformato in Istituto di Ricerche sul Miglioramento Genetico delle Piante Foraggere, che confluisce nell’IGV nel 2002. L’attività di ricerca ordinaria svolta dall’IGV-PG ha riguardato inizialmente i sistemi di miglioramento genetico tradizionale in leguminose e graminacee foraggere curando anche gli aspetti citologici e citogenetici, mentre nell’ultimo decennio è stata rivolta all’impiego di biotecnologie per il miglioramento genetico di piante foraggere con particolare riguardo alle leguminose. Il personale di ricerca è composto da ricercatori e tecnologi; l’unità di Perugia impiega attualmente 8 risorse. L’attività di ricerca dell’Istituto si articola in otto commesse: ottenimento di nuovi prodotti per la salute, l’alimentazione e l’industria mediante interventi genetici e biotecnologici nelle piante; genomica e proteomica per il miglioramento della produttività e della qualità delle piante; banca del DNA vegetale e sviluppo di una piattaforma per l’analisi di genomi vegetali; gestione e

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valorizzazione delle risorse genetiche vegetali con tecniche innovative; evoluzione e analisi della diversità genetica in piante forestali; miglioramento genetico e valorizzazione delle specie arboree; laboratorio pubblico-privato di genomica per l’innovazione e la valorizzazione della filiera del pomodoro; funzionalità e caratterizzazione genetica di ecosistemi forestali. L’IGV possiede inoltre know-how nel settore della genetica vegetale ed in particolare quello relativo all’isolamento e caratterizzazione di geni vegetali, allo studio della diversità genetica ed alla caratterizzazione delle risorse genetiche vegetali mediante marcatori molecolari, alle tecnologie di trasformazione genetica, colture in vitro ed espressione di geni in sistemi in vitro. Gli obiettivi della ricerca vanno allargandosi anche allo studio di piante per la produzione di sostanze ad uso farmaceutico e medicinale. CNR-INFM - Unità di ricerca di Perugia L’Istituto Nazionale per la Fisica della Materia (INFM), attualmente parte del CNR, svolge ricerche interdisciplinari nel campo delle scienze fisiche della materia e delle loro applicazioni tecnologiche e opera attraverso una rete scientifica costituita dai suoi Centri e Laboratori nazionali e regionali. Più precisamente, studia i fenomeni fondamentali che sono alla base delle proprietà della materia e dei materiali e fondano campi nuovi del sapere, dalle nanobioscienze alle scienze della complessità o dell’informazione quantistica, mettendo in atto progetti di ricerca applicata e industriale nei settori dei materiali, dispositivi e sistemi innovativi per l’elettronica e le telecomunicazioni, della medicina, del controllo ambientale, dei beni culturali, dell’energia e promuovendo il trasferimento di competenze e tecnologie verso il sistema produttivo, anche nell’ambito dei distretti tecnologici regionali. L’INFM, tramite una Convenzione stipulata nel 1996, collabora con il Dipartimento di Fisica della facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali dell’Università degli Studi di Perugia. Le ricerche e le attività scientifiche ed applicative nel campo della Fisica della Materia, che si svolgono presso il Dipartimento, fanno attualmente riferimento al CNISM Consorzio Nazionale Interuniversitario di Scienze Fisiche della Materia e ai centri di ricerca e sviluppo SOFT e S3 del CNR-INFM. Le ricerche attualmente in corso presso il Dipartimento riguardano: forze di interazione e dinamica molecolare da esperimenti con fasci atomici e molecolari; proprietà strutturali e dinamiche di biopolimeri; cavitazione acustica; proprietà dinamiche di liquidi e solidi amorfi; correlazione in liquidi di Fermi; proprietà elastiche ed anelastiche di solidi cristallini; spettroscopia Brillouin da fononi di superficie; magnetismo di superficie e nanostrutture. CNR-IRPI - Istituto per la Protezione idrogeologica dell’Italia centrale L’Istituto di Ricerca per la Protezione Idrogeologica nasce dalla fusione nel CNR di cinque diverse sedi (Perugia – che è la sede principale – Torino, Padova, Cosenza e Bari) in una macro-struttura, con specifiche competenze territoriali. All’interno dell’Istituto sono presenti le competenze necessarie allo studio del dissesto idrogeologico in tutti i suoi aspetti. Sono attive linee di ricerca che riguardano la valutazione delle piene lungo i principali fiumi italiani, la previsione e prevenzione di fenomeni franosi a grande rischio, la vulnerabilità e tutti gli aspetti idrogeologici e idraulici legati ai fenomeni alluvionali. Da anni l’Istituto assicura un servizio di consulenza scientifica per conto del Dipartimento per la Protezione Civile in occasione di eventi alluvionali e frane e i suoi ricercatori rappresentano il nucleo principale del Gruppo Nazionale per la Difesa dalle Catastrofi Idrogeologiche. Il personale di ricerca è coinvolto in progetti nazionali ed internazionali collaborando con centri di ricerca e università italiane e

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straniere, tra cui la Columbia University di New York, il Kings College di Londra, la Katholieke Universiteit di Lovanio, la National Taiwan University di Taipei. Presso la sede di Perugia operano diversi gruppi di ricerca: il Gruppo di Idrologia, che impiega 9 risorse tra ricercatori e personale tecnico, ha esperienza nelle problematiche di gestione delle risorse idriche e di previsione/prevenzione del rischio idrologico/idraulico su medi e grandi bacini idrografici e, oltre a svolgere un’attività di supporto tecnico/scientifico alle amministrazioni nazionali e regionali che si occupano di controllo e gestione del territorio, è inoltre coinvolto in numerosi progetti di ricerca nazionali ed internazionali; il Gruppo di Geotecnica svolge un’attività di ricerca finalizzata alla conoscenza dei fenomeni di instabilità nei pendii, attraverso la sperimentazione, sia in laboratorio che in situ, e l’applicazione di modelli numerici a fenomeni franosi di varia tipologia che si verificano in ambienti geologici e climatici diversi; il Gruppo di Geologia applicata è composto da un team di geologi, ingegneri e fisici interessati allo studio dei fenomeni che interessano il suolo e dei rischi associati. CNR-ISAFOM - Istituto per i Sistemi agricoli e forestali del Mediterraneo L’ISAFOM è stato costituito nel 2001 con l’accorpamento di diversi organi di ricerca, tra cui l’Istituto di Ricerche sull’Olivicoltura (IRO) di Perugia e attraverso l’assorbimento di personale tecnico scientifico proveniente anche dal Centro per la Ricerca dei Fitofarmaci di Perugia. L’obiettivo strategico primario dell’Istituto è l’integrazione di conoscenze agronomiche, ecologiche e tecnologiche e lo sviluppo di strumenti per la gestione sostenibile del territorio mediterraneo. Si occupa dello studio ed analisi dei processi fisici, chimici e biologici che determinano il funzionamento e la dinamica degli ecosistemi agrari e forestali, dello sviluppo di soluzioni tecniche per il miglioramento dei processi produttivi e della qualità totale dei prodotti, dello sviluppo e applicazione di metodi di ricerca avanzati quali modelli numerici di simulazione, sistemi di supporto alle decisioni e telerilevamento. La sezione Olivicoltura di Perugia, comprendente 16 effettivi, si avvale di diverse strutture tecniche: una azienda agricola sperimentale che ospita la collezione varietale (circa 1000 accessioni), semenzali da incrocio (circa 3500) ed impianti sperimentali per la verifica del comportamento delle nuove linee genetiche; alcuni laboratori di biologia, biotecnologie, chimica analitica, chimico (ex fitofarmaci), fisiologia, radioattivo, tecnologico; un mini frantoio e una serra sperimentale. I progetti di ricerca coordinati riguardano: aspetti agronomici inerenti sistemi colturali avanzati e l’utilizzazione dei sottoprodotti della coltura; la qualità dell’olio, in relazione alla matrice genetica ed ambientale; biologia e fisiologia dell’olivo; ricerche sul germoplasma; miglioramento genetico; studi sui sistemi enzimatici dell’olivo, sulla resistenza ai patogeni e nella formazione di molecole responsabili della qualità delle produzioni. CNR-ISTM - Istituto di Scienze e tecnologie molecolari L’Istituto di Scienze e Tecnologie Molecolari (ISTM) è stato istituito nel 2000 dall’accorpamento di sette strutture, tra cui il Centro di studio per il calcolo intensivo in scienze molecolari di Perugia. Attualmente la sede principale si trova a Milano, mentre a Perugia è presente una succursale presso il Dipartimento di Chimica dell’Università degli studi di Perugia. Le competenze scientifiche presenti nell’Istituto coprono un ampio campo delle scienze chimiche: chimica inorganica, chimica organica e industriale e chimica fisica, ciascuna nelle proprie articolazioni (metallorganica, supramolecolare, teorica e computazionale). L’ISTM svolge attività di ricerca, valorizzazione e trasferimento tecnologico su diverse linee: sistemi attivi per catalisi, con la preparazione e caratterizzazione strutturale in situ ed extra situ di

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catalizzatori nanostrutturati su matrice inorganica o polimerica, omogenei, eterogeneizzati ed enzimatici; nano e micromateriali funzionali e macchine molecolari per applicazioni nella generazione di segnali (sistemi elettrocromici, fotocromici, magnetocromici), nell’energia (celle a combustibile, sistemi termici superisolanti) e nell’informazione (sistemi capaci di immagazzinare e processare dati in tempo reale, sistemi fotonici per telecomunicazione, computer molecolari, memorie ottiche); beni culturali, con lo sviluppo di metodologie innovative applicate alla scienza dei materiali di interesse archeologico ed artistico e lo studio di problematiche connesse al restauro; modellistica molecolare e nanosistemi organizzati, con la progettazione e l’ottimizzazione di nanodevices per una varietà di applicazioni che spaziano dall’elettronica alla catalisi, allo sviluppo di nuovi materiali e biomateriali; sistemi molecolari funzionali, che studia l’interazione di molecole organiche funzionali con sistemi complessi e bio-macromolecole e la sintesi di nuove molecole funzionali. CRA-OLI - Centro di ricerca per l’Olivicoltura e l’industria olearia Il Centro di Ricerca per l’Olivicoltura e l’Industria Olearia (CRA-OLI) è uno dei 15 Centri di Ricerca del Consiglio per la Ricerca e la Sperimentazione in Agricoltura (CRA), Ente pubblico di ricerca e sperimentazione con competenza scientifica generale nel settore agricolo, agroindustriale, ittico e forestale, posto sotto la vigilanza del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali. In Umbria ha una sede distaccata localizzata a Spoleto, che opera in contatto con le due sedi scientifiche a Rende (CS) e Pescara. Si dedica alla biologia, alla genetica, al miglioramento genetico e alla selezione varietale dell’olivo. Collabora con il Centro di ricerca per la genomica e la post-genomica animale e vegetale per l’identificazione e la caratterizzazione di geni utili e per lo sviluppo di metodologie biomolecolari di supporto al miglioramento genetico. Studia le tecniche di coltivazione e di difesa della specie con particolare riferimento alle tecniche di produzione integrata e biologica. Sviluppa attività di ricerca relative alla raccolta, conservazione e relativa chimica del frutto sia per la trasformazione in olio che per il consumo fresco. Si occupa della caratterizzazione delle cultivar locali e delle relative produzioni in un ottica di valorizzazione del binomio territorio-prodotto. Sviluppa le attività scientifiche relative all’elaiotecnica, alle tecniche per la conservazione dell’olio e per la tracciabilità delle produzioni. Studia i problemi legati allo smaltimento e utilizzazione dei reflui dell’industria olearia. Il Centro dispone di competenze scientifiche interdisciplinari annoverando ricercatori con lauree in Chimica, Scienze Agrarie, Scienze Biologiche e tecnici con esperienza delle problematiche della filiera olivicolo-olearia. Nei campi collezione del germoplasma olivicolo del Centro presso Spoleto, Mirto Crosia (CS) e Città S. Angelo (PE) sono presenti oltre 600 varietà di olivo e numerosi cloni selezionati nel corso degli anni in varie regioni italiane. INFN - Unità di ricerca di Perugia L’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), è l’istituto che promuove, coordina ed effettua la ricerca scientifica nel campo della fisica subnucleare, nucleare e astro particellare. Promuove il trasferimento delle competenze, delle metodologie e delle tecniche strumentali sviluppate nell’ambito della propria attività verso campi di ricerca diversi quali la medicina, i beni culturali e l’ambiente. È presente in 16 regioni – tra cui l’Umbria, con la sezione di Perugia presso il Dipartimento di Fisica dell’Università degli Studi di Perugia – e coinvolge oltre 5000 ricercatori (di cui 2000 propri e 3000 universitari associati).

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L’Unità di ricerca di Perugia, all’interno del Dipartimento di Fisica della Facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali dell’Università degli Studi di Perugia, comprende quattro gruppi di lavoro che si occupano di ricerca sperimentale e un gruppo che svolge ricerca teorica. Ogni gruppo ha in attivo l’esecuzione di esperimenti, tra i quali si segnalano in particolare: l’esperimento CMS (Compact Muon Solenoid, che è uno dei 4 rivelatori di particelle funzionanti all’acceleratore LHC costruito presso il CERN di Ginevra), nel quale lavorano oltre 60 persone nella costruzione di componenti opto-elettronici, con un finanziamento totale di 6 milioni di euro provenienti dall’INFN per l’acquisto di attrezzature e l’effettuazione di missioni in Italia e all’estero; l’esperimento LISA, che prevede il lancio nel 2011 di tre satelliti destinati a ruotare attorno al Sole e attualmente impegna 6 ricercatori; il progetto GRID- INFN e ICFA “Silicon Detectors Group”. UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PERUGIA Centri di eccellenza CEMIN - Centro di eccellenza Materiali Innovativi Nanostrutturati per applicazioni chimiche fisiche e biomediche L’obiettivo principale del CEMIN, attivo dal 2004 presso il Dipartimento di Chimica, è lo studio e l’ottenimento di nuove nanostrutture anfifile e matrici solide lamellari, in grado di svolgere funzioni caratteristiche dei processi di riconoscimento molecolare e macromolecolare, simili a quelle che sono coinvolte nei sistemi biologici (interazioni idrofobiche, interazioni ioniche, riconoscimento chirale e stacking fra basi nucleiche) e a quelle che presiedono alle interazioni fra agenti complessanti chirali e i loro substrati, e comunque alle interfasi liquido/liquido (emulsioni, microemulsioni, sistemi micellari e vescicolari). Il Centro opera anche per il trasferimento delle conoscenze acquisite e per la realizzazione di nuovi materiali, oltre a formare giovani ricercatori utilizzando borse di ricerca e di dottorato ed organizzando stage presso industrie. Vi afferiscono circa 70 unità di personale tra docenti, ricercatori, dottorandi e tecnici, provenienti dall’area chimica, fisica, biologica, biomedica e farmaceutica. Le linee di ricerca del CEMIN riguardano: sintesi e caratterizzazione strutturale di sistemi anfifilici e solido-lamellari nanostrutturati; stabilizzazione e attivazione enzimatica in sistemi anfifilici e in solidi lamellari; sintesi in sistemi nanostrutturati anfifilici e in solidi lamellari; nanoparticelle in sistemi autoaggregati; sintesi in acqua come matrice supramolecolare di reazioni organiche; caratterizzazione fotofisica e fotochimica ed applicazioni fluorofori in sistemi nanostrutturati; applicazioni biomediche di sistemi ibridi nanostrutturati e di materiali solido-lamellari; veicolazione di piccoli peptidi e di farmaci; trasfezione del DNA; sviluppo di tecnologie per lo stoccaggio e il trasporto di gas di importanza strategica (metano, idrogeno, anidride carbonica). Le interazioni con il mondo produttivo rappresentano un punto nodale per il Centro, che punta a coinvolgere le PMI dei settori interessati, ma anche le medio-grandi imprese, a contribuire alla realizzazione dei progetti di ricerca. Sono attive collaborazioni con ricercatori dell’Università dell’Aquila, del Centro CNR Meccanismi di Reazione di Roma, dell’ETH, Politecnico di Zurigo, dell’Università di Bordeaux e con imprese tra cui la Sigma Tau Farmaceutici Pomezia e la Nuvera Fuel Cell operante nel settore delle celle a combustibile.

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CERB - Centro di eccellenza per la ricerca sulla Birra Il CERB, nato nel 2003 da un progetto congiunto tra il mondo universitario e il sistema agroindustriale (nello specifico con l’Associazione degli Industriali della Birra e del Malto, che riunisce tutte le aziende produttrici italiane), si propone di effettuare, oltre alle attività formative, ricerche e sperimentazioni nel settore agroalimentare, con particolare riferimento alla birra e sue materie prime, e valutazioni sulla qualità della birra tramite analisi chimiche e biologiche (anche su ingredienti, mosti, ecc.), ponendosi come “luogo d’incontro” privilegiato e finalizzato alla ricerca nel campo della produzione, dello sviluppo e della certificazione qualitativa della birra, per la tutela del consumatore e della qualità del prodotto, ma anche come “territorio di scambio” in cui la filiera agroalimentare possa favorire la formazione specifica degli studenti, futuri tecnici dell’industria della birra. Il Centro è localizzato all’interno della Facoltà di Agraria e vi operano attualmente 7 addetti alla struttura. L’attività di ricerca del CERB è finalizzata alla consulenza tecnico-scientifica connessa alle analisi di laboratorio, alla sicurezza d’uso e alla salubrità dei prodotti, per il settore della birra (innovazione tecnologica e biotecnologia) e per lo sviluppo delle conoscenze qualitative e quantitative degli aspetti chimici, fisici, biologici, nutrizionali, dietetici, clinici e medici, anche attraverso la partecipazione a progetti di ricerca nazionali ed europei. Il Centro si occupa anche di progettazione e sviluppo di macchine, apparecchiature e processi originali ed innovativi e di miglioramento dei processi tecnologici degli impianti industriali. Svolge infine analisi chimiche e biologiche su materie prime, semitrasformati, prodotto finito nel settore birra e su altri prodotti alimentari (vino, olio, pane, pasta, prodotti di origine animale ecc..), attraverso un laboratorio analitico accreditato da parte del SINAL ai sensi della UNI EN ISO/IEC 17025. ECNP - Centro europeo per i Polimeri nanostrutturati L’ECNP nasce nel 2006 come risultato delle attività di integrazione internazionale degli undici partner europei della rete d’eccellenza NANOFUN-POLY, coordinati dall’INSTM, Consorzio interuniversitario per la Scienza e tecnologia dei materiali, costituito da più di 50 università italiane, del quale l’Università di Perugia è membro fondatore. Istituito come società consortile, il Centro ha come obiettivi principali il coordinamento di attività di ricerca, formazione e trasferimento tecnologico in collaborazione con gli attori industriali ed accademici locali, nazionali ed europei, nel settore specifico dei materiali polimerici nanostrutturati, di cui si propone di diventare un attore rilevante all’interno dello Spazio europeo della ricerca. È strutturato in cinque aree di eccellenza, indirizzate attraverso la progettazione e l’esecuzione di progetti di ricerca specifici: Chimica dei polimeri, Processi di trasformazione dei polimeri, Proprietà delle nanostrutture polimeriche, Applicazioni dei polimeri nanostrutturati e dei nanocompositi, Impatto ambientale e analisi di ciclo di vita dei materiali polimerici. L’ENCP è affiancato da un consiglio industriale, formato da associazioni imprenditoriali e di ricerca, produttori di materiali, trasformatori, utilizzatori finali, sviluppatori di tecnologia, per far in modo che le innovazioni scientifiche e tecnologiche siano in linea con le esigenze della ricerca industriale. Inoltre, il Centro promuove attività di alta formazione attraverso la collaborazione all’organizzazione del Master europeo sulle Nanotecnologie dei polimeri ed il finanziamento del programma di dottorato di ricerche sulle Nanotecnologie dei materiali istituito dall’Università di Perugia. A Terni, il Centro si integra con il Laboratorio di Scienza e tecnologia dei materiali del Polo scientifico e didattico di Terni dell’Università di Perugia.

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SMAART - Centro di eccellenza su Tecnologie scientifiche innovative applicate alla ricerca archeologica e storico-artistica Nel Centro convergono sinergicamente alcuni gruppi, appartenenti a cinque diversi Dipartimenti dell’Università di Perugia e ad alcuni Laboratori del Consorzio Interuniversitario Nazionale per la Scienza e Tecnologia dei Materiali (INSTM), che operano nel campo delle discipline storico-artistiche, come l’Archeologia e la Storia dell’Arte, e delle scienze fisiche ed informatiche applicate allo studio dei materiali e dell’ambiente, come la Chimica-Fisica, la Biologia, la Mineralogia, la Petrografia, l’Informatica e l’Ingegneria Civile ed Ambientale. Le ricerche riguardano studi archeologici integrati da indagini sui materiali costitutivi dei reperti di scavo, finalizzati alla loro classificazione, provenienza e datazione, nonché alla loro conservazione. Altre ricerche hanno riguardato studi storico-artistici integrati da indagini scientifiche finalizzate alla identificazione delle tecniche di esecuzione dell’opera e di eventuali modificazioni o alterazioni dell’insieme originale. L’attività del Centro coniuga il momento fondamentale della ricerca con quello dell’alta formazione e dello sviluppo di tecnologie innovative. Si pone l’obiettivo di sviluppare la cooperazione fra scienze umane e scienze fisiche, offrendo alle strutture di ricerca ed accademiche nazionali ed europee, nonché agli organi preposti alla tutela e conservazione del patrimonio culturale, un insieme integrato di risorse e competenze sia storiche che tecnico-scientifiche di altissimo livello. Svolge un ruolo di alta formazione attraverso la ricerca interdisciplinare, per creare nuove figure professionali di operatori-ricercatori nell’ambito della tutela e valorizzazione del patrimonio culturale nazionale ed europeo, conoscendone anche i materiali e le loro proprietà. Intende inoltre contribuire allo sviluppo di attività produttive nel campo della conservazione e restauro di beni storico-artistici, sviluppando nuove metodologie di indagine e strumentazioni portatili per indagini in situ, con possibili ricadute di attività imprenditoriali di spin-off. Numerose le collaborazioni internazionali, tra le quali: Massachusetts Institute of Technology (Cambridge, USA), Royal Holloway and Bedford College (Londra, UK), University College of Dublin (Dublin, Irlanda), Vrije University (Amsterdam, Olanda). Centri interuniversitari CIMIS - Consorzio interuniversitario Macchine, impianti e sistemi per l’energia, l’industria e l’ambiente Il Consorzio interuniversitario “Macchine impianti e sistemi per l’energia, l’industria e l’ambiente”, promosso dalle Università di Perugia, di Bologna e di Ferrara, è stato costituito nel 2004 ed ha lo scopo di sviluppare la ricerca scientifica e di coordinare la partecipazione delle Università consorziate nei campi dell’Ingegneria delle macchine, dei Sistemi per l’energia e l’ambiente e degli Impianti industriali. La sede amministrativa è collocata presso il Dipartimento di Ingegneria Industriale dell’Università degli Studi di Perugia. Il Consorzio promuove lo sviluppo della collaborazione scientifica tra le Università consorziate ed altri organismi pubblici e privati di ricerca, nazionali ed internazionali, mettendo a disposizione attrezzature e laboratori per l’attività dei dottorati di ricerca e per la preparazione di esperti ricercatori e promuovendo, attraverso la concessione di borse di studio e di ricerca, la preparazione di esperti, sia di base sia degli sviluppi tecnologici e delle applicazioni delle ricerche. Ha l’obiettivo di avviare il trasferimento dei risultati della ricerca realizzata in questo

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campo a livello nazionale ed internazionale verso l’ambiente applicativo e industriale, anche curando, in collaborazione con il mondo delle imprese, la realizzazione di strumentazione tecnologicamente avanzata e di processi produttivi innovativi. Il Consorzio è tra gli enti che supportano il Master internazionale in Innovazione e gestione d’azienda, promosso dall’Università degli studi di Perugia. Figura inoltre nell’albo dei Laboratori accreditati dal Miur operanti in Umbria. CIPLA - Centro interuniversitario per l’Ambiente Istituito nel 1987, attualmente il Centro ha sede presso l’Università di Perugia ed è funzionalmente diviso in 7 aree di ricerca: giuridica, economico-sociologica, scienze naturali, igienistico-sanitaria, ingegneristico-architettonica, storico-archeologica, chimico-fisica. Il CIPLA si propone di: promuovere, sostenere ed organizzare ricerche e studi di carattere interdisciplinare in ordine alle problematiche connesse alla tutela dell’ambiente in relazione alla dinamica socio-economica; stimolare forme di collaborazione scientifica interdisciplinare e di divulgazione, sia a livello nazionale che internazionale, al fine di dotare della necessaria esperienza scientifica e professionale coloro che verranno chiamati a svolgere compiti connessi alla rinnovata forma di gestione ambientale; promuovere iniziative didattiche interdisciplinari per la formazione di operatori ambientali ai vari livelli di responsabilità; organizzare convegni, incontri di studio, seminari per valorizzare e diffondere le tematiche ambientali. Sono in corso le seguenti attività di ricerca: Ricerche archeologiche sulle aree di Fregellae e Fabrateria Nova (Frosinone) finalizzate alla realizzazione di un Parco Archeologico; Ricerca finalizzata alla gestione delle zone umide, riguardante l’evaporazione e le capacità disinquinanti del canneto sulle acque poco profonde del lago Trasimeno; Progetto "SUWMIRA" (LIFE – Provincia di Perugia) – Sustainable Waste Management in Rural Areas; Realizzazione del Progetto ADAPT "Sostegno alla Pmi nell’individuazione-ottimizzazione delle attività economiche agro-alimentari e zootecniche di tipo biologico". Presso il Centro è stato inoltre istituito il Corso di Perfezionamento in "Economia della gestione di risorse ambientali”. CIRIAF - Centro Interuniversitario di Ricerca sull’inquinamento di Agenti Fisici Il Centro interuniversitario di ricerca sull’inquinamento da agenti fisici, a cui afferiscono oltre 90 docenti universitari di 14 diversi Atenei, coordina, promuove e realizza attività di ricerca interdisciplinare nei temi dell’inquinamento ambientale, dello sviluppo sostenibile, delle fonti energetiche rinnovabili e alternative, degli effetti sanitari da esposizione ad agenti fisici. Il CIRIAF opera mediante una struttura organizzativa formata da più sedi amministrative dislocate territorialmente. La sede amministrativa di Perugia è collocata presso la Facoltà di Ingegneria, Dipartimento di Ingegneria industriale, Laboratorio di acustica dell’Università degli studi di Perugia. Svolge attività di ricerca all’interno dei seguenti ambiti: Tossicologia ed epidemiologia professionale e ambientale – Dipartimento di Medicina clinica e sperimentale; Inquinamento sistemi di trasporto (aree di ricerca scientifica: Mezzi di trasporto ad inquinamento zero; Diminuzione dell’inquinamento atmosferico di veicoli); Inquinamento sistemi energetici; Inquinamento elettromagnetico ELF e RF; Fisica tecnica e inquinamento ambientale (aree di ricerca scientifica: Acustica; Controlli ambientali; Termotecnica e termodinamica); Modelli di simulazione ambientale – Facoltà di Ingegneria; Effetti medici e oncologici; Effetti ematologici e immunologici; Farmacologia, tossicologia e chemioterapia; Effetti gerontologici e geriatrici – Dipartimento di Medicina clinica e sperimentale; Sicurezza sanitaria per la tutela del

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consumatore – Dipartimento di Scienze biopatologiche veterinarie; Effetti radiobiologici – Facoltà di Medicina; Inquinamento ambientale ed effetti sull’apparato digerente a livello dell’alimentazione; Microbiologia, biochimica e sicurezza Facoltà di Medicina e chirurgia. CIRPS - Centro interuniversitario di ricerca per lo Sviluppo sostenibile Fanno parte del CIRPS, costituito nel 1988, quali membri ordinari, 300 docenti, ricercatori e tecnici appartenenti ad undici atenei italiani aderenti alla struttura, oltre ad altri membri associati. Il CIRPS coordina e partecipa a reti di eccellenza, progetti di ricerca e attività di sviluppo locale a livello internazionale, al fine di promuovere lo sviluppo sostenibile nei Paesi in via di sviluppo, in quelli di nuova o quasi nuova industrializzazione, nei paesi emergenti, anche in collaborazione con organismi internazionali. Più specificamente, assiste le Istituzioni nella scelta e nell’analisi di fattibilità di programmi di cooperazione, promuove iniziative di divulgazione scientifica e di collaborazione interdisciplinare, promuove e potenzia il coordinamento organico degli operatori universitari con il mondo non accademico della cooperazione allo sviluppo, promuove, coordina ed esegue direttamente attività di ricerca e di collaborazione interdisciplinare a livello locale, regionale, europeo ed internazionale nelle realtà che si occupano di sostenibilità e di Scienza della Sostenibilità e di cooperazione allo sviluppo. La sede di Perugia del CIRPS ospita la sezione tematica Agroalimentare, che si occupa del coordinamento delle attività di collaborazione con le industrie alimentari e le istituzioni di ricerca locali, nazionali ed internazionali per studiare innovazioni di prodotto, processo, tendenze socio-economiche connesse alla produzione primaria, alla trasformazione ed alla commercializzazione dei prodotti alimentari. Tematiche generali di rilevante interesse sono quelle connesse con lo studio e la messa a punto di metodologie innovative per la sicurezza e la qualità degli alimenti. I principali settori di ricerca sono: cereali, oli e grassi, lattiero-caseari; bevande fermentate (vino, birra); valorizzazione prodotti tipici (Dop, Doc, Docg, Igt); sviluppo mild technologies (SC-CO2, liofilizzazione); set up metodologie controllo qualità (analisi chimico-fisiche, strumentali, sistemi di qualità). Tra le attività di sviluppo e dimostrazione tecnologica si citano: prove di produzione di concentrati proteici mediante impianto pilota di estrazione, precipitazione, frazionamento e purificazione di matrici fogliari; prove di estrazione di lipidi mediante impianto pilota per il frazionamento mediante anidride carbonica supercritica; prove di elaborazione di birre presso gli impianti pilota del Centro di eccellenza per la ricerca sulla Birra. CRIACIV - Centro interuniversitario di ricerca in Aerodinamica delle costruzioni ed ingegneria del vento Il CRIACIV, istituito nel 1992 presso il Dipartimento di Ingegneria civile dell’Università di Firenze, ha come scopo istituzionale lo svolgimento di attività di ricerca nel settore degli effetti del vento sul costruito e sull’ambiente. L’Università di Perugia vi ha aderito dal 1996. Il Centro si avvale di attrezzature tecnologicamente all’avanguardia, tra cui l’unico Laboratorio di Ingegneria del Vento esistente in Italia, e i campi di ricerca abbracciano le più svariate problematiche inerenti l’ingegneria del vento. Il Centro si propone di promuovere ricerche sulla fenomenologia eolica (modellazione, rilevazione, mappatura territoriale), sulle azioni prodotte da tali fenomeni sulle costruzioni, sugli effetti causati da tali azioni, sulla loro riduzione e su altri problemi connessi. I campi di ricerca spaziano dalla valutazione delle velocità critiche su modelli sezione di impalcati da ponte, alla valutazione delle concentrazioni di inquinante emesse da una sorgente.

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Centri di ricerca CRB - Centro di ricerca sulle Biomasse Il CRB, istituito dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio presso l’Università di Perugia, è il Centro di riferimento Italiano per la ricerca sui biocarburanti e le biomasse ad uso energetico. Nella certificazione della filiera energetica delle biomasse, il Centro è il soggetto di cui si può avvalere il Gestore della Rete ai fini delle verifiche finalizzate al rilascio dei certificati verdi e della garanzia d’origine per la produzione di energia elettrica da impianti, ivi incluse le centrali ibride, alimentate da biomasse. Il Centro si propone di rendere organiche ed incisive le azioni già intraprese a livello nazionale e regionale in tema di impiego delle Biomasse a fini energetici, sviluppando progetti di ricerca e sperimentazione di particolare interesse, per mezzo di laboratori e campi sperimentali, realizzando l’Osservatorio Nazionale sulle Biomasse per Energia, dando impulso ad azioni di normazione, standardizzazione ed informazione mediante certificazione energetica e ambientale di bio-combustibili nei processi di produzione, trasformazione e conversione energetica. Le attività del Centro possono essere così sintetizzate: promuovere ricerca e sperimentazione, al fine di perseguire l’ottimizzazione dei processi di produzione, trasformazione e conversione energetica delle biomasse in termini energetici, economici e ambientali, in vista del perseguimento di uno sviluppo sostenibile nel campo della produzione di energia; promuovere la certificazione e l’etichettatura energetica e ambientale dei prodotti e dei processi connessi con la produzione di energia da biomasse, in modo da caratterizzare e standardizzare prodotti e processi attribuendo ad essi un’attestazione di qualità; costituire un supporto per la legislazione energetica/ambientale, per la definizione di agevolazioni, procedure autorizzative, limiti di legge, concessioni. Per analizzare le proprietà chimico-fisiche ed energetiche delle biomasse e dei biocombustibili utilizza un laboratorio dotato di strumentazioni per l’effettuazione delle seguenti analisi: proximate analysis; ultimate analysis; misura del potere calorifico superiore e calcolo del potere calorifico inferiore; durabilità del pellet. Attualmente il Centro è impegnato nell’esecuzione dei progetti di ricerca nazionali ed internazionali. CRC - Centro di ricerca sul Clima e i cambiamenti climatici I principali obiettivi della struttura di ricerca sono quelli di coordinare, promuovere e svolgere ricerche, sia di base che applicate, nel settore del clima e dei cambiamenti climatici. Esso, inoltre, punta a favorire lo scambio di informazioni e attrezzature fra le strutture di ricerca appartenenti al Centro, stimolare iniziative di partecipazione a programmi e progetti di ricerca nazionali ed internazionali. I gruppi di ricerca coinvolti afferiscono al CIRIAF, al CRB e ai Dipartimenti di Biologia cellulare ed ambientale, di Ingegneria civile ed ambientale, di Biologia vegetale e Biotecnologie agroambientali e zootecniche, ed operano in un’ottica multidisciplinare. Il centro ha sede presso le strutture universitarie della Rocca San Apollinare, in località Spina di Marsciano (PG). Le attività di ricerca si concentrano: sugli effetti delle variabili meteorologiche sull’accrescimento di colture energetiche dedicate agli effetti dei parametri meteorologici sull’inquinamento atmosferico e la dispersione degli inquinanti; sullo studio e la modellazione dei processi climatici e fisici del sistema atmosferico e oceanografico terrestre;

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sugli effetti dei cambiamenti climatici sui criteri di gestione delle risorse idriche, su quelli delle opere idrauliche e sulle problematiche connesse con la difesa del suolo e le dinamiche del territorio. Laboratori e centri di servizio Laboratorio CEM Caratterizzazione Elettromagnetica Materiali Svolge attività di ricerca, qualifica e consulenza nel campo della compatibilità elettromagnetica, della sicurezza elettrica a bassa tensione, della diagnostica elettromagnetica non invasiva, della isteresi magnetica e della caratterizzazione dei materiali magnetici. Inoltre, nel laboratorio vengono svolte attività di qualifica e consulenza conto terzi nel campo della compatibilità elettromagnetica e della sicurezza elettrica a bassa tensione per apparati utilizzati in ambiente domestico, commerciale, industriale, medico, militare ed aerospaziale. È ubicato presso la Facoltà di Ingegneria nel Polo Scientifico e Didattico di Terni. Ha ottenuto la certificazione UNI EN ISO 9001:2000 Ha collaborato in progetti di ricerca con svariati soggetti, tra cui: Ministero dell’Ambiente, INFN, SELEX Sistemi Integrati, MBDA- missile system, Umbra Group, OMA Spa. Laboratorio ENERPOL Energy from Residual Permanent Observatory and Laboratory Il laboratorio, gestito congiuntamente a Terni dal Dipartimento di Ingegneria industriale e da ISRIM, presso I cui locali è ospitato, comprende un impianto pilota di pirolisi destinato a scopi sperimentali. L’impianto, costituito da una fornace (pyrolizer) e da un turbogeneratore a gas per la combustione diretta del pyrogas, è controllato completamente da un sistema automatizzato di supervisione e controllo dati a logica programmabile e può essere alimentato da biomasse o altri rifiuti non pericolosi. Laboratorio RITAM Ricerche e tecnologie per sistemi antisismici, strutture e materiali RITAM, nato da un accordo tra ISRIM e Facoltà di Ingegneria dell’Università di Perugia, e che vede attualmente anche la partecipazione del Centro Sviluppo Materiali, svolge attività di caratterizzazione su prodotti da costruzione insieme a ricerche su tecniche di consolidamento e rinforzo antisismici. Svolge attività di supporto alla progettazione antisismica di nuova concezione e agli interventi di ripristino di strutture danneggiate, essendo in grado di eseguire prove di caratterizzazione, distruttive e non distruttive, di monitoraggio in situ e in laboratorio. Dispone di attrezzature e di ampi spazi attrezzati per l’esecuzione di prove sia su prodotti da costruzione che su elementi strutturali ( travi, pannelli murari, volte etc.) fino a scala reale, rendendo possibile, inoltre, l’esecuzione di analisi dinamiche, al fine di classificare il comportamento antisismico della struttura, sia sperimentalmente, tramite vibrodine e sensori per l’acquisizione dei dati (accelerometri), sia in via teorica, mediante modellazioni numeriche. È specializzato nella certificazione di prodotti per ponteggi fissi secondo le normative ministeriali. Svolge, inoltre, attività di ricerca e sviluppo per prodotti innovativi di aziende del settore costruzioni e sulle tecniche di consolidamento di elementi strutturali mediante uso di materiali compositi a matrice polimerica. Laboratorio SERMS per lo Studio degli effetti delle Radiazioni sui Materiali Speciali Nato nel 2004 nell’ambito del Corso di Laurea in Ingegneria dei Materiali a Terni, è dedicato allo sviluppo di strumentazione scientifica per applicazioni spaziali, in stretta collaborazione

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con le attività della Sezione dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, presso il Dipartimento di Fisica di Perugia. Il SERMS si rivolge alle aziende di qualsiasi dimensione e settore produttivo proponendo un servizio integrato che copre una vasta gamma di prove eseguibili su strutture e materiali con differenti destinazioni, dal settore aeronautico e spaziale, a quello automobilistico e navale, a quello impiantistico e industriale. Le attrezzature disponibili permettono di testare, qualificare e certificare materiali e strumentazione elettronica che debba essere esposta alle condizioni di vuoto, stress meccanici, radiazione e temperature estreme proprie delle applicazioni spaziali. In particolare, presso il laboratorio si possono eseguire prove di umidità e di temperatura, prove di termo-vuoto, lavorazione in camera-pulita, misure di allineamento 3D. Il gruppo di ricerca possiede anche competenze nella progettazione e nello sviluppo di tipo integrato che può offrire, oltre ad un’operazione di controllo e test, un successivo processo di risoluzione di problemi, eventualmente mediante lo sviluppo di materiali adeguati. Laboratorio STM di Scienza e Tecnologia dei Materiali Il Laboratorio STM opera dal 1995 presso la sede di Terni del Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale della Facoltà di Ingegneria e si occupa di sviluppare la conoscenza dei materiali avanzati e tradizionali, le tecnologie relative alla loro progettazione e produzione e le loro applicazioni ingegneristiche. I settori in cui il gruppo è principalmente attivo (con altrettanti laboratori interni) sono: processi di produzione e caratterizzazione di materiali polimerici, compositi e nanocompositi per diversi settori industriali, tra cui automotive, aerospazio, energia, sensoristica, biomateriali, navale; problemi di adesione e di interfaccia polimero-metallo; deposizione e caratterizzazione di film sottili e nanostrutturati a base carbonio (diamante e diamond like) e nanotubi di carbonio; nuovi materiali ibridi funzionali a base di nanotubi di carbonio e polimeri per applicazioni fotovoltaiche; progettazione degli elementi finiti di materiali, processi e strutture; impatto ambientale e tecnologie di riciclo dei materiali; analisi del ciclo di vita (LCA); trasferimento tecnologico nel settore delle tecnologie dei materiali. Queste tematiche sono oggetto di numerosi progetti che si concentrano attualmente nelle attività promosse all’interno del Distretto Tecnologico dell’Umbria. Il laboratorio STM si contraddistingue anche per un’offerta didattica di eccellenza e per la partecipazione a network di grande prestigio: infatti, all’interno del gruppo, sono attivi due master europei di secondo livello (scienza e tecnologie dei materiali e nanotecnologie dei materiali polimerici) ed un dottorato internazionale di ricerca in nanotecnologie dei materiali. Il Laboratorio STM collabora con numerose aziende umbre e coordina diversi progetti nazionali ed europei di ricerca nel settore dei materiali compositi e nanocompositi sviluppati in collaborazione con numerose istituzioni universitarie ed aziende internazionali. Il laboratorio STM può contare su un organico di 12 ricercatori, 12 dottorandi di ricerca, 6 collaboratori e 2 visiting scientists e ha prodotto recentemente gli spin off accademici MDP Srl dedicato alla progettazione e lo sviluppo di nuove tecnologie e MITES Srl che sfrutta un brevetto europeo per la tracciabilità delle materie plastiche e degli imballaggi. Laboratorio di Parassitologia e microbiologia molecolare È uno dei 21 laboratori interdisciplinari pubblico-privati finanziati dal Ministero della ricerca attraverso il Fondo per gli investimenti della ricerca di base, nel settore delle micro e nanotecnologie per diagnostica avanzata e nuove procedure terapeutiche. L’iniziativa mira a sviluppare una piattaforma integrata per l’uso di micro-array immunologici che contengano un

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ampio numero di antigeni di agenti microbici principalmente diffusi in Europa utilizzando antigeni proteici e sacca ridici. L’obiettivo del progetto di ricerca è quello di introdurre nuove prospettive nell’utilizzazione e nell’applicabilità della diagnosi microbiologica multiparametrica, in modo da soddisfare nel prossimo futuro le esigenze di costi, tempi e gestione del sistema sanitario nazionale. CUME - Centro universitario di microscopia elettronica Il Centro Universitario di Microscopia Elettronica, istituito nel 1970 ed ubicato presso la Facoltà di Medicina veterinaria, fornisce supporto sia agli operatori dell’Ateneo che alle strutture ed enti di ricerca extrauniversitari, per lo svolgimento di ricerche nel campo della microscopia elettronica. A tale scopo dispone di due microscopi a trasmissione (TEM, Philips EM 400 ed EM 208, recentemente aggiornato con un apparato di digitalizzazione delle immagini ultrastrutturali composto da telecamera e software di elaborazione), un microscopio a scansione (SEM, Philips XL 30), un microscopio confocale a scansione laser ubicato presso il Laboratorio di Analisi di immagine della Facoltà di Medicina e chirurgia. Presso il CUME è altresì presente un laboratorio di preparazione campioni equipaggiato con ultramicrotomo, metallizzatore, critical point dryer, termostato e cappa. SPIN OFF DELL’UNIVERSITÀ DI PERUGIA Aleb Jihi Srl Dipartimento di provenienza: Scienze Biopatologiche e Igiene delle Produzioni Animali e Alimentari della Facoltà di Medicina Veterinaria Oggetto sociale: Società di servizi e consulenze per la tutela del benessere “uomo-animale”. Anno di costituzione: 2009 Bhaskara Srl Dipartimento di provenienza: Matematica e Informatica Oggetto sociale: Realizzazione e commercializzazione di Laboratori Matematici in valigia, costituita da exhibit matematici, e attività di formazione insegnanti su tali materiali. Realizzazione di materiali didattici, giochi, gadget, oggetti di design, produzioni editoriali e video di contenuto matematico. Anno di costituzione: 2008 BioNet Srl Dipartimento di provenienza: Ingegneria Industriale Oggetto sociale: Si occupa di progettazione e produzione di valorizzatori termici per piccole comunità, attraverso lo sviluppo, la realizzazione e la commercializzazione di impianti, o parti di impianti, per la conversione energetica della biomassa e dei rifiuti su piccola scala, utilizzando tecnologie innovative quali la pirolisi a tamburo rotante o la combustione e recupero termico in cicli ORC (Organic Rankine Cycle). Anno di costituzione: 2005/06

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DiEs Srl Dipartimento di provenienza: Ingegneria Elettronica e dell’Informazione Oggetto sociale: L’attività prevalente è fondata su progetti di ricerca e sviluppo, in particolare legata ad applicazione di tecnologia RFID. L’azienda progetta e realizza per conto proprio e per terze parti (soprattutto aziende nel settore della microelettronica, meccatronica, meccanica) prodotti basati su logiche programmabili curando l’intero processo dall’idea alla realizzazione. Tra i prodotti sviluppati figurano: rilevatore di fughe di gas; controllore di motori brushless; analizzatore di difettosità di tessuti. Anno di costituzione: 2005 Drive Meccatronica Srl Dipartimento di provenienza: Ingegneria Elettronica e dell’Informazione Oggetto sociale: Sviluppo e perfezionamento di sistemi di elettronica e di informatica che vengono attualmente utilizzati sulle macchine e sugli impianti automatici al fine di migliorarne le prestazioni di efficacia, efficienza ed economicità. In particolare si avvale dell’uso di un prodotto software denominato PCADD per il trattamento dei dati e per la personalizzazione dei prodotti: il PCADD costituisce un sistema hardware e software parametrico, in cui, cioè, è lo stesso software che si adatta secondo la linea o l’applicazione. Anno di costituzione: 2004 EN4 Srl Dipartimento di provenienza: Ingegneria Industriale Oggetto sociale: Servizi di supporto all’area R&D nel comparto della motoristica e servizi di save – energy manager nei mercati di riferimento dell’area di business "energia". Le principali linee di servizio sono: prove e testing; consulenza come supporto alla progettazione di sistemi e soluzioni innovative in campo motoristico ad elevato valore aggiunto; consulenza di analisi ed ottimizzazione dei consumi energetici; progettazione di sistemi innovativi nell’ambito della conversione dell’energia; consulenza per la gestione di meccanismi di incentivazione di risparmio energico (certificati bianchi) e di produzione di energia da fonti rinnovabili (certificati verdi) Anno di costituzione: 2006 Esebel Srl Dipartimento di provenienza: Matematica e Informatica Oggetto sociale: Ricerca, progettazione, sviluppo, formazione e servizi nel settore delle nuove tecnologie dell’informazione: e-business, e-government, e-security, firma digitale, commercio elettronico, modelli informatici avanzati per sistemi decisionali e per il trattamento della conoscenza. Tra i prodotti sviluppati figurano sistemi per la valutazione del rating bancario per aziende e per la proiezione di video che interagiscono con l’utente. Anno di costituzione: 2004 HIS Srl Dipartimento di provenienza: Scienze Chirurgiche, Radiologiche ed Odontostomatologiche Oggetto sociale: Implementazione di un nuovo sistema di produzione e di commercializzazione di calzature benessere su misura. L’impresa intende, sfruttando un brevetto sviluppato dalle imprese calzaturiere partecipanti alla compagine sociale, migliorare la qualità delle calzature salute rendendo accessibile a tutti la “scarpa benessere su misura”.

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Attraverso il know how dell’Università, si intende validare scientificamente l’efficacia di questo nuovo prodotto e sperimentarne nuove applicazioni nel comparto delle calze sanitarie Anno di costituzione: 2008 IUS Srl Dipartimento di provenienza: Studi Giuridici “A. Giuliani” e Diritto Pubblico della Facoltà di Giurisprudenza Oggetto sociale: Assistenza e di formazione per la definizione di strategie innovative per l’evoluzione normativa riguardante gli enti locali. La società è volta all’innovazione del sistema delle autonomie locali attraverso l’applicazione di protocolli atti all’adeguamento, da parte degli enti pubblici territoriali, dei regolamenti interni e delle procedure operative alle riforme istituzionali introdotte nell’ordinamento nazionale. Si intende trasferire sul mercato le “conoscenze avanzate” maturate all’interno dell’Università, partecipando, da un lato, alla definizione di strategie innovative per l’evoluzione normativa riguardante gli enti locali ed il contesto istituzionale, nonché, dall’altro, all’attuazione di programmi di assistenza e di formazione di professionalità che possano portare avanti dette strategie. Anno di costituzione: 2006 Master Up Srl Dipartimento di provenienza: Chimica Oggetto sociale: Modelli molecolari e per l’innovazione di prodotto e di processo, elaborazione elettronica avanzata, istruzione universitaria telematica e multimediale. Le competenze utilizzate comprendono tecniche di realtà virtuale, elaborazione numerica e programmazione avanzata, calcolo delle proprietà delle molecole e dei materiali, simulazione statistiche dinamiche e cinetiche della materia. I prodotti e servizi sviluppati riguardano: simulazione al computer di ambienti e situazioni di rischio, gestione di eventi scientifici come convegni, workshop e scuole, ricerca e gestione della conoscenza chimica su web, consulenze analitiche ad alto livello per aziende e privati, gestione avanzata di reti di computer, progettazione di nuovi materiali e processi chimici. Anno di costituzione: 2004 MITES Srl Dipartimento di provenienza: Biologia Vegetale e Biotecnologie Agroambientali e Zootecniche, Ingegneria Civile ed Ambientale (Ingegneria dei Materiali) Oggetto sociale: Nata sulla base di un brevetto europeo per lo sfruttamento a livello industriale di alcuni prodotti sviluppati per contrastare il fenomeno della contraffazione. Si occupa di: produzione di polimeri contenenti un’informazione codificabile e decodificabile (i MPID); progettazione e produzione di nuove etichette e prodotti anticontraffazione; realizzazione di software di funzione e accessori; servizio di deposito delle etichette, o di introduzione di MPID in prodotti dei clienti. Fra le possibili applicazioni (etichette, imballaggi, prodotti stampati, vernici, adesivi) i MPID possono essere utilizzati nella protezione dati, nel criptaggio e nell’etichettatura di qualsiasi prodotto, inclusi quelli sfusi. Anno di costituzione: 2007

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Neaitos Srl Dipartimento di provenienza: Uomo e Territorio Oggetto sociale: Attività di programmazione e progettazione anche esecutiva, inclusa la realizzazione di prototipi, di nuovi modelli di valorizzazione e gestione integrata delle risorse del territorio incentrati sulla qualità dell’ambiente urbano e rurale, con particolare riguardo ai settori della compatibilità ambientale e dell’energia sostenibile Anno di costituzione: 2007 Net Value Srl Dipartimento di provenienza: Ingegneria Industriale Oggetto sociale: Servizi avanzati rivolti alle imprese che intendono attivare forme stabili di collaborazione, nei confronti delle quali vengono messi a disposizione gli strumenti strategici ed operativi per l’implementazione del modello basato sulla creazione dell’ufficio di sviluppo virtuale (VDO – Virtual Development Office), partecipando attivamente alla creazione e alla gestione del network. Anno di costituzione: 2007 NPP Dipartimento di provenienza: Biologia Cellulare e Ambientale – Sez. di Biologia Cellulare e Molecolare Oggetto sociale: Analisi e produzione di componenti per integratori alimentari e formulazioni farmaceutiche, dietetiche e cosmetiche derivanti da vegetali (in particolare, germogli di grano). Anno di costituzione: 2009 Prolabin & Tefarm Srl Dipartimento di provenienza: Chimica e Chimica e tecnologia del Farmaco Oggetto sociale: Laboratorio di ricerca e sviluppo di nuovi additivi nanostrutturanti per polimeri, di nuove formulazioni cosmetiche e ingredienti attivi in campo farmaceutico e di nuovi catalizzatori eterogenei. Si occupa di: produzione di additivi in grado di migliorare la processabilità, la biodegradabilità e lo smaltimento dei polimeri e di incrementare le proprietà meccaniche, termiche, di ritardo di fiamma, di barriera a gas e vapori dei manufatti plastici; produzione di idrotalciti biocompatibili in grado di intercalare farmaci e molecole di interesse cosmetico, in modo che i principi attivi vengono protetti dall’ossidazione e dalla fotolisi e rilasciati in maniera controllata, fornendo prodotti cosmetici e farmaceutici che meglio soddisfano la compliance e la usability del cliente; produzione di catalizzatori eterogenei selettivi e a basso impatto ambientale, poiché facilmente rimovibili dall’ambiente di reazione; laboratorio di analisi ambientali (acque, rifiuti, emissioni, ambienti di lavoro) in accordo con le normative vigenti; consulenze nei campi della qualità, dell’ambiente e della sicurezza. Anno di costituzione: 2008 Relevo Srl Dipartimento di provenienza: Ingegneria Civile ed Ambientale Oggetto sociale: Rilievo, documentazione, formazione, catalogazione-archiviazione dei beni architettonici e ambientali soggetti a rischio (sismico, idrogeologico, di degrado ecc.) e attività connesse. La società si pone come obiettivo la creazione di un archivio di cloni digitali di beni architettonici e ambientali con il fine di poterli restituire graficamente, per usufruirne, ove

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necessario, sia nel caso di interventi di recupero programmati (manutenzioni, recuperi, ristrutturazioni ecc.) sia in situazioni di emergenza (eventi sismici, catastrofi, rischi idrogeologici ecc.). Anno di costituzione: 2004 RF Microtech Srl Dipartimento di provenienza: Ingegneria Elettronica e dell’Informazione Oggetto sociale: Progettazione e prototipazione di antenne, apparati e dispositivi micro- e nano-elettromeccanici (MEMS, NEMS) a radiofrequenze (RF) e microonde. Anno di costituzione: 2007 SERMS Srl Dipartimento di provenienza: Fisica Oggetto sociale: Le attività vanno dallo studio teorico, alle prove di qualifica e di certificazione di materiali e strumentazione elettronica che debba essere esposta alle condizioni di vuoto, stress meccanici, radiazione e temperature estreme proprie delle applicazioni spaziali. I sevizi offerti riguardano gli ambiti della Fisica delle particelle elementari e della Fisica della magnetosfera e dell’atmosfera terrestre e sono i seguenti: prove di qualifica vibrazionale; prove di qualifica termica; prove di resistenza alla radiazione. Anno di costituzione: 2004 Siralab Srl Dipartimento di provenienza: Ingegneria Elettronica e dell’Informazione Oggetto sociale: Studio, progettazione, realizzazione, industrializzazione, promozione, produzione e commercializzazione di prodotti, sistemi, sottosistemi e prototipi ad alto contenuto tecnologico nei settori dell’elettronica, della robotica, dell’informatica e dell’automazione. Tra i prodotti figurano: mini velivoli senza pilota; sistemi per il controllo di velivoli senza pilota (Ground Control Station, autopiloti); servizi di progettazioni elettroniche in materia di controllo di sistemi e robotica. Fornitura di servizi e consulenze specialistiche mediante l’utilizzo di tecnologie proprietarie Anno di costituzione: 2007 TISS Srl Dipartimento di provenienza: CIRIAF Centro interuniversitario di Ricerca sull’Inquinamento di Agenti Fisici Oggetto sociale: Progetto e sviluppo di tecnologie innovative per lo sviluppo sostenibile, volte al contenimento del rumore e dell’inquinamento acustico, alla bonifica acustica e ambientale di aree critiche e siti industriali, alle energie rinnovabili e agli impianti per il benessere. La società intende realizzare dispositivi a controllo attivo del rumore, finestre ventilate antirumore, barriere antirumore dotate di celle fotovoltaiche. Anno di costituzione: 2005/2006 TREE Srl Dipartimento di provenienza: Ingegneria Industriale Oggetto sociale: Acquisizione e coordinamento di tutte le attività volte allo studio, allo sviluppo ed allo sfruttamento a fini commerciali del meccanismo dell’Emission Trading, progetti

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Joint Implementation (JI) e Clean Development Mechanism (CDM), secondo la direttiva europea 87/2003/CEE e secondo la direttiva Linking. Sono ivi compresi l’attività di trading nel mercato delle emissioni di gas generanti effetto serra con individuazione delle possibilità di scambio, cessione o acquisto, di quote sul mercato, nonché campagne di monitoraggio e controllo delle emissioni. In particolare effettua l’acquisizione ed il coordinamento di tutte le attività volte allo sviluppo di studi di fattibilità, ricerche, consulenza, progettazioni, direzione lavori, valutazioni di congruità tecnico economica e studi di impatto ambientale, finalizzate alla realizzazione di soluzioni e sistemi per la riduzione delle emissioni di gas generanti effetto serra e per il controllo di qualsiasi altra forma di emissione inquinante. Anno di costituzione: 2005 Unilab Srl Dipartimento di provenienza: Ingegneria dei Materiali Oggetto sociale: Sperimentazione strutturale con tecniche e materiali innovativi, per la diagnostica, il consolidamento ed il restauro del costruito storico e dei monumenti, in grado di analizzare diverse tipologie strutturali realizzate con diversi materiali. Anno di costituzione: 2006 VIS4 Srl Dipartimento di provenienza: Ingegneria Elettronica e dell’Informazione Oggetto sociale: Progettazione e sviluppo di sistemi software per la gestione automatica dei dati, content management systems, visualizzazione dell’informazione, interazione uomo-macchina. Anno di costituzione: 2009 WiS Srl Dipartimento di provenienza: Ingegneria Elettronica e dell’Informazione Oggetto sociale: Studio, progettazione, sviluppo, industrializzazione, produzione e collaudo di sistemi elettronici hardware e software principalmente orientati alle telecomunicazioni. Anno di costituzione: 2005/2006 Wisepower Srl Dipartimento di provenienza: Fisica Oggetto sociale: Ricerca e sviluppo di soluzioni per l’alimentazione di micro dispositivi elettronici. Invenzione, design e prototipazione di micro generatori di energia di nuova concezione per apparecchiature elettroniche. Viene sviluppato un approccio alternativo alle batterie ed altamente innovativo alla soluzione del problema: la estrazione di energia dall’ambiente, quando e dove serve. Il principale vantaggio competitivo sui concorrenti risiede nell’utilizzo della tecnologia nonlineare sviluppata in anni di ricerche condotte dai fondatori dello spin-off. Il modello di business adottato è di tipo licence based: si inventano e brevettano generatori di energia e vengono licenziati i diritti alle aziende interessate a sviluppare dispositivi basati su questi brevetti. Anno di costituzione: 2003

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Altre imprese di derivazione accademica (non accreditate quali spin off) Digilab 2000 Srl Dipartimento di provenienza: Ingegneria Elettronica e dell’Informazione Oggetto sociale: Sviluppa e realizza prodotti e progetti innovativi nel mercato delle telecomunicazioni e dell’Ict per clienti internazionali, mantenendo una stretta rete di relazioni con i principali produttori internazionali di componentistica avanzata, come Texas Instruments, Renesas, Xilinxs, Analog e National Semiconductors. Inoltre, Digilab 2000 è membro del Texas Instruments Third Party Network ed ha forti relazioni con fornitori di servizi avanzati per implementare l’intero processo dallo sviluppo e progettazione alla prototipazione ed industrializzazione. Anno di costituzione: 2003 Joint Srl Dipartimento di provenienza: Ingegneria Elettronica e dell’Informazione Oggetto sociale: Anno di costituzione: 2004 Medi@tech Srl Dipartimento di provenienza: Ingegneria Elettronica e dell’Informazione Oggetto sociale: Sistemi di videosorveglianza non assistita da operatori su infrastruttura di rete digitale wireless per il monitoraggio ambientale e la prevenzione degli incendi boschivi e dei dissesti idrogeologici. I prodotti e servizi comprendono: video processing e content management; digital video recording e storage; connettività wired-wireless-xDSL; digital set-top-box. Anno di costituzione: 2004 MDP Srl Dipartimento di provenienza: Ingegneria Civile ed Ambientale Oggetto sociale: La società si occupa di: progettazione, produzione di prototipi e miniserie; analisi del ciclo di vita dei prodotti e studi di fattibilità; trasferimento e diffusione di tecnologie, materiali e processi; test di laboratorio per la caratterizzazione dei materiali; e-commerce di materiali avanzati e commercializzazione. Anno di costituzione: 2003 RETI DI IMPRESE Consorzio POMEC Il Polo Meccatronico, costituito nel 2006 a Città di Castello, si definisce come cluster transterritoriale di aggregazione d’imprese di eccellenza, università e laboratori privati di ricerca applicata. Il progetto è il frutto di un lavoro di progressiva maturazione tra imprese con una forte vocazione all’export, che condividono l’esigenza di innovare con continuità per competere con strutture nazionali ed internazionali evolute e la necessità di creare alte competenze di settore. Il POMEC ha il compito di individuare le esigenze di innovazione, ricerca e formazione delle aziende, valutare tecnicamente le ipotesi progettuali, ricercare linee di finanziamento, gestire

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l’esecuzione dei progetti e rendicontarli. L’integrazione tra le aziende è supportata dall’utilizzo di una piattaforma informatica. Nella compagine societaria sono presenti i Dipartimenti di ingegneria dell’Università di Perugia, che possono avvalersi di spazi multifunzionali messi a disposizione dal complesso. Insieme all’Università, il Polo Meccatronico è composto da una dozzina di imprese (tra cui lo spin off Drive Meccatronica) e dalla multinazionale Bosch, con il ruolo di partner tecnologico, oltre che di fornitore. Il pool di aziende è aperto a forme di integrazione, anche esterne, sia con imprese che con centri di ricerca nazionali ed internazionali. Oltre ai laboratori universitari, sono presenti nel Polo anche due laboratori umbri privati di meccatronica riconosciuti dal MIUR, (CMC-Ponti Engineering e Bimal), nonché l’esperienza professionale del Centro di formazione per la meccatronica, già operante presso la Ponti Engineering. Presso i laboratori POMEC vengono inoltre effettuati corsi di formazione in progettazione di sistemi meccatronici e in automazione industriale. Gruppo Angelantoni Angelantoni Industrie opera principalmente nel settore delle tecnologie avanzate della refrigerazione, specializzandosi in particolare nelle basse e bassissime temperature (fino a -152°C con compressori frigoriferi) e nella simulazione ambientale. Opera principalmente in tre settori di attività: Testing, con la produzione di camere prove ambientali simulate, per tutti i tipi di test su materiali, componenti e prodotti finiti, anche per il settore aerospaziale entrando, grazie anche alle numerose collaborazioni con centri di ricerca, tra i primi tre produttori a livello mondiale e fornitrice di centri spaziali che effettuano prove su satelliti o parti di satellite; Life science, con la realizzazione di innovative apparecchiature frigorifere per il mantenimento e lo stoccaggio di materiale biologico; Energie rinnovabili, dove la controllata Archimede Solar Energy Spa produce tubi ricevitori a 550°C per le centrali solari termodinamiche (progetto Archimede), basati su tecnologia ENEA, oltre a ricerche nel campo del fotovoltaico a concentrazione e ad impianti di coating, con tecnologia a film sottile, per produzione di pannelli fotovoltaici. Il Gruppo Angelantoni, che investe ogni anno il 6-7% del proprio fatturato in R&S, comprende oggi 8 unità produttive localizzate in Italia, Germania, Francia, India e Cina, per un totale di oltre 750 dipendenti, ed è presente con rappresentanti, distributori e centri di assistenza tecnica in più di 60 paesi nel mondo. Gruppo Poligrafico Tiberino Srl GPT srl è una società operativa dal 2007, emanazione di un network di 21 imprese, comprendenti lo spin off Net Value e la finanziaria regionale Gepafin, che fornisce soluzioni integrate, complete ed innovative nel settore della comunicazione, stampa, cartotecnica, materiali speciali e servizi correlati. La rete mette insieme realtà aziendali tendenzialmente complementari, in grado di esprimere a livello aggregato una copertura tecnica e tecnologica molto ampia sia nell’ambito della produzione che nei servizi. La rete conta complessivamente un fatturato aggregato di oltre 150 milioni di euro, una forza lavoro di oltre 800 dipendenti, di cui circa il 10 per cento dedicati ad attività di R&S, dislocati in 24 stabilimenti produttivi. L’estesa capacità tecnologica e le grandi dimensioni del network consentono a GPT di puntare ad essere un fornitore globale per importanti clienti pubblici e privati, anche internazionali, di sistemi di prodotti e servizi, anche ad alto contenuto innovativo. Negli ultimi anni GPT, insieme alle imprese partner, ha sviluppato progetti di innovazione, ricerca e sviluppo per un valore di oltre 5 milioni di euro.

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Gruppo Spazio Scarl Gruppo Spazio è un consorzio, nato nel 1997, che unisce sei aziende operanti nel settore informatico e telematico, per un organico complessivo che conta oltre 120 addetti e con un fatturato aggregato di circa 10 milioni di euro. L’obiettivo del consorzio è quello di integrare le competenze specifiche delle singole aziende per formare un’offerta unica di servizi e prodotti innovativi. Tale forma permette di presentarsi come interlocutore unico verso i clienti (pubblica amministrazione, imprese, banche) per lo studio e la realizzazione di progetti complessi. Dal 2006 è in atto una convenzione con l’Università degli Studi di Perugia fondata sull’integrazione e l’interscambio delle rispettive competenze e finalizzata a produrre progetti innovativi. High Technology Center Spa L’idea del centro nasce alcuni anni fa, grazie anche ad un progetto finanziato da un bando regionale sulle reti, per aggregare alcune imprese operanti in diversi segmenti del settore della meccanica, con l’obiettivo di diventare il centro di riferimento di alta tecnologia per processi di lavorazione non convenzionali al servizio delle imprese, per dare una risposta a committenze che richiedono un prodotto/servizio completo. Attualmente HTC è partecipata da 11 piccole e medie imprese, con 381 dipendenti complessivi e con un fatturato aggregato di circa 66 milioni di euro. HTC spa possiede due impianti con attrezzature ad alta tecnologia, su una superficie coperta pari a 4.000 metri quadri, in cui lavorano 11 dipendenti ed ha un fatturato di 1,3 milioni di euro. Il Centro ha le seguenti linee di produzione: saldatura a fascio di elettroni attraverso impianti EBW che consentono di saldare materiali eterogenei e non eterogenei, con notevole flessibilità di impiego, alti rendimenti e caratteristiche meccaniche superiori; riporti plasma-hvof, con deposizione a spruzzo da polveri che permette di migliorare le caratteristiche superficiali di un materiale; trattamenti termici; brasature per assemblare o riparare particolari omogenei realizzati con materiali diversi. I clienti operano soprattutto nell’energia, aerospaziale, difesa, industriale. Novamont Spa Novamont è leader nella produzione di bioplastiche, film e rivestimenti flessibili, ricavati da materie prime rinnovabili di origine agricola e caratterizzati da un aumento del contenuto di materie prime rinnovabili, bassi livelli di produzione di gas ad effetto serra e minore dipendenza da materie prime di origine fossile. Tra la sede di Novara e gli stabilimenti produttivi a Terni conta 170 dipendenti, il 30% dei quali nelle aree R&S cui ha destinato oltre il 10% del proprio fatturato 2008. Detiene un portafoglio brevetti che comprende 90 famiglie brevettuali e 800 depositi internazionali. Nel 2009 Novamont ha sottoscritto, con Coldiretti, Assindustria e Regione Umbria, un protocollo d’intesa per sostenere lo sviluppo nell’area ternana del progetto di Bioraffineria integrata nel territorio per la produzione di polimeri biodegradabili e compostabili e di poliesteri di nuova generazione a partire da oli vegetali. Il protocollo impegna Novamont a fare dei siti di Terni e Novara i propri centri di riferimento per le attività di ricerca. A Terni verranno concentrate le attività di ingegneria e di sviluppo nel settore delle materie plastiche rinnovabili e biodegradabili con possibilità di ospitare ricercatori, di collaborare con l’università locale e svolgere attività di formazione. In prospettiva, il primo sito industriale per la produzione di monomeri secondo la tecnologia

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Novamont, che si prevede diventerà operativo entro il 2011, permetterà la creazione di una filiera integrata di materie prime locali a basso impatto. A tale scopo, la collaborazione con Coldiretti dovrebbe favorire la creazione di filiere specializzate nel campo delle oleaginose, che potranno tradursi in ulteriori insediamenti produttivi. Il Pischiello Il Pischiello, centro di ricerca e progettazione avanzata, opera nei settori dell’ingegneria elettronica ed elettromeccanica applicate all’automotive, all’aeronautica, alla marina, al trasporto ferroviario, al comparto aerospaziale ed altri comparti industriali high-tech. Il Centro si propone di innescare circuiti virtuosi attraverso l’attrazione di operatori internazionali e nazionali da un lato e diffusione di tecnologie, competenze e opportunità di business dall’altro, offrendo servizi di consulenza progettazione e industrializzazione per lo sviluppo di nuovi prodotti/processi “chiavi in mano”. Il nucleo è rappresentato dalle aziende che compongono ART Group, presso cui operano ingegneri e tecnici, provenienti prevalentemente dall’Ateneo perugino ma anche dall’industria automobilistica, impegnati nella progettazione e industrializzazione di componenti di sistemi avanzati. Vi partecipano: Digilab 2000 e WiS, nati come spin-off universitari nei settori dell’elettronica digitale e della radiofrequenza; Eco Solution, nella comunicazione dinamica multimediale; MB Elettronica Srl, società partecipata che permette la realizzazione di prodotti ad alto contenuto tecnologico. Un Comitato tecnico scientifico, composto da management del Centro e rappresentanti accademici, garantisce il monitoraggio delle migliori tecnologie disponibili. Tra le varie collaborazioni, oltre a diverse università italiane, si segnalano: Georgia Electronic Design Center di Atlanta, Ferdinand Braun Institute di Berlino; Fraunhofer Institute (Germania); University of Bath (Gran Bretagna); Universidad de Cantabria (Spagna). Le aree di competenza tipiche del Pischiello comprendono: signal and data processing; video and image processing; sviluppo di sistemi e sottosistemi RF; laser processing; sistemi operativi real time; sviluppo di logiche programmabili e FPGA; banchi di test automatici; sviluppo di PCP; circuiti flessibili; schede multistrato a materiali eterogenei; integrazioni di sistema; strumentazione di laboratorio ad alta frequenza; elettromeccanica. Nel settore automotive, ai sistemi di telemetria e sicurezza, si aggiungono le applicazioni speciali per le auto in serie, tra le quali software per navigatori di bordo, sistemi di infomobilità e di infotainment. Nell’area della produzione agricola, invece, il Centro è in grado di soddisfare le esigenze del mercato relative a sistemi di precision farming per il controllo automatico e di precisione delle diverse lavorazioni. Polo aerospaziale dell’Umbria Il Polo aerospaziale dell’Umbria è un’associazione di imprese nata alla fine del 2008, da un nucleo di sei imprese del settore (Era Electronics, Fucine Umbre, Garofoli, Ncm, Oma, Umbra Cuscinetti). Al Polo aderiscono, come soci ordinari, le aziende che si occupano di attività di ricerca, progettazione e produzione di componenti e sistemi in campo aeronautico ed aerospaziale e, come soci sostenitori, gli Enti e le Istituzioni che collaborano all’attività. Attualmente le aziende che hanno aderito al Polo sono complessivamente 29, con quasi 2.500 addetti complessivi e un fatturato di oltre 400 milioni. Le aziende che ne fanno parte sono coinvolte in tutti i settori tecnologicamente avanzati della filiera e molto spesso competono a livello internazionale, investendo in ricerca e sviluppo quasi il 6 per cento del proprio fatturato. Oltre un terzo delle aziende del Polo sono dotate di laboratori di ricerca interni, il 30 per cento

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ha come competenza caratteristica la realizzazione di prodotti ad elevato standard qualitativo, il 14 per cento l’adozione di tecnologie produttive all’avanguardia. Il Polo si propone di stimolare le imprese associate a mettere in atto meccanismi di integrazione operativa nelle diverse funzioni aziendali, di facilitare le aggregazioni di scopo ed i collegamenti con imprese di altre regioni e Paesi, di favorire ed organizzare la partecipazione a programmi comunitari o nazionali, la ricerca e l’innovazione nel settore aerospaziale, la formazione e l’aggiornamento di quadri e personale, la partecipazione a manifestazioni ed incontri internazionali. La creazione del Polo ha consentito alla Regione Umbria di aderire all’accordo già stipulato nel 2008 tra le Regioni Piemonte, Puglia e Campania per la costituzione del “Metadistretto dell’aerospazio”, nell’ambito della conferenza internazionale organizzata da Finmeccanica, ponendo le basi per lo sviluppo di un Polo tecnologico aerospaziale regionale. Nel luglio 2009 il Polo ha sottoscritto, insieme alla Regione Umbria e all’Istituto nazionale per il Commercio Estero, un protocollo d’intesa che ha come obiettivo quello di promuovere lo scambio di tecnologie, l’acquisizione di know-how e il consolidamento di rapporti di collaborazione tecnologica, industriale e commerciale con l’estero, per favorire l’internazionalizzazione del tessuto produttivo regionale. LABORATORI ACCREDITATI MIUR Bimal Srl Nata nel 1984, l’azienda Bimal opera nel settore della meccanica avanzata, progettando e costruendo banchi di prova per collaudi di laboratori e collaudi di produzione. Oggetto dei test sono generalmente componenti fluidodinamici (pompe, motori, valvole), componenti di trasmissioni (frizioni, freni), trasmissioni complete e componenti meccaniche. Agisce su commessa, fornendo un servizio personalizzato, e possiede una struttura ingegneristica per l’analisi, lo sviluppo e il progetto di tutte le tecnologie inerenti i banchi di prova, dalla meccanica allo sviluppo di software applicativi. Il catalogo dei prodotti interessa principalmente quattro aree: l’oleodinamica, l’aeronautica, il mobile e la meccanica. Vanta una serie di collaborazioni e di legami con industrie, Università e laboratori di ricerca. In particolare dal 2006 è entrata a far parte del Consorzio POMEC e dal 2009 è entrata ufficialmente nel Polo Aeronautico Umbro. È inoltre partner ufficiale di National Instruments, azienda leader nella progettazione di controlli e sistemi embedded. Il laboratorio Bimal è inserito nell’albo del Ministero a partire da novembre 2004. BioTecnologie BT Srl (3A Parco Tecnologico Agroalimentare dell’Umbria) Compagnia biotech specializzata nella ricerca, sviluppo e produzione di prodotti eco-compatibili per il mercato agroalimentare, costituita nel 1999 dalle Società 3A e Sviluppumbria e situata all’interno del Parco Tecnologico Agroalimentare dell’Umbria di Pantalla, che copre tutti i settori della ricerca nell’agroalimentare ed altre attività, quali R&S di biopesticidi, diffusione e trasferimento delle innovazioni tecnologiche, certificazione di prodotti alimentari, analisi su terreni e prodotti alimentari. Possiede un organico di 18 addetti, con un team di ricercatori qualificati, ed è dotata di tecnologie di avanguardia nel campo della fermentazione e della formulazione di agrofarmaci di

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origine. Principalmente offre servizi analitici in BPL (buone pratiche di laboratorio, certificato dal Ministero della Salute) nei settori microbiologico, ambientale, chimico-fisico, agronomico ed ecotossicologico. Si occupa di: allevamento insetti; biosaggi in laboratorio ed in serra con prodotti biologici e di sintesi; caratterizzazione chimico fisica di prodotti biologici e di sintesi; test ecotossicologici su organismi acquatici e organismi del terreno; identificazione molecolare e biochimica dei microrganismi (batteri, lieviti e funghi); valutazione di impatto ambientale di xeno biotici; sviluppo procedure di produzione e formulazione di prodotti per la difesa biologica e per l’alimentazione umana e animale; fermentazione di microrganismi per utilizzo agroalimentare e zootecnico su impianto pilota. Tra i servizi di ricerca e sviluppo, realizza studi in BPL per la registrazione di pesticidi, biocidi e prodotti chimici secondo le rispettive direttive; nel settore dei cosmetici verifica la conformità dei materiali e dei prodotti finiti, controlla le fasi produttive nei punti critici tramite analisi microbiologiche e chimiche; attraverso l’applicazione dei metodi HACCP effettua controlli sui mangimi, sulle acque (acque potabili, acque di scarico, acque sotterranee), sui metalli e sulle malattie fitopatogene. Ha ottenuto le certificazioni BPL/GLP, ISO 9001-2000, ISO 14000. Intrattiene rapporti con l’Associazione italiana delle aziende operanti nel settore dei mezzi tecnici per l’agricoltura biologica ed ecocompatibile e con il Gruppo di ricerca italiano fitofarmaci ed ambiente. CMC Spa e Ponti Engineering Srl CMC, fondata nel 1980, e Ponti Engineering, società senza fini di lucro nata nel 1990, sono aziende del Gruppo Ponti. CMC produce macchine automatiche per la cellofanatura, l’imbustamento di documenti e il packaging. È titolare di numerosi brevetti mondiali. Ponti Engineering opera attraverso programmi di formazione, consulenza, progettazione e sviluppo nei diversi settori della realtà produttiva locale. È un organismo di ricerca in grado di svolgere attività di ricerca di base, di ricerca industriale o di sviluppo sperimentale e di diffonderne i risultati, mediante l’insegnamento, la pubblicazione o il trasferimento di tecnologie. Ha dato vita nel 2006 al Consorzio POMEC. Oltre ad attività di progettazione, formazione ed erogazione di servizi alle imprese, Ponti Engineering svolge attività di ricerca e sviluppo: grazie alla consolidata esperienza di progettisti e disegnatori nel settore tecnologico informatico e in virtù del know-how acquisito attraverso le collaborazioni con l’Università degli studi di Perugia e con altri laboratori di ricerca accreditati, è in grado di soddisfare le richieste particolari dei clienti per innovare processi produttivi o realizzare macchine personalizzate. Fornisce supporto e consulenza alle imprese per sviluppare progetti di ricerca industriale o sviluppo anche con il contributo di programmi di finanziamento nazionali ed internazionali. Gli ambiti affrontabili sono: studi ed analisi rivolti all’ottimizzazione dei processi; studi ed analisi di nuovi prodotti; innovazione dei processi produttivi; studi di fattibilità progetti innovativi sperimentali nell’area della meccatronica ed automazione industriale; monitoraggi tecnici e scientifici per controlli industriali in vari settori produttivi; ricerca e sviluppo nel campo dell’ingegneria impiantistica e di processo. Centro Sviluppo Materiali Spa Il CSM è un’azienda privata che svolge attività di ricerca per la competitività delle imprese industriali, con l’obiettivo di sviluppare e trasferire sul piano industriale e sul mercato

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innovazione tecnologica nel campo dei materiali e delle relative tecnologie di progettazione, produzione e di impiego. È dotato di una struttura operativa policentrica, con una presenza specializzata e consolidata a Terni, legata alla presenza delle grandi imprese siderurgiche locali. Le risorse umane comprendono circa 300 dipendenti, localizzati nella sede principale di Roma e nelle altre quattro unità di ricerca decentrate, tra cui quella ternana. Realizza attività di ricerca industriale e di sviluppo tecnologico a favore degli azionisti e di clienti di riferimento, nonché attività di ricerca fondamentale per migliorare le conoscenze di base e aggiornare le competenze tecnico scientifiche delle proprie risorse aziendali. Opera principalmente per il settore industriale di produzione dell’acciaio (su inossidabile, magnetico, fucinati, titanio, oltre che su una gamma di prodotti speciali) e per settori diversificati, quali quello del petrolio e del gas, dell’aerospazio, di materiali e prodotti speciali, di ingegneria ed impiantistica e dell’ambiente e dell’energia. Lo spazio d’intervento del CSM copre l’intera filiera d’innovazione dei materiali: dalla ricerca fondamentale orientata, spesso auto finanziata e in rete con università ed enti pubblici di ricerca, alla progettazione e alla ingegnerizzazione del sistema processo, prodotto, componente ed allo sviluppo del processing su scala pilota, dimostrativa e industriale, alla realizzazione di serie di prodotti prototipali funzionali, all’automazione e controllo di processo, impianto, alle problematiche di realizzazione, affidabilità, sicurezza, controllo di componenti e strutture, fino a quelle attinenti l’energia, l’ambiente e il riciclo dei materiali. Demetra Spa Dal 1992 fornisce servizi di consulenza, studi di fattibilità, analisi, ricerche, sviluppo precompetitivo fino alla progettazione esecutiva e direzione dei lavori rivolti alle piccole, medie, grandi imprese ed agli enti pubblici per la definizione di nuovi prodotti, nuovi servizi, processi produttivi o miglioramento e potenziamento di quelli già esistenti. Oltre a servizi di ingegneria integrata e di formazione, realizza attività di ricerca industriale e sviluppo precompetitivo, volte alla definizione di tecnologie innovative applicabili in iniziative economiche ad alto contenuto tecnologico con industrializzazione dei risultati; studi e analisi di nuovi prodotti e processi produttivi; formazione del personale per l’utilizzazione di nuove tecnologie; monitoraggi tecnici e scientifici per controlli ambientali, industriali e in ogni settore produttivo; tutela delle proprietà industriali mediante brevetti per invenzioni e modelli. Ha acquisito la certificazione ISO 9001 per il sistema di gestione della qualità aziendale. Eco Tech Engineering e Servizi Ambientali Srl Nasce nel 1993 per offrire consulenze e servizi nel settore ambientale. In particolare si occupa di: ambiente e tutela del territorio, igiene e sicurezza sul lavoro, igiene dei prodotti alimentari (HACCP), settore acque, interventi di bonifica ambientale, progettazione direzione lavori impianti discariche, formazione professionale, consulenza per implementazione e certificazione sistemi di gestione. Dispone di 9 dipendenti e di circa 40 collaboratori. È organismo notificato, di certificazione e prova, per: impianti messi a terra; impianti di sollevamento; certificazione CE macchine; certificazione CE PED; conformità acustica macchine; verifiche ascensori; verifiche PED. Iride Srl Diventata società di ricerca ed ingegneria nel 2002, svolge attività di ricerca industriale,

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sviluppo precompetitivo, diffusione di tecnologie, in ambito locale e nazionale, all’interno del quadro di programmi europei o di accordi internazionali, in conformità a bandi emanati dal Miur o da altri enti per tematiche od obiettivi specifici. Collabora inoltre alla ricerca applicata affidata, da soggetti industriali e assimilati, ad università, enti e laboratori di ricerca, effettua studi e ricerche, collaudi, analisi e consulenze sui processi produttivi e sui servizi. Il laboratorio dispone di strumentazioni ed apparecchiature idonee a sviluppare il complesso delle attività di ricerca e di servizi integrati di ingegneria: dotazione di hardware e software specialistici, biblioteca di testi tecnico-scientifici, normativi e professionali, archivi cartografici e documentali informatizzati, archivi dei progetti di ricerca e di ingegneria integrata, archivi cartografici cartacei e digitali comprendenti fogli catastali e cartografie tematiche. Lo staff di ricerca comprende personale tecnico laureato, con specializzazione in automazione industriale e robotica, elettronica e telecomunicazioni, meccanica ed energy management, ambiente. Opera in convenzione con i Dipartimenti di Ingegneria elettronica e dell’informazione e di Ingegneria industriale dell’Università degli studi di Perugia. Ha adottato la certificazione ISO 9001. ISRIM Istituto Superiore di Ricerca e Formazione sui Materiali Speciali per Tecnologie Avanzate e per l’Ambiente Scarl Nato a Terni nel 1989 e privatizzato nel 2001, opera oggi come impresa mista, che coniuga finalità pubbliche ed esigenze private, nel settore dei servizi innovativi e tecnologici ed in particolare delle prove, controlli e certificazioni, sulle tematiche di frontiera dei materiali e delle tecnologie industriali in settori high tech. Attualmente opera nei seguenti rami di attività: servizi avanzati; assistenza scientifico tecnologica; formazione; ricerca e sviluppo; trasferimento tecnologico. È organizzato in tre aree strategiche: materiali e tecnologie, attiva nello sviluppo e messa a punto di tecnologie di produzione e lavorazione dei materiali polimerici e compositi a matrice polimerica; analisi e testing, con servizi alle imprese per la caratterizzazione ambientale e la certificazione di prodotto e di processo; biologia e ambiente, con ricerca e sviluppo di applicazioni biotecnologiche e competenze specifiche nei settori della microbiologia del suolo, biologia molecolare, biochimica e micologia. A queste aree afferiscono 10 laboratori principali che forniscono assistenza tecnologica e servizi di ricerca e sviluppo. Il personale di ricerca è costituito da circa 35 unità strutturate, prevalentemente di formazione tecnico-scientifica, cui si affiancano una decina di unità nelle funzioni di supporto. ISRIM è certificato Iso 9001 per tutti i propri settori di attività (servizi, ricerca, formazione). Il laboratorio Fuoco, Analisi Termica, e Diagnostica Materie Plastiche è uno dei 10 laboratori italiani autorizzati dal Ministero dell’Interno per la certificazione di reazione al fuoco ed omologazione dei materiali ai fini della prevenzione incendi. Gestisce congiuntamente con l’Università degli studi di Perugia i laboratori ENERPOL e RITAM (quest’ultimo anche insieme al Centro Sviluppo Materiali). Italia Innova Società che fa capo alla Holding Gold della famiglia Colaiacovo, nasce raccogliendo l’eredità di differenti esperienze che vanno dal mondo delle soluzioni avanzate ICT e della consulenza nella gestione dei sistemi informatici, a quello delle telecomunicazioni con particolare riferimento alle applicazioni telefoniche automatiche o per le comunicazioni mobili, fino al coordinamento di progetti di ricerca italiani ed europei e alle collaborazioni con enti pubblici

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e istituti di ricerca. Opera realizzando soluzioni chiavi in mano a forte know how tecnico e scientifico con alta propensione all’innovazione, integrando le proprie conoscenze e tecnologie acquisite attraverso collaborazioni e partnership con Università e centri di ricerca. Ha esperienza di progetti di ricerca principalmente nell’area delle tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni, in particolare sul versante della condivisione delle informazioni, delle piattaforme transazionali, del commercio elettronico, dei sistemi tecnologici per le aree rurali, del dialogo interculturale, del marketing territoriale. Per quanto riguarda le agevolazioni economiche concesse attraverso gli strumenti finanziari MIUR dedicati ai progetti di ricerca, la società fornisce alle aziende clienti il supporto operativo dalla presentazione della domanda, alla scrittura del progetto da presentare, fino alla realizzazione del progetto di ricerca ed alla rendicontazione amministrativa. Sistematica Spa Il gruppo Sistematica, nato nel 1996, progetta e realizza: applicazioni a supporto degli operatori di telecomunicazioni, applicazioni per utenza mobile, networking e sistemi di network management, applicazioni di telerilevamento satellitari, applicazioni per segmento di terra di sistemi satellitari, informatica per la sanità e la pubblica amministrazione, applicazioni wireless, formazione a distanza, produzioni multimediali. Il gruppo opera nelle proprie sedi di Terni, Roma e Matera, occupa un centinaio di persone e registra un fatturato annuo pari ad oltre sette milioni di euro. Aderisce al Consorzio POMEC. Sistematica è azienda certificata ISO 9001.

SERVIZI ALLE IMPRESE1 Elena Bartocci, Davide Castellani Nelle economie dei principali paesi avanzati si assiste ormai da qualche decennio ad una progressiva diminuzione del peso delle attività manifatturiere, associato ad un aumento delle attività di servizio. Questo processo però non sembra aver dato vita ad una vera deindustrializzazione, quanto una terziarizzazione delle economie, che si caratterizzano per una sempre maggiore importanza delle attività di servizio connesse alla produzione e quindi per una crescente interdipendenza tra manifattura e servizi. Questo cambiamento strutturale è stato osservato in molti Paesi europei, a partire dal Regno Unito, dove ha avuto inizio già negli anni '70, ma ha caratterizzato, in tempi e modalità diverse, anche Francia, Germania, Spagna e Italia (Foresti, Guelpa e Trenti, 2007). Le ragioni di questa evoluzione sono state ricondotte a tre ordini di fattori: (i) il cambiamento nella struttura della domanda al crescere del reddito, (ii) le differenze nei tassi di crescita della produttività delle diverse industrie, (iii) una diversa divisione del lavoro tra industrie (Momigliano e Siniscalco, 1982; Kox e Rubacalba, 2007). L'evoluzione recente, che ha visto crescere soprattutto servizi connessi all'industria, ha portato gli studiosi a privilegiare l'ultimo filone interpretativo. In particolare, è stato messo in evidenza che la crescita delle economie ha reso conveniente una maggiore divisione del lavoro, che ha portato ad esternalizzare alcune attività di servizio prima svolte all'interno delle imprese (Francois, 1990). L'evoluzione tecnologica, soprattutto collegata alle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, rendendo meno costoso l'outsourcing di alcune funzioni aziendali, spesso ad alta intensità di conoscenza, ha poi contributo ad una ulteriore esternalizzazione di attività di servizio. Infine, la riduzione delle barriere commerciali e dei costi di trasporto ha favorito una riorganizzazione internazionale della produzione in cui è cresciuta la componente importata di attività di servizio (Grossman e Rossi-Hansberg, 2006; Baldwin, 2006).

1 Tabelle e grafici sono consultabili alla fine di questo capitolo.

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In questo quadro, la competitività di una economia viene sempre più a dipendere dalle interazioni tra servizi e produzione manifatturiera, e il settore dei servizi alla produzione (ovvero alle imprese) assume quindi un ruolo centrale (Guerrieri e Meliciani, 2005). La questione assume particolare interesse nel caso dell'economia umbra che - come è stato osservato nel Rapporto Economico e Sociale 2007 - è caratterizzata da un peso dell'industria manifatturiera sensibilmente più basso rispetto alle altre regioni dell'Italia Centrale alle quali si è soliti rapportare le performance economiche dell'Umbria, senza però rivelare i segni della terziarizzazione “avanzata” discussa sopra. In particolare, in Umbria è storicamente più alto che in altre regioni il peso dei servizi rivolti alle famiglie e alla pubblica amministrazione (Ferrucci, 2008), anche se negli ultimi anni si è registrato qualche segnale di vitalità nel valore aggiunto e nell'occupazione nella componente di servizio alle imprese (Tondini, 2008). Questo lavoro prende le mosse da quanto sviluppato nel RES 2007 e intende investigare con maggior dettaglio la componente di servizi destinata alle imprese in Umbria. A questo scopo, partiremo da una definizione che considera servizi alle imprese tutte le attività terziarie utilizzate da altre imprese come input del processo produttivo. L'analisi pertanto farà uso delle informazioni provenienti dalle tavole Input-Output, che forniscono indicazioni su quanta parte dei servizi prodotti viene destinata al consumo intermedio, ed in particolare sulla componente destinata ad entrare nel processo produttivo delle imprese manifatturiere. Questa analisi consentirà di evidenziare in quali tipologie di servizio è più forte la “vocazione” di servizio alle imprese, e conseguentemente si potrà fare una stima di quanta parte del valore aggiunto prodotto dal settore terziario può ascriversi ai servizi alle imprese. Questo approccio quindi non parte da una definizione ex-ante delle categorie di servizio classificabili tra i servizi alle imprese, ma tenta di far emergere questa definizione dai dati. L'analisi sulle tavole Input-Output per l'Umbria viene affiancata da un confronto con i dati sull'Italia, che a sua volta verrà messa a paragone con i principali Paesi Europei (Francia, Germania, Regno Unito e Spagna) per evidenziare elementi comuni e differenze. L'analisi si concentra poi sulla intensità delle relazioni tra le attività di servizio e le diverse produzioni manifatturiere e si conclude con considerazioni sull'apertura internazionale ed inter-regionale dei servizi alle imprese nell'economia umbra.

Dati Nel presente lavoro si utilizzano dati sulle Tavole Input-Output per l’Umbria, per l’Italia e altri quattro Paesi Europei (Francia, Germania, Regno Unito, e Spagna)2. Nel

2 Le tavole Input-Output, riportando tutte le interrelazioni reciproche tra i vari settori di un sistema economico (regionale o nazionale), mostrano quali e quanti beni e servizi prodotti (output) da ciascun

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caso dell’Umbria, le tavole sono state sviluppate dall’IRPET, mentre per l’Italia e gli altri Paesi Europei sono predisposte dai rispettivi istituti di statistica nazionali3. I dati per l'Italia e gli altri Paesi Europei sono disponibili per il decennio 1995-2005, e ai fini di considerazioni sulla dinamica dei processi considerati, mostreremo i dati riferiti al 1995, 2000 e 2005. Nel caso dell’Umbria invece sono disponibili le tavole aggiornate al 2005 e al 2001, ma non è stato possibile recuperare informazioni antecedenti al 2001. Come si dirà nella sezione successiva, la volontà di giungere ad una definizione di servizi all’impresa basata sulla domanda e non sull’offerta, implica che, dal punto di vista metodologico, siano stati inclusi nell’analisi tutti i servizi privati (escludendo quindi i servizi non di mercato come quelli legati alla pubblica amministrazione e alla salute), raggruppati in 10 categorie:

- Commercio - Hotel e Ristoranti - Trasporti - Poste e Telecomunicazioni - Intermediazione Finanziaria e Assicurativa - Attività Immobiliari - Noleggio di Macchinari - Computer e Servizi Connessi - Ricerca e Sviluppo - Attività Professionali

Come mostremo più avanti, alcuni servizi, pur non essendo normalmente classificati come servizi alle imprese, in realtà vanno a soddisfare una domanda intermedia (da parte delle industrie, dunque) e quindi sono di fatto dei servizi alle imprese. Nei dati relativi all’Umbria, tuttavia non è sempre disponibile questo livello di dettaglio, quindi in alcuni casi sarà necessario aggregare i servizi nelle seguenti 6 categorie:

- Commercio - Hotel e Ristoranti - Trasporti, Magazzinaggio e Comunicazioni - Attività Finanziarie - Attività Immobiliari e Noleggio Macchinari - Computer, R&S e Attività Professionali

Ciò ovviamente a scapito della completezza dell’informazione, in particolar modo con riferimento all’ultimo aggregato, che racchiude in sé le tipologie di servizio più

settore sono utilizzati da altri come input nei loro processi produttivi. Per ulteriori approfondimenti: ISTAT (2006) e EUROSTAT (2008) 3 Le tavole I-O italiane sono disponibili sul sito Istat (http://www.istat.it/dati/dataset/20090610_00/); sul sito Eurostat (http://epp.eurostat.ec.europa.eu/portal/page/portal/esa95_supply_use_input_tables/data/workbooks) si possono trovare invece le tavole di tutti i Paesi Europei.

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interessanti da analizzare, poiché ad alta intensità di conoscenza e in forte sviluppo in tutte le economie considerate. Definizione dei servizi alle imprese In questo lavoro prendiamo spunto dal lavoro di Kox e Rubalcaba (2007), che considerano i servizi alle imprese (producers services) come una sorta di contenitore di una ampia gamma di servizi che include una parte di servizi al consumo utilizzati dalla imprese (come i viaggi di affari e gli affitti degli immobili), ma soprattutto servizi di rete (come la distribuzione, la logistica, l'intermediazione bancaria) e servizi alle imprese in senso stretto (corrispondenti al termine inglese business services), che vanno dalle attività a più alta intensità di conoscenza (come i servizi legati alla R&S, il software o i computer, la consulenza e i servizi di ingegneria) fino a servizi che Kox e Rubalcaba (2007) definiscono operational (come i servizi di sicurezza, di pulizia, di traduzione, di affitto macchinari).4 Una definizione ampia di servizi alle imprese può quindi avvalersi dell’informazione sulla parte di servizi prodotti da una economia e che viene destinata al consumo intermedio. Focalizzandoci solo sulla parte di servizi utilizzati dall’industria manifatturiera avremo poi una misura più stringente di servizi alle imprese, che evidenzia i legami inter-settoriali ed i processi di terziarizzazione dell'industria manifatturiera. La Tabella 1 sintetizza la distribuzione, per componenti della domanda, dei servizi prodotti dall’Umbria, così come riportato dalla tavola Input-Output regionale predisposta dall’IRPET. Tali servizi possono essere destinati a consumi intermedi (tra cui viene evidenziata la parte che viene utilizzata dall’industria manifatturiera), ad investimenti, esportazioni estere ed inter-regionali e spesa per consumi finali (delle famiglie e della P.A.). Per valutare le specificità umbre in queste attività, viene riportata la stessa informazione (senza ovviamente la componente di esportazioni inter-regionali) per l’Italia, che a sua volta può essere messa in relazione con gli altri principali Paesi Europei (Francia, Germania, Regno Unito e Spagna).

4 Si veda la figura 1 per una rappresentazione di sintesi di questa classificazione di servizi

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Fig. 1 - Una tassonomia di servizi alle imprese

Business services ad alta intensità di

conoscenza

Software e servizi connessi ai computer

Consulenza Servizi di marketing,

ingegneria e formazione del personale

...

Business services

Business services 'operativi'

Servizi di sicurezza e pulizia

Noleggio di attrezzature

Servizi di ricerca di lavoro temporaneo

Catering, call centers, traduzioni

...

Servizi ad intensità di rete

Distribuzione, servizi di import-export Trasporti e logistica Intermediazione bancaria e assicurativa Telecomunicazioni Servizi di energia

Servizi al consumo in parte utilizzati

dalle imprese

Viaggi di affari Servizi sanitari e di assicurazione Servizi immobiliari ...

Fonte: adattamento da Kox e Rubalcaba (2007)

In Umbria, i servizi destinati prevalentemente (più del 50 per cento) al consumo intermedio sono il Noleggio di Macchinari, le Attività Professionali, Computer e Servizi Connessi, e Intermediazione Finanziaria. I servizi di Ricerca e Sviluppo, solitamente considerati tra i servizi avanzati alle imprese, vanno solo in minima parte al consumo intermedio, mentre per oltre il 50 per cento sono destinati al consumo finale. Su questo risultato incide però notevolmente il ruolo della P.A. come utilizzatore di servizi di R&S, che in Umbria, come più in generale in Italia, è decisamente più alto che in altre economie. La quota di R&S al consumo finale è infatti vicina al 30% in Francia e Spagna, ed è appena il 3.5% nel Regno Unito. Vale la pena notare che poco più del 9% dei servizi di R&S prodotti in Umbria sono destinati all’esportazione verso altre regioni. E’ difficile valutare se questa percentuale riveli

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qualche propensione dell’Umbria a fornire servizi avanzati ad altre regioni, perché non abbiamo un valore di riferimento sulla propensione di altre regioni italiane su questo aspetto. Ci limitiamo a notare che il peso delle esportazioni inter-regionali nei servizi relativamente più avanzati (come R&S, computer, e attività professionali) è piuttosto basso in Umbria, rispetto ad esempio a servizi più tradizionali come trasporti, commercio, hotel e ristoranti. Può essere incoraggiante notare come nei servizi di intermediazione immobiliare e di poste e telecomunicazioni, che comunque sono caratterizzati da una certa intensità di lavoro qualificato, il peso delle esportazioni interregionali sia piuttosto elevato. Prendendo una definizione più stringente di servizi alle imprese, ovvero limitandosi alla componente di domanda di servizi proveniente dall’industria manifatturiera, possiamo dire che alcuni servizi, come il noleggio di macchinari e le attività professionali confermano la loro “vocazione” verso l’utilizzo da parte di altre imprese, anche manifatturiere, ma anche altri servizi ora risultano usati in modo piuttosto intenso dall’industria. Questo è il caso del commercio, dei trasporti e della R&S, la cui produzione viene utilizzata per oltre il 10 per cento dall’industria manifatturiera. Viceversa, in settori come i servizi connessi ai computer, che per circa l’80% sono destinati al consumo intermedio, l’utilizzo da parte della manifattura è relativamente basso, segnalando quindi che questi servizi sono destinati prevalentemente ad altri settori dei servizi. Nel confronto con i valori riferiti all'intera economia italiana, l’Umbria presenta molte similarità ed alcune differenze. Le differenze più significative riguardano probabilmente i Trasporti, le Poste e Telecomunicazioni e la R&S. In questi settori, l’Umbria mostra una propensione inferiore verso il consumo intermedio. Tuttavia, soprattutto nel caso di Trasporti e Poste e Telecomunicazioni i dati vanno letti con cautela, poiché in questi settori la quota di esportazione inter-regionale è piuttosto rilevante e non potendo distinguere quanta parte di questi flussi sia destinata al consumo di altre imprese localizzate in altre regioni. Nel caso della R&S, sembra invece che la propensione a destinare questi servizi al consumo finale (della P.A.) sia decisamente più rilevante che nel resto d’Italia. La disponibilità di dati internazionali ci consente di esprimere qualche valutazione di confronto tra l’Italia e i principali Paesi Europei. Per questo confronto il lettore può far riferimento sia alla Tabella 1, che ai Grafici 1 e 2, in cui similarità e differenze tra paesi nella distribuzione di ciascun servizio per componenti di domanda sono evidenziate in modo più diretto. Questo confronto conferma che esistono delle caratteristiche strutturali dei settori dei servizi, che rendono alcuni di questi più orientati al consumo intermedio, caratterizzandoli di più come servizi alle imprese. In particolare, le attività professionali, il noleggio di macchinari, l’intermediazione finanziaria, i trasporti, le poste e telecomunicazioni sono in tutti i Paesi – seppure con alcune differenze – per oltre il 50% destinati al consumo intermedio e in una percentuale piuttosto alta sono generalmente destinati all’industria manifatturiera. Le maggiori differenze

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internazionali si concentrano nei settori della R&S e dei servizi connessi ai computer. Nel settore dei servizi di R&S si segnalano i casi di Francia e Regno Unito in cui oltre il 60% di questi servizi sono destinati al consumo intermedio, ma nel caso francese, il 48.6% è utilizzato dall’industria manifatturiera, mentre nel Regno Unito questa quota scenda ad appena il 9.6%. In altre parole, i servizi di R&S in Francia alimentano soprattutto l’industria manifatturiera, mentre nel Regno Unito, sono soprattutto utilizzati da altre industrie che offrono servizi. Questa differenza in parte riflette le diverse specializzazioni produttive e commerciali dei due Paesi. Differenze tra Regno Unito e Francia nel servizi di R&S si registrano anche nella distribuzione dei consumi diversi da quelli intermedi. Mentre in Francia i servizi di R&S non utilizzati dall’industria e dai servizi, vanno soprattutto ai consumi della P.A., nel Regno Unito sono quasi interamente esportati. Per quanto riguarda i servizi connessi ai computer, Italia e Regno Unito registrano i valori più alti nella quota destinata a consumi intermedi (solo in minima parte però destinati all’industria manifatturiera). In Francia, Germania e Spagna invece i servizi connessi ai computer sono destinati in misura più rilevante ad investimento. Nella misura in cui sono le imprese che effettuano investimenti, questo non cambia di molto le nostre considerazioni sul fatto che questi servizi siano di fatto largamente destinati al supporto all’attività di impresa. L’Italia e l’Umbria mostrano una peculiarità soprattutto rispetto alle esportazioni di servizi relativamente più avanzati. Ad esempio, in Italia solo l’1.44% (0.65% in Umbria) della fornitura di servizi connessi ai computer viene esportata, contro il 16% della Spagna, il 15% della Germania e il 9.2% del Regno Unito. Nel caso della R&S, in Italia solo il 4.2% viene esportato (1.2% in Umbria) contro il 35% del Regno Unito, il 24.5% della Germania e il 16.4% della Spagna. Viceversa, l’Italia (e l’Umbria) ha una propensione più marcata di altri Paesi ad esportare servizi legati al noleggio di macchinari. Peso dei servizi alle imprese sul valore aggiunto ed evoluzione nel tempo La sezione precedente ha messo in luce come esistono molte similarità tra diverse economie nel modo in cui i servizi si distribuiscono tra le varie componenti della domanda. In particolare, alcuni servizi – come Noleggio di Macchinari, Attività Professionali, Computer e Servizi Connessi, Intermediazione Finanziaria, Ricerca e Sviluppo - sono destinati in maniera preponderante al consumo intermedio, e questo aspetto li caratterizza maggiormente come servizi alle imprese. Tuttavia, abbiamo visto anche come tutti i servizi vengano utilizzati, sebbene in proporzioni diverse, da altre industrie, e dall’industria manifatturiera in particolare. Per quantificare il valore aggiunto prodotto dai servizi alle imprese, in letteratura si è seguita la strada di sommare il valore aggiunto solo di alcuni comparti. Ad esempio, Foresti, Guelpa e Trenti (2007) considerano come servizi connessi alla produzione il comparto dei trasporti, dell'intermediazione finanziaria, i servizi connessi all'industria, la R&S e gli

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altri servizi. Secondo questa impostazione, tutta la produzione di questi settori viene considerata connessa alla produzione, mentre la produzione di altri settori viene considerata in toto non connessa alla produzione. In realtà, la tabella 1 ha mostrato come, sebbene in questi settori sia effettivamente preponderante la quota di produzione destinata al consumo intermedio, una parte viene comunque destinata al consumo finale. Viceversa, nei settori considerati non connessi alla produzione, esiste comunque una quota non irrilevante di produzione destinata al consumo intermedio. In questo lavoro abbiamo quindi optato per ponderare il valore aggiunto di ciascun settore per la quota di produzione destinata al consumo intermedio e di considerare questa quota di valore aggiunto come il contributo di ciascun comparto del terziario alla produzione di servizi alle imprese. Questo ci ha consentito di ricavare, oltre al valore aggiunto dei settori manifatturieri e dei servizi nel complesso, anche una stima del valore aggiunto generato dai servizi alle imprese e quello generato dalla più restrittiva definizione di servizi alle imprese destinati all’industria manifatturiera. La tabella 2 fornisce un quadro delle differenze tra economie nel 2005, mentre la tabella 3 e i Grafici 3 e 4 offrono una rappresentazione della evoluzione nel tempo del peso dei servizi (e dei servizi alle imprese in particolare) sul valore aggiunto prodotto da ciascuna economia. Dalla Tabella 2 si può apprezzare come nel 2005 in Umbria il valore aggiunto prodotto dai servizi ammonti a poco meno del 50 per cento del valore aggiunto complessivo (47.4%). Questa percentuale è in linea con il valori di Italia, Germania e Spagna, mentre si attesta al di sotto di dei valori assunti in Paesi a maggiore vocazione all’industria terziaria, come Francia e Regno Unito5. All’interno dell’industria dei servizi, vale la pena notare come una buona parte del valore aggiunto sia prodotto dai comparti delle attività immobiliari e del commercio.6 In Umbria, questi due settori producono circa il 55% del valore aggiunto dei servizi, e percentuali analoghe si registrano in tutte le economie considerate. Come abbiamo visto nella sezione precedente, in questi due settori la componente di produzione destinata al consumo intermedio è relativamente contenuta, quindi non sono tipicamente da considerarsi settori che offrono servizi alle imprese. Tuttavia, escludere questi settori dal computo del peso del valore aggiunto prodotto dalle attività di servizio alle imprese potrebbe portare ad una notevole sottostima del fenomeno. Pertanto, in questo lavoro

5 Va detto che il valore aggiunto dei servizi in Umbria può essere sottostimato, in quanto in questa analisi è stato escluso il settore dei servizi pubblici e non di mercato, che però in Umbria rappresenta una quota relativamente alta del valore aggiunto nel terziario. 6 La tavola Input-Output per l’Umbria fornisce dati sul valore aggiunto per 6 settori di servizi, rispetto alla disaggregazione a 10 settori disponibile per l’Italia e gli altri Paesi. Questo comporta, ad esempio che non sia possibile distinguere il contributo al valore aggiunto di Attività Immobiliari da Noleggio di macchinari. Tuttavia, visto il peso relativamente contenuto assunto da quest’ultimo settore in Italia e negli altri Paesi, le considerazioni svolte nel testo non dovrebbero essere significativamente influenzate da questa aggregazione.

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procederemo ad una stima del peso dei servizi alle imprese sulle economie, ponderando il valore aggiunto prodotto da ciascun settore di servizi per la percentuale di produzione destinata ai consumi intermedi (che, come è già stato ricordato, individua la quota che può a ragione essere intesa come di servizio alle imprese). Eseguendo questa ponderazione otteniamo una stima che per l’Umbria suggerisce che il 43.6% del valore aggiunto prodotto dai servizi sia destinato al consumo intermedio e, secondo la nostra definizione, possa essere considerato la reale componente di servizio alle imprese. Nel confronto con l’Italia nel suo complesso, si potrebbe dire che i servizi alle imprese sono meno rilevanti in Umbria, tuttavia, va tenuto presente che una quota non marginale di valore aggiunto (10.7%) viene destinato alle esportazioni inter-regionali, che in parte sono probabilmente servizi ad imprese al di fuori dell’Umbria. Nel confronto internazionale, l’Italia si pone tra i Paesi con il maggior peso dei servizi alle imprese, assieme Francia, Germania e Regno Unito, mentre in Spagna la quota di servizi destinata al consumo finale è decisamente più alta e supera quella di servizi destinati a consumo intermedio. In Umbria, il settore delle Attività immobiliari e delle attività professionali, di R&S e connesse ai computer producono oltre il 50% del valore aggiunto che dalle nostre stime risulterebbe destinato al consumo intermedio. In particolare, le attività professionali, di R&S e connesse ai computer producono il 12.2% di tutto il valore aggiunto dei servizi destinato ai consumi intermedi, mentre le Attività immobiliari destinate a consumo intermedio pesano per l'11.3% sul valore aggiunto dei servizi. Vale la pena sottolineare che un approccio tradizionale ci avrebbe portato ad assumere un contributo nullo di questo settore al valore aggiunto dei servizi alle imprese. Viceversa, sebbene una quota limitata di servizi immobiliari siano destinati ad altre imprese (ad esempio per l'affitto degli uffici e degli immobili utilizzati per l'attività produttiva e commerciale), il fatto che questo settore produca un valore aggiunto particolarmente significativo, rende il settore dei servizi immobiliare una componente importante dei servizi alle imprese, specie in Umbria. In Italia, il peso delle Attività immobiliari è leggermente più contenuto, mentre è più alta la componente di servizio alle imprese del settore dell’intermediazione finanziaria ed assicurativa. Nel confronto internazionale, non si registrano particolari peculiarità. L’Italia presenta un peso del valore aggiunto delle attività professionali relativamente più basso che in altri Paesi (ad eccezione della Spagna), mentre il Regno Unito si caratterizza per un peso significativo del valore aggiunto nei servizi connessi ai computer. Il Grafico 3 offre alcuni elementi per valutare la dinamica del peso del valore aggiunto nei servizi alle imprese. Per l’Umbria sono disponibili i confronti tra il dato del 2001 e quello del 2005, mentre per l’Italia e gli altri i Paesi Europei e’ possibile osservare la dinamica in tre anni: 1995, 2000 e 2005. La linea più scura, e con valori attorno al 50 per cento per tutte le economie, è riferita al valore aggiunto dei servizi. La dinamica è sostanzialmente stabile per l’Umbria e per Germania e Spagna, mentre in Italia, Francia e Regno Unito il peso dei servizi è cresciuto molto nel decennio considerato.

