Upload
unito
View
2
Download
0
Embed Size (px)
Citation preview
Sul del debito pubblico.
In questi ultimi anni sono entrati gradualmente a far parte del nostro linguaggio comune
sempre più termini di matrice tecnico-economica. Questa ingerenza del linguaggio tecnico-
economico nella quotidianità è stata causata dal progressivo inasprimento della crisi nel Sud
Europa, e grazie al massiccio uso che ne hanno fatto i media e i social network è diventato
argomento di conversazione di tutti i giorni. Mano a mano che la crisi si acutizzava, termini
come debito pubblico, rapporto deficit-PIL, austerità fiscale e spread, assumevano maggiore
visibilità ed importanza.
Tendenze macroeconomiche stanno sempre più condizionando e indebolendo le posizioni
economiche dei cittadini dei Paesi del Sud Europa: ad esempio soltanto in Italia dal 2008 al
2012 si è avuta una perdita del potere d’acquisto pari al 11,8%1, disoccupazione giovanile al
38,4%2 e pressione fiscale al 52%3. In Europa dall’inizio della crisi si è registrata la scomparsa di
4 milioni di posti di lavoro. Questi sono soltanto alcuni dati che descrivono il dramma
attraversato in questi anni dall’Italia e più in generale da tutto il Sud Europa.
In questo scritto tenterò di mettere in luce le dinamiche avvenute negli ultimi anni e in
particolar modo al ruolo svolto dal debito pubblico, prendendo ad esempio l’evoluzione storica
e costruendo un’analisi sulla sostenibilità del debito. L’ultima parte dello scritto analizzerò le
relative politiche correttive attuate dai Stati membri e dalle istituzioni europee.
1 http://www.rainews24.rai.it/it/news.php?newsid=168828
2 http://www.istat.it/it/archivio/89120
3 http://www.corriere.it/economia/13_aprile_05/fisco-pressione-istat_f52f1f00-9dd5-11e2-9da0-
834a30d18cb2.shtml
1. Breve cronaca della crisi
19 ottobre 2009: il neo-eletto presidente alla guida del governo greco, il socialista George
Papandreu denuncia la presenza di un ‘black hole’ all’interno dei conti pubblici che fa
aumentare il deficit di quell’anno fino al 12,7%4 del PIL, con il relativo rischio di bancarotta
del paese5. Questa data rappresenta la prima tessera caduta del domino della crisi
europea. A seguito della notizia del buco all’interno dei conti pubblici le agenzie di rating
iniziarono a degradare il rating dei bond ellenici fino a raggiungere lo status di junk bond
innescando una spirale di sfiducia nei mercati internazionali sulla capacità della Grecia di
ripagare il debito pubblico, con eventuali conseguenze di contagio. Infatti all’interno dei
conti delle banche commerciali di tutta Europa si ha la presenza, con percentuali diverse,
di titoli greci, che a seguito delle ripetute svalutazioni ha rischiato di innescare il crollo del
sistema bancario europeo. Il 90% dei titoli del debito greco sono all’interno dell’Unione
Europea e le banche più esposte sono francesi (15 miliardi) e tedesche (22.65 miliardi),
mentre l’esposizione del sistema bancario italiano verso i titoli di stato greci è più limitato
ed è pari a 2,35 miliardi di euro.
Nel tentativo di ricostruire una fiducia nei confronti del paese, il governo greco vara una
serie di tagli alla spesa pubblica con l’obiettivo di ridurre il deficit intorno al 10,7% del PIL.
La manovra si rivelò inadeguata in confronto alle dimensioni della crisi, ed infatti, a seguito
del acutizzarsi della situazione, il governo greco a maggio del 2011 è stato costretto a
varare un pacchetto di salvataggio di 110 miliardi di euro di aiuti in 3 anni, di cui 30 miliardi
da parte del Fondo Monetario Internazionale e gli altri 80 da parte dei stati dell’unione
europea (Germania 22,4mld, Francia 16,80, Italia 14,70 mld)6. Nei mesi successivi la
situazione non sembra migliorare e le agenzie di rating, che hanno svolto un ruolo centrale
nella crisi del debito greco, hanno continuato con il downgrading dei titoli del debito, cosa
4 Le previsioni sul deficit per il 2009 erano del 3.7% del PIL
5 http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Mondo/2009/11/grecia-orlo-
bancarotta.shtml?uuid=71baf5d6-d5a6-11de-9e90-c4c9d04cccfb&DocRulesView=Libero 6 http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/dossier/Economia%20e%20Lavoro/2010/crisi-
grecia/approfondimenti/aiuti-ue-fmi-grecia-grafico-interattivo.shtml?uuid=32f3f054-56da-11df-a6ca-2846584c0201&DocRulesView=Libero
che ha spinto il governo greco ad attuare ulteriori tagli alla spesa pubblica e ad aumentare
la pressione fiscale. Nel 2011 il governo si vede costretto a mettere in mobilità 30.000
dipendenti pubblici e ad implementare una nuova tassa sugli immobili. I tassi di
disoccupazione salgono fino ad arrivare a 17% ed il malessere sociale si manifesta
animatamente con scontri cruenti tra le forze dell’ordine e manifestanti.
Nel frattempo il panico si espandeva nei paesi periferici della zona euro: la Spagna dovette
fare i conti con la bolla immobiliare che aveva alimentato la crescita con tassi di crescita
del PIL intorno al 2,5% attraverso il progressivo indebitamento ipotecario privato legato
all’aumento dei prezzi delle abitazioni. Negli anni 2000 la Spagna ha registrato elevati
aumenti dei salari con conseguente aumento della domanda per importazioni, provocando
esplosione della posizione deficitaria della bilancia commerciale spagnola, pari al 10% del
PIL. Con l’esplosione della bolla immobiliare avvenuta contestualmente con quella
americana nel 2008, la Spagna si è ritrovata con un forte indebitamento privato, le famiglie
non riuscirono a ripagare i propri debiti e furono costrette allo sfratto dalle banche, che si
ritrovarono una mole importante di crediti non rispettati nei propri bilanci, con buona
responsabilità degli stessi istituti bancari che negli anni hanno sponsorizzato il “credito
facile e spavaldo”. L’Unione Europea per ovviare al rischio collasso del sistema bancario
spagnolo approvò un piano di salvataggio consistente in un maxi-prestito di 100miliardi di
euro che impegnava il governo iberico ad attuare maggiori misure di controllo sul sistema
bancario e un pacchetto di tagli alla spesa pubblica ed aumento della pressione fiscale per
un totale di 65 miliardi di euro7. L’indomani dello scoppio della bolla speculativa la Spagna
si ritrovò con salari relativamente elevati in confronto alla produttività reale delle imprese,
questo ha provocato l’innalzamento della disoccupazione fino a raggiungere il 26% della
disoccupazione e 50% di disoccupazione giovanile. Non avendo la possibilità di svalutare la
propria moneta per poter tornare competitivi, e seguendo i dettami della teoria
neoclassica, il governo spagnolo ha attuato quella che viene chiamata “svalutazione
interna”, ossia una serie di misure volte a ridurre il costo del lavoro attraverso maggiore
flessibilità del mercato del lavoro, riduzione dei salari, minor protezione sindacale e
sociale. La svalutazione interna è stata attuata in tutte le economie degli stati periferici in
quanto la zona euro soffre di asimmetrie di produttività che vede la Germania in una
posizione predominante nei confronti degli stati periferici. Ma la svalutazione interna si
7 http://www.guardian.co.uk/business/2012/jul/11/mariano-rajoy-spain-65bn-cuts
tratta di una cosa molto difficile da attuare, perché i salari sono rigidi verso il basso:
diminuiscono molto lentamente e a fatica, anche in presenza di una disoccupazione
altissima, senza poi considerare gli incalcolabili costi sociali che questa comporta.