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In tutti i Paesi, la crescita del valore aggiunto dei servizi sembra trainata dalla componente di servizi alle imprese (BS), tuttavia si osserva come il valore aggiunto generato dalla fornitura di servizi alla manifattura (la linea caratterizzata dai valori medi più bassi) è sostanzialmente stabile. In altre parole, i dati mostrano una crescita del valore aggiunto dei servizi che si stima possa essere associato alla fornitura di servizi ad altri settori dell’economia (consumi intermedi), ma in larga misura questo aumento si deve ad una crescita della componente interna ai servizi, piuttosto che a relazioni più intense tra manifattura ed industria. La dinamica dell’Umbria presenta invece alcune peculiarità. In questo caso infatti il valore aggiunto che si stima possa essere associato a servizi alle imprese è lievemente diminuito tra il 2001 e il 2005, mentre è cresciuto il valore aggiunto non attribuibile ai consumi intermedi di servizi da parte delle altre industrie. Questo risultato – in linea con Ferrucci (2008) – suggerisce che la struttura industriale dell'Umbria stia andando verso un modello post-industriale, piuttosto che verso un modello di terziarizzazione avanzata. L’utilizzo dei servizi alle imprese da parte dei settori manifatturieri e dei servizi Una volta affrontato il problema di definire i servizi alle imprese e di quantificarne il peso in termini di valore aggiunto e l’evoluzione nel tempo, affrontiamo gli aspetti più strutturali dell’utilizzo di tali servizi da parte dei vari settori dell’economia. In primo luogo, evidenzieremo quali sono i settori che usano più intensamente i servizi alle imprese nella propria produzione, sottolineando le differenze tra economie e l’evoluzione nel tempo in questa propensione all’uso dei servizi alle imprese. In secondo luogo, analizzeremo quali servizi sono relativamente più utilizzati dai diversi settori manifatturieri e non. Rispetto al primo punto, la Tabella 3 mostra evidenza in linea con una rilevante (e crescente) pervasività dei servizi. Infatti, nel 2005 i servizi pesano per il 30.8% del totale degli input utilizzati dall’industria manifatturiera (D) umbra, per il 40% nell’industria estrattiva (C) e per il 26.4% nel settore primario (A-B). Va inoltre notato come queste percentuali siano cresciute sensibilmente (del 2.7% nel caso dell'industria manifatturiera, del 2.4% nell'industria estrattiva e del 3.1% nel settore primario) tra il 2001 e il 2005. Concentrandosi sul settore manifatturiero si può apprezzare come l'industria umbra faccia un uso più intensivo di servizi sia del resto dell'Italia, che degli altri paesi presi a riferimento. Nel 2005, il 30.8% degli input utilizzati dall'industria manifatturiera umbra provenivano dall'industria, rispetto a valori poco al di sotto del 30% nel caso dell'Italia nel suo complesso e della Francia, e di valori vicini al 25% per Germania e Spagna. La Tabella 3 illustra come esistano delle specificità settoriali nell'uso di servizi, che in larga misura prescindono dalle caratteristiche delle diverse economie. Nei settori della raffinazione di petrolio (DF) l'incidenza e' molto bassa, mentre in altri settori, come quelli legati alla stampa e all'editoria (DE), alla produzione

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di macchine elettriche ed elettroniche (DL), alla lavorazione di minerali non metalliferi (DI) l'incidenza è piuttosto alta7. La Tabella 4 invece mette in luce quali servizi alle imprese sono più utilizzati da ciascun settore. Ci concentriamo sui risultati riferiti all’Umbria, ma analoghe considerazioni possono essere fatte sull’Italia nel suo complesso e sugli altri Paesi. I servizi più utilizzati sono quelli del commercio, delle attività professionali, dei trasporti e dell’intermediazione finanziaria. Tuttavia, l’intensità con cui questi servizi alle imprese vengono utilizzata varia soprattutto tra l’industria manifatturiera e quella dei servizi. Mentre nel caso dei settori manifatturieri il 53.4% dei servizi riguarda attività legate al commercio o ai trasporti, nel caso delle industrie dei servizi, sono le attività professionali, di intermediazione finanziaria e immobiliare gli input più utilizzati. Differenze significative si riscontrano anche all’interno dei vari settori manifatturieri. In particolare, i servizi di distribuzione commerciale all’ingrosso e al dettaglio sono particolarmente utilizzati nell’industria dei mezzi di trasporto, nell’alimentare, nell’industria delle macchine elettriche ed elettroniche e nelle altre industrie manifatturiere. I servizi di trasporto invece sono molto utilizzati dall’industria del legno, dall’alimentare e dall’industria dei minerali non-metalliferi. E’ interessante notare anche come le industrie tessili facciano un uso relativamente intenso di servizi immobiliari. Per quanto riguarda i servizi più avanzati, le attività professionali sono generalmente piuttosto importanti, con l’eccezione dell’industria del legno e della raffinazione del petrolio, nei quali questo tipo di servizio pesa meno del 10% nel totale dell’uso di servizi. I servizi connessi ai computer e quelli di R&S sono invece relativamente poco utilizzati, ma si registrano interessanti eccezioni. Nei settori della raffinazione del petrolio e dei mezzi di trasporto i servizi connessi ai computer pesano per il 9.2 e il 6.43 per cento del totale dei servizi utilizzati, a fronte di un 2.5% del complesso delle industrie manifatturiere. Non sorprende che invece i servizi di R&S siano invece relativamente più utilizzati in alcune industrie ad alta tecnologia, come l’industria chimica, quella della gomma e l’industria elettronica. Internazionalizzazione L’ultimo aspetto che possiamo analizzare utilizzando le tavole Input-Output è l’apertura internazionale ed interregionale dell’Umbria nei settori dei servizi. A tal fine mettiamo in relazione le esportazioni (importazioni) di ciascuna tipologia di servizio, rispetto al totale dell’offerta (uso) dello stesso. Purtroppo la tavola I-O del 2001 per l'Umbria (utilizzata nel resto del lavoro per i confronti inter-temporali) non

7 E' di tutta evidenza che i servizi utilizzati dai diversi settori manifatturieri sono diversi. Ad esempio, come si vede in Tabella 4, l'industria della lavorazione dei minerali non metalliferi e le industrie legate all'editoria, utilizzano intensamente servizi di trasporto, mentre le industrie elettronica e chimica fanno relativamente più uso di servizi di commercializzazione e R&S

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fornisce informazioni dettagliate su import ed export a livello di prodotto, quindi non è possibile fare considerazioni sull'evoluzione temporale dell'apertura internazionale dell'Umbria8. L'Umbria mostra una propensione all’esportazione generalmente inferiore all’Italia nel suo complesso. Solo nei settori del commercio e del noleggio dei macchinari l’Umbria ha performance di esportazione superiori alla media nazionale.9 Particolarmente pesante appare il ritardo nelle attività professionali, connesse ai computer e nella R&S. Sul lato delle importazioni, l’Umbria non si discosta molto dai valori medi dell’Italia. Si registra una propensione all’importazione sensibilmente minore della media italiana nei settori del commercio, degli hotel e ristoranti, nei trasporti e nelle attività professionali. E’ significativo che in Umbria la propensione ad importare servizi di R&S sia più alta che nel resto d’Italia (6.25 contro 5.10 per cento). Su questo dato potrebbe incidere la presenza delle grandi multinazionali presenti nella regione. In questo caso infatti il flusso di servizi di R&S acquistati potrebbe riferirsi ai servizi forniti dalle casemadri alle affiliate presenti in Umbria. Se da un lato questo denota una scarsa indipendenza tecnologica delle affiliate umbre, dall'altro conferma che le multinazionali straniere sono un veicolo per trasferire conoscenza tecnologica nei territori in cui operano. In linea teorica, questo potrebbe dar luogo ad esternalità per le imprese umbre, che però si devono attrezzare per essere in grado di cogliere queste opportunità, investendo in capitale umano e in R&S. Per quanto riguarda le relazioni economiche con altre regioni italiane, l’Umbria registra in tutti i servizi una maggiore propensione ad usare input provenienti dal resto d’Italia, piuttosto che a fornire servizi al altre regioni. Questa “dipendenza” è particolarmente marcata nei settori della R&S, dei servizi di poste e telecomunicazione, e nei trasporti. Come già sottolineato, in assenza di un confronto con altre regioni, è però difficile esprimere valutazioni sulla specificità dell'Umbria su questi aspetti. L'apertura internazionale dell'Italia invece appare generalmente superiore dal lato delle importazioni che da quello delle esportazioni. Ad esempio i servizi importati pesano per oltre il 10% dei servizi di Commercio, Hotel e Ristoranti, Trasporto e Noleggio di Macchinari utilizzati in Italia, mentre i corrispondenti valori della quota di servizi

8 Esiste il dato al 2001 sulle esportazioni e le importazioni dei vari settori dei servizi. Tuttavia, mentre per le esportazioni non fa grande differenza considerare prodotti o settori, nel caso delle importazioni, è qualitativamente diverso occuparsi delle importazioni di servizi (considerati come prodotti), che può avvenire – come abbiamo visto – anche per una domanda dell'industria manifatturiera, o di importazioni dei settori di servizi (che solo in parte riguarda servizi importati). Ai fini della nostra analisi, riteniamo più interessante occuparci delle importazioni di servizi (evidenziate in Tabella 5). 9 Nel settore delle attività immobiliari l’Umbria mostra valori piuttosto alti delle esportazioni. Questo dato però è in controtendenza con tutti i dati internazionali (si veda la Tabella 1 ad esempio). Questo risultato, che configurerebbe una peculiarità tutta umbra, però richiede ulteriori verifiche, che al momento non siamo stati in grado di effettuare, sull’attendibilità dell’informazione sull’esportazione di servizi immobiliari forniti dalla tavola I-O per l’Umbria.

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esportati sulla produzione si attestano su valori ben al di sotto del 5% (con l'eccezione dei servizi di trasporto). E' di tutta evidenza che non tutte le importazioni di servizi sono effettuate dalle imprese10, ma vale la pena sottolineare la penetrazione delle importazioni relativamente alta (sopra il 5%) in settori come le telecomunicazioni, le attività professionali, i servizi di R&S e di intermediazione finanziaria. Questo potrebbe far pensare ad una certa dipendenza dall'estero per attività di servizio anche avanzati. In realtà però non bisogna dimenticare che le importazioni possono essere legate a forme di internazionalizzazione attiva. Ad esempio, l'importazione di servizi di distribuzione commerciale, di noleggio di macchinari e di trasporti potrebbe proprio risultare da attività di esportazione delle imprese italiane, mentre le importazioni di servizi avanzati, potrebbero essere il risultato di processi di delocalizzazione di attività produttive o di servizio, precedente condotte all'interno dell'impresa, o comunque all'interno del territorio nazionale. In questa prospettiva, la dinamica della quota di servizi importati sul totale dei servizi utilizzati potrebbe fornire informazioni sull'evoluzione dei processi di internazionalizzazione. Questa lettura però non fornisce alcuna indicazione di particolari pattern, se non che si registra un aumento, sia sul lato delle importazioni che dal lato delle esportazioni, nel peso delle attività professionali, del noleggio di macchinari.

Considerazioni conclusive La crescente terziarizzazione che ha caratterizzato le principali economie avanzate ha messo in luce l'importanza del settore dei servizi alle imprese e delle interdipendenze tra industria manifatturiera e dei servizi. Come evidenziato in alcuni contributi pubblicati nel RES 2007 (Ferrucci, 2008; Tondini, 2008) l'Umbria si caratterizza per un basso peso dell'industria manifatturiera, che però si accompagna ad un ipertrofico settore delle costruzioni, dei servizi al consumo e della P.A., piuttosto che ad un terziario avanzato sviluppato. In questo lavoro si è cercato di fornire ulteriori elementi per comprendere la posizione dell'Umbria nel settore dei servizi alle imprese. L'idea centrale del contributo è che tale settore produce input che vengono utilizzati da altre imprese, quindi per misurare il peso di queste attività nell'economia, si può far riferimento alla componente di produzione di servizi che viene destinata al consumo intermedio. Questo ha consentito di far emergere dalle tavole input-output dell'Umbria (ma anche dell'Italia nel suo complesso e di 4 grandi Paesi Europei come Francia, Germania, Regno Unito e Spagna) i settori che più si caratterizzano come fornitori di servizi alle imprese: Noleggio di Macchinari, le Attività Professionali, Computer e Servizi Connessi, e Intermediazione Finanziaria. Questo risultato non

10 E' il caso delle importazioni di servizi di Hotel e Ristoranti, che in larga misura fanno riferimento a turisti italiani all'estero.

DENTRO L’UMBRIA due438

sorprende, perchè sono proprio questi i settori che la letteratura ha utilizzato per definire i servizi alle imprese. Tuttavia, prendendo una definizione più stringente di servizi alle imprese, ovvero limitandosi alla componente di domanda di servizi proveniente dall’industria manifatturiera, possiamo dire che alcuni servizi, come il noleggio di macchinari e le attività professionali confermano la loro “vocazione” verso l’utilizzo da parte di altre imprese, ma anche altri altri settori risultano usati in modo piuttosto intenso dall’industria. Questo è il caso del commercio, dei trasporti e della R&S, la cui produzione viene utilizzata per oltre il 10 per cento dall’industria manifatturiera. Viceversa, in settori come i servizi connessi ai computer, che per circa l’80% sono destinati al consumo intermedio, l’utilizzo da parte della manifattura è relativamente basso, segnalando quindi che questi servizi sono destinati prevalentemente ad altri settori dei servizi. Se si passa però a fare una valutazione del peso dei servizi alle imprese in termini di valore aggiunto, non si può non tenere conto che alcuni settori in cui è effettivamente preponderante la quota di produzione destinata al consumo intermedio, una parte viene comunque destinata al consumo finale. Viceversa, nei settori considerati non connessi alla produzione, esiste comunque una quota non irrilevante di produzione destinata al consumo intermedio. Ponderando il valore aggiunto di ciascun comparto dei servizi per la quota di produzione destinata a consumi intermedi da parte di ciascun settore, notiamo che alcuni settori insospettabili, come le attività immobiliari, hanno un peso notevole sul valore aggiunto dei servizi alle imprese. La stima del valore aggiunto attribuibile ai servizi alle imprese mette in luce la prima peculiarità dell'economia Umbra. Mentre nel resto di Italia (e negli altri paesi europei) la crescita dei servizi alle imprese traina la crescita del valore aggiunto dei servizi, in Umbria, il valore aggiunto dei servizi alle imprese diminuisce nel periodo 2001-2005, mentre il valore aggiunto attribuibile a servizi non connessi alla produzione registra una (seppure lieve) dinamica positiva. A margine di questo risultato, vale anche la pena ricordare che il valore aggiunto dei servizi alle imprese diretti verso l'industria manifatturiera è sostanzialmente stabile in tutti i Paesi, mentre il valore aggiunto dei servizi destinati alla produzione di altri servizi è in crescita. In altre parole, la parte più dinamica dell'economia non sembra essere legata ad interdipendenze tra manifattura e servizi, quanto tra comparti interni al settore terziario. Nonostante il peso dell'industria manifatturiera e dei servizi alle imprese sia relativamente contenuto in Umbria, a favore dell'industria delle costruzioni e di servizi al consumo, la manifattura umbra mostra una interdipendenza con il settore terziario in linea con il resto d'Italia e superiore a quella degli altri paesi europei. Questo potrebbe avere a che fare con il modello di industrializzazione diffusa, basato su piccole e piccolissime imprese con un basso livello di integrazione verticale delle imprese, che devono ricorrere all'esternalizzazione di attività di servizio. In altre parole, i dati mostrano una situazione forte complementarità' potenziale tra manifattura e servizi alle imprese in Umbria, che però si scontra con una dinamica di medio-lungo periodo che ha portato a ridursi in modo drastico sia la base industriale

AURAPPORTI: RES 2008-09 439

che quella dei servizi alle imprese (Bracalente, 2007). La sfida dell'economia umbra in questa prospettiva diventa quella di rafforzare la base industriale anche in termini dimensionali, valorizzando le complementarità con i servizi alle imprese. L'ultimo aspetto che emerge dall'analisi è il profilo di apertura internazionale . L'Umbria mostra una propensione all’esportazione generalmente inferiore all’Italia nel suo complesso, che a sua volta tende ad esportare meno servizi degli altri paesi europei considerati nell'analisi. Particolarmente pesante appare il ritardo nelle attività professionali, connesse ai computer e nella R&S, segnalando una scarsa competitività nei settori relativamente più avanzati. Sul lato delle importazioni, l’Umbria non si discosta molto dai valori medi dell’Italia e sembra evidenziarsi una maggiore apertura in termini di acquisti di servizi dall'estero, rispetto alla capacità di offrire servizi a controparti estere. Questo risultato, se da un lato evidenzia una certa “dipendenza” dai servizi importati, dall'altro può essere letto come l'opportunità di utilizzare in produzione servizi avanzati. Ad esempio, è significativo che in Umbria la propensione ad importare servizi di R&S sia più alta che nel resto d’Italia. E' del tutto probabile questo risultato derivi dal flusso di servizi di R&S forniti dalle casemadri alle affiliate delle multinazionali presenti in Umbria. Se da un lato questo denota una scarsa indipendenza tecnologica delle affiliate umbre, dall'altro conferma che le multinazionali straniere sono un veicolo per trasferire conoscenza tecnologica nei territori in cui operano. Questo potrebbe rappresentare una importante fonte di esternalità per le imprese umbre, che però si devono attrezzare per essere in grado di cogliere queste opportunità, investendo in capitale umano e in R&S.

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AURAPPORTI: RES 2008-09 451

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POLITICHE OCCUPAZIONALI DIFENSIVE E RECESSIONE Lorenzo Birindelli Nel 2008-2009 l’economia italiana è stata colpita da una recessione di proporzioni inusitate, che non trova paragoni neanche in quella del 1992-93, quando il sistema manifatturiero italiano si poté almeno avvantaggiare di una svalutazione considerevole, in presenza di policies che riuscirono a contenere le spinte inflazionistiche. Un’altra importante differenza rispetto al 1992-1993 è la presenza di una politica monetaria, quella della BCE, fortemente espansiva, messa in atto anche per contrastare il credit crunch generato dalla crisi finanziaria internazionale che si é scatenata a partire dal fallimento della Lehman Brothers. Nel 1993-1993 la banca d’Italia dovette operare invece con il rischio di una crisi valutaria di proporzioni potenzialmente dirompenti, anche per le possibili ripercussioni sul costo di gestione dello stock di debito pubblico. Per fornire un riferimento quantitativo, possiamo far riferimento alla Cassa Integrazione Guadagni (CIG): il “picco” a livello nazionale delle ore autorizzate del 1993 fu di 550 milioni, partendo da un livello, negli anni precedenti, di 350-400 milioni (Bankitalia, Relazione annuale 1997); a partire dal 1994 ha inizio un processo di discesa strutturale, che porterà (almeno fino al 2008) le ore di CIG annue a collocarsi tra i 150 ed 250 milioni (225 nel 2008); nel 2009 si sono, già nei primi dieci mesi dell’anno, superati i 700 milioni di ore autorizzate, tra ordinaria e straordinaria, partendo oltre da livelli che erano nettamente inferiori a quelli dei primi anni ‘90. Il 2009 farà con ogni probabilità registrare alla luce di livelli dei mesi di settembre ed ottobre (intorno ai 100 milioni di ore autorizzate a livello nazionale), intorno ai 900 milioni di ore autorizzate. Tale valore corrisponde ad oltre 500 mila dipendenti a tempo pieno per 12 mesi, pari a quasi il 5% dell’occupazione dipendente nel settore privato extra-agricolo. In Umbria la fase congiunturale ha portato nei primi 10 mesi del 2009 ad una crescita complessiva della CIG dello stesso ordine di grandezza di quella media italiana (4 volte i livelli degli anni precedenti). Nel 2009, si arriverà probabilmente nella regione a toccare il tetto dei 10,5 milioni di ore autorizzate, corrispondenti a oltre 6 mila dipendenti a tempo pieno, pari a poco meno del 4% del totale dell’occupazione

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dipendente nel settore privato extra-agricolo. Si tenga presente che dal 1996 al 2008 le ore di CIG autorizzate nella regione non avevano mai superato i 3,5 milioni (2,4 nel 2008, anno di inizio della recessione). Il sistema delle politiche occupazionali difensive, ovvero degli “ammortizzatori sociali”, italiano1 è stato, in tempi recenti e meno recenti, sottoposto a critiche, principalmente rivolte: - alla sua scarsa “generosità”; - alla sua mancanza di universalità; - alla pochezza od inesistenza di legami con le politiche attive dell’occupazione. La quantità, relativamente scarsa in chiave di confronti internazionali, di risorse destinate alle prestazioni di disoccupazione è stata messa in rapporto con quella invece relativamente abbondante, destinata delle prestazioni pensionistiche. Se è vero che l’attuale fase recessiva ha imposto, attraverso l’utilizzo in “deroga” degli strumenti, l’estensione della copertura delle politiche difensive a segmenti dell’occupazione in precedenza esclusi, non è stata (né con ogni probabilità avrebbe potuto essere) questa l’occasione di un ripensamento complessivo del sistema. Siamo, infatti, in presenza di vere e proprie emergenze dal punto di vista delle crisi industriali, di un disavanzo pubblico “da anni ‘80” e di spinte verso la riduzione del cuneo fiscale, spinte che sono in oggettivo contrasto con l’aumento dello “spessore” economico degli ammortizzatori sociali. Per quanto riguarda la riduzione degli oneri del sistema pensionistico, si osserva solamente che rendere più difficile l’accesso alla pensione di anzianità e/o abbassarne l’importo unitario potrebbe, in una fase come l’attuale, tradursi essenzialmente (e direttamente) in un ulteriore aumento della disoccupazione. In tale contesto, molte realtà locali, e l’Umbria è senz’altro tra queste, hanno cercato, nella non facile situazione data, di “limitare i danni”, cercando di conservare l’apparato produttivo in condizioni tali da poter riprendere senza depauperamenti irreversibili la fase di ripresa, salvaguardando insieme le condizioni di reddito e di vita delle famiglie dei lavoratori coinvolti dalla crisi. Sia pure nei limiti degli strumenti e delle risorse disponibili, l’impegno della Regione, delle Parti Sociali e dell’INPS è stato consistente, come dimostrato anche dalla notevole crescita dalla CIG straordinaria, dove confluisce statisticamente la Cassa integrazione “in deroga”, destinata a soggetti in precedenza esclusi dalla prestazione.

1 Il presente articolo non ha né l’ambizione né la possibilità di inquadrare complessivamente il dibattito su welfare ed ammortizzatori sociali in Italia: tra l’ampia letteratura si rimanda a: U. Trivellato (a cura di) “Regolazione, welfare e politiche attive del lavoro” in “Il lavoro che cambia. Contributi tematici e Raccomandazioni”, indagine CNEL presentata il 2 febbraio 2009 in un Convegno tenutosi a Roma presso la Camera dei Deputati (http://www.portalecnel.it/Portale/IndLavrapportiFinali.nsf/vwCapitoli?OpenView&Count=40).

AURAPPORTI: RES 2008-09

455

Strumenti delle politiche occupazionali difensive nel welfare italiano Il sistema italiano di ammortizzatori sociali è basato su una gamma abbastanza ampia di strumenti. Essi sono, in prima battuta, classificabili2 in cinque categorie di prestazioni (per i dettagli tecnici sui singoli strumenti si rimanda al Glossario riportato nell’Appendice A): - una categoria di strumenti di tipo generalista, rappresentata dall’Indennità di Disoccupazione con requisiti pieni, di prestazioni e durata piuttosto contenute, il cui accesso è riservato a dipendenti, aventi particolari requisiti contributivi, il cui rapporto di lavoro sia cessato in maniera involontaria (licenziamento o dimissioni per giusta causa); - una categoria di strumenti, contrassegnati da un notevole grado di discrezionalità sulla durata della prestazione, di tipo industrialista, rappresentati; a) da uno strumento di tutela in costanza di rapporto di lavoro ed in presenza di una copertura contributiva, rappresentato dalla Cassa Integrazione Guadagni (ordinaria e straordinaria) e b) da un altro strumento, l’Indennità di Mobilità, in molti casi successivo alla CIG, in caso di licenziamento collettivo; la copertura garantita è decisamente più elevata che nel caso dell’Indennità di Disoccupazione, in termini di importo (l’80% della retribuzione, in teoria, ma con il medesimo massimale previsto per il primo schema) e, soprattutto, in termini di durata potendosi potenzialmente sommare il periodo di Cassa Integrazione straordinaria agli anni di Mobilità; - una categoria di strumenti di integrazione ex-post del reddito, riscontrabile nelle Indennità per i lavoratori dell’Agricoltura e per quelli dell’Edilizia, ed avente una applicazione più generalizzata nell’Indennità di Disoccupazione con requisiti ridotti; in tali casi la prestazione viene pagata a consuntivo, sulla base del numero di giornate non lavorate nel corso dell’anno precedente; - in posizione intermedia tra gli strumenti industrialisti e quelli generalisti si possono collocare la Cassa Integrazione “in deroga”, che viene estesa a categorie di lavoratori (Artigianato, Terziario), per cui non sussiste un’apposita copertura contributiva alle prestazioni della CIG; - infine, vanno menzionati i Lavori Socialmente Utili, che sono rivolti a particolari categorie di lavoratori, disoccupati (coperti o no da altri strumenti di protezione sociale) ed occupati in modo discontinuo; si tratta quindi di un elemento che combina l’integrazione del reddito a modalità tipiche del workfare e delle “politiche attive”.

2 Si utilizza lo schema proposto da S. Pirrone e P. Sestito, “Ai disoccupati ci pensa un’agenzia con sussidi e politiche attive”, in C. Dell’Aringa e T. Treu (a cura di), “Le riforme che mancano”, AREL - il Mulino (2009, in corso di pubblicazione).

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Si deve segnalare che, a causa della parziale indicizzazione dei massimali, il “tasso di sostituzione” (rapporto tra prestazioni e retribuzioni) è sceso ben al di sotto delle percentuali teoriche: se nel 1994 (anno di istituzione dei massimali) il tasso di sostituzione al netto del prelievo contributivo per un lavoratore in CIG o mobilità la cui retribuzione fosse stata pari a quella media era del 54,8%, nel 2008 la medesima percentuale è scesa fino al 46,5%3. Viceversa, si è assistito al graduale rafforzamento dell’indennità di disoccupazione con requisiti pieni. Questo, e l’operare del massimale, hanno ridotto il divario in termini di importo mensile con gli strumenti che si sono definiti come industrialisti. Il divario resta invece ampio per quanto riguarda la durata del beneficio. La legge finanziaria per il 2001 ha portato la percentuale dell’indennità al 40% (dal 30%) della retribuzione e prolungato la durata per gli ultracinquantenni sino a nove mesi (dai sei mesi validi in generale); successivamente, la legge 80/2005 ha per la prima volta adottato una struttura ad importi decrescenti (pari al 50% per i primi sei mesi, 40% per i 3 successivi e 30% per l’ultimo mese, con durate ulteriormente innalzate, sino a 7 mesi sotto i 50 anni e 10 mesi per gli ultracinquantenni); infine la legge 247/2007, conservando la struttura decrescente, ha ulteriormente incrementato importi e durate (8 mesi per chi ha meno di 50 anni e 12 mesi per gli altri, con importi pari al 60% per i primi sei mesi, 50% per i successivi 2 e 40% per i restanti). Con quest’ultimo provvedimento si sono anche accresciuti durata ed importi dell’indennità di disoccupazione con requisiti ridotti (da 156 a 180 giornate; 35% per i primi 120 giorni e 40% per i successivi). Fin dalla fine degli anni ‘90, vi è una tendenza alla crescita degli interventi “in deroga”. Le deroghe sono solitamente previste per due tipologie di casi: a) disporre proroghe oltre i termini stabiliti di trattamenti in essere; b) estendere gli strumenti della Cassa integrazione e della Mobilità a settori, tipologie di imprese e categorie di lavoratori non coperti a termini di norma. L’utilizzo sistematico, la flessibilizzazione delle procedure (delega gli uffici periferici del Ministero del lavoro) e lo spessore delle risorse stanziate hanno col tempo trasformato la deroga in un sistema alternativo di protezione sociale. A partire dal 2007 tale sistema è stato in larga misura decentrato, con l’attribuzione di gran parte delle risorse al livello regionale: questo, se da una parte ha favorito un’azione più efficace, dall’altro ha aumentato oggettivamente il tasso di discrezionalità. Nell’ambito degli interventi posti in essere per fronteggiare la crisi del 2008-2009 la “territorializzazione” delle politiche difensive è stata ulteriormente accentuata. In base all’accordo tra Stato e Regioni del 12 febbraio 2009, lo Stato si è, infatti, impegnato a mettere a disposizione per il biennio 2009-2010, risorse per 5,35 miliardi di euro (tra

3 S. Pirrone e P. Sestito (op. cit., 2009).

AURAPPORTI: RES 2008-09

457

fondo per l’occupazione e fondo per le aree sottoutilizzate) e le Regioni contribuiranno con 2,65 miliardi tratti dai programmi regionali del Fondo Sociale Europeo. L’accordo è che le Regioni si facciano carico del 30% dell’importo della prestazione, mentre il restante 70%, oltre all’onere per la contribuzione figurativa, resta a carico dello Stato. Si tenga presente che negli anni scorsi le somme stanziate per gli ammortizzatori in deroga non avevano mai superato i 500 milioni annui. Altra direttrice d’intervento è quella dell’istituzione di un nesso tra politiche attive (reimpiego) e quelle difensive (strumenti di sostegno al reddito). In tal senso hanno operato la legge finanziaria per il 2004 (L. 350/2003, art. 3, comma 137) e, successivamente, il decreto-legge n. 249/2004 (art. 1-quinquies). Questa impostazione è stata ribadita e generalizzata più recentemente dal D.L. 185/2008 (art. 19, comma 10), a norma del quale ogni trattamento di sostegno al reddito è subordinato ad una dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro o a un percorso di riqualificazione professionale ed all’effettiva accettazione delle proposte (di lavoro o formazione) che dovessero pervenire, non solo dai servizi pubblici per l’impiego, ma anche da parte di datori di lavoro privati. L’ancora più recente legge 2/2009 all’art. 19, commi 1 bis e 10, ha introdotto un obbligo generalizzato per tutti i lavoratori sospesi o licenziati o comunque disoccupati, percettori di sostegno economico di qualsiasi natura, di rendere dichiarazione di immediata disponibilità ad un lavoro o ad un percorso di formazione o riqualificazione professionale, quale condizione per poter percepire l’indennità. In materia sono comunque necessari ancora provvedimenti attuativi. Un’altra linea di tendenza è quella relativa al coinvolgimento degli enti bilaterali. Già la legge finanziaria per il 1997 (L. 662/1996, art. 2, comma 28) introduceva la possibilità, per gli enti ed aziende erogatori di servizi di pubblica utilità, di un sistema basato sui fondi speciali di solidarietà (costituiti nei settori del credito, delle assicurazioni, degli ex monopoli e del trasporto pubblico locale). Si tratta di un sistema basato su una sorta di bilateralità assistita (i fondi sono costituiti in base ad accordi collettivi, ma recepiti con regolamento interministeriale e gestiti dall’Inps), finalizzato alla gestione degli esuberi strutturali, delle riduzioni di attività legate a situazioni congiunturali ed al finanziamento della formazione. Nel filone della bilateralità, il D.L. 185/2008 (art. 19, comma 1) ha introdotto un nuovo strumento, destinato ad operare in caso di sospensione del rapporto di lavoro da parte delle imprese che non godono della CIG. I lavoratori coinvolti dai processi di sospensione dell’attività lavorativa possono richiedere l’indennità di disoccupazione ordinaria o con requisiti ridotti, per un periodo non superiore, nell’anno solare, a 90 giorni. L’erogazione di tale beneficio è subordinata ad un intervento integrativo da parte degli enti bilaterali, che porti l’importo dell’indennità dal 60 all’80% dell’ultima retribuzione. Nella gestione della crisi economica in atto si individuano due capisaldi: - l’identificazione della CIG come strumento privilegiato, in grado di preservare nella recessione la base produttiva e occupazionale; - l’estensione della platea dei beneficiari.

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Per il potenziamento della CIG si è agito principalmente in via amministrativa. Per quanto riguarda quella ordinaria si è affermato che il limite massimo di tre mesi, eventualmente prorogabili fino a 12 mesi complessivi, previsto per la durata della CIG ordinaria, possa essere calcolato in base alle singole giornate di sospensione del lavoro. L’impresa può utilizzare quindi la CIG come strumento per la rimodulazione dell’orario e, contemporaneamente, è facilitata nell’utilizzare tutte le giornate di CIG autorizzate. Per la CIG straordinaria si è invece intervenuti estendendo l’area di applicazione del concetto di “evento improvviso ed imprevisto, esterno alla gestione aziendale”: si è affermato che tale evento “è riferibile non solo a puntuali fattispecie ascrivibili alla singola impresa, ma anche a tutte quelle situazioni emerse in ambito nazionale od internazionale che comportino una ricaduta sui volumi produttivi dell’impresa o sui volumi di attività e di conseguenza sull’occupazione”. L’estensione della copertura ha interessato anche rapporti di lavoro prima esclusi da ogni tutela, apprendisti, lavoratori in somministrazione ed anche collaboratori “monocommittente”. Per questi ultimi è prevista l’erogazione di un beneficio una-tantum (non particolarmente generoso) per chi, presentando particolari requisiti, si trovi nella condizione di chiudere l’unico contratto in essere. Interventi in Umbria Nella regione Umbria esiste un metodo di concertazione consolidato, innestato nel Patto per sviluppo e la coesione sociale dell’Umbria, con un tavolo di confronto permanente articolato in più tavoli tematici. Non è stato dunque necessario attivare uno specifico tavolo anticrisi. Sul tema si è sviluppato un confronto assiduo tra Regione e Parti sociali. Il 19 febbraio 2009 è stato firmato il decreto per l’assegnazione a Regioni e Province autonome delle risorse necessarie ad assicurare ai lavoratori interessati la continuità delle prestazioni e dei trattamenti relativi agli ammortizzatori sociali in deroga, in attesa dell’attuazione dell’accordo tra il Governo e le Regioni stipulato il 12 febbraio del 2009. L’applicazione sul territorio regionale dell’Accordo comporterà per la Regione Umbria il riorientamento di circa 44 milioni di euro provenienti dal POR FSE verso il finanziamento di pacchetti integrati di sostegno al reddito per coloro che perdono il posto di lavoro combinato con misure di aggiornamento e riqualificazione professionale. Oltre ai fondi del POR vengono altresì ripartite tra le regioni anche le risorse nazionali in base alle situazioni di crisi aziendali già emerse o che stanno verificandosi. L’accordo preliminare del 23 marzo 2009 (riportato nell’Appendice B) precisa i termini delle prestazioni sociali in deroga per quanto riguarda l’Umbria.

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459

Cosa dicono i dati Nelle politiche occupazionali difensive la CIG si configura come strumento “di prima istanza”, che può rappresentare (e spesso rappresenta effettivamente) un’interruzione solo momentanea del normale rapporto di lavoro. In altri casi la CIG rappresenta il punto di partenza di un percorso che porta alla perdita del posto di lavoro e all’utilizzo di altri strumenti di protezione sociale, con, tra i possibili esiti, l’approdo alla pensione di anzianità. Conseguentemente, l’indicatore che per primo e con maggiore intensità ha registrato l’esplodere della crisi è quello rappresentato dalle ore autorizzate di CIG (non necessariamente utilizzate effettivamente, o comunque utilizzate nel periodo cui si riferisce l’autorizzazione), che sono cresciute a ritmi sostenuti a partire dalla fine del 2008 nella regione Umbria, come nell’Italia in complesso (Fig. 1, che riporta i dati annuali). Tra gli strumenti di protezione sociale destinati alla vera e propria disoccupazione (CIG esclusa quindi) si registra per l’Umbria, almeno in base alle informazioni disponibili quando questo articolo viene completato (novembre 2009), una crescita consistente, anche se non nelle proporzioni della CIG, solo dell’Indennità di Disoccupazione ordinaria (Tab. 1). Fig. 1 - Umbria ed Italia. CIG. Totale ore autorizzate in migliaia. Anni 1995-2009

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300.000

400.000

500.000

600.000

700.000

800.000

900.000

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1995

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ITA

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2.500

3.750

5.000

6.250

7.500

8.750

10.000

11.250

12.500U

MB

RIA

ItaliaUmbria

(*) Per stimare il risultato complessivo del 2009, si è applicato il numero di ore degli ultimi due mesi disponibili (settembre-ottobre) agli ultimi due mesi dell’anno. Fonte: elaborazioni AUR su dati CNEL e INPS.

DENTRO L’UMBRIA due460

Tab. 1 - Umbria. Indennità di Disoccupazione e Mobilità. Numero di prestazioni liquidate/beneficiari

Disoccupazione ordinaria

Edilizia Ordinaria + Edilizia

Disoccupazione a requisiti ridotti

Mobilità

2003 4.559 270 4.829 5.561 1.216 2004 4.574 264 4.838 5.533 1.088 2005 5.455 389 5.844 5.622 1.128 2006 5.470 383 5.853 5.665 955 2007 6.103 447 6.550 5.628 909 2008 (genn.-ott.) 7.668 6.127 894 2009 (genn.-ott.) 13.365 6.065 1.074

Fonte: elaborazioni AUR su dati INPS Per quanto riguarda le due tipologie principali di CIG, ordinaria e straordinaria (dove, si è ricordato, si colloca la Cassa “in deroga”), il quadro complessivo umbro si caratterizza rispetto a quello nazionale per una dinamica relativamente più sostenuta di quella straordinaria, almeno se il confronto viene fatto con la situazione degli anni 2000 (Fig. 2, Fig. 3), quando la CIG straordinaria si era andata riducendo in Umbria più rapidamente (Fig. 3) che nell’Italia nel complesso. Fig. 2 - Umbria ed Italia. CIG ordinaria. Ore autorizzate in migliaia. Anni 1995-2009

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400.000

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700.000

1995

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2001

2002

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2006

2007

2008

2009

(*)

ITA

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0

1.250

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3.750

5.000

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UM

BR

IA

ItaliaUmbria

(*) Vedi nota alla Fig. 1. Fonte: elaborazioni AUR su dati CNEL e INPS

AURAPPORTI: RES 2008-09

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Fig. 3 - Umbria ed Italia. CIG straordinaria. Ore autorizzate in migliaia. Anni 1995-2009

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50.000

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350.000

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1995

1996

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1998

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2000

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2008

2009

(*)

ITA

LIA

0

1.250

2.500

3.750

5.000

UM

BR

IA

ItaliaUmbria

(*) Per stimare il risultato complessivo del 2009, si è applicato il numero di ore degli ultimi due mesi disponibili (settembre-ottobre) agli ultimi due mesi dell’anno. Fonte: elaborazioni AUR su dati CNEL e INPS Fig. 4 - Perugia e Terni. CIG. Totale ore autorizzate in migliaia. Anni 2005-2009

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1.000

2.000

3.000

4.000

5.000

6.000

7.000

8.000

9.000

10.000

2005 2006 2007 2008 2009*

PerugiaTerni

(*) Vedi nota alla Fig. 1. Fonte: elaborazioni AUR su dati CNEL e INPS

DENTRO L’UMBRIA due462

Facendo il confronto con gli anni più recenti (2008 ed in parte 2007), l’incremento del ricorso alla CIG è delle stesse proporzioni nelle due province umbre (Fig. 4). Il discorso cambia se si prende a riferimento il 2005, ed in minor misura il 2006, quando i livelli della CIG a Terni si collocavano su livelli relativamente elevati, ridimensionatisi nel 2007-2008. Le due province umbre si distinguono invece nettamente per quanto riguarda l’incidenza relativa delle due tipologie di CIG, ordinaria e straordinaria (Figg. 5-6), laddove nella situazione perugina l’incidenza relativa della CIG straordinaria (che ricordiamo include quella “in deroga”) è molto maggiore che nel caso ternano. Ciò risponde, con ogni probabilità, alle differenti caratteristiche dei due tessuti produttivi, più incentrato sulla medio-grande impresa nel caso di Terni, più orientato alle piccole imprese e all’artigianato nel caso di Perugia. Fig. 5 - Perugia. CIG ordinaria e straordinaria. Ore autorizzate in migliaia. Anni 2005-2009

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1000

2000

3000

4000

5000

6000

2005 2006 2007 2008 2009*

OrdinariaStraordinaria

(*) Vedi nota alla Fig. 1. Fonte: elaborazioni AUR su dati INPS

AURAPPORTI: RES 2008-09

463

Fig. 6 - Terni. CIG ordinaria e straordinaria. Ore autorizzate in migliaia. Anni 2005-2009

0

200

400

600

800

1000

1200

1400

1600

2005 2006 2007 2008 2009*

OrdinariaStraordinaria

(*) Vedi nota alla Fig. 1. Fonte: elaborazioni AUR su dati INPS Un’idea dell’ampiezza degli interventi in deroga si può avere dall’esame della Tabella 2. Come si può verificare, tenendo conto delle dimensioni relative dell’economia umbra rispetto a quello di altre realtà regionali, si tratta di un impegno importante per la Regione. Tab. 2 - Accordi CIG e mobilità in deroga al 31 agosto 2009

(*) Per il 98% delle aziende si tratta di CIGO in deroga. Fonte: Italia Lavoro Spa - Area Assistenza alla Gestione delle Crisi. Monitoraggio Ammortizzatori Sociali e Monitoraggio L.S.U. dell’Azione di sistema Welfare to Work per le politiche di reimpiego, elaborazione del 22/09/2009 (da N. Forlani, “Ammortizzatori sociali, il sistema tiene ma presenta criticità e rischi potenziali”, in “AREL - Europa Lavoro Economia”, sett. 2009).

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APPENDICE A - Glossario degli ammortizzatori sociali Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria (CIGo) La cassa integrazione guadagni ordinaria spetta agli operai, impiegati e quadri delle imprese industriali in genere e delle imprese industriali e artigiane del settore edile e lapideo, esclusi gli apprendisti, in caso di sospensione o contrazione dell’attività produttiva per situazioni aziendali dovute a: - eventi temporanei e non imputabili all’imprenditore o ai lavoratori; - situazioni temporanee di mercato. La cassa integrazione può essere concessa per un massimo di 13 settimane, più eventuali proroghe fino a 12 mesi. In determinate aree territoriali il limite è elevato a 24 mesi. Per le imprese edili e per quelle del settore lapideo la durata massima, in caso di sospensione del lavoro, è di 13 settimane; è di 52 settimane quando deriva da una riduzione dell’orario di lavoro. L’importo corrisponde all’80% della retribuzione globale che sarebbe spettata per le ore di lavoro non prestate. L’importo del trattamento ordinario non può però superare un limite massimo mensile stabilito di anno in anno (per il 2009 è di € 886,31 ed è elevato a € 1.065,26 in caso di retribuzione mensile superiore a € 1.917,48). Nel settore edile e lapideo, quando la CIG è stata determinata da eventi meteorologici, il limite è incrementato del 20% (per il 2009 è di 1.063,57 ed è elevato a € 1.278,31 in caso di retribuzione mensile superiore a € 1.917,31). I periodi di Cassa integrazione guadagni sono utili per il diritto e per la misura della pensione. Tra le novità introdotte dalla legge 33/2009 (art. 7-ter) in materia di ammortizzatori sociali, vi è quella che prevede in via sperimentale per il 2009 la possibilità da parte dei lavoratori fruenti di un qualunque ammortizzatore sociale, ordinario od in deroga, si svolgere prestazioni di lavoro accessorio (a vouchers) in qualunque settore di attività nel limite dei 3mila euro annui interamente cumulabili con il trattamento di sostegno percepito; per i corrispondenti periodi, l’Inps provvede a sottrarre la relativa contribuzione figurativa, e questo può diventare un problema molto rilevante, specie nei casi di prossimità al pensionamento: infatti, la contribuzione per il lavoro accessorio viene versata alla gestione separata, e non può dunque essere considerata sostitutiva di quella figurativa. Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria (CIGs) Spetta agli operai, impiegati e quadri, in caso di ristrutturazione, di riorganizzazione, di conversione, di crisi aziendale e nei casi di procedure concorsuali, delle: - imprese industriali anche edili, imprese appaltatrici di servizi di mensa o ristorazione

e dei servizi di pulizia. Esse devono avere occupato più di 15 dipendenti nel semestre precedente la presentazione della domanda;

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- imprese commerciali, di spedizione e trasporto e agenzie di viaggio e turismo che occupano più di 50 dipendenti, esclusi gli apprendisti e gli assunti con contratto di formazione e lavoro;

- imprese di vigilanza. La Cassa integrazione straordinaria dura al massimo 12 mesi per le crisi aziendali, 24 mesi per la riorganizzazione, ristrutturazione e riconversione aziendale, 18 mesi per i casi di procedure esecutive concorsuali. Gli interventi ordinari e straordinari non possono nel complesso superare 36 mesi in un quinquennio. Sono peraltro intervenute varie disposizioni di legge, anche a carattere transitorio, che hanno modificato i limiti temporali suddetti. L’importo corrisponde all’80% della retribuzione globale che sarebbe spettata al lavoratore per le ore di lavoro non svolte. L’importo del trattamento straordinario non può però superare un limite massimo mensile (per il 2009 tale importo è di € 886,31; il limite è elevato a € 1.065,26 in caso di retribuzione mensile superiore a € 1.917,48). Tali importi sono ridotti di un’aliquota pari al 5,84%. I periodi di Cassa integrazione guadagni sono utili per il diritto e per la misura della pensione. Indennità di mobilità E’ una prestazione che spetta ai lavoratori che sono stati collocati in mobilità dalla loro azienda a seguito di: - esaurimento della cassa integrazione straordinaria; - licenziamento per riduzione di personale o trasformazione di attività o di lavoro; - licenziamento per cessazione dell’attività da parte dell’azienda. Il lavoratore ne ha diritto quando: - è iscritto nelle liste di mobilità compilate dai Centri per l’impiego; - ha un’anzianità aziendale complessiva di almeno 12 mesi; - può far valere almeno 6 mesi di effettivo lavoro, comprese ferie, festività, infortuni. La durata varia in relazione all’età del lavoratore al momento del licenziamento e alla ubicazione dell’azienda. Età del lavoratore Aziende del centro-nord Aziende del mezzogiorno fino a 39 anni 12 mesi 24 mesi da 40 a 50 anni 24 mesi 36 mesi oltre 50 anni 36 mesi 48 mesi

Generalmente l’indennità non può essere corrisposta per un periodo superiore alla anzianità aziendale del lavoratore. In presenza di determinati requisiti di età e di contribuzione viene pagata fino al conseguimento del diritto alla pensione. Il trattamento per i primi 12 mesi è pari al 100% del trattamento di Cassa Integrazione straordinaria percepito o che sarebbe spettato nel periodo immediatamente precedente il licenziamento, nei limiti di un importo massimo mensile. Per i periodi successivi è pari 80% del predetto importo. L’indennità di mobilità non può superare un importo

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massimo mensile determinato di anno in anno, importo che dal 1° gennaio 2009 è di € 886,31 lordi mensili (netto € 834,55), elevato a € 1.065,26 lordi mensili (netto € 1.003,05) per i lavoratori che possano far valere una retribuzione lorda mensile superiore a € 1.917,48. L’indennità è pagata ogni mese dall’Inps direttamente al lavoratore ed è sospesa quando l’interessato è assunto con contratto a tempo determinato o a tempo parziale. Il trattamento si interrompe quando l’interessato: - viene cancellato dalle liste di mobilità; - viene assunto con contratto a tempo indeterminato; - raggiunge il diritto alla pensione di vecchiaia, o diventa titolare di pensione di

anzianità o anticipata, ovvero di pensione di inabilità o di assegno di invalidità senza aver optato per l’indennità di mobilità.

Indennità di Disoccupazione ordinaria L’indennità si può ottenere quando il lavoratore può far valere: - almeno due anni di assicurazione per la disoccupazione involontaria; - almeno 52 contributi settimanali nel biennio precedente la data di cessazione del rapporto di lavoro. L’indennità viene corrisposta per 8 mesi, ma può durare fino a dodici mesi se il disoccupato ha superato i 50 anni di età. L’indennità è corrisposta nella misura del 60% dell’ultima retribuzione percepita, nei limiti di un importo massimo mensile lordo per il 2009 è di € 886,31, elevato a € 1.065,26 per i lavoratori che possono far valere una retribuzione lorda mensile superiore a € 1.917,48. L’indennità in pagamento nel corso del 2009 è calcolata nel seguente modo: - ai lavoratori con età inferiore a 50 anni spetta il 60% della retribuzione per i primi sei mesi e il 50% per il settimo mese e ottavo mese; - ai lavoratori con età pari o superiore a 50 anni spetta il 60% della retribuzione per i primi sei mesi, il 50% per il settimo e ottavo mese e il 40% per i mesi successivi. Indennità di Disoccupazione a requisiti ridotti L’indennità spetta quando il lavoratore può far valere: - un’anzianità assicurativa per la disoccupazione da almeno due anni (deve possedere, cioè, almeno un contributo settimanale versato prima del biennio precedente l’anno nel quale viene chiesta l’indennità): ad esempio, per le indennità pagate nel 2009, il contributo deve essere stato accreditato entro la fine del 2006; - almeno 78 giornate di lavoro nell’anno precedente. Nel calcolo delle 78 giornate sono comprese anche le festività e le giornate di assenza indennizzate (indennità di malattia, maternità ecc.). L’indennità di disoccupazione con requisiti ridotti spetta anche ai lavoratori che sono stati sospesi da aziende colpite da eventi temporanei non causati né dai lavoratori né dal datore di lavoro (mancanza di lavoro, di commesse o di ordini, crisi di mercato

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ecc.) se sono state raggiunte, a livello territoriale, le necessarie intese tra le parti sociali, intese che dovranno essere poi recepite con decreto del Ministro del Lavoro. L’indennità spetta ai lavoratori che non possono far valere 52 contributi settimanali negli ultimi due anni, ma che: - nell’anno precedente abbiano lavorato almeno 78 giornate, comprese le festività e le giornate di assenza indennizzate (malattia, maternità, ecc.); - risultino assicurati da almeno 2 anni e possano far valere almeno 1 contributo settimanale prima del biennio precedente la domanda. Ai lavoratori sospesi spetta l’indennità nel limite massimo di 90 giorni. L’importo è calcolato nella misura del 35% delle retribuzioni percepite nell’anno precedente, suddiviso per il numero di giornate di lavoro effettivo. Indennità di Disoccupazione - Trattamento speciale per l’edilizia Il trattamento speciale di disoccupazione per l’edilizia è una prestazione riservata ai lavoratori del settore dell’edilizia che sono stati licenziati, quando si verificano: - cessazione dell’attività aziendale; - ultimazione del cantiere o delle singole fasi lavorative; - riduzione di personale. Tale trattamento non è più riconosciuto nei confronti di chi si dimette volontariamente, ma soltanto in caso di licenziamento (fanno eccezione le lavoratrici in maternità). Per ottenere il trattamento speciale il lavoratore, nei due anni precedenti la data del licenziamento, deve far valere: - almeno 10 contributi mensili o 43 contributi settimanali per il lavoro prestato nel settore dell’edilizia; - l’iscrizione nelle liste dei disoccupati Al lavoratore spetta, per i primi 12 mesi dell’anno il 100% del trattamento di Cassa Integrazione straordinaria percepito o che sarebbe spettato nel periodo immediatamente precedente il licenziamento, nei limiti di un importo massimo mensile stabilito dalla legge. Per i periodi successivi spetta l’80% di tale importo. Il trattamento è corrisposto per 90 giorni. In presenza di particolari requisiti può durare anche 18 o 27 mesi. Integrazioni salariali in agricoltura E’ destinato a: - sostenere le aziende quando non sia possibile lo svolgimento dell’attività lavorativa; - garantire al lavoratore un reddito sostitutivo della retribuzione. Spetta agli operai, agli impiegati e ai quadri, che siano lavoratori dipendenti a tempo indeterminato di aziende agricole, che svolgono annualmente oltre 180 giornate lavorative presso la stessa azienda. La prestazione corrisponde all’80% della retribuzione globale del mese precedente quello nel corso del quale si è verificata o ha avuto inizio la sospensione. Tale importo è ridotto di un’aliquota pari al 5,84%.

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La durata massima del periodo di integrazione è di 90 giorni all’anno. I periodi in cui è percepita l’integrazione salariale sono utili per il diritto e per la misura della pensione. Lavori socialmente utili (LSU/LPU) Il sussidio per i lavori socialmente utili e per le attività socialmente utili rappresenta un sostegno economico rivolto a soggetti svantaggiati, in relazione allo svolgimento di attività socialmente utili o di pubblica utilità. Tali soggetti sono: - lavoratori in cerca di prima occupazione; - disoccupati iscritti da oltre due anni nelle liste di collocamento; - lavoratori iscritti nelle liste di mobilità che non hanno indennità economica; - lavoratori iscritti nelle liste di mobilità percettori della relativa indennità o di altro trattamento speciale di disoccupazione; - lavoratori, sospesi a zero ore, che fruiscono del trattamento di CIGs; - lavoratori espressamente individuati a seguito di accordi per la gestione di esuberi da crisi aziendale o di area; - categorie di lavoratori individuati dalla Commissione regionale per l’impiego, anche

per riferimento ad aree territoriali; - detenuti ammessi al lavoro esterno. Per l’assegnazione dei lavoratori alle attività progettate occorre tener conto della corrispondenza tra la qualifica di appartenenza e le professionalità richieste e del principio delle pari opportunità. L’utilizzazione dei lavoratori nei L.S.U. non determina l’instaurazione di un rapporto di lavoro. L’assegno per i Lavori socialmente utili è, dal 1° gennaio 2009, di euro 529,15 mensili. Nel caso di impegno per un orario superiore, ai lavoratori compete un importo integrativo, a carico del soggetto utilizzatore. Per quanto riguarda i lavori di pubblica utilità, il relativo assegno resta fissato in euro 413,16 mensili.

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APPENDICE B - Ammortizzatori sociali in deroga anno 2009 - Accordo preliminare nelle more della definizione del quadro normativo e finanziario (23 marzo 2009 - estratto) Le parti presenti4 concordano quanto segue nelle more dell’esecutività dell’accordo del 12 febbraio 2009 e comunque fino a nuovo, successivo accordo a definizione normativa e finanziaria avvenuta. A) Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria in deroga Viene concessa la CIGS in deroga per l’anno 2009, a decorrere dal 1° gennaio, ai lavoratori dipendenti di tutte le imprese operanti in tutti i settori produttivi che non hanno accesso ad alcun ammortizzatore sociale ordinario o che hanno esaurito gli strumenti ordinari, nonché ai lavoratori dipendenti di enti di formazione ed agenzie formative accreditati presso la Regione Umbria. Sono interessati dal trattamento di CIGS in deroga tutti i lavoratori subordinati, a tempo indeterminato o determinato, gli apprendisti, inclusi quelli in forza ad imprese che usufruiscono degli ammortizzatori ordinari, i lavoratori somministrati, i soci lavoratori subordinati di cooperative. Nell’ambito di una previsione annuale di concessione del trattamento per mesi 6 (pari a 1038 ore pro capite), anche non continuativi, fino ad agosto 2009 compreso è possibile autorizzare un’anticipazione per un periodo massimo di mesi 4 (pari a 692 ore pro capite), anche non continuativi. Per i lavoratori a tempo determinato la durata della CIGS non può comunque andare oltre la scadenza naturale del contratto. Le richieste di esame congiunto, di norma, devono essere presentate alla Regione Umbria, Servizio Politiche Attive del Lavoro, prima che vengano attuate le sospensioni o i licenziamenti oggetto dell’esame stesso, secondo la modulistica predisposta dalla Regione Umbria, d’intesa con INPS e Direzione Regionale del Lavoro, contenente anche basi anagrafiche individuali dei lavoratori destinatari dell’intervento e una programmazione di massima dello stesso. Mensilmente ciascuna impresa autorizzata dovrà comunicare alla Regione Umbria e all’INPS l’elenco dei lavoratori sospesi e per ciascuno di essi il numero delle ore di sospensione.

4 Assessore al lavoro e alla formazione professionale (M. Prodi); Assessore alla promozione dello sviluppo economico e delle attività produttive (M. Giovannetti); Direttore regionale (C. Becchetti); Segreteria reg. CGIL (P. Venturini); Segreteria reg. CISL (C. Ricciarelli); Segreteria reg. UIL (F. Fiorucci); Segreteria regionale UGL (F. Tognellini); Confartigianato (L. Cruciani); CNA (A. Cerquaglia); Confapi (L. Paroli); Confindustria (A. Arata); Confcommercio (F. Fiorucci); Confesercenti (G. Baldoni); Lega Coop (P. Braccalenti); Confcooperative (L. Mariani); Direzione regionale del Lavoro (C. Bellaveglia); INPS (G. Cianchetta).

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Entro il venticinquesimo giorno del mese successivo a quello in cui sono intervenute le sospensioni, le richieste di CIGS vanno presentate alla Direzione Regionale del Lavoro, che provvede all’emanazione del relativo decreto di concessione. Nell’ambito delle competenze loro attribuite, gli ispettori dell’INPS e delle Direzioni del Lavoro effettueranno controlli e verifiche sui trattamenti concessi. B) Mobilità in deroga La mobilità in deroga per l’anno 2009, a decorrere dal 1° gennaio, viene concessa con gli stessi requisiti, destinatari, modalità e durata previsti per la CIGS in deroga nei casi di attivazione della procedura di richiesta dell’esame congiunto. Viene altresì concessa la mobilità in deroga per un periodo di mesi 3 entro l’anno 2009 ai lavoratori dipendenti da imprese di tutti i settori produttivi che non abbiano maturato i requisiti soggettivi per accedere alla fruizione degli ammortizzatori sociali e che abbiano subito un licenziamento collettivo, plurimo o individuale per giustificato motivo oggettivo connesso a riduzione, trasformazione o cessazione di attività di lavoro nell’anno 2009 o che si siano dimessi per giusta causa. Sono interessati dal presente trattamento di mobilità in deroga tutti i lavoratori subordinati, a tempo indeterminato o determinato, gli apprendisti, inclusi quelli in forza ad imprese che usufruiscono degli ammortizzatori ordinari, i lavoratori somministrati, i soci lavoratori subordinati di cooperative, a condizione che non siano percettori di indennità di disoccupazione e che abbiano maturato almeno 3 mesi di anzianità aziendale presso il datore di lavoro che ha effettuato il licenziamento. La domanda di indennità va presentata alla sede INPS competente per territorio. Il 15% 20% delle risorse di cui alla premessa sono riservate ai trattamenti di mobilità in deroga di cui ai punti 1. e 2., fatti salvi eventuali, successivi aggiornamenti. Nel corso dell’anno 2009 l’impresa può richiedere la CIGS e/o la mobilità in deroga di cui alle lett. A) e B), punto 1, fino ad un massimo complessivo di mesi 6 per ciascun lavoratore, nel rispetto di quanto previsto alla lettera A), punto 3 del presente accordo. I periodi di fruizione della CIGS in deroga e della mobilità in deroga di cui alle lett. A) e B), punto 1 possono sommarsi tra loro. La mobilità in deroga di cui alla lettera B), punto 2, è esclusa per i lavoratori che abbiano già usufruito dell’indennità di disoccupazione. Tenuto conto delle richieste di esame congiunto giacenti e di quelle preannunciate dalle parti sociali, tali da prefigurare nell’immediato futuro l’esaurimento delle risorse attualmente a disposizione, con il rischio di non garantire la copertura dei relativi trattamenti, si richiede al Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali un’ulteriore anticipazione delle risorse necessarie di almeno € 10.000.000,00. Il tavolo di concertazione sugli ammortizzatori in deroga sarà riconvocato all’entrata in vigore delle modifiche alla L. n. 2/2009 e/o al momento dell’esecutività dell’accordo del 12 febbraio 2009. In via generale, al fine di monitorare l’andamento del’istituto degli ammortizzatori in deroga ed apportare eventuali modifiche e integrazioni al presente accordo, gli incontri

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del tavolo si terranno, di norma, il primo mercoledì di ogni mese, salvo richiesta delle parti, a decorrere dal mese di maggio 2009.

LE AREE PRODUTTIVE: DIFFUSIONE, FRANTUMAZIONE, QUALITÀ Marco Storelli, Donatella Venti1

Introduzione Le aree produttive, intese sia come risorse posizionate nei sistemi territoriali sia come infrastrutturazione in grado di supportare politiche di sviluppo localizzate, sono state per la prima volta compiutamente indagate, nei 92 Comuni dell’Umbria, nella seconda metà degli anni ’90, da una ricerca IRRES2 che ne ha evidenziato le principali dinamiche evolutive, le problematiche emergenti, le modalità di attuazione, le attività in esse presenti, fornendo al contempo una serie di dati quantitativi fra cui l’estensione (superficie territoriale e/o fondiaria), il livello di saturazione e di infrastrutturazione (viabilità e reti tecnologiche), la dotazione e il livello di attuazione degli standards urbanistici. Per ogni Comune venivano distinti “agglomerati produttivi”, localizzati su sistema GIS, entità di scala maggiore individuati discrezionalmente ed introdotti ai fini dell’inquadramento del tessuto produttivo in relazione agli assetti infrastrutturali3.

1 Vanessa Elefante ha collaborato al presente contributo con la realizzazione dell’impianto tabellare e grafico. Il primo e il terzo paragrafo sono stati redatti da D. Venti, il secondo paragrafo è stato redatto da D. Venti per la parte relativa alla pianificazione provinciale e da M. Storelli per la parte relativa alla pianificazione comunale; il quarto paragrafo è stato redatto da M. Storelli, il quinto, sesto e settimo paragrafo da M. Storelli per la parte relativa alla provincia di Perugia da D. Venti per la parte relativa alla provincia di Terni. Il Servizio Informatico/Informativo: geografico, ambientale e territoriale della Regione Umbria ha fornito i dati relativi agli agglomerati produttivi, ha redatto “Il Ruolo del nuovo Sistema informativo regionale ambientale e territoriale (SIAT) della Regione Umbria” e predisposto l’apparato cartografico consultabile nelle pagine istituzionali della Regione Umbria, curate dal Servizio Informatico/Informativo: geografico, ambientale e territoriale, nonché nel sito dell’Agenzia Umbria Ricerche (www.aur-umbria.it), in formato Adobe Acrobat Reader PDF. 2 AA.VV. 1997 “Aree classificate produttive dagli strumenti urbanistici generali” IRRES. 3 L’indagine ha quindi dato luogo a tre tipi di output: - un atlante delle aree produttive (elaborazione grafica georeferenziata, riconfluita nel PUT L.R.

27/2000);

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Successivamente il Servizio Informativo Territoriale (oggi Servizio Informa-tico/Informativo: geografico, ambientale e territoriale) della Regione4 ha tenuto aggiornate in parte le informazioni allora raccolte, informazioni che hanno supportato la programmazione regionale e la pianificazione territoriale di area vasta, in particolare il Piano Urbanistico Territoriale (P.U.T.) del 2000, il Disegno Strategico Territoriale (D.S.T.) del 2008, i due Piani territoriali di Coordinamento Provinciale (P.T.C.P.) di Perugia e Terni, entrambi approvati nel 2000. Il tema delle aree produttive ed in particolare delle dinamiche di insediamento, per essere compiutamente indagato necessita di molteplici approfondimenti, solo in parte affrontati in questo contributo, data la vastità dell’argomento e l’opportunità di dedicare ad esso una specifica nuova ricerca, integrando i dati attualmente reperiti. L’aspetto legislativo e normativo condiziona fortemente le possibilità di ampliamento ed individuazione delle aree, nonché le loro modalità di gestione: viene pertanto presentata una panoramica dei provvedimenti normativi di livello nazionale e regionale che, a vario titolo, intersecano la materia delle aree produttive: dalla definizione di zona omogenea D introdotta nel 1968 alle tappe fondamentali della produzione legislativa regionale, oltre che nei PTCP vigenti nelle Province di Perugia e Terni, dei quali vengono esaminati i contenuti di coordinamento, così come per il Disegno Strategico Territoriale, il più recente strumento di programmazione territoriale di cui si è dotata la Regione Umbria, che, partendo dalle problematiche individuate, in particolare la dispersione e frammentazione, traccia alcuni scenari di loro qualificazione e rafforzamento, in relazione al sistema infrastrutturale in realizzazione (Progetto Quadrilatero, Piastre logistiche, Assi e Poli produttivi di livello regionale). Dal punto di vista dello sviluppo locale, viene offerto un quadro delle risultanze più significative derivanti dall’esame critico degli strumenti urbanistici comunali e affrontata la problematica delle aree produttive dismesse, con l’indicazione delle principali operazioni di recupero (anche ambientale) e rifunzionalizzazione che hanno contrassegnato il recente periodo a seguito dell’emanazione della L.R. 13/1997 (Programmi Urbani Complessi), della predisposizione dei Contratti di Quartiere, dei PRUSST e dei recentissimi PUC2. In particolare vengono approfonditi sei casi di studio, relativi ad altrettante realtà comunali: Perugia, Città di Castello e Foligno per l’ambito della Provincia di Perugia; Terni, Narni ed Orvieto per l’ambito della Provincia di Terni, coincidenti con gli ambiti produttivi di maggior rilevanza nel territorio regionale, come nel caso di Terni-Narni, Perugia e Foligno, o provinciale, come nel caso di Orvieto e Città di Castello.

- una banca dati in cui sono state riversate tutte le informazioni di tipo alfa-numerico acquisite durante lo svolgimento del lavoro;

- una sintesi dei risultati, suddivisa per ambito di indagine: Obiettivo 5b e Obiettivo 2. 4 Indagini Regione Umbria 2003/2004 sulla totalità dei Comuni e 2009 sui 31 Comuni Docup Ob. 2 2000-2006.

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Si scende dunque a livello di “agglomerato”, definendone ruoli e problematiche, mentre, attraverso l’esame dei PRG, le valutazioni conseguenti sono di tipo qualitativo, in quanto vengono esaminati i fattori localizzativi, le relazioni con le altre funzioni urbane (residenza, aree destinate a servizi pubblici, sistema del verde e contesto paesaggistico), unitamente ai fattori relazionali connessi alla presenza dei sistemi produttivi dei Comuni limitrofi. Da ultimo si affronta il tema dei modelli di gestione (nuovi e tradizionali) delle aree produttive in ambito regionale, evidenziando le esperienze più innovative come i Consorzi per lo sviluppo delle aree industriali del Comprensorio Terni-Narni-Spoleto e di Orvieto, o altre iniziative volte alla razionalizzazione, riqualificazione e promozione delle aree e dei relativi servizi alle imprese. Questo paragrafo è stato redatto utilizzando prevalentemente il metodo delle interviste ad interlocutori privilegiati (stakeholders), quali imprenditori, Associazioni di categoria, referenti dei Consorzi per le aree industriali, amministratori e tecnici pubblici, fornendo quindi un quadro molto variegato del “come” le imprese percepiscono le problematiche emergenti, come vengono affrontate dagli enti pubblici e quali prospettive si possono aprire al sistema produttivo umbro.

Ricognizione dell’apparato normativo La pianificazione provinciale La definizione dei contenuti e del "ruolo" che in Umbria assumono i PTCP attualmente vigenti discende dalla produzione legislativa regionale della seconda metà degli anni ‘90, costituita dalla Legge regionale 10 aprile 1995 n.28 e dalla Legge regionale 31/97. La legge regionale 28 del 95 ha avuto il merito di costituire un primo riferimento per la pianificazione di livello provinciale, introdotta in Italia dalla L.142/1990, definendo un quadro normativo esclusivamente volto all’“area vasta”; la legge infatti ha rimandato ad altro atto legislativo la ridefinizione dei contenuti e delle procedure di approvazione dei Piani regolatori comunali, oltremodo necessaria in quanto l'introduzione della pianificazione d'area vasta di livello provinciale e la riformulazione dei contenuti del Piano Urbanistico Territoriale (PUT) regionale, come quadro di riferimento programmatico per la pianificazione infraregionale (territoriale, urbanistica e di settore), avevano posto l’urgenza della rimodulazione del sistema di relazioni da instaurarsi tra PTCP e PRG. La successiva legge n. 31 del 1997 non ha risolto efficacemente il coordinamento e l’armonizzazione delle competenze assegnate ai diversi livelli del governo locale ed ai relativi piani; allo stesso modo la successiva L.R. 11 del 2005, pur inserendo importanti innovazioni quali la perequazione, un “parziale” percorso ciclico di risalita dei contenuti dal piano comunale verso il PUT ed il PTCP attraverso gli accordi di copianificazione, nonché attraverso le possibili variazioni degli strumenti regionale e provinciale per effetto delle previsioni del PRGS ed una rivisitazione della parte strutturale ed operativa dei piani comunali, non ha

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raggiunto pienamente l’obiettivo di superare l’ impostazione ancora altalenante delle leggi vigenti ed avviare un processo di rinnovamento ispirato a principi maggiormente coerenti con le nuove e ridistribuite funzioni che il sistema delle autonomie locali, nel suo complesso, e le Regioni in particolare sono chiamate a svolgere5. In particolare, per quanto attiene le aree produttive, mentre nella L.R. 28/95 appariva chiaro il ruolo del PTCP di coordinamento delle previsioni dei Piani comunali, a partire da una visione intercomunale della loro localizzazione, connessa con il sistema delle infrastrutture (di cui alcune di diretta competenza delle Province, come nel caso della viabilità di livello provinciale e di interesse regionale), nella successiva L.R. 31/97 tale ruolo non viene richiamato, quanto piuttosto riferito a necessarie “coerenze” tra i vari strumenti, senza una identificazione chiara degli oggetti di prevalenza normativa. I piani territoriali provinciali pertanto, entrambi approvati nel 2000, possono interessarsi delle aree produttive solo in maniera “indiretta” ovvero attraverso lo strumento dell’accordo volontario di co-pianificazione, nonché tramite norme di indirizzo e/o prestazionali sulla localizzazione di nuove aree produttive. Nella gestione dei PTCP gli specifici accordi per ambiti intercomunali (sistemi di complementarietà funzionali), hanno in parte rivisto le aggregazioni proposte dal PTC assumendo le “geografie variabili” delle collaborazioni/accordi anche settoriali in atto (quali quelle discendenti dai programmi filiera TAC, dai programmi complessi quali il PRUSST, dai Contratti d’area). Nei fatti dunque le Province si sono coerentemente poste come soggetti che, attraverso le proprie specifiche competenze, coadiuvano i Comuni nel porre in essere politiche integrate territoriali che, per scala di intervento o per complessità di tematiche, necessitano dell’apporto sia di più soggetti/enti sia di più competenze disciplinari/tecniche, come nel caso di programmi complessi volti alla riqualificazione non solo architettonica, ma anche ambientale, della sostenibilità, dei servizi e delle infrastrutture. Nel merito il vigente PTCP di Terni, sulla base delle caratteristiche geografiche, insediative, della accessibilità e della “gravitazione” rispetto ai luoghi centrali, nonché delle forme di cooperazione tra enti territoriali in atto, individua alcuni ambiti di livello intercomunale, tra i quali favorire e promuovere accordi di co-pianificazione, tesi ad uno stretto coordinamento delle strategie territoriali, con particolare riferimento alla individuazione di poli e agglomerati produttivi intercomunali, alla distribuzione dei servizi di livello territoriale, nonché di coordinamento rispetto alle azioni di tutela e salvaguardia, gestione dei rischi e nuova

5 Questa filosofia di fondo aveva peraltro ispirato la conclusione del percorso, seguito dalla Regione a partire dalla L.R. 3/99, di attribuzione di competenze agli enti Locali, in attuazione dei decreti Bassanini. Vari aspetti, tra cui il valore di piano paesistico dei PTCP, l’auto-approvazione degli strumenti urbanistici da parte dei Comuni esclusivamente previa verifica di congruenza con la pianificazione superiore, il trasferimento di importanti funzioni in materia ambientale alle Province in attuazione del D.Lgvo.112/98, hanno di fatto configurato un sistema delle autonomie locali che, seppure faticosamente, subentra all’ente regionale, seguendo il principio di una aggregazione di competenze relativamente a “settori” di intervento che connotano i diversi enti territoriali (le competenze ambientali coagulate nell’ente provinciale, i rapporti autorizzatori incentrati sul Comune, lo sviluppo di adeguati spazi di autonomia decisionale nella gestione delle risorse finalizzate allo sviluppo di azione strategiche ai vari livelli).

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infrastrutturazione. Attraverso gli Accordi6 si sono definiti i contenuti alla scala territoriale dei nuovi PRGS, recepiti nei Documenti preliminari, previsti prima dalla L.R. 31/97 e riproposti dalla L.R. 11/2005; per alcuni ambiti i PRGS si sono confermati come veri e propri piani intercomunali, seguendo fino alla conclusione un unico iter procedimentale, mentre, per la maggior parte, hanno dato luogo alla redazione degli elaborati di piano da parte di un unico gruppo di progettazione, separandosi poi nelle diverse fasi previste dall’iter di approvazione. In entrambi i casi hanno consentito una visione di insieme del territorio di ambito, attivando interessanti progettualità e mettendo a sistema le “vocazioni” di ogni singolo territorio. La progettualità derivante dalla copianificazione all’interno degli Ambiti Territoriali del PTCP ha dato risultati soddisfacenti nell’attuazione delle dinamiche territoriali della pianificazione territoriale provinciale7: fin dalla prima esperienza della pianificazione condivisa per Ambiti territoriali è emersa infatti la volontà di concepire il PTCP non come momento determinato e sovraordinato della attività amministrativa, ma «come un sistema in cui intervengono diversi strumenti sia di tipo tecnico-scientifico, sia di tipo gestionale amministrativo per la previsione, la simulazione di scenari, il monitoraggio, la valutazione dei risultati». Occorre infine evidenziare che il PTC per norma nazionale, discendente dall’art. 57 del D.lgs. 112 del 1998, ha anche valore di Piano di tutela e valorizzazione delle risorse ambientali, laddove vengano stipulati opportuni accordi o protocolli con gli enti funzionalmente delegati. Questo contenuto del Piano è stato assunto dai PTCP come “punta di diamante” per regolamentare e meglio incidere sui processi di trasformazione del territorio, ponendo limitazioni al consumo delle risorse non rinnovabili. I Piani Provinciali hanno pertanto cercato di comporre il quadro delle pianificazioni di settore, tenendo il più possibile aggiornato il quadro di riferimento normativo/pianificatorio sovraordinato (Piani delle Autorità di Bacino, Piani regionali di settore, Piani degli enti e aziende di servizio). La recentissima L.R. del 26 giugno 2009 n.13 “Norme per il governo del territorio e la pianificazione e per il rilancio dell’economia attraverso la riqualificazione del patrimonio

6 La maggior parte degli ambiti intercomunali riconosciuti dal PTCP hanno dato luogo ad Accordi di pianificazione; solo in pochi casi il Comune ha preferito redigere autonomamente il proprio PRGS, sulla base dei contenuti dell’Accordo e solo in due casi la redazione del PRGS non è stata preventivamente preceduta da uno specifico Accordo. 7 Rispetto ai contenuti specifici gli Accordi concertano le scelte intercomunali rispetto alle Tipologie insediative nel rispetto del contenimento delle tendenze diffusive, al Sistema funzionale-relazionale valorizzando le valenze riconosciute dell’ambito territoriale (produttivo, turistico - culturale, ricettivo per affari, di scambio modale e che possano favorire il completamento della gamma dei servizi privati di livello raro), al Sistema produttivo (ad esempio incentivo alla riconversione ad altri usi della parte non urbanizzata delle aree produttive non idonee e, per contro, incentivo alla qualificazione ed ampliamento di quelle con buone caratteristiche infrastrutturali e di servizi) alla viabilità e mobilità (ad es. favorendo la creazione di sistemi di trasporto non convenzionale finalizzato a ridurre l’onerosità del trasporto pubblico nelle zone con bassi volumi di utenza e a servire le zone penalizzate dalla rete del servizio attuale privilegiando, ove possibile, l’intermodalità ferroviaria).

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edilizio esistente”, che abroga la L.R.28/95, ridisegna sostanzialmente ruolo e contenuti della Pianificazione regionale e provinciale, (re)introducendo ben quattro livelli di pianificazione: quello regionale costituito dal Piano Urbanistico Strategico Territoriale (PUST), a dimensione strategica e programmatica e dal Piano Paesaggistico Regionale (PPR), anch’esso a dimensione strategica e programmatica, nonché regolativa; quello provinciale, il PTCP, “strumento della pianificazione territoriale, urbanistica e paesaggistica di area vasta”, con dimensione strategica, programmatica e regolativa; quello comunale, il PRG, costituito da più “parti”, con dimensioni strategiche e programmatiche (il Documento programmatico e la parte strutturale) e regolative (la parte strutturale e la parte operativa). La nuova legge insiste molto sulla “copianificazione” e sul PPR come piano unico, frutto di stretta concertazione tra Regione ed enti locali, ma risente ancora di una impostazione a cannocchiale tra livelli (il livello maggiore detta norme e prescrizioni a quello immediatamente successivo) soprattutto per quanto concerne la pianificazione paesaggistica. I paesaggi di area vasta sono infatti definiti e “perimetrati” in sede di Piano regionale mentre quello provinciale dovrà “definire” contenuti e prescrizioni, anche immediatamente prevalenti sulla pianificazione comunale. Inoltre la legge (re)introduce il Piano Urbanistico Territoriale, (PUST), mentre nell’originaria bozza, proposta dalla Giunta Regionale, esso veniva sostituito dal Disegno Strategico Territoriale (DST). Dopo questa decisione del Consiglio Regionale, rimane aperto il ruolo dei PTCP, come strumenti di governo del territorio, punto sul quale potrà essere utile continuare una riflessione o un approfondimento. In questo contesto la legge introduce il ruolo, per l’ente intermedio, del coordinamento e formazione del PRG parte strutturale, anche intercomunale, accogliendo un emendamento proposto dalle stesse Amministrazioni Provinciali, le funzioni di raccordo tra i diversi piani di settore sia provinciali che di interesse sovra comunale. Da ultimo negli elaborati del PTCP (art. 27) vengono riaffermate le “linee di intervento in materia di difesa del suolo, di tutela delle acque, di qualità ambientale e dell’aria, sulla base delle caratteristiche (…) del territorio”. Sembra quindi che il PTCP ancora assuma caratteri di piano ambientale, anche se fortemente condizionato dai molti piani di settore regionali, per la maggior parte revisionati o completamente rivisti alla fine dell’attuale mandato (Piano rifiuti, Piano acque, Piano energetico). Volendo assumere le positività, comunque presenti, nella nuova legge, così come illustrate nella presentazione del testo di legge8 , si può evidenziare:

l’interesse che il PUST (Piano Urbanistico Strategico Territoriale) assuma effettivamente il ruolo di Piano Strategico, dove la “territorializzazione dello sviluppo” trova concreto riferimento per l’allocazione delle risorse (fondi strutturali U.E., Progetti speciali, Programmi Integrati Territoriali), nella prospettiva del 2014, data in cui tutti i fondi strutturali andranno spesi solo

8 Interventi dell’ Ing. Luciano Tortoioli, Direttore Area Regione Umbria e dell’Arch. Nicola Beranzoli all’incontro del 23 giugno 2009 di presentazione della ricerca INU “La pianificazione di area vasta nelle esperienze regionali- Contributo per la riforma della L.R. Umbria 28/95”

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all’interno di piani territoriali. Ciò consente di non frammentare le aree di trasformazione ad intervento pubblico, ma di concentrare le risorse, nel tempo, su definiti programmi strategici di intervento che vedano una coerenza tra sviluppo economico e componenti territoriali. Partendo da questo assunto appare importate che i progetti territoriali di interesse regionale, previsti all’art.11 della nuova legge e all’art. 27 (Elaborati del PTCP), “da promuovere e coordinare a livello provinciale” possano essere integrati da progetti di interesse sovra comunale e provinciale, concertati con gli enti locali e territoriali; questo al fine di dare concreta attuazione al principio della copianificazione, quindi ad un processo che parta dai territori e che veda nelle “vision” dei diversi piani a contenuto strategico (PRG strutturale, PTCP e PUST) percorsi di coerenza e di approfondimento alle diverse scale. Di grande interesse, in particolare relativamente ai poli produttivi intercomunali, la perequazione territoriale introdotta dall’art. 269, che, insieme alla istituzione di Consorzi per le Aree Produttive, trattati nel paragrafo “Gli aspetti gestionali”, possono permettere una migliore distribuzione delle risorse provenienti dalle localizzazioni delle aree industriali (ICI, in primo luogo e oneri di urbanizzazione) a livello intercomunale, favorendo la realizzazione di poli industriali ecologicamente attrezzati; è da approfondire con quali modalità la Provincia possa inoltre istituire un fondo di compensazione finanziato con risorse degli Enti locali, contributi negoziali, oneri di urbanizzazione, nonché del gettito della fiscalità comunale, finalizzato a compensare le esternalità problematiche generate da politiche ed interventi di interesse sovra comunale. Tale fondo può anche essere relazionato, in negativo, in ragione degli impatti ambientali e, in positivo, dei servizi ecosistemici forniti al territorio.

Le Aree Produttive Ecologicamente Attrezzate Le Aree Produttive Ecologicamente Attrezzate (APEA) sono state introdotte dal D.Lgs 31 marzo 1998 n.112 e recepite da alcune leggi regionali, in particolare dalla Regione Emilia Romagna con L.R. 20/2000. Possono essere considerate A.P.E.A. le aree “dotate delle infrastrutture e dei sistemi necessari a garantire la tutela della salute, della sicurezza e dell’ambiente”; la legge nazionale prevede inoltre forme di gestione unitaria delle infrastrutture e servizi da parte di soggetti pubblici o privati ed una programmazione concertata tra più soggetti attraverso strumenti di accordo tra enti e

9 “Le province, ai sensi del d.lgs 267/2000, ed in quanto titolari di funzioni di pianificazione territoriale di area vasta, con il PTCP(…) d) esercitano le funzioni per attuare la perequazione territoriale e la compartecipazione tra i comuni interessati ai proventi e costi conseguenti a trasformazioni o interventi di rilevanza sovracomunale.”

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con la partecipazione delle imprese (tramite Protocolli di intesa, Schemi regolamentativi, Tavoli di concertazione). Gli impianti produttivi localizzati in aree A.P.E.A. sono esonerati dall’acquisizione delle autorizzazioni concernenti l’utilizzazione dei servizi ivi presenti. Secondo quanto previsto dall’articolo 2 del DPR 447/1998 sono le Regioni a determinare le tipologie generali e i criteri per l’individuazione delle aree da destinare all’insediamento di impianti produttivi e, secondo quanto richiamato dall’art.23 del DLgs 112/1998, le stesse Regioni provvedono direttamente o attraverso le Amministrazioni Provinciali, al coordinamento e al miglioramento dei servizi e dell’assistenza alle imprese, con particolare riferimento alla localizzazione ed alla autorizzazione degli impianti produttivi e alla creazione di aree industriali. Coinvolgendo gli Enti locali interessati (art.26) le aree industriali devono essere poi individuate, nel rispetto delle tipologie generali, in modo prioritario tra le aree con nuclei industriali già esistenti, favorendo il risanamento e/o la riconversione produttiva delle zone totalmente o parzialmente dismesse, rispettando pertanto l’esigenza di non pregiudicare nuovi siti non ancora compromessi dal punto di vista ambientale. Questa previsione legislativa mira a creare un organico sviluppo economico a livello locale tentando di arginare la diffusione scoordinata degli insediamenti che, oltre a causare danni al territorio, non valorizza il tessuto imprenditoriale già esistente e lascia sfuggire numerose occasioni di sviluppo, derivanti da una razionale sistematizzazione degli impianti che, invece, potrebbero avvalersi di economie di scala. Questi assunti hanno orientato le politiche dei PTCP vigenti: in particolare il PTCP di Terni considera prioritaria la riqualificazione e potenziamento dei poli produttivi esistenti, prima di procedere alla individuazione di nuove aree; inoltre (art.24 N.d.A) prevede una serie di requisiti prestazionali per gli insediamenti produttivi tra cui fasce di vegetazione perimetrali (da computarsi all’interno dello standard) per la mitigazione dell’impatto visivo, le riduzione del trasporto delle polveri e dell’inquinamento acustico, fasce di verde privato sul fronte stradale, all’interno di ciascun lotto e il mantenimento di una quota parte di permeabilità dei suoli, l’individuazione di servizi interni, quali uffici postali, sportelli bancari, presidi sanitari, centri di formazione e aule di stage, invasi artificiali o vasche di raccolta antincendio, sistemi depurativi a basso impatto (nelle aree artigianali e per la PMI), centri di raccolta differenziata, adeguati collegamenti viari e ferroviari a centri merci e logistici per il deposito e lo smistamento, adeguate corsie di raccordo con la viabilità primaria atti a consentire l’accesso di trasporti eccezionali. Pur non avendo la Regione legiferato in materia di A.P.E.A. all’art. 25 il PTCP di Terni introduce le Aree ecologicamente attrezzate, definendo, quale norma di indirizzo, che gli ampliamenti degli agglomerati produttivi da potenziare, costituenti poli produttivi principali, siano preferibilmente strutturati come A.P.E.A10; per favorirne la realizzazione prevede

10 L’Ampliamento è in ogni caso condizionato alla presenza di alcuni requisiti minimi tra cui la presenza di centri servizi alle imprese, l’idoneità dei sistemi di depurazione, la dotazione della viabilità di servizio,

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inoltre che per aree con dimensioni minime di 20 ha ed ove siano previsti o già realizzati interventi di miglioramento dell’eco compatibilità, le superfici urbanizzate, ai fini del contenimento del consumo di suolo (art.14 delle stesse N.d.A), vengano conteggiate pari alla metà. La norma, introdotta nel 2000, ha avuto applicazione principalmente ad opera dei due Consorzi per le Aree industriali (si veda il successivo paragrafo “Gli aspetti gestionali”), anche se molti comuni hanno inserito tali previsioni nei nuovi PRG, in particolare i comuni che hanno redatto il Piano in forma associata. La pianificazione comunale Sebbene nella legislazione nazionale l’individuazione e la previsione delle zone produttive risalgano all’inizio del XX secolo11, le zone a destinazione industriale iniziano ad assumere significato urbanistico con l’emanazione della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (legge urbanistica); segnatamente in base al disposto dell’articolo 5 che attribuisce al piano territoriale di coordinamento anche le “direttive” inerenti “alle zone da riservare a speciali destinazioni”, e al Piano Regolatore Generale l’obbligo dell’attuazione di tali prescrizioni nell’ambito comunale, le zone dedicate a insediamenti industriali entrano a far parte, a pieno titolo, della “disciplina” del territorio, in termini di distribuzione spaziale delle attività. La legge 1150/1942 introduce inoltre, all’articolo 13, i Piani Particolareggiati Esecutivi (PPE), con cui si attua il Piano Regolatore Generale. In essi, tra l’altro, debbono essere individuate “le suddivisioni degli isolati in lotti fabbricabili secondo la tipologia indicata nel piano”. Più ricorrente, nell’attuazione delle zone produttive, è comunque il Piano di Lottizzazione (PdL), anch’esso istituito dalla legge urbanistica del 1942 (art. 28), che può essere formato in presenza di uno strumento urbanistico generale approvato. L’autorizzazione comunale è subordinata alla stipula di una convenzione in cui sia prevista, tra i vari aspetti, l’assunzione da parte del proprietario degli oneri di urbanizzazione primaria e di una quota parte degli oneri di urbanizzazione secondaria relativi alla lottizzazione, nonché i termini non superiori a dieci anni per l’ultimazione delle opere medesime. La legge attribuisce al Sindaco la facoltà di invitare i proprietari delle aree fabbricabili esistenti nelle singole zone a presentare un progetto di lottizzazione entro congruo

l’accessibilità a piattaforme comprensoriali per la raccolta, trattamento e riuso dei rifiuti industriali assimilati agli urbani, la presenza di reti di distribuzione e smaltimento reflui. 11 Ripercorrendo l’iter normativo specifico, troviamo già nel 1904 un provvedimento speciale per la città di Napoli, finalizzato all’“istituzione di una zona da destinarsi ad insediamenti industriali”, per favorirne il “risorgimento economico”. Ulteriori, simili provvedimenti hanno interessato Marghera nel 1917, Livorno nel 1929, Bolzano nel 1935, Ferrara nel 1936, Massa (zona industriale “Apuana”) nel 1938, Verona nel 1948, Trieste nel 1949, Messina, Reggio Calabria e Villa San Giovanni nel 1913, Palermo nel 1940. Tali leggi speciali avevano lo scopo di precostituire, mediante l’offerta di terreni adeguatamente infrastrutturati, le migliori condizioni per rendere appetibili e convenienti le scelte localizzative in quelle zone; con ciò, la zona industriale assumeva una precipua funzione propulsiva e incentivante.

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termine, trascorso inutilmente il quale, egli provvede alla compilazione d’ufficio. Il processo di pianificazione prefigurato dalla legge urbanistica del 1942 stenta nel frattempo a decollare, tanto che perlopiù, soltanto in seguito alla legge 6 agosto 1967, n. 765 (nota come “legge-ponte”) si diffonde la formazione dei piani regolatori e dei programmi di fabbricazione, lasciando spesso a tempi successivi la pianificazione sovracomunale. A definire più compiutamente le aree destinate agli insediamenti produttivi, interviene il DM 2 aprile 1968, n. 1444, inerente “limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi”. L’articolo 2 codifica le “zone territoriali omogenee” definendo, tra le altre, le zone “D” come le parti del territorio destinate a nuovi insediamenti per impianti industriali o ad essi assimilati. Il decreto stabilisce dunque, all’articolo 5, i rapporti massimi (di cui all’articolo 17 della legge 765/1967) tra gli spazi destinati agli insediamenti produttivi e gli spazi pubblici destinati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi12. Con la legge 22 ottobre 1971, n. 865 (nota come “legge sulla casa”, recante norme sull’espropriazione per pubblica utilità) vengono introdotti i Piani per gli Insediamenti Produttivi (PIP), strumenti specifici che possono essere formati previa autorizzazione regionale, in presenza di Piano Regolatore Generale o di programma di fabbricazione approvato. Le aree che costituiscono il PIP vengono individuate, tra le zone destinate ad insediamenti produttivi dagli strumenti urbanistici generali, con deliberazione del Consiglio comunale. Il piano, definitivamente approvato con decreto del Presidente della Giunta Regionale, mantiene un’efficacia di dieci anni dalla data del decreto di approvazione ed ha valore di piano particolareggiato esecutivo ai sensi della legge 17 agosto 1942, n. 1150 e successive modificazioni. Il Comune utilizza le aree espropriate per la realizzazione di impianti produttivi di tipo industriale, artigianale, commerciale e turistico attraverso la cessione in proprietà o la concessione del diritto di superficie sulle aree stesse. Successivamente, la legge 28 gennaio 1977, n. 10 (nota come “legge Bucalossi”) innovando profondamente il regime dell’edificabilità dei suoli mediante la separazione dello jus aedificandi dal diritto di proprietà, stabilisce all’articolo 10 che “la concessione relativa a costruzioni o impianti destinati ad attività industriali o artigianali dirette alla trasformazione di beni ed alla presentazione di servizi comporta la corresponsione di un contributo pari alla incidenza delle opere di urbanizzazione, di quelle necessarie al trattamento e allo smaltimento dei rifiuti solidi, liquidi e gassosi e di quelle necessarie alla sistemazione dei luoghi ove ne siano alterate le caratteristiche. La incidenza di tali opere è stabilita con deliberazione del Consiglio comunale in base a parametri che la

12 Per i nuovi insediamenti di carattere industriale o ad essi assimilabili compresi nelle zone “D” la superficie da destinare a spazi pubblici o destinata ad attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi (escluse le sedi viarie) non può essere inferiore al 10% dell’intera superficie destinata a tali insediamenti.

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regione definisce con i criteri di cui alle lettere a) e b) del precedente articolo 5, nonché in relazione ai tipi di attività produttiva”. La legge regionale 21 ottobre 1997, n. 31, recante “Disciplina della pianificazione urbanistica comunale e norme di modificazione delle leggi regionali 2 settembre 1974 n. 53, 18 aprile 1989 n. 26, 17 aprile 1991 n. 6 e 10 aprile 1995 n. 28”, introducendo l’articolazione del PRG nelle due parti “strutturale” e “operativa”, stabilisce altresì alcune norme specificamente rivolte alle aree produttive. All’articolo 16 viene infatti sancita l’“obbligatorietà (fatta salva la disciplina statale in materia) del piano attuativo nelle zone di tipo “A”, “C” e “D” di cui al DM 1444/1968”, e nelle zone dove siano previsti nuovi insediamenti commerciali o ampliamenti di quelli esistenti con superficie lorda complessiva di calpestìo di almeno 1.500 mq. Nel medesimo articolo viene esplicitata una particolare attenzione alle zone “D”, per le quali “la Giunta Regionale, con il concorso dei Comuni e delle Province, individua tipologie e tecniche costruttive innovative per consentire una ottimizzazione dell’uso dei manufatti, un loro migliore inserimento ambientale e favorire il recupero delle aree dismesse”. Relativamente alle quantità minime di spazi al servizio di insediamenti a carattere produttivo industriale ed artigianale, la L.R. 31/1997 segna una tappa non trascurabile in merito all’incremento degli standard, che ora devono essere assicurati, complessivamente, in ragione del 15% della superficie interessata dall’insediamento; l’articolo 43 stabilisce infatti che “le aree per parcheggio pubblico, escluse le sedi viarie, siano in misura non inferiore al 10% dell’intera superficie della zona destinata agli insediamenti, e che le aree per verde pubblico siano in misura non inferiore al 5% della stessa superficie, da utilizzare come verde ornamentale”. Viene inoltre sancito che “… all’interno dei singoli lotti, … negli spazi destinati a verde privato, le alberature di alto e medio fusto debbono corrispondere almeno al rapporto di una ogni 40 mq di superficie di area libera dalle costruzioni”. Nello stesso anno è stato affrontato, sul piano normativo, il tema della riqualificazione urbana, che trova nella legge regionale 11 aprile 1997, n. 13, una sua precisa codificazione. Con questo provvedimento, la Regione Umbria ha introdotto i programmi urbani complessi (PUC)13, quali strumenti operativi di programmazione economica e territoriale, attuati mediante progetti unitari di interesse pubblico, di dimensione e consistenza tali da incidere sulla riorganizzazione di parti di città. L’art. 3 prevede che la formazione dei PUC sia promossa dai Comuni, con particolare riferimento a centri storici ed aree periferiche degradati e/o privi di identità urbana, nonché ad “aree con destinazione produttiva e terziaria dismesse, parzialmente utilizzate o degradate”.

13 La L.R. 13/1997 disciplina la formazione dei PUC in base al disposto della L. 17 febbraio 1992, n. 179 “Norme per l’edilizia residenziale pubblica” e della L. 4 dicembre 1993, n. 493 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 5 ottobre 1993, n. 398, recante disposizioni per l’accelerazione degli investimenti a sostegno dell’occupazione e per la semplificazione dei procedimenti in materia edilizia”.

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Risultano evidenti le opportunità di riconversione dei siti dismessi offerte dal testo di legge che, nel fondere i contenuti dei programmi integrati di intervento di cui alla L. 179/1992 e dei programmi di recupero urbano di cui alla L. 493/1993, ha effetti-vamente aperto una nuova fase nel processo di riqualificazione delle città, in virtù della pluralità delle finzioni insediabili nei contesti interessati dai programmi, della molteplicità delle tipologie di intervento, nonché dell’integrazione tra operatori pubblici e privati. L’azione legislativa regionale viene affiancata, tra il 1997 e il 2000, da una serie di provvedimenti nazionali che, a partire dalla “Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa” (L. 15 marzo 1997, n. 59), introducono elementi innovativi nella gestione delle aree produttive, tra cui l’istituzione dello sportello unico per le attività produttive, noto come SUAP. Tra le misure di attuazione del D.Lgs 31 marzo 1998, n. 11214, rilievo strategico assumono quelle finalizzate all'avvio dello sportello unico per le attività produttive, previsti agli articoli 23, 24 e 25 del decreto. Tale strumento è volto ad assicurare, previa predisposizione di un archivio informatico contenente i necessari elementi informativi, l'accesso gratuito, anche in via telematica, alle informazioni sugli adempimenti necessari per le procedure previste dal presente regolamento, all'elenco delle domande di autorizzazione presentate, allo stato del loro iter procedurale, nonché a tutte le informazioni utili disponibili a livello regionale comprese quelle concernenti le attività promozionali15. Le numerose semplificazioni introdotte dai citati articoli 23 e seguenti del decreto n. 112 del 1998 sono successivamente riconfluite nel D.P.R. 20 ottobre 1998, n. 447 come modificato dal D.P.R. 7 dicembre 2000, n. 440, recante norme di semplificazione dei procedimenti di autorizzazione per la realizzazione, l'ampliamento, la ristrutturazione e la riconversione di impianti produttivi, per l'esecuzione di opere interne ai fabbricati, nonché per la determinazione delle aree destinate agli insediamenti produttivi a norma dell'art. 20, comma 8, della legge 15 marzo 1997, n. 59. La rilevanza del nuovo assetto amministrativo risultante dalla normativa ricordata, e l'attesa dei positivi effetti del predetto assetto sullo sviluppo economico sono testimoniate dal ruolo attribuito all’innovazione nel Patto sociale per lo sviluppo e

14 Decreto Legislativo 31 marzo 1998, n. 112 “Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59”, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 92 del 21 aprile 1998 – Supplemento Ordinario n. 77. 15 La struttura, su richiesta degli interessati, si pronuncia sulla conformità, allo stato degli atti, in possesso della struttura, dei progetti preliminari dai medesimi sottoposti al suo parere con i vigenti strumenti di pianificazione paesistica, territoriale e urbanistica, senza che ciò pregiudichi la definizione dell'eventuale successivo procedimento autorizzatorio. La struttura si pronuncia entro novanta giorni. Qualora i comuni aderiscano ad un patto territoriale ovvero abbiano sottoscritto un patto d’area la struttura incaricata dell’esercizio delle funzioni ad essi attribuite può coincidere con il soggetto responsabile del patto territoriale o con il responsabile unico del contratto d'area.

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l'occupazione, stipulato il 1 febbraio 1999 tra Governo e parti sociali, cui hanno aderito regioni, province e comuni. La più recente legge regionale 22 febbraio 2005, n. 11, che ha in sostanza sostituito la L.R. 31/1997 in quanto recante “Norme in materia di governo del territorio: pianificazione urbanistica comunale”, riprende il tema delle aree produttive all’articolo 21, confermando che il piano attuativo di iniziativa pubblica riguarda, tra l’altro, “le aree da acquisire per la realizzazione di insediamenti produttivi ai sensi dell’articolo 27 della legge 22 ottobre 1971, n. 865”, e che “la formazione di tale piano non è soggetta alla preventiva autorizzazione”. Un interessante fattore innovativo è rappresentato dall’introduzione del “programma urbanistico”, strumento di attuazione del PRG, espressamente finalizzato alla riqualificazione urbana, tema ispiratore di una consistente parte dell’azione di governo della Regione Umbria impostata con l’emanazione della L.R. 13/1997 precedentemente citata. L’articolo 28 della L.R. 11/2005 sancisce infatti che “il programma urbanistico è costituito da un insieme organico di interventi relativi alle opere di urbanizzazione, alle infrastrutture, all’edilizia per la residenza, per le attività produttive ed i servizi, al superamento delle barriere architettoniche” e che l’attuazione di tali interventi viene favorita dal PRG mediante norme di tipo premiale. Lo stesso articolo afferma che, nel caso il programma urbanistico presenti contenuti e forma dei programmi urbani complessi di cui alla L.R. 13/1997, “… le maggiorazioni di edificabilità sono dimensionate tenendo anche conto dei contributi finanziari pubblici eventualmente attribuiti dalla Regione”. Le aree produttive nel DST della Regione Umbria La Regione dell’Umbria nel 2008 ha concluso, dopo una fase ricognitiva e concertativa svolta nel biennio 2006 e 2008 e sulla scorta dell’insieme dei riferimenti programmatici di livello nazionale (Quadro Strategico Nazionale) ed europeo (Territorial Agenda for the EU 2007-2010 ed European Spatial Planning Observatory Network), la definizione del Disegno Strategico Territoriale. Il DST è lo strumento con il quale la Regione ha inteso soddisfare due obiettivi fondamentali: quello di definire una visione strategica del territorio regionale, in relazione alla collocazione nel contesto nazionale (“territorio snodo”), in collegamento con le politiche europee in materia di coesione territoriale e all’allocazione ed utilizzo dei fondi strutturali16 e quello di superare l’ottica del Piano Urbanistico Territoriale,

16 Il DST ha corrisposto anche all’esigenza di contribuire alla costruzione del Disegno Strategico Regionale, che ha rappresentato uno dei documenti con il quale la Regione Umbria ha partecipato, di concerto con lo Stato Italiano Italiano, alla EU programmazione 2007-2013, ed in particolare alla cooperazione territoriale europea per la quale i singoli Stati Membri hanno prodotto i QSN ai quali fanno pi riferimento i PO Nazionali e Regionali.

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passando dall’attuale rigidità di “Piano quadro”, ad uno strumento più flessibile, adatto a promuovere una territorializzazione dello sviluppo, basata sulla formula “Umbria laboratorio di sostenibilità”, in cui al centro è posta non solo la qualità ambientale come modello intorno a cui costruire politiche concertate e multilivello, ma anche il paesaggio “come categoria interpretativa e programmatica essenziale”17 . Il DST pertanto, a cui è affidato un ruolo programmatico-progettuale, dialoga strettamente con le politiche paesistiche regionali, articolate e specificate nel Piano Paesaggistico Regionale. Questa struttura è rafforzata nella nuova L.R.13/2009, che però “rinomina” il DST trasformandolo in Piano Urbanistico Strategico Territoriale (P.U.S.T.), generando una seria confusione di strumenti e contenuti.18 E’ inoltre importante sottolineare l’operatività del DST, attraverso i progetti strategici regionali che vanno a costituire l’Agenda Territoriale Regionale di riferimento per lo sviluppo, facendo riferimento ai quali, ed in coerenza con le linee strategiche, le amministrazioni locali potranno definire progetti di iniziativa locale, ovvero Progetti di Iniziativa dei Territori (PIT19) per i quali sarà possibile attivare diverse forme di finanziamento (tra cui fondi POR per i Progetti Integrati Territoriali). Tali progetti faranno parte di uno specifico Repertorio: il DST stabilisce criteri di scelta per il loro inserimento, che ne consentirà il finanziamento e la realizzazione. Pertanto il DST si muove coniugando due approcci: quello top-down, per il quale viene individuata una visone strategica di sviluppo alla macroscala, trattata per sistemi strutturanti (infrastrutture, reti di città, sistema ambientale, socio culturale e spazio rurale, sistema produttivo), linee strategiche di sviluppo (articolate in obiettivi strategici integrati e strategie settoriali) e progetti strategici regionali20, quello bottom-up che mira a raccogliere le istanze di sviluppo provenienti dagli enti territoriali attraverso la costruzione del repertorio delle iniziative locali. Gli scenari del DST afferenti al sistema produttivo Il DST individua, estremizzandone le traiettorie evolutive, tre scenari: quello delle disarticolazioni progressive, dello sviluppo autocentrato e del policentrismo reticolare multilivello, indicando quest’ultimo quale modello territoriale da percorrere. Rispetto alle tendenze

17 Dalla Premessa, Territorializzare lo sviluppo.Ruolo e significati del DST, pag.III 18 Per altre considerazioni sulla nuova legge regionale si veda il precedente paragrafo sugli aspetti normativi. 19 Nel POR Umbria con Progettazione Integrata Territoriale vengono definiti quell’ “insieme di operazioni funzionalmente collegate, finalizzate al raggiungimento di un obiettivo comune che potranno comprendere, altresì, interventi relativi alle aree urbane minori all’interno di un area sovra-communale”. 20 Sono progetti strategici regionali: la Direttrice longitudinale nord – sud; il sistema delle direttrici trasversali est-ovest; il Progetto Tevere; il Progetto Appennino; il Progetto di Reti e di Centri storici; il Progetto capacità produttiva e sostenibilità; la rete di cablaggio a banda larga; tali progetti di natura inter e sovracomunale, si realizzeranno per successivi gradi di approfondimento anche attraverso i progetti integrati locali.

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centrifughe di alcune aree regionali (Trasimeno, Città di Castello verso la Toscana, Narnese-ternano verso Roma, Orvietano verso la Tuscia), in considerazione della evidente attrazione da parte di aree più forti sotto il profilo occupazionale, della competitività strategica, in particolare le Marche con il sistema delle PMI, dell’offerta di servizi alla scala territoriale, l’opzione è quella di trasformare le relazioni da centrifughe a “biunivoche”, attraverso un riequilibrio fondato sulla “possibilità di qualificare la massa critica dei sistemi produttivi, legando più strettamente distretti e territori, riducendo gli effetti negativi di una disarticolazione territoriale delle aree produttive che nella regione risulta essere eccessivamente frammentata e dispersa.” 21 Lo scenario policentrico reticolare si basa sull’attuazione di diversi programmi di potenziamento delle reti infrastrutturali (viarie, ferroviarie, aeroporti, logistiche, telecomunicazioni) “articolati in un telaio multimodale di supporto alla presenza di città, concepite a loro volta come nodi di reti alle diverse scale”22, ed alla opzione che tali reti si possano riposizionare ad un livello non solo nazionale (centro Italia), ma anche internazionale. Il rischio evidenziato è che un troppo forte accento sulle infrastrutture, così come contenuto nel QSN ed in particolare nella proposta della “Piattaforma territoriale integrata”, considerate come opere fisiche e non come relazioni multilivello, comprometta il patrimonio paesaggistico ed ambientale, “risorsa decisiva per un nuovo modello di sviluppo basato sulla qualità e sull’univocità dell’offerta regionale di beni non riproducibili”23. Dal punto di vista delle strategie, fortemente connesse alla riqualificazione e razionalizzazione del sistema produttivo (sistema strutturante), si afferma che “è opportuno che al rafforzamento del tessuto infrastrutturale si accompagni uno sviluppo qualificato del sistema produttivo, con particolare riferimento alla piccola e media impresa (P.M.I), del sistema insediativo e una ulteriore valorizzazione del sistema paesistico-ambientale”24. Gli assi portanti del modello infrastrutturale viario, nella prospettiva a medio-lungo termine, sono costituiti dal tracciato della E45, trasformato in autostrada (Dorsale Centrale: Mestre-Orte-Civitavecchia), facente parte del Corridoio 1 Berlino-Palermo, che incrocia i “trasversali” di collegamento tra il Tirreno (Civitavecchia) e l’Adriatico (Ancona), e la realizzazione del Progetto Quadrilatero Umbria-Marche con il potenziamento dei collegamenti con le Marche lungo la Perugia-Ancona (SS.76 e SS.318), della Foligno-Civitavecchia (SS.77), la Grosseto-Fano (E78), la Tre Valli. Il sistema viario è rafforzato dal “ferro”, attraverso lo sviluppo della Ferrovia Centrale Umbra, con il prolungamento verso Arezzo per il collegamento all’alta velocità, il potenziamento e raddoppio della tratta Orte-Falconara e la velocizzazione della Foligno-Perugia-Terontola. Inoltre la piattaforma territoriale interregionale (“Appennino centrale”) prevede una migliore connettività dell’area

21 Dal capitolo “La struttura del Disegno Strategico Territoriale”, pg. 4 22 Dal capitolo “La struttura del Disegno Strategico Territoriale”, pg. 5 23 Dal capitolo “La struttura del Disegno Strategico Territoriale”, pg. 6 24 Dal capitolo “La struttura del Disegno Strategico Territoriale”, pg. 2

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ternana con Rieti, con il completamento della superstrada, e con l’Aquila, attraverso la linea ferroviaria già esistente. A questo quadro delle reti infrastrutturali per la mobilità si aggiunge il potenziamento e internazionalizzazione dell’aeroporto di S.Egidio e le piattaforme logistiche di Città di Castello, Foligno e Terni, essenziali per le attività produttive in quanto presupposti della riorganizzazione del trasporto e stoccaggio merci, della logistica e della intermodalità ferro-gomma (Terni e Foligno). Alla base nel DST risultano inoltre fondamentali gli obiettivi di integrazione tra i sistemi strutturanti indicati; tra queste, relativamente al tema di interesse degli insediamenti produttivi, si cita quello di “incentivare la costituzione di comunità di imprese e consorzi produttivi e forme di coordinamento gestionale, in grado di migliorare le prestazioni ambientali, attraverso la riduzione degli impatti, l’utilizzo efficiente delle risorse territoriali (a partire dalla struttura insediativa e dal suolo), l’impiego di energie rinnovabili, l’organizzazione sostenibile dei cicli produttivi, in vista del miglioramento ambientale, paesistico e sociale dei contesti insediativi.”25 Le analisi contenute nel D.S.T. evidenziano una sostanziale stazionarietà dei settori portanti l’economia regionale: il comparto metalmeccanica, con una maggiore concentrazione nel ternano quale indotto della presenza della grande industria siderurgica, nonché di “milieu” connesso con le professionalità presenti nel mercato del lavoro; il settore della chimica, ugualmente concentrato nella conca ternana con i poli chimici di Terni e Narni, il settore della ceramica nelle aree storicamente specializzate di Deruta, Gubbio, Gualdo Tadino e Orvieto, il settore tessile, anch’esso “storicizzato” nel centro Umbria (Magione, Corciano, Perugia, Assisi, Basta Umbra); l’agroalimentare più diffuso nei centri e comuni minori e nelle aree rurali interne. Rispetto alle localizzazione delle aree produttive si conferma quanto emerso dalla ricerca IRRES del 1997: elevata frammentazione della aree, dispersione in piccoli nuclei, non interrelati, della dimensione media di pochi ettari, in gran parte già saturi (84% del totale). Nuovo respiro deriva dai Piani comunali di recente o recentissima formazione, nonché dai siti industriali dismessi o sottoutilizzati. Le iniziative in corso riportate nel D.S.T. si riferiscono ad una serie di strumenti di programmazione: i 10 Progetti caratterizzanti contenuti nel D.A.P. 2007-2009, riferiti agli obiettivi strategici del “Patto per lo Sviluppo dell’Umbria, 2^ fase”(dicembre 2006), tra cui, d’interesse per la tematica delle aree produttive, i progetti 1,2 e 3 (Promozione dell’efficienza e del risparmio energetico, produzione e uso energie rinnovabili; eliminazione del divario digitale dei territori; promozione della costituzione di network stabili di imprese orientati all’innovazione); i bandi in corso in attuazione del POR FESR (2007-2013) tra cui i bandi di aiuti alle imprese per attività di Ricerca e Sviluppo e investimenti innovativi, che “premiano”, assegnando percentuali consistenti di risorse, i progetti presentati da network di imprese stabili o con più evidenti caratteri di stabilità ed il bando nei settori dei materiali speciali metallurgici, delle micro e nano tecnologie, della meccanica avanzata e della

25 Dal capitolo “La struttura del Disegno Strategico Territoriale”, pg. 14

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meccatronica. Per quanto attiene il miglioramento e potenziamento delle aree produttive la seconda fase della misura 1.1. del Docup Ob.2 prevede investimenti volti a “ridurre i gap attinenti l’accessibilità ed altre criticità infrastrutturali, nonché a realizzare un compendio di arre destinato a migliorare la localizzazione di impianti produttivi esistenti”. Le aree oggetto di finanziamento riguardano Spoleto, l’eugubino-gualdese e Corciano-Magione, aree poste lungo l’asse della E45 (Torgiano, Deruta, Collazione, Marciano, Todi, Massa Martana), l’alta Valle del Tevere (Città di Castello, Umbertine, Montone), la Valle Umbra Nord (Assisi e Bastia Umbra), Piegaro, Panicale e, unica area in provincia di Terni, Baschi. Relativamente alle strategie settoriali, sintetizzate nella carta n.6, l’obiettivo strategico di una organizzazione del sistema produttivo orientata all’utilizzo delle risorse territoriali secondo forme innovative, viene declinata secondo le seguenti azioni-indirizzo:

limitazione della nascita di nuove aree industriali ed all’ulteriore frammentazione delle zone produttive, attraverso iniziative a base intercomunale; rafforzamento delle filiere produttive di qualità, specializzazione tecnologica e certificazione ambientale; incentivazione di forme di associazione tra imprese e costituzione di consorzi per la razionalizzazione delle localizzazioni; promozione del recupero e riuso delle aree dimesse, progetti pilota sulla sostenibilità ambientale, paesistica ed energetica, cicli e insediamenti produttivi, ridefinizione della logistica a supporto delle città (piattaforme, autoporti, logistica di prossimità); promozione di attività formative specializzate/superiori nel campo della qualificazione produttiva e sostenibilità ambientale promozione ricorso energie alternative, secondo forme compatibili con le caratteristiche ambientali.

La carta inoltre contiene l’indicazione delle aree produttive e delle aree di eccellenza produttiva esistenti e di progetto; tra queste, di livello intercomunale, sono indicate: l’asse Montone-Umbertide e Magione-Corciano; l’area Gualdo Tadino; l’ambito valle Umbra con i “distretti” di Bastia Umbra, Bettona, Deruta, Marciano; l’area Fratta Todina, Montecastello di Vibio, Todi; l’area Terni-Narni. Il DST come accennato contiene inoltre Progetti strategici, tra cui il Progetto Capacità produttiva e sostenibilità. Il progetto parte da alcuni nodi problematici e carenze dimostrate dal sistema produttivo ed in particolare dalla “non capacità di rispondere alla domanda” sia in termini di offerta alle esigenze espresse dalle grandi imprese e dagli investitori, sia di scarsa produttività ed efficienza delle PMI, compromessa da costi elevati. Viene a tale proposito fortemente rilevata l’inefficienza in termini di sfruttamento eccessivo di risorse, un modello che manifesta la sua non–sostenibilità e che pone pesanti contraddizioni con gli ambiti ed i contesti locali dove è insediato.

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Obiettivo prioritario è quindi una riconversione produttiva che, oltre a orientarsi verso forme di alta qualità insediativa e dei cicli produttivi (sul modello degli Environment Park, degli Eco-industrual Parks o delle italiane APEA), sappia utilizzare creati-vamente le risorse locali, in termini di capitale sociale, contribuendo a far crescere le conoscenze e le competenze locali. Altri nodi sono rilevati nella localizzazione dei nuovi insediamenti, localizzati in aree residuali ed in contesti territoriali di scarsa fruibilità dal punto di vista logistico ed infrastrutturale, nonché nelle procedure per la realizzazione che risultano eccessivamente lunghe, soprattutto qualora collegate a varianti del Piano regolatore, parte strutturale. Il Progetto Capacità produttiva e sostenibilità evidenzia pertanto delle politiche, dettagliandole rispetto a quelle riportate sinteticamente nella carta di sistema, ed una serie di definizioni operative, rimandate in particolare ai PTC provinciali, volte a definire i requisiti ambientali degli insediamenti produttivi e del ciclo produttivo, gli aspetti organizzativi, sulla scorta del modello APEA (individuazione soggetto gestore che attua un programma ambientale condiviso con gli enti locali, gestione comune con la partecipazione delle imprese dei servizi e delle infrastrutture per distretto o ambito produttivo), criteri per la pianificazione e progettazione, distinguendo tra nuovi insediamenti e riqualificazione dell’esistente (come peraltro già contenuto nel PTCP di Terni n.d.a), individua azioni quali quelle di legare le filiere produttive ai centri di istruzione e ricerca esistenti (quindi alle reti di città), disegnare per l’intera regione, specificandole per distretti, le filiere produttive e l’organizzazione complessiva del sistema, attraverso strumenti del tipo dell’Accordo Territoriale, avendo quale riferimento il contesto geografico di paesaggio. Il tema delle aree produttive nella storia della Regione Umbria L’indagine sullo stato e le caratteristiche delle aree destinate ad insediamenti produttivi dagli strumenti urbanistici generali (IRRES, 1995-96) Sia nel Docup Obiettivo 2 che nel Docup Obiettivo 5b era prevista una serie di Misure finalizzate alla costruzione di un quadro economico conoscitivo e della conseguente individuazione delle problematiche e delle potenzialità delle aree produttive presenti nel territorio regionale. Nel 1° Asse prioritario “Consolidamento, qualificazione e ampliamento della base produttiva esistente e creazione di nuove iniziative produttive”, il Docup Obiettivo 2 conteneva una specifica Misura (la 1.6) destinata “a finanziare un numero limitato di aree di insediamento produttivo (industriale e artigianale) dotate di elevati standard qualitativi, strategicamente funzionali allo sviluppo equilibrato dell’area e all’attrazione di nuove iniziative … previa ricognizione del sistema insediativo dell’intera area”. Al contempo, la Misura 1.5 prevedeva l’istituzione di una “agenzia” mirata alla ricerca e all’attuazione di iniziative imprenditoriali esogene mediante un “marketing d’area”.

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Emergeva, pertanto, la necessità di un adeguato apparato informativo sulla situazione dell’offerta insediativa nell’intera area di competenza, utile a fornire informazioni circa: le possibilità di insediamento; le eventuali carenze infrastrutturali e di servizio, nonché le esigenze di impianto di servizi a rete; i fenomeni di inquinamento di aree industriali in relazione agli interventi predisposti dal 3° Asse prioritario “Tutela, conservazione e politiche per l’ambiente al fine di creare condizioni per lo sviluppo sostenibile”, comprendenti aiuti alle imprese per investimenti ambientali ed interventi per il recupero dei siti degradati. Analoghe finalità caratterizzavano il Docup Obiettivo 5b, ed in particolare il Sottoprogramma 5 “Sviluppo e consolidamento PMI e Artigianato”, volto a “valorizzare e razionalizzare i servizi resi dalle aree attrezzate presenti nel territorio di un’indagine preliminare, da finanziare nell’ambito del programma”, sia per trarre i maggiori vantaggi dall’azione delle diverse Misure del Sottoprogramma, sia per individuarne le eventuali difficoltà di attuazione, alla luce dello scopo fondamentale, di rilevanza strategica, di “rafforzare e qualificare l’offerta e la domanda di servizi alla produzione”. Si attendevano, peraltro, risposte in grado di supportare la selezione e valutazione degli interventi relativi alle seguenti Misure:

5.2 “Aiuti alle imprese artigiane di produzione e servizi alla produzione”, comprensiva del sostegno alle “rilocalizzazioni in aree attrezzate” ed il “recupero di contenitori industriali dismessi”; 5.3 “Sostegno e assistenza alla creazione di imprese”; 5.4 “Servizi reali alle imprese”, tenendo conto della “agevolazione della domanda di servizi” e della “predisposizione e promozione pubblica per l’approntamento di servizi innovativi a carattere orizzontale”.

Non veniva trascurata, infine, l’importanza della Misura 4.1 “Aiuti alle PMI a fini ambientali”, al fine di impostare azioni efficaci e coordinate nell’ambito di agglomerati produttivi di varia dimensione. Dalle istanze sopra menzionate è scaturita, nel 1995, l’esigenza di un apposita ricerca sullo stato e sulle caratteristiche delle aree produttive previste negli strumenti urbanistici generali, commissionata all’IRRES dalla Giunta Regionale, condotta omogeneamente sull’intero territorio dell’Umbria e volta alla realizzazione di un “Atlante delle aree produttive” e di una banca dati per la gestione delle conoscenze relative all’offerta insediativa e alla situazione ambientale delle aree stesse. La ricerca sullo stato e le caratteristiche delle aree destinate ad insediamenti produttivi dagli strumenti urbanistici, effettuata dall’IRRES nel 1995-1996, ha tenuto conto di una terminologia apposita, in parte tratta dalle codificazioni fissate dalla legislazione urbanistica ed in parte elaborata ad hoc, per le specifiche esigenze di trattazione del dato. Riepilogando sinteticamente l’impostazione della ricerca, occorre puntualizzare che la stessa prende in considerazione le aree classificate “produttive” dagli strumenti

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urbanistici comunali (PRG e/o PdF), e più precisamente, fra queste, le aree a destinazione industriale ed artigianale, incluse quelle con annesse previsioni commerciali (ad esempio “zone CAI”: commerciali-artigianali-industriali). Si precisa con ciò che non sono state prese in considerazione le aree connotate da esclusiva destinazione commerciale, sebbene queste facciano parte delle zone produttive intese in senso lato. Nell’ambito degli strumenti urbanistici di ciascun Comune, sono state rilevate le singole zone produttive con numerazione progressiva, individuate secondo il criterio dell’uniformità normativa. Le singole zone sono state contestualmente raggruppate in “agglomerati”, ovvero in insiemi funzionali per localizzazione e genesi delle aree stesse; tale operazione ha consentito di esaminare caratteristiche e problematiche non altrimenti valutabili, come le dotazioni infrastrutturali. Nelle due Relazioni generali26 inerenti gli ambiti territoriali dell’Obiettivo 5b e dell’Obiettivo 2 sono sintetizzati gli obiettivi, la metodologia ed i risultati dell’indagine, con valutazioni generali sul numero complessivo di zone e di agglomerati per comune e indicazioni circa le classi di disponibilità insediativa. In esse viene altresì illustrato l’assetto infrastrutturale e dei servizi connessi alle aree produttive, oltre al quadro complessivo della strumentazione e della normativa per la gestione delle aree produttive (strumenti urbanistici generali e strumenti attuativi) a livello comunale. La Relazione sullo stato dell’ambiente è stata a sua volta articolata secondo gli aspetti metodologici (analisi dei servizi esistenti negli agglomerati industriali, stima del fabbisogno idrico e della produzione di reflui e rifiuti), la sintesi delle informazioni acquisite (analisi a scala di agglomerato industriale) e la sintesi dei risultati della ricerca nei comuni compresi nei due ambiti. Tra le tante informazioni acquisite nell’indagine IRRES 1995-96, sembra opportuno soffermarsi su alcuni dati principali, utili a dare “l’ordine delle grandezze”: sono stati infatti individuati 578 agglomerati produttivi nel territorio regionale, per una superficie complessiva di ha 7.293,64.

Quadro di riferimento territoriale regionale al 1996

N° tot. Agglom.

1996

Sup. dismesse

(ha)

Sup. servizi (ha)

Sup. libere (ha)

Sup. miste (ha)

Sup. sature (ha)

Sup. verdi (ha)

Sup. variante

(ha)

Sup. totale (ha)

578 14,40 349,99 1196,05 2517,04 2845,22 201,50 169,42 7293,64 Fonte: Ns. elaborazioni su dati SIAT.

26 Le due Relazioni generali contengono inoltre i seguenti allegati: 1) archivio informatizzato derivato dagli archivi esistenti (Cerved, Sviluppumbria, IRRES); 2) schede di rilevamento dati utilizzate per la raccolta di informazioni sull’ambiente presso gli Uffici Comunali; 3) questionario compilato dagli intervistatori presso gli Uffici Comunali; 4) progetto di informatizzazione e gestione delle informazioni raccolte dall’indagine; 5) appendice metodologica alla Relazione sullo stato dell’ambiente.

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L’articolazione del quadro di riferimento regionale 1996 in base alle diverse tipologie di zona27 ha evidenziato le quantità più significative in merito alle zone sature e alle zone miste (rispettivamente il 39,0% e il 34,5% della superficie complessiva degli agglomerati), cui ha fatto riscontro il 16,4% riferito alle zone totalmente libere. La rimanente quota di superficie è composta da servizi (4,8%), aree verdi funzionali alle aree produttive (2,8%), zone soggette a variante urbanistica (2,3%) e siti dismessi (0,2%). La riqualificazione dell’offerta insediativa nel Docup Obiettivo 2 2000-2006 L’esigenza di creare un ambiente favorevole alla crescita e allo sviluppo delle imprese ha connotato le attività perseguite dalla Regione Umbria riferite alla Misura 1.1 del Docup Ob. 2 2000-200628, codificate nel Programma Regionale “Riqualificazione dell’offerta insediativa per le attività produttive”. Tale Misura, che ha previsto come soggetti attuatori gli enti locali e le loro forme associate, si è rivolta all’incremento dell’efficienza strutturale e delle convenienze localizzative, anche attraverso il recupero dei siti dismessi, per fronteggiare carenze tecnico-ambientali, di servizi e di accessibilità.

27 Glossario – Agglomerato: insieme di zone industriali ed artigianali legate da relazioni reciproche, inclusi parcheggi, aree per servizi ed aree verdi funzionali alle aree produttive; Zona: area individuata da un unico perimetro, contraddistinta da omogenea normativa urbanistica; Area dismessa: superficie territoriale edificata non utilizzata, nella quale l’inserimento di attività produttive comporta consistenti interventi di ristrutturazione edilizia o urbanistica; Servizi: superfici destinate a servizi pubblici e/o privati (comprese aree di parcheggio) dallo strumento urbanistico generale, funzionali alle aree produttive; Zona libera: area disponibile nella quale non risultano insediate attività produttive conformi ai piani urbanistici; Zona mista: area parzialmente occupata secondo l’Indagine IRRES 1995-96; nel corso dei successivi aggiornamenti dell’indagine si è convenuto di dare un’accezione più ampia al termine, ricomprendendovi anche aree per le quali non è possibile identificare in maniera chiara ed univoca l’esclusiva destinazione produttiva; Zona satura: area occupata, edificata o non edificata, nella quale risultano insediate attività produttive conformi ai piani urbanistici; Verdi: superfici destinate a verde pubblico e/o privato dallo strumento urbanistico generale, funzionali alle aree produttive; Varianti: aree produttive interessate da varianti approvate o adottate allo strumento urbanistico generale. 28 Il Docup Ob. 2 2000-2006 abbraccia un periodo temporale di 8 anni, dal 2001 al 2008. Le aree di intervento sono rappresentate da tutto il territorio regionale esclusa la zona urbana del Comune di Perugia. Le aree elegibili, a loro volta, si dividono in aree obiettivo 2 e aree a sostegno transitorio (queste ultime sono le zone con un più elevato livello di sviluppo e quindi beneficiano di minori risorse). La popolazione (riferimento anno 1996) delle arre obiettivo 2 è di 440.053 abitanti, mentre quella delle aree a sostegno transitorio è 253.721. Le principali infrastrutture realizzate con il Docup hanno riguardato la riqualificazione delle aree per insediamenti produttivi, il recupero di aree urbane e progetti di valorizzazione di risorse naturali e culturali (musei, parchi naturali, ecc), senza trascurare anche le infrastrutture ambientali (acquedotti, depuratori, smaltimento rifiuti e bonifica siti inquinati).

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Le suddette criticità, rilevanti e diffuse nel sistema insediativo regionale, unitamente all’elevata frammentazione che crea diseconomie e riflessi negativi nell’ambiente, nel paesaggio e nell’uso del suolo, hanno condotto alla predisposizione di un Programma Regionale di vasta portata e con effetti nel medio periodo, volto al riequilibrio e alla riqualificazione su standard qualitativamente elevati dell’offerta insediativa nell’intero territorio regionale, comprese le aree non elegibili ai fondi comunitari. La misura è articolata in due azioni: l’azione 1.1.1 “Interventi di realizzazione, ampliamento e riqualificazione di aree insediative su standard qualitativamente elevati” e l’azione 1.1.2 “Interventi a sostegno della progettualità”. Considerata la complessità e la lunghezza dei tempi di definizione del Programma, non compatibili con i più stringenti tempi della Programmazione Comunitaria, come indicati nel Reg. CE 1260/99, l’attuazione della suddetta Azione 1.1.1. è avvenuta in due fasi. La prima fase è stata avviata, attraverso apposito avviso pubblico (n. 7272 del 7/8/2002), nelle more della predisposizione del Programma Regionale suddetto, in stretta coerenza con la scheda della Misura 1.1., Azione 1.1.1. e nelle sole zone Ob.2, in quanto la scarsità delle risorse programmate per le zone in phasing out non avrebbe consentito di finanziare un apprezzabile numero di progetti. Contestualmente all’avvio della prima fase, la Giunta Regionale, con lo stesso atto n. 1096 del 31/7/2002, ha deliberato l’avvio della seconda fase, la cui attuazione è prevista attraverso la predisposizione del Programma Regionale. In tale ambito si sono volute individuare le iniziative volte alla riqualificazione e razionalizzazione dell’offerta insediativa, coerenti con i criteri tracciati nella scheda di Misura e di Azione e ritenute strategiche per lo sviluppo sostenibile del sistema economico regionale. Nell’ambito dell’Azione 1.1.2 della Misura 1.1 sono stati avviati interventi differenziati per il potenziamento delle strutture di monitoraggio ambientale nelle aree produttive, per l’archiviazione, aggiornamento e diffusione dell’informazione e per il finanziamento di studi di prefattibilità da redigere a cura degli Enti Locali e loro Associazioni. Nella stessa Azione 1.1.2 si colloca l’”Avviso per il finanziamento di studi di prefattibilità redatti da Enti locali e loro forme associate finalizzati agli interventi di riqualificazione delle aree produttive in ambito Ob. 2 e Phasing-out del Docup (2000-2006)”, approvato con Determinazione Dirigenziale 16 luglio 2003, n. 6503. Tale iniziativa è volta da un lato a costituire presso ciascun Ente locale o Associazione un coerente apparato di conoscenze, incrementabile nel tempo, per la individuazione di carenze quali-quantitative e potenzialità di sviluppo delle aree produttive, già esistenti o previste nei piani urbanistici, dall’altro a fornire strumenti per la individuazione delle soluzioni infrastrutturali, urbanistiche, di miglioramento ambientale e amministrativo/negoziali che meglio rispondono agli obiettivi di riqualificazione, individuati nella specifica realtà locale.

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Hanno aderito all’Avviso regionale dieci Comuni e due Consorzi29, che hanno presentato studi riguardanti le tematiche della qualità ambientale, dei servizi allo sviluppo delle attività produttive, della dotazione Infrastrutturale, dei caratteri urbanistici ed insediativi. Gli obiettivi fondamentali delle elaborazioni possono essere identificati nella riduzione delle situazioni di criticità, nel soddisfacimento dei fabbisogni emergenti, nel miglioramento qualitativo e prestazionale degli agglomerati esaminati, nel potenziamento delle specifiche opportunità di sviluppo. Il grafico sintetizza una lettura delle tipologie di intervento complessivamente proposte dagli Enti partecipanti. Sintesi degli interventi proposti da Enti locali e loro forme associate negli studi di prefattibilità finalizzati agli interventi di riqualificazione delle aree produttive (D.D. Regione Umbria 16 luglio 2003, n. 6503)

Fonte: Ns. elaborazioni su dati SIAT.

29 Gli Enti che hanno partecipato all’Avviso regionale sono i Comuni di Castel Ritaldi, Narni, Nocera Umbra, Spoleto, Todi, Cascia, Norcia, Otricoli, Spello, Foligno, il Consorzio Parco del Nera ed il Consorzio Nera-Velino.

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L’aggiornamento 2003 a cura dell’allora Servizio Informativo Territoriale della Regione Umbria, oggi Servizio Informatico/Informativo: geografico, ambientale e territoriale L’aggiornamento dell’Indagine IRRES 1995-96 nasce dalla necessità di intercettare le opportunità, ma anche le criticità del nuovo tessuto produttivo umbro anche alla luce delle esigenze espresse nel documento Docup Ob. 2 2000-2006, basate sulle necessità di riqualificare il quadro dell’offerta insediativa. Pertanto, la Regione ha scelto di riprendere la base informativa riferita all’intero territorio regionale, elaborata nel corso della precedente indagine, e sottoporla ad una profonda revisione, sia in termini quantitativi che in termini qualitativi. Inoltre le opportunità offerte dalla mutata normativa in materia di pianificazione urbanistica comunale introdotta dalla L.R. 31/1997, determinavano un favorevole quadro conoscitivo arricchito anche dai nuovi strumenti tecnologici che invitavano i Comuni ad informatizzare i nuovi PRG. L’indagine è stata coordinata dall’allora Servizio Informativo Territoriale della Regione Umbria (S.I.TER.) e condotta in collaborazione con gli uffici tecnici comunali, che hanno provveduto a comunicare l’aggiornamento o la revisione dei dati riguardanti le superfici e le geometrie di ogni singola zona a destinazione produttiva derivante dalle classificazioni dei PRG e appartenente ad ogni agglomerato. Nella stessa indagine si è provveduto anche ad aggiornare il set informativo riguardante la dotazione infrastrutturale dei singoli agglomerati, i cui dati sono andati a popolare il sito web “Umbriaeconomia”, predisposto e gestito dalla Regione Umbria. L’aggiornamento 2009 nell’ambito del Progetto “Sistema informatizzato di valutazione dei livelli di qualità degli insediamenti produttivi” (SITAV) Anche l’aggiornamento 2009 si colloca nell’ambito del Docup Ob. 2 2000-2006 ed in particolare nell’Azione 1.1.2 della Misura 1.1, volta a promuovere interventi a sostegno della progettualità. In questo contesto, è stato realizzato dal Servizio Informatico/Informativo: geografico, ambientale e territoriale della Regione Umbria, un sistema informatizzato di valutazione dei livelli di qualità degli insediamenti produttivi (SITAV), allo scopo di fornire un punto di osservazione qualificato sullo stato delle forme insediative del tessuto economico produttivo regionale. Si è scelto quindi di individuare negli agglomerati produttivi esaminati nelle precedenti indagini l’elemento conoscitivo elementare per la conoscenza della qualità del tessuto produttivo. In questo processo di revisione ed aggiornamento del patrimonio informativo derivante dalle precedenti indagini sono state nuovamente coinvolte le amministrazioni comunali, che hanno direttamente fornito i dati. L’ambito di applicazione territoriale di questo aggiornamento dell’indagine è costituito dai trentuno Comuni della Regione Umbria appartenenti ai dodici raggruppamenti omogenei territoriali individuati dal Docup Ob. 2 2000-2006, Misura 1.1, Azione 1.1.2.

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Nella tabella seguente viene ricostruito il quadro numerico degli agglomerati presenti in tali Comuni, con un raffronto al 1996 e al 2009. Tabella della frammentazione delle aree produttive – Confronto dati degli anni 1996-200930

COMUNE Numero agglomerati

1996 Numero agglomerati

2009 ASSISI 7 7 BASCHI 3 3 BASTIA 7 8 CASTEL VISCARDO 2 2 CITTA' DELLA PIEVE 14 17 CITTA' DI CASTELLO 14 15 COLLAZZONE 8 6 CORCIANO 31 27 DERUTA 11 6 FOLIGNO 20 17 FOSSATO DI VICO 4 4 FRATTA TODINA 5 5 GUALDO TADINO 9 9 GUBBIO 17 16 MAGIONE 34 20 MARSCIANO 21 10 MASSA MARTANA 7 15 MONTONE 4 3 NARNI 9 8 NOCERA UMBRA 4 4 ORVIETO 2 2 PANICALE 9 10 PERUGIA 63 53 PIEGARO 8 5 SAN GIUSTINO 7 7 SPELLO 5 5 SPOLETO 11 11 TERNI 5 6 TODI 11 8 TREVI 6 6 UMBERTIDE 14 11 Totali 372 326

Fonte: Dati SIAT.

30 La presente pubblicazione è corredata da un apparato di tavole cartografiche e dal relativo indice, disponibili nelle pagine istituzionali della Regione Umbria, curate dal Servizio Informatico/Informativo: geografico, ambientale e territoriale, nonché nel sito dell’Agenzia Umbria Ricerche (www.aur-umbria.it), in formato Adobe Acrobat Reader PDF.

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Offerta delle aree produttive per gli anni 1996 e 2009 per i 31 Comuni Docup Ob. 2 2000-2006 della Regione Umbria

Fonte: Ns. elaborazioni su dati SIAT.

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Il ruolo del nuovo Sistema informativo regionale ambientale e territoriale (SIAT) della Regione Umbria La Regione Umbria con la recente Legge Regionale n. 13 del 26 giugno 2009 ha istituito il Sistema informativo regionale ambientale e territoriale (SIAT), che costituisce il riferimento conoscitivo fondamentale per la definizione degli atti di governo del territorio e per la verifica dei loro effetti. Le funzioni del SIAT sono ricomprese all’interno della struttura regionale del Servizio Informatico/Informativo: geografico, ambientale e territoriale della Direzione Ambiente, Territorio e Infrastrutture della Regione Umbria. Esso si realizza attraverso il coordinamento di vari attori istituzionali, quali in primo luogo la Regione, le Province, i Comuni singoli o associati e tramite una infrastruttura di cooperazione applicativa tra i sistemi informativi appartenenti alle diverse amministrazioni pubbliche (domini applicativi). Il Sistema informativo regionale ambientale e territoriale ha il compito di definire le specifiche tecniche e gli standard informatici e informativi per la elaborazione e la rappresentazione dei dati ambientali e territoriali, implementando ed aggiornando l’infrastruttura regionale per i dati territoriali intesa come insieme di risorse informative, di applicazioni, di linee guida e standard per l’acquisizione, il trattamento, l’elaborazione e la diffusione di dati geografici, ambientali e territoriali e della relativa metadocumentazione. La costituzione e l’aggiornamento di un quadro conoscitivo del sistema produttivo umbro rappresenta uno degli ambiti di sviluppo del patrimonio informativo territoriale regionale. In questo contesto il SIAT rappresenta un polo di riferimento per l’informazione geografica e territoriale, che si realizza attraverso l’interoperabilità, la cooperazione e la condivisione delle informazioni fra gli enti e i soggetti partecipanti all’infrastruttura regionale. Le principali emergenze nella lettura dei PTCP

IL PTC DELLA PROVINCIA DI PERUGIA Attraverso l’analisi dei PRG, il Piano Territoriale di Coordinamento della Provincia di Perugia ha ricostruito un quadro dettagliato per singoli comuni, ma anche articolato per ambiti territoriali e per aggregazioni dimensionali, della pratica urbanistica dagli anni ‘70 alla prima metà degli anni ‘90, estraendo il modello evolutivo posto alla base delle scelte dei Comuni e valutandone i risultati conseguiti. Sebbene non sia stato possibile stabilire un rapporto di causalità diretta tra la pratica urbanistica dei Comuni e le trasformazioni territoriali avvenute nel periodo corrispondente all’interno dei singoli ambiti comunali (e ciò per vari motivi, tra cui la non linearità dei processi di trasformazione), l’analisi ha contribuito ad individuare se ed in quale misura i PRG hanno saputo accompagnare alle trasformazioni, originate da diverse cause, un

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processo di razionalizzazione delle strutture territoriali e garantire una quantità di elementi che possono essere indicatori di un livello qualitativo accettabile. Il lavoro svolto dalla Provincia in collaborazione con i Comuni per la formazione dei BUC31 può essere considerato il primo passo della copianificazione. Il PTCP ha rilevato, all’interno delle aree urbane, la tendenza dominante di una larga compatibilità, in tutte le aree a vocazione residenziale, tra residenza, commercio e servizi, compatibilità spesso non regolamentata. Le destinazioni monofunzionali invece sono presenti prevalentemente nelle NTA dei PRG particolarmente vecchi e non rinnovati dalle varianti recenti. Alla data di redazione del PTCP, per le zone produttive la destinazione monofunzionale risulta generalmente confermata per quelle di nuova realizzazione, mentre per quelle già in parte realizzate e oggetto di operazioni di trasformazione, il modello prevalente è quello di un sistema misto in cui le destinazioni produttive ed i servizi risultano prevalenti, senza tuttavia escludere possibili quote di residenza. Il quadro degli insediamenti produttivi presenta una realtà articolata: la consolidata diffusione di strumenti urbanistici previsionali ha favorito, con il ricorso alla zonizzazione delle destinazioni d’uso e grazie ad una scarsa attitudine, specialmente nei Comuni di minori dimensioni, alla pianificazione attuativa, il nascere di zone artigianali ed industriali in maniera eccessivamente diffusa, di bassa qualità progettuale ed insediativa e, spesso, con una scarsa capacità di relazionarsi verso l’esterno. Parallelamente al diffondersi di tale modello insediativo produttivo che i piani hanno calato su un sistema territoriale direttamente ereditato dalla tradizione agricola mezzadrile, si sono invece fortemente consolidati alcuni poli produttivi posti in posizione favorevole nei principali sistemi vallivi e lungo le principali direttrici viarie, tanto da saldarsi in sistemi pressoché continui di dimensioni regionali (Magione-Perugia-Bastia, Foligno, Spoleto) o configurare polarità di rilievo comunque intercomunale (Fossato di Vico-Gualdo Tadino, San Giustino-Citta’ di Castello, Deruta-Torgiano-Bettona) in vario modo collegate tra loro e con i primi. Ancora, in posizione più esterna rispetto alla fascia della grande concentrazione, si riconoscono alcuni insediamenti di consistenza significativa e con forte ruolo locale (Marsciano e Todi nella Media Valle del Tevere, Piegaro e Paciano nell’area a sud del Trasimeno). La lettura dei recenti processi di espansione insediativa lungo i principali assi territoriali della Provincia, e specialmente nelle aree della concentrazione, mostra peraltro una pericolosa tendenza al verificarsi di saldature lineari tra gli insediamenti, che il PTCP intende frenare con una duplice finalità: da una parte la salvaguardia dell’identità fisica e morfologica dei tessuti urbani, dall’altra il mantenimento degli elementi naturali di collegamento tra diversi sistemi ambientali, indispensabili per la

31 I BUC (Bilanci Urbanistici Comunali) consistono in una scheda-questionario appositamente predisposta con l’obiettivo di produrre elaborazioni dei dati quantitativi e qualitativi di base: gli indicatori riportati nella scheda sono interpretativi del tipo di PRG, della qualità dei piani, delle capacità insediative residue degli stessi.

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conservazione dell’ambiente fisico. Dalle valutazioni dei ruoli urbani contenute nel PTCP32, riferiti a quattro temi assunti come particolarmente significativi per la comprensione dell’assetto del territorio provinciale e che sono: cultura, servizi alla persona, attività produttive e turismo, è emerso immediatamente che mentre alcune funzioni risultano fortemente diffuse sul territorio (turismo ed attività produttive), altre, quali le funzioni connesse alle attività culturali ed ai servizi alla persona, sono polarizzate in alcuni centri e principalmente in Perugia, ove il ruolo di capoluogo di regione risulta drasticamente enfatizzato. La rete del policentrismo sembra avere ancora una buona tenuta in tutto il territorio provinciale, ad eccezione delle fasce di grande concentrazione lungo i principali sistemi vallivi ed i collegamenti viari, ove, nell’ambito di un forte addensamento insediativo continuo, si stanno strutturando alcune polarità che tendono a smantellare i precedenti sistemi reticolari. Nella fascia compresa tra Magione e Spoleto, ove fine degli anni ’90 si concentrava il 54% della popolazione provinciale, il 37% degli insediamenti produttivi, il 72% della grande distribuzione per gli esercizi con superficie di vendita inferiore a 5000 mq. ed il 100% per quelli con superficie superiore, si avverte la tendenza relativa al consolidarsi di “strade mercato” che concentrano in pochi chilometri (Magione-Perugia) la totalità quella grande distribuzione commerciale, da una parte con la specializzazione di alcuni centri di maggiori dimensioni che prima erano soltanto piccoli borghi rurali, dall’altra con la creazione di polarità più forti in corrispondenza dei centri di maggior peso demografico ed insediativo (Foligno e Spoleto oltre che Perugia).

32 Il Preliminare di PTCP, nell’affrontare il tema del sistema insediativo, individuava sulla base della morfologia del territorio provinciale e dell’assetto infrastrutturale esistente, quattro differenti ambiti insediativi:

gli assi vallivi della Valle del Tevere, da Sansepolcro a Todi e della Valle Umbra, da Perugia a Spoleto; l’asse della S.S. Flaminia, che da Foligno a Spoleto si sovrappone al precedente e, come quello, fortemente supportato dal sistema infrastrutturale; l’anello del Trasimeno; le aree alto-collinari e montane che si interpongono agli assi insediativi fondamentali e che rappresentano le aree interne come la Valnerina o il sistema dei Monti Martani, o, ancora, le zone marginali più piccole, ma sempre caratterizzate da una bassa accessibilità e da contenuta densità insediativa.

Le caratteristiche dimensionali e le posizioni relative fra questi sistemi, oltre ad altri fattori, hanno consentito che su questo territorio così articolato morfologicamente prendesse forma una trama insediativa identificabile in una struttura policentrica che poteva distribuire in modo diffuso sul territorio stesso funzioni ed attività. Con gli approfondimenti condotti nella stesura definitiva del PTCP, oltre alla parte fortemente descrittiva dell’assetto territoriale della provincia contenuta nella carta dell’armatura urbana, sono state condotte valutazioni sintetiche sul ruolo territoriale dei centri urbani cercando di individuare, per ciascuno di essi, il peso che esprime nel sistema delle relazioni territoriali o nei sottosistemi locali e, in particolare, la capacità di attrazione e l’ambito di servizio, rilevabili attraverso la concentrazione e la qualità delle funzioni.

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Il PTCP sottolinea come la caratteristica della “continuità urbana” in questa fascia, che coinvolge i territori di almeno nove Comuni tra Magione e Spoleto, richieda uno stretto rapporto tra le varie Amministrazioni sia nella fase della gestione che in quella della pianificazione territoriale, oltre alla presenza di un coordinamento a scala sovracomunale. All’interno del tematismo delle aree produttive, il PTCP di Perugia segnala, assieme alla sua articolazione in aree sature ed aree disponibili, la presenza di aree industriali dismesse, individuate come punti riferiti alle località, derivante dall’acquisizione dei risultati di una specifica indagine, effettuata nel 1996 dalla Sezione Umbria dell’Istituto Nazionale di Urbanistica (INU), confluita nel documento “Prime valutazioni sul fenomeno delle aree produttive dismesse in Umbria”33. Specifica attenzione è rivolta alle aree di superficie rilevante, per le quali è richiesta una gestione copianificata in base a soglie dimensionali delle aree stesse e dei comuni in cui insistono: la Normativa – Criteri, indirizzi, direttive, prescrizioni – del PTCP (Variante di adeguamento al PUT) prevede infatti all’art. 8 che, qualora non sia disciplinata da leggi o piani di settore, la localizzazione delle aree produttive superiori a 15 ha per Comuni con popolazione residente inferiore a 20.000 abitanti, e di quelle superiori a 30 ha per Comuni con più di 20.000 abitanti, siano specificamente soggette al processo di copianificazione34 tra Provincia e Comune e relativa intesa. Il PTCP assoggetta inoltre alla medesima disposizione le aree produttive per l'ubicazione degli stabilimenti a rischio di incidente rilevante, le aree produttive agricole e le attività estrattive come specificato all'art. 29.

33 Il riuso delle aree produttive dismesse trova successiva e più ampia trattazione nel volume “Rinascimento urbano. L’esperienza dei programmi complessi in Umbria”, a cura della Sezione Umbria dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, INU Edizioni, 2005. Vengono illustrate, in particolare, le seguenti iniziative: PUC Santa Maria degli Angeli, area Fornace, cava ed ex Montedison (Comune di Assisi); PUC Aree ex Selfire, ex Lima ed ex campo sportivo (Comune di Bettona); PUC Fornaci Hoffmann / Ambito 6a-6b e Parco del Topino (Comune di Foligno); PUC Ex Centro Fiera (Comune di Foligno); PUC Capoluogo (Comune di Magione); PIR, PPE Ex Cementerie (Comune di Magione); PUC Piazza Carlo Marx (Comune di Marsciano); PUC Piazza della Repubblica (Comune di Marsciano); PUC Campo della Fiera (Comune di Massa Martana); PUC Ex Fornace (Comune di Umbertide). 34 Possono, inoltre, essere oggetto di copianificazione le scelte strategiche di assetto del territorio e quelle relative alle politiche di settore.

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Insediamenti produttivi nel Piano Territoriale di Coordinamento della Provincia di Perugia, anno 1999

Fonte: PTCP Provincia di Perugia, Atlante del sistema infrastrutturale-insediativo, Elaborato I.4.4. All’art. 18, il PTCP prevede che il PRG, per le destinazioni d'uso e gli usi compatibili nelle aree urbanizzate, nel rispetto delle LL. RR. 55/87 e 31/97 e successive modificazioni ed integrazioni, debba tra l’altro favorire l'integrazione funzionale tra le

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attività di produzione e quelle di servizio sia per quanto riguarda le aree produttive di nuova previsione che la riorganizzazione di quelle preesistenti, definendo soluzioni finalizzate a migliorare e preservare le condizioni ambientali ed insediative dell'intorno mediante adeguate fasce di rispetto che dovranno essere opportunamente alberate e sistemate. Il PRG è inoltre tenuto a prevedere che la realizzazione di nuovi insediamenti commerciali e direzionali, o la ristrutturazione di quelli esistenti, avvenga nel rispetto delle norme statali e regionali in materia e che tali previsioni debbano essere corredate da studi di valutazione dei flussi di traffico veicolare da esse indotto, rispetto ai quali vanno ridefiniti ed adeguati gli standard di parcheggio; che la localizzazione di nuovi complessi insediativi o l'ampliamento di quelli esistenti non avvenga a distanza inferiore a metri 800 dagli impianti zootecnici o dalle industrie insalubri e viceversa (comma 6 art. 27 L.R. 24 marzo 2000 n. 27 - PUT). Tra le disposizioni pertinenti al tema trattato, vi sono anche quelle contenute nell’art. 20, in base alle quali lo strumento urbanistico comunale deve dimensionare le proprie previsioni secondo ipotesi credibili e attendibili sia rispetto alle dinamiche di sviluppo in corso, registrate anche dal PTCP, sia rispetto alla effettiva domanda di mercato per il sistema residenziale e produttivo (artigianale, industriale, commerciale, terziario). In merito al dimensionamento produttivo delle aree destinate alla produzione di beni e servizi, viene sancito che “il PRG deve integrare le attività di produzione e le attività di servizio, tener conto delle previsioni residue confermandole o rilocalizzandole, senza incrementare le stesse fino al loro esaurimento”. Nello stesso articolo il PTCP definisce una crescita delle aree per la produzione di beni e servizi a livello provinciale, per il periodo della sua validità, del 10%; tale incremento può essere attivato qualora i Comuni dimostrino l’avvenuta utilizzazione, anche a mezzo di piani attuativi adottati, delle aree produttive già previste dallo strumento urbanistico generale, per almeno l’80%. E’ previsto che l’utilizzo della quota di crescita avvenga in base alle reali dinamiche di sviluppo, mediante un processo di copianificazione, privilegiando le localizzazioni definite sulla base di studi ed accordi intercomunali. Il PTCP si prefigge la salvaguardia del sistema industriale in essere garantendone prioritariamente l’adeguamento tecnologico e le reali esigenze di ampliamento; ammette la realizzazione di centri servizi per attività logistiche del trasporto delle merci, nonché di parcheggi attrezzati per la sosta dei mezzi pesanti e la loro manutenzione, in rapporto alle dimensioni e qualità degli insediamenti previsti (comma 7 art. 30 L.R. 27/2000 - PUT). Esso prevede inoltre che le previsioni localizzative debbano tenere conto della facilità di accesso attraverso le infrastrutture viarie esistenti o previste. In relazione ai fattori qualitativi delle aree produttive, nell’art. 29 della Normativa, il PTCP prescrive che il PRG ed i relativi piani attuativi debbano fissare una disciplina per la definizione dei verdi pertinenziali nonché per la qualità delle componenti costruttive, delle finiture esterne e cromatiche degli edifici, degli elementi di arredo e degli impianti di segnaletica, con particolare riferimento alle aree ricadenti in ambiti vincolati ai sensi del D.Lgs. 490/1999 (oggi trattati nel “Codice dei beni culturali e del paesaggio” di cui al D.Lgs. 42/2004).

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IL PTC DELLA PROVINCIA DI TERNI Nel PTC vigente sono definiti gli obiettivi specifici che la Provincia di Terni intende assumere e, di conseguenza, quali azioni e/o quali interventi diretti la Provincia di Terni intende mettere in campo, quali trasformazioni intende effettivamente promuovere e/o eventualmente sostenere nel tempo di durata del proprio piano, con specifico riferimento alle parti del territorio provinciale in cui tali interventi, azioni e trasformazioni dovranno essere localizzati e realizzati, in relazione alle caratteristiche ambientali e paesaggistiche, al sistema delle principali infrastrutture e servizi, al sistema insediativo esistente e, più in generale, alle “risorse locali” che possono essere ragionevolmente attivate e valorizzate. Negli elaborati del “Sistema di gestione” il sistema delle azioni è relazionato con la capacità di spesa e di intervento diretto, proponendo schede di progetto e azioni chiave di coordinamento. Nella attività di gestione del piano (dal 2000 ad oggi) una parte di queste azioni si sono di fatto concretizzare sia per iniziativa diretta della Provincia sia per iniziativa di altre amministrazioni, anche secondo modalità di intervento non ipotizzate dal Piano: ad esempio la valorizzazione dei territori marginali, assunta come obiettivo generale ed affidata dal Piano ad alcuni progetti di tipo tradizionale, quali i circuiti museali, si è realizzata attraverso l’Ecomuseo del Paesaggio, che con maggior forza ha saputo valorizzare le risorse posizionate nei sistemi locali marginali. Una buona percentuale delle azioni strutturali previste sono state finanziate con risorse derivanti dalla Programmazione regionale, utilizzando le diverse misure dei DOCUP, mentre un’altra parte è stata realizzata attraverso strumenti integrati di intervento, quali i Programmi complessi (Programmi di Riqualificazione Urbana per lo Sviluppo Sostenibile del territorio- PRUSST, Contratti di quartiere e Programmi Urbani Complessi-PUC). Di fatto l’aderenza ai processi ha guidato l’azione di più soggetti nelle strategie di fondo, favorendone l’attuarsi .Tutto questo è stato possibile soprattutto grazie ad un percorso molto articolato di ascolto delle comunità locali ed al parallelo ruolo di coordinamento della programmazione regionale in ambito provinciale svolto (ma solo in quella occasione) dall’Amministrazione Provinciale nel 1996-1998. Le scelte operate dal PTCP di Terni Il PTCP, ha cercato di rispondere, attraverso la strumentazione propria di tipo urbanistico-territoriale dell’ “area vasta”, alle molte istanze maturate, a partire dalla metà degli anni 90, nei diversi contesti locali. Nella sua gestione ha assunto il carattere di “quadro complessivo” di riferimento per le politiche sia ambientali che di valorizzazione delle risorse sul territorio provinciale. In quanto piano territoriale e per effetto della sua “contiguità”con la programmazione economica, ha colto l’esigenza di coniugare le specificità locali, tendenzialmente isolate, con l’appartenenza ad un più ampio sistema, che travalica i confini sia provinciali che regionali: il territorio della provincia si trova infatti ad essere collocato tra la macroregione metropolitana

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tirrenica, che ha il suo fulcro principale nell’area metropolitana romana, e la dorsale adriatica, caratterizzata dall’alternarsi di urbanizzazioni lungo i pettini vallivi e la costa delle regioni centrali35. La strategia del PTCP si fonda sulla ricerca delle possibilità che si aprono alle città ed ai territori di utilizzare pienamente le “risorse posizionate” (economiche, ambientali, storico-culturali e, non ultimo, umane): segnala le disponibilità locali alla trasformazione, riscopre il territorio come soggetto, legittima la funzione del piano come interlocutore all’interno della comunità locale e tra comunità, si esplica come modello normativo da cui derivare comportamenti coerenti e attribuisce valore non solo alle risorse, ma anche ai “modi” di pensiero locale. Si poggia su un sistema territoriale in cui anche i centri minori costituiscono importanti presidi territoriali per ambiti sub-regionali, tanto da non permettere l’affermarsi di consistenti polarizzazioni da parte dei centri maggiori. Inoltre le politiche di valorizzazione, tutela e consumo controllato delle risorse locali devono necessariamente riferirsi alle diversità territoriali. Le chiavi di lettura scelte sono state sia di tipo relazionale (che identificano i flussi, le reti di complementarità, le gerarchie e le polarizzazioni, i rapporti esterni), sia di tipo morfologico (ambientale, storico-culturale, sociale) che indagano i caratteri fondanti l’identità propria di ciascun territorio36. A tale strategia ha corrisposto un percorso di scoperta-approfondimento-presa di coscienza delle risorse proprie di ciascun contesto, in termini di risorse localizzate e di storia dei territori, attraverso il metodo dell’autodiagnosi.37. Tutto questo è stato favorito dal nuovo modo di concepire gli strumenti di pianificazione e di

35 Tali configurazioni territoriali sono descritte dalla ricerca ITATEN(1996) ed in particolare nella relazione introduttiva di Alberto Clementi 36 Ciascun sistema locale pertanto è stato interpretato evidenziando: a) il “patrimonio genetico”, o insieme di caratteri su cui si fonda l’identità propria (riconoscibilità) di ciascun territorio; b) le “condizioni di partenza” ovvero la posizione assunta dal sistema locale rispetto alle principali traiettorie o dinamiche di sviluppo; c) le “caratteristiche dei flussi” ovvero i tipi di relazioni prevalenti sia interne che verso l’esterno; d) i soggetti che agiscono in ciascun territorio. Tale schema offre il vantaggio, nell’impostazione complessiva del sistema delle conoscenze, di permettere la ricostruzione dell’evoluzione dei sistemi locali, attraverso una visione retrospettiva costruita a partire dai dati censuari. E’ inoltre fondamentale per basare la successiva valutazione degli effetti e del grado di incidenza del piano rispetto a ciascun sistema locale, al fine di comporre un “bilancio consuntivo urbanistico-ambientale”. Infatti, il sistema delle valutazioni di congruità dei piani Regolatori Comunali con il PTCP, consente l’implementazione dei Bilanci di Area, attraverso l’aggiornamento e l’approfondimento degli indicatori ecologici (Indicatori di ecologia del paesaggio) strumento per la valutazione ed il controllo delle principali trasformazioni. 37 I corsi di autodiagnosi, il cui progetto formativo è stato curato da un gruppo interdisciplinare coordinato dal Prof. G.B. Montironi, si sono rivolti a tecnici e referenti locali; nel progetto si è sperimentata la tecnica di indagine locale“dal basso” per quanto attiene i servizi alla persona ed il terzo settore avvalendosi delle cooperative operanti nel territorio. Recentemente il metodo dell’ autodiagnosi è stato utilizzato per l’analisi propedeutica allo sviluppo del Progetto Pilota “Ecomuseo del Paesaggio Orvietano” (2003-2006).

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programmazione: a una territorialità, espressa nei passati strumenti, soggetta a norme generali sovraordinate e gerarchiche, si sostituisce una “territorialità pattizia, negoziale, concertata” che, nella nostra regione, prende corpo nella pianificazione urbanistica e territoriale attraverso le forme della co-pianificazione, delle intese istituzionali tra enti pubblici e degli accordi tra attori delle trasformazioni territoriali e urbane e il consolidamento dei progetti di sviluppo locali sul modello dei progetti integrati, dai Programmi di Riqualificazione Urbana per lo Sviluppo Sostenibile del territorio (PRUSST) ai Programmi Integrati Territoriali (PIT) di cui al Bando Regionale Multimisura Turismo Ambiente e Cultura (TAC)38 presentati da parte di quasi tutti i comuni umbri, variamente aggregati e con la partecipazione di investimenti privati. I tematismi relativi alle aree produttive, alle reti infrastrutturali, alle aree dismesse e ai siti estrattivi Il vigente PTCP (1997-2000), parte dalle informazioni disponibili (ricerca IRRES sulle aree produttive 1997) aggiornando quelle ritenute utili ai fini della pianificazione (grado di saturazione delle zone censite, modifiche apportate dai nuovi piani urbanistici e dotazione infrastrutturale). Per migliorare la precisione dell’analisi, sono stati rielaborati i dati a disposizione, stimando nel dettaglio la superficie occupata e quella disponibile di ogni zona parzialmente occupata; ai fini pianificatori inoltre il sistema produttivo è suddiviso in destinazioni “industriale”, “industriale-artigianale-commerciale”, “per servizi ed attrezzature a carattere territoriale” 39. Vengono pertanto prese in considerazione le aree classificate “produttive” dagli strumenti urbanistici comunali (PRG e/o PdF), e, fra queste, le aree a destinazione industriale ed artigianale, comprendendo inoltre le cosiddette “miste” ovvero le zone in cui è ammissibile, in misura non prevalente, la destinazione d’uso commerciale (le c.d. zone CAI: commerciali-artigianali-industriali). L’esclusione delle zone destinate al commercio di grande e grandissima superficie, che peraltro non rientrano tra i contenuti dei PTC umbri, essendo la localizzazione di competenza regionale e comunale, mira ad evidenziare la localizzazione territoriale del settore produttivo, in senso stretto40. Le singole zone per attività produttiva individuate sono state definite, raggruppandole, quali facenti parte di “agglomerati”, ovvero insiemi funzionali per localizzazione e genesi delle aree stesse41. Tale sistematizzazione ha pertanto permesso di relazionare

38 DOCUP 2000-2006 Obiettivo 2, C4. 39 Tavola di analisi n.2 “La pianificazione locale. Mosaico dei PRG vigenti” scaricabile dal sito www.provincia.terni.it/ptcp 40 Da successive analisi Sviluppumbria, incrociando le aree destinate dai Piani comunali con l’elenco aziende con numero addetti >5 , emerge come la destinazione d’area non è sempre congruente con le destinazioni d’uso, ponendosi, imprese di tipo artigianale o di servizi localizzarsi in altre zone urbanistiche (es, zone tipo B o centro storico). 41 Tale operazione ha consentito di esaminare caratteristiche e problematiche non altrimenti valutabili, ad esempio, non sarebbe stato significativo esaminare le caratteristiche delle principali dotazioni infrastrutturali a livello di singola zona.

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agli agglomerati produttivi le reti infrastrutturali viarie ed energetiche, i centri di servizi alle imprese, i depuratori e le discariche42 . Infine, sempre nelle tavole di analisi del PTCP, (tav. 9, “Carta dei siti estrattivi”) sono segnalati gli impianti di prima lavorazione e trasformazione. Altre analisi del PTCP individuano le parti di territorio congruenti con la destinazione produttiva, per le quali il Piano definisce l’indirizzo di ampliamento e/o consolidamento (Tavola I del PTCP “agglomerato o polo da qualificare e potenziare”), le zone produttive poste in aree critiche per problemi ambientali, infrastrutturali o storico-artistici, per il quale l’indirizzo è quello del “contenimento” o riuso con altre destinazioni.43 Nella cartografia di piano (Tav. II B3. “Aree a rischio e ad elevata vulnerabilità”) sono infine indicate le industrie a rischio di incidente rilevante sottoposte a notifica (ai sensi del DPR 175/88, art.4), quelle sottoposte a dichiarazione (ai sensi del DPR 175/1988, art. 6) e i siti degradati. Aree produttive e principali infrastrutture viarie nel PTCP di Terni, anno 2000

Fonte: SIT Provincia di Terni.

42 Tav. di analisi n. 3, “Infrastrutturazione del territorio e sistema produttivo” scaricabile dal sito www.provincia.terni.it/ptcp 43 Le aree produttive dismesse, le discariche attive e dismesse sono sempre evidenziate nella Tavola I, “Progetto di struttura”.

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Le strategie del PTCP vigente La distribuzione territoriale degli insediamenti a destinazione produttiva alla scala provinciale è riconducibile a due principali categorie: i grandi insediamenti industriali, a cui si associano vaste aree prevalentemente artigianali e molti, frammentati insediamenti a carattere prevalentemente artigianale, localizzate in aree di limitata espansione e spesso posti anche a notevole distanza l’uno dall’altro. In generale le PMI e le imprese artigiane localizzate costituiscono un sistema scarsamente integrato funzionalmente e territorialmente, risultano infatti deboli o assenti i legami di interdipendenza e/o complementarietà tra unità produttive (si veda al proposito i risultati delle interviste agli stakeholders del paragrafo “Aspetti gestionali” ). Il riflesso territoriale di questa scarsa integrazione è l’assenza nel territorio provinciale di distretti industriali o comunque di una caratterizzazione settoriale prevalente. Se ciò da un lato implica la difficoltà di sfruttare economie di agglomerazione, in quanto l’agglomerato assume significato esclusivamente in termini di “parte territoriale”, ma non di sistema, senza poter recuperare le economie di scala che le singole unità produttive non riescono a raggiungere, dall’altra parte, come ampiamente trattato in precedenti Rapporti, produce una certa flessibilità congiunturale delle imprese, grazie alla loro dimensione contenuta, alla organizzazione spesso “familiare” ed agli stessi scarsi legami di interdipendenza con altre aziende. Il PTCP pertanto ha mirato a sviluppare un “ambiente complessivo” (milieu) favorevole allo sviluppo di innovazione sia a livello di processi produttivi, sia organizzativi, favorendo ad esempio la creazione di Consorzi per le Aree produttive, di cui l’Ente Provincia fa parte insieme con i Comuni territorialmente competenti, la Regione e Sviluppumbria, sia di tecnologie applicate, connesse ai settori di ricerca-sviluppo tecnologico di livello nazionale ed internazionale, appartenenti alle reti di livello superiore44. Si configura pertanto una “rete dei luoghi della produzione e della ricerca-innovazione”, come gamma di opportunità, correlate alle imprese di livello nazionale ed internazionale presenti ed attive, con l’obiettivo di attrarre altre imprese dei settori innovativi. Le indicazioni di assetto del territorio ed in particolare la scelta di polarizzare le funzioni produttive al fine di determinarne la giusta soglia dimensionale, necessaria a sviluppare un sistema produttivo di “eccellenza”, sono state preliminarmente valutate attraverso gli indicatori di ecologia del paesaggio, riportati in tabelle allegate alle schede normative per le unità di paesaggio a maggior carico antropico, così come per la riorganizzazione dei sistemi a rete e lo sviluppo dei servizi di area vasta.

44 Questa strategia, fortemente condivisa a livello regionale, ha peraltro portato alla localizzazione e consolidamento nel centro di Pentima, a partire dai primi anni 90, della Facoltà di “Ingegneria dei materiali speciali” dell’Università di Perugia e dell’ISRIM, fortemente impegnati i primi a sviluppare ricerca in collaborazione con le grandi aziende presenti nel territorio della conca ternana, la seconda nei sistemi di analisi dei materiali, monitoraggio e bonifica.

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La sovrapposizione dei diversi tematismi ambientali ha inoltre portato alla individuazione degli agglomerati produttivi da sottoporre ad interventi di riqualificazione e del relativo grado di priorità contenuto negli indirizzi per Ambiti Territoriali (Capo IV delle Norme di Attuazione del Piano). In un ottica maggiormente aderente alla velocità di trasformazione sia dei cicli produttivi sia degli stessi cambiamenti di destinazione d’uso, che vedono ad esempio la tendenza all’insediamento nelle zone produttive del commercio, derivante anche dal fatto che le attività artigianali, alle quali è consentita la vendita dei propri prodotti, spesso si trasformano in attività essenzialmente commerciali, le future aree produttive dovranno possedere oltre che requisiti di qualità, anche quelli di “reversibilità”. Pertanto il PTCP associa alle quantità insediabili regole in materia di rispetto al sistema ambientale anche nella prospettiva di una possibile dismissione e conseguente cambiamento della destinazione d’uso. Infine il Piano introduce le “Aree ecologicamente attrezzate”, riferendosi alle prime esperienze di A.P.E.A all’epoca in sperimentazione nella Regione Emilia Romagna: a tal fine sono proposti criteri per la progettazione/riqualificazione degli agglomerati produttivi volti alla mitigazione dell’impatto visivo, miglioramento climatico, riduzione del trasporto delle polveri e riduzione dell’inquinamento acustico attraverso fasce di verde privato, con barriere vegetali della profondità minima di 16 ml, da realizzarsi sul fronte stradale e sui perimetri esterni dell’area, il parziale mantenimento della permeabilità dei suoli ai fini della ricarica delle falde acquifere, la previsione di invasi artificiali o vasche di raccolta dell’acqua piovana, anche ai fini della prevenzione incendi, la previsione di sistemi depurativi a basso impatto (sistemi di fitodepurazione e lagunaggio, di cui ad uno specifico allegato di indirizzo), la localizzazione di isole per la raccolta differenziata. La norma relativa prevede che, ove siano previsti e realizzati interventi ecocompatibili, le superfici utilizzabili per insediamenti ai fini produttivi vengano conteggiate, ai fini delle quantità massime ammissibili, con un coefficiente di riduzione pari al 50%. Dal punto di vista del contenimento della frammentazione territoriale degli insediamenti produttivi, il PTCP correla la fase di conclusione degli strumenti della programmazione negoziata (Contratto d’area per Terni, Narni e Spoleto e Patto territoriale Valdichiana, Trasimeno, Orvietano) con indicazioni relative alla razionalizzazione del sistema, riportando nella Tav. I “Progetto di struttura” l’organizzazione proposta, per poli produttivi principali e per agglomerati di interesse locale. Con questa indicazione il Piano cerca di invertire la tendenza alla frammentazione, come ben risulta dalla ricerca IRRES del 199745, che compromette ambiti generalmente di elevata qualità ambientale, comporta un attuazione non completa degli interventi, considerando l’alta percentuale, registrata alla fine degli anni 90, di lotti non edificati e la non realizzazione delle aree destinate a standard, e, al contempo, difficoltà di realizzazione, nonché di gestione dei servizi puntuali ed a rete.

45 “Indagine sullo stato e le caratteristiche delle aree destinate ad insediamenti produttivi dagli strumenti urbanistici generali” su incarico della Regione, Ufficio Industria e Ufficio del Piano

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Il PTCP punta infine ad una migliore organizzazione interna delle aree (viabilità e segnaletica, cablaggi, acquedotti industriali, permeabilità dei suoli, riduzione interferenze aree limitrofe mediante dune vegetate, accessibilità e spazi di manovra per i mezzi pesanti), prevedendo per i poli produttivi una attuazione per nuclei, contenuti in termini di estensione e rispondenti a requisiti di necessaria funzionalità, in base alle esigenze di insediamento di nuove imprese o di ampliamento di quelle già insediate; tale norma è mirata ad evitare realizzazioni parziali che comportino spreco di territorio, aree di risulta e frammentazione del tessuto paesaggistico. Obiettivi e scelte strategiche nel processo di revisione del PTCP La revisione dell’attuale strumento di area vasta, il PTC Provinciale, non si pone solo come un adempimento posto dalla normativa regionale, alla scadenza di 10 anni dalla entrata in vigore, ma, anche e soprattutto, quale atto di pianificazione necessario per restituire una realtà territoriale profondamente mutata rispetto al decennio precedente rispetto alla quale il PTCP è stato concepito. Sebbene resti fondamentalmente confermata la validità dell’impianto e la generale struttura del piano vigente, il processo di revisione si apre alle nuove problematiche di natura ambientale, all’attenzione alle diverse scale decisionali (internazionale, europea e nazionale) di diretta ed indiretta applicazione, che rendono la portata degli strumenti urbanistici molto ampia e, di conseguenza, complessa. Un processo, comunque, di maturazione non proprio perfetto che si scontra con la mancata uniformità, e di conseguenza, diversificazione delle competenze provinciali nel panorama nazionale e che ad oggi sembra non incline a riconfermare il ruolo decisionale affidato alle province ed al PTC. L’efficacia del processo di revisione dell’attuale PTCP si pone pertanto in rapporto alle competenze proprie dell’ente provinciale, che direttamente possano incidere sul coordinamento ed indirizzo dei processi di trasformazione posti in atto “in primis” dai comuni. In questo quadro la revisione del PTCP di Terni, aprendo alcune “finestre di pianificazione”, mutuate dalle più recenti esperienze nazionali, mira a far propri i contenuti paesaggistici ed ambientali declinati nella più recente normativa di settore e nei piani regionali e, in secondo luogo, a rafforzare le azioni di coordinamento, in particolare relativamente alle tematiche degli ambiti produttivi, dei servizi territoriali, delle reti infrastrutturali e della mobilità. Tale azione sviluppa il percorso in atto dal 2000 con i Comuni, le Comunità Montane e gli altri enti territoriali: è una azione di supporto e non di “imposizione gerarchica” che assume i principi della sussidiarietà, della condivisione delle scelte, dell’ascolto delle comunità locali, della negoziazione. In terzo luogo attraverso i diversi strumenti nazionali e regionali di programmazione, derivanti anche dalla negoziazione con la EU nell’ambito delle politiche di sviluppo e coesione regionale, il piano mira a riagganciarsi a dinamiche ed assetti strategici, non ultima l’allocazione dei fondi strutturali, che saranno a loro volta i punti di partenza per futuri progetti di sviluppo ed interventi specifici sul territorio regionale.

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Per quanto attiene agli obiettivi strategici che sottendono alla base del processo di revisione del PTCP, essi sono così riassumibili46:

Favorire un trasporto e mobilità sostenibile attraverso azioni e suggerimenti specifici che indirizzino piuttosto che inseguano, lo sviluppo; rivisitare gli ambiti delineati nel PTCP vigente correlati alle principali opere infrastrutturali programmate in ambito regionale e interregionale; favorire politiche di localizzazione degli impianti per la produzione energetica da fonti rinnovabili alla luce della nuova delega assunta dalle Province per effetto della finanziaria 2007; garantire attraverso l’approccio eco-sistemico la migliore valorizzazione delle risorse locali ed il possibile vantaggio per le comunità locali; favorire l’applicazione ampia della Convenzione europea del paesaggio, anche attraverso la promozione di azioni partecipative delle comunità locali al processo di sviluppo del territorio. promuovere l’affermazione di sistemi locali che, valorizzando le diverse componenti territoriali, possano efficacemente proporsi come nodi di una “bioregione”, puntando sulla qualità della vita e del costruito e proponendo un modello di sviluppo coerente con l’alta qualità del paesaggio.

Gli Ambiti per la produzione Come precedentemente illustrato il PTCP vigente individua il sistema delle aree produttive a partire da una lettura di ambito intercomunale, sulla base di una sistematica ricognizione delle aree industriali, artigianali e miste (zone CAI- Commerciali, Artigianali e Industriali) esistenti alla data dell’avvio del Piano (1997), condotta dall’IRRES. Il quadro risultante evidenziava una generale scarsa qualità in termini di servizi, di accessibilità, di reti e infrastrutture, nonché una disseminazione delle zone destinate a tali attività dai PRG (e dai Programmi di Fabbricazione P. d.F.), con conseguenti scarse “economie di scala”. La scelta del PTC era stata quindi quella di proporre una generale riqualificazione delle aree produttive, indicare gli agglomerati produttivi che potevano dare luogo a luoghi centrali della produzione di beni e servizi, localizzati in prossimità dei principali centri urbani, in ambiti caratterizzati da una buona infrastrutturazione. Inoltre, anche sulla base dell’allocazione delle risorse regionali, per effetto della programmazione dei fondi strutturali, concentrava in alcune aree intercomunali gli agglomerati produttivi strategici ed a valenza regionale/nazionale, proponendo per questi una attuazione nel tempo per “nuclei”, evitando la disseminazione dei manufatti. Inoltre il Piano assegnava alcuni requisiti di

46 Gli obiettivi riportati ed in parte i presupposti della revisione del PTC sono tratti dal Documento Preliminare di revisione del PTC di Terni, in gran parte emersi nel corso del workshop di valutazione dell’attuale PTCP (Villalago 31/3/2008) che ha utilizzato le tecniche partecipate del Cafè Conversation e le matrici di cui all’analisi SWOT per la valutazione dei principali contenuti del Piano .

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tipo ambientale, edilizio (introducendo la permeabilità parziale dei lotti, il recupero delle acque, il risparmio energetico, la raccolta differenziata), anticipando principi e requisiti che, nel tempo, sono divenuti obbligo di legge. Molte di queste strategie, pur rivelandosi opportune e necessarie per garantire prospettive di sviluppo alle aree interessate, nell’ottica di un “sistema di complementarietà funzionali”, non si sono ancora pienamente realizzate. In particolare la generale crisi economica e la conseguente chiusura totale o parziale di importanti attività produttive, correlate in filiera con la grande industria, ed in particolar modo nel settore della chimica, ha evidenziato la debolezza strutturale dei diversi settori, creando al contempo serie difficoltà nel riuso dei contenitori dismessi. La revisione del PTC pertanto ripropone in chiave attuale le scelte strategiche del 2000, ponendo particolare attenzione alle integrazioni possibili ed a progetti condivisi e concertati tra più soggetti pubblico-privati. La scelta di una maggiore diversificazione dei settori produttivi, facendo “convivere con pari dignità” le grandi imprese ed il sistema delle aziende medio piccole e piccole, nonché le imprese artigiane, una migliore logistica nel trasporto merci, correlato alla individuazione, progettazione e avvio della “Piattaforma logistica” a Terni, al progetto per il secondo casello di Orvieto, all’attrezzatura delle nuove aree produttive attraverso scali merci ferroviari, prevista in alcuni nuovi PRG, una offerta energetica diffusa ed a costi contenuti, in particolare nel settore idroelettrico, alcuni benefit quali la cogenerazione, il teleriscaldamento, offerti da alcune grandi e medie imprese, nonché l’aumento degli impianti fotovoltaici e del know how nel settore delle fonti energetiche alternative che il territorio può vantare, saranno le basi per aumentare l’attrattività del territorio della provincia di Terni. Nelle nuove aree produttive ed in quelle riqualificate sarà inoltre fondamentale proporre interventi di bio-edilizia integrata, ovvero edifici bioclimatici, attenti ai materiali ed al loro recupero, ad alta efficienza energetica, ed, in generale, introdurre una valutazione della complessiva sostenibilità degli agglomerati produttivi, sperimentando il sistema SB100 dell’ANAB47 e prevedendo un sistema di incentivazione per quegli edifici che presentino un più alto punteggio, anche in conformità con il la L.R. 17/2008. Da una prima serie di incontri tenutisi con le principali organizzazioni di categoria, emerge inoltre la necessità di una gestione unitaria dei poli produttivi, attraverso la diffusione dello strumento dei Consorzi per le aree produttive ed, in prospettiva, della possibile unificazione dei due consorzi attualmente in essere (Consorzio Terni, Narni, Spoleto e Consorzio Crescendo). Lo strumento consortile ha infatti consentito una maggiore velocità nell’acquisizione, infrastrutturazione e collocazione sul mercato

47 L’Amministrazione Provinciale ha stipulato una Convenzione con l’ANAB (Associazione Nazionale Architettura Bioecologica) per la sperimentazione del Sistema SB100. Il sistema è basato su un set di indicatori che testano la sostenibilità dell’edificio non solo dal punto di vista energetico, ma anche del risparmio delle risorse, della smontabilità e recupero delle parti, dell’inserimento nel contesto, della prevenzione della salute dagli inquinanti (radon, polveri, rumore). La valutazione con il sistemaSB100 è stata inoltre introdotta nel nuovo Regolamento edilizio del Comune di Terni.

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delle aree produttive, nonché, quale referente unitario, un buon coordinamento con gli enti (Comuni e Provincia, che compartecipano il Consorzio) per le pratiche concessorie ed autorizzative ed, in generale, nelle strategie di ampliamento e riqualificazione delle zone. Rispetto all’individuazione di nuovi poli produttivi intercomunali, viene ribadita la necessità di aree ampie ed ecologicamente attrezzate, già previste nelle norme del vigente PTC, concentrate in relazione ai principali assi viari e ferroviari. Tra questi è già in studio quello legato alla piattaforma logistica di Maratta, a Terni, tra i Comuni di Terni e di Narni, già previsto, per la parte ternana, nel nuovo PRG del Comune di Terni, approvato nel dicembre 2008. Per questo nuovo polo produttivo si ipotizza una diversificazione dei settori da ospitare, evidentemente fra quelli in cui la logistica e movimentazione merci è di maggiore impatto e per i quali la possibilità di usufruire del nodo di interscambio è strategica. Il Piano inoltre dovrebbe fornire precise linee di indirizzo e standard di sviluppo facilmente identificabili in modo da poter uniformare gli strumenti attuativi delle pubbliche Amministrazioni (Regolamento Edilizio) ed evitare la frammentazione degli interventi, fornendo obiettivi minimi affinché nei futuri documenti urbanistici comunali siano suggerite indicazioni tecniche ed incentivi nei settori del risparmio energetico, uso e riciclo delle acque, uso delle fonti rinnovabili,modalità di individuazione delle aree destinate alla creazione di centrali di produzione dell’energia elettrica da fonti rinnovabili (solari e/o eoliche), modalità di smaltimento e recupero delle stesse, modalità di recupero e riciclo dei materiali, edilizia biocompatibile. Il PTCP dovrà pertanto indicare per ogni settore di approfondimento tematico gli obiettivi, le modalità attuative e gli indicatori di controllo, così che l’espansione sia produttiva che insediativa possa rispondere a criteri di risparmio delle risorse. Tali elementi dovranno comunque essere differenziati a seconda dei territori interessati; in particolare potrebbe essere utile considerare con particolare attenzione (attraverso le finestre di pianificazione, progetti pilota, etc.) l’individuazione e applicazione delle strategie di sviluppo e degli indicatori di controllo nelle nuove espansioni produttive, con particolare attenzione all’uso di fonti energetiche alternative, all’applicazione dei principi della bioclimatica e alla gestione dei rifiuti e nella riconversione di edifici industriali con modifica della destinazione d’uso. Dal punto di vista dell’accessibilità, il raggiungimento di una maggiore efficienza del sistema viario in termini di sicurezza è uno degli obbiettivi dell’Amministrazione provinciale: gli interventi sulla viabilità esistente saranno volti all’adeguamento delle caratteristiche costruttive, tecniche e funzionali, secondo la classificazione stradale effettuata, e dovranno essere finalizzati a garantire migliori condizioni di sicurezza, soddisfacenti livelli di servizio e la tutela della qualità ambientale48. Le nuove infrastrutture previste, mirate ad un miglioramento dell’accessibilità degli agglomerati produttivi, riguardano la realizzazione della complanare di Orvieto, di collegamento

48 Nel Documento Preliminare della revisione del PTCP gli interventi sono suddivisi per: * tracciati da migliorare (con l’adeguamento),* tracciati da potenziare ( per es. con piste ciclabili)

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tra il casello di Orvieto e le aree artigianali e produttive di Ciconia; la realizzazione del secondo Casello autostradale di Orvieto, che permette un accesso diretto al sistema autostradale dalle aree produttive di Ponte Giulio e Bardano, nonché di collegare l’alto Lazio alla viabilità di interesse nazionale ed internazionale; la realizzazione del tracciato Terni-Rieti che connette due territori provinciali in stretta correlazione dal punto di vista commerciale e produttivo e permette di liberare dal traffico pesante l’area industriale dismessa di Papigno, oggetto di una complessiva rivistazione progettuale da parte del Comune di Terni; il potenziamento della Marattana, divenuta asse commerciale e produttivo intercomunale tra Terni e Narni. Altri interventi riguardano il miglioramento dei nodi viari (rotatorie ed innesti tra viabilità di diverso rango); in particolare è in progetto il collegamento sulla Marattana con la base logistica, in fase di realizzazione (si veda il successivo paragrafo sui casi di studio Terni e Narni). Le aree dismesse nell’ottica della sostenibilità Negli ultimi quindici/venti anni, il riuso dei siti dismessi è divenuto occasione per sperimentare nuove proposte di sviluppo locale integrato, cha vanno dal riutilizzo industriale a nuove progettualità economiche che, nel rispetto delle valenze economiche, sociali, storiche e ambientali degli stessi siti, ne orientano l’utilizzo verso l’innovazione produttiva e la riconversione a fini residenziali, culturali, di interesse pubblico. In ambito provinciale sono state realizzate iniziative di riuso di grande interesse, quali il recupero delle ex Officine Bosco che attualmente ospita Videocentro ed alcuni uffici della Regione e del Comune di Terni, dell’area ex S.I.R.I., in cui il mix funzionale è estremamente variegato e va dal commercio (Iper COOP), alla residenza e uffici, al museale (Museo archeologico cittadino), al culturale (Centro espositivo Caos e sede principale di Interni), mentre è in completamento lo spazio auditorium; i progetti di recupero dell’ex carburo di calcio a Papigno, a centro cinematografico e museo dell’archeologia industriale. E’ inoltre di particolare interesse il recupero a fini produttivi/industriali di parti od interi agglomerati produttivi (citati nelle interviste riportate nel paragrafo “Aspetti gestionali”) quali quelli del compendio ex nuova Bosco a Narni, di alcune aree ex Montedison ed ex Enichem a Terni, dell’ex Lebole ad Orvieto, interventi realizzati principalmente sotto la regia dei Consorzi per le aree produttive. In generale i processi di recupero, promossi principalmente dalle Amministrazioni comunali, vengono attuati mediante l’intervento di diversi attori locali, l’impiego di diversi strumenti di programmazione e delle conseguenti risorse (Docup Umbria 2000-2006, Patti V.A.T.O. e V.A.T.O. Verde, Contratto d’Area, ecc.) nonché grazie alle innovazioni disciplinari costituite dai Programmi Complessi e dai Programmi Integrati, quali i Programmi Urbani Complessi (P.U.C.), i Programmi di Riqualificazione e Sviluppo Sostenibile del Territorio (P.R.U.S.S.T), i Programmi Integrati Territoriali (P.I.T.) ed i progetti di cui al bando regionale multimisura Turismo Ambiente Cultura (bando T.A.C. programmazione 2000-2006) presentati da

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parte di quasi tutti i comuni umbri, variamente aggregati e con la partecipazione di ingenti investimenti privati; parimenti lo sviluppo di forme di collaborazione orizzontali, centrate su linee di azione e progetti pilota, finalizzate alla circolazione delle “migliori pratiche”, concorre a determinare un nuovo scenario di azione di grande interesse. La rifunzionalizzazione delle aree dimesse, come anche dimostrato nelle più recenti edizioni di Urbanpromo49, è una straordinaria opportunità non solo negli interventi di trasformazione urbana, dove produce rilevanti effetti trainanti operando dall’interno del tessuto urbano consolidato, come nel riuscito caso dell’Ex SIRI a Terni, ma anche di riposizionamento competitivo dei sistemi locali, potendo ospitare nuove attività produttive senza compromettere ulteriore suolo agricolo. Come riportato nel Documento Preliminare di revisione del PTC di Terni “considerando le dinamiche in atto ed i trend delle maggiori città europee, quando i processi di dismissione investiranno altri settori (scuole, grande commercio, strutture del tempo libero, spazi del terziario), le strategie di riuso assumeranno ancora maggior importanza”. La ricerca AUR del dicembre 2006 “Aree dimesse e sviluppo locale nella Provincia di Terni”50, commissionata dall’Assessorato all’Urbanistica della Provincia di Terni e finalizzata alla revisione del PTC, mostra un quadro molto interessante, soprattutto nel confronto con i risultati dell’indagine del 1998, svolta dalla stessa autrice e sempre commissionata dall’Amministrazione Provinciale, ricerca che aveva censito 312 siti. Nel 1998 sul totale di 312 siti censiti la percentuale di dismissione maggiore, determinata sia dal numero di siti dimessi sia dalle volumetrie interessate, si concentrava nella conca ternana (Comune di Terni, 29,2% e Narni 17,6%), per effetto da una parte del declino del settore secondario, dato comune in tutta la regione ed in generale in Europa, dall’altro per la scelta di avere aree produttive esterne ai centri abitati e dotate di una migliore connessione con le reti infrastruttali di più elevato rango. Nel territorio provinciale negli anni 60-80 del novecento, si assiste inoltre alla dismissione di ambiti legati ad attività agricole, in particolare nel settore agroalimentare, di vecchi mercati e infrastrutture obsolete: in termini numerici sono infatti molto elevate le disattivazioni nei comuni in cui il settore agricolo era particolarmente importante, in particolare nel Comune di Orvieto (19,9%) ed Amelia (12,8%), come riportato nella seguente figura. Mentre il periodo di maggiore dismissione per Amelia si colloca dal 1952 al 1961 e per Orvieto tra il 1962 ed il 1981, nei comuni più industriali è un processo continuo, che giunge alle soglie più critiche sul finire degli anni ’80 (vedi figura Aree dimesse al 1989-Peridodi di dismissione nei principali comuni).

49 Urbanpromo è un evento biennale organizzato dall’Istituto Nazionale di Urbanistica e da urbit, società di servizi dello stesso Istituto; nel 2009 si terrà a Venezia, dal 4 al 7 novembre. 50 A cura di Marcella Arca Petrucci e Tonino Uffreduzzi, AUR 2006.

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Numero delle aree dismesse per gli anni 1989 e 2004 per tutti i Comuni della provincia di Terni

Fonte: Ns. elaborazioni su dati AUR (2005). Il raffronto tra il 1998 ed i dati 2004, evidenzia l’alta capacità di riuso dimostrata dagli “attori locali”. Come riportato nel diagramma a torta solo il 47% delle aree censite nel 1998 risulta nel 2004 ancora dimessa, mentre il 53% è interamente o parzialmente 3%, riutilizzato. I dati di livello comunale indicano come a Terni sia stato recuperato e riusato il 71% dei siti (65 in termini numerici), a Narni il 60% (33 siti), ad Orvieto il 35% (22 siti). Dai dati del 2004, risultano ancora dismessi 46 siti, di cui 13 a Terni, 10 a Narni, e 3 o meno di 3 nel resto dei Comuni della provincia. Dei siti inutilizzati la maggior parte sono siti di dismissione non recente (negli anni che vanno da prima del 1971 al 1991), mentre la più recente dismissione, per circa il 15% è dopo il 2201, con una netta ripresa nell’abbandono rispetto al periodo precedente.

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Aree dismesse al 1989 – I periodi delle dismissioni nei principali comuni

Fonte: Le sedi dismesse del lavoro umano nella Provincia di Terni (Arca Petrucci) (1989) – Elaborazione AUR, 2005 I settori di attività delle aree riutilizzate (si veda il diagramma a torta: Settori di attività delle aree riutilizzate) sono prevalentemente a servizi (30% del totale), seguiti dal commercio (11%), agricoltura (7%) e artigianato (3%), mentre solo il 2% dei siti è ridestinato ad industria. Ciò deriva da quanto prima descritto e principalmente dalla non rispondenza in termini di standard dimensionali, nonché di prestazioni localizzative, dei siti dimessi, nonché dagli alti costi di recupero e bonifica che comportano la necessità sia di politiche integrate e finanziamento sostenuto dal pubblico, che quindi orientano verso i servizi, sia per la parte privata un riutilizzo verso settori con maggiori capacità di spesa nell’infrastrutturazione e capaci di sfruttare le posizioni spesso strategiche nel contesto urbano. La ricerca del 2006 aggiunge inoltre nuovi importanti elementi informativi quali i caratteri territoriali e ambientali (i vincoli presenti, la localizzazione in aree di pregio naturalistico, archeologico oppure in aree di rischio di inondazione o frana), i progetti presenti di riuso, evidenziando soggetti proponenti, attività previste, risorse. E’ da sottolineare come la più alta percentuale del patrimonio dismesso nella provincia sia rappresentato da manufatti del settore agricolo, in cui è oggi prevalente il riuso per attività turistico ricettive, riuso già in atto o nelle previsioni dei nuovi PRG. Di grande interesse, nell’ottica di un costruito sempre meno “energivoro”, l’indagine sui materiali presenti nelle diverse parti degli edifici dimessi, dalle coperture, alla struttura portante, alle fondazioni, alle finiture, essenziale in un ottica sia di riuso che di demolizione-bonifica. La bioarchitettura, o meglio l’architettura sostenibile, ci insegna infatti a considerare l’intero ciclo di vita di un edificio, attraverso la Life Cycle Analysis, anche in termini energetici e di materiali “dissipati”, dalla produzione, alla costruzione, alla gestione, fino alla dismissione.

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Settori di attività delle aree riutilizzate

Fonte: Ns. elaborazioni su dati AUR (2005). I problemi oggi posti dal riutilizzo delle aree industriali dismesse, tra cui non ultimo il problema della bonifica, devono pertanto essere uno stimolo al ripensamento del modo con cui i Piani Urbanistici trattano le aree industriali, ponendole in termini esclusivamente quantitativi, senza una valutazione degli effetti che tali aree potranno avere sulla qualità delle risorse (suolo, acque, aria), spesso avviando fenomeni irreversibili, e sulla loro rinnovabilità, anche in termini di modifiche future della destinazione d’uso. Inoltre in un ottica anche di marketing urbano la qualità ambientale sempre più deve essere giocata per attirare investimenti e localizzare attività pregiate (eco-audit). In questo contesto le “Aree dismesse” individuate dal PTCP e dai successivi strumenti di intervento (PRUSST, PIT, Accordi di co-pianificazione) sono quelle che, per ordine dimensionale, per la durata dello stato di abbandono, per la lentezza delle iniziative di riuso, dovuta ad una serie di fattori economici, ma anche ambientali, rivestono un interesse sovracomunale ed hanno necessità, per la loro riqualificazione e rifunzionalizzazione, di un insieme di azioni concertate fra vari soggetti pubblici e privati, nonché di specifici strumenti attuativi. In generale si avverte l’esigenza di formulare ipotesi di trasformazione in grado di mantenere un elevato stato di adattabilità e flessibilità rispetto ad una realtà in continua trasformazione e allo stesso tempo dare le garanzie, attraverso regole certe, affinché l’intervento possa essere innescato in tempi compatibili con la possibilità di essere realizzato. A tal fine il PTCP vigente considera il processo di dismissione e riuso delle aree industriali, associando

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alle quantità edificabili regole in materia di prestazioni ambientali delle attività insediabili, anche nell’ottica di un loro futuro cambio di destinazione urbanistica. Con questi criteri, a cui si aggiunge il fattore “tempo”, potrebbe essere riorganizzata l’offerta di aree, rendendola più selettiva, ma, garantendo vantaggi localizzativi ed economie di agglomerazione specifiche, maggiormente “appetibile”. Nel piano territoriale le priorità assunte nell’indicare gli ambiti di interesse provinciale considerano le seguenti caratteristiche: a) il patrimonio di archeologia industriale presente nell’ambito b) la collocazione “strategica” rispetto ad ambiti territoriali di particolare sensibilità e/o qualità ambientale (sistemi fluviali, lacustri, etc.) o rispetto a nodi infrastrutturali (ferroviari, stradali, etc.) e rispetto alla necessità di bonifica dei suoli. A livello locale appare decisiva la capacità delle istituzioni preposte al governo del territorio di favorire la cooperazione tra soggetti privati e svolgere funzioni di promozione ed organizzazione dell’offerta. Più che operazioni di marketing urbano, basate prevalentemente sull’advertising dell’entità quantitativa e sul costo contenuto delle aree offerte per la trasformazione, che non hanno dato risultati esaltanti a livello nazionale ed internazionale, esperienze come quelle realizzate nella Ruhr in Germania, ma anche in Francia e nella Gran Bretagna, sembrano mostrare come politiche di recupero e ripristino ambientale, supportate e promosse dai soggetti pubblici possano migliorare l’immagine e l’attrattività di regioni caratterizzate in passato da una forte specializzazione industriale. Dalla ricerca AUR del 2006 appare infatti come le strategie di maggior successo siano quelle basate su progetti economico-territoriali integrati, che vedono il coinvolgimento di più soggetti pubblici (Regione, Provincia, Comuni) e privati congiuntamente a strumenti operativi di supporto, di competenza di ciascuno degli enti interessati, correlati dai necessari accordi di pianificazione e di programma. I casi di studio Le aree produttive nel territorio della provincia di Perugia Gli agglomerati produttivi del territorio provinciale di Perugia risultano principalmente distribuiti lungo le principali direttrici di comunicazione e generalmente ben collegati ai centri maggiori; non trascurabile, tuttavia, appare la frammentazione del tessuto insediativo specialmente nei comuni caratterizzati da un’orografia articolata e variabile. Le aree di maggiore entità sono concentrate nel territorio del capoluogo regionale, Perugia, e nei territori dei comuni ad esso direttamente collegati dai principali assi viari e ferroviari: ad ovest, Corciano e Magione, in cui viene a determinarsi un sistema continuo compreso fra la SS 75 bis e la ferrovia Foligno-Terontola; ad est e sud-est, Bastia, Assisi, Spello, Foligno, Trevi, con un insediamento di tipo lineare che si attesta fra la SS 75, la SS 3 “Flaminia” e la ferrovia Foligno-Terontola.

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A nord e a sud di Perugia i “corridoi” produttivi appaiono maggiormente diluiti per densità e compattezza, sebbene in corrispondenza delle congiungenti Perugia - Torgiano - Deruta (SS3 bis e Ferrovia Centrale Umbra) si riscontri una notevole continuità insediativa. A nord, in particolare, la maggiore concentrazione si ha lungo la SS3 bis e la FCU, nel tratto che unisce Città di Castello a San Giustino. Altro sistema lineare degno di nota è quello attestato lungo la SS 3 Flaminia e la ferrovia Orte-Falconara in corrispondenza dei tratti Fossato di Vico - Gualdo Tadino - Nocera Umbra, mentre quello incentrato sulla pianura eugubino-gualdese si configura come un sistema frammentario che trova nell’asse stradale (la SS 219 Gubbio - Pian d’Assino) il suo più forte riferimento. Il resto del territorio regionale presenta realtà identificabili come “sottosistemi”, caratterizzati da una spiccata frammentazione del tessuto produttivo (generalmente distribuito in posizione decentrata rispetto ai principali assi viari) e dalla prevalente destinazione artigianale delle relative aree. Sostanzialmente analogo è l’assetto insediativo nella porzione sud-orientale dell’area, ovvero del comprensorio della Valnerina. In tale contesto il sistema insediativo vede accentuarsi tale connotazione, riflettendo una realtà territoriale caratterizzata dalla prevalenza dell’alta collina e della montagna. Il tessuto, in questo caso, è costituito da aree produttive di limitata estensione, per lo più destinate ad attività artigianali e localizzate lungo le strade statali (SS77 Foligno-Civitanova, SS209 Terni-Muccia, SS319 Borgo Cerreto - Casenove), unitamente ad alcune dislocate lungo le vie di comunicazione provinciale. Non si rilevano, in questo ambito territoriale, sufficienti strutture specializzate al servizio dell’industria e dell’artigianato. Se si eccettua, infatti, il Centro Fiere “Maschiella” localizzato nei pressi della zona industriale di Bastia Umbra, non si registrano altre significative presenze. Le previsioni urbanistiche comunali hanno previsto, d’altra parte, l’inserimento di servizi più generici nell’ambito degli insediamenti produttivi secondo gli standards vigenti; nei casi in cui tali servizi vengono realizzati (pochi, in realtà, come testimoniano i dati raccolti), questi sono individuati e gestiti in vario modo dalle Amministrazioni Comunali in funzione del tipo e dell’entità delle attività insediate o da insediare. Come accennato, comunque, il livello di utilizzazione delle superfici caratterizzate da questa destinazione risulta molto basso. Si assiste altresì, a partire dagli anni ottanta, allo sviluppo di una particolare residenzialità legata ad una industrializzazione attiva in alcune zone dell’area: è questo, ad esempio, il caso dei recenti quartieri sorti in posizione non distante dai sistemi produttivi attestati tra Perugia, Corciano e Magione, lungo la SS75 bis, secondo le linee delle “new towns” tipiche della prima industrializzazione. Con riferimento ai dati relativi alla frammentazione delle aree produttive di cui al paragrafo “Le aree produttive nella storia della Regione Umbria”, cui attingiamo in questa sede per i comuni della provincia di Perugia, si evidenzia che la frammentazione delle aree produttive, molto elevata in valore assoluto, fa comunque registrare una diminuzione nell’arco temporale considerato, ovvero dal 1996 al 2009.

DENTRO L’UMBRIA due522

Offerta delle aree produttive per gli anni 1996 e 2009 per i Comuni della Provincia di Perugia

Fonte: Ns. elaborazioni su dati SIAT e comunali

AURAPPORTI: RES 2008-09 523

Nei 26 comuni oggetto dell’aggiornamento dei dati, si passa dai 351 agglomerati complessivamente censiti nel 1996 ai 305 del 2009, per una variazione del -13,1%. La diminuzione del numero di agglomerati va senz’altro ricondotta alle previsioni localizzative introdotte dai nuovi strumenti urbanistici comunali, elaborati a seguito dell’emanazione della L.R. 31/1997 e, in misura minore, ai sensi della successiva L.R. 11/2005. Tabella riepilogativa delle categorie di superfici negli agglomerati del Comune di Città di Castello, Foligno e Perugia

COMUNE N° AGGL 1996

Dismesse(ha)

Servizi(ha)

Libere(ha)

Miste (ha)

Sature(ha)

Verdi(ha)

Variante (ha)

SUP. TOT (ha)

CITTA' DI CASTELLO 14 19,04 14,06 90,63 232,48 9,40 8,15 373,76

COMUNE N° AGGL 2009

Dismesse Servizi Libere Miste Sature Verdi Variante SUP. TOT

CITTA' DI CASTELLO 15 33,75 14,90 41,11 285,06 10,00 10,79 395,61

COMUNE N° AGGL 1996

Dismesse Servizi Libere Miste Sature Verdi Variante SUP. TOT

FOLIGNO 20 18,32 32,96 184,08 55,84 3,11 294,31

COMUNE N° AGGL 2009

Dismesse Servizi Libere Miste Sature Verdi Variante SUP. TOT

FOLIGNO 17 5,34 19,31 137,39 171,15 1,94 335,13

COMUNE N° AGGL 1996

Dismesse Servizi Libere Miste Sature Verdi Variante SUP. TOT

PERUGIA 63 61,79 130,65 493,98 185,35 63,80 16,97 952,54

COMUNE N° AGGL 2009

Dismesse Servizi Libere Miste Sature Verdi Variante SUP. TOT

PERUGIA 53 32,67 103,51 377,79 433,73 21,32 969,02 Fonte: Ns. elaborazioni su dati SIAT e comunali. Perugia, Foligno e Città di Castello nelle previsioni di potenziamento infrastrutturale Le dinamiche connesse alle aree produttive trovano una correlazione diretta con gli assetti infrastrutturali del territorio regionale, oggetto di specifica attenzione nel Disegno Strategico Territoriale della Regione Umbria51, che in proposito individua tre

51 Cfr. paragrafo “Le aree produttive nel DST della Regione Umbria”.

DENTRO L’UMBRIA due524

progetti strategici territoriali: la Direttrice longitudinale nord-sud, il Sistema delle direttrici trasversali est-ovest e la Rete di cablaggio a banda larga; tali progetti interessano fortemente i tre comuni oggetti di approfondimento: Perugia, Foligno e Città di Castello52. La Direttrice longitudinale nord-sud, fondata sulla prospettiva di potenziamento e trasformazione del fascio infrastrutturale che attraversa da nord a sud il territorio regionale (innervato sulla E45 e la Ferrovia Centrale Umbra), si innesta nel sistema di connessioni che sostanziano il corridoio europeo I Berlino-Palermo, destinato a collegare più direttamente l’Umbria con il Lazio ed il corridoio tirrenico meridionale, a sud, e con l’Emilia Romagna e il Nordest verso settentrione. Questa direttrice connette città e sistemi insediativi di grande importanza per l’economia regionale: fra gli altri, la caratterizzano in sequenza, oltre Terni, i nodi di Todi, Marsciano, Perugia, Umbertide e Città di Castello, interessati da politiche di riposizionamento competitivo mirate a valorizzarne le vocazioni endogene all’interno di flussi sovra regionali, nazionali ed internazionali. Per quanto attiene ai centri principali, in stretta connessione con il rafforzamento infrastrutturale, il DST definisce alcuni obiettivi e azioni prioritarie, in stretto rapporto con gli obiettivi e le azioni previste per le reti di città. E’ previsto il rafforzamento di Perugia quale “brain-port” di livello europeo, anche in relazione agli elevati flussi di persone, conoscenze, idee, culture, che offrono notevoli possibilità di sviluppo di un’economia di servizi avanzati, in sintonia con le prospettive della società della conoscenza. Alcuni interventi già programmati mirano a rafforzare le potenzialità connesse al rango di città europea del capoluogo regionale, mentre altri sono destinati a potenziare l’accessibilità, la capacità di accoglienza e l’offerta formativa. Città di Castello vede le sue potenzialità di crescita essenzialmente in funzione dell’appartenenza al sistema economico e produttivo transregionale, che la lega storicamente a Sansepolcro (Regione Toscana) e alla Romagna. Qui gli investimenti per lo sviluppo dovranno cogliere le opportunità connesse alla direttrice trasversale Grosseto-Fano e alla sua intersezione con la direttrice longitudinale E45, destinate ad essere potenziate dalla prossima realizzazione della piattaforma logistica di Città di Castello – San Giustino. Foligno si inquadra invece nel Sistema delle direttrici trasversali est-ovest, che rappresentano un vero e proprio sistema di relazioni interregionali, cerniera della piattaforma territoriale Lazio-Umbria-Marche individuata dal Ministero delle Infrastrutture al fine di connettere i porti di Civitavecchia e di Ancona. In analogia con quanto previsto per la Direttrice longitudinale nord-sud, il potenziamento delle comunicazioni viarie e ferroviarie è in stretta correlazione con il ridisegno delle connessioni con i nodi urbani e i poli funzionali principali, con la ridefinizione delle principali strutture di supporto alle aree produttive e alla logistica, al

52 Ai sensi del PTCP (Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale) della Provincia di Perugia, i tre Comuni prescelti appartengono alla classe della “concentrazione insediativa”.

AURAPPORTI: RES 2008-09 525

ripensamento delle reti di città e del rango dei principali centri. All’interno di questo scenario, Foligno è un centro destinato ad accrescere il suo ruolo centrale nel sistema insediativo e produttivo regionale, anche in funzione del completamento del sistema di connessioni trasversali interappenniniche relative al Quadrilatero Marche-Umbria, accentuando la sua valenza di “porta est” di accesso alla regione, proiettata verso la costa adriatica meridionale e, dunque, verso il corridoio trans europeo VIII. I tre centri esaminati sono peraltro tutti inseriti nel progetto della Rete di cablaggio a banda larga53, mirato all’eliminazione del divario digitale e all’annullamento delle distanze fisiche; la realizzazione di un’infrastruttura a banda larga di grande velocità e capacità di trasmissione è infatti destinata ad offrire servizi avanzati ai cittadini e alle imprese. Il progetto si articola nella realizzazione iniziale di un backbone regionale in fibra ottica per l’interconnessione longitudinale del territorio e per il collegamento “long-distance” con le altre reti nazionali, che sfrutta il tracciato della Ferrovia Centrale Umbra, e nella realizzazione di reti di distribuzione ed accesso integrate (fibra ottica e sistemi wireless) nei cinque principali centri umbri, ovvero Perugia, Foligno, Città di Castello, Terni ed Orvieto. Perugia Il Piano Regolatore Generale di Perugia, approvato nel 2002, indica obiettivi coerenti con una nuova visione dello sviluppo della base produttiva che, per il rapido modificarsi delle strategie di impresa nel mercato globale, sta modificando le produzioni e rinnovando le tecnologie; al contempo, un numero non trascurabile di aziende passa dal comparto produttivo a quello dei servizi, facendo sorgere, tra gli altri, complessi problemi di riuso delle vecchie strutture industriali. L’obiettivo di garantire una quantità ragionevole di aree per le esigenze dell’attività produttiva di tipo industriale viene perseguito dal PRG tenendo conto della differente potenzialità esistente tra le numerose zone produttive presenti nel territorio comunale. La stato di salute espresso dall’insieme delle aree produttive ha suggerito l’adozione di una politica localizzativa delle nuove zone tendente a potenziare solo quelle più consistenti, per la capacità che esse hanno di porsi a sistema. Questo obiettivo appare in linea anche con le risultanze dell’indagine IRRES 1995-96, ove si afferma che azioni più efficaci, per rafforzare e qualificare l’offerta e la domanda di servizi alla produzione, si possono intraprendere nell’ambito di agglomerati produttivi di varia dimensione e consistenza, incentivando iniziative consortili. Le scelte localizzative contenute nel PRG vigente possono essere, pertanto, sintetizzate come segue:

bloccare, con alcune eccezioni, l’espansione delle aree piccole, restituendo in più casi le aree inutilizzate all’uso agricolo;

53 Il Piano Telematico approvato dalla Giunta Regionale con DGR n. 469 del 5 maggio 2008 convoglia le diverse azioni promosse per lo sviluppo e la diffusione della Banda Larga e per il sostegno al mercato.

DENTRO L’UMBRIA due526

consolidare quelle di medie dimensioni che presentano gradi di vitalità; rafforzare la struttura multi-polare di dimensioni consistenti, elevando a questo rango l’area produttiva di Ponte Pattoli, posta sulla direttrice forte nord-sud; affidare ad un’area di proprietà comunale (completamente inattuata), in località Lidarno/Collestrada, una funzione strategica per promuovere lo sviluppo di attività produttive innovative legate ad una tipologia insediativa, per forma e contenuti, assimilabile a quella del parco tecnologico.

Tale impostazione viene supportata da altri obiettivi specifici, quali il miglioramento dell’accessibilità, la promozione di centri di servizio, anche se di tipo tradizionale, il miglioramento delle qualità prestazionali, anche per la loro promozione, nonché la riconsiderazione delle aree dismesse per finalità diverse da quelle industriali. Dal raffronto fra i dati regionali 1996 e 2009, emerge, in coerenza con i principi ispiratori del PRG sopra richiamati, una diminuzione del numero di agglomerati, che passa da 63 a 53 (-15,9%); rispetto alle previsioni localizzative del previgente strumento urbanistico generale, il nuovo Piano ha quindi determinato una diminuzione del livello di frammentazione delle aree produttive nel territorio comunale. Nel periodo considerato, le aree sature risultano notevolmente aumentate (+26%), a fronte di una sensibile diminuzione delle aree miste (-13%). Diagramma di confronto percentuale tra le categorie di aree degli agglomerati del Comune di Perugia per gli anni 1996 e 2009

Fonte: Ns. elaborazioni su dati SIAT.

AURAPPORTI: RES 2008-09 527

Il dato regionale 2009 riporta una superficie complessiva degli agglomerati pari a ha 969,02 a fronte dei corrispondenti ha 952,54 al 1996. Nel periodo considerato, le aree completamente libere diminuiscono da ha 130,65 a ha 103,51 e quelle miste da ha 493,98 a ha 377,79.54 Il Piano Regolatore Generale individua le aree produttive55 con la seguente classificazione: D1 “zone per attività industriali”; D2 “zone per le piccole industrie e per attività artigianali, di completamento”; D3 “zone per le piccole industrie e per attività artigianali, di sviluppo”; D4 “zone per le piccole industrie e per attività artigianali a basso indice di edificabilità”; D5 “zone per le piccole industrie, attività artigianali e attività commerciali”; D6 “zone per attività produttive avanzate”. Con la sigla Ds vengono classificate le aree destinate ai centri di servizi, mentre sono individuati come zone Dn i comparti disciplinati da piani per insediamenti produttivi (P.I.P.) di cui alla L. 865/1971, adottati ed approvati dopo l’entrata in vigore della LR n. 31/97. In merito ai parametri edificatori fissati dalle Norme Tecniche di Attuazione del PRG Parte Operativa, il rapporto fra la superficie coperta degli edifici e la superficie del lotto varia in base ai tipi di zona sopraelencati, essendo generalmente pari: a 0,50 per le zone D1 e D2; a 0,40 per le zone D3 e D5; a 0,20 per le zone D4; altri parametri vengono presi in considerazione per le zone D6, Ds e Dn. Ai fini del presente Rapporto, si è voluto affrontare una lettura degli agglomerati per “macrozone”, riconducendo le aree produttive ad entità territoriali che rappresentano i caratteri omogenei del territorio comunale in base all’assetto insediativo ed infrastrutturale. Tali entità, già utilizzate dal Comune di Perugia ai fini dell’analisi del fabbisogno abitativo per la “Formazione del nuovo PEEP del Comune” approvato nel 2007, sono le macrozone “Caina”, “Marscianese”, “Pievaiola”, “Tezio”, “Tevere Nord”, “Eugubina”, “Ponti”, “Perugia”; la loro articolazione territoriale è schematizzata nel grafico successivo.

54 La presente pubblicazione è corredata da un apparato di tavole cartografiche e dal relativo indice, disponibili nelle pagine istituzionali della Regione Umbria, curate dal Servizio Informatico/Informativo: geografico, ambientale e territoriale, nonché nel sito dell’Agenzia Umbria Ricerche (www.aur-umbria.it), in formato Adobe Acrobat Reader PDF. 55 Il PRG contempla altresì: le “zone per la lavorazione di inerti e per attività estrattive connesse” (D7); le zone per allevamenti industriali (D8); le zone di promozione di industrie agro-alimentari (D9); le zone per impianti produttivi speciali a basso impatto visivo (D10). Le zone per attività produttive a rischio di incidente rilevante, fermo restando quanto previsto dal D.M. 9 maggio 2001, sono disciplinate dall’art. 75. L’insediamento, ove previsto, delle attività produttive, industriali ed artigianali, classificabili insalubri di 1^ classe, ai sensi del D.M 5 settembre 1994, è ammesso nei limiti e con le modalità previste dal T.U. delle leggi sanitarie (Regio Decreto 27 luglio 1934, n.1265 ).

DENTRO L’UMBRIA due528

Individuazione delle macrozone nel territorio comunale

Fonte: Analisi del fabbisogno abitativo per la formazione del nuovo PEEP del Comune di Perugia. Con riferimento alle macrozone sopra illustrata, la tabella riportata di seguito offre un quadro riepilogativo della distribuzione degli agglomerati produttivi nel territorio di Perugia.

AURAPPORTI: RES 2008-09 529

Distribuzione degli agglomerati produttivi nelle macrozone al 2009

Macrozone Agglomerati produttivi (2009) N° Denominazione N° aggl. Denominazione

1 Caina 3 Madonna dei Piccioni (Mugnano); Fontignano – Pietraia; Boschetto.

2 Marscianese 8 Madonna del Piano I, S. Martino in Campo II; S. Martino in Campo III; S. Martino in Campo IV; S. Martino in Campo V; S. Martino in Campo VI; S. Fortunato; S. Enea.

3 Pievaiola 6 S. Mariano; S. Sisto; S. Sabina; S. Andrea delle Fratte; Castel del Piano; Villa Borgia.

4 Tezio 0 5 Tevere Nord 9 Pieve Pagliaccia; La

Cinella; Parlesca; Resina; Resina – Milizia; Ponte Pattoli I; Ponte Pattoli II, Stazione di Resina e Ponte Pattoli; Ramazzano.

6 Eugubina 2 Piccione; Pianello. 7 Ponti 19 Ponte Valleceppi I –

Ponte Felcino; Collestrada; Ponte S. Giovanni I; Ponte S. Giovanni II; Balanzano I; Villa Pitignano; Rivalta; Ponte Felcino I; Osteria; Ponte Felcino II; Bosco; Ponte Valleceppi II; Pretola; Ponte Valleceppi III; Stazione di Ponte Valleceppi; S. Egidio; Balanzano; Balanzano II; Ferriera.

8 Perugia 6 Fontana – Ellera Corciano; Settevalli; Centova I; Centova II; Pian di Massiano; S. Lucia.

Totale 53 Fonte: Ns. elaborazioni su dati Comune di Perugia.

DENTRO L’UMBRIA due530

Macrozona 1 “Caina”: si tratta di un contesto collocato nella porzione sud-ovest del territorio comunale, lungo la statale Pievaiola, che si sviluppa dall’abitato di Castel del Piano; oltre questo, Mugnano e Fontignano sono i centri di riferimento dell’area. Gli insediamenti produttivi sono di limitata entità, salvo quello di Fontignano (interamente caratterizzato dalla presenza di aree miste per ha 19,10), ove sono individuati due ampliamenti all’area produttiva preesistente, classificati come zone D3 ai sensi del PRG. Il tessuto produttivo risente della rarefazione insediativa del contesto e dell’infrastrutturazione stradale costituita dalla sola Pievaiola; risultano peraltro assenti linee ferroviarie. Macrozona 2 “Marscianese”: occupa la parte sud del territorio comunale, lungo la direttrice Marscianese ed il tratto della E45 sino al confine con Deruta e Torgiano, incentrandosi sugli abitati di S. Martino in Campo, S. Martino in Colle e S. Enea. Qui il tessuto produttivo è di apprezzabile consistenza: le aree produttive più rilevanti sono quelle di Madonna del Piano tra la strada dei Loggi e la FCU, quelle a ridosso dello svincolo di Montebello lungo la E45 e quelle di S. Martino in Campo tra la E45 e la FCU, in parte occupate dagli ex allevamenti Valigi. Le possibilità residue si concentrano essenzialmente nell’agglomerato di Madonna del Piano I, interessato dall’attuale formazione di un piano attuativo e completamente libero per ha 19,45; in merito agli insediamenti disposti lungo la Marscianese, questi risultano tutti di limitata entità ed ampiamente saturi. Macrozona 3 “Pievaiola”: ubicata ad ovest del territorio, comprende i centri di S. Sisto, Castel del Piano, S. Andrea delle Fratte e Pila/Casenuove, accogliendo uno dei maggiori contesti produttivi della provincia, rappresentato dagli agglomerati di S. Andrea delle Fratte (ha 173,21) e S. Sisto (ha 84,30), quest’ultimo sede della Nestlè-Perugina. Le principali linee di comunicazione sono costituite dalla statale Pievaiola e dalla ferrovia Foligno-Terontola, che attraverso una diramazione della linea serve direttamente la nota industria dolciaria. Le opportunità insediative sono limitate a lotti residuali nella vasta superficie produttiva; di maggiore consistenza è l’area libera a margine dell’agglomerato di S. Andrea delle Fratte (ha 2,78), in direzione Strozzacapponi, che ha trovato ampia attuazione mediante un PIP. Sono inoltre presenti due aree produttive a margine dell’abitato di Castel del Piano, entrambe sature, mentre limitate possibilità residue sono riscontrabili nell’agglomerato di Settevalli (ha 10,21). Macrozona 4 “Tezio”: attestata ad ovest, da Cenerente a S. Giovanni del Pantano, non accoglie attualmente agglomerati produttivi, in quanto le previsioni localizzative del previgente strumento urbanistico generale non sono state riconfermate dal nuovo PRG per dare conto della vocazione ambientale della zona. Macrozona 5 “Tevere Nord”: collocata a nord del territorio comunale, lungo il percorso della E45, della Ferrovia Centrale Umbra e della Statale Tiberina, trova i suoi centri di riferimento nelle frazioni di Ramazzano, Ponte Pattoli, Resina e Solfagnano. Il tessuto produttivo si sviluppa lungo il corridoio infrastrutturale, a

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ridosso dei centri abitati, con la sua parte più consistente in prossimità dell’abitato di Ponte Pattoli, in cui è riscontrabile una disponibilità residua di ha 1,46. Macrozona 6 “Eugubina”: ubicata nel versante nord-est, lungo la via Eugubina, si incentra nelle frazioni di Bosco, Colombella, Piccione, Pianello e Ripa. Tra le infrastrutture più rilevanti, si segnala il tratto realizzato della direttrice Perugia-Ancona tra la frazione di Pianello e lo svincolo di Lidarno, cui si affianca il collegamento stradale S. Egidio – Pianello. Il tessuto produttivo si sviluppa in parte lungo la via Eugubina, in corrispondenza di Bosco – Pieve Pagliaccia, e in parte lungo la via Fabrianese, nei pressi di Pianello (per una superficie di ha 10,07 impegnata da aree miste), nel quale è presente una disponibilità residua, peraltro riscontrabile anche nell’agglomerato di Piccione, libero per l’intera estensione di ha 5,96. Macrozona 7 “Ponti”: posta a sud-est, lungo la E45, si sviluppa da Balanzano a Ponte Felcino – Villa Pitignano; la direttrice stradale è affiancata, per la maggior parte del contesto, dal tracciato della FCU e dal corso del Tevere. Le frazioni di Balanzano, Il Sardo, Ponte S. Giovanni, Valtiera, Lidarno – S. Egidio, Ponte Valleceppi, Ponte Felcino e Villa Pitignano costituiscono il tessuto insediativo di riferimento, connotato da molteplici poli produttivi. Due sono, in ogni caso, le concentrazioni prevalenti: quella di Ponte S. Giovanni – Molinaccio e quella di Ponte Felcino – Ponte Valleceppi. Nella frazione di Ponte S. Giovanni, salvo alcune zone marginali tuttora libere, i comparti si presentano sostanzialmente saturi. Analoghe considerazioni possono estese alla località Il Sardo, che risulta pressoché satura per la parte prospiciente la E45 (interessata da un piano di lottizzazione di vecchia data), con due aree libere nella fascia retrostante. Tra le aree dismesse, si evidenzia quella interessata dalla recentissima demolizione del Pastificio Ponte, situata a Ponte S. Giovanni, di cui il PRG prevede la riconversione con funzioni plurime: residenza, commercio, terziario; il valore aggiunto della trasformazione dell’area è da ricercarsi nella realizzazione di un ampio accesso al Tevere dagli insediamenti abitativi esistenti. Un consistente impegno delle aree caratterizza inoltre gli agglomerati produttivi di Collestrada e Ponte S. Giovanni II; per il primo risultano ancora liberi ha 4,44, mentre il secondo presenta aree miste per l’intera superficie di ha 49,64. Lungo la E45, in prossimità dello svincolo di Lidarno con la superstrada per Ancona, risulta ad oggi ancora libera la zona D6 di proprietà comunale nell’agglomerato di S. Egidio (ha 13,67), mentre gli agglomerati nn. 31 e 33 di Ponte Valleceppi sono saturi. Più a nord, nell’ambito del vasto agglomerato posto tra Ponte Valleceppi e Ponte Felcino, dell’estensione di ha 87,80 ed interessato da un PIP, risulta libera una consistente zona D3 (ha 21,22), cui si aggiunge la disponibilità presente in altre due zone, di cui una in fase di attuazione. All’agglomerato Ponte Felcino II, integralmente occupato dal lanificio, si affianca l’altro, ubicato tra la E45 e la Statale Tiberina, con una modesta disponibilità residua. Satura è infine l’area produttiva di Villa Pitignano, posta tra la FCU e la Tiberina.

DENTRO L’UMBRIA due532

Macrozona 8 “Perugia”: si incentra nel capoluogo e nelle zone limitrofe quali Prepo, Pallotta, Madonna Alta, S. Lucia, S. Marco, Olmo, Ferro di Cavallo, Casaglia, Montelaguardia. Tra gli agglomerati produttivi storici, si segnala quello di S. Lucia (ha 12,82), per il quale il PRG vigente ha confermato la destinazione industriale e che accoglie lo stabilimento Spagnoli; si registra, al contempo, la saturazione dell’agglomerato di Olmo (Officine Piccini). Trattando degli agglomerati urbani, si evidenzia il processo di rinnovamento delle strutture collocate nelle aree tra Via Settevalli e Ponte della Pietra, le cui aree risultano ampiamente impegnate. Il fenomeno riflette qui una marcata propensione alla modifica delle attività, da produttive a commerciali; in proposito, il nuovo PRG ha destinato parte delle strutture esistenti a zone per servizi privati, in quanto concepita come zona mista in cui possano coesistere attività produttive, anche tradizionali, con funzioni residenziali, commerciali e servizi.

Il diagramma seguente sintetizza, in termini percentuali, la ripartizione delle superfici degli agglomerati produttivi nelle macrozone sopra descritte. Si nota immediatamente la maggiore concentrazione di superficie produttiva nelle macrozone “Ponti” (38,2%), “Pievaiola” (30,3%) e “Perugia” (12,4%).