Ho voluto portare l’esempio della Grecia e della Spagna perché li considero due casi ben
distinti con ragioni e cause diverse: Il caso greco con un chiaro problema di conti nazionali
con vorgini nei bilanci pubblici, e il caso spagnolo, che meglio descrive una crisi di tipo
strutturale che colpisce sistematicamente i paesi periferici della zona euro: il centro
dell’unione europea (leggi Germania) con tassi elevati di produttività con bilance
commerciali fortemente attive, contrapposto alla periferia in costante deficit commerciale,
costretta a svalutazioni interne per poter tornare a produrre. Infatti non è propriamente
corretto parlare di “crisi del debito” quando si parla della crisi che colpisce i paesi del Sud
europeo. Prendiamo ad esempio il caso spagnolo (molto simile al caso irlandese): nel 2007,
ossia l’anno che ha preceduto la crisi, il debito pubblico spagnolo era inferiore al 40% del
pil, ben al di sotto del 60% rapporto debito/pil indicato dal Trattato di Maastricht. Secondo
Paul Krugman l’errore più grave commesso dall’Unione Europea è quello di
”ellenizzazione” del discorso economico europea, ovvero “[…]la convinzione che la crisi
europea sia causata essenzialmente dall’irresponsabilità fiscale.[…] Infatti anche nel caso
dell’Irlanda il debito sul PIL prima della crisi era basso.[…] Tutti i paesi del sud Europa negli
anni pre-crisi facevano registrare una tendenziale diminuzione del debito pubblico, come
dimostrato dal grafico che ci mostra una media ponderata, in base al PIL, dei rapporti
debito/PIL relativi a cinque paesi in crisi (Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia).” 8
RAPPORTO DEBITO/PIL PAESI SUD EUROPA
8 P. Krugman “fuori da questa crisi, adesso!” p.201-202
Fino all’esplosione della crisi i paesi periferici tendevano ad un miglioramento medio della
propria posizione debitoria, e solo a seguito della crisi il debito pubblico è esploso.
Ora approfondiamo il caso del debito sovrano italiano, come sia giunto ad un ammontare così
elevato e cerchiamo di analizzare e trarre qualche conclusione sulla sostenibilità per tentare di
capire se effettivamente l’importo del debito sia stata la vera causa dell’attuale crisi.
2. Dinamiche del debito pubblico italiano
Sin dal Trattato di Maastricht, la linea di politica economica europea impone un rigido
controllo dei conti pubblici, ed in particolare il debito pubblico sotto la soglia del 60% del
rapporto debito-PIL e il rapporto deficit-PIL inferiore al 3%. A seguito della crisi del debito
greco, i riflettori sono stati puntati sui conti nazionali degli altri stati europei ed in particolar
modo sul nostro debito sovrano perché storicamente elevato quindi a rischio.
Nel grafico sottostante vediamo la dinamica negli anni del debito pubblico italiano.
Rapporto Debito Pubblico/PIL9
9 http://www.blia.it/debitopubblico/index.php
Il periodo che prenderemo in considerazione va dagli anni 70 fino ad oggi in quanto nel
periodo post bellico il debito italiano non ha fatto registrare particolari problematiche.
Tutto il decennio 1970-1980 è stato caratterizzato da una rilevante inflazione, superiore a
quella dei principali paesi, per le ripetute svalutazioni della lira, da una crescita ancora
sostenuta intorno al 3% medio, e da tassi di interesse reali fortemente negativi resi possibili
dall’impostazione permissiva della politica monetaria degli Stati Uniti. A partire dal 1973 il
saldo del bilancio pubblico è diventato fortemente negativo (nella media del periodo intorno al
10% annuo) per effetto dell’aumento delle spese (circa 10 punti di prodotto interno di cui 4
per interessi) e di una stagnazione del gettito che solo alla fine degli anni 70 superarono i livelli
di inizio decennio.
La vera esplosione della situazione debitoria dell’Italia si è avuto nel 1981, a seguito del
“divorzio” tra Banca d’Italia e Tesoro: I titoli del debito emessi dal Tesoro che rimanevano
invenduti sul mercato venivano acquisiti dalla Banca d’Italia attraverso la stampa di nuova
moneta. Questo meccanismo permetteva di finanziare il debito a bassi tassi di interesse.
Venuto meno il meccanismo, i tassi d’interesse aumentarono vertiginosamente (tra il 1981 e il
1992 i tassi d’interesse oscillarono tra il 12% e il 20%) e conseguentemente aumentò anche il
debito pubblico, che passò dal 58% del PIL nel 1981 al 80% nel 1985. La separazione tra la
Banca Centrale e Tesoro rientrava in una serie di manovre neoliberiste attuate anche dagli
Stati Uniti con la presidenze Reagan, dove comportò un aumento dei tassi d’interesse. In
Europa il “divorzio” tra i due istituti fu un requisito indispensabile in prospettiva di accesso
prima nello SME, poi nella moneta unica. Il motivo per il quale era necessaria la separazione
tra gli istituti era quello di controllo dell’inflazione, infatti l’acquisto di titoli di stato da parte
della Banca centrale attraverso la stampa di moneta comporta un aumento della massa
monetaria, quindi dell’inflazione. La Germania, che negli anni successivi alla prima guerra
mondiale ha dovuto sopportare una spaventosa iperinflazione, ora considera una priorità
assoluta il controllo dell’inflazione ed ha premuto fortemente per ascrivere come dogma il
controllo dell’inflazione come competenza della BCE.
Com’è visibile dal grafico soprastante, gli anni 80 sono stati caratterizzati dall’aumento
vertiginoso del debito pubblico, per arrivare all’apice nel 1994 quando raggiunse il 124% del
PIL. In questo periodo deve essere sottolineata la passività delle nostre autorità di politica
economica che hanno assistito inerti all’evoluzione della nostra finanza pubblica, forse
soddisfatte del fatto che a tassi di interesse reali così elevati fosse comunque possibile il
finanziamento del debito pubblico. Soltanto a seguito dell’attacco speculativo avvenuto del
1992 nei confronti della Lira si attuarono manovre volte al riequilibrio delle finanze pubbliche
che ebbero effetti soltanto sul medio periodo.
I rendimenti delle obbligazioni governative a 10 anni di sette paesi europe10
Come possiamo osservare dal grafico, a partire dal 1994 i tassi di interessi dei debiti sovrani dei
Paesi dell’Unione Europea iniziano a convergere intorno ad uno stesso tasso di interesse.
Questo effetto lo si è dovuto alla ratifica del Trattato di Maastricht e all’adesione alla moneta
unica. L’adesione alla moneta unica ha comportato maggiore fiducia nei confronti del progetto
europeo, facendo avvalere i Paesi aderenti a tassi di interessi sul debito relativamente bassi
per tutti gli Stati. Ma i tassi si sono mantenuti bassi soltanto fino alla prima avvisaglia di una
crisi, ovvero al fallimento della Lehman Brothers avvenuto nel 2008. La definitiva divergenza
tra i tassi d’interesse pagati sui debiti sovrani dei paesi dell’Unione si è avuta a seguito della
crisi greca nel 2009. Da quel momento si vengono a determinare due movimenti differenti: un
gruppo di Paesi virtuosi che riescono a mantenere bassi i tassi (Germania e Francia), e Paesi
(Grecia, Portogallo, Spagna e Italia) che sono costretti ad aumentare i rendimenti a seguito
degli attacchi speculativi.
Negli anni ultimi 5 anni, tutti i Paesi periferici dell’Europa hanno registrato preoccupanti
risultati per quanto riguarda l’incremento dei debiti pubblici11:
10
Il grafico è tratto dal rapporto intitolato “Due possibilità per risolvere la crisi del debito europeo” e curato da John Greenwood, Chief Economist, Invesco Ltd, 22 maggio 2012.
2008 2012
Grecia 112,9% 156,9%
Italia 106,1% 127%
Spagna 40,2% 84,2&
Irlanda 44,5% 117,6%
Portogallo 71,7% 123,6%
I meccanismi che hanno causato l’esplosione dei debiti pubblici sono i seguenti:
Aumento dei tassi d’interesse sul debito
Maggiore spesa pubblica destinata al salvataggio dei sistemi bancari
Maggiori spese sociali come cassa integrazione, assegni di disoccupazione e altri
strumenti di protezione sociale
Effetto di contrazione del PIL: austerità e tagli alla spesa pubblica hanno comportato
una contrazione del PIL che ha fatto aumentare il rapporto fra debito e PIL stesso. Su
questo punto ci torneremo più avanti.