Diagramma di ripartizione percentuale della consistenza degli agglomerati per macrozona (2009)

Macrozona 2 - Marscianese; 6,7%

Macrozona 3 - Pievaiola; 30,3%

Macrozona 7 - Ponti; 38,2%

Macrozona 8 - Perugia; 12,4%

Macrozona 1 - Caina; 2,5%

Macrozona 4 - Tezio; 0,0%

Macrozona 5 - Tevere Nord; 8,3%Macrozona 6 - Eugubina; 1,6%

Fonte: Ns. elaborazioni su dati Comune di Perugia.

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Foligno Distribuito fra il contesto urbano del capoluogo, i nuclei frazionali del sistema della pianura e le frazioni montane, il tessuto produttivo di Foligno presenta un’ampia articolazione localizzativa, interessando la gran parte degli abitati presenti nel territorio comunale. Gli insediamenti risalgono in alcuni casi a data antichissima, specialmente per quanto riguarda i settori connessi allo sfruttamento della forza idraulica: il Menotre offriva un regime idraulico costante, e dunque una costante potenzialità ai fini produttivi. Successivamente, i fattori di centralità infrastrutturale (ferrovia, statale Flaminia) hanno conferito progressiva importanza alla città. Un’importante, storica presenza è costituita dalle industrie alimentari, legate ad una significativa realtà agricola: sono sorti pastifici, uno zuccherificio, un panificio militare ed altri opifici afferenti al settore. Egualmente rappresentata risulta l’industria meccanica, con la presenza dell’AUSA-Macchi, per la meccanica aeronautica di precisione. Dopo il secondo conflitto mondiale si assiste al fenomeno di riconversione dell’industria bellica: tra i settori dell’industria e dei servizi si colloca l’attività delle Grandi Officine Riparazioni Ferroviarie, strettamente connessa, come l’intero sistema produttivo folignate, a fenomeni di rilevanza pubblica. Tra i casi di riconversione dell’industria militare si annovera anche l’insediamento della Umbria Cuscinetti (recentemente trasferitasi nell’agglomerato Paciana), cui si aggiunge, progressivamente, un tessuto produttivo minuto che caratterizza tutt’oggi la realtà locale. Il rilevamento IRRES del 1996 registrava complessivamente venti agglomerati in cui riconfluivano, ai sensi del PRG ’77, le varie tipologie delle zone produttive, a cominciare dalle prime realtà legate al passaggio dalla manifattura all’industria tipico dei primi del Novecento. Foligno presenta un contesto produttivo articolato in due sistemi principali, situati a nord e a sud del centro abitato, già classificati dal PUT56 come “ambiti di concentrazione delle attività produttive nei quali gli agglomerati presentano un alto grado di saturazione ove sono favoriti processi di riqualificazione ambientale, riordino urbanistico nonché di adeguamento delle dotazioni infrastrutturali”. E’ infatti possibile individuare un sistema lineare omogeneo, connotato da fattori di continuità, che si sviluppa da Spello a Trevi, e che trova i suoi elementi di forza nell’agglomerato produttivo di Paciana57 (ha 127,73 secondo il dato regionale al 2009, con una disponibilità residua di ha 7,42), situato nella porzione ovest del territorio di Foligno, in prossimità del confine comunale con Spello, e in quello di S. Eraclio (ha 126,05), che viene a saldarsi, a sud, con il contesto produttivo di Trevi.

56 Piano Urbanistico Territoriale della Regione Umbria, approvato con L.R. 24 marzo 2000, n. 27. 57 L’agglomerato Paciana accoglie il BIC Umbria, centro servizi con annessi laboratori volto a promuovere l'imprenditorialità dell'area in cui opera e di conseguenza a sostenere lo sviluppo economico del territorio. Esso ricopre il ruolo di struttura "incubatrice" di nuove attività produttive con lo scopo di dare impulso alla creazione di nuove imprese e di favorire lo sviluppo e l'innovazione di quelle esistenti.

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Al sistema sopra descritto si aggiungono gli altri contesti produttivi distribuiti nel vasto territorio comunale, che possono essere raggruppati secondo la loro collocazione geografica. Alla parte nord-est del territorio, situati in un contesto collinare ed alto-collinare, appartengono gli agglomerati di Annifo (ha 3,44), Colfiorito (ha 10,98 con aree libere per complessivi ha 3,23), Verchiano (ha 4,33 con aree libere pari a ha 1,86) e Casenove (ha 0,72), la cui destinazione produttiva, a prevalente carattere artigianale, risale alla metà degli anni Ottanta. Può essere inoltre trattato unitariamente il sistema degli agglomerati di Rasiglia, Scopoli, Pale e Belfiore, la cui superficie complessiva ammonta a circa ha 4,5 lungo la valle del Menotre, nella porzione settentrionale del territorio comunale, che presenta caratteristiche di omogeneità per origine e natura degli insediamenti; si tratta di un sistema produttivo storico, fondato sulla distribuzione degli opifici lungo il fiume, che assicurava un tempo la necessaria alimentazione ai cicli produttivi. La sua caratterizzazione è del tutto peculiare, in quanto presenta aree interessate da processi di dismissione, attestate nei piccoli centri frazionali della valle. Si ricordano in proposito le officine cartarie e poligrafiche di Pale e Belfiore (Cartiere Sordini), la cui attività “industriale” si consolida ai primi del secolo, e l’ex Lanificio Tonti di Rasiglia. Esaminando a grandi linee i rapporti funzionali tra le aree produttive ed il contesto urbanistico di riferimento, si può osservare che i due poli maggiori, Paciana e S. Eraclio, sono connotati da un diverso grado di interazione con la componente residenziale, che risulta più prossima (sino ad essere inglobata) alle superfici produttive nel caso di Paciana, mentre questa assume un carattere di maggiore tangenzialità a S. Eraclio, in quanto l’omonimo abitato lambisce l’estremità nord dell’agglomerato, rimanendo tuttavia esterno ad esso. Entrambi situati in pieno contesto pianeggiante, sono ampiamente circondati dal contesto agricolo. Per quanto attiene alla presenza di servizi, oltre al già citato BIC Umbria a Paciana, si ricorda che a S. Eraclio, come accennato in precedenza, si incentra la localizzazione di un’Area Leader del Quadrilatero Marche-Umbria, legata funzionalmente alla piattaforma logistica progettata per servire, sia su gomma che su ferro, un bacino che include i comprensori della Valle Umbra Sud, dello Spoletino e della Valnerina. La particolare localizzazione baricentrica la rende un punto strategico per il collegamento stradale e ferroviario della Regione Umbria con Roma e il versante marchigiano dell’Adriatico; compresa tra la linea ferroviaria Orte-Falconara e l’aeroporto di Foligno, risulterà collegata alla rete viaria principale attraverso la SS3 Flaminia Flaminia, nel tratto Foligno-Spoleto, e alla rete ferroviaria mediante l’impianto di movimento all’interno dell’area della stazione FS di Foligno58.

58 La base dispone di un terminal intermodale, un terminal per l’autotrasporto (raggiunto da un’ulteriore asta di binario, più binario di manovra, che raggiunge i magazzini a ribalta), un centro di distribuzione urbana e un centro servizi alla persona e ai mezzi, con stazione per rifornimento carburante esterna e possibilità di realizzare anche una struttura ricettiva.

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Tra gli agglomerati più prossimi al centro urbano vanno inoltre considerati quelli di S. Paolo - Cappannaccio (ha 4,72), Via Fornaci Hoffman (ha 4,42) e Via Roma (ha 15,52), i primi localizzati a nord-est della città, separati fra loro dal nuovo tratto della SS3 Flaminia e dal percorso del fiume Topino, l’ultimo inglobato in essa, essendo parte integrante del tessuto edilizio del capoluogo, che nella sua porzione sud trova la sua conclusione nell’abitato di S. Eraclio. Altri agglomerati, come S. Giovanni Profiamma (ha 14,27) e S. Giovanni Nord – Pontecentesimo (ha 5,67 con aree libere per ha 4,21), pur essendo collocati lungo la SS3 Flaminia, non stabiliscono relazioni dirette con il contesto urbano. A questi si aggiungono quelli di Ponte Nuovo (ha 5,77) e Moano (ha 7,69), posti rispettivamente alle estremità ovest e sud del territorio comunale, entrambi distanti da centri abitati. Per quanto attiene al livello di utilizzazione delle aree, il grafico seguente offre una comparazione sintetica fra la situazione rilevata dall’IRRES nel 1995-96 sulla base del previgente PRG e quella al 2009, derivante dall’assetto configurato dall’attuale strumento urbanistico generale. Diagramma di confronto percentuale tra le categorie di aree degli agglomerati del Comune di Foligno per gli anni 1996 e 2009

Fonte: Ns. elaborazioni su dati SIAT. Come precedentemente accennato, le previsioni localizzative del PRG ’97 danno luogo ad una lieve diminuzione del numero di agglomerati rispetto alla situazione rilevata nel corso dell’indagine IRRES 1995-96. Il livello di frammentazione delle aree al 2009 è pertanto diminuito, con gli attuali 17 agglomerati a fronte dei 20 desunti dal PRG previgente. La superficie complessiva degli agglomerati ammonta, secondo il dato regionale 2009, a ha 335,13, di cui ha 5,34 relativi ad aree dismesse, ha 19,31

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disponibili da aree libere, ha 137,39 occupate da aree miste, ha 171,15 da aree sature e ha 1,94 da aree verdi. Rispetto alla situazione rilevata nel 1996, le aree sature fanno registrare un incremento del 32%, a fronte di un -22% per le aree miste e un -5% per le aree totalmente disponibili.59 L’attuale tessuto produttivo riconferma la sostanziale distribuzione delle aree già presenti e consolidate, sebbene il PRG ’97 presenti una diversa classificazione delle aree, che tuttavia solo per i principali agglomerati presentano variazioni apprezzabili nel loro assetto dimensionale; esse trovano, nel nuovo strumento urbanistico generale, una maggiore “specializzazione” derivante dall’introduzione di destinazioni mirate, specialmente in merito alle aree dismesse o comunque destinate a funzioni di ricucitura urbana. Il grafico sintetizza i tipi di zona individuati dal PRG relativamente agli spazi destinati alla produzione industriale ed artigianale, cui vanno ad aggiungersi le zone a caratterizzazione commerciale e turistica, che non vengono trattate in questa sede. Diagramma relativo all’offerta delle aree produttive sulla base del PRG del Comune di Foligno

Fonte: Ns. elaborazioni da PRG ’97 Comune di Foligno.

59 La presente pubblicazione è corredata da un apparato di tavole cartografiche e dal relativo indice, disponibili nelle pagine istituzionali della Regione Umbria, curate dal Servizio Informatico/Informativo: geografico, ambientale e territoriale, nonché nel sito dell’Agenzia Umbria Ricerche (www.aur-umbria.it), in formato Adobe Acrobat Reader PDF.

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Le aree industriali ed artigianali individuate dal PRG ’97 si riferiscono sia a tessuti urbani a mantenimento produttivo60 (zone UC/MPIA) che a tessuti urbani di espansione locale61 (zone UC/EPIA). Il Piano individua inoltre le zone soggette a “disciplina particolareggiata pregressa” (zone UP/PIP, UP/PPE, UP/PDL), attribuendo tale denominazione a quelle aree produttive già presenti nel PRG previgente, dunque attuate mediante piani attuativi di precedente formazione, di iniziativa pubblica e privata62. Le specifiche modalità di attuazione sono contenute nell’art. 52 (Disciplina dei tessuti) delle NTA del PRG ’97, che stabiliscono l’attuazione diretta per i tessuti a mantenimento (zone UC/MPIA) e l’attuazione indiretta per i tessuti di espansione locale (zone UC/EPIA); per entrambe le tipologie di zona, l’indice di utilizzazione fondiaria è fissato nel valore di 0,65 mq/mq. Gli standard urbanistici sono prescritti, dal medesimo articolo, nelle quote del 10% di parcheggi e del 5% di verde per le zone UC/MPIA, mentre per le zone UC/EPIA le quantità richieste salgono al 10% di parcheggi e al 10% di verde63; gli standard vanno reperiti anche per gli insediamenti produttivi soggetti a disciplina particolareggiata pregressa (zone UP/PIP, UP/PPE, UP/PDL) per le parti non attuate. Particolare rilevanza assumono inoltre i cosiddetti “Ambiti di strutturazione locale”, che comprendono le “aree di primo impianto produttivo” (zone UT/SLP), atte a soddisfare la domanda di nuovo insediamento o reinsediamento produttivo64. La disciplina di queste zone è definita dalle relative “schede d’ambito” contenute negli elaborati del Repertorio delle schede degli Ambiti urbani di trasformazione65. In particolare, l’ex-Zuccherificio e l’ex Centro Fiera - Colorificio Mariotti rappresentano casi emblematici dei fenomeni di dismissione produttiva nel contesto

60 Ai sensi delle Norme Tecniche di Attuazione del PRG ’97, art. 51, costituiscono i Tessuti urbani consolidati a Mantenimento le parti della città consolidata in tempi relativamente recenti in attuazione dei Piani Regolatori Generali del 1960 e del 1973 e successive varianti parziali; detti tessuti sono articolati in riferimento alla densità edilizia che presentano ed alle prevalenti destinazioni degli edifici. 61 Ai sensi delle stesse NTA, i Tessuti urbani consolidati riguardano piccole porzioni incomplete della città consolidata e si suddividono in tessuti di Completamento locale (soggetti ad attuazione diretta condizionata) e in tessuti di Espansione locale (soggetti ad attuazione indiretta). 62 Per queste zone (cfr. art. 54 NTA), il PRG ’97 fa propria la disciplina di cui ai relativi strumenti urbanistici in vigore anche solo adottati, fermo restando che agli edifici realizzati in attuazione di detti strumenti si applica, ai fini delle categorie di intervento, la disciplina del Tessuto a mantenimento produttivo e fermo restando il rispetto dell’indice attribuito dalla disciplina particolareggiata originaria. 63 Gli standard si riferiscono alla superficie fondiaria per le zone ad attuazione diretta e alla superficie territoriale per le zone ad attuazione indiretta (mediante piano attuativo). 64 A questi si aggiungono le aree dismesse o in dismissione già di pertinenza di opifici industriali o di impianti ed attrezzature di servizio, classificate come “ambiti urbani di trasformazione” ed articolate in zone UT/SUAD e UT/SLAD, le prime con valenza di strutturazione urbana, destinate ad un ruolo di riferimento funzionale e morfologico di rilevanza urbana, le seconde con valenza di strutturazione locale, la cui rifunzionalizzazione deve assumere rilevanza di quartiere o di parte urbana. Entrambe le tipologie, ai sensi del PRG ’97, assumono la classificazione di zona omogenea “C”. 65 Elaborato P4 del PRG ’97. Ogni scheda contiene gli elementi prescrittivi del disegno di suolo e la simulazione dell’assetto di progetto.

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urbano66. Insieme ad altri siti dismessi, questi agglomerati sono stati classificati dallo strumento urbanistico generale come “ambiti di trasformazione”, attuabili soltanto mediante modalità indiretta. Il PRG ‘97 classifica le due aree sopracitate come zone UT/SUAD, ovvero come ambiti di “strutturazione urbana”, la cui riconversione deve assumere un significato di riferimento funzionale e morfologico di rilevanza urbana. L'area dell'ex Centro fiera e dell'Umbria Cuscinetti è stata peraltro oggetto di un Programma di Recupero Urbano (PRU) che prevede una consistente quota di edilizia residenziale pubblica. Tra le iniziative mirate all’incremento dei livelli qualitativi delle aree, si colloca la partecipazione del Comune di Foligno al bando regionale Docup Ob. 2 (2000-2006), Misura 1.1. Azione 1.1.2, relativo al finanziamento di studi di prefattibilità redatti da enti locali e loro forme associate finalizzati agli interventi di riqualificazione delle aree produttive67, illustrato nelle sue linee generali nel paragrafo “Il tema delle aree produttive nella storia della Regione Umbria”. Con riferimento a tale iniziativa, nel 2005 il Comune ha proposto un articolato piano di interventi per gli agglomerati di Colfiorito (area geografica della montagna), Moano, Paciana, Ponte Nuovo, San Giovanni Profiamma, San Paolo Cappannaccio, Sant’Eraclio, Via Roma (area geografica della pianura), mirati al raggiungimento di uno sviluppo sostenibile locale ispirato ai principi delineati dalla Carta di Aalborg.

66 Il tema delle aree dismesse assume rilevante importanza nel PRG ’97, che individua nella rifunzionalizzazione di tali aree un'opportunità per ridisegnare l'identità urbana; esso fornisce puntuali indicazioni sia volumetriche sia relative alle destinazioni d'uso per le aree dismesse o in dismissione. 67 Regione dell’Umbria – Giunta Regionale – Direzione regionale politiche territoriali, ambiente ed infrastrutture – “Avviso per il finanziamento di studi di prefattibilità redatti da Enti locali e loro forme associate finalizzati agli interventi di riqualificazione delle aree produttive in ambito Ob. 2 e Phasing-out del DOCUP (2000-2006). (Approvato con determinazione dirigenziale 16 luglio 2003, n. 6503). Ai sensi della classificazione Docup sancita nel suddetto Avviso, il territorio del Comune di Foligno risulta pressoché interamente inserito nell’ambito dell’Obiettivo 2; ne rimane esclusa una porzione che interessa il quadrante occidentale del capoluogo, estesa sino ai confini comunali con Bevagna e Trevi, classificata in regime “phasing-out”. A fronte dell’intera superficie comunale, pari a 263,77 kmq, l’ambito appartenente all’Obiettivo 2 occupa una superficie di 234,94 kmq (pari all’89% del suolo comunale), mentre la porzione in “phasing-out” occupa 28,83 kmq (pari al rimanente 11%).

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Studio di prefattibilità per la riqualificazione delle aree produttive di Foligno – Ripartizione percentuale dei costi degli interventi per agglomerato

Fonte: Studio di prefattibilità per la riqualificazione delle aree produttive di Foligno, predisposto ai sensi della Determinazione Dirigenziale Regione Umbria 16 luglio 2003, n. 6503 “Avviso per il finanziamento di studi di prefattibilità redatti da Enti locali e loro forme associate finalizzati agli interventi di riqualificazione delle aree produttive in ambito Ob. 2 e Phasing-out del Docup (2000-2006). Città di Castello Città di Castello, la maggiore realtà comunale dell’Alta Val Tiberina, si caratterizza per un’ingente presenza di complessi produttivi, spesso concentrati in zone del territorio urbanizzato anche di grande estensione. Vari sono i settori interessati, e dunque le configurazioni fisiche e funzionali che ne derivano; risultano in ogni caso caratterizzanti il tipico modello costituito dalla piccola e media industria e la forte presenza dell’artigianato. Tra i settori storici di attività, quello grafico e cartotecnico è senz’altro tra i più rilevanti, risalendo le sue origini industriali al 1700. Il tessuto produttivo si sviluppa principalmente lungo il corridoio infrastrutturale costituito dall’asse stradale della E45 e dalla Ferrovia Centrale Umbra, che insieme alla SS3 bis solcano longitudinalmente il territorio comunale. Quello che si configura è un sistema ad andamento lineare, con caratteri di continuità da San Giustino ad Umbertide; il corso del fiume Tevere delimita il sistema produttivo principale lungo il suo lato ovest. A questo si aggiunge l’insieme degli agglomerati distribuiti nei nuclei frazionali, che rappresenta comunque una parte cospicua della realtà produttiva locale. Nel contesto produttivo principale, comprendente gli agglomerati di Cerbara, Regnano, Zona Industriale Nord - Riosecco, Zona Industriale Sud, Cinquemiglia e

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Coldipozzo, le aree si presentano pressoché sature; va comunque considerata l’opportunità del recupero di alcuni siti dismessi, per i quali vanno distinti i casi di dismissione remota e quelli di dismissione recente. I primi si riferiscono a siti prossimi al centro urbano, anche classificati come “aree speciali” dal vigente strumento urbanistico generale; tali aree, interessate da fenomeni di dismissione storica come gli ex Mulini Brighigna e le ex Manifatture Tabacchi, sono infatti ubicate, in alcuni casi, anche all’interno della zona A; esse risultano pertanto esterne ai 15 agglomerati produttivi individuati al 2009 e la loro riconversione prevede destinazioni d’uso diverse da quella produttiva. In merito ai fenomeni di dismissione recente, a causa della crisi economica, si assiste ad un relativo svuotamento degli impianti produttivi, che necessita dei necessari approfondimenti in quanto oggetto di una veloce evoluzione; si ritiene che l’Osservatorio delle Aree Produttive68, recentemente istituito, possa essere lo strumento più idoneo per monitorare tale situazione, evidenziando le opportunità insediative che di volta in volta vengono a generarsi. Rispetto al rilevamento delle aree produttive effettuato dall’IRRES nel 1995-96 sulla base del previgente piano urbanistico, il PRG 200069 ha essenzialmente preso atto e riconfermato l’assetto localizzativo esistente; in particolare, è stata confermata la zona di Cerbara come area produttiva prioritaria, introducendo altresì un nuovo agglomerato produttivo in località Coldipozzo, dell’estensione complessiva di circa 20 ettari, a destinazione artigianale. Questo tessuto è sorto in una zona valliva in allineamento alle principali infrastrutture di carattere sovra-regionale (E45) ed in continuità con le previsioni urbanistiche del Comune di Umbertide, limitrofo per territorio. L’area di Coldipozzo è stata attuata e gestita attraverso un piano attuativo di iniziativa pubblica (PIP) ai sensi della L. 865/1971. Le aree produttive di Città di Castello risultano nettamente distinte dalla componente residenziale; alcuni punti di tangenza possono essere rilevati in corrispondenza dell’abitato di Cerbara, sebbene questo si trovi ad est della linea ferroviaria della FCU, che funge da filtro e da elemento separatore fra tessuto produttivo e residenza. Per quanto attiene alla presenza dei servizi, intesi come uffici ed attività di varia natura, volti ad offrire prestazioni di supporto alle aziende produttive, va precisato che con i

68 Cfr. paragrafo “Gli aspetti gestionali”. 69 Il Piano Regolatore Generale di Città di Castello, approvato con Deliberazioni di Cinsiglio Comunale nn. 72 e 73 del 18 dicembre 2000 e adeguato con le modifiche apportate dalle Varianti approvate, individua le aree produttive come zone “D”, articolandole in varie tipologie in funzione della destinazione d’uso e delle modalità di attuazione. Alle aree “di completamento”, parzialmente occupate (ad oggi pressoché totalmente edificate), appartengono le zone D1, a caratterizzazione prettamente industriale, e le zone D2, destinate all’insediamento delle strutture per la piccola e media impresa; per entrambi i tipi di area l’attuazione avviene con modalità diretta. A queste si aggiungono le zone DSA, già normate da piani attuativi di iniziativa pubblica e privata, le zone D3 e D5, più marginali rispetto alle altre, le zone D4 inerenti alle attività estrattive; infine le zone D6, destinate a comparti attuativi di nuova previsione, anche in questo caso di iniziativa pubblica e privata.

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piani urbanistici generali e particolareggiati, è stata prevista la dotazione di appositi edifici da destinare a centro servizi all’interno delle zone produttive di Cerbara e Coldipozzo. La stessa considerazione è valida per i rapporti fra zone D e ambiti commerciali, sebbene all’interno della zone D1 e D2 sia consentito l’insediamento di specifiche attività commerciali legate alla media struttura di vendita, riferite a particolari categorie regolamentate dal PRG Parte Strutturale (cfr. art. 42 NTA). Nel contesto produttivo principale si colloca inoltre una delle tre piattaforme logistiche previste nel territorio regionale ai sensi della L. 443/2001, quella di Città di Castello – San Giustino, per la quale sono in corso le procedure per l’assegnazione dei lavori su bando di gara europeo. La piattaforma è situata tra le zone industriali dei due omonimi Comuni, in un’area a cavallo del confine fra i territori dei due Comuni, vicino a vaste aree industriali, in corrispondenza del nodo stradale tra la E 45 e la E78 (Umbria settentrionale, contigua provincia della Toscana). La base dispone di un terminale monomodale (trasporto su gomma), costituito da un terminal per l’autotrasporto, un centro di distribuzione urbana, un’area per i servizi alla persona e ai mezzi, posta immediatamente all’esterno del varco d’ingresso dell’area, dotata di officina, stazione rifornimento carburante, struttura ricettiva. Passando ad esaminare gli agglomerati produttivi dei nuclei frazionali, comprendenti le Zone Industriali di Lerchi, S. Lucia, S. Secondo, Bivio Lugnano, Trestina, Fabbrecce, Promano, S. Leo Bastia e Morra, questi risultano generalmente proporzionati all’entità degli abitati. Si tratta di aree connotate da uno sviluppo a valle dei nuclei residenziali, dai quali risultano, anche in questo caso, funzionalmente separati. Non va peraltro trascurato che a Città di Castello sono presenti aziende di rilevanza nazionale ed europea, che trovano localizzazione anche negli agglomerati delle frazioni. Nei suddetti contesti si registrano comunque interventi di miglioramento viario per un più agevole raggiungimento delle sedi produttive; l’area di Trestina ha visto, in particolare, la recente realizzazione di un’opera stradale volta ad un migliore collegamento delle singole zone dell’agglomerato; interventi simili hanno interessato il raccordo fra la zona industriale Nord e Cerbara, precedentemente citati. Attualmente, anche gli agglomerati frazionali sono caratterizzati da una scarsa potenzialità residua in termini insediativi; è tuttavia in corso di formazione una Variante al PRG finalizzata all’individuazione di nuove aree produttive tra Cerbara e Regnano (appendice sud di Cerbara), utilizzando una porzione di suolo attualmente classificata a verde e servizi. Sotto il profilo ambientale, le aree risultano generalmente ben localizzate, in quanto non determinano particolari interferenze con i sistemi naturalistici di maggior pregio. L’unica area produttiva introdotta in un ambito totalmente agricolo è la zona di Coldipozzo, prevista in prossimità del confine con il comune di Umbertide. Le aree produttive trovano specifica trattazione specifica nelle norme tecniche di attuazione del PRG Parte Operativa; nel Titolo V delle NTA, relativo a “Disposizioni riferite allo spazio urbano e periurbano – Ambiti urbani a prevalente destinazione

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produttiva”, l’art. 26 fissa le disposizioni generali per il tessuto produttivo del territorio comunale, stabilendo la disciplina delle aree. Nel dettaglio vengono definiti i tipi di zona, individuando: le zone D1 “Edilizia industriale con caratteri integri”, le zone D2 “Edilizia per la produzione con il modello della piccola impresa familiare”, le zone D3 “Aree di integrazione e ampliamento per gli insediamenti produttivi esistenti”, le zone D5 “Edifici per la produzione realizzati in ambienti non compatibili”, le zone D6 “Zone da destinare a nuovi insediamenti produttivi”, relative ad una serie di comparti industriali, riconducibili agli agglomerati di Cerbara, San Secondo, Promano, Morra, Coldipozzo, San Leo Bastia, stabilendone la disciplina e rimandando la loro attuazione attraverso Piani Particolareggiati. Da un esame delle NTA, per questi ambiti l’altezza massima consentita dei fabbricati si attesta prevalentemente sui 13 ml. fuori terra (altezza modificata con la variante n. 21 al PRG del 2008, in precedenza l’altezza massima era pari a ml. 10), mentre il rapporto di copertura massimo all’interno di ogni lotto è pari generalmente al 60% della superficie totale; le quote minime di parcheggio e di verde sono fissate rispettivamente nella misura del 10% e del 5% della superficie totale del lotto di riferimento. Il diagramma successivo fornisce un riepilogo degli agglomerati produttivi distribuiti nel territorio comunale, con un raffronto tra la situazione risultante dall’Indagine IRRES 1995-96 e l’aggiornamento al 2009 70. Diagramma di confronto percentuale tra le categorie di aree degli agglomerati del Comune di Città di Castello per gli anni 1996 e 2009

Fonte: Ns. elaborazioni su dati SIAT e Comune di Città di Castello.

70 Il collaudo e la verifica dei dati raccolti per l’indagine 2009 sono in via di completamento da parte dei competenti Uffici Regionali.

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Dal raffronto tra i dati regionali al 1996 e al 2003, la disponibilità di aree completamente libere al 2003 fa registrare su un valore prossimo al 5,5% della superficie totale dei 14 agglomerati, mentre le aree sature continuano ad attestarsi su valori prossimi al 60%. I dati forniti dal Comune di Città di Castello, aggiornati al 2009, evidenziano una ripartizione sensibilmente diversa da quella riscontrata al 1996; la superficie complessiva degli agglomerati risulta, ad oggi, pari a ha 395,61, con un incremento del 5,8% rispetto all’analogo dato rilevato dall’IRRES nel 1996 (ha 373,76). L’attuale articolazione di tale superficie presenta aree sature per ha 285,06, fortemente incrementate rispetto al 1996 (+22,6%) ed aree totalmente disponibili per ha 14,90, dato, quest’ultimo, molto prossimo a quello del 1996; a queste si aggiungono le aree miste, che al 2009 misurano ha 41,11, valore più che dimezzato rispetto a quello del 1996. I servizi occupano ha 33,75 a fronte dei circa 19 ettari riscontrati al 199671. La disponibilità di aree libere o comunque residue va essenzialmente ricercata nell’ambito delle zone D6 presenti nel tessuto produttivo dei nuclei frazionali; ulteriori possibilità insediative sono altresì riconducibili alla formazione della Variante n. 22 tuttora allo stato di adozione, volta all’individuazione di una nuova area produttiva di tipo D6 a sud di Cerbara, dell’estensione di oltre 6 ettari. Dinamiche insediative e dotazione infrastrutturale: un quadro della situazione nei poli produttivi principali della provincia di Terni Nelle aree a carattere produttivo le infrastrutture a rete efficienti e i servizi rivolti principalmente alle attività produttive contribuiscono alla loro redditività, innescando economie di scala e di gestione che agevolano le imprese e favoriscono la compatibilità ambientale dei processi lavorativi. Dall’aggiornamento dell’indagine del 1996 vengono individuate realtà con gradi di infrastrutturazione molto differenti tra loro. Ciò è imputabile soprattutto alla diversa rilevanza dei vari insediamenti produttivi in quanto gli agglomerati maggiori sono i più dotati di servizi e ospitano le aziende di maggior rilievo, mentre altri ne sono sprovvisti. Incidono in maniera rilevante carenze in ordine alla accessibilità, derivate sia dalla stessa conformazione morfologica dei siti (es, siti collinari, valli strette, aree troppo vicine ai corsi torrentizi o fluviali) che alla diversa valenza strategica, derivante dalla connessione alle maggiori reti stradali ed autostradali, dalla possibilità di una mobilità delle merci tramite trasporto su ferro, dalla presenza di basi logistiche e zone di movimentazione merci. Per la maggio parte le zone produttive sono localizzate nelle aree di piana o nei territori vallivi, non distanti dai medi centri urbani regionali,

71 La presente pubblicazione è corredata da un apparato di tavole cartografiche e dal relativo indice, disponibili nelle pagine istituzionali della Regione Umbria, curate dal Servizio Informatico/Informativo: geografico, ambientale e territoriale, nonché nel sito dell’Agenzia Umbria Ricerche (www.aur-umbria.it), in formato Adobe Acrobat Reader PDF.

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dotate di sufficienti collegamenti alle principali vie di comunicazione. Se dal punto di vista localizzativo questa è sicuramente la migliore situazione per le imprese, dal punto di vista ambientale e paesaggistico provoca forti contrasti nelle conflittualità tra destinazioni d’uso del territorio, consumando territorio agricolo spesso di pregio e configgendo con le matrici ambientali. Le maggiori aree produttive sono ubicate nei pressi di Terni, capoluogo provinciale, con una superficie complessiva di quasi 620 ettari72 organizzati in 6 grandi nuclei produttivi ed aree minori frammiste al tessuto urbano, e degli altri centri ad esso collegati, quali Narni (6 agglomerati maggiori ed altri 2 nelle frazioni, per un totale di circa 390 ettari73), San Gemini (24,6 ettari74), Acquasparta (43 ettari75) e Stroncone (57,4 ettari76), secondo un modello incentrato sulla Conca Ternana e con diramazioni lungo gli assi viari di collegamento. Altre aggregazioni di zone produttive di tipo intercomunale sono site in prossimità degli svincoli autostradali e delle principali stazioni ferroviarie, quali quelle dei comuni di Fabro, Ficulle e Monteleone di Orvieto, per un totale di 47 ettari77, concentrate nelle vicinanze dell’uscita dell’autostrada A1 (Casello di Fabro), dei Comuni di Attigliano e Giove (per complessivi 49 ettari78) nei pressi dello casello autostradale di Attigliano; Otricoli (14 ettari79) in vicinanza dell’uscita autostradale di Magliano Sabina. Si evidenzia come tutte queste aree abbiano uno sviluppo lineare lungo la viabilità principale; allo stesso modo nei comuni di Arrone, Montefranco e Ferentillo le zone produttive si trovano lungo la Strada Statale Valnerina ed anche nei comuni di Allerona, Castel Viscardo e Orvieto. In particolare in quest’ultimo Comune gli agglomerati di Ponte Giulio e Bardano, nonché le nuove aree previste dal PRGS, per complessivi 188 ettari80, sono situate nelle zone pianeggianti adiacenti alla ferrovia e all’autostrada, collegate sia all’uscita autostradale di Fabro che a quella di Orvieto. Nella parte di territorio ricadente nell’ambito provinciale, solamente in pochi comuni sono site zone industriali e artigianali fortemente connotate, mentre nei pressi di alcuni centri minori, lontane dagli assi viari principali, sono maggiormente presenti aree destinate a commercio e artigianato di piccole dimensioni. L’esistenza di queste zone produttive di modesta estensione è dovuta spesso alla necessità di insediarvi alcune attività artigianali di interesse essenzialmente locale.

72 dati SIAT 2009, che non hanno interamente compreso servizi e attività connesse. 73 dati SIAT 2009, che non hanno interamente compreso servizi e attività connesse. 74 dati ricerca IRRES 1995-1996, elaborati da SIAT. 75 dati ricerca IRRES 1995-1996, elaborati da SIAT. 76 dati ricerca IRRES 1995-1996, elaborati da SIAT. 77 dati ricerca IRRES 1995-1996, elaborati da SIAT. 78 dati ricerca IRRES 1995-1996, elaborati da SIAT. 79 dati ricerca IRRES 1995-1996, elaborati da SIAT 80 dati SIAT 2009, che non hanno interamente compreso servizi e attività connesse

AURAPPORTI: RES 2008-09 545

Offerta delle aree produttive per gli anni 1996 e 2009 per i Comuni della Provincia di Terni

Fonte: Ns. elaborazioni su dati SIAT. Per quanto attiene la lettura dei Piani comunali, per la maggior parte già adeguati alla L.R. 31/97 ed, in alcuni casi, alla L.R.11/2005 81, la maggior parte delle zone produttive dei comuni considerati, sono a prevalente destinazione artigianale ed industriale (zone classificate D ai sensi del D.M. del 1968), essendo o consentite o ritenute compatibili all’interno della macro area o ambito il commercio, attività direzionali, servizi connessi all’attività produttiva (mense, archivi, spazi scoperti di servizio e spazi aperti d’uso pubblico o collettivo, servizi per la mobilità individuale e

81 Per quanto riguarda i Comuni della Provincia di Terni 21 Comuni su 33 hanno piani redatti ai sensi della L.r. 31/97, per la quasi totalità adeguati al vigente PTCP, 2 PRGS sono stati redatti ai sensi della L.R.11/05, ulteriori 5 PRGS sono stati già adottati (alcuni in corso di istruttoria da parte degli uffici provinciali), mentre tre Comuni sono in procinto di avviare/concludere la redazione applicando la L.r.11/2005.

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collettiva), la residenza limitata agli alloggi di custodia e/o per il titolare dell’attività artigianale. Alcuni Piani Comunali, quali quelli di Attigliano, Alviano e Lugnano in Teverina per l’”Ambito degli insediamenti per la produzione di beni e servizi” introducono tra le destinazioni d’uso “predominanti”, oltre a quelle manifatture a carattere artigianale ed industriale, il commercio all’ingrosso e al dettaglio e l’erogazione diretta di servizi alla persona ed all’impresa; nei primi due PRGS è inoltre inserita la possibilità di realizzare strutture turistico-produttive e ricreative. Il Piano di San Gemini e quello di Calvi e Otricoli, che hanno approvato un PRGS intercomunale, distinguono la aree produttive per tipologie: il primo piano individua le zone produttive di completamento82, quelle di espansione, per le quali dovranno essere garantite l’accessibilità dal sistema viario principale di interesse comunale e sovra comunale e qualificate connessioni con i tessuti edilizi circostanti, nonchè qualificati i fronti sugli spazi pubblici; il Piano inoltre definisce le “zone per centri a servizio delle attività produttive”, che integrano e completano le attività propriamente dette con i servizi, la ricettività, le attività socio sanitarie, il commercio e la residenza e le “Zone miste”, caratterizzate dalla presenza di infrastrutture ed ubicate in contiguità con zone di territorio già urbanizzato; tali aree, non specificatamente zonizzate, hanno capacità potenziali di utilizzazione del suolo ed edificatoria e sono caratterizzate da destinazioni d’uso quali: attività produttive, commerciali, direzionali, turistico ricettive, socio sanitarie, scolastiche e residenziali. Il Piano intercomunale di Calvi e Orticoli, in sintonia con il PTCP, individua il Polo Artigianale Intercomunale, area di espansione dell’attività produttiva industriale ed artigianale del territorio, dotata di attrezzature ed impianti tecnologici per l’incremento delle attività produttive. Nei territori dei due Comuni sono inoltre individuate aree produttive artigianali, in cui sono insediate o da insediare le attività industriali e artigianali, nonché altre destinazioni fino al 45% di superficie utile complessiva dei singoli lotti, e le “zone artigianali di recupero”, aree già destinate ad attività produttiva ed artigianale in territorio agricolo, interessate da fenomeni di dismissione e degrado edilizio e destinate dallo strumento urbanistico al recupero e alla riqualificazione mediante previsioni specifiche; in tali zone la conservazione delle attività produttive è subordinata alla trasformazione e al recupero dei manufatti edilizi esistenti e delle aree circostanti, anche mediante l’inserimento di nuove destinazioni compatibili. Quasi tutti i piani comunali indicano una percentuale massima di superficie a destinazione commerciale (tendenzialmente tra il 20 ed il 30% della superficie totale, in alcuni Comuni limitatamente al commercio all’ingrosso ed al magazzinaggio), direzionale (da un minimo del 15% ad un massimo del 20% della superficie totale, in alcuni casi limitata agli uffici privati connessi all’attività produttiva), mentre la

82 Nelle zone produttive di completamento sono ammesse tutte le destinazioni produttive, con annessi servizi aziendali, uffici ed abitazioni di servizio, le attività commerciali all’ingrosso e al dettaglio, con esclusione del settore alimentari, i servizi ricreativi e gli esercizi di ristorazione, con esclusione delle attività ricettive, pararicettive, turistiche e turistiche ricettive, nonché quelle inquinanti e pericolose per la salvaguardia dell’ambiente e della salute.

AURAPPORTI: RES 2008-09 547

destinazione mista (le cosiddette zone C.A.I. commercio, artigianato e industria) permane nelle zone già esistenti ed in completamento nei Comuni di Baschi, Montecastrilli e nei P.d.F. o P.R.G. ancora non adeguati alle L.R. 31/97 e L.R. 11/05 ed al PTCP. Zone a destinazione esclusivamente industriale sono presenti ad Amelia, Arrone, Attigliano, Montefranco, Orvieto, Otricoli, Narni e Terni. In alcuni Comuni la destinazione prevalente è artigianale (Ficulle, Porano, Monte Gabbione, Montefranco, Montecchio, Penna in Teverina) e per la piccola industria (Montecastrilli e San Venanzo83). Sempre dall’esame delle Norme Tecniche di Attuazione (N.T.A.) dei nuovi PRG, emerge una “sostanziale” confluenza verso le logiche impostate dal PTC di Terni, improntate alla qualità degli insediamenti ed alla loro complessiva sostenibilità o mitigazione rispetto alle componenti ambientali ed al paesaggio. Molti piani pertanto introducono normative volte a garantire negli spazi destinati a verde privato, all’interno dei singoli lotti, la messa a dimora di alberature di alto e medio fusto, definendo dei rapporti minimi di piantagione (una ogni 40 mq di superficie di area libera dalle costruzioni), la realizzazione di fasce di verde con funzioni protettive e di schermatura, indicando, in alcuni casi, anche la profondità minima di 10 ml., da posizionarsi nelle zone a confine con le fasce di rispetto dei corsi d’acqua pubblici o sul fronte stradale ed una percentuale non inferiore al 30% dell’intera superficie fondiaria da mantenere permeabile (PRGS dei Comuni di San Venanzo, Fabro, Ficulle, Monteleone d’Orvieto, Baschi, Porano, Parrano, Calvi e Otricoli, Orvieto). Il PRGS del Comune di Penna in Teverina prescrive che, negli ambiti destinati alla produzione, gli interventi dovranno rispettare i caratteri tipologici ed i materiali tipici dei luoghi, essere omogenei per materiali, tipologie architettoniche, spazi aperti e recinzioni, prevedere una quinta alberata di perimetrazione e predisporre le attrezzature tecnologiche di trattamento delle acque meteoriche. Nei progetti riguardanti queste aree dovranno inoltre essere elencati i potenziali rischi ambientali dovuti a cattivo funzionamento delle dotazioni tecnologiche o ad incidenti derivanti l’uso. Alcuni PRGS, quali quelli di Monteleone d’Orvieto, Alviano, Attigliano e Baschi, fanno esplicito riferimento agli artt. 23 e 24 delle N.d.A del PTCP84. Baschi riprende anche la preferenza, a livello di proposte progettuali, per forme a “nucleo”, la previsione di fasce di connessione ecologica di profondità non inferiore a 50 mt da realizzarsi nei nuovi insediamenti ed in prossimità di elementi paesistici di maggiore

83 Il PRG, precisando che si tratta di industrie di limitate dimensioni, comprende anche le industrie ed i laboratori artigianali insalubri di 1° e 2° classe. 84 Le norme di Attuazione del PTCP prevedono la mitigazione dell’impatto visivo; realizzazione di una fascia di verde privato sul fronte stradale; mantenimento della permeabilità dei suoli; necessari servizi interni alle aree; previsione di invasi artificiali o vasche di raccolta dell’acqua piovana; previsione ove necessaria di sistemi depurativi a basso impatto ambientale; localizzazione dei centri di raccolta differenziata dei rifiuti; incentivazione della permeabilizzazione dei suoli negli insediamenti esistenti a partire dai parcheggi pubblici; previsione di adeguate corsie di raccordo con la viabilità primaria atte anche a consentire l’accesso a trasporti eccezionali

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fragilità (margini delle aree: agricole, boscate, residenziali, dei corsi d’acqua) e negli interventi di messa a dimora di vegetazione l’impiego delle specie proprie dell’unità di paesaggio corrispondente, è richiesto inoltre che i complessi produttivi siano realizzati secondo i criteri di “aree ecologicamente attrezzate” (rif. art.25 delle NTA del PTCP). Il Piano di Porano prevede che la realizzazione di nuove aree produttive debba essere accompagnata da indicazioni relative alla pressione ambientale stimata, alla dotazione tecnologica ed ambientale prevista, alle misure di compensazione e mitigazione degli impatti esistenti e previsti. In tutti i PRG esaminati vengono distinte la aree produttive di completamento da quelle di espansione, intendendo con quest’ultima accezione quelle per cui il PTC prevede un ruolo territoriale di tipo intercomunale, consentendo un sostanziale ampliamento. Per gli insediamenti già esistenti è previsto il recupero e/o la riconversione degli immobili esistenti ed il completamento delle opere di urbanizzazione; nel caso di Parrano, gli interventi di completamento della zona artigianale sono soggetti a convenzione con il Comune che dovrà prevedere le opere di infrastrutturazione per l’allacciamento delle reti tecnologiche, per la realizzazione della viabilità pubblica, le opere di piantumazione arborea per la realizzazione di fasce verdi di mitigazione degli impatti visivi. La frammentazione e altre problematiche emergenti La presenza di zone produttive frammentate è dovuta alla legittimazione di attività preesistenti e, in altri casi, alla necessità di soddisfare la domanda insediativa di piccole attività locali in alcuni centri minori. La frammentazione influisce negativamente soprattutto rispetto alla dotazione di infrastrutture, anche se, come già precedentemente esposto, i casi riscontrati sono spesso dovuti a particolari esigenze episodiche. Anche se nei nuovi piani regolatori i Comuni hanno cercato di “compattare” e qualificare le aree produttive, riducendo in alcuni casi il numero di agglomerati (come Narni, passato da 9 agglomerati ad 8), ancora esistono numerose aree produttive artigianali e miste “isolate”, spesso frutto di condono, per le quali è molto difficile prevedere lo spostamento delle attività insediate in nuclei produttivi meglio organizzati e più opportunamente localizzati. Nella provincia di Terni comunque la frammentazione è sicuramente inferiore a quella registrata nella provincia di Perugia, come si può vedere nella tabella che riporta il numero di agglomerati per Comune (Tabella frammentazione aree produttive- confronto dati 1996-2009). Dalle notizie forniteci dai tecnici comunali e dai Consorzi per le aree produttive, che la richiesta di aree per insediamenti artigianali e industriali ha registrato un forte calo in tutto il territorio analizzato e particolarmente nelle aree più distanti dai centri di Terni, Narni e Orvieto. In numerosi comuni non tutte le aree a destinazione produttiva hanno raggiunto la saturazione. Dai recenti dati messi a disposizione dal SIAT della Regione, su un campione di 31 Comuni, di cui purtroppo solo 5 della provincia di Terni, emerge come i comuni di Narni e Orvieto presentino aree libere con un’estensione maggiore ai

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50 ettari, mentre nei comuni di Baschi e Castel Viscardo le superfici libere sono assai modeste, inferiori ai 5 ettari; nel Comune di Terni le aree libere hanno una estensione contenuta, inferiore ai 50 ettari, per la maggior parte costituita dalle nuove aree inserite dal recente PRG (approvato nel 2008), come si evidenzia dalla tabella di confronto 1996-2009 (dati SIAT)85 Tabella riepilogativa delle categorie di superfici negli agglomerati del Comune di Narni, Orvieto e Terni per gli anni 1996 e 2009

COMUNE N°

AGGL 1996

Dismesse (ha)

Servizi (ha)

Libere (ha)

Miste (ha)

Sature (ha)

Verdi (ha)

Variante (ha)

SUP. TOT (ha)

NARNI 9 36,38 68,66 31,89 262,16 2,28 24,63 425,99

COMUNE

N° AGGL 2009

Dismesse Servizi Libere Miste Sature Verdi Variante SUP. TOT

NARNI 8 13,67 23,08 54,27 70,51 226,66 0,42 388,61

COMUNE

N° AGGL 1996

Dismesse Servizi Libere Miste Sature Verdi Variante SUP. TOT

ORVIETO 2 11,39 38,27 76,37 4,32 130,35

COMUNE

N° AGGL 2009

Dismesse Servizi Libere Miste Sature Verdi Variante SUP. TOT

ORVIETO 2 7,43 52,4 23,91 98,61 6,1 188,45

COMUNE

N° AGGL 1996

Dismesse Servizi Libere Miste Sature Verdi Variante SUP. TOT

TERNI 5 2,47 63,14 33,03 110,71 407,79 12,62 1,26 631,03

COMUNE

N° AGGL 2009

Dismesse Servizi Libere Miste Sature Verdi Variante SUP. TOT

TERNI 6 29,62 48,6 34,49 501,46 4,94 619,11 Fonte: Ns. elaborazioni su da dati SIAT

85 Nelle superfici, dati anno 2008-2009, non per tutti i comuni sono state inserite alcune nuove previsioni da PRG, in particolare servizi connessi alle attività produttive. Nei “casi di studio” che seguono vengono anche considerati i dati dimensionali da PRG (dati GIS).

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L’accessibilità è un requisito ritenuto di fondamentale importanza per le aree produttive, in quanto spesso le caratteristiche del tracciato stradale non permette una adeguata percorribilità da parte dei mezzi pesanti. Inoltre la vicinanza con le stazioni ferroviarie, gli svincoli delle superstrade ed i caselli delle autostrade incide sulla velocità di percorrenza, anche se la sempre maggiore congestione della rete nazionale viaria mette in discussione tale asserzione. Sono state pertanto considerate estremamente disagevoli distanze superiori a 30 km su strade a due corsie, considerati tempi medi di percorrenza di un mezzo pesante tra i 30 e i 50 minuti, mentre sono state ritenute accettabili distanze fino a 6 km per le quali il tempo medio di percorrenza è inferiore ai 10 minuti. Riferito al grafo della rete viaria provinciale l’accessibilità degli agglomerati esistenti o previsti nei Piano comunali, risulta nel complesso soddisfacente. Oltre il 90% del totale è infatti collocato a distanza inferiore a 30 km sia dalle stazioni che dagli svincoli di autostrade o superstrade e, in ogni caso, a meno di 6 km dalle strade statali o provinciali. Circa il 35% dista meno di 6 km dalle stazioni o dagli svincoli citati e il 5% dista meno di 6 km da entrambi. I più importanti agglomerati produttivi di Terni e Narni, per questo aspetto presentano un’ottima accessibilità sia ai nodi ferroviari che autostradali. Al contrario, sono oggettivamente difficoltosi i collegamenti di tutte le zone produttive con i porti marittimi e gli aeroporti nazionali e internazionali. Tutti i centri considerati distano più di 100 km da essi e solo il 35% ne è distante meno di 120 km (Calvi, Otricoli, Narni, Terni, San Gemini, Amelia, Attigliano, Giove, Penna, Lugnano, Alviano e Guardea). I comuni di Monteleone di Orvieto e Montegabbione risultano i più distanti: 165 km dai porti e 177 km dagli aeroporti. Per quanto riguarda le caratteristiche delle infrastrutture interne alle singole zone produttive, riscontriamo generalmente una buona dotazione di viabilità di servizio. Solo in alcuni lotti nei comuni di Attigliano, Lugnano, Baschi, Narni, Orvieto, Spoleto e Montegabbione sono presenti accessi posti direttamente sulle strade principali e prevalentemente per alcune zone di meno recente costituzione. Altre zone, nei comuni di Acquasparta, Castelgiorgio, Montecchio, Narni, Terni e Avigliano, invece, possiedono già una viabilità interna anche in presenza di molti lotti ancora liberi. Relativamente ai servizi collegati al sistema produttivo, le grandi strutture specializzate, sono concentrate principalmente a Terni, dove sono presenti il Centro Servizi di Maratta, il Business Innovation Center (BIC), l’Istituto Superiore di Ricerca e Innovazione sui Materiali Speciali (ISRIM), il Parco Scientifico Tecnologico (strutture universitarie e di ricerca sui materiali speciali) e il Centro Multimediale. Altre strutture di rilievo sono l’Exposole di Fabro ed il centro espositivo di Montecastrilli, che ospitano prevalentemente fiere riservate a operatori nei settori agroalimentare e artigianale. Servizi più generici, connessi con le attività produttive, sono previsti in tutti i piani comunali. Tali servizi vengono individuati e gestiti in modo diverso dalle varie Amministrazioni, anche in funzione dell’entità delle zone produttive presenti.

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I casi di studio: Terni, Narni e Orvieto Il ruolo territoriale di Terni da sempre si è differenziato dal resto del territorio regionale per la presenza della grande industria, che ha, dalla fine del secolo XIX in poi, fortemente connotato l’assetto urbano e definito le grandi espansioni insediative. Le “Acciaierie di Terni” ora di proprietà della Tyssen Krupp, permangono quale significativo brano nel tessuto edilizio ternano, superiore per estensione al centro storico e fortemente connotante il paesaggio urbano nella direttrice est verso la valnerina. Come evidenziano le tavole86 realizzate sulla base del nuovo PRG, parte operativa del Comune di Terni confrontando le aree individuate dal PTCP nel 1998 e quelle previste dal nuovo PRG del 2008, il sistema produttivo è organizzato in tre principali poli produttivi, corrispondenti rispettivamente al polo siderurgico, al polo chimico (Polymer) ed alle aree produttive di più recente insediamento lungo la S.P. Marattana e in loc. Sabbioni, rispettivamente in riva destra e sinistra del Fiume Nera. Confrontando localizzazione ed estensione delle aree produttive alle due soglie temporali considerate, al 1996-98 (aree produttive strategiche e agglomerati di interesse locale indicati nel PTCP di Terni) e al 2008 (aree produttive e servizi ad esse collegati individuate dal nuovo PRG del Comune di Terni), si evidenzia una conformazione sostanzialmente stabile, con addizioni lungo la viabilità principale ed un sostanzioso rafforzamento degli agglomerati lungo la S.P. Marattana ed in corrispondenza del nuovo svincolo di collegamento tra il raccordo autostradale Terni Orte (RATO) e la stessa strada provinciale. Un “corridoio ecologico” destinato a Parco Territoriale lungo il Fiume Nera ed ad usi agricoli separa queste aree dal nuovo agglomerato previsto in contiguità con la base logistica, che costituisce il principale ambito di espansione per il sistema produttivo. La completa saturazione delle aree87, avvenuta nel corso dell’ultimo decennio, ha posto all’amministrazione comunale l’urgenza di prevedere nel nuovo PRG una nuova offerta di circa 63 ha, da localizzare nelle aree di Pantano e di Maratta; si strutturano pertanto agglomerati in cui è reperibile l’offerta di nuove aree: Maratta (per complessivi 178 ettari), a sinistra del fiume Nera fino al confine con il Comune di Narni dove è in fase di realizzazione il I° stralcio del Centro Logistico (13,2 ettari); Sabbioni (135 ettari), a sinistra del canale del Recentino; S. Maria Magale (18 ettari), ad est del Polo Chimico e l’agglomerato in Loc. Pantano (26 ettari). Dal punto di vista localizzativo il nuovo PRG pertanto conferma i principali agglomerati esistenti e ne individua uno nuovo, adiacente alla costruenda base logistica; viene definita la “grande industria”, coincidente con le zone di insediamento

86 La presente pubblicazione è corredata da un apparato di tavole cartografiche e dal relativo indice, disponibili nelle pagine istituzionali della Regione Umbria, curate dal Servizio Informatico/Informativo: geografico, ambientale e territoriale, nonché nel sito dell’Agenzia Umbria Ricerche (www.aur-umbria.it), in formato Adobe Acrobat Reader PDF. 87 Le considerazioni che seguono sono estrapolate dalla relazione del nuovo PRG di Terni

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dei due grandi poli industriali, il polo siderurgico ed il polo chimico. Nelle Norme del Piano è prevista, da parte delle imprese industriali, la redazione di un “programma urbanistico interno di relazione con la città” da presentare entro due anni dall’approvazione del PRG, nel quale andranno regolamentate le demolizioni di manufatti ed i lavori di bonifica, le previsioni di edificazione di nuovi manufatti industriali, gli indici di superficie coperta di manufatti e impianti, l’indice di permeabilità del suolo, il sistema di smaltimento delle acque e loro depurazione, la separazione delle acque dagli scarichi civili e da quelle della pioggia, la creazione del verde nelle zone del perimetro dello stabilimento. Per le altre aree produttive, artigianali ed industriali, in cui sono già presenti le attività suddette il Piano prevede interventi volti ad ottenere una complessiva “riqualificazione ambientale” che consenta una mitigazione dell’impatto visivo, la riduzione del trasporto delle polveri e dell’inquinamento acustico, il mantenimento del massimo livello possibile di permeabilità dei suoli. Per le aree destinate, in cui non sono ancora presenti attività insediate, il PRGS individua le dimensioni dell’ampliamento, al fine di impedire la frammentazione del sistema produttivo; in applicazione degli indirizzi del PTCP, la possibilità di ampliamento tiene in considerazione la facilità di approvvigionamento idrico, l’esistenza di infrastrutture e la disponibilità delle reti tecnologiche. Per ampliamenti superiori a 10 ettari le previsioni di PRG sono attuate per nuclei; per ciascun nucleo si dovrà prevedere una superficie fittamente alberata, non inferiore al 5% della superficie fondiaria. Infine il PRGS norma il “Centro logistico per le attività produttive”, area destinata prevalentemente ad infrastrutture di interesse pubblico ed a servizi all’industria ed all’artigianato a carattere territoriale. La localizzazione, lungo la strada Marattana a cavallo dei territori di Terni e Narni, in adiacenza alla ferrovia Orte-Falconara, al raccordo Terni-Orte ed all’innesto della E-45, ne assicura la piena ed efficace funzionalità di movimentazione integrata delle merci riferita al trasporto su gomma integrato a quello su rotaia. La scelta del PRG è inoltre orientata ad integrare i due complessi più grandi delle aree industriali ternane, quello di Sabbioni e quello della Polymer attraverso il “progetto del Viale del sistema delle aree industriali” (bretella di raccordo Marattana-Flaminia), che assolve a più compiti: un collegamento più agevole delle zone Sabbioni e Polymer alla Marattana con alleggerimento dei flussi di traffico in uscita ed in entrata per il raccordo autostradale e la E45; un più agevole collegamento con il polo chimico; la delocalizzazione delle sorgenti di inquinamento diffuse da traffico, migliorando le criticità della zona della Polymer e della Flaminia in entrata per Terni. Sono, inoltre, previsti interventi di riqualificazione dei tracciati esistenti, al fine di una funzionalità del traffico e di una riqualificazione dello spazio urbano relativo alle aree industriali. In particolare sono stati presi in considerazione i tratti stradali delle aree industriali e le loro sezioni, con l’introduzione di alberature e marciapiedi, oggi quasi completamente non realizzati.

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Nel nuovo PRG la principale destinazione d’uso è “industria, artigianato e commercio”; sul totale delle superfici previste nel nuovo PRG più di 276 ettari sono a destinazione industria, artigianato e commercio, altri 217 ettari corrispondono alla grande industria (zone sature o in lieve espansione) di cui 131,88 ettari al polo siderurgico ed 85,2 al polo chimico, 37,4 ettari sono destinati ad infrastrutture tecniche, 45 ettari per attività e servizi correlati (zone D4), per un totale complessivo di ha. 658,89. Diagramma relativo all’offerta delle aree produttive e servizi connessi sulla base del PRG del Comune di Terni

Fonte: Ns. elaborazioni su dati fonte SIT - Provincia di Terni.

Di fondamentale importanza per il sistema produttivo ternano e per quello dei comuni limitrofi, in particolare di Narni, San Gemini e Stroncone, è la nuova Base logistica di Maratta, che consente il potenziamento del sistema infrastrutturale, attraverso una piattaforma logistica intermodale, uno dei tre grandi interventi individuati sul territorio regionale, insieme a quelli previsti a Foligno e Città di Castello. La creazione della piattaforma si inserisce in un più ampio contesto di razionalizzazione e rilancio della logistica e mobilità a scala territoriale, che investe nella intermodalità del trasporto merci e che vede, inoltre, il coinvolgimento dell’attuale Aviosuperfice “A.Lonardi” con l’attivazione di servizi alternativi (quali l’avio-taxi e l’eli-taxi) a vantaggio della crescita e sviluppo dell’imprenditorialità locale. La gestione della base logistica è affidata alla Holding regionale del Trasporto Pubblico Locale (TPL) di cui farà parte l’ATC spa di Terni, insieme ad APM, SIT e FCU (Ferrovie Regionali Umbre), attraverso una riorganizzazione societaria delle attuali aziende locali di trasporto.

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Le dimensioni complessive della piattaforma (strutture per la logistica, attività produttive e servizi connessi) sono di oltre 200 ettari nei due Comuni di Terni e Narni; al suo interno viene prevista la realizzazione di un terminale intermodale, di un magazzino di raccordo (centro di distribuzione urbana), aree per la movimentazione e lo stoccaggio di carichi ordinari e di grandi carichi, servizi alle persone e servizi ai veicoli, centro servizi amministrativi, informatici e telematici, centrale di controllo per la trasmissione dei dati. E’ già avviata la realizzazione del progetto esecutivo, gestito dal Consorzio per lo Sviluppo delle aree industriali, per un primo stralcio delle opere di urbanizzazione su parte dell’area. L’insediamento della base logistica sarà concentrato essenzialmente nei settori alimentare, cartotecnico, metallurgico, dei materiali da costruzione, del legno e meccanico88. Nel Comune di Narni sono presenti 8 agglomerati produttivi: tra i principali quelli “storici” dell’Elettrocarbonium, limitrofo alla stazione di Narni, e di Narni scalo, quello di Nera Montoro, che conteneva il polo produttivo della Terni Industrie Chimiche ora dimesso, nonché la nuova espansione, prevista negli anni 90, per industrie di eccellenza ed infrastrutturata dal Consorzio TNS, quello di Pescecotto, in cui si trovano anche attività di trasformazione degli inerti, e quello di tipo lineare, a carattere artigianale-commerciale, lungo la Flaminia. Altri agglomerati minori, a carattere prevalentemente artigianale, si trovano nelle frazioni di Case Logato e Capitone, mentre l’agglomerato di San Pellegrino è prevalentemente destinato agli impianti di lavorazione degli inerti. Le direttrici di espansione delle aree produttive del narnese seguono le principali vie di comunicazione lungo l’asse Terni-Orte, sono connotate da un tessuto produttivo di tipo industriale-artigianale, il cui mercato di riferimento è individuabile, per la maggior parte, nella provincia di Terni, ad esclusione di alcune attività produttive rivolte al mercato estero, tra le quali un’attività relativa alla lavorazione e trattamento dei metalli. Si vedano a tal proposito le tavole89 realizzate sulla base del PRG del Comune di Narni, confrontando le aree individuate dal PTCP. In totale l’offerta di aree produttive è di 435 ettari (dati PRG parte strutturale): in termini dimensionali gli insediamenti maggiori sono quelli di Nera Monitoro-San Liberato (139,79 ettari), Stazione FS Elettrocarbonium (50,66 ettari), Narni Scalo (39,37 ettari), Pescecotto (47,89 ettari), Flaminia (63,78 ettari). La maggior offerta di aree produttive si trova a Nera Montoro e san Liberato. Dal diagramma di confronto tra le categorie di aree appare una sostanziale stabilità nel grado di saturazione delle aree (62% nel 1998, 58% nel 2009), un aumento nella rilevazione del 2009 delle aree c.d. “miste” in cui si trovano attività diversificate, tra

88 Le considerazioni del paragrafo sono tratte dalla relazione del PRG di Terni. 89 La presente pubblicazione è corredata da un apparato di tavole cartografiche e dal relativo indice, disponibili nelle pagine istituzionali della Regione Umbria, curate dal Servizio Informatico/Informativo: geografico, ambientale e territoriale, nonché nel sito dell’Agenzia Umbria Ricerche (www.aur-umbria.it), in formato Adobe Acrobat Reader PDF.

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cui commercio e terziario; la categoria delle aree “dismesse”, per diversità di rilevazione non appariva nel 199890. Diagramma di confronto percentuale tra le categorie di aree degli agglomerati del Comune di Narni per gli anni 1996 e 2009

Fonte: Ns. elaborazioni su dati SIAT. Le maggiori problematiche sono riscontrate dal Comune di Narni nell’agglomerato “Flaminia”91. La zona, percorsa dal fiume Aia e dai suoi affluenti, è in parte collinare e in parte pianeggiante, posta lungo l’asse costituito dalla strada da cui prende la denominazione. L’offerta delle aziende localizzate si caratterizza per un basso contenuto tecnologico, un limitato livello di valore aggiunto e per la prevalenza di prodotti e servizi comuni e standardizzati. Alle attività produttive si affiancano piccole e medie imprese a carattere artigianale e ultimamente si è andato affermando con sempre maggior forza una componente commerciale. La strategia dell’Amministrazione prevede il miglioramento dell’offerta insediativa: infatti il territorio si presta a fornire aree che possiedono i requisiti per l’insediamento di nuove attività produttive, in particolare, avendo quale vantaggio localizzativo la possibilità di un buon collegamento viario alle rete di livello nazionale e al previsto polo intermodale di Orte. Le azioni da promuovere e realizzare mirano a migliorare/mitigare l’inserimento delle attività produttive e commerciali all’interno di un contesto ambientale e paesaggistico caratterizzato da numerose problematiche, tra cui interventi atti a evitare i danni provocati da una possibile esondazione dei corpi

90 Considerazioni e dati sulla dismissione delle aree produttive sono nel precedente paragrafo “Il PTCP di Terni”. 91 Quanto riportato è ripreso dalla relazione dell’Amministrazione Comunale di Narni in occasione del del bando, emesso dalla Regione Umbria, relativo a “studi di prefattibilità, finalizzati agli interventi di riqualificazione delle aree produttive in ambito Ob.2 e Phasing-out del DOCUP (2000-2006)”.

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idrici, la realizzazione di strutture ambientali di transizione, tipo fasce tampone, tra l’agglomerato ed il contesto agricolo e con funzione di barriere al rumore, la piantumazione di filari di siepi e alberature nonché di spazi pubblici verdi, realizzati in coerenza con i sistemi ambientali. Inoltre vengono riscontrate carenze nelle infrastrutture a rete, che necessitano la realizzazione di una rete di scarico specializzata per tipo di reflui, da conferire a strutture di recapito presenti in zona o da realizzare all’interno dell’agglomerato stesso, con strutture di pretrattamento delle acque di piattaforma; la realizzazione di rotatorie nei punti di innesto diretto della viabilità di distribuzione interna sulla viabilità di collegamento principale e di nuova linea di illuminazione pubblica lungo le strade di distribuzione interna con pannelli fotovoltaici. Per quanto attiene i servizi alle imprese nell’ambito di riferimento, vengono definiti piuttosto scarsi e non si riscontrano progetti in atto mirati alla realizzazione di servizi tesi allo sviluppo delle attività produttive presenti; viene pertanto prospettata l’opportunità di realizzare un centro, nel cuore dell’agglomerato in cui siano localizzati una serie di servizi alle imprese (sportello postale, sportello per le pari opportunità, mensa self-service, bar). Per quanto attiene l’apparato regolativo, nel PRGS, approvato nel 2004, il sistema della produzione è dotato di una propria e specifica infrastrutturazione, distinta da quella generale urbana, con proprie forme insediative che fanno riferimento a tecniche “risparmiatrici di spazio”. Il “progetto di suolo”, previsto nelle norme, è teso a garantire una sufficiente permeabilità del suolo (superficie permeabile superiore al 25% dell’intera superficie fondiaria), il buon funzionamento della produzione e la presenza di filtri per l’inquinamento. Al fine di migliorare la sostenibilità degli insediamenti produttivi, la realizzazione di nuove aree produttive e l’ampliamento delle aree esistenti devono essere accompagnate da indicazioni relative alla pressione ambientale stimata, alla dotazione tecnologica ed ambientale prevista, alle misure di compensazione e mitigazione degli impianti esistenti e previsti. La pressione ambientale deve essere stimata indicando, oltre la superficie dell’area, la cubatura edificabile, la superficie impermeabilizzata, il numero degli addetti previsto, i tipi di attività produttive previste ed anche una stima preventiva dell’inquinamento prodotto dal traffico, il fabbisogno invernale presunto di energia termica per il riscaldamento, la produzione annua e giornaliera di acque reflue, il fabbisogno idrico giornaliero, la produzione annua di rifiuti solidi urbani. Per le aree produttive di nuova edificazione ricadenti nei sub-sistemi P1(aree industriali) e P2 (aree produttive in aggiunta), limitrofi ad aree classificate dal PUT di “Particolare interesse agricolo” deve inoltre essere prevista la realizzazione di adeguate opere di compensazione ambientale (barriere vegetali). Il sistema della produzione è caratterizzato dall’uso principale “Attività industriali ed artigianali” da cui sono escluse le attività agricole, mentre sono consentiti servizi ed attrezzature, spazi scoperti d’uso pubblico, residenze ed attività terziarie. Esaminando in dettaglio le norme si distinguono:

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AREE INDUSTRIALI (P1): comprendono le grandi concentrazioni di attività produttive, fra cui l’Elettrocarbonium, la Linoleum, l’Alcantara e la Carbolux, che si localizzano lungo il fiume Nera, caratterizzate spesso da insediamenti con un basso rapporto di copertura (capannoni di grandi e medie dimensioni) e la prevalenza di impianti tecnologici necessari alle attività produttive. Il Piano prevede che gli interventi favoriscano la localizzazione di attrezzature e servizi, il mantenimento della destinazione d’uso, l’adeguamento e ampliamento degli impianti. AREE PRODUTTIVE IN AGGIUNTA (P2): nel sub-sistema sono comprese le aree produttive artigianali della città, caratterizzate da un’edilizia costituita, in genere, da edifici di piccole o medie dimensioni, e da un tessuto dove è presente una certa mescolanza di funzioni (residenza e commercio). Fra queste sono comprese le aree di nuova edificazione ubicate nella zona del Basso Nera, lungo la via Flaminia e lungo la via Marattana. Gli interventi previsti dal Piano favoriscono la configurazione dello spazio aperto, attraverso il disegno di nuovi parcheggi, del verde di decoro e delle necessarie aree permeabili e semipermeabili. AREE PRODUTTIVE PER ADDIZIONE (P3): il sub-sistema comprende aree produttive ove siano presenti anche attività di servizio e terziarie, in particolare il commercio, assimilabili per prestazioni richieste alle aree industriali ed artigianali. Sono ubicate prevalentemente lungo la Marattana, la Flaminia e nella zona di S.Liberato. Gli interventi sono volti all’adeguamento dell’esistente ed al suo riuso/recupero e dovranno interessare gli spazi aperti, i parcheggi, le strade, i lotti di pertinenza, componendoli entro un disegno complessivo che preveda una bassa percentuale di superfici totalmente impermeabilizzate. AREE DELL’INNOVAZIONE (P4): il sub-sistema comprende le aree produttive situate lungo l’asse della Marattana, nelle quali sono previste attività innovative, attività tecnologicamente avanzate, ecocompatibili e destinate ai fini culturali, di ricerca, legate all’istruzione, ludiche e ricreative. Gli interventi sono volti all’adeguamento delle situazioni e degli edifici esistenti ed al loro riuso/recupero e dovranno interessare gli spazi aperti, i parcheggi, le strade, i lotti di pertinenza; anche in questo sub sistema è prevista una bassa percentuale di superfici totalmente impermeabilizzate. Il Comune di Orvieto ha approvato il PRGS nel 2001 e, successivamente, una variante di adeguamento al PTCP (anno 2008). La variante punta a rafforzare le aree produttive già esistenti in un’ottica ordinata e compatibile, operando trasformazioni delle destinazioni d’uso di aree già individuate dal PRG vigente. A tal fine vengono destinate a zone produttive (zone D) due zone prima a servizi (Zone F) in località Ponte Giulio, contermini alle aree produttive già realizzate e sature; allo stesso modo in località Ciconia, lungo il fosso Fanello, gran parte dell’area (circa 1,6 ha) prima destinata a zona F, viene “riconvertita” a zona produttiva (D). Vengono inoltre ampliate per modeste superfici alcune zone già destinate ad attività produttive. Si

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vedano a proposito le tavole92 realizzate sulla base del nuovo PRG del Comune di Orvieto, confrontando le aree individuate dal PTCP nel 1998. Tabella di confronto delle superfici degli agglomerati del Comune di Orvieto per gli anni 1996 e 2009

Comune Denominazione agglomerati

Sup. 1996 (ha)

Comune Denominazione agglomerati

Sup. 2009 (ha)

Orvieto S. Letizia – Orvieto Scalo - Ciconia

14,99 Orvieto S. Letizia – Orvieto Scalo - Ciconia

18,44

Orvieto Bardano P.te S. Lorenzo

115,36 Orvieto Bardano – Ponte Giulio93

170,01

Fonte: Ns. elaborazioni su dati SIAT

Rispetto all’offerta di aree produttive, il diagramma di confronto (dati SIAT da ricerca I.R.R.E.S. 1996 e dati SIAT 2009) evidenzia la crescita in termini di disponibilità (9% nel 1996, 28% nel 2009), conseguenti alle politiche di Piano, così come la diminuzione delle c.d. aree “miste” (dal 29% al 13%), che si presuppone legata ad una maggiore distinzione per destinazioni d’uso degli ambiti, assegnando dunque aree dedicate al commercio ed al terziario. Diagramma di confronto percentuale tra le categorie di aree degli agglomerati del Comune di Orvieto per gli anni 1996 e 2009

Fonte: Ns. elaborazioni su dati SIAT.

92 La presente pubblicazione è corredata da un apparato di tavole cartografiche e dal relativo indice, disponibili nelle pagine istituzionali della Regione Umbria, curate dal Servizio Informatico/Informativo: geografico, ambientale e territoriale, nonché nel sito dell’Agenzia Umbria Ricerche (www.aur-umbria.it), in formato Adobe Acrobat Reader PDF. 93 Nuova denominazione da variante PRGS.

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Il PRGS individua in località Bardano-Ponte Giulio le principali aree di ampliamento e completamento del tessuto produttivo, con una superficie complessiva di 170 ettari a fronte dei 115 previsti nel 1996. La nuova area è definita quale “Parco Tecnologico”94 per la cui attuazione viene redatto uno studio unitario. Obiettivo dello studio è quello “pervenire all’adozione di un codice di buone pratiche di comportamenti compatibili da porre a base della trasformazione”95; gli elaborati cartografici forniscono indirizzi volti ad un inserimento delle nuove attività nel paesaggio agricolo e sub-urbano circostante, lascindo tra gli edifici le interruzioni per le connessioni trasversali della valle (corridoi verdi), evitando quindi costruzioni continue lungo le infrastrutture o i corsi d’acqua. I lotti vengono organizzati perpendicolarmente alla valle, per nuclei, con fasce di compensazione di almeno 10 metri di larghezza, con al centro specie arboree ed ai margini fasce arbustive, finalizzate alla continuità con la rete ecologica, zone di mitigazione a verde (riduzione impatto visivo, polveri e rumore nelle zone circostanti). La componente vegetale diviene “parte complessiva dell’intervento, il quale dovrà anche contribuire, per quanto possibile, alla riconnessione percettiva e funzionale degli insediamenti esistenti e delle aree a verde nel territorio circostante”. In generale l’insediamento può avvenire dopo una accurata verifica della capacità portante dell’Unità di Paesaggio (U.d.P) e dei requisiti di compatibilità ambientale prescritti dal PTCP, definendo le aree da rinaturalizzare e rimboschire a compensazione degli interventi di trasformazione. I nuovi complessi produttivi saranno realizzati secondo i criteri definiti per le “Aree ecologicamente attrezzate” (art.25 delle NTA del PTPC). Anche per interventi negli agglomerati produttivi da qualificare e/o potenziare, tra cui l’area dell’ex aeroporto, al confine con il Comune di Castel Giorgio, e l’area di Orvieto Scalo, è prescritta la realizzazione di opere di mitigazione degli impatti ambientali, facendo riferimento all’art.20 delle NTA del PTCP. Ai fini della mitigazione ed inserimento paesaggistico il PRGS prescrive la realizzazione di spazi verdi con piantagioni ad alto fusto, da realizzare in corrispondenza degli elementi paesistici di maggiore fragilità, mentre la progettazione degli edifici e degli spazi aperti di pertinenza dovrà rispondere a requisiti di elevata qualità architettonica (art.24 delle NTA del PTCP), prevedendo fasce boscate per limitare l’impatto visivo e ridurre la dispersione delle polveri ed altri elementi inquinanti. Per favorire la ricarica della falda deve essere lasciata permeabile almeno il 30% della superficie del lotto libera da costruzioni, mentre la superficie permeabile destinata a viabilità e parcheggi non può essere inferiore al 50% di quella complessiva. Gli aspetti gestionali Al fine di produrre, con riferimento ai casi di studio esaminati, una panoramica dei modelli di gestione delle aree produttive, sono state esaminate le esperienze più

94 Art.60 delle N.T.A del PRG parte strutturale. 95 Dalla relazione generale studio unitario, Arch. Rocco Olivadese, Comune di Orvieto.

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innovative di gestione quali il Consorzio TNS (Terni-Narni-Spoleto) per lo sviluppo delle aree industriali ed iniziative industriali ed il Consorzio Crescendo, per lo sviluppo delle aree produttive dei comuni dell’ovietano e dell’amerino, o altre iniziative volte alla razionalizzazione, riqualificazione e promozione delle aree e dei relativi servizi alle imprese. L’analisi è stata realizzata utilizzando prevalentemente il metodo delle interviste ad interlocutori privilegiati (stakeholders), somministrate attraverso l’analisi SWOT alle Associazioni di categoria (tra cui Confindustria, CNA, Confartigianato, Confapi), a Sviluppumbria, ai referenti sia tecnici che politici dei Consorzi per le aree industriali, ai Dirigenti e funzionari dei settori tecnici dei Comuni prescelti come casi di studio. Gli argomenti trattati riguardano la diffusione e localizzazione delle aree produttive, il processo di gestione, la qualità, secondo la successione di temi riportati nel box n.1. Data la rilevanza delle attività svolte dai due Consorzi per lo sviluppo delle aree industriali ed iniziative industriali, le principali attività, emerse dall’intervista, sono riassunte nel box n.2. I casi di studio di Terni, Narni e Orvieto. La diffusione e localizzazione La localizzazione delle aree produttive deriva, nel caso di Terni, dalle localizzazioni storiche ad est (polo siderurgico) e ad ovest (polo chimico) del centro urbano ed alla articolazione nel territorio delle varie aree per rispondere alla domanda diversificata che nel tempo si è manifestata. Il polo Maratta – Sabbioni, unitamente alle aree presenti nei quartieri, offre una variegata opportunità insediativa. Secondo Confindustria Terni, è un punto di forza la presenza nel bacino Terni-Narni delle maggiori realtà aziendali regionali nei settori siderurgico, meccanico e chimico, costituita da multinazionali e grandi imprese; di una imprenditorialità diffusa, presente nell’intero territorio provinciale, “un fitto tessuto di piccole e medie imprese di tutti i settori produttivi”. Sempre per quanto attiene i punti di forza la presenza progressiva dei servizi pubblici e privati, compresa l’articolazione delle attività commerciali nelle stesse zone produttive, conferisce alle stesse qualità urbana ed insediativa, mentre secondo altri intervistati, in particolare il Direttore del Consorzio TNS, pur essendo le aree produttive di Sabbioni e Maratta aree produttive di interesse regionale, contengono al loro interno troppe attività commerciali. La stessa limitazione dimensionale, spesso a causa dei caratteri del territorio, è considerata anche un punto di forza per una gestione più efficace grazie alle dimensioni contenute, così come i costi relativamente bassi di acquisto. Opportunità sono inoltre offerte dal Centro Servizi di Maratta, che nasce localizzato baricentricamente rispetto alle maggiori aree industriali ternane e narnesi. Altro punto di forza, secondo le Associazioni di categoria, è rappresentato dalla “collocazione in prossimità del sistema autostradale e ferroviario inserito nelle grandi direttrici nazionali ed internazionali”, la Conca Ternana è giudicata un “ fondamentale nodo infrastrutturale nell’ambito del quale si attestano i più importanti sistemi viari e ferroviari”, svolgendo le aree produttive del ternano-narnese una funzione di cerniera

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tra Lazio ed Umbria; sempre nell’area Terni-Narni è considerata buona la dotazione di aree e siti industriale dismessi rifunzionalizzati (p.e. ex Bosco) e l’“implementazione ed accentramento periferico delle aree anche in funzione della diminuzione del traffico pesante in città”(CNA). Secondo la maggioranza degli intervistati per rispondere alle esigenze delle imprese, le aree industriali vanno collocate in un contesto urbanistico e territoriale nel quale possano usufruire di efficienti collegamenti infrastrutturali e, allo stesso tempo, non vi sia conflitto con le destinazioni residenziali, soprattutto per quanto attiene i flussi veicolari. Da questo punto di osservazione le aree di proprietà del Consorzio TNS si trovano quasi tutte in situazioni ottimali da questo punto di vista, con alcuni miglioramenti da apportare alla viabilità dell’insediamento di Nera Montoro-Treie, soprattutto nel tratto di sottopasso della SS675 e attraversamento del fiume Nera della Strada di Vagno. Secondo gli intervistati l’attività del consorzio delle aree industriali sia nella gestione, nella promozione delle nuove aree produttive, nella realizzazione dei servizi sia nella riqualificazione di alcuni poli esistenti, favorisce la politica di localizzazione delle imprese. Inoltre la gestione consortile, definita “imprenditoriale e snella”, ha garantito interventi complessi di nuova infrastrutturazione e riqualificazione/bonifica di siti industriali dimessi, come meglio descritti nel box. n.2. Rispetto alla diffusione, il Consorzio TNS ha raggiunto una distribuzione equa di almeno un’area greenfield per Comune di competenza (due a Narni), oltre agli immobili industriali recuperati a cavallo tra Terni e Narni. L’offerta, in questo momento, è quindi sufficientemente distribuita, attraverso un modello, che si tenta di perseguire, di concentrazione, razionalizzazione e qualificazione delle aree industriali. Nell’area di Terni, Narni e Spoleto viene evidenziato che il problema da affrontare sia quello di riportare in un’unica linea di programmazione-attuazione le politiche d’insediamento di tutte le aree produttive, industriali e artigianali: infatti mentre la realizzazione delle aree industriali viene delegata al Consorzio TNS, le aree artigianali vengono ancora sviluppate autonomamente dai Comuni; questa distinzione andrebbe invece abbandonata, affidando ai Consorzi l’intero settore produttivo, che eviterebbe distorsioni nelle politiche di prezzo delle aree che rischiano di rendere incomprensibile l’azione complessiva a supporto dello sviluppo.In generale comunque viene affermato che il tema “aree industriali” è solo una parte di una politica complessiva che non può essere slegata da quello delle risorse finanziarie pubblico-private per gli investimenti e dalle politiche attive del lavoro, viste nella loro funzione di creazione di professionalità, ma anche di contributo al sostenimento del costo del lavoro. Il buon funzionamento dei Consorzi ha comunque effetti positivi perché permette ai Comuni e agli altri Enti locali e territoriali di contare su strumenti dedicati per curare le questioni relative alla costruzione, gestione e manutenzione delle aree produttive (oltre che a portare fuori dal bilancio comunale importanti quote di indebitamento) e alle imprese di avere uno “sportello” di riferimento sempre aperto. Rispetto al tema del riuso delle aree industriali dismesse o sottoutilizzate secondo le Associazioni di categoria la riqualificazione delle aree industriali dismesse rappresenta sia un punto di forza che una opportunità per il territorio, così come l’interesse della

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popolazione nei confronti di forme di fruizione alternativa del territorio dimesso ed una crescente attenzione alla tutela del paesaggio (CNA). Positivamente giudicate, quale opportunità per il sistema produttivo, le politiche di orientamento al mercato e di accompagnamento dell’adattamento, attraverso l’adozione di innovazioni di processo, di prodotto e di organizzazione di filiera e la presenza di un rilevante Know how. Tra le altre opportunità segnalate, oltre alla favorevole localizzazione geografica, derivante dalla vicinanza all’area economica romana e fiorentina ed il facile accesso al mercato laziale, il buon effetto immagine, legato all’insediamento in Umbria. La Confindustria Terni ritiene importante la possibilità di espansione produttive delle imprese già insediate nonché di nuove localizzazioni fondate sull’ “attitudine ed esperienze consolidate di programmazione negoziata (Contratto d’Area, Patti Territoriali, “Patto di Territorio” ecc.)”, su potenziali integrazioni tra diversi settori produttivi, sulla presenza di strutture per l’innovazione. Dal punto di vista della programmazione urbanistica, dal Consorzio TNS viene vista come grande potenzialità l’area del Centro Servizi di Maratta, su cui costruire un progetto complessivo concertato tra istituzioni e imprese, e, potenzialmente, quale sede, nella ristrutturazione della Villa Gerardi di proprietà del Consorzio, non solo del Consorzio stesso, ma anche di Sviluppumbria, Gepafin e di servizi innovativi per le imprese, oltre che per manifestazioni e presentazioni di prodotti industriali; inoltre la nuova Piattaforma Logistica di Terni-Narni, oltre a risolvere i problemi legati alla movimentazione merci e razionalizzarne i flussi, costituisce nuova opportunità localizzativa per le imprese; parimenti è una opportunità la possibilità di razionalizzazione e qualificazione delle aree, a partire dall’esistente, mentre viene vista come minaccia il mancato coordinamento tra politiche urbanistiche e politiche di sviluppo economico e le incoerenze nella gestione degli insediamenti produttivi tra Enti diversi. Secondo altri intervistati costituisce una minaccia la tendenza alla terziarizzazione di vaste aree delle aree produttive, con l’affermarsi di logiche speculative che possono determinare l’incremento del costo delle aree e la riconversione a tali scopi delle stesse strutture presenti, così come il degrado ed abbandono di opere edili di particolare pregio architettonico e storico, conseguente alla crisi delle industrie storiche ed alla dismissione di queste ed altre aree ad esse collegate funzionalmente, mentre, dal punto di vista ambientale, l’incremento della pressione ambientale sulla città ed il territorio è “legata alle quantità produttive ed alle soluzioni per il fabbisogno energetico del polo siderurgico”. Tra gli aspetti più propriamente economici, individuati come minaccia, in particolare per CNA, vi è la perdita di competitività del sistema produttivo locale, che vede aumentare nel corso degli anni il proprio divario rispetto alle aree più dinamiche del Paese, la riduzione degli scambi commerciali europei, la marginalizzazione sociale ed economica di alcune aree del territorio e l’eccessiva teoricità delle azioni di ricerca. I rischi di delocalizzazione possono inoltre derivare, per Confindustria, dall’erosione dei margini di competitività delle grandi imprese, dalla riduzione dei margini di competitività dei

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comparti manifatturieri (concorrenza paesi a basso costo), dai ritardi nell’attuazione di progetti strategici e per il sostegno della R&S e dell’innovazione, da insufficienti rapporti tra mondo produttivo e scuola/università. Maggiormente legato all’attuale crisi è infine il rallentamento delle manifestazioni di interesse per nuovi insediamenti nell’area ternana e narnese, che si sono ridotte in maniera consistente. Secondo il referente tecnico del Comune di Terni, la continuità con il centro urbano del polo siderurgico, la scarsa manutenzione delle infrastrutture legata prevalentemente alle difficoltà manutentive e la modesta qualità diffusa degli edifici industriali, legata anche al prevalere di attività secondarie di supporto all’attività produttiva, rappresentano i punti di debolezza delle aree produttive realizzate; dalle Associazioni di categoria viene segnalata la difficoltà delle PMI ad abbandonare le sedi lavorative di origine per accentrarsi in nuove e più funzionali aree, mentre dal punto di vista infrastrutturale il sistema dei trasporti locali è da incrementare, condizionato dal forte traffico industriale/commerciale: nel ternano infatti il numero dei veicoli circolanti per km è tra i primi d’Italia. Collegato a questo viene evidenziato come la rete stradale sia da potenziare soprattutto per quanto riguarda il collegamento con il Porto di Civitavecchia. Inoltre vengono ritenuti carenti i servizi alle imprese, scarsa la dotazione di infrastrutture immateriali e completamente inesistenti le infrastrutture di servizio alle imprese per lo svolgimento di attività congressuali e promozionali. Alla domanda: Gli imprenditori sono soddisfatti della collocazione territoriale, della infrastrutturazione, dei servizi alle imprese? Gli intervistati rispondono che per collocazione e collegamenti, generalmente sì, ma non completamente, con alcuni problemi infrastrutturali relativi all’area di Nera Montoro, soprattutto per l’insediamento di attività nel campo della meccanica con produzioni di grandi dimensioni. Per quanto riguarda i servizi alle imprese dalle esperienze oramai decennali di gestione viene evidenziata la difficoltà ad introdurre attività terziarie (banca, posta, consulenze fiscali e legali, progettazione finanziaria, ecc.) a sostegno di quelle produttive all’interno delle aree industriali, a meno di non creare una notevole massa critica di domanda. Viene infine rilevato come incida e appaia problematica la frammentazione delle aree produttive e come solo in parte i Consorzi abbiano attivamente favorito le politiche di localizzazione delle imprese. Per quanto attiene il resto del territorio provinciale viene evidenziato quale punto di debolezza la dispersione delle aree produttive “minori”; inoltre le limitate dimensioni delle aree impediscono la realizzazione di servizi “veri” e la nascita di filiere produttive. Dal punto di vista urbanistico nei territori dei comuni minori le aree “nascono artigianali, spesso divengono commerciali, ma non ci sono le condizioni per realizzare aree produttive vere e proprie”. Ad Orvieto la prevalente concentrazione delle aree produttive è negli agglomerati produttivi di Bardano – Ponte Giulio; sono considerati punti di forza: dal punto di vista infrastrutturale la presenza di vie di comunicazione di livello nazionale, che favorisce la localizzazione delle aree industriali nelle vicinanze dei caselli autostradali,

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ed, in futuro, la nuova viabilità complanare e il secondo casello Orvieto nord; lo Scalo merci; il cablaggio e video sorveglianza dell’area industriale e la separazione tra le aree a vocazione industriale e le aree artigianali, a servizio dei contesti locali, con la conseguenza che nei piccoli comuni, la classificazione urbanistica delle aree è esclusivamente artigianale e commerciale; mentre per quanto attiene le imprese insediate è considerato punto di forza la presenza di un nucleo di alta tecnologia (telecomunicazioni e meccanica di precisione) da valorizzare attraverso interventi mirati, appetibili per le eccellenze, e nella filiera componentistica, così come nel tessile e nella moda. Per il Consorzio Crescendo è anche punto di forza il ruolo delle associazioni di categoria nella concertazione degli insediamenti. Tra le politiche da incentivare è segnalata la riqualificazione della aree produttive con interventi legati allo sviluppo locale, superando l’attuale mera assegnazione dei lotti, trovando convenienze reciproche con i Comuni (es. ICI da condividere tra tutti i Comuni aderenti al Consorzio) e la necessità di un parere consortile sul PTCP, che coordina la localizzazione delle macro aree, come in altre realtà. Da ultimo sono considerati necessari strumenti per cofinanziare gli interventi, l’ampliamento delle attività con la gestione delle utilities (banca, poste, rifornimento carburanti, area per autotrasporti e service), la realizzazione di acquedotti industriali ed una normativa con ARPA sull’inquinamento elletromagnetico. Sempre per il Consorzio sono punti di debolezza la scarsa incidenza del Consorzio sulla programmazione territoriale dei comuni, in quanto deve limitarsi a dare solo suggerimenti, venendo meno un ruolo di coordinamento, quale emergeva dalla ricerca IRRES del ’97; altri elementi critici sono l’assenza di una politica regionale di assistenza finanziaria, che, ad esempio, fornisca forme di garanzia per i debiti assunti dal Consorzio presso gli Istituti bancari e la lontananza tra i settori pubblico e privato. Problematiche emergono relativamente alle autorizzazioni allo scarico acque industriali nei corsi d’acqua ed alle vasche d’accumulo (per prevenzione incendi), mentre esistono problemi sulle reti ed i servizi (dall’illuminazione pubblica ai rifiuti). Secondo Confindustria, infine, è urgente il completamento dei collegamenti fuori regione, costituiti dai principali assi viari e ferroviari sulle direttrici Tirreno-Adriatiche, mentre sono punti di debolezza l’insufficiente livello di infrastrutture e di servizi telematici e presenza di funzioni e servizi reali, la prevalenza di piccole imprese manifatturiere fortemente legate alla mono committenza produttiva e, nel Comprensorio Orvietano, l’insufficiente dotazione di infrastrutture di collegamento viario interno. La gestione Le nuove aree industriali sono prevalentemente di iniziativa pubblica attraverso il P.I.P. (PAIP nel caso di Terni) e sono gestite direttamente dai Comuni e, per i Comuni aderenti e per alcune aree, dai Consorzi aree industriali, che provvedono

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anche alle urbanizzazioni prevalenti e, nel caso del Consorzio, anche alla realizzazione diretta di interventi di recupero e riconversione delle stesse strutture produttive dismesse. I Consorzi si occupano dell’esproprio delle aree (nelle esperienze passate, solo per la liquidazione delle indennità, questione da rivedere in futuri interventi), dell’appalto dei lavori di realizzazione, della valutazione dei progetti industriali proposti dalle imprese per l’insediamento e della successiva vendita. In fase di gestione, i Consorzi sostengono gran parte dei costi di manutenzione, da ripartire sulle imprese con criteri proporzionali all’occupazione di spazi. Per l’insediamento industriale più popolato, quello di San Liberato a Narni, si è scelto di formare un “condominio” tra tutte le imprese presenti per il sostenimento delle spese di gestione (es. sicurezza). Il modello è in corso di sperimentazione, con probabili evoluzioni verso nuove ipotesi allo studio. “Nel modello applicato fin qui l’azione del Consorzio si svolge all’incrocio di due ambiti di programmazione: quella della Regione, prevalentemente incardinata nei Programmi Operativi Regionali FESR che hanno finanziato in varia misura la realizzazione degli insediamenti e di alcuni impianti a supporto e quella degli Enti locali, di livello urbanistico-territoriale, che individua la destinazione d’uso delle aree. Parte delle risorse finanziarie per gli investimenti vengono garantite dal Consorzio stesso che si finanzia a debito, con varie forme tecniche a seconda delle situazioni. Le aree industriali finora realizzate, utilizzando quale strumentazione urbanistica i Piani di Insediamento Produttivo, hanno avuto finalità più urbanistiche (identificazione delle destinazioni d’uso) che economiche (offerta di opportunità di sviluppo, a tutto tondo)”96. Secondo il Presidente dl Consorzio TNS nelle esperienze finora condotte è mancata una visione olistica del problema, limitandosi a destinare parti di territorio alle imprese con la sola garanzia degli allacciamenti alle reti essenziali. Nel futuro vanno concepite azioni sinergiche per dotare le aree di reti tecnologiche avanzate (fibra e wireless), organizzare i servizi di gestione dell’energia, dell’idrico e dei rifiuti in modo specificamente disegnato per i fabbisogni delle imprese, valorizzare lo spazio produttivo anche dal punto di vista architettonico, garantire la sicurezza con tecnologie adeguate. In sintesi, è necessario evolvere verso modelli di insediamento efficienti dal punto di vista dei servizi e da quello energetico e ambientale. Ai Consorzi vanno affidati compiti organici per perseguire questi obiettivi e va garantito il loro coinvolgimento come portatori di interesse fin dalle fasi di pianificazione. L’ottimizzazione della gestione economica, infatti, si può meglio perseguire individuando le aree (e di immobili industriali da recuperare) in modo che la loro acquisizione risulti il più possibile economica; destinando agli Enti risorse che supportino i programmi di qualificazione delle aree (in particolare, sostenibilità energetica e ambientale) e definendo strumenti di finanziamento a debito ad hoc; programmando adeguate misure di marketing (tout court, come strumenti di pubblicità, e territoriale). In tema di gestione economica, vanno trovate le soluzioni

96 Dall’intervista al Presidente del Consorzio TNS.

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legislative e regolamentari per esentare i Consorzi dal pagamento dei tributi locali, pena l’effetto perverso dell’attribuzione agli Enti di pesanti oneri che sottraggono liquidità agli investimenti, con esiti contro intuitivi rispetto alle motivazioni che ne consigliano la costituzione. Secondo le Associazioni di categoria (CNA e Confindustria) sono punti di forza la pianificazione della strategia di sviluppo economico ed il coordinamento delle relazioni tra organismi centrali e attori locali, la facilità di contatto con gli enti, deputati ad espletare sia funzioni di programmazione che di autorizzazione, mentre costituisce una opportunità il rafforzamento del ruolo attivo delle amministrazioni locali e delle imprese, la possibilità di accedere a bandi e sfruttare l’opportunità di accordi locali, l’utilizzo, da parte dei Consorzi di criteri di mercato e l’adozione, seppure parziale, di procedure di tipo privatistico che consentono una maggiore rapidità nell’assunzione di atti e decisioni. Sono evidenziate carenze nelle politiche di programmazione e pianificazione, quali la saturazione di alcune zone industriali rispetto alle aree attigue, la frammentazione nei singoli comuni delle politiche di sviluppo e consumo del territorio e delle sue risorse, la mancanza di coordinamento tra enti, il rischio di speculazioni edilizie, la carenza di informazione, una gestione consortile troppo burocratizzata e comunque limitata a porzioni del territorio provinciale. E’ segnalata dalla CNA, quale minaccia, un contesto ambientale delicato e a rischio superamento delle soglie, dalla Confindustria la carenza di servizi integrativi dell'attività produttiva (servizi finanziari, organizzativi e gestionali, tecnologici ecc.), una scarsa attenzione alla domanda di servizi reali ed insufficienti strutture di raccordo tra ricerca e produzione e per il trasferimento tecnologico. Viene ribadita dalla maggioranza degli intervistati la positività della presenza di un soggetto dedicato alla gestione delle aree industriali in modo focalizzato e professionale e la creazione di competenze di valutazione economica e interlocuzione con le imprese connessa alla disponibilità di esperienze e competenze per sviluppare modelli di gestione innovativi; quale opportunità il potenziamento del demanio consortile per offrire aree ben strutturate puntando sul recupero e riuso della aree dimesse o sottoutilizzate, la possibilità di estendere le attività del Consorzio all’area industriale di Vascigliano (Stroncone); diseconomie vengono invece generate da lacune in fase di programmazione e progettazione e da una disorganicità del disegno di infrastrutturazione del territorio. Secondo il referente tecnico del Comune di Terni la gestione pubblica delle aree può favorire anche una politica finalizzata a realizzare attività produttive qualificate e rispondenti alla necessità di privilegiare l’innovazione e la ricerca dei nuovi settori di sviluppo, ad esempio i nuovi materiali, mentre l’eccessiva terziarizzazione dei nuovi insediamenti e la presenza diffusa di attività con limitata qualità produttiva, unita alla difficile applicazione di criteri selettivi nell’assegnazione delle aree produttive ed anche nella gestione nel tempo dell'uso delle strutture realizzate, costituiscono punti di debolezza e minacce nel processo di gestione delle aree.

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Secondo il referente tecnico del Comune di Orvieto la gestione di parte delle aree da parte del Consorzio Crescendo garantisce un costo equilibrato delle aree: è anche una opportunità una gestione unitaria che vada anche oltre la realizzazione delle opere di urbanizzazione; ciò garantirebbe qualità ambientale, localizzazione di imprese di qualità, maggiore sostenibilità degli interventi; viene giudicato come punto di debolezza il fatto che il Consorzio realizzi le opere di urbanizzazione, ma non gestisca successivamente le aree; l’ eccessiva eterogeneità delle imprese localizzate è vista come minaccia. Secondo alcuni intervistati inoltre il Consorzio dovrebbe poter dare indirizzi più forti e organizzare un’offerta qualificata di aree partendo da aree green field (agricole) attraverso accordi specifici di messa in valore, riconoscendo ai proprietari il plusvalore nel tempo: ciò dovrebbe essere definito attraverso una specifica legge regionale, evitando così l’esborso di importanti risorse all’inizio dell’operazione. Dal Consorzio Crescendo viene inoltre segnalata la necessità della costruzione dell’offerta (con fondi regionali), di un censimento delle aree di proprietà pubbliche per trasformazione in aree produttive, dell’introduzione di un sistema di gestione di tipo “condominiale” per le imprese insediate; quale punto di debolezza viene segnalata una gestione finanziaria che non tiene conto delle logiche di sviluppo, senza accompagnamento delle attività e, quale minaccia, il ricorso ad interventi “a pioggia”, portando ad esempio quanto operato con la Misura 2.1. del DOCUP nella precedente programmazione regionale. Confindustria richiama ad maggiore attenzione ai fabbisogni localizzativi delle industrie locali ed esogene, da soddisfare attraverso un’offerta variegata di tipologie e dimensioni delle aree, alla vivibilità dei luoghi di produzione e lavoro, alla sicurezza (contrasto ai furti ecc.). Sempre secondo Confindustria dalla gestione emergono quali indicazioni la necessità di accorciare i tempi di allestimento e soprattutto di assegnazione delle aree, nonché la necessità di reperire nuove aree di dimensione adeguata per ospitare nuove iniziative industriali. La qualità La gestione pubblica del processo di urbanizzazione e di realizzazione degli insediamenti, unitamente alla disponibilità di risorse comunitarie, consentono di realizzare anche sperimentazioni in contenuti ecologici ed insediativi. Su questo fronte il Consorzio TNS ha affidato un incarico per l’attuazione del modello SIAM (Sustainable Industrial Areas Model) e avvierà nelle prossime settimane un’attività di analisi del territorio per verificare le modalità con le quali qualificare in questa direzione le proprie aree. Secondo il Presidente del Consorzio “Nell’attuazione del modello potrebbero convergere le soluzioni ai problemi evidenziati, a patto di adottare una strategia di concertazione adeguata tra tutti i livelli istituzionali coinvolti nella programmazione urbanistico-territoriale ed economico e forme di partenariato (sociale e finanziario) pubblico-privato”; sempre secondo il Presidente “E’ necessario coordinare, ad esempio, le politiche regionali per lo sviluppo delle connessioni telematiche, soprattutto a favore delle imprese. Vanno poi migliorati i sistemi di

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gestione ambientale ed energetica delle aree industriali. E’, altresì, necessario sviluppare una programmazione di lungo periodo che ottimizzi l’uso del territorio, evitando dispersioni e rincorsi a fabbisogni ipotetici e futuribili, creando le condizioni per un’ordinata raccolta della domanda di insediamento. A partire da progetti-pilota, sarebbe auspicabile avviare un percorso per la formulazione di una legge regionale che dia riconoscimento ai Consorzi e inquadri la loro azione nel contesto degli strumenti di sviluppo economico-territoriale, mettendo a sistema risorse finanziarie e strumenti tecnici”. In sintesi: la presenza di modelli di successo da adottare e adattare per il superamento dei limiti attuali e la spinta ad una nuova progettualità già tradotta in decisioni, sono punti di forza e opportunità da giocare in questo delicato momento di transizione, anche se permangono spinte “quantitative” per la realizzazione di aree industriali e una cultura “rinunciataria” nella progettazione delle aree industriali finora sviluppata. Dal punto di vista urbanistico, secondo il referente tecnico del Comune di Terni, le previsioni del nuovo PRG di Terni costituiscono un’opportunità per completare-qualificare le aree produttive esistenti e per gestire le trasformazioni interne al polo siderurgico ed a quello chimico, attraverso una preventiva verifica della sostenibilità ambientale degli stessi insediamenti. Sul fronte delle minacce e dei punti di debolezza viene segnalata dal Comune di Terni la difficoltà a mantenere in essere le stesse trasformazioni qualitative realizzate con i fondi comunitari, con il rischio di un diffondersi progressivo del degrado, mentre nella maggior parte delle aree esistenti, non soggette alla gestione del Consorzio TNS, l’assenza di forme consortili tra imprese nella gestione delle aree industriali, la progressiva diminuzione delle risorse pubbliche per la manutenzione e per la gestione delle stesse aree industriali, minacciano di frenare il progressivo processo di rafforzamento qualitativo del tessuto produttivo. Secondo le Associazioni di categoria, anche se le attività finora svolte congiuntamente dagli enti territoriali e dal Consorzio TNS sono una buona base di partenza per condurre politiche di qualificazione delle aree ed esiste un certo interesse delle imprese per aree di qualità, molte sono ancora le carenze riscontrate tra cui la sottodotazione di spazi pubblici attrezzati e di aree libere all’interno delle zone di espansione da destinare a servizi (in particolare aree scoperte di sosta e movimentazione merci ); in particolare secondo la CNA pesa l’inadeguatezza delle linee ferroviarie, la prevalenza della mobilità privata, che porta al congestionamento delle aree urbane centrali ed ad una logistica industriale risolta esclusivamente attraverso il trasporto su gomma, priva di un polo locale ed ad un aggravio alle necessità infrastrutturali per servire gli insediamenti diffusi, mentre secondo Confindustria la necessità è quella di completare l’infrastrutturazione di primo livello (in molte zone) e di provvedere a quella secondaria (quasi ovunque); viene considerata insufficiente la dotazione di servizi (corrente elettrica, acqua per uso industriale, metanodotti, via d’accesso, reti telefoniche e telematiche); dal punto di vista delle “reti di impresa” viene considerata scarsa la capacità delle imprese locali di mettersi in rete con altri attori di eccellenza, ridotta la capacità di produzione individuale e scarsa la propensione ad associarsi; parimenti ridotta la propensione ad investire per

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l’integrazione produttiva e l’aggiornamento tecnico: complessivamente si avverte come minaccia la concorrenza da parte di altre aree industriali poste in regioni limitrofe. Sul fronte delle aree dismesse, mentre viene considerata, in particolare da Confindustria, come un’opportunità il riutilizzo delle aree industriali dismesse e la razionalizzazione delle aree produttive in uso, il rischio è quello di dovere gestire da parte delle imprese, in caso di mancato recupero delle aree dismesse, complessi e costosi interventi di bonifica. Sul fronte pubblico le Associazioni lamentano una scarsa attenzione alla problematica della qualità degli agglomerati produttivi da parte degli enti pubblici e l’incertezza sulle procedure e sulle normative, anche se l’introduzione (ancora in pochi Comuni, con funzioni di servizio anche per altri Comuni in convenzione) delle procedure SUAP (Sportello Unico Per le Attività Produttive) ha in parte accelerato i tempi complessivi. Il referente tecnico del Comune di Orvieto vede come opportunità la costruzione di un ambito produttivo a forte qualità ambientale sia per quantità che per qualità dei beni, mentre segnala come punto di forza i “corridoi ecologici” rappresentati dai corsi d’acqua e dalla vegetazione ripariale; sono invece punti di debolezza la scarsa attenzione alla infrastrutture (strade, verde, parcheggi), lo scarso equipaggiamento vegetale, la saturazione di tutti gli spazi. Box n.1

SWOT ANALISIS (Strength, Weaknesses, Opportunities,Threats ) La SWOT Analisis è uno dei metodi di analisi, di tipo partecipativo, utilizzati solitamente nelle fasi preparatorie di un processo di indagine, indirizzato verso stakeholders individuati quali soggetti potenzialmente interessati da una determinata azione o progetto. L’analisi SWOT è utilizzata per individuare punti di forza (Strengths) e di debolezza (Weaknesses) interni ad un sistema rispetto alle opportunità (opportunities) e minacce (Threats) provenienti dall’esterno. La SWOT può esser utilizzata sia per la restituzione di un quadro generale di analisi sia come punto di partenza per poter efficacemente indirizzare la soluzione di un determinato problema. Nel caso delle aree produttive, attraverso la “matrice” SWOT si sono indagate le seguenti tematiche:

DIFFUSIONE E LOCALIZZAZIONE Punti di discussione: la diffusione e localizzazione attuale delle aree produttive risponde alle esigenze delle imprese? Gli imprenditori sono soddisfatti della collocazione territoriale, della infrastrutturazione, dei servizi alle imprese? Quanto incide o appare problematica la frammentazione delle aree produttive? Quanto la costituzione e conseguente gestione delle aree produttive da parte dei Consorzi per le aree industriali ha attivamente favorito le politiche di localizzazione delle imprese? (per la provincia di Terni). La costituzione di Consorzi per le aree industriali può favorire le politiche di localizzazione delle imprese? (per la provincia di Perugia)

PROCESSO DI GESTIONE Punti di discussione: chi gestisce le aree industriali? (Comune, Consorzio, Associazione di enti, altro). Con quali strumenti di pianificazione e programmazione vengono gestite? Dal processo di gestione quali indicazioni emergono per la programmazione? Quali indicazioni per migliorare la gestione?

QUALITA’ Punti di discussione: Quali sono le principali carenze riscontrate (dal punto di vista ambientale, dell’organizzazione, etc.)? Quali azioni sono in corso per migliorare la qualità delle aree produttive? Quali azioni sarebbero auspicabili?