2.1. Sulla sostenibilità del debito pubblico Italiano
Come abbiamo già visto, non c’è condivisione sulla definizione di sostenibilità del debito
pubblico, e per cercare di analizzare la situazione del debito pubblico Italiano prendiamo in
riferimento la definizione di sostenibilità fatta da Blanchard: “Il debito pubblico è sostenibile
se, ad un dato livello iniziale di stock, il rapporto debito-PIL si mantiene costante, o tende al
livello iniziale.“
Per poter approfondire la dinamica del debito dobbiamo far riferimento al deficit o surplus
pubblico in rapporto al PIL, ovvero la differenza tra quanto uno Stato riceve dalle imposte e
quanto uno Stato spende, il tutto rapportato al PIL (Entrate fiscali-Spesa Pubblica/PIL). Se la
11
Dati forniti da Eurostat
differenza è positiva ci troveremo un surplus pubblico, mentre se negativa un deficit. La
somma di tutti i deficit di ogni anno va a formare il debito complessivo pubblico.
Qui di seguito vengono riportati i deficit su base annua degli ultimi anni fatti registrare
dall’Italia12:
osservando l’andamento dei deficit pubblici, a prima vista notiamo che la posizione dell’Italia è
stata sempre deficitaria, anche oltre i parametri di Maastricht (3%). Però se ci soffermiamo
sugli anni subito antecedenti la crisi notiamo che il deficit tendeva a diminuire (nel 2007 era
pari a -1,59) anche grazie ai relativamente bassi tassi d’interesse pagati sul debito.
Se osserviamo invece i saldi primari, ossia i deficit pubblici scorporati dagli interessi possiamo
identificare se effettivamente l’Italia stia “sperperando” soldi pubblici, come molti economisti
e politici europei piuttosto che nostrani vogliono farci credere:
Esaminando questi dati notiamo che in tutti gli ultimi anni, escludendo gli anni della crisi
(biennio 2008-2009), l’Italia presenta surplus pubblici. Quindi è il peso degli elevati interessi
pagati negli anni su uno stock di debito elevato che rende la posizione contabile italiana
deficitaria. Come abbiamo già visto il problema risale al 1981 quando si è concretizzato il
“divorzio” fra Banca d’Italia e Tesoro, che comportò l’aumento spropositato dei tassi
d’interesse e con essi l’esplosione del debito pubblico. Qui riporto graficamente i deficit e i
saldi primari fatti registrare dall’Italia13:
12
http://ec.europa.eu/economy_finance/ameco/user/serie/SelectSerie.cfm 13
Propria elaborazione su dati AMECO
2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014
3,104 2,475 1,499 1,207 0,182 1,200 3,357 2,451 -0,838 0,122 1,162 2,496 2,444 3,057
2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014
-3,187 -3,164 -3,646 -3,567 -4,492 -3,411 -1,590 -2,673 -5,425 -4,338 -3,684 -2,916 -2,691 -2,277
Ciò che voglio evidenziare è il peso degli interessi pagati sul debito i quali hanno influenzato
l’ammontare del debito, nonostante i conti pubblici italiani abbiano negli anni dimostrato una
buona salute. Per capire meglio la situazione contabile italiano mettiamola in confronto con
un'altra realtà, e prendiamo come benchmark la virtuosa Germania14:
Se prendiamo in riferimento gli anni antecedente lo scoppio della crisi (2001-2007) ed
osserviamo l’andamento dei saldi primari (valori evidenziati), ossia il deficit sul PIL al netto
degli interessi e calcoliamo la media dei saldi primari abbiamo un valore pari a 0,12. Questo
significa che la Germania negli anni pre-crisi aveva sostanzialmente una parità fra spesa
pubblica ed entrate (al netto degli interessi). Ora calcolando la stessa media, nello stesso
periodo per l’Italia abbiamo un valore di 1,86, molto superiore alla media tedesca. La diversità
sostanziale tra i due paesi risiede nei differenziali di rendimento pagati sul debito dai rispettivi