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Box n.2 TNS Consorzio - Sviluppo Aree ed Iniziative Industriali TNS Consorzio è il primo a nascere, correlato al Contratto d’area (1997-1998) per i territori dei Comuni di Terni, Narni e Spoleto (Comuni Obiettivo 2 in decrescita industriale). Il principale obiettivo del Consorzio è la gestione della aree produttive comunali; la struttura consortile è di tipo pubblico, ma con un’ottica più imprenditoriale, agile e incisiva. I primi interventi sono stati soprattutto volti alla messa a disposizione per le imprese di aree ben attrezzate. La volontà politica della Giunta Regionale di allora, e di quelle a seguire, è stata pertanto quella di vedere nel Consorzio una struttura adatta a gestire aree industriali “concentrate” e non disperse. Il primo intervento realizzato è stato quello dell’area Industriale di San Liberato, a Narni, individuata dalla programmazione regionale, che si è rivelata una scelta adeguata: i lotti sono stati tutti assegnati a imprese di qualità; in questo intervento il Consorzio ha favorito la nascita di un consorzio con le imprese insediate per la gestione dell’area, primo esempio nella regione. L’area è ad alta qualità in quanto ci sono impianti di videosorveglianza, portineria comune, una cabina elettrica ad alta tensione per una migliore fornitura di energia elettrica pulita. Il secondo intervento è stato la realizzazione dell’area industriale di Nera Montoro su cui sono in fase di start-up iniziative produttive di grande pregio. A questi primi interventi è seguita la realizzazione del Centro servizi di Maratta, centro di sevizi per le imprese ed incubatore per micro imprese, con mensa aziendale; il progetto complessivo è ora da sviluppare a seguito del prossimo trasferimento della sede Universitaria che ha occupato gran parte degli spazi utilizzabili e la riqualificazione dell’area ex Basell-ENICHEM, con interventi di bonifica (certificata) e recupero delle strutture, ora assegnate alla Novamont. Altri interventi hanno riguardato i Comuni di Spoleto e Terni (Area Maratta Ovest, inserita all’interno del PRUSST e area Maratta Est, interventi regolati da convenzione su mandato del Comune), la ristrutturazione di un capannone locato all’Ansaldo. Si evidenzia che il Consorzio si attiva per aree industriali e non per aree commerciali, anche se questa è una tendenza in atto (rifunzionalizzazione di aree da produttive a commerciali) Anche se il Consorzio a livello programmatico non ha ancora pienamente inciso, la nuova impostazione del modo di realizzare ed attrezzare aree produttive in demanio consortile, permette una facilitazione nelle acquisizioni e nell’attrezzamento delle stesse, e risulta la maniera più corretta di programmazione da parte dei Soci (nel caso di TNS Consorzio i Comuni di Terni, Narni e Spoleto, la Provincia di Terni e Sviluppumbria). Lo strumento del bando è fondamentale per la riqualificazione delle aree dismesse. In tal senso il Consorzio sta lavorando per l’area ex Bosco, area che è di supporto per la futura base logistica in realizzazione, per la quale sta ricevendo manifestazioni di interesse. Consorzio Crescendo, per lo sviluppo delle aree produttive dei comuni dell’orvietano e dell’amerino. L’attività del Consorzio (www.consorziocrescendo.it) si è molto sviluppata nel corso degli anni: dai primi 5 comuni (Orvieto, Baschi, Castel Viscardo, Fabro, Allerona) agli attuali 19, che comprendono i comuni del comprensorio orvietano e dell’amerino. Del Consorzio fa inoltre parte Sviluppumbria, la Comunità Montana Trasimeno, Orvietano, Amerino, Narnese e la Provincia di Terni. Il consiglio di Amministrazione è formato da 5 membri. L’attività del Consorzio è nella logica di razionalizzazione degli interventi propria dell’area vasta (PTCP), accrescendo il valore della partecipazione. Per tutte le attività (acquisizione, progettazione, realizzazione) il Consorzio attiva finanziamenti con istituti di credito, sostenendo quindi oneri per anticipare le spese realizzative. Il Consorzio è pertanto un strumento molto utile ai Comuni, che non impegnano il loro bilancio per la realizzazione delle aree produttive, ma trasferiscono solamente una modesta quota pro capite. Un limite riscontato nell’attuale regime, è che solo il Comune in cui viene localizzato l’intervento percepisce ICI, IRAP ed oneri di urbanizzazione, a fronte delle spese per la gestione ex post delle infrastrutture. Le attività svolte, attraverso convenzioni con i Comuni, sono state principalmente volte: a) alla acquisizione ed infrastrutturazione di nuove aree industriali, seguendo l’intero percorso progettuale e realizzativi, restituendo al Comune interessato dall’intervento le infrastrutture per la gestione, mentre il Consorzio trattiene i lotti che sono successivamente assegnati alle singole imprese. Di questa attività già svolta sono esempio la nuova area produttiva di Baschi, completamente realizzata ed assegnata, l’area produttiva localizzata presso il casello di Fabro (che ha usufruito dei finanziamenti di cui alla misura 1.1 del DOCUP 200-2006), collaudata nel 2008 di un’estensione complessiva di 9 ha di cui 5ha per 22 lotti e 4ha a standard (Rc 0,5 e If 2 mc/mq). Per quest’ultima area si è concluso il 31 luglio 2009 il bando di assegnazione dei lotti, di questi 8 sono già stati assegnati. Relativamente alle aree produttive localizzate nei Comuni più recentemente entrati nel Consorzio, è in conclusione il 2 ̂stralcio attuativo dell’ area in loc “La Fornace” ad Amelia ed una nuova area produttiva a Montecchio di 2 ha (area AIP finanziata con fondi DOCUP), mentre sono in programmazione altri interventi a Castel Viscardo, Fabro ed Orvieto;

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b) alla realizzazione di servizi alle imprese, quali il centro servizi di Castel Viscardo: c) alla riqualificazione e bonifica di siti industriali dimessi, tra cui è già stata realizzata la riqualificazione e riassegnazione dell’area ex Lebole a Fontanelle di Bardano. In generale le aree vengono rese disponibili per le imprese, comprendendo anche aziende edili e società immobiliari (per la fase di start up). Le convenzioni stipulate con le imprese assegnatarie prevedono che entro 48 mesi sui lotti assegnati vengano realizzati i manufatti per ospitare i settori merceologici previsti dalle N.T.A. dei singoli PRG comunali. Vengono generalmente escluse le attività di deposito e logistiche; solo in alcuni casi tale criterio viene derogato per “far cassa” e chiudere i debiti contratti con le banche e/o le società finanziarie. Inoltre l’attività del Consorzio si è indirizzata a colmare il divario sull’infrastrutturazione per telecomunicazioni (digital divided) nei Comuni senza ADSL. Sono stai installati segnali wireless nell’area di Baschi e nell’area ex Lebole (attingendo ai finanziamenti della Misura 1.1) mentre su 14 Comuni è stata attivata una rete wireless pubblica, attualmente in completamento sui restanti 5 e nelle frazioni. La stessa rete è stata attivata ad Orvieto per gli eventi di Umbria Jazz. L’operazione è del tipo “geo marketing”, anche se non consente immediati riscontri di ritorno. Da ultimo il Consorzio ha attivato in 5 Comuni un bando per l’utilizzo dell’energia da fonte rinnovabile (fotovoltaico) per interventi in conto energia sia su edifici scolastici sia su un manufatto industriale in project financing (“affitto” del tetto per 6.000 mq. di superficie). Per questi ultimi interventi un problema deriva dalla scadenza del Consorzio (anno 2020), che crea problemi per i prossimi interventi, in particolare per l’ammortamento degli impianti fotovoltaici. La gestione delle aree produttive nei Comuni della provincia di Perugia Il tema della diffusione e della localizzazione delle aree, unitamente al tema della qualità delle aree stesse, ha dato luogo a spunti degni di interesse, con ampie convergenze di vedute tra le realtà considerate. La distribuzione del tessuto è anzitutto valutata in termini complessivamente positivi dai referenti dei Comuni individuati come casi di studio, per i quali l’obiettivo fondamentale è stato quello di garantire una dotazione di zone produttive secondo un principio di razionalizzazione delle realtà già costituite e di previsione di ulteriori agglomerati produttivi in ampliamento di quelli esistenti. Le tre amministrazioni comunali sottolineano come anche la frammentazione delle aree, già evidenziatasi negli strumenti urbanistici degli anni Settanta, non determini oggi situazioni di forte problematicità in ordine ai possibili conflitti con altre funzioni urbane. Non è possibile asserire altrettanto, tuttavia, in merito agli impatti negativi che questa genera nei confronti del paesaggio rurale e, talvolta, anche del paesaggio storico, come sottolineato dai referenti del Comune di Perugia. Ad un esame dei fattori qualitativi delle aree, sono ancora le caratteristiche infrastrutturali ed organizzative ad essere individuate tra i più evidenti punti di debolezza presso le tre amministrazioni comunali coinvolte nell’approfondimento, sebbene alcuni interventi in corso di realizzazione vengano inquadrati come opportunità: ci si riferisce in primo luogo alla realizzazione della rete di cablaggio, unanimemente considerata imprescindibile per l’incremento dei livelli di competitività delle imprese, ed inoltre a progetti volti alla riqualificazione della viabilità, anche mediante la dotazione di piste ciclabili, e al risparmio energetico mediante l’uso delle energie rinnovabili. Si richiamano, in proposito, le iniziative del Comune di Perugia per gli agglomerati S. Andrea delle Fratte e Molinaccio, del Comune di Foligno per

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l’agglomerato Paciana, del Comune di Città di Castello per gli agglomerati Riosecco, Zona Industriale Nord, Cerbara. Emerge, in particolare, il recentissimo intervento di cablaggio97 e di adeguamento delle reti (acqua, illuminazione metano) che ha interessato la zona industriale Nord di Città di Castello, finalizzato a mantenere nella sede storica e simbolica gli insediamenti e le unità produttive. In merito alla qualità delle aree e agli interventi per incrementarne i livelli, i Comuni di Foligno e Città di Castello hanno ricordato le loro recenti iniziative, tra cui vanno ricordate: per Foligno, la partecipazione al bando regionale di cui all’Azione 1.1.2 del Docup Ob.2 2000-2006 (Avviso per il finanziamento di studi di prefattibilità redatti da Enti locali e loro forme associate finalizzati agli interventi di riqualificazione delle aree produttive, approvato con Determinazione Dirigenziale 16 luglio 2003, n. 6503); per Città di Castello, la partecipazione al bando relativo ai Contratti di Quartiere II, che ha coinvolto una zona del centro storico in cui il polo dello sviluppo urbano è rappresentato dalla riconversione del sito produttivo dismesso dell’ex Fattoria autonoma tabacchi, al fine di recuperare e riqualificare spazi, infrastrutture ed immobili appartenuti alla storia della città. Passando ad esaminare gli aspetti più propriamente gestionali, si osserva che nel contesto della provincia di Perugia la gestione delle aree produttive vede tuttora la netta prevalenza di modelli tradizionali, riconducibili al ruolo preminente del Comune quale attore principale del processo insediativo delle attività economiche, attuato mediante la consueta strumentazione urbanistica. Ci si riferisce, ovviamente, al piano regolatore generale, oggi regolamentato dalla L.R. 11/2005, ai piani attuativi di iniziativa pubblica che trovano il loro presupposto nella legislazione nazionale inerente ai PIP (Piani per Insediamenti Produttivi) e ai piani attuativi di iniziativa privata, di cui il piano di lottizzazione rappresenta l’applicazione più diffusa. Nelle tre realtà oggetto di approfondimento, la formazione dei PIP ai sensi della L. 865/1971 è infatti risultata essere la modalità più consueta e diffusa per promuovere l’attuazione delle aree produttive, ed è concordemente vista come un punto di forza. Il Comune di Città di Castello, in particolare, sottolinea l’ampio ricorso a tali strumenti attuativi per favorire l’utenza e calmierare i costi delle aree. Nell’ultimo decennio questa impostazione ha in ogni caso subito le evoluzioni connesse all’istituzione di appositi “sportelli” (SUAP), in base alle disposizioni introdotte dal D.Lgs. 112/199898 e dal DPR 447/1998 come modificato dal DPR

97 Nell’ambito del progetto regionale di cablaggio che correrà lungo la dorsale della FCU, sono state predisposte le sottocondotte per il passaggio delle fibre ottiche dal centro storico fino al Centro servizi, alla base logistica fino alla zona dell’ospedale e alla Cittadella dell’emergenza. 98 Decreto Legislativo 31 marzo 1998, n. 112 “Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59”, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 92 del 21 aprile 1998 – Supplemento Ordinario n. 77.

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440/200099, che prevedono “… uno sportello unico per le attività produttive, al quale gli interessati si rivolgono per tutti gli adempimenti previsti dai procedimenti …” Nel 2000 il Comune di Perugia, in attuazione delle norme sopracitate, ha istituito lo Sportello Unico per le Attività Produttive, ufficio a cui si rivolgono le imprese interessate per possibili insediamenti, come previsto dal D.Lgs. 447/1998, sia in riferimento ai procedimenti semplificati, “di cui all’art. 4” per i nuovi insediamenti e gli ampliamenti di quelli esistenti, sia per le procedure di variante al P.R.G “di cui all’art. 5”. Il SUAP gestisce quindi l’intero procedimento per le imprese, con l’attivazione di endo-procedimenti finalizzati all’ottenimento dell’atto unico, comprensivo delle varie autorizzazioni (permesso di costruire, eventuale licenza commerciale, etc.), con conseguente vantaggio economico e gestionale dell’impresa. La Deliberazione del Consiglio Comunale n. 69 del 21 aprile 2008, che integra e sostituisce precedenti deliberazioni quali le DCC nn. 71/2004, 199/2005, 230/2006, 15/2007, esprime la volontà dell’Amministrazione di andare incontro alle esigenze delle imprese, nel rispetto dell’interesse pubblico, stabilendo l’ammissibilità di procedure di variante ai sensi dell’art. 5 DPR 447/98 per l’ampliamento di impianti produttivi esistenti ed attivi al momento della presentazione dell’istanza, entro determinati limiti e condizioni. Nel comune di Perugia i casi di gestione consortile risultano limitati, nel tempo, alla esclusiva attuazione delle opere di urbanizzazione dei comparti produttivi, e solitamente esauriscono la loro funzione al momento dell’ultimazione delle opere stesse e degli obblighi convenzionali. Analogamente, Foligno gestisce le aree produttive del suo territorio attraverso lo Sportello Unico dell’Edilizia integrato con le procedure edilizie del SUAP, che provvede alla valutazione integrata dei vari aspetti dell’attività imprenditoriale. Lo Sportello offre peraltro un servizio di informazione dedicato alla promozione dell’imprenditoria giovanile ed un’attività di marketing territoriale. Il Comune di Città di Castello, nell’ambito del servizio SUAP-PIP istituito con Deliberazione del Consiglio Comunale n. 277 del 27 maggio 1999, ha istituito un Osservatorio delle Aree Produttive mirato al raggiungimento di molteplici obiettivi: programmazione urbanistica, gestione delle risorse (aree e contenitori), marketing del territorio, ambiente (risparmio in termini di aree), occupazione e risorse umane. L’Osservatorio si avvale di un sistema informativo territoriale dedicato, costituito dalle informazioni relative ai lotti industriali e alle attività presenti, che progressivamente implementato (al momento è stato inserita solo l’area industriale Cerbara) consentirà il costante monitoraggio delle variazioni che avvengono nelle aree produttive, quindi la

99 D.P.R. 20 ottobre 1998, n. 447 come modificato dal D.P.R. 7 dicembre 2000, n. 440 "Regolamento recante norme di semplificazione dei procedimenti di autorizzazione per la realizzazione, l'ampliamento, la ristrutturazione e la riconversione di impianti produttivi, per l'esecuzione di opere interne ai fabbricati, nonché per la determinazione delle aree destinate agli insediamenti produttivi, a norma dell'articolo 20, comma 8, della legge 15 marzo 1997, n. 59."

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comprensione immediata delle potenzialità, in modo da orientare la programmazione dello sviluppo e la pianificazione degli interventi. Dallo stesso Ente, viene appunto sottolineato come minaccia il difficile controllo delle dinamiche evolutive delle aziende, che si intende contrastare con gli strumenti di cui sopra, volti a favorire un’ulteriore opportunità, ravvisata nel censimento puntuale dei contenitori dismessi ai fini dell’ottimizzazione dell’offerta. Ulteriori, significativi orientamenti per la gestione delle aree produttive, scaturiscono dagli strumenti di pianificazione strategica di cui si sono dotate Perugia e Foligno; in entrambi i casi, il tema delle aree produttive è entrato a pieno titolo negli indirizzi programmatici di queste città, che fondano la propria idea di sviluppo su una governance condivisa dalle rispettive comunità. Nel Piano Strategico “Perugia – Europa 2003-2013”, la linea strategica “Potenziare imprenditorialità, innovazione e internazionalizzazione” è rivolta ad un aumento della competitività delle imprese e dell’attrattività del territorio. L’approccio strategico è riconducibile alla volontà di creare sinergie fra ambiti diversi: politiche economiche, urbanistiche, trasportistiche, culturali, mentre nell’ambito dell’Obiettivo 2.2 “Accrescere la capacità competitiva e l’innovazione” le politiche più propriamente economiche sono orientate a individuare interventi finalizzati allo sviluppo di funzioni in relazione alla presenza universitaria, nonché la qualificazione delle aree industriali (Azione 2.2.4). Un intervento in quest’ultima direzione e’ stato, ad esempio, effettuato con la costituzione del Consorzio S. Andrea delle Fratte, con il quale il comune di Perugia ha agevolato la costituzione di un soggetto partecipato dagli imprenditori e successivamente finanziato delle specifiche azioni di riqualificazione dell’area di S. Andrea delle Fratte sulla base delle indicazioni degli imprenditori e di un apposito studio. Per quanto attiene agli aspetti gestionali delle aree produttive, e del sistema produttivo locale in genere, Foligno ha impostato una specifica programmazione nell’ambito del Piano Strategico della città e del suo territorio, denominato “Foligno città delle opportunità: 2008-2015”. Il Piano, siglato il 4 luglio 2008, contiene una linea strategica mirata a “Potenziare l’imprenditorialità, le opportunità di lavoro e l’integrazione territoriale”, articolata in una serie di obiettivi, tra cui si evidenziano: l’Obiettivo 2.1 “Sviluppare il potenziale produttivo”, l’Obiettivo 2.2 “Favorire l’integrazione territoriale e l’internazionalizzazione delle imprese” e l’Obiettivo 2.5 “Promuovere i servizi alle imprese e la semplificazione amministrativa”. Dal quadro programmatico delineato dal Piano Strategico di Foligno emergono interessanti elementi di governance che sottolineano il ruolo dell’Ente pubblico nelle politiche e nelle decisioni orientate all’integrazione dei sistemi delle relazioni territoriali e allo sviluppo economico del territorio nei settori produttivi dell’industria, della nuova agricoltura, dei servizi, del commercio e del turismo.

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L’obiettivo 2.1 “Sviluppare il potenziale produttivo” contiene un progetto-bandiera100 che tende a favorire la trasferibilità nel contesto locale delle migliori pratiche ed esperienze competitive di altri sistemi produttivi e le azioni tese a garantire la disponibilità di nuove aree per gli insediamenti produttivi, ipotizzando anche un assetto intercomunale (area industriale di San Giacomo di Spoleto), sviluppando altresì integrazioni con le aree produttive della Valle Umbra da Bastia fino a Spoleto, aumentando la dotazione di servizi per lo sviluppo delle stesse. L'obiettivo, inoltre, prevede l'azione di riqualificazione delle aree e dei siti industriali dismessi o sottoutilizzati per insediamenti produttivi presso La Paciana con il potenziamento delle aree B.I.C. Umbria, Sant Eraclio, Ponte Nuovo, San Giovanni Profiamma, Moano, il recupero dei siti industriali dismessi o sottoutilizzati per finalità produttive come l'ex fornace Briziarelli e l'area Leader, prevista dal “progetto quadrilatero”, a ridosso dell’aeroporto con la localizzazione di insediamenti produttivi del comparto aeronautico o di servizi per la logistica. In merito al potenziamento dell’integrazione territoriale e dell’internazionalizzazione delle imprese, oggetto dell’Obiettivo 2.2 del Piano Strategico, emerge il proposito dell’Amministrazione Comunale di portare nuovo vigore ai patti territoriali esistenti o avviati nell’area e di definire dei nuovi partenariati, anche interregionali, al fine di riprendere percorsi di aggregazione territoriale, integrazione dei sistemi produttivi e dei servizi, massimizzando la visibilità del tessuto produttivo e dei prodotti dell’area. In tale direzione si collocano la messa a sistema ed il potenziamento delle relazioni interregionali sull’asse Tirreno-Adriatico con il collegamento e l’integrazione dei due porti di Ancona e di Civitavecchia (progetto Quadrilatero), considerati presupposto essenziale per lo sviluppo di attività di scambio e di cooperazione con i paesi della penisola balcanica. Il contributo degli attori territoriali I risultati delle interviste effettuate ai rappresentanti dei principali attori territoriali consentono di ottenere una visione più ampia degli aspetti gestionali delle aree produttive, anche sulla base delle interessanti considerazioni emerse in merito ai temi della diffusione, della localizzazione e della qualità. I contributi apportati dalle associazioni di categoria, infatti, hanno preso in considerazione l’argomento nel suo complesso, sottolineando l’importanza di elementi complementari a quelli evidenziati dagli enti locali. In merito alla diffusione e alla localizzazione delle aree, la maggior parte delle associazioni vede in questo fattore un elemento di debolezza, affermando che gli assetti configurati non rispondono alle attuali esigenze delle imprese, con varie

100 Per la loro valenza simbolica, nonché per la loro portata economica, territoriale e culturale, i progetti-bandiera sviluppano più direttamente la visione indicata e quindi trainano il Piano nel suo complesso, recando benefici significativi per l’intera area e per un arco temporale considerevole.

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motivazioni. Sotto il profilo localizzativo, da CNA Umbria viene sottolineata l’assenza di un’efficace programmazione unitaria e condivisa, a fronte di una forte spinta delle amministrazioni locali a mantenere le imprese nei rispettivi territori, per motivi prevalentemente connessi all’occupazione; ciò ha determinato un’eccessiva frammentazione delle aree, che peraltro non sono oggetto di regolare manutenzione. L’inadeguatezza dei fattori localizzativi è rimarcata anche da Sviluppumbria, che, nell’ambito della sua azione di marketing territoriale, sottolinea come spesso accada che il matching domanda - offerta di insediamenti produttivi si scontri con situazioni territoriali connotate da una scarsa dotazione infrastrutturale delle aree, solo parzialmente compensata dai risultati della Misura 1.1 del Docup 2000-2006. Da Confapi Umbria viene segnalata l’ampiezza dei margini di miglioramento dei fattori localizzativi, sia in termini di politiche che di interventi, nonché la generalizzata saturazione delle aree produttive, a fronte dei flussi costanti alimentati dalle domande di insediamento. Sia Confindustria Perugia che CNA si sono soffermate sulla problematica dei costi delle aree, con particolare riferimento a quelle oggetto di trattativa privata, che hanno ormai raggiunto valori tali da scoraggiare l’insediamento di nuove attività. Tale fattore, secondo Confindustria, deve essere attentamente considerato nella valutazione dell’offerta delle aree, che se riferita al solo parametro delle superfici disponibili appare limitata, ma che può essere considerata addirittura sovrabbondante all’esame dei costi di insediamento. Confartigianato riconosce invece nella diffusione delle aree un punto di forza, evidenziando come elementi di debolezza la mancanza di adeguate linee di comunicazione con le altre regioni e la scarsa infrastrutturazione telematica. Sia Confartigianato che Confapi considerano, tra le minacce, gli impatti negativi sulla competitività delle imprese connessi agli assetti insediativi. La frammentazione viene considerata quale elemento di forte criticità sia in quanto impedisce economie di scala che possono giustificare la creazione di servizi comuni (Confindustria e Sviluppumbria), sia perché non consente il raggiungimento di un’adeguata massa critica e quindi non permette di ottimizzare la gestione e la riqualificazione delle aree (Confapi). Quali opportunità vengono invece segnalate, da Confapi, la possibilità di mettere a sistema le aree produttive di comuni limitrofi ed il consistente numero di siti dismessi da riqualificare, fattore, quest’ultimo, sottolineato da Sviluppumbria. Le associazioni si sono poi particolarmente soffermate sulle condizioni di criticità infrastrutturale e tecnologica in cui versano le aree produttive del territorio provinciale, in termini di viabilità esterna ed interna, segnaletica, reti tecnologiche e scarsità di servizi; tale elemento di debolezza viene particolarmente evidenziato da Confindustria. Da CNA è stata richiamata l’importanza della infrastrutturazione territoriale, peraltro oggetto di una specifica iniziativa messa in campo dalla Regione Umbria con la Misura 1.1 del Docup 2000-2006 e del marketing territoriale, anch’esso fortemente connesso alla domanda insediativa e oggetto della Misura 1.2 del Docup 2000-2006.

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Con riferimento ai casi di studio (Perugia, Foligno, Città di Castello), Confindustria ha rimarcato la necessità di un deciso incremento della dotazione infrastrutturale delle aree e dell’aumento del loro livello qualitativo, evitando di ripetere errori commessi nell’organizzazione funzionale di un tessuto che presenta tuttora forti criticità. Per quanto concerne il processo gestionale delle aree produttive, le associazioni di categoria prendono atto della gestione diretta delle aree stesse da parte dei Comuni, del tutto prevalente su esperienze consortili circoscritte, a volte limitate a finalità ben precise come il Consorzio di imprese creato per la realizzazione di opere infrastrutturali nell’agglomerato di S. Andrea delle Fratte. CNA, in proposito, sottolinea come anche nelle migliori situazioni i tempi di programmazione e realizzazione degli interventi necessari siano eccessivi rispetto alle dinamiche economiche e alle esigenze delle imprese; tale punto di debolezza è pienamente condiviso da Confapi, che peraltro considera tra le minacce l’eccessiva farraginosità delle procedure burocratiche. Sviluppumbria individua inoltre come minaccia l’export localizzativo delle imprese. Una migliore integrazione fra programmi comunitari, nazionali e regionali da un lato, e programmi locali dall’altro, viene auspicata da Confapi per incrementare l’efficienza strutturale e le convenienze localizzative delle aree produttive; a tal fine, l’associazione indica l’opportunità di una programmazione di interventi su scala intercomunale, risultando concorde con Confartigianato nel prendere atto che la gestione consortile inizia a mostrare positivi segnali di efficienza. La creazione di consorzi viene considerata un’opportunità anche da Confindustria, ma a condizione che tali soggetti siano finalizzati al raggiungimento di obiettivi specifici, configurandosi come consorzi di scopo e non come strutture rivolte ad una gestione “integrale” dei processi. In merito agli aspetti qualitativi delle aree produttive, i più consistenti punti di debolezza si concentrano, sia per Sviluppumbria che per Confindustria, Confapi e CNA, nelle inadeguate condizioni delle infrastrutture e delle reti tecnologiche. CNA sottolinea peraltro che sarebbe stata più opportuna la scelta di realizzare un numero più limitato di aree produttive “di qualità” (per le quali sarebbero state comunque impiegate minori risorse di quelle complessivamente utilizzate), che avrebbero consentito l’insediamento di nuclei significativi di imprese in un habitat più consono al miglioramento della competitività. La rifunzionalizzazione dei siti dismessi rappresenta un’opportunità sia per Sviluppumbria che per Confapi, che sottolinea, in proposito, anche la promozione di progetti eco-compatibili, unitamente alle opportunità rappresentate dalla realizzazione delle piattaforme logistiche nei comuni di Foligno e Città di Csatello, la cui importanza viene confermata da Confindustria. L’incremento dei livelli qualitativi nelle aree libere è considerato un punto di forza da Sviluppumbria, che al contempo evidenzia gli apprezzabili risultati ottenuti nell’ambito della Misura 1.1 del Docup Ob. 2 (2000-2006), in merito alla riqualificazione delle aree produttive. La concertazione tra istituzioni e associazioni risulta in ogni caso, secondo

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Confapi, molto attiva; tale fattore è considerato, dall’associazione, un punto di forza, tra i quali Confartigianato inserisce lo sviluppo di sistemi comuni di recupero energetico, nonché la costituzione di consorzi. L’esperienza dei Consorzi nella provincia di Perugia Seppure meno consolidate di quelle presenti nel Ternano, non mancano sperimentazioni o comunque previsioni programmatiche che riflettono l’esigenza di nuovi modelli gestionali in grado di gestire situazioni complesse, a volte riferite a contesti territoriali sovracomunali. Oltre al Consorzio TNS, di cui si dà più approfondita illustrazione nel paragrafo relativo all’ambito provinciale di Terni e che interessa il Perugino limitatamente a Spoleto, emergono esperienze di gestione innovativa anche nell’ambito della provincia di Perugia, fra cui quelle relative all’istituzione dei Consorzi “Flaminia Vetus” e “Valnestore Sviluppo”. Costituito dai Comuni di Massa Martana, Giano dell’Umbria e da Sviluppumbria, il Consorzio “Flaminia Vetus” nasce per la la riqualificazione ed il riuso di un’area industriale dismessa un tempo sede di una fornace di laterizi, la ex Fornace Scarca, in frazione Villa S. Faustino (località Acqua Rossa) nel Comune di Massa Martana101. L’area occupa una posizione di particolare interesse strategico, in quanto decentrata rispetto al centro abitato di Massa Martana, ma ben collegata ad esso ed all’area industriale adiacente, anche alla luce del previsto potenziamento dell’esistente connessione viaria, nonché limitrofa alla S.G.C. E 45 (svincolo Massa Martana) ed alla Ferrovia Centrale Umbra (stazione Massa Martana Scalo). Il progetto prevede la riqualificazione ed il riuso di tale area mediante la realizzazione di un polo produttivo destinato a piccole e medie imprese a carattere industriale-artigianale. L’idea alla base dell’intervento progettato è quella di realizzare un insediamento produttivo con una struttura di tipo consorziale, caratterizzato da due edifici industriali che corrono parallelamente in posizione baricentrica rispetto all’area divisi trasversalmente al loro interno in varie unità produttive (max sei per ognuno dei due edifici); il bando prevede inoltre un numero variabile di unità produttive in funzione dei lotti acquistati dalle aziende. Sono attualmente in corso le opere di urbanizzazione dell’area, anche grazie al sostegno delle risorse relative alla Misura 1.1 del Docup Ob. 2 2000-2006. Le aziende assegnatarie sono risultate la Archimede Solar Energy102 ed il Consorzio AMU103, entrambi soggetti impegnati nei settori delle tecnologie innovative e delle energie rinnovabili.

101 Tratto dalla Relazione del Bando per l’assegnazione delle aree, pubblicata in Internet. 102 L’azienda produce, su licenza Enea, tubi ricevitori ad alta efficienza per centrali solari termodinamiche. Gli impianti solari termodinamici a sali fusi producono energia senza emissioni né inquinamento, non utilizzano materiali tossici o pericolosi; in particolare il fluido vettore è un comune fertilizzante già ampiamente utilizzato in agricoltura. La tecnologia del solare termodinamico ad alta temperatura è

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Il Consorzio “Valnestore Sviluppo” è stato invece creato dai Comuni di Panicale, Piegaro, dalla Comunità Montana Trasimeno - Medio Tevere e dalla Provincia di Perugia, per il riutilizzo dell’estesa area di Pietrafitta, nel territorio comunale di Tavernelle, sede dell’ex Centrale ENEL. Anche in questo caso sono state attivate le risorse della Misura 1.1 del Docup Ob. 2 2000-2006 finalizzate alla “rifunzionalizzazione” dei siti produttivi dismessi. Le problematiche che il Consorzio si trova ad affrontare sono tuttavia molteplici, sia per la vastità dell’area, sia per la caratterizzazione tecnico-funzionale dei fabbricati che vi insistono, contenenti macchine per la produzione dell’energia elettrica, e dunque difficilmente riconvertibili per altri usi. Il sito, inoltre, presenta una situazione logistica sfavorevole, in quanto non è agevolmente raggiungibile attraverso i collegamenti stradali tra il capoluogo regionale e Città della Pieve; sotto questo profilo, l’area sembra essere rivolta all’esterno dell’Umbria, risultando più direttamente aggredibile dall’A1 (svincolo di Chiusi). Ringraziamenti: per Servizio Informatico/Informativo: geografico, ambientale e territoriale, Regione Umbria Arch. Ambra Ciarapica; Dott. Paolo Tamagnini; Dott.ssa Orietta Niciarelli; Sandra Togni per il Comune di Terni: Arch. Aldo Tarquini per il Comune di Orvieto: Arch. Rocco Olivadese per il Comune di Narni: Arch. Antonio Zitti per il Consorzio TNS: Dott. Massimo Tondi; Ing. Paolo Gentili per Sviluppumbria (sede di Terni) e Consorzio “Crescendo”: Dott. Luca Scorsolini per CNA Umbria (sede di Terni): Dott. Mauro Concezzi, Dott. Giulio Cesare Proietti per Confindustria Terni: Dott. Maurizio Cenci per il Comune di Perugia: Ing. Enrico Antinoro; Arch. Franco Marini; Arch. Domenico Mariani; Geom. Stefano Borghi; Geom. Siro Cecconi, Dott.ssa Pina Secci, Dott.ssa Maria Arras per il Comune di Foligno: Arch. Alfiero Moretti; Arch. Ivo Canfarini; Geom. Luca Piersanti; P.I. Pier Giorgio Metelli per il Comune di Città di Castello: Ing. Federico Calderini; Arch. Lucia Bonucci; Geom. Giovanni Pauselli per Sviluppumbria: Dott. Simone Peruzzi per Confindustria Perugia: Dott. Alessandro Castagnino per Confapi Perugia: Dott. Guido Perosino; Dott.ssa Daniela De Paolis per CNA Umbria (sede di Perugia): Dott. Paolo Arcelli; Dott. Alberto Cerquaglia per Confartigianato Perugia: Dott. Stelvio Gauzzi; Geom. Giuseppe Mariucci

modulare e può soddisfare esigenze di realizzazione di grandi centrali solari autonome (nell'ordine del Gigawatt), di integrazione con le centrali termoelettriche attualmente in esercizio. 103 Il Consorzio Produttori Acque Minerali Umbre (AMU) è il frutto di sinergie derivante dall'integrazione del settore primario, aziende agricole ed Enti Pubblici. Gli imprenditori agricoli consorziati, insieme ai Comuni di Acquasparta, Amelia, Avigliano Umbro, Massa Martana e San Gemini, intendono così dare seguito, arricchendola, alla secolare tradizione agricola che caratterizza la loro storia.

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Riferimenti bibliografici AA.VV. 2003 “Il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale”, Luglio, Urbanistica Quaderni n.38, anno IX. 2005 Il Piano Perugia – Europa 2003-2013 e il Patto per lo Sviluppo dell’Area, Febbraio,

Litograf Editor, Città di Castello 2008 Foligno città delle opportunità 2008-2015. Piano Strategico della città e del suo

territorio, Giugno. Agenzia Umbria Ricerche 2006 (a cura di Petrucci M.A., Uffreduzzi T.) “Aree dimesse e sviluppo locale nella Provincia di Terni”, AUR-Provincia di Terni. Agenzia Umbra Ricerche e Provincia di Terni 2003 “Manuale Tecnico di Ingegneria naturalistica della Provincia di Terni”. Bosi S. e Aino A. (a cura) 2005 “Rinascimento urbano. L’esperienza dei programmi complessi in Umbria”, Gennaio,

INU Edizioni S.r.l. IRRES 1997 Indagine sullo stato e le caratteristiche delle aree destinate ad insediamenti produttivi

dagli strumenti urbanistici comunali, materiale grigio. 2000 Aggiornamento dell’indagine IRRES sullo stato e le caratteristiche delle aree destinate

ad insediamenti produttivi, materiale grigio. 2001 Progetto indagine sulle localizzazioni industriali dell’Umbria, materiale grigio Provincia di Perugia 2002 Piano Territoriale di Coordinamento (Variante di adeguamento al PUT, approvata con

Deliberazione del Consiglio Provinciale 23 luglio, n. 59). Provincia di Terni 2009 Documento Preliminare Revisione del PTCP, sul sito della Provincia di Terni

www.provincia.terni.it Regione Umbria 2000 Piano Urbanistico Territoriale, approvato con L.R. 24 marzo, n. 27. 2008 Disegno Strategico Territoriale (DST) per lo sviluppo sostenibile, approvato con DGR 22

dicembre, n. 1903. 2008 Documento Strategico Territoriale, sul sito della Regione Umbria

www.regione.umbria.it Venti D. 2001 Gli strumenti per il controllo della sostenibilità nell’esperienza del PTCP di Terni” in

Ambiente e sviluppo sostenibile nei piani territoriali di Coordinamento di nuova generazione, Atti

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11 Seminario IAED International Association for Enviromental Design, Edizioni Papageno, Palermo.

2004 “Ecologia del paesaggio” in Terni, il nuovo PRG- Atti del Convegno di presentazione, Assessorato all’urbanistica del Comune di Terni, Maggio.

2007 D.“Aree dismesse e territorio” in AUR&S anno 4, n.8/2007, Agenzia Umbria Ricerche

2008 “Una concreata applicazione dell’ecologia del paesaggio all’ambito fluviale del Nera: il progetto Parco dei Laghi” in Il sistema del verde- Atti del Convegno Genova novembre 2006, Regione Liguria.

2008 Venti D. “Paesaggi raccontati e partecipati: l’esperienza della Provincia di Terni” in Riconquistare il Paesaggio. La Convenzione Europea del Paesaggio e Conservazione della biodiversità in Italia, (a cura di C.Teofoli, R.Clarino), Giugno, MIUR WWF, Roma.

Sezione IV

PROFILI SOCIALI

CARATTERI SOCIO-DEMOGRAFICI Luca Calzola Un sistema sociale è identificato primariamente1 dalla popolazione che lo compone, quindi l’andamento di quest’ultima rappresenta il primo essenziale strumento di misurazione del grado di salute del sistema stesso. Inoltre le modificazioni numeriche e strutturali della popolazione influenzano numerosi processi sociali ad essa collegati, che spaziano dallo sviluppo del mercato del lavoro e della ricchezza economica, al funzionamento dei principali apparati sociali (scolastico, previdenziale, sanitario, ecc…), ai meccanismi di regolazione della famiglia, tanto per citarne alcuni. Pertanto, per descrivere con crescente approfondimento un sistema sociale risulta necessario inglobare nell’analisi di esso anche le caratteristiche della popolazione e le sue dinamiche (Sgritta, 1994). Oltre a ciò, è noto che gli eventi individuali posti a fondamento della dinamica demografica (dalla riproduzione alla mobilità territoriale) sono a loro volta collocati all’interno di un sistema sociale con le sue relazioni sociali e modelli culturali di riferimento che ne prescrivono, vincolano o orientano il verificarsi (Gallino, 1994). In molti studi di carattere socio-economico sull’Umbria in rapporto alle altre regioni italiane si è spesso parlato dell’adeguamento della regione ad un profilo “medio”, lontano sia dalla dinamicità delle regioni del Nord, e spesso delle altre regioni del Centro, che dalla arretratezza di quelle meridionali (Aur, 2007), dove, all’interno di una ipotetica graduatoria del territorio italiano, emerge costantemente la figura di una regione come quella dell’ultima del Centro-Nord e della prima del Mezzogiorno. A contrasto con questa immagine, negli ultimi anni in Umbria il processo di crescita demografica ha avuto un andamento decisamente superiore a quello di quasi tutte le altre realtà regionali. Alla luce delle interazioni tra caratteristiche demografiche e sociali brevemente richiamate in premessa appare perciò interessante tentare di verificare se

1 Non si vuole ovviamente fare coincidere il concetto di popolazione, che costituisce un aggregato di unità elementari, con quello di società, che invece rappresenta l’aggregato delle unità più l’insieme delle relazioni, mediate culturalmente, che tra esse si instaurano.

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questa spinta demografica, soprattutto se tenderà ad assumere un carattere permanente, può contribuire a modificare alcune caratteristiche della società umbra. La recente e intensa crescita demografica in Umbria è stata alimentata dalla componente migratoria, sia interna che, soprattutto, estera. Il presente lavoro intende quindi concentrarsi sul dettaglio della dinamica demografica nelle regioni con particolare riferimento al peso della componente straniera e al ruolo dei fattori che alimentano la crescita di tale componente: migrazioni dall’estero (esogeni) piuttosto che maggiore fecondità delle donne straniere rispetto a quelle italiane (endogeni). Un altro interrogativo demografico connesso al precedente è quello relativo alle modifiche nella struttura per età della popolazione in conseguenza delle tendenze che si riscontrano nella dinamica demografica. Negli ultimi due decenni, l’allungamento della vita umana e delle condizioni di sopravvivenza in buona salute da un lato, e la progressiva riduzione della fecondità dall’altro, hanno contribuito ad aumentare, sia in termini assoluti che in rapporto al complesso della popolazione, il numero delle persone anziane. Tuttavia, negli ultimi anni, l’incremento della popolazione straniera unitamente ad una lieve ripresa della fecondità hanno contribuito ad attenuare gli effetti di invecchiamento della popolazione. Questo fenomeno è in Umbria particolarmente evidente, ma si manifesta anche in altre realtà regionali. In sintesi, l’idea di fondo che si intende sviluppare, e che si ritrova già ripresa recentemente in altri autori (Billari-Dalla Zanna, 2008), è che l’immigrazione intensa e veloce degli ultimi anni vada colta come un opportunità per un generale “rinvigorimento” della società, e che questa opportunità sia particolarmente importante da cogliere in una società come quella umbra percepita, non senza motivo, come “anziana” e “immobile”. La dinamica demografica dal 2001 al 2008 Alla fine del 2008 la popolazione residente in Italia ha superato l’ammontare di 60 milioni di unità. Rispetto all’ultimo censimento del 2001 si è registrata una crescita di oltre 3 milioni di abitanti, pari al 5,4%. Tale incremento è risultato il più rilevante tra quelli registrati negli ultimi 50 anni2. Se si focalizza l’osservazione dentro i confini della regione Umbria, si rileva una dinamica demografica che, in termini relativi, risulta ancora più accentuata. Sempre nel periodo dal 31 dicembre 2001 al 31 dicembre 2008, successivo all’ultima rilevazione censuaria3, un incremento di quasi 70 mila unità ha portato la popolazione residente in Umbria ha raggiungere un ammontare pari a 894 mila residenti (tab. 1).

2 Cfr. Istat (2009) 3 Come è noto, il l’ultimo censimento è stato effettuato con riferimento al 21 ottobre 2001 ed ha prodotto la determinazione di una nuova popolazione legale. Negli anni successivi al censimento, la popolazione viene calcolata sulla base delle risultanze anagrafiche (iscrizioni e cancellazioni) conteggiate a partire dalla

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Tab. 1 - Popolazione residente al 31 dicembre – Umbria e Italia – Anni 2001-2008 (valori assoluti e percentuali) 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

UMBRIA

Valori assoluti (x 1000) 826 834 848 859 868 873 884 894

N. Indice 2001=100 101,0 102,6 104,0 105,0 105,7 107,1 108,2

ITALIA

Valori assoluti (x 1000) 56.994 57.321 57.88858.46

258.75

259.13

1 59.619 60.045

N. Indice 2001=100 100,6 101,6 102,6 103,1 103,8 104,6 105,4 % Umbria su Italia 1,45 1,46 1,46 1,47 1,48 1,48 1,48 1,49

Fonte: elaborazioni da dati Istat disponibili su: http://demo.istat.it In termini relativi l’incremento risulta pari all’8,2%, cioè un terzo più elevato rispetto a quello medio nazionale. In Umbria, nei singoli intervalli annuali si sono registrate variazioni della popolazione costantemente superiori a quelle medie nazionali. In particolare, negli anni 2003-2004 e 2007 in cui vi sono state disposizioni normative che hanno contribuito ad incrementare la presenza straniera regolare, l’incremento della popolazione in Umbria è stato sempre superiore a quello medio nazionale. Grazie al maggiore tasso di crescita della popolazione regionale, il peso dell’Umbria sul complesso della popolazione residente è cresciuto dall’1,45% del 2001 all’1,49% del 2008. Nel confronto tra le singole regioni è il Lazio a far registrare il più elevato aumento relativo di residenti nel periodo 2001-2008 (+10,0%), mentre l’Umbria si colloca al 4° posto della classifica regionale, dopo Emilia-Romagna e Trentino-Alto Adige (graf 1). A parte il Lazio, che presenta una situazione sotto certi aspetti anomala e che verrà discussa successivamente, L’Umbria presenta un tasso di crescita della popolazione analogo a quello delle regioni del Nord Est e della Lombardia e maggiore a quello delle regioni limitrofe. All’estremo opposto della graduatoria si colloca l’insieme delle regioni meridionali e la Liguria che presentano tassi di crescita della popolazione residente estremamente contenuti (dalle 3 alle 4 volte più bassi di quello umbro) se non nulli o, anche, negativi.

data del censimento (quindi dalla popolazione legale). Al fine di disporre di intervalli annuali completi, nel presente lavoro si è preso come periodo iniziale di riferimento il 31 dicembre 2001.

DENTRO L’UMBRIA due588

Graf. 1 - Tasso di incremento 2008/2001 della popolazione residente complessivo e al netto delle rettifiche anagrafiche per regione (valori percentuali)

-2,00,02,04,06,08,0

10,0

Lazio

Emilia Rom

agna

Trentin

o Alto

Adig

e

UMBRIAVen

eto

Lomba

rdia

Marche

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'Aosta

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a Giul

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Liguria

Sarde

gna

Campa

niaSic

ilia

Calabri

aMoli

se

Basilica

taPug

lia

var 08/01 var 08/01 senza rettifiche

Fonte: elaborazioni da dati Istat disponibili su: http://demo.istat.it Gli incrementi della popolazione registrati a livello regionale vengono ridimensionati se si considerano al netto del contributo puramente contabile delle variazioni dovute a rettifiche anagrafiche post-censuarie che negli anni successivi al censimento hanno comportato il conteggio tra i residenti di alcune centinaia di migliaia di persone sfuggite alla rilevazione censuaria4. A livello nazionale, il tasso di incremento della popolazione residente al netto delle variazioni anagrafiche dovute a rettifiche post-censuarie risulta pari a 4,4%. In Umbria si passa da una crescita dell’8,2% ad una del 7,1%, sempre superiore rispetto a quella media nazionale. La posizione di primato del Lazio viene decisamente scalzata essendo essa una delle regioni in cui le rettifiche post-censuarie5 hanno maggiormente inciso a fare crescere la popolazione. Difatti al netto delle rettifiche anagrafiche post-censuarie, il tasso di crescita della popolazione di tale regione scende al 6,4%, valore inferiore a quello dell’Umbria. Sempre al netto di tali effetti contabili, la crescita della popolazione umbra diviene inferiore rispetto a

4 Il conteggio di queste persone nella popolazione residente negli anni successivi all’ultimo Censimento ha comportato un aumento solo “apparente” del numero degli abitanti, perché esse erano gia insediate nel territorio solo che non erano state coperte dalla rilevazione censuaria. Le rettifiche post-censuarie possono portare, ma ciò avviene in un numero di casi notevolmente inferiore, anche alla determinazione di individui conteggiati al Censimento, ma non aventi i requisiti per essere iscritti in anagrafe. In tale caso essi devono essere sottratti al calcolo della popolazione residente. 5 In una nota dell’Istat (2007) è stato precisato che la revisione anagrafica post-censuaria effettuata dal Comune di Roma ha portato, nel settembre 2006, alla determinazione di oltre 140 mila individui da conteggiare nel calcolo della popolazione residente.

AURAPPORTI: RES 2008-09 589

quella di Veneto e Lombardia, ma la posizione della regione resta all’interno del gruppo delle regioni a maggiore crescita della popolazione. A determinare l’incremento della popolazione umbra ha contribuito principalmente un forte saldo migratorio, per lo più di componente estera, ma con una presenza rilevante anche di trasferimenti di residenza interni; mentre la componente naturale gioca un ruolo negativo nella crescita della popolazione residente. Nel biennio 2007-2008 l’Umbria risulta la regione con il più elevato saldo migratorio estero (12,5 per mille), seguita dall’Emilia-Romagna che si attesta su un valore pari a 11,4 per mille. A livello nazionale il tasso di incremento migratorio estero risulta pari a 7,9 per mille. In tutte le regioni si riscontrano saldi migratori dall’estero positivi, ma con una differenza di livello marcata tra le regioni del Mezzogiorno, che hanno valori inferiori, rispetto a quelle del Nord e del Centro. Quasi tutte le regioni del Mezzogiorno hanno saldi migratori interni negativi a cui si contrappongo valori positivi per le regioni del Nord e del Centro. Tali dati testimoniano la presenza di un flusso di migrazioni interne che va dalle regioni del Sud verso le altre zone del Paese6. In Umbria anche il saldo migratorio interno è positivo e si attesta su un valore pari a 2,1 per mille. Il valore più elevato si ha in Emilia-Romagna (4,3 per mille), mentre altre regioni con una capacità attrattiva delle migrazioni interne superiore a quella Umbra risultano essere Marche e Friuli-Venezia Giulia, entrambe con un valore pari a 2,6 per mille (graf 2). In Umbria l’apporto negativo alla crescita della popolazione dato dal saldo naturale si concretizza in un tasso di incremento naturale pari a -2,0 per mille. Il valore negativo più elevato si ha in relazione alla Ligura (-5,6 per mille), mentre altre regioni con un saldo naturale inferiore a quello umbro risultano essere: Piemonte, Friuli-Venezia Giulia, Toscana e Molise. Quasi tutte le regioni del Paese mostrano saldi naturali negativi, costituiscono un’eccezione: Lombardia, Trentino-Alto Adige e Veneto nel Nord e Campania e Puglia nel Mezzogiorno. Se si considerano le variazioni intervenute nell’ultimo quinquennio nel tasso di incremento naturale da un lato e in quello migratorio (interno e estero) dall’altro, si osserva come le regioni si collochino in due gruppi nettamente distinti (graf 3). In tutte le regioni del Nord e del Centro (compreso l’Abruzzo) sia il saldo naturale che quello migratorio sono cresciuti nel tempo (ciò è mostrato dallo spostamento tra il 2003-2003 e il 2007-2008 verso destra e in alto della posizione delle regioni interessate sul quadrante le cui coordinate sono costituite dai tassi di incremento naturale e migratorio).

6 Una ripresa negli anni recenti dei trasferimenti di residenza lungo la direttrice Sud-Nord del Paese è messa in luce anche in Istat (2008). In particolare emerge che gli spostamenti più rilevanti si verificano da alcune regioni del Mezzogiorno (Campania, Puglia, Calabria e Sicilia) verso Lombardia e Emilia-Romagna. Anche l’Umbria è tra le regioni di attrazione, anche se con intensità inferiori, con flussi provenienti soprattutto da Campania, Calabria e Lazio.

DENTRO L’UMBRIA due590

Graf. 2 - Bilancio demografico della popolazione residente per regione – media 2007-2008 (valori per 1000 residenti)

-6,0

-1,0

4,0

9,0

14,0

Piemon

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gna

ITALIA

Saldo naturale Saldo migratorio interno Saldo migratorio estero Saldo altri motivi

Fonte: elaborazioni da dati Istat disponibili su: http://demo.istat.it Graf. 3 - Tasso di incremento naturale e migratorio per regione – Anni 2002-2003 e 2007-2008 (valori per mille abitanti)

CamPugSicCal

TAALaz

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0,00

5,00

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-8,00 -6,00 -4,00 -2,00 0,00 2,00 4,00

Incr. naturale (x 1000)

Incr

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(X 1

000)

Media 2002-2003 Media 2007-2008

Fonte: elaborazioni da dati Istat disponibili su: http://demo.istat.it

AURAPPORTI: RES 2008-09 591

Al contrario le regioni del Mezzogiorno hanno visto crescere il saldo migratorio, ma si sono mosse verso sinistra (quindi in direzione di una riduzione) lungo l’asse del saldo naturale. Costituisce un’eccezione la situazione della Campania dove entrambi i saldi risultano in diminuzione. La maggior parte delle regioni del primo gruppo si caratterizza per un saldo naturale che resta inferiore a zero, ma il cui contributo negativo si va attenuando. Tra queste regioni si colloca l’Umbria. Essa infatti nel biennio 2002-2003 presenta un tasso di incremento naturale medio del -2,7 per mille che si riduce a -2,0 per mille nel biennio 2007-2008. Il tasso di incremento migratorio passa invece da 12,7 per mille a 14,6 per mille. Consistenza e dinamica della popolazione straniera Al 31 dicembre 2001 in Umbria la popolazione straniera ammonta a 27.832 unità, pari al 3,4% popolazione residente. Alla fine del 2008 essa è cresciuta fino ad arrivare a 85.947 unità, corrispondente al 9,6% della popolazione residente. Nel complesso del Paese nello stesso periodo l’incidenza degli stranieri sul totale dei residenti è passata dal 2,4% al 6,5% (tab. 2). Tab. 2 - Popolazione residente straniera al 31 dicembre – Umbria e Italia – Anni 2001-2008 (valori assoluti e percentuali)

ANNI Valori assolutiValori per

100 residenti Valori assolutiValori per

100 residenti% stranieri

Umbria su Italia

Umbria Italia 2001 27.832 3,4 1.356.590 2,4 2,05 2002 32.362 3,9 1.549.373 2,7 2,09 2003 43.151 5,1 1.990.159 3,4 2,17 2004 53.470 6,2 2.402.157 4,1 2,23 2005 59.278 6,8 2.670.514 4,5 2,22 2006 63.861 7,3 2.938.922 5,0 2,17 2007 75.631 8,6 3.432.651 5,8 2,20 2008 85.947 9,6 3.891.295 6,5 2,21

Fonte: elaborazioni da dati Istat disponibili su: http://demo.istat.it L’Umbria si colloca tra regioni in cui la presenza di cittadini stranieri residenti è relativamente più elevata (graf. 4). Gia dalla fine del 2001 in Umbria l’incidenza della popolazione straniera è in linea con quella delle regioni in cui tale quota era più elevata: Lombardia (3,6%) Emilia-Romagna e Veneto (3,5%).

DENTRO L’UMBRIA due592

Graf. 4 - Popolazione residente straniera al 31 dicembre per regione – Anni 2001 e 2008 (valori per 100 residenti totali)

3,5 3,4 3,5 3,6 3,2 3,2 3,0 2,7 3,3 3,22,3 2,4 2,2 1,7

0,9 0,8 1,0 0,7 0,6 0,7 0,7

9,7 9,6 9,3 9,38,4 8,3 8,0 7,9 7,7 7,7

6,5 6,5 5,9 5,2

2,9 2,3 2,3 2,3 2,0 1,8 1,8

0,01,02,03,04,05,06,07,08,09,0

10,0

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2001 2008

Fonte: elaborazioni da dati Istat disponibili su: http://demo.istat.it Anche le regioni di Toscana e Marche, con un incidenza del 3,2%, si collocavano su valori molto vicini a quello Umbro. Alla fine del 2008 Emilia-Romagna e Umbra risultano essere le regioni dove risulta maggiore la quota di cittadini stranieri residenti (rispettivamente 9,7% e 9,6%), ad esse si affiancano sempre Lombardia e Veneto che si attestano su un valore molto vicino, pari a 9,3%. Rispetto a questo gruppo di regioni, Toscana e Marche risultano più distanziate con un incidenza pari a, rispettivamente, 8,4% e 8,3%. Nella graduatoria vi è un forte differenziale Nord-Sud e le regioni meridionali (escluso l’Abruzzo) presentano un incidenza di popolazione straniera residente quattro o cinque volte più bassa rispetto a quella delle regioni in cui tale incidenza è maggiore. L’afflusso di stranieri residenti è determinato in massima parte dalle immigrazioni dall’estero (tab. 3). In Umbria tra il 2002 il 2008 il saldo tra iscrizioni e cancellazioni estere di cittadini stranieri è stato sempre superiore a 100 ogni mille abitanti (con eccezione nel 2006), con punte massime nel 2003 (274 per mille) e nel 2007 (169 per mille)7.

7 L’afflusso di stranieri residenti è stato più intenso negli anni 2003 e 2004 a seguito delle regolarizzazioni effettuate nel 2002 (leggi 189 e 222), e nel 2007, quando si sono concretizzati i risultati dell’ampliamento della quota di ingressi previsti dal decreto flussi del 2006 e dell’ingresso nell’Ue di Romania e Bulgaria.

AURAPPORTI: RES 2008-09 593

Tab. 3 - Bilancio demografico della popolazione residente straniera dal 2002 al 2008 - Umbria e Italia (tassi per 1000 abitanti) TASSI D’INCREMENTO(x 1000) 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

UMBRIANaturale 20,1 16,2 22,4 19,8 17,9 16,7 16,6 Migratorio interno 8,7 -4,4 1,3 -0,7 -0,7 0,1 -2,0 Migratorio estero 119,6 274,6 158,8 111,8 71,3 169,0 130,7 Altri motivi 2,1 -0,6 31,1 -27,8 -14,2 -17,1 -17,6 Totale 150,5 285,8 213,6 103,1 74,3 168,7 127,7

ITALIANaturale 21,6 17,6 20,9 19,3 19,4 19,0 18,6 Migratorio interno 6,3 6,6 3,9 1,8 4,4 2,9 2,3 Migratorio estero 104,6 232,8 173,4 105,2 84,7 155,3 128,2 Altri motivi 0,2 -8,0 -10,6 -20,4 -12,8 -22,2 -23,9 Totale 132,7 249,0 187,6 105,9 95,7 155,0 125,2

Fonte: elaborazioni da dati Istat disponibili su: http://demo.istat.it Tranne che nel 2004 e nel 2006, i saldi migratori dell’Umbria risultano superiori a quelli medi nazionali. Anche il saldo naturale contribuisce alla crescita della popolazione straniera. La differenza tra nascite e decessi di cittadini stranieri risulta costantemente positiva e mediamente pari a 20 unità ogni mille abitanti, con valori relativi alla regione Umbria che negli ultimi anni risultano inferiori di due o tre punti rispetto a quelli italiani. Risulta infine spesso negativo il saldo tra le iscrizioni e cancellazioni per altri motivi e che è dovuto alle operazioni di regolarizzazione anagrafica e alle cancellazioni per acquisizione della cittadinanza italiana. Il confronto regionale, effettuato sulla media del periodo 2007-2008 tra le poste del bilancio demografico della popolazione straniera, mostra un saldo naturale positivo in tutte le regioni, ma con intensità variabili tra Nord e Sud (graf. 5). La regione con il maggiore saldo naturale risulta il Veneto (22,4 per mille), seguita da Lombardia (21,3 per mille) e Emilia-Romagna (21,0 per mille). L’Umbria, con un valore pari a 16,7 per mille, si attesta su una posizione inferiore rispetto a quasi tutte le regioni del Nord del Centro. Nelle regioni del Mezzogiorno il saldo naturale oscilla intorno al 10 per mille e risulta più elevato in Puglia e Sicilia con valori, rispettivamente, del 13,7 per mille e del 15,2 per mille. Anche con riferimento al saldo migratorio interno si evince una forte dualità territoriale tra le regioni del Sud, che mostrano saldi negativi (sono cioè di più i cittadini stranieri che si spostano da una regione meridionale verso un'altra regione rispetto a quelli che invece si muovono in senso contrario) e quelle del Nord

DENTRO L’UMBRIA due594

(soprattutto Valle d’Aosta, Friuli-Venezia Giulia e Emilia-Romagna) che, insieme alle Marche, segnano saldi positivi e quindi attraggono cittadini stranieri da altre regioni. L’Umbria, insieme a Toscana e Abruzzo, presenta un saldo migratorio interno della popolazione straniera pressoché nullo. Il saldo migratorio estero risulta superiore a 100 migranti ogni mille residenti in tutte le regioni. In questo caso sono alcune regioni del Mezzogiorno, in particolare Calabria e Basilicata seguite da Sicilia e Molise, a presentare i valori più elevati. In Umbria il tasso di incremento migratorio estero medio della popolazione straniera risulta pari 147,0 per mille, di poco superiore a quello medio nazionale (139,2 per mille) e maggiore di quello di quasi tutte le regioni del Nord e del Centro, tranne Piemonte e Lazio. Graf. 5 - Bilancio demografico della popolazione residente straniera per regione - media 2007-2008 (tassi per 1000 abitanti)

-60,0-20,020,060,0

100,0140,0180,0220,0260,0300,0

Piemon

te

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Lombardia

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o Alto

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Calabria

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Italia

Saldo naturale Saldo migratorio interno Saldo migratorio estero Saldo altri motivi

Fonte: elaborazioni da dati Istat disponibili su: http://demo.istat.it Immigrazione e occupazione Si riscontra a livello regionale una stretta relazione tra l’incidenza di stranieri residenti e il tasso di occupazione (graf. 6). Nelle regioni dove è presente, in termini relativi, una più forte presenza straniera, tale presenza è motivata dalla esistenza di maggiori opportunità occupazionali che attraggono immigrazione dall’estero. Se da un lato è ovvio che la domanda di lavoro stimola l’immigrazione, occorre però considerare

AURAPPORTI: RES 2008-09 595

anche che la popolazione straniera ha una composizione per età fortemente concentrata nelle classi di età da lavoro ed è caratterizzata da tassi di occupazione maggiori rispetto a quella italiana, soprattutto per quanto riguarda la componente maschile (Istat, 2008b). Essa determina quindi una più ampia offerta di occupazione complessiva in grado a sua volta di produrre domanda di lavoro aggiuntiva. Questo effetto di stimolo dell’immigrazione sul mercato del lavoro si attua soprattutto attraverso un effetto di complementarietà tra crescita dell’occupazione di tipo manuale, sulla quale è concentrata l’occupazione straniera, e crescita dell’occupazione qualificata dei lavoratori nazionali (Venturini, 2004). Recenti analisi condotte da Banca d’Italia (2009) mostrano in particolare l’esistenza di complementarietà tra i lavoratori stranieri e quelli italiani più istruiti o donne. Per queste ultime, la crescente presenza straniera attenuerebbe i vincoli legati alla presenza di figli e all’assistenza dei familiari più anziani, permettendo di aumentare l’offerta di lavoro. L’afflusso di lavoratori stranieri impiegati con mansioni tecniche e operaie può, inoltre, aver sostenuto la domanda di lavoro per funzioni gestionali e amministrative, che richiedono qualifiche più elevate, maggiormente rappresentate tra gli italiani. Altre analisi inoltre indicano che il Pil procapite prodotto dagli immigrati stranieri sia superiore rispetto a quello degli italiani (Fondazione Agnelli, 2006); da ciò si può dedurre che una maggiore presenza dell’immigrazione dall’estero sia un fattore di crescita dell’economia e quindi di sviluppo di nuova occupazione. Graf. 6 - Tasso di occupazione 15-64 anni e incidenza percentuale degli stranieri sulla popolazione residente per regione – media 2006-2008 (valori percentuali)

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TaaVenUmb

LomEroR2 = 0,81

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60,0

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70,0

1,0 2,0 3,0 4,0 5,0 6,0 7,0 8,0

% stranieri (media 2006-2008)

Tas

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15-

64 (

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006-

2008

)

Fonte: Istat, banca dati demografica: http://demo.istat.it, e rilevazione delle forze di lavoro su: http://www.istat.it

DENTRO L’UMBRIA due596

Le regioni in cui una più elevata incidenza di cittadini stranieri si associa a maggiori tassi di occupazione sono quelle economicamente più sviluppate, nelle quali la crescita dell’offerta di lavoro straniera è maggiormente in grado di stimolare una quota di domanda di lavoro aggiuntiva: Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto. Sul versante opposto si collocano le regioni del Mezzogiorno nelle quali una minore domanda di lavoro attrae minore immigrazione estera e dove la presenza di un economia meno sviluppata non consente alla crescita dell’offerta di lavoro di esplicarsi come moltiplicatore di domanda di lavoro aggiuntiva. In questo quadro l’Umbria assume una posizione in linea con quella delle aree più sviluppate del Paese per quanto riguarda l’incidenza della popolazione straniera, ma presenta rispetto a tali aree livelli leggermente inferiori con riferimento al tasso di occupazione. Ciò dipende, dal lato della domanda, dalla struttura economica regionale che non riesce a massimizzare l’effetto di stimolo sulla domanda di lavoro che l’aumento dell’offerta di lavoro indotto dall’immigrazione è in grado di produrre. Dal lato dell’offerta occorre tenere conto dalle caratteristiche della popolazione straniera residente nella regione caratterizzata da una elevata prevalenza di donne in età centrali8. Queste donne sono occupate per la maggiore parte nei servizi di assistenza alle famiglie, quindi in settori di attività meno capaci di produrre ulteriori fattori di crescita dell’economia. Inoltre se sono inserite in un contesto familiare di coppia con figli hanno difficoltà a conciliare i ruoli di mogli e madri con quello di occupate e quindi si collocano con minore frequenza nel mercato del lavoro rispetto alla corrispondente popolazione straniera maschile9. L’invecchiamento della popolazione A partire dal secondo dopoguerra, l’Umbria si è sempre caratterizza come una delle regioni con maggiore presenza di anziani sia in rapporto alla popolazione totale che rispetto alla popolazione più giovane (Tittarelli, 1989). L’invecchiamento della popolazione è una caratteristica ormai strutturale delle società contemporanee, almeno in tutti i paesi avanzati. Esso trova motivo in due fattori demografici quali: allungamento della sopravvivenza e riduzione della fecondità, che danno luogo a due distinte componenti di tale processo; una componente di “invecchiamento dall’alto”,

8 Nel 2007 l’Umbria presenta una quota di donne tra la popolazione straniera pari al 54,1%, che risulta la più elevata tra le regioni del Centro e del Nord. La media nazionale è del 50,6%, mentre nelle regioni di Veneto, Lombardia e Emilia-Romagna si riscontra una prevalenza di uomini. Sempre in Umbria, il 23,7% delle donne straniere ha un età compresa tra 40 e 54 anni contro il 22,7% a livello nazionale. 9 A parità di caratteristiche socio-demografiche, gli uomini stranieri presentano un livello di occupazione maggiore degli italiani. Al contrario, le immigrate incontrano maggiori difficoltà di inserimento lavorativo delle autoctone. Tali dinamiche riducono le opportunità occupazionali dell’insieme degli immigrati, laddove sia maggiormente presente la componente femminile (Istat, 2008b)

AURAPPORTI: RES 2008-09 597

che si esplicita nell’aumento in termini assoluti del numero delle persone anziane e una componente di “invecchiamento dal basso”10 che invece si traduce in un insufficiente numero di nascite che riduce la quota di popolazione più giovane rispetto a quella più anziana. L’invecchiamento dal basso è determinato, in altri termini, dalla erosione della base riproduttiva della popolazione e cioè dal fatto che a causa della diminuzione progressiva del numero delle nascite si riduce anche il numero delle future madri. In Umbria, l’indice di vecchiaia, che misura il rapporto tra la popolazione più anziana (con 65 anni e oltre) e quella più giovane (fino a 14 anni compiuti), è risultato in aumento dal 2001 fino al 2003. Successivamente si è cominciato a registrare un lieve regresso, tuttora in corso. La diminuzione è di lieve entità, in particolare si è passati da un valore di 188,1% nel 2003 ad un valore di 181,7% nel 2008; ma tanto è bastato a interrompere una tendenza alla crescita che appariva, fino a pochi anni fa, irreversibile (graf. 7). Graf. 7 - Indice di vecchiaia in Umbria e in Italia dal 2001 al 2008 – Al 31 dicembre

185,5 186,4 188,1 187,7 186,7 185,9 183,6 181,7

131,4 133,8 135,9 137,8 139,9 141,7 142,8 143,4

100

120

140

160

180

200

2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

Umbria Italia

Fonte: elaborazioni da dati Istat disponibili su: http://demo.istat.it A livello nazionale non si riscontra la stessa inversione di tendenza e il rapporto tra la popolazione più anziana è quella più giovane, pur se attestato su livelli inferiori a quelli dell’Umbria è in costante crescita. Pur in presenza di una lieve riduzione dal 2003 al 2008, l’Umbria rimane una delle regioni in qui la quota di anziani risulta più elevata. Nel 2008 essa si colloca al quarto posto della graduatoria regionale definita rispetto all’indice di vecchiaia; le sole regioni con un valore più elevato di quello umbro sono: Liguria (236,1%), Friuli-Venezia

10 I termini “dall’alto” e “dal basso” in relazione al processo di invecchiamento della popolazione sono presi con riferimento alla struttura per età della popolazione e in particolare alla sua rappresentazione grafica nota come piramide della popolazione. L’invecchiamento dall’alto esprime quindi un allargamento dell’apice della piramide, cioè del peso della popolazione più anziana su quella complessiva, mentre quello dal basso evoca il restringimento della base, quindi un aumento del peso della popolazione più anziana in relazione a quella più giovane.

DENTRO L’UMBRIA due598

Giulia (187,4%) e Toscana (185,9%). L’indice risulta più basso nelle regioni del Mezzogiorno, in alcune regioni del Nord Est quali Trentino-Alto Adige e Veneto e nel Lazio (graf. 8). Oltre che in Umbria, si osserva una lieve contrazione dell’indice anche in altre regioni tra quelle che presentano i valori più elevati: Toscana e Emilia Romagna in particolare. In tutte le altre regioni si registra un incremento dell’indice di vecchiaia tra il 2003 e il 2008, l’aumento risulta più consistente in quasi tutte le regioni del Mezzogiorno. Graf. 8 – Indice di vecchiaia per regione – Anni 2003 e 2008 - al 31 dicembre

0

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2003 2008

Fonte: elaborazioni da dati Istat disponibili su: http://demo.istat.it Dal 2003 al 2008 in Umbria il numero delle persone con 65 anni e più è cresciuto del 5,4% e quindi l’invecchiamento dall’alto permane un fenomeno presente nella evoluzione della struttura per età della popolazione umbra (graf. 9). L’aumento registrato è pari in intensità a quello della popolazione complessiva (5,5%), ma minore rispetto a quello del numero dei giovani con meno di 15 anni (pari al 9,1%). Il rapporto tra le generazioni più anziane e quelle più giovani si è quindi, anche se in piccola parte, riequilibrato. Si riduce quindi la componente dell’invecchiamento del basso della popolazione. Oltre che in Umbria, questo processo si verifica anche in altre regioni quali: Emilia-Romagna, Toscana, Liguria e Marche. In un altro gruppo di regioni (Veneto, Valle d’Aosta, Friuli-Venezia Giulia, Lombardia) la popolazione con meno di 15 anni è cresciuta in misura maggiore rispetto a quella complessiva, ma non in confronto a quella con più di 65 anni. Come si mostrerà più avanti tutte queste regioni (Umbria compresa) sono state caratterizzate negli ultimi anni da una ripresa della fecondità

AURAPPORTI: RES 2008-09 599

superiore a quella del resto del Paese che ha consentito alla popolazione più giovane di crescere con un ritmo più sostenuto rispetto a quella totale. In tutte le regioni del Mezzogiorno, dove invece la fecondità è andata diminuendo, la popolazione più giovane ha subito negli ultimi anni un decremento, mentre la popolazione più anziana ha continuato ad aumentare. Graf. 9 – Incremento percentuale dal 2003 al 2008 della popolazione residente complessiva, con più di 64 anni e con meno di 15 per regione

-10,0

-5,0

0,0

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65 anni e più Totale Fino 14 anni

Fonte: elaborazioni da dati Istat disponibili su: http://demo.istat.it Le informazioni che si possono trarre dalla attuale composizione per età della popolazione residente nelle varie regioni consentono di trarre alcune indicazioni su quali regioni potranno essere caratterizzate in un prossimo futuro da un più probabile rapido invecchiamento e quali invece avranno la possibilità di vedere riequilibrare il rapporto tra le generazioni più vecchie e quelle più giovani 11. In particolare, se si mettono in rapporto, da una parte, gli anziani attuali con quelli che lo diventeranno al

11 È facile determinare che età avranno nel prossimo futuro coloro che fanno parte della popolazione attuale e quindi quale incidenza avranno sulla popolazione futura. Un elemento di incertezza è costituito dal sapere quanti di essi moriranno, ma tale fenomeno si evolve con lentezza e gradualità e quindi tra 20 o 30 anni avrà un’intensità non troppo dissimile da quella attuale. Altre dinamiche demografiche che influiscono sulla composizione per età, quali la fecondità e le migrazioni, presentano invece una dinamica evolutiva più intensa e anche più difficilmente prevedibile. Però le informazioni sulla composizione per età attuale possono aiutarci a capire in che modo l’indirizzo di politiche di popolazione tese a modificare in alto o in basso la fecondità e le migrazioni possono aiutare a controllare la struttura per età futura.

DENTRO L’UMBRIA due600

loro posto e, dall’altra, gli adulti in età riproduttiva con i giovani che, ugualmente, li andranno a sostituire, possiamo avere un’idea di come potrà evolversi il processo di invecchiamento, nelle due componenti “dall’alto” e “dal basso”, nelle varie regioni sulla base della composizione per età attuale. Operativamente, se prendiamo in considerazione i rapporti tra le classi di età 35-49 e 65-79 da un lato e 25-39 e 0-14 dall’altro possiamo avere un’idea della modificazione della struttura per età da qui ai prossimi 30 anni. In particolare se trasponiamo fra 25/30 anni l’attuale gruppo di età 35-49 anni abbiamo i futuri 65-79enni, mentre l’attuale gruppo 0-14 costituisce il futura classe di età 25-39 anni. Il primo dei due rapporti consente inoltre di osservare l’effetto che avranno sulla struttura per età le persone che ora hanno tra 35 e 49 anni di età e che rappresentano i componenti delle generazioni del baby-boom degli anni Sessanta e primi anni Settanta. Poiché sono ad oggi il gruppo di età più numeroso, il loro peso rappresenta un vincolo determinante nell’evoluzione della composizione per età della popolazione futura. In tutte le regioni italiane si avrà un elevato invecchiamento dall’alto della popolazione con una crescita notevole della popolazione tra 65 e 79 anni; infatti, il rapporto tra la classe di età 35-49 e la classe 65-79, è superiore a 1 in tutte le regioni, con una media nazionale di 1,6412 (graf. 10) . Non in tutte le regioni l’effetto dell’invecchiamento dall’alto si presenta però con la stessa intensità. Il rapporto infatti varia da un minimo di 1,25 in Liguria e un massimo di 1,93 in Campania. In Umbria esso risulta pari a 1,44, che significa un aumento della popolazione tra 65 e 79 anni del 44% rispetto a quella attuale. In termini assoluti si potrebbero avere tra 30 anni oltre 200 mila persone tra 65 e 79 anni, 60 mila in più rispetto alle attuali 142 mila. Il valore che si registra in Umbria è comunque il più basso tra tutte le regioni, a parte la Liguria. Ciò è dovuto sia al fatto che, nella regione, il numero di 65-79enni è già tra i più elevati, sia al peso minore, rispetto ad altre regioni, della componente 35-49 anni. In Umbria la crescita, sia assoluta che rispetto alla popolazione complessiva della parte più anziana della popolazione (invecchiamento dall’alto) sarà quindi meno intensa rispetto a quella delle altre regioni.

12 Il risultato non cambierebbe anche se si tenesse conto, sia della mortalità fra qui e i prossimi 30 anni delle persone tra 35 e 49 anni che è molto bassa, sia delle emigrazioni che si riducono notevolmente proprio a partire da quest’età.

AURAPPORTI: RES 2008-09 601

Graf. 10 - Rapporto tra popolazione 35-49 e 65-79 e tra popolazione 0-14 e 25-39 per regione al 31 dicembre 2008

CalBas

Ita PugSic

LazVda

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1,30

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1,60

1,70

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2,00

0,55 0,60 0,65 0,70 0,75 0,80

Pop 0-14 / Pop 25-39

Pop

35-

49 /

Pop

65-

79

Fonte: elaborazioni da dati Istat disponibili su: http://demo.istat.it L’invecchiamento della popolazione proseguirà anche dal basso. A livello nazionale infatti le persone fino a 15 anni, che costituiranno tra 25 anni le persone in età riproduttiva 25-39 anni, sono in rapporto 0,66 a 1 rispetto all’attuale classe di età 25-39. Ciò significa che tra 25 anni la base riproduttiva della popolazione sarà ridotta di oltre un terzo. Anche qui vi sono delle notevoli differenze regionali. Le regioni in cui la tenuta della base riproduttiva è maggiormente garantita sono la Campania e il Trentino-Alto Adige, che costituiscono al contempo anche le regioni in cui sarà maggiore l’aumento della popolazione 65-79 anni. In Umbria invece, si registra la situazione opposta: gli attuali giovani con meno di 14 anni sostituiranno il numero di persone in età riproduttiva in misura minore rispetto a quanto si verifica in altre regioni (il rapporto è pari a 0,62). Se l’invecchiamento dall’alto è praticamente certo perché mortalità e migrazioni possono modificare in misura ridotta il rapporto tra le classi di età considerate, per quanto riguarda il restringimento della base riproduttiva della popolazione, l’elemento previsivo, dato dall’andamento delle nascite nei prossimi anni, può condizionare in misura maggiore la diminuzione del numero di futuri madri e padri. In Umbria, in particolare, che si trova in una posizione in cui il peso assoluto degli anziani dovrebbe aumentare in modo considerevole, ma non drammatico (in rapporto ad altre regioni), una fecondità in ripresa e quindi il contenimento dell’erosione della popolazione in età riproduttiva costituirebbe un elemento prezioso per contenere l’invecchiamento complessivo della popolazione.

DENTRO L’UMBRIA due602

La fecondità nelle regioni Negli ultimi anni si sono registrati segnali di ripresa della fecondità regionale. In Umbria il tasso di fecondità totale,13 che nel 1995 ha toccato il suo minimo storico con un valore pari a 1.082 figli per mille donne in età feconda, nel 2007 è risalito fino a 1.366 per mille, convergendo verso il dato medio nazionale (graf. 11). Tra il 1995 e il 2007 la ripresa della fecondità si manifesta nelle regioni del Nord e del Centro, mentre nel Mezzogiorno ne prosegue il declino. Gli incrementi più consistenti si manifestano in Friuli-Venezia Giulia e Emilia-Romagna dove, da un valore del Tft inferiore a mille si passa, rispettivamente, a 1.352 e 1.426 figli per mille donne in età feconda. Aumenti consistenti si registrano anche in Veneto (da 1.075 a 1.426) e Toscana (da 990 a 1.327). Nelle regioni del Mezzogiorno, al contrario, si registra nello stesso periodo una contrazione che assume un connotato più intenso particolarmente in Basilicata e in Calabria. Graf. 11 – Tasso di fecondità totale dal 1995 al 2007 – Umbria e Italia

100010501100115012001250130013501400

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007

Umbria Italia

Fonte: elaborazioni da dati Istat disponibili su: http://demo.istat.it Alla ripresa della fecondità contribuisce anche la presenza straniera in crescita. Le donne straniere hanno comportamenti riproduttivi maggiormente fecondi rispetto a

13 Esprime il numero totale di figli messi al mondo da una coorte teorica di 1000 che esperissero la fecondità per età registrata in un determinato anno di calendario. Poiché le classi di età considerate nella costruzione del Tft vanno da 15 a 49, se si divide tale indicatore per il numero di anni di età compresi nell’intervallo riproduttivo considerato (35) si ottiene una misura che esprime il numero medio di figli per 1000 donne nell’anno considerato.

AURAPPORTI: RES 2008-09 603

quelle italiane. Laddove la presenza straniera è più elevata, la maggiore fecondità delle donne straniere contribuisce a rendere più elevata quella complessiva (graf. 12). Graf. 12 – Tasso di fecondità totale per regione - Anni 1995 e 2007

0200400600800

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Italia

Tft 1995 Tft 2007

Fonte: elaborazioni da dati Istat disponibili su: http://demo.istat.it Alla ripresa della fecondità contribuisce anche la presenza straniera in crescita. Le donne straniere hanno comportamenti riproduttivi maggiormente fecondi rispetto a quelle italiane. Laddove la presenza straniera è più elevata, la maggiore fecondità delle donne straniere contribuisce a rendere più elevata quella complessiva. Nel 2007 in Umbria le donne straniere hanno avuto una fecondità totale di 2.146 figli per 1000 donne in età feconda, contro un valore di 1.241 per quelle italiane (tab. 4). La differenza tra i due collettivi riscontrata in Umbria è però inferiore a quella media nazionale dove si sono registrati valori, rispettivamente, pari a 2.400 e 1.278. Inoltre in Umbria si registra una tendenza, maggiore rispetto al complesso del Paese, all’omogeneizzazione dei comportamenti riproduttivi dei due collettivi di donne (straniere e italiane). Infatti, mentre nel 2004 si avevano valori del tasso di fecondità totale per i due aggregati pari, rispettivamente, a 2.567 e 1.173 con una differenza di 1.394 figli per 1000 donne a beneficio di quelle straniere, nel 2005 la differenza risultava pari a 1.295, nel 2006 a 1.131 e nel 2007 a 905. In Italia la differenza tra la fecondità delle donne straniere e quelle italiane passa da un valore pari a 1.351 nel 2004 a 1.123 nel 2007.

DENTRO L’UMBRIA due604

Tab. 4 - Tasso di fecondità totale e età media al parto per cittadinanza delle madri – Umbria e Italia – Anni 2004-2007

Donne straniere Donne italiane Totale donne ANNI

Tft età media al parto Tft età media

al parto Tft età media al parto

UMBRIA 2004 2.567 26,8 1.173 31,5 1.307 30,8 2005 2.469 27,0 1.174 31,7 1.319 30,8 2006 2.327 27,5 1.196 31,8 1.334 31,0 2007 2.146 27,7 1.241 32,0 1.366 31,1

ITALIA2004 2.608 27,4 1.257 31,1 1.334 30,8 2005 2.447 27,5 1.243 31,3 1.322 30,9 2006 2.497 27,7 1.260 31,4 1.350 31,0 2007 2.400 27,8 1.278 31,6 1.373 31,1

Fonte: elaborazioni da dati Istat disponibili su: http://demo.istat.it L’età media al parto registra una tendenza generalizzata alla crescita tanto per le donne italiane quanto per quelle straniere. Con riferimento alle prime, in Umbria la ripresa del tasso di fecondità totale si lega ad una ad tendenza ad avere figli ad una età sempre più tardiva. Pertanto la ripresa della fecondità è legata più ad una tendenza a spostare in avanti la scelta di avere un figlio più che ad un aumento generalizzato della propensione ad avere figli. Con riferimento alle donne straniere, pur essendo inferiore l’età media al parto rispetto alle italiane, l’aumento di tale indicatore si coniuga con una diminuzione della propensione alla fecondità confermando la tendenza alla convergenza del comportamento riproduttivo delle donne straniere verso quello delle donne italiane. Inoltre in Umbria si registra, rispetto al complesso del Paese, una più marcata tendenza all’aumento dell’età media al parto delle donne straniere che passa da 26,8 anni nel 2004 a 27,7 nel 2007, contro valori pari, rispettivamente, a 27,4 e 27,8 per le italiane. In Umbria, quindi, negli ultimi anni la fecondità delle donne italiane mostra una tendenza alla crescita, mentre quella delle donne straniere, seppure permanendo su livelli più elevati, risulta in diminuzione. Questo avviene anche in molte altre regioni, soprattutto del Nord e del Centro dove negli ultimi anni si è registrata una ripresa complessiva della fecondità (graf. 13).

AURAPPORTI: RES 2008-09 605

Graf. 13 – Differenza % Tasso di fecondità totale 2007/2004 per cittadinanza delle madri e regione

-4,9

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-2,000,00

2,004,00

6,00

8,0010,00

12,00

14,00

-30,0 -25,0 -20,0 -15,0 -10,0 -5,0 0,0 5,0 10,0

Diff. % 2007/2004 fecondità straniere

Dif

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200

7/20

04 f

econ

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ne

Fonte: elaborazioni da dati Istat disponibili su: http://demo.istat.it Un processo differente si riscontra invece in altre regioni, soprattutto del Mezzogiorno, come Campania, Sicilia e Calabria, che sono caratterizzate da una riduzione della fecondità, questa diminuzione è stata frenata dalla fecondità delle donne straniere che hanno mostrato un comportamento riproduttivo in crescita, mentre la fecondità delle donne italiane è diminuita. L’attenuazione del processo di invecchiamento della popolazione a cui si è assistito negli ultimi anni in molte regioni italiane, tra cui come visto spicca l’Umbria, è da mettere in relazione sia al consistente ingresso di popolazione straniera cha alla ripresa della fecondità14. Entrambi i fenomeni, infatti, tendono a far aumentare la quota di popolazione in età infantile e giovanile a scapito della quota di popolazione anziana. Le regioni, quasi tutte quelle del Nord e del Centro, che dal 2004 al 2008 hanno registrato una diminuzione o un incremento più contenuto dell’indice di vecchiaia sono le stesse in cui si è registrato il maggiore incremento del tasso di fecondità totale ed in cui e più elevata la quota della popolazione straniera (graf. 14).

14 Da un punto di vista statistico la relazione tra le tre variabili risulta piuttosto forte, come indicato dai coefficienti di correlazione binaria tra di esse riportati nel prospetto seguente: Coefficienti di correlazione binaria tra le variabili

% stranieri 2008 var IV 2008_03

var IV 2008/2003 -0,89 1 Var% TFT 2007/1995 0,88 -0,90

DENTRO L’UMBRIA due606

Nelle regioni del Mezzogiorno, in cui la fecondità risulta in declino e in cui l’incidenza della popolazione straniera si attesta sui livelli più bassi, si registra un incremento più accentuato dell’indice di vecchiaia. La regione in cui si rileva la maggiore riduzione dell’indice di vecchiaia è l’Emilia-Romagna (-5,8%). Ad esso si associa il più elevato aumento del tasso di fecondità totale (+46,9%). Essa risulta anche la regione in cui la quota di stranieri tra i residenti è più elevata (9,7%). In Umbria l’indice di vecchiaia risulta in diminuzione del 2,4%, mentre il tasso di fecondità totale cresce del 26,2% e la quota di popolazione straniera è pari al 9,6%. Anche Toscana e Liguria associano una elevata presenza straniera ad una diminuzione dell’indice di vecchiaia contestuale ad una ripresa della fecondità. Rispetto all’Umbria in quasi tutte le regioni del Nord e del Centro la riduzione dell’indice di vecchiaia è da imputare maggiormente alla ripresa della fecondità piuttosto che all’incremento della popolazione straniera. Graf. 14 - Variazione % dell’indice di vecchiaia 2008/2003, variazione % del tasso di fecondità totale 2007/1995 e quota di popolazione straniera residente (anno 2008) per regione

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Sar

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PieItaVda

Fvg

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Ven Lom

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-10,0

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0,0

5,0

10,0

15,0

20,0

25,0

-20,0 -10,0 0,0 10,0 20,0 30,0 40,0 50,0var. % Tft (2007/95)

Var

. % I

v (2

008/

03)

% stranieri media 2008

Fonte: elaborazioni da dati Istat disponibili su: http://demo.istat.it

AURAPPORTI: RES 2008-09 607

Fecondità e occupazione femminile La ripresa della fecondità nelle regioni è da mettere in relazione con la situazione occupazionale femminile e con la presenza straniera. Una maggiore presenza delle donne nel mercato del lavoro consente di accrescere la disponibilità di reddito delle famiglie e di limitare i vincoli economici che possono inibire, o fare rimandare, la decisione di mettere la mondo un figlio. Certamente questo legame positivo tra occupazione femminile e fecondità può avvenire solo in presenza di servizi che aiutino la conciliazione tra la condizione lavorativa della donna e il suo ruolo all’interno della famiglia (Rosina 2009). Nelle regioni dove è maggiore il tasso di occupazione femminile si rileva un incremento più elevato del tasso di fecondità e tale relazione risulta favorita dalla presenza più diffusa di servizi per la prima infanzia15. Ciò avviene soprattutto nelle regioni del Nord e del Centro (graf. 15). L’Umbria si colloca tra le regioni in cui un’elevata occupazione femminile si associa ad una ripresa della fecondità e ad una diffusione di asili nido o di altri servizi per la prima infanzia. Ricordiamo che nella regione è anche molto elevata la prossimità geografica tra genitori e figli (Barbieri, 2007) dopo il matrimonio e quindi è sviluppata una rete diffusa di aiuti intergenerazionali che certamente aiutano la collocazione delle donne nel mercato del lavoro. Se l’occupazione femminile non sembra costituire un ostacolo alla nascita del primo figlio, lo diventa maggiormente di fronte alla possibilità di aumentare a più di uno il numero di figli avuti (Righi, 2003). Da questo punto di vista un aspetto complementare che riguarda l’incremento della fecondità in Umbria è che essa si verifica in presenza di una età media al parto anch’essa in aumento e comunque posizionata su livelli molto elevati. Quindi il motivo di tale crescita sarebbe da individuare più in una tendenza al recupero della fecondità di molte donne che avevano rinunciato finora alla maternità e che ora vi stanno approdando in un età elevata del ciclo riproduttivo. In questo senso la relazione con il tasso di occupazione assume il significato di una tendenza delle donne umbre ad attendere di avere un figlio solo quando si è entrate nella fase della vita in cui la prospettiva di acquisire un’occupazione più stabile risulta concreta. Visto in un’ottica generazionale il processo si traduce in un ritardo della decisione di avere un (solo) figlio, piuttosto che in quella

15 Da un punto di vista statistico la relazione tra le tre variabili risulta piuttosto forte, come indicato dai coefficienti di correlazione binaria tra di esse riportati nel prospetto seguente:

Coefficienti di correlazione binaria tra le variabili

Tasso di occup. femm. 15-64 (media 2006-

2008)var. % tft

2007/1995 var. % tft 2007/1995 0,93 1 Freq. Asili nido e servizi integrativi (per 1000 bambini) 0,86 0,87

DENTRO L’UMBRIA due608

di metterne al mondo un numero maggiore rispetto al passato. Una ripresa stabile della fecondità al contrario presupporrebbe che si fosse in presenza di un aumento della frequenza di nascite tra donne più giovani, con meno di 30 anni, fenomeno che ancora non si sta verificando. Graf. 15 - Variazione % del tasso di fecondità totale 2007/1995, tasso di occupazione femminile 15-64 anni (media 2006-2008) e quota di bambini che frequentano un nido o un servizio complementare per l’infanzia (anno 2006) per regione

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MolBasCal

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-15,0

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5,0

15,0

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35,0

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20,0 25,0 30,0 35,0 40,0 45,0 50,0 55,0 60,0 65,0

Tasso di occup. femm. 15-64 (media 2006-2008)

var.

% t

ft 2

007/

1995

Freq. Asili nido (per 1000bambini)

Fonte: elaborazioni da dati Istat: banca dati demografica: http://demo.istat.it, rilevazione delle forze di lavoro e interventi e servizi sociali dei comuni disponibili su: http://www.istat.it Giovani in famiglia e nuzialità L’età alla quale i figli lasciano la famiglia di origine varia molto da regione a regione. Nel Mezzogiorno i giovani vanno via di casa mediamente più tardi rispetto al Centro-Nord (graf. 16). Queste differenze sono dovute in parte all’esistenza di legami intergenerazionali più forti tra la popolazione che vive nelle regioni del Sud sia a maggiori difficoltà economiche dei giovani meridionali nel rendersi indipendenti a seguito del conseguimento di una occupazione stabile (Sis-Gcd, 2007). In alcune regioni, come in Sardegna, il matrimonio tardivo costituisce una caratteristica culturale radicata e ciò spiega perché in tale regione si abbia la quota più elevata di giovani di 25-34 anni che vivono in famiglia (Santarelli-Cottone, 2009).

AURAPPORTI: RES 2008-09 609

Nel 2006-2007 in Umbria si registra la più alta quota di giovani da 25 a 34 anni che vivono ancora all’interno della famiglia (50%) dopo Sardegna e Molise. L’incidenza che si registra in Umbria ha un peso di poco superiore rispetto a quello osservato nelle principali regioni del Mezzogiorno ed è maggiore di oltre 10 punti percentuali in confronto ai valori che si rilevano nelle regioni del Nord e nelle Marche. Graf. 16 - Giovani 25-34 anni che vivono in famiglia per regione – Media 2006-2007 (valori percentuali)

58 5750 47 47 46 46 46 45 43 43 43 43 43 42 42 40 40 39 38 34

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Fonte: Elaborazioni da dati Istat: Indagine multiscopo “Aspetti della vita quotidiana”, disponibili su: http://www.istat.it Come accennato, l’uscita dalla famiglia di origine diventa per i giovani più difficile se non sussistono le condizioni per acquisire una completa autonomia economica. L’incidenza più elevata di giovani ancora inseriti nella famiglia di origine rilevata nelle regioni del Mezzogiorno è certamente legata alle maggiori difficoltà di inserimento nel mercato del lavoro che si riscontrano in tale area del Paese (graf 17). In regioni come Calabria, Campania, Puglia, Sicilia e Basilicata mediamente oltre i due terzi dei giovani da 18 a 34 anni vive all’interno della famiglia di origine, ma di essi solo un terzo è occupato. In tali regioni la mancanza di indipendenza economica sembra costituire la ragione principale per restare a casa con i genitori. Nelle regioni del Nord si osserva un atteggiamento opposto: solo poco più della metà dei giovani da 18 a 34 anni vive nella famiglia di origine, ma tra di loro la quota di occupati è elevata (in media intorno al 60%). Gli atteggiamenti dei giovani delle regioni del Nord rispetto alla decisione di lasciare la famiglia di origine ad un’età non tardiva sembrano pertanto motivate più da ragioni di scelta personale che da vincoli esterni e appaiono polarizzate tra chi decide di andarsene presto (più o meno la metà) e chi invece, pur potendo farlo, preferisce

DENTRO L’UMBRIA due610

restare. La situazione in Umbria (e in misura minore quella della Toscana) appare in parte peculiare rispetto al resto del Paese. Nella regione si registra infatti una quota elevata sia di giovani che vivono in famiglia che di giovani che vivono in famiglia e sono occupati. In Umbria vi è quindi una minore polarizzazione delle scelte e la preferenza è principalmente quella di restare a lungo nella famiglia di origine anche quando vi sarebbero i presupposti, come ad esempio avere un’occupazione, per lasciarla. Graf. 17 - Giovani 18-34 anni che vivono in famiglia e giovani 18-34 anni che vivono in famiglia e sono occupati per regione – Media 2006-2007 (valori percentuali)

Pug Abr

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75,0

25,0 30,0 35,0 40,0 45,0 50,0 55,0 60,0 65,0 70,0

% giovani 18-34 anni che vivono in famiglia e sono occupati

% g

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8-34

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Fonte: Elaborazioni da dati Istat: Indagine multiscopo “Aspetti della vita quotidiana”, disponibili su: http://www.istat.it Nonostante il matrimonio avvenga sempre più tardi non si manifesta nel nostro Paese una tendenza alla disaffezione verso tale istruzione, come avviene ad esempio nei paesi nord-europei. Tradizionalmente, in Italia, quando viene presa la decisione di uscire dalla famiglia l’esito è quasi sempre quello del matrimonio piuttosto che quello di andare a vivere per conto proprio o con un'altra persona, ma fuori dal vincolo matrimoniale. Questa tendenza non è omogeneamente distribuita a livello regionale. Vi è infatti una forte diversità di atteggiamento verso l’istituzione del matrimonio e l’intensità del conseguimento delle prime nozze risulta notevolmente disomogenea da regione a regione (graf. 18). La propensione al matrimonio risulta più elevata nelle regioni del Mezzogiorno, seguite subito dopo dall’Umbria. Nel periodo 2006-2007, nella regione si ha un indice di primo nuzialità per 1000 persone da 16 a 49 anni, pari a 538 per gli uomini e 598 per le donne, valori che risultano di poco superiori a quelli medi nazionali (pari, rispettivamente, a 518 e 583 per i due sessi). I dati dell’Umbria

AURAPPORTI: RES 2008-09 611

sono molto superiori a quelli delle regioni del Nord e omogenei, anche se di poco superiori, a quelli delle altre regioni del Centro. Graf. 18 – Primi matrimoni per mille persone da 16 a 49 anni per sesso e regione – Media 2006-2007

0100200300400500600700800

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Fonte: elaborazioni da dati Istat disponibili su: http://demo.istat.it La tendenza ad attribuire ancora un’importanza elevata all’istituzione matrimoniale si associa con una visione tradizionale di tale istituzione. Questa caratteristica si rileva dalla posizione delle regioni all’interno della relazione tra quota di matrimoni civili, successivi al primo e con cittadini stranieri16. Una associazione positiva tra questi comportamenti è più accentuata nelle regioni del Nord, le stesse in cui la propensione alle nozze risulta inferiore. In tali regioni si è in presenza di una visione più secolarizzata dell’istituzione matrimoniale che appare anche come una forma più superata del fare famiglia rispetto ad altri tipi di relazione di coppia meno formalizzati, ma non per questo necessariamente meno stabili (Rosina-Fraboni, 2004). Nelle regioni del Mezzogiorno prevalgono atteggiamenti più tradizionali nei confronti dell’istituto matrimoniale, con una bassa propensione alle seconde nozze e ai matrimoni civili ed una bassa frequenza di matrimoni misti. L’Umbria si colloca in una

16 Da un punto di vista statistico la relazione tra le tre variabili risulta piuttosto forte, come indicato dai coefficienti di correlazione binaria tra di esse riportati nel prospetto seguente: Coefficienti di correlazione binaria tra le variabili % Matrimoni civili % Sposi al 2° matrimonio

o successivi (m+f) % Sposi al 2° matrimonio o successivi (m+f) 0,90 1,00 % Matrimoni con almeno uno straniero 0,93 0,84

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posizione intermedia, molto vicina alla media nazionale, ma con un profilo più vicino alle regioni del Mezzogiorno (graf. 19). Graf. 19 - % sposi alle seconde nozze o successive, % matrimoni civili e % matrimoni con almeno un coniuge straniero per regione – Media 006-2007

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% matrimoni civili

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% Matrimoni con almeno un coniuge straniero

Fonte: elaborazioni da dati Istat disponibili su: http://demo.istat.it Conclusioni L’Umbria è una delle regioni del Paese con la maggiore quota di popolazione anziana anche se negli ultimi anni si è manifestata una tendenza all’attenuazione del processo di invecchiamento collegata ad una consistente crescita del numero di residenti. Il massiccio arrivo di stranieri, presenti in Umbria in modo più consistente rispetto a quasi tutte le altre regioni, ha costituito il motore di questa spinta alla crescita e al rinnovamento della popolazione. Questo afflusso rappresenta un fattore di crescita e di rinnovamento dal punto di vista demografico, tenuto conto anche della maggiore fecondità delle donne straniere, ma le ricadute possono essere positive altresì nel mercato del lavoro e nella crescita economica. Se il complesso della regione saprà fare leva su questi fattori di cambiamento e crescita innescati dall’immigrazione per proseguire e accentuare le tendenze positive da essi prodotte, ad esempio attraverso una crescita della fecondità di tutta la popolazione e non solo di quella straniera o tramite un utilizzo della maggiore forza lavoro che si rende disponibile attraverso l’immigrazione teso a fare crescere tutto il sistema economico, allora si produrrà con maggiore facilità una crescita endogena di tutto il sistema-regione. Alcuni atteggiamenti delle generazioni più giovani, come la persistente e accentuata tendenza alla posticipazione dell’ingresso alla vita adulta, rendono però non sicuro che

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nel prossimo futuro l’Umbria saprà trovare al proprio interno gli strumenti di tale crescita. Si riscontrano infatti tracce evidenti della problematicità, ampiamente delineata da altri autori (Cristofori, 1990), della transizione all’età adulta dei giovani adulti. Problematicità che sembra in grado di perpetrarsi anche nelle generazioni più giovani data la difficoltà di staccarsi dalle reti parentali di riferimento e di costruire una storia individuale autonoma che si riscontra anche tra gli adolescenti umbri (Aur, 2009). Nelle società contemporanee, i motivi della bassa fecondità vengono ricercati sia in fattori di atteggiamento individuale quali la tendenza dei giovani adulti a preferire scelte alternative alla genitorialità come ad esempio: carriera, indipendenza, reversibilità delle scelte, possibilità di accesso a beni di consumo, ecc; sia in fattori economici quali il costo crescente del prodotto “figlio” legato al fatto che esso è diventato un bene da produrre con “alto standard qualitativo” (Lestaeghe-Surkyn, 1988). Se si aggiunge a questi fattori anche il rinvio della formazione della famiglia ad una età relativamente avanzata, scontando che nel nostro Paese la fecondità avviene quasi esclusivamente all’interno del matrimonio, si aggravano le condizioni negative che spingono al ritardo e quindi alla (parziale) rinuncia alla maternità (Livi Bacci, 2008). In Umbria sembra esistere una risposta soddisfacente delle istituzioni ai bisogni delle donne in termini di interventi per la conciliazione di famiglia e lavoro. Altri interventi di policy possono essere indirizzati nel contribuire a promuovere tra le nuove generazioni la consapevolezza dell’importanza di affrontare senza ritardi le soglie di passaggio alla vita adulta, tra cui rientra anche la formazione di nuclei familiari autonomi rispetto alla famiglia di origine, piuttosto che il permanere in una condizione perenne di “moratoria”.

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CULTURE DELLA PARTECIPAZIONE E FORME DI AGGREGAZIONE NEGLI ANZIANI Paolo Montesperelli, Riccardo Cruzzolin, Federica De Lauso, Elisa Fuschi, Rosa Rinaldi INTRODUZIONE1 Con questa Introduzione vorremmo ottenere due obiettivi:

1) Mostrare come le varie forme di associazionismo degli anziani siano dense di significati molto incardinati negli attuali mutamenti della società; e come, di conseguenza, sia gravemente riduttivo considerare queste associazioni alla stregua di fenomeni banali e residuali, una sorta di “parcheggio” assistenzialistico per “vecchietti” che attendono di “passare a miglior vita” (cfr. Spedicato 2003);

2) Far discendere dal punto precedente le ragioni delle scelte metodologiche più importanti che hanno orientato la nostra ricerca empirica.

Alle radici dell’associazionismo La spinta ad aggregarsi sembrerebbe una tendenza meta-culturale: l’uomo si definisce tale per la sua capacità di “riflessività”, ossia per la tendenza a riflettere su se stesso e sul suo riflettere; il che richiede una distinzione fra io e non-io: quest’ultimo termine non è il tu ma il noi: per sapere chi sono io, devo capire chi sono gli altri, la comunità in cui vivo, il noi appunto. Martin Buber (1991) parla proprio di “noità” come pienezza dell’essere: opposto ad un rapporto soffocante e totalizzante a due, il “noi” è l’incontro con l’altro senza che questo sia esclusivo; è quindi apertura che resta aperta, creativa di sempre nuove relazioni. Perciò il bisogno di aggregazione, come incontro con il noi, appare costitutivo della nostra esistenza e motivo di arricchimento di significati. Altri spunti interessanti potrebbero provenire da Mead (1966) e dal suo concetto di “altro generalizzato”: l’immagine di perfezione degli altri, come membri del proprio

1 La presente introduzione è stata redatta da Paolo Montesperelli.

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gruppo, porta il singolo a scoprire i ruoli rivestiti da lui stesso e dagli altri, nei processi di socializzazione e mediante un processo di astrazione costitutivo del proprio “sé”. In entrambe queste prospettive, ed in molte altre ancora, costituisce un’istanza fondamentale il bisogno di ritrovarsi negli altri, la tendenza ad imbastire relazioni stabili, la propensione ad aggregarsi insieme ad un ampio ventaglio di soggetti2. Se forse questa è la radice della socialità, l’associarsi è una sua specificazione. Con il termine ‘associazione’ intendiamo un’aggregazione costituita volontariamente dalla base, con l’intento di perseguire - mediante l’organizzazione di azioni collettive - uno o più scopi che esorbitino dalla capacità di prestazione dei singoli individui interessati a conseguirli (Gallino 1989, 13). La volontarietà dell’adesione e l’organizzazione di azioni collettive evocano un contesto democratico, alimentato dall’associazionismo stesso. Un primo autore che si pone in questa prospettiva è Tocqueville (1835), che nell’Ottocento rimase colpito dalla diffusione dell’associazionismo spontaneo negli Stati Uniti. Almeno da quello studio in poi, il grado di tolleranza, adesione, fiducia3 nei confronti della polis posto in rapporto con la vivacità della “cultura civica” e col ruolo attivo svolto dai cittadini entro un quadro di democrazia partecipata (cfr. Bobbio et al. 1983, 297, 1117; Cotesta 1998; Pendenza 2000): ad esempio, per Polanyi (1944) l’azione volontaria collettiva è espressione insopprimibile della società civile, frutto dei legami di solidarietà in piccoli gruppi (famiglia allargata, comunità locale, etc.), in aggregazioni sociali intermedie o anche in organizzazioni poste a livello sociale generale (per ispirazione di orientamenti etici, universalistici, religiosi). Se sono davvero autonome, le associazioni aiutano a contrastare eventuali tendenze invadenti dello Stato; favoriscono l’aggregazione e l’espressione della domanda politica; facilitano i processi di comunicazione e contrattazione tra il “centro” politico e i nodi periferici del sistema; aiutano a decentrare il potere; favoriscono il buon funzionamento delle istituzioni; quando democraticamente organizzate, aiutano a formare le virtù civiche, i valori della partecipazione e della solidarietà negli individui, contribuendo a far sì che la singola persona acquisisca consapevolezza del proprio ruolo di cittadino nella società (Cohen e Rogers 1992; Putnam 1993; Hirst 1994 e 1997; Putnam 2000). Lo sviluppo dell’associazionismo in Italia ha subìto un certo ritardo dovuto a ragioni storiche4. Il fatto che il fascismo avesse ridotto al minimo l’autonomia della società civile nei confronti dello Stato si è fatto sentire per molto tempo. Le ricerche di Almond e Verba (1963) denunciavano, ancora negli anni ’50, un tessuto associativo molto più povero di quello presente in tanti altri Paesi occidentali. Nei due decenni

2 Accanto alla domanda di riconoscimento da parte degli altri, Crespi (1985 e 2004) pone giustamente anche la tendenza a distanziarsene, in un’oscillazione costante fra identità e non-identità. 3 Mutti, al termine di un’ampia e ragionata rassegna, considera la fiducia «un’aspettativa di esperienze con valenza positiva per l’attore, maturata sotto condizioni d’incertezza, ma in presenza di un carico cognitivo e/o emotivo tale da permettere di superare la soglia della mera speranza» (1998, 42). 4 L’AUR ha trattato più ampiamente questi argomenti in Montesperelli (2007b).

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successivi il nostro Paese ha iniziato a colmare il proprio ritardo, grazie soprattutto ai “nuovi movimenti sociali” e ai sindacati, ma ancora negli anni ‘90 l’Italia risultava agli ultimi posti fra 15 nazioni ad economia avanzata (Curtis et al. 1992; Verba et al. 1995; Curtis et al 2001, Schofer et al. 2001). Una svolta significativa è stata impressa con “Mani Pulite” e con la crisi della “Prima Repubblica”, quando molti militanti delusi hanno preferito abbandonare i partiti per impegnarsi interamente nel sociale (La Valle 2004; cfr. Sciolla 2004, 154 ss.). Questo trend in ascesa è continuato fino ad oggi (Iref 2000; Scidà 2000): secondo recenti dati Istat, in Italia il 22,5% di persone con più di 13 anni d’età partecipa a qualche forma di associazionismo volontario5; L’Umbria (22%) si colloca su posizioni mediane, ma fra le ultime regioni del Centro-Nord. Ripartendo le regioni in aree geo-politiche, si è visto che la “Zona rossa”, in cui è inclusa anche l’Umbria, registra livelli di partecipazione un po’ più bassi di quelli del Nord, ma molto più elevati di quelli centro-meridionali6. Il Nord si presenta molto variabile al proprio interno; e anche quando sono alti i livelli di partecipazione, solo in parte ciò è riconducibile alla cultura politica “bianca” e al modello tipico del Nord-Est. Invece nelle regioni a tradizione “rossa”7 sembra giocare un ruolo molto più incisivo il tessuto politico e socio-culturale peculiari della “terza Italia” (Montesperelli e Carlone 2006, 37-40; cfr. Diamanti 2009, 31 ss.). Entro tale contesto, però, solo di recente in Umbria l’incidenza dell’associazionismo ha registrato un incremento significativo, soprattutto rispetto alle regioni vicine. In precedenza, invece, la società civile umbra non ha trovato le condizioni per sviluppare iniziative associative autonome. Infatti fino al secondo dopoguerra, il “capitale associativo” è stato a lungo povero, data la secolare arretratezza in cui era rimasto il tessuto produttivo e urbano. Ciò non ha impedito, però, una intensa integrazione fra tradizione culturale, produzione e società, mentre il sistema e la cultura politiche hanno garantito, soprattutto tramite le amministrazioni locali, alti livelli di rappresentanza e di coesione sociale. Tutto ciò ha portato l’Umbria nell’ambito della “Terza Italia” (cfr. Bagnasco 1977). Data questa stretta integrazione, in Umbria - così come in altre regioni - per lungo tempo i partiti hanno potuto rappresentare quasi per intero la domanda sociale, 5 Percentuale di persone di oltre 13 anni che hanno partecipato a riunioni di volontariato, di associazioni ecologiche, per i diritti civili, per la pace o che hanno svolto attività gratuita per associazioni di volontariato, sul totale della popolazione di oltre 13 anni. 6 Il Nord include la Valle d’Aosta, il Piemonte, la Lombardia, il Veneto, il Trentino Alto Adige, il Friuli-Venezia Giulia, la Liguria; alla “Zona rossa” sono state attribuite Emilia-Romagna, Toscana, Marche, Umbria; le restanti regioni sono state classificate nel Centro-Sud. Sull’attualità di questa ripartizione, cfr. Fideli (2002, 94 ss.). La scelta di questa variabile è stata dettata dal fatto che i gruppi di regioni così definiti erano più omogenei al proprio interno (coefficienti di variazione più bassi) e più eterogenei rispetto agli altri gruppi (più ampie differenze fra medie; più elevato il valore di 2). 7 Per una mappa aggiornata dei vari “colori” socio-politici distribuiti sul territorio nazionale, vedi Diamanti (2009).

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avvalendosi di quei rapporti fiduciari reciproci e del radicamento del sociale nella “sub-cultura politica locale”8. Talvolta le istituzioni pubbliche hanno addirittura anticipato la capacità d’iniziativa dell’associazionismo. In tal modo nel politico era sussunta la società civile. Data una funzione così predominante del sistema politico locale, alle associazioni è restato un ruolo secondario, che talvolta è consistito in legami più o meno “collaterali” verso i partiti, soprattutto verso quelli “di massa”. Infatti questi ultimi erano in grado di operare una sintesi fra conoscenza, mediazione e decisione. Ciò aiuta a capire perché a lungo è rimasto aperto il divario fra una grande capacità progettuale del politico (si pensi alla grande stagione del regionalismo: Carnieri 1990 e 1992), da una parte; e, dall’altra, una notevole debolezza della società civile che, per certi versi, era “trainata” del politico. La fase successiva, che ha attraversato l’Umbria e gran parte del Paese, è stata segnata da profondi mutamenti: la “secolarizzazione politica”, la fine dei partiti di massa, la progressiva autonomia sindacale, il ridimensionamento della centralità della politica hanno contribuito alla crescita delle azioni collettive provenienti direttamente dalla società civile (cfr. Sciolla 2004, 146-151; La Valle 2004). La crisi dei “partiti di massa” ha determinato la fine di un “fulcro” capace di fare sintesi fra decisione, mediazione e conoscenza, a danno soprattutto della conoscenza ma, in parte, anche della decisione. Inoltre i precedenti legami dell’associazionismo con il sistema politico si sono molto allentati, sfilacciati, talvolta addirittura recisi. Di conseguenza si offusca il rapporto fra politica e società civile: l’una soffre le spinte verso l’autoreferenzialità del ceto politico; l’altra fra non poche difficoltà conquista la propria autonomia. Lo stesso concetto di “società civile” torna in discussione. Da una parte si colloca una visione molto riduttiva: la “modernizzazione” - intesa come trionfo del mercato - solleciterebbe la rivitalizzazione della società civile, intesa però solo come insieme di ceti medi, professioni, imprenditori. Sulla scorta di questa concezione, si delinea un’ipotesi di alleanza a due, cioè fra ceto medio e impresa (come denuncia Covino 2005, 54). Invece, una seconda visione, di più ampio respiro, riconosce un esteso ventaglio di forme in cui la società civile si auto-organiza. Ad esempio, di fronte alla divaricazione fra bisogni sociali e risposte date dallo Stato o dal mercato, si auspicano quelle forme di aggregazione che consentano il passaggio dalla pianificazione sistemica al welfare mix; oppure che agevolino la transizione da una modellizzazione economicistica e un po’ tecnocratica dello sviluppo locale, a uno stile negoziale e partecipativo (patti territoriali, progetti finalizzati, etc.), ove il pubblico programmi, coordini e accrediti ma non fagociti.

8 Ovviamente nel termine ‘sub-cultura’ non vi è alcuna connotazione valutativa; con esso vogliamo solo indicare un “sotto-sistema” incluso nel più esteso ambito della cultura politica del Paese.

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L’Umbria sembra protendersi verso questa seconda direzione, agevolata sia da una cultura politica meno centralistica, sia da un salto qualitativo dell’associazionismo stesso. Infatti alla crisi del collaterialismo non è subentrata, nell’ampia nebulosa delle associazioni, l’estraneità alla polis e alle istituzioni pubbliche. Anzi, di solito oggi si assiste ad una più stretta collaborazione reciproca fra associazionismo ed enti locali in svariati terreni d’impegno e nel reperimento delle risorse necessarie (cfr. Diamanti e Neresini 1994, 8). L’associazionismo è cresciuto in quantità e qualità, rivelando potenzialità inedite accanto a nuovi rischi: il pericolo è che esso in un prossimo futuro si snaturi, avvicinandosi troppo a modelli di managerialità commerciale, come accade al “terzo settore” in alcuni Paesi europei. Le potenzialità derivano dal fatto che le associazioni si dimostrano ormai assai distanti dalla subalternità, avendo assunto un atteggiamento maturo di contrattazione con le istituzioni e di migliore organizzazione delle proprie attività. Forme di aggregazione degli anziani, cultura della partecipazione e mutamento sociale Entro questo contesto, hanno conquistato un ampio rilievo proprio le varie forme di aggregazione assunte dall’associazionismo degli anziani. Ciò è dovuto a trasformazioni radicali in ambito socio-demografico, che derivano da un passato non più recente. Nei secoli XVIII e XIX in Occidente l’incremento del benessere e della qualità della vita (si pensi al miglioramento della sanità, dell’alimentazione, delle abitazioni)9 innesca un’inversione di tendenza nella mortalità, che cala vistosamente rispetto all’epoca precedente. Secondo David Riesman (Riesman et al. 1967), in concorrenza con altri fattori determinanti - quali l’avvento del capitalismo su larga scala e la diffusione dell’industrializzazione - si viene ad affermare un “carattere sociale” 10 basato sulla propensione verso la “auto-direzione” (ridimensionamento, rispetto all’epoca precedente, dei gruppi primari di socializzazione, come la famiglia; organizzazione sociale meno costrittiva; superamento di modelli tradizionalisti; espansione della soggettività individuale; direzione interiorizzata, autonomia della persona; accentuazione della differenziazione sociale e culturale; pluralismo, conflitto di valori, etc.).

9 In Italia, durante il periodo 1881-1950, 2/3 dell’allungamento della speranza di vita furono dovuti al controllo delle malattie (Caselli 1991). Secondo Livi Bacci (1998, 157-8), inizialmente hanno giocato prevalentemente fattori culturali e sociali: il modo di allevare bambini; l’igiene personale; la migliore organizzazione dei mercati, etc. In una seconda fase, sono subentrati fattori più propriamente economici, quali i miglioramenti nella vita materiale e nelle infrastrutture. Nella terza fase, ancora in corso, sono determinanti i fattori specificamente medici e scientifici. 10 Riesman riprende il concetto di carattere sociale da Fromm: «Ci interessano non le peculiarità per cui le persone di un gruppo differiscono le une dalle altre, ma quella parte della struttura del loro carattere che è comune alla maggior parte dei membri di un gruppo (…), sviluppatasi per effetto delle esperienze fondamentali e del modo di vita comune a tale gruppo» (1978, 238).

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In Italia negli anni ’60 diviene esplicito il passaggio ad una fase successiva, nella quale interviene un secondo processo di ampia portata: non solo continuano a diminuire le morti, per effetto di una più prolungata speranza di vita; ma iniziano a calare anche le nascite, segnando così il nostro ingresso in un nuovo modello di società, chiamata dai demografi “matura-stazionaria”: essa è “matura” per l’alta incidenza di anziani, ed è “stazionaria” perché le poche nascite compendiano appena le scarse morti, portando la nostra dinamica demografica vicino alla “crescita zero”. Gli effetti sociali di tali mutamenti sono rilevanti: la vita diviene più lunga, sicché vi è più tempo, compreso il tempo libero che può essere dedicato ai rapporti interpersonali; le relazioni sociali si moltiplicano; cresce anche la qualità del tempo di non-lavoro, perché le condizioni materiali consentono «un prodigo consumo voluttuario del tempo libero e dei prodotti di eccedenza» (Riesman et al. 1967, 26). L’apertura alle relazioni sociali e ai consumi di massa - aggiunge Riesman - fanno sì che, sul piano del carattere sociale, emerga un nuovo tipo, quello “etero-diretto”11, in cui il singolo diviene molto più sensibile all’approvazione, al riconoscimento, ai “segnali”, ai messaggi che provengono dai suoi simili (non solo mass-media, ma anche amici, coetanei, etc.). Da qui un’acuta sensibilità alla socialità, alle relazioni interpersonali non gerarchiche e alla ricerca di riconoscimento da parte dei “pari”. Questo nuovo carattere, a sua volta, sempre secondo Riesman sarebbe coerente con la terziarizzazione dell’economia e con il capitalismo monopolistico che implica una minore importanza attribuita all’individualismo (cfr. Weber 1945 e 1961). Come ha già illustrato più ampiamente l’AUR, l’Umbria ha partecipato interamente a questi profondi mutamenti sociali (Montesperelli 2007a). Una peculiarità della nostra regione è che, su un ampio spettro di processi sociali, essa resta a lungo in ritardo rispetto a molte altre regioni, ma poi recupera con una velocità molto più rapida. Questo determina il fatto che alcune coorti siano testimoni e protagoniste di mutamenti profondi ma concentrati in tempi ridotti. Ciò riguarda l’attuale fascia di anziani. Chi oggi si trova nella “terza età” ha vissuto in prima persona il passaggio dalla prima alla seconda società, dalla “auto-direzione” alla “etero-direzione”, assimilando - in un mix composito - riferimenti da entrambe. Dall’una ha tratto l’iniziativa individuale, che non si è ridotta a individualismo perché invece lo spirito d’iniziativa si è speso in senso solidaristico (a partire dalla famiglia mezzadrile, così importante nel “patrimonio genetico” della nostra società regionale). Per altro verso, gli stessi anziani hanno tratto dalla nuova società “maturo-stazionaria” ed “etero-diretta” un uso più gratificante del tempo, un senso di socialità che travalica sia i confini familiari sia le ragioni di interesse economico immediato (a tal proposito Inglehart parla di “post-materialismo”). Ad esempio, il tempo è diventato una delle risorse più strategiche, disponibile e consumabile secondo particolari “stili di vita”. Ed in quanto prodotto di consumo, esso è divenuto linguaggio, forma comunicativa che il

11 Questo termine non ha un’accezione valutativa e quindi non implica significati dispregiativi: lo “etero-diretto” non coincide con il conformista, l’alienato, etc.

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singolo assume per esprimere la propria identità e per alimentare le relazioni interpersonali (cfr. Fabris 2003). Spendere parte del proprio tempo in un’associazione diviene quindi anche atto simbolico, un modo per definire la propria identità in rapporto agli altri. Quest’ultima considerazione sulla comunicazione interpersonale apre il tema della socializzazione, intesa come trasmissione di identità, valori, atteggiamenti, riferimenti simbolici (Berger e Lukcmann 1969). Almeno dal secondo dopoguerra in poi, la struttura della socializzazione è profondamente mutata:

a) da “monocentrica” si è fatta “policentrica”, in quanto la famiglia non è più il perno della socializzazione, ma è un’agenzia in concorrenza con molte altre; ciò significa che l’anziano non esaurisce più il suo ruolo di attore della socializzazione entro le mura domestiche, ma è aperto a realtà aggregative diverse e plurime (cfr. Spedicato 1992);

b) da “verticale” si è fatta anche “orizzontale”: la socializzazione non si muove più solo attraverso i canali che passano da una generazione all’altra, ma transita pure in senso orizzontale, tra “pari”, tra “coetanei”; anche l’anziano tende a tessere rapporti di socializzazione interattiva con i propri “pari”, per esempio all’interno di varie forme di aggregazione. L’attenzione alla qualità del tempo si intreccia con la sensibilità più acuta verso la qualità delle relazioni orizzontali;

c) Dai due punti precedenti deriva l’importanza crescente della “socializzazione secondaria” (lavoro, tempo libero, socialità extra-familiare) rispetto a quella “primaria” (famiglia);

d) La socializzazione, proprio perché si svincola dalla trasmissione primaria e verticale, non è solo riproduzione del patrimonio culturale dominante in funzione della conservazione dello stato esistente12; ma sempre più diviene fucina di orientamenti almeno in parte innovativi; ciò significa che anche le aggregazioni di anziani - malgrado alcuni diffusi luoghi comuni - possono esprimere comportamenti, orientamenti e domande sociali innovativi.

e) Poiché la socializzazione travalica i canali primari e verticali, allora essa non è più strettamente legata ad appartenenze ascrittive, quali classi e ceti, ma tende a generalizzarsi. Ovviamente la stratificazione sociale gioca ancora un ruolo importante, soprattutto per vie indirette, quali l’istruzione scolastica (gli

12 Questa visione della socializzazione come mera replica del passato è presente nei versi di Robert Desnos in “La riproduzione”: «Il capitano Jonathan, / all’età di diciotto anni / cattura un giorno un pellicano / in un’isola dell’estremo oriente. / Il pellicano di Jonathan, / al mattino, depone un uovo tutto bianco / e ne esce un pellicano che gli assomiglia in modo straordinario. / E questo secondo pellicano / depone, a sua volta, un uovo tutto bianco / da cui esce, ovviamente, / un altro pellicano che fa altrettanto. / Tutti ciò può durare molto a lungo / se non si fa una frittata prima». Di solito si attribuisce ai giovani la capacità di fare questa frittata (così p. es. Ricolfi e Sciolla 1980), ma non capiamo perché non possano farla anche gli anziani. In realtà stanno nascendo pellicani di vari colori.

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orientamenti che abbiamo descritto sono più vicini ad anziani con un patrimonio culturale medio e alto); ma per il fatto che le coorti di anziani sono sempre più scolarizzate, tali orientamenti non sono prerogativa di poche classi sociali.

La ricerca di identità mediante socialità non è affatto tipica di fasi adolescenziali. In ogni svolta fondamentale della propria biografia, l’individuo deve ricalibrare la propria “definizione del sé”: anche il passaggio dalla fase lavorativa alla pensione costituisce un salto cognitivo che invoca un riassestamento. In questa direzione, per il singolo diventa essenziale essere riconosciuto, accettato dagli altri, i quali diventano quindi una risorsa cognitiva ed affettiva fondamentale. Da qui il fatto che nell’associarsi è indispensabile “stare bene insieme”: può essere importante ciò che si fa, ma è ancora più rilevante farlo insieme agli altri. Anche obiettivi esterni al gruppo svolgono questa funzione interna, cementano la coesione, rendono piacevole il tempo condiviso, offrono l’occasione di un tempo libero che, per certi versi, sia anche liberante. D’altra parte, sarebbe del tutto riduttivo concludere che l’associazionismo degli anziani sia allora una specie di “riserva”, gratificante al proprio interno e chiusa all’esterno. Come abbiamo visto a proposito dell’associazionismo in generale, anche quello degli anziani tende a rapportarsi con la “polis” (Ruggeri 1993), ma lo fa in termini in parte diversi dal passato: oggi anche nella “terza età” sembra attecchire - almeno in parte - un “nuovo paradigma” che fu evidenziato, a partire dagli anni ’70 e ’80, da alcuni autori (Habermas, Touraine, Melucci) per altre fasce di popolazione: emergono domande che non riguardano direttamente le transazioni economiche, ossia ciò che uno ha; ma concernono il campo culturale dell’identità, ovvero ciò che uno è ed è stato. Queste domande di identità - che attengono alla corporeità, alla salute e all’alimentazione, agli spazi urbani, alle possibilità di muoversi sul territorio, al rapporto fra tempo individuale e tempo sociale, al contributo della biografia alla socializzazione, etc. - sono esterne al mercato politico, a differenza per esempio delle rivendicazioni sindacali o delle competizioni partitiche. Eppure non sono estranee alla politica, non sono solo self-help, non conducono una “esistenza insulare” (cfr. Offe 1983): spesso, invece, rivolgono alla politica le loro richieste e comunque testimoniano un modo diverso, talvolta nuovo, di vivere la cittadinanza (Ripamonti 2005). Anche i “linguaggi” con cui sono espresse quelle richieste tendono a diversificarsi dal sistema politico. Mentre le forze politiche, per reagire alla crisi di consenso che attraversa tutto l’Occidente, generalizzano i propri linguaggi; le iniziative del sociale - come l’associazionismo degli anziani - considerano tale generalizzazione una “omologazione”, un ostacolo alla propria peculiare identità, per cui non generalizzano la propria domanda sociale, ma anzi adottano istanze particolari di immediatezza. Da qui il diffondersi di una miriade di iniziative associative e di azioni collettive almeno apparentemente “frammentate”, ma che innervano nel profondo, e talora in maniera temporaneamente latente, la riproduzione culturale e le forme della vita quotidiana.

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3. Le scelte metodologiche Sulla base delle ipotesi sopra tratteggiate, ci siamo chiesti quale approccio fosse più adeguato per il riscontro empirico. Abbiamo optato per una prospettiva non direttiva, cioè “qualitativa” o, per meglio dire, “non standard” (per queste definizioni rinviamo a Marradi 1996), in considerazione di almeno quattro ragioni:

i. l’assenza quasi totale di fonti statistiche ufficiali in grado di offrire informazioni sufficienti sui nostri argomenti;

ii. la necessità di adottare modalità di rilevazione che fossero il più possibile vicine al “mondo della vita quotidiana” dei soggetti da interpretare;

iii. la natura esplorativa della nostra ricerca; iv. l’adeguatezza e la funzionalità del rapporto fra obiettivi cognitivi e

approccio non direttivo. Con il primo punto vogliamo sottolineare che non aderiamo ad alcuna contrapposizione astratta fra “ricerca qualitativa” e “quantitativa”, “standard” e “non standard”: la scelta fra le due va compiuta volta per volta, in base alle opportunità del caso e agli obiettivi cognitivi, ben sapendo che entrambi gli approcci presentano vantaggi diversi e limiti di eguale portata. Con il secondo punto intendiamo riferirci alla specificità degli anziani: si tratta di persone talvolta con livelli di istruzione medio-bassi e comunque con “stili cognitivi” estranei a quelli sottesi ad una intervista direttiva; un questionario strutturato, un approccio “standard” avrebbe comportato l’adozione di abilità logico-astrattive, l’adesione a una prospettiva cognitiva assai distante da quello più usuale, tipico della vita quotidiana (Berger e Luckmann 1969; Schütz 1974). Invece un’intervista non direttiva deve approssimarsi alla conversazione “normale” e si dimostra quindi più agevole (Montesperelli 1998). Inoltre abbiamo potuto constatare, nel corso delle interviste, una frequente e intensa volontà di narrare, il che ben si addice a questa tecnica di ricerca sociale. Gli ultimi due punti rinviano ad un principio fondamentale delle procedure “non standard”: la centralità dell’interlocutore. Con quest’ultimo termine intendiamo colui che interagisce con il ricercatore, in quanto intervistato o come attore interpretato nel corso di una ricerca etnografica. L’interlocutore viene considerato dal ricercatore il vero esperto del proprio contesto (biografia, vita quotidiana, relazioni “faccia a faccia”, etc.: cfr. Schütz 1974). Ciò significa che il ricercatore deve adottare un orientamento fortemente induttivo, deve cioè “spalancare gli occhi” sui comportamenti (osservazione etnografica) e “tendere gli orecchi” (intervista). Virtualmente, tutto ciò che vede e ascolta è prezioso e va registrato. Così, è l’intervistato a guidare l’intervista; tutto ciò che egli afferma e come lo afferma sono meritevoli di grande attenzione da parte del ricercatore. Da qui

DENTRO L’UMBRIA due626

la scelta di interviste non direttive, proprio perché - per la loro plasticità - meglio si adattano al profilo soggettivo del singolo intervistato e alle sue modalità espressive13. D’altra parte, pretendere di registrare tutto sarebbe illusorio e si presenterebbe come un’ennesima versione dell’oggettivismo: uno stesso oggetto cognitivo è composto da un numero indeterminato di aspetti, conoscibili mediante selezione basata sul punto di vista del soggetto (Weber 1958). Quindi è irrealizzabile una prospettiva radicalmente “olistica”, che includa ogni possibile aspetto dell’oggetto/soggetto da conoscere. È però possibile che nella descrizione del particolare vi sia un rinvio inferenziale - e perciò cauto - a contesti più ampi e significativi (Marradi 1987, 133-4; Fabietti 2001, 81-2). È altresì possibile che la rilevazione non consideri singole proprietà, né relazioni fra proprietà; ma rapporti contestuali, percezioni “configurative”, unità vitali, porzioni più globali, meno frammentate: per esempio le relazioni in una comunità o in un gruppo; la vita quotidiana; alcuni percorsi individuali; le strategie complesse di (ri)definizione di valori e atteggiamenti, etc. Proprio questo approccio tendenzialmente configurativo contraddistingue tale metodo da quello basato sulla matrice dei dati e sulla elaborazione statistica14. Anche i nostri obiettivi cognitivi non riguardano proprietà, ma dimensioni più ampie, segmenti della vita quotidiana, rappresentazioni sociali, relazioni interpersonali, etc.: ciò ha ulteriormente rafforzato la nostra convinzione circa l’opportunità di adottare una prospettiva “qualitativa” e “non standard”. Abbiamo però scartato l’ipotesi di una ricerca totalmente induttiva: sia perché ci pare illusorio credere ad una ricerca che parta da una tabula rasa, cioè da una completa assenza di attese e valori, di sapere tacito ed esplicito; sia perché un apparato concettuale preliminare fa parte di quelle “pre-comprensioni” che non ostacolano, ma anzi aiutano il dialogo con l’interlocutore; e che alimentano l’interpretazione (cfr. Gadamer 1983)15. Abbiamo quindi adottato una mappa concettuale a struttura tassonomica, che riportiamo in Appendice 1. In quanto forma di classificazione, essa consente un’adeguata sistematicità, evitando che alcuni temi si sovrappongano ed altri siano omessi. La natura tassonomica permette, inoltre, di evidenziare livelli diversi di generalità.

13 «Quanto più un dialogo è autentico, tanto meno il suo modo di svolgersi dipende dalla volontà dell’uno o dell’altro degli interlocutori. Il dialogo autentico non riesce mai come noi volevamo che fosse. Anzi, in generale è più giusto dire che in un dialogo si è “presi”, se non che il dialogo addirittura ci cattura e ci avviluppa» (Gadamer 1983, 441). 14 Per i limiti un metodo, quello “standard”, basato sulla distinzione fra proprietà e quindi sullo “assunto atomista” di scindibilità caso/stato, rinviamo a Marradi (1996). 15 «Più vago è il disegno della ricerca e meno è selettiva la raccolta delle informazioni; TUTTO appare inizialmente importante a chi aspetta di cogliere gli elementi chiave o le regolarità che emergono dal campo, e questa attesa può protrarsi per molto» (Miles e Huberman 1984, 28)

AURAPPORTI: RES 2008-09 627

Questo strumento è stato usato in due modi diversi. Nel primo, come temario per le interviste16 e come griglia orientativa per l’osservazione. Con ‘temario’ intendiamo un semplice elenco di temi, una “traccia per l’intervista”, ben distante dalla standardizzazione di un questionario strutturato. Il secondo uso riguarda la fase successiva alla rilevazione ed è consistito nel suo utilizzo come schema di classificazione degli stralci tratti dalle interviste: una volta evidenziati i brani più significativi, essi sono stati classificati secondo criteri tematici, agevolando l’analisi tematica e comparativa. Ci pare opportuno ricordare, altresì, la valenza della documentazione raccolta. L’osservazione riveste un ruolo fondamentale nella storia della ricerca sociale17. Essa consiste nella partecipazione prolungata ad un gruppo (di entità ristretta) per osservarne le pratiche, i comportamenti, le dinamiche interne, le relazioni. Si tratta quindi di informazioni “fattuali” - anche se mediate dai significati attribuiti sia dagli attori osservati sia dall’osservatore-etnografo18. Nella nostra ricerca, l’osservazione di associazioni di anziani è durata quattro mesi. Questo tempo non è scarso: infatti mentre gruppi distanti dalla cultura dell’etnografo (comunità di Paesi lontani, sette molto chiuse, etc.) richiedono molto tempo, un gruppo più familiare necessita di un periodo minore (Silverman 2008). Un ulteriore vantaggio deriva dal fatto che l’osservazione si è svolta durante tutta l’estate, una stagione in cui le attività di molte associazioni si intensificano. Nelle interviste non direttive le informazioni raccolte sono ancora meno “fattuali”, poiché consistono in rappresentazioni, in narrazioni orientate da valori, da atteggiamenti e da criteri di rilevanza. Ovviamente tali narrazioni possono raccontare eventi “oggettivi”, fornendo così notizie utili, esterne alla soggettività dell’intervistato. Ma, in ogni caso, la conformità della narrazione alla “realtà” passa in secondo piano, poiché qui diviene prioritaria la narrazione come espressione di aspirazioni, percezioni e rappresentazioni dell’intervistato. Ciò non è meno importante della verità “obiettiva”. Infatti dal “come se” deriva il comportamento immediato dell’attore: «se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze» (Thomas 1928, 572). E proprio il verificarsi di queste conseguenze rafforza le originali convinzioni, rendendole più “evidenti” e più significative, anche se non conformi alla “realtà dei fatti”.

16 Anche se abbiamo organizzato l’apparato concettuale in maniera sistematica, ciò non ha costituito un vincolo al momento delle interviste: proprio la loro natura non direttiva legittima la necessità di un costante adattamento intervista per intervista; sicché talvolta può essere opportuno saltare alcuni temi previsti, posporne alcuni, anticiparne altri, proporre argomenti su livelli diversi di generalità, etc. 17 «L’osservazione si è rivelata fondamentale in molte ricerche qualitative. A cominciare dai pionieristici studi di caso su società non occidentali compiuti dai primi antropologi (Malinowsky 1922, Radcliffe-Brown 1948) per continuare con i sociologi della Scuola di Chicago prima della seconda guerra mondiale, il metodo osservativo è stato spesso il metodo scelto per comprendere meglio un’altra cultura» (Silverman 2008, 34). 18 «Senza alcun orientamento concettuale non si può nemmeno riconoscere il campo d’indagine» (D. Silverman 2000, 113).

DENTRO L’UMBRIA due628

La complessità della conduzione e dell’interpretazione di questo tipo di interviste - oltre ai limiti di tempo imposti da fattori contingenti - esclude la estrazione di campioni probabilistici che, in quanto tali, dovrebbero essere molto più estesi delle effettive possibilità. Per evitare, però, selezioni “di comodo”, rette totalmente dal caso più aleatorio, abbiamo optato per un campionamento “a scelta ragionata”: gli intervistandi sono stati diversificati in base a proprietà che abbiamo ritenuto importanti alla luce dei nostri obiettivi cognitivi. Le proprietà poste a base di tale campionamento sono:

- Collocazione territoriale (Centri urbani di dimensioni grandi / piccole); - Genere sessuale dell’intervistando (uomo / donna); - Livelli di partecipazione all’associazione (leader / partecipante “di base”); - Tipo di aggregazione (culturale / di tipo primario19 e per il tempo libero / di

tipo secondario, rivendicativo, per la tutela di diritti); Abbiamo inoltre cercato di aggiungere ulteriori criteri di diversificazione, relativi all’istruzione e alla collocazione socio-economica dell’intervistando. Combinando in maniera congiunta queste proprietà, abbiamo delineato diversi tipi di soggetti da intervistare. Per ciascun tipo abbiamo previsto una numerosità uguale a quella di ciascun altro tipo, fino a raggiungere il totale di 63 interviste20. Questa tendenziale “equi-distribuzione” punta a cogliere eventuali differenze fra tipi. D’altra parte sarebbe stato impraticabile adottare criteri di proporzionalità, perché la numerosità del nostro campione non poteva essere alta, ma soprattutto perché è ignoto come si distribuisca la popolazione complessiva. Adottando questi criteri di campionamento, cade però ogni pretesa di rappresentatività statistica (sempre molto problematica anche con i campioni probabilistici: Marradi 1997 e 2007, par. 5.4). Comunque i vantaggi della nostra opzione sono vari: il campionamento è più agevole e consente di cogliere meglio alcune relazioni semantiche. Inoltre esso è particolarmente utile in caso di non elevata numerosità (Corbetta 1999, 349). Quanto alle unità di analisi, esse sono costituite da anziani di 65 anni e oltre, appartenenti alle associazioni. Fra le molteplici forme di aggregazioni, abbiamo considerato le associazioni aventi entrambi i requisiti seguenti:

a) sono composte esclusivamente o in gran parte da anziani; b) sono formali, ossia prevedono iscrizioni; sono governate da uno statuto o da

un regolamento; si articolano in organi interni; e/o sono emanazioni di strutture nazionali.

19 La distinzione fra gruppo “primario” e “secondario” fa riferimento al diverso rapporto fra obiettivi interni (gratificazione) ed esterni (efficacia); non ha quindi accezione valutativa. 20 In “corso d’opera” abbiamo dovuto introdurre lievi modifiche: quella più significativa deriva dalla difficoltà di trovare organizzazioni di anziani dedite all’auto-consumo e distribuite in piccoli centri. La difficoltà di reperirli ha comportato una minima redistribuzione degli intervistandi verso gli altri tipi. Inoltre abbiamo realizzato tre interviste in più rispetto a quelle inizialmente previste.

AURAPPORTI: RES 2008-09 629

I capitoli che seguono raccolgono e commentano i risultati più salienti21. Il primo serve ad inquadrare il nostro tema entro uno scenario socio-demografico; in tal modo abbiamo cercato di innestare la ricerca “qualitativa” entro alcune prospettive “quantitative”, in modo da integrare i due approcci e compendiarne in qualche modo i difetti. Gli altri riguardano le interviste: ragioni di spazio ci hanno costretto, con un certo rammarico, a limitare gli stralci ed i commenti. Gli ultimi due brevi capitoli riportano in sintesi la fase etnografica della nostra ricerca: ossia l’osservazione partecipante di due aggregazioni, scelte per la loro diversità reciproca, in modo da arricchire ulteriormente i risultati. Il “genere letterario” di entrambi si avvicina a quello del diario, com’è giusto quando all’osservazione partecipa il ricercatore con tutta la propria soggettività. 21 Per preservare l’anonimato degli intervistati, in tutti i contributi, sono stati utilizzati nomi fittizi.

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AURAPPORTI: RES 2008-09 633

GLI ANZIANI IN UMBRIA: UNO SGUARDO D’INSIEME22 L’ invecchiamento della popolazione Nel contesto europeo, e addirittura mondiale, l’Italia si configura come uno dei Paesi con la popolazione più anziana; le persone con almeno 65 anni di età rappresentano il 20,0% del totale, in pratica un abitante su 5 ha più di 65 anni. Se si considera l’andamento registrato negli ultimi trent’anni sulla base dei dati censuari (anni 1971- 2001) la popolazione residente ultrasessantacinquenne è aumentata del 74,5%. A livello territoriale il processo di invecchiamento, che pure caratterizza tutta la Penisola, risulta particolarmente avanzato nel Centro-Nord rispetto alle aree del Meridione. L’Umbria, così come già sottolineato nel capitolo precedente (cfr. capitolo Calzola), risulta essere una regione “tra le più anziane in uno dei Paesi tra i più anziani” (Carlone, 2008, p.50). Rispetto al 1971 l’incremento delle persone anziane è stato pari al 95,9%, risultano, quindi, quasi raddoppiate in tre decenni. Oggi gli ultrasessanta-cinquenni sono 205.308 e rappresentano il 23,2% della popolazione23; l’indice di invecchiamento24 è tra i più alti d’Italia (Graf. 1). Graf. 1 - Tassi di invecchiamento - Anno 2008

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Fonte: DemoIstat

22 Il presente paragrafo è stato redatto da Federica De Lauso. 23 Dal confronto dei due capoluoghi di provincia emerge che a Terni la percentuale degli anziani incide maggiormente (24,9%) rispetto al capoluogo perugino (22,6%). 24 L’indice di invecchiamento è il rapporto tra la popolazione con 65 anni e più ed il totale della popolazione.

DENTRO L’UMBRIA due634

Anche l’incidenza delle persone con più di 80 anni (i così detti “oldest-old”) è molto più marcata nella nostra regione (7,1%) che nel resto d’Italia (5,4%)25. Un approfondimento del quadro passa attraverso le differenze di genere. Considerando uomini e donne con più di 65 anni, si registra in tutta la nazione una netta prevalenza delle seconde sui primi con un valore percentuale a livello nazionale pari al 22,6% contro il 17,3% della componente maschile. Tali differenze si ripropongono costantemente seppure con intensità diverse in tutte le regioni. In Umbria la percentuale di donne anziane risulta ancora più elevata rispetto al dato nazionale (25,9%). Il divario tra maschi e femmine esiste in ragione della maggiore longevità delle donne, la cui speranza di vita oggi in Italia supera gli 84 anni (in Umbria 84,2), mentre per gli uomini si attesta intorno ai 78 (in Umbria 79). Oggi un uomo di 65 anni ha una prospettiva di vita di 18 anni (in Umbria di 18, 2), mentre una donna di 21,6 anni (in Umbria di 22) 26. Se si considera la composizione di genere degli anziani umbri, è evidente la prevalenza femminile in tutte le fasce d’età; come prevedibile, all’aumentare degli anni la percentuale femminile tende a pesare maggiormente (Tab. 1). Tab. 1 - Gli anziani in Umbria per classi d’età e genere- Anno 2008

Maschi Femmine Totale v.a % v.a % v.a %

65-74 46.639 46,7 53.237 53,3 99.876 100 75-84 31.553 40,6 46.085 59,4 77.638 100 85 ed oltre 8.719 31,4 19.075 68,6 27.794 100 Totale 86.911 42,3 118.397 57,7 205.308 100

Fonte: DemoIstat Se dall’oggi ci si spinge alle previsioni future, le stime dell’Istat prevedono ancora un andamento crescente del “popolo” della terza età (Tab. 2). Gli ultrasessantacinquenni umbri arriveranno ad essere 242.219 nel 2025 e oltre 330.000 nel 2050 (per un incremento pari al 63,8%). Gli anziani maschi aumenteranno più delle femmine, i grandi anziani più degli altri; i maschi ultraottantacinquenni saranno coloro che subiranno il maggiore accrescimento passando dagli 8.719 di oggi ai 28.413 del 2050. Con gli anni l’incidenza delle donne sul totale della popolazione anziana si alleggerirà seppur in modo lieve (nel 2025 di un punto percentuale, nel 2050 di 2 punti percentuali).

25 Solo la Liguria ha una percentuale più alta dell’Umbria di persone con più di 80 anni (7,9%). 26 Tutti i dati che relativi alla speranza di vita sono stime che fanno riferimento all’anno 2008; cfr. DemoIstat.

AURAPPORTI: RES 2008-09 635

Tab. 2 - Previsioni della popolazione anziana residente e variazioni percentuali - Umbria - Anno 2008

Popolazione 2025 Variazione % 2008-

2025 Popolazione 2050 Variazione % 2008-2050

M F Totale M F Totale M F Totale M F Totale 65-74 52184 58319 110503 +11,9 +9,5 +10,6 63559 68332 131894 +36,3 +28,4 +32,1 75-84 36858 48491 85349 +16,8 +5,2 +9,9 57281 70606 127885 +81,5 +53,2 +64,7 85 ed oltre 15952 30416 46367 +83,0 +59,5 +66,8 28413 48050 76464 +225,9 +151,9 +175,1

Totale 104994 137226 242219 +20,8 +15,9 +18,0 149253 186988 336243 +71,7 +57,9 +63,8 Previsioni DemoIstat, scenario centrale

Fonte: Elaborazioni AUR su dati DemoIstat Il contesto familiare Nel delineare il ritratto dell’anziano nell’attuale realtà socio-culturale, un primo e fondamentale ambito al quale bisogna rivolgere l’attenzione è il contesto familiare. La famiglia è fonte di ciò che nessun altra relazione umana può dare (Donati, 2006, p.7); essa sotto il profilo culturale contribuisce a conferire il senso d’identità sociale, mentre sotto quello strutturale e funzionale offre aiuti e sostegni per far fronte a una gamma potenzialmente molto ampia di bisogni fisici, simbolici e materiali (Donati 1991, 2006), bisogni che con l’invecchiamento possono subire un progressivo aggravamento. In questa prospettiva appare evidente come la rete familiare, attraverso risposte più o meno adeguate alle necessità della persona anziana, assuma un rilievo cruciale nel favorirne il benessere, insieme ad una buona qualità della vita (Scisci, Vinci, 2003, p.36). In Umbria il 58,2% delle persone con più di 60 anni vive in famiglie unipersonali; tale percentuale scende al 37,6% per gli uomini, mentre cresce fino al 70,9% per le donne. I dati strutturali sullo stato civile delle persone anziane evidenziano percorsi di vita completamente diversi per i due sessi (Tab.3). Le donne anziane sono prevalentemente vedove; vive in una situazione di vedovanza, infatti, il 46,7% delle donne contro l’11,7% degli uomini; tale percentuale arriva addirittura al 77,3% per le ultraottantacinquenni. Questa particolarità (in Umbria così come nel resto d’Italia), oltre ad essere riconducibile al fatto che le donne vivono mediamente più degli uomini (come già ricordato), è in parte dovuta anche all’abitudine, tutta al femminile, di non risposarsi alla morte del coniuge. Gli uomini risultano per la maggior parte coniugati e conviventi (80,4%).

DENTRO L’UMBRIA due636

Tab. 3 - Popolazione anziana residente per stato civile - Umbria - Anno 2008

(valori percentuali) Coniugati/e Vedovi/e Divorziati/e Celibi/nubili Totale M F M F M F M F M F

65-74 85,1 65,7 5,6 27,5 1,4 1,5 7,9 5,2 100 100 75-85 78,7 37,0 14,5 56,3 0,6 0,8 6,3 5,9 100 100 85 e oltre 61,1 15,5 34,4 77,3 0,3 0,5 4,2 6,8 100 100 Totale >65 80,4 46,5 11,7 46,7 1,0 1,1 6,9 5,7 100 100

Fonte: elaborazioni AUR su dati DemoIstat La solitudine anagrafica non sempre coincide con la solitudine reale; spesso i legami di parentela svolgono un ruolo essenziale di rete di sicurezza anche fuori dalle mura di casa. E’ infatti la rete di relazioni sociali tra parenti a costituire il vero patrimonio di rapporti familiari degli individui (in particolare la terza età), perché è all’interno di essa che si attivano risorse di socialità e di sostegno materiale e psicologico essenziali per il benessere delle persone (Cioni, 1999, p.54). In Umbria la prossimità abitativa con parenti, così come la frequenza dei contatti tra genitori e figli (o tra nonni e nipoti), il flusso di aiuto e lo scambio di risorse entro la rete parentale dimostrano che la famiglia ancora oggi costituisce un solido “ammortizzatore sociale” (Acciarri, Orlandi, 2005, Barbieri 2007, Acciarri, 2008). Da alcuni anni si parla di una famiglia estesa modificata, che pur prevedendo la vita in case separate, presenta come caratteristica principale l’attivazione di flussi di affetti e scambi così intensi da definirsi come modello di convivenza ad intimità a distanza (Montesperelli, Carlone, 2003, p.64). Se si considera la frequenza con cui abitualmente gli umbri vedono i propri genitori o i propri figli non coabitanti, si confermano legami molto forti; in Umbria le percentuali di coloro che vedono i propri genitori tutti i giorni o più volte a settimana sono più alte del dato nazionale e di quello dell’Italia centrale; lo stesso vale per le occasioni di incontro con i nipoti. Per quanto riguarda i figli i legami si dimostrano ancora più stretti; nella nostra regione, infatti, il 64,3% della popolazione dichiara di vederli tutti i giorni (una percentuale che supera di quasi dieci punti percentuali il dato nazionale). Più basse in Umbria che altrove sono le percentuali delle persone che dichiarano di vedere raramente (o mai) i familiari più intimi (Tab. 4). Anche l’analisi degli aiuti, offerti volontariamente a persone non coabitanti, rappresenta un buon indicatore del sostegno familiare. L’Umbria si caratterizza come un territorio in cui si esprime un elevato livello di solidarietà (Barbieri, 2007): il 27,6% di persone di 14 anni e più dichiara di aver dato nelle ultime quattro settimane almeno un aiuto gratuito a persone non coabitanti27; come è lecito aspettarsi, gli aiuti sono

27 Valori più alti rispetto all’Umbria di persone che dichiarano di aver dato un aiuto a persone non coabitanti si registrano solo in Friuli Venezia Giulia (34,0%), in Veneto (33,2%), in Trentino Alto Adige (32,2%), in Sardegna (31,8%) ed in Lombardia (29,4%); cfr. Istat, 2006.

AURAPPORTI: RES 2008-09 637

soprattutto a favore dei familiari (66,5%) rispetto ai non familiari (33,5%). I principali destinatari risultano essere i figli (22,1%), la madre (16,8%) ed il padre (11,1%)28. Tab. 4 - Relazioni parentali per frequenza d’incontro- Anno 2003

(valori percentuali) Frequenza con cui vedono la madre non coabitante Tutti i giorni Una o più volte a settimana Più raramente Mai Totale Umbria 38,8 43,4 17,3 0,4 100 Centro 30,5 39,7 27,9 1,9 100 Italia 36,1 39,7 22,6 1,5 100 Frequenza con cui vedono il padre non coabitante Tutti i giorni Una o più volte a settimana Più raramente Mai Totale Umbria 36,5 43,9 17,6 2,0 100 Centro 28,9 40,2 27,3 3,7 100 Italia 33,3 39,7 23,9 3,1 100 Frequenza con cui vedono il figlio Tutti i giorni Una o più volte a settimana Più raramente Mai Totale Umbria 64,3 27,9 6,9 0,8 100 Centro 56,7 32,8 9,5 1,0 100 Italia 55,1 32,2 11,7 1,1 100 Frequenza con cui vedono il nipote più vicino Tutti i giorni Una o più volte a settimana Più raramente Mai Totale Umbria 48,3 37,5 12,8 1,4 100 Centro 41,0 42,7 15,1 1,3 100 Italia 42,4 38,5 18,1 1,0 100 Persone fino a 69 anni per frequenza con cui vedono la madre non coabitante

Persone di 25 anni e più con tutti i figli non coabitanti per frequenza con cui vedono l’unico figlio o il più vicino Persone di 35 anni che hanno tutti i nipoti non coabitanti per frequenza con cui vedono l’unico

nipote o il nipote più vicino Fonte: Istat, 2006 Rimane da vedere quali tipi di aiuto vengono maggiormente forniti (Tab. 5); l’aiuto che ottiene la percentuale più alta è la “compagnia, l’accompagnamento, l’ospitalità”; questa forma di aiuto risulta più diffusa in Umbria (29,8%) che nel resto d’Italia (25,1%); sono più consistenti rispetto a quanto accade nel resto del Paese anche gli aiuti relativi all’assistenza degli adulti (19%) e alle prestazioni sanitarie (11,3%). Nella nostra regione, e non altrove, gli aiuti nell’assistenza agli adulti superano quelli per l’assistenza ai bambini (18,4%) in linea con l’alto indice di vecchiaia che ci caratterizza (cfr. capitolo Calzola). E’ evidente, quindi, come molte forme di aiuto elargite si leghino alle esigenze e ai bisogni della popolazione anziana. Gli anziani però, come dimostrano le alte percentuali di aiuti a favore dei figli (in crescita rispetto al passato), oltre ad essere i destinatari di aiuto spesso rivestono un ruolo centrale anche come agenti attivi, a sostegno dei figli, magari quando hanno bambini piccoli o quando semplicemente hanno iniziato un percorso di vita autonoma (Barbieri, 2007, Montesperelli, 2007).

28 Anche a livello nazionale i principali beneficiari degli aiuti risultano essere i figli (19,2%), la madre (18,5%) ed il padre (9,8%); cfr. Istat, 2006.

DENTRO L’UMBRIA due638

Tab. 5 - Persone di 14 anni e più che nelle ultime quattro settimane hanno dato almeno un aiuto gratuito a persone non coabitanti per tipo di aiuto - Anno 2003

(per 100 persone della stessa zona)

Aiu

to

econ

omic

o

Pres

tazi

oni

sani

tarie

Ass

isten

za

di a

dulti

Ass

isten

za

di b

ambi

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Atti

vità

do

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tiche

Com

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ia,

acco

mpa

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to,

ecc

Prat

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Lavo

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extra

-do

mes

tico

Aiu

to

nello

stud

io

Cib

o,

vest

iario

, altr

o

Umbria 12,0 11,3 19,0 18,4 20,5 29,8 18,5 9,1 8,1 16,0 Centro 16,1 10,9 14,8 21,9 19,6 23,3 18,0 9,1 8,4 22,7 Italia 16,2 11,1 17,0 22,5 20,7 25,1 20,6 9,8 9,0 19,2

Fonte: Istat, 2006 I forti legami familiari e le strette relazioni di parentela rappresentano, secondo alcuni teorici (cfr. Donati, Coleman), il luogo privilegiato per la generazione di capitale sociale; una famiglia stabile e caratterizzata da strette relazioni consente l’apprendimento di regole improntate sulla fiducia e sulla reciprocità favorendo così la spinta verso l’esterno, la partecipazione sociale e la cooperazione. Scrive Donati: “le famiglie meno frammentate e più solidali sono maggiormente capaci di dare vita ad un effettivo capitale sociale complessivo della società, mentre le altre forme familiari non contribuiscono alla creazione di capitale sociale, ma anzi lo consumano” (Donati, 2008, p. 15-16). La salute dell’anziano Il rapporto tra anziano e salute è particolarmente complesso; alcuni fattori di tipo socio-ambientale, come per esempio la solitudine, la povertà o semplicemente un’abitazione non idonea, meno rilevanti in età più giovane, possono costituire importanti concause nel condizionare la salute della persona anziana. Oggi in geriatria uno degli strumenti più usati per comprendere ed esaminare le condizioni di salute delle persone anziane è la Valutazione Multidimensionale (VMD). La VMD geriatrica differisce dalla valutazione medica standard in quanto include l’analisi “a 360 gradi” delle condizioni del paziente, considerando secondo un approccio olistico vari fattori, di cui soltanto alcuni di natura medica. Secondo questa visione sono molti gli aspetti della vita che contribuiscono “al buon stato di salute”: la funzione cognitiva, i disturbi affettivi, la compromissione sensoriale, lo stato funzionale, la nutrizione, la mobilità, il supporto sociale, l’ambiente fisico, il carico di “care-giver”, la qualità della vita correlata alla salute e la spiritualità (Romanelli, Alicandri, Bresciani, 2006, p.15-16). Pur consapevoli dell’influenza che ciascuna delle dimensioni elencate ha sul benessere degli anziani in questa sede ci concentreremo su quelle patologie che minano in modo grave lo stato di salute, con conseguenze in termini di riduzione (o perdita) di autonomia, le malattie croniche e la disabilità.

AURAPPORTI: RES 2008-09 639

La presenza all'interno della famiglia di persone con malattie croniche gravi può condizionare in modo rilevante l'assetto organizzativo e gli equilibri del sistema familiare, per i maggiori bisogni sia di assistenza e cura che di sostegno materiale che ne derivano. Situazioni ancora più gravi possono essere vissute dalle persone anziane che si trovano sole a dover affrontare le difficoltà connesse alla presenza di tali patologie. In Umbria le malattie croniche colpiscono il 49,2% delle popolazione anziana; il 51,0% risulta essere affetto da più malattie croniche. Se si confronta il dato regionale con quello nazionale e quello ripartizionale, è evidente un maggiore svantaggio degli umbri (Tab. 6). Le donne, sia nella nostra regione che nel resto del Paese, risultano più penalizzate degli uomini. Tab. 6 - Persone di 65 anni e più con nessuna malattia cronica, con almeno una malattia cronica grave o con tre o più malattie croniche dichiarate, secondo il sesso e la ripartizione geografica - Anno 2005

(per 100 persone con le stesse caratteristiche) Senza malattie croniche Con almeno una malattia cronica Multicronici M F Totale M F Totale M F Totale Umbria 13,8 10,6 12,0 51,8 47,3 49,2 45,2 55,2 51,0 Centro 19,6 14,1 16,4 46,6 38,9 42,2 39,7 50,6 46,0 Italia 21,7 14,3 17,4 45,5 38,9 41,7 36,1 48,0 43,0

Fonte: Istat, 2007 In alcuni casi le malattie croniche (così come alcuni eventi traumatici o le malattie congenite) possono generare condizioni di disabilità e limitare così in modo continuativo il grado di autonomia personale dei malati. Secondo la definizione dell’OMS, la disabilità consiste appunto nella “riduzione o perdita di capacità funzionale o dell’attività conseguente ad una menomazione”, sia quest’ultima di tipo anatomico, psicologico o fisiologico. Questo fenomeno, chiaramente, è più diffuso nell’età anziana, quando le patologie cronico-degenerative di tipo invalidante si cumulano al normale processo di invecchiamento dell’individuo (Istat, 2007, p.7). In Umbria gli anziani disabili rappresentano il 20,6%, percentuale che risulta essere la più alta del Centro-Nord29. Gli anziani “confinati” 30 rappresentano l’11,6%, quelli con disabilità nelle funzioni il 16,2%; i problemi di tipo sensoriale riguardano il 5,2% della popolazione anziana, le difficoltà di movimento l’8,3%. Per quel che riguarda l’invalidità mentale, in Umbria si registra la percentuale più alta d’Italia di anziani interessati (4,9%) (Tab. 7).

29 Percentuali più alte di disabilità tra gli anziani si registrano solo in Molise(22,4%), in Puglia (24,2%), Basilicata (22,5%), Calabria (22,9%) e Sicilia (26,1%). 30 Persone costrette a rimanere a letto, su una sedia o in casa; cfr. Istat, 2007.

DENTRO L’UMBRIA due640

Tab. 7 - Persone di 65 anni e più per tipo di disabilità - Umbria - Anno 2005

(per 100 persone con le stesse caratteristiche)

Con disabilità

Persone confinate

Con disabilità

nelle funzioni

Con difficoltà nel movimento

Con difficoltà nella vista, nell’udito, o

nella parola

Invalidità per malattia mentale

Umbria 20,6 11,6 16,2 8,3 5,2 4,9 Centro 18,2 8,9 12,6 8,6 4,2 2,7 Italia 18,7 8,7 12,4 9,4 3,9 2,3

Fonte: Istat, 2007 Così come le malattie croniche, anche la disabilità colpisce in misura maggiore le donne: in Umbria le anziane disabili rappresentano il 26,3% contro il 12,8% dei maschi; il gap più alto si individua nella disabilità funzionale e per le persone confinate (Tab. 8). Tab. 8 - Persone di 65 anni e più con disabilità per tipo disabilità e sesso - Anno 2005

(per 100 persone con le stesse caratteristiche)

Confinate Con disabilità nelle funzioni

Con difficoltà nel movimento

Con difficoltà vista/udito/parola

Malattia mentale

M F M F M F M F M F Umbria 5,6 16,0 9,7 21,0 5,5 10,4 2,6 7,2 3,0 6,3 Centro 6,1 11,0 8,7 15,5 5,7 10,8 3,6 4,7 2,0 3,1 Italia 5,6 10,9 8,9 15,0 6,4 11,6 3,1 4,6 2,0 2,5

Fonte: Istat, 2007 In ultimo, può essere interessante soffermarsi sulla percezione soggettiva delle condizioni di salute; è stato infatti osservato come individui in condizioni di salute che si presentano analoghe (se misurate mediante “indicatori oggettivi”) possano riferire gradi differenti di riduzione delle capacità funzionali e relazionali. La “salute percepita” permette quindi di conoscere la variabilità degli effetti che i diversi eventi patologici producono sulla qualità della vita dei soggetti (Istat, 2001, p.9). Nella nostra regione al quesito “come va in generale la sua salute?” il 22,8% degli intervistati dice di stare “male” o “molto male”31; le donne, in linea con i dati che evidenziavano il loro maggiore svantaggio sia per le malattie croniche che per la disabilità, manifestano anche una peggiore percezione del loro stato di salute (in Umbria e nel resto del Paese) (Tab. 9).

31 Le più alte percentuali di anziani che dichiarano di sentirsi “male” o “molto male” si registrano nell’Italia Insulare (27,8%). e Meridionale (23,4%); cfr. Istat, Condizioni di salute, fattori di rischio e ricorso ai servizi sanitari, 2007.

AURAPPORTI: RES 2008-09 641

Tab. 9 - Persone di 65 anni e più che hanno dichiarato di stare male o molto male e bene o molto bene per sesso - Anno 2005

(per 100 persone con le stesse caratteristiche) Male o molto male Bene o molto bene

M F Totale M F Totale Umbria 17,9 26,4 22,8 26,2 18,7 21,9 Centro 17,6 26,4 22,7 24,1 16,3 19,5 Italia 15,9 23,6 20,3 28,0 19,5 23,1

Fonte: Istat, 2007 Gli anziani tra impegno e tempo libero Se la salute e la vita familiare sono componenti importanti della qualità della vita dei cittadini, indipendentemente dall’età, con l’avanzare degli anni altrettanto rilievo assumono le relazioni sociali e la partecipazione. Con la fine dell’attività lavorativa ed il pensionamento, infatti, uno dei maggiori rischi della terza età è quello dell’isolamento sociale, che spesso si accompagna ad un ripiegamento su se stessi e ad un disagio psicologico (Romano, Sgritta, 2000, p101-102). Due possono essere le principali forme di partecipazione, una orientata all’individuo e una orientata alla collettività; nel primo caso il partecipare si configura come un prendere parte alle attività di un gruppo o di un’associazione, in termini di svago, di informazione, di formazione, in una posizione per lo più passiva, non impegnata; il secondo caso invece implica un ruolo attivo, progettuale del soggetto che concorre in prima persona a determinare gli obiettivi principali di un gruppo, di un’associazione, o di un’organizzazione (Arigoni et al. 2009, p.95). L’impegno in attività socialmente utili, come per esempio la partecipazione a gruppi di volontariato, rappresenta un’occasione di coinvolgimento particolarmente importante, non solo per l’anziano che dopo la fine dell’attività lavorativa è alla ricerca di un nuovo ruolo sociale, ma anche per la stessa collettività, che può in tal modo scoprire e fruire di una risorsa importante, di vero e proprio capitale sociale. Lo svolgimento di attività culturali o di intrattenimento si colloca sicuramente nello spazio delle attività di condivisione più orientate all’individuo che non alla comunità. In Italia, l’accesso al consumo culturale si esprime, per gli anziani, maggiormente sotto forma di teatro (11,5%), cinema (12,2%), e gite presso musei e siti archeologici (10,1%); in Umbria le percentuali relative a questi, che potremmo definire consumi “colti”, risultano essere più basse (Tab. 10).

DENTRO L’UMBRIA due642

Tab. 10 - Persone di 6 anni e più che hanno fruito nell’ultimo anno dei vari tipi di spettacoli e intrattenimenti per classi di età - Anno 2007

(per 100 persone della stessa classe d’età)32

Teatro Cinema

Concerti di musica classica e

opera

Spettacoli sportivi

Altri concerti

di musica

Discoteche, balere,

luoghi da ballo

Siti archeologici

e monumenti

Umbria 27,6 77,3 8,8 39,5 33,0 49,9 25,0 Fino a 34 Italia 26,3 76,7 10,9 40,8 32,6 44,4 25,6

Umbria 23,6 47,8 10,0 29,7 23,1 25,0 21,4 35-64 Italia 22,9 48,0 10,4 26,8 17,3 18,3 25,6

Umbria 8,1 9,1 4,8 5,1 4,8 5,1 8,9 65 e oltre Italia 11,5 12,2 6,0 6,9 4,6 4,6 10,1

Umbria 21,0 47,7 8,3 26,7 21,7 28,0 19,4 Totale Italia 21,7 50,3 9,6 27,4 19,9 24,4 22,4

Fonte: Elaborazioni AUR su dati Istat, 2008 Rispetto alla varie forme di intrattenimento, molto più elevate risultano le percentuali di anziani che frequentano abitualmente i propri amici. I legami di amicizia nella terza età si dimostrano forti sia in Umbria e nel resto d’Italia; in Umbria oltre il 60% dichiara di incontrarsi con i propri amici almeno una volta alla settimana (il 21% addirittura tutti i giorni); solo l’11,1% dichiara di vederli raramente e il 9% di non vederli mai33. Molto bassa la percentuale di chi dichiara di non avere amici (in Umbria più che nell’intera nazione). Tab. 11 - Persone di 6 anni e più per frequenza con cui incontrano gli amici per classi di età - Anno 200734

(per 100 persone della stessa classe d’età) Tutti i

giorni

Una o più volte a

settimana

Qualche volta al mese

Qualche volta l’anno Mai Non ho

amici

Umbria 49,5 41,9 6,6 0,9 0,2 1,1 Fino a 34 Italia 42,2 47,4 7,7 1,5 0,9 0,4

Umbria 15,6 54,1 19,0 8,2 1,8 1,3 35-64 Italia 13,1 52,1 21,6 7,9 3,9 1,3

Umbria 21,0 41,1 14,3 11,1 9,2 3,2 65 e oltre Italia 18,4 38,9 15,7 11,7 11,3 4,1

Umbria 27,8 47,0 13,8 6,6 3,1 1,7 Totale Italia 24,1 47,7 15,6 6,5 4,4 1,6

Fonte: Elaborazioni AUR su dati Istat, 2008°

32 Gli incroci con le classi d’età sono stati effettuati utilizzando la “percentuale valida”, al netto cioè delle mancate risposte. 33 Si riscontrano lievi differenze in base al sesso; tendenzialmente ad incontrarsi più frequentemente con i propri amici sono più gli uomini che le donne. 34 Gli incroci con le classi d’età sono stati effettuati utilizzando la “percentuale valida”, al netto cioè delle mancate risposte.

AURAPPORTI: RES 2008-09 643

Un altro aspetto legato alla dimensione dello svago e del tempo libero è rappresentato dalla partecipazione a viaggi e vacanze. In Umbria gli anziani che negli ultimi dodici mesi si sono concessi una o più vacanze rappresentano il 22,6%; quindi più di uno su quattro ha trascorso un periodo di ferie fuori casa. In Italia la percentuale risulta ancora più alta (27,6%). Per quel che riguarda il coinvolgimento in attività sociali e di volontariato, l’impegno dimostrato risulta tutt’altro che trascurabile, sebbene al crescere dell’età si riduca significativamente il numero di quanti risultano coinvolti in realtà associative. Tra gli anziani sono soprattutto gli incontri presso le associazioni culturali e le attività di volontariato a riscuotere maggiore successo, sia in Italia (rispettivamente 6,2% e 6,0%) sia in Umbria (7,3% e 4,6%). Dal confronto tra il dato regionale e quello nazionale in Umbria gli anziani risultano essere maggiormente impegnati nelle associazioni culturali e meno nel volontariato35. Molto scarso in tutto il territorio nazionale l’interesse dimostrato per le associazioni ecologiche ed i sindacati. Diffuse, invece, le modalità di partecipazione indiretta, che si esprimono nel versamento di quote di denaro alle associazioni (Italia 13,3%, Umbria 11,8%)36. Di particolare rilievo risulta, inoltre la dimensione spirituale, rilevata attraverso la pratica religiosa; in Umbria il 37,1% della popolazione con più di 65 anni si reca almeno una volta alla settimana nei luoghi di culto; in Italia addirittura il 45,8%37. In ultimo, resta da considerare l’interesse e l’impegno nei confronti della politica. La politica come forma di partecipazione sociale comprende un’ampia gamma di attività, che vanno dalla semplice informazione, alla discussione su questioni politiche, fino alle forme tradizionali di militanza politica , come la presenza a comizi e cortei o l’attività gratuita per partiti. Così come le attività sociali, anche l’interesse per la politica decresce sensibilmente all’aumentare dell’età. Tuttavia non è trascurabile la percentuale di anziani che si dimostrano vicini alla politica, in un modo o nell’altro. Se si considerano alcune particolari forme di coinvolgimento, gli anziani umbri risultano più attivi rispetto a quelli di molte altre regioni: gli ultrasessantacinquenni che partecipano ai comizi sono il 5,6% (in Italia il 3,2%), che ascoltano dibattiti politici il 20,7%; (in Italia il 17,9% ), che partecipano ai cortei il 2,6% (in Italia l’1,7%), che svolgono attività presso i partiti politici l’1,2% (in Italia lo 0,8%), che danno soldi ai partiti politici il 3,9% (in Italia il 2,3%) (Tab. 12). Più bassa, invece, rispetto al dato nazionale la percentuale di coloro che parlano

35 Il dato nazionale della partecipazione in attività di volontariato è fortemente condizionato dal Nord Est e dal Nord Ovest, dove si registrano percentuali molto alte (rispettivamente del 13,4% e dell’11,7% ); cfr. Istat, 2008°. 36 Così come per il volontariato anche la pratica di versare soldi a favore di associazioni risulta molto diffusa nel Nord Italia(soprattutto nel Nord-est); il valore nazionale quindi anche in questo caso risente dei dati del Nord Italia; cfr. Istat, 2008a. 37 In questo caso a condizionare in modo accentuato il valore nazionale sono le regioni del Sud, dove si registrano le percentuali più alte di persone che si recano frequentemente nei luoghi di culto; cfr. Istat, 2008a.

DENTRO L’UMBRIA due644

abitualmente di politica (28,1%), quasi a significare una maggiore propensione alla politica attiva (Tab. 13). Tab. 12 - Persone di 14 anni e più che negli ultimi 12 mesi hanno svolto almeno una delle attività sociali indicate e persone di 6 anni e più per frequenza con cui si sono recate in luogo di culto per classi di età - Anno 200738

(per 100 persone della stessa classe d’età) Riunioni in

associazioni ecologiche, per i diritti civili, per la

pace

Riunioni in associazioni

culturali, ricreative o di altro

tipo

Attività gratuita

per associa-zioni

volonta-riato

Attività gratuita per associazioni NON di

volontariato

Attività gratuita per un

sindacato

Versare soldi ad un’associazione

Si recano in un

luogo di culto

almeno una volta a settimana

Non si recano mai in

un luogo

di culto

Umbria 2,3 10,1 10,7 3,7 0,8 16,2 25,9 21,4 Fino a 34 Italia 2,4 9,9 10,2 3,7 0,6 12,5 31,8 20,5

Umbria 2,7 9,9 7,6 4,0 2,3 20,1 23,7 17,1 35-64 Italia 2,2 10,6 10,6 4,1 2,1 21,8 30,5 17,7

Umbria 0 7,3 4,6 1,5 0,6 11,8 37,1 15,8 65 e oltre Italia 0,7 6,2 6,0 1,9 0,7 13,3 45,8 17,8

Umbria 1,9 9,3 7,6 3,2 1,4 16,8 27,7 18,2 Totale Italia 1,9 9,4 9,5 3,5 1,4 17,2 34,1 18,7

Fonte: Elaborazioni AUR su dati Istat , 2008a Tab. 13 - Persone di 14 anni e più per frequenza con cui parlano di politica e che hanno svolto le attività indicate per classi di età - Anno 200739

(per 100 persone della stessa classe d’età) Parlano di politica

Una o più volte alla settimana

Non parla mai di politica

Partecipazione ad un comizio

Partecipazione ad un corteo

Ascolto di un

dibattito politico

Attività gratuita per un partito politico

Ha dato soldi ad un partito

Umbria 43,2 27,4 7,7 9,1 32,7 0,8 2,5 Fino a 34 Italia 40,2 32,1 6,8 6,6 23,6 1,1 1,9

Umbria 47,8 28,4 6,4 5,6 34,7 1,3 3,7 35-64 Italia 47,9 25,5 7,0 4,4 29,9 1,9 3,2

Umbria 28,1 55,4 5,6 2,6 20,7 1,2 3,9 65 e oltre Italia 32,3 46,9 3,2 1,7 17,9 0,8 2,3

Umbria 41,3 35,3 6,6 5,7 30,4 1,1 3,4 Totale Italia 42,2 32,2 6,1 4,4 25,4 1,4 2,6

Fonte: Elaborazioni AUR su dati Istat, 2008a

38 Gli incroci con le classi d’età sono stati effettuati utilizzando la “percentuale valida”, al netto cioè delle mancate risposte. 39 Gli incroci con le classi d’età sono stati effettuati utilizzando la “percentuale valida”, al netto cioè delle mancate risposte.

AURAPPORTI: RES 2008-09 645

I “nuovi anziani” Oggi, per la loro capacità di rimanere attivi e di adattarsi al cambiamento e agli stimoli dell’ambiente socio-culturale, gli anziani si distanziano sempre più dai vecchi canoni di anzianità legati alla sedentarietà, alla malattia, alla passività, al bisogno. In Italia già da alcuni anni si parla di “nuovi anziani” (Allario, 2003, Tramma, 2000, 2003), per enfatizzare la differenza di individui che conducono gli anni di vita associati alla terza età in un modo che si allontana dallo stereotipo ancora diffuso dell’anziano stanco e malato che disdegna ogni attività. Allario definisce i nuovi anziani come “persone ancora piene di vita e capaci di motivarsi nel loro lungo spazio e tempo quotidiano, persone ancora capaci di impegni e buona volontà”(Allario, 2003). Diventare oggi anziani, scrive Tramma, significa “portare nel proprio bagaglio culturale e d’esperienza la storia delle grandi trasformazioni che hanno interessato la produzione e il lavoro, la famiglia e le relazioni, le tradizioni e il territorio, la cultura e l’educazione” (Tramma, 2003). I nuovi anziani a differenza di quelli del passato hanno una formazione in genere più forte, la capacità di interagire con il territorio e con la conoscenza essenziale dei prodotti tecnologici, conseguenze di anni di utilizzo televisivo, di benessere e di consumi stabilizzati. In linea con tali prospettive teoriche, per quel che riguarda l’istruzione già oggi possono essere individuate delle profonde differenze rispetto al passato. Se si approfondisce il caso dell’Umbria, il confronto tra il censimento del 1971 e del 2001 dimostra un’importante crescita del livello culturale dei nostri anziani. Se negli anni Settanta risultavano in prevalenza alfabeti ma privi di titolo di studio (46,9%), nel giro di tre decenni risultano per lo più in possesso della licenza elementare (51,7%); gli analfabeti, che in passato rappresentavano il 23,5% del totale, ora sono appena il 4,9%. Per quel che riguarda i titoli di studio più alti, si è passati dal 2,8% dei diplomati nel 1971 all’8,3% di oggi, dallo 0,9% dei laureati al 4,4% (Tab14). Tab. 14 - Popolazione anziana residente per titolo di studio - Umbria - Anni 1971-2001

(valori percentuali)

Laurea Diploma

Lic. scuola media

inferiore

Lic. elementare

Alfabeti privi di titolo di studio

Analfabeti Totale

1971 2001 1971 2001 1971 2001 1971 2001 1971 2001 1971 2001 1971 2001 65-74 1,0 4,5 3,0 9,2 3,9 15,1 24,3 52,7 49,8 14,4 18,1 4,1 100 100 75 e oltre 0,8 4,3 2,4 7,3 2,3 10,4 19,8 50,4 41,7 21,6 33,1 6,0 100 100 Totale>65 0,9 4,4 2,8 8,3 3,3 13,0 22,7 51,7 46,9 17,7 23,5 4,9 100 100

Fonte: Istat, Censimento della popolazione 1971-2001 Un altro importante elemento di cambiamento è rappresentato dalle nuove tecnologie e dai nuovi media. Fino ad oggi il rapporto dell’anziano con molte tecnologie è stato connotato da una sorta di diffusa “tecnofobia”, ossia una generale paura riguardo le

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tecnologie ed una sfiducia nei confronti dei possibili benefici derivanti dal loro utilizzo (soprattutto nei primi anni della rivoluzione digitale, tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta). Tutto questo oggi si va progressivamente riducendo parallelamente alla capacità di adattamento al cambiamento che dimostrano i nuovi anziani. I dati Istat rivelano che negli ultimi anni in Italia è cresciuto il numero di ultrasessantacinquenni che utilizza il personal computer. Dal 2003 al 2007 la percentuale di persone tra i 65 ed i 74 anni che ha utilizzato il computer è passata dal 4,4 al 6,9%; di coloro che hanno navigato in internet dal 3,2% al 5,5%. Anche tra gli ultrasettantacinquenni si registra un aumento di fruitori, seppur lieve (Tab. 15). In Umbria le percentuali di utilizzo del personal computer risultano più alte del dato nazionale; il 9,8% delle persone tra i 65 ed i 74 dichiarano di aver utilizzato il computer negli ultimi dodici mesi ed il 7,3% di aver navigato in internet. Anche in Umbria così come nel resto del Paese più basse le percentuali degli ultrasettantacinquenni alle prese con il Pc (1,3%) e con internet (2,3%)40. Sebbene l’utilizzo del personal computer risulti ancora raro tra gli anziani e sebbene la variabile età incida ancora profondamente nel suo utilizzo, i dati appena commentati dimostrano importanti segni di cambiamento e di miglioramento nel rapporto con le nuove tecnologie. A conferma di ciò risultano anche le alte percentuali di coloro che hanno dimostrato curiosità e voglia di apprendere frequentando corsi per l’utilizzo del pc; in Italia il 35,5% degli ultrasessantacinquenni dichiara di aver frequentato almeno un corso negli ultimi tre anni, in Umbria il 36%. Tab. 15 - Persone di 3 anni e più per uso del personal computer e persone di 6 anni e più per uso di Internet per classi d’età - Italia - Anni 2003-2007

(valori percentuali) Uso del personal computer Uso di internet

2003 2005 2006 2007 2003 2005 2006 2007 3-5 15,6 16,9 13,9 13,8 - - - - 6-10 50,8 53,2 54,0 52,4 15,8 13,0 15,4 18,0 11-14 75,2 73,8 74,3 74,3 41,5 44,2 48,1 55,8 15-17 76,8 80,2 79,7 77,8 62,2 63,5 67,2 70,1 18-19 72,6 75,9 77,4 77,4 63,6 67,4 68,6 74,8 20-24 67,2 69,1 72,4 71,9 59,3 63,1 66,2 68,4 25-34 56,8 57,1 60,4 61,5 48,8 50,7 54,4 58,7 35-44 48,8 52,0 53,8 54,1 39,0 43,1 45,7 48,5 45-54 39,2 40,5 43,6 44,2 29,2 32,4 36,4 39,2 55-59 23,2 25,0 26,7 29,9 16,6 19,4 21,5 26,3 60-64 12,8 13,8 16,4 17,5 9,4 10,8 12,3 14,9 65-74 4,4 5,5 7,0 6,9 3,2 3,9 4,8 5,5

75 e oltre 1,6 1,5 1,4 2,1 1,0 1,0 0,9 1,5 Italia 39,2 39,9 41,4 41,7 30,3 31,8 34,1 36,9

Fonte: Istat, 2008c

40 Cfr. Istat, 2008c.

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In tutto il territorio nazionale la televisione rimane il mezzo di comunicazione di massa più utilizzato; gli anziani ed i bambini risultano i maggiori fruitori; in Italia il 92,5% delle persone con più di 65 anni guarda la tv tutti i giorni, in Umbria il 93,2%. I programmi più seguiti, da anziani e non, risultano essere i telegiornali; per gli anziani ottengono valori più alti rispetto alla media le trasmissioni a sfondo religioso, le telenovelas e le soap-opera, le previsioni del tempo ed i giochi a quiz (Istat, 2008b) A differenza della televisione, l’utilizzo della radio, decresce al crescere dell’età; la percentuale di anziani che in Italia ascolta la radio tutti i giorni è pari al 24% (in Umbria al 16,6%) contro il 43,4% dei giovani (in Umbria il 47, 2%). Per quel che riguarda invece la stampa, la lettura dei quotidiani risulta essere una pratica più diffusa tra gli anziani che tra le giovani generazioni; il 52,3% degli anziani in Italia legge il quotidiano almeno una volta alla settimana (rispetto al 50,8% dei giovani fino a 34 anni); molto alta anche la percentuale degli ultrasessantacinquenni che leggono i quotidiani tutti i giorni (22% rispetto al 13,2% dei giovani). In Umbria le percentuali risultano in linea con il trend nazionale anche se leggermente più basse; a leggere settimanalmente il quotidiano risulta, infatti, il 45,6% degli over 65 e giornalmente il 20%. Per concludere vorremmo porre l’attenzione su un altro strumento tecnologico entrato a far parte a tutti gli effetti del vissuto quotidiano della terza età, il telefono cellulare; in Italia lo utilizza il 53,3% delle persone con più di 65 anni; la percentuale cresce al 67,5% se si considerano i giovani anziani (65-74 anni), scende invece al 26% per gli ultrasettantacinquenni. Anche in Umbria l’utilizzo del cellulare risulta molto diffuso tra le persone della terza età (46,2%); così come nel resto della nazione la percentuale di chi lo utilizza sale al 62,8% se si considerano i più giovani (65-74) e scende al 27% per le persone con più di 75 anni. Brevi note conclusive Consapevoli dell’eterogeneità dei percorsi che conducono oggi all’ anzianità, con questo contributo, grazie all’ausilio di dati statistici, si è voluto porre l’attenzione su alcune dimensioni che intervengono nel processo di invecchiamento: lo stato di salute, il contesto familiare, i rapporti di amicizia, la partecipazione sociale e la partecipazione politica, le attività culturali. In linea con gli obiettivi della ricerca, ci siamo concentrati, prevalentemente, su quegli aspetti immateriali, che richiamano valori relazionali quali l’affettività, la condivisione, la reciprocità, l’impegno sociale, piuttosto che su quelli prettamente materiali. Nella nostra regione i legami familiari contano ancora molto; gli anziani, pur vivendo spesso soli (in particolare le donne) possono godere di una fitta rete di sostegno e solidarietà che proviene dalla famiglia (in particolare da figli e nipoti), una solidarietà che spesso risulta a più “direzioni” (Barbieri, 2007) dal momento che loro stessi, frequentemente, sono parte attiva nel processo di care-giver. Anche i legami di amicizia arricchiscono il patrimonio relazionale ed affettivo dei nostri anziani: in Umbria più

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che altrove gli ultrasessantacinquenni frequentano abitualmente (spesso quotidianamente) i propri amici; questo potrebbe collegarsi anche ai rapporti di “buon vicinato” tanto diffusi nella Terza Italia. La terza età, inoltre, si configura sempre più distante dai vecchi canoni di anzianità legati al disimpegno, al disinteresse, alla passività; i dati sull’associazionismo in parte lo testimoniano, evidenziando una spinta partecipativa tutt’altro che trascurabile; le associazioni che ottengono maggiori adesioni risultano essere quelle di tipo ricreativo e culturale e quelle di volontariato. Alto il sostegno indiretto alle associazioni tramite le donazioni. Sul piano della partecipazione politica il confronto tra il dato regionale e quello nazionale ha evidenziato una maggiore propensione dei nostri anziani all’ attivismo politico (nelle sue diverse forme) a conferma delle antiche tradizioni politiche del territorio.

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GLI ANZIANI TRA TEMPO E APPARTENENZE41 La rappresentazione sociale maggiormente diffusa della condizione anziana è associata, al di là del dato anagrafico, ad un processo di generale decadimento, derivante da una progressiva perdita delle funzionalità psico-fisiche, sociali e produttive del soggetto. Essa connota in modo piuttosto critico questa fase dell’esistenza, in quanto all’anziano, comunemente, si attribuiscono tratti quali debolezza, fragilità, dipendenza, disimpegno ed inutilità (Tamanza, 2001). Questo specialmente in ragione del fatto che la nascita sociale della condizione anziana, la sua identificazione quale categoria sociale separata dall’età adulta, è essenzialmente ancorata alla fuoriuscita del soggetto dal sistema produttivo. È questa, senza dubbio, una immagine stereotipata e essenzialmente moderna, ascrivibile allo sviluppo della società industriale e delle sue peculiari categorie interpretative. Ma lo sviluppo più recente dell’economia e della società postindustriale da una parte, la trasformazione degli assetti demografici delle società industriali avanzate dall’altra, hanno messo in grande evidenza l’irriducibilità dell’identità anziana alla semplice perdita del ruolo adulto, ovvero al venir meno di una posizione centrale ed attiva nel sistema produttivo. Emerge, così, la necessità di riconsiderare e rileggere l’identità anziana secondo una logica differente, che tenga conto delle molteplici risorse e potenzialità che contraddistinguono oggi il soggetto anziano e la variabilità dei percorsi di invecchiamento. Numerose ricerche demografiche mettono in luce come l’invecchiamento della popolazione, nei paesi industrializzati, sia uno dei fenomeni sociali più rilevanti degli ultimi anni. Essa ha prodotto una trasformazione dello scenario che ha capovolto gli equilibri tradizionali generazionali, sia a causa dell’allungamento della vita che della contrazione dei tassi di natalità. Pertanto, l’identità monolitica della condizione anziana è stata, negli ultimi anni, ampiamente messa in discussione a favore di modelli esplicativi fondati su tipologie comportamentali assai più articolate, relative non solo a variabili che fanno riferimento alle condizioni socio-strutturali in cui il singolo individuo è inserito, ma anche all’insieme dei processi relazionali in cui il soggetto è coinvolto. Senza dubbio, il passaggio progressivo e graduale da una posizione di maggiore centralità e impegno nelle relazioni sociali ad una via via più ritirata e dipendente rimane, in linea di principio, una condizione che contraddistingue questa particolare fase della vita. Si tratta, però, di una caratterizzazione generale, sulla quale si disegna una pluralità di condizioni di vita diverse, il più delle volte lasciate alla libera definizione individuale.

41 Il presente paragrafo è stato redatto da Rosa Rinaldi.

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Nell’epoca attuale, caratterizzata dal paradigma della scelta, in cui gli individui sono costretti a scegliere tutto, legami, appartenenze, relazioni, sulla base di criteri di orientamento soggettivi, anche gli individui anziani sono obbligati, sulla scorta del personalissimo bagaglio cognitivo ed esperienziale acquisito negli anni, a gestire la nuova condizione esistenziale in modalità adattive del tutto inedite. Le stesse trasformazioni che hanno interessato negli ultimi anni le diverse sfere della società, secondo una logica di crescente globalizzazione e individualizzazione, hanno determinato una vasta pluralità dei percorsi di invecchiamento. La dinamicità e la frammentazione di un insieme di fattori di ordine culturale, istituzionale ed economico hanno favorito la compresenza di aspetti della vita che consentono anche alle persone in età avanzata di occupare contemporaneamente ruoli sociali differenti, rendendo assai labili e difficilmente identificabili i confini stessi della generazione anziana. Ciò induce gli anziani a riconoscere con fatica la propria appartenenza alla condizione anziana ed alimenta una rappresentazione di sé scarsamente in sintonia con il dato anagrafico e con l’inevitabilità del processo di invecchiamento. Quindi, di fronte ad un processo sociale di crescente individualizzazione, nell’analisi della definizione delle variabili relative alla condizione di anziano non si può far riferimento ad un unicum interpretativo. Di conseguenza, risulta operazione analitica non utile, sebbene suggestiva, segmentare l’ultima ètà della vita in differenti periodi: l’introduzione di espressioni quali quarta età, per indicare la fase di vita dopo i 75 anni, o la distinzione tra anziani-giovani e grandi anziani, sebbene sia utile per distinguere in prima approssimazione l’articolazione dell’invecchiamento in fasi diverse a seconda del grado di autonomia psicofisica e sociale mantenuto dai soggetti, non rende ragione della trasformazione qualitativa della condizione anziana nel suo insieme. Essa è più efficacemente rappresentata dal ricorso all’idea di vecchiaia come transizione lunga e complessa, nella quale si dilatano sia il tempo del benessere, dello stare in salute e del mantenimento di una posizione attiva e produttiva, sia il tempo del decadimento psico-fisico. A differenza di altre fasi della vita, in cui appare più semplice individuare uno specifico evento che catalizza la dinamica evolutiva e dove il concetto di transizione si delinea in modo netto, il processo di invecchiamento racchiude al suo interno diversi punti focali ed eventi critici, ed è un insieme di posizioni relazionali variamente modulabili. La numerosità delle caratteristiche che determinano il passaggio alla vita anziana e ne indirizzano gli esiti portano a comprendere come sia impossibile stabilire modelli applicabili indistintamente alle eterogenee situazioni e come le immagini e le rappresentazioni sociali costruite attorno al ruolo dell’anziano siano eccessivamente semplificatorie e finiscano per occultare la complessità della identità generazionale degli anziani.

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Invecchiamento e percezione di sé Senectus ipsa morbus est. Per quanto riguarda gli anziani, è indispensabile combattere i luoghi comuni. Oggi la variabilità dei percorsi individuali che conduce alla condizione di anziano, se determinata da una combinazione di elementi oggettivi, dall’altra risente di una vasta pluralità di scelte soggettive. Oltre agli elementi anagrafici, la cui valenza è ovviamente assai variabile in relazione alle condizioni sociali e culturali, finora erano considerati marcatori sociali forti della condizione anziana il ritiro dall’attività lavorativa, con la conseguente trasformazione del reddito in pensione, il diventare nonni, e la condizione di malattia. Ma il diventare nonni o il ritirarsi dall’attività lavorativa, più che marcatori sociali, sono marcatori generazionali, che spesso si sovrappongono temporalmente all’esordio del processo di invecchiamento. Numerose ricerche mettono in luce come la nascita dei nipoti o l’uscita di casa dei figli non siano più condizioni legate all’ingresso nella condizione di anziani. Stesso discorso si potrebbe fare per l’uscita dal mondo del lavoro: sebbene questa sia oggettivamente riconosciuta come grande marcatore di ingresso nella condizione di anziano, essa, più che altro, è legata alla capacità di delineazione di una nuova immagine di sé che, inevitabilmente, prende avvio dal graduale abbandono della centralità relazionale che contraddistingue la posizione adulta. Quello della pensione, dunque, rimane un momento di passaggio piuttosto traumatico, legato ad una percezione individuale di inutilità sociale e di incapacità di gestione del tempo, se non viene elaborato a livello individuale e di coppia un modo propositivo di gestire il tempo e le energie che prima erano assorbiti dalle attività lavorative. Il pensionamento non solo cambia la condizione esteriore dell’individuo, ma anche la sua condizione psicologica, perché rappresenta l’allontanamento dal mondo produttivo e la perdita di una riconosciuta e valorizzata collocazione sociale, provocando una quasi inevitabile sensazione di inutilità e di vuoto. Perciò, in molti casi, questo si costituisce come un vero e proprio evento nodale: se da una parte segna l’abbandono definitivo dell’attività produttiva, dall’altra apre scenari inediti e dispiega potenzialità inesplorate nella gestione dei bisogni adattivi, anche in ragione della maggiore disponibilità di tempo libero da parte dell’anziano. Solo in casi in cui il soggetto svolgeva mansioni faticose e/o dequalificanti, il pensionamento viene vissuto come liberazione dalla fatica. Ma nei casi in cui il soggetto dichiara di aver svolto un lavoro appagante, denso di soddisfazione e capace di dar identità all’individuo, il momento dell’uscita dall’attività lavorativa è percepito come salto nel buio. Indispensabile diventa, allora, cercare un’attività esterna alla famiglia e alla sfera intima, nella quale poter investire parte della maggior quantità di tempo libero a disposizione. Ed è proprio la risorsa tempo, in età anziana, il segnale più vistoso del mutamento sociale che ha mutato le coordinate di vita e che trasforma l’età anziana in una fase della vita potenzialmente attiva, ma ancora priva di mandati sociali.

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Negli ultimi anni si osservano nuove tendenze che ridisegnano la sfera di queste dinamiche: da più parti si enfatizza la necessità di continuare a godersi la vita a tutte le età e a continuare a realizzare comportamenti attivi. Il ritiro dalla attività lavorativa mette a disposizione delle persone una nuova e consistente quantità di tempo libero e liberato, e con questo una nuova spinta a investire in nuove attività ed occupazioni. Per l’anziano si tratta di mantenere vivi i suoi interessi e di crearsene altri. Senza dubbio l’adattamento alla nuova situazione dipende da numerosi fattori: dalle caratteristiche personali, dall’età, dal sesso, dallo status socioculturale, dalla tipologia di professione esercitata, ma anche dalla qualità e quantità di reti relazionali in cui il soggetto è inserito, oltre che dalla qualità del sostegno familiare. Nella nostra ricerca, dunque, attraverso lo strumento delle interviste non direttive, si è cercato di portare alla luce non solo la percezione individuale legata al difficile passaggio dal mondo del lavoro a quello della pensione, quanto le modalità attive di gestione del tempo libero e la capacità di espressione e di generazione di nuovi approcci motivazionali legati all’età anziana. Il nostro campione di intervistati rappresenta uno spaccato significativo e oltremodo interessante degli anziani socialmente attivi (in certi casi, iperattivi) che si sono resi protagonisti di azioni di creatività sociale che demoliscono parte di quei luoghi comuni legati alla connotazione dell’anzianità come condizione di passività. Emerge, dalle nostre interviste, la percezione degli anziani di continuare a credere nell’importanza di legami sociali attivi come antidoto al deperimento morale e psichico (oltre che fisico), legami che si realizzano sia con la frequentazione di associazioni a scopo ricreativo o ludico, ma anche come impegno di solidarietà. Infatti, in diverse interviste gli anziani hanno dichiarato di mettere a disposizione tempo e competenze per promuovere interventi di sostegno, un impegno solidaristico esplicato in un orizzonte sia intragenerazionale che permetta di offrire aiuto e sostegno ad altri anziani bisognosi di supporto o assistenza, ma anche in modo intergenerazionale, in attività sociali rivolte al più generale contesto sociale in cui sono inseriti. La nostra ricerca mette bene in luce come quella degli anziani si qualifichi come una realtà associativa molto ricca dal punto di vista dell’impegno prosociale, orientato sia verso le reti primarie ed informali, sia verso terzi estranei, ma emerge anche il fatto che tra gli anziani attivi ed associati è diffuso un utilizzo del tempo libero improntato all’espressività. Il più delle volte si trasforma in attività di impegno solidaristico quella che era un’attività sociale già iniziata fin dai primi anni dell’attività lavorativa. È il caso degli intervistati impegnati in attività sindacali: chi lavora nelle sezioni sindacali deputate al supporto e al sostegno degli anziani, spesso ha iniziato questa attività “fin da giovane, facendo il sindacalista” nella Cisl, nella Cgil, nella Uil. L’impegno sindacale di una vita, l’esperienza acquisita si trasforma in momento proattivo di contributo al benessere collettivo e, nello stesso tempo, di forte contributo alla significatività esistenziale.

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A questo proposito afferma il signor Sebastiano, 70 anni, sindacalista: “La sensazione comune a tutte le persone che vanno in pensione è un senso di isolamento e molti si lasciano andare, si trascurano e le uniche cose che fanno è andare al bar o occuparsi del proprio orticello. Per questo il nostro obiettivo è quello di difendere i loro diritti, perché così isolati difficilmente arriverebbero a farlo e nello stesso tempo cercare di risvegliare la dignità di ognuno per farsi sentire parte attiva di una società che è abbastanza complessa, variegata e che comunque tende ad isolare il più debole […]. Oggi, si parla di una terza età attiva ed io, a 70 anni non mi sento affatto anziano, il vero anziano è quello che rinuncia a vivere. Fintanto che il cervello non si fossilizza l’anziano non esiste. Quindi, se dovessi dare un consiglio a un anziano solo e spaesato direi di attivarsi o facendo volontariato o cercando un lavoro, che non per forza deve essere in nero”. La necessità, però, di riempire gli spazi di tempo lasciati vuoti dal ritiro dall’attività lavorativa è meno sentita dall’universo femminile: le donne anziane sentono meno il bisogno di dedicarsi alla gestione sociale del tempo liberato, e questo è comprensibile considerando che la donna, oltre alla propria attività lavorativa, svolge i lavori di casa. Una volta in pensione, continua a dedicarsi alla casa e questa può diventare l’attività principale, specialmente nel caso di famiglie allargate e in presenza di nipoti. Le donne anziane, dunque, sembrano principalmente proiettate verso la sfera privata delle relazioni familiari, del lavoro di cura e delle attività domestiche, a scapito della presenza nella sfera pubblica. Buona parte degli intervistati maschi che frequentano associazioni a scopo ricreativo lamentano la difficoltà di coinvolgere anche le loro mogli nelle attività organizzate perché “stanno sempre in casa a fare le nonne”. Infatti, le donne continuano a svolgere un carico notevole di attività domestiche anche in condizioni di salute non più ottimali, che le obbliga addirittura a contenere i tempi per le attività fisiologiche e quelle relative al tempo libero (fenomeno della casalinga di ritorno). Per gli uomini accade invece il contrario: terminata la fase di rigidità dettata dai tempi di lavoro, il tempo libero e quello per se stessi si dilatano e il tempo liberato dalla pensione poco incide sulla organizzazione della vita familiare. Nell’epoca contemporanea, sono sempre meno frequenti i casi di famiglie in cui lavora solo uno dei partners: di conseguenza fare i nonni (le nonne, in questo caso) è un’attività a tempo pieno. Se per le donne la cura parentale è quasi un’esigenza naturale, gli uomini ricevono minore gratificazione dal dedicare se stessi alla sola vita domestica. Racconta Ludovico, orticoltore, volontario in un sindacato e socio di un circolo associativo: “Mia moglie ora è in pensione, ma a differenza mia, ha vissuto questo traguardo in maniera estremamente positiva, da subito. Prima infatti, oltre al lavoro all’interno della fabbrica, doveva svolgere anche quelli domestici; adesso fa solo la casalinga e la nonna. Mia moglie inoltre non

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frequenta né l’associazione, né il circolo e raramente esce con le amiche, nonostante io le abbia suggerito più volte di incontrarsi con le amiche. Infatti, per questo motivo, le associazioni e i circoli ricreativi sono più frequentati dagli uomini, le donne, anche quelle che sono in pensione hanno meno tempo, perché devono occuparsi della casa e spesso anche dei nipoti. All’interno del mio sindacato le donne ci sono, ma sono meno degli uomini, e comunque o sono vedove o sono da sole. Vengono per passare un po’ di tempo e scambiare qualche parola. Alcune di queste donne svolgono anche un lavoro di ufficio”. L’anzianità, dunque, caratterizzata da una vera e propria ridefinizione di ruolo, non presenta effetti innovativi per quanto riguarda la definizione delle differenze di genere. Nell’età anziana il lavoro di cura parentale femminile si accentua e permane la proiezione esterna maschile: i ruoli assunti durante il ciclo di vita non si modificano soltanto perché aumenta il tempo liberato dal lavoro; a causa dell’interiorizzazione del ruolo maschile e femminile, le posizioni sociali assunte in età adulta non si cambiano. Cosi, mentre l’uomo anziano va in pensione e si trova a gestire una maggiore quantità di tempo liberato, per la donna non è la stessa cosa. Tuttavia, la centralità assunta dalle relazioni familiari per gli anziani determina anche una rivalutazione della sfera privata a scapito della sfera pubblica. Ciò che nella vita adulta era un ostacolo alla piena realizzazione femminile, diviene, per la donna anziana, elemento costitutivo della sua ridefinizione di ruolo e risorsa determinante nella realizzazione della qualità della vita. Inoltre, bisogna ricordare che se da una parte l’accresciuta mobilità da lavoro delle persone tende a separare con maggior frequenza e con ampie distanze i nuclei dei figli da quelli degli anziani genitori, al contempo le difficoltà dei primi nel mercato abitativo possono allungare la coabitazione se non perfino portare al fenomeno del rientro nel nucleo originario dopo periodi di temporanea autonomia. Diverso è il caso di anziane rimaste ormai vedove e/o con i figli lontani da casa. In questo ultimo caso il benessere psichico e fisico rimane fortemente dipendente dalla capacità di relazione e di creazione di legami sociali. È il caso di Renata, 82 anni, socia d un circolo socio-culturale di Terni:

“Faccio volontariato perché l’ho sempre fatto ed in più perché così riesce ad occupare il tempo visto che a casa ho una donna che mi fa le pulizie e quindi non devo occuparmi molto della casa. Mi manca la scrivania; mi manca il mio lavoro quindi stando qui [al circolo] mi sembra un po’ di continuare”.

Analoghe dichiarazioni abbiamo raccolto nelle intervistate in una casa-quartiere a Perugia, un centro nato su iniziativa di anziani per gli anziani e da loro completamente gestito. Esse dichiarano, con forte partecipazione emotiva, di essere nate a nuova vita da quando la frequentano. Il centro per anziani, in questo caso, diviene il vettore principale di creazione di legami di vicinato e di relazione intragenerazionale. Gli stessi intervistati ammettono di aver conosciuto il vicino di casa presso la casa quartiere, un vicino prima del tutto sconosciuto.

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Dichiara Adriana, 85 anni, ospite della casa quartiere:

“In seguito ai vari dispiaceri, alla morte di mio figlio e alla perdita di mia nuora mi sono sentita veramente sola:e che ho fatto!? Ho cominciato a darmi da fare con il volontariato! Tramite la parrocchia ho aiutato persone bisognose di assistenza e di compagnia. Ho fatto anche l’accompagnatrice dei gruppi organizzati dal Comune di Perugia che andavano al mare.. ero iscritta ad un sindacato fin da quando lavoravo e dopo la pensione vi ho collaborato come attivista volontaria partecipando alle varie riunioni che organizzavano, facevo i tesseramenti e aiutavo a creare i giornalini per fare propaganda. Per queste mie attività ho ricevuto anche delle medaglie e dei diplomi […]. Dopo la malattia ho lavorato come volontaria qua alla casa quartiere, ho servito il pranzo […]. Dopo i tre anni di volontariato ora vengo come ospite, frequento i corso e le gite che spesso organizzano. E da 8 anni vadoa fare le cure termali organizzate dal Comune…” Libera, 80 anni:

“Il problema più grosso per l’anziano è la solitudine , non si può neanche descrivere quello che uno prova. Adesso, che qualche giorno ad agosto è chiuso qua, cerchiamo di organizzarci di andare in qualche posto perché adesso che siamo abituati qui la sentiamo ancora di più la solitudine perché qui siamo insieme dalla mattina, si ride, si parla si canta e si mangia insieme anche se qualche volta lascia un po’ a desiderare però lo facciamo per stare insieme.. Io qui ho conosciuto perfino due persone del mio quartiere che prima conoscevo solo di vista”. Alla domanda relativa alla possibilità di esprimere una richiesta alle autorità predisposte, la stessa intervistata dichiara:

“devono mantenere in piedi questa casa altrimenti sarebbe la fine per tante persone […] Siccome è stato il nuovo sindaco che ha dato delle disponibilità per l’arredamento…allora gli vorrei chiedere questo…perché ogni tanto c’è la paura che chiudano… C’è la riconferma ogni 2 anni e quindi ogni volta….ho paura…. e dove vado?! Cosa faccio tutto il giorno a casa?” Il rapporto con l’Altro Attualmente, nell’ambito delle scienze sociali, spesso si mette in luce come il rapporto con l’Altro risenta inevitabilmente della crescente complessità delle sfere sociali e della diffusione, a livello globale, di eventi remoti che riescono a produrre conseguenze anche sul piano locale. Tra gli anziani intervistati emerge molto di frequente il tema della sicurezza e della trasformazione del rapporto con l’Altro. I nostri anziani dichiarano, nella maggioranza dei casi, di fidarsi meno di chi non conoscono, memori di un passato in cui “ potevi lasciare la chiave attaccata alla porta”. Il tema della sicurezza urbana è fortemente sentito dai nostri anziani i quali dichiarano di non frequentare più il centro storico per motivi di sicurezza, perché “le scalette del duomo sono piene di drogati e stranieri”.

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Lo conferma Adriana, 85 anni:

“Per me dipende da tutti questi stranieri che sono entrati oggi, per carità, non è che sono razzista però…! Tempo fa ho visto un ragazzo che traccheggiava su un motorino sotto la mia finestra, cosicché ho chiamato i carabinieri e hanno trovato della droga all’interno del motorino... Oggi i drogati sono aumentati. Non vado più in centro mentre un tempo andavo volentieri: Perugia è cambiata molto per i negozi, la gente …adesso le vasche non le faccio più perché le strade non son più nostre, son tutti stranieri!”.

E aggiunge Guglielmo, sindacalista, trasferitosi a Perugia dal Sud Italia:

“Si sente dire che 7, 8 anni fa si viveva meglio…parliamo dal punto di vista di sicurezza, si lasciavano le chiavi fuori dalle porte. Adesso questo credo non lo facciano più. Poi sentono questo fatto dell’immigrazione come un pericolo perché fenomeni che prima non si vedevano, tipo qualche scippo, qualche furto e il problema della droga…. Io vengo da una città dove il problema c’è sempre stato però essendo una città di un milione e trecentomila abitanti questo fenomeno è un po’ diluito diciamo. Invece in una città di 120 mila abitanti è chiaro che il fenomeno viene vissuto in maniera più drammatica, viene esaltato ancora di più, maggiormente e quindi ho notato che è un problema grosso, e del resto personalmente penso che questa città non meriti nemmeno che possa precipitare in una situazione…secondo me ci vuole più sorveglianza”.

Il problema della sicurezza urbana comprende un ampio insieme di fattori contestuali, che riguardano non solo la presenza di fenomeni di natura criminale o deviante, ma anche le relazioni sociali e la qualità della vita degli individui. Negli ultimi anni si è assistito ad un generale aumento della percezione di insicurezza da parte dei cittadini e all’intensificarsi della risposta penale, nonostante le risultanze empiriche a disposizione mostrino una situazione relativamente confortante sul piano dell’evoluzione dei fenomeni criminali, che contrasta fortemente sia con il sentimento di crescente insicurezza diffuso tra i cittadini, sia con l’enfasi che media e sistema politico pongono sull’aumento della criminalità. I nostri intervistati lamentano tutti che oggi, a differenza del passato, si viva peggio e che è meno diffuso un clima di fiducia e solidarietà sociale. Una parte degli anziani intervistati fanno parte di associazioni che organizzano azioni di vigilanza di aree urbane percepite come fortemente degradate e frequentate da personaggi poco raccomandabili. In modo particolare l’anziano vive in misura ancora più avvertita l’esperienza dell’ insicurezza, legata principalmente alla accresciuta presenza degli stranieri in città. Dice Pino, 88 anni, socio di un circolo ricreativo di Terni:

“perché l’Italia è un Paese bello, perché io mi sento Italiano… Mi ricordo quando andavo a scuola, lessi su un libro una frase che mi è rimasta molto impressa: io amo l’Italia perché sono italiano, sono italiano perché è italiana mia madre ed è italiano mio padre, perché è italiana la terra dove sono sepolti i morti che mia madre piange e che mio padre venera[…]. Questo l’ho

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letto a 12 anni e lo condivido[…]. Pertanto io sono italiano quindi per carità siano benvenuti perché ci servono però dico non possiamo pigliarli tutti […] se no quando avrà lei 88 anni come me si sente un’italiana in terra straniera, sono più gli stranieri che gli italiani… va a finire che comandano loro”. Ludovico, 73 anni:

“Oggi non ci si saluta più neanche tra vicini di casa perché c’è molta più diffidenza, data la criminalità sempre in aumento. Io stesso son stato vittima dei ladri per ben due volte e non mi fido più, a differenza di prima, quando si poteva lasciare la chiave nella serratura della porta..Oggi tutto è cambiato, le persone vanno di fretta e la sera, o per un verso o per l’altro siamo tutti stanchi… abbiamo corso tutto il giorno, anche per frivolezze! Questa situazione è da attribuire anche all’aumento dell’immigrazione. Infatti tutti, indistintamente, anche quelli in apparenza più tolleranti non si fidano di queste persone, basta fare una considerazione.. Questo è un sistema, dico io e tanti altri, per liberare la delinquenza da quel paese!” Moser (1995), parlando di sentimento di insicurezza, ne distingue tre componenti: una componente affettiva (il malessere e la paura esperita dall’individuo in una data situazione), una componente cognitiva (la valutazione della pericolosità di un ambiente) e una comportamentale (i comportamenti di fuga e di evitamento causati dalla sensazione di insicurezza). Furstenberg (1971), parlando, invece, di paura della criminalità, ne distingue due dimensioni: una paura personale (fear), ovvero uno stato di ansia e agitazione connesso al rischio percepito e temuto di incorrere personalmente in episodi criminali, e una preoccupazione sociale (concern), che corrisponde a una valutazione generale -non riferita cioè direttamente alla propria personale esperienza- della gravità della criminalità. In quest’ultimo caso, infatti, la preoccupazione è relativa al crimine come problema sociale e al grado di diffusione della criminalità nel proprio territorio. Le ricerche che hanno esaminato la relazione fra paura del crimine e preoccupazione sociale hanno mostrato come la relazione fra queste sia debole (Roché, 2003), registrando, fra l’altro, nelle persone, livelli intensi di preoccupazione sociale più che di paura del crimine.

Aggiunge Renata, 82 anni, socia di un centro socio-culturale di Terni:

“non ho paura però li sopporto poco perché mi rispettano poco la città, me la rispettano poco perché oltre ad aprire così tanti negozi e abbassare i prezzi così …per questo comunque ha da fare il Comune che dà le licenze[…]. Vicino al largo di san Lorenzo c’è un locale frequentato solo da albanesi, fuori c’è una scritta albanese, io dico quella scritta la devi cancellare, queste cose le fai a casa tua, tu la religione tua la rispetti a casa tua, qui c’è questa e questa devi rispettare, anche questo cappello [il velo o il burqa] te lu levi, te lu metti a casa tua, perché in Italia non lo devi portare”.

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Il tema della sicurezza pesa anche sulla dimensione relazionale, intesa come protezione dai rischi della violazione della proprietà privata, della violenza personale, del raggiro, della criminalità in senso ampio. In questo scenario, l’Umbria, una regione in cui la tradizione di sinistra è molto radicata, sembra risentire in maniera particolare della issue “insicurezza” con peculiarità proprie legate ai rapidi processi di trasformazione che attraversano la regione. Innanzitutto, va considerata l’intensificazione dei processi migratori, che ha profondamente alterato la composizione di una realtà sociale sostanzialmente omogenea e dalle dimensioni contenute, come quella umbra. Come indica una recente ricerca di Diamanti (2008), la presenza degli immigrati sul territorio è diventata saliente nella genesi dell’insicurezza: lo straniero -anche se non preoccupa come sfida all’identità culturale, nazionale o religiosa- è, tuttavia, percepito come una minaccia alla sicurezza dei cittadini (Barbagli, 2002). In secondo luogo, come ogni altra area urbana, anche quella umbra sperimenta una crescente individualizzazione, quale prodotto di una trasformazione-riduzione dei nuclei familiari e parentali, e quale conseguenza di uno svuotamento dei rapporti di vicinato e di comunità. Insomma, si trasforma il tessuto sociale e con esso si ridefinisce la percezione del territorio e il senso di appartenenza. Secondo Gino, 76 anni, membro di un circolo ricreativo di un piccolo paese di provincia:

“oggi c’è un individualismo fenomenale […]. Ci sono ancora 5 o 6 anziani che vengono sotto casa la sera e si sta insieme, ma non è più come una volta[…]. C’è un individualismo…mi ricordo ai tempi dell’asiatica, nel paese chi stava male era seguito da chi stava bene, a catena, tutti quelli che avevano avuto l’asiatica sono stati seguiti dai propri concittadini, cosa che oggi non sarebbe più possibile”.

A questo proposito, ricerche in psicologia sociale dimostrano come la percezione di pericolosità del proprio ambiente è altamente e inversamente correlata con il livello di integrazione nella rete sociale locale e con l’estensione e positività dei rapporti di vicinato (Kristjànsson, 2007; Ross & Jang, 2000). Alcuni ricercatori, inoltre, individuano -fra i fattori protettivi nei confronti della paura della criminalità- il senso di appartenenza al territorio, in quanto espressione sia di un clima sociale più positivo sia di una maggiore percezione di controllo sulla comunità da parte dei suoi abitanti (Schweitzer et al. 1999). In effetti, tra i nostri intervistati il clima di insicurezza percepito è maggiore tra gli anziani che vivono in aree urbane più vaste, come Perugia, e minore tra gli anziani che vivono nei piccoli centri in cui ci si conosce tutti e in cui è più stretto il rapporto con i vicini di casa e con gli altri. Aggiunge ancora Gino:

“Dal punto di vista della delinquenza il paese di Papigno è ancora un’isola felice, non è come la città; il paese da questo punto di vista rimane sicuro, non presenta caratteristiche di

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delinquenza o criminalità, siamo stati fortunati anche degli extracomunitari che sono venuti. Adesso anche se è un paese tranquillo siamo tutti blindati, prima si lasciava la chiave sulla porta[…]. Comunque il cambiamento è notevole. Anche il rapporto tra vicini…una volta si andava al ristorante insieme, si facevano delle comitive, delle gite, ora non più […]. L’unica aggregazione che c’è è il momento della festa del centro sociale, o magari quando si organizza sempre con il centro di andare a mangiare il pesce”.

Se l’ambiente viene percepito come poco sicuro si determina quel particolare fenomeno, messo in rilievo da studiosi come Sennett (1974), della diffusione della Gemeinschaft distruttiva, cioè del rinchiudersi in un’idea di comunità talmente ristretta che porta all’esclusione di tutti quelli che sono percepiti come troppo diversi e come distanti da sé. Una sorta di comunità fratricida.

Dice Davide, 71 anni, socio di un circolo ricreativo operante in un parco pubblico di Perugia:

“Oggi ognuno sta per conto suo e questo non è un bel modo di vivere”. E aggiunge Eugenio, 93 anni, fondatore di un centro socio-ricreativo in provincia di Perugia:

“oggi le persone sono molto più individualiste, ognuno pensa per sé e, a differenza di quanto avveniva una volta, le persone non sono più in grado di stare insieme a parlare e discutere. Oggi le persone non si aiutano più l’un l’altro; io per esempio, ogni mese mando 10 euro ai bambini ciechi e c’è tanto bisogno di queste cose”. Per l’anziano diventa, ancora una volta, essenziale poter contare su una rete di sostegno informale che gli permetta di percepire l’ambiente circostante come meno denso di pericoli. In ogni caso, come molti studi evidenziano, l’insicurezza sociale si sta trasformando in un elemento costante e difficilmente eliminabile del paesaggio sociale, un aspetto ormai cronicizzato, la cui risposta non consiste più nel denunciare la presenza del fenomeno, ma il passaggio ad uno stadio successivo in cui importante diviene la predisposizione di politiche innovative per la gestione del problema (Selmini 2004; Amendola 2008). Gli anziani e il rapporto con il tempo Dalla nostra ricerca emerge come l’incremento del livello medio di scolarità di chi oggi va in pensione aumenti la capacità degli anziani di reperire e utilizzare informazioni, da sempre correlato al tasso di istruzione. Eppure, proprio questa capacità ha subìto oggi una modificazione radicale, in virtù dell’ingresso di nuove tecnologie. Oggi l’uso del computer è ampiamente diffuso e Internet è divenuto il canale principale di reperimento informazioni. Si profila il rischio di un digital divide fra generazioni per attitudini diverse e differenti capacità di utilizzo.

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Racconta Piero, sindacalista:

“Nel 1965 ero militare a Palermo...beh io per chiamare a casa impiegavo tre ore, adesso con un click siamo in contatto con tutto il mondo; mio figlio poco tempo fa era in India, siamo stati al telefono per oltre 20 minuti e sembrava di essere nella stessa città. Questa evoluzione tecnologica per la mia generazione è complicata, anche da capire e da credere, tante volte io ci penso, noi non avevamo certe cose… Oggi questa evoluzione tecnologica lascia un po’ interdetto uno della mia generazione… Spesso faccio alcune riflessioni e dico guarda dove siamo arrivati, drasticamente, nel giro di 40 anni neanche…Mi meraviglio di quanto è a disposizione per tutti noi. Poco tempo fa ero al telefono con mio figlio che era in Cina, ero in compagnia di un amico della mia generazione che non poteva credere che ero al telefono con la Cina, ho impiegato un sacco di tempo per convincerlo […]. Questo è un indicatore dell’evoluzione che noi abbiamo subìto”.

I nostri anziani dichiarano, nella maggioranza dei casi, di avere un telefonino, ma di usarlo il più delle volte per le funzioni basilari. Comunque si rileva come una buona parte dei nostri intervistati dichiara di usare frequentemente il computer, a scopi sia ricreativi che lavorativi. Tra loro sono inclusi gli anziani impegnati in attività di supporto sindacale, quelli che hanno frequentato corsi di aggiornamento prima e dopo la pensione, o anziani semplicemente curiosi e attratti dalle novità tecnologiche. In ogni caso, i nostri intervistati non possono esimersi dal denunciare l’eccessiva velocità del mutamento contemporaneo: oggi tutto scorre rapido, le novità si seguono veloci e, a volte, grande è la difficoltà di stare a passo con i tempi. L’anziano si ritrova spesso spaesato, vittima di condizionamenti sociali che ne ridisegnano in modo peggiorativo la sua rappresentazione simbolica nell’immaginario collettivo, avendo perso quell’aura di rispetto e saggezza con la quale una volta veniva rappresentata l’anzianità.

Piero, 78 anni, socio di un centro ricreativo di Terni, si lamenta:

“oggi tutti di corsa, non c’è più sopportazione, andiamo tutti di corsa, danno fastidio, poi ci sono le possibilità quindi ti sganciano, ti portano su una casa di cura, ti levano dalla circolazione e questo per me è un trauma di quelli più grossi, perché un conto che stai in famiglia ed un conto che sei parcheggiato, io li chiamo parcheggi, magari se no ti mettono la badante che ti guarda, non sei più un componente della famiglia diventi una persona così…”.

Ma se è vero che per l’anziano è difficile vivere nell’epoca contemporanea, è altrettanto vero, a dire dei nostri intervistati, che i giovani se la passano anche peggio. Gli anziani guardano un po’ con sospetto e un po’ con apprensione alle nuove generazioni. L’universo giovanile è incapace, secondo i nostri intervistati, di gestire le esperienze all’interno di un contesto di senso compiuto. Vivono al presente, estranei a ogni tentativo di progettualità a lungo periodo, sia per ragioni legate alla diversa conformazione individuale e caratteriale delle nuove generazioni, sia per le mutate condizioni socio-strutturali che rendono meno definiti i tentativi di elaborazione di piani di vita a lunga scadenza.

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Dice Alfredo, 68 anni, socio di un’associazione di tutela dei diritti degli anziani:

“I giovani sono molto più superficiali nell’affrontare le cose e poi secondo me il danno maggiore è che noi una volta le cose bisognava conquistarle e ora no…e qui la colpa è dei genitori. Ai miei tempi maggiori erano le possibilità per un giovane di trovare lavoro, era solo un problema di scegliere il lavoro più congeniale alle proprie qualità; c’erano molte più prospettive: al mio tempo se non potevo fare il meccanico, facevo l’idraulico, era un problema di scelta, ma difficilmente uno si accontentava di un lavoro qualsiasi. Oggi i giovani non si accontentano di un lavoro qualunque e non hanno la capacità di adattarsi. Hanno abbandonato lavori come l’idraulico, l’elettricista, il ruspista. Io ai miei figli gli ho sempre detto che al diploma ci dovevano arrivare, dopo se volevano fare l’idraulico, l’elettricista, e per me andava bene tutto, oggi vogliono fare tutti gli impiegati e sono le famiglie che hanno creato questo”.

L’epoca contemporanea, dunque, nonostante l’abbondanza di mezzi, alternative, scelte, non offre, ai giovani, una vera possibilità di definizione di percorsi biografici dotati di coerenza progettuale. I nostri anziani affermano di aver vissuto un passato in cui, nonostante la scarsità di beni, si poteva veramente scegliere e, nonostante tutto, si era felici. I giovani oggi, sostengono i nostri intervistati, sono figli di una libertà acquisita senza averla conquistata, di un benessere ottenuto senza memoria delle difficoltà passate. E, inevitabilmente, non sono felici. Lo conferma Gina, 70 anni, volontaria all’Università III età di terni:

“Io però non li vedo felici, anche se hanno tutto li vedi che non sono felici… Noi magari si rideva per delle cavolate[…]. Non li senti fare quelle belle risate che si faceva un tempo[…]. Sarò io che sono stata disgraziata fin da piccola perché quando ti muore tua madre a 14 anni per qualsiasi stupidaggine che ti capita nella vita dici “se c’avevo mamma non era così…” […].Però loro i genitori ce l’hanno, la malattia del padre non l’hanno subìta molto, le figlie le ho accontentate in tutto[…]. Se mi chiedevano una gonna magari ne compravo due nonostante questo…non sono felici… Io ho cercato sempre di accontentarli però non li vedo felici, anche i nipoti[…]. Non sono come noi che ridevamo, che passavamo le mezze giornate a giocare a corda, a giocare a scala, adesso si piazzano davanti a quel disgraziato computer e lì si rimbambiscono”.

Aggiunge Agostino, 84 anni, ex professore in pensione, tra i fondatori di un circolo associativo a Perugia:

“Oggi si è persa quella volontà personale che ti caratterizzava, questo perché oggi, soprattutto i giovani hanno la strada più spianata davanti a loro grazie all’aiuto dei genitori. I giovani, anche per loro è una questione di volontà, perché in molti casi non sanno attendere, non sanno insistere e non sanno affrontare passo a passo le problematiche che nascono”. La responsabilità della condizione giovanile attuale non è esclusivamente colpa individuale e/o generazionale: i nostri intervistati ammettono anche che avrebbero difficoltà a vivere la loro giovinezza nell’epoca attuale. Il passato viene ricordato come denso di eventi critici e, a volte, drammatici (come la guerra), ma anche ricco di opportunità legate alla possibilità di varie scelte di vita. Numerosi intervistati hanno

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cambiato più di un lavoro e hanno visto mutare in meglio le loro condizioni esistenziali perché si viveva in un epoca in cui le azioni individuali erano ritenute efficaci se perseguite con impegno e dedizione. Nell’epoca attuale - a detta degli intervistati - le nuove generazioni pagano lo scotto di una libertà conquistata senza alcun sacrificio e della quale non sono in grado di riconoscerne il valore e il senso. Ecco perché ciò che conta è la strutturazione di progetti di vita a corto raggio, votati alla soddisfazione di bisogni hic et nunc e alla creazione di una quotidianità basata su processi di estetizzazione costante. Medita a questo proposito il signor Gino, 76 anni, membro di un circolo ricreativo:

“Vedo che i giovani sono così preparati nella tecnologia, magari anche mia nipote ti spiega in due minuti come funziona tutto tra il cellulare ed il computer […]. Adesso i giovani hanno di tutto e di più e nonostante questo sono anche scontenti, noi non avevamo assolutamente niente…Quindi forse si stava meglio prima che avevi poco ma eri felice, avevamo mezza lira in tasca, si andava al cinema che costava 500 lire, se ne avevamo 600 ci sentivamo signori… Io ho una mia teoria, “il troppo guasta”; quindi forse il problema è che stanno troppo bene[…]. Per esempio mia nipote va a danza, non vuole mai prendere il pulman… I giovani sono comodi, vogliono essere accompagnati…. Quelli dell’età mia abbiamo vissuto delle cose davvero brutte, tra la guerra quella ed altro… per ottenere le cose dovevamo fare dei sacrifici. Ora quest’atteggiamento dei giovani che è tutto comodo, dove tutto è facile mi da fastidio; queste cose spesso mi fanno arrabbiare”. E, aggiunge Bartolomeo, 78 anni, iscritto a un circolo socio-culturale della provincia di Terni:

“Tutto è profondamente cambiato; le generazioni che sono venute dopo le nostre hanno vissuto un’epoca dove il ritmo della vita, da tutti i punti di vista, politico, sindacale, delle scoperte scientifiche, dei progressi tecnologici, sono state tutte più veloci. Se si pensa alle generazioni passate che erano costrette a vivere nel territorio ristretto del proprio comune, della propria provincia, le nuove sono state messe nella condizione di avere contatto con il mondo grazie ai cellulari, alle televisioni, ai computers... Questo quindi non solo perché si viaggia e ci si sposta ma perché ci sono i mezzi di comunicazione […]. Oggi riesci a sapere cosa succede in tutto il mondo, una volta non era cosi; oggi puoi conversare con una persona che è negli Stati Uniti o in Cina, una volta non era così… Tutto questo ha determinato una diversa qualità della vita ed un diverso comportamento, un diverso modo di vivere la vita che per le generazioni anziane non è sempre facile comprendere; in più hanno creato una condizione negativa per i giovani che spinge i giovani a non lottare come lottavano i giovani di una volta. I giovani aspettano generalmente che i problemi li risolvano i genitori, in passato se un giovane non si arrangiava non andava avanti, non c’erano santi”. In questo modo, ciò che conta è vivere il presente come tempo pieno, sulla scorta delle esperienze fatte nel passato. Riguardo al futuro, o meglio alla prefigurazione che il futuro assume nel presente, gli anziani hanno un atteggiamento ambivalente: esso è come rinviato, allontanato dalla prospettiva. Non è che gli intervistati non vi pensino,

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ma il futuro è percepito come rischioso e incerto, e nelle loro narrazioni ne prendono le distanze:

“Perché, magari domattina non ci sono nemmeno più, che ne so, sono arrivato, dov’è il problema?! Speriamo in Dio e poi si vedrà giorno per giorno. Infatti non faccio progetti a lunga scadenza, dato che ormai non penso possibile pensare ad un futuro troppo lontano, vista l’età” (Gianmatteo, volontario Università III Età di Perugia, socio di un circolo associativo, 67 anni).