paesi. Infatti se calcoliamo quanto spende la Germania soltanto in interessi sul debito
(differenza fra saldo primario [seconda riga della tabella] e Deficit [prima riga della tabella]) e
facciamo una media per il periodo 2001-2014 abbiamo un valore pari a 2,72% del PIL. Facendo
14
Dati AMECO
2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014
-3,08 -3,85 -4,15 -3,76 -3,33 -1,65 0,23 -0,07 -3,07 -4,15 -0,76 0,16 -0,16 0,02
0,02 -0,88 -1,13 -0,88 -0,49 1,21 3,05 2,68 -0,40 -1,61 1,78 2,62 2,25 2,30
3.09 2.96 3.02 2.88 2.84 2.86 2.82 2.76 2.68 2.54 2.54 2.46 2.41 2.27
Deficit/PIL
Al netto interessi
Interessi per anno
lo stesso calcolo per lo stesso periodo per l’Italia abbiamo un tasso di interesse medio del
5,07% del PIL, quindi con uno scarto del 2,35%.
Con questo paragone ho cercato di dimostrare che i conti italiani non sono il vero problema da
affrontare, quindi non occorre demonizzare la spesa pubblica e il debito pubblico in sé, ma
piuttosto cercare soluzioni per la riduzione dei tassi d’interesse pagati sul debito sovrano. È in
questa prospettiva che sono state avanzate alcune proposte come ad esempio l’acquisto da
parte della BCE di titoli di Stato di paesi in difficoltà (qualche tentativo di attuazione c’è stato
ma soltanto in una misura minima e poco influente) oppure la costituzione di Eurobond, ma a
quanto pare, per l’attuazione di queste proposte manca la volontà politica dei policy maker
europei e su tutti i rappresentanti del governo tedesco che temono un aumento della tanto
detestata inflazione a seguito di queste manovre. Riprendendo la definizione di sostenibilità
del debito pubblico data da Blanchard, alla luce del mio tentativo di analisi, la riduzione del
rapporto debito-PIL sarà sicuramente garantita se si agisce sulla riduzione strutturale dei tassi
di rendimento pagati sul debito Italiano.
Con l’acutizzarsi della crisi, le attenzioni si sono concentrate sui conti nazionali, e molti analisti
e istituzioni hanno dedicato diverse ricerche sulla sostenibilità dei debiti sovrani. Oltre al mio
tentativo di analisi, per approfondire l’argomento mi avvarrò di ricerche ufficiali con metodo
più specifico e scientifico. Tra le diverse analisi che ho incontrato, voglio riportare e
approfondire quella effettuata dalla Commissione Europea, in quanto, oltre ad avere una
metodologia consolidata nel tempo e quindi più affidabile, assume un peso politico-
istituzionale notevole.
Il documento a cui faccio riferimento è il ‘Fiscal Sustainability Report 2012’15 il quale si
struttura in diverse sezioni: la prima parte riguarda la metodologia utilizzata per l’analisi della
sostenibilità delle finanze pubbliche, la seconda lo studio del invecchiamento della popolazione
europea e della forza lavoro, la terza e quarta sezione sulla sostenibilità a breve e medio-lungo
periodo, le seguenti sezioni sui rischi e le sfide da affrontare per i conti pubblici e l’ultima
consiste in una descrizione paese per paese della situazione delle finanze pubbliche.
L’analisi svolta fa riferimento a tre differenti archi temporali: il breve, medio e lungo periodo.
La situazione italiana viene commentata così: ” L’Italia non sembra affrontare un rischio di
stress fiscale nel breve termine. Rischi per la sostenibilità sembrano essere medi nel medio
periodo, mentre diventano bassi in una prospettiva a lungo termine, subordinati alla completa
15
http://ec.europa.eu/economy_finance/publications/european_economy/2012/pdf/ee-2012-8_en.pdf
attuazione dell’ambizioso piano di risanamento fiscale e mantenendo nel tempo il saldo
primario ai livelli previsti del 2014 [saldo primario previsto per quell’anno pari al 5% del PIL]16.
Il debito pubblico (120,7% del PIL nel 2011 e dovrebbe salire al 126,5% nel 2014) è superiore al
60% del PIL previsto nel Trattato. Sulla base delle politiche attuali, il debito sarebbe su un
percorso di discesa a medio termine e oltre.”17
Alla luce di quanto sottolineato dal documento è più che chiaro che i conti italiani siano
sostenibili. Anche in comparazione con le altre economie della zona Euro. Il seguente grafico
ritrae le posizioni dei conti pubblici di tutti gli stati dell’Unione nel lungo periodo:
“I paesi che si trovano a sud ovest della linea continua (nel grafico Italia e Lettonia) non hanno
un divario di sostenibilità. Le diagonali tratteggiate sono le linee isogap: due paesi situati sulla
stessa linea hanno lo stesso divario di sostenibilità su un orizzonte infinito, anche se possono
avere diverse posizioni di bilancio iniziali e diversi costi legati all'invecchiamento.
La maggior parte degli Stati membri sono nella quadrante in alto a destra, dimostrando che il
loro divario di sostenibilità è dovuto agli effetti di capitalizzazione di una posizione di bilancio
iniziale sfavorevole e un aumento dei costi di bilancio dell'invecchiamento. Germania, Italia e
Svezia sono nel quadrante in alto a sinistra a causa di una posizione di bilancio iniziale
favorevole nel 2014 grazie agli sforzi di risanamento degli anni precedenti. Tuttavia, per la
maggior parte di loro questa posizione di bilancio iniziale non è sufficiente dato il previsto
aumento a lungo termine della spesa legata all'invecchiamento della popolazione. Solo l'Italia
16
Nota dell’autore 17
‘Fiscal Sostainability Report 2012’ p.101
ha una posizione di bilancio iniziale che è abbastanza favorevole per assorbire il previsto
aumento dei costi legati all'invecchiamento.”18
Alla luce della sostenibilità dei conti pubblici italiani possono sembrare dissonanti le politiche
dettate dalla stessa Europa in tema di conti pubblici. Ora approfondiamo i fondamenti teorici
che stanno alla base delle manovre attuate in tutta Europa.
3. Politiche attuate in tutta Europa per uscire dalla crisi
I fondamenti teorici che stanno alla base della politica economica dell’Unione Europea, sono
sostanzialmente circoscritti a due paper che hanno riscosso enorme successo fra i burocrati di
Bruxelles. Il primo lavoro è quello di Alesina e Ardagna, due professori Italiani che insegnano
ad Harvard, autori di una ricerca del 2009 con il titolo “LARGE CHANGES IN FISCAL POLICY:
TAXES VERSUS SPENDING19”. La tesi di fondo di questa ricerca accademica era che tagli alla
spesa pubblica e maggiore austerità, volta a ridurre il debito pubblico, avrebbe portato
all’espansione dell’economia. Per argomentare le proprie tesi i due autori hanno portato alcuni
esempi storici di riduzione dei debiti pubblici che hanno correlato un effettiva espansione
dell’economia. Questo lavoro si accompagna ad un altro ricerca effettuata dallo stesso Alesina
nel 1998, con il titolo “Tales of fiscal adjustment”, uno studio sui paesi che avevano tentato di
ridurre enormi deficit di bilancio. In quello studio si metteva in luce la creazione di forti effetti
fiducia, così potenti che in molti casi l’austerità aveva portato effettivamente all’espansione
dell’economia. Si trattava di una conclusione sorprendente ma all’epoca non ha ricevuto
l’interesse che ci si poteva aspettare. Nella citata ricerca del 2009 si riprendeva la stessa tesi di
fondo, arricchita con altri esempi storici.