A volte negli anziani intervistati vi è una negazione del futuro, la sua prospettiva temporale viene esclusa nella progettualità dell’individuo, e il presente diventa l’orizzonte temporale prevalente. La preoccupazione maggiormente avvertita dai nostri intervistati è relativa, come prevedibile, al timore del peggioramento delle condizioni di salute. Dice la signora Adriana, 85 anni:

“Bhè, le mie preoccupazioni sono brutte se penso se mi dovessi allettare un giorno”.

E aggiunge Sebastiano, 70 anni, sindacalista: “Io cerco di ragionare con la testa di quando avevo 20 anni […]. Mi auguro di morire in piedi. Non ci penso troppo al futuro, spero di restare autosufficiente a lungo. Tanto, più di una volta non muoio!”. Riflessioni conclusive Nei racconti di vita dei nostri anziani emerge un’immagine dell’anzianità molto lontana dai luoghi comuni che rappresentano l’anziano solo, su una panchina in un parco, che spende una quotidianità vissuta come attesa di un futuro inevitabile. I nostri intervistati vivono tutti la quotidianità in maniera attiva; la consapevolezza di ciò che li attende in futuro non pregiudica la capacità di estendere le relazioni affettive e di godere di piccoli momenti. Il presente appare nei nostri intervistati come un periodo in cui continuare a fare investimento continuo, in cui, più che limitarsi a ridurre il malessere, conta aumentare il benessere. La partecipazione ad un variegato numero di associazioni si rivela una risorsa fondamentale per la nascita di relazioni fiduciarie, formali e informali, atte a favorire tra i partecipanti processi di identificazione e appartenenza, nonché di forme di auto-muto-aiuto. Tali relazioni di reciprocità o reti di relazioni sono il prodotto, intenzionale o meno, di strategie di investimento sociale, orientate alla costituzione e riproduzione di condizioni sociali destinate a creare capitale sociale come bene relazionale. In questo modo, i nostri intervistati vivono il presente da pensionati-attivi, individuando nel ricorso all’attività ludico-ricreativa, culturale e sociale non solo un antidoto al rischio di esclusione sociale e di ripiegamento nella propria individualità, ma una capacità di riposizionare se stessi all’interno della trama sociale.

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Il presente, pertanto, acquista dimensione valoriale prioritaria e spesso è un modo per continuare a riproporre allo stato attuale l’immagine identitaria acquisita in passato. Alcuni dei nostri intervistati, specialmente quelli che militano in organizzazioni sindacali, hanno semplicemente continuato a fare parte delle attività che svolgevano prima di andare in pensione. In questi individui la percezione della specificità oggettiva del nuovo ruolo di pensionato è assai sfumata, qualificata in modo generico; il pensionato descrive il proprio ritiro dal lavoro come una transizione dilatata e progressiva, subito occupata con attività lavorative o simil-lavorative. Talvolta, il momento della pensione è visto come evento traumatico, anche in relazione allo disgregarsi della rete amicale creata sul posto di lavoro. Invece, in altri casi il pensionamento è stato vissuto come momento piacevole e come inizio di un periodo di riposo e di possibilità per una maggiore cura di sé: questo è in particolare il caso di anziani che svolgevano attività poco gratificanti, gravose, o distanti da casa. Ma in tutte le interviste emerge con forza come l’anzianità non sia una condizione legata a marcatori anagrafici e sociali naturali, quanto a modalità effettive di gestione della propria individualità. Non esiste l’anziano, esistono i tanti anziani che vivono in modo individualizzato la loro condizione di vita. Dunque, “il vero anziano è quello che si lascia andare”, hanno ripetuto in modo corale i nostri intervistati.

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GLI ANZIANI TRA PROTAGONISMO SOCIALE E ADESIONE COMPETENTE42 Spesso, nel senso comune, gli anziani vengono considerati prigionieri del passato, soprattutto del proprio passato. Il loro mondo sembra presupporre orizzonti stabili, fissi, ben diversi da quelli tumultuosi delle giovani vite che si affacciano all'età adulta. Tuttavia, se si va oltre il comune sentire, è possibile notare quanto lo scenario offerto dalla terza età, negli ultimi anni, sia enormemente cambiato. Diversi contributi, che hanno avuto il merito di andare oltre un approccio puramente quantitativo (Frey 2002), hanno già messo in luce le dimensioni “soggettive” del processo d’invecchiamento (Tramma 2003, Ricci e Ruggeri 2003). Va poi ribadito che il processo di differenziazione sociale che ha contraddistinto le generazioni divenute adulte dopo la seconda guerra mondiale sta toccando, ormai da diverso tempo, anche il mondo della terza età. Quest'ultimo, infatti, non può più essere pensato, se mai lo è stato, come il luogo del riposo e dell'attesa, un “deserto dei tartari” che condanna all'immobilismo, ma è divenuto luogo di numerose sperimentazioni. La diffusione di stili di vita urbani e l'ingresso in massa nel mercato del lavoro hanno richiesto, alle generazioni oggi divenute anziane, nuovi modi di organizzare la propria vita. Sono numerosi gli scienziati sociali che hanno descritto le caratteristiche peculiari dell'uomo “moderno” e “urbanizzato”; tra di esse è stata particolarmente sottolineata la necessità di progettare la propria vita e di renderla più riflessiva (Beck 2000, Giddens 2001, Bauman 2002). Tuttavia, penso sia opportuna una puntualizzazione. De Martino (De Martino 1948; 2002) pensava che nell'uomo, in tutti gli uomini, sia quelli “moderni” che quelli “tradizionali”, fosse impellente il desiderio di essere “presenti”, ossia, detto in modo più prosaico, di contare, di venire riconosciuti, di essere nel mondo43. Per questo motivo, piuttosto che continuare a ragionare in termini di rigide contrapposizioni, sarebbe più utile affermare semplicemente che è andato modificandosi il modo stesso di essere “presenti” nella storia, non solo nella storia con la esse maiuscola, ma anche in quella quotidiana, che si dipana seguendo il corso delle scelte più ordinarie. È innegabile che un tempo il momento della pensione spesso non richiedeva soluzioni di continuità. Poteva anche capitare di non andare mai in pensione. Per chi vivesse di terra, la “vecchiaia” non veniva sancita burocraticamente ma irrompeva come consapevolezza del venir meno delle proprie forze. Oggigiorno, invece, nelle odierne condizioni di vita di numerose persone anziane, vi è il problema della continuità, poiché l'arrivo della pensione può comportare una frattura e richiedere un ripensamento della propria vita. La soluzione, poi, deve spesso essere cercata e 42 Il presente paragrafo è stato redatto da Riccardo Cruzzolin. 43 Il concetto di presenza nell’opera di de Martino è estremamente complesso. In questo contesto viene usato semplicemente per sottolineare la storicità dell’esserci o, come direbbe Herzfeld (Herzfeld 2006), dell’agency.

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costruita in modo attivo. Il tessuto associativo è una risorsa preziosissima proprio per rendere possibile tale continuità. Molte persone riescono a riannodare i fili della propria esistenza attraverso la vita associativa, magari riscoprendo una vecchia passione tenuta sopita a causa dei doveri professionali e familiari, o continuando ad offrire in nuovi contesti competenze acquisite nel corso della propria vita lavorativa. È quindi nostra convinzione che l'associazionismo della terza età garantisca una cornice istituzionale ed esistenziale indispensabile affinché le persone anziane continuino a mantenersi “presenti” a se stessi e agli altri. Sempre riguardo alle associazioni, va notato che sono in atto due processi inversi. Almeno questo è quello che traspare dalle interviste. Parte delle associazioni tendono a specializzarsi, ricalcando in questo dinamiche già note. Vi sono associazioni che nascono per promuovere iniziative culturali, altre che sono più attente alla questione sociale. Tuttavia, anche se è in atto tale differenziazione, essa rimane incompleta, giacché, in continuazione, si tende a ripiegare sul capitale sociale, sulle reti di relazioni, vera ricchezza dell'associazionismo. Se le sedi dell'Università della terza età (o delle tre età) hanno come obiettivo la trasmissione del sapere, esse perseguono anche altri intenti: organizzano gite, teatro, eventi ludici. Insomma, è difficile che una associazione segua pienamente un’unica finalità. Del resto, i processi di differenziazione hanno rappresentato la causa principale della rottura dei legami all'interno dei gruppi primari. Ora, proprio la terza età è un periodo in cui molte attività specialistiche possono ritornare ad essere incorporate nel sociale. Se una scuola deve essere valutata sulla base delle competenze realmente acquisite dagli studenti, una università della terza età può permettersi un rapporto più rilassato con la conoscenza, in quanto può limitarsi a usarla per creare socialità e nuove relazioni. L'associazionismo, quindi, tende a oscillare tra differenziazione e re-incorporazione, producendo un equilibrio dinamico e continuamente mutevole. Altra questione che vale la pena toccare: la costruzione di località; tema, questo, caro soprattutto ad Appadurai (Appadurai 2001), ma che di certo non è sfuggito ad alcuni nostri intervistati, tra cui Aldo:

“Mi sono accorto che delle iniziative di tipo culturale molto spesso si occupano gente che viene da fuori perché chi è del luogo dà per scontato l'esistenza di certe cose e non (...) considera quello che è il loro valore intrinseco”. (Aldo, 72 anni, associazione culturale)

Diversi intervistati non sono del luogo o, pur essendovi nati, hanno vissuto in altre città, decidendo solo in tarda età (spesso con l'arrivo della pensione) di farvi ritorno. Per queste persone è stato impellente il problema di ricostruire una rete di amicizie, ma anche di rendere evidente, visibile e percepibile il contesto locale che fa da cornice alla loro esistenza. La località, infatti, prevede due facce: da una parte la costruzione di vicinato, di prossimità sociale, dall’altra il lavoro sui contesti di vita, sul genius loci, come direbbe Aldo.

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A questo riguardo, le strutture associative hanno svolto un importante ruolo di mediazione e di aggregazione, ma anche di riscoperta e valorizzazione del patrimonio locale. Alcuni soci hanno così potuto conoscere o ri-conoscere il paese, o il quartiere, proprio svolgendo attività di volontariato. È il caso di una signora lombarda, che ha approfondito la conoscenza del territorio anche attraverso le attività un centro sociale di cui è divenuta consigliera; o di un signore veneto, che ha conquistato le prime amicizie prendendo parte ad eventi culturali e, proprio partendo da esse, è stato poi in grado di promuovere la nascita di due associazioni, una delle quali è impegnata proprio nella valorizzazione delle “tradizioni” locali. Ma è anche il caso di una signora che, dopo aver vissuto per molti anni in Toscana, una volta ritornata in Umbria, ha stretto nuove amicizie, o ne ha recuperate di vecchie, salendo sulle ambulanze e prestando il proprio aiuto ai malati:

“A me è sempre piaciuto fare questo lavoro, cioè io l'ho scelto, (...) perché mi piace stare vicino all'ammalato, di conseguenza ora continuo il lavoro anche se non come prima, è chiaro, però ecco il fatto di stare vicino all'ammalato, di dare un sostegno, una mano, una parola, perché poi quando si portan via (con l'ambulanza) sono abbastanza impressionati, hanno un po' paura per cui uno si mette lì, si chiacchiera, si dice la stupidaggine, la battutina e poi, ecco, conoscendola, del paese, c'è una del paese.. non lo so se si fidano di più, però li vedo più tranquilli, più rilassati, più.. stamattina abbiamo portato via uno che è quasi in coma, (...) abbiamo parlato tutto il viaggio e lui (...) non è che mi rispondeva, però dicevo adesso quando stai bene devi rifare il giardino perché è tutto buche, così insomma, uno cerca di metterlo a proprio agio in qualche modo”. (Sara, 68 anni, associazione per il tempo libero)

Dentro i centri sociali, poi, si crea intimità, s'intrecciano nuovi amori e si rafforzano rapporti d'amicizia. Nascono nuove communitas (Turner 1972) o si hanno momenti di effervescenza sociale, dove la condivisione di sentimenti ed esperienze si fa intensa. Forme della presenza Chiarita l'importanza della presenza (ossia dell’“essere nel mondo”) come idea guida, va ora spesa qualche parola nella descrizione delle diverse forme che essa può assumere. Il desiderio di essere presenti è infatti una costante antropologica, ma le fogge che tale presenza può prendere variano a seconda del contesto storico e sociale. A questo riguardo, vogliamo proporre una tipologia, precisando che l’ambizione di questo studio è comprendere e spiegare il protagonismo degli anziani e soprattutto perché alcuni di essi decidono di impegnarsi nel sociale. È anche il motivo per cui, pur avendo dato spazio anche a semplici iscritti, l’attenzione dell’indagine è caduta soprattutto sui volontari e sui promotori dell’associazionismo. Per costruire questa tipologia abbiamo fatto leva su due dimensioni che reputiamo centrali: il capitale biografico e la ricchezza delle reti sociali (ossia le relazioni che una persona può vantare).

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Tabella riassuntiva dei tipi puri di presenza Capitale biografico Capitale sociale Basso Alto Basso Fruizione Impegno Alto Complementarità Esemplarità

Qualche parola va spesa in merito alla prima dimensione. Tutti conosciamo le consuete proprietà che vengono impiegate nei modelli costruiti per spiegare i comportamenti umani: capitale culturale, ossia quanto si è studiato; economico, quanto si guadagna; ecc. Tuttavia, leggendo le storie di vita raccolte nel corso dell’indagine, molte di queste variabili non erano in grado di spiegare la propensione a impegnarsi nell’associazionismo. Tra i volontari ve ne sono alcuni istruiti e altri che hanno a malapena frequentato le vecchie medie; alcuni che posseggono un’agenda personale piena di nomi e altri che sono giunti in città da poco e che per questo, prima di divenire soci di un’associazione, avevano poche relazioni; per non parlare della varietà di posizioni economiche che è possibile riscontrare all’interno delle varie organizzazioni. Spesso entrava in gioco un’altra dimensione: la traiettoria di vita. Più essa aveva attraversato indenne diverse difficoltà, più essa contemplava momenti di rottura, di ascesa professionale, ma anche di declino e più alta era la disponibilità a dedicarsi ad attività di volontariato. Le numerose rotture (sia positive, sia negative) che possono contraddistinguere la vita di una persona, se vengono adeguatamente gestite, possono convertirsi in capitale “interiore” e lasciare spazio a un forte senso di sicurezza, una sicurezza personale che presuppone anche un senso dell’investimento (Bourdieu 1998, 2005), ossia la convinzione di avere investito sulla (e nella) propria vita e di averle dato in tal modo “valore”. Tutto ciò rafforza la convinzione di poter dare qualcosa agli altri: un buon consiglio, una carezza, conforto, aiuto. Le parole di Bartolomeo ci aiutano a chiarire uno dei possibili esiti di questo processo: lui, un uomo che è stato “protagonista” per tutta la vita, vuole semplicemente continuare ad esserlo. Mauro, tuttora impegnato nel sindacato e volontario presso altre organizzazioni, è ancora più esplicito: se dovesse ripartire da zero, la cosa non lo preoccuperebbe, dato che già altre volte, nel corso della propria vita, lo ha dovuto fare, sia per necessità, sia per scelta. Un primo modo d'essere nel mondo, che di norma presuppone una rete di relazioni debole e il possesso di un basso capitale biografico, si riduce all'appartenenza (o fruizione). Alcune persone scelgono di aderire ad una specifica istituzione, o iniziativa, arrivando così a “vivere” la storia in maniera mediata, indiretta. È il caso di quegli anziani che decidono di iscriversi ad un centro socio-culturale per potervi passare parte della propria giornata. Essi rinunciano all'impegno in prima persona, preferendo ad esso la semplice aggregazione, che può assumere diverse forme: dalla commemorazione del passato attraverso i ricordi, alle attività di svago organizzate dallo stesso centro. I motivi per cui si sceglie questo tipo di presenza possono essere

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vari: le cattive condizioni di salute, la sensazione di non essere all'altezza di certi compiti, la solitudine. Spesso queste persone evocano un passato mitico-rituale, ossia un passato che non può essere collocato nella storia “ordinaria” ma può solo essere attualizzato, in quanto impregnato di una moralità a-storica, ossia di codici di condotta che vengono pensati validi a prescindere da qualsiasi contesto storico o geografico (si è sempre fatto così!). È un passato trascendente che ancora non è stato “storicizzato” e che inevitabilmente fa esprimere giudizi poco lusinghieri circa il presente. Per Marta, ad esempio, sono andate perse

“Le abitudini dell'antichità che erano più belle de queste de oggi, oggi è tutto un menefreghismo, non c'en più quei valori di una volta (...) che se rispettavano i genitori, che se stava sotto il comando dei genitori, non se facevan le cose che non si dovevano fare, oggigiorno a un ragazzino gli dici oh qui non ci andà eh.. allora è quella volta che parte, ritornano alle 2, le 3, le 4 della mattina, una volta n'se faceva, io c'avevo un babbo severo, quando andava giù il sole toccava esse tutti in casa perché sennò erano scoppole (...) e io ho mantenuto per le mie figlie questo atteggiamento, adesso questa ragazza, che è la mi figlia, c'ha due bambine qualche volta enno un po' birichine, glie dico tu devi dare i principi buoni che t'ho dato io a te, che t'ho insegnato, devi tenè quel ritmo, sennò n'ce cavi niente perché quando han 14 anni te scappan de casa non t'arvengon manco, perché oggi il mondo (...) se trovan delle ragazzine 14, 13, 14 anni che bevono i bicchieri de birra, mezze ubriache”. (Marta, 74 anni, associazione per il tempo libero)

Un secondo modo d'essere nel mondo (forte rete di rapporti e basso capitale biografico) mette in gioco la complementarità. Tra gli intervistati ve ne sono stati diversi la cui preoccupazione principale era quella di riuscire a mantenere un ruolo attivo all'interno del proprio gruppo primario. Non profondevano i loro sforzi impegnandosi nel sociale, ma nell'intento di migliorare la qualità della vita della loro famiglia. A questo riguardo, possiamo richiamare quanto sostenuto da diversi ortolani44. Le loro attività avevano un senso profondo all'interno di una economia domestica più vasta, dove ogni membro della famiglia continuava a mantenere un ruolo specifico: lui impegnato a coltivare la terra per garantire i prodotti della terra a figli e nipoti (oltre che a se stesso), la moglie coinvolta nei compiti di cura e dedita ai propri familiari. Per Paolo:

“La prima cosa è la qualità, perché lei sa quel che mangia, la zucchina non gli ho dato niente (...) il cetriolo non gli ho dato niente (...) anche i fagiolini, c'enno i miei nipoti ma quant'en boni, ma perché quelli che se compran (...) son duri che non se cociono (...) quelli può esse che vengon dal Marocco”. (Paolo, 74 anni, orticoltore)

44 Ci riferiamo agli anziani a cui la provincia di Perugia ha assegnato in concessione gratuita un orto. Gli orti, in totale 340, sono dislocati a Perugia in località Ponte della Pietra e all’interno del Parco Santa Margherita.

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Va sottolineato l’aspetto pratico, concreto, di questo modo d’essere, dato che qui il fare produce frutti. Michele, un altro intervistato, ricorda le prime soddisfazioni che riusciva a trarre dalla sua attività d’ortolano:

“Dopo un po' de fatica vedevi anche il risultato, questo è come, quando diciamo, qualsiasi cosa, no, prima speri, lavori (...) poi quando vedi nascere qualcosa già, oh dico: vedi, so stato bravo che qualcosa dopo tante fatiche, c'è qualche risultato”. (Michele, 65 anni, orticoltore)

I prodotti della terra, cresciuti e divenuti maturi grazie all’impegno personale, vengono poi distribuiti all’interno della famiglia o diventano doni capaci di rafforzare i legami con i vicini o con i propri amici più stretti. Sempre Michele, rende chiaro l’orizzonte sociale delle attività di molti ortolani.

“Quelli che coltivano qui, fanno per loro e per i figli perché se uno diciamo non c'ha nessuno, come dicevamo prima, è solo, chi glielo fa fare di venire qui, allora sta meglio al bar, o su un centro sociale che sta seduto, tranquillo, chiacchiera con gli amici e così passa la giornata”. (Michele, 65 anni, orticoltore)

Un terzo modo d'essere (forte rete di relazioni, alto capitale biografico) è quello dell'esemplarità, ossia della ricerca costante del proprio miglioramento. Alcune persone anziane, nonostante l'età avanzata, continuano a investire tempo ed energie nell'acquisizione di nuove competenze o nel perfezionamento di un’abilità di cui sono in possesso. In questo caso, viene promosso soprattutto un cambiamento interno, ossia che riguarda se stessi. Qui, è centrale il perseguimento dell'autonomia (Riesman 2009), non di un’autonomia fisica, ma di pensiero. La presenza, ossia l’esserci, si risolve nella propria capacità di comprendere il mondo, di riuscire a stare al passo con i tempi. Per Piero, la sua attività, come volontario nel sindacato, gli consente di migliorarsi. Pure Filippo, un altro volontario presso un sindacato, fa notare che la sua attività gli consente di soddisfare la propria estrema curiosità e di aggiornarsi sulle leggi e sulle novità istituzionali. Anche il mondo interiore, come fa notare Chiara, può diventare oggetto dei propri studi, delle proprie riflessioni.

“Ho bisogno di conoscere, di approfondire, per esempio a me piace moltissimo lo studio della psicologia, sin da giovane, però adesso se magari qualcuno viene a casa mia e guarda i libri che ci sono in giro, sono soprattutto libri relativi alla psicologia, (...) insomma mi appassiona tantissimo vedere come diciamo reagisce, come è il cervello, insomma, che cosa avviene dentro di noi di fronte (...) alle cose che ti capitano (...) leggere, questa è una cosa che faccio per conto mio(...) io ho continuato a leggere le cose che mi piacciono tanto; (...) mi sento spinta proprio, se un giorno non leggo una pagina.. ho bisogno di andare a vedere, di approfondire quella cosa, perché è capitata”. (Chiara, 72 anni, associazione culturale)

È giocoforza che spesso una sola associazione non basti a saziare tali appetiti. Sempre Chiara parla di una “curiosità mentale” che non può essere completamente soddisfatta da una singola iniziativa. Se certi centri sociali aiutano alcuni anziani ad intraprendere un lavoro di ritessitura (di legami, conoscenze) e spesso giungono a includere quasi

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tutta la rete sociale del singolo iscritto, altri centri, soprattutto quelli culturali, difficilmente racchiudono l’intero patrimonio di conoscenze del singolo socio. Le attività svolte da questi ultimi centri hanno più che altro la caratteristica dell’episodicità: eventi unici (la presentazione di un libro, una conferenza), che s’incastonano in una vita ricca di appuntamenti, contatti, stimoli. In questo caso è l’associazione ad essere incorporata nella rete di rapporti del singolo e non l’inverso. Ne risulta anche una diversa socialità: più intessuta di confidenze e di intimità condivisa nei centri sociali, più “controllata” e intenta a mantenere una distinzione tra pubblico e privato in quelli culturali. Un quarto modo d'essere (alto capitale biografico, basso capitale sociale) è quello che presuppone l'impegno. Alla base della presente discussione, ricordiamolo, vi è stato il tentativo di comprendere le spinte che stimolano l'impegno. Perché certe persone scelgono di aiutare il prossimo, di operare nel sociale? Si è trattato, dunque, di tratteggiare un profilo, di cogliere, per quanto possibile, le caratteristiche ricorrenti nelle persone coinvolte nel volontariato. Come base empirica avevamo una serie di storie di vita. Leggendole, emergeva un elemento abbastanza ricorrente: le persone più attive sono quelle che presentano una vita con più fratture. Sono persone che hanno dovuto reagire, che hanno compiuto delle scelte impegnative, sviluppando traiettorie di vita ricche e complesse. Infatti, l'impegno presuppone un senso di auto-efficacia, una valutazione positiva di se stessi, del proprio valore. Ci si impegna se si ha qualcosa da dare, ma questo qualcosa spesso è il frutto di una vita ricca di gratificazioni o, al contrario, di difficoltà che si è riusciti a superare. Quando si esaminano le spiegazioni che i diretti interessati danno riguardo al proprio impegno, tra di loro vi è chi ha scelto il volontariato poiché ha avuto una vita felice ed è quindi giusto che ora pensi agli altri, o perché sente che può ancora dare qualcosa: è il caso di Roberto, il quale, dopo avere svolto un lavoro che gli ha dato molto e dopo aver cresciuto un figlio del quale è soddisfatto, ha deciso di impegnarsi nel volontariato. Ma vi è anche chi vuole aiutare il prossimo proprio perché ha subíto dei dolori e per questo motivo è maggiormente in grado di comprendere le sofferenze degli altri.

“Forse le persone che hanno comunque avuto una sofferenza o dietro diciamo hanno un bagaglio di.. credo che capiscono meglio (...) e allora anche se hanno magari bisogno loro cercano di dare comunque qualcosa agli altri sempre, un pezzo lo lasciano per gli altri”. (Pina, 65 anni, associazione che si occupa dei diritti degli anziani)

Sono persone, comunque, che hanno dovuto o voluto investire nella propria vita. Il loro impegno, poi, spesso (anche se non sempre) trova una ragion d’essere nella necessità di costruire nuovi legami sociali. Già abbiamo parlato degli anziani che, giunti a vivere da poco in un certo posto, vedono nelle associazioni un efficace trampolino di lancio per gettarsi nella società locale. Un altro tema, presente in alcune interviste degli “impegnati”, riguarda la visione della storia (presente ma anche

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passata). L’impegno, infatti, spesso presuppone la consapevolezza della “storicità” degli eventi; la storia non è provvidenza o fatalità, ma viene concretamente fatta. Sicuramente continuano ad esserci persone che offrono il proprio aiuto anche in vista di una “ricompensa ultraterrena”, ma altri volontari vogliono ribadire l’efficacia che l’agire sociale può (o poteva) avere e non tollerano le posizioni eccessivamente fataliste. Roberto, parlandomi di un suo vicino morto in un incidente stradale - un giovane al quale era molto legato poiché lo aveva visto crescere - mi descrive i sentimenti provati nel corso del funerale, i quali richiamano proprio la necessità dell’azione.

“Sono andato in chiesa e questo prete che in chiesa mi ha fatto male, pensare che un prete (...) comincia nelle loro prediche che dicono Dio ti ha voluto e tu oggi stai meglio di ieri, perché sei con Dio, sei con quello, se con quell'altro, non avere paura della morte, (...) questa cosa a me fa male, (...) io avrei fatto una predica diversa: ragazzi, ma vi rendente conto dove stiamo andando? ma volete avere un attimo di rispetto per la vita? (...) questo modo di dire anche da parte della chiesa, questo fatto che quello che succede è perché deve succedere, questa cosa a me mi sta facendo male; (...) Dio non è vero che vuole che la gente muore giovane (...) e il fatto che uno deve essere contento perché poi vai con Dio, più tardi ce se va e meglio è..non c'è fretta (...) con tutti questi ragazzi che muoiono, specialmente sulle strade, o per droga, o con alcol, questa cosa si può evitare, si deve evitare”. (Roberto, 65 anni, associazione che si occupa dei diritti degli anziani)

Naturalmente, è opportuno chiarire che quelli appena descritti sono tipi “puri”. Spesso, nella realtà, è più facile incontrare tipi “ibridi”. Tra mono e pluri-appartenenza L'associazionismo della terza età dà spazio alla pluri-appartenenza o genera forti vincoli di fedeltà che richiedono l'iscrizione ad un’unica associazione? Anche in questo caso non vi è una risposta semplice. Se dividiamo idealmente gli iscritti delle varie associazione in tre gruppi - semplici iscritti, volontari e promotori/dirigenti - è possibile notare che la mono-appartenenza di norma caratterizza soprattutto i volontari, in quanto sono questi ultimi, spesso, a prestare la propria opera all'interno di una sola organizzazione. I semplici iscritti, invece, a volte decidono di aderire a più iniziative, soprattutto se risiedono in un territorio ricco di vita associativa; e anche i promotori/dirigenti spesso sono coinvolti in più comitati direttivi. Vi sono diversi motivi che spiegano questi comportamenti. Il lavoro del volontario è sicuramente più impegnativo e capita che venga svolto da persone le quali non possono vantare una forte rete di amicizie. Anzi, come abbiamo già visto, in questi casi è proprio il volontariato a consentire la creazione di nuovi rapporti. Per i promotori può valere un discorso diverso, dato che è proprio la ricchezza della loro rete di conoscenze a spingerli a spendersi in più ambiti.

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A questo riguardo vi sono diversi esempi concreti. Alcuni Comuni umbri possono esibire un vasto ventaglio di iniziative grazie al proprio ricco tessuto associativo, ma quest'ultimo è quasi sempre un risultato recente, frutto spesso di una amministrazione comunale particolarmente attiva su tale fronte e di alcuni residenti. Prendiamo un Comune medio dove abbiamo svolto alcune interviste. Nel 1997 è stata fondata una prima associazione; in seguito, essa ha patrocinato o comunque stimolato la creazione di altre nuove associazioni. Il percorso che ha portato allo sviluppo dell'associazionismo cittadino, dunque, ha previsto una prima fase d'incubazione, dove un’associazione ha consentito a diversi iscritti di sperimentarsi, di acquisire sicurezza circa le proprie capacità. Poi, alcune attività maturate all'interno di questa prima associazione hanno costituito il pretesto per la creazione di nuove associazioni, più specifiche: è il caso di un’associazione teatrale che, prima di darsi uno statuto, ha mosso i suoi primi passi all'interno di un’associazione già attiva. In questo caso, è un’intera rete di rapporti, di conoscenze, che viene attivata e la creazione di nuove realtà associative serve fondamentalmente a metterne in luce le eccellenze. Lo stesso si è verificato in un altro Comune, dove alcuni iscritti di un Centro hanno dato il loro appoggio alla fondazione di altre associazioni. Spesso, l'effetto più o meno imprevisto delle prime associazioni presenti su un determinato territorio è di promuovere una cultura dell'associazionismo destinata a dare nuovi frutti. Un discorso simile vale anche per i singoli iscritti; operando dentro una specifica associazione, essi hanno modo di acquisire o di vedere confermate specifiche competenze organizzative che vengono apprezzate e richieste anche da altre associazioni. Per questo una persona può alla fine operare in più direttivi. Tuttavia va ribadito che questo processo di differenziazione, come già detto, non è destinato a procedere troppo oltre, dato che vi è una tendenza inversa a valorizzare la singola associazione rendendola promotrice di più iniziative. Le ragioni dell’impegno Anche a proposito delle motivazioni che spingono all'impegno, è possibile notare due risposte tipiche. Vi è chi sostiene di aiutare il prossimo perché vuole sentirsi utile e perché un giorno potrebbe capitare a lui d'avere bisogno. Questa motivazione viene sposata da Gino, per il quale “quello che dai oggi come volontario potresti un domani ottenerlo tu”. L’incontro con la sofferenza e il bisogno, poi, consente anche di riflettere sulla propria condizione, di osservarla da altre angolature: “Conosci tante sofferenze, per cui su queste sofferenze ti confronti e quindi pensi che la tua è sempre più leggera di un'altra e quindi dai”. (Pina, 65 anni, associazione che si occupa dei diritti degli anziani).

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In questo prima motivazione domina la dimensione sociale, la quale presuppone sia lo scambio, sia il confronto. Altri, invece, esibiscono una motivazione più intrinseca: aiutano il prossimo per senso del dovere; giustificazione, quest’ultima, spesso dovuta alle convinzioni religiose che si posseggono. Ma dobbiamo registrare anche l’affermarsi di nuove sensibilità, come quella che si nasconde dietro la risposta di Carlo, il quale dichiara di aiutare perché ciò lo fa stare e sentire meglio.

“Forse realizzo una parte anche della mia personalità che non avrei modo di farlo diversamente, forse inconsciamente ci sarà anche questa esigenza di egoismo personale ma, non lo so, a me piace interessarmi, io credo di avere un'apertura molto vasta”. (Carlo, 67 anni, associazione che si occupa dei diritti degli anziani)

Questa seconda risposta implica un grado superiore di riflessione su se stessi, una nuova consapevolezza della storia, soprattutto della propria storia, e dà centralità all'individuo, indicando probabilmente un cambiamento di paradigma nei modi dell'impegno sociale. Va anche ricordata la continua necessità che diversi intervistati hanno avuto di rimarcare la gratuità del proprio impegno, contrapponendola a palesi esempi di “falso volontariato”, ossia di quel volontariato fatto per “percepire lauti rimborsi spese”. La gratuità, qui, testimonia a favore dell'integrità dell'intervistato, ne enfatizza l'autonomia, dando risalto al fatto che ciò che sta facendo è dovuto ad una sua libera scelta. Anche in questo caso è chiaro il tentativo di superare la logica utilitaristica-economica che condiziona e, inevitabilmente, rende meno autentica, buona parte della vita adulta attiva. Quella che comunemente viene definita terza età, dunque, sta divenendo sempre più rilevante e “attuale” poiché consente la sperimentazione di pratiche di re-incorporazione dell’economico nel sociale (Polanyi 2000).

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FORME DI AGGREGAZIONE E CULTURA DELLA PARTECIPAZIONE45 Tra vecchi e nuovi anziani Nell’immaginario collettivo, la condizione dell’anzianità è connotata ancora troppo spesso in negativo, in riferimento a ciò che il “vecchio non può più fare o più essere” (Salvioni, 2001, p.71). Gli inglesi definiscono questo tipo di mentalità con il termine ageism, ossia la tendenza a considerare la vecchiaia come una fase di involuzione esistenziale e di deterioramento della persona sul piano fisiologico, psichico, comportamentale e sociale (Saladini, 2000). Negli ultimi anni, però, la conquista della longevità e il conseguente aumento della popolazione anziana in buona salute hanno posto le basi per una nuova rappresentazione sociale della senescenza caratterizzata anche da ciò che “il vecchio può fare”. Studiosi, ricercatori, mass media enfatizzano sempre più spesso le nuove opportunità e la dimensione attiva dell’anzianità (Cesareo, 1991; Censis, 2007): i “nuovi anziani” viaggiano, partecipano ad iniziative culturali, consumano, usano internet, si associano e fanno volontariato46. Offrire ai pensionati l’opportunità di condurre una vita attiva e piena di relazioni ha un rapporto costi-benefici decisamente a favore della collettività quale antidoto all’insorgere delle “patologie sociali” indotte dalla solitudine e dalla marginalità sociale. La longevità attiva è, in quest’ottica, una politica di welfare a favore dell’invecchiamento, in quanto riduce il numero di anziani che si ammalano o che si percepiscono come malati e che pertanto entrano in circuiti sanitari con costi aggiuntivi sulle finanze collettive (Censis, 2007 e 2008). A tali esigenze rispondono molte iniziative associative adottate dagli anziani e per gli anziani, attraverso molteplici e variegate attività (ricreative, culturali, turistiche, solidaristiche, sportive, ecc.) proposte ai propri soci. Queste attività, infatti, hanno il grande pregio di mantenere l’anziano nell’ambito di una vita attiva all’interno della comunità, consentendogli, nello stesso tempo, di incrementare i suoi rapporti sociali (Florea, 1982) 47:

“Io nell’Uni3 ci credo, perché credo che abbia una grossa funzione sociale che gli Enti Pubblici non hanno capito fino in fondo, perché penso che l’Uni 3 ritardi l’invecchiamento, perché finché si usa il cervello non si invecchia. È per questo che dico che abbiamo una funzione sociale, perché teniamo la gente impegnata, viva, (…), cerchiamo di farla partecipare alle nostre

45 Il presente paragrafo è stato redatto da Elisa Fuschi. 46 L’ultimo cartone animato della Disney è la prova di questa nuova rappresentazione sociale della terza età: il protagonista, Carl Fredricksen, è un pensionato di 78 anni che, invece di rinchiudersi in un ospizio, decide di trascorrere gli ultimi anni della sua vita seguendo l’impulso dei suoi desideri. 47 Va precisato che l’associazionismo può rappresentare una valida risposta sociale ai bisogni degli anziani in buona salute, non altrettanto efficace per gli anziani non autosufficienti che hanno complesse necessità di tipo sanitario e assistenzialistico.

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attività (…), magari dando dei piccoli incarichi, così che la persona si senta utile, responsabile, con qualcosa da fare.” (Alberto, 63 anni, associazione culturale). Le associazioni degli anziani e per gli anziani Nei prossimi paragrafi andremo a descrivere alcune caratteristiche delle associazioni della terza età, così come ce le raccontano i nostri intervistati. Attraverso le interviste non direttive, infatti, abbiamo raccolto opinioni e percezioni degli anziani senza la presunzione di fotografare al completo la realtà associativa umbra della terza età. In sociologia dell’organizzazione si direbbe che abbiamo utilizzato un approccio soggettivista48 allo studio delle aggregazioni: abbiamo preferito, cioè, che fossero proprio gli individui a conferire senso (sensmaking) alle associazioni stesse attraverso i loro flussi personali di esperienza (Bonazzi, 2002). D’altra parte, la scelta di utilizzare le interviste ermeneutiche corrisponde ad una scelta di centralità dell’individuo, poiché l’obiettivo cognitivo è quello di esplorare il suo “mondo della vita quotidiana” e quindi la realtà che egli vive in prima persona, di cui è l’interprete più competente (Montesperelli, 1998). Attraverso l’eloquente disponibilità degli intervistati, abbiamo avuto il piacere di conoscere qualcosa di più del “mondo della vita” in 24 associazioni umbre49, regalandoci una ricchezza di attività e di iniziative quasi inaspettata. Diverse sono state le “proprietà” organizzative analizzate (finalità associative, target a cui si rivolgono, parità di genere, processi comunicativi interni e rapporti con l’esterno) che ci permettono di delineare un primo profilo, se pur parziale, delle associazioni della terza età in Umbria. L’associazione e le sue finalità Le 24 associazioni, costituenti la nostra base empirica, si suddividono in sette associazioni culturali (Università della Terza Età e circoli culturali), sette dedicate al tempo libero (centri socio-ricreativi), nove finalizzate alla tutela dei diritti degli anziani (sindacati dei pensionati e altre associazioni di advocacy emanazione dei sindacati

48 Il soggettivismo, che trova in Karl Weik (1969;1977;1995) il suo esponente più radicale, è uno dei così detti approcci soft alle organizzazioni, orientati allo studio degli aspetti culturali, simbolici e riflessivi che i soggetti mettono in atto interagendo con le organizzazioni stesse. Questi approcci si sviluppano parallelamente alla crescente fortuna dei metodi di ricerca qualitativa (studio dei casi, l’osservazione partecipante, etnografia, interviste non direttive, ecc.), “in quanto scelte congeniali che si rafforzano a vicenda” (Bonazzi, 2002, p.152). 49 Queste associazioni sono dislocate in diverse zone del perugino (Perugia, San Sisto, Ponte Felcino, Marsciano, Umbertide, Castiglion del Lago e Tuoro) e del ternano (Terni, Orvieto, Monteleone d’Orvieto, Fabro e Papigno).

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stessi50) e una di autoconsumo (gli Orti di Perugia). Come vedremo, ognuno di questi tipi associativi persegue obiettivi più o meno specifici, ma tutti sembrano avere l’intento di offrire all’ageism population un luogo di incontro, dove trascorrere il proprio tempo libero con attività altamente coinvolgenti. Dalle interviste emerge un vivace proliferare di associazioni culturali, alcune orientate alla cultura tout court (recupero degli usi, costumi e tradizioni locali, concorsi letterari, recupero di libri e film inediti, ecc.); altre di tipo socio-culturale, in cui le finalità intellettuali si intrecciano in modo esplicito con quelle di socializzazione. In realtà, tutte le associazioni culturali esaminate sembrano rispondere ad un bisogno di doppia natura. Da un lato, viene sottolineata la matrice culturale della propria associazione, rivendicandone le specificità rispetto ad altre modalità di impegno del tempo libero:

“L’Uni3 non è un circolo di persone anziane che si limita a battere i pugni sul tavolo o a giocare a briscola.” (Marilena, 67 anni, associazione culturale);

dall’altro, si riconosce molta importanza all’aspetto socializzante delle attività proposte: non solo cultura, ma momento di aggregazione e di incontro per persone con gli stessi interessi.

“Abbiamo organizzato l’associazione su queste basi: unendo la cultura a finalità di tipo associativo. Facciamo diverse attività culturali e meno culturali: si va in giro, si viaggia, abbiamo fatto mostre, seguito conferenze sulle religioni, (…).” (Marilena, 67 anni, associazione culturale).

“Qui facciamo due operazioni: salviamo i libri e creiamo un punto di incontro e di riferimento (…) per quelli che sono interessati a questa materia.” (Aldo, 72 anni, associazione culturale). La maggiore attenzione per la cultura, esibita da parte dei nostri intervistati, rispecchia un più ampio cambiamento che caratterizza la generazione dei nuovi anziani: la crescita del livello di istruzione. Molti di loro, infatti, hanno almeno un titolo di scuola media superiore e alcuni anche una laurea; e scelgono quindi di impiegare il loro tempo libero nella fruizione intellettuale51. Le associazioni di tempo libero nascono, nella maggior parte dei casi, con l’intento principale di offrire ai propri soci un luogo di incontro:

50 Ci riferiamo ad associazioni quali l’Anteas (Associazione Nazionale Terza Età Attiva) della Cisl, l’Auser (Autogestione Servizi Solidarietà e Volontariato) della Cgil e l’Ada (Associazione Diritti Anziani) della Uil. Si tratta di associazioni di dimensione nazionale, promosse dagli stessi anziani e impegnate attivamente nel volontariato e nella promozione sociale. 51 Esempio emblematico della domanda di cultura espressa degli anziani è stato il proliferare delle Università della Terza Età (Uni3). La prima Uni3 nasce a Tolosa nel 1973, per poi avere una rapida diffusione in tutta Europa. Nel 1975, viene fondata l’Uni3 di Torino e, da allora, le sedi dell’Uni3 si sono sparse in tutte le regioni d’Italia. In Umbria, si possono contare numerose sedi, sia nella provincia perugina (Assisi, Città di Castello, Deruta, Monte Castello di Vibio, Perugia, Spoleto e Todi), sia nel territorio ternano (Acquasparta, Fabro, Amelia, Avigliano Umbro, Narni, Orvieto, San Venanzo e Terni).

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“Gli obiettivi del centro sono aiutare, dare sostegno, ma anche tenere compagnia e far incontrare tra loro gli anziani (…). Specialmente d’inverno se uno non sa dove andare, almeno qui trova un po’ di calore.” (Gino, 76 anni, centro sociale).

Non manca, però, l’aspetto del mantenersi attivi, orientato principalmente a finalità solidaristiche. Molti dei centri ricreativi da noi intervistati, infatti, si impegnano attivamente nel volontariato in diversi ambiti sociali:

“Tra i servizi e le attività del centro è da sottolineare l’aiuto alle persone sole, agli anziani nelle case di riposo, le iniziative verso gli immigrati ed i disabili.” (Bartolomeo, 78 anni, centro sociale).

La spinta solidaristica e di promozione sociale accomuna queste associazioni a quelle di tutela di diritti degli anziani:

“Sono entrato all’interno di questa associazione per fare qualcosa di utile, per dare un aiuto agli altri.” (Marco, 68 anni, sindacato dei pensionati).

Dagli intervistati viene sottolineata anche l’importanza di conoscere persone nuove e di scambiare idee con altri:

“I rapporti umani hanno una grande importanza. Il sindacato mi ha aiutato molto, mi ha permesso di interessarmi di altre cose, di avere rapporti con le persone.” (Piero, 65 anni, sindacato dei pensionati).

Come le associazioni culturali, gli intervistati di queste aggregazioni sottolineano la peculiarità delle loro attività e, in particolare, della loro pubblica utilità, rispetto alle attività più ludiche che si svolgono, ad esempio, presso i centri sociali:

“Ho continuato a lavorare nel sindacato anche dopo la pensione perché piuttosto che fare una partita a carte preferisco andare ad un’iniziativa e discutere di politica e dei problemi della società.” (Carlo, 63 anni, sindacato dei pensionati). Per ciò che riguarda le associazioni di autoconsumo (gli Orti52), fra gli intervistati emerge l’importanza della temporalizzazione della propria giornata, scandita su precisi appuntamenti e rituali che il lavoro della terra impone:

“C’è gente che (…) togliendo gli orti, togli una parte di loro, insomma li fai partì presto. Per queste persone è anche un passatempo, a casa dove vanno, chiusi in casa è difficile. C’era una persona molto anziana che veniva qui la mattina alle sette, tornava a mezzogiorno, ritornava alle due e mezza e fino alle sette di sera, stava tutto il giorno qui.” (Michele, 65 anni, ortolano).

52 Gli Orti sono dei piccoli appezzamenti di terreno che la Provincia di Perugia assegna in concessione gratuita agli anziani. L’idea nasce proprio dalla necessità di offrire ai pensionati (ex-contadini) un luogo dove passare il proprio tempo. Attualmente, a Perugia, si contano 340 siti ortivi, dislocati in località Ponte della Pietra e all’interno del Parco Santa Margherita.

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Abbiamo riscontrato anche il bisogno di relazionalità, di avere un luogo dove incontrare qualcuno:

“Frequentando gli Orti ho conosciuto nuove persone: Maria, Marcello e Piero anche se ora sta male.” (Paolo, 78 anni, ortolano).

L’analisi delle finalità organizzative sin qui condotta, ci consente di delineare una tipologia associativa che vede, da una parte, le associazioni con una tensione verso l’esterno, con caratteri di tipo universalistico; e, dall’altra, le associazioni proiettate verso l’interno, con orientamenti in-group e di gratificazione interna (Donati, 1996). Fanno parte del primo tipo, le associazioni di tutela dei diritti degli anziani e di tempo libero, impegnate nella produzione di beni generali e collettivi attraverso l’organizzazione di servizi di pubblica utilità e di privato sociale, accessibili a tutti (soci e non soci); rientrano nel secondo tipo, invece, le associazioni culturali e gli Orti, maggiormente centrati sull’individuo che aderisce all’associazione e sui suoi bisogni relazionali. Il target e la parità di genere Quanto alla composizione di queste associazioni, si evidenzia un elemento interessante, che accomuna i membri delle associazioni culturali a quelli degli Orti. In entrambi, infatti, è possibile individuare chiaramente una prima e una seconda generazione di iscritti. Nel caso delle aggregazioni culturali, la variabile che separa il primo dal secondo gruppo è il livello di istruzione:

“Rispetto a quando abbiamo iniziato noi, ci sono persone più acculturate, tanti maestri, insegnanti e sono cambiati anche i corsi, sono più teorici.” (Marta, 77 anni, associazione culturale, I generazione).

“Rispetto ad alcuni anni fa il livello si è alzato. Prima si facevano le presine e le bambole di pezza, ora facciamo lezioni su Lucrezia Borgia e sulle religioni.” (Marilena, 67 anni, associazione culturale, II generazione).

Possiamo identificare, quindi, un primo gruppo di iscritti di estrazione socio-culturale medio-bassa (di solito casalinghe, con un basso livello di scolarizzazione), che convive con il gruppo dei così detti young-old (i meno anziani tra gli anziani), il cui ceto socio-culturale di provenienza è, invece, medio alto (insegnanti, impiegati e professionisti con alto livello di scolarizzazione). Per ciò che riguarda gli orticoltori, la variabile di demarcazione fra prima e seconda generazione è rappresentata dalla competenza agricola:

“Parliamo degli errori commessi da chi inizia la coltivazione dell’orto senza le giuste competenze. L’errore più grosso è quello di dargli troppa acqua, l’acqua porta via anche i minerali delle piante. Ce ne vorrebbe tutti i giorni ma poca.” (Antonio, 62 anni, ortolano). La prima generazione di orticoltori, i “veri contadini” nascono e crescono nel mondo rurale e conoscono a fondo il lavoro della terra, i suoi segreti e la fatica che richiede; la

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seconda generazione, i “contadini fai da te”, provengono da altre professioni e dimostrano scarse conoscenze rispetto al lavoro rurale. Le associazioni culturali e gli Orti si differenziano, però, per quanto attiene la composizione di genere dei loro membri: le prime sono caratterizzate da una spiccata presenza femminile, che spesso riveste ruoli di primo piano (presidenza, vice-presidenza, coordinamento, ecc.), mentre gli Orti sono costituiti quasi esclusivamente da uomini:

“Negli orti ci sono solo tre o quattro lotti dati alle donne perché il marito forse è morto. Le donne ci vengono poco, vengono giù per stare con i mariti, stanno qui, aiutano un po’.” (Michele, 65 anni, associazione di autoconsumo).

In questo caso, la disparità di genere è molto probabilmente legata ad un retaggio culturale del modo rurale da sempre prevalentemente maschile. Per tradizione, infatti, la donna in campagna, pur lavorando moltissimo, ha sempre assunto il ruolo di aiutante dell’uomo (Montesperelli, 1999). Le associazioni di tempo libero e quelle di diritti degli anziani si caratterizzano per una maggiore eterogeneità dei propri componenti in riferimento al genere, al ceto sociale di provenienza e ai livelli di scolarizzazione. In entrambi i casi, però, spesso la presenza femminile c’è, ma è più formale che sostanziale. Le donne aderiscono a queste associazioni, ma poi non partecipano attivamente:

“Questo è un fenomeno che avviene a livello nazionale non solo in Umbria, le donne non partecipano attivamente alla vita del sindacato. Questo è un problema generalizzato, forse di tipo culturale. Noi stiamo facendo lo sforzo di inserire donne negli organismi dirigenti. Quest’anno ne inseriremo quattro o cinque.” (Carlo, 63 anni, sindacato dei pensionati).

“Per quanto riguarda l’iscrizione al centro, gli uomini e le donne si equivalgono più o meno. Per quel che riguarda, invece, la partecipazione all’interno del centro, il 90% sono uomini e il 10% sono donne (…). La differenza fra donne e uomini si vede anche sul direttivo: su quindici persone che compongono il direttivo, solo cinque sono donne” (Gina, 74 anni, centro sociale).

Per quanto riguarda i sindacalisti, un elemento comune ai nostri intervistati è che, sovente, avevano già svolto in età adulta attività di interesse pubblico nell’ambito della politica o lavoravano già nel sindacato:

“La mia esperienza è iniziata anni fa facendo il sindacalista. Poi altre esperienze come amministratore della sanità (…). Attualmente sono anche consigliere di minoranza del Comune. Da una ventina d’anni lavoro in questo sindacato, dapprima come segretario poi come funzionario della provincia di Terni. Adesso sono un pensionato e sono presidente regionale di questo sindacato dei pensionati.” (Carlo, 63 anni sindacato dei pensionati).

All’interno della categoria delle associazioni di diritti degli anziani, si distinguono le associazioni che abbiamo definito di advocacy. Queste, infatti, risultano costituite prevalentemente da donne (a differenza di quanto si è potuto verificare per i sindacati):

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“Noi c’abbiamo un bel gruppo di donne sia nel consiglio e anche operative. La vicepresidente è una donna e adesso gestisce i servizi sociali, organizza i mezzi, cerca gli autisti e cura quelle poche offerte in denaro che arrivano.” (Roberto, 65 anni, associazione di advocacy).

Le ragioni di tale superiorità femminile sembrano legate alle attività di volontariato svolte da queste associazioni che richiedono competenze di care (cura) da sempre ritenute “naturalmente” femminili:

“Gli associati sono in prevalenza donne che sono più sensibili a queste cose.” (Filippo, 82 anni, associazione di advocacy). Dinamiche comunicative interne e rapporti con l’esterno Le associazioni prevedono attività informative per i propri soci prevalentemente tramite opuscoli, dépliants, bacheche pubbliche, locandine, reti televisive e quotidiani locali. Alcune associazioni dedicano molta attenzione all’aspetto comunicativo e propongono veri e propri periodici volti a diffondere le notizie agli aderenti, oppure sono dotate di una pagina web in cui si descrive la storia dell’aggregazione, le finalità perseguite e le modalità di iscrizione. La maggiore volontà dell’associazione di comunicare con i propri membri può essere letta come il tentativo da parte dell’associazione stessa di trasmettere un sistema comune di valori, congiuntamente a quelle attività ludico-ricreative che tendono a creare un gruppo coeso ed omogeneo (Parra Saiani, 2001). Una forma comunicativa ancora rilevante in tutte le associazioni, ma soprattutto in quelle di piccole dimensioni e per gli Orti, è la comunicazione orale ed interpersonale, il “passa parola”:

“C’avevo un amico che aiutavo, poi successivamente ho fatto domanda in Provincia e me lo hanno assegnato un orto mio.” (Michele, 65 anni, associazione di autoconsumo).

“Tra di noi, di solito, sono io che passo le informazioni agli altri, ma viviamo tutti nello stesso Comune che è piccolo e quindi ci vediamo, ceniamo insieme, facciamo delle piccole riunioni fra di noi, tutto in modo informale.” (Alessandro, 75 anni, associazione di tempo libero).

Per quanto riguarda i rapporti con l’esterno, ci siamo soffermati principalmente sulle relazioni che le associazioni instaurano con le istituzioni politiche del territorio, con le altre associazioni e con la comunità locale. I rapporti con la politica sono vari: alcune associazioni hanno buoni rapporti di collaborazione con le istituzioni territoriali, da cui, talvolta, ricevono anche finanziamenti.

“Ho un ottimo rapporto con le istituzioni; molte iniziative sono fatte con la loro collaborazione ed anche grazie alle loro risorse finanziarie.” (Bartolomeo, 78 anni, centro sociale). Altre associazioni, invece, mostrano legami conflittuali con le istituzioni e reclamano una maggiore necessità di autonomia:

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“Io sto difendendo gli Orti con i denti, veramente, perché la Provincia c’ha una voglia di smammarli, ma grossa, non ho capito perché, perché il costo è limitato. La Provincia (…) pensa che deve essere il Comune ad accollarsi questo servizio (…). Per me, anche se fosse il Comune, sarebbe lo stesso. Basta garantire certe cose: la sopravvivenza e la fornitura dell’acqua.” (Gino, 73 anni, associazione di autoconsumo).

Spesso, tuttavia, il rapporto con le istituzioni pubbliche locali si limita alla questione della sede, alle esigenze di reperire i locali adatti alle proprie attività. Interessante sembra l’impegno delle aggregazioni di anziani di stabilire collaborazioni trasversali con altre realtà associative, orientate in ambiti differenti ma operanti sullo stesso territorio:

“Noi non siamo un’associazione che lavora soltanto per se stessa, ma deve lavorare in collaborazione con gli altri, quindi le nostre iniziative sono sempre trasversali nel senso che sono orizzontali, vogliono coinvolgere anche le altre associazioni (…) perché se volgiamo costruire qualche cosa di importante, di solido, non si può lavorare da soli, bisogna lavorare con gli altri.” (Aldo, 72 anni, associazione culturale).

Per ciò che riguarda i rapporti con la comunità locale, gli intervistati testimoniano buoni segnali di apertura e di sensibilizzazione rispetto alle problematiche del territorio in cui le associazioni operano e di impegno all’esterno del proprio settore di intervento:

“Esiste anche un’attività di vigilanza nel parco da parte dei nostri associati che è frequentato da veri e propri delinquenti dediti allo spaccio della droga.” (Gianfranco, 71 anni, associazione tempo libero).

“Tra i servizi e le attività del centro è da sottolineare l’aiuto alle persone sole, agli anziani nelle case di riposo, le iniziative per l’integrazione degli immigrati e verso i disabili.” (Bartolomeo, 78 anni, associazione tempo libero).

Le collaborazioni con altre associazioni e la spinta solidaristica nei confronti della propria comunità di appartenenza si configurano solo in alcuni casi (di solito vale per le associazioni di grandi dimensioni) con azioni progettate e mirate; ma principalmente si tratta di rapporti estemporanei, affidati alla libera autonomia dei singoli o alle reti di conoscenza personale. In ogni caso, le aggregazioni di anziani mostrano una sincera attenzione (più o meno strutturata) alle “questioni sociali” del territorio, una sensibilità positivamente utilizzabile nell’ottica di una strategia di rete. Basti pensare alle possibilità di collaborazione fra le associazioni della terza età e le case riposo, gli ospedali, le carceri o altre attività socialmente utili, volte, ad esempio, alla valorizzazione di beni collettivi (memoria, territorio, verde pubblico, ecc.). In questa prospettiva, gli anziani e le loro associazioni diventano una vera e propria risorsa sociale per la collettività. Da questo punto di vista, meritano un esame a parte i siti ortivi che, invece, sembrano rappresentare un mondo più chiuso e autoreferenziale, caratterizzato da conoscenze e

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saperi più specifici, legati ad un tempo che sembra ormai passato e quindi di difficile divulgazione:

“Per le nuove generazioni, quello che facciamo noi sarà molto difficile, perché forse prima devono studiare e poi quando gli parli di andare a zappare dicono ma chi me lo fa fare. Per esempio, io lo dico a mio figlio che mi risponde che a lui l’orto non interessa perché secondo me hanno tutto un altro punto di vista da noi.” (Michele, 65 anni, associazione di autoconsumo).

Fondamentale è il rapporto personale con la terra e i suoi frutti:

“Lavorare nell’orto ti scarica, vivi il rapporto tu e la terra e le altre cose si allontanano, son al di fuori di te perché la terra c’ha un’energia che te la dà positiva.” (Roberta, 69 anni, associazione di autoconsumo).

Al massimo, si nota un’apertura nei confronti delle proprie reti primarie di appartenenza (nucleo familiare e amici):

“Quelli che coltivano qui, lo fanno per i figli perché se uno non c’ha nessuno, è solo, chi glie lo fa fare a venire qui, allora sta meglio al bar o su un centro sociale che sta seduto, tranquillo, chiacchiera con gli amici e così passa la giornata.” (Michele, 65 anni, associazione di autoconsumo).

Il tempo del non lavoro e la domanda di socialità Da questo breve esame delle aggregazioni degli anziani emerge la grande quantità di attività, di iniziative, di individui e di sentimenti che vengono messi in campo e che rendono il fenomeno associativo un importante strumento di risposta a due grandi necessità che ci sono sembrate trasversali alla terza età: la necessità di riorganizzare il tempo del non lavoro e la richiesta di socialità.

“Mancava per gli anziani un luogo per stare insieme, per poter conoscere persone e per poter passare il tempo.” (Antonio, 84 anni, associazione di tempo libero). Il tempo del non lavoro Il pensionamento fa emergere bruscamente la realtà del tempo umano costringendo l’anziano a fare i conti con una grande mole di tempo libero53.

“L’anziano è quello (…) che si alza la mattina senza sapere quello che può fare e che deve fare.” (Roberto, 65 anni, associazione di advocacy).

Non che la dimensione del tempo libero, nell’età adulta, non esistesse; ma con la cessazione del lavoro e la fine delle giornate rigidamente strutturate, il tempo assume

53 Se si considera, tra l’altro, che l’aspettativa di vita di una persona si è ormai allungata oltre gli ottanta anni, il pensionamento si prospetta realmente come un lungo periodo della propria esistenza (che può arrivare anche a venti o venticinque anni).

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un significato del tutto nuovo. Durante l’attività lavorativa, infatti, la vita di ogni individuo è fortemente scandita sul tempo, di cui si è i protagonisti; la pensione da all’uomo, invece, la sensazione di una vita dominata dal tempo. Perdersi nel tempo significa accrescere sentimenti di sconfitta e di depressione (Allario, 2003), attivando nell’anziano pericolosi processi di disempowerment :

“Ho avuto una vita molto piena tra lavoro, sindacato e famiglia. Nei giorni successivi al pensionamento, mi svegliavo la mattina con un’agitazione terribile non avendo più orari da rispettare, dopo una vita passata con un occhio sull’orologio.” (Giancarlo, 73 anni, sindacato dei pensionati).

La dimensione temporale è quanto differenzia maggiormente gli anziani dalle altre fasce di età (Censis, 2007). Si tratta, quindi, di reinvestire le proprie capacità e le proprie competenze in settori nuovi e con una mutata mentalità. A tale proposito, Saladini (2003) propone un’interessante cornice concettuale, una sorta di forma mentis che dovrebbe guidare atteggiamenti e attività dell’individuo nel periodo della senescenza: la mentalità poietica. L’idea è quella di mantenere in efficienza “la struttura pregressa della personalità” (p. 74) e le diverse potenzialità della persona, facendo vivere in una dimensione creativa le esperienze che hanno contrassegnato l’età precedente: non più produttività finalizzata al guadagno ma esperienza pura del fare. L’atteggiamento poietico, cioè, mette l’accento sulla soddisfazione e la gratificazione pura che consegue all’attività. La stessa categoria del tempo, in tale prospettiva, assume un significato nuovo: il tempo libero, svincolato da impegni, non è più mero strumento di evasione, ma diviene uno spazio “per il soddisfacimento di bisogni qualitativi, per vivere ed esprimere se stessi in rapporto con gli altri” (Florea, 1982, p.11). Si tratta di una “modalità” del tempo caratterizzata dal manifestarsi di un elevato grado di soggettività, dove si mettono in risalto le proprie capacità (a volte soffocate dai troppi impegni della vita adulta), in funzione del miglioramento della qualità della vita:

“Ho frequentato dei corsi di musica (…) questa è stata una mia scelta personale perché è una passione che ho sempre avuto, ma forse mi è mancato il tempo per poterla approfondire (…) e andando in pensione uno ha tutto il tempo davanti per poter crescere ancora.” (Chiara, 72 anni, associazione culturale).

La fruizione attiva del tempo libero restituisce, quindi, al pensionato quel senso di un percorso scandito sul tempo con impegni e attività (questa volta volute e desiderate), di cui si diviene nuovamente i conduttori, attivando virtuosi processi di empowerment: “Ho avuto una vita intensa. L’impegno sindacale, l’impegno politico, l’impegno come parlamentare della Repubblica mi hanno reso, meritatamente o no, protagonista. La prima motivazione che mi ha spinto a impegnarmi come presidente di questa associazione è quella di rimanere attivo e protagonista.” (Bartolomeo, 78 anni, associazione di tempo libero).

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La domanda di socialità L’esigenza di socialità, di condivisione dei tempi e degli spazi esistenziali, esprime una potente esigenza della cultura umana (Saladini, 2003, p. 104) che non va dimenticata a maggior ragione con gli anziani. Più relazioni e maggiore coinvolgimento comunitario sono la base per una vecchiaia serena e un fattore di protezione rispetto al circolo vizioso solitudine-depressione che tanto spaventa la terza età (Censis, 2007): “Alla nostra età siamo tutti soli, i miei figli sono grandi e mio marito è un uomo limitatamente autonomo. Se io non avessi modo di frequentare questo centro e sapere di trovare qualcuno lì il pomeriggio, avrei avuto problemi a sopravvivere.” (Marilena, 67 anni, associazione culturale).

Spesso, tra l’altro, l’abbandono del mondo produttivo coincide con la percezione della perdita del proprio sé sociale, accompagnata da una caduta verticale del senso di potere (Saladini, 2003). Viene meno, cioè, la plurifunzionalità dell’età adulta attraverso cui la persona sperimenta tutte le sue capacità e tutte le sue competenze, che prima rappresentavano il significato globale dell’esistenza:

“Aderendo a diverse associazioni realizzo una parte della mia personalità che non avrei modo di farlo diversamente.” (Carlo, 67 anni, associazione di advocacy).

La fruizione attiva del tempo, come già detto, aiuta il pensionato a mantenere un buon livello di autostima e di integrazione sociale ma, se queste attività si limitano alla sola sfera privata, difficilmente saranno in grado di restituire al all’anziano il proprio ruolo sociale (Parra Saiani, 2001). In tal senso entrano in gioco le associazioni che prendono la forma di “configurazioni relazionali” (Donati, 1996, p. 50). Le aggregazioni si presentano, cioè, come reti di relazioni sociali e, in quanto tali, sorgenti di relazioni interpersonali idonee a favorire fra i partecipanti rapporti fiduciari e processi di identificazione e appartenenza. In tale prospettiva, le associazioni diventano un valido strumento a cui l’anziano può ricorrere, non solo per sfuggire al pericolo dell’esclusione sociale, ma anche per ridefinire il proprio ruolo e il valore della propria personalità rendendola autonoma dallo status occupazionale.

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RICERCA ETNOGRAFICA: GLI ANZIANI E GLI ORTI54

Nel territorio perugino sono presenti due siti55 ortivi, ambedue gestiti dalla Provincia. Il primo si trova a Ponte della Pietra, vicino a un cimitero; il secondo si stende nei pressi del centro storico, in parte dei declivi che compongono il Parco di Santa Margherita56. Pur avendo frequentato ambedue i siti, ho svolto il lavoro d'osservazione soprattutto nel secondo, tra giugno e settembre del 2009. Descrivere questi siti ortivi vuol dire evocare luoghi stratificati, sotto diversi punti di vista. Vi sono le stratificazioni del terreno, con gli ultimi orti ricavati sulla terra da riporto e da sterro prodotta dalla lavorazione dei primi orti. Vi sono gli accumuli di oggetti e attrezzi dovuti alla cultura materiale degli ortolani. Vi sono, infine, le “laminazioni” culturali, ossia l'insieme delle pratiche e delle credenze che si sono sedimentate nel corso del tempo. Per chi vi è coinvolto in prima persona, è difficile parlare degli orti. Alcuni vi riescono evocando la metafora del “grande condominio” o discorrendo delle amicizie fatte lungo “la via” (ossia uno dei sentieri che costeggiano gli orti). Anche se gli orti si presentano compatti, sviluppandosi l'uno a ridosso dell'altro, è fuori luogo richiamare il concetto di comunità. Non esiste orto sprovvisto di recinzioni, anche se queste consentono quasi sempre la vista del coltivo. Gli scambi di battute non sono infrequenti, soprattutto tra ortolani confinanti. Spesso, poi, il lavoro sull'orto si conclude con una chiacchierata tra amici. Ma questi momenti di condivisione rappresentano semplici commenti a margine; a volte durano il tempo di una esclamazione (“incomincia a esse umida la fronte!”), che si limita a tradire lo sforzo compiuto e suona come una esortazione a continuare. Né vi è la pratica, un tempo comune in molte campagne, di chiamarsi utilizzando “nomignoli”.

Infine, per quanto riguarda il sapere legato all'orticoltura, esso vive rifratto in mille varianti. Rimangono comuni credenze che garantiscono alle pratiche orticole una esile trama, ma poi interviene l'inventiva di ciascuno.

Gli ortolani, che sono in gran parte uomini, si recano al loro pezzo di terra soprattutto quando viene aperta l'acqua. Ciò avviene di mattina, presto, o di sera e non tutti i giorni. L'acqua è anche causa di molti conflitti e dissapori. Vi è chi ne lamenta la scarsezza, chi ne nota il cattivo utilizzo da parte di alcuni. Per ovviare alla penuria d'acqua, molti, quando essa viene data, dopo aver innaffiato l'orto, la riversano in piccoli contenitori, così da poterla usare anche in un secondo momento. Altra

54 Il presente paragrafo è stato redatto da Riccardo Cruzzolin. 55 Qui, per sito ortivo, intendo l’intera area che ospita gli orti. 56 Gli orti in totale sono 340. il primo sito istituito è stato quello di Ponte della Pietra, nel 1976. Voglio

cogliere l’occasione per ringraziare la Provincia di Perugia che ha supportato il nostro lavoro, agevolando il contatto con i membri dei comitati dei due siti e autorizzando il lavoro di osservazione.

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questione dibattuta è quella riguardante i viali che costeggiano gli orti, da molti considerati bisognosi di manutenzione. Purtroppo, oltre alle piccole disfunzioni registrate dai più, alcuni temono che gli orti non abbiano un futuro, o che siano ormai visti con disinteresse dalla Provincia. Gli ortolani “vecchi” e quelli “nuovi” Nei siti ortivi, vi sono due generazioni che si fronteggiano, che s'intrecciano e dialogano tra di loro. Un primo gruppo di ortolani fa pensare alle consuetudini della “cultura contadina” (Papa 1985); esso è infatti più propenso a sostenere che il mestiere dell'ortolano possa essere trasmesso solo attraverso la pratica, imparando dai più vecchi; inoltre ha un atteggiamento più “utilitaristico” nei confronti dei frutti della terra (pronto a quantificare il risparmio che l'attività orticola consente e attento agli aspetti economici); è capace di evitare qualsiasi spreco ed è abile nel trovare nuovi utilizzi a quegli oggetti che hanno perso la funzione per la quale erano stati creati. Per loro, il riciclo è un valore. Entrare nei loro orti vuol dire scoprire rimesse, veri e propri spazi liminali, dove è possibile trovare di tutto: dal ferro portato da casa, gettato lì in attesa di conoscere la propria sorte (discarica, così si paga meno per i rifiuti, o riutilizzo), a un vecchio mobile dal quale verrà ricavata legna da ardere. Può anche capitare di trovare un dinosauro di plastica incastrato tra i rami di una pianta di fico come spaventapasseri. In questi orti molti oggetti hanno storie complesse ed affascinanti (Appadurai 1988). Un ortolano, nato in campagna e orgoglioso delle sue origini contadine, mi racconta la “storia” di un copricerchio d'auto: l’ho trovato lungo uno dei viottoli che costeggiano gli orti e ora si trova appeso in bella mostra a fianco del cancelletto, in attesa che qualcuno la reclami. Qualora non arrivasse nessuno a rivendicarne la proprietà, ha già pensato di utilizzarlo per spaventare gli uccelli, perché “riluccica”. Per la serra e le viti, usa un filo di ferro che inizialmente era servito per imballare il fieno e che gli è stato dato da un vicino del cognato. Le canne da impiegare come sostegno le prende da un canneto vicino. Mi mostra un attrezzo che ha costruito da sé: ha comprato solo il forcone e la “staffa”, mentre il bastone se l'è fatto da solo. Un altro ortolano mi ha fatto vedere un piccolo attrezzo, che lui usa per dare il concime, da lui ottenuto infilando un bastone in un grosso barattolo di latta. Il riparo per gli attrezzi che si trova nel suo orto, poi, era una vecchia costruzione che veniva impiegata per la caccia alla posta (ancora sono visibili le feritoie) portata lì da un occupante precedente.

Un secondo gruppo, mediamente più giovane, dà più importanza alla qualità. Nel racconto di Antonio, un ortolano più giovane, scompare qualsiasi considerazione economica, anche perché, per lui, considerate tutte le fatiche che si fanno per gestire l'orto, neanche converrebbe averlo, converrebbe comprare le cose al supermercato. Antonio vuole l'orto poiché in questo modo può cibarsi di cibi genuini. Non gli interessa che le piante vengano grandi; gli basta sapere che se mangia qualcosa, è

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“pulito”. Lui infatti usa concimi naturali. Gino, un altro ortolano, condanna lo scarso gusto estetico di molti suoi “colleghi”: sostiene che i “casotti” a volte “fanno schifo proprio” e vengono edificati “con gli scarti più impensabili”. Sarebbe opportuno, per lui, avere maggiore cura dell'estetica degli orti, anche perché non sono più isolati dalla città ma, nel corso degli anni, vi sono stati inglobati. Questo è un problema soprattutto per il sito di Ponte della Pietra, sviluppatosi a ridosso dell'ospedale cittadino. Per lui, ma anche per altri, il panorama che questo sito offre d'inverno è davvero sconfortante: sembra una “favela”. Sono loro che vorrebbero che le serre e le rimesse venissero costruite utilizzando materiali che abbiano un minor impatto visivo. Questo secondo gruppo dimostra una diversa sensibilità verso le nuove frontiere dell'agricoltura biologica e la biodiversità. Antonio immagina un sito ortivo dove possa trovare spazio la coltivazione di quelle specie che sono divenute rare in quanto ritenute poco commercializzabili, mentre Gino vorrebbe vedere più anziani eruditi circa il biologico. Teoria e prassi dell'orticoltura Oltre alla stratificazione sociale, che abbiamo appena descritto, ve ne è una materiale. Spesso, l'orto che viene assegnato presenta le tracce delle attività svolte dagli occupanti precedenti. Rimangono gli alberi da frutto, i piccoli lavori di terrazzamento, i ripostigli edificati per alloggiarvi gli attrezzi. Anche queste sono sedimentazioni, spesso accolte con piacere, altre volte rifiutate. Gli alberi da frutto tolgono luce e per questo motivo vi è chi preferisce abbatterli. Per quanto riguarda i ripostigli, invece, due ortolani hanno dichiarato di avere dato piccole somme di denaro al precedente occupante (o ai suoi familiari) come riconoscimento delle migliorie apportate (“così usa”). Anche il lavoro di recinzione non è l'esito di una strategia comune, ma il frutto di sovrapposizioni e piccoli accorgimenti individuali. In alcuni casi, come cancello d'ingresso è stata utilizzata una rete da letto. Girando, è possibile registrare anche qualche concessione all'estetica. Un ortolano, ad esempio, ha addobbato con dei piccoli quadri la recinzione del suo orto. Colpisce la presenza di lucchetti, la quale tradisce il timore di furti o di atti di vandalismo, cose purtroppo accadute numerose volte. Vi è chi attribuisce genericamente la colpa agli “zingari”, chi li intende più come “dispetti” dovuti alle tensioni che a volte esplodono tra ortolani. Non sono mancati anche gesti particolarmente cruenti. A questo riguardo, mi viene raccontato un episodio accaduto diverso tempo fa. Alcune persone (per gli ortolani, stranieri che avevano trovato riparo in un vicino casolare abbandonato) avevano rubato un montone e lo avevano appeso e macellato in un orto, lasciando lì gli scarti; avevano poi continuato la loro scorribanda rubando diversi ortaggi e spaccando “tutti gli sgabuzzini”. Più complessa e spinosa la questione che riguarda l'acquisizione del “mestiere”. Anche qui è avvertibile un'ulteriore frattura tra vecchia e nuova generazione, nelle opinioni

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che vengono esibite in merito a come debba avvenire la trasmissione delle competenze richieste all'orticoltore. Nel corso del primo giorno di osservazione, trovo Giorgio intento a lavorare la terra assieme alla moglie. Loro hanno sempre vissuto in città. Hanno una figlia che studia all'università, alla quale hanno mostrato con orgoglio le foto del loro orto. Se si esclude qualche pianta di geranio coltivata in casa, in passato non hanno maturato alcuna esperienza specifica nella coltivazione degli ortaggi. Per questo, inizialmente, non sapevano come fare. Hanno deciso di consultare qualche libro. Giorgio me ne mostra uno. Certo, alcuni orticoltori pensano che il mestiere possa essere appreso solo attraverso la pratica, osservando e sperimentando. Ma loro hanno deciso di muoversi il più possibile autonomamente, pur stabilendo ottimi legami con altri ortolani e scambiando pareri con loro. Del resto, il mestiere dell'ortolano, nella sua ciclicità, nel continuo ripetersi degli stessi compiti, anno dopo anno, consente la correzione. Ciò che in altri ambiti non è permesso - la sperimentazione, l'approssimazione, l'errore - qui può essere tollerato e viene comunque assorbito nel flusso continuo e ciclico delle attività agricole. Giorgio mi fa notare che inizialmente ha collocato le piante di pomodoro e di granturco troppo vicine tra di loro. Dietro queste mancanze emerge la diversa percezione dello spazio che separa gli “inurbati” dai “contadini”. La città offre luoghi che esibiscono geometrie solide e lineari, pieni e vuoti destinati a rimanere immutati per molto tempo e il trascorrere degli anni viene tradito dai cedimenti dell'intonaco o dalle tracce d'umidità. La terra, invece, esibisce geometrie variabili: l'inverno svuota, mentre la primavera riempie. A molti cittadini sfugge la semplice constatazione che i volumi di una pianta cambiano nell'arco di un anno, o degli anni. Il contadino deve prefigurare la maturazione di ciò che semina. Ogni pianta ha bisogno del suo spazio, ma è uno spazio inizialmente “immaginato”, frutto di una lunga consuetudine con i cicli della vita. È l'esperienza che fa indovinare le giuste distanze tra una pianta e l'altra, un'esperienza che richiede tempo. Diversi vecchi orticoltori irridono i (per loro) goffi tentativi dei novizi di cercare il sapere nelle pagine di un testo. Per loro, è l'occhio che ruba a rappresentare l'anticamera del mestiere. Si può imparare solo dai vecchi, osservando e domandando, ma soprattutto osservando: movenze, espressioni, gesti. Tuttavia, col tempo, anche le pratiche dei novizi divengono più complesse ed esperte. Si fertilizza il terreno lasciando marcire le foglie d'insalata non raccolte, o affastellando e bruciando rami e foglie, di modo che le ceneri lo nutrano; si studiano nuovi abbinamenti (quali piante possano crescere vicine e quali no); si calcolano meglio le distanze. Sono infatti numerosi gli accorgimenti degli orticoltori; la rotazione, ad esempio, è una prassi abbastanza ricorrente e sono presenti diversi sistemi per tenere lontani gli animali che potrebbero recare danno al coltivo (il più curioso doveva tenere a bada le talpe e consisteva in una bottiglia di plastica rovesciata infilata in un bastone, sempre di plastica, piantato in terra; ciò che dissuadeva l'animale era la vibrazione, per lui

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fastidiosa, dovuta all'opera del vento che scuoteva la bottiglia facendola sbattere sul bastone). Un giorno ebbi modo di parlare con un finanziere in pensione, anche lui ortolano “improvvisato”, dato che aveva sempre vissuto in un ambiente cittadino. Ha una moglie, due figli e cinque nipoti; un tempo, quando andava nell'orto, a volte si portava dietro una nipote57. Lui è uno di quelli che hanno dovuto imparare. Ha tratto spesso ispirazione da una rivista: Vita in campagna. Anche i negozianti sono stati un'ottima fonte; ve ne sono alcuni disposti a dispensare un consiglio a chiunque lo richieda. E poi vi sono gli altri ortolani, sempre pronti a dire la loro: è difficile, ad esempio, che la scelta del periodo in cui seminare sia esclusivamente individuale, spesso è l'esito di scambi di battute, discussioni e chiacchiere. Oggi, il suo fazzoletto di terra appare particolarmente curato; vi si trovano anche dei fiori: Creste di gallo (particolarmente apprezzate da molti altri ortolani) e Nasturzio, che lui ha scelto di mettere vicino alle piante di pomodoro poiché ha la capacità di attratte degli insetti che altrimenti intaccherebbero i pomodori. Ha pure una pianta di fico che gli è stata data da un figlio. Merita menzione anche il desiderio di sperimentare, espresso da molti ortolani; uno di loro aveva da più di dieci anni dei semi di zucca; quest'anno ha deciso di piantarli: “li ho messi per pura curiosità, per vedere se crescevano”. Di norma, poi, si coltiva ciò che piace in famiglia. In merito all'attività di semina, l'importanza dei cicli lunari viene continuamente ribadita, ma poi ognuno la declina in modo diverso. Alcuni distinguono tra frutti che crescono sotto la terra (tuberi) e frutti che vi crescono sopra. Per i primi, il momento della semina deve cadere quando la luna è crescente, per i secondi quando è calante. Per altri, la luna deve essere crescente quando il seme viene piantato nel semenzaio e calante quando la piantina viene messa a dimora nella terra. Per altri ancora, è la pianta che fa i fiori a volere la luna crescente, mentre quella che non ne fa desidera la luna calante. Vi è poi chi distingue tra certi tipi di piante: fave, fagioli, ceci, lenticchie, che vanno piantati quando la luna è crescente, e altri, come l'insalata, che invece hanno bisogno della luna calante. Si crede che se non vengono rispettate queste indicazioni, la pianta “spiga” o “si tromba” (o “viene trombata”), in quanto l'elemento maschile (“il corpo in mezzo”) prende il sopravvento su quello femminile. Va ricordato che questi saperi, per quanto ho potuto constatare, non si sedimentano in detti. L’unico modo di dire che ricorreva spesso era: “l’orto vuole l’uomo morto”, il quale richiama i continui sforzi che un orto richiede, dato che vi è sempre qualcosa da fare. Traspare, quindi, la centralità dell’impegno. L’orto viene scelto poiché consente l’adesione ad un’etica del lavoro. A questo riguardo, appare illuminante la critica che Paolo rivolge a chi frequenta la “bettola”. Per lui, frequentare un bar e abbandonarsi al bere o al gioco delle carte non è vita. La terra per molti è “bassa”, troppo umile, ma permette uno stile di vita più sano e più corretto (anche moralmente). 57 Io stesso ho potuto notare alcuni ragazzi giovani aggirarsi tra gli orti.

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I doni della terra Vivere l'orto vuol dire riconquistare un contatto diretto con la natura, tanto che vi sono alcune persone le quali, grazie all'attività orticola, hanno iniziato a notare cose che prima sfuggivano loro. La scomparsa delle farfalle e delle vespe, ad esempio. Si arriva ad apprezzare anche l'astuzia di un merlo che riesce a “beccare” le fragole passando sotto la rete messa come protezione. Coi primi raccolti, poi, arrivano le prime piacevoli sorprese. Una signora che ha preso l'orto da poco e che ha deciso di piantarvi le fragole, mi fa notare che non ne ha mai mangiate di così buone. Non vanno neppure sottovalutati i cambiamenti che intervengono nella dieta di molti ortolani, soprattutto di coloro che si sono accostati all'orticoltura dopo la pensione; diviene infatti importante il consumo di verdure fresche. Ma come si entra in possesso dell'orto? Il regolamento vuole che si faccia richiesta presso gli uffici della Provincia. Tuttavia, a volte la Provincia si limita a “sanare” dei passaggi che già sono avvenuti. Può infatti capitare che un ortolano chiami un amico (o conoscente) per avere un aiuto; accade poi che l'usufruttuario originale debba (o voglia) ritirarsi. A questo punto il conoscente chiamato può continuare a lavorare l'orto e chiedere alla Provincia di sanare la propria posizione, anche alla luce dei lavori che già vi ha fatto. In un altro caso può capitare che un proprio parente, che usufruiva di un orto, venga meno; la vedova vuole continuare a coltivare l'orto ma, non potendo farcela da sola, chiama un proprio parente; poi ella decide di abbandonare l'attività; a questo punto il parente chiamato può rivolgersi alla Provincia e cercare di sancire il passaggio. La Provincia, naturalmente, continua a ribadire che il regolamento deve essere rispettato, ma è difficile rompere queste catene amicali e parentali che l'attività orticola produce. La terra, infatti, ha la capacità di accogliere sedimentazioni e memorie. Lo stesso ricordo dei propri cari è in grado di riemergere all'interno del lavoro svolto nell'orto (nelle scelte riguardanti ciò che deve essere coltivato, negli attrezzi che si usano). In alcuni orti si coltivano anche fiori, che vengono poi impiegati per adornare le tombe dei propri parenti defunti. Un'ortolana custodiva ancora con cura una vanga che era appartenuto al padre e conserva le “testacce” che le ha lasciato la madre. Tra gli orti vi è spazio sia per la rivalità, sia per la solidarietà e ambedue si manifestano attraverso l'uso dei frutti che l'attività orticola produce. Un ortolano, nel corso di un'intervista, affermava ironicamente che negli orti “ognuno è più bravo degli altri (…) ognuno fa vedere il suo prodotto che è più bello di quello degli altri”, perché “uno c'ha sempre il suo io (…) il suo io dentro (…) che è più bravo dell'altro”. Tuttavia, al di là della rivalità, fa comunque piacere, a molti ortolani, ricevere attenzioni e complimenti da vicini e passanti. È il caso di un'altra persona da me intervistata, le cui zucche avevano raggiunto dimensioni notevoli.

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Tra gli ortolani, è molto diffusa la pratica del dono58, la quale trova la sua ragione d'essere nel desiderio di costruire e rafforzare legami sociali (Mauss 1965; Caillé 1998; Aria e Dei 2008). L'attività orticola consente, infatti, il parziale abbandono delle logiche capitalistiche (basate sulla mercificazione) e la riscoperta della “gratuità” (Gregory 1982). I frutti della terra sono in parte distribuiti all'interno della famiglia e in parte concessi a vicini d'orto e di casa. Gli scambi con i vicini d'orto hanno, tra le altre, la funzione di incrementare la “base” (ossia la dotazione materiale, in particolare le specie di piante) di ciascun ortolano (Gudeman 2001). Emblematico il caso di una pianta di rapolcavolo (sic!), che un ortolano mi mostra orgoglioso; l'ha avuta in dono da un suo amico e lui stesso, in seguito, l'ha donata ad altri suoi amici. O anche di una pianta di pomodoro che inizialmente si pensava fosse del tipo roma. Vittorio, un orticoltore, l'ha accettata da un suo vicino. I pomodori però si sono rivelati essere di una specie diversa, più da insalata e comunque buonissimi. Ha così deciso di ricavarne i semi. Il suo tentativo ha avuto successo e sono ormai quasi sei anni che continua a coltivare questo tipo di pomodoro. Dietro la scelta di ricavare da sé i semi vi sono numerose considerazioni: la voglia di puntare sulla qualità, dato che il rendimento non è lo stesso; ma anche di avere un controllo totale del processo produttivo, rinunciando ai semi che vengono venduti in negozio, i quali, tra l'altro, a volte sono diversi da quelli indicati sulla busta e comunque, spesso, sono “ibridi”. Vi è la voglia, insomma, di governare e “contemplare” tutto il ciclo della coltivazione. La concessione di doni viene stimolata anche dal problema, tipico dell'attività orticola, delle eccedenze. Ad esempio, quando i pomodori maturano, lo fanno assieme, nello stesso periodo, e spesso una singola famiglia non è in grado di consumare tutto il raccolto. Oltre alla soluzione del dono, ve ne sono altre due. Una consiste in una riduzione delle piantine messe a dimora; è la strada imboccata dagli ortolani meno coinvolti, meno “convinti”. Vi è, poi, il ricorso alle tecniche di conservazione; con i pomodori, ad esempio, si può fare la conserva. Un’ortolana ha addirittura comprato un congelatore per rendersi conto di quanto cambiassero le caratteristiche organolettiche delle verdure, una volta che esse avevano subito il congelamento. L'esito fu l'abbandono di queste sperimentazioni, poiché il sapore cambiava troppo. Comunque, è difficile che la logica del dono venga abbandonata del tutto, visto che per molti ortolani la soddisfazione più grande è quella di fare assaporare ad altri i prodotti della propria terra, facendo notare la differenza rispetto alle verdure che si comprano al supermercato. Qualche ultima parola va spesa in merito al significato che l'orto ha per molti anziani. Ma, a questo punto, lascio che siano loro ad esprimersi.

58 Sono frequenti anche gli scambi di favori tra vicini. Nel corso dell’anno può capitare che un ortolano debba assentarsi per alcuni giorni. Sarà qualcun altro ad annaffiare il suo orto. Se un ortolano, poi, è costretto ad abbandonare momentaneamente l’attività orticola per problemi di salute, troverà quasi sempre qualcuno disposto a sostituirlo, per il periodo necessario, nella cura della terra.

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“Ce dà la vita, perché io (...) ho lavorato sempre; (...) a riducese senza far niente, io c'ho un amico, lui s'è dedicato (...) a la, dicemo la bettola a Perugia, s'archiudevano dentro a un ambiente senza finestre, fumavano, giocavano a carte, ce stavano 4 o 5 ore (...) dalla mattina fino a che non era ora de pranzo, finito il pranzo artonavan giù fino all'ora de cena e dopo via de seguito, lui n'camina più; (...) io le bettole, io il liquore è difficile che lo bevo, qualche volta l'amaro (...) ma tu te rende conto, dentro a un locale chiuso che fumi, bevi e respiri sempre quell'aria chiusa, invece per me ce dà più vita di qui”. (Paolo, 74 anni) “Queste persone (...) togliendogli l'orto, queste persone abituate a stare qui le mezze giornate dove vanno? Perché queste persone che sono qui al bar ci potranno anche andare, no, però secondo me, secondo il mio punto di vista molto poco perché stanno meglio qui in campagna che a andare al bar (...). Per noi, diciamo un pochino più giovani, forse che.. è chiuso, pazienza, però gente che, io so che c'è gente che sono 35/40 anni che c'hanno quest'orto... quelli che c'hanno un'ottantina d'anni.. (...) e allora secondo il mio punto di vista togliendo gli orti togli una parte di loro insomma (...) lo fai partì presto (...). Per queste persone è anche un passatempo (...) a casa dove vanno, chiusi in casa è difficile che.. (...). C'era una persona molto anziana, ha detto: (...) vengo qui la mattina (...) alle sette; tornava a mezzogiorno, ritornava alle due e mezza fino alle sei e mezza, le sette della sera, stava tutto il giorno qui, aiutava a qualcuno se c'era bisogno (...)”; anche perché aveva timore di infastidire la moglie, lui affermava: “io sto meglio qui, qui perlomeno scambio una parola con un amico, con un altro perché stando intorno a casa (...) si sentiva più, come chiuso (...); a una persona del genere togliendo l'orto penso che je fai più un danno che altro”. (Michele, 65 anni).

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L’ESPERIENZA ASSOCIATIVA IN UN CENTRO SOCIALE59 “A quel tempo mi capitò di osservare (…) che gli anziani appena smesso di lavorare non sapevano dove andare.. (…) non avevano sedi dove poter passare il tempo, i bar si erano organizzati sempre di più non a misura dell’anziano (…) Allora decisi di fare un centro sociale, un circolo sociale e culturale che li aiutasse a vivere una vita migliore, un posto dove potessero vivere la propria anzianità”; sono queste le parole usate dal Presidente di un centro sociale per descrivere gli intenti e le motivazioni che lo spinsero, nel 1985, a darsi da fare per la sua costituzione. Un centro socio-culturale nato nella città di Terni, che rappresenta una delle tante esperienze associative nella nostra regione a favore e a sostegno della Terza età. Raccontare l’esperienza di questo centro sociale significa raccontare la storia delle tante associazioni del territorio, ma soprattutto la storia delle tante persone, uomini e donne, che ogni giorno dimostrano di vivere positivamente la propria anzianità spendendosi e lavorando per il bene (nella sua accezione più ampia) degli altri; storie in cui spesso lo stare bene coincide con la voglia di “partecipare”. Gli obiettivi del centro, secondo le parole del presidente, sono riassumibili in tre punti: aiutare e favorire il benessere materiale, morale e sociale dell’anziano; favorire il suo protagonismo in famiglia e nella società; affermare la “nuova cultura dell’anziano” fondata e costruita sul concetto di risorsa da valorizzare ed utilizzare come fattore di sviluppo generale. Su quest’ultimo terzo punto ci soffermiamo in modo particolare; nella sua visione, infatti, le persone di una certa età rappresentano un sostegno concreto per le nuove generazioni, che sembrano non avere progetti e prospettive per il futuro. “Quando noi diciamo che bisogna considerare l’anziano come una risorsa che va valorizzata e utilizzata io lo dico per tante ragioni, ma una delle principali è quella di utilizzarlo proprio per elaborare una strategia generale che produca una progettualità, che dia speranza, idealità e fiducia nel futuro ai giovani (…). Vedo in questo un problema fondamentale, ed in questo vedo un grande ruolo della popolazione anziana che può aiutare i giovani a credere che un futuro migliore ci può essere, un futuro migliore si può costruire ”. L’idea di anziani protagonisti è la reale sensazione che si ha quando si entra nel centro e si ha modo di interagire con le persone che lo animano; l’impatto è di un ambiente frenetico dove i soci non vanno per riposarsi, ma per darsi da fare. A vivere quotidianamente la struttura, infatti, sono soprattutto coloro che hanno funzioni e compiti ben precisi da svolgere; circa venti persone che solitamente ogni mattina “hanno del lavoro da sbrigare”; chi si occupa del progetto delle case di riposo, chi delle gite sociali, chi di rispondere al telefono amico, chi degli aspetti burocratici; un volontario ci tiene a sottolineare : “qui tutte le cose che si fanno è puro e semplice volontariato, nessuno percepisce niente”. Le motivazioni

59 Il presente paragrafo è stato redatto da Federica De Lauso.

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che spingono verso queste forme di attività sono diverse; per sintetizzarle, vorrei richiamare quattro dimensioni concettuali. La prima è quella che ha a che fare con il cosiddetto “tempo liberato”; il pensionamento si traduce infatti in una maggiore disponibilità di tempo a disposizione che in qualche modo, mi dicono, l’anziano deve occupare per non fermarsi a pensare; “l’anziano per essere salvaguardato deve essere impegnato fino in fondo, non deve avere un minuto libero perché se ha un minuto libero (…) non ha alternative, deve pensare triste”; sono in molti, quindi, coloro che scelgono di fare volontariato proprio per impegnare il proprio tempo libero. La seconda dimensione richiama il concetto di ruolo sociale; l’attività lavorativa è uno degli elementi con il quale ciascun individuo costruisce e definisce la propria identità sociale, il suo esserci nella società; operare in un’associazione spesso permette di mantenere una sorta di continuità con il passato professionale ed in un certo senso una riappropriazione del proprio ruolo sociale; Renata dice: “mi manca il mio lavoro… mi manca la scrivania, quindi stando qui mi sembra un po’ di continuare”. Il bisogno di socialità, il bisogno di relazioni rappresenta la terza macroarea; “ci si da fare e si sta in mezzo alle persone, ormai qui siamo tutti amici”; o ancora c’è chi ammette: “di certo qui non si soffre la solitudine”. Infine, spinge ad associarsi la voglia di spendersi per gli altri, la spinta altruistica: “si sente il dovere umano e sociale di aiutare chi ha bisogno, chi è in difficoltà”. Importante per molti ed in modo particolare per i primi volontari del centro il legame affettivo; ci dice Gino: “qui è l’ambiente che, dopo casa mia, ho conosciuto per più tempo continuato (…) ormai siamo una famiglia, per 19 anni ci siamo visti tutti i giorni di seguito, ormai questa è casa nostra…” Le attività del centro possono essere distinte in: - attività di ricreazione e turismo (gite sociali, vacanze, feste popolari, pranzi e cene sociali, gemellaggi con altri centri sociali, spettacoli teatrali); - attività sociali (assistenza agli anziani bisognosi, visite settimanali presso le case di riposo della città, telefono amico, consulenze, iniziative per l’integrazione e la solidarietà con gli immigrati nella città); - attività culturali (incontri informativi, rapporti con le nuove generazioni, ideazione di concorsi per alunni di scuole elementari o medie, attività di biblioteca specializzata per gli anziani). Per agevolare i vecchi ed i nuovi associati ogni anno viene pubblicato il programma delle attività, un piccolo libretto dove in dettaglio, mese per mese, vengono elencate le attività e gli incontri proposti. Il calendario degli appuntamenti prevede numerosi momenti ricreativi, soprattutto in concomitanza con le feste nazionali (Pasqua, Natale, Carnevale) perché spesso sono proprio le feste i momenti critici per gli anziani; “è importante durante quei momenti dell’anno permettere a molte persone sole di stare in compagnia, di stare tra amici”. L’attività di osservazione è stata svolta principalmente nel mese di giugno-luglio e di settembre. A giugno, in particolare, ho avuto modo di vivere la fase di preparazione delle vacanze estive e delle tante gite sociali; in quel periodo parlare con la

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responsabile delle attività turistiche (la signora Tiziana, 80 anni) è stata un’impresa ardua a causa del continuo via vai delle persone che si recavano al centro per gli ultimi dettagli delle partenze. Grazie a lei e ai tanti associati conosciuti, ho avuto modo di approfondire il fenomeno del turismo sociale. Fare una vacanza con un centro sociale in primo luogo significa muoversi in compagnia, con persone che spesso si conoscono da anni; inoltre, mi dicono, è “una vacanza in cui non bisogna pensare a niente, pensano a tutto loro, gli spostamenti, l’alloggio, il ristorante..”; molto apprezzato anche il fatto che durante il soggiorno si può sempre far riferimento ad un capogruppo che coordina le visite ed i vari spostamenti; infine, dicono, ci si può permettere “una vacanza senza spendere tanto”. La signora Franca mi racconta la sua storia: “Io grazie a questo centro sociale ho girato tutta Europa, perché magari da soli io e mio marito non ce la sentivamo di affrontare un viaggio all’estero, invece qui pensano a tutto loro e così abbiamo visto Vienna, Parigi…ora che mio marito è morto faccio solo viaggi in Italia, però continuo a venire”. Le gite sociali, inoltre, rappresentano per molti la possibilità di “ricominciare”, l’occasione per tornare a sorridere dopo momenti di lutto o di malattia: “a me, dice la signora Rosa, mi ha iscritto al centro mia figlia dopo la morte di mio marito, è così che ho iniziato a fare le vacanze con loro”. Il turismo sociale ormai da diversi anni, ci confessa il presidente, è molto diffuso tra il popolo della Terza Età; questo nuovo interesse per il turismo nasce dalle migliori condizioni economiche e di salute godute dai pensionati, nonché dall’aumento del livello d’istruzione e da una maggiore apertura culturale che spinge all’acquisizione di conoscenze nuove. Tra le attività sociali del centro un volontario di 88 anni mi racconta del telefono amico: “magari chiamano e ci richiedono un’ora di compagnia, ed allora si parte in una o due persone e gli si fa compagnia, magari gli facciamo la spesa….adesso io ho un po’ rallentato perché ho dei problemi a casa, con mia moglie, faccio solo le case di riposo…”. Il servizio del telefono amico, che esiste da più di dieci anni, oltre a fornire assistenza morale e sociale alle persone sole offre anche consulenza gratuita su problematiche relative a pensioni, assistenza e sanità. Ancora in fase di attuazione, invece, il progetto “anziani e immigrati”, che coinvolge quattro centri sociali della città, finalizzato alla costruzione di un rapporto di amicizia, solidarietà, integrazione tra gli immigrati e la popolazione residente. Il progetto prevede un lavoro in sinergia tra i centri sociali e le comunità straniere presenti nel territorio, al fine di favorire l’inserimento e l’integrazione dei molti stranieri che vivono nel territorio e al fine di favorire la stessa popolazione anziana che sempre più spesso si trova a contatto con loro; “per gli immigrati c’è una ragione di solidarietà legata alla necessità di costruire una società multirazziale, integrata, fondata sull’integrazione ma c’è anche un interesse più specifico legato al fatto che molti immigrati (soprattutto donne) svolgono lavori che sono legati alla vita degli anziani (…) allora noi non possiamo rimanere indifferenti per esempio verso il ruolo delle badanti…sono problemi che dobbiamo affrontare e risolvere non solo per la

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solidarietà verso gli immigrati ma come mezzo per far star bene i nostri anziani che hanno bisogno delle badanti”. Tra le tante attività sociali proposte dal centro, ho avuto modo di essere coinvolta attivamente nelle visite organizzate presso le case di riposo. Da oltre dieci anni un gruppo di volontari effettua visite periodiche agli ospiti delle RSA e delle case di riposo della provincia nel segno della solidarietà. Il gruppo è composto da circa 30 persone, in prevalenza anziani, coordinati da una responsabile, la signora Gina (di 82 anni) che dimostra una particolare sensibilità nei confronti dei bisognosi; mi racconta: “io faccio volontariato perché me lo sento, me l’ha insegnato mio padre (…) quando vedeva qualche poveraccio fuori dalla chiesa gli regalava il cappotto (…) io ho imparato da lui”; lei oltre ad avere una predisposizione naturale “a fare il bene” è una forte motivatrice del gruppo. Le visite si svolgono due volte alla settimana, solitamente il martedì ed il venerdì, e seguono un calendario definito ad inizio anno; mediamente ciascuna casa di riposo viene visitata due volte nell’arco dei dodici mesi; “purtroppo, mi dice la responsabile, di più non possiamo fare”. Prima di prendere parte agli incontri, ho avuto modo di conoscere alcuni volontari coinvolti nel progetto; Pino mi racconta: “lì c’è gente che sta lì e non la va a trovare nessuno, c’è gente bisognosa, padri di famiglia che magari hanno costruito la casa ai figli e che poi vengono portati alla casa di riposo (...)…questo ti strappa lu core... quando entri vedi proprio che ti acclamano, ti aspettano [tono commosso] (…) certo magari c’è anche qualcuno che per problemi magari di testa rimane comunque isolato e non partecipa…”. C’è anche chi negli anni ha maturato un vero e proprio atteggiamento di stizza:“io dico nelle case di riposo c’è nonna, c’è mamma, c’è papà, che hanno fatto un vomito per allevarti e tu perché non li vai a trovare? Sono stati a servizio per te, hanno rubato e tu neanche le vai a trovare? Quante volte ci dicono: conosci mio figlio? gli dici se mi viene a trovare?(...) Ma io queste cose non le posso proprio fare.. E’ l’assistente che le deve fare, io posso solo accarezzarli, abbracciarli, farli divertire”. La mia presenza è relativa alle giornate di visita del 22 e del 29 Settembre 2009. L’appuntamento per coloro che sono privi di un mezzo autonomo è fissato nel primo pomeriggio (intorno alle 15.00) in una delle principali piazze della città; per quell’ora un servizio navetta, messo a disposizione da un altro centro sociale, aspetta solitamente una decina di persone. Chi è con la propria auto, invece, si reca direttamente alla casa di riposo. Le visite durano circa tre ore e consistono in momenti di ricreazione e di animazione che coinvolgono non solo gli ospiti delle strutture, ma anche il personale infermieristico, il personale ausiliario, i familiari dei ricoverati. Ogni incontro prevede la presenza di un fisarmonicista, che ormai da anni anima i pomeriggi “della solidarietà”. I volontari, una volta arrivati presso le case di riposo e dopo i saluti al personale interno (che si dimostra molto coinvolto nell’iniziativa), si accomodano nei saloni predisposti per l’occasione tra gli sguardi interrogativi e a volte un po’ stupiti degli anziani ospiti; tra loro infatti osservo le più diverse reazioni: c’è chi riconosce i volontari e li accoglie con slancio; chi saluta senza capire bene quello “che sta per accadere”; chi, forse perché nuovo, rimane in qualche modo sbigottito di

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fronte a così tante persone; chi per seri problemi di invalidità non può far altro che guardare. Nessuno rimane, comunque, indifferente, tutti dimostrano una particolare curiosità di fronte a quei volontari che con fare allegro e scherzoso “invadono” in un certo senso il loro spazio. Superato l’imbarazzo iniziale, si crea nel giro di pochi istanti un’atmosfera di festa; Gina, prima che il musicista inizi a suonare, si preoccupa di salutare tutti gli ospiti e di presentare (per chi non li conoscesse) i volontari del centro sociale; conclude il suo intervento con un invito alla positività: “godiamo dei momenti belli che la vita ci regala”. Dopo le sue parole, parte la musica e già alla prima canzone molti degli anziani del centro sociale iniziano a ballare tra loro. Le coppie che si formano non sono fisse; spesso si creano coppie di sole donne (a causa del numero limitato di uomini) e in alcuni casi osservo anche alcune signore ballare sole. La maggior parte dei volontari sa ballare molto bene e dimostra una vera e propria passione per il liscio; è un’attività che li diverte molto, mi dicono. C’è per esempio il signor Aldo, uno dei “cavalieri” del gruppo che non si perde un ballo, ora con una ora con l’altra volontaria, così come Piero, venuto con la moglie. Gli ospiti della casa di riposo guardano la scena divertiti; c’è qualcuno che su sollecitazione dei volontari si concede qualche ballo, qualcuno che partecipa battendo a tempo di musica il bastone o il piede, o chi seduto sul divano “canticchia” le canzoni che conosce. Oltre alla musica, infatti, assistiamo anche ad alcune esibizioni canore; in particolare è Gina ad esibirsi al microfono, cantando canzoni popolari come “Parlami d’amore Mariù”, “Fiorin Fiorello” e molte altre ancora; in privato mi confessa: “Mamma” la canto sempre alla fine perché si commuovono pensando alla mamma”. Anche il personale delle strutture partecipa con entusiasmo ai balli e all’animazione, interagendo sia con i volontari che con gli anziani ricoverati. In alcuni casi si formano veri e propri “trenini” che, oltre a fare il giro del salone, percorrono i corridoi e gli ambienti limitrofi dove magari si trova qualche anziano in disparte. Mentre molti volontari ballano, altri rimangono seduti accanto agli anziani ospiti; c’è chi semplicemente tiene loro la mano per un po’ o chi, magari, gli racconta un po’ di sé. Una volontaria mi dice: “a loro basta avere qualcuno che li sta a sentire..o qualcuno che gli racconta qualcosa, che gli da qualche stimolo che viene fuori da qui…”. Le belle giornate di settembre hanno permesso di organizzare alcune visite all’aperto, negli ambienti esterni alle case di riposo; l’incontro del 29 Settembre è stato organizzato nel grande giardino di un centro di riabilitazione, per anziani e non. In quell’occasione si è raggiunto un numero di partecipanti molto alto, sia per la presenza dei familiari in visita ai propri cari, sia per la presenza di anziani accorsi per l’occasione da altre case di riposo. Tutte le visite prevedono a metà pomeriggio un piccolo rinfresco organizzato dalla struttura ospitante, offerto agli anziani del centro e agli ospiti. Durante la merenda, la musica si interrompe e molti volontari si ritrovano a parlare tra loro come in un normale gruppo di amici; le dinamiche interne al gruppo richiamano, infatti, quelle dei gruppi primari: i legami di amicizia e al tempo stesso i piccoli “conflitti” e le piccole competizioni, la forte cooperazione tra i membri, il comune senso di appartenenza e di identità. Osservandoli ci si rende conto che, prima

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ancora di essere volontari, sono persone con tanta voglia di sentirsi vive e di stare insieme; le visite alle case di riposo oltre ad un gesto di solidarietà rappresentano un’occasione di svago e di divertimento che li porta ad uscire di casa, a “vestirsi bene” distaccandosi dai pensieri e dai problemi quotidiani; molte sono, infatti, le storie di sofferenza quotidiana, legate a lutti o a malattie. Terminata la pausa di metà pomeriggio, riprende l’attività di animazione; prima che inizi la musica, un ospite della casa di riposo chiede di poter parlare al microfono: “volevo cogliere l’occasione per ringraziare i tanti volontari venuti qui oggi a farci compagnia e ad animare questo pomeriggio…grazie…e ancora grazie”; al termine dell’intervento inizia un lungo applauso che unisce e coinvolge tutti gli anziani presenti, senza distinzioni tra chi “sta dentro e chi sta fuori”.

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CONCLUSIONI60 Quando l’AUR ci affidò questo argomento di ricerca, pensavamo di essere stati inviati verso un tema periferico, un po’ naif , che ci imponeva di riaprire un vecchio album di foto ingiallite dal tempo. A dispetto di queste nostre prevenzioni, ci siamo trovati ad affrontare aspetti cruciali e molto attuali della società, come se si fosse aperta una nuova finestra e avessimo scovato un punto privilegiato da cui osservare processi sociali ben più ampi di quelli apparentemente circoscritti dai nostri obiettivi cognitivi. Per di più, l’approccio metodologico concordato - che lasciava ampio spazio a prospettive “non standard”, quali le interviste non direttive e l’osservazione partecipante - sollecitava la nostra sensibilità interpretativa, rendendo ancora più vivide le esperienze che andavamo svolgendo “sul campo”: sicché ogni riunione di verifica era un profluvio di racconti e di nuove intuizioni che ci sottoponevamo a vicenda, perfino di aneddoti curiosi che ci sembravano ulteriori chiavi di lettura; e più di una volta abbiamo avuto la sensazione di tornare all’entusiasmo del neofita. Speriamo vivamente di aver reso al lettore almeno parte dell’interesse e della passione che ha animato questa ricerca. Un primo aspetto che abbiamo incontrato in tutta la sua corposità è l’importanza della dimensione sociale e culturale. La trama che attraversa i discorsi raccolti da tutte le interviste, il colore predominante nella nostra etnografia è proprio il sopravvento delle relazioni sociali e dei suoi simboli su ciò che consideriamo “natura”: l’anzianità non è solo una condizione biologica, tanto meno una definizione anagrafica; «il vero anziano è quello che si lascia andare», ci ripetono in modo corale gli intervistati. A corredo di questa sentenza essi citano tanti esempi di coetanei, da cui traspare una condizione di solitudine e di passività così lancinante che «non si può neanche descrivere»; è una vita quotidiana relegata negli angusti spazi di qualche bar o delle mura domestiche, dove tanti anziani consumano la propria rinuncia a vivere; e questo stato - denunciano gli intervistati - diviene ancora più acuto durante le feste o le vacanze estive, quando si allentano i già flebili rapporti con i propri familiari. Nei discorsi raccolti sfilano anche gli esempi di anziani il cui quotidiano ha il sapore amaro della precarietà, dell’incertezza, del rischio, accentuato da una debolezza che non è solo fisica ma sociale. Per contrasto rispetto a questo scenario, risaltano gli anziani impegnati nelle variegate forme di associazionismo: tale impegno non è dettato solo dalla domanda di socialità o dall’intenso desiderio di sentirsi vivi, protagonisti attivi; affiora anche una forte spinta etica, professata senza vanità e tesa ai valori della solidarietà verso la propria famiglia, verso gli altri anziani, ma anche nei confronti dei giovani, degli immigrati, del territorio locale e della società in generale; non abbiamo mai avvertito una venatura

60 Le presenti conclusioni sono state redatte da Paolo Montesperelli.

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patetica: il proposito di vivere con grande dignità la propria condizione di anziani dà forma a descrizioni sobrie delle motivazioni poste a base del proprio impegno associativo. Ci troviamo di fronte, quindi, non all’intenzione di “ammazzare il tempo”, ma di viverlo come risorsa strategica da amministrare oculatamente e da reinvestire. Ma la pratica del tempo che abbiamo incontrato non è solo “fordista”, non è tutta gravata dal tempo amministrato ma anche alienato e “distratto”: non è il “tempo libero” del lavoratore che comunque non ne gode, in quanto non è liberato dalla riproduzione e dall’ideologia del profitto e del consumo. Invece ci pare di aver colto un tempo libero che è anche, in parte, liberante, in quanto - anche se entro limiti evidenti - tempo dell’attività dotata di senso, creativa ed auto-diretta dall’attore. Il tempo può essere tutto ciò innanzi tutto perché è abbondante e perché può quindi caratterizzarsi come tempo della socialità. Per questo abbiamo incontrato un processo tipico della società post-fordista, reso più manifesto proprio da quella generazione che dovrebbe essere invece più distante rispetto a quel nuovo modello di organizzazione sociale. La “modernità” di questi anziani si riverbera anche su altri versanti: ad esempio, abbiamo incontrato associazioni aggiornate e attente nei confronti di un fenomeno così inedito quale è il recente ingresso dei flussi migratori; abbiamo conosciuto organizzazioni di anziani impegnate in iniziative congiunte con gruppi di immigrati e che ci sono parse molto più aperte di un “comune sentire” serpeggiante in generazioni più giovani. Abbiamo osservato anziani manipolare con una ammirevole abilità i cellulari ed il computer, navigare spediti in Internet, o almeno compiacersi per le più recenti innovazioni tecnologiche. Non sappiamo dire con certezza se la ricerca ci abbia spinto solo verso una ristretta élite. Anche alla luce delle fonti statistiche che abbiamo citato, oltre che del riscontro diretto condotto con questa ricerca, siamo più propensi a credere che è confluita nella “terza età” l’onda lunga dei processi di scolarizzazione, così dirompenti nella storia della nostra regione: un diploma di Scuola Superiore o una Laurea sono ormai caratteristiche diffuse, che costituiscono un indicatore importante di stili di vita assai diversi se confrontati con quelli degli anziani di un tempo anche assai recente. La condizione della donna è un altro tema che abbiamo attraversato nel corso della nostra inchiesta. Ne è emerso un profilo ambivalente, che comunque riconosce alla donna un ruolo di primo piano, sia negli aspetti più problematici sia in quelli più ricchi di potenzialità: da una parte la donna anziana sembra la vittima privilegiata da quella condizione di solitudine e di vulnerabilità sociale che accennavamo prima (vedovanza, famiglia unipersonale, fatica nella cura e nel sostegno di familiari e parenti, maggiori impedimenti domestici alla socialità, etc.).; così come non ci è stato difficile trovare quanto la disparità di genere si riproduca anche nei ruoli interni alle organizzazioni. D’altra parte, talvolta abbiamo osservato un forte protagonismo femminile, specialmente nelle associazioni con finalità culturali ma non solo in queste. Un’altra nostra convinzione è di aver toccato con mano una rete di aggregazioni variegata e fitta, lungo le cui trame scorre un’infinità di iniziative e di azioni collettive;

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ci è parso di scorgere un articolato, ricco spaccato della società civile organizzata, una fertile ramificazione che dà linfa alla solidarietà, all’integrazione e al capitale sociale nella nostra regione. Siamo, cioè, di fronte agli anziani non come “problema” ma come “risorsa”: la loro volontà di essere partecipi del tempo e della storia li fa artefici del presente e creditori del futuro. Ciò rende le loro aggregazioni come agenzie di cultura civica: la partecipazione alla “polis” diviene pratica quotidiana, nelle micro-azioni così come in più importanti eventi. La spinta ad associarsi insieme può avere varie cause, naturalmente, ma una sembra essere il “minimo comune”: una biografia non piatta ma frastagliata, densa di avvenimenti e di esperienze, pare predisporre ad agire, a riversare in qualche associazione questo proprio vissuto esperienziale e professionale. È come se il proprio passato fosse un servizio offerto al presente; quindi più tale passato è ricco, più ha senso reinvestirlo: ad esempio, la professionalità maturata durante la propria carriera lavorativa diviene dono da consegnare alla propria associazione. D’altra parte questa attenzione partecipata al presente consente di rileggere il proprio passato, attribuendogli significati ulteriori, valorizzandolo ancora di più: è anche un modo per rimuovere la paura di una vita che altrimenti si spenga nell’inutilità e nell’assenza di riconoscimento da parte degli altri. Non vogliamo presentare in maniera agiografica ed edulcorata l’associazionismo degli anziani: vi abbiamo constatato anche limiti, difetti, incongruenze. Ma ciò nonostante, siamo convinti di aver scorto ampie potenzialità che contraddicono clamorosamente gli stereotipi più diffusi in merito. In conclusione, ci pare di aver sfiorato ambiti centrali nell’attuale società: certamente il protagonismo degli anziani; ma più in generale, anche il tempo sociale, distinto da quello naturale, e assurto ormai al ruolo di risorsa strategica liberante; la dimensione della vita quotidiana, la sua possibilità di attribuire significati o di smarrirli in non-luoghi e in non-tempi; l’identità individuale e collettiva, il suo difficile equilibrio fra autonomia e riconoscimento dipendente dagli altri; una società civile che si organizza in una molteplicità di forme organizzate; un’economia dei beni - materiali e immateriali - non all’insegna del mercato, ma della soggettività, della socialità, della gratuità, del dono.