Un’altra ricerca accademica che sta alla base delle politiche dell’unione europea è stata
sviluppata da Reinhart e Rogoff, docenti dell’università del Maryland e di Harvard. La ricerca,
dal titolo “Growth in a Time of Debt20” , mette in evidenza l’esistenza di una correlazione tra
debito pubblico elevato (secondo gli autori maggiore del 90% del PIL) e la bassa crescita
economica. I due paper sono stati immediatamente adottati e sbandierati come verità assolute
18
Ibidem, p.42 19
http://www.nber.org/papers/w15438.pdf?new_window=1 20
http://galileo.stmarys-ca.edu/awilliam/Winter%202012-%20Moraga%20-%20Saturday%20and%20Santa%20Clara%20-%20GMAN%20503/documents/Growth_in_Time_Debt-reinhardandrogoff.pdf
da politici e commentatori di tutto il mondo, e sulla base di queste è stata giustificata
l’austerità e il pareggio di bilancio.
L’Europa ha sposato acriticamente questi lavori teorici, e in base a questi ha costruito la
politica economica che caratterizza questo periodo della storia. Ma a seguito di un esame più
attento di questi lavori sono stati sviluppati altri studi, in particolare due ricerche, che
sostanzialmente criticano e smentiscono quanto sostenuto finora. La critica mossa al lavoro
svolto da Alesina, proviene da più parti, le quali sostengono che gli esempi storici riportati
dall’autore, per giustificare un taglio aprioristico della spesa pubblica, non sono validi, in
quanto Alesina riporta casi di riduzione di debito pubblico in situazione di espansione
economica, mentre se determinate politiche vengono adottate in situazioni di recesso queste
manovre comportano un ulteriore inasprimento della crisi. Addirittura anche il Fondo
Monetario Internazionale si è schierato contro l’austerità auspicata da Alesina. Infatti, in due
ricerche distinte effettuate su commissione del FMI, vengono messi in evidenza errori
metodologici nella costruzione della tesi di Alesina. Le conclusione a cui arrivano gli autori
della ricerca (Olivier Blanchard, Daniel Leigh21 e Luc Eyraud, Anke Weber22) sono in perfetta
contrapposizione con le conclusione di Alesina e Ardagna, ossia che l’austerità in realtà
comporta un aumento del debito, in quanto contrae il PIL e fa aumentare il rapporto debito-
PIL.
Il lavoro di Rogoff e Reinhart è stato aspramente criticato, a seguito di ulteriori
approfondimenti, tant’è che si parla di “Excelgate” in quanto per la costruzione della proprie
tesi ci si avvale di un modello costruito con il programma Excel. Le critiche mosse riguardano la
metodologia utilizzata, infatti viene fatto osservare che il modello si basa su errori di calcolo e
parametri inesatti. La ricerca è stata sviluppata da Thomas Herndon, Michael Ash e Robert
Pollin dell’Università del Massachusetts che hanno dimostrato come i risultati originali della
ricerca di Reinhart e Rogoff siano basati su problemi metodologici, manipolazioni dei dati ed
errori di calcolo che paiono in alcuni casi grossolani.
Alla luce di ciò e di tutti gli indici economici negativi che descrivono una situazione realmente
insostenibile per tutto il sud d’Europa, sembra incredibile la tenacia da parte dei policy maker
di insistere sulla linea dell’austerità, del pareggio di bilancio, dei tagli alla spesa pubblica e al
welfare che condannano le popolazioni ad ulteriori anni di recessione. È stato paventato il
fantasma greco per poter implementare severe politiche restrittive. Quando Krugman ci dice
21
http://www.imf.org/external/pubs/ft/wp/2013/wp1301.pdf 22
http://www.imf.org/external/pubs/ft/wp/2013/wp1367.pdf
che bisogna stare attenti ad evitare la “ellenizzazione” della crisi europea fa appunto
riferimento a queste politiche. La situazione dei paesi periferici dell’Unione non è paragonabile
a quanto successo in Grecia, la matrice della crisi è diversa ma le politiche correttive sono le
stesse, saranno le stesse anche le conseguenze? Secondo alcuni analisti se non si provvede ad
un cambio di regime immediato in tema di politiche adottate a livello europeo la strada verso
la situazione greca sembra bene avviata.