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Sezione V

LA FINANZA LOCALE

LA FINANZA DEI COMUNI UMBRI: UNO STUDIO RICOGNITIVO1 Loris Nadotti

Osservazioni introduttive e nota metodologica

Il contenuto di questo studio è diretto a definire la dinamica e l’evoluzione di alcuni dei principali aggregati costituenti le voci dei bilanci consuntivi delle amministrazioni comunali della regione Umbria dal 2003 al 2007. Si tratta di un primo approccio ricognitivo a questo tema, utile a creare condizioni e metodologie di ricerca per ulteriori approfondimenti, stante la sua vastità sia in termini di quantità delle informazioni numeriche, sia per l’articolazione delle politiche finanziarie elaborate nei singoli casi. Il progressivo avvicinamento all’applicazione di meccanismi di federalismo fiscale nel nostro Paese stimola l’interesse di operatori e ricercatori alla comprensione delle linee di gestione della politica finanziaria e tributaria delle amministrazioni pubbliche locali, in particolare di quelle, come i comuni, dotate di autonomia impositiva. Come verrà illustrato più avanti in queste pagine, l’analisi è basata su dati ufficiali di rendiconto, al fine di dare certezza ai criteri di aggregazione delle voci considerate e alla omogeneità delle classificazioni contabili. Le elaborazioni sulle stesse voci di bilancio si sono limitate al calcolo di indicatori percentuali, di rapporti indice, omogenei per natura e provenienza, di valori pro capite determinati in relazione al numero dei residenti alla fine dell’anno e di aggregazioni delle voci contabili in funzione per classi di dimensioni dei singoli comuni. La fonte dei dati, analizzati nel presente lavoro, è il certificato del conto di bilancio che i comuni devono, obbligatoriamente, redigere con cadenza annuale. Attraverso l’analisi dei dati di bilancio, prelevati direttamente dal database del Ministero dell’Interno ed integrati con quelli diffusi da Istat, si sono definite le peculiarità della finanza

1 Meri Ripalvella ha curato l’elaborazioni, la nota metodologica e i box (Il certificato del conto di bilancio delle amministrazioni comunali e I Buoni Ordinari Comunali).

DENTRO L’UMBRIA due720

comunale umbra, nonché la dinamica dei principali indicatori di bilancio (capacità di riscossione e di spesa, grado di autonomia impositiva e finanziaria, grado di dipendenza erariale, pressione tributaria e fiscale,…), senza trascurare, ove possibile, l’analisi di confronto con le altre regioni italiane.

BOX: Il certificato del conto di bilancio delle amministrazioni comunali Il certificato del conto di bilancio dei comuni, la cui struttura è definita dal D.P.R. 194/1996, specifica in modo dettagliato i flussi finanziari di competenza e di cassa2 delle principali categorie e voci economiche di entrata e di spesa. Tutte le amministrazioni comunali sono obbligate a redigere annualmente tale documento, certificando i dati del rendiconto finanziario relativo all’esercizio precedente che deve essere approvato dai consigli comunali entro il 30 giugno di ogni anno. Solo dopo tale approvazione, viene prodotto il certificato del conto di bilancio in formato cartaceo e, dal 2003 obbligatoriamente, anche in formato elettronico3. Il certificato, quindi, deve essere trasmesso alle Prefetture ed agli Uffici territoriali del governo. Tale iter amministrativo fa confluire i dati di tutti i comuni italiani nel database del Ministero dell’Interno. Il modello standard, utilizzato dai comuni per la rendicontazione, è stato adottato nella forma attuale a partire dal 19984 e contiene tutte le informazioni essenziali sui dati finanziari relativi alla gestione e, inoltre, alcuni dati fisici sulla qualità e quantità dei servizi prodotti. Il certificato è suddiviso in quadri numerati progressivamente: in primo luogo si trovano i dati inerenti informazioni generali , seguono, quindi, i dati prettamente finanziari (entrate e spese, correnti ed in conto capitale), chiudono i dati finanziari e fisici sulla presenza e sulla produzione di servizi. Riportiamo, a seguire, una breve descrizione del contenuto dei vari quadri che compongono il certificato del conto di bilancio:

Dati generali al 31 dicembre (quadro 1): contiene indicazioni generali di carattere strutturale (popolazione residente, nuclei familiari, superficie del Comune,…) ed indicazioni sull’assetto del territorio e problemi dell’ambiente (presenza o assenza dei vari strumenti urbanistici);

Entrate (quadro 2): riguarda gli accertamenti e le riscossioni (in conto competenza e in conto residui) delle entrate del Comune. Le entrate sono distinte in titoli concernenti le entrate tributarie (Titolo I), le entrate derivanti da contributi e trasferimenti correnti (Titolo II), le entrate extratributarie (Titolo III), le entrate derivanti da alienazione, da trasferimenti

2 I flussi finanziari di competenza sono tutte le entrate che l’ente ha diritto di riscuotere e le spese che si è impegnato ad erogare durante l’esercizio finanziario, indipendentemente dal fatto che verranno in esso effettivamente riscosse o pagate. I flussi finanziari di cassa, invece, rappresentano l’insieme delle somme effettivamente riscosse o pagate durante l’esercizio, indipendentemente dal fatto che siano state accertate o impegnate in esercizi finanziari precedenti. 3 I Comuni, per la produzione del certificato del conto di bilancio in formato elettronico, hanno l’obbligo di utilizzare solo le procedure che hanno ottenuto l’omologazione da parte del Ministero dell’Interno. 4 Il modello standard adottato dalle amministrazioni comunali per il certificato del conto di bilancio è stato individuato con il decreto del Ministero dell’Interno, “Approvazione dei modelli e modalità relative alle certificazioni concernenti il conto consuntivo 1998 delle amministrazioni provinciali, dei comuni e delle comunità montane”, del 30 luglio 1999.

AURAPPORTI: RES 2008-09 721

di capitale e da riscossioni di crediti (Titolo IV), le entrate derivanti da accensione di prestiti (Titolo V) e le entrate da servizi per conto di terzi (Titolo VI);

Riepilogo generale delle spese (quadro 3): contiene gli impegni ed i pagamenti (in conto competenza e in conto residui) delle spese del Comune. Le spese, proprio come le entrate, sono distinte in titoli riguardanti le spese correnti (Titolo I), le spese in conto capitale (Titolo II), le spese per rimborso di prestiti (Titolo III), le spese per servizi per conto di terzi (Titolo IV);

Spese correnti (quadro 4): riguarda gli impegni (sez. A), i pagamenti in conto competenza (sez. B) e quelli in conto residui (sez. C) delle spese correnti classificate in base sia delle funzioni/servizi5 sia del tipo di intervento6;

Spese in conto capitale (quadro 5): riguarda gli impegni (sez. A), i pagamenti in conto competenza (sez. B) e quelli in conto residui (sez. C) delle spese in conto capitale ripartite in base sia delle funzioni/servizi sia del tipo di intervento7;

Analisi della spesa per trasferimenti, per funzione e destinatario (quadro 6): contiene il dettaglio delle spese correnti ed in conto capitale, sia impegni che pagamenti (in c/competenza ed in c/residui), distinte per destinatario e funzioni;

Dettaglio delle spese in conto capitale per acquisizione di beni immobili (quadro 7): riguarda impegni e pagamenti (c/competenza e c/residui) delle spese in conto capitale destinate all’acquisto di immobili, di aree ovvero quelle impegnate/sostenute per la costruzione e manutenzione di opere in appalto;

Consistenze, accensione e rimborso prestiti per ente erogatore (quadro 8): specifica, per ogni ente erogatore del prestito, la consistenza a fine anno precedente, il valore delle nuove accensioni e dei rimborsi;

Quadro riassuntivo della gestione finanziaria (quadro 9): riguarda la determinazione del risultato di gestione, avanzo o disavanzo di amministrazione, nelle sue singole componenti;

Debiti fuori bilancio al 31 dicembre (quadro 10): si riferisce ai debiti fuori bilancio, riconducibili alla data di chiusura del conto consuntivo interessato, a conoscenza dei sottoscritti firmatari del certificato;

Gestione dei residui attivi (quadro 11) e gestione dei residui passivi (quadro 12): riguardano i residui 5 Le funzioni previste si distinguono in: funzioni generali di amministrazione e di controllo; funzioni relative alla giustizia; funzioni di polizia locale; funzioni di istruzione pubblica; funzioni relative alla cultura ed ai beni culturali; funzioni nel settore sportivo e ricreativo; funzioni nel campo turistico; funzioni nel campo della viabilità e dei trasporti; funzioni riguardanti la gestione del territorio e dell’ambiente, funzioni nel settore sociale; funzioni nel campo dello sviluppo economico e funzioni relative a servizi produttivi. Ciascuna funzione, a sua volta, prevede diverse tipologie di servizi. 6 Le diverse tipologie di intervento considerate riguardano le spese sostenute per: personale; acquisto di beni di consumo e/o di materie prime; prestazioni di servizi; utilizzo di beni di terzi; trasferimenti, interessi passivi e oneri finanziari diversi; imposte e tasse; oneri straordinari della gestione corrente ed ammortamenti di esercizio. 7 Le funzioni ed i servizi considerate/i per le spese in conto capitale sono analoghe a quelle viste per le spese in conto corrente. Le tipologie di intervento, invece, cambiano, trattandosi, in questo caso, di interventi per investimenti e, cioè, di: acquisizioni di beni immobili; espropri e servitù onerose; acquisto di beni specifici per realizzazioni in economia; utilizzo di beni di terzi per realizzazioni in economia; acquisizioni di beni mobili, macchine, ed attrezzature tecnico-scientifiche; incarichi professionali esterni; trasferimenti di capitale; partecipazioni azionarie; conferimenti di capitale e concessioni di crediti ed anticipazioni.

DENTRO L’UMBRIA due722

attivi e passivi distinti per titoli ed analizzati al fine di conoscere i residui (e le relative differenze) presunti, accertati, riscossi, impegnati e pagati;

Servizi indispensabili per i Comuni (quadro 13), servizi a domanda individuale per i Comuni (quadro 14), servizi diversi per Comuni (quadro 15): riportano informazioni sui servizi generali ed istituzionali (servizi indispensabili), sui servizi a domanda individuale e sui servizi di carattere produttivo del Comune al fine di individuare con assoluta precisione l’attività dell’ente. Le informazioni raccolte riguardano: la presenza o l’assenza del servizio, la forma di gestione dello stesso ed i proventi a questi riconducibili. Per ogni servizio, inoltre, vengono individuati dei parametri di efficacia e di efficienza;

Informazioni integrative dei servizi indispensabili per Comuni (quadro 16); informazioni integrative dei servizi a domanda individuale per Comuni (quadro 17); informazioni integrative dei servizi diversi per Comuni (quadro 19): forniscono ulteriori informazioni (consistenza numerica del personale, dotazioni strumentali, dotazioni specifiche, ecc.) non comprese nei quadri precedenti (quadri 13, 14 e 15), sui servizi indispensabili, su quelli a domanda individuale e sui servizi diversi per Comuni.

Il reperimento dei dati esaminati ha richiesto il ricorso a due diverse fonti, il Ministero dell’Interno e l’Istat, pur essendo il certificato del conto di bilancio la fonte principale. Il ricorso diretto al database ministeriale ha permesso la predisposizione delle informazioni necessarie all’analisi della finanza comunale umbra, mentre i dati messi a disposizione da Istat (I bilanci consuntivi delle amministrazioni comunali. Anno 2007) sono stati scelti per operare confronti con le altre Regioni d’Italia. Per quanto attiene i dati sui comuni umbri, è necessario precisare che sono state analizzate le principali voci di entrata8 e di spesa dei certificati di conto consuntivo di tutti i comuni umbri per il periodo che va dal 2003 al 20079. Le voci del rendiconto di ogni singolo comune sono state aggregate per determinarne il valore regionale e per classe d’ampiezza demografica. I dati diffusi da Istat (I bilanci consuntivi delle amministrazioni comunali. Anno 2007), come abbiamo precedentemente detto, sono stati utilizzati per confrontare la performance umbra con quella delle altre regioni italiane. Tali dati fanno riferimento al solo 2007 e costituiscono stime provvisorie, ottenute dalle elaborazioni dei dati presenti nella banca dati del Ministero dell’Interno relativi a 7.536 comuni e trasmessi all’Istat nel mese di gennaio 2009. Istat stima i valori dell’universo dei comuni italiani, facendo riferimento alla popolazione residente al 31 dicembre 2007 mediante l’utilizzo di

8 Per quanto attiene le entrate, è necessario sottolineare che, la maggior parte delle elaborazioni contenute nel lavoro, le entrate tributarie sono considerate al netto della Compartecipazione Irpef e che questa voce è stata inserita, invece, tra i trasferimenti correnti di provenienza statale. Nel 2007, infatti, la Compartecipazione Irpef non è stata più classificata tra le entrate tributarie nei bilanci dei Comuni, ma tra i trasferimenti correnti dallo Stato, in quanto le somme spettanti a tale titolo sono confluite nel fondo ordinario, ad eccezione della quota erogata sotto forma di compartecipazione dinamica. 9 Si precisa che i dati del certificato consuntivo del conto di bilancio relativi all’anno 2007 sono provvisori.

AURAPPORTI: RES 2008-09 723

coefficienti di espansione calcolati per ciascuna classe di popolazione residente di ciascuna regione. La tabella seguente riporta, per ogni regione, il grado di copertura del campione sia in termini di comuni sia in termini di popolazione residente. Si osservi che solo l’Umbria vanta un grado di copertura pari al 100%, essendo l’unica regione i cui comuni hanno provveduto, per intero, a trasmettere al Ministero dell’Interno i certificati consuntivi del conto di bilancio. Comuni e grado di copertura della rilevazione dei bilanci consuntivi dei comuni. Anno 2007

N. Totale comuni

N. comuni rispondenti

Grado di copertura

comuni

Popolazione totale

Popolazione dei comuni rispondenti

Grado di copertura

pop. Regione

(A) (B) B/A*100 (D) (E) E/D*100 Piemonte 1.206 1.153 95,6 4.401.266 4.267.277 97,0 Valle d’Aosta 74 72 97,3 125.979 124.872 99,1 Lombardia 1.546 1.537 99,4 9.642.406 9.595.923 99,5 T.A.Adige 339 288 85,0 1.007.267 784.293 77,9 Bolzano 116 82 70,7 493.910 294.241 59,6 Trento 223 206 92,4 513.357 490.052 95,5 Veneto 581 579 99,7 4.832.340 4.830.345 100,0 F.V.Giulia 219 217 99,1 1.222.061 1.220.832 99,9 Liguria 235 229 97,5 1.609.822 1.593.367 99,0 E.Romagna 341 331 97,1 4.275.802 4.231.339 99,0 Toscana 287 284 99,0 3.677.048 3.667.625 99,7 Umbria 92 92 100,0 884.450 884.450 100,0 Marche 246 242 98,4 1.553.063 1.535.925 98,9 Lazio 378 330 87,3 5.561.017 5.044.097 90,7 Abruzzo 305 261 85,6 1.323.987 1.148.663 86,8 Molise 136 120 88,2 320.838 255.127 79,5 Campania 551 406 73,7 5.811.390 5.068.139 87,2 Puglia 258 249 96,5 4.076.546 3.728.837 91,5 Basilicata 131 129 98,5 591.001 582.041 98,5 Calabria 409 382 93,4 2.007.707 1.908.013 95,0 Sicilia 390 315 80,8 5.029.683 3.840.414 76,4 Sardegna 377 320 84,9 1.665.617 1.384.415 83,1 ITALIA 8.101 7.536 93,0 59.619.290 55.695.994 93,4

Fonte: Istat I dati inerenti ai Buoni Ordinari Comunali (BOC), disponibili on line nel sito dell’Istituto per la Finanza e l’Economia Locale (IFEL), riguardano le emissioni di

DENTRO L’UMBRIA due724

prestiti obbligazionari effettuate dai comuni umbri10 nell’arco di tempo che va dal 2003 al 2007 e sono aggiornati al 25 maggio 2009.

BOX: I Buoni Ordinari Comunali Il termine BOC è un acronimo di origine giornalistica che sta per Buoni Ordinari Comunali. Si tratta, in realtà, di titoli obbligazionari che possono essere emessi da tutti gli enti territoriali (regioni, province, comuni, unioni di comuni, aree metropolitane) per il finanziamento di investimenti che gli stessi enti devono documentare nella delibera di emissione del prestito. La legge finanziaria del 1995 (legge 724/1994, art. 35), oltre a sancirne la nascita, vieta espressamente l’utilizzo delle risorse provenienti dalla emissione di BOC per il sostenimento di spese di parte corrente. La stessa legge finanziaria, inoltre, prevede due vincoli all’emissione di tali titoli obbligazionari:

il primo riguarda lo stato di salute finanziaria dell’ente emittente: gli enti locali per potere emettere prestiti obbligazionari non devono trovarsi in condizioni di dissesto o in situazione strutturalmente deficitaria (cfr. d.lgs. 504/1992, art. 45);

il secondo stabilisce che il prestito obbligazionario deve essere pari all’ammontare del valore del progetto esecutivo dell’opera a cui fa riferimento. Più in particolare la norma precisa che gli investimenti ai quali è finalizzato il prestito devono avere un valore attuale almeno pari all’ammontare del prestito. Sicuramente la possibilità concessa agli enti locali di emettere questi titoli obbligazionari apre una strada all’autonomia degli enti locali nella gestione delle politiche di investimento ma non amplia la loro capacità di indebitamento. I BOC, infatti, sono una forma alternativa (e non aggiuntiva) di indebitamento.

Composizione ed andamento delle entrate (2003-2007) L’analisi dell’andamento e della composizione delle voci in entrata dei comuni dell’Umbria viene effettuata con riferimento alla natura delle entrate stesse, distinguendo tra quelle derivanti dal prelievo tributario in relazione all’autonomia impositiva dei singoli enti e quelle derivanti da altre voci. Con riferimento a questa seconda categoria di voci è interessante notare come esse rappresentino una sorta di compenso per servizi prestati dalle amministrazioni comunali alla cittadinanza e,

10 I comuni umbri che hanno scelto di adottare tale tipologia di finanziamento, nell’arco temporale oggetto d’analisi, sono: Marsciano (2003-2007); Narni (2005); Orvieto (2005, 2006); Perugia (2003-2005); Spoleto (2005) e Terni (2003-2006).

AURAPPORTI: RES 2008-09 725

quindi, una integrazione alla copertura dei costi sopportati dalle amministrazioni stesse per la loro produzione. L’analisi dell’andamento delle macrovoci di entrata delle amministrazioni comunali effettuata mediante i numeri indice, rappresentata nel Graf. 1, permette di percepire il calo drastico subito nel periodo considerato dai trasferimenti in conto capitale da parte del governo centrale e come siano calati, anche se meno intensamente, i trasferimenti in conto spese correnti. Queste riduzioni non sono state compensate dagli incrementi registrati dalle entrate tributarie ed extratributarie, il che lascia intuire come le decisioni di spesa per investimenti nello stesso periodo siano dipese prevalentemente dalla disponibilità di finanziamenti esterni a titolo di debito. Graf. 1 - Entrate delle amministrazioni comunali umbre: accertamenti. Numeri indice su valori nominali (2003 = 100)

60

70

80

90

100

110

120

130

140

150

2004 2005 2006 2007

num

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e (2

003=

100)

Tributarie(1) ExtratributarieContributi e Trasferimenti Correnti(2) Trasferimenti in conto capitale(3)Totale Generale delle Entrate

(1) al netto della Compartecipazione Irpef (2) comprensivi della Compartecipazione Irpef (3) I trasferimenti in conto capitale consistono in trasferimenti dallo Stato, dalla Regione, da altri enti del settore pubblico e da altri soggetti Fonte: elaborazioni AUR su Certificati Consuntivi di Bilancio E’ altrettanto evidente come, nel periodo osservato, ad una fase di ascesa dal 2003 al 2005 ha fatto seguito una successiva e significativa riduzione, che ha portato l’ammontare complessivo delle entrate in valore assoluto, al di sotto del livello osservato all’inizio. In generale, fatto cento il valore rilevato per il 2003, le entrate dei comuni umbri erano scese del 10,9% nel 2007, mentre le entrate tributarie erano aumentate nello stesso lasso di tempo del 26,8%, segno evidente della compensazione della riduzione delle entrate attraverso il canale del prelievo tributario. In dettaglio

DENTRO L’UMBRIA due726

sono più che raddoppiati i prelievi fiscali da parte delle amministrazioni comunali effettuati mediante l’addizionale IRPEF, sorprendente l’incremento osservabile tra il 2006 e il 2007, e quello dovuto ai tributi speciali ed alle altre entrate tributarie proprie. Tab. 1 - Entrate delle amministrazioni comunali umbre: accertamenti e riscossioni per voce di bilancio. Variazioni percentuali (2003-2007)

ACCERTAMENTI RISCOSSIONI* VOCI

2004/03 2005/04 2006/05 2007/06 2007/03 2004/03 2005/04 2006/05 2007/06 2007/03 Tributarie(1) 14,9 8,9 -13,6 17,3 26,8 12,0 3,3 -10,2 16,4 20,9 Extratributarie 9,1 5,6 -0,6 2,6 17,5 -4,5 -15,5 6,0 22,8 5,1 Contributi e Trasferimenti Correnti(2) -4,0 -3,5 -0,6 -4,1 -11,7 -3,0 -5,9 6,4 -1,3 -4,1 di cui dallo Stato(2) -5,9 -2,9 0,0 -5,8 -13,9 -4,5 -8,2 13,5 -6,3 -6,7 di cui dalla Regione(3) 1,5 -7,2 -2,8 0,0 -8,5 4,7 -1,7 -12,2 12,6 1,8 Alienazione di beni patrimoniali -26,0 21,1 -26,7 37,4 -9,7 4,9 -13,7 37,6 17,2 46,0 Trasferimenti in conto capitale(4) 35,4 -18,7 -24,8 -12,2 -27,3 3,2 -12,7 -8,9 16,2 -4,6 di cui dallo Stato -48,0 56,3 -3,3 48,5 16,8 9,2 17,8 -22,0 34,8 35,3 di cui dalla Regione 47,9 -24,9 -25,1 -15,9 -30,0 4,3 -14,1 -11,9 19,0 -6,0 Riscossioni di crediti -10,7 -30,5 4,5 -79,9 -87,0 28,0 -15,7 -43,9 -62,1 -77,0 Accensione di prestiti -13,8 103,8 -44,7 -25,0 -27,2 -15,9 70,3 -28,9 -8,8 -7,1 Totale al netto delle entrate da servizi c/to terzi e delle riscossioni di crediti 13,6 0,6 -18,4 -2,1 -8,6 1,1 -1,7 -6,5 10,3 2,4 Totale Generale delle Entrate 13,8 -0,5 -16,0 -6,3 -10,9 3,7 -2,1 -8,1 7,5 0,2

(1) al netto della Compartecipazione Irpef (2) comprensivi della Compartecipazione Irpef (3) comprensivi dei trasferimenti dalla Regione per funzioni delegate (4) I trasferimenti in conto capitale consistono in trasferimenti dallo Stato, dalla Regione, da altri enti del settore pubblico e da altri soggetti (*) Sono comprese le riscossioni di competenza e in conto residui Fonte: elaborazioni AUR su Certificati Consuntivi di Bilancio La Tab. 1 è costruita con i dati relativi alle variazioni delle entrate ripartite tra accertamenti (dati riferiti a quanto si riteneva di competenza del periodo) e riscossioni (entrate monetarie effettive nel periodo). Appare evidente lo sfasamento temporale fra le due tipologie di registrazioni dovuto al costante ritardo verificabile tra il momento dell’accertamento della entrata e quello della sua manifestazione monetaria. Mentre nel periodo considerato la dinamica degli accertamenti appare ampiamente oscillante, le entrate monetarie sono più stabili, segno della volontà delle amministrazioni di mantenere un sostanziale equilibrio finanziario nonostante la netta riduzione delle entrate complessive accertate (-10,9%).

AURAPPORTI: RES 2008-09 727

Tab. 2 - Entrate delle amministrazioni comunali umbre: accertamenti e riscossioni per voce di bilancio. Composizione percentuale (2003-2007)

ACCERTAMENTI RISCOSSIONI* VOCI

2003 2004 2005 2006 2007 2003 2004 2005 2006 2007 Tributarie(1) 16,8 17,0 18,6 19,1 23,9 16,9 18,2 19,2 18,8 20,3 Extratributarie 8,3 8,0 8,5 10,0 11,0 9,7 9,0 7,7 8,9 10,2 Contributi e Trasferimenti Correnti(2) 20,2 17,0 16,5 19,5 20,0 19,7 18,5 17,8 20,6 18,9 di cui dallo Stato(2) 14,3 11,8 11,5 13,7 13,8 14,1 13,0 12,2 15,0 13,1 di cui dalla Regione(3) 5,1 4,5 4,2 4,9 5,2 4,8 4,9 4,9 4,7 4,9 Alienazione di beni patrimoniali 3,2 2,1 2,6 2,2 3,3 2,0 2,0 1,8 2,7 2,9 Trasferimenti in conto capitale(4) 32,5 38,6 31,6 28,3 26,5 32,5 32,4 28,9 28,6 30,9 di cui dallo Stato 1,5 0,7 1,1 1,2 1,9 1,1 1,2 1,4 1,2 1,5 di cui dalla Regione 26,6 34,6 26,1 23,3 20,9 27,7 27,9 24,5 23,5 26,0 Riscossioni di crediti 6,7 5,2 3,7 4,6 1,0 5,1 6,3 5,4 3,3 1,2 Accensione di prestiti 7,6 5,7 11,7 7,7 6,2 8,4 6,8 11,9 9,2 7,8 Totale al netto delle entrate da servizi c/to terzi e delle riscossioni di crediti 88,6 88,4 89,4 86,9 90,8 89,1 86,8 87,2 88,7 91,1 Totale Generale delle Entrate 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0

(1) al netto della Compartecipazione Irpef (2) comprensivi della Compartecipazione Irpef (3) comprensivi dei trasferimenti dalla Regione per funzioni delegate (4) I trasferimenti in conto capitale consistono in trasferimenti dallo Stato, dalla Regione, da altri enti del settore pubblico e da altri soggetti (*) Sono comprese le riscossioni di competenza e in conto residui Fonte: elaborazioni AUR su Certificati Consuntivi di Bilancio I cambiamenti notevoli a cui si è assistito nel periodo in esame nella gestione finanziaria delle amministrazioni comunali umbre dal punto di vista delle entrate sono ben sintetizzati nelle tabelle 2 e 3. Le entrate tributarie accertate rappresentavano nel 2003 il 16,8 del totale mentre quattro anni più tardi erano salite al 23,9, quelle extratributarie erano passate dal 8,3% al 11,0%. I trasferimenti per spese correnti dallo Stato e dalla Regione erano rimasti sostanzialmente stabili, mentre i trasferimenti in conto capitale si erano ridotti di sei punti percentuali dal 32,5% al 26,5%.

DENTRO L’UMBRIA due728

Tab. 3 - Indicatori economico strutturali delle amministrazioni comunali umbre (2003-2007)

Grado di autonomia

impositiva (%)

Grado di autonomia

finanziaria (%)

Grado di dipendenza

erariale (%)

Pressione tributaria (€ correnti

per abitante)

Pressione finanziaria (€ correnti

per abitante)

2003 37,1 55,5 31,5 310 464 2004 40,5 59,5 28,1 352 518 2005 42,7 62,2 26,4 380 553 2006 39,3 59,9 28,2 326 497 2007 43,6 63,6 25,1 377 551

grado di autonomia impositiva = entrate tributarie *100/ entrate correnti grado di autonomia finanziaria = (entrate tributarie + entrate extratributarie)*100/ entrate correnti grado di dipendenza erariale = contributi e trasferimenti statali correnti*100 / entrate correnti pressione tributaria = entrate tributarie/ popolazione residente pressione finanziaria = (entrate tributarie + entrate extratributarie)/ popolazione residente Fonte: elaborazioni AUR su Certificati Consuntivi di Bilancio Per quanto concerne le entrate tributarie, osservando i dati relativi alle riscossioni e notando la discrepanza esistente tra queste e gli accertamenti dello stesso periodo si può rilevare come ad un aumento nel quadriennio delle entrate accertate di 7,1 punti percentuali ha fatto riscontro un aumento delle riscossioni di poco inferiore alla metà (3,4%). Si ritiene che questa differenza possa essere interpretata come indicatore della non corrispondenza della capacità di riscossione delle amministrazioni comunali rispetto all’aumento dell’autonomia impositiva. In altri termini si può ritenere che molte delle amministrazioni comunali, soprattutto quelle più piccole, non siano ancora tecnicamente preparate alla gestione sul piano della stima e delle riscossioni all’esercizio dei gradi di libertà che loro discendono dalla maggiore autonomia fiscale loro concessa. La capacità di riscossione delle amministrazioni comunali dell’Umbria può essere confrontata con quella rilevata nelle altre regioni italiani e con la media nazionale attraverso l’esame del Graf. 2 e delle Tabb. 4, 5 e 6. Si può notare come i comuni dell’Umbria dimostrano una capacità di riscossione media complessiva inferiore al valore calcolato a livello nazionale (62,8% contro 66,4), a questa differenza fanno però riscontro scarti ben maggiori quando si osservino i dati concernenti le specifiche categorie di entrate. Infatti, per quanto concerne la capacità di riscossione delle entrate di parte corrente i valori osservati per i comuni dell’Umbria sono superiori alla media nazionale (72,3 contro 70,1%), al contrario il dato concernente accertamenti e riscossioni di entrate in conto capitale mostra una sensibile differenza negativa a scapito delle amministrazioni della nostra regione pari a 21,3 punti percentuali (45,5 contro 66,8% corrispondente al dato medio nazionale).

AURAPPORTI: RES 2008-09 729

Graf. 2 - Entrate Tributarie delle amministrazioni comunali umbre: accertamenti. Numeri indice su valori nominali (2003 = 100)

85

100

115

130

145

160

175

190

205

220

235

250

2004 2005 2006 2007

num

eri i

ndice

(200

3=10

0)

Imposte I.C.I. Addizionale IRPEF Totale Entrate Tributarie

Fonte: elaborazioni AUR su Certificati Consuntivi di Bilancio Sempre da questo punto di vista alcune interessanti considerazioni possono essere tratte dalla lettura dei dati che compongono la tabella numero 3. Il grado di autonomia impositiva è passato dal 2003 al 2007 dal 37,1% al 43,6, mentre la crescita del grado di autonomia finanziaria è aumentato in misura maggiore passando dal 55,5% al 63,6%, in corrispondenza di tali tendenze è diminuito il grado di dipendenza dall’erario dello Stato che è passato dal 31,5% al 25,1%. La pressione tributaria per abitante è aumentata passando da 310 € per abitante a 377 € (+21,6%) così come è aumentata la pressione finanziaria complessiva per abitante calcolata tenendo conto anche delle entrate extra-tributarie passata da 464 € per abitante a 551 (+18,7). Il prelievo dovuto all’imposta comunale sugli immobili è cresciuto meno intensamente ma, comunque, in misura rilevante passando da 143 milioni del 2003 ad oltre 184 nel 2007 con incremento percentuale di quasi 29 punti. L’esame della composizione percentuale delle entrate tributarie e il confronto rispetto al totale degli accertamenti in entrata rafforza le osservazioni sopra riportate (Tab. 7). Le imposte complessivamente intese rimangono pressoché immutate (76,7% delle entrate nel 2003 contro il 77,0% del 2007). Le entrate ascrivibili all’addizionale comunale all’IRPEF passano dal 5,5% del totale nel 2003 al 13,4% del 2007, mentre quelle riferite all’ICI dal 40,7 al 52,8 per cento. Le altre tasse vedono ridotta la loro incidenza di poco meno di due punti percentuali passando dal 22,5 del totale delle entrate tributarie al 20,7. Rispetto al totale delle entrate delle amministrazioni comunali, le entrate dovute a imposte, tasse e tributi vari pesavano per il 22,5 per cento nel 2003 e per il 25 per cento nel 2007.

DENTRO L’UMBRIA due730

Graf. 3 - Capacità di riscossione delle amministrazioni comunali nelle regioni italiane: rapporto tra riscossioni in conto competenza e accertamenti

(valori percentuali)

0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100

PiemonteValle

LombardiaTrentino-

BolzanoTrentoVenetoFriuli-

LiguriaEmilia-

ToscanaUmbriaMarche

LazioAbruzzo

MoliseCampania

PugliaBasilicataCalabria

SiciliaSardegnaITALIA

Capacità di riscossione entrate correnti Capacità di riscossione entrate in c/capitaleCapacità di riscossione entrate totali

Fonte: elaborazioni AUR su Certificati Consuntivi di Bilancio

Tab

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2007

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8240

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10

,69

13,3

0 46

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501,

3034

4,64

17,3

5,31

10,0

393

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517,

3036

7,96

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317,

4323

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28,0

4,20

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39,2

33

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8929

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22

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18,9

2 65

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192,

4913

6,59

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15,8

914

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85,1

23

0,88

169,

9533

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20,2

7 17

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52,0

37

7,86

362,

0633

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18,1

333

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417,

1939

7,40

34,3

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15

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7715

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26

4,54

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42

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LIA

41

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DENTRO L’UMBRIA due734

Tab. 7 - Entrate Tributarie delle amministrazioni comunali umbre: accertamenti per voce di bilancio. Incidenza sul Totale delle Entrate Tributarie e sul Totale Generale delle Entrate (2003-2007)

Incidenza su Totale Entrate Tributarie (%)

Incidenza su Totale Generale delle Entrate (%) Voci di bilancio

2003 2004 2005 2006 2007 2003 2004 2005 2006 2007

- Imposte 76,7 73,4 70,6 79,8 77,0 17,2 16,2 16,7 20,4 19,2 di cui: 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 I.C.I. 40,7 40,0 37,8 42,7 52,8 9,1 8,8 8,9 10,9 13,2 Addizionale IRPEF 5,5 5,1 5,2 6,3 13,4 1,2 1,1 1,2 1,6 3,3 - Tasse 22,5 25,1 28,6 19,4 20,7 5,0 5,5 6,8 5,0 5,2 - Tributi Speciali ed altre entrate tributarie proprie 0,8 1,4 0,7 0,8 2,0 0,2 0,3 0,2 0,2 0,5 Totale Entrate Tributarie 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 22,5 22,0 23,6 25,6 25,0 Totale Generale delle Entrate 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0

Fonte: elaborazioni AUR su Certificati Consuntivi di Bilancio Dall’esame dei dati che formano le tabelle 8 e 9 emergono alcune prime sommarie indicazioni circa gli effetti prodotti dagli orientamenti della politica fiscale e dalle manovre della finanza governativa centrale sulle scelte operate dagli amministratori pubblici locali. La progressiva riduzione dei trasferimenti alle amministrazioni comunali da parte del governo nazionale, di cui si avrà modo di argomentare più innanzi, ha obbligato le prime ad un progressivo aumento della pressione fiscale sulla cittadinanza nel tentativo di mantenere inalterata l’offerta dei servizi offerti. Un successivo esame, a far data dall’esercizio finanziario 2008, potrà dar conto di come le stesse amministrazioni fanno fronte alla riduzione del gettito ICI a seguito della esenzione delle prime case ad uso abitativo introdotta nello stesso anno dal governo nazionale11. Le entrate tributarie considerate in base ai valori pro capite attestano come alla crescita dei valori assoluti di cui si è detto in precedenza faccia riscontro un andamento esattamente opposto considerando i valori rapportati al numero dei residente nella regione. Nel 2003 la media delle entrate tributarie per residente delle amministrazioni comunali dell’Umbria ammontava a 414,5 Euro contro un valore di 394,1 osservato nel 2007, pari ad una riduzione del 4,9 per cento. Alla riduzione complessiva delle entrate tributarie per residente corrisponde una sostituzione delle fonti del gettito che ha visto crescere il gettito da addizionale IRPEF e ICI (rispettivamente +131,1% e +23,4%) a scapito delle altre fonti di entrata fiscale.

11 Cfr. Legge 24/07/2008 n.126, di conversione del D.L. n° 93 del 27/05/2008 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 174 del 26 luglio 2008.

AURAPPORTI: RES 2008-09 735

Tab. 8 - Entrate Tributarie delle amministrazioni comunali umbre: accertamenti per voce di bilancio. Valori pro capite in euro (2003-2007)

Fonte: elaborazioni AUR su Certificati Consuntivi di Bilancio Graf. 4 - Andamento delle entrate tributarie nelle amministrazioni comunali umbre per classi dimensionali di popolazione residente (2003-2007) - Numeri indice 2003=100

Fonte: elaborazioni AUR su Certificati Consuntivi di Bilancio; Istat

Valori pro capite (euro correnti) Voci di bilancio

2003 2004 2005 2006 2007 - Imposte 317,9 335,1 340,2 348,2 303,6 di cui: I.C.I. 168,7 182,7 182,2 186,1 208,2 Addizionale IRPEF 22,8 23,1 25,2 27,6 52,7 - Tasse 93,1 114,6 138,0 84,7 81,7 - Tributi Speciali ed altre entrate tributarie proprie 3,5 6,5 3,5 3,4 7,8 Totale Entrate Tributarie 414,5 456,2 481,8 436,3 394,1 Totale Generale delle Entrate 1.845,7 2.074,3 2.042,7 1.705,7 1.577,4

80,0

90,0

100,0

110,0

120,0

130,0

140,0

2004 2005 2006 2007

< 2.500

2.500 - 7.500 7.500 - 20.00020.000 - 100.000

>100.000

DENTRO L’UMBRIA due736

Tab. 9 - Entrate Tributarie delle amministrazioni comunali umbre per classe dimensionale: accertamenti per voce di bilancio. Valori assoluti e numeri indice (2003-2007)

Valori assoluti (in migliaia di euro correnti) Numeri indice (valori

percentuali, 2003 = 100) Voci di bilancio

Classi dimensionali comuni 2003 2004 2005 2006 2007 2004 2005 2006 2007 < 2.500 13.863 14.621 14.767 16.230 13.129 105,5 106,5 117,1 94,7 2.500 - 7.500 31.974 34.430 37.398 37.666 32.994 107,7 117,0 117,8 103,2 7.500 - 20.000 47.979 57.943 59.918 54.937 49.455 120,8 124,9 114,5 103,1 20.000 - 100.000 76.981 76.888 79.349 87.974 75.020 99,9 103,1 114,3 97,5

Imposte

>100.000 98.803 104.000 104.000 107.000 97.887 105,3 105,3 108,3 99,1 di cui:

< 2.500 7.699 8.054 8.194 9.089 9.154 104,6 106,4 118,0 118,9 2.500 - 7.500 18.319 20.033 21.939 22.170 23.024 109,4 119,8 121,0 125,7 7.500 - 20.000 26.353 32.228 33.289 30.842 35.975 122,3 126,3 117,0 136,5 20.000 - 100.000 39.349 39.874 41.278 46.120 50.871 101,3 104,9 117,2 129,3

I.C.I.

>100.000 51.345 56.745 53.428 54.253 65.121 110,5 104,1 105,7 126,8 < 2.500 1.376 1.663 1.601 1.792 1.804 120,8 116,4 130,2 131,1 2.500 - 7.500 3.459 4.023 4.001 4.247 5.287 116,3 115,7 122,8 152,9 7.500 - 20.000 4.460 5.193 4.931 4.596 7.388 116,4 110,6 103,0 165,7 20.000 - 100.000 7.784 6.696 7.219 9.125 12.148 86,0 92,8 117,2 156,1

Addizionale IRPEF

>100.000 2.256 2.260 4.118 4.348 20.004 100,2 182,5 192,7 886,8 < 2.500 4.216 4.487 5.408 5.433 4.994 106,4 128,3 128,9 118,4 2.500 - 7.500 10.106 10.741 14.050 12.062 11.095 106,3 139,0 119,4 109,8 7.500 - 20.000 14.156 17.434 21.851 19.140 22.107 123,2 154,4 135,2 156,2 20.000 - 100.000 21.718 22.712 26.392 20.808 21.816 104,6 121,5 95,8 100,5

Tasse

>100.000 28.739 43.071 52.079 16.500 12.229 149,9 181,2 57,4 42,6 < 2.500 167 99 84 158 83 59,5 50,4 94,8 49,4 2.500 - 7.500 306 154 158 202 571 50,3 51,7 65,8 186,2 7.500 - 20.000 328 275 340 650 936 83,9 103,6 198,1 285,3 20.000 - 100.000 875 464 1.147 551 599 53,0 131,0 62,9 68,4

Tributi Speciali ed altre entrate tributarie proprie >100.000 1.270 4.623 1.350 1.370 4.704 363,9 106,3 107,8 370,3

< 2.500 18.246 19.207 20.259 21.822 18.205 105,3 111,0 119,6 99,8 2.500 - 7.500 42.386 45.325 51.606 49.930 44.659 106,9 121,8 117,8 105,4 7.500 - 20.000 62.464 75.652 82.109 74.727 72.497 121,1 131,5 119,6 116,1 20.000 - 100.000 99.574 100.000 107.000 109.000 98.379 100,4 107,5 109,5 98,8

Totale Entrate Tributarie

>100.000 129.000 152.000 157.000 125.000 115.000 117,8 121,7 96,9 89,1 < 2.500 154.440 125.000 139.000 116.000 105.000 80,9 90,0 75,1 68,0 2.500 - 7.500 240.722 254.000 264.000 205.000 227.000 105,5 109,7 85,2 94,3 7.500 - 20.000 237.839 291.000 297.000 261.000 238.000 122,4 124,9 109,7 100,1 20.000 - 100.000 463.053 668.000 577.000 526.000 420.000 144,3 124,6 113,6 90,7

Totale generale delle entrate

>100.000 469.102 443.000 496.000 381.000 406.000 94,4 105,7 81,2 86,5 Fonte: elaborazioni AUR su Certificati Consuntivi di Bilancio; Istat.

AURAPPORTI: RES 2008-09 737

L’osservazione del grafico 5 consente di apprezzare come esistono sensibili differenze nelle diverse classi dimensionali dei comuni dell’Umbria formate in funzione della popolazione residente. Nei comuni con più di centomila abitanti, nel 2007, il gettito delle entrate tributarie era sceso al di sotto del livello del 2003 di quasi undici punti percentuali, mentre nelle altre classi registra sensibili incrementi o non cala oltre i valori di inizio periodo. Dall’esame della tabella 5 è possibile rilevare come il peso differente delle entrate tributarie sul totale delle entrate in ragione delle dimensioni dei comuni più che dipendere da scelte di politica fiscale locale è dovuto alla diversa distribuzione del patrimonio immobiliare e del reddito all’interno di essi. Inoltre, dall’esame della stessa tabella è possibile percepire come nel periodo in questione sia stata avviata dagli amministratori una lenta opera di ricomposizione delle fonti di finanziamento costituite da imposte e tributi. I mutamenti, considerati cronologicamente, paiono più indotti dagli effetti delle scelte del governo centrale in materia di trasferimenti alle amministrazioni periferiche che da scelte autonome di programmazione compiute dalle singole amministrazioni. Queste considerazioni vengono ulteriormente avvalorate dall’esame dei dati costituenti la tabella 10, la tabella 11 e del grafico 6: essi si riferiscono ai valori pro capite delle varie voci di entrate tributarie e, in particolare, la tabella 10 al rapporto percentuale tra entrate tributarie ed entrate complessive. Le differenze osservabili nelle classi dimensionali in cui sono stati raggruppati i comuni umbri, pur rimanendo apprezzabili, si sono tuttavia assottigliate sensibilmente negli anni più recenti. Appare evidente come la tendenza sia quella di una progressiva e generalizzata riduzione delle differenze tra l’ammontare pro capite delle entrate tributarie: nel 2003 nei comuni più piccoli, con residenti inferiori alle 2.500 unità: esse infatti ammontavano nel 2003 al 11,8 per cento e nel 2007 al 17,3; nei comuni intermedi con residenti tra 7.500 e 20.000 abitanti lo stesso rapporto si attestava al 26,2 e al 30,5 per cento; nei comuni maggiori con più di 100.000 residenti al 27,5 e al 28,3 per cento. Il prelievo fiscale pro capite da parte delle amministrazioni comunali è aumentato di più in quelle di minori dimensioni, nonostante rimanga nel 2007 sensibilmente inferiore ai valori calcolati per i comuni maggiori.

DENTRO L’UMBRIA due738

Tab. 10 - Entrate Tributarie delle amministrazioni comunali umbre per classe dimensionale: accertamenti per voce di bilancio. Incidenza sul Totale delle Entrate Tributarie e sul Totale Generale delle Entrate (2003-2007)

INCIDENZA SU TOTALE ENTRATE TRIBUTARIE

(%)

INCIDENZA SU TOTALE GENERALE DELLE ENTRATE

(%) Voci di bilancio

Classi dimensionali comuni

2003 2004 2005 2006 2007 2003 2004 2005 2006 2007 < 2.500 76,0 76,1 72,9 74,4 72,1 9,0 11,7 10,6 14,0 12,5 2.500 – 7.500 75,4 76,0 72,5 75,4 73,9 13,3 13,6 14,2 18,4 14,5 7.500 - 20.000 76,8 76,6 73,0 73,5 68,2 20,2 19,9 20,2 21,0 20,8 20.000 - 100.000 77,3 76,9 74,2 80,7 76,3 16,6 11,5 13,8 16,7 17,9

Imposte

>100.000 76,6 68,4 66,2 85,6 85,1 21,1 23,5 21,0 28,1 24,1 di cui:

< 2.500 42,2 41,9 40,4 41,6 50,3 5,0 6,4 5,9 7,8 8,7 2.500 - 7.500 43,2 44,2 42,5 44,4 51,6 7,6 7,9 8,3 10,8 10,1 7.500 - 20.000 42,2 42,6 40,5 41,3 49,6 11,1 11,1 11,2 11,8 15,1 20.000 - 100.000 39,5 39,9 38,6 42,3 51,7 8,5 6,0 7,2 8,8 12,1

I.C.I.

>100.000 39,8 37,3 34,0 43,4 56,6 10,9 12,8 10,8 14,2 16,0 < 2.500 7,5 8,7 7,9 8,2 9,9 0,9 1,3 1,2 1,5 1,7 2.500 - 7.500 8,2 8,9 7,8 8,5 11,8 1,4 1,6 1,5 2,1 2,3 7.500 - 20.000 7,1 6,9 6,0 6,1 10,2 1,9 1,8 1,7 1,8 3,1 20.000 - 100.000 7,8 6,7 6,7 8,4 12,3 1,7 1,0 1,3 1,7 2,9

Addizionale IRPEF

>100.000 1,7 1,5 2,6 3,5 17,4 0,5 0,5 0,8 1,1 4,9 < 2.500 23,1 23,4 26,7 24,9 27,4 2,7 3,6 3,9 4,7 4,8 2.500 – 7.500 23,8 23,7 27,2 24,2 24,8 4,2 4,2 5,3 5,9 4,9 7.500 - 20.000 22,7 23,0 26,6 25,6 30,5 6,0 6,0 7,4 7,3 9,3 20.000 - 100.000 21,8 22,7 24,7 19,1 22,2 4,7 3,4 4,6 4,0 5,2

Tasse

>100.000 22,3 28,3 33,2 13,2 10,6 6,1 9,7 10,5 4,3 3,0 < 2.500 0,9 0,5 0,4 0,7 0,5 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1 2.500 – 7.500 0,7 0,3 0,3 0,4 1,3 0,1 0,1 0,1 0,1 0,3 7.500 - 20.000 0,5 0,4 0,4 0,9 1,3 0,1 0,1 0,1 0,2 0,4 20.000 - 100.000 0,9 0,5 1,1 0,5 0,6 0,2 0,1 0,2 0,1 0,1

Tributi Speciali ed altre entrate tributarie proprie >100.000 1,0 3,0 0,9 1,1 4,1 0,3 1,0 0,3 0,4 1,2

< 2.500 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 11,8 15,4 14,6 18,8 17,3 2.500 – 7.500 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 17,6 17,8 19,5 24,4 19,7 7.500 - 20.000 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 26,3 26,0 27,6 28,6 30,5 20.000 - 100.000 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 21,5 15,0 18,5 20,7 23,4

Totale Entrate Tributarie

>100.000 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 27,5 34,3 31,7 32,8 28,3 < 2.500 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 2.500 - 7.500 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 7.500 - 20.000 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 20.000 - 100.000 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0

Totale generale delle entrate

>100.000 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 Fonte: elaborazioni AUR su Certificati Consuntivi di Bilancio; Istat

AURAPPORTI: RES 2008-09 739

Tab. 11 - Entrate Tributarie delle amministrazioni comunali umbre per classe dimensionale: accertamenti per voce di bilancio. Valori pro capite in euro correnti (2003-2007)

Valori pro capite (euro correnti) Voci

di bilancio

Classi dimensionali comuni 2003 2004 2005 2006 2007 < 2.500 234,2 245,7 258,7 272,5 238,8 2.500 - 7.500 261,3 277,8 293,3 299,3 263,2 7.500 - 20.000 274,8 327,0 333,9 340,8 287,3 20.000 - 100.000 335,3 332,1 340,8 345,5 291,1

Imposte

>100.000 376,7 389,7 383,8 393,7 357,0 di cui:

< 2.500 130,1 135,4 143,5 152,6 166,5 2.500 - 7.500 149,7 161,7 172,1 176,2 183,7 7.500 - 20.000 151,0 181,9 185,5 191,3 209,0 20.000 - 100.000 171,4 172,2 177,3 181,1 197,4

I.C.I.

>100.000 195,8 212,7 197,2 199,6 237,5 < 2.500 23,2 27,9 28,1 30,1 32,8 2.500 - 7.500 28,3 32,5 31,4 33,7 42,2 7.500 - 20.000 25,5 29,3 27,5 28,5 42,9 20.000 - 100.000 33,9 28,9 31,0 35,8 47,1

Addizionale IRPEF

>100.000 8,6 8,5 15,2 16,0 72,9 < 2.500 71,2 75,4 94,7 91,2 90,8 2.500 - 7.500 82,6 86,7 110,2 95,9 88,5 7.500 - 20.000 81,1 98,4 121,8 118,7 128,4 20.000 - 100.000 94,6 98,1 113,3 81,7 84,6

Tasse

>100.000 109,6 161,4 192,2 60,7 44,6 < 2.500 2,8 1,7 1,5 2,7 1,5 2.500 - 7.500 2,5 1,2 1,2 1,6 4,6 7.500 - 20.000 1,9 1,6 1,9 4,0 5,4 20.000 - 100.000 3,8 2,0 4,9 2,2 2,3

Tributi Speciali ed altre entrate tributarie proprie

>100.000 4,8 17,3 5,0 5,0 17,2 < 2.500 308,3 322,8 354,9 366,4 331,2 2.500 - 7.500 346,3 365,7 404,8 396,8 356,2 7.500 - 20.000 357,8 427,0 457,5 463,6 421,1 20.000 - 100.000 433,7 432,0 459,5 428,1 381,7

Totale Entrate Tributarie

>100.000 491,9 569,6 579,4 460,0 419,4 < 2.500 2.609,2 2.101,0 2.434,7 1.947,9 1.910,0 2.500 - 7.500 1.967,0 2.049,6 2.070,7 1.629,2 1.810,8 7.500 - 20.000 1.362,4 1.642,4 1.654,9 1.619,1 1.382,6 20.000 - 100.000 2.016,6 2.885,6 2.477,8 2.065,8 1.629,5

Totale generale delle entrate

>100.000 1.788,7 1.660,2 1.830,5 1.402,0 1.480,6 Fonte: elaborazioni AUR su Certificati Consuntivi di Bilancio; Istat * Al lordo di compartecipazione Irpef

DENTRO L’UMBRIA due740

Tab. 12 - Rapporto tra Entrate Tributarie ed Entrate Complessive nelle amministrazioni comunali umbre per classe dimensionale: accertamenti per voce di bilancio. Valori percentuali pro capite (2003-2007)

Entrate tributarie su entrate complessive (valori percentuali pro capite) Classi dimensionali comuni

2003 2004 2005 2006 2007 < 2.500 11,81 15,37 14,57 18,81 17,34 2.500 - 7.500 17,61 17,84 19,55 24,36 19,67 7.500 - 20.000 26,26 26,00 27,65 28,63 30,46 20.000 - 100.000 21,50 14,97 18,54 20,72 23,42 >100.000 27,50 34,31 31,65 32,81 28,33

Fonte: elaborazioni AUR su Certificati Consuntivi di Bilancio; Istat Graf. 5 - Entrate tributarie su entrate complessive nelle amministrazioni comunali umbre per classi dimensionali di popolazione residente (2003- 2007) - Valori percentuali procapite

0,00%

5,00%

10,00%

15,00%

20,00%

25,00%

30,00%

35,00%

2003 2004 2005 2006 2007

< 2.500

2.500 - 7.500

7.500 - 20.000

20.000 - 100.000

>100.000

Fonte: elaborazioni AUR su Certificati Consuntivi di Bilancio; Istat Per quanto concerne le voci di entrata differenti dai tributi è interessante svolgere qualche considerazione alle variazioni intervenute nel periodo preso in esame circa il loro peso percentuale sul totale generale. Nella tabella 13 tale peso percentuale è stato raggruppato in relazione alle differenti classi di ampiezza demografica dei comuni umbri e nella tabella 14 il loro ammontare è stato ripartito in termini percentuali per le principali sottovoci che le compongono.

AURAPPORTI: RES 2008-09 741

Tab. 13 - Entrate extratributarie delle amministrazioni comunali umbre per classe dimensionale: accertamenti per voce di bilancio. Incidenza sul Totale delle Entrate extratributarie (2003-2007)

Fonte: elaborazioni AUR su Certificati Consuntivi di Bilancio; Istat.

Incidenza su Totale Entrate extratributarie (%) Voci di bilancio

Classi dimensionali comuni 2003 2004 2005 2006 2007

< 2.500 42,6 41,1 41,0 40,3 39,6 2.500 - 7.500 58,7 55,7 56,1 57,4 49,4 7.500 - 20.000 79,2 72,3 72,6 67,4 70,6 20.000 - 100.000 89,9 69,6 62,1 60,1 58,7

Proventi dei Servizi Pubblici

>100.000 54,1 59,3 61,1 59,7 49,5 < 2.500 20,9 27,0 26,6 27,5 25,5 2.500 - 7.500 11,9 13,1 13,2 12,9 17,5 7.500 - 20.000 5,9 8,7 9,7 11,3 13,2 20.000 - 100.000 7,8 11,0 14,6 19,9 16,7

Proventi dei beni dell’ente

>100.000 17,6 15,2 13,7 14,0 17,5 < 2.500 2,8 1,4 1,4 1,4 2,0 2.500 - 7.500 2,3 2,9 2,2 2,8 4,0 7.500 - 20.000 1,1 2,4 2,2 2,9 2,7 20.000 - 100.000 3,1 2,8 3,7 1,6 2,6

Interessi su anticipazioni o crediti

>100.000 3,6 3,9 3,7 3,0 6,2 < 2.500 0,5 0,0 0,2 0,3 0,3 2.500 - 7.500 1,3 0,8 1,0 1,1 0,7 7.500 - 20.000 1,1 1,0 0,4 1,1 1,0 20.000 - 100.000 2,3 0,2 2,1 2,1 2,4

Utili netti delle aziende speciali e partecipate, dividendi di societa’ >100.000 5,6 2,5 1,9 3,2 2,2

< 2.500 33,2 30,5 30,7 30,5 32,6 2.500 - 7.500 25,8 27,5 27,5 25,9 28,3 7.500 -20.000 12,7 15,7 15,2 17,3 12,5 20.000 - 100.000 13,7 16,4 17,5 16,3 19,6

Proventi diversi

>100.000 19,2 19,1 19,6 20,1 24,6 < 2.500 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 2.500 - 7.500 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 7.500 - 20.000 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 20.000 - 100.000 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0

Totale Entrate Extratributarie

>100.000 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0

Tab

. 14

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2005

2006

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AURAPPORTI: RES 2008-09 743

Nel Graf. 6 è possibile osservare, sempre in relazione alle differenti classi di ampiezza demografica dei comuni l’andamento nel periodo della stessa voce considerata complessivamente: mentre nei comuni maggiori, con popolazione superiore alle 100.000 unità, si è registrato nell’intero periodo un incremento di poco superiore al 20% , negli altri comuni questa voce in entrata è rimasta sostanzialmente stabile o è addirittura diminuita. Nei comuni con più di 100.000 abitanti le entrate diverse da quelle tributarie in percentuale rispetto al totale delle entrate sono passate dal 7,9% al 12,4% con un incremento di 4,5 punti e il loro peso è aumentato, anche se in misura inferiore, in tutte le classi tranne che in quella che comprende i comuni con abitanti tra le 2.500 e le 7.500 unità, dove si è registrata una riduzione di mezzo punto percentuale. Il dato concernente i valori pro capite delle entrate da proventi per servizi pubblici delle amministrazioni comunali ripartite in classi di ampiezza demografica permettono di apprezzare una diminuzione di tale variabile per quanto attiene alla media regionale, passata da 108 € del 2003 a 97 € nel 2007. La diminuzione più evidente è quella osservabile nei comuni con popolazione da 20.000 a 100.000 abitanti dove tali entrate decrescono da 160 € del 2003 a 104 del 2007. Dal 2003 al 2006 sono diminuiti sensibilmente i trasferimenti correnti alle amministrazioni comunali in valori procapite ad opera dello Stato, sono passati nel dato medio regionale da 159 a 124 €, mentre mostra un sensibile ed uniforme incremento il dato del 2007 pari a 201 €. Complessivamente più stabili nei valori procapite appaiono invece i trasferimenti correnti alle amministrazioni comunali ad opera dell’ente regionale per funzioni ad esse delegate. Graf. 6 - Proventi dei Servizi Pubblici nelle amministrazioni comunali umbre - Numeri indice 2003=100

Fonte: elaborazioni AUR su Certificati Consuntivi di Bilancio; Istat

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7.500 - 20.000

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DENTRO L’UMBRIA due744

Graf. 7 - Entrate derivanti da Proventi dei servizi pubblici delle amministrazioni comunali umbre per classe dimensionale. Valori pro capite in euro correnti su accertamenti (2003-2007)

Fonte: elaborazioni AUR su Certificati Consuntivi di Bilancio; Istat Graf. 8 - Trasferimenti correnti dallo Statoper classe dimensionale. Valori pro capite in euro correnti su accertamenti (2003-2007)

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2003 2004 2005 2006 2007

Fonte: elaborazioni AUR su Certificati Consuntivi di Bilancio; Istat

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2003 2004 2005 2006 2007

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AURAPPORTI: RES 2008-09 745

Graf. 9 - Trasferimenti correnti dalla Regione (per funzioni delegate) per classe dimensionale. Valori pro capite in euro correnti su accertamenti (2003-2007)

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2003 2004 2005 2006 2007 Fonte: elaborazioni AUR su Certificati Consuntivi di Bilancio; Istat Passando a considerare la gestione in conto capitale, dal Graf. 10 è possibile apprezzare la sensibile diminuzione in valori pro capite dell’apporto della voce relativa a entrate derivanti da alienazioni di beni patrimoniali, trasferimenti di capitali e da riscossioni di crediti all’ammontare delle entrate: per quanto concerne il dato medio regionale si è passati da 779 € del 2003 a 485 del 2007. Sussistono notevoli differenze tra quanto è possibile rilevare nei comuni più piccoli e i dati riferiti a quelli di maggiore ampiezza demografica. Soprattutto nei comuni maggiori è aumentata nell’arco di tempo considerato l’opera di dismissione e razionalizzazione del patrimonio immobiliare, le entrate ascrivibili a tale attività nei comuni con più di 100.000 abitanti ammontavano a 92 € pro capite contro i 43 osservati tre anni prima. L’andamento oscillante di questa voce nelle altre classi dimensionali in cui sono stati raggruppati i comuni (si osservi il contenuto del Graf. 11) sembra avvalorare l’ipotesi secondo cui, più che a piani di razionalizzazione e dismissione, ci si trovi di fronte ad alienazioni di cespiti finalizzate alla copertura di fabbisogni imprevisti o ad estemporanee esigenze di finanziamento di investimenti.

DENTRO L’UMBRIA due746

Graf. 10 - Totale delle Entrate derivanti da Alienazione, Trasferimenti di capitali e da Riscossioni di crediti delle amministrazioni comunali umbre per classe dimensionale. Valori pro capite in euro correnti su accertamenti (2003-2007)

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2003 2004 2005 2006 2007 Fonte: elaborazioni AUR su Certificati Consuntivi di Bilancio; Istat Graf. 11 - Entrate derivanti da Alienazione di beni patrimoniali delle amministrazioni comunali umbre per classe dimensionale. Valori pro capite in euro correnti su accertamenti (2003-2007)

Fonte: elaborazioni AUR su Certificati Consuntivi di Bilancio; Istat

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2003 2004 2005 2006 2007

AURAPPORTI: RES 2008-09 747

Anche la politica del finanziamento degli investimenti attraverso il credito, che trova riscontro nelle entrate derivanti dall’accensione di prestiti ed illustrata mediante il Graf. 12, attesta un andamento piuttosto discontinuo e, probabilmente, orientato a sfruttare le opportunità del mercato o a soddisfare esigenze contingenti più che a seguire precise linee di programmazione. Il Graf. 14 illustra l’andamento delle entrate in valori pro capite nelle diverse classi dimensionali delle amministrazioni comunali umbre derivanti dal collocamento di prestiti obbligazionari. Questi strumenti sono stati utilizzati solo dai comuni maggiori e negli anni precedenti il 2007, in tale anno, infatti, una temporanea inversione di tendenza nell’andamento dei tassi di interesse a livello nazionale ed il preannunciarsi di una congiuntura economica sfavorevole hanno disincentivato anche tali amministrazioni dal ricorso a questa forma di finanziamento per la realizzazione dei propri investimenti. Graf. 12 - Totale delle Entrate derivanti da Accensioni di prestiti delle amministrazioni comunali umbre per classe dimensionale. Valori pro capite in euro correnti su accertamenti (2003-2007)

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2003 2004 2005 2006 2007 Fonte: elaborazioni AUR su Certificati Consuntivi di Bilancio; Istat

DENTRO L’UMBRIA due748

Graf. 13 - Entrate derivanti da Emissioni di prestiti obbligazionari delle amministrazioni comunali umbre per classe dimensionale. Valori pro capite in euro correnti su accertamenti (2003-2007)

Fonte: elaborazioni AUR su Certificati Consuntivi di Bilancio; Istat Composizione e andamento delle uscite (2003-2007) Un quadro di sintesi dell’andamento e della tempistica della spesa nelle amministrazioni comunali umbre nel periodo considerato si può trarre dall’esame congiunto del Graf.14 e della Tab. 15. In termini generali, l’ammontare della spesa a valori correnti calcolata sugli impegni dei comuni dell’Umbria è progressivamente diminuita con una riduzione, nell’arco del quinquennio considerato ,del 15,2% corrispondente, in valore assoluto a 246 milioni di euro. L’esame delle singole voci componenti la spesa permette di apprezzare la sostanziale stabilità degli impegni di parte corrente, la drastica riduzione delle spese in conto capitale, l’aumento delle spese per i servizi per conto terzi e il notevolissimo incremento degli impegni per il rimborso dei prestiti in precedenza assunti. Queste linee di tendenza generale della spesa, rappresentate nella Tab. 16 che accoglie i dati relativi alle variazioni di periodo delle macrovoci di spesa, costituiscono la manifestazione concreta dei problemi principali che caratterizzano la gestione finanziaria degli enti pubblici locali e, in particolare, dei comuni. La stagnazione delle entrate e la lenta, ma progressiva riduzione dei trasferimenti da parte del governo centrale, di cui si è detto in precedenza, hanno sensibilmente limitato l’ammontare

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AURAPPORTI: RES 2008-09 749

delle spese dei comuni che, nell’impossibilità di comprimere ulteriormente le uscite di parte corrente e nel tentativo frustrato di evitare l’aggravio degli oneri tributari per i cittadini a causa dell’introduzione o l’aumento delle addizionali locali sulle imposte sui redditi, hanno ridotto sensibilmente il finanziamento delle spese in conto capitale con entrate proprie, subordinando le spese stesse alla assunzione di fondi ottenuti a titolo di debito. Quest’ultima linea di tendenza, riferita all’intero quinquennio esaminato, è percepibile ponendo in relazione l’impressionante incremento degli impegni di spesa riconducibili al rimborso dei prestiti (+123,1%) e la progressiva riduzione delle spese in conto capitale (-44,5%): in altre parole appare evidente come le amministrazioni comunali dell’Umbria rischiano di vedere praticamente azzerata in tempi brevi la loro capacità propulsiva dell’economia locale espressa attraverso gli investimenti in conto capitale. A rafforzare queste considerazioni concorre l’analisi della capacità di spesa delle amministrazioni comunali umbre, misurata come rapporto percentuale tra i pagamenti in conto competenza e gli impegni, illustrata sempre nella Tab. 15. Ad un lieve incremento della capacità di spesa complessiva, passata dal 52,6 al 57,6% nell’arco di tempo considerato, fa riscontro un sensibile decremento della capacità di spesa in conto capitale passata dal 32,2% del 2003 al 26,0% del 2007. Le maggiori difficoltà di natura finanziaria nella gestione delle uscite possono essere rilevate anche attraverso la considerazione della riduzione della capacità di spesa di parte corrente passata dal 73,7% del 2003 al 71,5% del 2007. Pur non disponendo delle informazioni quantitative necessarie ad avvalorare l’impressione, non si può non percepire la riduzione della capacità di spesa di parte corrente come un segnale di sofferenza sul piano della gestione della liquidità o, in altri termini, come una tendenza a differire il più possibile nel tempo le manifestazioni monetarie degli impegni di spesa assunti. Graf. 14 - Spese delle amministrazioni comunali umbre: impegni. Numeri indice su valori nominali (2003 = 100)

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2007

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2003

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DENTRO L’UMBRIA due752

L’esame del Graf. 15 consente di apprezzare in sintesi la composizione per funzione della spesa corrente e in conto capitale, calcolata attraverso gli impegni assunti, nelle amministrazioni comunali umbre nel 2007. Per quanto concerne le spese correnti oltre il 33% del totale è rappresentato da quelle riferite agli oneri generali di amministrazione, gestione e controllo, seguono le spese correnti per il settore sociale e lo sport, per la gestione del territorio e dell’ambiente e l’istruzione e la cultura. Nel Graf. 16 è possibile osservare i settori di intervento destinatari della spesa delle amministrazioni comunali umbre nell’anno 2007, a questo proposito è interessante osservare come la remunerazione dei debiti in essere, rappresentata dagli interessi passivi e dagli oneri finanziari assorbisse circa il 6% della spesa corrente complessiva. Graf. 15 - Composizione per funzione della spesa corrente delle amministrazioni comunali umbre: impegni di spesa. Valori percentuali (2007) Fonte: elaborazioni AUR su dati Istat

Istruzione e

cultura; 14%

Viabilita e

trasporti

11%

Gestione del

territorio e

dell'ambiente

16%

Settore sociale e

sport 17%

Gustizia e

sicurezza

5%

Generali di

amministrazione,

gestione e

controllo

33%

Sviluppo

economico,

turismo e servizi

produttivi

5%

AURAPPORTI: RES 2008-09 753

Tab. 19 - Spese correnti delle amministrazioni comunali umbre: impegni, pagamenti e capacità di spesa per funzioni e servizi. Valori assoluti e percentuali (2007)

IMPEGNI PAGAMENTI (migliaia

di euro correnti) Funzione/servizio

Valori assoluti (migliaia di euro

correnti)

Incidenza sul totale

(%)

c/compe-tenza

c/residui Capacità di spesa*

(%)

Funzioni generali di amministrazione di gestione e di controllo

241.566 33,8 185.658 48.408 76,9

di cui: - Organi istituzionali, partecipazione e decentramento 30.029 4,2 23.304 5.605 77,6 - Segreteria generale, personale e organizzazione 68.488 9,6 51.455 12.444 75,1 - Gestione economica, finanziaria, programmazione, provveditorato e controllo di gestione

26.638 3,7 22.239 2.795 83,5

-Gestione delle entrate tributarie e servizi fiscali 11.451 1,6 7.665 7.346 66,9 - Gestione dei beni demaniali e patrimoniali 20.603 2,9 15.318 6.530 74,3 - Ufficio tecnico 23.398 3,3 19.756 2.949 84,4 - Anagrafe, stato civile, elettorale, leva e servizio statistico 11.998 1,7 10.668 922 88,9 Funzioni relative alla giustizia 4.548 0,6 3.484 980 76,6 Funzioni di polizia locale 33.183 4,6 27.339 4.353 82,4 di cui: -Polizia municipale 31.311 4,4 25.669 4.169 82,0 Funzioni di istruzione pubblica 66.138 9,3 47.636 13.500 72,0 di cui: - Scuola materna 14.470 2,0 11.343 2.520 78,4 - Istruzione elementare 6.822 1,0 4.607 1.690 67,5 - Istruzione media 4.644 0,6 3.014 1.086 64,9 - Assistenza scolastica, trasporto, refezione e altri servizi 37.872 5,3 26.661 7.893 70,4 Funzioni relative alla cultura ed ai beni culturali 34.116 4,8 22.475 9.159 65,9 di cui: - Biblioteche, musei e pinacoteche 13.700 1,9 9.593 3.614 70,0 Funzioni nel settore sportivo e ricreativo 12.524 1,8 9.039 3.325 72,2 di cui: - Piscine comunali 1.417 0,2 1.129 319 79,7 - Stadio comunale, palazzo dello sport ed altri impianti 9.752 1,4 7.106 2.608 72,9 Funzioni nel campo turistico 10.345 1,4 7.300 2.573 70,6 Funzioni nel campo della viabilita e dei trasporti 79.606 11,1 54.079 18.647 67,9 di cui: - Viabilita, circolazione stradale e servizi connessi 28.853 4,0 24.079 4.229 83,5 -Illuminazione pubblica 16.923 2,4 12.873 3.388 76,1 Funzioni riguardanti la gestione del territorio e dell’ambiente

112.649 15,8 76.281 38.491 67,7

di cui: - Urbanistica e gestione del territorio 17.840 2,5 14.261 4.031 79,9 - Edilizia residenziale pubblica e locale e piani di edilizia economico-popolare

3.878 0,5 2.758 2.141 71,1

- Servizio idrico integrato 6.596 0,9 4.608 1.974 69,9 - Servizio smaltimento rifiuti 62.172 8,7 40.910 20.459 65,8 Funzioni nel settore sociale 96.685 13,5 58.815 35.697 60,8 di cui: - Asili nido, servizi per l’infanzia e per i minori 25.365 3,5 19.481 5.088 76,8 -Strutture residenziali e di ricovero per anziani 3.965 0,6 3.037 985 76,6 - Assistenza, beneficenza pubblica e servizi diversi alla persona 57.470 8,0 30.021 26.547 52,2 - Servizio necroscopico e cimiteriale 7.511 1,1 4.782 1.849 63,7 Funzioni nel campo dello sviluppo economico 11.475 1,6 8.091 2.808 70,5 Funzioni relative a servizi produttivi 12.043 1,7 10.998 1.520 91,3 Totale 714.877 100,0 511.194 179.460 71,5

(*) La capacità di spesa è calcolata come rapporto percentuale tra i pagamenti in conto competenza e gli impegni.Fonte: elaborazioni AUR su dati Istat

DENTRO L’UMBRIA due754

Graf. 16 - Composizione per settore di intervento della spesa corrente delle amministrazioni comunali umbre: impegni di spesa. Valori percentuali (2007) Fonte: elaborazioni AUR su dati Istat La struttura della spesa delle amministrazioni comunali umbre nel 2007 per settore di intervento può essere esaminata in sintesi mediante il Graf. 17: per ciascun ambito di intervento è stata rappresentata in termini percentuali l’incidenza degli oneri per il personale, di quelli per l’acquisto di beni e servizi e di quelli per altre spese correnti. La Tab. 20 è formata dai dati relativi alle spese in conto capitale sostenute delle amministrazioni comunali umbre riferite ad impegni, pagamenti ed alla capacità di spesa ripartite per funzioni e servizi. Si può osservare innanzitutto come quando si passi dalle spese correnti a quelle in conto capitale la capacità di spesa all’interno dell’esercizio, in questo caso il 2007 crolli vertiginosamente: come accennato in precedenza il valore medio per le uscite in conto capitale è pari al 26%, compreso tra un massimo del 63% rilevato per le “Funzioni relative a servizi produttivi” ed un minimo del 7,6% riferito alle “Funzioni nel campo dello sviluppo economico”. L’analisi dei dati della tabella 20 fa emergere un quadro preoccupante in merito alla capacità di spesa per investimenti dei comuni umbri soprattutto per quanto concerne le funzioni connesse ai servizi sociali, culturali e alla viabilità e trasporti.

Prestazioni diservizi

42%

Trasferimenti9%

Beni consumo e materie prime 4%

Personale34%

Interessi passivi eoneri finanziari

6%

Altre spese correnti5%

AURAPPORTI: RES 2008-09 755

Graf. 17 - Composizione della spesa corrente per funzione e settore di intervento: impegni di spesa. Valori percentuali (2007)

Fonte: elaborazioni AUR su dati Istat Graf. 18 - Composizione per funzione della spesa in conto capitale delle amministrazioni comunali umbre: impegni di spesa. Valori percentuali (2007)

Genera li di amministrazione,

gesti one e con trollo 27%

Settore socia le e sport6%

Viabilita e tras porti 10%

Gestione del territorio e

dell'amb ien te 50%

Istruzione e cu ltura5 %

Sviluppo economi co, turismo e servizi

produ tt ivi2%

Fonte: elaborazioni AUR su dati Istat

0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100

Generali di amministrazione, gestione e controllo

Giustizia

Polizia locale

Istruzione pubblica

Cultura e beni culturali

Settore sportivo e ricreativo

Turismo

Viabilità e trasporti

Gestione del territorio e dell'ambiente

Settore sociale

Sviluppo economico

Servizi produttivi

Totale

valori percentuali

Spese per il persona le Altre spese correnti (2)Spese per l'acquisto di beni e servizi (1)

DENTRO L’UMBRIA due756

Graf. 19 - Composizione per settore di intervento della spesa in conto capitale delle amministrazioni comunali umbre: impegni di spesa. Valori percentuali (2007)

Fonte: elaborazioni AUR su dati Istat Graf. 20 – Composizione della spesa in conto capitale per funzione e settore di intervento: impegni di spesa. Valori percentuali (2007)

0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100

Generali di amministrazione, gestione e controllo

Gustizia

Polizia locale

Istruzione pubblica

Cultura e beni culturali

Settore sportivo e ricreativo

Turismo

Viabilita e trasporti

Gestione del territorio e dell'ambiente

Settore sociale

Sviluppo economico

Servizi produttivivalori percentuali

Acquisto beni immobili Acquisti di mobili, macchine e attrezzature

Altri investimenti Incarichi professionali esterniAltre spese in c/capitale

Fonte: elaborazioni AUR su dati Istat

Trasferimenti di capitali 46%

Altre spese in c/capitale 3%

Acquisto beni immobili 47%

Acquisti di mobili, macchine e

attrezzature 2%

Concessioni di crediti ed anticipazioni

3%

AURAPPORTI: RES 2008-09 757

Tab. 20 - Spese in conto capitale delle amministrazioni comunali umbre: impegni, pagamenti e capacità di spesa per funzioni e servizi. Valori assoluti e percentuali (2007)

IMPEGNI PAGAMENTI

(migliaia di euro correnti) Funzione/servizio Valori assoluti

(migliaia di euro correnti)

Incidenza sul totale

(%) c/competenza c/residui

Capacità di spesa*

(%)

Funzioni generali di amministrazione di gestione e di controllo 120.325 27,1 38.520 101.255 32,0

di cui: - Organi istituzionali, partecipazione e decentramento 1.811 0,4 257 3.626 14,2 - Segreteria generale, personale e organizzazione 2.032 0,5 1.087 989 53,5 - Gestione economica, finanziaria, programmazione, provveditorato e controllo di gestione 14.089 3,2 12.154 19.976 86,3

-Gestione delle entrate tributarie e servizi fiscali 33 0,0 6 345 19,4 - Gestione dei beni demaniali e patrimoniali 34.963 7,9 3.621 32.500 10,4 - Ufficio tecnico 18.644 4,2 7.601 11.043 40,8 - Anagrafe, stato civile, elettorale, leva e servizio statistico 271 0,1 7 92 2,4

Funzioni relative alla giustizia 199 0,0 0 3.452 0,0 Funzioni di polizia locale 382 0,1 139 391 36,3 di cui: -Polizia municipale 372 0,1 139 387 37,3 Funzioni di istruzione pubblica 14.181 3,2 2.529 19.533 17,8 di cui: - Scuola materna 5.306 1,2 891 3.628 16,8 - Istruzione elementare 4.734 1,1 899 6.172 19,0 - Istruzione media 1.044 0,2 240 2.876 23,0 - Assistenza scolastica, trasporto, refezione e altri servizi 2.633 0,6 483 6.660 18,3

Funzioni relative alla cultura ed ai beni culturali 10.003 2,2 981 15.012 9,8

di cui: - Biblioteche, musei e pinacoteche 5.434 1,2 488 10.199 9,0 Funzioni nel settore sportivo e ricreativo 9.649 2,2 1.472 9.488 15,3 di cui: - Piscine comunali 1.733 0,4 105 443 6,1 - Stadio comunale, palazzo dello sport ed altri impianti 7.916 1,8 1.367 8.918 17,3

Funzioni nel campo turistico 2.928 0,7 408 3.323 13,9 Funzioni nel campo della viabilità e dei trasporti 45.483 10,2 4.036 71.637 8,9

di cui: - Viabilita, circolazione stradale e servizi connessi 42.920 9,7 3.219 68.693 7,5 -Illuminazione pubblica 2.496 0,6 814 2.921 32,6

-----continua

DENTRO L’UMBRIA due758

Segue tab. 20 - Spese in conto capitale delle amministrazioni comunali umbre: impegni, pagamenti e capacità di spesa per funzioni e servizi. Valori assoluti e percentuali (2007)

IMPEGNI PAGAMENTI

(migliaia di euro correnti)

Funzione/servizio Valori

assoluti (migliaia di

euro correnti)

Incidenza sul totale

(%) c/competenza c/residui

Capacità di

spesa* (%)

Funzioni riguardanti la gestione del territorio e dell’ambiente 222.149 50,0 64.828 232.351 29,2

di cui:

- Urbanistica e gestione del territorio 124.624 28,0 31.059 136.793 24,9 - Edilizia residenziale pubblica e locale e piani di edilizia economico-popolare 46.057 10,4 20.854 21.436 45,3

- Servizio idrico integrato 2.287 0,5 130 4.621 5,7

- Servizio smaltimento rifiuti 1.823 0,4 583 2.608 32,0

Funzioni nel settore sociale 14.877 3,3 2.191 16.087 14,7

di cui:

- Asili nido, servizi per l’infanzia e per i minori 669 0,2 67 641 10,0

-Strutture residenziali e di ricovero per anziani 750 0,2 279 785 37,2 - Assistenza, beneficenza pubblica e servizi diversi alla persona 3.653 0,8 1.352 1.873 37,0

- Servizio necroscopico e cimiteriale 9.719 2,2 484 12.539 5,0

Funzioni nel campo dello sviluppo economico 4.185 0,9 319 11.074 7,6

Funzioni relative a servizi produttivi 253 0,1 159 1.244 63,0

Totale 444.615 100,0 115.583 484.847 26,0

(*) La capacità di spesa è calcolata come rapporto percentuale tra i pagamenti in conto competenza e gli impegni.Fonte: elaborazioni AUR su dati Istat

La composizione percentuale della spesa in conto capitale per funzione e settore di intervento attesta l’assorbimento della maggior parte degli investimenti in tutti gli ambiti di destinazione da parte della voce acquisti di immobili, se da un lato questo depone a favore della politica di incremento del patrimonio a disposizione degli enti comunali dell’Umbria, d’altro canto solleva perplessità sulla capacità di innovazione degli enti stessi che dovrebbe puntare ad un aumento della dotazione di macchine, mezzi ed altre attrezzature.

AURAPPORTI: RES 2008-09 759

Gestione del debito e tendenze del mercato: le emissioni di BOC e l’uso dei contratti derivati Si è accennato in precedenza, trattando delle voci di entrata utili al finanziamento degli investimenti, di come sia difficile, soprattutto su dati aggregati riferiti a tutte le amministrazioni comunali della regione, riuscire ad estrapolare le tendenze e gli obiettivi sottesi dalla gestione finanziaria delle stesse amministrazioni. Si è sottolineato, inoltre, di come le oscillazioni dei dati di anno in anno inducano a ritenere molte decisioni in materia influenzate più da esigenze di carattere contingente che non da pianificazioni pluriennali: spesso gli amministratori locali tendono a sfruttare quelle che ritengono opportunità generate dall’andamento della congiuntura soprattutto in relazione alle variazioni dei tassi di interesse di mercato. Tab. 21 - Emissioni di BOC delle amministrazioni comunali umbre. Valori assoluti e percentuali (2003 - 2007) Comune N. emissioni Ammontare (migliaia

di euro)Incidenza % sul

totale Marsciano 9 14.591 6,9 Narni 1 9.855 4,7 Orvieto 3 33.075 15,6 Perugia 5 42.712 20,2 Spoleto 1 19.492 9,2 Terni 6 92.146 43,5 Totale 25 211.871 100,0

Fonte: elaborazioni AUR su dati www.webifel.it Nella Tab. 21 sono stati raggruppati i dati disponibili relativi alle emissioni di buoni ordinari comunali (BOC) da parte delle amministrazioni dell’Umbria nel periodo 2003-2007, nella Tab. 22 sono state invece schematizzate le principali caratteristiche tecniche delle stesse emissioni. Tab. 22 - Emissioni di BOC delle amministrazioni comunali umbre. Valori assoluti e percentuali (2003 - 2007)

Ammontare totale emissioni 211.871,00 Ammontare medio emissioni 8.474,84 Ammontare emissioni a tasso variabile 89.990,00 % emissioni a tasso variabile sul totale 42,5 Ammontare emissioni a tasso fisso 121.881,00 % emissioni a tasso fisso sul totale 57,5 Durata emissione media 23 anni

Fonte: elaborazioni AUR su dati www.webifel.it

DENTRO L’UMBRIA due760

E’ opportuno ricordare che i BOC sono stati introdotti con la legge 8 giugno 1990, n. 142 e successivamente disciplinati con la legge 23/12/94 n. 724 e il successivo regolamento attuativo emanato il 29 gennaio 1996 dal Ministero del Tesoro12. Graf. 21 - Emissioni di Buoni Ordinari Comunali (BOC) delle amministrazioni comunali umbre. Valori assoluti (2003 -2007)

0

20.000

40.000

60.000

80.000

100.000

120.000

140.000

2003 2004 2005 2006 2007

amm

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sion

i (m

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0

1

2

3

4

5

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7

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mis

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iAmmontare di emissioni

Numero di emissioni

Fonte: elaborazioni AUR su dati www.webifel.it Nel caso dei titoli emessi da alcuni dei comuni dell’Umbria nel periodo preso in esame prevalgono le emissioni regolate a tasso fisso, 57,5% contro il 42,5% di quelle a tasso variabile. L’importo medio di ciascuna emissione è stato di poco inferiore ad 8,5 milioni di euro e la durata media all’emissione è stata di 23 anni. E’ interessante osservare come la gestione del debito accumulatosi negli ultimi anni ha sensibilmente influenzato la dinamica delle uscite e degli impegni di cassa. Le uscite dovute al rimborso dei prelievi effettuati a titolo di anticipazione dalla cassa e il rimborso dei prestiti obbligazionari in precedenza collocati si sono più che quadruplicate nel corso degli ultimi quattro anni a testimonianza del fatto che le spese per investimenti hanno trovato sempre più frequentemente copertura, a vario titolo, in queste forme di finanziamento. Dai dati della Tab. 23 e dal Graf. 22 si può desumere 12 I Boc sono titoli emessi dalle amministrazioni comunali per finanziare un determinato investimento. Tale investimento deve essere certo e definito sin dall'emissione dei titoli sul mercato primario. In sostanza, l'emissione dei Boc deve essere motivata esclusivamente dal finanziamento di un progetto specifico, esattamente individuato e corredata da un piano di ammortamento finanziario le cui rate devono essere comprensive, fin dal primo anno, di quota capitale e quota interessi.

AURAPPORTI: RES 2008-09 761

come le uscite per rimborso di anticipazioni di cassa siano passate in valori procapite da 8,4 € del 2003 a 59,8 del 2007 e i rimborsi di prestiti obbligazionari da 1,2 € a 9,0. Graf. 22 - Spese per rimborso prestiti delle amministrazioni comunali umbre: impegni. Numeri indice su valori nominali (2003 = 100)

50

150

250

350

450

550

650

750

850

2004 2005 2006 2007

num

eri i

ndic

e (2

003=

100)

Rimborso di anticipazioni di cassa Rimborso di quota capitale di mutui e prestitiRimborso di prestiti obbligazionari Totale spese per rimborso prestiti

Fonte: elaborazioni AUR su dati www.webifel.it Tab. 23 - Spese per rimborso prestiti delle amministrazioni comunali umbre: impegni per voce di bilancio. Valori pro capite in euro (2003-2007) Voci 2003 2004 2005 2006 2007 Rimborso di anticipazioni di cassa 8,44 10,46 8,35 15,12 59,88

Rimborso di finanziamenti a breve termine 0,00 0,22 0,00 9,04 0,00

Rimborso di quota capitale di mutui e prestiti 42,91 47,78 94,72 40,59 43,51

Rimborso di prestiti obbligazionari 1,25 2,45 3,34 7,54 9,05

Rimborso di quota capitale di debiti pluriennali 0,01 0,01 60,99 0,00 0,00 Totale spese per rimborso prestiti 52,60 60,92 167,41 72,30 112,53

Fonte: elaborazioni AUR su Certificati Consuntivi di Bilancio Sempre nel quadro del processo di deregolamentazione e di rafforzamento delle autonomie locali, nell’ultimo decennio, è scaturita per le amministrazioni comunali anche la possibilità di un maggiore impiego di strumenti da destinare alla copertura dei rischi finanziari soprattutto a seguito della L. 28/12/2001 (legge finanziaria 2002, art. 41) che autorizzò gli enti locali, consorzi tra enti territoriali e regioni la facoltà di “…emettere titoli obbligazionari e contrarre mutui con rimborso del capitale in unica soluzione alla scadenza, previa costituzione, al momento dell’emissione o dell’accensione, di un fondo di ammortamento del debito, o previa conclusione di swap per l’ammortamento del debito”. In termini

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operativi, il contenuto della norma citata rappresentò un esplicito invito agli enti a passare da una gestione passiva degli strumenti di debito, dell’instabilità e dell’imprevedibilità al cosiddetto financial risk management, inteso come modalità di controllo dei rischi finanziari, al fine di un equilibrato sviluppo dei flussi in entrata ed in uscita e della tutela della capacità di indebitamento. In sintesi, i benefici principali che si riteneva che gli enti locali avrebbero potuto conseguire da un’attenta applicazione del financial risk management e dall’utilizzo degli strumenti della finanza derivata consistono: - nel superamento di una visione statica del debito residuo rappresentato da mutui e

prestiti obbligazionari; - nella possibilità di intervenire sulle caratteristiche del passivo, evitando di erodere i

margini disponibili del plafond di indebitamento massimo; - nella possibilità di ridefinire i flussi finanziari derivanti da una determinata struttura

del passivo; - nello sfruttamento a proprio vantaggio qualsiasi movimento della curva dei tassi di

interesse a termine; - nella stabilizzazione delle condizioni di equilibrio finanziario, grazie alla possibilità

di ottimizzare il costo dell’indebitamento in relazione all’andamento dei tassi di interesse di mercato;

- nella creazione di margini di manovra finanziaria più ampi da destinare alle spese per investimenti;

- nella possibilità di migliorare il proprio rating per effetto della ristrutturazione dei debiti pregressi.

In una prima fase (triennio 2002-2004), da parte degli amministratori di molti Enti locali venne quasi completamente trascurata la necessità di un utilizzo degli strumenti derivati improntata ad una logica non speculativa e si operò spesso con orizzonti di valutazione di breve periodo, non considerando adeguatamente l’inaffidabilità di previsioni pluriennali sull’andamento dei tassi di interesse e gli effetti moltiplicativi dei rischi intrinseci alla struttura degli strumenti stessi. E’ opportuno, a questo proposito, ricordare le regole prudenziali minime che avrebbero dovuto guidare e delimitare l’attività degli Enti pubblici in questo comparto: 1) l’accensione di contratti su strumenti derivati può avvenire solo in presenza di un

debito il cui ammontare massimo fissa il capitale nozionale di riferimento; 2) l’utilizzo di strumenti derivati non deve produrre effetti sul grado di leverage e, di

conseguenza, non deve modificare l’ammontare del debito in essere; 3) la logica ispiratrice dell’attività in derivati deve essere diretta al perseguimento della

diversificazione del profilo di rischio del debito complessivamente inteso, mirando ad un mix ottimale tra le condizioni di tasso applicate alle singole operazioni in relazione all’andamento previsto dei rendimenti di mercato;

4) le condizioni contrattuali, la natura e la solvibilità della controparte devono garantire l’assenza di rischio di inadempimento;

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5) l’avvio dell’impegno nel comparto degli strumenti derivati comporta, contemporaneamente, la stesura e l’applicazione di efficaci programmi di gestione della liquidità (detenuta al di fuori del regime di tesoreria unica) tesi a massimizzare il rendimento delle giacenze liquide, eventualmente generate dagli strumenti stessi, per ridurre in tal modo i costi del debito.

Graf. 23 - Numero di contratti in derivati stipulati dalle pubbliche amministrazioni locali in Italia (2002-08) Fonte: Lazzeri S., Un quadro quantitativo e regolamentare per i derivati nelle P.A. locali, in Nadotti L. (a cura di), I derivati nelle P.A. locali, Milano, Franco Angeli, 2009. Nel recente passato, le esigenze dei gestori degli enti pubblici locali hanno trovato come contropartita più frequente la proposta da parte di banche di contratti F.R.A. (forward rate agreement) mediante i quali due parti si obbligano a corrispondersi, ad una data futura stabilita, un importo calcolato come differenza fra gli interessi che maturano, a partire da una data futura, sulla base di un tasso fisso e quelli calcolati sulla base di un tasso variabile che verrà osservato in una data successiva a quella di stipulazione del contratto. La determinazione degli interessi avviene con riferimento ad un capitale nozionale (nel caso specifico rappresentato dalla consistenza del debito residuo relativo ai mutui di cui l’ente è debitore) e per una certa durata temporale. Novità vennero successivamente introdotte con l’art. 41 del Decreto 1 dicembre 2003, n. 389. Con esso, fermo restando l’obbligo della copertura del rischio di cambio mediante swap per le emissioni in valute diverse dall’euro, vennero individuate le operazioni in strumenti derivati che, in base alle correnti tipologie presenti sul mercato, potevano essere concluse con l’obiettivo di conferire maggiore solidità al bilancio degli enti pubblici locali. Questo soprattutto mediante l’esplicito collegamento tra passività

020406080

100120140160180200220240

ante 2002 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

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sottostanti effettivamente in essere ed operazioni derivate per la copertura del rischio di cambio o di tasso, in modo tale da evitare rischiose esposizioni “sintetiche” che non avessero trovato diretta corrispondenza nell’indebitamento dell’ente contraente. Tra i vari strumenti derivati scambiati sul mercato, vennero esplicitamente elencati quelli con il profilo di rischio più contenuto o che avessero ridotto l’esposizione ai rischi assunti in precedenza. Inoltre, la preoccupazione di evitare il trasferimento dei costi dell’indebitamento contratto su esercizi futuri indusse ad escludere il differimento della scadenza delle operazioni in derivati rispetto a quella del nozionale sottostante. Si stabilì, tra l’altro, che la ristrutturazione di una passività esistente non dovesse produrre un “profilo crescente dei valori attuali” dei flussi di pagamento da parte dell’ente. Il fine di contenere l’esposizione al rischio dell’ente fu perseguito, inoltre, con la disposizione contenuta al quarto comma dello stesso art. 41, che ribadisce il requisito dell’adeguato merito di credito (rating) degli intermediari controparti dei contratti derivati e introduce l’indicazione di suddividere tra più controparti il totale di operazioni derivate poste in essere (oltre l’ammontare complessivo di 100 milioni di euro). Il Dipartimento del Tesoro, considerata la particolare complessità della materia, intervenne successivamente con una circolare esplicativa del D.M. del 1 dicembre 2003, n. 389 indirizzata agli enti territoriali, alle autorità di controllo ed al sistema bancario, affinché le disposizioni contenute nel regolamento potessero essere interpretate in modo conforme allo spirito della normativa. Si sottolineò, con essa, il potenziale di rischio legato all’operatività in derivati e, per gli intermediari, l’obbligo di rendere totalmente consapevole e trasparente l’assunzione di tali rischi da parte degli enti. Con tale provvedimento vennero chiaramente esplicitate le categorie di operazioni che gli enti avrebbero potuto negoziare: - swap su tassi di interesse; - acquisto di cap di tasso di interesse, in cui viene stabilito un livello soglia del tasso

variabile oltre il quale l’acquirente del cap (in questo caso l’ente) paga un tasso fisso predeterminato;

- acquisto di collar di tasso di interesse, in cui all’ente acquirente viene garantito un livello di tasso di interesse da corrispondere, oscillante all’interno di una fascia avendo prestabiliti minimo ed un massimo;

- acquisto di forward rate agreement, contratti in cui due parti concordano il tasso di interesse che l’acquirente del forward si impegna a pagare su un capitale stabilito ad una determinata data futura.

Si prescrisse inoltre che tali operazioni potessero essere negoziate con la tecnica “plain vanilla”, ovvero nella forma più semplice e priva di qualsiasi clausola che potesse essere per l’ente fonte di ulteriori rischi finanziari. La legge 24 dicembre 2007, n. 244 (legge Finanziaria 2008), con alcune specifiche prescrizioni in essa contenute, ha introdotto ulteriori elementi di maggior trasparenza nei termini contrattuali delle operazioni in questione, sulla base degli schemi proposti dall’associazione internazionale ISDA (International Swaps and Derivatives Association). In particolare, si è stabilito di specificare un insieme di elementi informativi che diano consapevolezza alla controparte ente pubblico

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dei contenuti dei contratti e degli effetti in termini di rischio insiti nelle stesse operazioni, demandando ad un successivo decreto – da emanare sentite Consob e Banca d’Italia – i dettagli tecnici necessari al raggiungimento di tale obiettivo. Infine, con l’art. 62 del d.l. 25 giugno 2008, n. 112 convertito con modificazioni nella legge 6 agosto 2008, n. 133, il legislatore ha stabilito ulteriori vincoli all’operatività in derivati da parte degli enti pubblici. E’ stato previsto, infatti, il «divieto di stipulare fino alla data di entrata in vigore del regolamento di cui al comma 2, e comunque per il periodo di un anno decorrente dalla data di entrata in vigore del presente decreto, contratti relativi agli strumenti finanziari derivati», congelando di fatto l’operatività che è stata limitata alla sola chiusura anticipata di operazioni già in essere e facendo rinvio ad un regolamento, attualmente in corso di elaborazione, per quanto attiene alla «tipologia dei contratti finanziari derivati» negoziabili dagli enti pubblici. La sintesi del quadro normativo appena tracciata è testimonianza delle difficoltà che gli enti pubblici locali si sono trovati ad affrontare utilizzando gli strumenti derivati per la gestione dei propri debiti, in particolare esse hanno riguardato: 1) l’impossibilità di procedere ad una corretta stima del rischio in corso, insito in queste

operazioni, soprattutto da parte di quelle amministrazioni pubbliche più piccole, sprovviste di uffici finanziari e personale adeguatamente formato;

2) lo squilibrio evidente nella forza contrattuale dei contraenti – banca da una parte ed ente pubblico locale dall’altra – causato dalla predetta asimmetria informativa;

3) l’azzardo morale insito nel comportamento degli amministratori pubblici, indotti dalla presenza di un beneficio immediato (la riscossione dell’up-front) a sottovalutare rischi, spesso trasferiti ai propri successori;

4) l’assenza di regole chiare in materia di trasparenza e di rappresentazione contabile dei rischi stessi da parte delle amministrazioni interessate.

Per quanto concerne le amministrazioni comunali dell’Umbria è stato possibile costruire, grazie ai dati forniti dal Ministero dell’Economia e delle Finanze13 una situazione che traccia il quadro quantitativo del fenomeno e le variazioni intervenute nel corso dell’ultimo anno del periodo esaminato, ovvero del 2007. Il contenuto della Tab. 24 dà conto di un fenomeno, l’uso dei contratti derivati per la gestione del debito nei comuni, piuttosto diffuso e di dimensioni rilevanti anche in una regione relativamente piccola come l’Umbria. Alla fine del 2007 quindici comuni avevano posizioni “aperte” in contratti derivati e alcuni di essi detenevano più contratti contemporaneamente essendo il numero complessivo di questi ultimi pari a 25 unità. Il capitale nozionale relativo a posizione debitorie in essere da parte dei comuni che, sempre alla fine del 2007, era stato preso come riferimento per i predetti contratti era pari a 415,2 milioni di € ed era aumentato nel corso del medesimo anno di 82,5 milioni di € corrispondenti ad un incremento percentuale in ragione annua del 25,8%.

13 Gli autori esprimono il proprio sentito ringraziamento al Dott. Stefano Lazzeri della Direzione II del Ministero dell’Economia e delle Finanze per la cortese collaborazione prestata

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Tab. 24 - Riepilogo contratti derivati stipulati dai comuni dell’Umbria e trasmessi al Ministero dell’Economia e delle Finanze nel corso del 2007. Situazione al: 1 gennaio 2007

Tipologia Ente Capitale nozionale Numero enti interessati

Numero contratti

Comuni capoluogo € 193.384.749,74 1 5 Comuni non capoluogo

€ 139.238.672,71 13 17

TOTALE € 332.623.422,45 14 22 Situazione al: 31 dicembre 2007

Tipologia Ente Capitale nozionale Numero enti interessati

Numero contratti

Comuni capoluogo € 243.362.835,94 2 7 Comuni non capoluogo

€ 171.824.393,01 13 18

TOTALE € 415.187.228,95 15 25 Fonte: dati aggregati relativi alle segnalazioni effettuate dagli enti al Dipartimento del Tesoro, Direzione II

A parere di chi scrive, l’assunzione di rischi ai fini della corretta gestione del debito da parte delle amministrazioni locali non solo dovrebbe essere possibile ma, a determinate condizioni ed in particolari circostanze, potrebbe essere utile al fine di compensare tendenze impreviste nell’andamento del ciclo economico. Ciò che ha sollevato e continua a sollevare le maggiori perplessità è l’insieme di regole che devono presiedere alla gestione dei proventi percepiti alla stipula dei contratti e il sistema di monitoraggio, negli anni successivi, dei rischi in corso in relazione all’evoluzione della congiuntura, delle politiche di spesa corrente e per gli investimenti. È opinione diffusa, infatti, che raramente all’incasso degli up-front abbia fatto riscontro una reale politica di gestione del rischio per tutta la durata delle operazioni in derivati. In alcuni casi sciagurati, le stesse entrate sono state destinate al finanziamento delle spese di parte corrente del bilancio piuttosto che – come sarebbe stato legittimo aspettarsi – essere trattate come una sorta di indebitamento aggiuntivo, proprio perché fonte di rischio incrementale. Si è sottolineato, inoltre, come sarebbe stato opportuno che i proventi immediati delle negoziazioni avessero dato luogo da parte delle amministrazioni beneficiarie ad accantonamenti prudenziali che, gestiti al di fuori del regime di Tesoreria unica, avrebbero potuto essere utilizzati per investimenti fruttiferi, quale fondo di riserva da impiegare e da smobilizzare gradualmente, in relazione alla riduzione del rischio. In alcuni casi documentati la ristrutturazione del debito a medio-lungo termine ha dato luogo ad un miglioramento del giudizio di affidabilità complessiva di alcuni enti che, avendo utilizzato correttamente i derivati, sono riusciti migliorare il loro rating con un beneficio diretto nel collocamento di titoli obbligazionari di propria emissione. I problemi maggiori sia sul piano formale, sia soprattutto da un punto di vista sostanziale sono stati riscontrati, invece, in occasione di manovre che, attraverso l’uso di tali strumenti, hanno teso a soddisfare esigenze contingenti di bilancio o, peggio ancora, la copertura di disavanzi di parte corrente.

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Osservazioni conclusive Il presente studio, come dichiarato nel suo titolo, intende essere una prima ricognizione in tema di analisi della gestione finanziaria delle amministrazioni comunali umbre. I dati desunti dai certificati del conto di bilancio che i comuni devono redigere con cadenza annuale, quelli tratti dai bilanci prelevati direttamente dal database del Ministero dell’Interno e quelli diffusi direttamente da Istat rappresentano una completa, omogenea e ricchissima fonte di informazioni che, in queste pagine, è stata esposta e commentata in estrema sintesi. Il risultato che si ritiene di avere conseguito è quello di una rappresentazione numerica definita di alcune linee di tendenza percepite nella gestione degli enti comunali della regione. L’analisi delle entrate e delle uscite ha consentito di tracciare in estrema sintesi un quadro preoccupante della situazione, soprattutto, alla luce della imminente traduzione in regole di carattere amministrativo ed operativo delle recenti disposizioni contenute nella legge delega in materia di federalismo fiscale14. La maggior parte delle amministrazioni e, in particolare quelle di piccole dimensioni, non pare ancora in condizione di gestire adeguatamente la leva tributaria al fine di promuovere una pianificazione finanziaria “di legislatura”. I dati esaminati in forma aggregata inducono a considerazioni in senso opposto. Gli effetti delle politiche volte alla riduzione ed alla stabilizzazione delle spese correnti hanno notevolmente compresso le possibilità per gli enti stessi di promuovere programmi di investimento tesi al miglioramento delle dotazioni infrastrutturali ed alla loro manutenzione. Nel periodo esaminato si sono sensibilmente ridotte le disponibilità di spesa e questo ha finito per scaricarsi in settori di destinazione quali istruzione, cultura e infrastrutture e viabilità. La situazione finanziaria degli enti comunali è oggi particolarmente critica, a causa dei vincoli del Patto di stabilità interno che opereranno in modo ancor più stringente per l’anno appena cominciato, della mancata restituzione integrale ai comuni del minor gettito derivante dall’abolizione dell’ICI sull’abitazione principale e dell’ulteriore riduzione dei trasferimenti dallo Stato per il 2010. Da recenti atti parlamentari si è appreso che le regole vigenti in materia di Patto di stabilità interno, tendendo a ridurre le differenze negative tra entrate e uscite, hanno l’effetto di creare residui passivi (debiti) nei bilanci degli enti locali, che sono stati recentemente stimati in ben 44 miliardi di euro per l’anno 2009; tali ingenti risorse risultano congelate mentre comuni e province non riescono né a procedere a nuovi investimenti, né a pagare gli stati di avanzamento di opere già appaltate, con conseguenze estremamente negative, attestate dalla riduzione della capacità di spesa di cui si è detto, sulle imprese e sulla crisi economica e sociale in atto. Da più parti è stata sottolineata la necessità di favorire gli investimenti degli enti locali, soprattutto nei settori dell’edilizia scolastica, della messa in sicurezza del territorio e della mobilità, escludendo le relative spese dal Patto di stabilità per i

14 Cfr. Legge 5 maggio 2009, n. 42 (pubblicata in Gazzetta Ufficiale 6 maggio 2009, n. 103) in materia di federalismo fiscale.

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prossimi anni o, quantomeno, escludendo da tali vincoli il cofinanziamento di opere autorizzate dal CIPE. Molti comuni virtuosi si sono trovati nella impossibilità materiale di rispettare i vincoli del Patto di stabilità interno per il 2009, con la conseguenza di dover subire pesanti sanzioni a partire dal 2010. Le amministrazioni comunali hanno visto aumentare e mutare i propri compiti, e sono state in qualche modo investiti del ruolo di garanti delle condizioni di sviluppo e promotori dei fattori necessari perché le potenzialità del territorio possano tendere all’obiettivo della crescita sostenibile, secondo un modello che vede le forze economiche e sociali delle aree interessate orientate a fare “sistema” con l’amministrazione centrale. I cambiamenti verificatisi negli ultimi anni nelle condizioni di contesto e di ruolo, inducono, pertanto, ad un notevole impegno anche per quanto concerne l’elaborazione di piani e strategie volte al reperimento e allocazione delle risorse. Al momento, infatti, l’effettiva realizzazione del federalismo non pare comportare un proporzionale ed adeguato trasferimento di risorse, neppure in termini di maggiore concreta autonomia impositiva che, per diventare effettiva, richiederebbe un rapido processo di revisione costituzionale. La riduzione dei tassi di rendimento di mercato già a partire dal 1996 ha mutato, per gli enti comunali, i termini delle valutazioni di convenienza comparata tra diverse fonti di finanziamento e ha obbligato i gestori della finanza degli enti pubblici locali, come si è accennato in precedenza, ad operare attivamente nel campo della gestione del rischio di tasso di interesse e della gestione attiva del debito. In questo quadro, complesso e in rapido divenire, si innesta un importante processo di riforma legislativa che indirizza gli enti verso determinate soluzioni e crea le condizioni per sfruttare il favorevole andamento dei mercati finanziari. Come si è potuto dimostrare, questa circostanza, a causa di frequenti casi di un utilizzo non corretto dei cosiddetti strumenti derivati, si è trasformata da opportunità in ulteriore fattore generatore di rischi e difficoltà sul piano finanziario. A partire dai primi anni ‘90, sul piano normativo, per le amministrazioni comunali, la possibilità di emettere prestiti obbligazionari, ribadita successivamente da altre disposizioni legislative e regolamentari che prevedevano la possibilità per gli enti stessi di finanziare gli investimenti con forme di ricorso al mercato finanziario alternative a quelle tradizionali, ha significato l’abbandono, più formale che sostanziale, del regime di monopolio degli intermediari finanziari istituzionali. Così mentre l’ente locale assume sempre più il ruolo di promotore e facilitatore dello sviluppo del proprio territorio, anche in conseguenza di un significativo trasferimento di competenze dal “centro” alla “periferia”15, il Legislatore, se non può accrescere le risorse a disposizione per le citate restrizioni, apre almeno crescenti spazi di manovra per il reperimento di nuove possibilità di finanziamento. Parallelamente, a causa dei mutamenti economico istituzionali a cui si è fatto cenno, il sistema bancario è oggi

15 Cfr. la legge 15 marzo 1997, n. 59 e i decreti legislativi di attuazione, nonché la riforma del titolo V della Costituzione a seguito dell’entrata in vigore della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.

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chiamato a svolgere un ruolo di primaria importanza a fianco degli enti pubblici locali: da un lato la riduzione dei trasferimenti da parte dell’erario dello Stato e dall’altro una prospettiva di crescente autonomia finanziaria sia di entrata, sia di spesa, inducono le amministrazioni pubbliche locali alla ricerca di fonti di finanziamento a titolo di debito indispensabili per gli investimenti. Per questi motivi, le banche non solo devono adeguare la loro offerta ad nuove esigenze nuove e diversificate delle amministrazioni pubbliche locali, ma sono di fatto obbligate ad adattare i nuovi prodotti in funzione dei vincoli normativi e della domanda di trasparenza proveniente da questo segmento del mercato. L’attività delle banche, nel segmento di mercato costituito dalla finanza degli enti pubblici locali, potrebbe in prospettiva assumere forme diverse da quelle fino ad oggi praticate e rappresentate prevalentemente nelle concessione di prestiti, affiancando ad esse, quella di consulenza di tipo corporate e di advisoring.

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